Inheritance. L'eredità [PDF]


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Italian Pages 561 Year 2011

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Table of contents :
IN PRINCIPIO:......Page 5
LA BRECCIA......Page 10
LA CADUTA DEL MARTELLO......Page 18
OMBRE ALL’ORIZZONTE......Page 21
RE GATTO......Page 25
DOPO L’ASSEDIO......Page 29
I RICORDI DEI MORTI......Page 32
COS’È UN UOMO?......Page 36
IL PREZZO DEL POTERE......Page 43
UN PARTO DIFFICILE......Page 50
NINNANANNA......Page 56
NESSUN RIPOSO PER CHI È STANCO......Page 62
DANZANDO CON LE SPADE......Page 66
NIENTE ONORI NÉ GLORIA,......Page 72
MANGIALUNA......Page 76
CHIACCHIERE E SCRITTURA......Page 83
ARUGHIA......Page 87
DRAS-LEONA......Page 97
UN LANCIO DI OSSI......Page 101
FALSO AMICO, VERO NEMICO......Page 109
FARINA DI FUOCO......Page 115
POLVERE E CENERE......Page 125
INTERREGNO......Page 137
THARDSVERGÛNDNZMAL......Page 142
LA VIA DELLA CONOSCENZA......Page 151
CUORE A CUORE......Page 164
SCOPERTE......Page 170
DECISIONI......Page 175
SOTTO IL MONTE E LA ROCCIA......Page 181
PER NUTRIRE UN DIO......Page 191
INFEDELI IN FUGA......Page 198
IL RINTOCCO DELLA CAMPANA......Page 208
INFIDA-NERA-CAVERNA-SPINOSA......Page 210
MARTELLO ED ELMO......Page 215
E LE MURA CADDERO.........Page 217
SULLE RIVE DEL LAGO DI LEONA......Page 224
LA PAROLA DI UN CAVALIERE......Page 231
CONCLAVE DI RE......Page 239
SENZA VIA D’USCITA......Page 247
VAGHI FRAMMENTI CONFUSI......Page 252
DOMANDE SENZA RISPOSTE......Page 258
PARTENZA......Page 265
IL TORMENTO DELL’INCERTEZZA......Page 269
LA STANZA DELL’ORACOLO......Page 277
SULLE ALI DI UN DRAGO......Page 284
IL SUONO DELLA SUA VOCE,......Page 293
PICCOLE RIBELLIONI......Page 301
UNA CORONA DI GHIACCIO E NEVE......Page 308
FRA LE ROVINE......Page 318
I BRUCOTARLI......Page 324
SNALGLÍ A COLAZIONE......Page 333
LA ROCCA DI KUTHIAN......Page 340
TUTTO IL MONDO È UN SOGNO......Page 343
UNA QUESTIONE DI CARATTERE......Page 349
LA VOLTA DELLE ANIME......Page 359
LACUNE COLMATE, PARTE PRIMA......Page 362
LACUNE COLMATE, PARTE SECONDA......Page 364
RITORNO......Page 372
LA CITTÀ DEL DOLORE......Page 373
CONSIGLIO DI GUERRA......Page 379
IL SENSO DEL DOVERE......Page 389
FUOCO NELLA NOTTE......Page 394
OLTRE LE MURA DELLA FORTEZZA......Page 400
SCOPPIA LA TEMPESTA......Page 408
CIÒ CHE NON UCCIDE.........Page 413
NEL CUORE DELLA MISCHIA......Page 421
IL NOME DEI NOMI......Page 428
MUSCOLI CONTRO METALLO......Page 439
IL DONO DELLA CONOSCENZA......Page 457
SPASIMI DI AGONIA......Page 470
UN MARE DI ORTICHE......Page 473
EREDE DELL’IMPERO......Page 484
UN DEGNO EPITAFFIO......Page 494
PEDINE SU UNA SCACCHIERA......Page 500
FÍRNEN......Page 511
UN UOMO DI COSCIENZA......Page 523
TRIBUTO DI SANGUE......Page 530
PROMESSE NUOVE E VECCHIE......Page 540
COMMIATO......Page 549
L’ORIGINE DEI NOMI......Page 555
GLOSSARIO......Page 556
RINGRAZIAMENTI......Page 560
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Inheritance. L'eredità [PDF]

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Tutto è iniziato con Eragon… Tutto finisce con Inheritance. Sembrano appartenere a un’altra vita i giorni in cui Eragon era solo un ragazzo nella fattoria dello zio, e Saphira una pietra azzurra in una radura della foresta. Da allora, Cavaliere e dragonessa hanno festeggiato insperate vittorie nel Farthen Dûr, assistito ad antiche cerimonie a Ellesméra, pianto terribili perdite a Feinster. Una sola cosa è rimasta identica: il legame indissolubile che li unisce, e la speranza di deporre Galbatorix. Non sono gli unici a essere cambiati, però: Roran ha perso il villaggio in cui è cresciuto, ma in battaglia si è guadagnato rispetto e un soprannome, Fortemartello; Nasuada ha assunto il ruolo di un padre morto troppo presto, e porta sulle braccia i segni dell’autorità che ha saputo conquistare; il destino ha donato a Murtagh un drago, ma gli ha strappato la libertà. E ora, per la prima volta nella storia, umani, elfi, nani e Urgali marciano uniti verso Urû’baen, la fortezza del traditore Galbatorix. Nell’ultima, terribile battaglia che li attende rischiano di perdere ciò che hanno di più caro, ma poco importa: in gioco c’è una nuova Alagaësia, e l’occasione di lasciare in eredità al suo popolo un futuro in cui la tirannia del re nero sembrerà soltanto un orribile sogno.

CHRISTOPHER PAOLINI è nato nel 1985 nella California del Sud e vive nel Montana. Ha scritto Eragon, Libro Primo del Ciclo dell’Eredità, a soli quindici anni; nel 2005 ha pubblicato il secondo volume, Eldest, a cui ha fatto seguito, nel 2008, Brisingr. Inheritance è l’episodio conclusivo del Ciclo dell’Eredità. I suoi libri sono pubblicati in oltre quaranta Paesi, ed è entrato nel Guinness dei Primati come il più giovane scrittore di bestseller al mondo.

Christopher Paolini

o LA VOLTA DELLE ANIME L’EREDITÀ LIBRO QUARTO

[eBL 043] Christopher Paolini - Inheritance [by Pico]

Come sempre, dedico questo romanzo alla mia famiglia. E anche ai sognatori di sogni: i vari artisti, musicisti e cantastorie che hanno reso possibile questa avventura.

IN PRINCIPIO: SINOSSI DI ERAGON, ELDEST E BRISINGR In principio c’erano i draghi: fieri, selvaggi e indipendenti. Le loro squame rilucevano come gemme, e chiunque osasse levare lo sguardo su di loro cadeva preda della paura e della disperazione, perché immensa e terribile era la loro magnificenza. Per incalcolabili ere furono gli unici dominatori delle terre di Alagaësia. Poi il dio Helzvogh creò dalle pietre del deserto di Hadarac i nani tozzi e robusti. E le due razze combatterono a lungo. Poi in Alagaësia approdarono le navi degli elfi, che venivano dal mare d’argento. Anche loro combatterono contro i draghi, ma gli elfi erano più forti dei nani, e le due razze erano destinate a distruggersi a vicenda. Così venne indetta una tregua e fra draghi ed elfi fu siglato un accordo. Da questo patto nacque l’ordine dei Cavalieri dei Draghi, che mantenne la pace in Alagaësia per migliaia di anni. In seguito in Alagaësia sbarcarono gli umani. Poi arrivarono gli Urgali. E i Ra’zac, predatori della notte e mangiatori di carne umana. Anche gli umani si unirono al patto con i draghi. Poi un giovane Cavaliere dei Draghi di nome Galbatorix imbracciò le armi contro i suoi stessi compagni. Assoggettò il drago nero Shruikan e convinse altri tredici Cavalieri a seguirlo. E i tredici furono chiamati Rinnegati. Galbatorix e i Rinnegati diedero la caccia ai Cavalieri dei Draghi, misero a fuoco e fiamme la loro capitale sull’isola di Vroengard e uccisero ogni drago che si rifiutasse di unirsi a loro. Lasciarono solo tre uova: un uovo rosso, uno blu e uno verde. E a ogni drago che poterono strapparono il cuore dei cuori – l’Eldunarí –, che custodiva la sua forza e la sua mente al di fuori del suo corpo. Per ottantadue anni Galbatorix regnò come sommo sovrano su tutti gli umani. I Rinnegati morirono, ma lui no, perché la sua forza era quella di tutti i draghi e nessuno poteva sperare di sconfiggerlo. Durante l’ottantatreesimo anno di regno di Galbatorix, un uomo rubò dal suo castello l’uovo di drago blu, che passò nelle mani di coloro che ancora combattevano contro il re, i guerrieri noti come Varden. L’elfa Arya portò l’uovo di drago tra i Varden e gli elfi, in cerca dell’umano o dell’elfo davanti al quale si sarebbe dischiuso. E così trascorsero altri venticinque anni. Un giorno, mentre Arya è in viaggio verso la città elfica di Osilon, un gruppo di Urgali attacca lei e la sua scorta. Alla testa dei guerrieri c’è Durza, uno Spettro – uno stregone posseduto dagli spiriti che aveva evocato perché gli obbedissero –, che dopo la morte dei Rinnegati è diventato il più feroce e temuto servitore di Galbatorix. Gli Urgali uccidono le guardie di Arya, ma prima di essere catturata l’elfa con la magia fa svanire l’uovo nel nulla, e lo invia a colui che spera possa proteggerlo.

Il suo incantesimo però non riesce completamente. È Eragon, un orfano di appena quindici anni, a trovare l’uovo sulle montagne della Grande Dorsale. Il ragazzo lo porta alla fattoria dove vive con suo zio Garrow e il suo unico cugino Roran. L’uovo gli si schiude davanti ed Eragon alleva la piccola dragonessa che nasce. E la chiama Saphira. Galbatorix, deciso a recuperare l’uovo, invia due Ra’zac: i mostri uccidono Garrow e bruciano la casa di Eragon. I Ra’zac sono gli ultimi della loro specie, e Galbatorix è riuscito ad assoggettarli al suo volere. Eragon e Saphira si lanciano all’inseguimento dei Ra’zac per vendicarsi. A loro si unisce il cantastorie Brom, che un tempo è stato un Cavaliere dei Draghi, prima della caduta dell’ordine. Era a lui che l’elfa Arya voleva inviare l’uovo blu. Brom insegna a Eragon molte cose sull’arte della scherma, sulla magia e sull’onore, e gli dona Zar’roc, la spada appartenuta a Morzan, il primo e il più potente dei Rinnegati. Ma quando alla fine raggiungono i Ra’zac e si scontrano con loro, i mostri uccidono Brom, ed Eragon e Saphira riescono a mettersi in salvo solo grazie all’intervento di un ragazzo poco più grande di Eragon, Murtagh, figlio di Morzan. Durante il viaggio, lo Spettro Durza cattura Eragon nella città di Gil’ead. Il ragazzo, però, riesce a evadere e a liberare anche Arya dalla sua cella. L’elfa è stata avvelenata e torturata: così Eragon, Saphira e Murtagh la portano dai Varden, che i nani ospitano sui Monti Beor. Qui Arya viene curata e guarita, mentre Eragon benedice una neonata di nome Elva con l’intenzione di proteggerla da ogni sventura. Ma pronuncia male l’incantesimo e senza volerlo la condanna invece a diventare lei stessa una protezione per le sventure degli altri. Poco dopo Galbatorix ordina a un imponente esercito di Urgali di marciare verso i Monti Beor per attaccare i nani e i Varden. Nel corso della battaglia Eragon uccide Durza, ma lo Spettro riesce a infliggergli una gravissima ferita alla schiena, che gli procura atroci dolori nonostante i sortilegi dei guaritori dei Varden. Mentre è in preda agli spasmi del dolore, Eragon sente una voce dirgli: Vieni da me, Eragon, poiché io ho le risposte che cerchi. Tre giorni dopo Ajihad, il capo dei Varden, viene ucciso in un’imboscata tesa dagli Urgali che obbediscono agli ordini di due gemelli stregoni, traditori dei Varden e al servizio del re Galbatorix. I Gemelli hanno rapito Murtagh per portarlo dal re; Eragon e i Varden sono convinti che sia morto e il ragazzo ne è molto addolorato. La figlia di Ajihad, Nasuada, assume il comando dell’esercito dei Varden. Da Tronjheim, capitale del regno dei nani, Eragon, Saphira e Arya si mettono in viaggio verso la foresta Du Weldenvarden, nell’estremo nord di Alagaësia, dove vivono gli elfi. Li accompagna il nano Orik, nipote del re dei nani Rothgar. Nella Du Weldenvarden, Eragon e Saphira si imbattono in Oromis e Glaedr, l’ultimo Cavaliere rimasto libero e il suo drago, che sono vissuti nascosti per cento anni in attesa di addestrare la nuova generazione di Cavalieri dei Draghi. Eragon e Saphira incontrano anche la regina degli elfi, Islanzadi, madre di Arya. Mentre Oromis e il suo drago addestrano Eragon e Saphira, Galbatorix invia i Ra’zac e un gruppo di soldati nel villaggio natio di Eragon, Carvahall, questa volta allo scopo di catturare suo cugino Roran, che però riesce a nascondersi. Purtroppo il macellaio Sloan,

che da tempo cova rancore nei confronti del ragazzo, uccide una sentinella e fa entrare i mostri nel villaggio, dove i mostri intendono cogliere Roran di sorpresa. Lui riesce a fuggire, ma i Ra’zac rapiscono la sua fidanzata Katrina, figlia di Sloan. Roran convince i compaesani a partire con lui e tutti insieme attraversano la Grande Dorsale fino a raggiungere le coste di Alagaësia; da lì proseguono a sud, verso il Surda, un regno ancora indipendente dal dominio di re Galbatorix. La ferita alla schiena continua a tormentare Eragon, ma durante la Celebrazione del Giuramento di Sangue degli elfi, dove si commemora il patto fra Cavalieri e draghi, viene guarita dal drago spettrale che gli elfi evocano alla fine dei festeggiamenti. L’apparizione dona a Eragon anche la forza e la velocità straordinarie degli elfi. Eragon e Saphira volano quindi nel Surda, dove Nasuada ha trasferito i Varden per lanciare un’offensiva contro l’Impero di Galbatorix. Anche gli Urgali si alleano con i Varden perché vogliono vendicarsi del re, colpevole di aver annebbiato loro la mente per costringerli a servirlo. Lì Eragon incontra di nuovo la piccola Elva, che in seguito al suo incantesimo è cresciuta a una velocità prodigiosa: è ormai una bambina di tre o quattro anni, ma il suo sguardo è quello duro e ostile di un’adulta, perché patisce le sofferenze di tutti coloro che la circondano. Non lontano dai confini del regno del Surda, sull’oscura distesa delle Pianure Ardenti, Eragon, Saphira e i Varden combattono un’aspra e sanguinosa battaglia contro l’esercito di Galbatorix. Nel corso degli scontri, Roran e gli abitanti di Carvahall si uniscono ai Varden, e così i nani, che hanno lasciato le gallerie sotterranee dei Monti Beor. Ma da est sorge una figura dall’armatura scintillante, in groppa a un drago rosso. E con un incantesimo uccide re Rothgar. Eragon e Saphira combattono contro il Cavaliere e il suo drago rosso e alla fine scoprono che si tratta di Murtagh, ora legato a Galbatorix da un giuramento indissolubile. Il drago è Castigo: si è dunque dischiuso un secondo uovo, e ne rimane solo uno, quello verde. Murtagh sconfigge Eragon e Saphira grazie alla forza degli Eldunarí che Galbatorix gli ha dato, ma poi li lascia liberi perché si sente ancora legato dalla loro vecchia amicizia. E anche perché, come rivela a Eragon, loro due sono fratelli, entrambi figli di Morzan e di sua moglie Selena. Murtagh strappa Zar’roc, la spada di suo padre, dalle mani di Eragon, e insieme a Castigo abbandona le Pianure Ardenti, come il resto delle truppe di Galbatorix. Conclusa la battaglia, Eragon, Saphira e Roran volano verso l’Helgrind, una cupa formazione di guglie rocciose dove si nasconde la tana dei Ra’zac: è lì che Katrina è stata imprigionata. Uccidono uno dei mostri e con lui gli orridi genitori dei Ra’zac, i Lethrblaka, e salvano Katrina. In una delle celle Eragon scopre anche il padre della ragazza, accecato e moribondo. All’inizio il Cavaliere progetta di ucciderlo per punire il suo tradimento, ma poi lo fa cadere in un sonno profondo e fa credere a Roran e a Katrina che il macellaio sia morto. Infine chiede a Saphira di riportare il cugino e la fidanzata dai Varden mentre lui darà la caccia all’ultimo Ra’zac. Eragon trova il mostro e lo uccide, poi con Sloan scappa dall’Helgrind. Dopo lunghe riflessioni scopre il vero nome dell’uomo nell’antica lingua, la lingua del potere e della

magia, e con quel nome lo obbliga a giurare che non rivedrà mai più la figlia. Poi lo manda a vivere con gli elfi. C’è una cosa che però Eragon non rivela al macellaio: se si pentirà sinceramente dei suoi crimini, gli elfi gli restituiranno la vista. Arya raggiunge Eragon a metà strada e insieme fanno ritorno dai Varden, a piedi e in territorio nemico. Una volta tornato, Eragon viene a sapere che la regina Islanzadi ha inviato dodici stregoni elfici, comandati da un elfo di nome Blödhgarm, a proteggere lui e Saphira. Eragon tenta con ogni mezzo a sua disposizione di alterare l’incantesimo che ha condannato la piccola Elva, ma la bambina continua a condividere il dolore degli altri, anche se non si sente più costretta a salvarli. Roran sposa Katrina, che è incinta, e per la prima volta da tanto tempo Eragon è felice. Murtagh, Castigo e un contingente di soldati di Galbatorix attaccano i Varden. Con l’aiuto degli elfi, Eragon e Saphira riescono a respingerli, ma la battaglia è terribile: Galbatorix ha stregato i soldati affinché non percepiscano il dolore, e i Varden subiscono molte perdite. In più Eragon si batte di nuovo con Murtagh, ma nessuno dei due riesce a prevalere sull’avversario. Nasuada manda Eragon a rappresentare i Varden fra i nani, che devono eleggere il nuovo re. Il ragazzo parte a malincuore, perché deve lasciare Saphira con i guerrieri per difendere l’accampamento. Roran intanto entra a far parte dei Varden e grazie alle sue impareggiabili doti di combattente e condottiero scala in fretta i ranghi dell’esercito. Mentre Eragon è fra i nani, sette di loro cercano di assassinarlo. Si scopre che dietro l’agguato c’è il clan Az Sweldn rak Anhûin. Il raduno dei clan tuttavia prosegue e alla fine Orik viene eletto per succedere allo zio. Saphira si unisce a Eragon per l’incoronazione e mantiene la sua promessa di riparare lo zaffiro stellato tanto amato dai nani, che aveva infranto durante lo scontro di Eragon con lo Spettro Durza. Eragon e Saphira fanno ritorno nella Du Weldenvarden. Lì Oromis rivela a Eragon la verità sulle sue origini: non è il figlio di Morzan, ma di Brom, anche se lui e Murtagh hanno la stessa madre, Selena. Oromis e Glaedr gli spiegano anche il concetto di Eldunarí, informandolo che un drago può decidere di espellere anche se è ancora in vita, sebbene sia un gesto molto rischioso perché colui che riceve l’Eldunarí può usarlo per controllare il drago a cui appartiene. Durante il soggiorno nella foresta, Eragon decide che gli serve un’altra spada per sostituire Zar’roc. Ricordando il consiglio del gatto mannaro Solembum, incontrato ai tempi del viaggio con Brom, Eragon cerca l’albero di Menoa, una creatura senziente che gli concede l’acciaioluce nascosto tra le sue radici in cambio di una ricompensa che però non gli rivela. L’abile metalliera degli elfi, Rhunön, che ha forgiato tutte le spade dei Cavalieri dei Draghi, lavora insieme a Eragon per fabbricare una nuova arma. La spada è azzurra ed Eragon la battezza Brisingr, “fuoco”. E la lama avvampa di fiamme ogni volta che lui ne pronuncia il nome. Prima che Eragon e Saphira facciano ritorno dai Varden, Glaedr consegna loro il suo cuore dei cuori. Poi, con Oromis, raggiunge gli elfi che nel frattempo stanno attaccando le regioni settentrionali dell’Impero.

Durante l’assedio di Feinster, Eragon e Arya incontrano tre stregoni nemici: uno è stato trasformato nello Spettro Varaug. Con l’aiuto di Eragon, Arya lo uccide. Intanto Oromis e Glaedr combattono contro Murtagh e Castigo. Galbatorix espande la mente e prende il controllo di quella di Murtagh. E attraverso il suo braccio ferisce a morte Oromis, mentre Castigo uccide il corpo di Glaedr. I Varden conquistano Feinster, ma Eragon e Saphira piangono la perdita del loro maestro Oromis. L’avanzata dei Varden non si arresta: ora marciano nel cuore dell’Impero verso la capitale, Urû’baen, dove Galbatorix siede sul trono, tronfio, orgoglioso e sicuro di sé, perché ha dalla sua la forza dei draghi.

LA BRECCIA La dragonessa Saphira ruggì e i soldati davanti a lei tremarono sgomenti. «Seguitemi!» gridò Eragon. Levò Brisingr sopra la testa perché tutti la vedessero. La spada azzurra, stagliata contro il banco di nuvole nere che si addensavano a ovest, scintillò di un bagliore iridescente. «Per i Varden!» Una freccia gli sibilò accanto; lui non se ne curò. I guerrieri, radunati ai piedi del cumulo di macerie su cui si trovavano Eragon e Saphira, risposero all’unisono ringhiando feroci: «Per i Varden!» Brandirono le armi e partirono alla carica, inerpicandosi sui blocchi di pietra crollati. Eragon si voltò. Nell’ampia corte sull’altro lato delle rovine si ammassavano circa duecento soldati imperiali. Alle loro spalle si ergeva un’imponente fortezza scura, con le pareti inframmezzate da feritoie e torri squadrate; negli appartamenti in cima alla più alta splendeva una lanterna. Eragon sapeva che da qualche parte, all’interno del maschio, si trovava Lord Bradburn, il governatore di Belatona, la città che i Varden assediavano ormai da ore. Con un urlo Eragon si lanciò giù dalle macerie verso i soldati. Gli uomini indietreggiarono confusi, pur continuando a puntare le lance e le picche contro la breccia che Saphira aveva aperto nella cinta muraria del castello. Atterrando, la caviglia gli cedette ed Eragon si ritrovò con un ginocchio a terra: per non perdere l’equilibrio fu costretto ad appoggiarsi sulla mano con cui impugnava la spada. Uno dei soldati ne approfittò per rompere la formazione e mirare con la sua lancia alla gola esposta di Eragon, ma il Cavaliere dei Draghi parò l’affondo con una torsione fulminea del polso, più rapida e letale di quella di qualsiasi elfo o essere umano. Il soldato impallidì quando si rese conto dell’errore commesso. Provò a fuggire, ma prima che riuscisse a fare un solo passo, Eragon si avventò su di lui e gli conficcò Brisingr nelle viscere. Sputando una fiammata gialla e azzurra, anche Saphira balzò nella corte. Eragon si accovacciò e tese i muscoli delle gambe proprio mentre la dragonessa atterrava sull’acciottolato. L’impatto fece tremare ogni cosa. Molte delle tessere di vetro che componevano il grande mosaico variopinto su cui affacciava il maschio saltarono via e schizzarono ovunque come monete che rimbalzano su un tamburo. Le imposte di una finestra in alto si spalancarono e si richiusero di colpo. Subito dopo Saphira li raggiunse l’elfa Arya. I suoi lunghi capelli corvini ondeggiavano selvaggi intorno al volto dai lineamenti spigolosi mentre balzava dal cumulo di macerie. Aveva le braccia e il collo striati di sangue; altro sangue grondava dalla lama della spada. L’atterraggio dell’elfa fu lieve, accompagnato da un impercettibile tonfo di cuoio sulla pietra. Il suo arrivo rincuorò Eragon: non avrebbe voluto nessun altro accanto a lui e a Saphira. Arya era il compagno di battaglia ideale.

Le scoccò un sorriso fugace, che Arya ricambiò con espressione eccitata e feroce insieme. In combattimento l’elfa perdeva il suo contegno riservato a favore di un’intensità che di rado mostrava in altre occasioni. Una vampa di fuoco azzurro si propagò come un’onda fra di loro, ed Eragon si rannicchiò dietro lo scudo per proteggersi. Da sotto la visiera dell’elmo guardò Saphira riversare sui soldati un torrente di fiamme, che tuttavia passò loro ai lati, lasciandoli incolumi. Una fila di arcieri appostati sui bastioni del maschio scagliò una raffica di frecce contro la dragonessa. Il calore emanato da Saphira era così intenso che una parte delle frecce prese fuoco a mezz’aria e ricadde in una pioggia di cenere, mentre il resto fu deviato dagli incantesimi di protezione che Eragon aveva evocato intorno a lei. Una freccia vagante rimbalzò sullo scudo di Eragon con un colpo sordo, procurando una lieve ammaccatura. Le lingue di fuoco avvilupparono tre soldati, che morirono così in fretta da non avere nemmeno il tempo di gridare. Gli altri si raggrupparono al centro dell’inferno: il metallo sulla punta delle lance e delle picche baluginava riflettendo le fiamme azzurre. Per quanto si sforzasse, Saphira riusciva soltanto a scalfire i sopravvissuti con il suo fuoco. Alla fine rinunciò, richiudendo le fauci con uno schiocco sonoro. Un improvviso silenzio calò sulla corte. Non era la prima volta che Eragon rifletteva sul fatto che chiunque avesse dotato i soldati di quelle efficaci difese magiche doveva essere uno stregone potente ed esperto. Si tratta forse di Murtagh?, si domandò. E se è così, perché lui e Castigo non sono qui a difendere Belatona? Possibile che a Galbatorix non importi di mantenere il controllo delle sue città? Eragon si lanciò in avanti, e con un unico fendente di Brisingr tranciò di netto la punta di una decina di alabarde, con la stessa facilità di quando, da ragazzo, falciava le spighe di orzo nei campi. Squarciò il petto del soldato più vicino, lacerando la sua cotta di maglia come se fosse stata di un tessuto sottilissimo. Dalla ferita sprizzò una fontana di sangue. Poi infilzò un altro soldato e ne colpì un terzo con lo scudo, scaraventandolo contro altri tre commilitoni che caddero come birilli. Le reazioni dei soldati gli sembravano lente e goffe mentre volteggiava tra le loro file, sbaragliandoli senza difficoltà. Alla sua sinistra, Saphira fendeva la mischia scagliando in aria i soldati a zampate, oppure schiacciandoli con la coda munita di punte aguzze o serrandoli tra le fauci per poi ucciderli con una scrollata del capo; alla sua destra, Arya era una macchia indistinta che turbinava agile e fulminea: ogni scintillio della sua spada era il segnale che un altro servo dell’Impero era caduto. Eragon girò su se stesso per schivare un paio di lance, e solo allora vide Blödhgarm, l’elfo dalla folta pelliccia, che lo tallonava, insieme agli altri undici elfi che avevano il compito di proteggere lui e Saphira. Più indietro, i Varden sciamarono nella corte attraverso la breccia nelle mura esterne del castello, ma poi indugiarono: era troppo pericoloso avvicinarsi a Saphira. Né lei né Eragon né gli elfi avevano bisogno di rinforzi per sbarazzarsi dei soldati. Ben presto la battaglia separò drago e Cavaliere, portandoli sui lati opposti della corte. Eragon non era preoccupato. Anche senza difese magiche, Saphira era perfettamente in grado di tenere testa a un gruppo di venti o trenta umani da sola. Una lancia cozzò contro il suo scudo, ferendogli di striscio una spalla. Eragon si voltò di scatto verso l’assalitore, un bestione coperto di cicatrici a cui mancavano gli incisivi inferiori, e si lanciò all’attacco. L’uomo si affannò a estrarre un pugnale dalla cintura.

All’ultimo istante Eragon si girò, tese i muscoli delle braccia e del torace, e con la spalla dolorante colpì come un ariete lo sterno del soldato. La violenza dell’impatto lo scagliò all’indietro di parecchie iarde; l’uomo stramazzò al suolo, una mano stretta sul cuore. Subito dopo sul campo di battaglia piovve una fitta scarica di frecce dall’impennaggio nero, che ferirono o uccisero molti soldati dell’Impero. Eragon schivò i dardi riparandosi dietro lo scudo, anche se era sicuro che la sua magia lo avrebbe comunque protetto. Sempre meglio evitare rischi inutili: uno stregone nemico avrebbe potuto scoccare una freccia incantata in grado di infrangere le sue difese. Un sorriso triste gli increspò le labbra. Gli arcieri sui bastioni dovevano aver intuito che la loro unica speranza di vittoria era uccidere Eragon e gli elfi, anche se questo significava sacrificare molti dei loro compagni. È troppo tardi per voi, pensò Eragon con amara soddisfazione. Avreste dovuto abbandonare l’Impero quando ancora ne avevate la possibilità. La strage provocata dalla pioggia di frecce gli offrì qualche istante di tregua, che Eragon accolse con piacere. L’attacco alla città era cominciato all’alba, e lui e Saphira erano stati in prima linea fin dall’inizio. Una volta cessato il diluvio di dardi, Eragon passò Brisingr nella mano sinistra e raccolse una delle lance dei soldati per scagliarla contro gli arcieri quaranta piedi più in alto. Come ben sapeva, era difficile scagliare una lancia con precisione se non si era esperti in quell’arte, perciò non rimase sorpreso quando mancò l’uomo cui aveva mirato; fu invece molto sorpreso di vedere che l’arma mancava completamente la linea degli arcieri sui bastioni. La lancia volò molto più in alto delle teste dei soldati e si fracassò contro il muro della fortezza. Gli arcieri sghignazzarono e gli rivolsero gesti volgari. Con la coda dell’occhio, Eragon colse un rapido movimento alle sue spalle. Si voltò appena in tempo per vedere Arya che scagliava una lancia in direzione degli arcieri: ne impalò due molto vicini fra di loro. Poi puntò la sua spada contro gli uomini ed esclamò: «Brisingr!» La lancia esplose in una vampa di fuoco verde smeraldo. Gli arcieri si ritrassero dai cadaveri in fiamme e fuggirono dai bastioni, accalcandosi sotto il passaggio a volta che conduceva ai piani superiori del castello. «Non è giusto» disse Eragon. «Io non posso usare quell’incantesimo senza che la mia spada prenda fuoco.» Arya lo guardò con uno scintillio divertito negli occhi. La battaglia durò ancora alcuni minuti: poi i soldati rimasti si arresero o tentarono di battere in ritirata. Eragon permise ai cinque uomini davanti a lui di fuggire; sapeva che non sarebbero andati lontano. Dopo un rapido esame dei corpi disseminati intorno a sé per sincerarsi che fossero effettivamente morti, guardò dall’altro lato della corte. Alcuni Varden avevano aperto i cancelli delle mura esterne e stavano trasportando un ariete da assedio lungo la strada che conduceva alla fortezza. Altri guerrieri serravano i ranghi davanti alla porta del maschio, pronti a irrompere nel castello e ad affrontare i soldati che lo presidiavano. Fra loro c’era il cugino di Eragon, Roran, che agitava il fedele martello dando ordini al reparto sotto il suo comando. In fondo alla corte, Saphira era accovacciata sui cadaveri delle sue prede. Era come se presidiasse un mattatoio: gocce di sangue scarlatto le imperlavano il

corpo, in netto contrasto con l’azzurro iridescente delle squame. La dragonessa rovesciò indietro la testa crestata e ruggì feroce il suo trionfo, soffocando i clamori della città. D’un tratto dall’interno del castello si levò uno sferragliare di ingranaggi e catene, seguito dallo scricchiolio delle pesanti travi di legno che scivolavano indietro. Attirati da quel rumore, tutti si voltarono verso la porta del maschio. Con un cupo rimbombo, i due grandi battenti del portone si spalancarono. Una densa nube di fumo prodotta dalle torce si riversò nella corte, avvolgendo i Varden più vicini, che si coprirono il viso tossendo. Dalle viscere dell’oscurità si levò un fragore di zoccoli ferrati; poi, all’improvviso, dalla nuvola di fumo emerse un uomo a cavallo. Nella mano sinistra il cavaliere impugnava quella che a prima vista Eragon scambiò per una normale lancia; subito dopo però notò che era fatta di uno strano materiale verde e aveva una lama munita di barbigli dalla forma inconsueta. Un fievole bagliore circondava la punta della lancia: una luce innaturale, che tradiva la presenza della magia. Il cavaliere tirò le redini e spronò il cavallo verso Saphira, che cominciò a impennarsi sugli arti posteriori, pronta a sferrare un colpo micidiale con la zampa anteriore. Eragon si sentì stringere il petto da una morsa di terrore. Il cavaliere era troppo sicuro di sé, la lancia era troppo insolita. Le difese magiche avrebbero dovuto proteggere Saphira, ma Eragon era sicuro che corresse un rischio mortale. Non riuscirò mai a raggiungerla in tempo, pensò. Allora espanse la mente verso il cavaliere, ma l’uomo era troppo concentrato sul proprio obiettivo per accorgersi della sua presenza, ed Eragon riuscì a ottenere soltanto un accesso superficiale alla sua coscienza. Ritornando in sé, Eragon frugò tra i ricordi alla ricerca delle parole nell’antica lingua necessarie a comporre un incantesimo che arrestasse di colpo la corsa dello stallone da guerra. Era un tentativo disperato, perché anche il cavaliere poteva essere un mago, e non era da escludere che avesse preso precauzioni contro i sortilegi, ma Eragon non aveva alcuna intenzione di restare a guardare quando c’era in gioco la vita di Saphira. Si riempì d’aria i polmoni. Ripassò in fretta la corretta pronuncia dei difficili fonemi dell’antica lingua e si preparò a lanciare l’incantesimo. Fu rapido, ma gli elfi lo furono di più. Prima che avesse modo di pronunciare una sola parola, alle sue spalle proruppe una cantilena concitata di voci sovrapposte che formavano una melodia disarmonica e inquietante. «Mäe...» fu tutto quello che riuscì a dire, poi la magia degli elfi colpì. La sezione di mosaico sul pavimento davanti al cavallo sussultò e si gonfiò; le tessere di vetro ondeggiarono come acqua. Un istante dopo, una lunga, profondissima crepa si aprì nel terreno. Con un nitrito di terrore il cavallo inciampò nell’ampio squarcio e franò in avanti, spezzandosi tutti e due gli arti anteriori. Mentre cavallo e cavaliere cadevano, l’uomo in sella portò indietro il braccio e scagliò la lancia luminescente contro Saphira. La dragonessa non poteva fuggire. Non poteva muoversi. La sua unica speranza era deviarne la traiettoria con una zampata; mancò il bersaglio per un soffio, ed Eragon rimase a guardare, atterrito, l’arma che affondava di oltre una iarda nel petto di Saphira, appena sotto la clavicola. Sui suoi occhi calò un velo pulsante di rabbia. Deciso ad annientare il cavaliere e incurante dei rischi, attinse a ogni fonte di energia magica che aveva a disposizione: il proprio corpo,

lo zaffiro incastonato nel pomolo della spada, i dodici diamanti nascosti nella cintura di Beloth il Savio che portava in vita, e soprattutto Aren, l’anello elfico che gli adornava la mano destra. Si bloccò quando vide Blödhgarm scavalcare con un balzo la zampa sinistra di Saphira per atterrare sul cavaliere come una pantera che si avventa su un cervo. L’elfo scaraventò l’uomo su un fianco e, con un feroce scatto della testa, gli squarciò la gola con le lunghe zanne candide. Da una delle finestre affacciate sul portone spalancato del maschio si levò un agghiacciante urlo di disperazione, seguito da un’esplosione potente che scaraventò grandi blocchi di pietra sui Varden ammassati davanti all’ingresso, schiacciando arti e busti come ramoscelli. Eragon ignorò le pietre che piovevano nella corte e corse da Saphira, quasi senza accorgersi di essere seguito da Arya e dalla sua scorta. Alcuni degli elfi più vicini si erano già radunati intorno alla dragonessa per esaminare la lancia che le usciva dal petto. «Q-q-quanto è... Lei sta...» balbettò Eragon, troppo sconvolto per riuscire a finire una frase. Avrebbe voluto incontrare Saphira con la mente, ma nei paraggi poteva esserci uno stregone dell’Impero, ed Eragon non osava esporre la propria coscienza ai nemici, rischiando che qualcuno gli spiasse nel pensiero o assumesse il controllo del suo corpo. Dopo quella che gli parve un’attesa interminabile, Wyrden, uno degli elfi, disse: «Puoi ringraziare il fato, Ammazzaspettri. La lancia ha mancato le vene e le arterie del collo. Ha colpito soltanto il muscolo, possiamo guarirla.» «Potete estrarre la lancia? E se ci fosse un incantesimo che impedisce di rimuoverla?» «Ci pensiamo noi, Ammazzaspettri.» Con la solennità di sacerdoti riuniti intorno a un altare, tutti gli elfi tranne Blödhgarm posarono i palmi aperti sul petto di Saphira, e con la soavità di un alito di vento che spira tra le fronde dei salici cominciarono a intonare una melodia. Cantarono di calore e di ricrescita, di muscoli e di tendini e di sangue, e di altre materie più arcane. Con un enorme sforzo di volontà, Saphira rimase immobile per tutto l’incantesimo, anche se ogni tanto il suo corpo era scosso da forti tremori. Un rivolo di sangue colò dalla ferita dov’era conficcata la lancia. Quando Blödhgarm gli si avvicinò, Eragon allontanò per un attimo lo sguardo da Saphira per osservare l’elfo. Il sangue che gli macchiava il mento e la gola aveva scurito il colore della sua pelliccia da blu notte a nero pece. «Cos’è stato?» chiese Eragon, indicando le fiamme che ancora danzavano nella finestra affacciata sul portone. Prima di rispondere, Blödhgarm si leccò le labbra, snudando le zanne feline. «Un istante prima che morisse, sono riuscito a entrare nella mente del cavaliere e da lì in quella dello stregone che lo aiutava.» «Hai ucciso lo stregone?» «In un certo senso. L’ho costretto ad ammazzarsi. Di norma non sarei ricorso a un simile stravagante artificio, ma ero... irritato.» Eragon fece un passo avanti, ma si fermò quando Saphira emise un lungo gemito: senza che nessuno la toccasse, la lancia aveva iniziato a scivolare fuori dal suo petto. La

dragonessa batté veloce le palpebre con una serie di respiri brevi e affannosi, mentre gli ultimi sei pollici di lancia emergevano dal suo corpo. La lama dagli strani barbigli, con il suo fievole bagliore verdastro, cadde a terra e rimbalzò sull’acciottolato con un rumore più di ceramica che di metallo. Quando gli elfi smisero di cantare e allontanarono le mani da Saphira, Eragon accorse al suo fianco e le accarezzò il collo. Avrebbe voluto confortarla, dirle quanto era stato in pena per lei, condividere la propria coscienza con la sua; invece si limitò a fissare uno dei suoi luminosi occhi azzurri e le chiese: «Stai bene?» In confronto all’intensità delle sue emozioni, quella domanda gli parve banale già mentre la pronunciava. Saphira rispose con un battito di ciglia, poi abbassò la testa e gli sfiorò dolcemente il volto con uno sbuffo delicato d’aria calda. Eragon sorrise. Poi si rivolse agli elfi ringraziandoli dell’aiuto nell’antica lingua: «Eka elrun ono, älfya, wiol förn thornessa.» Gli elfi che avevano partecipato alla guarigione, compresa Arya, s’inchinarono e voltarono la mano destra portandola al centro del petto, nel gesto di rispetto della loro razza. Eragon si accorse che oltre la metà degli elfi incaricati di proteggere lui e Saphira erano pallidi, stremati e malfermi sulle gambe. «Tornate indietro a riposare» disse loro. «Se restate qui, rischiate solo di farvi uccidere. Andate, è un ordine!» Era evidente che i sette elfi non volevano lasciarli, ma risposero: «Come desideri, Ammazzaspettri» e si ritirarono dalla corte, scavalcando a grandi passi cadaveri e macerie. Avevano un’aria nobile e dignitosa anche quando erano allo stremo delle forze. Eragon si unì ad Arya e Blödhgarm, che stavano già studiando la lancia: avevano una strana espressione, come se non sapessero bene cosa pensare di ciò che vedevano. Eragon si accovacciò accanto a loro, attento a non sfiorare l’arma con nessuna parte del corpo. Osservò le linee delicate incise intorno alla base della lama, linee che gli sembravano familiari anche se non avrebbe saputo dire perché; l’asta verdognola, fatta di un materiale che non era legno, ma neppure metallo; e di nuovo quel tenue bagliore che gli rammentava le lanterne senza fiamma che gli elfi e i nani usavano per illuminare le loro dimore. «Pensate che sia opera di Galbatorix?» domandò. «Forse ha deciso che preferisce uccidere me e Saphira invece di catturarci. Potrebbe essersi convinto che rappresentiamo una vera minaccia per lui.» Blödhgarm gli rivolse un sorriso sinistro. «Io non mi illuderei con simili fantasie, Ammazzaspettri. Siamo poco più di una banale seccatura per Galbatorix. Se davvero volesse uccidere te, o chiunque altro di noi, gli basterebbe volare qui da Urû’baen e affrontarci in battaglia, e noi cadremmo morti ai suoi piedi come foglie secche in una tormenta. La forza dei draghi è con lui, e nessuno può resistere a tanto potere. Per giunta, Galbatorix non si lascia distogliere facilmente dai suoi piani. Sarà pazzo, ma è anche furbo, e soprattutto determinato. Se ciò che vuole è farti schiavo, stai pur certo che perseguirà quell’obiettivo fino a farne un’ossessione, e non ci sarà niente, se non un estremo pericolo per la sua stessa vita, a trattenerlo.» «Comunque» intervenne Arya, «questo non è un manufatto di Galbatorix: è nostro.» Eragon si accigliò. «Nostro? Quest’arma non è stata fatta dai Varden.» «Non dai Varden, da un elfo.»

«Ma...» Eragon tacque, in cerca di una spiegazione razionale. «Ma nessun elfo sarebbe disposto a lavorare per Galbatorix. Preferirebbero morire...» «Galbatorix non ha niente a che fare con questa lancia, e difficilmente avrebbe consegnato un oggetto così raro e potente a un uomo incapace di salvaguardarlo. Delle armi più letali disseminate per Alagaësia questa è l’ultima che Galbatorix vorrebbe vedere nelle nostre mani.» «Perché?» Con la sua voce bassa e profonda, simile al borbottio di un felino, Blödhgarm rispose: «Perché, Eragon Ammazzaspettri, questa è una Dauthdaert.» «E il suo nome è Niernen, l’Orchidea» aggiunse Arya. Indicò le linee incise sulla lama: solo allora Eragon si rese conto che erano glifi stilizzati del singolare sistema elfico di scrittura, forme e curve intrecciate che terminavano in lunghe punte aguzze simili a spine. «Una Dauthdaert?» Quando sia Arya sia Blödhgarm lo fissarono increduli, Eragon si strinse nelle spalle, imbarazzato per la propria ignoranza. Era frustrante: gli elfi avevano potuto approfittare di lunghi decenni di studi con i migliori maestri della loro razza, mentre suo zio Garrow non gli aveva insegnato nemmeno a leggere e scrivere, considerandole cose di scarsa importanza. «Non sono riuscito a imparare granché a Ellesméra. Di cosa si tratta? È stata forgiata durante la caduta dei Cavalieri, per combattere Galbatorix e i Rinnegati?» Blödhgarm scosse il capo. «Niernen è molto, molto più antica.» «Le Dauthdaertya sono nate dalla paura e dall’odio che hanno segnato gli ultimi anni della nostra guerra contro i draghi» proseguì Arya. «I nostri fabbri più esperti e i nostri maghi più potenti le crearono con materiali che non conosciamo più, le impregnarono di incantesimi di cui non ricordiamo più le parole, e le battezzarono, tutte e dodici, con i nomi dei fiori più belli... un accostamento terribile e crudele, perché le fabbricammo con un unico scopo: uccidere i draghi.» Mentre guardava la lancia luminescente, Eragon sentì salire un conato di ribrezzo. «E ci riuscirono? Uccisero davvero dei draghi?» «I testimoni dicono che il sangue dei draghi pioveva dal cielo come un acquazzone estivo.» Saphira emise un sibilo secco e rabbioso. Eragon si voltò a guardarla per un istante e con la coda dell’occhio scorse i Varden ancora schierati davanti al maschio, in attesa che lui e la dragonessa riprendessero la guida dell’attacco. «Si pensava che tutte le Dauthdaertya fossero andate distrutte, o perdute per sempre» riprese Blödhgarm. «È evidente che ci sbagliavamo. Niernen dev’essere passata nelle mani della famiglia Waldgrave, che l’ha custodita qui a Belatona. Probabilmente quando abbiamo aperto la breccia nelle mura della città Lord Bradburn si è visto spacciato e ha ordinato di prendere Niernen dall’armeria nel tentativo di fermare te e Saphira. Sono sicuro che Galbatorix andrebbe su tutte le furie se sapesse che Bradburn ha cercato di uccidervi.» Non c’era tempo per gli indugi, ma la curiosità non permise a Eragon di abbandonare la questione. «Dauthdaert o no, non mi avete ancora spiegato perché Galbatorix non

vorrebbe mai che ce l’avessimo noi.» Indicò la lancia. «Che cosa rende Niernen più pericolosa di quella lancia laggiù, o perfino di Bri...» S’interruppe prima di pronunciare il nome per intero e completò: «Della mia stessa spada?» Fu Arya a rispondere. «Una Dauthdaert non si può spezzare con normali mezzi, non si può danneggiare col fuoco ed è praticamente inattaccabile dalla magia, come hai visto coi tuoi stessi occhi. Le Dauthdaertya furono plasmate per essere immuni a qualsiasi incantesimo di drago e per proteggere chi le impugnava allo stesso modo... una prospettiva scoraggiante, data la potenza, la complessità e la natura imprevedibile della magia dei draghi. Galbatorix può aver circondato se stesso e Shruikan delle difese magiche più potenti di chiunque altro in Alagaësia, ma Niernen potrebbe penetrarle come se nemmeno esistessero.» Eragon afferrò il concetto e si sentì colmo di speranza. «Dobbiamo...» Un rumore improvviso lo interruppe. Un suono lacerante, stridente, straziante, come di metallo che graffia la pietra, riverberò nei denti di Eragon, che si coprì le orecchie con le mani, il volto contratto in una smorfia. Il Cavaliere si guardò intorno in cerca dell’origine di quel rumore. Saphira scosse la testa con violenza. Nonostante il frastuono, lui la sentì gemere di sofferenza. Eragon dovette far correre lo sguardo sul cortile due volte prima di accorgersi che lungo la parete del maschio risaliva una leggera nuvoletta di polvere: fuoriusciva da una crepa larga un piede, proprio sotto la finestra annerita e semidistrutta dietro cui si nascondeva lo stregone ucciso da Blödhgarm. Il rumore si faceva sempre più intenso, ma Eragon si arrischiò a togliere una mano da un orecchio per indicare la crepa. «Guarda!» gridò ad Arya, che annuì di rimando. Il Cavaliere si rimise la mano sull’orecchio. Senza alcun preavviso, il rumore cessò di colpo. Eragon attese un istante, poi abbassò adagio le mani, rimpiangendo per la prima volta in vita sua di avere un udito tanto sensibile. Nello stesso momento la crepa si allargò di parecchi piedi e corse lungo il muro del maschio. Guizzò come una folgore verso il basso fino a colpire la chiave di volta sul portone dell’edificio, inondando il pavimento con una pioggia di detriti. L’intero castello gemette e la facciata del maschio, dalla finestra danneggiata fino alla chiave di volta spezzata, cominciò a inclinarsi in avanti. «Fuggite!» gridò Eragon ai Varden. Ma gli uomini si stavano già sparpagliando nel disperato tentativo di allontanarsi dal muro instabile. Eragon fece un passo in avanti e cercò Roran nella calca dei guerrieri. D’un tratto lo vide: era intrappolato nell’ultimo gruppo di uomini davanti al portone. Li stava incitando con grida forsennate, ma il caos soffocava le sue parole. Poi il muro tremò e si staccò dal resto dell’edificio; Roran fu bersagliato di pietre, perse l’equilibrio e si vide costretto a indietreggiare carponi sotto l’arco del portone. Mentre tentava di rimettersi in piedi, Roran incrociò lo sguardo di Eragon, e nei suoi occhi il Cavaliere vide paura, impotenza, infine rassegnazione: come se Roran sapesse che, per quanto fosse stato veloce, non avrebbe mai potuto mettersi in salvo. Un sorriso amaro affiorò sulle labbra di Roran. E il muro crollò.

LA CADUTA DEL MARTELLO «No!» gridò Eragon quando la parete del castello crollò con un boato fragoroso, seppellendo Roran e altri cinque uomini sotto un cumulo di pietre alto venti piedi; il cortile fu invaso da una grigia nuvola di polvere. Eragon aveva gridato così forte che gli si spezzò la voce, e il sapore denso e metallico del sangue gli pizzicò la gola. Inspirò e si piegò in due a tossire. «Vaetna» ansimò, agitando la mano. Con un rumore simile al fruscio della seta, la spessa cortina di polvere si aprì, lasciando sgombro il centro della corte. Preoccupato com’era per Roran, Eragon a stento si accorse di quanta energia gli aveva sottratto l’incantesimo. «No, no, no, no» mormorò. Non può essere morto. Non può, non può, non può..., si disse, ancora e ancora, come se ripeterlo bastasse a farlo avverare. Ma ogni volta quelle parole diventavano sempre meno una constatazione o una speranza, e sempre più una preghiera rivolta al mondo intero. Davanti a lui, Arya e gli altri guerrieri Varden tossivano e si stropicciavano gli occhi. Molti se ne stavano accucciati, come in attesa di un attacco; altri fissavano a bocca aperta il muro crollato del maschio. Le macerie erano arrivate fino al centro del cortile, coprendo il mosaico del pavimento. Due sale del primo piano del castello e una del secondo – quella dove lo stregone aveva trovato la sua fine violenta – erano esposte agli elementi. Alla piena luce del giorno, le stanze e gli arredi avevano un’aria sporca e malridotta. Dentro, alcuni soldati armati di balestre indietreggiavano sgomenti davanti all’abisso. Spingendo e sgomitando corsero verso le porte in fondo alle stanze e scomparvero nei meandri del castello. Eragon cercò di indovinare il peso di un blocco di pietra del cumulo di macerie: parecchie centinaia di libbre. Unendo le sue forze a quelle di Saphira e degli elfi era sicuro che sarebbero riusciti a sollevare le pietre con la magia, ma l’incantesimo li avrebbe lasciati deboli e vulnerabili. E poi ci sarebbe voluto troppo tempo. Per un istante pensò a Glaedr, il drago dorato abbastanza forte da poter sollevare il mucchio di pietre da solo; ma doveva agire in fretta, e recuperare il suo Eldunarí sarebbe stata un’operazione altrettanto lunga. In ogni caso, Eragon sapeva che probabilmente non sarebbe stato nemmeno capace di convincere Glaedr a parlargli, figuriamoci ad aiutarlo a salvare Roran e gli altri uomini. Poi ripensò a quando aveva visto Roran rintanato sotto la cornice dell’arco del castello un attimo prima che il diluvio di pietre si abbattesse sulla corte, e con un sussulto capì che cosa doveva fare. «Saphira, aiutali!» gridò Eragon, gettando da parte lo scudo per poi correre verso il portone. Alle sue spalle udì Arya dire qualcosa nell’antica lingua, una frase concisa, come «Portatela via!», e con la coda dell’occhio la vide seguirlo con la spada in pugno, pronta a combattere. Quando arrivò ai piedi del cumulo di macerie, Eragon balzò più in alto che poté. Atterrò con un piede sul lato inclinato di un blocco di pietra e spiccò un altro salto, e poi un terzo, come una capra di montagna che si inerpica sulle pareti scoscese di un dirupo. Sapeva che così facendo le pietre instabili potevano crollare, ma scalare le macerie era il modo più veloce per raggiungere il suo obiettivo.

Con un ultimo balzo Eragon superò il ciglio del primo piano e attraversò la stanza di corsa. Piombò sulla porta in fondo con una tale violenza da far saltare cardini e catenaccio, e la porta divelta andò a schiantarsi contro la parete opposta, le pesanti assi di quercia ridotte in frantumi. Eragon sfrecciò lungo il corridoio. Il rumore dei suoi passi e il suo respiro affannato gli giungevano stranamente attutiti, come se avesse le orecchie piene d’acqua. Rallentò solo passando davanti a un arco che si apriva su una piccola sala: lì cinque uomini armati discutevano indicando una mappa. Nessuno di loro si accorse di lui. Il Cavaliere continuò a correre. Voltò un angolo e finì contro un soldato che correva in direzione opposta. Quando urtò la fronte sul bordo dello scudo dell’uomo, la vista gli si riempì di puntini luminosi. Si avvinghiò all’avversario e i due barcollarono lungo il corridoio come una coppia di ballerini ubriachi. Il soldato lanciò un’imprecazione e cercò di recuperare l’equilibrio. «Ma che ti prende, razza di...» inveì, ma poi si accorse di chi aveva davanti e sgranò gli occhi. «Tu!» Eragon sferrò un pugno nel ventre dell’uomo, appena sotto la gabbia toracica. Il colpo fu così violento che lo sollevò da terra, scaraventandolo contro il soffitto. «Io!» disse, mentre il soldato ricadeva sul pavimento, inerte. Il Cavaliere proseguì lungo il corridoio. Le sue pulsazioni, già più veloci di quelle di un umano, sembravano raddoppiate da quando era entrato nella fortezza: temeva che il cuore stesse per esplodergli nel petto. Dov’è?, pensò, guardandosi attorno, frenetico. Sbirciò sotto un altro arco, ma non vide che una stanza vuota. Alla fine, in fondo a un angusto passaggio secondario, intravvide una scala a chiocciola. Scese verso il pianterreno facendo i gradini cinque alla volta, senza pensare alla propria incolumità, fermandosi solo per spingere da parte un arciere sbigottito che lo intralciava. Quando la scala finì, Eragon si ritrovò in un’ampia sala dal soffitto a volta che ricordava la cattedrale di Dras-Leona. Si guardò intorno, rapidissimo: scudi, armi e gonfaloni rossi appesi alle pareti; strette finestre vicine al soffitto; torce infilate in supporti di ferro battuto; caminetti spenti; lunghi tavoli scuri su cavalletti addossati ai lati della sala; e in fondo una pedana, dove vide un uomo barbuto con un lungo mantello in piedi davanti a uno scranno dallo schienale alto. Eragon era nella sala principale del castello. Fra lui e la porta che conduceva all’ingresso del maschio c’era un contingente di una cinquantina di soldati. I ricami dorati delle loro tuniche scintillarono quando si voltarono a guardarlo sorpresi. «Eliminatelo!» ordinò l’uomo col mantello, più spaventato che autoritario. «Chiunque lo uccida riceverà un terzo del mio tesoro. È una promessa!» Eragon si sentì sopraffare dalla frustrazione: non poteva indugiare oltre. Estrasse la spada dal fodero, la levò in alto e gridò: «Brisingr!» Con un risucchio d’aria la lama fu avvolta da un bozzolo di fiamme azzurre che risalì fino alla punta. Il calore del fuoco gli investì la mano, il braccio e il lato destro del viso. Eragon abbassò lo sguardo sui soldati. «Sparite!» ringhiò. I soldati esitarono, poi girarono sui tacchi e fuggirono.

Eragon si lanciò in avanti, ignorando i ritardatari terrorizzati a portata della sua spada fiammeggiante. Uno inciampò e cadde ai suoi piedi: Eragon lo scavalcò con un balzo, senza nemmeno sfiorargli il pennacchio. La corrente d’aria prodotta dalla sua corsa alimentava le fiamme, che fluttuavano dietro la spada come la criniera di un cavallo al galoppo. Con le spalle curve e la testa bassa, Eragon superò la porta a doppio battente della sala principale. Attraversò veloce come un fulmine un ampio salone fiancheggiato da altre stanze piene di soldati, di ingranaggi, pulegge e altri meccanismi che servivano ad alzare e abbassare i cancelli del maschio. Infine piombò con la forza di un ariete contro la saracinesca che gli sbarrava la strada per l’arco sotto cui si trovava Roran al momento del crollo. La pesante cancellata di ferro si piegò, ma non abbastanza da spezzarsi. Eragon fece un passo indietro, stordito. Ancora una volta attinse all’energia immagazzinata nei diamanti della cintura – la cintura di Beloth il Savio – per incanalarla in Brisingr, svuotando le gemme della loro preziosa riserva per alimentare il fuoco della spada fino a fargli raggiungere un’intensità quasi insopportabile. Gli sfuggì dalle labbra un grido smorzato quando portò indietro il braccio per poi abbattere la spada contro la saracinesca. Scintille gialle e arancioni gli piovvero addosso, sforacchiandogli i guanti e la tunica, e gli scottarono la pelle esposta. Una goccia di ferro fuso cadde sfrigolando sulla punta di uno stivale. La scalciò via. Dopo altri due fendenti, una porzione della saracinesca grande quanto un uomo cadde verso l’interno. I monconi recisi delle sbarre incandescenti rilucevano illuminando l’area circostante. Eragon attese che le fiamme di Brisingr si spegnessero prima di attraversare il varco che aveva aperto. Lo stretto passaggio in cui si ritrovò a correre cambiava continuamente direzione, spesso in modo brusco: era stato disegnato così per rallentare l’avanzata delle truppe nel caso fossero riuscite ad accedere al maschio. Quando voltò l’ultimo angolo, Eragon intravvide la meta: il vestibolo ingombro di detriti. Malgrado la sua acuta vista da elfo, nell’oscurità riusciva a distinguere soltanto le sagome più grandi, perché le pietre cadute avevano spento le torce alle pareti. Udì strani tonfi e fruscii, come se una goffa bestia di chissà quale specie si stesse facendo strada fra le macerie. «Naina» disse Eragon. Una luce azzurra e uniforme illuminò l’ambiente. E lì, davanti ai suoi occhi, coperto di polvere, sangue, cenere e sudore, i denti snudati in un ringhio spaventoso, comparve Roran, avvinghiato a un soldato, sopra i cadaveri di altri due. Il soldato trasalì per la luce improvvisa e Roran approfittò di quell’attimo di distrazione per spingerlo a terra; gli strappò il pugnale dalla cintura e glielo conficcò appena sotto la mascella. Il soldato scalciò due volte e poi rimase immobile. Annaspando in cerca d’aria, Roran si rialzò, con il sangue che gli gocciolava dalle dita. Guardò Eragon con una strana espressione inebetita. «Era ora che...» mormorò; poi gli si rovesciarono gli occhi e svenne.

OMBRE ALL’ORIZZONTE Per afferrare Roran prima che cadesse a terra, Eragon dovette lasciare Brisingr, un gesto che in circostanze normali sarebbe stato piuttosto riluttante a compiere. Eppure non ci pensò un attimo: la spada cadde sul pavimento di pietra con un clangore metallico nel momento stesso in cui Roran gli franava tra le braccia con tutto il suo peso. «È grave?» domandò Arya. Eragon trasalì, sorpreso di vedere lei e Blödhgarm al suo fianco. «Non credo.» Diede a Roran un paio di buffetti sulle guance, sollevando una piccola nuvola di polvere. Nella piatta luce bluastra creata dall’incantesimo di Eragon, Roran aveva un’aria spettrale, gli occhi circondati da aloni scuri, le labbra violacee, come macchiate di succo di more. «Andiamo, svegliati.» Dopo qualche istante le palpebre di Roran tremolarono; poi il guerriero aprì gli occhi e guardò confuso Eragon. Quest’ultimo provò un tale sollievo che gli parve quasi di sentirlo sulla lingua, di percepirne il sapore. «Sei svenuto» gli spiegò. «Ah.» È vivo!, disse Eragon a Saphira, rischiando quel breve istante di contatto. La gioia della dragonessa si propagò nella sua mente. Bene. Io resto qui ad aiutare gli elfi a spostare le pietre dall’ingresso. Se hai bisogno di me, grida, e troverò il modo di raggiungerti. La cotta di Roran tintinnò mentre Eragon lo aiutava a rimettersi in piedi. «E gli altri?» chiese il Cavaliere, indicando il cumulo di macerie. Roran scosse il capo. «Sicuro?» «Nessuno avrebbe potuto sopravvivere là sotto. Io ce l’ho fatta solo perché mi ha protetto la cornice dell’arco.» «Stai bene?» lo incalzò Eragon. «Cosa?» Roran aggrottò le sopracciglia, perplesso, come se non avesse nemmeno pensato a se stesso. «Sto bene... Forse ho il polso rotto. Niente di grave.» Eragon scoccò un’occhiata eloquente a Blödhgarm. L’elfo si lasciò sfuggire una lieve smorfia di disappunto, ma poi si avvicinò e con voce calma chiese: «Posso...?» e tese una mano verso il polso ferito di Roran. Mentre Blödhgarm si occupava di Roran, Eragon raccolse da terra Brisingr e si dispose con Arya a guardia dell’ingresso, nel caso che qualche soldato fosse stato così stupido da tentare un attacco. «Fatto» disse Blödhgarm. Si allontanò da Roran, che ruotò il polso per controllare l’articolazione. Soddisfatto, ringraziò Blödhgarm, poi scrutò il pavimento ingombro di macerie finché non ritrovò il suo martello. Sistemò l’armatura e guardò l’ingresso. «Comincio ad averne piene le tasche di questo Lord Bradburn» protestò con una tranquillità solo apparente. «Siede sul suo scranno da un po’ troppo tempo, credo, e bisognerebbe sollevarlo dalle sue responsabilità. Non sei d’accordo, Arya?»

«Sì» rispose l’elfa. «Bene. Andiamo a trovare quel vecchio grassone rammollito; gli darò qualche colpetto di martello in memoria di quelli che oggi abbiamo perso.» «Qualche minuto fa era nella sala principale» disse Eragon, «ma dubito che sia rimasto ad aspettare il nostro ritorno.» Roran annuì. «Allora gli daremo la caccia.» E s’incamminò a grandi passi. Eragon ritirò l’incantesimo di luce e corse dietro al cugino, Brisingr in pugno. Arya e Blödhgarm lo seguirono a ruota, cercando di stargli vicino quanto lo stretto e tortuoso passaggio consentiva. La stanza dove il corridoio terminava era deserta, come anche la sala principale del castello, dove l’unica traccia delle decine di soldati e ufficiali che l’avevano popolata fino a poco prima era un elmo sul pavimento, che dondolava avanti e indietro sempre più lentamente. Eragon e Roran superarono la pedana di marmo, con il Cavaliere che teneva il passo del cugino per non lasciarlo indietro. Abbatterono a calci una porta e trovarono una scala. Salirono rapidi, sostando a ogni piano perché Blödhgarm potesse cercare con la mente tracce di Lord Bradburn e della sua scorta, ma senza esito. Quando raggiunsero il terzo livello, Eragon udì uno scalpiccio di passi pesanti: un istante dopo, dall’arco davanti a Roran spuntò una foresta di lance. Le punte aguzze lo ferirono a una guancia e alla coscia destra, e la gamba gli si imbrattò di sangue. Roran ruggì come un orso ferito e caricò le lance con lo scudo, cercando di respingere gli uomini su per gli ultimi gradini. I soldati gridavano come indemoniati. Eragon passò Brisingr nella mano sinistra, poi si portò accanto al cugino, afferrò l’asta di una delle lance e la strappò dalle mani di chiunque la stesse impugnando. La fece roteare con una mossa fulminea e la scagliò mirando al centro del gruppo di uomini accalcati sotto l’arco. Qualcuno gridò e un varco si aprì nel muro di corpi. Il Cavaliere ripeté la manovra, e i suoi lanci sfoltirono il manipolo di soldati tanto che, gradino dopo gradino, Roran fu in grado di far arretrare la massa umana fin sopra le scale. Sgomberato l’arco, gli ultimi dodici soldati rimasti si dispersero in un ampio pianerottolo orlato di balaustre, così da avere intorno abbastanza spazio per poter maneggiare liberamente le armi. Roran ruggì di nuovo e si lanciò sul nemico più vicino. Parò un fendente, e poi colpì l’uomo sull’elmo, che risuonò come una pentola di ferro. Eragon sfrecciò nel ballatoio e si avventò su due soldati vicini. Li scaraventò a terra e li uccise con un solo affondo di Brisingr. Un’ascia sibilò roteando alle sue spalle. Eragon si abbassò e con una spallata spinse un nemico oltre la balaustra prima di sbarazzarsi di altri due soldati che volevano sventrarlo con picche uncinate. Arrivarono anche Arya e Blödhgarm. Silenziosi e letali, si muovevano fra i soldati con l’innata grazia elfica che rendeva la loro violenza più simile a una danza che a una brutale lotta. In un turbine di metallo tintinnante, ossa rotte e arti mozzati, i quattro uccisero il resto dei soldati. Come sempre, il combattimento esaltava Eragon: era come un secchio d’acqua gelata rovesciato addosso, un’impareggiabile sensazione di estrema lucidità.

Roran si piegò in avanti, le mani appoggiate alle ginocchia, ansante come se avesse appena concluso una gara di corsa. «Tutto bene?» chiese Eragon, indicando i tagli sul viso e la coscia del cugino. Roran spostò il peso sulla gamba ferita per saggiarne la resistenza. «Ce la faccio. Dobbiamo prima trovare Bradburn.» Eragon prese la guida del gruppo. Tornarono sulle scale e ricominciarono a salire. Infine trovarono Lord Bradburn barricato nella stanza più alta della torre ovest. Usando una serie di incantesimi, Eragon, Arya e Blödhgarm abbatterono le porte e la montagna di mobili accatastati dietro. Quando i quattro piombarono nella stanza, i cortigiani di alto rango e le guardie della scorta stretti davanti a Lord Bradburn impallidirono, e molti cominciarono a tremare. Eragon dovette uccidere soltanto tre soldati prima che gli altri lasciassero cadere armi e scudi in segno di resa. Arya si parò davanti a Lord Bradburn, che era rimasto in silenzio, e disse: «Quando ordinerai ai tuoi uomini di ritirarsi? Ormai sono rimasti in pochi, ma potresti salvare loro la vita.» «Non lo farei nemmeno se potessi» rispose Bradburn, con un tale odio e disprezzo nella voce che Eragon dovette soffocare l’impulso di colpirlo. «Non otterrai niente da me, elfa. Non consegnerò i miei uomini a immonde creature innaturali come voi. Piuttosto la morte. E non pensare di potermi blandire con parole stucchevoli. So della vostra alleanza con gli Urgali, e mi fiderei più di un serpente che di una persona che condivide il pane con quei mostri.» Arya annuì e con un rapidissimo scatto posò la mano sul viso del governatore. Chiuse gli occhi, e per lunghi momenti lei e Bradburn rimasero immobili. Eragon espanse la mente e percepì lo scontro di volontà che infuriava fra i due, mentre Arya cercava la strada per superare le difese di Bradburn ed entrare nella sua coscienza. Ci volle un minuto, ma alla fine l’elfa prese il controllo della mente del governatore e cominciò a richiamare e a sfogliare i ricordi dell’uomo finché non scoprì la natura delle sue difese magiche. Poi parlò nell’antica lingua ed evocò un incantesimo complesso per aggirare la protezione di Bradburn. Quando ebbe finito, il governatore chiuse gli occhi e con un sospiro crollò fra le sue braccia. «L’ha ucciso!» urlò una delle guardie. Gli altri uomini gridarono di paura e indignazione. Mentre Eragon tentava di convincerli che si sbagliavano, all’improvviso udì in lontananza lo squillo di una tromba dei Varden. Subito dopo si sentì un altro squillo, molto più vicino, e poi un altro ancora: a quel punto, dal cortile di sotto si levarono – Eragon era pronto a giurarlo – grida di esultanza. Perplesso, scambiò un’occhiata con Arya; insieme fecero il giro della stanza, affacciandosi da ogni finestra. A ovest e a sud sorgeva Belatona, una città ricca e popolosa fra le più grandi dell’Impero. Vicino al castello, gli edifici erano imponenti strutture con tetti spioventi e finestre a bovindo; via via che ci si allontanava le costruzioni si facevano più semplici, di legno e malta. Parecchie avevano preso fuoco durante gli scontri. L’aria era satura di un denso fumo nerastro che bruciava occhi e gola. Circa un miglio a sudovest della città si estendeva l’accampamento dei Varden: lunghe file di tende di lana grigia protette da palizzate appuntite, un paio di padiglioni dai colori

sgargianti sormontati da vessilli e bandiere, e centinaia di uomini feriti adagiati sulla nuda terra. Le tende dei guaritori erano già stracolme. A nord, oltre i moli e i magazzini del porto, c’era il Lago di Leona, una vasta distesa d’acqua punteggiata di creste bianche. Il banco di nuvole nere che avanzava da ovest incombeva sulla città minacciando di avvolgerla in una cortina di pioggia come un mantello dalle fitte pieghe. Dalle viscere della tempesta balenava di quando in quando un improvviso lampo azzurrognolo, e il rombo dei tuoni somigliava al ruggito di una bestia inferocita. Ma Eragon non vedeva niente che potesse spiegare tanto clamore. Insieme ad Arya si affacciò alla finestra che dava sulla corte. Saphira, gli elfi e i guerrieri avevano appena terminato di sgombrare dai detriti l’area di fronte al maschio. Eragon fischiò, e quando Saphira alzò lo sguardo agitò una mano. La dragonessa schiuse le fauci in un ghigno irto di zanne e soffiò una nuvoletta di fumo verso di lui. «Ehi! Che succede?» gridò Eragon. Uno dei Varden sulle mura del castello alzò un braccio e indicò a est. «Ammazzaspettri! Guarda! I gatti mannari! Stanno arrivando i gatti mannari!» Un brivido gelido corse lungo la schiena di Eragon. Seguì con lo sguardo la direzione indicata dall’uomo, e questa volta vide una frotta di piccole ombre scure sbucare da dietro un’altura a diverse miglia di distanza, sull’altra sponda del fiume Jiet. Alcune avanzavano su quattro zampe, altre su due, ma erano ancora troppo lontane per dire con certezza che fossero proprio gatti mannari. «Possibile?» mormorò Arya stupefatta. «Non saprei... Chiunque siano, lo scopriremo presto.»

RE GATTO Eragon era sulla pedana nella sala principale del castello, a destra del trono di Lord Bradburn, la mano sinistra sul pomolo di Brisingr che riposava nel fodero. Dall’altro lato del trono, con l’elmo nell’incavo del braccio sinistro, c’era Jörmundur, il comandante anziano dei Varden. Tranne che per alcune striature bianche sulle tempie, aveva i capelli castani, raccolti in una lunga treccia. Sul volto magro era dipinta l’espressione imperturbabile tipica di chi ha una lunga esperienza nel servire gli altri. Eragon notò che sotto il bracciale destro dell’uomo correva una sottile linea rossa, dovuta a chissà quale ferita, ma Jörmundur non mostrava alcun segno di sofferenza. Fra i due era seduta Nasuada, la signora dei Varden, splendida in un abito verde e giallo che aveva indossato solo qualche istante prima, lasciando l’armatura per un abbigliamento più consono all’esercizio degli affari di Stato. Anche lei era rimasta ferita durante i combattimenti, come dimostrava la benda bianca che le fasciava la mano sinistra. A bassa voce, perché soltanto Eragon e Jörmundur la sentissero, Nasuada disse: «Se solo riuscissimo a ottenere il loro appoggio...» «Certo, ma cosa vorrebbero in cambio?» mormorò Jörmundur. «I nostri forzieri sono quasi vuoti, e il futuro è incerto.» Le labbra di Nasuada si mossero appena quando rispose: «Può darsi che vogliano solo l’opportunità di vendicarsi di Galbatorix.» Fece una pausa. «In caso contrario dovremo trovare altri mezzi che non siano l’oro per convincerli a unirsi al nostro esercito.» «Potresti offrire loro barili di panna» suggerì Eragon, suscitando l’ilarità di Jörmundur e una risatina sommessa da parte di Nasuada. La loro conversazione fu interrotta dal suono di tre trombe. Poi un paggio dai capelli color stoppa avvolto in una tunica ricamata con l’emblema dei Varden – un drago bianco che reggeva una rosa sopra una spada puntata in basso su campo viola – entrò dalla porta in fondo alla sala e con voce sottile e trillante annunciò: «Sua Altissima Altezza Reale Grimrr Zampamonca, Re dei Gatti Mannari, Signore dei Luoghi Solitari, Governatore degli Spazi Notturni e Colui che Cammina da Solo.» Che strano titolo, Colui che Cammina da Solo, commentò stupito Eragon rivolto a Saphira. Ma ben meritato, immagino, rispose lei. Anche se non poteva vederla – Saphira era rannicchiata da qualche parte nel maschio del castello –, Eragon riuscì a percepire una nota divertita nella sua voce. Il paggio si fece da parte per lasciar entrare Grimrr Zampamonca in forma umana, seguito da quattro gatti mannari che avanzavano a passi felpati sulle grandi zampe dal pelo lungo e ispido. I quattro somigliavano a Solembum, l’unico altro gatto mannaro che Eragon aveva visto in forma animale: spalle grosse e arti lunghi, ciuffi di pelo scuro sul collo e al garrese, orecchie pelose e code dalla punta nera che ondeggiavano con grazia. Grimrr Zampamonca, al contrario, era diverso da qualsiasi essere umano o creatura in cui Eragon si fosse mai imbattuto. Con i suoi quattro piedi di statura era alto più o meno quanto un nano, ma nessuno lo avrebbe mai scambiato per uno di loro né tantomeno per un essere umano. Aveva il mento piccolo e appuntito, zigomi ampi, e sotto le sopracciglia

all’insù brillavano occhi verdi a mandorla orlati da ciglia lunghissime. Aveva capelli neri, sfrangiati sulla fronte ma lunghi fino alle spalle, lisci e lustri, più simili al pelo dei suoi compagni. Eragon non riuscì a indovinarne l’età. Grimrr indossava una semplice tunica di cuoio e un perizoma di pelle di coniglio. Sul davanti della tunica erano cuciti una decina di teschi di animaletti – uccelli, topi e altre piccole prede – che tintinnavano urtando fra loro ogni volta che il gatto mannaro si muoveva. Un pugnale infilato nel fodero sporgeva dalla cintura del perizoma. Numerose cicatrici, bianche e sottili, gli marchiavano la pelle color nocciola, simili a graffi su un vecchio tavolo. E come indicava il suo nome gli mancavano due dita della mano sinistra; sembrava che fossero state staccate con un morso. Malgrado la delicatezza dei lineamenti, non c’era ombra di dubbio che Grimrr fosse un maschio, considerati il torace, le braccia asciutte e muscolose, i fianchi stretti e l’andatura sinuosa e insieme decisa. Nessuno dei gatti mannari parve badare alla folla allineata lungo i lati del corridoio, finché Grimrr non arrivò all’altezza di Angela l’erborista, in piedi accanto a Roran, impegnata a sferruzzare con sei aghi una lunga calza tubolare a strisce. Gli occhi di Grimrr si ridussero a due fessure mentre fissava l’erborista, e il suo pelo si rizzò, come anche quello delle quattro guardie della scorta. Grimrr arricciò le labbra mostrando un paio di curve zanne acuminate, e con grande sorpresa di Eragon emise un breve ma chiarissimo sibilo. Angela levò lo sguardo dalla calza con espressione languida e insolente. «Cip cip» cinguettò. Per un momento Eragon pensò che i gatti mannari l’avrebbero attaccata. Grimrr avvampò, dilatò le narici e le ringhiò piano contro. Gli altri gatti mannari si accovacciarono, pronti a lanciarsi in avanti, le orecchie appiattite sulla testa. In tutta la sala si levò lo scatto metallico delle lame sfilate dai foderi. Grimrr sibilò ancora una volta, poi voltò le spalle all’erborista e riprese a camminare. Quando l’ultimo gatto della scorta passò davanti ad Angela, sferrò una zampata furtiva al filo di lana che pendeva dagli aghi dell’erborista, come avrebbe fatto un qualsiasi felino domestico in vena di giocare. Saphira era stupita quanto Eragon. Cip cip?, chiese. Lui si strinse nelle spalle, dimenticando che la dragonessa non poteva vederlo. Chi può sapere perché Angela fa o dice certe cose? Alla fine Grimrr arrivò al cospetto di Nasuada. Si fermò e fece un impercettibile cenno col capo, mostrando quell’aria di superiorità, se non di vera e propria arroganza, tipica dei gatti, dei draghi e di certe nobildonne. «Lady Nasuada» la salutò con voce sorprendentemente profonda, più simile al basso, roco ruggito di un gatto selvatico che ai toni acuti che ci si sarebbe aspettati dal giovane di cui aveva preso le sembianze. Nasuada ricambiò con un inchino del capo. «Re Zampamonca. Tu e la tua razza siete i benvenuti fra i Varden. Devo scusarmi per l’assenza di re Orrin. Non è qui come avrebbe voluto perché è impegnato con la sua cavalleria a difendere il nostro fianco occidentale da un contingente dell’esercito di Galbatorix.»

«Naturalmente, Lady Nasuada» disse Grimrr. Quando parlava, i suoi denti aguzzi brillavano. «Non bisogna mai dare le spalle al nemico.» «Più che giusto. A cosa dobbiamo l’inatteso piacere della tua visita, Altezza? I gatti mannari sono noti per il loro isolamento, ma anche per la neutralità nei conflitti, soprattutto dai tempi della caduta dei Cavalieri. Si direbbe che la vostra razza sia diventata più un mito che una realtà nell’ultimo secolo. Come mai adesso avete deciso di mostrarvi?» Grimrr alzò la mano destra e puntò verso Eragon un dito adunco con l’unghia ad artiglio. «A causa sua» ringhiò il gatto mannaro. «Non si attacca un altro predatore finché questi non ha mostrato la sua debolezza, e Galbatorix ci ha mostrato la sua: non ucciderà Eragon Ammazzaspettri o Saphira Bjartskular. A lungo abbiamo atteso questa occasione, e adesso la coglieremo. Galbatorix imparerà a temerci e a odiarci, finalmente capirà la portata del suo errore e saprà che siamo stati noi gli artefici della sua disfatta. Quanto dolce sarà il sapore della vendetta: dolce come il midollo degli ossi di un tenero cucciolo di cinghiale. «Giunta è l’ora, umana, che ogni razza, persino quella dei gatti mannari, si schieri fianco a fianco per dimostrare a Galbatorix che non ha fiaccato la nostra voglia di combattere. Ci uniremo al tuo esercito, Lady Nasuada, come liberi alleati, e ti aiuteremo a raggiungere questo obiettivo.» Eragon ignorava i pensieri di Nasuada, ma per parte sua era molto colpito dal discorso del gatto mannaro, così come Saphira. Nasuada lasciò cadere un breve silenzio e poi replicò: «Le tue parole sono musica per le mie orecchie, Altezza. Ma prima di poter accettare la tua offerta vorrei avere delle risposte da te, se sei disposto a concedermele.» Con ostinata indifferenza Grimrr fece un cenno con la mano. «Lo sono.» «La tua razza è sempre stata così nascosta e inafferrabile che devo confessare di non aver mai sentito parlare di te fino a oggi. A dire il vero, non sapevo nemmeno che aveste un sovrano.» «Io non sono un re come i vostri» disse Grimrr. «I gatti mannari preferiscono camminare da soli, ma perfino noi dobbiamo scegliere un condottiero da seguire quando andiamo in guerra.» «Capisco. E dunque tu parli a nome di tutta la tua razza, o solo per coloro che viaggiano con te?» Grimrr gonfiò il petto e la sua espressione si fece, se possibile, ancora più fiera. «Io parlo a nome di tutta la mia razza, Lady Nasuada» rispose, facendo le fusa. «Ogni gatto mannaro abile di Alagaësia, cuccioli a parte, è venuto qui per combattere. Non siamo molti, ma nessuno può eguagliare la nostra ferocia in battaglia. Comando anche i monoforma, anche se non posso parlare per loro, perché sono ottusi come gli altri animali. A ogni buon conto faranno quello che chiederemo loro.» «I monoforma?» lo interrogò Nasuada. «Quelli che voi chiamate gatti. Quelli che non possono mutare forma come facciamo noi.» «E tu garantisci la loro lealtà?» «Sicuro. Loro guardano a noi, com’è naturale.»

Se quello che dice è vero, commentò Eragon rivolto a Saphira, i gatti mannari ci saranno utilissimi. «E cosa desideri da noi in cambio del vostro aiuto, re Zampamonca?» chiese Nasuada, scoccando un’occhiata a Eragon. Sorrise, e poi aggiunse: «Possiamo offrirvi tutta la panna che volete, ma oltre a questo le nostre risorse sono limitate. Se i tuoi guerrieri si aspettano di essere pagati per il loro lavoro, temo che resteranno delusi.» «La panna è per i micini, e l’oro non ci interessa» rispose Grimrr. Alzò la mano destra e si ispezionò gli artigli socchiudendo le palpebre. «Queste sono le nostre condizioni: ciascuno di noi riceverà un pugnale con cui combattere, se già non ne possiede uno, e due cotte di maglia, una adatta a combattere su due zampe e una su quattro. Non ci serve altro: niente tende, niente coperte, niente piatti, niente cucchiai. Ognuno di noi riceverà un’anatra, un’oca, un pollo o un volatile simile al giorno, e a giorni alterni una ciotola di fegato appena macellato. Anche se decideremo di non mangiare, il cibo dovrà essere messo da parte per noi. Inoltre, se desideri vincere questa guerra, allora chiunque diventi il vostro prossimo re o regina, e tutti coloro che in seguito assumeranno il titolo, terrà un cuscino imbottito di fianco al suo trono, al posto d’onore, perché uno di noi vi prenda posto, se così desidera.» «Sei un negoziatore abile come un legislatore dei nani» commentò Nasuada in tono asciutto. Si protese verso Jörmundur, ed Eragon la sentì domandare sottovoce: «Abbiamo abbastanza fegato da sfamarli tutti?» «Immagino di sì» sussurrò Jörmundur. «Ma dipende dalle dimensioni delle ciotole.» Nasuada raddrizzò la schiena. «Due cotte di maglia sono una di troppo, re Zampamonca. I tuoi guerrieri dovranno scegliere se combattere come gatti o come umani, e poi attenersi alla decisione. Non posso permettermi di equipaggiarli per entrambi i casi.» Se Grimrr avesse avuto la coda, Eragon era sicuro che l’avrebbe agitata. Invece il gatto mannaro si limitò a spostare il peso da un piede all’altro. «Molto bene, Lady Nasuada.» «Soltanto un’altra cosa. Galbatorix ha spie e sicari nascosti dappertutto. Perciò, per unirvi ai Varden, dovete permettere a uno dei nostri stregoni di sondare la vostra mente, per essere sicuri che Galbatorix non vi abbia in suo potere.» Grimrr inspirò. «Saresti una sciocca a non farlo. Se qualcuno è abbastanza coraggioso da leggere i nostri pensieri, faccia pure. Ma non lei» aggiunse, indicando Angela. «Lei no.» Nasuada esitò. Eragon intuì che avrebbe voluto chiedere perché, ma la donna si trattenne. «Così sia. Manderò subito a chiamare i nostri stregoni per poter risolvere la questione senza altri indugi. Sono certa che non scopriranno niente di spiacevole e dunque sarò onorata di stringere un’alleanza fra te e i Varden, re Zampamonca.» A queste parole, tutti gli umani presenti nella sala proruppero in grida di esultanza e scrosci di applausi, compresa Angela. Persino gli elfi parvero compiaciuti. I gatti mannari invece si limitarono ad appiattire le orecchie, a evidente dimostrazione del fastidio che provavano per via di tutto quel frastuono.

DOPO L’ASSEDIO Eragon si lasciò sfuggire un lamento e si resse a Saphira. Con le mani sulle ginocchia, scivolò lungo le squame bitorzolute della dragonessa fino a sedersi a terra, poi allungò le gambe davanti a sé. «Ho fame!» esclamò. Cavaliere e dragonessa si trovavano nel cortile del castello, in un angolo lontano dagli uomini che lavoravano per sgomberarlo, ammucchiando pietre e cadaveri sui carri, e dalla fiumana di persone che entravano e uscivano dall’edificio semidistrutto, molte delle quali avevano assistito all’udienza di Nasuada con re Zampamonca e si affrettavano a tornare ai propri compiti. Blödhgarm e altri quattro elfi erano di guardia nei paraggi, pronti a intervenire in caso di pericolo. «Ehi!» gridò qualcuno. Eragon levò lo sguardo: Roran stava uscendo dal maschio e veniva verso di lui. Alle sue spalle, Angela correva per tenere il passo del guerriero, con il filo di lana che le svolazzava dietro. «E ora dove hai intenzione di andare?» domandò Eragon quando Roran gli si parò davanti. «Vado a dare una mano a controllare le difese della città e a sistemare i prigionieri.» «Ah.» Lo sguardo di Eragon vagò per qualche istante sul cortile brulicante di attività prima di tornare sul volto tumefatto di Roran. «Hai combattuto bene.» «Anche tu.» Eragon rivolse l’attenzione ad Angela, che aveva ripreso a sferruzzare: muoveva le dita tanto in fretta che non si riusciva quasi a distinguerle. «Cip cip?» le domandò. La donna assunse un’espressione maliziosa e scosse il capo, facendo ondeggiare la massa di riccioli neri. «Questa storia te la racconto un’altra volta.» Eragon accettò la sua risposta evasiva senza protestare; del resto non si aspettava spiegazioni immediate. Angela non ne dava quasi mai. «E voi» chiese Roran «dove pensate di andare?» A cercare qualcosa da mangiare, rispose Saphira, e pungolò Eragon col muso, riscaldandogli la pelle con il suo alito tiepido. Roran annuì. «Mi pare un’ottima idea. Ci vediamo stasera all’accampamento, allora.» Poi, mentre si voltava per andarsene, aggiunse: «Porta i miei saluti più affettuosi a Katrina.» Angela infilò il lavoro a maglia in una borsa trapuntata che portava appesa alla cintola. «Me ne vado anch’io. Ho una pozione che bolle nella mia tenda, e poi c’è un gatto mannaro che vorrei rintracciare.» «Grimrr?» «No, no, una mia vecchia amica: la mamma di Solembum. Se è ancora viva. Lo spero proprio.» Si portò una mano alla fronte, massaggiandola con pollice e indice, poi con voce fin troppo allegra aggiunse: «Ci vediamo!», e si allontanò.

Avanti, salta su, disse Saphira, e si alzò, facendo mancare all’improvviso il sostegno a Eragon. Il Cavaliere montò sulla sella alla base del collo della dragonessa, che dispiegò le possenti ali con un rumore lieve, simile al morbido fruscio di pelle che sfiora altra pelle. Il movimento creò un vortice di aria silenzioso che si propagò come una serie di onde in uno stagno. Tutti si bloccarono per guardare lo spettacolo. Non appena Saphira levò le ali sopra la testa, Eragon intravvide la ragnatela di vene violacee che pulsavano al di sotto: quando il sangue defluiva fra un battito e l’altro del cuore possente della dragonessa, ciascuna vena ricordava un solco vuoto lasciato da un tarlo. Una contrazione dei muscoli, uno slancio, e il mondo s’inclinò paurosamente intorno a Eragon: Saphira era balzata dal cortile in cima alle mura del castello, dove rimase per qualche istante in equilibrio sui merli; le pietre sotto i suoi artigli si riempirono di crepe. Eragon cercò un appiglio. Il mondo s’inclinò di nuovo quando Saphira spiccò il volo dalle mura. Eragon si sentì assalire da un odore acre e pungente, e gli lacrimarono gli occhi nel momento in cui Saphira bucò il denso strato di fumo che aleggiava su Belatona come una coltre di dolore e rabbia. Saphira batté le ali con forza e alla fine emersero alla luce del sole, sorvolando le strade cittadine punteggiate di incendi. La dragonessa ripiegò le ali e risalì in ampi circoli, sfruttando i passaggi verso l’alto dell’aria calda. Malgrado la stanchezza, Eragon assaporò ogni dettaglio del panorama spettacolare: la tempesta stava per inghiottire Belatona, e in lontananza i cumulonembi, neri come inchiostro, si accavallavano illuminati a tratti dai fulmini; in basso, il lago scintillava argenteo e centinaia di piccole fattorie verdeggianti costellavano la pianura. Niente però era impressionante come le nuvole. Come sempre, Eragon si beava del privilegio di poter contemplare il mondo dall’alto, consapevole di essere tra i pochi ad aver fatto quella stessa esperienza sulle ali di un drago. Un forte vento cominciò a spirare da ovest, foriero della tempesta imminente. Eragon si accucciò e si tenne più stretto a Saphira. Vide i campi spazzati da una successione di raffiche, e gli steli piegarsi sotto il vento che si faceva sempre più forte. L’erba ondeggiante gli ricordava il pelo di un’enorme bestia verde. Un cavallo nitrì quando Saphira planò sulle file di tende per raggiungere la radura a lei riservata. Eragon raddrizzò la schiena mentre la dragonessa inclinava le ali per rallentare fino a fermarsi a poche iarde dal terreno smosso. L’impatto col suolo lo spinse in avanti. Scusa, disse lei. Ho cercato di atterrare nella maniera più morbida possibile. Lo so. Mentre smontava di sella, Eragon vide Katrina correre verso di lui. I capelli ramati le svolazzavano davanti al viso; il vento tendeva la gonna sul pancione. «Notizie?» domandò concitata; aveva il volto solcato da pieghe di apprensione. «Hai saputo dei gatti mannari?»

Lei annuì. «E allora non ci sono altre novità. Roran sta bene. Mi ha detto di portarti i suoi saluti più affettuosi.» L’espressione di Katrina si addolcì, ma la preoccupazione non scomparve del tutto. «Sta bene, dici?» Indicò con un cenno l’anello che portava al medio della mano sinistra, uno dei due anelli che Eragon aveva incantato per lei e Roran affinché ciascuno sapesse se l’altro correva qualche pericolo. «Mi è sembrato di sentire qualcosa un’ora fa, e ho temuto che...» Eragon scosse il capo. «Te lo racconterà Roran. Un paio di lividi e qualche ammaccatura, ma sta bene. Anche se mi ha spaventato a morte.» Il volto di Katrina si fece ancora più teso. Poi, suo malgrado, la donna sorrise. «Almeno siete sani e salvi. Tutti e due.» Si salutarono. Eragon e Saphira si avvicinarono a una delle tende dov’erano approntate le cucine da campo. Si saziarono di carne e idromele mentre fuori il vento ululava, accompagnato da scrosci di pioggia che tamburellavano sui lati della tenda. Vedendo Eragon affondare i denti in un pezzo di arrosto di maiale, Saphira disse: Ti piace? Non è squisito? «Mmm» fece Eragon, con i rivoletti di sugo che gli colavano sul mento.

I RICORDI DEI MORTI “Galbatorix è pazzo, quindi imprevedibile, ma nei suoi ragionamenti ci sono delle falle che in una persona normale non ci sono. Se riesci a trovarle, Eragon, forse allora tu e Saphira potrete sconfiggerlo.” Brom abbassò la pipa, serio. “Spero che ce la facciate. Il mio più grande desiderio è che tu e Saphira viviate una vita lunga e feconda, libera dalla paura di Galbatorix e dell’Impero. Vorrei poterti proteggere da tutti i pericoli che ti minacciano, ma, ahimè, non è nelle mie possibilità. Quello che posso fare è darti il mio consiglio e insegnarti ciò che posso ora , mentre sono ancora qui... figlio mio. Qualunque cosa ti succeda, sappi che ti voglio bene e che anche tua madre te ne voleva. Che le stelle ti proteggano, Eragon Bromsson.” Eragon aprì gli occhi mentre il ricordo sbiadiva. Sopra di lui il soffitto della tenda pendeva floscio come un otre vuoto dopo la pioggia martellante della tempesta ormai passata. Una goccia d’acqua filtrò da una piega del tessuto, gli cadde sulla coscia destra e attraversò la stoffa delle braghe, gelandogli la pelle. Sapeva che sarebbe dovuto andare a rinforzare le funi di ancoraggio della tenda, ma non aveva nessuna voglia di alzarsi dalla branda. E Brom non ti ha mai detto niente di Murtagh? Non ti ha mai rivelato che io e Murtagh eravamo fratellastri? Saphira, raggomitolata fuori dalla tenda, replicò: Continuare a chiedermelo non cambierà la mia risposta. Eppure perché non avrebbe dovuto farlo? Perché non l’ha fatto? Lui doveva sapere di Murtagh. Non poteva non sapere. Saphira ci mise un po’ a rispondere. Brom doveva avere le sue ragioni, ma se vuoi ilmio parere, penso che ritenesse più importante farti sapere quanto ti voleva bene e darti ogni consiglio possibile invece di perdere tempo a parlare di Murtagh. Avrebbe potuto avvertirmi, però. Un accenno sarebbe bastato. Non sono in grado di dirti quali ragioni lo guidavano, Eragon. Devi accettare il fatto che ci sono alcune domande su Brom alle quali non troverai mai una risposta. Fidati del suo affetto per te e non permettere a queste inquietudini di turbarti. Eragon si fissò i pollici, poi li accostò l’uno all’altro per confrontarli meglio. Il pollice sinistro aveva più rughe del destro sulla seconda falange, mentre quest’ultimo era solcato da una piccola cicatrice frastagliata che non ricordava di essersi procurato; doveva essere successo all’epoca dell’Agaetí Blödhren, la Celebrazione del Giuramento di Sangue. Grazie, disse a Saphira. Attraverso di lei aveva visto e ascoltato il messaggio tre volte dopo la caduta di Feinster, e ogni volta aveva notato qualche nuovo dettaglio nel discorso o nei gesti di Brom che prima gli era sfuggito. Risentire quelle parole gli dava conforto e felicità, perché esaudiva un desiderio che lo aveva tormentato per tutta la vita: conoscere il nome di suo padre e sapere che gli aveva voluto bene. Saphira ricambiò il suo grazie con una calda ondata di affetto. Anche se Eragon aveva mangiato a sazietà e riposato per quasi un’ora, la stanchezza non si era del tutto dissolta. Non che se lo fosse aspettato. Sapeva per esperienza che ci sarebbero volute settimane per un recupero completo dagli effetti debilitanti di una lunga

battaglia. Via via che i Varden si avvicinavano a Urû’baen, lui e ogni membro dell’esercito di Nasuada avrebbero avuto sempre meno tempo per riacquistare le forze dopo gli scontri. La guerra li avrebbe logorati fino a lasciarli coperti di sangue, sfibrati e a stento in grado di combattere, e a quel punto avrebbero ancora dovuto affrontare Galbatorix, che li aspettava in tutta tranquillità. Cercò di non pensarci troppo. Un’altra goccia d’acqua gli cadde sulla coscia, fredda e pungente. Infastidito, si mise a sedere sulla branda. Poi si alzò per andare in un angolo di nuda terra in fondo alla tenda e si inginocchiò. «Deloi, sharjalví!» disse, e pronunciò altre frasi nell’antica lingua necessarie a disarmare le trappole che aveva piazzato il giorno prima. Il terreno cominciò a fremere come acqua sul punto di ebollizione, e dalla fontana schiumante di ciottoli, insetti e vermi emerse uno scrigno di ferro lungo un piede e mezzo. Eragon lo prese e sciolse l’incantesimo. Il suolo tornò piatto. Il Cavaliere rimise lo scrigno sul terreno solido. «Ládrin» mormorò, e passò la mano sul lucchetto senza serratura che bloccava la cerniera. Il congegno si aprì con uno scatto metallico. Un fievole bagliore dorato riempì la tenda quando Eragon sollevò il coperchio. Custodito al sicuro nello scrigno foderato di velluto c’era l’Eldunarí di Glaedr, il cuore dei cuori del drago. La grande pietra simile a una gemma scintillò scura come una brace morente. Eragon raccolse l’Eldunarí fra le mani a coppa: le sfaccettature irregolari e affilate erano tiepide. Eragon guardò nelle sue profondità pulsanti. Una galassia di piccole stelle vorticava al centro della pietra, anche se il loro movimento era rallentato e sembravano molte meno rispetto alla prima volta che Eragon aveva tenuto in mano l’Eldunarí a Ellesméra, quando Glaedr l’aveva espulso dal proprio corpo per affidarlo a Eragon e Saphira. Quella vista lo affascinava sempre; sarebbe potuto restare seduto per giorni a contemplare il disegno in continuo mutamento. Dovremmo provarci di nuovo, disse Saphira, e lui annuì. Insieme espansero le menti verso le luci lontane, verso il mare di stelle che rappresentava la coscienza di Glaedr. Navigarono nel freddo e nella tenebra, poi trovarono calore e disperazione, e un’indifferenza così vasta e immensa da spazzare via ogni altro proposito, da consentire soltanto di fermarsi e piangere. Glaedr... Elda, gridarono ancora e ancora, ma non ottennero alcuna risposta da quel muro impenetrabile di indifferenza. Alla fine tornarono indietro, incapaci di tollerare anche solo per un altro istante il peso opprimente dell’infelicità di Glaedr. Una volta di nuovo in sé, Eragon si accorse che qualcuno bussava al palo di sostegno al centro dell’ingresso della tenda, e poi sentì Arya dire: «Eragon? Posso entrare?» Il Cavaliere inspirò forte e batté le palpebre. «Entra pure.»

Un fascio di luce grigiastra dal cielo nuvoloso si infilò nella tenda insieme ad Arya. Eragon avvertì una fitta improvvisa non appena i suoi occhi incontrarono quelli dell’elfa – verdi, obliqui, indecifrabili – e si sentì pervadere da un antico struggimento. «Hai fatto qualche progresso?» lo interrogò Arya inginocchiandosi accanto a lui. Invece dell’armatura indossava la stessa tunica di pelle nera, i pantaloni e gli stivali dalla suola sottile che portava quando lui l’aveva salvata a Gil’ead. Aveva i capelli ancora umidi dopo il bagno, e le lunghe ciocche nere le pendevano grevi sulla schiena. Emanava il consueto aroma di aghi di pino sminuzzati. Chissà, si domandò Eragon, se usava un incantesimo per crearlo o se era il suo odore naturale. Avrebbe voluto chiederglielo, ma non osò. In risposta alla sua domanda scosse il capo. «Posso?» chiese lei, indicando il cuore dei cuori di Glaedr. Il Cavaliere si fece da parte. «Prego.» Arya prese l’Eldunarí fra le mani e chiuse gli occhi. Eragon approfittò dell’occasione per studiarla con un’intensità e una curiosità che sarebbero state offensive in altre circostanze. Sotto ogni aspetto Arya era l’incarnazione della bellezza, anche se lui sapeva che altri avrebbero potuto obiettare che aveva il naso troppo lungo, il viso troppo spigoloso, le orecchie troppo appuntite, o le braccia troppo muscolose. Con un sussulto l’elfa ritrasse le mani dal cuore dei cuori, come se si fosse ustionata. Poi chinò il capo; le tremava il mento. «È la creatura più infelice che abbia mai conosciuto. Vorrei che potessimo aiutarlo. Non credo che riuscirà a trovare da solo la strada per uscire dalle tenebre.» «Pensi che...» disse Eragon, ma si interruppe, riluttante a dar voce ai suoi sospetti. Poi continuò: «Pensi che impazzirà?» «Potrebbe essere già successo. Se non è così, allora danza sul baratro della follia.» Rimasero ancora per qualche istante a fissare la grande pietra dorata, ed Eragon si sentì pervadere da una profonda tristezza. Quando alla fine si riscosse e riprese a parlare le domandò: «Dov’è la Dauthdaert?» «Nascosta nella mia tenda come tu hai nascosto l’Eldunarí di Glaedr. Posso portarla qui, se vuoi, oppure posso continuare a custodirla fino al momento in cui ne avrai bisogno.» «Tienila tu. Non posso portarla in giro con me, altrimenti Galbatorix potrebbe venire a sapere della sua esistenza. E poi sarebbe stupido nascondere troppi tesori in un posto solo.» L’elfa annuì. La stretta che Eragon sentiva nel petto si fece più intensa. «Arya, io...» Tacque quando Saphira vide uno dei figli di Horst il fabbro – Albriech, pensò, anche se era difficile distinguerlo da Baldor per come la vista di Saphira distorceva le cose e le persone – correre verso la tenda. Eragon accolse con sollievo l’interruzione, perché non era sicuro di cosa stava per dire. «Arriva qualcuno» annunciò, e chiuse in fretta il coperchio dello scrigno. Si udì un rumore di passi affrettati che scalpicciavano nel fango. Poi Albriech – perché in effetti era lui – gridò: «Eragon! Eragon!» «Che succede?»

«Le doglie della mamma sono appena cominciate! Papà mi manda a chiederti se verresti ad aspettare con lui, nel caso che qualcosa andasse storto e ci fosse bisogno della tua magia. Ti prego, se puoi...» Eragon non sentì il resto, affannato com’era a chiudere e seppellire lo scrigno. Poi si gettò il mantello sulle spalle. Stava ancora lottando con il fermaglio quando Arya gli sfiorò un braccio e disse: «Posso venire con voi? Ho esperienza di queste cose. Se la vostra gente me lo permetterà, posso renderle il parto molto più facile.» Eragon non si fermò neppure un istante a riflettere sulla proposta. Le indicò l’ingresso della tenda. «Dopo di te.» [eBookLove - eBL 043] Christopher Paolini - Inheritance [by Pico]

COS’È UN UOMO? Ogni volta che Roran sollevava i piedi il fango appiccicoso gli si attaccava agli stivali, rallentando la sua marcia e facendogli bruciare i muscoli delle gambe già affaticate. Era come se la terra stessa volesse trattenerlo. Il fango non era solo denso, ma anche scivoloso. Gli cedeva sotto i tacchi nei momenti meno opportuni, proprio quando era già in equilibrio precario. Ed era anche profondo. Il continuo passaggio di uomini, animali e carri aveva trasformato i primi sei pollici di terreno in un orrido pantano. Lungo i margini del sentiero che attraversava l’accampamento dei Varden restavano rade zolle d’erba schiacciata, ma Roran sospettava che sarebbero sparite non appena gli uomini avessero cercato di aggirare il centro della stradina. Lui non ci provava nemmeno a evitare il fango; non gli importava più di sporcarsi gli abiti. E poi era così stanco che era più facile arrancare nella stessa direzione che preoccuparsi di balzare da una zolla d’erba all’altra. Roran avanzava a fatica e ripensava a Belatona. Dopo l’udienza di Nasuada con i gatti mannari aveva ricevuto il comando del quadrante nordoccidentale della città e aveva fatto del suo meglio per garantire il presidio della zona, incaricando gli uomini di spegnere gli incendi, costruire barricate nelle strade, perquisire le case in cerca di soldati e confiscare tutte le armi. Era un compito immane, e lui disperava di portare a termine tutto ciò che era necessario, nel timore che in città potessero esplodere nuovi conflitti. Spero che quegli idioti superino la notte senza farsi ammazzare. Il fianco sinistro pulsava di dolore: Roran si lasciò sfuggire una smorfia e sospirò a denti stretti. Maledetto vigliacco. Qualcuno, forse dal tetto di un edificio, gli aveva lanciato contro un dardo usando una balestra. Roran era scampato alla morte per un soffio: uno dei suoi uomini, Mortenson, gli era passato davanti nel momento preciso in cui l’arciere aveva scoccato. Il dardo aveva trapassato Mortenson da parte a parte, conservando abbastanza slancio da causare a Roran una brutta ferita. Mortenson era morto sul colpo, e il balestriere era fuggito. Cinque minuti dopo una forte esplosione, probabilmente di natura magica, aveva ucciso altri due dei suoi uomini entrati in una stalla per perquisirla. Attacchi di quel genere erano comuni in tutta la città. Senza dubbio molti erano dovuti agli agenti di Galbatorix, ma anche gli abitanti di Belatona ne erano responsabili: uomini e donne che non tolleravano di starsene con le mani in mano mentre un esercito invasore prendeva il controllo della loro città, per quanto nobili potessero essere le intenzioni dei Varden. Roran non poteva fare a meno di provare simpatia per chi si sentiva in dovere di difendere la propria famiglia, ma al tempo stesso malediceva quella gente così ottusa da non capire che i Varden stavano cercando di aiutarli, non certo di combatterli. Si grattò la barba aspettando che un nano gli togliesse dai piedi un pony stracarico di vettovaglie, poi riprese ad arrancare. Mentre si avvicinava alla loro tenda, vide Katrina davanti a una tinozza d’acqua saponata e bollente, intenta a strofinare una benda macchiata di sangue su un lavatoio di legno. Aveva le maniche arrotolate fino ai gomiti, i capelli raccolti in una crocchia allentata e le

guance arrossate dalla fatica, ma ai suoi occhi non era mai parsa più bella. Katrina era il suo conforto e il suo rifugio, e gli bastò vederla per alleviare il senso di torpore dovuto alla ferita infertagli. Katrina lo vide e abbandonò subito il bucato per corrergli incontro, asciugandosi le mani arrossate sul vestito. Roran si tenne saldo sulle gambe quando lei gli gettò le braccia al collo. Sentì una fitta lancinante al fianco, e gli sfuggì un gemito di dolore. Katrina si sciolse dall’abbraccio e si scostò; lo guardò aggrottando le sopracciglia. «Oh! Ti ho fatto male?» «No, no. Sono solo un po’ ammaccato.» Lei non gli fece altre domande e lo strinse di nuovo, con minor foga, stavolta, e levò sul suo viso gli occhi scintillanti di lacrime. Cingendole la vita, Roran si chinò a baciarla, incapace di esprimere tutta la gioia che provava. Katrina passò il braccio sinistro del marito intorno alle proprie spalle e Roran le permise di sostenere parte del suo peso mentre tornavano alla tenda. Con un sospiro si lasciò cadere sul ceppo che usavano come sgabello, accanto al fuoco da campo acceso per riscaldare l’acqua della tinozza su cui al momento sobbolliva una pentola di stufato. Katrina riempì una scodella e gliela porse. Poi entrò nella tenda e ne uscì con un boccale di birra e un piatto con mezza pagnotta e una fetta di formaggio. «Vuoi qualcos’altro?» gli domandò, con voce insolitamente roca. Roran non rispose, ma le posò una mano sulla guancia, accarezzandola con il pollice. Katrina gli rivolse un sorriso tremante e posò la mano sulla sua per un istante, poi tornò alla tinozza e riprese a strofinare con rinnovato vigore. Roran fissò il cibo a lungo prima di dare un morso; si sentiva ancora così teso che aveva paura di vomitare. Dopo qualche boccone di pane, però, l’appetito gli tornò e cominciò a mangiare lo stufato con gusto. Quando ebbe finito, posò i piatti a terra e si riscaldò le mani al fuoco, assaporando lunghi sorsi di birra. «Abbiamo sentito il boato quando i cancelli sono caduti» disse Katrina strizzando una benda. «Non hanno retto a lungo.» «Già. È utile avere un drago al proprio fianco.» Roran fissava il pancione della moglie intenta a sistemare la benda su un filo da bucato teso fra il palo della loro tenda e quello vicino. Ogni volta che pensava al bambino che Katrina portava in grembo, il loro bambino, Roran si sentiva gonfiare di orgoglio, un orgoglio funestato però dall’angoscia di non sapere come avrebbe potuto anche soltanto sperare di offrire un tetto sicuro a suo figlio. Per giunta, se la guerra non fosse finita prima del parto, Katrina aveva intenzione di andare nel Surda, dove avrebbe potuto allevare il piccolo in relativa sicurezza. Non posso perderla, non di nuovo. Katrina immerse un’altra benda nella tinozza. «E la battaglia in città?» chiese, rimestando l’acqua saponata. «Com’è andata?» «Abbiamo dovuto combattere strenuamente per conquistarla. Perfino Eragon se l’è vista brutta.»

«I feriti hanno parlato di baliste montate su ruote.» «Già.» Roran si bagnò la gola con un sorso di birra, poi descrisse come i Varden avevano attraversato Belatona e gli attacchi subiti lungo il percorso. «Abbiamo perso troppi uomini oggi, ma poteva andarci peggio. Molto peggio. Jörmundur e il capitano Martland hanno condotto l’attacco in maniera egregia.» «Il loro piano non avrebbe funzionato se non fosse stato per te ed Eragon. Ti sei comportato da eroe.» Roran scoppiò a ridere. «Ah! E lo sai perché? Te lo spiego io. Forse un uomo su dieci è davvero disposto ad attaccare il nemico. Eragon non se ne rende conto: lui è sempre in prima linea a incitare i soldati. Ma io sì... Vedo come molti si attardano nelle retrovie e non combattono se non quando sono messi alle strette. Oppure agitano le armi e fanno baccano, ma in realtà non combinano granché.» Katrina era sbigottita. «Com’è possibile? Sono dei vigliacchi?» «Non lo so. Forse... forse sono soltanto incapaci di uccidere un uomo guardandolo in faccia, anche se non ci pensano due volte a trucidare i soldati che danno loro le spalle. Così aspettano che qualcun altro faccia quello che loro non riescono a fare. Aspettano gente come me.» «Credi che gli uomini di Galbatorix siano altrettanto riluttanti?» Roran si strinse nelle spalle. «Può darsi. Ma non hanno scelta, devono obbedire a Galbatorix. Se lui ordina di combattere, loro combattono.» «Nasuada potrebbe fare lo stesso. Potrebbe dire ai suoi stregoni di evocare qualche incantesimo per assicurarsi che nessuno sfugga al proprio dovere.» «E poi che differenza ci sarebbe fra lei e Galbatorix? E comunque i Varden non lo accetterebbero.» Katrina lasciò il bucato per andare a baciarlo sulla fronte. «Sono contenta che tu sia così bravo in ciò che fai» gli sussurrò. Poi tornò alla tinozza e cominciò a strofinare un’altra benda macchiata sul lavatoio. «Ho sentito qualcosa prima, col mio anello... temevo ti fosse successo qualcosa.» «Ero nel bel mezzo di una battaglia. Non mi sorprenderei se avessi sentito un formicolio ogni due minuti.» Katrina fece una pausa, lasciando le mani immerse nell’acqua. «Non mi era mai successo prima.» Roran vuotò il boccale di birra, nel tentativo di ritardare l’inevitabile. Aveva sperato di poterle risparmiare i dettagli della sua disavventura nel castello, ma era chiaro che Katrina non si sarebbe arresa finché non avesse saputo la verità. Sviare il discorso l’avrebbe soltanto indotta a immaginare scenari ben peggiori. E poi era inutile nasconderle la verità dal momento che i resoconti della battaglia si sarebbero presto diffusi fra tutti i Varden. Così le raccontò tutto. Cercò di far apparire il crollo del muro come un episodio di scarsa importanza, invece della catastrofe che lo aveva quasi ucciso. Eppure gli era difficile rievocare quell’esperienza, e fece molte pause, in cerca delle parole giuste. Quando ebbe finito tacque, turbato dal ricordo. «Almeno non sei rimasto ferito» disse Katrina.

Roran grattò con l’unghia una crepa del boccale. «Già.» Il rumore dell’acqua rimestata s’interruppe di colpo: Roran sapeva che Katrina lo stava guardando. «Hai affrontato pericoli molto più gravi.» «Be’, immagino di sì.» La voce di Katrina si addolcì. «E allora cosa ti preoccupa?» Quando lui non rispose, aggiunse: «Non esiste niente di così terribile che tu non possa dirmi, Roran. Lo sai.» Il guerriero prese di nuovo a giocherellare con la crepa del boccale, ma questa volta gli si spezzò l’unghia del pollice. Strofinò l’unghia rotta contro il polpastrello dell’indice. «Quando è crollato il muro ho pensato che non ce l’avrei fatta.» «L’avrebbe pensato chiunque.» «Sì, ma il fatto è che non m’importava!» Le rivolse uno sguardo colmo di angoscia. «Non capisci? Ho mollato. Quando mi sono accorto di non poter fuggire, mi sono arreso, docile come un agnellino condotto al macello, e...» Incapace di continuare, Roran lasciò cadere il boccale e seppellì il volto fra le mani. Il magone era così forte che gli impediva di respirare. Poi sentì le dita leggere di Katrina sulle spalle. «Ho mollato» ringhiò, infuriato e nauseato. «Ho smesso di combattere... per te... per nostro figlio...» Le parole gli si strozzarono in gola. «Ssst, ssst» mormorò lei. «Non mi ero mai arreso prima. Mai. Nemmeno quando i Ra’zac ti hanno rapita.» «Lo so.» «Questa guerra deve finire. Non può andare avanti così... Io non posso. Non...» Levò il capo e scoprì, inorridito, che anche lei era sul punto di piangere. Si alzò e la abbracciò forte. «Mi d-d-dispiace» balbettò. «Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace... Non succederà più. Mai più. Te lo prometto.» «Non m’importa» disse Katrina, la voce smorzata contro il petto di lui. La risposta della moglie lo ferì. «So di essere stato un debole, ma la mia parola dovrebbe ancora valere qualcosa per te.» «Non è questo che intendevo!» esclamò lei, e si ritrasse per scoccargli un’occhiata truce. «A volte sei così sciocco, Roran.» Lui le rivolse un timido sorriso. «Lo so.» Katrina gli intrecciò le dita dietro la nuca. «Non penserei mai male di te, qualunque cosa tu abbia provato quando il muro è crollato. M’importa soltanto che tu sia vivo... Non c’era niente che potessi fare quando è successo, giusto?» Lui scosse il capo. «E quindi non hai nulla di cui vergognarti. Se avessi potuto impedirlo, allora avresti perso il mio rispetto. Ma non ti sei risparmiato, e quando hai capito che non c’era altro da fare hai accettato in pace il tuo destino senza maledirlo inutilmente. Questa è saggezza, non debolezza.» Lui si chinò a baciarla sulla fronte. «Grazie.»

«Per quanto mi riguarda, tu sei l’uomo più forte, più coraggioso e più gentile di tutta Alagaësia.» Questa volta Roran la baciò sulle labbra. Katrina rise, solo per qualche istante, concedendosi un breve sollievo dalla tensione accumulata. I due rimasero l’uno nelle braccia dell’altra, dondolandosi come se stessero danzando su una melodia che soltanto loro potevano sentire. Poi Katrina gli diede una spinta scherzosa e andò a finire di fare il bucato, mentre Roran si sedeva di nuovo sul ceppo, tranquillo per la prima volta da quando la battaglia era finita, malgrado le fitte e i dolori sparsi in tutto il corpo. Osservò gli uomini, i cavalli, qualche nano e un paio di Urgali che passavano davanti alla sua tenda arrancando nel fango; studiò le loro ferite e le condizioni delle armature. Cercò di indovinare lo stato d’animo generale: l’unica conclusione a cui arrivò era che tutti, tranne gli Urgali, avevano bisogno di una buona dormita e di un pasto decente, e che a tutti, compresi gli Urgali – anzi, soprattutto a loro – avrebbe fatto bene una bella strigliata da capo a piedi con una spazzola di setole di cinghiale e secchiate d’acqua saponata. Guardò anche Katrina e si accorse che, mentre lavava, il suo iniziale buonumore si spegneva a poco a poco, sostituito da un’irritazione sempre più evidente. Continuava a sfregare alcune macchie ostinate, ma con scarso successo. Un’ombra scura le rabbuiò il viso, seguita da una smorfia di disappunto. Alla fine, quando la moglie sbatté il panno sul lavatoio sollevando un ventaglio di schiuma e strinse i bordi della tinozza serrando le labbra, Roran si alzò dal ceppo e le si avvicinò. «Lascia fare a me» disse. «È sconveniente» mormorò lei. «Sciocchezze. Vatti a sedere, ci penso io... Vai.» Katrina scosse il capo. «No. Sei tu quello che deve riposare, non io. E poi questo non è un lavoro da uomini.» Roran sbuffò di scherno. «E per quale decreto? Il lavoro di un uomo, o di una donna, è qualunque cosa sia necessario fare. Ora vai a sederti; ti sentirai meglio.» «Roran, sto bene.» «Non fare la sciocca.» Tentò con gentilezza di allontanarla dalla tinozza, ma Katrina rifiutò di muoversi. «Non è giusto» protestò lei. «Cosa penserà la gente?» Indicò gli uomini che arrancavano lungo il sentiero fangoso accanto alla loro tenda. «Pensino quello che vogliono. Sono io che ti ho sposata, non loro. E se credono che io sia meno uomo solo perché ti aiuto, allora sono degli idioti.» «Ma...» «Niente ma. Muoviti. Fuori dai piedi.» «Ma...» «Basta discutere. Se non vai subito a sederti ti ci porto io di peso e ti lego a quel ceppo.» Un’espressione divertita sostituì il cipiglio di Katrina. «Sul serio?»

«Sul serio. E ora vai!» Quando lei a malincuore gli cedette il posto davanti alla tinozza, Roran sbuffò esasperato. «Ma quanto sei cocciuta!» «Senti chi parla. In confronto a te persino un mulo sembra remissivo.» «Io non sono affatto cocciuto.» Roran slacciò la cintura, si sfilò la cotta di maglia e la appese al palo della tenda; poi si tolse i guanti e arrotolò le maniche della camicia. Spogliato dell’armatura avvertì l’aria pungente; e i panni erano ancora più freddi perché rimasti troppo tempo sul lavatoio, ma a lui non importava: l’acqua era calda e infatti ben presto anche il bucato lo divenne. Soffici aureole di schiuma e bollicine iridescenti gli si formarono intorno ai polsi mentre strofinava le bende sulla tavola ondulata. Levò lo sguardo e fu lieto di vedere che Katrina si stava rilassando sul ceppo, per quanto uno potesse stare comodo su quel ruvido sedile. «Ti va una camomilla?» gli chiese lei. «Gertrude mi ha dato una manciata di fiori freschi stamattina. Posso farne un po’ per entrambi.» «Buona idea.» Fra i due scese un piacevole silenzio. Roran continuò a lavare il resto del bucato. Quel compito ripetitivo lo mise di buonumore: gli piaceva tenere impegnate le mani in qualcosa che non fosse soltanto roteare il martello, e avere Katrina vicina bastava a farlo stare bene. Stava strizzando l’ultima benda, e l’infuso bollente appena versato lo aspettava vicino a sua moglie, quando qualcuno li chiamò gridando dall’altro lato del sentiero affollato. Roran ci mise qualche istante a capire che era Baldor: il figlio di Horst correva verso di loro nel fango, attento a schivare uomini e cavalli. Indossava un grembiule di cuoio logoro e macchiato, guanti lunghi fino al gomito anneriti di fuliggine e così consumati che le dita erano dure, lisce e lucide come gusci di tartaruga. Una sottile striscia di pelle gli teneva indietro i capelli scuri e arruffati, e aveva le sopracciglia aggrottate. Sebbene più piccolo rispetto a suo padre e al fratello Albriech, Baldor restava pur sempre un giovane robusto e muscoloso, grazie a una vita passata ad aiutare Horst nella sua fucina. Nessuno dei tre aveva combattuto quel giorno: i bravi fabbri erano troppo preziosi per rischiare di perderli in battaglia, anche se Roran avrebbe voluto che Nasuada lo consentisse, perché erano guerrieri capaci e sapeva di poter contare su di loro anche nelle circostanze più estreme. Roran posò le bende e si asciugò le mani, domandandosi cosa ci fosse di tanto urgente. Katrina si alzò dal ceppo e si avvicinò alla tinozza. Quando Baldor li raggiunse, moglie e marito dovettero aspettare che recuperasse il fiato. «Venite, presto. Mamma è appena entrata in travaglio e...» «Dov’è?» lo interruppe Katrina. «Nella nostra tenda.» Katrina annuì. «Faremo più in fretta possibile.» Con un sorriso di gratitudine Baldor si voltò e corse via. Mentre Katrina entrava nella tenda, Roran rovesciò il contenuto della tinozza sul fuoco per spegnerlo. Il legno sibilò e si spaccò sotto il diluvio d’acqua, e una nuvola di vapore si innalzò al posto del fumo, spandendo un odore sgradevole.

Roran si muoveva in fretta, spinto dall’ansia. Spero che non muoia, pensò ricordando i discorsi delle donne preoccupate per l’età di Elain e per la gravidanza prolungata. Elain era sempre stata gentile con lui ed Eragon, e Roran le era molto affezionato. «Sei pronto?» chiese Katrina uscendo dalla tenda. Si annodò una sciarpa azzurra sul capo. Roran afferrò cintura e martello. «Pronto. Andiamo.» [eBookLove - eBL 043] Christopher Paolini - Inheritance [by Pico]

IL PREZZO DEL POTERE «Ecco, mia signora. Non ne hai più bisogno. Una bella liberazione, direi.» Con un morbido fruscio, l’ultima striscia di lino scivolò dall’avambraccio di Nasuada. La sua ancella Farica le aveva tolto le bende che portava dal giorno in cui lei e il signore della guerra Fadawar si erano affrontati in una sfida di coraggio nota come la Prova dei Lunghi Coltelli. Per tutto il tempo in cui Farica si era occupata di lei, Nasuada aveva tenuto gli occhi fissi su un lungo arazzo consunto e roso dalle tarme. Ma adesso si fece forza e abbassò lo sguardo. Da quando aveva vinto la Prova dei Lunghi Coltelli si era rifiutata di guardare le ferite: erano apparse così orribili quando se le era procurate che aveva deciso di non vederle finché non fossero praticamente guarite. Le cicatrici erano asimmetriche: sei sull’interno dell’avambraccio sinistro, tre su quello destro. Ciascun taglio era lungo dai tre ai quattro pollici, ed erano tutti netti e precisi, tranne l’ultimo del braccio destro, quando la ferma determinazione di Nasuada aveva vacillato per qualche istante deviando la traiettoria del coltello che aveva tracciato una linea frastagliata lunga il doppio delle altre. La pelle intorno ai punti in cui la lama aveva inciso la carne era rosa scuro e raggrinzita, mentre i segni delle ferite erano appena più chiari del resto del suo corpo. Nasuada fu felice di scoprirlo, perché temeva che sarebbero diventati bianchi e lucidi, e troppo vistosi. Le cicatrici erano in rilievo: una serie di creste alte mezzo pollice che davano l’impressione che le avessero infilato sottopelle delle barrette d’acciaio. Nasuada provava emozioni contrastanti per quei marchi. Suo padre le aveva insegnato le usanze del loro popolo, ma lei aveva passato tutta la vita fra i Varden e i nani. Gli unici rituali delle tribù nomadi che osservava, e soltanto di rado, avevano a che fare con la religione. Non aveva mai aspirato a diventare esperta nella Danza del Tamburo né a partecipare alla difficile Chiamata dei Nomi, men che mai a cimentarsi nella Prova dei Lunghi Coltelli. Eppure eccola lì, ancora giovane e bella, con quelle nove cicatrici sulle braccia. Certo, avrebbe potuto ordinare a uno degli stregoni dei Varden di farle sparire, ma in quel modo avrebbe invalidato la sua vittoria nella prova, e le tribù nomadi l’avrebbero disconosciuta come capo supremo. Sebbene rimpiangesse di non avere più le braccia lisce e perfette che un tempo attiravano gli sguardi ammirati degli uomini, Nasuada era orgogliosa di quelle cicatrici. Erano la testimonianza del suo coraggio e il segno tangibile della sua devozione ai Varden. Chiunque le avesse viste avrebbe riconosciuto la tempra del suo carattere, e questo per lei era molto più importante del suo aspetto. «Che te ne pare?» chiese, mostrando le braccia a re Orrin, che in quel momento era in piedi davanti alla finestra aperta dello studio. Orrin si voltò e si incupì, gli occhi scuri sotto la fronte aggrottata. Si era liberato dell’armatura e indossava una pesante tunica rossa con un mantello bordato di ermellino. «Le trovo ripugnanti» disse lui, e tornò a contemplare la città. «Copriti. È indecoroso.» Nasuada si studiò le braccia per qualche altro secondo. «No. Non credo proprio che lo farò.» Aggiustò l’orlo di pizzo delle mezze maniche, poi congedò Farica. Attraversò la

stanza calpestando il sontuoso tappeto tessuto dai nani e raggiunse Orrin alla finestra per osservare la città devastata dalla battaglia. Per fortuna tutti gli incendi – tranne due, vicino alle mura occidentali – erano stati domati. Nasuada si voltò verso il re. Non era trascorso molto tempo da quando i Varden e i Surdani avevano lanciato il loro attacco all’Impero, eppure Nasuada aveva visto Orrin farsi sempre più serio, l’eccitazione e le stravaganze di un tempo svanite sotto un’aria cupa. Sulle prime Nasuada aveva accolto con piacere il cambiamento, interpretandolo come un indizio di maturità; ma col protrarsi della guerra aveva iniziato a sentire la mancanza delle sue dotte disquisizioni di filosofia naturale come delle sue altre bizzarrie. A posteriori si rese conto che spesso le illuminavano la giornata, anche se a volte le trovava irritanti. Per giunta il cambiamento lo aveva reso più pericoloso come rivale: Nasuada non aveva difficoltà a immaginarlo intento a cercare di prendere il suo posto a capo dei Varden. Sarei felice se lo sposassi?, si domandò. Orrin non era sgradevole. Aveva un naso importante, troppo sottile, lineamenti forti e una bocca ben disegnata ed espressiva; i lunghi anni di addestramento militare gli avevano donato una corporatura robusta. Che fosse intelligente era fuori discussione, ed era una persona piacevole. D’altro canto Nasuada sapeva che se non fosse stato il re del Surda e se non avesse rappresentato una grave minaccia alla sua posizione e all’indipendenza dei Varden non lo avrebbe mai preso in considerazione come marito. Sarebbe un buon padre? Orrin si appoggiò allo stretto davanzale di pietra e senza guardarla disse: «Devi rompere il tuo patto con gli Urgali.» La frase la colse di sorpresa. «Perché mai?» «Perché ci danneggiano. Uomini che in altre circostanze si unirebbero volentieri a noi ci maledicono per esserci alleati con quei mostri e si rifiutano di deporre le armi quando arriviamo nelle loro città. Ai loro occhi la resistenza di Galbatorix è giusta e comprensibile a causa del nostro accordo con gli Urgali. L’uomo comune non capisce perché abbiamo stretto un’alleanza con loro. Non sa che Galbatorix stesso ha usato gli Urgali e che li ha persuasi con l’inganno ad attaccare Tronjheim sotto il comando di uno Spettro. Sono sottigliezze che non si possono spiegare a un contadino terrorizzato. Lui capisce soltanto che le creature che teme e odia da una vita adesso marciano verso casa sua, guidate da un enorme drago ringhiante e da un Cavaliere che ha l’aspetto più di un elfo che di un umano.» «L’aiuto degli Urgali ci serve» replicò Nasuada. «I nostri guerrieri sono troppo pochi.» «Non ci serve quanto tutto il resto. Sai che ho ragione: perché altrimenti avresti impedito agli Urgali di partecipare alla presa di Belatona? Perché hai ordinato loro di non entrare in città? Tenerli lontani dal campo di battaglia non è sufficiente, Nasuada. Voci della loro presenza si diffondono in tutto il Paese. L’unica cosa da fare è porre fine a questo accordo scellerato prima che ci provochi danni maggiori.» «Non posso.» Orrin si voltò di scatto verso di lei, furioso. «Gli uomini stanno morendo perché tu hai deciso di accettare l’aiuto di Garzhvog. Quest’alleanza non vale il loro sacrificio, e giuro sulla mia anima che non capisco proprio perché ti ostini a difenderla.» Nasuada non riuscì a sostenere il suo sguardo: vi leggeva lo stesso senso di colpa e le stesse recriminazioni che così spesso la tormentavano quando cercava di addormentarsi.

Fissò invece il fumo che si levava da una torre ai margini della città. Quando alla fine rispose, lo fece scandendo bene le parole: «La difendo perché spero che nel preservare la nostra unione con gli Urgali salveremo più vite di quante ne perderemo... Se sconfiggiamo Galbatorix...» Orrin non riuscì a trattenere un’esclamazione d’incredulità. «Non possiamo averne la certezza» proseguì lei, «lo so. Ma dobbiamo pensare a cosa accadrebbe se questa eventualità dovesse diventare realtà. Se lo sconfiggiamo, allora toccherà a noi aiutare la nostra razza a riprendersi dal conflitto e a ricostruire dalle ceneri dell’Impero un nuovo Paese più forte. E parte di questo progetto sarà garantire, dopo cento anni di lotte, una pace duratura. Non deporrò Galbatorix solo per ritrovarmi con gli Urgali che ci attaccano proprio quando siamo più deboli.» «Potrebbero farlo comunque. L’hanno sempre fatto.» «Quali altre possibilità abbiamo?» ribatté lei, seccata. «Dobbiamo cercare di tenerli buoni. Più li coinvolgiamo nella nostra causa, meno sarà probabile che ci si rivoltino contro.» «Te lo dico io quali altre possibilità abbiamo» ringhiò il re. «Bandiscili. Rompi il patto con Nar Garzhvog e scaccia lui e i suoi arieti. Se vinciamo questa guerra, allora potremo negoziare con loro un nuovo trattato dettando noi le condizioni. Meglio ancora, manda Eragon e Saphira sulla Grande Dorsale con un battaglione di uomini per spazzarli via dalla faccia della terra una volta per tutte, come avrebbero dovuto fare i Cavalieri dei Draghi secoli fa.» Nasuada lo guardò esterrefatta. «Se rompo il nostro patto con gli Urgali scatenerò la loro ira e ci attaccheranno subito. Non possiamo combattere allo stesso tempo contro gli Urgali e l’Impero. Attirare su di noi questa sciagura sarebbe il colmo della follia. Se nella loro saggezza gli elfi, i draghi e i Cavalieri hanno deciso di tollerare l’esistenza degli Urgali, anche se avrebbero potuto distruggerli con facilità, allora noi dobbiamo seguire il loro esempio. Loro sapevano che sarebbe stato un errore uccidere gli Urgali, e dovresti saperlo anche tu.» «La loro saggezza... bah! Ho visto dove li ha condotti la loro saggezza! Bene, allora lasciane in vita qualcuno, ma fai fuori tutti gli altri perché non osino più mettere le corna fuori dalle loro tane per cent’anni e anche più!» Dalla voce del re trapelava un tale dolore e il suo viso era così contratto che Nasuada si fermò a riflettere. Lo studiò a fondo, nel tentativo di capire la ragione di tanta veemenza. Dopo qualche istante la folgorò una spiegazione che le sembrava la più plausibile. «Chi hai perso?» chiese. Orrin strinse il pugno e lo calò sul davanzale lentamente, come se volesse frantumarlo con tutta la sua forza ma non osasse farlo. Batté sul davanzale altre due volte, poi disse: «Un amico con cui sono cresciuto al Castello Farnaci. Non credo tu l’abbia mai conosciuto. Era uno dei luogotenenti della mia cavalleria.» «Com’è morto?» «Come puoi immaginare. Eravamo appena arrivati alle scuderie vicino ai cancelli ovest della città e le stavamo ispezionando per poterle usare in seguito quando uno degli stallieri è corso fuori con un forcone e l’ha infilzato. Quando lo abbiamo bloccato ha cominciato a farneticare degli Urgali, a urlare che non si sarebbe mai arreso. Ma anche se l’avesse fatto, non gli sarebbe servito a niente. L’ho ucciso con le mie mani.»

«Mi dispiace» disse Nasuada. Le gemme incastonate nella corona di re Orrin scintillarono quando il nano annuì. «Per quanto sia penoso, non puoi permettere al tuo dolore di influenzare le tue decisioni. Non è facile, lo so, non credere che non ti capisca! Ma devi mostrarti più forte di quanto sei, per il bene del tuo popolo.» «Più forte di quanto sono» le fece eco Orrin in tono amaro. «Sì. Da noi si esige di più che dagli altri. Quindi dobbiamo dimostrare di essere migliori e più forti per provare che meritiamo questa responsabilità. Gli Urgali hanno ucciso mio padre, non dimenticarlo, ma ciò non mi ha impedito di stringere un’alleanza che potrebbe aiutare i Varden. Non permetterò a niente e a nessuno di impedirmi di fare ciò che è meglio per loro e per il nostro esercito, per quanto doloroso possa essere.» Tese le braccia e gli mostrò di nuovo le cicatrici. «È questa la tua risposta, dunque? Non romperai il patto con gli Urgali?» «No.» Orrin accettò la decisione con una calma che la turbò. Il re si appoggiò di nuovo al davanzale con tutte e due le mani e tornò a studiare la città. Alle dita portava quattro grandi anelli, uno col sigillo reale del Surda inciso sulla parte piatta di un’ametista: un cervo dai grandi palchi con ramoscelli di vischio fra le zampe, in piedi sopra un’arpa, e di fronte a lui l’immagine di un’alta torre fortificata. «Almeno non abbiamo incontrato altri soldati stregati perché non sentissero il dolore» disse Nasuada. «I morti che ridono, vuoi dire» borbottò Orrin usando il termine diffuso fra i Varden. «Già, e nemmeno Murtagh e Castigo, ed è questo che mi preoccupa.» Per un po’ rimasero in silenzio. Poi Nasuada riprese: «Com’è andato il tuo esperimento di ieri notte? Ha avuto successo?» «Ero troppo stanco per provarci. Sono andato a dormire.» «Ah.» Dopo qualche altro istante i due, come per tacito accordo, si avvicinarono alla grande scrivania addossata a una parete. Era ingombra di montagne di carte, libri e pergamene. Nasuada contemplò quel panorama desolante e sospirò. Soltanto mezz’ora prima la scrivania era vuota, il piano perfettamente spolverato. Si concentrò sul rapporto – che già aveva avuto modo di scorrere – in cima al mucchio: la stima del numero di prigionieri che i Varden avevano catturato durante l’assedio di Belatona, con i nomi dei personaggi di spicco scritti in rosso. Poco prima, quando Farica era venuta a toglierle le bende, lei e Orrin stavano discutendo proprio di quelle cifre. «Non mi viene in mente nessuna soluzione per uscire da questa incresciosa situazione» ammise. «Potremmo reclutare delle sentinelle fra la popolazione locale. Così non saremmo costretti a lasciare indietro tanti dei nostri guerrieri.» Nasuada prese in mano il rapporto. «È un’idea, ma sarà difficile trovare tutti gli uomini che ci servono, e i nostri stregoni sono già sovraccarichi di lavoro...»

«Il Du Vrangr Gata ha scoperto come infrangere un giuramento fatto nell’antica lingua?» Quando Nasuada scosse il capo, Orrin domandò ancora: «Nessun progresso?» «Niente di concreto. Mi sono persino rivolta agli elfi, ma in tutti i loro anni di ricerche non hanno avuto più fortuna di noi che ci lavoriamo da pochi giorni.» «Se non risolviamo subito questo problema, potrebbe costarci la sconfitta» disse Orrin. Nasuada si massaggiò le tempie. «Lo so.» Prima di lasciare il rifugio protetto dei nani a Tronjheim nel Farthen Dûr, aveva cercato di anticipare ogni possibile ostacolo che i Varden avrebbero dovuto affrontare una volta deciso di sferrare l’offensiva. Questo, però, l’aveva colta del tutto impreparata. Si era manifestato la prima volta subito dopo la battaglia delle Pianure Ardenti, quando era risultato chiaro che tutti gli ufficiali dell’esercito di Galbatorix, e la maggior parte dei soldati semplici, erano stati costretti a giurare lealtà a Galbatorix e all’Impero nell’antica lingua. Lei e Orrin si erano resi conto ben presto che non avrebbero mai potuto fidarsi di quegli uomini, almeno finché Galbatorix e l’Impero non fossero stati distrutti, e probabilmente anche dopo. Di conseguenza non potevano permettere ai disertori di unirsi ai Varden, nel timore che il giuramento li costringesse a rivoltarsi contro i ribelli. All’epoca Nasuada non si era preoccupata troppo: i prigionieri erano uno dei tanti aspetti della guerra, e si era già accordata con re Orrin affinché questi venissero portati nel Surda, dove avrebbero costruito strade, spaccato pietre, scavato canali e cose del genere. Fu soltanto quando i Varden conquistarono Feinster che Nasuada colse la reale gravità del problema. Gli agenti del re Galbatorix avevano estorto giuramenti di lealtà non solo ai soldati della città, ma anche ai nobili, a gran parte dei funzionari e a una rosa apparentemente casuale di cittadini comuni. Nasuada sospettava che ce ne fossero ancora molti non identificati, ma quelli sicuri erano stati incarcerati perché non tentassero di corrompere la sua gente. A quel punto, trovare persone di cui fidarsi e che volevano collaborare con i Varden si era rivelato molto più difficile del previsto. A causa del numero spropositato di prigionieri da tenere sotto controllo, Nasuada era stata costretta a lasciare a Feinster il doppio dei guerrieri che avrebbe voluto; peggio ancora, con la stragrande maggioranza degli abitanti imprigionata, le attività cittadine erano praticamente paralizzate e Nasuada aveva dovuto rinunciare a una parte dei viveri necessari ai Varden per impedire al popolo di morire di fame. Non potevano sostenere ancora a lungo quella situazione, che minacciava di peggiorare dopo la conquista di Belatona. «Peccato che i nani non siano ancora arrivati» disse Orrin. «Il loro aiuto sarebbe prezioso.» Nasuada annuì. Al momento con i Varden c’erano soltanto un paio di centinaia di nani; il resto era tornato nel Farthen Dûr per le esequie di re Rothgar, caduto in battaglia, e per aspettare che i capiclan eleggessero il successore. Nasuada si sentiva ribollire di collera ogni volta che ci pensava. Aveva tentato di convincerli a nominare un reggente per la durata della guerra, ma i nani erano duri come pietre e avevano insistito per seguire le antiche cerimonie tradizionali, anche se voleva dire abbandonare i Varden nel bel mezzo della campagna militare. In ogni caso, alla fine avevano scelto il nuovo re, Orik, nipote di Rothgar, e si erano rimessi in marcia dai lontani Monti Beor per tornare dai Varden. In quel momento stavano ancora attraversando le vaste pianure a nord del Surda, da qualche parte fra il Lago Tüdosten e il fiume Jiet.

Nasuada si domandava se al loro arrivo sarebbero stati in grado di combattere. Di norma i nani sono più robusti degli umani, ma avevano passato gli ultimi due mesi a viaggiare a piedi, un’impresa capace di minare la resistenza anche delle creature più forti. Devono essere stanchi di vedere sempre lo stesso panorama, pensò. «Abbiamo già troppi prigionieri. E una volta che avremo preso Dras-Leona...» Nasuada scosse il capo. Animato da un improvviso entusiasmo, Orrin disse: «E se evitassimo Dras-Leona?» Frugò tra i fogli sparsi sulla scrivania finché non trovò una grande mappa di Alagaësia disegnata dai nani, che sfilò da sotto la montagna di registri e distese meglio che poteva. Le protuberanze dei documenti e dei libri conferivano alla cartina una topografia insolita: picchi a ovest della Du Weldenvarden; una profonda depressione dove c’erano i Monti Beor; canyon e crepacci al centro del deserto di Hadarac; e onde marine nella parte più settentrionale della Grande Dorsale, dovute ai rotoli di pergamena che si trovavano sotto. «Guarda.» Tracciò col dito una linea da Belatona alla capitale dell’Impero, Urû’baen. «Se marciamo diritti fin qui, non dobbiamo passare per Dras-Leona. Lo so che sarà difficile compiere tutto il tragitto in una volta, ma possiamo farcela.» Nasuada non aveva bisogno di riflettere: aveva già preso in considerazione questa possibilità. «Il rischio sarebbe troppo alto. Galbatorix potrebbe comunque attaccarci con i soldati di stanza a Dras-Leona, che non sono pochi a giudicare dai rapporti delle nostre spie. E alla fine ci ritroveremmo a combattere su due fronti, il modo più sicuro di perdere una battaglia, o una guerra. No, dobbiamo prima prendere Dras-Leona.» Orrin gliene diede atto con un cenno del capo. «Allora dobbiamo richiamare gli uomini da Arughia. Ci serve ogni guerriero disponibile se vogliamo proseguire così.» «Lo so. Intendo portare a termine l’assedio prima della fine della settimana.» «Non mandando lì Eragon, spero.» «No. Ho un altro piano.» «Bene. E nel frattempo? Cosa facciamo di questi prigionieri?» «Quello che abbiamo sempre fatto: sentinelle, recinti e lucchetti. Possiamo anche provare a contenerli con qualche incantesimo che ne limiti i movimenti, per non doverli sorvegliare così da vicino. Altrimenti non vedo altre soluzioni se non massacrarli tutti, ma preferirei...» cercò di immaginare fino a che punto sarebbe arrivata per sconfiggere Galbatorix, «preferirei non dover ricorrere a misure troppo drastiche.» «Giusto.» Orrin si chinò sulla mappa; mentre scrutava le linee d’inchiostro sbiadito che segnavano il triangolo delle città di Belatona, Dras-Leona e Urû’baen, incurvò le spalle come un avvoltoio. Rimase così finché Nasuada non disse: «C’è altro di cui dobbiamo parlare? Jörmundur aspetta gli ordini e il Consiglio degli Anziani mi ha chiesto udienza.» «Sono preoccupato.» «Per cosa?» Orrin fece un ampio gesto con la mano. «Che questa impresa sia nata male fin dal principio. Che le nostre forze e quelle dei nostri alleati siano troppo disperse: se Galbatorix decidesse di scendere in campo di persona ci annienterebbe con la stessa facilità con cui Saphira spazza via un gregge di pecore. Bisogna riuscire a far incontrare Galbatorix,

Eragon, Saphira e quanti più stregoni possibile nello stesso luogo. Al momento nei nostri ranghi contiamo solo una minima parte di quegli stregoni e non potremo radunare gli altri finché non saremo arrivati a Urû’baen per incontrarci con la regina Islanzadi e il suo esercito. Fino ad allora resteremo pericolosamente vulnerabili agli attacchi. Rischieremmo troppo a scommettere sull’ipotesi che l’arroganza di Galbatorix lo tenga a freno finché la trappola che gli abbiamo preparato non scatterà.» Nasuada condivideva le perplessità del re. D’altro canto era molto più importante alimentare la fiducia di Orrin che non la sua angoscia, perché se la sua determinazione fosse venuta meno, il suo umore avrebbe interferito con i suoi doveri e minato il morale dei suoi uomini. «Non siamo del tutto inermi» disse. «Non più. Adesso abbiamo la Dauthdaert e credo che potremmo effettivamente uccidere Galbatorix e Shruikan, se dovessero uscire dai confini di Urû’baen.» «Può darsi.» «E poi preoccuparsi non serve a niente. Non possiamo affrettare la marcia dei nani, né la nostra avanzata su Urû’baen, non possiamo abbandonare tutto e fuggire. Perciò non tormentarti più del necessario. Tutto quello che possiamo fare è accettare il nostro destino di buon grado, qualunque esso sia. Altrimenti permetteremmo al pensiero delle possibili mosse di Galbatorix di avvelenarci la mente, e io non voglio farlo. Mi rifiuto di dargli un tale potere su di me.» [eBookLove - eBL 043] Christopher Paolini - Inheritance [by Pico]

UN PARTO DIFFICILE Un urlo: acutissimo, roco, straziante, ai limiti dell’umano per potenza e volume. Eragon trasalì, i muscoli tesi, come se qualcuno lo avesse punto con un ago. Aveva trascorso buona parte della giornata a guardare uomini che combattevano e morivano, uccidendone parecchi, eppure non poteva fare a meno di provare una profonda angoscia nel sentire le grida di dolore di Elain. Quei suoni erano così terribili che il Cavaliere cominciava a temere che non sarebbe sopravvissuta al parto. Accanto a lui, vicino al barile su cui era seduto, Albriech e Baldor se ne stavano accovacciati in silenzio e strappavano i radi fili d’erba. Le loro dita massicce afferravano ogni stelo con metodica precisione prima di passare al successivo. Avevano la fronte imperlata di sudore e lo sguardo accigliato, colmo di rabbia e disperazione. Di tanto in tanto si scambiavano un’occhiata oppure guardavano al di là del sentiero la tenda dove si trovava la madre, ma per la maggior parte del tempo fissavano il terreno, astraendosi da ciò che avveniva intorno a loro. A qualche passo di distanza anche Roran era adagiato su un barile, che però era coricato su un fianco e dondolava a ogni sua mossa. Ai margini del sentiero fangoso si era radunata una piccola folla di abitanti di Carvahall, amici di Horst e dei suoi figli, o uomini che avevano le mogli impegnate ad aiutare la guaritrice Gertrude che assisteva Elain. E a torreggiare su tutti c’era Saphira. Aveva il collo curvo in avanti come un arco teso, e la sua coda fremeva come quando andava a caccia. Continuava a far guizzare la lingua rossa per saggiare l’aria, in cerca di qualche odore che potesse darle indizi sulle condizioni di Elain o del nascituro. Eragon si massaggiò un muscolo dolente del braccio sinistro. Aspettavano da parecchie ore ormai, ed era quasi il crepuscolo. Le ombre erano lunghe, nere, tese verso est come a voler toccare l’orizzonte. Si era fatto più freddo, e nugoli di zanzare e moscerini danzavano sul fiume Jiet. Un altro urlo squarciò il silenzio. Gli uomini si agitarono, inquieti, facendo qualche gesto per scacciare il malocchio e mormorando a voce bassa per farsi sentire solo dal vicino. Eragon li udiva perfettamente. Parlavano della difficile gravidanza di Elain; alcuni affermavano con gravità che se non avesse partorito in fretta, per lei e il bambino non ci sarebbe stato più nulla da fare. Altri dicevano: «È già dura per un uomo perdere la moglie in condizioni normali, figuriamoci in questo posto, adesso...» oppure: «È un vero peccato, una vera...» Molti attribuivano la colpa ai Ra’zac e agli eventi capitati durante il viaggio dei profughi di Carvahall verso i Varden. E più d’uno borbottò qualche commento sprezzante sul fatto che avevano permesso ad Arya di assistere al parto. «È un’elfa, non un’umana» disse Fisk il carpentiere. «Dovrebbe stare con quelli della sua razza, non andarsene in giro a immischiarsi in cose che non la riguardano. Chi può sapere cos’ha davvero in mente, eh?» Eragon sentì tutto questo e altro ancora, ma nascose le sue emozioni e mantenne la calma, perché sapeva che i compaesani si sarebbero allarmati se avessero saputo che il suo udito si era fatto così acuto. Il barile di Roran scricchiolò quando lui si protese in avanti. «Pensate che dovremmo...»

«No» disse Albriech. Eragon si strinse il mantello intorno alle spalle. Il freddo cominciava a penetrargli nelle ossa, ma non se ne sarebbe andato per niente al mondo, non finché il travaglio di Elain non fosse finito. «Guardate» disse Roran con improvvisa eccitazione. Albriech e Baldor voltarono il capo. Dall’altro lato del sentiero Katrina uscì dalla tenda con un fagotto di panni sporchi in mano. Prima che il lembo dell’ingresso si richiudesse, Eragon intravvide Horst e una delle donne di Carvahall – non era sicuro chi fosse – ai piedi della branda su cui giaceva Elain. Senza degnare gli uomini in attesa di un solo sguardo, Katrina si affrettò verso il fuoco dove la moglie di Fisk, Isold, e Nolla stavano facendo bollire gli stracci per riutilizzarli. Il barile scricchiolò altre due volte quando Roran cambiò posizione. Eragon si era aspettato che si alzasse per andare da Katrina, ma il cugino rimase dov’era, come anche Albriech e Baldor. Tutti seguivano i movimenti di Katrina con grande attenzione. Eragon fece una smorfia quando risuonò l’ennesimo grido di Elain, non meno lacerante dei precedenti. Poi il lembo della tenda si scostò ancora e Arya uscì come un turbine, scarmigliata, le braccia nude. Camminava così in fretta che i capelli le svolazzavano intorno al viso. Si avvicinò a grandi passi a tre degli undici elfi di scorta a Eragon, appostati in una pozza di oscurità accanto a un padiglione lì vicino, e si rivolse con fare concitato a un’elfa dal volto affilato di nome Envya. Poi tornò indietro di corsa. Eragon riuscì a raggiungerla prima che rientrasse. «Come va?» domandò. «Male.» «Perché ci vuole tanto? Non puoi aiutarla a partorire più in fretta?» L’espressione di Arya, già tirata, si fece ancora più severa. «Certo che potrei. Avrei potuto far uscire quel bambino dal grembo di Elain già nella prima mezz’ora, senza troppo sforzo, ma Gertrude e le altre donne mi hanno permesso di usare soltanto gli incantesimi più elementari.» «È assurdo. Perché?» «Perché la magia le spaventa. Io le spavento.» «Allora spiega loro che non vuoi farle alcun male. Parla nell’antica lingua, e loro non potranno che crederti.» Arya scosse il capo. «Servirebbe soltanto a peggiorare le cose. Crederebbero che voglio stregarle contro la loro volontà, e mi scaccerebbero.» «Ma di certo Katrina...» «È solo grazie a Katrina se ho potuto evocare quei semplici incantesimi.» Elain urlò di nuovo. «Non ti consentono nemmeno di alleviarle il dolore?» «Non più di quanto abbia già fatto.» Eragon si voltò verso la tenda di Horst. «Lo vedremo» sibilò a denti stretti.

Una mano si strinse intorno al suo braccio sinistro, bloccandolo. Confuso, Eragon guardò Arya in cerca di una spiegazione. L’elfa fece no con il capo. «Non andare» disse. «Le origini di queste usanze si perdono nella notte dei tempi. Se interferisci, metterai Gertrude in imbarazzo, lei si arrabbierà e gran parte delle donne del tuo villaggio ti si rivolterà contro.» «Non m’importa un accidenti!» «Lo so, ma fidati di me; in questo momento la cosa più saggia che puoi fare è aspettare con gli altri uomini.» E come a enfatizzare la frase, gli lasciò libero il braccio. «Non posso restarmene qui a guardare mentre lei soffre!» «Ascoltami! È meglio se resti qui. Io aiuterò Elain come posso, te lo prometto, ma tu non entrare. Scateneresti rabbia e rancori di cui certo adesso nessuno ha bisogno... Per favore.» Eragon esitò, poi ringhiò, furioso, e alzò le mani, mentre Elain gridava ancora. «Bene» disse, avvicinandosi all’orecchio di Arya, «ma qualunque cosa succeda non lasciare che lei o il bambino muoiano. Non m’importa cosa dovrai fare, ma non lasciarli morire.» Arya lo fissò. «Non permetterei mai che un bambino innocente morisse» concluse, e si allontanò. Quando l’elfa scomparve nella tenda di Horst, Eragon tornò da Roran, Albriech e Baldor, e si sedette di nuovo sul barile. «Allora, che ha detto?» chiese Roran. Eragon si strinse nelle spalle. «Stanno facendo tutto il possibile. Dobbiamo pazientare, tutto qui.» «Mi pare che la conversazione sia stata molto più lunga» commentò Baldor. «Il succo è questo.» Il sole passò dall’arancio al cremisi via via che si avvicinava ai confini del mondo, tingendo dello stesso colore le poche nuvole frastagliate del cielo a ovest, residui della tempesta che si era scatenata qualche ora prima. Stormi di rondini volavano in picchiata per procurarsi la loro cena a base di mosche, falene e altri insetti che ronzavano nei paraggi. Col passare dei minuti le grida di Elain si fecero meno forti: le urla a pieni polmoni di poco prima si ridussero a inquietanti gemiti strozzati. Avrebbe fatto di tutto per liberarla da quel tormento, ma non poteva ignorare l’ammonimento di Arya, così rimase dov’era, a rosicchiarsi le unghie, scambiando di tanto in tanto qualche frase con Saphira. Quando toccò la terra, il sole parve spandersi per tutto l’orizzonte come un gigantesco tuorlo colato dal guscio. I pipistrelli cominciarono a mescolarsi alle rondini, battendo frenetici le ali: i loro versi acutissimi erano una tortura per le orecchie di Eragon. Poi Elain lanciò un urlo che sovrastò qualsiasi altro rumore nelle vicinanze, uno di quelli che ci si augura di non dover sentire mai più. Poi un breve, profondo silenzio. Infine i sonori, singhiozzanti vagiti di un neonato, la primordiale fanfara che annuncia l’arrivo di una nuova creatura nel mondo. A quel suono Albriech e Baldor sorrisero, come anche Eragon e Roran, e molti degli uomini in attesa lanciarono esclamazioni di esultanza.

Un’esultanza di breve durata, purtroppo. Mentre l’ultimo grido di giubilo si spegneva, le donne nella tenda iniziarono a piangere, un suono stridulo e colmo di dolore, da gelare il sangue. Eragon sapeva che cosa significavano quei lamenti, che erano uguali da sempre: la peggiore delle tragedie si era abbattuta su di loro. «No» mormorò, incredulo, scattando in piedi. Non può essere morta. Non può... Arya me l’ha promesso. Come in risposta ai suoi pensieri, Arya scostò il lembo della tenda con uno strattone e corse verso di lui, raggiungendolo a lunghi balzi. «Cos’è successo?» chiese Baldor quando l’elfa si fermò davanti a loro. Arya lo ignorò e disse: «Eragon, vieni subito.» «Cos’è successo?» ripeté Baldor, infuriato, e tese una mano verso la spalla di Arya. Con una mossa fulminea, quasi impossibile da cogliere a occhio nudo, l’elfa gli afferrò il polso e gli torse il braccio dietro la schiena, costringendolo a piegarsi come uno storpio. Il volto di Baldor divenne una maschera di dolore. «Se vuoi che la tua sorellina viva, fatti da parte e non immischiarti!» Arya lo liberò con uno spintone, mandandolo a finire fra le braccia di Albriech, poi si voltò e corse di nuovo verso la tenda di Horst. «Cosa è successo?» chiese Eragon quando l’ebbe raggiunta. Arya si voltò a guardarlo con occhi fiammeggianti. «La bambina sta bene, ma è nata col labbro leporino.» In quel momento Eragon capì la ragione dei lamenti delle donne. Un bambino nato col labbro leporino di rado sopravviveva; era difficile da nutrire, e anche quando i genitori ci riuscivano, conduceva una vita miserevole: isolato, oggetto di scherzi e battute; da grande difficilmente si sarebbe sposato. Nella maggior parte dei casi sarebbe stato meglio per tutti se il bambino fosse nato morto. «Devi guarirla, Eragon» disse Arya. «Io? Ma non ho mai... Perché non tu? Tu sei molto più esperta di me nelle guarigioni.» «Se trasformo l’aspetto della neonata diranno che l’ho rapita e sostituita con un’altra. Sai bene le storie che circolano sulla mia razza fra la tua gente, Eragon. Lo farò, se devo, ma la bambina ne soffrirà per sempre. Tu sei l’unico che può salvarla da questo destino atroce.» Eragon si sentì cogliere dal panico. Non voleva essere responsabile della vita di un’altra persona: erano fin troppi quelli che dipendevano da lui. «Devi guarirla» insistette Arya. Eragon rammentò quanta importanza gli elfi riservavano non solo ai loro rari e preziosi bambini, ma ai bambini di tutte le razze. «Mi aiuterai, se ne avrò bisogno?» «Contaci.» E conta anche su di me, intervenne Saphira. Non devi nemmeno chiedere. «D’accordo» disse Eragon, stringendo risoluto il pomolo di Brisingr. «Lo farò.» Con Arya che lo seguiva, Eragon si avviò spedito verso la tenda e s’infilò dentro scostando i pesanti lembi di lana. Il fumo di candela gli pizzicò gli occhi. Cinque donne di Carvahall se ne stavano addossate a una parete: i loro lamenti lo colpirono come un maglio.

Dondolavano come in trance e si artigliavano le vesti e i capelli, piangendo. Horst era ai piedi della branda e discuteva con Gertrude: il fabbro aveva il volto rosso, gonfio, segnato dalla stanchezza. La florida guaritrice teneva un fagotto di stracci stretto al petto; Eragon intuì che dentro doveva esserci la neonata, anche se non la vedeva in viso, perché il fagotto si contorceva e urlava, sommando la sua voce al trambusto. Le guance rotonde di Gertrude scintillavano di sudore. Aveva i capelli incollati alla pelle e le braccia nude e sporche. Al capezzale della partoriente, Katrina, inginocchiata su un cuscino, tamponava la fronte di Elain con un panno umido. Eragon la riconobbe a stento: la donna aveva il volto pallido e sfatto, e due aloni scuri intorno agli occhi vitrei che sembravano incapaci di mettere a fuoco. Due rivoli di lacrime le scorrevano fin sulle tempie per svanire fra i capelli scarmigliati. Apriva e chiudeva la bocca mormorando parole incomprensibili. A coprirle il corpo, un lenzuolo macchiato di sangue. Horst e Gertrude non si accorsero di Eragon finché lui non si avvicinò. Il giovane era cresciuto da quando aveva lasciato Carvahall, ma il fabbro ancora lo superava di una spanna. Quando i due si voltarono a guardarlo, un barlume di speranza illuminò il volto tetro di Horst. «Eragon!» L’uomo gli mise una mano sulla spalla e vi si appoggiò, come se gli eventi lo avessero lasciato privo di forze. «Hai saputo?» Eragon annuì. Horst scoccò una rapida occhiata a Gertrude, poi la sua folta barba quadrata fremette quando si inumidì le labbra. «Credi... credi di poter fare qualcosa per lei?» «Può darsi» rispose Eragon. «Ci proverò.» Tese le braccia. Dopo un attimo di esitazione Gertrude gli passò il tiepido fagotto, poi si ritrasse, preoccupata. Sepolto fra le pieghe di tessuto c’era il faccino grinzoso della neonata. Aveva la pelle paonazza, gli occhi gonfi e chiusi, e faceva le smorfie, quasi a mostrarsi contrariata di aver ricevuto quella brutta accoglienza, una reazione che Eragon considerava perfettamente comprensibile. La sua caratteristica più evidente, tuttavia, era l’ampia fessura che dalla narice sinistra scendeva fino al centro del labbro superiore, lasciando intravvedere la piccola lingua rosa, come una morbida lumachina che di tanto in tanto si contorceva. «Ti prego» lo supplicò Horst. «Qualunque cosa...» Eragon trasalì quando le lamentazioni delle donne raggiunsero un tono particolarmente acuto. «Non posso farlo qui» le informò. Non appena si voltò per andarsene, Gertrude gli disse: «Vengo con te. Bisogna che ci sia una di noi che sappia come prendersi cura di un neonato.» Eragon non voleva Gertrude fra i piedi mentre cercava di guarire il faccino della neonata, e stava per dirle di no, quando rammentò ciò che Arya gli aveva riferito a proposito dei bambini scambiati. Era necessario che un membro della comunità di Carvahall, una persona di cui gli altri compaesani si fidavano, fosse presente alla guarigione della bambina per poter poi rassicurare la gente sul fatto che era sempre la stessa. «Come preferisci» rispose, rinunciando a obiettare. La neonata si agitò fra le sue braccia e cominciò a piangere mentre uscivano dalla tenda. Dall’altro lato del sentiero gli uomini parlottavano. Albriech e Baldor si alzarono per

avvicinarsi. Eragon fece no con il capo e i due fratelli si fermarono, rivolgendogli un’occhiata colma di disperazione. Arya e Gertrude si affiancarono a Eragon, e i tre s’incamminarono verso la tenda di quest’ultimo, con Saphira al seguito: i suoi passi facevano tremare il terreno. I guerrieri che affollavano l’accampamento si divisero in due ali per farli passare. Eragon cercò di mantenere un’andatura costante per evitare sussulti alla neonata, che emanava un forte odore di muffa, simile al sottobosco in una calda giornata estiva. Erano quasi arrivati a destinazione quando Eragon scorse la strega-bambina, Elva, immobile tra due file di tende: lo fissava con i grandi occhi viola e un’espressione grave e solenne. Indossava un abito nero e porpora, con un lungo velo di pizzo sul capo che le lasciava scoperta la fronte, dove brillava il marchio argentato a forma di stella molto simile al gedwëy ignasia di Eragon. Non disse una parola, né cercò di rallentarlo o di fermarlo, ma Eragon colse il suo avvertimento, perché la presenza stessa della bambina era un monito per lui. Già una volta si era intromesso nel destino di una neonata, con terribili conseguenze; non si sarebbe concesso un altro errore, non solo per il danno che avrebbe potuto causare, ma perché se l’avesse fatto Elva sarebbe diventata sua nemica giurata. Malgrado tutto il suo potere, Eragon aveva paura di lei. La sua capacità di leggere nell’anima delle persone, di percepirne il dolore e i tormenti, e anche di prevedere che cosa le avrebbe fatte soffrire la rendeva una delle creature più pericolose di tutta Alagaësia. Qualunque cosa succeda, pensò Eragon entrando nella tenda buia, non voglio fare del male a questa bambina. E sentì crescere dentro di sé la feroce determinazione a darle una possibilità di vivere la vita che il caso le aveva negato.

NINNANANNA La fievole luce del sole morente filtrava nella tenda di Eragon, ammantando ogni cosa di un grigio uniforme, come se tutto fosse scolpito nel granito. Grazie alla sua vista da elfo, Eragon riusciva a distinguere gli oggetti intorno a lui, ma sapeva che Gertrude avrebbe avuto difficoltà a muoversi, così per il suo bene disse: «Naina hvitr un böllr» e generò un piccolo fuoco fatuo, che rimase a fluttuare sotto il vertice della tenda. Il tenue globo bianco non produceva calore ma forniva luce come una lanterna. Eragon si astenne dal pronunciare la parola brisingr nell’incantesimo per evitare che la sua spada prendesse fuoco. Sentì Gertrude fermarsi alle sue spalle e si voltò verso di lei. La donna stava fissando il fuoco fatuo e stringeva al petto la borsa che aveva portato con sé. Il suo viso familiare rammentava a Eragon l’infanzia, la sua vecchia casa, Carvahall, e gli suscitò un’improvvisa nostalgia. Gertrude lo guardò. «Quanto sei cambiato» mormorò. «Il ragazzino che una volta ho curato dalla febbre non c’è più.» «Sono sempre lo stesso» disse lui. «No, non credo proprio.» L’affermazione della donna lo turbò, ma Eragon non aveva tempo per rifletterci, così scacciò quel pensiero dalla mente e si avvicinò alla branda. Con delicatezza depose la neonata sulle coperte, accorto e premuroso, come se fosse fatta di vetro. La bambina agitò un piccolo pugno contro di lui. Il Cavaliere sorrise e lo sfiorò col polpastrello dell’indice. La neonata gorgogliò. «Che cosa pensi di fare?» gli domandò Gertrude sedendosi sull’unico sgabello. «Come hai intenzione di guarirla?» «Non lo so ancora.» Soltanto allora Eragon si accorse che Arya non li aveva accompagnati fin dentro la tenda. La chiamò e un istante dopo lei rispose da fuori, la voce attutita dallo spesso strato di tessuto che li separava. «Sono qui» disse l’elfa. «E qui aspetterò. Se avrai bisogno del mio aiuto, basta che volga i tuoi pensieri verso di me e io verrò.» Eragon aggrottò le sopracciglia. Aveva contato sulla sua presenza, per assisterlo laddove gli fosse sfuggito qualcosa o per correggerlo in caso di errore. D’accordo, non importa. Posso sempre interpellarla con la mente. Anzi, meglio, così Gertrude non avrà motivo di sospettare che Arya prenda parte alla guarigione della bambina. Era colpito dalle precauzioni prese da Arya per evitare qualsiasi sospetto di scambio di neonati, e si domandò se per caso l’elfa non fosse già stata accusata di aver rapito il figlio di qualcuno. La branda scricchiolò quando Eragon si sedette accanto alla neonata. I solchi sulla sua fronte si fecero più profondi. Sentì che attraverso i suoi occhi Saphira osservava la bambina che sonnecchiava sulle coperte ignara del mondo. La piccola lingua rosa luccicava umida nella fessura che le deturpava il labbro superiore. Cosa ne pensi?, domandò Eragon. Vacci piano, così non ti mordi la coda per sbaglio.

Il Cavaliere annuì, poi le chiese malizioso: A te è mai capitato? Di morderti la coda, intendo. La dragonessa rimase in silenzio, ma Eragon colse comunque una serie di brevi sensazioni: un misto di immagini – alberi, erba, sole, le montagne della Grande Dorsale –, poi il greve profumo delle orchidee rosse e un’improvvisa fitta lancinante, come se qualcuno le avesse chiuso la coda in una porta. Eragon ridacchiò, poi si concentrò sulla formula degli incantesimi che riteneva necessari a guarire la bambina. Impiegò quasi mezz’ora. Lui e Saphira trascorsero la maggior parte del tempo a ripetere gli arcani sortilegi, sezionando ogni frase, studiando ogni parola, correggendo persino la pronuncia, allo scopo di garantire che la magia corrispondesse perfettamente alle loro intenzioni, senza conseguenze indesiderate. A un certo punto di quella loro conversazione silenziosa, Gertrude parve agitarsi e disse: «La bambina mi pare tale e quale. Non funziona, vero? Non devi nascondermi la verità, Eragon. Ho dovuto affrontare cose ben peggiori.» Eragon inarcò un sopracciglio e con voce calma rispose: «Non ho ancora cominciato.» Gertrude si accasciò sullo sgabello, mortificata. Trasse dalla borsa un gomitolo giallo, una maglia finita a metà e un paio di aghi da calza di betulla levigata, e cominciò a sferruzzare con dita abili e svelte. Il costante ticchettio degli aghi era piacevole: Eragon ricordava di averlo udito spesso da piccolo, un suono che associava alle fredde sere d’autunno, quando ci si radunava intorno al fuoco e gli adulti raccontavano storie mentre fumavano la pipa o bevevano qualche sorso di birra scura dopo una buona cena. Alla fine, quando Eragon e Saphira decisero che gli incantesimi erano sicuri, e lui fu certo della corretta pronuncia degli strani fonemi dell’antica lingua, attinse all’energia combinata dei loro due corpi e si preparò a scandire la prima formula magica. Poi esitò. Quando gli elfi usavano la magia per dare a un albero o a un fiore la forma desiderata, o per alterare il proprio corpo o quello di un’altra creatura, evocavano sempre l’incantesimo con un canto. Eragon pensò di dover fare altrettanto, ma conosceva soltanto un paio di canti elfici, e nessuno abbastanza bene da riprodurre quelle melodie così armoniose e complesse. Allora frugò nei più remoti recessi della sua memoria e scelse una canzone con cui la zia Marian lo cullava quando era piccolo, un motivo che le donne di Carvahall intonavano da tempo immemore per i figli quando rimboccavano loro le coperte per prepararli al sonno: una ninnananna. Le note erano semplici, facili da ricordare, e sperava che il suo ritmo dolce e rassicurante lo aiutasse a tenere buona la neonata. Cominciò adagio, a bassa voce, lasciando che le parole fluissero morbide dalle sue labbra, spandendosi per la tenda come il calore emanato da un fuoco scoppiettante. Prima di usare la magia, disse nell’antica lingua alla bambina che era suo amico, che voleva farle solo del bene e che lei doveva fidarsi. La neonata si agitò nel sonno e, come a volergli rispondere, il suo faccino contratto si distese. Eragon intonò il primo incantesimo: due brevi e semplici frasi che continuò a ripetere come una preghiera. E il piccolo solco rosa fra le due parti del labbro deforme della bambina scintillò e tremolò, come se sotto la superficie si agitasse una creatura dormiente.

Non era affatto facile l’operazione che stava tentando. Le ossa della bambina, come quelle di qualunque altro neonato, erano morbide e cartilaginee, diverse da quelle di un adulto, quindi diverse da tutte le altre ossa che Eragon aveva risanato nel suo periodo di permanenza tra i Varden. Doveva stare attento a non riempire la fessura nel labbro con ossa, carne e pelle di un adulto, altrimenti quei tessuti non sarebbero cresciuti adeguatamente col resto del corpo. Inoltre al momento di saldare il palato e le gengive della bambina avrebbe dovuto spostare, raddrizzare e rendere simmetriche le radici di quelli che sarebbero diventati gli incisivi. A complicare l’operazione c’era il fatto che non aveva mai visto la bambina senza la sua deformità, perciò non sapeva come dovevano apparire le sue labbra e la sua bocca. Aveva il faccino di qualunque altro neonato: rotondo, paffuto, ancora privo di lineamenti precisi. Temeva perciò di darle un viso che sarebbe apparso grazioso al momento, ma che poteva diventare strano e brutto col passare degli anni. Così continuò con grande cautela, un piccolo cambiamento alla volta, fermandosi sempre a controllare il risultato. Cominciò con gli strati più profondi del viso della bambina, con le ossa e le cartilagini, per poi risalire sempre più in superficie, senza mai smettere di cantare. A un certo punto, dall’esterno della tenda, Saphira si unì al canto; la sua voce calda e profonda faceva vibrare l’aria. Il fuoco fatuo pulsava a seconda dell’intensità del suo mormorio, un fenomeno che Eragon trovò alquanto curioso. Decise che in seguito avrebbe chiesto spiegazioni alla dragonessa. Parola dopo parola, incantesimo dopo incantesimo, ora dopo ora, la notte si consumò senza che Eragon se ne rendesse conto. Quando la neonata si mise a piangere per la fame, la nutrì con un piccolo flusso di energia. Lui e Saphira evitavano di toccarle la mente con la propria – non sapevano se il contatto poteva influenzare la sua coscienza immatura –, ma di tanto in tanto capitava loro di sfiorarla: era vaga e indistinta, un mare burrascoso di emozioni scalpitanti che rendevano insignificante tutto il resto del mondo. Dietro di lui, gli aghi di Gertrude continuavano a ticchettare, interrompendo il ritmo costante solo quando perdeva il conto dei punti o era costretta a sfilare qualche maglia per correggere un errore. A poco a poco la fessura nel palato e nelle gengive della bambina si saldò, e i due lembi del labbro leporino si fusero, con la pelle che ondeggiava come se fosse liquida. Al loro posto comparve un morbido arco rosa, privo di difetti. Eragon indugiò ancora, preoccupato per la forma del labbro, finché Saphira gli disse: È fatta. Puoi smettere. Lui fu costretto ad ammettere che non poteva migliorare ancora l’aspetto della bambina, semmai soltanto peggiorarlo. Piano piano smise di cantare la ninnananna. Si sentiva la lingua asciutta e gonfia, la gola secca. Si alzò dalla branda, ma rimase curvo come un vecchio, troppo indolenzito per raddrizzare subito la schiena. Oltre alla luce del fuoco fatuo, un pallido bagliore illuminava la tenda, lo stesso di quando aveva cominciato. Lì per lì Eragon rimase sconcertato: il sole ormai doveva essere tramontato. Poi si rese conto che la luce veniva da est, non da ovest. Ecco perché mi sento così dolorante. Sono stato seduto tutta la notte! E allora io?, protestò Saphira. Anche a me fanno male le ossa. Eragon fu colpito da quella frase: di rado la dragonessa si lamentava dei propri disagi, per gravi che fossero. La battaglia doveva averla stancata più di quanto non gli fosse sembrato all’inizio. Quando

arrivò a questa conclusione, e Saphira la percepì attraverso il loro legame mentale, la dragonessa ribatté risentita: Stanca o no, sono ancora in grado di distruggere tutti i soldati che Galbatorix vorrà inviarci contro. Lo so. Gertrude ripose il lavoro a maglia nella borsa e si alzò, avvicinandosi alla branda. «Non avrei mai pensato di vedere una cosa del genere» ammise. «E men che mai fatta da te, Eragon Bromsson.» Gli rivolse un’occhiata penetrante. «Perché Brom era tuo padre, non è vero?» Eragon annuì, poi aggiunse con voce roca: «Sì.» «Non so perché, ma mi sembra naturale.» Eragon non aveva voglia di parlarne, così si limitò ad annuire ancora e spense il fuoco fatuo con uno sguardo e la forza del pensiero. All’improvviso tutto si fece buio, se non per la fievole luce dell’aurora. Gli occhi di Eragon si abituarono all’oscurità più in fretta di quelli di Gertrude, che aggrottò le sopracciglia, batté le palpebre, e voltò il capo da una parte e dall’altra come se non sapesse più dove si trovava. Eragon prese il fagotto morbido e caldo fra le braccia. Non capiva se la grande stanchezza che sentiva fosse dovuta alla magia che aveva evocato o più semplicemente al tempo che gli ci era voluto. Guardò la bambina e, con un improvviso istinto di protezione, mormorò: «Sé ono waíse ilia.» Che tu sia felice. Non era un vero e proprio incantesimo, ma sperava che potesse evitarle almeno parte delle sofferenze che affliggevano tante persone. O se non altro farla sorridere. Così accadde. Un ampio sorriso sdentato comparve sul faccino della neonata che con grande entusiasmo disse: «Gahh!» Anche Eragon sorrise, poi si voltò per uscire dalla tenda. Quando sollevò i lembi dell’ingresso, Eragon scoprì che davanti alla tenda, raccolta in semicerchio, si era radunata una piccola folla: alcuni erano in piedi, altri seduti, altri accovacciati. Perlopiù erano abitanti di Carvahall, ma c’erano anche Arya e gli altri elfi – un po’ in disparte – e molti guerrieri dei Varden di cui non conosceva il nome. Scorse Elva che sbirciava da dietro una tenda, il velo di pizzo nero calato a nasconderle il viso. Eragon intuì che la folla stava aspettando da ore, anche se lui non ne aveva percepito la presenza. Saphira e gli elfi erano stati di guardia a proteggerlo, certo, ma non era una scusante per aver abbassato la guardia. Devo fare di meglio, si disse. In prima fila c’erano Horst e i due figli, con l’aria angosciata. Il fabbro aggrottò le sopracciglia quando vide il fagotto tra le braccia di Eragon e aprì la bocca per dire qualcosa, ma non emise alcun suono. Senza cerimonie, Eragon gli si avvicinò e voltò il fagotto in modo che il padre potesse vedere la figlia in viso. Per un istante, Horst non si mosse; poi i suoi occhi si inumidirono e sul suo volto si dipinse un’espressione così stupita e intensa da poter essere scambiata per dolore.

Porgendo a Horst la neonata, Eragon disse: «Le mie mani sono intrise di troppo sangue per un lavoro del genere, ma sono felice di essere stato d’aiuto.» Horst sfiorò il labbro della bambina con l’indice, poi scosse il capo. «Non posso crederci... Non posso crederci.» Guardò Eragon. «Io ed Elain saremo sempre in debito con te. Se...» «Nessun debito» lo interruppe Eragon con dolcezza. «Ho solo fatto quello che avrebbe fatto chiunque ne avesse avute le capacità.» «Ma sei stato tu a guarirla, e per questo ti sarò sempre riconoscente.» Eragon esitò, poi chinò il capo accettando la gratitudine di Horst. «Come la chiamerete?» Il fabbro guardò raggiante la figlia. «Se Elain è d’accordo, vorrei chiamarla Hope, speranza.» «Hope... un bel nome.» Non abbiamo forse tutti bisogno di un po’ di speranza nella vita? «E come sta Elain?» «È molto stanca, ma sta bene.» Albriech e Baldor si strinsero intorno al padre per ammirare la sorellina, subito raggiunti da Gertrude; alla fine, vinta la timidezza, si avvicinarono anche gli altri compaesani. Perfino alcuni guerrieri si accalcarono alle spalle della piccola folla, allungando il collo per cercare di vedere la neonata. Dopo un po’, gli elfi lasciarono il loro angolo in disparte per avvicinarsi con la loro falcata flessuosa. Appena li vide, la gente si affrettò a scostarsi, formando un corridoio davanti a Horst. Il fabbro s’irrigidì e spinse fuori la mascella come un bulldog mentre uno dopo l’altro gli elfi si chinavano a esaminare la bambina e le mormoravano qualche parola nell’antica lingua. Gli elfi sembravano non accorgersi degli sguardi sospettosi che la gente scoccava loro, o forse non se ne curavano. Quando restavano soltanto tre elfi in fila, Elva sgusciò da dietro la tenda dove si era nascosta e si unì alla coda davanti a Horst. Non attese a lungo il suo turno. A malincuore il fabbro abbassò le braccia e si chinò, ma era ancora troppo alto per Elva, che fu costretta ad alzarsi in punta di piedi per vedere la neonata. Eragon trattenne il fiato mentre la stregabambina studiava il faccino non più deforme; aveva il volto nascosto dal velo nero e dunque era impossibile decifrarne la reazione. Dopo qualche istante Elva si separò dal fagotto e con deliberata lentezza s’incamminò lungo il sentiero che passava davanti alla tenda di Eragon. Aveva fatto una ventina di passi quando si fermò e si voltò a guardarlo. Eragon inclinò il capo e inarcò un sopracciglio. La strega-bambina annuì – un cenno rapido e brusco – poi riprese a camminare. Mentre il Cavaliere la seguiva con lo sguardo, Arya gli si avvicinò. «Dovresti essere orgoglioso di quello che hai fatto» sussurrò. «La bambina è sana e perfetta. Nemmeno i nostri migliori incantatori saprebbero migliorare la tua magia. È magnifico quello che hai donato a questa bambina: un viso e un futuro. Lei non lo dimenticherà mai, ne sono certa... Nessuno di noi lo dimenticherà.» Eragon si accorse che tutti gli elfi lo guardavano con maggior rispetto, ma erano l’ammirazione e l’approvazione di Arya che contavano di più per lui. «Ho avuto i migliori maestri» rispose sommessamente. Arya non replicò. Insieme guardarono gli abitanti di

Carvahall che circondavano Horst e sua figlia chiacchierando eccitati. Eragon si protese verso Arya e mormorò: «Grazie di aver aiutato Elain.» «Non c’è di che. Sarebbe stato deplorevole non farlo.» Horst se ne andò per portare la bambina nella tenda da Elain, ma l’adunata non diede segno di volersi sciogliere. Quando Eragon si fu stancato di stringere mani e rispondere alle domande, salutò Arya e tornò in fretta nella sua tenda, attento a chiuderne bene i lembi. A meno che non ci attacchino, non voglio vedere nessuno per le prossime dieci ore, nemmeno Nasuada, disse a Saphira, crollando sulla branda. Lo dici tu a Blödhgarm, per favore? Certo, rispose lei. Riposa, piccolo mio; lo farò anch’io. Eragon sospirò e si coprì gli occhi con un braccio. Il ritmo del suo respiro rallentò e la mente cominciò a vagare; ben presto la strana eco e le bizzarre visioni del suo sonno vigile lo avvolsero. Reali eppure immaginarie, vivide e insieme evanescenti, sembravano fatte di vetro colorato. Per un certo tempo poté finalmente dimenticare le proprie responsabilità e gli eventi drammatici della giornata appena trascorsa. E in sottofondo lo accompagnò la ninnananna, come il sussurro del vento, per metà udita, per metà dimenticata, che lo cullò, con il suo carico di ricordi d’infanzia, in una pace serena. [eBookLove - eBL 043] Christopher Paolini - Inheritance [by Pico]

NESSUN RIPOSO PER CHI È STANCO Due nani, due umani e due Urgali – membri della scorta personale di Nasuada, i Falchineri – erano di guardia davanti alla sala del castello dove la signora dei Varden aveva stabilito il suo quartier generale. Fissavano Roran con occhi immobili e vacui. Lui mantenne un’espressione altrettanto neutra nel ricambiare lo sguardo. Era un trucco che conosceva bene. Nonostante l’apparente distacco dei Falchineri, Roran sapeva che stavano pensando in fretta al modo più rapido ed efficace per ucciderlo. Lo sapeva perché anche lui li guardava allo stesso modo, come faceva sempre. Dovrei indietreggiare più in fretta possibile... costringerli a dividersi, decise. Gli umani mi raggiungerebbero per primi: corrono più veloce dei nani, e i nani rallenterebbero gli Urgali dietro di loro... Dovrei sottrarre loro quelle alabarde. Difficile, forse, ma almeno una dovrei riuscire a prenderla. Magari usando il martello. Con un’alabarda, potrei tenere a distanza gli altri. I nani non sarebbero più un problema a quel punto, anche se gli Urgali... loro sono brutali, resistenti... Se mi nascondessi dietro quel pilastro, potrei... La porta di ferro fra le due ali di guardie si aprì cigolando. Ne uscì un paggio che poteva avere dieci, undici anni, con una tunica dai colori vivaci, che annunciò, a voce più alta del necessario: «Lady Nasuada adesso può riceverti!» Le guardie si voltarono di scatto e per un attimo smisero di fissarlo. Roran sorrise passando in mezzo a loro: aveva capito che approfittando di quegli istanti di distrazione, per quanto brevi, avrebbe potuto ucciderne almeno due prima che fossero in grado di contrattaccare. Alla prossima, pensò. La sala era ampia, rettangolare, spoglia: un tappeto striminzito sul pavimento, un vecchio arazzo tarmato sulla parete a sinistra e una piccola finestra ovale a destra. Non c’erano altri ornamenti. In un angolo c’era un lungo tavolo di legno ingombro di libri, pergamene e fogli. Intorno, tre o quattro poltrone robuste, rivestite di pelle, con le borchie di ottone annerito, ma né Nasuada né la decina di persone presenti avevano l’aria di volerle usare. Mancava Jörmundur, ma Roran conosceva molti degli altri guerrieri: aveva combattuto sotto il comando di un paio di loro, ne aveva visti altri in azione o ne aveva sentito parlare dagli uomini della sua compagnia. «... e non m’importa se farà loro male al gozzo!» esclamò la signora dei Varden calando la mano aperta sul tavolo. «Se non riusciamo a procurarci quei ferri di cavallo e tutto il resto, tanto vale che ce li mangiamo i cavalli, per quanto ci servono. Sono stata chiara?» Gli uomini le risposero con un coro di approvazione. Sembravano intimiditi, quasi in imbarazzo. Roran trovava curioso e sorprendente che Nasuada, una donna, suscitasse un tale rispetto nei suoi guerrieri, rispetto che lui peraltro condivideva. Era una delle persone più intelligenti e determinate che avesse mai conosciuto, ed era convinto che sarebbe riuscita ad avere successo comunque, anche senza i suoi illustri natali. «Ora andate» ordinò Nasuada. Mentre otto uomini uscivano, fece cenno a Roran di avvicinarsi al tavolo. Lui attese paziente che Nasuada intingesse una penna in un calamaio per scrivere qualche riga su una piccola pergamena che poi porse a un paggio, dicendo:

«Per il nano Narheim. E questa volta assicurati di avere la sua risposta prima di tornare, altrimenti ti mando a fare lo sguattero degli Urgali.» «Sì, mia signora!» rispose il ragazzo, e fuggì terrorizzato. Nasuada prese a sfogliare la pila di documenti che aveva davanti. Senza levare lo sguardo chiese: «Ti sei riposato, Roran?» Il guerriero si domandò perché le interessasse. «No, non molto.» «È un peccato. Hai passato la notte insonne?» «In parte. Elain, la moglie del nostro fabbro, ha partorito ieri sera, ma...» «Sì, sono stata informata. Mi pare di capire che tu non abbia aspettato che Eragon guarisse la bambina.» «No, ero troppo stanco.» «Almeno uno con un po’ di cervello!» Nasuada prese un altro foglio di carta per studiarlo, poi lo aggiunse alla pila che aveva davanti. Sempre con lo stesso tono spiccio continuò: «Ho una missione per te, Fortemartello. Le nostre truppe ad Arughia hanno incontrato una resistenza maggiore del previsto. Il capitano Brigman non è riuscito a risolvere la situazione, e adesso quegli uomini ci servono qui. Perciò ti mando ad Arughia a rimpiazzare Brigman. Un cavallo ti aspetta al cancello sud. Devi cavalcare più in fretta che puoi fino a Feinster, e da lì ad Arughia. Lungo il cammino troverai dei cavalli freschi ad aspettarti ogni dieci miglia. Ma da Feinster in avanti dovrai procurarteli da solo. Mi aspetto che tu raggiunga Arughia in quattro giorni. Calcolando che avrai bisogno di un po’ di riposo per riprendere le forze, ti resteranno all’incirca tre giorni per portare a termine l’assedio.» Finalmente levò lo sguardo su di lui. «Fra una settimana a partire da oggi voglio che la nostra bandiera sventoli su Arughia. Non m’importa come ci riuscirai, Fortemartello; fallo e basta. Se fallisci non avrò altra scelta se non mandare Eragon e Saphira ad Arughia, anche se in questo modo saremo vulnerabili a eventuali attacchi da parte di Murtagh e Galbatorix.» E così Katrina sarebbe in pericolo, pensò Roran con una fitta di nausea. Arrivare ad Arughia in appena quattro giorni gli sarebbe costata una fatica immane, visto quanto era dolorante e malconcio. Dover anche conquistare la città in così poco tempo rendeva l’impresa quasi una follia. In buona sostanza quella missione era allettante quanto combattere un orso con le mani legate dietro la schiena. Si grattò la guancia barbuta. «Non ho esperienza di assedi» disse. «Almeno, non molta. Deve esserci di sicuro qualcun altro fra i Varden che può meglio assolvere questo compito. Che ne dici di Martland Barbarossa?» Nasuada liquidò la proposta con un gesto della mano. «Non può cavalcare a tutto sprone con una mano sola. Dovresti avere più fiducia in te stesso, Fortemartello. Fra i Varden ci sono molte persone più esperte di te nell’arte della guerra, è vero, soldati che sono sul campo da più tempo, uomini che si sono addestrati con i guerrieri migliori della generazione dei loro padri, ma quando si sfoderano le spade e si va in battaglia non è l’esperienza o l’addestramento che conta. L’importante è vincere, e questa è un’arte che a quanto pare hai imparato bene. Per di più sei fortunato.» Posò il foglio sul tavolo. «Hai dimostrato di essere in grado di combattere. E di saper eseguire gli ordini... quando vuoi, intendo.» Roran resistette all’impulso di curvare le spalle al ricordo delle amare, brucianti frustate ricevute per aver disobbedito al capitano

Edric. «Hai dato prova di saper comandare una squadra d’incursori. Quindi, Roran Fortemartello, adesso vediamo se sei capace di fare di più, d’accordo?» Roran deglutì. «Sì, mia signora.» «Bene. Ti promuovo temporaneamente capitano. Se avrai successo ad Arughia potrai considerare la carica permanente, almeno finché non dimostrerai di meritare onori maggiori, o minori.» Nasuada riabbassò lo sguardo e riprese a cercare fra le pergamene. «Ti ringrazio.» Nasuada rispose con un vago borbottio. «Quanti uomini avrò a disposizione ad Arughia?» s’informò lui. «Ho dato a Brigman mille uomini per prendere la città. Ne rimangono circa ottocento ancora in grado di combattere.» Roran si lasciò quasi sfuggire un’imprecazione ad alta voce. Così pochi. Come se gli avesse letto nel pensiero, Nasuada aggiunse in tono asciutto: «Eravamo stati indotti a credere che le difese di Arughia fossero più facili da superare di quanto poi si è dimostrato.» «Capisco. Posso portare due o tre uomini di Carvahall con me? Una volta hai detto che ci avresti permesso di combattere insieme se...» «Sì, sì.» Nasuada agitò una mano. «Lo so cos’ho detto.» Arricciò le labbra, pensierosa. «D’accordo, porta con te chi vuoi, basta che partiate entro un’ora. Fammi sapere quanti sarete, e vi procurerò il numero di cavalli necessario.» «Posso portare anche Carn?» chiese Roran. Carn era uno stregone con cui aveva combattuto in diverse occasioni. Nasuada fece una pausa e rimase per qualche istante a riflettere fissando la parete in fondo. Poi, con grande sollievo di Roran, annuì e riprese a scavare nella montagna di scartoffie. «Ah, eccolo finalmente.» Sfilò un rotolo di pergamene chiuso con un nastro di pelle. «Una cartina di Arughia e dei dintorni, e anche una mappa più estesa della provincia di Fenmark. Ti suggerisco di studiarle entrambe con la massima attenzione.» Gli porse il rotolo, che lui si fece scivolare nella tunica. «E questo» disse Nasuada, porgendogli un foglio di pergamena piegato in quattro, chiuso da un sigillo di ceralacca rossa «è il tuo mandato, invece quest’altro» – comparve un secondo foglio più spesso – «contiene i tuoi ordini. Mostra i documenti a Brigman, ma non lasciare che se li tenga. Se non ricordo male, non hai mai imparato a leggere, giusto?» Roran si strinse nelle spalle. «E a quale scopo? So far di conto al pari di chiunque altro, e tanto basta. Mio padre diceva che insegnarci a leggere era uno spreco di tempo, come voler insegnare a un cane a camminare su due zampe: divertente, ma inutile.» «Sarei anche d’accordo, se tu fossi rimasto quello che eri. Ma non sei più un contadino.» Indicò i documenti che Roran teneva in mano. «Per quanto ne sai, uno di quelli potrebbe essere un ordine per la tua esecuzione. Se continui così mi servi a poco, Fortemartello. Non posso mandarti messaggi senza che qualcun altro debba leggerli per te, e se dovrai farmi rapporto non avrai altra scelta se non fidarti di qualche tuo sottoposto che annoti le tue parole lettera per lettera. E ciò ti rende più facile da manipolare. Inaffidabile. Se speri di

avanzare nei ranghi dei Varden ti suggerisco di trovare qualcuno che ti insegni a leggere e scrivere. Per il momento è tutto. Devo occuparmi di altre questioni.» Nasuada fece schioccare le dita, e uno dei paggi le corse accanto. Posò una mano sulla spalla del ragazzo e si chinò alla sua altezza per dirgli: «Vai a chiamare subito Jörmundur. Lo troverai nella strada del mercato, dove ci sono quelle tre case...» Notando però che Roran non si era ancora mosso dal suo posto inarcò un sopracciglio. «C’è qualcos’altro, Fortemartello?» chiese. «Sì. Prima di partire vorrei vedere Eragon.» «E perché?» «Quasi tutte le difese magiche che mi ha dato prima della battaglia si sono esaurite.» Nasuada aggrottò le sopracciglia, poi tornò a rivolgersi al paggio. «Nella strada del mercato, dove ci sono quelle tre case bruciate. Conosci il posto, no? Allora vai.» Diede una pacca sulla spalla del ragazzo e raddrizzò la schiena mentre il paggio correva fuori. «Sarebbe meglio di no.» La frase lasciò Roran interdetto, ma il guerriero rimase in silenzio, aspettando che fosse lei a spiegarsi. E Nasuada lo accontentò, ma in modo evasivo. «Hai notato quanto era stanco Eragon durante la mia udienza coi gatti mannari?» «Riusciva a stento a reggersi in piedi.» «Appunto. Sta chiedendo troppo a se stesso, Roran. Non può proteggere te, me, Saphira, Arya e chissà quanti altri, e fare anche quello che questa guerra gli richiederà. Ha bisogno di conservare le energie per quando dovrà combattere Murtagh e Galbatorix. E più ci avviciniamo a Urû’baen più diventa essenziale che Eragon sia pronto ad affrontarli in qualsiasi momento, giorno e notte. Non possiamo permettere che altre preoccupazioni o distrazioni lo indeboliscano. È stato nobile da parte sua guarire il labbro della bambina, ma questo suo gesto potrebbe costarci la guerra! «Hai combattuto senza la protezione della magia quando i Ra’zac hanno attaccato il vostro villaggio sulla Grande Dorsale. Se ci tieni a tuo cugino, se hai a cuore la sconfitta di Galbatorix, allora devi imparare a combattere senza difese magiche.» Roran chinò il capo. Nasuada aveva ragione. «Allora parto subito.» «Lo apprezzo molto.» «Col tuo permesso...» Roran si voltò e si avviò verso la porta. Aveva appena varcato la soglia quando Nasuada lo chiamò. «Fortemartello?» Lui si girò, incuriosito. «Cerca di non radere al suolo Arughia, intesi? Le città sono difficili da ricostruire.» [eBookLove - eBL 043] Christopher Paolini - Inheritance [by Pico]

DANZANDO CON LE SPADE Eragon picchiettava i talloni contro il fianco del masso su cui era seduto, annoiato, impaziente di andarsene. Lui, Saphira e Arya, insieme a Blödhgarm e agli altri elfi, aspettavano ai margini della strada che costeggiava le mura orientali della città di Belatona. Procedendo verso est attraverso campi verdeggianti di spighe mature, il sentiero oltrepassava un ponte di pietra sul fiume Jiet e doppiava la punta più meridionale del Lago di Leona. Lì si biforcava: il ramo di destra portava a sud, verso le Pianure Ardenti e il Surda; quello di sinistra risaliva a nord, verso Dras-Leona e infine Urû’baen. Migliaia di uomini, nani e Urgali erano ammassati vicino ai cancelli orientali di Belatona, e anche dentro la città; gridavano e discutevano animatamente mentre i Varden cercavano di organizzarsi in una compagine omogenea. Oltre ai gruppi sparsi di guerrieri a piedi, c’era la cavalleria di re Orrin, una massa di cavalli agitati che sbuffavano e scalpitavano. Alle spalle dei contingenti dell’esercito il convoglio dei rifornimenti: una coda lunga un miglio e mezzo di carri coperti, carriole a mano e gabbie su ruote, fiancheggiata da mandrie di bovini che i Varden si erano portati dal Surda, cui erano andati ad aggiungersi tutti gli animali che avevano requisito dalle fattorie incontrate lungo il percorso. I buoi muggivano, gli asini e i muli ragliavano, le oche starnazzavano, i cavalli da tiro nitrivano, in una cacofonia assordante, insopportabile per le orecchie di Eragon. Pensavo che ci saremmo sbrigati prima, considerato quante volte l’abbiamo già fatto, commentò con Saphira balzando giù dal masso. La dragonessa sbuffò. Dovevano dare l’incarico a me: li avrei spaventati tanto che ci avrebbero messo meno di un’ora a prepararsi, e non avremmo dovuto aspettare tanto. Il pensiero lo fece sorridere. Già, ne sono sicuro. Sta’ attenta a quello che dici, altrimenti Nasuada potrebbe davvero prendere in considerazione l’idea. Eragon ripensò a Roran, che non vedeva dalla notte in cui aveva guarito la figlia di Horst ed Elain. Chissà come se la stava cavando. Non gli piaceva l’idea di lasciarlo indietro. «Che idiozia» bofonchiò al pensiero che Roran era partito senza permettergli di rinnovare le difese magiche. È un cacciatore esperto, disse Saphira. Non sarà così stupido da farsi artigliare dalle sue prede. Lo so, ma a volte può succedere... Deve stare attento, tutto qui. Non voglio che torni ferito, mutilato... o peggio, magari avvolto in un lenzuolo. Eragon si sentì pervadere da una tetra inquietudine; si riscosse e iniziò a saltellare: lo aspettavano ore e ore in groppa a Saphira, e muoversi un po’ fino a quando poteva non gli avrebbe fatto che bene. Gli piaceva molto volare con lei, ma detestava l’idea di restare bloccato per l’intera giornata lungo le dodici miglia di viaggio previste, a sorvolare in circolo, come un avvoltoio, le truppe che avanzavano a rilento. Lui e Saphira avrebbero potuto raggiungere Dras-Leona nel tardo pomeriggio di quello stesso giorno. Si allontanò dalla strada e raggiunse una piccola radura. Ignorando gli sguardi perplessi di Arya e degli altri elfi, sguainò Brisingr e assunse la posizione di guardia che Brom gli

aveva insegnato tanto tempo prima. Inspirò e fletté le gambe piantando bene i piedi e saggiando la consistenza del terreno. Con un breve grido fece roteare la spada sopra la testa e la calò di taglio, con una mossa che avrebbe falciato a metà qualsiasi uomo, elfo o Urgali, anche se portava l’armatura. Bloccò la spada a un palmo dal suolo: la lama vibrava nel suo pugno, e contro il verde del prato il metallo azzurro si stagliava lucente, quasi irreale. Eragon trasse un altro profondo respiro e scattò in un affondo, infilzando l’aria come se fosse un nemico mortale. Una dopo l’altra eseguì tutte le mosse fondamentali dell’arte della scherma, concentrandosi sulla rapidità e sulla forza, ma anche sulla precisione. Quando sentì che i muscoli si erano sciolti e riscaldati a sufficienza si voltò a guardare la scorta di elfi disposti a semicerchio a una certa distanza. «A qualcuno di voi andrebbe di incrociare la spada con me per qualche minuto?» domandò ad alta voce. Gli elfi si scambiarono qualche occhiata indecifrabile, poi si fece avanti l’elfo Wyrden. «Vengo io, Ammazzaspettri, se ti fa piacere. Però vorrei che indossassi l’elmo mentre ci alleniamo.» «D’accordo.» Eragon rinfoderò Brisingr e corse da Saphira. Si arrampicò in fretta sul suo fianco, tagliandosi il polpastrello del pollice sinistro sul bordo affilato di una squama. Il Cavaliere indossava già la cotta di maglia, i bracciali e gli schinieri, ma aveva infilato l’elmo in una delle bisacce perché non rotolasse giù da Saphira perdendosi nell’erba alta. Accanto all’elmo, custodito in fondo alla bisaccia e avvolto nella coperta, c’era lo scrigno con il cuore dei cuori di Glaedr. Eragon tese una mano e sfiorò il fagotto annodato, tributando un silenzioso omaggio a quel che restava del maestoso drago dorato, poi richiuse la bisaccia e scivolò giù dalla sella della dragonessa. Eragon si calcò in testa prima la calotta di protezione, poi l’elmo, e tornò nello spiazzo erboso. Si succhiò il sangue dal pollice, poi s’infilò i guanti sperando che il taglio non sanguinasse troppo nel dito di ferro. Usando minime variazioni dello stesso incantesimo, lui e Wyrden innalzarono sottili barriere – invisibili se non per un lieve tremolio nell’aria – sul filo delle loro lame affinché non tagliassero, e abbassarono le difese magiche che li proteggevano. I due si misero in posizione, l’uno di fronte all’altro, si scambiarono un inchino e levarono le spade. Eragon fissò le pupille nere di Wyrden, che ricambiò impassibile lo sguardo. Senza distogliere un istante gli occhi dall’avversario, Eragon strisciò in avanti e cercò di aggirare il fianco destro di Wyrden, dove l’elfo destrorso avrebbe avuto più difficoltà a difendersi. Wyrden girò su se stesso lentamente, schiacciando l’erba sotto i tacchi, e così facendo continuò a tenere Eragon di fronte. Dopo un paio di passi, il Cavaliere si fermò: Wyrden era troppo vigile ed esperto per lasciarsi ingannare. Eragon non sarebbe mai riuscito a fargli scoprire il fianco. A meno che non riesca a distrarlo. Prima che Eragon avesse il tempo di decidere che cosa fare, Wyrden portò un affondo contro la sua gamba destra, come se volesse infilzargli il ginocchio, ma era solo una finta, perché cambiò direzione a mezz’aria, ruotando il polso per colpire di taglio Eragon fra il torace e il collo.

Era stato rapido, ma Eragon lo fu di più. Individuò nella postura di Wyrden il mutamento che tradiva le sue intenzioni e indietreggiò di mezzo passo, e intanto levò la spada portandola davanti al viso. «Ah!» gridò Eragon bloccando la spada di Wyrden con Brisingr. Le lame cozzarono con un sonoro clangore. Il Cavaliere allontanò Wyrden con uno spintone, poi balzò in avanti, attaccando con una serie ininterrotta di colpi. Combatterono sul prato per lunghi minuti. Eragon mise a segno il primo affondo, un leggero colpo sull’anca di Wyrden, e anche il secondo, ma in seguito il duello proseguì in parità, via via che l’elfo lo valutava e cominciava ad anticipare i suoi schemi di attacco e di difesa. Eragon non aveva spesso l’occasione di confrontarsi con qualcuno forte o veloce come Wyrden, perciò era felice di battersi con lui. Il suo entusiasmo si spense quando l’elfo mise a segno quattro attacchi in rapida successione: uno alla sua spalla destra, due alle costole e un infido fendente all’addome. Le zone colpite gli bruciavano, ma l’orgoglio bruciava ancora di più. A preoccuparlo era la facilità con cui l’elfo era riuscito a superare la sua guardia. Se avessero combattuto sul serio, Eragon sapeva che avrebbe potuto sconfiggere Wyrden nei primissimi scambi, ma quel pensiero non gli era di grande conforto. Non avresti dovuto permettergli di colpirti tutte quelle volte, commentò Saphira. Sì, lo so, ringhiò lui. Vuoi che gli dia una bella zampata? No... oggi no. Col morale a terra, Eragon abbassò la spada e ringraziò Wyrden. L’elfo s’inchinò, disse: «Di nulla, Ammazzaspettri» e tornò al suo posto fra i compagni. Eragon conficcò Brisingr nel terreno fra gli stivali, una cosa che non avrebbe mai fatto con una qualsiasi spada d’acciaio, e posò le mani sul pomolo, levando lo sguardo sugli uomini e gli animali che gremivano la strada che partiva dalla città fortificata. Notò che la confusione stava diminuendo e pensò che non ci sarebbe voluto ancora molto prima che i corni dessero ai Varden il segnale di avanzata. E nel frattempo? Eragon lanciò un’occhiata ad Arya, ferma accanto a Saphira, e un sorriso gli increspò le labbra. Sfilò Brisingr dal terreno, se la mise in spalla e, rianimato, si avviò verso l’elfa. Indicò la spada di lei con il mento. «Arya, e tu? Ci siamo allenati insieme soltanto quella volta nel Farthen Dûr.» Il suo sorriso si allargò; tolse Brisingr dalla spalla con un solo fluido movimento. «Sono migliorato da allora.» «Già.» «Allora, che ne dici?» L’elfa valutò con occhio critico la massa di Varden e si strinse nelle spalle. «Perché no?» Mentre tornavano insieme alla radura, Eragon disse: «Non ti sarà facile battermi come l’altra volta.» «Ne sono convinta.»

Arya preparò la spada, poi si disposero l’uno di fronte all’altra, a una quindicina di passi di distanza. Sicuro di sé, Eragon avanzò lentamente, sapendo già dove colpire la sua avversaria: la spalla sinistra. Arya mantenne la posizione senza fare alcun tentativo di schivarlo, poi, quando Eragon fu a meno di quattro iarde di distanza, gli sorrise: un sorriso così radioso che Eragon esitò, i pensieri d’un tratto disciolti in un ammasso confuso. Un lampo d’acciaio gli balenò davanti agli occhi. Levò Brisingr troppo tardi per parare il colpo. Un forte scossone gli riverberò nel braccio quando la punta della spada urtò qualcosa di solido: se elsa, lama o carne non riusciva a dirlo, però sapeva di aver calcolato male la distanza, e che la sua reazione l’aveva lasciato esposto all’attacco. Ebbe appena il tempo di rallentare lo slancio prima che un altro colpo gli facesse volare il braccio di lato; poi avvertì una fitta all’addome, quando Arya lo colpì con una stoccata, scaraventandolo a terra. Eragon atterrò di schiena, con un grugnito che gli tolse il fiato. Boccheggiò, gli occhi rivolti al cielo, e tentò di inspirare, ma l’addome gli si era trasformato in un blocco di pietra, e non riusciva a immettere aria nei polmoni. Davanti agli occhi gli comparve una galassia di puntini rossi e per qualche sgradevole secondo temette di svenire. Poi i muscoli si sciolsero e con un sonoro ansito riprese a respirare. Una volta schiarita la mente, si rialzò a fatica usando Brisingr come sostegno. Rimase curvo sulla spada come un vecchio sul suo bastone, in attesa che il dolore scemasse. «Hai barato» disse a denti stretti. «No. Ho approfittato di una debolezza del mio avversario. È diverso.» «Pensi che sia... una debolezza?» «Quando duelliamo sì. Vuoi continuare?» Lui rispose sfilando Brisingr dal terreno con uno strattone. Marciò fino al punto di partenza e brandì di nuovo la spada. «D’accordo» disse Arya, e lo imitò. Questa volta Eragon fu molto più cauto nell’avvicinarsi, e Arya non rimase ferma. Avanzò di qualche passo, tenendo per tutto il tempo i luminosi occhi verdi puntati su Eragon. L’elfa finse un attacco, e lui trasalì. Si rese conto di essere troppo teso e si costrinse a rilassarsi. Un altro passo avanti, poi caricò a tutta forza, con rapidità fulminea. L’elfa parò il suo fendente alle costole e rispose con una stoccata all’ascella. Eragon deviò la lama con un manrovescio, e il bordo smussato della spada scivolò stridendo sulla maglia ferrata del guanto. In quel momento Arya lasciò esposto il busto all’attacco, ma erano troppo vicini perché Eragon potesse tentare un fendente o un affondo. Allora si lanciò in avanti e mirò allo sterno con il pomolo di Brisingr, nel tentativo di gettarla a terra come lei aveva fatto con lui. Arya scartò con un agile balzo di lato e il pomolo colpì l’aria, facendogli perdere l’equilibrio.

Senza sapere come, Eragon si ritrovò immobilizzato con un braccio di Arya intorno al collo, la fredda superficie della lama smussata con la magia premuta sotto la mascella. Arya, alle sue spalle, gli sussurrò all’orecchio: «Avrei potuto staccarti la testa con la stessa facilità con cui si coglie una mela dall’albero.» Poi lo liberò dalla stretta e lo spinse via. Su tutte le furie, Eragon si voltò di scatto: Arya aveva già ripreso posizione, la spada pronta, l’espressione feroce. Cedendo all’ira, il Cavaliere si avventò contro di lei. Si scambiarono quattro colpi, uno più terribile del precedente. Arya attaccò per prima, mirando alle gambe di Eragon. Lui parò e rispose con un fendente orizzontale alla cintola, ma lei balzò all’indietro evitando la lama di Brisingr, che scintillò al sole. Senza darle l’opportunità di contrattaccare, Eragon disegnò un mulinello seguito da una stoccata, ma l’elfa lo parò con apparente facilità. Poi fece un passo avanti e con un tocco leggero come l’ala di un colibrì gli posò la spada di traverso sul ventre. Arya rimase immobile per qualche istante dopo l’affondo: tra il suo viso e quello di Eragon non c’era più di un palmo. Aveva la fronte imperlata di sudore e le guance in fiamme. I due si liberarono con studiata lentezza. Eragon si sistemò la cotta di maglia, poi si accovacciò accanto ad Arya. La sua furia bellicosa si era spenta, lasciandolo pensieroso e avvilito. «Non capisco» mormorò in tono sommesso. «Il tuo problema è che sei abituato a combattere contro i soldati di Galbatorix. Loro non hanno alcuna speranza di eguagliare il tuo livello: perciò non hai occasione di metterti davvero alla prova. I tuoi assalti sono troppo prevedibili. Non dovresti contare sulla forza bruta. E le tue difese sono carenti.» «Vuoi aiutarmi?» chiese lui. «Posso allenarmi con te quando hai tempo?» Arya annuì. «Ma certo. E quando non posso rivolgiti pure a Blödhgarm; con la spada è esperto quanto me. Hai bisogno di allenarti, ma solo con i compagni giusti.» Eragon stava per ringraziarla quando percepì la presenza di una coscienza, oltre a quella di Saphira, che gli premeva nella mente: vasta e spaventosa, e traboccante di una profonda malinconia, una tristezza così grande che Eragon si sentì stringere un groppo in gola e i colori del mondo persero il loro splendore. Poi, con voce lenta e profonda, come se parlare fosse una lotta di proporzioni immani, il drago dorato Glaedr sentenziò: Devi imparare... a vedere quello che guardi. Subito dopo la presenza si dissolse, lasciando un vuoto enorme. Eragon guardò Arya. Sembrava turbata quanto lo era lui: anche lei aveva sentito le parole di Glaedr. Alle loro spalle, Blödhgarm e gli altri elfi si agitarono e mormorarono, mentre ai margini della strada Saphira inarcò il collo all’indietro come a voler guardare le bisacce legate sul dorso. Avevano sentito tutti. Eragon e Arya corsero verso Saphira, che disse: Non vuole rispondermi; ovunque fosse, è tornato lì, e non vuole ascoltare altro che il proprio dolore. Ecco, guardate. Eragon congiunse la mente a quelle di Saphira e di Arya, e i tre espansero il pensiero verso il cuore dei cuori di Glaedr nascosto nella bisaccia. Quel che restava del drago pareva più

forte che in passato, ma la sua mente era ancora chiusa alle comunicazioni esterne, la sua coscienza apatica e indolente, com’era sempre stata da quando Galbatorix aveva ucciso il suo Cavaliere, Oromis. Eragon, Saphira e Arya cercarono di distogliere il drago dal suo torpore, ma Glaedr si ostinava a ignorarli con la stessa indifferenza che un orso delle caverne addormentato riserverebbe alle mosche che gli ronzano intorno. Eppure Eragon non poteva fare a meno di pensare che il distacco di Glaedr non era più assoluto come prima, considerato quello che gli aveva detto. Alla fine i tre si diedero per vinti e tornarono ciascuno nel proprio corpo. Arya disse: «Forse se toccassimo il suo Eldunarí...» Eragon rinfoderò Brisingr, poi si issò sulla zampa di Saphira e le saltò in groppa. Si voltò sulla sella e cominciò ad armeggiare con le fibbie delle bisacce. Ne aveva appena sganciata una e stava per passare all’altra, quando dalla testa dei Varden risuonò lo squillo di un corno d’ottone. Al segnale di avanzata il lungo convoglio di uomini e animali si mise in movimento, a passo dapprima esitante, poi sempre più fluido e spedito. Eragon guardò Arya, combattuto. L’elfa risolse il suo dilemma agitando una mano e dicendo: «Stanotte, parleremo stanotte. E adesso andate! Volate sulle ali del vento!» Eragon si affrettò a richiudere le bisacce, poi infilò le gambe nei legacci di cuoio che pendevano ai lati della sella e li strinse forte per evitare di cadere durante il volo con Saphira. La dragonessa fletté gli arti posteriori per prendere lo slancio, e con un ruggito di gioia spiccò il volo, passando rasente la strada. Gli uomini abbassarono il capo tremando e i cavalli scartarono spaventati quando Saphira dispiegò le enormi ali e le batté, lasciandosi dietro la terra dura e ostile per immergersi nella dolce vastità del cielo. Eragon chiuse gli occhi e sollevò il volto, lieto di lasciare finalmente Belatona. Dopo aver trascorso una settimana in città senza fare altro che mangiare e riposare – perché così Nasuada gli aveva ordinato – era ansioso di riprendere il viaggio verso Urû’baen. Quando Saphira ebbe preso quota, centinaia di piedi oltre le guglie e le torri della città, Eragon le chiese: Pensi che Glaedr si riprenderà? Non tornerà più quello di prima. No, ma spero che trovi il modo di superare il suo lutto. Ho bisogno del suo aiuto, Saphira. Sono ancora tante le cose che ignoro. Senza di lui non so a chi altro chiedere. La dragonessa rimase in silenzio; l’unico rumore era il battito delle sue ali. Non possiamo mettergli fretta, riprese dopo un po’. Il suo dolore è il più grande che un drago o un Cavaliere possa provare. Prima di aiutare te, me o chiunque altro, deve decidere se vuole continuare a vivere. Fino a quel momento le nostre parole non potranno raggiungerlo. [eBookLove - eBL 043] Christopher Paolini - Inheritance [by Pico]

NIENTE ONORI NÉ GLORIA, SOLTANTO FASTIDIOSE VESCICHE I latrati furiosi dei levrieri si facevano sempre più alti dietro di loro: la muta di cani era assetata di sangue. Roran strinse le redini e si chinò sul collo del suo destriero lanciato al galoppo. Lo scalpitio degli zoccoli gli rimbombava dentro come un tuono. Lui e i suoi cinque compagni, Carn, Mandel, Baldor, Delwin e Hamund, avevano rubato cavalli freschi nelle scuderie di un maniero isolato a mezzo miglio di distanza. Gli stallieri non avevano apprezzato. Lo scintillio delle lame era bastato a zittire le loro obiezioni, ma dovevano aver avvertito le guardie del maniero non appena Roran e i compagni si erano dileguati, perché al momento erano inseguiti da dieci uomini armati accompagnati da una muta di cani da caccia. «Lì!» gridò indicando un filare di betulle che si estendeva fra due colline vicine e che con ogni probabilità fiancheggiava un corso d’acqua. Al suo segnale gli uomini tirarono le redini per deviare dalla strada di terra battuta e puntare verso gli alberi. Il terreno accidentato li costrinse a rallentare, ma non troppo, malgrado il rischio che i cavalli inciampassero in un fosso spezzandosi una zampa o disarcionando il cavaliere. Era pericoloso, ma lasciarsi raggiungere dai cani da caccia lo sarebbe stato ancora di più. Roran affondò gli speroni nei fianchi del cavallo e urlò: «Yah!» con quanto fiato gli restava nella gola riarsa. Il robusto castrone balzò in avanti e cominciò a guadagnare terreno su Carn. Roran sapeva che presto il suo cavallo sarebbe arrivato al punto da non poter più assecondare quegli scatti, anche se lui lo avesse pungolato forte con gli speroni o frustato a sangue con le redini. Non gli piaceva essere crudele e non aveva alcuna intenzione di stancare a morte quella bestia, ma non l’avrebbe risparmiata se questo avesse implicato il fallimento della missione. Arrivando di fianco a Carn, gridò: «Puoi nasconderci con un incantesimo?» «E come?» rispose Carn, la voce a stento percettibile sotto l’ululato del vento e il fragore degli zoccoli. «È troppo complicato!» Roran imprecò e scoccò un’occhiata alle sue spalle. I levrieri stavano svoltando l’ultima curva della strada. Sembrava che volassero: i loro corpi snelli e affusolati si allungavano e si contraevano a un ritmo impressionante. Roran riusciva a vedere il rosso delle loro lingue perfino da quella distanza; gli parve di scorgere anche uno scintillio di candide zanne. Quando raggiunsero gli alberi, Roran deviò e cominciò a inoltrarsi sulle colline, mantenendosi il più vicino possibile al filare di betulle, attento a non colpire rami bassi o inciampare in tronchi caduti. Gli altri lo imitarono, incitando i cavalli per impedire loro di rallentare lungo la salita. Alla sua destra, Roran scorse Mandel, curvo sulla sua giumenta pomellata. Sfoggiava un ghigno ferino. Negli ultimi tre giorni quel giovane lo aveva impressionato con la sua forza

e la sua resistenza. Da quando il padre di Katrina, Sloan, aveva tradito gli abitanti di Carvahall e ucciso il padre di Mandel, Byrd, il ragazzo aveva cercato in tutti i modi di mostrarsi all’altezza di qualunque altro uomo del villaggio, e si era distinto con onore nelle ultime due battaglie fra i Varden e l’Impero. Un grosso ramo gli si parò davanti. Roran chinò il capo giusto in tempo: le punte dei ramoscelli secchi grattarono l’elmo. Una foglia gli cadde sulla faccia, coprendogli l’occhio destro per un momento, poi il vento la strappò via. Il respiro del castrone si faceva sempre più affannoso via via che proseguivano lungo il pendio scosceso. Roran sbirciò alle sue spalle: la muta di levrieri era a meno di un quarto di miglio. Un paio di minuti ancora e li avrebbero raggiunti. Dannazione, pensò. Si guardò attorno disperato, studiando il fitto boschetto di alberi alla sua sinistra e la collina erbosa alla sua destra, in cerca di qualcosa, qualunque cosa, che potesse aiutarli a seminare gli inseguitori. Era così stordito dalla stanchezza che per poco non gli sfuggì. Più avanti, a una ventina di iarde, una pista sinuosa lasciata dai cervi scendeva lungo il fianco della collina, attraversava il sentiero e scompariva fra gli alberi. «Ah! Ah!» gridò Roran, facendo forza sulle staffe e tirando le redini. Il castrone rallentò al trotto, protestò sbuffando e agitò la testa, cercando di mordere il freno. «Oh, no, non ci provare» ringhiò Roran, e tirò ancora più forte le redini. «Svelti!» urlò al resto del gruppo, mentre faceva voltare il cavallo ed entrava nel boschetto. L’aria era fresca sotto gli alberi; Roran si sentì rinfrancato dal calo di temperatura. La piacevole sensazione durò appena un istante, perché il castrone cominciò a scendere in picchiata lungo il ripido argine del torrente, inciampando e scivolando. Le foglie morte crepitavano sotto gli zoccoli ferrati. Per non scivolare in avanti ed essere disarcionato, Roran fu costretto ad appiattirsi sul dorso del suo cavallo, le gambe rigide, le ginocchia strette. Quando arrivarono in fondo alla scarpata, il puledro piombò nel torrente punteggiato di ciottoli, sollevando due ventagli di spruzzi alti fino alle cosce. Roran si fermò dall’altra parte per controllare se gli altri lo seguivano. Li vide cavalcare uno dietro l’altro fra gli alberi della scarpata. Dall’alto, nel punto in cui erano entrati nel boschetto, si levavano i latrati dei cani. Dovremo voltarci e combattere, disse tra sé e sé. Imprecò di nuovo e spronò il castrone lontano dal torrente, risalendo l’argine coperto di soffice muschio e seguendo la pista appena accennata. Non lontano dal corso d’acqua c’era una parete di felci dietro la quale si apriva una piccola conca. Roran individuò un albero caduto che avrebbe potuto fungere da barriera, se fossero riusciti a trascinarlo fino a lì. Spero solo che non siano armati di archi, pensò. Fece un cenno ai suoi uomini. «Qui!» Con uno schiocco di redini guidò il cavallo attraverso il muro di felci e dentro la conca, poi smontò. Non appena i suoi piedi toccarono terra, le gambe gli cedettero, e sarebbe caduto

se non si fosse retto al pomolo della sella. Fece una smorfia e premette la fronte contro la spalla del cavallo, ansimando in attesa che le gambe smettessero di tremare. Il resto del gruppo si radunò accanto a lui, riempiendo l’aria della conca con il lezzo del sudore e il tintinnio dei finimenti. I cavalli tremavano, il petto che si alzava e si abbassava, gli angoli della bocca coperti da una schiuma giallastra. «Aiutami» disse a Baldor, e indicò l’albero caduto. Infilarono le mani sotto un capo del tronco e lo sollevarono. Roran digrignò i denti quando la schiena e le cosce urlarono di dolore. Il galoppo sfrenato di tre giorni, sommato a tre ore di sonno per ogni dodici passate in sella, lo aveva sfinito. Tanto vale andare in battaglia ubriaco, malato e pesto, si disse, lasciando andare il tronco, e raddrizzò la schiena. Quel pensiero lo turbò. I sei uomini presero posizione davanti ai cavalli, di fronte al muro di felci, ed estrassero le armi. Fuori dalla conca i latrati dei levrieri risuonavano più forti che mai, un frastuono echeggiante di furia sanguinaria. Roran tese i muscoli e sollevò il martello. Poi, mescolata all’abbaiare dei cani, udì una strana melodia cadenzata nell’antica lingua, e il potere emanato dalle parole cantate da Carn gli fece rizzare i capelli sulla nuca. Lo stregone pronunciò alcune frasi in una breve sequela ininterrotta, le parole che si accavallavano l’una sull’altra in un mormorio indistinto. Non appena ebbe finito, Carn fece un cenno a Roran e agli altri e bisbigliò: «State giù!» Senza un attimo di esitazione, Roran si accovacciò. Non era la prima volta che si rammaricava di non saper usare la magia. Di tutte le capacità che un guerriero poteva avere, quella era la più utile: non possederla voleva dire essere alla mercé di chi era in grado di plasmare il mondo con la semplice volontà e la parola. Le felci davanti a lui frusciarono e si agitarono; poi un levriero spinse il muso nero attraverso il fogliame per sbirciare nella conca, annusando l’aria. Delwin sibilò e levò la spada, deciso a decapitare il cane, ma Carn gli fece cenno di abbassare l’arma. Il cane si fermò, perplesso. Fiutò di nuovo l’aria, si leccò le fauci con la lingua gonfia e viola e si ritrasse. Quando le fronde si richiusero sul muso del levriero, Roran rilasciò lentamente il fiato che aveva trattenuto. Guardò Carn e inarcò un sopracciglio, nella speranza di ricevere una spiegazione, ma Carn scosse il capo e si portò l’indice alle labbra. Qualche secondo dopo altri due cani si fecero largo nel sottobosco per ispezionare la conca; poi, come aveva fatto il primo, tornarono indietro. La muta cominciò a uggiolare e ad abbaiare, continuando a frugare tra gli alberi per capire dove fosse finita la preda. Mentre sedeva in attesa, Roran notò che aveva i calzoni costellati di macchioline scure all’interno delle cosce. Ne toccò una e le dita gli si coprirono di siero sanguinolento. Ogni macchia, una vescica. E non erano soltanto lì: ne aveva sulle mani, dove le redini avevano sfregato la pelle fra il pollice e l’indice, sui talloni e in altri posti molto più scomodi. Con una smorfia di disgusto si pulì le dita sul terreno. Guardò i suoi uomini: vide come se ne stavano accovacciati o in ginocchio, lesse il disagio sui loro volti ogni volta che si muovevano e notò che stringevano le armi in modo strano, segno che le loro condizioni non erano migliori delle sue.

Roran decise che alla prossima sosta per dormire avrebbe chiesto a Carn di guarire le lesioni. Tuttavia, se il mago gli fosse parso troppo stanco, si sarebbe tenuto le sue vesciche: preferiva sopportare il dolore che esaurire tutte le energie di Carn prima di arrivare ad Arughia, perché sospettava che le sue capacità sarebbero state indispensabili per conquistare la città. Il pensiero di Arughia e dell’assedio che in qualche modo avrebbe dovuto vincere indusse Roran a premersi la mano sul petto per controllare che il pacchetto di documenti con gli ordini che non sapeva leggere e il mandato che dubitava di riuscire a portare a termine fossero ancora al sicuro nella sua tunica. Sì, erano ancora lì. Dopo lunghi, estenuanti minuti, uno dei levrieri cominciò ad abbaiare eccitato da qualche parte fra gli alberi a monte del torrente. Gli altri cani corsero da quella parte, tra furiosi latrati che indicavano la ripresa della caccia. Quando il clamore si spense, Roran si alzò lentamente e fece correre lo sguardo sugli alberi e i cespugli. «Via libera» disse a bassa voce. Anche gli altri si alzarono. Hamund, un giovane alto con i capelli ispidi e rughe profonde intorno alla bocca, anche se aveva soltanto un anno più di Roran, si rivolse a Carn corrucciato. «Perché non l’hai fatto prima, invece di farci galoppare come forsennati per la campagna e rischiare l’osso del collo giù per quella scarpata?» domandò indicando l’argine del torrente. Carn rispose, altrettanto irritato: «Perché non ci avevo ancora pensato, ecco perché. Visto che ti ho appena evitato la seccatura di essere dato in pasto ai cani, ritengo che dovresti mostrarmi almeno un briciolo di gratitudine.» «Ma davvero? Be’, io invece ritengo che dovresti lavorare un po’ di più sulle tue stregonerie prima che qualcun altro ci insegua e...» Nel timore che la discussione degenerasse, Roran si intromise. «Piantatela» li ammonì. Poi chiese a Carn: «Quell’incantesimo ci può nascondere alle guardie?» Carn scosse il capo. «Gli uomini sono più difficili da ingannare dei cani.» Scoccò un’occhiata sprezzante a Hamund. «La maggior parte, intendo. Posso nascondere noi, ma non le nostre tracce.» E indicò le felci spezzate e calpestate, e le impronte di zoccoli nel terreno soffice. «Capiranno che siamo qui. Se ce ne andiamo prima che le vedano, i cani li svieranno, e noi...» «In sella!» ordinò Roran. In un miscuglio di imprecazioni bofonchiate e malcelati malumori, gli uomini rimontarono a cavallo. Roran guardò la conca un’ultima volta per assicurarsi di non aver dimenticato niente, poi guidò il castrone in testa al gruppo e gli diede di sprone. Insieme uscirono al galoppo dall’ombra degli alberi, allontanandosi dal burrone, e ripresero il viaggio che sembrava infinito verso Arughia. Di che cosa avrebbe fatto una volta raggiunta la città, Roran però non aveva la più pallida idea. [eBookLove - eBL 043] Christopher Paolini - Inheritance [by Pico]

MANGIALUNA Mentre attraversava l’accampamento dei Varden, Eragon fece roteare le spalle per sciogliere il crampo al collo che gli era venuto dopo l’allenamento con Arya e Wyrden. Arrivato in cima a un poggio che si ergeva come un isolotto solitario in mezzo al mare di tende, mise le mani sui fianchi e ammirò il panorama. Davanti a lui si stendeva la scura vastità del Lago di Leona, scintillante alla luce del crepuscolo, con le piccole increspature che riflettevano l’arancione delle torce dell’accampamento. La strada che i Varden avevano percorso si trovava fra le tende e la riva: un’ampia striscia di pietre da lastrico e malta, costruita, così aveva detto Jeod, molto tempo prima che Galbatorix sconfiggesse i Cavalieri dei Draghi. Un quarto di miglio più a nord sorgeva un piccolo villaggio di pescatori affacciato sulle acque del lago; Eragon sapeva che gli abitanti non erano affatto felici che un esercito si fosse accampato alle porte di casa loro. Devi imparare... a vedere quello che guardi. Da quando aveva lasciato Belatona, Eragon aveva passato ore e ore a riflettere sulle parole di Glaedr. Non era sicuro di che cosa avesse voluto dirgli, perché il drago si era rifiutato di dargli ulteriori spiegazioni, così aveva deciso di seguire il suo enigmatico consiglio alla lettera. Si era impegnato a vedere tutte le cose che aveva davanti, anche le più piccole e insignificanti, e a capire che cosa celavano. Per quanto si fosse sforzato, Eragon sentiva di aver fallito. Ovunque guardasse, coglieva una quantità esorbitante di dettagli, ma era convinto che ci fosse qualcosa di più, che però continuava a sfuggirgli perché non era abbastanza sensibile da coglierlo. Peggio ancora, spesso non riusciva a dare un senso a ciò che notava: per esempio, in quel momento i comignoli del villaggio di pescatori non fumavano, e lui non sapeva spiegarsene il motivo. Malgrado la sua frustrazione, lo sforzo si era rivelato utile almeno per un verso: Arya non lo sconfiggeva più ogni volta che incrociavano le lame. L’aveva osservata con molta più attenzione, studiandola come avrebbe fatto con un cervo cui dava la caccia, e di conseguenza aveva vinto un paio di duelli. Tuttavia non era ancora alla sua altezza, e meno che mai migliore di lei, e non sapeva che cosa dovesse imparare, o da chi, per diventare esperto come lei nell’arte della spada. Forse Arya ha ragione, l’esperienza è l’unica maestra di cui ho bisogno, pensò. L’esperienza richiede tempo, però, e io non ne ho molto a disposizione. Presto arriveremo a Dras-Leona e poi a Urû’baen. Fra un paio di mesi al massimo dovremo fronteggiare Galbatorix e Shruikan. Eragon sospirò e si stropicciò il volto, cercando di rivolgere la mente a pensieri meno angoscianti. Ma tornava sempre agli stessi dubbi, che lo rodevano come un cane fa con un osso, con l’unico risultato di alimentare ancora di più la sua ansia. Perso nelle sue meditazioni, scese dalla collinetta. Vagò fra le ombre delle tende, avviandosi alla sua, ma senza prestare troppa attenzione al percorso. Come sempre, camminare lo aiutava a calmarsi. Gli uomini che incontrava si facevano da parte e si battevano un pugno sul cuore in segno di rispetto, spesso accompagnando il gesto con un «Ammazzaspettri» al quale Eragon rispondeva con un cortese cenno del capo. Camminava da un quarto d’ora, fermandosi e ripartendo al ritmo dei suoi pensieri, quando la voce di una donna, acuita dall’entusiasmo, interruppe le sue elucubrazioni.

Incuriosito, la seguì fino ad arrivare a una tenda isolata dalle altre, piantata ai piedi di un salice nodoso, l’unico albero sulla riva del lago che i Varden non avessero tagliato per farne legna da ardere. Sotto il folto manto di fronde, Eragon vide la scena più strana che gli fosse mai capitata davanti. Dodici Urgali, tra cui il comandante Nar Garzhvog, erano seduti a semicerchio intorno a un falò da campo dalle fiamme basse e tremolanti. Ombre minacciose danzavano sui loro volti, mettendo in risalto le fronti sporgenti, gli ampi zigomi e le mascelle prominenti, come anche le corna rugose che spuntavano dalla fronte e curvavano indietro a spirale ai lati della testa. Gli Urgali erano a torso nudo, tranne che per le polsiere di cuoio e le strisce di tessuto che pendevano da una spalla. Oltre a Garzhvog, c’erano altri tre Kull. La loro mole impressionante dava al resto degli Urgali, ciascuno dei quali alto non meno di sei piedi, un aspetto quasi minuto. In mezzo – e addosso – agli Urgali erano sparpagliate decine di gatti mannari in forma animale. Molti erano accucciati davanti al fuoco, immobili, senza nemmeno un fremito della coda, le orecchie tese in avanti. Altri erano sdraiati sul terreno, o sul grembo degli Urgali, o fra le loro braccia. Con sommo stupore Eragon vide perfino un’esile gatta mannara acciambellata sull’enorme testa di un Kull, la zampa destra che penzolava dal lucido cranio e gli premeva prepotente sulla fronte. I gatti mannari erano minuscoli rispetto agli Urgali, eppure avevano lo stesso aspetto selvatico; Eragon non aveva dubbi su chi avrebbe preferito incontrare in battaglia. Gli Urgali li capiva, mentre i gatti mannari erano imprevedibili. Dall’altro lato del falò, di fronte alla tenda, c’era Angela l’erborista, seduta a gambe incrociate su una coperta, intenta a filare una massa di lana cardata con un fuso che faceva ruotare davanti a sé come a voler ipnotizzare gli astanti. Gatti mannari e Urgali la fissavano rapiti. I loro occhi non la lasciavano un istante mentre l’erborista diceva: «... ma fu troppo lento, e il coniglio rabbioso dagli occhi rossi squarciò la gola di Hord, uccidendolo all’istante. Poi il coniglio scomparve nella foresta, e dalla storia. Tuttavia...» e qui Angela si protese in avanti e abbassò la voce «se viaggiate da quelle parti, come ho fatto io... a volte, perfino ai nostri giorni vi capiterà di incontrare un cervo o una Feldûnost appena uccisi che sembreranno rosicchiati come delle rape. E tutto intorno a voi vedrete le impronte di un coniglio enorme. Di quando in quando sparisce anche qualche guerriero di Kvôth, che poi ritrovano morto con la gola squarciata... sempre con la gola squarciata.» Angela raddrizzò la schiena. «Terrin rimase profondamente turbato dalla perdita del suo amico, si capisce, e voleva dare la caccia al coniglio, ma i nani avevano ancora bisogno del suo aiuto. Così tornò nella roccaforte, e per altri tre giorni e altrettante notti gli assediati difesero le mura, finché le loro scorte non furono quasi esaurite e ogni guerriero non fu coperto di ferite. «Alla fine, la mattina del quarto giorno, quando ogni speranza sembrava ormai perduta, le nubi si dissolsero, e con grande sorpresa Terrin vide arrivare in lontananza Mimring, che volava verso la roccaforte alla testa di un rombo di draghi. Gli assalitori, terrorizzati a quella vista, abbandonarono le armi e fuggirono.» Angela incurvò le labbra in un sorriso sghembo. «Come potete immaginare, questo rese alquanto felici i nani di Kvôth, e tutti esultarono. «E quando Mimring atterrò, Terrin si rese conto, con sorpresa ancora più grande, che le sue squame erano diventate trasparenti come diamanti, perché, e questo va detto, aveva

volato molto vicino al sole. Per chiamare a raccolta gli altri draghi in tempo, infatti, era stato costretto a volare sopra i picchi dei Monti Beor, più in alto di quanto avessero mai volato i draghi prima, o anche dopo. Da allora Terrin venne chiamato l’eroe dell’Assedio di Kvôth, e il suo drago Mimring il Brillante per via delle sue squame, e vissero per sempre felici e contenti... Anche se, a dire la verità, Terrin rimase sempre terrorizzato dai conigli, pure da vecchio. E questo è quanto accadde in realtà a Kvôth.» Quando scese il silenzio, i gatti cominciarono a fare le fusa e gli Urgali emisero qualche sommesso grugnito di approvazione. «Hai raccontato una bella storia, Uluthrek» commentò Nar Garzhvog; la sua voce era simile a una frana. «Ti ringrazio.» «Io però me la ricordo diversa» intervenne Eragon entrando nel cono di luce. Angela si illuminò. «Be’, non puoi certo aspettarti che i nani ammettano di essere stati succubi di un coniglio. Sei rimasto acquattato nell’ombra per tutto il tempo?» «Sono qui da appena un minuto» confessò lui. «E allora ti sei perso la parte migliore della storia, ma non ho alcuna intenzione di ripeterla stasera. Ho parlato così tanto che ho la gola secca.» Eragon sentì il terreno tremare mentre i Kull e gli altri Urgali si alzavano, con gran dispiacere dei gatti mannari che avevano addosso, molti dei quali miagolarono di protesta quando caddero a terra. Di fronte alla grottesca varietà di facce cornute riunite intorno al falò Eragon dovette reprimere l’impulso di afferrare l’elsa della spada. Anche dopo aver combattuto, viaggiato e cacciato insieme agli Urgali, trovarsi in loro presenza gli procurava ancora un profondo disagio. La mente gli diceva che erano alleati, ma le ossa e i muscoli non potevano dimenticare il terrore che gli aveva attanagliato le viscere nelle varie occasioni in cui se li era trovati di fronte in battaglia. Garzhvog trasse qualcosa dalla borsa di pelle che portava alla cintola. Allungando il braccio oltre il falò, porse l’oggetto ad Angela, che posò il fuso, mise le mani a coppa e accettò il dono. Era una sfera grezza di cristallo verdemare, che scintillò come neve gelata. L’erborista se la fece scivolare nella manica del vestito, poi riprese a filare. Garzhvog disse: «Qualche volta devi venire al nostro accampamento, Uluthrek, ad ascoltare i nostri racconti. Abbiamo un cantastorie con noi, è bravo. Quando lo ascolterai narrare la storia della vittoria di Nar Tulkhqa a Stavarosk ti sentirai ribollire il sangue e ti verrà voglia di ululare alla luna e di sfidare il più forte dei tuoi nemici a uno scontro all’ultimo sangue.» «Dipende se ho un nemico da sfidare oppure no» replicò Angela. «Sarò onorata di venire ad ascoltare le vostre storie. Magari domani sera?» Il gigantesco Kull annuì. «Dov’è Stavarosk?» s’informò Eragon. «Non ne ho mai sentito parlare.» Gli Urgali si agitarono, a disagio, e Garzhvog abbassò la testa e sbuffò dalle narici come un toro. «Che razza di domanda è, Spadafuoco?» ribatté, col nuovo appellativo che avevano

dato a Eragon da quando possedeva Brisingr. «Vuoi forse sfidarmi con questo insulto?» Aprì e serrò i pugni, un chiaro gesto di minaccia. Con estrema cautela, Eragon rispose: «Non avevo alcuna intenzione di irritarti, Nar Garzhvog. È una domanda sincera: non ho mai sentito nominare Stavarosk prima di questo momento.» Fra gli Urgali si diffuse un mormorio incredulo. «Com’è possibile che un umano non conosca Stavarosk?» si stupì Garzhvog. «La sua storia non è forse cantata ovunque, dalle pianure desolate del nord fino ai Monti Beor, come la nostra più grande vittoria? Sono sicuro che almeno i Varden ne parlino.» Angela sospirò e senza distogliere lo sguardo dal fuso commentò: «Forse è meglio se glielo dici.» In un angolo della mente, Eragon sentì che Saphira era in ascolto, e che era pronta a volare dalla loro tenda al suo fianco, in caso si fosse scatenata una rissa. Scegliendo le parole con cura, Eragon disse: «Nessuno me ne ha mai parlato, ma in realtà non sono con i Varden da molto tempo, e...» «Drajl!» imprecò Garzhvog. «Quel traditore senza corna non ha nemmeno il coraggio di ammettere la propria sconfitta. È un vigliacco e un bugiardo!» «Chi? Galbatorix?» chiese Eragon con circospezione. I gatti mannari sibilarono nel sentir nominare il re. Garzhvog annuì. «Sì. Quando prese il potere cercò di annientare la nostra razza. Mandò un esercito sterminato sulla Grande Dorsale. I suoi soldati distrussero i nostri villaggi, bruciarono le nostre ossa e lasciarono soltanto terra nera e sterile dietro di loro. Noi combattemmo, dapprima con gioia, poi con disperazione, senza mai arrenderci. Era l’unica cosa che potevamo fare. Non c’era nessun posto dove fuggire, o dove nasconderci. Chi avrebbe protetto gli Urgralgra quando perfino i Cavalieri dei Draghi erano stati messi in ginocchio? «Ma fummo fortunati. Avevamo un grande condottiero a guidarci, Nar Tulkhqa. Una volta era stato catturato dagli umani e aveva passato anni a combatterli, perciò conosceva il vostro modo di pensare. Grazie a questo riuscì a radunare molte delle nostre tribù sotto il suo comando. Poi attirò l’esercito di Galbatorix in una stretta gola fra le montagne e i nostri arieti piombarono su di loro da entrambe le parti. Fu un massacro, Spadafuoco. La terra era inzuppata di sangue, e le pile di cadaveri erano più alte di me. Ancora oggi, se vai a Stavarosk, sentirai le ossa scricchiolare sotto i piedi, e troverai monete, spade e pezzi di armatura sotto ogni chiazza di muschio.» «Siete stati voi!» esclamò Eragon. «Sapevo che una volta Galbatorix perse metà dei suoi uomini sulla Grande Dorsale, ma nessuno mi ha mai rivelato come o perché.» «Più della metà dei suoi, Spadafuoco.» Garzhvog scosse le spalle ed emise un verso roco. «Adesso capisco che dobbiamo tramandare a tutti la storia se vogliamo che la nostra vittoria sia ricordata. Cercheremo i vostri cantastorie, i vostri bardi, insegneremo loro le canzoni su Nar Tulkhqa e ci assicureremo che siano in grado di recitarle spesso e bene.» Annuì fra sé, come se avesse preso una solenne decisione – un gesto imponente, date le dimensioni della sua testa – e disse: «Ti saluto, Spadafuoco. Ti saluto, Uluthrek.» Poi, insieme ai suoi guerrieri, si dileguò nell’oscurità.

Angela rise ed Eragon trasalì. «Cosa c’è?» le domandò. L’erborista sorrise. «Immagino la faccia che farà quel povero suonatore di liuto quando uscirà dalla tenda e si ritroverà davanti dodici Urgali, di cui quattro Kull, ansiosi di insegnargli un po’ della loro cultura. Sarei sorpresa se non lo sentissimo urlare.» Ridacchiò di nuovo. Altrettanto divertito, Eragon si accovacciò e smosse le braci con un rametto. Avvertì un tiepido peso sul grembo; abbassò lo sguardo e vide la gatta mannara bianca acciambellata sulle sue gambe. Alzò una mano per sfiorarla, poi ci ripensò e le chiese: «Posso?» La gatta mannara agitò la coda, ma per il resto lo ignorò. Sperando di non fare cosa sgradita, Eragon cominciò ad accarezzare il collo della creatura. Un istante dopo nella sera echeggiò il suono delle sue fusa. «Le piaci» disse Angela. Per qualche ragione, Eragon si sentì stranamente compiaciuto. «Chi è? Voglio dire, chi sei? Come ti chiami?» Scoccò una rapida occhiata alla gatta nel timore di averla offesa. Angela rise in tono sommesso. «Si chiama Cacciaombre. O almeno questo è il significato del suo nome nella lingua dei gatti mannari. In realtà si chiama...» L’erborista fece una serie di versi gutturali e rasposi che fecero accapponare la pelle a Eragon. «Cacciaombre è la compagna di Grimrr Zampamonca, perciò si può dire che sia la regina dei gatti mannari.» Le fusa divennero più sonore. «Capisco.» Eragon guardò gli altri gatti mannari. «Dov’è Solembum?» «Impegnato a inseguire una gatta dai lunghi baffi che ha la metà dei suoi anni. Si comporta da stupido quando è in forma animale... ma d’altro canto, tutti hanno il diritto di fare gli stupidi ogni tanto.» Afferrò il fuso con la sinistra per bloccarlo e avvolse il filo appena formato intorno alla base del disco di legno. «Hai l’aria di uno che muore dalla voglia di fare mille domande, Ammazzaspettri.» «Ogni volta che ti incontro finisco sempre per ritrovarmi più confuso di prima.» «Sempre? È un’affermazione assoluta. D’accordo, cercherò di essere più chiara. Avanti, chiedi.» Sebbene scettico davanti a quella dichiarazione di franchezza, Eragon rifletté su che cosa gli sarebbe piaciuto sapere. «Un “rombo di draghi”? Cosa volevi...» «È il termine appropriato per indicare un gruppo di draghi. Se hai mai sentito il rumore che fa un drago in volo, allora puoi capire. Quando dieci, dodici draghi, o anche più, ti volano sulla testa, ti sembra di stare seduto dentro un gigantesco tamburo. E poi come altro vorresti chiamare un gruppo di draghi? Ci sono gli stormi di uccelli, i banchi di pesci, gli sciami di api, le mandrie di vacche, le greggi di pecore e via dicendo, ma i draghi? Una flotta? Non ha un bel suono. E non vanno bene neppure fiamma o terrore, anche se, tutto sommato, a me terrore piace: un terrore di draghi... Però no, un gruppo di draghi si chiama rombo. Cosa che sapresti se la tua istruzione avesse previsto qualcosa di più oltre a saper maneggiare la spada e a coniugare un paio di verbi nell’antica lingua.»

«Sono sicuro che tu abbia ragione» disse Eragon per compiacerla. Attraverso il legame mentale con Saphira, percepì la sua approvazione dell’espressione “rombo di draghi”: una definizione che anche lei trovava adeguata. Rifletté ancora per qualche istante, poi domandò: «E perché Garzhvog ti chiama Uluthrek?» «È il titolo che gli Urgali mi hanno dato tanto, tanto tempo fa, quando viaggiavo con loro.» «Cosa significa?» «Mangialuna.» «Mangialuna? Che strano nome. Come mai?» «Perché ho mangiato la luna, ovviamente. Per quale altro motivo, sennò?» Eragon aggrottò le sopracciglia, concentrandosi per qualche istante sulle carezze che stava facendo alla gatta. Poi: «Perché Garzhvog ti ha dato quella pietra?» «Perché gli ho raccontato una storia. Credevo che fosse evidente.» «Ma che cos’è?» «Un pezzo di roccia. Non te ne eri accorto?» L’erborista rise scuotendo il capo. «Sul serio, dovresti fare più attenzione a quello che ti succede intorno. Altrimenti è facile che qualcuno ti infilzi con un pugnale quando non guardi. E poi con chi scambierei le mie criptiche osservazioni?» Gettò indietro i capelli. «Coraggio, fammi un’altra domanda. Mi diverte questo gioco.» Eragon inarcò un sopracciglio e, pur sospettando che fosse inutile, domandò: «Cip cip?» L’erborista scoppiò in una fragorosa risata, e alcuni dei gatti mannari parvero schiudere le labbra in un sorrisetto. Dal canto suo però Cacciaombre sembrò irritata, perché affondò gli artigli nelle gambe di Eragon, facendolo trasalire. «Ebbene» disse Angela, continuando a ridere, «se proprio vuoi delle risposte, questa storia è buona come un’altra. Vediamo. Molti anni fa, quando viaggiavo ai margini della Du Weldenvarden verso ovest, a miglia e miglia di distanza da qualunque città, paese o villaggio, incontrai Grimrr. All’epoca era soltanto il capo di una piccola tribù di gatti mannari, e aveva ancora tutte le dita della zampa. Lo vidi che giocava con un piccolo pettirosso caduto dal nido di un albero lì vicino. Non mi sarebbe importato se avesse ucciso l’uccellino e se lo fosse mangiato, è quello che fanno i gatti, in fin dei conti. Ma lui lo stava torturando: gli tirava le ali, gli mordicchiava la coda, lo lasciava saltellare via per poi riacciuffarlo.» Angela arricciò il naso per il ribrezzo. «Gli dissi di fermarsi, ma lui si limitò a ringhiare e mi ignorò.» Fissò Eragon con uno sguardo severo. «Non mi piace quando la gente mi ignora. Così gli tolsi l’uccellino dalle grinfie, agitai le dita ed evocai un incantesimo, e per tutta la settimana seguente, ogni volta che apriva bocca, Grimrr cinguettò.» «Cinguettò?» Angela annuì, soffocando un ghigno divertito. «Non ho mai riso tanto in vita mia. Nessuno degli altri gatti mannari gli si avvicinò per tutta la settimana.» «Non mi sorprende che ti detesti.» «E allora? Se non ti fai qualche nemico di tanto in tanto sei un codardo, o peggio. E poi ne è valsa la pena. Dovevi vedere quant’era arrabbiato!»

Cacciaombre emise un altro sommesso sbuffo di ammonimento ed estrasse di nuovo gli artigli. Con una smorfia, Eragon disse: «Forse sarebbe meglio cambiare argomento.» «Mmm.» Prima che potesse fare un’altra domanda, un urlo terrorizzato si levò da qualche parte al centro dell’accampamento, riecheggiando tre volte prima di spegnersi nel silenzio. Eragon guardò Angela, lei guardò lui; poi entrambi scoppiarono a ridere.

CHIACCHIERE E SCRITTURA E' tardi, mormorò Saphira quando Eragon tornò con tutta calma alla tenda. La dragonessa giaceva raggomitolata lì fuori, scintillante come un cumulo di braci azzurre nella fioca luce delle torce. Lo squadrò da capo a piedi con un solo occhio dalla palpebra semichiusa. Eragon si accovacciò accanto alla testa di Saphira e premette la fronte sulla sua, abbracciando la ruvida mascella. Lo so, disse. E tu devi riposare dopo aver volato nel vento tutto il giorno. Dormi, ci vediamo domattina. La dragonessa batté la palpebra in segno di assenso. Dentro la tenda, Eragon accese una candela. Si sfilò gli stivali e sedette sulla branda a gambe incrociate. La sua respirazione rallentò, e lui dilatò la mente per raggiungere ogni essere vivente intorno a sé, dai vermi e gli insetti della terra a Saphira ai guerrieri dei Varden, e persino alle poche piante rimaste nei paraggi, dotate di energia fievole e indistinta in confronto allo splendore ardente anche degli animali più piccoli. Rimase seduto per un po’, la mente svuotata dai pensieri, consapevole di altre mille sensazioni, le più sottili e le più acute, concentrandosi soltanto sul flusso costante dell’aria che entrava e usciva dai polmoni. Da qualche parte fuori dalla tenda udì degli uomini parlare intorno a un falò. La brezza notturna portava le loro voci più lontano di quanto loro stessi avrebbero voluto, abbastanza perché il suo udito sviluppato riuscisse a distinguere le parole. Percepì anche le loro menti, e avrebbe potuto addirittura leggerne i pensieri, ma scelse di rispettare la loro riservatezza e di limitarsi ad ascoltare. Un uomo dalla voce profonda stava dicendo: «... e il modo in cui ti guardano dall’alto in basso, come se fossi l’ultimo degli ultimi. Il più delle volte non ti rivolgono nemmeno la parola quando fai loro una domanda amichevole. Ti voltano le spalle e se ne vanno.» «Già» disse un altro. «E le loro donne... belle come statue e altrettanto gelide.» «Questo perché sei un bastardo, e per di più brutto come la fame, Svern, ecco perché.» «Non è colpa mia se a mio padre piaceva andare in giro a sedurre le sguattere. E poi parli proprio tu, che con quella faccia faresti venire gli incubi ai bambini.» Il guerriero dalla voce profonda grugnì; poi qualcuno emise un colpo di tosse e sputò, ed Eragon sentì lo sfrigolio della saliva su un carbone ardente. Un terzo uomo intervenne nella conversazione. «A me gli elfi non piacciono quanto non piacciono a voi, ma ci servono per vincere la guerra.» «E se dopo ci si rivoltano contro?» chiese quello con la voce profonda. «Infatti» aggiunse Svern, «guardate cos’è successo a Ceunon e a Gil’ead. Nonostante tutti i suoi uomini e il suo potere, Galbatorix non è riuscito a impedire loro di invadere le città.» «Magari non ci ha nemmeno provato» suggerì il terzo. Seguì una lunga pausa. Poi l’uomo dalla voce profonda disse: «È un tarlo che non riesco a togliermi dalla testa... Che ci abbia provato oppure no, resta il fatto che non so come potremmo difenderci dagli

elfi se decidessero di riprendersi i loro vecchi territori. Sono più veloci e più forti e, al contrario di noi, non ce n’è uno che non sappia usare la magia.» «Già, ma noi abbiamo Eragon» ribatté Svern. «Lui potrebbe ricacciarli tutti nella foresta da solo, se lo volesse.» «Lui? Bah! Quello ha più l’aria di un elfo che di un umano. Non mi fiderei della sua lealtà più di quanto mi fidi degli Urgali.» Il terzo uomo prese di nuovo la parola. «Avete notato? È sempre perfettamente sbarbato, anche quando leviamo le tende all’alba!» «Si raderà con la magia.» «È contro natura, vi dico. Questo, e tutti gli altri incantesimi che girano di questi tempi. Ti fanno venire voglia di nasconderti in una grotta e aspettare che gli stregoni finiscano per ammazzarsi tra loro senza il nostro intervento.» «Non mi pare di averti sentito protestare quando i guaritori hanno usato la magia invece di un paio di pinze per toglierti quella freccia dalla spalla.» «Può darsi, ma quella freccia non mi avrebbe mai nemmeno colpito se non fosse stato per Galbatorix. Sono lui e la sua magia che hanno scatenato il caos.» Qualcuno ghignò. «Giusto, ma scommetterei fino all’ultimo centesimo che, Galbatorix o no, prima o poi saresti finito comunque con una freccia in corpo. Sei troppo rozzo per fare qualcosa che non sia combattere.» «Eragon mi ha salvato la vita a Feinster, sapete» disse Svern. «Sì, lo sappiamo, e se ci racconti quella storia per l’ennesima volta, giuro che ti faccio svuotare pitali per una settimana.» «Be’, è la verità...» Un altro lungo silenzio, interrotto da un sospiro del guerriero dalla voce profonda. «Dobbiamo imparare a difenderci da soli. È questa la nostra difficoltà. Dipendiamo dagli elfi, dai maghi... i loro e i nostri... e da un’infinità di altre strane creature. Non c’è problema per quelli come Eragon, ma noi non siamo altrettanto fortunati. Quello che ci serve è...» «Quello che ci serve» lo interruppe Svern «sono i Cavalieri dei Draghi. Loro riporterebbero l’ordine nel mondo.» «Pff. Con quali draghi? Non esistono Cavalieri dei Draghi senza draghi. E comunque sia, continueremmo a non saperci difendere da soli, ed è questo che mi preoccupa. Non sono un poppante che si nasconde dietro le sottane della mamma, ma se uno Spettro sbucasse all’improvviso dalle tenebre non c’è una sola dannatissima cosa che potremmo fare per impedirgli di staccarci la testa.» «Il che mi ricorda... Avete sentito di Lord Barst?» chiese il terzo uomo. Svern borbottò un sì. «Mi hanno detto che dopo gli ha mangiato il cuore.» «Che storia è questa?» domandò il guerriero dalla voce profonda. «Barst...» «Barst?» «Ma sì, il conte che ha una grande tenuta dalle parti di Gil’ead...»

«Non è quello che ha spinto i cavalli nel Ramr solo per fare un torto a...» «Sì, lui. A ogni modo, Barst entra in questo villaggio e ordina a tutti gli uomini di unirsi all’esercito di Galbatorix. La solita storia. Solo che stavolta quelli si rifiutano, e attaccano Barst e i suoi soldati.» «Coraggiosi» commentò quello con la voce profonda. «Stupidi, ma coraggiosi.» «Be’, Barst era troppo furbo per loro: aveva appostato gli arcieri tutto intorno al villaggio prima di entrare. I soldati uccidono metà degli uomini e riducono il resto in fin di vita. Ma fin qui tutto normale. Poi però Barst prende il capo, quello che aveva dato il via alla rivolta, e gli stacca la testa!» «No.» «Come a un pollo. Peggio ancora, ordina di bruciare viva la sua famiglia.» «Barst dev’essere forte come un Urgali per staccare la testa di un uomo a mani nude» disse Svern. «Magari ha usato qualche trucco.» «Un incantesimo, vuoi dire?» fece l’uomo dalla voce profonda. «A quanto pare, è sempre stato forte... forte e intelligente. Dicono che da giovane abbia ucciso un bue ferito con un solo pugno.» «A me pare sempre magia.» «Questo perché tu vedi stregoni malvagi ovunque.» Il guerriero dalla voce profonda grugnì, ma non replicò. A quel punto gli uomini si divisero per fare la ronda, ed Eragon non udì più niente. In altre circostanze quella conversazione lo avrebbe turbato, ma poiché stava meditando rimase impassibile, pur sforzandosi di tenere a mente quanto avevano detto per poter riflettere in seguito su quelle parole. Dissolti i pensieri, adesso calmo e rilassato, Eragon chiuse la mente, aprì gli occhi e con estrema lentezza sciolse le gambe, stiracchiandosi. Il movimento della fiamma della candela attirò la sua attenzione ed Eragon rimase a fissarla per un minuto, incantato dalla sua danza. Poi si alzò per andare nell’angolo dove aveva lasciato le bisacce di Saphira e tirò fuori il calamo, il pennello, la boccetta d’inchiostro e i fogli di pergamena che aveva chiesto a Jeod qualche giorno prima; prese anche la copia del Domia abr Wyrda che il vecchio studioso gli aveva dato. Tornò alla branda e posò il libro il più lontano possibile per metterlo al riparo da schizzi di inchiostro. Si mise lo scudo sulle ginocchia come un vassoio e distese i fogli di pergamena sulla superficie curva. Un odore penetrante di tannino si diffuse nell’aria quando stappò la boccetta e intinse il calamo nell’inchiostro di galla di quercia. Passò la punta del calamo sul bordo della boccetta per eliminare il liquido in eccesso, poi tracciò con cautela il primo segno. Il calamo raspava la pergamena mentre Eragon scriveva le rune nella sua lingua natia. Quando ebbe finito, le confrontò con quelle della notte prima, per vedere se la sua grafia era migliorata – soltanto un po’ – e poi con le rune vergate sulla copia del Domia abr Wyrda che usava come modello.

Ricopiò l’intero alfabeto tre volte, prestando particolare attenzione alle lettere che gli risultavano più difficili. Poi cominciò a scrivere i suoi pensieri e le osservazioni sugli eventi della giornata. L’esercizio era utile non solo per impratichirsi nella scrittura, ma anche per comprendere meglio le cose che aveva visto e fatto. Anche se era faticoso, gli piaceva scrivere perché era una sfida. E poi gli faceva tornare in mente Brom: il vecchio cantastorie gli aveva insegnato il significato di ogni runa, e questo gli faceva provare un senso di comunanza con il padre che altrimenti gli sfuggiva. Dopo aver scritto tutto quello che voleva dire, lavò il calamo e passò al pennello. Prese un altro foglio di pergamena, coperto già per metà di glifi nell’antica lingua. La scrittura elfica, la Liduen Kvaedhí, era molto più difficile da riprodurre delle rune nella sua lingua, a causa delle forme elaborate e ricche di volute. Ma Eragon insisteva per due motivi: doveva mantenere la familiarità con la scrittura, e nel caso avesse dovuto vergare qualcosa nell’antica lingua era meglio che lo facesse in una forma incomprensibile ai più. Malgrado la sua buona memoria, Eragon aveva scoperto di aver dimenticato alcuni degli incantesimi che Brom e Oromis gli avevano insegnato. Perciò aveva deciso di compilare un dizionario con ogni parola che conosceva nell’antica lingua. Non era un’idea molto originale, ma solo di recente aveva apprezzato il valore di un simile compendio. Lavorò al dizionario per un altro paio d’ore; poi ripose tutto nelle bisacce e prese lo scrigno che conteneva il cuore dei cuori di Glaedr. Provò a destare il vecchio drago dal suo torpore, come aveva già fatto tante volte, e come ogni altra volta fallì. Eragon però rifiutava di arrendersi. Seduto davanti allo scrigno aperto, lesse ad alta voce a Glaedr un brano del Domia abr Wyrda che parlava dei riti e delle cerimonie dei nani, che in parte già conosceva, finché non sopraggiunse la parte più fredda e buia della notte. Allora mise da parte il libro, spense la candela e si sdraiò sulla branda per riposare. Vagò fra le visioni del suo sonno vigile per un po’; quando cominciò ad albeggiare, si tirò su per ricominciare daccapo con un'altra monotona giornata. [eBookLove - eBL 043] Christopher Paolini - Inheritance [by Pico]

ARUGHIA Era metà mattina quando Roran e i suoi uomini raggiunsero il gruppo di tende erette ai bordi della strada. Agli occhi di Roran, annebbiati dalla stanchezza, l’accampamento apparve come un ammasso grigio e indistinto. La città di Arughia si ergeva un miglio più a sud, ma il guerriero riusciva a scorgerne soltanto i tratti più evidenti: mura bianco ghiaccio, varchi sbarrati da cancelli di ferro e una serie di torri quadrate di pietra. Si tenne saldo al pomolo della sella mentre trottavano nell’accampamento; i cavalli erano sul punto di stramazzare. Un ragazzo scalzo e smunto corse verso di lui e afferrò le redini del suo castrone, tirandole finché l’animale non si arrestò. Roran guardò il giovane, così frastornato da non rendersi conto di come si fosse fermato, e con voce roca disse: «Vai a chiamare Brigman.» Senza dire una parola, il ragazzo tornò di corsa fra le tende, sollevando nuvolette di polvere. Roran aspettò per quelle che gli parvero ore. Il respiro affannoso del cavallo faceva il paio col pulsare del sangue nelle sue orecchie. Quando guardò il terreno, ebbe l’impressione che si muovesse ancora, come lungo un tunnel che proseguiva all’infinito. Dall’altra parte dell’accampamento arrivò un uomo dalle spalle larghe, con indosso una tunica azzurra. Zoppicava e usava una lancia spezzata come bastone. Aveva la barba folta e lunga, anche se il labbro superiore era glabro e scintillava di sudore, se per il dolore o per il caldo Roran non avrebbe saputo dirlo. «Sei Fortemartello?» gli chiese. Roran riuscì a emettere soltanto un grugnito di assenso. Mollò la presa sul pomolo della sella, s’infilò la mano nella tunica e porse a Brigman il logoro rettangolo di pergamena che conteneva gli ordini di Nasuada. Brigman ruppe il sigillo di ceralacca con l’unghia del pollice. Studiò la pergamena, poi l’abbassò e indirizzò a Roran uno sguardo impassibile. «Vi stavamo aspettando» gli disse. «Uno degli stregoni di Nasuada mi ha fatto sapere quattro giorni fa che eravate partiti, ma non pensavo che sareste arrivati così presto.» «Non è stato facile» replicò Roran. Brigman torse le labbra. «No, immagino di no... signore.» Gli restituì la pergamena. «Gli uomini sono al tuo servizio, Fortemartello. Stiamo per sferrare un attacco al cancello ovest. Per caso vorresti guidare tu la carica?» La domanda fu affilata come un pugnale. Il mondo vorticò intorno a Roran, che di nuovo si tenne stretto alla sella. Era troppo stanco per discutere con chiunque, e lo sapeva. «Ordina agli uomini di aspettare un giorno» disse. «Ti ha dato di volta il cervello? Come pensi che riusciremo a prendere la città? Ci abbiamo messo tutta la mattina a preparare l’attacco, e non ho alcuna intenzione di restarmene seduto qui a girarmi i pollici mentre tu ti fai una dormitina. Nasuada si aspetta che conquistiamo la città nei prossimi giorni e, per Angvard, lo farò!»

Con un tono di voce così basso da farsi udire soltanto da Brigman, Roran ringhiò: «Dirai agli uomini di aspettare, altrimenti ti faccio appendere per le caviglie e frustare per insubordinazione. Non darò il via a nessun attacco finché non avrò l’opportunità di riposare e studiare la situazione.» «Sei un pazzo, ecco cosa sei. Questo ci...» «Se non tieni a freno la lingua e fai come ti chiedo, ti darò una bella lezione, qui davanti a tutti.» Le narici di Brigman fremettero. «Nelle tue condizioni? Non ce la faresti.» «Ti sbagli» sibilò Roran, e diceva sul serio. Non aveva idea di come sarebbe riuscito a batterlo in quel momento, ma sapeva con ogni fibra del suo corpo che l’avrebbe fatto. Brigman sembrava preda di una lotta interiore. «D’accordo» dichiarò infine, sprezzante. «Non farebbe bene agli uomini vederci azzuffare qui nella polvere. Aspetteremo, se così desideri, ma non mi riterrò responsabile per la perdita di tempo. Ne risponderai tu, non io, stanne certo.» «Come sempre» bofonchiò Roran smontando di sella, la gola stretta in una morsa di dolore. «Ma il pasticcio che hai combinato con questo assedio è senz’altro colpa tua.» Brigman si accigliò, e Roran intuì che il disprezzo che l’uomo provava per lui si era trasformato in odio. Forse avrebbe dovuto scegliere un approccio più diplomatico. «La tua tenda è da questa parte.» Era ancora mattina quando Roran si svegliò. La luce soffusa che filtrava dalla tenda lo mise di buonumore. Per un istante pensò di aver dormito solo qualche minuto, ma poi si accorse di essere troppo lucido e vigile. Si mandò al diavolo in silenzio, furibondo con se stesso per essersi fatto scivolare un’intera giornata fra le dita. Aveva addosso una sottile coperta, praticamente inutile col clima mite del sud, soprattutto perché era ancora vestito, con tanto di stivali. La scostò e fece per mettersi a sedere. Gli sfuggì un gemito strozzato quando il suo corpo si ribellò con una serie di fitte lancinanti. Ricadde sulla schiena, boccheggiando. Il supplizio iniziale scemò ben presto, ma gli lasciò dolori sparsi dappertutto, alcuni più forti di altri. Impiegò parecchi minuti per recuperare le energie. Con uno sforzo immane rotolò su un fianco e spostò le gambe fuori dalla branda. Si fermò per riprendere fiato prima di tentare l’impresa impossibile di alzarsi. Quando fu in piedi, sorrise amaro. Si annunciava una giornata interessante. Uscito dalla tenda, trovò gli altri già pronti che lo aspettavano. Avevano l’aria esausta e stravolta, e si muovevano rigidi come lui. Dopo uno scambio di saluti, Roran indicò la benda che fasciava il braccio di Delwin, nel punto in cui un locandiere lo aveva ferito con uno sbucciapatate. «Ti fa ancora male?» Delwin si strinse nelle spalle. «Non tanto. Posso combattere.» «Bene.» «Cosa intendi fare?» gli domandò Carn.

Roran guardò il sole di poco alto sull’orizzonte per calcolare quanto mancava a mezzogiorno. «Una passeggiata» rispose. Partendo dal centro dell’accampamento, Roran condusse i compagni su e giù per le file di tende, ispezionando le condizioni delle truppe e del loro equipaggiamento. Di quando in quando si fermava a fare qualche domanda a un guerriero prima di proseguire. Gli uomini erano stanchi e scoraggiati, anche se Roran notò che il loro umore migliorava nettamente quando lo vedevano. Il giro di perlustrazione si concluse ai margini meridionali dell’accampamento, come aveva deciso. Il gruppo si fermò per contemplare l’imponente massa di Arughia. La città era costruita su due livelli: il primo, basso ed esteso, conteneva la maggior parte degli edifici, mentre il secondo, più piccolo, era arroccato in cima a un dolce e lungo pendio, il punto più alto nel raggio di parecchie miglia. Entrambi i livelli erano protetti da una cinta muraria. Le mura esterne contavano cinque cancelli: due affacciati sulle strade che portavano in città, una da nord e una da est, e tre a cavallo di altrettanti canali che scorrevano verso sud, entrando in città. Dall’altra parte di Arughia si estendeva il mare infinito, dove probabilmente sfociavano i canali. Almeno non hanno un fossato, pensò Roran. Il cancello nord era graffiato e ammaccato dai colpi di un ariete da assedio, e il terreno davanti all’ingresso recava tracce evidenti di battaglia. Vicino alle mura esterne erano disposte tre catapulte, quattro baliste del tipo che lui già conosceva dai tempi dell’ Ala di Drago e due traballanti torri d’assedio. Uno sparuto gruppo di uomini se ne stava accovacciato accanto ai macchinari da guerra, chi fumando la pipa, chi giocando a dadi su un pezzo di pelle conciata. Le macchine sembravano minuscole e inadeguate rispetto alla massa monolitica della città. La bassa pianura che circondava Arughia digradava dolcemente verso il mare. Centinaia di fattorie punteggiavano la vasta distesa erbosa, ciascuna segnalata da un recinto di legno e da almeno una capanna col tetto di paglia. Qua e là sorgevano tenute sontuose: manieri di pietra protetti a loro volta da alte mura e con ogni probabilità da guardie. Senza dubbio appartenevano ai nobili di Arughia e forse a qualche ricco mercante. «Cosa ne pensi?» domandò a Carn. Il mago scosse il capo: lo sguardo che trapelava dalle palpebre socchiuse era più afflitto che mai. «Tanto vale assediare una montagna.» «Infatti» osservò Brigman, che li aveva appena raggiunti. Roran tenne per sé le proprie considerazioni; non voleva che gli altri sapessero quanto si sentiva demoralizzato. Nasuada è pazza se pensa che riusciremo a prendere Arughia con solo ottocento uomini. Fossero stati ottomila, con Eragon e Saphira al nostro fianco, non avrei avuto dubbi. Ma così... Eppure sapeva di dover escogitare un modo, se non altro per amore di Katrina. Senza guardarlo, Roran si rivolse a Brigman: «Parlami di Arughia.» Brigman si rigirò la lancia fra le mani due o tre volte, conficcandone la punta nel terreno, poi rispose: «Galbatorix è stato previdente: ha rifornito la città di viveri prima che tagliassimo le comunicazioni fra qui e l’Impero. L’acqua, come puoi vedere, non manca. Se anche deviassimo i canali, all’interno delle mura hanno comunque parecchi pozzi e

sorgenti. Potrebbero tranquillamente resistere fino all’inverno, se non oltre, anche se scommetto che si stancheranno di mangiare rape. Inoltre Galbatorix ha mandato un buon numero di soldati, più del doppio di noi, in rinforzo al contingente di stanza in città.» «Come fai a saperlo?» «Un informatore. Purtroppo non aveva molta esperienza di strategia militare, e ci ha fornito una valutazione troppo ottimistica dei punti deboli di Arughia.» «Ah.» «Ci aveva anche promesso che avrebbe fatto in modo di far entrare un piccolo gruppo di uomini in città col favore del buio.» «E poi?» «Abbiamo aspettato, ma non si è fatto vivo, e la mattina dopo abbiamo visto la sua testa impalata sul parapetto. È ancora lì, al cancello est.» «Capisco. Ci sono altri ingressi oltre a questi cinque?» «Sì, tre. Sul porto c’è una chiusa grande abbastanza per far defluire tutti e tre i canali insieme; di fianco c’è un passaggio all’asciutto per uomini e cavalli. Inoltre laggiù...» indicò la zona ovest della città «c’è un cancello identico agli altri.» «Si possono abbattere?» «Non è così facile. Sulla riva non avremmo sufficiente spazio di manovra e sarebbe praticamente impossibile sottrarci alle frecce e alle pietre dei soldati nemici. Non ci restano che questi cancelli, oppure quello a ovest. La striscia di terra è più o meno la stessa intorno alla città, fatta eccezione per la spiaggia, così ho scelto di concentrare il nostro attacco sul cancello più vicino.» «Di cosa sono fatti?» «Ferro e legno di quercia. Reggeranno per altre centinaia di anni, a meno che non li abbattiamo.» «Sono protetti da qualche incantesimo?» «Non saprei dirtelo, dal momento che Nasuada non ha ritenuto opportuno farci accompagnare da uno dei suoi stregoni. Halstead ha...» «Halstead?» «Lord Halstead, il governatore di Arughia. Devi aver sentito parlare di lui.» «No.» Seguì una breve pausa, durante la quale Roran avvertì che il disprezzo di Brigman nei suoi confronti cresceva sempre più. Poi l’uomo continuò: «Halstead ha un suo “prestigiatore” di fiducia, un tipo barbuto e allampanato dalla pelle giallognola: lo abbiamo visto in cima alle mura che borbottava qualcosa cercando di colpirci con i suoi incantesimi. A quanto pare, però, è piuttosto incompetente: con le sue maldestre formule magiche è riuscito soltanto a carbonizzare due degli uomini che spingevano l’ariete.» Roran scambiò un’occhiata con Carn – lo stregone aveva l’aria oltremodo preoccupata – e poi decise che sarebbe stato meglio discutere la faccenda in privato. «Non sarebbe più facile entrare dai cancelli sui canali?» domandò.

«E dove faresti appostare gli uomini? Guarda come sono incassati nelle mura, senza un minimo di spazio. Per di più ci sono feritoie e botole sul soffitto della volta, da cui possono rovesciare olio bollente, scagliare massi o scoccare frecce su ogni temerario che osasse avventurarsi lì dentro.» «I cancelli non possono essere solidi e compatti fino alla base, altrimenti bloccherebbero il flusso dei canali, giusto?» «Giusto. Sotto la superficie c’è una grata di legno e metallo, con diverse aperture per non arrestare il flusso dell’acqua.» «Capisco. E i cancelli sono sempre abbassati, anche quando Arughia non è sotto assedio?» «Di notte sì, ma credo che di giorno li lascino alzati.» «Mmm. E che mi dici delle mura?» Brigman spostò il peso da una gamba all’altra. «Blocchi di granito liscio e levigato, senza nemmeno uno spiraglio grande abbastanza da infilarci una lama. Opera dei nani, immagino, risalente a prima della caduta dei Cavalieri. Suppongo che le intercapedini siano piene di detriti compattati, ma non ne sono sicuro perché non siamo ancora riusciti a rompere la parte esterna. Sprofondano per almeno dodici piedi nel sottosuolo, forse anche di più, il che vuol dire che non possiamo scavare un tunnel sotterraneo né indebolirle con infiltrazioni.» Brigman fece un passo avanti e indicò i poderi a nord e a ovest. «La maggior parte dei nobili si è ritirata ad Arughia, ma ha lasciato degli uomini a guardia delle proprietà. Ci hanno dato qualche problema: attacchi ai nostri ricognitori, furti di cavalli. Abbiamo occupato due tenute...» proseguì indicando un paio di rovine bruciate a qualche miglio di distanza, «ma gestirle era più una seccatura che un vantaggio, così le abbiamo saccheggiate e poi date alle fiamme. Purtroppo non abbiamo abbastanza uomini per prendere il resto.» Intervenne Baldor. «Perché i canali passano dentro Arughia? Non mi sembra che vengano usati per irrigare i campi.» «Non hanno bisogno d’acqua da queste parti, non più di quanto al nord abbiano bisogno di neve durante l’inverno. Anzi, il problema è restare asciutti.» «E allora a cosa servono?» domandò Roran. «E da dove vengono? Non posso credere che prendano l’acqua dal fiume Jiet, è troppo lontano.» «Infatti» disse Brigman. «Ci sono dei laghetti nelle paludi a nord. Acqua salmastra, insalubre, ma gli abitanti ci sono abituati. C’è un solo canale che la fa defluire dalle paludi fino a tre miglia da qui. Poi il canale si divide nei tre rami che arrivano fin qui, con una serie di cateratte in grado di alimentare i mulini che forniscono la farina per la città. I contadini portano il grano ai mulini dopo il raccolto, e i sacchi di farina vengono caricati su chiatte che navigano fino ad Arughia. È un modo pratico per trasportare anche altre merci, tipo legname e vino, dalle tenute fino in città.» Roran si massaggiò la nuca, continuando a studiare Arughia. Quello che gli aveva detto Brigman lo intrigava, ma non era sicuro di come poterlo sfruttare. «C’è qualcos’altro di interessante che riguarda i dintorni?» «Soltanto una cava di ardesia a sud, lungo la costa.»

Roran borbottò fra sé, ancora perso nelle sue meditazioni. «Voglio vedere i mulini» disse. «Ma prima presentami un rapporto completo sul periodo che avete passato qui: voglio sapere come siamo messi a rifornimenti, dalle frecce alle gallette.» «Se vuoi seguirmi... Fortemartello.» Roran trascorse l’ora seguente a parlare con Brigman e altri due luogotenenti, interrompendo di tanto in tanto con domande il lungo resoconto di ogni assalto lanciato contro le mura cittadine e l’elenco delle provviste rimaste ai guerrieri sotto il suo comando. Almeno le armi non ci mancano, pensò mentre contava il numero dei caduti. Anche se Nasuada non avesse fissato un limite di tempo per la missione, gli uomini e i cavalli non avrebbero avuto cibo a sufficienza per restare accampati dov’erano per più di una settimana. Molti dei fatti e delle cifre che Brigman e i suoi ufficiali gli riferivano erano scritti su rotoli di pergamena. Roran fece di tutto per nascondere che non sapeva decifrare le righe di sgorbi neri, esortando gli uomini a leggere loro stessi, ma lo irritava dipendere dagli altri. Nasuada ha ragione, pensò. Devo imparare a leggere, altrimenti non saprò capire se qualcuno mente mentre afferma che un documento dice una cosa oppure un’altra. Magari Carn mi potrà insegnare quando torneremo dai Varden. Più informazioni apprendeva su Arughia, più aveva compassione di Brigman: occupare la città era un difficile compito. Quell’uomo non gli piaceva, ma Roran pensava che il capitano avesse fatto del suo meglio, date le circostanze. Aveva fallito non perché fosse un incompetente, ma perché gli mancavano due qualità che avevano assicurato la vittoria a Roran in più di un’occasione: audacia e immaginazione. Finito il rapporto, Roran e i suoi cinque compagni si recarono con Brigman a ispezionare le mura e le porte di Arughia più da vicino, pur mantenendosi a distanza di sicurezza. Rimontare in sella fu un’esperienza dolorosissima per Fortemartello, ma la sopportò senza un lamento. Mentre i cavalli trottavano sulla strada lastricata che si allontanava dall’accampamento verso la città, Roran notò che di tanto in tanto gli zoccoli calpestando il suolo producevano uno strano rumore. Gli parve di averlo già sentito, e di esserne rimasto infastidito, durante l’ultimo giorno di viaggio. Abbassò lo sguardo e si accorse che le pietre piatte che formavano la superficie stradale sembravano fissate con argento brunito, le cui venature formavano un disegno irregolare simile a una ragnatela. Roran chiamò Brigman a gran voce e chiese informazioni. L’uomo gridò di rimando: «Qui la terra fornisce una malta scadente, così usano il piombo per tenere insieme le pietre da lastrico.» Lì per lì la reazione di Roran fu di incredulità, ma Brigman era serissimo. Era straordinario che da quelle parti la gente avesse tanto metallo a disposizione da sprecarlo per farci una strada. Continuarono a trottare sul viale di pietra e piombo verso la città scintillante al sole. Studiarono le difese di Arughia con estrema attenzione, ma Roran non notò nulla che già non sapesse, e quell’ispezione più accurata servì solo a rafforzare l’impressione che la città fosse praticamente inespugnabile.

Guidò il cavallo verso quello di Carn. Lo stregone fissava Arughia con occhi vitrei, e muoveva le labbra in silenzio, come se stesse parlando fra sé. Roran aspettò che finisse, poi a bassa voce gli domandò: «Ci sono incantesimi sui cancelli?» «Penso di sì» rispose Carn in tono altrettanto sommesso, «ma non so bene quanti siano o a cosa servano. Ho bisogno di più tempo per capire se fanno al caso nostro.» «Perché è tanto difficile?» «Non è difficile. Gran parte degli incantesimi è facile da individuare, a meno che qualcuno non abbia volutamente tentato di nasconderli, ma anche se così fosse, di solito il mago lascia qualche traccia rivelatrice, se sai dove cercare. Mi preoccupa il fatto che uno o più incantesimi possano essere trappole posizionate al solo scopo di impedire a qualcuno di manomettere le difese magiche dei cancelli. Se ho ragione e per sbaglio ne innescassi una, allora chissà cosa potrebbe accadere... Magari mi scioglierei in una pozzanghera davanti ai tuoi occhi, una fine che gradirei evitare, se non ti dispiace.» «Vuoi restare qui mentre noi proseguiamo?» Carn scosse il capo. «Non credo sia saggio lasciarvi sguarniti mentre siamo fuori dall’accampamento. Tornerò dopo il tramonto e vedrò cosa posso fare. Sarebbe più utile se mi avvicinassi ai cancelli, ma non oso farlo adesso, sotto gli occhi delle sentinelle.» «Come preferisci.» Quando Roran ritenne di aver visto tutto quel che c’era da vedere della città, chiese a Brigman di accompagnarli ai mulini. Erano grossomodo come il capitano li aveva descritti. L’acqua del canale scorreva attraverso una serie di tre cascatelle alte venti piedi. Alla base di ciascuna c’era una ruota munita di secchi. L’acqua cadeva al loro interno, facendo muovere le ruote collegate a grosse assi che scomparivano in tre costruzioni identiche, poste una sopra all’altra lungo l’argine terrazzato: dovevano essere lì dentro le enormi mole necessarie a produrre la farina per la popolazione di Arughia. Anche se le ruote giravano, Roran intuì che dovevano averle scollegate dai complessi macchinari celati all’interno delle costruzioni, perché non si sentiva il rombo costante delle mole che macinavano. Smontò da cavallo davanti al mulino più vicino e percorse il sentiero che si snodava fra gli edifici, studiando le dighe di sbarramento a monte delle cascate e controllando quanta acqua ci passava. Le dighe erano aperte, ma una profonda pozza ristagnava ai piedi delle tre ruote, che giravano molto lentamente. Roran si fermò a metà della collina, e con i piedi ben piantati nel terreno molle dell’argine terrazzato, le braccia conserte e il mento affondato nel petto, iniziò a riflettere su come conquistare Arughia. Era sicuro che ci fosse qualche trucco o strategia che gli avrebbe permesso di aprire la città come una zucca matura, ma ancora gli sfuggiva. Continuò a meditare finché non fu stanco di pensare e si abbandonò allo scricchiolio delle ruote dei mulini e allo sciabordio dell’acqua. Per quanto quei suoni fossero rilassanti, non riusciva a non provare una certa inquietudine, perché quel luogo gli ricordava il mulino di Dempton a Therinsford, dove era andato a lavorare il giorno in cui i Ra’zac avevano bruciato la sua casa e torturato a morte suo padre.

Roran provò a scacciare il ricordo, ma quell’immagine era ostinata e gli faceva torcere le viscere. Se solo avessi aspettato un paio d’ore ad andarmene, avrei potuto salvarlo. Ma la sua parte più razionale replicò: Già, e i Ra’zac mi avrebbero ucciso prima ancora di poter alzare un dito. Senza Eragon a proteggermi, sarei stato indifeso come un neonato. Con passo felpato, Baldor lo raggiunse sul bordo del canale. «Gli altri si domandano se hai già un piano» disse. «Ho qualche idea, ma nessun piano. E tu?» Baldor incrociò le braccia come Roran. «Potremmo aspettare che Nasuada mandi Eragon e Saphira ad aiutarci.» «Bah.» Per qualche istante rimasero a fissare il movimento incessante dell’acqua sotto di loro. Poi Baldor suggerì: «E se chiedessi loro semplicemente di arrendersi? Magari si spaventano tanto a sentire il tuo nome che spalancano le porte, ti cadono ai piedi e implorano clemenza.» Roran ridacchiò piano. «Dubito che il mio nome sia arrivato fino ad Arughia. Però...» si passò una mano sulla barba «magari vale la pena fare un tentativo. Se non altro per spiazzarli.» «Ma se anche riuscissimo a entrare in città, ce la faremmo a tenerla con così pochi uomini?» «Forse, o forse no.» Una pausa, poi Baldor commentò: «Certo che siamo arrivati lontano, eh?» «Già.» E di nuovo si udì soltanto il rumore dell’acqua e delle ruote che giravano. Alla fine Baldor disse: «Da queste parti deve cadere meno neve che a casa, altrimenti a primavera col disgelo le ruote finirebbero per metà sommerse.» Roran scosse il capo. «Non importa quanta neve o acqua fluisce. Le dighe di sbarramento servono proprio a regolare il flusso dell’acqua che scorre sulle ruote per non farle girare troppo in fretta.» «E se il livello dell’acqua supera quello della diga?» «Si spera che quel giorno la macinatura sia finita, ma in ogni caso, si scollegano gli assi, si alzano le saracinesche, e...» La voce di Roran si spense mentre una serie di immagini gli affollava la mente, il corpo pervaso da un improvviso calore, come se si fosse scolato un intero fiasco d’idromele in un sorso solo. Potrei farcela?, si domandò, eccitato. Funzionerebbe davvero o... Non importa, dobbiamo provarci. Cos’altro possiamo fare? Marciò fino al centro della berma che arginava lo stagno centrale e afferrò il manico dell’alto ingranaggio a vite usato per alzare e abbassare la saracinesca della diga. La vite era dura e non cedeva, anche se Roran vi si appoggiò con la spalla e spinse con tutto il suo peso. «Aiutami» disse a Baldor, rimasto sull’argine a guardarlo, perplesso e incuriosito.

Baldor, attento a dove metteva i piedi, si avvicinò a Roran sulla berma. Insieme riuscirono a chiudere la diga. Poi, rifiutandosi di rispondere alle domande dell’amico, Roran insistette per fare lo stesso con le altre due. Una volta chiuse ermeticamente tutte e tre le dighe, Roran tornò da Carn, Brigman e gli altri e li invitò a scendere da cavallo per riunirsi intorno a lui. Tamburellava sulla testa del martello mentre li aspettava, mostrando un’impazienza irragionevole. «Allora?» chiese Brigman quando lo ebbe raggiunto. Roran guardò ciascuno negli occhi per assicurarsi la loro massima attenzione, poi disse: «Dunque, ecco cosa faremo...» E iniziò a parlare fitto fitto, senza interrompersi per una buona mezz’ora, spiegando tutto quello che gli era venuto in mente in un unico lampo di genio. Mentre parlava, Mandel cominciò a sogghignare, e sebbene gli altri restassero seri, anche Baldor, Delwin e Hamund sembravano eccitati dall’audacia del piano descritto. La loro reazione soddisfò Roran. Aveva fatto molto per conquistare la loro fiducia ed era felice di sapere che poteva ancora contare sul loro appoggio. La sua unica paura era di deluderli: di tutti gli scenari possibili, soltanto perdere Katrina gli sembrava peggio. Carn, dal canto suo, pareva dubbioso. Roran se l’era aspettato, ma la perplessità dello stregone era niente in confronto all’incredulità di Brigman. «È una follia!» esclamò, quando Roran ebbe concluso. «Non funzionerà mai.» «Rimangiati quello che hai detto!» intimò Mandel, facendosi avanti con i pugni serrati. «Roran ha vinto più battaglie di quante tu ne abbia mai combattute, e l’ha fatto senza tutti i guerrieri che hai tu a disposizione!» Brigman mostrò i denti, le labbra arricciate come un mastino. «Piccolo bifolco! Ti insegno io una lezione sul rispetto che non dimenticherai.» Roran spinse via Mandel prima che colpisse Brigman. «Basta!» ringhiò. «Calmati, adesso.» Con le sopracciglia aggrottate, Mandel smise di opporre resistenza, ma continuò a guardare in cagnesco Brigman, che ricambiò con un ghigno malevolo. «È un piano stravagante, senza dubbio» commentò Delwin, «ma c’è anche da dire che i tuoi piani stravaganti ci hanno sempre portato al successo in passato.» Gli altri uomini di Carvahall mormorarono il loro assenso. Carn annuì e disse: «Forse funzionerà o forse no. Non lo so. In ogni caso di sicuro coglierà i nostri nemici di sorpresa, e devo ammettere che sono piuttosto curioso di vedere cosa succederà. Non è mai stato tentato niente del genere finora.» Roran sorrise, poi si rivolse a Brigman. «Continuare come prima, quella sì che sarebbe una follia. Ci restano soltanto due giorni e mezzo per conquistare Arughia. I metodi convenzionali non sono attuabili, perciò dobbiamo osare qualcosa di nuovo.» «Può darsi» bofonchiò Brigman, «ma questa è un’impresa ridicola in cui più di un brav’uomo rimarrà ucciso, e per nessun’altra ragione se non quella di dimostrare la tua presunta scaltrezza.» Con un largo sorriso Roran si avvicinò a Brigman, fermandosi ad appena un palmo dal suo volto. «Non devi per forza essere d’accordo con me, Brigman; devi solo fare quello che ti viene detto. Allora, eseguirai i miei ordini oppure no?»

L’aria intorno ai due si fece tesa. Brigman digrignò i denti e rigirò con foga la lancia nel terreno, poi abbassò lo sguardo e indietreggiò di un passo. «Vai al diavolo» sibilò. «Per adesso sarò il tuo cagnolino devoto, Fortemartello, ma ben presto arriverà la resa dei conti, puoi scommetterci, e allora dovrai rispondere delle tue decisioni.» Purché conquistiamo Arughia, pensò Roran, non mi importa. «In sella!» gridò. «Abbiamo un lavoro da fare, e il tempo stringe! Forza, forza, forza!» [eBookLove - eBL 043] Christopher Paolini - Inheritance [by Pico]

DRAS-LEONA Il sole era alto nel cielo, così come Saphira, quando dalla sella sul suo dorso Eragon scorse l’Helgrind all’orizzonte nord. Il remoto pinnacolo di roccia emergeva dalla terra come un dente rotto e frastagliato, e bastò la sua sola vista perché Eragon si sentisse travolgere da un’ondata di ribrezzo. Associava all’Helgrind così tanti brutti ricordi che avrebbe voluto distruggerlo e vedere le sue nude guglie grigie franare al suolo. Saphira era più indifferente all’oscura torre di pietra, ma il Cavaliere percepì un certo disgusto anche nei pensieri della dragonessa. Al calar della sera l’Helgrind era ormai lontano alle loro spalle, mentre li attendeva DrasLeona, sulle sponde del Lago di Leona, dove decine di navi e barche dondolavano all’ancora. La bassa, caotica città era vasta e inospitale come Eragon la ricordava, con i suoi labirinti di stradine strette, le casupole sporche e diroccate ammassate all’esterno delle mura di fango giallastre che ne circondavano il cuore; oltre le mura si ergeva la sagoma torreggiante dell’immensa cattedrale, nera e spettrale, dove i sacerdoti dell’Helgrind celebravano i loro macabri rituali. Sulla strada a nord arrancava una processione ininterrotta di profughi, gente che fuggiva dalla città e dall’assedio imminente per rifugiarsi a Teirm o a Urû’baen, dove avrebbe trovato scampo, per quanto temporaneo, all’inesorabile avanzata dei Varden. Dras-Leona emanava la stessa aria malsana e crudele di quando Eragon l’aveva visitata la prima volta, e gli scatenò nel cuore una brama di distruzione che non aveva provato né a Feinster né a Belatona. Avrebbe voluto metterla a ferro e fuoco; raderla al suolo usando tutte le terribili, sovrannaturali energie che aveva a disposizione; indulgere alle azioni più scellerate e lasciarsi dietro soltanto un cumulo di macerie fumanti e una scia di sangue. Per i poveri, gli storpi e gli schiavi che vivevano nei confini di Dras-Leona provava una certa pietà, ma nel complesso era convinto che la città fosse corrotta fin nel midollo: la cosa migliore ai suoi occhi era annientarla, e ricostruirla solo dopo aver estirpato il morbo della depravata religione dell’Helgrind che l’aveva infettata. Mentre fantasticava su come avrebbe distrutto la cattedrale con l’aiuto di Saphira, si domandò all’improvviso se il culto dei sacerdoti che praticavano l’automutilazione avesse un nome. I suoi studi dell’antica lingua gli avevano insegnato ad apprezzare l’importanza dei nomi – i nomi erano potere, i nomi erano conoscenza – e finché non avesse saputo come si chiamava quella religione non sarebbe stato in grado di comprenderne la vera natura. Nella luce morente del sole i Varden si accamparono in una serie di campi coltivati a sudest di Dras-Leona, dove il terreno risaliva dolcemente verso un pianoro che avrebbe fornito loro una discreta protezione se i nemici avessero deciso di attaccarli. Gli uomini erano stanchi per la marcia, ma Nasuada li mise subito al lavoro per fortificare l’accampamento e montare le potenti macchine da guerra che si erano portati fin dal Surda. Anche Eragon si mise all’opera di buona lena. Per prima cosa si unì a un gruppo che stava spianando i campi di frumento e orzo usando pesanti tavole di legno, trascinandole a mano con corde robuste. Sarebbe stato più rapido falciare il grano con l’acciaio o la magia, ma i monconi di steli rimasti avrebbero reso pericoloso e scomodo camminarci sopra, per non parlare di dormirci. Invece gli steli schiacciati si trasformarono in una superficie

morbida ed elastica come un materasso, di gran lunga preferibile alla nuda terra a cui erano abituati. Eragon lavorò insieme agli altri per quasi un’ora per liberare uno spazio sufficiente a ospitare tutte le tende dei Varden. Poi contribuì alla costruzione di una torre d’assedio. Ci sarebbero voluti parecchi guerrieri per spostare le travi più grosse, ma grazie alla sua forza sovrannaturale Eragon riuscì a sollevarle da solo, accelerando di parecchio l’intera operazione. Alcuni dei nani rimasti con i Varden sovrintendevano all’innalzamento della torre, perché i disegni delle macchine da guerra erano stati progettati da loro. Anche Saphira fece la sua parte. Con zanne e artigli scavò profonde trincee, e con la terra smossa creò sbarramenti tutto intorno all’accampamento, sbrigando in pochi minuti un’opera che cento uomini avrebbero impiegato una giornata intera a realizzare. Poi, sputando fuoco e menando possenti colpi di coda, abbatté alberi, recinti, mura, capanne e tutto quello che avrebbe potuto fornire riparo ai nemici. Era notte fonda quando i Varden terminarono i preparativi e Nasuada ordinò a uomini, nani e Urgali di andare a dormire. Ritiratosi nella sua tenda, Eragon meditò fino a sgomberare la mente, com’era sua abitudine. Dopo, invece di esercitarsi con calamo e inchiostro, trascorse un paio d’ore ripassando gli incantesimi che riteneva gli sarebbero tornati utili l’indomani; ne inventò anche di nuovi, apposta per affrontare gli eventuali pericoli di Dras-Leona. Quando si sentì pronto per la battaglia si abbandonò al suo sonno vigile, ma fu visitato da visioni più varie e intense del solito, perché malgrado la meditazione, la prospettiva dell’imminente combattimento gli rimescolava il sangue e non gli permetteva di rilassarsi. Come sempre, l’attesa e l’incertezza erano le cose più difficili da sopportare: Eragon avrebbe voluto trovarsi già in mezzo alla mischia, dove non c’era tempo di preoccuparsi di cosa poteva accadere. Anche Saphira era irrequieta. Eragon percepì nella sua mente sprazzi di sogni in cui mordeva e artigliava, segno che non vedeva l’ora di assaporare il feroce piacere dello scontro. L’umore della dragonessa per certi versi lo influenzò, ma non abbastanza da fargli dimenticare del tutto la sua apprensione. Il mattino arrivò fin troppo presto, e i Varden si schierarono attorno al limitare indifeso di Dras-Leona. Visto nel suo insieme l’esercito era uno spettacolo imponente, ma Eragon non poté fare a meno di notare le spade intaccate, gli elmi sformati, gli scudi ammaccati e i rammendi improvvisati nelle tuniche imbottite e nelle cotte di maglia. Se fossero riusciti a conquistare Dras-Leona avrebbero dovuto sostituire buona parte delle armi e delle uniformi, come avevano fatto a Belatona e prima ancora a Feinster. Non si potevano però rimpiazzare gli uomini che le portavano. Più si protrae questa campagna, disse a Saphira, più facile sarà per Galbatorix sconfiggerci quando arriveremo a Urû’baen. Per questo non dobbiamo perdere tempo, rispose lei. Eragon sedeva in groppa alla dragonessa, di fianco a Lady Nasuada, fiera nella sua armatura in sella al suo nero stallone da battaglia, Tempesta. Intorno a loro i dodici elfi della scorta di Eragon e altrettanti di Falchineri: in genere le guardie personali di Nasuada si alternavano a gruppi di sei, ma si era deciso di raddoppiarne il numero per tutta la

durata della battaglia. Gli elfi erano a piedi – si rifiutavano di montare cavalli che non fossero quelli allevati e addestrati da loro stessi – mentre i Falchineri e gli Urgali erano a cavallo. A dieci iarde sulla destra c’era re Orrin con la sua guardia scelta di guerrieri, ciascuno con un pennacchio variopinto sull’elmo. Narheim, il comandante dei nani, e Garzhvog erano in testa alle proprie truppe. Dopo uno scambio di cenni, Nasuada e re Orrin spronarono i destrieri e si allontanarono al trotto dal corpo principale dei Varden, verso la città. Eragon, in sella a Saphira, li seguì. Nasuada e re Orrin si fermarono prima di attraversare la massa di edifici fatiscenti. A un loro segnale, due araldi – uno con lo stendardo dei Varden e l’altro con quello del Surda – avanzarono a cavallo lungo la stretta strada che percorreva il labirinto di casupole verso la porta sud di Dras-Leona. Eragon aggrottò le sopracciglia quando vide partire gli araldi. In città regnavano una calma e un silenzio innaturali. Sembrava non ci fosse anima viva in tutta Dras-Leona, nemmeno sui bastioni delle mura gialle, dove avrebbero dovuto esserci centinaia di soldati di Galbatorix. Fiuto un’aria strana, disse Saphira, e ringhiò piano, attirando l’attenzione di Nasuada. Ai piedi delle mura, l’araldo dei Varden gridò con una voce stentorea che arrivò fino a Eragon e Saphira: «Salve! A nome di Lady Nasuada dei Varden e di re Orrin del Surda, come anche di tutti i popoli liberi di Alagaësia, vi chiediamo di aprire le porte affinché possiamo consegnare un messaggio importante al vostro signore e padrone, Marcus Tábor. In questo modo potrà sperare di avere salva la sua vita e quella di ogni uomo, donna e bambino di Dras-Leona.» Da dietro le mura, in modo da non essere visto, un uomo rispose: «Queste porte non si apriranno. Riferisci il messaggio.» «Parli forse a nome di Lord Tábor?» «Sì.» «Allora ti incarichiamo di ricordargli che gli affari politici si dovrebbero discutere in privato, nella segretezza delle proprie stanze, invece che all’aperto, dove tutti possono sentire.» «Non prendo ordini da te, servo! Riferisci il messaggio, e spicciati! O perdo la pazienza e ti crivello di frecce.» Eragon rimase impressionato dall’espressione imperturbabile dell’araldo, che senza esitare proseguì: «Come desideri. I nostri comandanti offrono pace e amicizia a Lord Tábor e agli abitanti di Dras-Leona. Non abbiamo niente contro di voi; il nostro unico nemico è Galbatorix, e non vogliamo combattere se possiamo evitarlo. Non abbiamo forse una causa comune? Molti di noi un tempo vivevano nell’Impero, e siamo fuggiti solo perché il crudele dominio di Galbatorix ci ha scacciati dalle nostre terre. Unitevi a noi, e insieme potremo liberarci dell’usurpatore che ora siede sul trono di Urû’baen. «Se accettate l’offerta, i nostri comandanti garantiscono la salvezza per Lord Tábor e la sua famiglia, come per chiunque adesso si trovi al servizio dell’Impero, anche se non sarà loro concesso di mantenere il proprio status se hanno stretto un patto che non possono infrangere. E se i vostri giuramenti non vi permettono di aiutarci, almeno non ostacolateci. Aprite i cancelli e abbassate le armi, e non vi sarà fatto alcun male. Ma se cercherete di sbarrarci la strada, allora vi spazzeremo via come foglie secche, perché nessuno può

resistere alla potenza del nostro esercito né a quella di Eragon Ammazzaspettri e della dragonessa Saphira.» Nel sentire il proprio nome, Saphira levò la testa ed emise un ruggito terrificante. Eragon scorse un’alta figura incappucciata salire sui bastioni proprio sopra il cancello per poi fermarsi tra due merli, dove rimase a osservare Saphira. Anche strizzando gli occhi, il Cavaliere non riusciva a distinguere il volto dell’uomo. Altre quattro figure dai neri mantelli si unirono a lui, e dalle loro mutilazioni Eragon capì che si trattava di sacerdoti dell’Helgrind: a uno mancava un avambraccio, due erano privi di una gamba ciascuno, e il quarto era senza un braccio e senza entrambe le gambe, ed era sorretto dagli altri su una piccola lettiga imbottita. L’uomo incappucciato rovesciò il capo all’indietro e scoppiò in una risata fragorosa che echeggiò con la potenza di un tuono. Sotto di lui, gli araldi lottarono per tenere a bada i cavalli che si erano impennati e cercavano di fuggire. Eragon sentì lo stomaco contorcersi e strinse la mano intorno all’elsa di Brisingr, pronto a sguainarla. «Nessuno può resistere alla vostra potenza?» disse l’uomo, e la sua voce rimbombò fra le casupole. «Avete un’opinione un po’ troppo alta di voi stessi, mi pare.» E con un gigantesco ruggito la scintillante mole rossa di Castigo emerse dalle stradine e atterrò sul tetto di una casa, schiantando le tegole di legno con gli artigli. Il drago dispiegò le enormi ali uncinate, spalancò le fauci cremisi e squarciò il cielo con una vampa di fuoco. Con voce sprezzante, Murtagh – perché quello era Murtagh, comprese Eragon – aggiunse: «Scagliatevi pure contro le mura, se volete; non prenderete Dras-Leona, non finché ci saremo qui io e Castigo a difenderla. Mandate i vostri migliori guerrieri e stregoni a combatterci, e cadranno tutti, uno dopo l’altro. Lo giuro. Non c’è un solo uomo fra di voi che può sconfiggerci. No, nemmeno tu... fratello. Correte a rintanarvi nei vostri nascondigli prima che sia troppo tardi, e pregate che Galbatorix non decida di intervenire di persona. Perché a quel punto, morte e sofferenza saranno il vostro unico bottino.» [eBookLove - eBL 043] Christopher Paolini - Inheritance [by Pico]

UN LANCIO DI OSSI «Signore, signore. Il cancello si sta aprendo!» Roran levò lo sguardo dalla mappa che stava studiando: una delle sentinelle dell’accampamento era appena piombata nella sua tenda, ansante e con il volto arrossato. «Quale cancello?» domandò Roran pervaso da un’improvvisa calma glaciale. «Sii preciso.» Mise da parte la verga che stava usando per misurare le distanze. «Quello più vicino a noi, signore... sulla strada, non sul canale.» Roran estrasse il martello dalla cintola e corse fuori dalla tenda, deviando rapido verso i confini meridionali dell’accampamento. Lì si fermò a contemplare Arughia. Ciò che vide lo lasciò sgomento: centinaia di uomini a cavallo si riversavano fuori dalla città con i vessilli colorati che si agitavano al vento, e si disponevano in formazione davanti alla gola nera del cancello aperto. Ci faranno a pezzi, pensò Roran, disperato. Nell’accampamento restavano appena centocinquanta dei suoi uomini, di cui molti feriti e inabili a combattere. Il resto era ai mulini che Roran aveva visitato il giorno prima, o alla cava di ardesia sulla costa, o lungo gli argini del canale più a ovest, in cerca delle chiatte necessarie alla realizzazione del suo piano. Nessuno dei guerrieri sarebbe tornato in tempo per respingere l’assalto della cavalleria. Quando aveva mandato gli uomini in missione, Roran sapeva che la sua difesa sarebbe rimasta sguarnita. In cuor suo sperava che gli abitanti di Arughia sarebbero stati ancora troppo intimoriti dai recenti attacchi alle mura per tentare qualcosa di così audace, e che i guerrieri che aveva tenuto con sé sarebbero bastati a convincere gli osservatori lontani che il corpo principale delle sue forze si trovava ancora fra le tende. La prima di queste supposizioni, a quanto pareva, si era rivelata decisamente sbagliata. Non era del tutto sicuro che i difensori di Arughia avessero intuito il suo stratagemma, ma era probabile, dato il numero limitato di soldati a cavallo schierati davanti alla città. Se i loro comandanti avessero pensato di dover affrontare l’intero contingente di Roran, avrebbero inviato almeno il doppio degli uomini. In un caso o nell’altro doveva trovare il modo di respingere l’attacco e di salvare i suoi guerrieri dal massacro. Sopraggiunsero Baldor, Carn e Brigman, le armi in pugno. Mentre Carn indossava in fretta e furia una cotta di maglia, Baldor disse: «Cosa facciamo?» «Non c’è niente che possiamo fare» rispose Brigman. «Hai mandato a monte l’intera operazione con le tue idee folli, Fortemartello. Dobbiamo fuggire... adesso... prima che quei dannati cavalieri ci attacchino.» Roran sputò sul terreno. «Ritirarci? Nemmeno per sogno. Gli uomini non sono in grado di fuggire a piedi, e se anche potessero non abbandonerei mai qui i feriti.» «Ma non ti rendi conto? Abbiamo perso. Se restiamo, saremo uccisi, o peggio, imprigionati!» «Piantala, Brigman! Non ho alcuna intenzione di scappare con la coda fra le gambe.»

«Perché no? Non vuoi ammettere di aver fallito? Speri forse di salvare quel poco di onore che ti rimane in un’unica, vana battaglia finale? È così? Non capisci che in questo modo nuoceresti ancora di più alla causa dei Varden?» Ai piedi della città, i soldati a cavallo levarono le spade e le lance, e con un coro di incitazioni che si sentiva anche da quella distanza affondarono gli speroni nei fianchi dei destrieri e partirono al galoppo attraverso la pianura che conduceva all’accampamento dei Varden. Brigman riprese la sua invettiva: «Non lascerò che tu metta in pericolo le nostre vite soltanto per soddisfare il tuo orgoglio. Se vuoi restare, resta, ma...» «Silenzio!» ruggì Roran. «Tieni chiuso il becco, altrimenti te lo chiudo io! Baldor, sorveglialo. E alla prima mossa sospetta, fagli assaggiare la punta della tua spada.» Brigman era furibondo, furioso, ma tenne a freno la lingua quando Baldor levò l’arma e gliela puntò contro il petto. Roran stimò che gli rimanevano cinque minuti scarsi per decidere cosa fare. E in quei cinque minuti poteva succedere di tutto. Provò a calcolare quanti cavalieri avrebbero potuto uccidere o ferire per indurli a ritirarsi, ma scartò subito quella ipotesi. Non c’era nessun punto in cui i suoi uomini avrebbero potuto accerchiare la cavalleria nemica: la zona era troppo vasta e pianeggiante per una manovra simile. Non possiamo vincere se combattiamo. E se li spaventassimo? Ma come? Col fuoco? Il fuoco però sarebbe stato micidiale tanto per gli amici quanto per i nemici. Per giunta, l’erba umida avrebbe soltanto prodotto un gran fumo. Fumo? No, non servirebbe. Scoccò un’occhiata a Carn. «Sapresti evocare un’immagine di Saphira e farla ruggire e sputare fuoco come se fosse davvero qui?» Lo stregone impallidì. Scosse la testa con una smorfia di puro panico. «Forse. Non lo so. Non ci ho mai provato prima. Potrei creare una sua immagine attingendo ai miei ricordi, ma non sono sicuro di poterla far sembrare vera.» Indicò con un cenno del capo la cavalleria che tuonava. «Capirebbero che c’è qualcosa di strano.» Roran affondò le unghie nei palmi. Restavano forse quattro minuti. «Magari vale la pena provarci» borbottò. «Dobbiamo distrarli, confonderli...» Levò lo sguardo al cielo, nella speranza di scorgere un fronte temporalesco che avrebbe nascosto l’accampamento sotto una cortina di pioggia, ma c’erano soltanto un paio di nuvolette isolate. Confusione, incertezza, dubbio... Di cosa ha paura la gente? Dell’ignoto, delle cose che non capisce. In un solo istante Roran pensò a qualche trucco per minare la sicurezza dei nemici, uno più bizzarro dell’altro, finché non lo folgorò un’idea così semplice e temeraria al tempo stesso da sembrare perfetta. Al contrario delle altre, questa compiaceva il suo ego perché richiedeva l’impiego di una sola altra persona: Carn. «Ordinate agli uomini di nascondersi nelle tende!» gridò, già in movimento. «E dite loro di restare in silenzio; non voglio sentire un fiato a meno che non ci attacchino!» Sgusciò nella tenda più vicina, che era vuota, e s’infilò il martello nella cintura. Poi afferrò da un mucchio di panni una coperta sudicia e corse fuori al falò da campo, dove prese un grosso ceppo che i guerrieri usavano come sgabello.

Con il ceppo sotto un braccio e la coperta gettata sull’altra spalla, Roran sfrecciò attraverso l’accampamento in direzione del poggio a un centinaio di passi di fronte alle tende. «Qualcuno mi trovi degli astragali e un corno di idromele!» gridò. «E portatemi anche il tavolo su cui ho posato le mappe. Subito, dannazione, ora!» Alle sue spalle udì un tramestio di passi e un clangore di armi: erano i guerrieri che correvano a nascondersi nelle tende. Qualche istante dopo, un silenzio innaturale scese sull’accampamento, fatta eccezione per i rumori prodotti dagli uomini che raccoglievano gli oggetti da lui richiesti. Roran non perse tempo. Una volta in cima alla collinetta, posò il ceppo per terra e lo ruotò da una parte e dall’altra per assicurarsi che non dondolasse sotto il suo peso. Soddisfatto, sedette sullo sgabello improvvisato e guardò in lontananza la carica della cavalleria. Gli restavano più o meno tre minuti prima del loro arrivo. Lo scalpitio degli zoccoli riverberava nel legno su cui era seduto: la vibrazione diventava più forte a ogni secondo. «Dove sono gli astragali e l’idromele?» gridò, senza allontanare lo sguardo dalla cavalleria. Si lisciò la barba con una rapida passata della mano e sistemò la tunica. La paura gli suggerì che avrebbe fatto meglio a indossare l’usbergo, ma la parte più fredda e astuta della sua mente gli disse che i suoi nemici sarebbero piombati nel più assoluto sconcerto vedendolo seduto lì disarmato, perfettamente a proprio agio. Quella stessa parte razionale lo convinse anche a lasciare il martello infilato nella cintura: così avrebbe avuto un’aria tranquilla davanti ai soldati. «Scusa» gli disse Carn, trafelato, quando arrivò insieme all’uomo che portava il tavolo pieghevole recuperato nella tenda di Roran. I due glielo sistemarono davanti e vi distesero la coperta. Poi Carn porse a Roran un corno mezzo pieno di idromele e una tazza di cuoio con dentro i soliti cinque pezzi d’osso. «E ora via, fuori dai piedi» ordinò Roran. Carn si voltò, ma Roran lo prese per un braccio. «Puoi far tremolare l’aria ai miei lati come un falò in una fredda giornata d’inverno?» Gli occhi di Carn si ridussero a due fessure. «Sì, ma a cosa...?» «Fallo e basta. E adesso vai a nasconderti!» Mentre lo stregone allampanato tornava di corsa all’accampamento, Roran mescolò gli astragali nella tazza, poi li rovesciò sul tavolo e cominciò a giocare da solo, lanciando in aria gli ossi – prima uno, poi due, poi tre e così via – per riprenderli al volo sul dorso della mano. Suo padre Garrow spesso si svagava in quel modo mentre fumava la pipa, seduto su una vecchia sedia a dondolo sgangherata nel portico di casa nelle lunghe serate estive della Valle Palancar. A volte Roran gli faceva compagnia – perdeva quasi sempre – ma di solito Garrow preferiva giocare da solo. Anche se il cuore gli batteva all’impazzata e i palmi delle mani erano sudati, Roran si sforzò di mantenere un contegno imperturbabile. Perché il suo stratagemma avesse successo, doveva assumere un’aria tranquilla e disinvolta, celando le sue vere emozioni. Concentrò lo sguardo sugli astragali, senza mai levarlo verso la cavalleria in avvicinamento. Il fragore dei cavalli al galoppo divenne sempre più forte, tanto che a un certo punto Roran si convinse che lo avrebbero travolto. Che strano modo di lasciare questo mondo, si disse con un sorriso mesto. Poi pensò a Katrina e al figlio che ancora doveva nascere, e trasse conforto dalla consapevolezza che, se fosse

morto, la sua linea di sangue sarebbe continuata. Era un genere di immortalità diversa da quella che possedeva Eragon, ma a lui bastava. All’ultimo momento, quando la cavalleria si trovava a poche iarde dal suo tavolo, qualcuno gridò: «Ah! Ah! Fermate i cavalli. Ho detto fermate i cavalli!» E in un tintinnio di finimenti e schiocchi di redini la scalpitante linea di destrieri rallentò fino a fermarsi. Roran continuava a tenere lo sguardo basso. Bevve un sorso di forte idromele e lanciò di nuovo gli ossi. Ne prese due sul dorso della mano, dove rimasero a dondolare fra i tendini in rilievo. Lo investì l’odore della terra appena smossa, caldo e confortante, insieme al lezzo dei cavalli schiumanti. «Ehi, tu, compare!» disse lo stesso uomo che aveva ordinato ai soldati di fermarsi. «Ehi, laggiù, dico a te! Chi sei per startene seduto a bere e giocare in questa splendida mattina, come se non avessi un solo pensiero al mondo? Non ci meritiamo la cortesia di un’accoglienza a spade sguainate? Allora, chi sei?» Lentamente, come se soltanto in quel momento si fosse accorto della presenza dei soldati ma la considerasse di scarsa importanza, Roran levò lo sguardo dal tavolo: davanti a lui c’era un ometto barbuto con uno sgargiante pennacchio sull’elmo, in sella a un gigantesco cavallo da battaglia nero che sbuffava come un mantice. «Non sono compare di nessuno, e di sicuro non tuo» rispose, senza preoccuparsi di celare il fastidio provato nel sentirsi apostrofare con quel termine troppo confidenziale. «Chi sei tu, vorrei sapere, che interrompi il mio gioco in maniera così villana?» Le lunghe piume sfrangiate in cima all’elmo del soldato ondeggiarono quando si protese sul cavallo per guardare meglio Roran, come se fosse un animale ignoto incontrato durante una battuta di caccia. «Tharos lo Svelto è il mio nome, capitano della Guardia di Arughia. Malgrado la tua scortesia, devo ammettere che mi dispiacerebbe uccidere un uomo tanto audace senza sapere come si chiama.» E quasi a sottolineare le sue parole, Tharos abbassò la lancia puntandola contro Roran. Alle spalle di Tharos si strinsero tre file di cavalieri; fra di loro Roran scorse un uomo con il volto emaciato, il naso adunco e le braccia scheletriche, nude fino alle spalle. Gli ricordava gli stregoni dei Varden, e all’improvviso si ritrovò a pregare che Carn fosse riuscito a far tremolare l’aria accanto a lui. Non osò però volgere il capo per sincerarsene. «Mi chiamo Fortemartello» rispose. Con un unico, agile movimento, raccolse gli astragali, li lanciò in aria e ne riprese tre al volo. «Roran Fortemartello. Ed Eragon Ammazzaspettri è mio cugino. Dovreste almeno aver sentito parlare di lui, se non di me.» Un brusio allarmato si diffuse fra i cavalieri, e Tharos sgranò gli occhi per un istante. «Un’affermazione di un certo effetto, non c’è che dire, ma come possiamo essere sicuri che sia vera? Chiunque può sostenere di essere un altro, se serve.» Per tutta risposta Roran sfilò il martello dalla cintura e lo posò sul tavolo con un tonfo smorzato. Poi, ignorando i soldati, ricominciò a giocare. Sbuffò seccato quando due ossi gli caddero dalla mano, costandogli un giro. «Ah» fece Tharos, e tossì per schiarirsi la voce. «Hai un’illustre reputazione, Fortemartello, anche se alcuni sostengono che sia oltremodo esagerata. È vero, dunque, che da solo hai annientato trecento uomini a Deldarad, nel Surda?»

«Non ho mai saputo il nome di quel villaggio, ma se era così che si chiamava, allora sì, a Deldarad ho ucciso molti soldati. Ma erano soltanto centonovantatré e avevo le spalle protette dai miei uomini mentre combattevo.» «Soltanto centonovantatré?» domandò Tharos in tono perplesso. «Sei troppo modesto, Fortemartello. Un uomo che compie un’impresa del genere meriterebbe di essere ricordato nelle storie e nelle ballate.» Roran si strinse nelle spalle e portò il corno alle labbra, solo fingendo di bere perché non poteva permettersi di avere la mente annebbiata dal potente idromele dei nani. «Io combatto per vincere, non per perdere. Ma lascia che ti offra da bere, da guerriero a guerriero» disse, e tese il corno verso Tharos. Il soldato esitò e scoccò un’occhiata fugace allo stregone che aveva alle spalle. Poi si inumidì le labbra e rispose: «D’accordo.» Smontò da cavallo e passò la lancia a uno dei soldati, si sfilò i guanti e si avvicinò al tavolo, dove accettò il corno di Roran. Tharos annusò l’idromele, poi ne buttò giù una buona sorsata. Le piume dell’elmo vibrarono quando l’uomo rabbrividì con una smorfia. «Non ti piace?» chiese Roran, divertito. «Ti confesso che queste bevande dei monti sono troppo forti per i miei gusti» disse Tharos, e restituì il corno a Roran. «Preferisco i vini delle nostre terre, morbidi, delicati, che non offuscano i sensi di un uomo.» «A me questo pare dolce come il latte di mia madre» mentì Roran. «Lo bevo mattina, pomeriggio e sera.» Tharos si rimise i guanti e tornò al suo cavallo. Rimontò in sella e riprese la lancia dal soldato a cui l’aveva data in custodia poco prima. Rivolse un’altra occhiata allo stregone dal naso adunco dietro di lui, il cui viso, notò Roran, aveva assunto un pallore cadaverico nel breve lasso di tempo trascorso da quando Tharos era smontato da cavallo. Anche Tharos doveva essersene accorto, perché aggrottò le sopracciglia, come se fosse preoccupato. «Ti ringrazio per la tua gentilezza, Roran Fortemartello» disse, alzando la voce perché tutti i soldati sentissero. «Forse avrò presto l’onore di ospitarti fra le mura di Arughia. Se così fosse, ti prometto di servirti il miglior vino delle terre della mia famiglia, e magari ti dimenticherai di quel latte barbaro che adesso hai davanti. Sono sicuro che troverai il nostro vino di tuo gradimento: lo facciamo invecchiare in botti di quercia per mesi, a volte per anni. Sarebbe un peccato se tutto quel lavoro andasse perduto, se le botti venissero fracassate e il vino si spargesse per le strade, tingendole col rosso del sangue delle nostre uve.» «Eh, sì, sarebbe un vero peccato» convenne Roran, «ma capita spesso di rovesciare un po’ di vino quando si sparecchia la tavola.» Prese il corno, lo capovolse e versò sull’erba a lato del tavolo quel poco di idromele avanzato. Tharos rimase immobile per un istante – persino le piume sull’elmo non si mossero –, poi, con un ringhio infuriato, fece voltare il cavallo e urlò ai suoi uomini: «Serrate i ranghi! Torniamo indietro... Yah!» E con quel grido finale spronò il cavallo allontanandosi da Roran, seguito dal resto dei suoi uomini, che ripartirono al galoppo, ripercorrendo la strada fino ad Arughia.

Roran continuò a fingere quell’aria arrogante e indifferente finché i soldati non furono lontani, poi espirò lentamente e appoggiò i gomiti sulle ginocchia. Gli tremavano le mani. Ha funzionato, si disse, sbalordito. Sentì i suoi uomini che correvano verso di lui dall’accampamento, e si voltò: Baldor e Carn stavano arrivando seguiti da una cinquantina dei guerrieri che si erano nascosti nelle tende. «Ce l’hai fatta!» esclamò Baldor. «Ce l’hai fatta! Non ci posso credere!» Con una risata fragorosa diede una pacca sulla schiena di Roran, tanto forte da mandarlo a sbattere contro il tavolo. Gli altri uomini si strinsero intorno a lui, ridendo ed elogiandolo con le frasi più assurde. C’era chi sosteneva che sotto il suo comando avrebbero conquistato la città senza perdere nemmeno un uomo, chi scherniva il carattere degli abitanti di Arughia; qualcuno gli porse un tiepido otre di vino, che Roran fissò con insolito disgusto prima di passarlo all’uomo alla sua sinistra. «Hai usato qualche incantesimo?» chiese a Carn, ma aveva parlato così a bassa voce che nel baccano dei festeggiamenti le sue parole erano a stento udibili. «Cosa?» Carn si chinò su di lui, e Roran ripeté la domanda. Lo stregone sorrise e annuì soddisfatto. «Sì. Sono riuscito a far tremolare l’aria come volevi.» «E poi hai attaccato il loro stregone? Quando se ne sono andati, sembrava sul punto di svenire.» Il sorriso di Carn si fece ancora più ampio. «Ha fatto tutto da solo. Continuava a cercare di spezzare l’illusione che pensava io avessi creato... di strappare il velo d’aria tremolante per poter vedere cosa c’era dietro... solo che non c’era niente da spezzare, così ha sprecato tutte le sue energie invano.» Roran sghignazzò, poi proruppe in una risata roboante che sovrastò il clamore eccitato dei suoi uomini ed echeggiò fra i campi che circondavano Arughia. Per qualche minuto si crogiolò nell’ammirazione dei suoi uomini, finché non sentì un lungo grido di avvertimento levarsi da una delle sentinelle appostate ai margini dell’accampamento. «Spostatevi! Fatemi vedere!» disse, e balzò in piedi. I guerrieri obbedirono. Da ovest, cavalcando a spron battuto verso l’accampamento, stava arrivando un uomo. Roran lo riconobbe vagamente: era uno della squadra che aveva mandato in ricognizione sulle rive dei canali. «Portatelo qui» ordinò, e uno smilzo spadaccino dai capelli rossi corse a intercettare l’uomo a cavallo. Mentre aspettava il suo arrivo, Roran raccolse gli astragali e li fece cadere a uno a uno nella tazza di pelle, compiaciuto. Non appena l’uomo a cavallo giunse a portata di orecchie, Roran gridò: «Ehilà! Tutto bene? Siete stati attaccati?» L’uomo non rispose subito, cosa che irritò non poco Fortemartello. Invece coprì le ultime iarde che li dividevano, smontò da cavallo, gli si presentò davanti, rigido e impettito come una statua, e lo salutò con voce stentorea: «Capitano, signore!»

A quel punto Roran si accorse che era poco più di un ragazzo; anzi, era lo stesso giovane smunto che gli aveva preso le redini quando era arrivato all’accampamento. La scoperta però non contribuì a mitigare la sua frustrata curiosità. «Allora, cosa c’è? Non posso mica aspettare tutto il giorno.» «Signore! Hamund mi manda a dirti che abbiamo trovato tutte le chiatte che ci servono, e sta facendo costruire degli scivoli per trasportarle fino all’altro canale.» Roran annuì. «Bene. Avrà bisogno di rinforzi per finire tutto in tempo?» «Signornò, signore!» «È tutto?» «Signorsì, signore!» «Non c’è bisogno che tu ripeta continuamente signore. Una volta basta. Intesi?» «Sì, signo... Ehm, certo, signo... Uh, voglio dire sì, intesi.» Roran trattenne un sorriso. «Sei stato bravo. Trova qualcosa da mangiare. Poi vai fino alla cava e torna a farmi rapporto. Voglio sapere a che punto sono.» «Sì, signo... Chiedo scusa, signore... Insomma, non... Vado subito, capitano.» Due grandi chiazze rosse erano sbocciate sulle guance del ragazzo mentre balbettava. Abbassò il capo in un rapido inchino e rimontò in sella, dileguandosi fra le tende. L’umore di Roran si fece più serio, perché l’arrivo del ragazzo gli aveva ricordato che, per quanto fossero stati fortunati ad aver ottenuto un rinvio, avevano ancora parecchie cose da fare, e se anche un solo dettaglio del piano fosse andato storto sarebbe costato loro l’assedio. Si voltò verso i guerrieri ed esclamò: «Tornate all’accampamento! Voglio due nuove file di trincee intorno alle tende entro stasera; quei soldati potrebbero cambiare idea e decidere di attaccarci comunque, e voglio essere pronto.» Un paio di guerrieri sbuffarono al pensiero di scavare trincee, ma il resto parve accettare l’ordine di buon grado. A bassa voce Carn mormorò: «Sarebbe il caso di non stancarli troppo prima di domani.» «Lo so» rispose Roran, anche lui a bassa voce. «Ma bisogna rafforzare le difese, e la fatica impedirà agli uomini di rimuginare troppo. E poi non importa quanto saranno spossati domattina: la battaglia infonderà loro nuove energie. Succede sempre così.» Quando Roran doveva concentrarsi per risolvere un problema imprevisto o si sfiniva con un’intensa attività fisica le ore passavano sempre in fretta, al contrario erano lentissime quando la sua mente poteva concedersi il lusso di riflettere sulla situazione in cui si era cacciato. I suoi uomini lavoravano di buona lena: salvandoli dalla cavalleria di Arughia si era conquistato la loro lealtà e la loro devozione molto più di quanto i discorsi non sarebbero mai riusciti a fare. Ma era sempre più evidente che malgrado il loro impegno non ce l’avrebbero fatta a finire i preparativi nel poco tempo che avevano ancora a disposizione. Via via che il sole tracciava il suo arco nel cielo fino alle prime ombre della sera, Roran si sentiva crescere dentro un nauseante senso di impotenza, e si maledisse per aver scelto un piano così ambizioso e complicato. Avrei dovuto sapere fin dall’inizio che il tempo non ci sarebbe bastato, pensò, ma era troppo tardi per escogitare un piano di riserva. L’unica cosa che potevano fare era battersi fino allo

stremo delle forze e sperare che in qualche modo questo potesse garantire la vittoria nonostante gli errori causati dalla sua incompetenza. Al crepuscolo una fievole scintilla di ottimismo illuminò il suo malumore, perché all’improvviso i vari preparativi cominciarono a incastrarsi come tessere di un mosaico a una velocità sorprendente. Qualche ora dopo, quando ormai era notte e le stelle brillavano nel cielo, Roran si ritrovò con circa settecento uomini schierati vicino ai mulini: avevano completato tutte le operazioni necessarie a conquistare Arughia prima della fine del giorno successivo. Roran proruppe in una breve risata di sollievo, orgoglio e incredulità quando contemplò la trappola che avevano realizzato. Poi si congratulò con i guerrieri e ordinò loro di tornare alle tende. «Riposate, adesso, finché potete. Attaccheremo all’alba!» E gli uomini esultarono nonostante la stanchezza.

FALSO AMICO, VERO NEMICO Quella notte il sonno di Roran fu leggero e agitato. Non riusciva mai a rilassarsi del tutto quando sapeva che al suo risveglio ci sarebbe stata ad attenderlo una battaglia importante, in cui avrebbe potuto rimanere ferito, come gli era già successo tante volte. Quel pensiero gli procurava uno spasmo di tensione che gli pulsava dalla nuca fino alla base della spina dorsale, strappandolo a intervalli regolari dai suoi sogni inquieti. Così si svegliò subito quando un lievissimo tonfo risuonò fuori dalla sua tenda. Aprì gli occhi e fissò il riquadro di tessuto sopra di lui. L’interno della tenda era visibile a stento, e solo grazie al fievole bagliore arancione delle torce che filtrava dallo spiraglio fra i lembi dell’ingresso. L’aria era fredda e immobile, come se fosse sepolto in una caverna sotterranea. Era notte fonda, un’ora in cui persino gli animali notturni dovevano essere tornati alle loro tane per dormire, un’ora in cui nessuno avrebbe dovuto trovarsi in piedi, tranne le sentinelle. E loro non stazionavano vicino alla sua tenda. Roran respirò piano nel tentativo di cogliere qualche altro rumore. L’unica cosa che sentì fu il battito del proprio cuore, che gli martellava nel petto sempre più forte mentre l’ansia gli faceva vibrare i nervi come corde di liuto. Passò un minuto. Poi un altro. Infine, proprio quando cominciava a pensare che non ci fosse motivo di allarmarsi, un’ombra comparve davanti alla tenda, ostruendo la luce delle torce. Le pulsazioni triplicarono e il cuore ricominciò a battergli come se stesse scalando di corsa il pendio di una montagna. Chiunque fosse quell’individuo, non era di sicuro venuto a svegliarlo per l’attacco ad Arughia, né a riferirgli qualche notizia importante, perché altrimenti non avrebbe esitato a chiamarlo e a entrare. Una mano guantata di nero, un’ombra appena più scura del resto, si insinuò fra i lembi della tenda e a tentoni cercò il legaccio che li chiudeva. Roran aprì la bocca per dare l’allarme, poi ci ripensò. Sarebbe stato sciocco non sfruttare il vantaggio della sorpresa. Per di più, se l’intruso avesse capito di essere stato scoperto, si sarebbe fatto prendere dal panico, e il panico lo avrebbe reso ancora più pericoloso. Con la mano destra, Roran sfilò il pugnale da sotto il mantello arrotolato che usava come cuscino e nascose l’arma vicino al ginocchio, in una piega della coperta; intanto con l’altra mano ne afferrò il bordo. Un alone di luce dorata delineò la sagoma dell’uomo quando questi si intrufolò nella tenda. Roran notò che indossava un giustacuore di cuoio trapuntato, ma nessun pettorale di metallo né una cotta di maglia. Il lembo dell’ingresso si richiuse e intorno a lui si fece di nuovo buio. La figura senza volto strisciò verso il giaciglio di Roran. Fortemartello dovette ricorrere a tutto il suo autocontrollo per continuare a fingere di dormire.

Quando l’intruso fu a metà strada fra l’ingresso e la branda, Roran si strappò via la coperta, gliela gettò addosso e con un urlo selvaggio si avventò su di lui, stringendo il pugnale per colpirlo al ventre. «Aspetta!» gridò l’uomo. Sorpreso, Roran fermò la mano e i due rovinarono a terra insieme. «Amico! Sono tuo amico!» Mezzo secondo dopo, Roran sentì due forti colpi al rene sinistro. Il dolore gli mozzò il fiato, ma riuscì a rotolare via dall’uomo, strisciando carponi. Si rimise in piedi e di nuovo si lanciò contro il suo assalitore, che ancora si dibatteva per liberarsi della coperta. «Aspetta, sono tuo amico!» ripeté l’altro, ma stavolta Roran non aveva alcuna intenzione di fidarsi. E fece bene, perché in quel momento l’uomo bloccò il braccio armato di Roran con uno svolazzo della coperta, poi lo aggredì con un pugnale che aveva estratto dal giustacuore. Roran avvertì una sorta di strattone al torace, ma fu così lieve che non vi badò. Lanciò un urlo e tirò la coperta con tutte le forze per sbilanciare l’aggressore. L’uomo finì contro un lato della tenda, che crollò sopra di loro, intrappolandoli sotto il pesante tessuto di lana. Roran si liberò della coperta arrotolata intorno al braccio, poi strisciò verso l’uomo, a tentoni nel buio. La suola di uno stivale colpì con violenza la sua mano sinistra e la punta delle dita gli si intorpidì. Con un balzo in avanti, Roran afferrò una caviglia del suo avversario, che stava cercando di voltarsi. L’uomo scalciò come un mulo e si liberò dalla presa, ma Roran gli afferrò di nuovo la caviglia e strinse forte attraverso il cuoio sottile dello stivale, affondandogli le dita nel tendine di Achille finché l’intruso non gemette di dolore. Prima che avesse il tempo di riprendersi, Roran avanzò sul suo corpo e gli bloccò a terra la mano armata. Cercò di conficcare il pugnale nel fianco dell’uomo, ma fu troppo lento: l’aggressore gli trovò il polso e lo strinse in una morsa di ferro. «Chi sei?» ringhiò Roran. «Sono tuo amico» rispose l’uomo. Il suo alito caldo sapeva di vino e sidro aromatico. Poi gli sferrò tre ginocchiate alle costole in rapida successione. «Tu non sei... mio amico» ansimò Roran, sforzandosi di abbassare il braccio destro per avvicinare il pugnale al fianco dell’uomo. Mentre lottavano, a Roran parve di sentire che qualcuno urlava fuori dalla tenda crollata. Alla fine il braccio dell’uomo cedette, e con sorprendente facilità il pugnale di Roran gli affondò nel giustacuore e nella carne morbida. L’aggressore fu scosso da una convulsione. Roran lo colpì con una serie rapidissima di pugnalate, poi gli piantò la lama nel petto. Attraverso l’elsa del pugnale sentì il cuore dell’uomo che batteva febbrile, come le ali di un colibrì, mentre la lama affilata lo squarciava. L’assalitore tremò in preda ad altre due convulsioni, poi cedette e rimase immobile, morente. Roran continuò a stringerlo mentre la vita lo abbandonava, in un abbraccio simile a quello di due amanti. Nonostante l’uomo avesse tentato di ucciderlo, e Roran non sapesse nient’altro di lui, non poteva fare a meno di provare un terribile senso di comunanza con il

suo aggressore. Era un altro essere umano, un’altra creatura vivente, pensante, che aveva finito i suoi giorni per colpa sua. «Chi sei?» sussurrò. «Chi ti ha mandato?» «Ti... ti ho quasi ucciso» mormorò l’uomo con una sorta di soddisfazione perversa. Poi emise un lungo sospiro, il suo corpo cedette, e morì. Roran lasciò cadere la testa sul petto dell’uomo, ansimando in cerca d’aria, scosso da un tremore incontrollabile dovuto alla frenesia della lotta. Sentì che qualcuno stava iniziando a tirare il tessuto della tenda sopra di lui. «Toglietemela di dosso!» gridò Roran agitando il braccio sinistro come un forsennato, incapace di sopportare un istante di più il peso opprimente della lana, e il buio, e lo spazio ristretto, e l’aria soffocante. Qualcuno aprì con un coltello uno squarcio nel riquadro sopra la sua testa. La calda, tremolante luce delle torce si riversò nell’apertura. Smanioso di liberarsi, Roran si alzò, tirò i lembi dello squarcio e lo allargò, uscendo dalla tenda crollata. Barcollò nel flebile bagliore, con indosso soltanto le braghe, e si guardò intorno confuso. C’erano Baldor, Carn, Delwin, Hamund e altri dieci guerrieri, tutti con le armi sguainate e tutti mezzi nudi, tranne due soldati in pieno assetto di guerra che Roran identificò come le sentinelle del turno di notte. «Per gli dei» esclamò qualcuno, e Roran si voltò: uno dei guerrieri aveva sollevato la tenda, esponendo il cadavere del sicario. Era di corporatura massiccia, con lunghi capelli stopposi raccolti in una coda di cavallo e una benda di cuoio sull’occhio sinistro. Aveva il naso storto e schiacciato – glielo aveva rotto Roran – e la parte bassa del volto rasato ridotta a una maschera di sangue. Altro sangue gli inzuppava il torace e i fianchi, e il terreno intorno a lui. Sembrava impossibile che una sola persona ne potesse contenere tanto. «Roran» disse Baldor. Roran continuò a fissare il sicario, senza riuscire a distogliere lo sguardo. «Roran» ripeté Baldor, più forte. «Roran, ascoltami. Sei ferito? Cos’è successo? Roran!» L’apprensione nella sua voce alla fine catturò l’attenzione di Roran. «Cosa c’è?» «Sei ferito?» Come gli viene in mente una cosa simile? Sconcertato, Roran abbassò lo sguardo su di sé. Aveva i peli del petto intrisi di sangue, e rivoli rossi gli coprivano le braccia e colavano sull’orlo delle braghe. «Sto bene» disse, anche se aveva difficoltà a formulare le parole. «Qualcun altro è stato aggredito?» Per tutta risposta, Delwin e Hamund si fecero da parte, rivelando un corpo accasciato. Era il ragazzo smunto che gli aveva portato il messaggio qualche ora prima. «Ah!» gemette Roran con autentico dolore. «Cosa ci faceva in giro a quest’ora?» Uno dei guerrieri si fece avanti. «Io dividevo la tenda con lui, capitano. Doveva sempre uscire di notte a fare pipì, perché beveva infusi prima di coricarsi. Sua madre gli aveva detto di berlo per non ammalarsi... Era un bravo ragazzo, capitano. Non meritava di morire assassinato da uno schifoso vigliacco.»

«Già, non lo meritava» mormorò Roran. Non fosse stato per lui, adesso sarei morto. Indicò il cadavere del sicario. «Ce ne sono altri?» Gli uomini si agitarono, scambiandosi occhiate; poi Baldor rispose: «Non credo.» «Non avete controllato?» «No.» «E allora cosa aspettate? Andate, ma cercate di non svegliare gli altri; hanno bisogno di dormire. E d’ora in poi piazzate delle sentinelle davanti alle tende di tutti gli ufficiali.» Avrei dovuto pensarci prima. Si sentiva stupido e confuso, e rimase del tutto immobile mentre Baldor impartiva una serie decisa di ordini e tutti, tranne Carn, Delwin e Hamund, si sparpagliavano. Quattro guerrieri si caricarono in spalla i resti del povero ragazzo per seppellirlo, mentre gli altri si diedero a setacciare l’accampamento. Hamund si avvicinò al cadavere del sicario e sferrò un colpetto al coltello dell’uomo con la punta dello stivale. «Stamattina devi averli spaventati più di quanto pensassimo.» «Già.» Roran rabbrividì. Sentiva freddo dovunque, soprattutto alle mani e ai piedi, che sembravano di ghiaccio. Carn se ne accorse e andò a prendere una coperta. «Tieni» gli disse, e la drappeggiò sulle spalle di Roran. «Vieni a sederti davanti al fuoco. Ti faccio riscaldare un po’ d’acqua, così puoi lavarti. D’accordo?» Roran si limitò ad annuire, perché non era sicuro di riuscire ad articolare una frase vera e propria. Carn lo sostenne mentre si avviavano, ma non avevano fatto che pochi passi quando lo stregone si fermò di colpo, e Roran con lui. «Delwin, Hamund» chiamò Carn, «andate a prendere una branda, qualcosa su cui sedermi, una brocca di idromele e parecchie bende. Sbrigatevi. Subito, vi prego.» «Perché?» domandò Roran, confuso. «Cosa succede?» Con espressione severa, Carn indicò il petto di Roran. «Se non sei ferito, cosa diavolo è quello, eh?» Roran si guardò dove stava indicando Carn. Nascosto fra i peli del torace incrostati di sangue c’era un profondo taglio: partiva dal pettorale destro, gli attraversava lo sterno e finiva sotto il capezzolo sinistro. Nel punto più largo, la lacerazione misurava meno di un quarto di pollice, e ricordava una bocca senza labbra socchiusa in un ghigno spettrale. Ma la caratteristica più inquietante della ferita era l’assoluta mancanza di sangue: nemmeno una goccia colava dal taglio. Roran riusciva a vedere lo strato sottile di grasso giallastro sotto la pelle e, ancora più sotto, il muscolo rosso scuro del torace, dello stesso colore della selvaggina cruda. Per quanto abituato ai danni orribili che spade, lance e altre armi infliggevano alla carne e alle ossa, Roran trovò comunque quella vista sconcertante. Aveva riportato parecchie ferite nel corso della sua lunga battaglia contro l’Impero, la più terribile quando un Ra’zac lo aveva colpito alla spalla destra durante il rapimento di Katrina a Carvahall, ma non si era mai procurato una ferita così grande e innaturale. «Fa male?» gli chiese Carn.

Roran scosse il capo senza alzare lo sguardo. «No.» La gola gli si chiuse, e il cuore, che già batteva più veloce per la fatica della lotta, prese a martellare all’impazzata, tanto che Roran non riusciva a distinguere un battito dal successivo. La lama era forse avvelenata?, si chiese. «Roran, devi rilassarti» disse Carn. «Credo di poterti guarire, ma mi renderai le cose più difficili se svieni.» Lo prese per un braccio e lo accompagnò alla branda che Hamund aveva trascinato fuori da una tenda. Roran sedette obbediente. «E come posso rilassarmi?» chiese con una risatina nervosa. «Fai lunghi respiri e immagina di sprofondare nel terreno ogni volta che butti fuori il fiato. Fidati, funziona.» Roran annuì, ma nel momento in cui espirò la terza volta i muscoli contratti cominciarono a sciogliersi e un fiotto di sangue zampillò dalla ferita, colpendo Carn in pieno viso. Lo stregone si lasciò sfuggire una smorfia di disgusto e imprecò. Sangue fresco sgorgava dalla ferita di Roran, caldo sulla pelle nuda. «Adesso sì che fa male» gemette stringendo i denti. «Ehi!» esclamò Carn, facendo un cenno a Delwin, che stava arrivando di corsa con le braccia cariche di bende e altri oggetti. Il giovane depositò il fagotto a un lato della branda e Carn prese un tampone di garza e lo premette sulla ferita di Roran per arrestare l’emorragia. «Sdraiati» gli ordinò. Roran obbedì e Hamund porse uno sgabello a Carn, che sedette continuando a tamponare la ferita. Con la mano libera Carn fece schioccare le dita e disse: «Passatemi la brocca di idromele.» Quando Delwin gliela porse, Carn guardò Roran diritto negli occhi. «Devo pulire la ferita prima di richiuderla con la magia. Sei pronto?» Roran annuì. «Datemi qualcosa da tenere fra i denti.» Sentì rumore di fibbie e stringhe, poi Delwin o Hamund gli mise un grosso cinturone fra i denti, e Roran lo morse con tutta la forza. «Pronto!» bofonchiò con la bocca ostruita. Carn gli tolse il tampone dal petto, e con un unico movimento gli versò l’idromele nella ferita, lavando via peli, sangue e altra sporcizia dall’incisione. Roran emise un lungo gemito strozzato e inarcò la schiena, artigliando i bordi della branda. «Ecco, è finita» disse Carn, e mise via la brocca. Roran fissò le stelle tremando in tutto il corpo, e cercò di ignorare il dolore mentre il mago gli posava le mani sulla ferita e cominciava a mormorare frasi nell’antica lingua. Dopo pochi istanti, che a lui parvero lunghi minuti, cominciò ad avvertire un prurito insopportabile in fondo al petto: Carn stava riparando i danni inferti dal coltello del sicario. Il prurito risalì in superficie, e, quando superò lo strato di pelle, il dolore svanì. Eppure gli era rimasta una sensazione così sgradevole che Roran avrebbe voluto grattarsi fino a scorticarsi. Quando ebbe finito, Carn sospirò e si accasciò sullo sgabello, tenendosi il capo fra le mani. Roran costrinse i muscoli ribelli a obbedirgli e si alzò a sedere. Si passò una mano sul petto. A parte i peli, era perfettamente liscio. Integro. Intatto. Proprio come prima che il sicario guercio si intrufolasse nella sua tenda.

Magia. Delwin e Hamund erano rimasti in disparte a osservare la scena con gli occhi sgranati. «Andatevene a letto» disse, congedandoli con un gesto. «Fra qualche ora partiamo, e mi servite pronti e vigili.» «Sei sicuro di stare bene?» gli chiese Delwin. «Sì, sì» mentì Roran. «Grazie del vostro aiuto, ma adesso non ho più bisogno di voi. Come faccio a riposarmi con voi due che mi state addosso come una chioccia?» Appena furono usciti, Roran si stropicciò il volto e restò seduto a guardarsi le mani tremanti e lorde di sangue. Si sentiva stremato. Svuotato. Come se avesse fatto il lavoro di una settimana in pochi minuti. «Sarai in grado di combattere?» domandò a Carn. Lo stregone si strinse nelle spalle. «Non al massimo come prima... Ma era un prezzo che bisognava pagare. Non possiamo andare in battaglia senza di te a guidarci.» Roran non ribatté; invece disse: «Devi riposare. Manca poco all’alba.» «E tu?» «Io mi lavo, mi metto una tunica e vado a vedere se Baldor ha pescato qualche altro sicario di Galbatorix.» «Tu non riposi?» «No.» Senza volerlo si grattò il petto. Si interruppe quando si rese conto di che cosa stava facendo. «Già prima non riuscivo a dormire, e adesso...» «Capisco.» Carn si alzò adagio dallo sgabello. «Sarò nella mia tenda, se mi cerchi.» Roran lo guardò allontanarsi nell’oscurità, un lento passo dopo l’altro. Quando non riuscì più a vederlo, per calmarsi chiuse gli occhi e pensò a Katrina. Facendo appello alle poche forze che gli restavano tornò alla tenda crollata e frugò alla ricerca degli abiti, delle armi e di un otre d’acqua. Evitò deliberatamente di guardare il cadavere del suo aggressore, anche se ogni tanto faceva capolino dal groviglio di tessuto. Alla fine si inginocchiò, e distogliendo lo sguardo estrasse il suo pugnale dal cadavere. La lama scivolò via con il risucchio viscido del metallo sulla carne. Scrollò il pugnale per liberarlo dal sangue e udì il rumore delle gocce che schizzavano per terra. Nel freddo silenzio della notte, Roran si preparò alla battaglia. Poi andò in cerca di Baldor, il quale lo rassicurò sul fatto che nessun altro avesse eluso la sorveglianza delle sentinelle, e percorse tutto il perimetro dell’accampamento, ripassando ogni dettaglio dell’imminente attacco ad Arughia. Trovò mezzo pollo freddo avanzato dalla cena e si sedette a mangiare guardando le stelle. Malgrado cercasse di distrarsi, la sua mente tornava sempre all’immagine del ragazzo morto fuori dalla sua tenda. Chi decide che un uomo deve vivere e un altro deve morire? La mia vita non valeva più della sua, ma è lui quello sepolto, adesso, mentre io posso ancora godermi qualche ora sulla terra. È stato solo un caso, una crudele fatalità, o c’è forse uno scopo, un disegno dietro tutto questo, che noi non siamo in grado di decifrare?

FARINA DI FUOCO «Allora, raccontami, com’è avere una sorella?» chiese Roran a Baldor mentre cavalcavano fianco a fianco verso il gruppo di mulini più vicino nella luce grigiastra che precede l’alba. «Non è che ci sia ancora molto da raccontare. Voglio dire, lei non è ancora granché, se capisci cosa intendo. È piccola come un micetto.» Baldor tirò le redini del cavallo, che cercava di piegare verso uno spiazzo d’erba che costeggiava il sentiero. «È strano avere un fratello o una sorella dopo tanto tempo.» Roran annuì. Si voltò sulla sella per guardarsi alle spalle e controllare che la colonna di seicentocinquanta fanti che li seguivano tenesse il passo. Giunti a destinazione, smontò e legò il cavallo a un palo di posta davanti al più basso dei tre edifici. Un guerriero rimase indietro per riportare gli animali all’accampamento. Roran s’incamminò verso il canale e scese la scaletta di legno posta sull’argine fangoso fino a raggiungere l’acqua. Poi saltò sull’ultima delle quattro chiatte ormeggiate in fila. Erano più simili a semplici zattere che alle barche dal fondo piatto che gli abitanti del suo villaggio avevano usato per navigare lungo la costa da Narda a Teirm; Roran era soddisfatto perché grazie alla prua quadrata era stato più facile unirle fra loro con tavole, chiodi e funi allo scopo di realizzare una singola struttura rigida lunga circa cinquecento piedi. Le lastre di ardesia che gli uomini, su indicazione di Roran, avevano trasportato con i carri dalla cava giacevano accatastate sulla prua della prima chiatta e sui lati della seconda e della terza. Sopra le lastre di ardesia avevano ammonticchiato i sacchi di farina scovati nei mulini, erigendo un muro alto fino alla cintola. Dove finiva l’ardesia, il muro continuava, composto esclusivamente da sacchi; era alto cinque piedi e spesso due. L’enorme peso dell’ardesia e della farina, combinato con quello delle chiatte, serviva a trasformare la struttura galleggiante in un gigantesco ariete che, secondo il piano di Roran, doveva abbattere il cancello in fondo al canale come una palizzata di assicelle marce. Se anche il cancello fosse stato stregato – cosa che Carn riteneva improbabile – Roran pensava che nessun mago, tranne Galbatorix, sarebbe stato abbastanza potente da arrestare la forza delle chiatte una volta spinte lungo la corrente. Il muro, inoltre, li avrebbe protetti da lance, frecce e altri eventuali attacchi. Con cautela, Roran si fece strada sui ponti instabili fino alla chiatta in testa. Appoggiò lancia e scudo contro una lastra di pietra e si voltò a guardare i guerrieri che si ammassavano nello spazio fra le due pareti di ardesia e sacchi di farina. Ogni uomo che saliva a bordo faceva affondare di un altro po’ le chiatte già stracariche, tanto che alla fine l’acqua arrivò quasi a lambirne i bordi. Carn, Baldor, Hamund, Delwin e Mandel si unirono a Roran. Avevano tutti deciso, per tacito accordo, di presidiare la posizione più pericolosa sull’ariete galleggiante. Se i Varden volevano entrare con la forza ad Arughia, sarebbe stata necessaria un’abbondante dose di fortuna e abilità, e nessuno di loro voleva delegare il gravoso compito a qualcun altro.

In fondo alle chiatte Roran scorse Brigman. Dopo la tentata insubordinazione del giorno prima, Roran lo aveva spogliato di ogni autorità residua e l’aveva confinato nella sua tenda. L’ex comandante però lo aveva implorato di poter partecipare all’attacco finale e Roran a malincuore aveva acconsentito: Brigman ci sapeva fare con la spada, e ogni lama in più poteva fare la differenza nell’imminente battaglia. Eppure era ancora perplesso sulla bontà di quella decisione. Era abbastanza sicuro che gli uomini gli fossero fedeli, ma Brigman era stato il loro comandante per molti mesi, e quel genere di legame non si dimentica facilmente. Anche ammesso che Brigman non avesse creato problemi fra i ranghi, si era comunque dimostrato caparbio e incline a ignorare gli ordini, almeno quando venivano da Roran. Se mi darà anche solo un motivo per non fidarmi di lui lo faccio fuori all’istante, si disse Roran. Ma era un proposito futile: se Brigman gli si fosse rivoltato contro era molto probabile che in mezzo alla confusione Roran non se ne sarebbe accorto finché non fosse stato troppo tardi. Quando tutti gli uomini tranne sei furono a bordo delle chiatte, Roran portò le mani a coppa intorno alla bocca e gridò: «Aprite!» Due uomini si trovavano sulla berma in cima al pendio, quella che rallentava e arginava il flusso dell’acqua proveniente dalle paludi a nord. Venti piedi più in basso c’era la prima ruota, con il piccolo stagno delimitato dalla seconda berma, su cui erano in attesa altri due uomini. Altri venti piedi più sotto c’era la seconda ruota con la seconda pozza d’acqua stagnante, l’ultima berma e la terza coppia di uomini. E in fondo c’era l’ultima ruota ad acqua. Da lì la corrente attraversava placida la pianura fino ad Arughia. Sulle berme c’erano le tre dighe di sbarramento che Roran aveva insistito per chiudere, con l’aiuto di Baldor, la prima volta che erano stati ai mulini. Negli ultimi due giorni, squadre di uomini con pale e piccozze si erano immerse nell’acqua sempre più alta per scavare la parte posteriore delle berme finché gli strati di terra compattata non erano stati sul punto di cedere. Poi avevano conficcato lunghi pali robusti nel terreno su ciascun lato di ogni diga. Gli uomini sulla berma più alta e su quella centrale afferrarono i pali, che sporgevano di parecchi piedi dallo sbarramento, e cominciarono a spingerli avanti e indietro a ritmo costante. Come previsto dal piano, la coppia posizionata più in basso attese qualche altro istante prima di imitare i compagni. Roran senza rendersene conto strinse forte un sacco di farina mentre osservava quelle prime operazioni. Se avessero sbagliato anche solo di un paio di secondi, il disastro era garantito. Per quasi un minuto non accadde nulla. Poi, con un rombo sinistro, la diga più alta si aprì. La berma si gonfiò verso l’esterno e franò, gettando un’enorme lingua di acqua fangosa sulla ruota di sotto, che cominciò a girare a un ritmo più forsennato di quanto potesse sostenere. Mentre il gradino crollava, gli uomini appostati sopra saltarono sulla riva, con un margine di sicurezza di appena una spanna. Quando l’acqua si riversò nello stagno sotto la ruota, sollevò una colonna di spruzzi alta trenta piedi. L’impatto spinse un’ondata spumeggiante verso la tappa successiva.

Non appena la videro arrivare gli uomini sulla berma di mezzo abbandonarono la loro postazione, mettendosi in salvo sul terreno solido. Giusto in tempo. Quando arrivò l’onda, un ventaglio di schizzi sottili come aghi si aprì intorno alla diga di sbarramento, che saltò dalla sua sede come se un drago l’avesse presa a calci, e il contenuto ribollente della pozza d’acqua spazzò via quel che restava della berma. Il torrente impetuoso si riversò sulla seconda ruota con più forza di prima. Il legno mandò un lungo gemito e per la prima volta a Roran venne il dubbio terribile che una o più ruote potessero rompersi. In quel caso avrebbero rappresentato un serio pericolo per gli uomini e per le chiatte, e l’assalto ad Arughia sarebbe finito ancora prima di cominciare. «Tagliate gli ormeggi!» gridò. Uno degli uomini recise la cima che teneva ancorate le chiatte all’argine, mentre altri raccolsero pali lunghi dieci piedi, li immersero nel canale e iniziarono a spingere con tutta la loro forza. Le pesanti chiatte si mossero, acquistando velocità, meno, però, di quanta Roran aveva previsto. Quando la valanga di acqua piombò verso di loro, gli uomini sulla berma più in basso continuarono a spingere e tirare i pali conficcati nel terrapieno indebolito. Mezzo secondo prima che l’onda li travolgesse, la berma tremò e s’incavò, e gli uomini saltarono sulla riva. L’acqua scavò un grosso tunnel nel terrapieno, come se fosse stato fatto di pane bagnato, e si abbatté sull’ultima ruota. Il legno scricchiolò – uno stridio acuto, come di ghiaccio che si spezza – e la ruota s’inclinò di parecchi gradi, ma con grande sollievo di Roran resse. Poi, con un ruggito fragoroso, la colonna d’acqua si riversò ai piedi della collina terrazzata con un’esplosione di nebbiolina. Pur trovandosi oltre duecento piedi più a valle, Roran si sentì investire da una folata d’aria fredda. Un attimo dopo dalla nebbiolina emerse una massa d’acqua impetuosa, che continuò a cavalcare lungo il canale. «Più veloce!» gridò Roran agli uomini che spingevano le chiatte con i pali. L’ondata arrivò con una forza incredibile. Quando colpì la parte posteriore delle quattro chiatte collegate, l’intera struttura sussultò: Roran e i suoi compagni furono sbalzati in avanti, mentre alcuni guerrieri persero l’equilibrio. Diversi sacchi di farina caddero nel canale o rotolarono all’interno, contro gli uomini. L’onda di piena sollevò la chiatta di coda di parecchi piedi rispetto alle altre, e la lunga zattera iniziò a inclinarsi. Se avesse continuato così, presto si sarebbe messa di traverso fra un argine e l’altro del canale, e la violenza della corrente avrebbe fracassato le chiatte. «Teneteci diritti!» latrò Roran, sollevandosi dai sacchi di farina. «Non dobbiamo girarci!» Scattando ai suoi ordini, i guerrieri si affannarono a spingere la zattera lontano dagli argini e verso il centro del canale. Saltando sulle lastre di ardesia a prua, Roran gridava le indicazioni, e tutti insieme riuscirono a governare le chiatte nel canale sinuoso. «Ce l’abbiamo fatta!» esclamò Baldor con un ghigno stupito.

«Non cantare vittoria troppo presto» lo ammonì severamente Roran. «Manca ancora parecchia strada.» Quando arrivarono all’altezza dell’accampamento, a un miglio da Arughia, il cielo a est aveva assunto una sfumatura giallina. Considerata la loro velocità, avrebbero raggiunto la città prima ancora che il sole facesse capolino dall’orizzonte, e le ombre grigie che ammantavano la terra li avrebbero nascosti alle vedette appostate sulle mura e sulle torri. Anche se l’onda di piena li aveva già sorpassati, le chiatte continuavano ad acquistare velocità, dato che la città si estendeva ai piedi dei mulini e non c’era una sola altura o collina a rallentare la corsa. «Ascoltate» gridò Roran portandosi di nuovo le mani intorno alla bocca perché tutti lo sentissero. «Potremmo cadere in acqua quando colpiremo il cancello esterno, perciò preparatevi a nuotare. Finché non guadagneremo la riva saremo bersagli facili. Una volta a terra, avremo un unico scopo: arrivare alla cinta muraria più interna prima che chiudano le porte, perché se lo fanno non prenderemo mai Arughia. Se riusciremo a superare la seconda cinta, dovrebbe essere semplice scovare Lord Halstead e costringerlo alla resa. In caso contrario ci impadroniremo delle fortificazioni al centro della città e poi procederemo verso l’esterno, strada per strada, finché tutta Arughia non sarà sotto il nostro controllo. «Ricordate, saremo in difficoltà, perché loro saranno circa il doppio di noi, perciò restate vicini al vostro compagno di scudo e non abbassate mai la guardia. Non andate in giro da soli e non separatevi dal resto del gruppo. I soldati conoscono il territorio meglio di noi, e vi tenderanno agguati quando meno ve l’aspettate. Se doveste ritrovarvi isolati, portatevi verso il centro della città, perché è lì che saremo. «Oggi potremmo mettere a segno un bel colpo per i Varden. Oggi ci conquisteremo l’onore e la gloria che tanti uomini sognano. Oggi... oggi lasceremo la nostra impronta nella storia. Compiremo in poche ore quello che i bardi canteranno per cento anni a venire. Pensate ai vostri amici. Pensate alle vostre famiglie, ai vostri genitori, alle vostre mogli, ai vostri figli. Combattete con valore, perché combattete per loro. Combattiamo per la libertà!» Gli uomini levarono un boato di esultanza. Roran lasciò che l’eccitazione li pervadesse, poi alzò una mano e disse: «Scudi!» Come un solo uomo i guerrieri si accovacciarono e levarono le protezioni, coprendo se stessi e il compagno vicino: l’ariete galleggiante sembrava schermato da un’enorme armatura a placche forgiata per un gigante. Soddisfatto, Roran saltò giù dalla catasta di ardesia e guardò Carn, Baldor e gli altri tre uomini che avevano viaggiato con lui da Belatona. Il più giovane, Mandel, aveva l’aria tesa, ma Roran sapeva che i nervi non gli avrebbero ceduto. «Pronti?» esclamò, e tutti assentirono con un cenno. Si mise a ridere, e quando Baldor gli chiese il perché rispose: «Se solo mio padre potesse vedermi!» Roran continuò a tenere d’occhio l’onda davanti a lui. Una volta entrata in città, i soldati avrebbero subito capito che c’era qualcosa di strano e avrebbero dato l’allarme. E Roran voleva che dessero l’allarme, ma non per quel motivo, così quando stimò che mancavano circa cinque minuti prima che il muro d’acqua si abbattesse su Arughia, fece un cenno a Carn e gli ordinò: «Manda il segnale.»

Lo stregone annuì, e curvando le spalle iniziò a muovere le labbra in silenzio, pronunciando le strane frasi nell’antica lingua. Dopo qualche istante raddrizzò la schiena e disse: «Fatto.» Roran voltò lo sguardo a ovest. Lì, sulla piana davanti ad Arughia, erano sistemate le catapulte, le baliste e le torri d’assedio dei Varden. Le torri rimasero ferme, ma le altre macchine da guerra entrarono in azione, scagliando dardi e pietre che tracciavano ampi archi nel cielo verso le candide mura della città. Roran sapeva che in quel momento i cinquanta uomini lasciati dall’altra parte della città suonavano le trombe, lanciavano grida di guerra, scagliavano frecce incendiarie, facendo qualunque cosa per attirare l’attenzione dei difensori e convincerli che un esercito di immani proporzioni stava per abbattersi sulla città. Roran si sentì pervadere da una calma innaturale. Stava per scatenarsi una furiosa battaglia. Molti uomini sarebbero morti. E lui avrebbe potuto essere uno di loro. Questa consapevolezza gli donò una lucidità mentale che spazzò via ogni traccia di stanchezza, e con questa il lieve tremore che lo aveva tormentato da quando aveva corso il rischio di essere ucciso qualche ora prima. Non c’era nulla di più corroborante di una battaglia – non il cibo, non le risate, non il lavoro fisico, nemmeno l’amore – e suo malgrado Roran non poteva negare l’effetto che gli faceva. Non aveva mai voluto essere un guerriero, eppure lo era diventato, e ora era deciso ad annientare chiunque gli fosse stato d’intralcio. Roran si accovacciò per sbirciare fra due affilate lastre di ardesia il rapido avvicinamento al cancello che sbarrava la loro avanzata. Al di sopra del pelo dell’acqua – e in parte anche al di sotto, perché il livello si era alzato – il cancello era fatto di solide assi di quercia, macchiate dall’umidità e dal tempo. Sotto la superficie sapeva che c’era una griglia di legno e ferro che lasciava fluire l’acqua. La parte superiore sarebbe stata difficile da abbattere, ma Roran era convinto che quella inferiore sarebbe stata necessariamente meno solida, proprio perché rimasta sott’acqua per lunghi periodi: una volta distrutta questa, anche le assi di legno sovrastanti avrebbero ceduto. Così aveva ordinato di fissare due lunghi e robusti pali di legno sotto la prua della prima chiatta in modo da colpire anche la metà inferiore del cancello quando l’ariete di chiatte si fosse schiantato su quella superiore. Era un piano astuto, ma Roran non aveva alcuna garanzia che avrebbe funzionato. «Ci siamo» mormorò, più a se stesso che agli altri, mentre il cancello si avvicinava. Alcuni guerrieri a poppa dell’ultima chiatta continuavano a governare la grande zattera con i pali, ma gli altri restavano nascosti sotto il carapace di scudi. La bocca spalancata dell’arco che sovrastava il cancello incombeva davanti a loro come l’ingresso di una caverna. Quando la prua della zattera scivolò nell’ombra dell’arco, Roran scorse il volto di un soldato, rotondo e pallido come la luna, spuntare dal parapetto del muro a trenta piedi di altezza. Il soldato guardò le chiatte con un’espressione stupita e terrorizzata. A quel punto l’ariete galleggiante schizzava a una tale velocità che Roran ebbe appena il tempo di lanciare un’imprecazione prima che la corrente li trascinasse nella fredda oscurità del passaggio ad arco e il soffitto a volta li nascondesse alla vista del soldato.

Il cancello fu centrato in pieno. La forza d’urto scaraventò Roran contro le lastre di ardesia dietro le quali era accovacciato. Sbatté la testa contro la pietra, e nonostante l’elmo e la calotta di cuoio le orecchie gli fischiarono. Il ponte tremò e s’inarcò; malgrado il suo udito paresse danneggiato, Roran riuscì a sentire distintamente il legno che si fracassava e il metallo che strideva. Una delle lastre di ardesia scivolò all’indietro e gli cadde addosso, graffiandogli le braccia e le spalle. Roran afferrò la lastra e, con la forza dell’ira, la scaraventò fuori bordo, dove si infranse contro la parete del tunnel. Immersi com’erano nell’oscurità era difficile vedere che cosa stava succedendo: c’erano soltanto movimenti confusi e rumori assordanti. L’acqua gli lambì i piedi, e Roran si accorse che la chiatta era allagata, ma era impossibile prevedere se fosse destinata ad affondare. «Datemi un’accetta!» urlò, e tese una mano dietro di sé. «Un’accetta, presto!» Barcollò quando la chiatta balzò in avanti, minacciando di farlo cadere in acqua. Il cancello si era piegato al centro, ma resisteva. Col tempo la continua pressione dell’acqua avrebbe spinto l’ariete fino a schiantare la barriera, ma Roran non poteva aspettare che la natura seguisse il suo corso. Mentre qualcuno gli premeva la liscia impugnatura di un’accetta nel palmo, nel soffitto a volta comparvero sei rettangoli di luce, sei buche assassine da cui erano state tolte le coperture. I dardi scagliati dalle balestre sibilarono sulle chiatte; i tonfi sonori si sommarono al frastuono generale. Qualcuno gridò. «Carn!» chiamò Roran. «Fa’ qualcosa!» Lasciando lo stregone ai suoi incantesimi, Roran strisciò sul ponte inclinato e sulle lastre di ardesia verso la prua della chiatta. E l’imbarcazione avanzò di qualche spanna. Un altro gemito assordante si levò dal centro del cancello, e la luce iniziò a filtrare dagli squarci nelle assi di legno. Un quadrello rimbalzò sulla lastra d’ardesia a pochi pollici dalla mano destra di Roran, lasciando una strisciata di ferro sulla pietra. Roran accelerò. Aveva appena raggiunto la prua della chiatta quando uno stridore lacerante lo costrinse a coprirsi entrambe le orecchie con le mani. Un’onda lo travolse, accecandolo per un istante. Batté le palpebre per schiarirsi la vista e si accorse che parte del cancello era crollata nel canale: adesso c’era abbastanza spazio perché l’enorme zattera entrasse in città. Tuttavia, dai resti del cancello pendevano monconi di legno appuntiti e taglienti che arrivavano all’altezza del petto, del collo o della testa degli uomini sulla chiatta. Senza esitare Roran fece una capriola all’indietro e atterrò oltre la barriera di ardesia. «Giù la testa!» gridò, coprendosi con lo scudo. Le chiatte scivolarono nel varco, sottraendosi alla gragnuola mortale di dardi, e sbucarono in un’enorme grotta artificiale, illuminata dalle torce fissate alle pareti di pietra.

In fondo alla grotta l’acqua del canale scorreva attraverso un altro cancello abbassato: quest’ultimo però era una grata di legno e metallo da cima a fondo, e tra una sbarra e l’altra si scorgevano gli edifici della città. Lungo i lati della grotta correvano due banchine di pietra adibite al carico e allo scarico delle merci. Dal soffitto penzolavano funi, carrucole e reti; al centro di ciascuna banchina c’era una gru montata su una piattaforma. Dalle pareti coperte di muffa verde, all’imboccatura e in fondo alla grotta, sporgevano scale e passerelle che servivano ad attraversare il canale senza bagnarsi. L’ultima passerella dava anche accesso al corpo di guardia che si affacciava sulla galleria dove erano entrate le chiatte, e probabilmente, intuì Roran, alla parte superiore delle difese cittadine, come il parapetto su cui aveva scorto il soldato. Davanti al cancello abbassato Roran fu preso da un moto di frustrazione. Aveva sperato di navigare fino al centro della città, evitando di farsi sorprendere dalle guardie ancora in acqua. Be’, ormai non ci possiamo fare più niente, pensò. Soldati in uniforme cremisi sciamarono dal corpo di guardia sulla passerella alle loro spalle, si inginocchiarono e cominciarono a caricare le balestre, pronti a scoccare un’altra raffica di dardi. «Laggiù!» urlò Roran, agitando il braccio verso la banchina di sinistra. I guerrieri afferrarono di nuovo i pali e spinsero la zattera verso il bordo del canale. Le decine e decine di dardi che sporgevano dai loro scudi davano alla compagnia l’aspetto di un porcospino. Mentre le chiatte si avvicinavano alla banchina, una ventina di soldati sguainarono le spade e corsero giù per le scale ad attaccare i Varden prima che riuscissero a sbarcare. «Presto!» gridò Roran. Un quadrello si conficcò nel suo scudo: la punta romboidale perforò il legno spesso un pollice e mezzo e si fermò a un soffio dal suo avambraccio. Roran inciampò e si riprese; sapeva di avere soltanto pochi istanti prima che altri arcieri tentassero di colpirlo. Saltò sulla banchina, allargando le braccia per mantenere l’equilibrio. Atterrò di peso su un ginocchio ed ebbe appena il tempo di estrarre il martello dalla cintura prima che i soldati gli si avventassero contro. Fu con profondo sollievo e gioia selvaggia che Roran andò loro incontro. Era stufo di tramare, pianificare e preoccuparsi di quello che poteva succedere. Finalmente quelli erano nemici in carne e ossa che poteva fronteggiare e uccidere a viso aperto, non sicari furtivi. Il combattimento fu breve, feroce e sanguinoso. Roran fece fuori o ferì tre soldati nei primi due secondi. Poi Baldor, Delwin, Hamund, Mandel e altri si unirono a lui per respingere gli assalitori dal canale. Roran non era abile con la spada, perciò non tentò neppure di sguainarla, ma si limitò a difendersi dalle stoccate con lo scudo, fracassando ossa a colpi di martello. Di tanto in tanto doveva parare un fendente o un affondo, ma cercava di evitare che il duello durasse a lungo, perché sapeva che la sua scarsa destrezza avrebbe potuto rivelarsi fatale. La sua esperienza gli aveva insegnato che per avere la meglio in uno scontro era perfettamente inutile disegnare ricercati mulinelli con la spada o esibirsi in qualche finta complicata che

richiedeva anni di esercizio; bisognava saper prendere l’iniziativa e cogliere di sorpresa l’avversario. Una volta liberatosi dalla mischia, Roran sfrecciò verso le scale che portavano alla passerella dove erano inginocchiati gli arcieri, ancora impegnati a cercare di colpire gli uomini che si affrettavano a scendere dalle chiatte. Roran fece i gradini a tre a tre e roteando il martello colpì il primo arciere in pieno volto. Il secondo soldato in linea aveva già scaricato la balestra, così la lasciò cadere e mise mano alla spada corta, indietreggiando. Riuscì però a estrarre la lama dal fodero solo per metà: Roran lo colpì al torace, spezzandogli le costole. Una delle cose che Roran preferiva del combattere col martello era che non doveva badare troppo al tipo di armatura dell’avversario. Un martello, come qualsiasi altra arma smussata, causava danni con la forza dell’impatto, non lacerando o trapassando la carne. Apprezzava la semplicità di quel meccanismo. Il terzo soldato dello schieramento riuscì a scoccargli un quadrello prima che Roran facesse un altro passo. Questa volta il dardo gli trapassò quasi del tutto lo scudo e per poco non gli trafisse il petto. Tenendo la punta letale lontano dal corpo, Roran caricò l’uomo mirando alla spalla. L’arciere usò la balestra per bloccare il martello, così Roran lo colpì con lo scudo, spedendolo oltre la balaustra della passerella fra alti strepiti e un gran mulinare di braccia e gambe. La manovra lasciò però Roran esposto a un attacco nemico. Restavano cinque arcieri; e tre stavano già mirando al suo cuore. I soldati scoccarono i dardi. Un attimo prima che lo colpissero, questi deviarono alla sua destra e rimbalzarono sulle pareti annerite come gigantesche vespe irritate. Roran sapeva che era stato Carn a salvarlo, e si ripromise di trovare il modo di ringraziare lo stregone quando fossero stati fuori pericolo. Caricò i soldati rimasti e se ne sbarazzò con una furiosa sfilza di colpi, come se fossero stati tanti chiodi da piantare col martello. Poi spezzò il quadrello che gli trapassava lo scudo e si voltò a guardare come procedeva la battaglia di sotto. L’ultimo soldato sulla banchina stramazzò in quel preciso momento sul pavimento insanguinato, e la testa staccata dal tronco rotolò nel canale, affondando in una nuvola di bollicine. Due terzi dei Varden erano già sbarcati e si stavano disponendo in ranghi ordinati lungo la banchina. Roran stava per ordinare loro di allontanarsi dal canale in modo che i guerrieri rimasti a bordo avessero spazio per scendere quando il grande portone incassato nella parete sinistra si spalancò e un’orda di soldati si riversò nella galleria. Dannazione! E questi da dove vengono? Quanti sono? Mentre Roran si precipitava verso le scale per aiutare i suoi uomini a respingere i nuovi arrivati, Carn, ancora a prua della fila di chiatte, levò le braccia, le tese verso la fiumana di soldati e gridò una serie di parole aspre e complicate nell’antica lingua.

Al suo comando, due sacchi di farina e una lastra di ardesia si sollevarono dalle chiatte e volarono addosso ai soldati ammassati, schiacciandone una decina. I sacchi scoppiarono al terzo o quarto impatto, liberando dense nuvole di farina candida che accecò e soffocò i soldati. Un istante dopo, vicino alla parete alle spalle dei soldati esplose una vampa di fuoco, e un enorme bolide fiammeggiante squarciò la nuvola di farina, divorando la polvere sottile con rapace ingordigia e un boato simile a cento bandiere che sbattono al vento. Roran si rifugiò dietro lo scudo e sentì la pelle delle gambe e delle guance scottare quando la palla di fuoco andò a schiantarsi ad appena un paio di iarde dalla passerella. Le scintille rosseggianti si trasformarono in cenere fluttuante: una pioggia spettrale di fiocchi neri che sarebbe stata adatta a un funerale. Quando il bagliore si spense, Roran fece capolino da dietro lo scudo. Un tentacolo di fumo bollente e acre gli pizzicò le narici e gli occhi, e con un sussulto si accorse che gli andava a fuoco la barba. Imprecò e lasciò cadere il martello, battendosi la mano sul volto fino a spegnere le tenui fiammelle. «Ehi!» gridò a Carn di sotto. «Mi hai bruciato la barba! Sta’ più attento, altrimenti la tua testa finisce su una picca!» I soldati giacevano rannicchiati sul pavimento, premendo le mani sui volti ustionati; alcuni si contorcevano con i vestiti in fiamme, altri agitavano le armi alla cieca nel tentativo di difendersi da un attacco dei Varden. Gli uomini di Roran se l’erano cavata con qualche scottatura superficiale: la maggior parte era lontana dal raggio del bolide di fuoco, anche se l’esplosione improvvisa li aveva storditi e disorientati. «Non state lì impalati come idioti e sbarazzatevi di quei furfanti prima che si riprendano!» ordinò Roran battendo il martello sulla balaustra per assicurarsi la loro attenzione. Quando arrivò in fondo alla scala, i Varden, in netta superiorità numerica, avevano già ucciso tre quarti dei soldati. Roran lasciò ai suoi guerrieri il compito di eliminare i pochi soldati rimasti e si fece largo verso il portone a doppio battente a sinistra del canale, abbastanza largo perché potessero passarci due carri affiancati. Un attimo dopo scorse Carn: lo stregone era seduto sulla piattaforma di una gru e mangiava qualcosa pescando in un sacchetto che si portava sempre dietro. Roran sapeva che lì dentro teneva un denso impasto di lardo, miele, bacche, fegato di manzo e cuore di agnello triturati. Una volta Carn gliel’aveva fatto assaggiare, e Roran aveva vomitato, ma bastavano un paio di bocconi per rimettere in sesto un uomo sfinito da una giornata di intenso lavoro. Roran si preoccupò quando vide che lo stregone era esausto. «Ce la fai a continuare?» gli chiese. Carn annuì. «Mi serve solo un momento... I dardi nel tunnel, i sacchi di farina e la lastra di ardesia...» Staccò un altro morso dall’impasto. «È stato un po’ troppo, tutto in una volta.» Rassicurato, Roran fece per allontanarsi, ma Carn gli strinse un braccio. «Non sono stato io» disse, con gli occhi scintillanti di ilarità. «A bruciarti la barba, voglio dire. Devono essere state le torce.» Roran si limitò a grugnire e proseguì verso il portone. «In formazione!» gridò, battendo sullo scudo con la parte piatta del martello. «Baldor, Delwin, in testa con me. Gli altri dietro di noi. Scudi pronti, spade sguainate, frecce incoccate. Probabilmente Halstead non

sa ancora che siamo entrati in città, perciò non lasciatevi sfuggire nessuno che possa avvertirlo... Pronti? Allora, con me!» Roran e Baldor, che aveva le guance e il naso spellati per l’esplosione, spalancarono il portone: dall’altra parte si celava il cuore di Arughia.

POLVERE E CENERE Decine di grandi edifici dalle pareti intonacate si affollavano attorno al portone della cinta muraria esterna della città, dove il canale entrava ad Arughia. Tutte le costruzioni, fredde e inquietanti con le loro orbite vuote di finestre buie, avevano l’aria di magazzini e depositi: quell’immobilità, sommata al fatto che era ancora prestissimo, lasciava supporre che nessuno si fosse accorto dello scontro fra i Varden e le guardie. Roran non intendeva indugiare per scoprirlo. I primi raggi dell’alba lambivano la città, tingendo d’oro la sommità delle torri, i bastioni, le cupole e i tetti spioventi. Le strade e i vicoli erano ancora immersi nelle ombre color argento brunito, e l’acqua nel canale di pietra era scura, torbida e striata di sangue. Nel cielo brillava una stella, una scintilla solitaria nel firmamento violetto, dove il chiarore del sole nascente oscurava tutte le altre gemme notturne. I Varden marciavano spediti ma in guardia, le suole degli stivali che strusciavano sul selciato. In lontananza un gallo cantò. Roran li guidò attraverso il labirinto di edifici verso la cinta muraria interna, seguendo spesso un percorso non ovvio né diretto, per ridurre le probabilità di incontrare qualcuno. I vicoli erano stretti e bui, e a volte Roran aveva difficoltà a vedere dove metteva i piedi. I canali di scolo delle strade erano intasati di sudiciume. Ne saliva un fetore disgustoso, che gli faceva rimpiangere gli spazi aperti della campagna a cui era abituato. Come fanno le persone a sopportare di vivere in queste condizioni?, si domandò. Nemmeno i maiali vorrebbero crogiolarsi in questa porcheria. Via via che si allontanava dalla cinta esterna gli edifici diventavano case e botteghe: alte, con le pareti tinteggiate di bianco e rinforzate da travi di legno, e finiture di ferro battuto alle porte. Da dietro le imposte chiuse di tanto in tanto si sentivano voci, un acciottolio di piatti, lo sfregare di una sedia trascinata sul pavimento di legno. Non abbiamo più molto tempo, pensò Roran. Ancora qualche minuto e le strade di Arughia si sarebbero riempite di gente. Neanche a farlo apposta, due uomini comparvero da un vicolo di fronte alla colonna di guerrieri. Portavano entrambi un bilanciere a spalla con appesi dei secchi di latte appena munto. Non appena videro i Varden, gli uomini si fermarono di colpo, facendo traboccare il latte dai secchi. Sgranarono gli occhi e spalancarono la bocca per urlare, quando Roran, in testa alla colonna, disse, in tono perfettamente tranquillo: «Se gridate vi uccido.» Gli uomini tremarono e arretrarono. Roran fece un passo avanti. «Se fuggite vi uccido.» Senza distogliere lo sguardo dai due uomini terrorizzati, chiamò Carn a voce alta, e quando lo stregone l’ebbe raggiunto gli disse: «Addormentali, per favore.» Lo stregone recitò in fretta una frase nell’antica lingua, concludendo con una parola che a Roran parve slytha. I due uomini si afflosciarono come sacchi vuoti, i secchi rotolarono sul

selciato e il latte versato s’infilò nei solchi fra le pietre formando una delicata ragnatela bianca. «Metteteli in un angolo» disse Roran, «dove nessuno possa vederli.» Non appena i guerrieri ebbero trascinato via i due corpi inerti, Roran ordinò ai Varden di riprendere la marcia verso la cinta interna. Non avevano fatto nemmeno cento passi quando voltarono un angolo e s’imbatterono in un drappello di quattro soldati. Questa volta Roran non ebbe pietà. Coprì in un lampo la distanza che li separava e, mentre i soldati cercavano ancora di raccapezzarsi, colpì quello alla guida del gruppo, affondandogli il lato piatto del martello nel collo. Nello stesso momento Baldor uccise un altro soldato con una forza che pochi uomini potevano eguagliare, probabilmente frutto degli anni trascorsi a lavorare nella fucina del padre. Gli ultimi due soldati urlarono terrorizzati, si voltarono e fuggirono. Una freccia sibilò sopra la spalla di Roran e ne centrò uno alla schiena, scaraventandolo a terra. Un istante dopo Carn esclamò: «Jierda!» e il collo dell’ultimo soldato si spezzò con uno schiocco sonoro. L’uomo inciampò e cadde riverso in mezzo alla strada. Il soldato con la freccia conficcata nella schiena cominciò a gridare: «I Varden! I Varden sono qui! Suonate l’allarme, pre...» Col pugnale sguainato, Roran balzò sull’uomo, si chinò e gli tagliò la gola. Ripulì la lama sulla manica della tunica del soldato, poi si rialzò e disse: «Muovetevi, forza!» I Varden si misero a correre per le strade verso la cinta muraria interna di Arughia. Quando mancavano solo un centinaio di iarde, Roran si fermò in un vicolo, dietro una casa, e levò un braccio per far segno agli uomini di aspettare. Poi scivolò furtivo lungo il lato della casa e sbirciò da dietro l’angolo per controllare il cancello incassato nell’alto muro di granito. Era chiuso. Alla sinistra del cancello però c’era un portoncino aperto; ne sbucò un soldato, che di corsa si allontanò verso la periferia ovest della città. Guardando il portoncino Roran imprecò fra i denti. Non aveva alcuna intenzione di arrendersi, non adesso che erano arrivati fino a lì, ma la loro posizione si stava facendo sempre più precaria. E poi era sicuro che ormai restassero soltanto pochi minuti prima della fine del coprifuoco: presto tutti avrebbero saputo della loro presenza. Si ritirò dietro la casa e chinò il capo sforzandosi di farsi venire una buona idea. «Mandel» disse schioccando le dita, «Delwin, Carn e voi tre.» Indicò un terzetto di guerrieri dall’aria feroce, uomini più anziani che, proprio in virtù della loro età, sapevano come si vince una battaglia. «Venite con me. Baldor, tu comanderai il resto. Se non torniamo, mettetevi in salvo. È un ordine.» Baldor annuì con cipiglio severo. Con i sei guerrieri che aveva scelto, Roran aggirò la strada principale che portava al cancello e raggiunse un cumulo di detriti ai piedi della muraglia inclinata, a una cinquantina di piedi dal cancello e dal portoncino aperto.

C’era una vedetta di guardia su ciascuna delle due torri ai lati del cancello, ma per avvistarli i soldati avrebbero dovuto affacciarsi dai bastioni. Roran sussurrò: «Una volta passata la porta, tu, tu e tu...» – e indicò Carn, Delwin e uno degli altri tre guerrieri – «correte verso il corpo di guardia dall’altro lato. Noi prendiamo quello più vicino. Aprite quel cancello, costi quel che costi. Forse ci sarà soltanto una ruota da girare, oppure dovremo alzarlo manualmente, e in quel caso mi servirete tutti, perciò non vi azzardate a morire. Pronti?... Via!» Attento a non fare il minimo rumore, Roran sfrecciò lungo il muro e s’infilò come un fulmine nel portoncino aperto. Si ritrovò in una stanza lunga venti piedi che si affacciava su una grande piazza con una fontana al centro. Uomini in abiti raffinati la percorrevano reggendo rotoli di pergamena fra le braccia. Roran li ignorò e si voltò verso una porta chiusa, che aprì con cautela, resistendo all’impulso di buttarla giù con un calcio. Oltre la porta c’era un corpo di guardia buio con una scala a chiocciola addossata a una parete. Il guerriero salì di corsa le scale, e dopo una rampa soltanto raggiunse una stanzetta dal soffitto basso dove cinque soldati fumavano e giocavano a dadi su un tavolo, accanto a un argano intorno al quale era avvolta una catena grossa quanto il braccio di Roran. «Salve!» disse con voce imperiosa. «Ho un messaggio urgente per voi.» I soldati rimasero interdetti per un attimo, poi scattarono in piedi, spingendo indietro le panche su cui erano seduti. Le gambe di legno stridettero sul pavimento. La loro reazione però fu troppo lenta. Per quanto breve, la loro indecisione bastò a Roran per attraversare la stanza prima che sguainassero le armi. Si lanciò nella mischia, facendo roteare il martello a destra e a manca fino a stringere i soldati in un angolo. Poi arrivarono Mandel e gli altri due guerrieri, che in uno scintillio di lame neutralizzarono le guardie in men che non si dica. Torreggiando sull’ultimo soldato che si contorceva, Roran sputò per terra e disse: «Mai fidarsi degli estranei.» Lo scontro aveva riempito la stanza di odori ripugnanti, una cappa opprimente che sembrava fatta della sostanza più sgradevole che si potesse immaginare. Roran non riusciva a respirare senza che gli venissero i conati, così si coprì naso e bocca con la manica della tunica nel tentativo di filtrare il fetore. I quattro compagni si avvicinarono all’argano, attenti a non scivolare sulle pozze di sangue, e lo studiarono qualche istante per capire come funzionava. Un attimo dopo Roran udì uno scatto metallico e il cigolio di una botola di legno che si apriva, seguiti dallo scalpiccio affrettato di un soldato che scendeva la scala a chiocciola della torre. «Taurin, ma che diamine...» iniziò il soldato, ma si interruppe, con un piede ancora sul gradino, quando vide Roran e i suoi compagni, e poi i cadaveri massacrati in un angolo. Il guerriero alla destra di Roran scagliò una lancia contro il soldato, ma l’uomo la schivò chinando il capo; la lancia colpì la parete sopra di lui. Il soldato imprecò e risalì la scala a quattro zampe.

La botola si richiuse con un grosso tonfo, e un istante dopo Roran e i suoi compagni sentirono il soldato suonare un corno e gridare frasi sconnesse alle persone giù nella piazza. Roran aggrottò le sopracciglia e tornò all’argano. «Lasciatelo perdere» disse, e ripose il martello nella cintura. Afferrò la ruota dentata e spinse con tutte le sue forze. Gli altri si unirono a lui e lentamente, molto lentamente, la ruota cominciò a muoversi, con il cricco sul lato dell’argano che strideva forte ogni volta che l’enorme becco di legno scivolava su un dente. Qualche secondo dopo la ruota iniziò a girare con molta meno fatica: Roran intuì che anche l’altra squadra di Varden doveva essersi introdotta con successo nel secondo corpo di guardia. Non si presero la briga di sollevare completamente il cancello; dopo mezzo minuto di grugniti e sudore, dalla strada si levò il feroce grido di guerra dei Varden che varcavano l’ingresso e sciamavano nella piazza. Roran lasciò l’argano e impugnò il martello, correndo verso la scala a chiocciola con gli altri subito dietro. Appena usciti dal corpo di guardia, Roran vide Carn e Delwin che emergevano dalla struttura gemella dall’altro lato del cancello. Nessuno dei due sembrava ferito, ma Roran notò l’assenza del guerriero più anziano che li aveva accompagnati. In attesa degli altri, Baldor e il resto dei Varden si erano disposti ai margini della piazza in una formazione compatta di cinque file di uomini spalla a spalla, con gli scudi sovrapposti. Roran iniziò a correre verso di loro, ma con la coda dell’occhio vide un grosso contingente di guardie emergere dagli edifici in fondo alla piazza. I soldati si misero in posizione difensiva, tutti con le lance e le picche inclinate in avanti, tanto da somigliare a un lungo puntaspilli. Dovevano essere circa centocinquanta, calcolò Roran, un numero che i suoi guerrieri avrebbero sbaragliato senza problemi, tuttavia non senza sacrificare tempo e vite umane. Il suo umore si fece ancora più tetro quando lo stesso stregone dal naso adunco che aveva visto il giorno prima si parò davanti alla fila di soldati e levò le braccia; intorno a ciascuna mano aveva un globo nero crepitante di fulmini. Roran aveva imparato da Eragon abbastanza cose sulla magia da sapere che i fulmini erano più scenografici che altro, ma comunque non dubitava che lo stregone nemico fosse estremamente pericoloso. Carn raggiunse l’avanguardia dei guerrieri un istante dopo Roran. I due compagni, insieme a Baldor, fissarono lo stregone e la formazione di soldati nemici. «Puoi ucciderlo?» domandò Roran a Carn a bassa voce perché il resto degli uomini non sentisse. «Devo provarci, giusto?» rispose Carn. Si asciugò la bocca col dorso della mano. Aveva il volto madido di sudore. «Se vuoi possiamo attaccarlo. Non può ucciderci tutti prima che distruggiamo le sue difese e riusciamo a infilargli un pugnale nel cuore.» «Tu non sai se... No, è una mia responsabilità, devo farlo io.» «C’è qualcosa che possiamo fare per aiutarti?»

Carn proruppe in una risatina nervosa. «Magari potete tirargli qualche freccia. Si distrarrà per tentare di bloccarle, e potrebbe commettere qualche errore. Ma qualunque cosa facciate, non mettetevi fra di noi. Sarebbe pericoloso, per voi e per me.» Roran si passò il martello nella mano sinistra e posò la destra sulla spalla di Carn. «Andrà tutto bene. Ricorda, non è così in gamba. Lo hai ingannato una volta, e ci riuscirai anche adesso.» «Lo so.» «Buona fortuna, allora» disse Roran. Carn annuì, poi s’incamminò verso la fontana al centro della piazza. Ora che il sole era sorto, il getto d’acqua scintillava come una manciata di diamanti lanciati in aria. Anche lo stregone col naso adunco si avviò verso la fontana, con un’andatura lenta e cadenzata identica a quella di Carn; quando furono a una ventina di passi di distanza, si fermarono. Dal suo punto di osservazione, Roran aveva l’impressione che i due stessero parlando, ma era troppo lontano per capire che cosa si dicevano. Poi gli stregoni si irrigidirono all’improvviso, come se qualcuno li avesse trafitti con un pugnale. Era quello che aspettava Roran: il segnale che gli stregoni avevano ingaggiato un duello mentale. Erano troppo impegnati per prestare attenzione a quanto li circondava. «Arcieri! Lì e lì» urlò indicando i lati della piazza. «Infilzate quel cane rognoso con quante più frecce potete, ma non vi azzardate a colpire Carn, altrimenti vi faccio sbranare vivi da Saphira.» I soldati imperiali parvero agitarsi quando gli arcieri si divisero in due ali ai lati della piazza, ma nessuna delle uniformi cremisi di Galbatorix ruppe la formazione o fece un passo per attaccare i Varden. Devono avere una grande fiducia in quel loro serpente malefico, pensò Roran, preoccupato. Decine di frecce brune con l’impennaggio d’oca tracciarono un ampio arco nell’aria sibilando verso lo stregone nemico, e per un istante Roran sperò che lo uccidessero. A cinque passi dall’uomo, però, i dardi si spezzarono e caddero al suolo, come se avessero incontrato un muro di pietra. Roran saltellava sul posto, incapace di stare fermo. Non sopportava di aspettare con le mani in mano mentre il suo amico era in pericolo. Per giunta, ogni secondo che passava dava a Lord Halstead l’opportunità di scoprire che cosa stava succedendo e di organizzare una reazione adeguata. Se gli uomini di Roran volevano evitare di essere schiacciati dalle forze numericamente superiori dell’Impero, dovevano cogliere il nemico di sorpresa, senza dargli tempo di pensare. «Attenti!» disse Roran rivolto ai guerrieri. «Vediamo se riusciamo a combinare qualcosa di utile mentre Carn combatte per salvarci la pelle. Dobbiamo attaccare quei soldati sui fianchi. Metà di voi con me; gli altri seguano Delwin. Non possono bloccare tutte le strade, perciò, Delwin, tu e i tuoi uomini aggirate la formazione e poi attaccateli alle spalle. Noi li terremo occupati su questo fronte, così non opporranno molta resistenza. Se qualcuno dei soldati cerca di fuggire, lasciatelo andare. Ci vorrebbe troppo tempo per ucciderli tutti. Sono stato chiaro? Ora andate, via, via, via!»

Gli uomini si divisero in fretta in due gruppi. Al comando del suo, Roran corse lungo il lato destro della piazza, mentre Delwin lo imitava sulla sinistra. Quando tutte e due le compagini si trovarono all’altezza della fontana, Roran si accorse che lo stregone nemico lo stava guardando. Fu un’occhiata fugace, un rapidissimo movimento con la coda dell’occhio, ma la distrazione, che fosse stata volontaria oppure no, parve sortire un effetto immediato sul suo duello con Carn. Quando l’uomo col naso adunco riportò lo sguardo su Carn, il ghigno sul suo viso si trasformò in una rigida smorfia di dolore: gli si gonfiarono le vene del collo e della fronte, e lo stregone divenne paonazzo, come se tutto il sangue gli fosse affluito al volto minacciando di fargli scoppiare la testa. «No!» ululò, poi urlò qualcosa di incomprensibile nell’antica lingua. Una frazione di secondo dopo anche Carn gridò, e per un attimo le due voci si sovrapposero in una tale mescolanza di terrore, desolazione, odio e furia che Roran sentì fin dentro le ossa che qualcosa nel duello era andato storto. Carn svanì in un lampo di luce azzurra. Poi una cupola bianca e trasparente sbocciò nel punto in cui si trovava, e si propagò per tutta la piazza in meno di un battito di ciglia. Il mondo si oscurò. A Roran parve di essere travolto da un’ondata rovente, e ogni cosa intorno a lui tremò e vorticò, mentre lui annaspava in uno spazio senza forma. Il martello gli volò via dalla mano e una fitta lancinante gli trapassò il ginocchio destro. Poi un oggetto duro lo colpì alla bocca e Roran sentì un dente allentarsi, subito seguito dal sapore metallico del sangue. Quando il mondo smise di vorticare, Roran si ritrovò a terra e per un istante rimase immobile, troppo stordito per muoversi. A poco a poco riprese i sensi, si accorse di essere a faccia in giù sulla grigia superficie del selciato, e fiutò l’odore del piombo nei solchi fra le pietre, mentre lividi e graffi su tutto il corpo richiamavano a gran voce la sua attenzione. L’unico suono che udiva era il battito del proprio cuore. Quando tentò di respirare, un po’ del sangue che aveva in bocca gli andò di traverso. Tossì e si mise a sedere, sputando grumi di muco nero e il dente che aveva sentito cedere, un incisivo che rimbalzò sul selciato e finì in una chiazza di sangue. Bianco com’era, si stagliava nella macchia scura intorno. Roran lo raccolse e lo esaminò: la parte superiore era scheggiata, ma la radice sembrava intatta, così lo succhiò per pulirlo e se lo infilò nel buco rimasto nella gengiva, facendo una smorfia quando entrò nella carne viva. Si alzò a fatica. Era stato scaraventato contro la soglia di pietra di una casa affacciata sulla piazza. I suoi uomini erano a terra, gli elmi volati via, le spade strappate di mano. Ancora una volta Roran fu lieto di avere un martello come arma, perché molti dei Varden si erano feriti da soli o avevano colpito un compagno in quel caos. Il martello? Dov’è il mio martello?, pensò, i riflessi ancora annebbiati. Si guardò intorno finché non vide il manico dell’arma che sporgeva da sotto le gambe di un guerriero vicino. Lo sfilò con uno strattone, poi rivolse lo sguardo alla piazza. Soldati imperiali e Varden erano stati tutti scaraventati via come birilli. Della fontana restava un cumulo di macerie da cui l’acqua zampillava a intermittenza. Lì accanto, dove si era posizionato Carn, giaceva un cadavere rinsecchito e carbonizzato, le membra fumanti contratte come le zampe di un ragno morto, il corpo così devastato e annerito che a stento vi si riconoscevano le fattezze umane. Inspiegabilmente, lo stregone col naso

adunco era ancora al suo posto, anche se l’esplosione gli aveva strappato via i vestiti, lasciandolo in braghe. Roran si sentì pervadere da una furia incontrollabile e senza badare alla propria incolumità barcollò verso il centro della piazza, deciso a ucciderlo. Lo stregone a torso nudo non si mosse mentre Roran si avvicinava. Roran levò il martello e si lanciò in una corsa incerta, lanciando un grido di guerra che le sue stesse orecchie udirono a malapena. Ma lo stregone non dava segno di volersi difendere. In quel momento Roran si rese conto che in effetti non aveva mosso un dito da dopo l’esplosione. Era come la statua di se stesso. Notando l’apparente indifferenza dell’uomo davanti alla sua carica, Roran fu tentato di ignorare l’insolita reazione, o meglio la mancanza di reazione, e di limitarsi a fracassargli il cranio prima che avesse il tempo di riprendersi da quello strano torpore. Tuttavia la cautela prese il sopravvento sulla sete di vendetta e Roran rallentò fino a fermarsi a pochi passi da lui. Mai decisione fu più indovinata. Anche se da lontano lo stregone appariva normale, da vicino Roran vide che aveva la pelle floscia e rugosa, come un uomo tre volte più vecchio, di una consistenza simile al cuoio screpolato. L’incarnato dello stregone si era fatto scuro e continuava ad annerirsi, attimo dopo attimo, come se il suo corpo fosse colpito da un fulmineo assideramento. Il petto si alzava e si abbassava, e gli occhi ruotavano nelle orbite mostrando il bianco, ma per il resto lo stregone sembrava incapace di muoversi. E mentre Roran rimaneva lì a fissarlo, le braccia, il collo e il torace dell’uomo si raggrinzirono, mostrando le ossa in rilievo, dalle curve sottili delle clavicole alle sporgenze aguzze del bacino, dove la pelle dell’addome pendeva come un sacco vuoto. Le labbra gli si arricciarono fino a mostrare una chiostra di denti giallastri, mentre i globi oculari si sgonfiavano come turgide zecche schiacciate. La pelle circostante fu risucchiata dall’interno. Il respiro dell’uomo, un rantolo terrorizzato e sibilante, rallentò. Inorridito, Roran fece un passo indietro. Sentì qualcosa di viscido sotto gli stivali e abbassò lo sguardo. Era finito in mezzo a una pozzanghera d’acqua. Lì per lì pensò che venisse dalla fontana distrutta, ma poi si accorse che il liquido scorreva dai piedi dello stregone paralizzato. Roran imprecò per il disgusto e balzò all’asciutto. Ma vedendo l’acqua capì finalmente che cosa aveva fatto Carn, e il suo già profondo senso di orrore aumentò. Carn doveva aver evocato un incantesimo per prosciugare il corpo dell’avversario fino all’ultima goccia di fluidi. Nel giro di pochi istanti l’incantesimo ridusse l’uomo a uno scheletro nodoso coperto da un sottilissimo strato di pelle nera e coriacea, mummificandolo come un cadavere lasciato nel deserto di Hadarac, esposto a cento anni di vento, sole e sabbia. Anche se a quel punto era sicuramente morto, lo stregone non cadeva perché la magia di Carn lo teneva in piedi: un fantasma terribile e ghignante, uno spettacolo ben peggiore di qualunque cosa Roran

avesse mai visto nei suoi incubi o sul campo di battaglia, che più o meno erano la stessa cosa. Poi la superficie del corpo essiccato dell’uomo si dissolse in una grigia nuvola di polvere sottile, che fluttuò nell’aria fino a posarsi sull’acqua, come cenere di un incendio boschivo. Roran guardò il cadavere di Carn, poi si affrettò a distogliere gli occhi, incapace di tollerare quella scena. Almeno hai avuto la tua vendetta. Smise di rimuginare sull’amico ucciso perché faceva troppo male e si concentrò invece sul problema più immediato: i soldati in fondo alla piazza, che si stavano lentamente rialzando. Roran vide i Varden fare altrettanto. «Uomini!» gridò. «Con me! Non ci capiterà più un’occasione simile.» Indicò alcuni guerrieri feriti. «Aiutateli ad alzarsi e metteteli al centro della formazione. Nessuno deve restare indietro. Nessuno!» Gli tremavano le labbra mentre parlava, e la testa gli martellava come se avesse passato tutta la notte a ubriacarsi. Al suono della sua voce i Varden si rianimarono e si affrettarono a unirsi a lui, formando un’ampia colonna alle sue spalle. Roran prese posto nell’avanguardia, fra Baldor e Delwin: tutti e due avevano vistose escoriazioni dovute all’esplosione. «Carn è morto?» chiese Baldor. Roran annuì e levò lo scudo, imitato dagli altri uomini, così da formare un’unica solida barriera. «Allora speriamo che Halstead non abbia un altro stregone nascosto da qualche parte» borbottò Delwin. Quando i Varden furono pronti, Roran li incitò: «Avanti, marsch!» e i guerrieri si misero in marcia attraverso la piazza. Forse erano meno preparati ed efficienti dei Varden, o forse l’esplosione aveva causato loro ferite più gravi: qualunque fosse la ragione, i soldati imperiali non si erano ripresi altrettanto in fretta, ed erano ancora storditi e confusi quando i Varden piombarono su di loro. Roran ringhiò e barcollò all’indietro quando una lancia si conficcò nel suo scudo: il colpo gli riverberò nel braccio, che si abbassò per il nuovo peso che doveva sostenere. Roran fece roteare il martello davanti allo scudo nel tentativo di spezzare la lancia, ma invano. Il soldato che aveva di fronte, probabilmente lo stesso che aveva scagliato la lancia, approfittò di quel momento per avventarsi su di lui con la spada, mirando al collo. Roran cercò di levare lo scudo con la lancia ancora conficcata, ma pesava troppo. Non potendo difendersi con lo scudo, alzò il martello per parare la spada che si abbatteva inesorabile su di lui. Di taglio la lama era praticamente impossibile da vedere: Roran sbagliò il tempo della parata e mancò la spada. Sarebbe morto di sicuro se le sue nocche non avessero urtato il piatto della lama, deviandola di un palmo. Il guerriero si sentì squarciare la spalla destra da una linea di fuoco, che continuò la sua corsa serpeggiandogli lungo il fianco, mentre davanti ai suoi occhi esplodeva una miriade di puntini luminosi. Gli cedettero le ginocchia e cadde in avanti. Pietre sotto di lui. Piedi e gambe tutto intorno, che lo bloccavano impedendogli di rotolare verso la salvezza. Sentiva il corpo torpido e insensibile, come intrappolato nella melassa.

Troppo lento, troppo lento, pensò lottando per liberare il braccio dallo scudo e alzarsi. Se fosse rimasto a terra sarebbe morto infilzato o calpestato. Troppo lento! Poi vide il soldato stramazzare davanti ai suoi occhi, stringendosi il ventre, e un secondo dopo qualcuno tirò Roran per il collo dell’usbergo e lo rimise in piedi. Era Baldor. Roran esaminò il punto in cui il soldato lo aveva colpito. Cinque anelli della cotta di maglia si erano spezzati, ma a parte questo l’armatura aveva resistito. Malgrado il sangue che sgorgava dalla ferita e il dolore che gli pulsava nel collo e nel braccio, Roran non pensò di essere in pericolo di vita né aveva intenzione di fermarsi per sincerarsene. Il braccio destro funzionava ancora, abbastanza per continuare a combattere, e questo era tutto ciò che gli importava. Qualcuno gli passò uno scudo di rimpiazzo. Lo soppesò con una smorfia e riprese l’avanzata con i suoi uomini, costringendo i soldati imperiali a ritirarsi lungo il viale che usciva dalla piazza. I soldati ruppero la formazione e si dispersero davanti alla forza schiacciante dei Varden, fuggendo per le viuzze che si diramavano dalla strada principale. Roran allora si fermò e ordinò a cinquanta uomini di tornare indietro a chiudere il cancello e il portoncino e di restare a sorvegliarli nel caso i nemici tentassero di seguire i Varden nel cuore di Arughia. La maggior parte delle truppe cittadine erano dislocate vicino alla cinta esterna per respingere gli assedianti, e Roran non aveva alcuna intenzione di trovarsele di fronte. Sarebbe stato un suicidio, considerato il numero dei soldati di Halstead. Da quel momento in poi i Varden incontrarono scarsa resistenza mentre attraversavano la città marciando verso il maestoso, elegante palazzo dove Lord Halstead esercitava il suo potere. Davanti all’imponente edificio che torreggiava sul resto di Arughia si apriva un ampio cortile con un laghetto artificiale, dove nuotavano oche e cigni bianchi. Il palazzo era magnifico, con un’architettura elaborata di arcate, colonnati e terrazze pensate apposta per danze e ricevimenti. Al contrario del castello nel cuore di Belatona, questo era stato costruito per essere una residenza, non certo a scopo difensivo. Erano sicuri che nessuno sarebbe riuscito a superare le mura, pensò Roran. Alcune decine di guardie e soldati nel cortile si avventarono sui Varden non appena li videro, gridando a squarciagola. «Serrate i ranghi!» ordinò Roran ai suoi uomini. Per un paio di minuti il clangore delle armi echeggiò nel cortile. Le oche e i cigni starnazzarono allarmati e frustarono l’acqua con le ali, ma nessuno osò lasciare i confini del laghetto. I Varden non impiegarono molto ad avere la meglio sui soldati e le guardie. Poi invasero l’ingresso del palazzo, decorato con affreschi alle pareti e sul soffitto, stucchi dorati, mobili intagliati e pavimento intarsiato. Era talmente sfarzoso, pensò Roran, che un solo sguardo non era sufficiente per abbracciarlo tutto. Non riusciva nemmeno a immaginare quanto denaro potesse essere costato quel palazzo, e quanto era necessario a mantenerlo. La fattoria dove era nato e cresciuto non sarebbe bastata a comprare una sola sedia di quella grandiosa sala.

Attraverso una porta aperta vide tre domestiche correre lungo un corridoio, con le sottane sollevate per muoversi più in fretta. «Non lasciatele scappare!» esclamò Roran. Cinque spadaccini uscirono dalla formazione dei Varden per inseguirle, raggiungendole prima che arrivassero in fondo al corridoio. Le donne urlavano e si divincolavano, artigliando gli uomini che le trascinavano verso Roran. «Basta!» gridò lui quando gli furono davanti, e le donne smisero di lottare, pur continuando a gemere e a singhiozzare. La più anziana delle tre – una florida matrona con i capelli bianchi raccolti in una crocchia disordinata e un mazzo di chiavi appeso alla cintura – sembrava anche la più ragionevole, così Roran si rivolse a lei: «Dov’è Lord Halstead?» La donna si irrigidì e sollevò il mento. «Fa’ di me quello che vuoi, signore, ma non tradirò il mio padrone.» Roran si avvicinò. «Apri bene le orecchie e ascoltami» ringhiò, il volto a un palmo da quello della donna. «Arughia è caduta, e tu e chiunque altro in questa città siete alla mia mercé. Non puoi fare niente per cambiare le cose. Dimmi dove si trova Halstead e ti lascerò andare insieme alle tue compagne. Non puoi proteggerlo dal suo destino, ma puoi salvare le vostre vite.» Le labbra spaccate erano così gonfie che riusciva a farsi capire a stento, e gocce di saliva mista a sangue gli schizzavano dalla bocca a ogni parola che pronunciava. «La mia vita non conta, signore» replicò la donna, determinata quanto un guerriero. Roran imprecò e batté il martello sullo scudo, producendo un cupo clangore che rimbombò in tutta la sala. La donna trasalì. «Hai perso la ragione? La tua vita conta meno di quella di Halstead? Dell’Impero? O di Galbatorix?» «Non so niente di Galbatorix o dell’Impero, signore, ma Halstead è sempre stato gentile con noi servitori, e non lo vedrò impiccato per opera di gente della vostra risma. Lurida feccia ingrata, ecco cosa siete.» «È così che la pensi?» tuonò Roran fissandola negli occhi. «Per quanto credi di poter tenere il becco chiuso se ordino ai miei uomini di strapparti la verità a forza?» «Non riuscirai mai a farmi parlare» dichiarò la donna, e lui le credette. «E loro?» Roran indicò le altre donne: la più giovane poteva avere al massimo diciassette anni. «Saresti disposta a lasciarle morire per salvare il tuo padrone?» La domestica sbuffò, poi disse: «Lord Halstead si trova nell’ala est del palazzo. Prendete quel corridoio laggiù, attraversate la Sala Gialla e il giardino di Lady Galiana, e lo troverete di sicuro.» Roran la ascoltò con sospetto. La resa gli era parsa troppo precipitosa, considerata la tenace resistenza di pochi istanti prima. Per giunta, mentre lei parlava, Roran aveva notato che le altre due avevano manifestato una certa sorpresa e un’altra emozione difficile da decifrare. Confusione?, si domandò. In ogni caso avrebbero reagito in modo diverso se l’anziana avesse appena consegnato il loro padrone nelle mani dei nemici. Erano troppo silenziose, troppo docili, come se stessero nascondendo qualcosa.

Fra le due la ragazzina era la meno abile a mascherare i propri sentimenti, così Roran le chiese, con la voce più minacciosa che gli riuscì di trovare: «Tu, laggiù, questa donna sta mentendo, non è vero? Dov’è Halstead? Dimmelo!» La ragazza aprì la bocca e scosse il capo senza dire una parola. Provò a indietreggiare, ma uno dei guerrieri la bloccò. Roran le arrivò a un palmo dal viso, le sbatté lo scudo sul petto facendole uscire tutta l’aria dai polmoni e la schiacciò con tutto il suo peso contro il torace del guerriero alle sue spalle. Con la parte piatta del martello le sfiorò la guancia. «Sei molto graziosa, ma ti sarà difficile trovare un uomo che ti corteggi, a parte qualche vecchio bavoso, se ti spezzo i denti davanti. Oggi anch’io ho perso un dente, ma me lo sono rimesso, vedi?» Piegò le labbra in quella che sperava fosse un’orrenda parvenza di sorriso. «Però i tuoi li terrò io, così non sarai in grado di fare lo stesso. Saranno un bel trofeo, non credi?» E fece un gesto minaccioso col martello. La ragazza si fece piccola piccola e scoppiò in lacrime. «No! Ti prego, signore, non lo so. Ti prego! Era nei suoi appartamenti a discutere con i capitani, ma poi lui e Lady Galiana sono andati verso la galleria che conduce al porto e...» «Thara, stupida che non sei altro!» esclamò la matrona. «C’è una nave che li aspetta, ma io non so dov’è adesso Lord Halstead. Ti prego, non farmi del male, non so altro, signore, e...» «I suoi appartamenti» gridò Roran. «Dove sono?» Fra un singhiozzo e l’altro la ragazza parlò. «Lasciatele andare» disse infine Roran, e le tre donne schizzarono via in un tramestio di tacchi sul pavimento levigato. Roran guidò i Varden nell’enorme palazzo seguendo le indicazioni della ragazza. Lungo il tragitto incrociarono decine di uomini e donne ancora in tenuta da notte, ma nessuno di loro provò a fermare la loro avanzata. La reggia risuonava di urla e schiamazzi: Roran avrebbe voluto tapparsi le orecchie con le dita. Arrivarono a un grande portico con la statua di un enorme drago nero al centro. Roran si domandò se raffigurasse quello di Galbatorix, Shruikan. Mentre sfilavano davanti alla statua, udì un sibilo e poi qualcosa lo colpì alla schiena. Si accasciò su una panchina di pietra accanto al vialetto. Dolore. Un dolore atroce, devastante, capace di annullare ogni pensiero, diverso da qualsiasi altro avesse mai provato prima. Così intenso che si sarebbe tagliato una mano pur di fermarlo. Era come se gli avessero infilato uno spiedo incandescente nella schiena. Non riusciva a muoversi... Non riusciva a respirare... Anche il più piccolo movimento gli procurava un tormento indicibile. Ombre scure gli si addensarono tutto intorno, e sentì Baldor e Delwin che gridavano, e poi Brigman, persino lui, gli stava dicendo qualcosa, anche se Roran non riusciva a capirlo.

Il dolore decuplicò e Roran ululò contorcendosi, col risultato di rendere le fitte ancora più lancinanti. Con un immane sforzo di volontà si costrinse a restare immobile. Le lacrime gli scorrevano dagli occhi chiusi. Poi Brigman gli parlò. «Roran, hai una freccia nella schiena. Abbiamo provato a catturare l’arciere, ma ci è sfuggito.» «Fa male...» boccheggiò Roran. «Questo perché la freccia ti ha colpito una costola, altrimenti sarebbe passata da parte a parte. Sei stato fortunato: bastava un pollice più in su o più in giù... Non ha nemmeno raggiunto la spina dorsale e la scapola.» «Tiratela fuori» disse Roran a denti stretti. «Non è possibile; la freccia ha la punta uncinata. E non possiamo spingerla dall’altro lato. Bisogna incidere la ferita per estrarla. Ho qualche esperienza in questo campo, Roran. Se ti fidi di me posso usare il pugnale per farlo qui, subito. O se preferisci, aspettiamo finché non troviamo un guaritore. Devono essercene almeno un paio qui a palazzo.» Sebbene non lo solleticasse l’idea di affidarsi a Brigman, Roran non poteva sopportare quel dolore un istante di più, perciò acconsentì: «Fallo subito... Baldor...» «Sì, Roran?» «Prendi cinquanta uomini e trova Halstead. Qualunque cosa succeda, non deve fuggire. Delwin, tu resta con me.» Seguì una discussione fra Baldor, Delwin e Brigman, di cui Roran colse soltanto qualche frammento. Poi un folto gruppo di Varden lasciò il portico, che si fece molto più silenzioso. Su indicazioni di Brigman, alcuni guerrieri andarono a prendere delle sedie in una stanza vicina, le fecero a pezzi e accesero un fuoco sul vialetto di ghiaia davanti alla statua. Nel fuoco infilarono la punta del pugnale che Brigman avrebbe usato per cauterizzare la ferita dopo aver estratto la freccia, perché Roran non morisse dissanguato. Riverso sulla panchina, rigido e tremante, Roran si concentrò sul suo respiro, mantenendolo lento e poco profondo per ridurre il dolore. Per quanto difficile, sgombrò la mente da qualunque altro pensiero. Quello che era successo e quello che poteva succedere non aveva importanza: contava solo il lento flusso e riflusso dell’aria attraverso le narici. Per poco non svenne quando quattro uomini lo sollevarono dalla panchina e lo misero a pancia in giù sul terreno. Qualcuno gli infilò un guanto di pelle in bocca, tormentando le labbra spaccate, e al tempo stesso mani robuste e callose gli afferrarono braccia e gambe, immobilizzandolo. Roran scoccò un’occhiata alle sue spalle: Brigman era inginocchiato su di lui, con un coltello da caccia ricurvo in mano. La lama cominciò ad affondare, e Roran chiuse gli occhi, mordendo forte il guanto. Inspirò. Espirò. E poi il tempo e lo spazio cessarono di esistere.

INTERREGNO Roran sedeva curvo all’estremità del tavolo, giocherellando distratto con una coppa tempestata di gemme. Era calata la notte e le sole fonti di luce nella sontuosa stanza erano le due candele sullo scrittoio e un piccolo fuoco che ardeva nel camino accanto al letto a baldacchino vuoto. Regnava il silenzio, salvo per l’occasionale crepitio della legna che bruciava. Una debole brezza salmastra filtrava dalle finestre, agitando le leggere tende bianche. Roran voltò il viso da quella parte accogliendo con sollievo la carezza dell’aria fresca sulla pelle bollente per la febbre. Dalle finestre poteva vedere quasi tutta Arughia. Fuochi di guardia punteggiavano le strade a ogni incrocio, ma per il resto la città era buia e innaturalmente immobile, perché tutti quelli che potevano farlo si erano barricati in casa. Quando la brezza cessò, Roran bevve un altro sorso, versandosi il vino dritto giù nella gola per evitare di deglutire. Una goccia gli cadde sul labbro spaccato e il guerriero si irrigidì, trattenendo il fiato in attesa che la fitta di dolore passasse. Posò la coppa sullo scrittoio, accanto al piatto con il pane e la carne d’agnello e alla bottiglia di vino mezza vuota, poi scoccò un’occhiata allo specchio sistemato in verticale tra le due candele. Non vide altro che il riflesso del suo volto macilento, contuso e macchiato di sangue, e quasi privo di barba sul lato destro. Distolse lo sguardo. Lei lo avrebbe cercato a tempo debito. E nel frattempo lui avrebbe aspettato. Era tutto ciò che poteva fare; dormire gli causava troppo dolore. Levò la coppa ancora una volta e se la rigirò tra le dita. Il tempo passò. Più tardi nella notte, lo specchio si illuminò increspandosi come una pozza di argento vivo; Roran batté le palpebre per l’improvvisa luce e lo guardò con occhi socchiusi e annebbiati. Il viso ovale di Nasuada, con la sua consueta espressione seria, prese forma davanti a lui. «Roran» esordì lei, la voce forte e chiara. «Lady Nasuada.» Il guerriero si raddrizzò scostandosi dal tavolo di appena un palmo, il massimo che riuscì a fare. «Sei stato catturato?» «No.» «Allora suppongo che Carn sia stato ucciso o ferito.» «È morto combattendo contro un altro mago.» «Mi duole udirlo... Era una persona rispettabile, e perdere anche uno solo dei nostri stregoni è un duro colpo per noi.» Rimase in silenzio per un momento. «E cosa mi dici di Arughia?» «La città è in mano nostra.»

Nasuada aggrottò le sopracciglia. «Davvero? Sono molto colpita. Dimmi, come si è svolta la battaglia? È andato tutto secondo i piani?» Muovendo appena la mascella per limitare il dolore, Roran le fece il resoconto dei giorni passati, dal suo arrivo in città a quando era stato attaccato nella sua tenda dal guercio, dalla rottura delle dighe di sbarramento dei mulini a quando i Varden si erano fatti strada a colpi di spada tra le vie di Arughia, per raggiungere alla fine il palazzo di Lord Halstead, senza tralasciare lo scontro di Carn con lo stregone nemico. Poi le raccontò di come era stato ferito alla schiena, e di Brigman che gli aveva estratto la freccia. «Sono stato fortunato che fosse lì; ha fatto un buon lavoro. Altrimenti non avrei potuto essere di nessun aiuto fino all’arrivo di un guaritore.» Rabbrividì al ricordo improvviso di quando gli avevano cauterizzato la ferita; gli parve di poter ancora sentire il metallo rovente mordergli le carni. «Spero che poi tu abbia trovato un guaritore.» «Sì, mia signora, in seguito, ma non era uno stregone.» Nasuada si accomodò meglio sul suo scranno e lo studiò per qualche istante. «Sono stupita che tu abbia ancora l’energia per parlarmi. La gente di Carvahall ha davvero una tempra forte.» «E alla fine abbiamo preso il castello, così come il resto di Arughia, sebbene ci siano ancora delle sacche di resistenza. È stato facile convincere i soldati ad arrendersi quando hanno capito che eravamo penetrati dietro le loro linee e avevamo conquistato il centro della città.» «E cosa ne è stato di Lord Halstead? Avete catturato anche lui?» «Alcuni dei miei uomini l’hanno intercettato mentre tentava di fuggire dal palazzo. Aveva soltanto poche guardie con sé, non abbastanza da respingere i nostri guerrieri, ma è riuscito a fuggire con i suoi seguaci; si sono barricati dentro una cantina...» Roran fece scorrere il pollice su un rubino incastonato nella coppa davanti a lui. «Non si sarebbero arresi, e io non osavo espugnare il loro rifugio; ci sarebbe costato troppe perdite. Perciò... ho ordinato agli uomini di prendere dei barili d’olio dalle cucine, di dar loro fuoco e di lanciarli contro la porta della cantina.» «Per stanarli con il fumo?» domandò Nasuada. Roran annuì lentamente. «Alcuni soldati sono scappati fuori quando la porta è stata distrutta dalle fiamme, ma Lord Halstead ha aspettato troppo a lungo. L’abbiamo trovato a terra, morto soffocato.» «Una sfortuna.» «E anche... sua figlia, Lady Galiana.» L’aveva ancora davanti agli occhi, minuta e fragile, avvolta in un elegante abito color lavanda adorno di balze e nastri. Nasuada aggrottò le sopracciglia. «Chi succederà a Halstead come conte di Fenmark?» «Tharos lo Svelto.» «Lo stesso che ha condotto la carica contro di te ieri?» «Già.» Era metà pomeriggio quando i suoi uomini gli avevano condotto Tharos davanti. L’ometto barbuto era frastornato ma incolume, e non aveva più il suo elmo con lo sgargiante

pennacchio. Roran, disteso a pancia in giù su un cuscino imbottito per via della ferita alla schiena, gli aveva detto: “Credo che tu mi debba una bottiglia di vino.” “Come hai fatto?!” aveva ribattuto Tharos, la voce alterata dalla disperazione. “La città era inespugnabile. Soltanto un drago avrebbe potuto distruggere le nostre mura. Eppure guarda cos’hai combinato. Non sei umano, non sei...” E si era zittito, incapace di aggiungere altro. «Come ha reagito alla notizia della morte di suo padre e di sua sorella?» domandò Nasuada. Roran posò il capo sulla mano. Aveva la fronte madida, così se l’asciugò con la manica. Rabbrividì. Nonostante il sudore sentiva freddo dappertutto, in particolare a mani e piedi. «Non mi è sembrato che tenesse granché a suo padre, mentre la sorella...» Roran si lasciò sfuggire una smorfia ricordando il fiume di insulti con cui Tharos lo aveva investito quando aveva appreso della morte di Galiana. “Se ne avrò mai l’occasione, ti ucciderò per questo” lo aveva minacciato Tharos. “Lo giuro.” “Farai meglio a sbrigarti, allora” aveva replicato Roran. “Un’altra persona ha già reclamato la mia vita, e se qualcuno mai mi ucciderà scommetto che sarà lei.” «Roran? Roran!» Con un vago stupore si accorse che Nasuada lo stava chiamando. La guardò di nuovo, incorniciata nello specchio come un ritratto, e con non poca fatica ritrovò le forze. Alla fine aggiunse: «Tharos non è il legittimo erede di Fenmark. È solo l’ultimo dei sette figli di Halstead, ma tutti i suoi fratelli sono fuggiti o si sono dati alla macchia. Così al momento lui è l’unico a rivendicare il titolo. È un buon intermediario tra noi e gli anziani della città. Senza Carn però non sono in grado di dire chi abbia giurato fedeltà a Galbatorix e chi no. Suppongo che quasi tutti i nobili l’abbiano fatto, e anche i soldati, ovviamente, ma è impossibile sapere chi altri.» Nasuada serrò le labbra. «Capisco... La città più vicina a te è Dauth. Chiederò a Lady Alarice, che se non sbaglio hai già incontrato, di inviare ad Arughia un esperto nell’arte di leggere la mente. La maggior parte dei nobili ne ha almeno uno al proprio seguito, perciò dovrebbe essere facile per Alarice assecondare la nostra richiesta. Tuttavia quando ci siamo messi in marcia per le Pianure Ardenti re Orrin ha portato con sé dal Surda ogni stregone degno di nota; ciò vuol dire che chiunque Lady Alarice invierà, difficilmente sarà in grado di fare di più che leggere nella mente. E senza i dovuti incantesimi sarà arduo impedire ai fedeli di Galbatorix di rivoltarsi contro di noi alla prima occasione.» Mentre Nasuada parlava, Roran lasciò vagare lo sguardo sullo scrittoio, fino a posarlo sulla scura bottiglia del vino. Chissà se Tharos l’ha avvelenato... Il pensiero non riuscì ad allarmarlo. Nasuada intanto diceva: «Spero che tu abbia tenuto sotto controllo i tuoi uomini, impedendo loro di mettere a soqquadro Arughia e di saccheggiarla tiranneggiando i cittadini.» Roran era troppo stanco per mettere insieme una risposta coerente, ma alla fine riuscì a replicare: «Siamo troppo pochi per fare danni. Sanno bene, come lo so io, che i nemici potrebbero riprendersi la città se lasciassimo loro il più piccolo spiraglio.»

«La situazione ha i suoi pro e i suoi contro, direi... Quante perdite avete subito durante l’attacco?» «Quarantadue.» Per qualche istante nessuno parlò. Poi Nasuada chiese: «Carn aveva dei parenti?» Roran si strinse nelle spalle muovendosi il meno possibile. «Non lo so. Era nato in qualche regione su a nord, credo, ma nessuno di noi aveva mai parlato di che vita facesse prima... prima di tutto questo. Non è mai sembrato così importante.» Un improvviso prurito alla gola lo costrinse a tossire ancora e ancora, e si accasciò sul tavolo fino a toccare il legno con la fronte, stringendo le labbra a ogni nuova ondata di dolore alla schiena, alle spalle e alla gola straziata. Gli accessi di tosse furono così violenti che il vino traboccò oltre il bordo della coppa e gli schizzò sulla mano e sul polso. Mentre si riprendeva, Nasuada gli consigliò: «Roran, devi chiamare un guaritore. Non stai bene, e dovresti stare a letto.» «No.» Si asciugò la saliva che aveva all’angolo della bocca, poi la guardò. «Hanno già fatto il possibile, e io non sono un bambino, so badare a me stesso.» Nasuada esitò, poi chinò il capo. «Come preferisci.» «E adesso cosa si fa?» domandò lui. «Ho finito qui?» «Avevo pensato di farti tornare il prima possibile dopo la caduta di Arughia, ma sebbene tu abbia portato a termine la missione non sei in condizioni di cavalcare fino a Dras-Leona. Dovrai pazientare fino a...» «Non intendo aspettare» grugnì Roran. Afferrò lo specchio e se lo avvicinò a una spanna dal viso. «Non ho bisogno di tali premure, Nasuada. Sono in grado di cavalcare, e anche in fretta. L’unica ragione per cui sono venuto qui è che Arughia costituiva una minaccia per i Varden. Ora che quella minaccia è stata rimossa, ora che io l’ho rimossa, ferite o no, non me ne starò buono qui mentre mia moglie con mio figlio in grembo è accampata a meno di un miglio da Murtagh e dal suo drago!» La voce di Nasuada si fece per un attimo dura. «Sei andato ad Arughia perché io ti ci ho mandato.» Poi, in tono più tranquillo, aggiunse: «Comunque comprendo il tuo punto di vista. Puoi rientrare anche subito, se credi di farcela. Non c’è motivo di cavalcare notte e giorno come hai fatto nel viaggio di andata, ma nemmeno di perdere tempo. Pensaci bene. Non voglio dover spiegare a Katrina che il viaggio di ritorno ti è stato fatale... Chi credi che dovrei nominare come tuo sostituto quando lascerai Arughia?» «Il capitano Brigman.» «Brigman? E perché? Non avevi dei problemi con lui?» «Ha contribuito a tenere gli uomini in riga dopo che sono stato ferito. Non riuscivo a ragionare con la dovuta lucidità in quel momento...» «Lo immagino.» «... e ha fatto in modo che gli uomini mantenessero i nervi saldi e non si lasciassero prendere dal panico. Inoltre li ha guidati in mia vece mentre io ero bloccato in questo orribile castello. Era l’unico ad avere l’esperienza necessaria. Senza di lui non saremmo stati in grado di estendere il controllo su tutta Arughia. Agli uomini piace, ed è dotato di spirito di organizzazione. Se la caverà egregiamente a governare la città.»

«E Brigman sia, dunque.» Nasuada distolse lo sguardo dallo specchio e mormorò qualcosa a una persona che Roran non riusciva a vedere. Poi, di nuovo rivolta a lui, disse: «Devo ammettere che non pensavo riuscissi davvero a conquistare Arughia. Sembrava impossibile che qualcuno potesse abbattere le difese della città in così poco tempo, con così pochi uomini, e senza l’aiuto di un drago o di un Cavaliere.» «Allora perché mi hai spedito qui?» «Perché dovevo fare almeno un tentativo prima di lasciare che Eragon e Saphira volassero fin laggiù, e perché ormai sembra che tu abbia l’abitudine di superare le aspettative e riuscire dove altri fallirebbero o si arrenderebbero. Se qualcosa di impossibile doveva accadere, non poteva che essere sotto il tuo comando, e in effetti ho avuto ragione.» Roran sbuffò appena. Ma quanto ancora potrò sfidare la sorte prima di finire morto come Carn? «Ridi pure, se vuoi, ma non puoi negare il tuo stesso successo. Oggi abbiamo ottenuto una grande vittoria grazie a te, Fortemartello. O meglio: capitano Fortemartello. Hai più che meritato questo titolo. Ti sono immensamente grata per ciò che hai fatto. Conquistando Arughia ci hai salvati dalla prospettiva di combattere una guerra su due fronti, che avrebbe quasi per certo segnato la nostra rovina. Tutti i Varden ti sono debitori, e ti prometto che i sacrifici che tu e i tuoi uomini avete sofferto non saranno dimenticati.» Roran cercò di dire qualcosa, ma invano. Tentò ancora e fallì una seconda volta prima di riuscire finalmente ad articolare: «Io... mi farò portavoce delle tue parole presso i miei uomini. Vorrà dire tanto per loro.» «Ti prego di farlo. E ora, con il tuo permesso, devo salutarti. È tardi, tu sei malato e ti ho trattenuto fin troppo.» «Aspetta...» Roran si sporse verso di lei e picchiettò lo specchio con la punta delle dita. «Aspetta. Non mi hai detto come sta andando l’assedio di Dras-Leona.» Nasuada lo fissò con espressione piatta. «Male. E al momento non pare destinato ad andar meglio. Ci saresti molto utile qui, Fortemartello. Se non troviamo un modo di risolvere questa situazione, e presto, tutto ciò per cui abbiamo combattuto sarà perso per sempre.» [eBookLove - eBL 043] Christopher Paolini - Inheritance [by Pico]

THARDSVERGÛNDNZMAL «Stai bene» disse Eragon, esasperato. «Smettila di preoccuparti. Non potresti fare nulla in ogni caso.» Saphira emise un ringhio e continuò a studiare la sua immagine riflessa nel lago. Voltò la testa da un lato e dall’altro ed esalò uno sbuffo di fumo che scivolò sull’acqua come una piccola nube solitaria di temporale. Ne sei sicuro?, domandò lei, fissandolo. E se invece non ricresce? «Le vostre squame si rigenerano di continuo, lo sai.» Sì, ma non me n’era mai caduta una prima d’ora! Eragon non riuscì a trattenere un sorriso; sapeva che Saphira avrebbe percepito comunque che quella situazione lo divertiva. «Non dovresti essere così turbata. Non era tanto grande.» Tracciò con la mano i contorni del foro a forma di rombo sul lato destro del muso, motivo della costernazione della dragonessa. Il buco nella corazza non era più largo della punta del suo dito e profondo circa un pollice. Alla base si intravvedeva lo strato coriaceo di pelle blu. Incuriosito, Eragon le toccò la pelle con l’indice. Era calda e morbida, come il ventre di un vitello. Saphira sbuffò e allontanò la testa. Smettila, mi fai il solletico. Il Cavaliere ridacchiò, e restando seduto sul masso prese a dare calcetti all’acqua, godendosi la carezza alle piante dei piedi scalzi. Forse non era tanto grande, disse lei, ma tutti noteranno che non c’è più. Come potrebbero non accorgersene? Sarebbe come non vedere una chiazza di terra brulla su un picco innevato. E storse gli occhi per tentare di scorgere il forellino scuro appena sopra la narice. Eragon rise e la schizzò. Poi, per blandire il suo orgoglio ferito, la consolò: «Nessuno lo noterà, Saphira. Credimi. Inoltre, se anche fosse, penseranno a una ferita di guerra, e ai loro occhi sarai ancora più temibile.» Tu credi? Saphira tornò a rimirarsi nel lago. Le sue squame e l’acqua si riflettevano a vicenda in una miriade di puntini iridescenti. E se un soldato mi colpisse in quel punto? La lama mi trapasserebbe. Forse dovrei chiedere ai nani di forgiare una placca metallica per proteggere l’area, finché non ricrescerà la squama. «Saresti un po’ ridicola.» Dici? «Mmm» rispose lui, sul punto di ridere di nuovo. La dragonessa tirò su col naso. Non vedo perché tu debba prenderti gioco di me. Ti piacerebbe se il pelo che hai in testa iniziasse a cadere, o se perdessi una di quelle insignificanti protuberanze che chiamate denti? Dovrei consolarti parecchio, senza dubbio. «Senza dubbio» concordò lui. «Ma vedi, i denti non ricrescono.» Si allontanò dalla roccia e si avvicinò al punto in cui aveva lasciato gli stivali, camminando con cautela per evitare di

ferirsi i piedi sulle pietre e sui rami sparpagliati appena fuori dall’acqua. Saphira lo seguì, schiacciando la morbida terra sotto gli artigli. Potresti lanciare un incantesimo per proteggere solo quel punto, gli disse mentre si infilava gli stivali. «Potrei. Vuoi che lo faccia?» Sì. Eragon formulò l’incantesimo nella mente mentre si allacciava gli stivali, poi posò il palmo della mano destra sul forellino che la dragonessa aveva sul muso e mormorò le parole necessarie nell’antica lingua. Un tenue chiarore azzurrognolo emanò dal suo palmo mentre legava l’incantesimo di protezione al corpo di lei. «Ecco» disse infine. «Ora non hai nulla di cui preoccuparti.» Tranne il fatto che mi manca ancora una squama. Eragon le diede un buffetto sulla mandibola. «Coraggio, torniamo all’accampamento.» Lasciarono insieme il lago e risalirono lo scosceso argine di terreno friabile; Eragon usò le radici esposte come appiglio. Dalla cima della salita si godeva di una visuale completa dell’accampamento dei Varden mezzo miglio a est, e, un po’ più a nord, del confuso ammasso di edifici di Dras-Leona. Gli unici segni di vita dentro la città erano i pennacchi di fumo che si innalzavano dai comignoli di alcune case. Come sempre, Castigo era in cima alle mura del cancello sud, appollaiato tra le merlature, e si crogiolava alla vivida luce pomeridiana. Il drago rosso sembrava addormentato, ma Eragon sapeva per esperienza che teneva sempre un occhio puntato sui Varden, e che se qualcuno avesse solo iniziato ad avvicinarsi alla città si sarebbe riscosso e avrebbe ruggito l’allarme a Murtagh e agli altri. Con un saltello, Eragon montò sul dorso di Saphira, e la dragonessa lo portò alla svelta all’accampamento. Quando arrivarono, scivolò giù e la precedette mentre avanzavano tra le tende. L’accampamento era silenzioso, e tutto sembrava intriso di sfinimento e indolenza, dal sommesso parlottio dei soldati agli stendardi che penzolavano flosci nell’aria pesante. Le uniche creature immuni all’apatia generale erano gli ossuti cani selvatici, che vagavano per l’accampamento fiutando ovunque alla perenne ricerca di scarti di cibo. Molti di loro avevano graffi sul muso e sui fianchi, certo per aver commesso lo sciocco – e per loro inevitabile – errore di inseguire e tormentare un gatto mannaro dagli occhi verdi come avrebbero fatto con un felino qualsiasi. Quando ci avevano provato, i loro guaiti di dolore avevano richiamato l’attenzione di tutti gli uomini, che avevano riso di gusto vedendo i cani fuggire con la coda tra le zampe. Conscio dei numerosi sguardi che lui e Saphira attiravano, Eragon tenne alto il mento e raddrizzò le spalle, avanzando con passo deciso, così da dare un’impressione di risolutezza e vigore. I guerrieri avevano bisogno di vedere che lui era ancora fiducioso e che non si era fatto contagiare dallo scoramento per la brutta situazione in cui si trovavano. Se soltanto Murtagh e Castigo se ne andassero..., pensò. Basterebbe che si allontanassero anche solo per un giorno e la città sarebbe nostra.

L’assedio di Dras-Leona si protraeva senza eventi degni di nota. Nasuada si era rifiutata di attaccare la città perché, come aveva detto a Eragon: “L’ultima volta che hai combattuto contro Murtagh l’hai scampata per un pelo. Ti sei dimenticato che ti ha trafitto un fianco? E in quell’occasione ha detto che sarebbe stato più forte quando vi foste incontrati di nuovo. Murtagh potrà avere molti difetti, ma non è un bugiardo, o almeno così credo.” “La forza non è tutto in uno scontro tra maghi” aveva precisato Eragon. “No, ma non è neppure da sottovalutare. Inoltre lui può contare sull’aiuto dei sacerdoti dell’Helgrind, molti dei quali immagino esercitino le arti magiche. Non rischierò che tu affronti loro e Murtagh allo scoperto, anche se hai dalla tua gli stregoni di Blödhgarm. Finché non riusciremo ad allontanare Murtagh e Castigo, a intrappolarli, o almeno a guadagnare qualche vantaggio su di loro, resteremo qui e non muoveremo contro DrasLeona.” Eragon aveva protestato, sostenendo che non potevano permettersi di rallentare la loro avanzata; e se lui non era in grado di sconfiggere Murtagh, che speranze avrebbe avuto contro Galbatorix? Tuttavia Nasuada non si era lasciata convincere. Avevano tentato – insieme ad Arya, Blödhgarm e a tutti gli stregoni del Du Vrangr Gata – di elaborare piani e progetti, cercando un modo di guadagnare il vantaggio di cui Nasuada aveva parlato. Ma ogni strategia si rivelava inattuabile poiché richiedeva più tempo e risorse di quanto i Varden avessero a disposizione, oppure perché alla fine l’anello debole delle loro congetture era sempre lo stesso: non sapevano come uccidere, catturare o mettere in fuga Murtagh e Castigo. Nasuada era persino andata da Elva e le aveva chiesto di usare il suo dono – era in grado di percepire il dolore degli altri, nel presente e nell’immediato futuro – per sconfiggere Murtagh o introdursi clandestinamente in città. La bambina dalla fronte argentata era scoppiata a ridere e aveva cacciato Nasuada insultandola e facendosi beffe di lei, dicendo: “Non sono legata a te o ad altri da alcun voto di obbedienza, Nasuada. Trova qualche altra ragazzina che vinca le guerre per te; io non lo farò.” Così i Varden rimanevano in attesa. E a mano a mano che i giorni si susseguivano inesorabili, Eragon aveva visto gli uomini scoraggiarsi e incupirsi, mentre Nasuada si faceva sempre più inquieta. Un esercito, aveva imparato Eragon, era una bestia famelica e insaziabile che ben presto si sarebbe indebolita fino a morire, a meno che le sue molteplici migliaia di stomaci non fossero state nutrite regolarmente da ingenti quantità di cibo. Quando marciavano su un nuovo territorio, gli approvvigionamenti per l’esercito si rimediavano dalle riserve alimentari e dagli altri beni confiscati agli sconfitti, e dalle razzie dei raccolti nelle campagne circostanti. Come una piaga di locuste, i Varden si erano lasciati dietro una scia di terre devastate, ormai inadatte a ospitare la vita. Ma non appena avevano arrestato l’avanzata, i Varden avevano ben presto esaurito le scorte a disposizione ed erano stati costretti a sopravvivere esclusivamente delle provvigioni inviate loro dal Surda e dalle molte città che avevano espugnato. Per quanto fossero generosi i Surdani e ricche le città conquistate, la fornitura regolare di viveri non sarebbe stata in grado di sostenere i Varden ancora a lungo. Eragon sapeva che i guerrieri erano devoti alla causa, ma non aveva dubbi che di fronte alla prospettiva di una lenta e penosa morte di stenti – con grande soddisfazione di Galbatorix, che avrebbe gongolato per la loro sconfitta – quasi tutti i suoi uomini

avrebbero preferito fuggire nei più remoti angoli di Alagaësia pur di passare il resto della loro vita al sicuro dall’Impero. Quel momento non era ancora arrivato, ma si avvicinava in fretta. Era il timore di quella sorte che rendeva insonne la signora dei Varden, Eragon ne era sicuro, dato che ogni mattina aveva il volto sempre più scavato, con borse sotto gli occhi che ricordavano piccoli cupi sorrisi. Proprio a causa delle difficoltà incontrate a Dras-Leona, Eragon era felice che Roran non si fosse lasciato abbattere allo stesso modo ad Arughia; anzi, l’impresa del cugino nella città del sud aveva accresciuto l’ammirazione e la stima che Eragon provava per lui. È un uomo più intrepido di me. Nasuada avrebbe disapprovato, ma Eragon aveva deciso che al ritorno del cugino – in capo a pochi giorni, se tutto fosse andato bene – lo avrebbe dotato di una serie completa di difese. Eragon aveva già perso troppi membri della propria famiglia per colpa dell’Impero e di Galbatorix, e non avrebbe permesso che Roran andasse incontro a quello stesso destino. Si fermò per consentire a un gruppetto di tre nani di attraversare il sentiero davanti a lui. I nani non indossavano né elmi né insegne, ma sapeva che non erano membri del Dûrgrimst Ingeitum, poiché le loro barbe intrecciate erano adorne di perline, un’usanza che non aveva mai visto nel clan Ingeitum. Indovinare di cosa stavano discutendo era impossibile: Eragon non riusciva a decifrare che poche parole isolate della loro lingua gutturale, ma l’argomento doveva senz’altro essere della massima rilevanza, a giudicare dai toni alti, dai gesti concitati e dalle espressioni esasperate, tanto che non si erano accorti né di lui né di Saphira. Eragon sorrise guardandoli allontanarsi; trovava il loro aspetto crucciato oltremodo comico, nonostante l’evidente serietà dei loro volti. Con gran sollievo dei Varden, l’esercito dei nani, guidato dal loro nuovo re, Orik, era giunto a Dras-Leona due giorni prima. Il loro arrivo, e la vittoria di Roran ad Arughia, avevano costituito da allora i principali argomenti di conversazione in tutto l’accampamento. I nani avevano quasi raddoppiato il numero delle forze alleate dei Varden e avrebbero incrementato in maniera sostanziale le loro possibilità di raggiungere Urû’baen e Galbatorix, se mai avessero trovato il modo di risolvere l’inconveniente di Murtagh e Castigo. Mentre camminava insieme a Saphira per l’accampamento, Eragon scorse Katrina seduta fuori dalla sua tenda. Stava facendo dei vestitini per il nascituro. Katrina lo salutò con un cenno della mano, chiamandolo: «Cugino!» Eragon rispose nello stesso modo, com’era loro abitudine dal giorno del matrimonio. Dopo che lui e Saphira ebbero gustato un pranzo tranquillo, accompagnato dall’assordante lavorio di mascelle della dragonessa impegnata a dilaniare e sgranocchiare, si coricarono sullo spiazzo ricoperto d’erba soffice, illuminata dal sole accanto alla tenda di Eragon. Nasuada aveva dato ordine di lasciare quell’appezzamento di terreno sempre libero a uso di Saphira, una regola che i Varden avevano osservato con zelo religioso. Lì Saphira si rannicchiò per un sonnellino sotto il sole caldo. Eragon estrasse invece il Domia abr Wyrda dalla bisaccia e si arrampicò oltre il bordo della sua ala sinistra per accoccolarsi nell’incavo ombreggiato tra la curva del collo e la muscolosa zampa anteriore della dragonessa. Il sole che filtrava attraverso le membrane dell’ala, così come le lame di luce riflessa sulle squame, lo costringevano a strizzare gli occhi, tingevano la sua pelle di

una sfumatura violacea e gettavano sulle pagine del libro ombre iridescenti che rendevano difficile leggere le rune sottili e spigolose. Ma a Eragon non importava: il piacere di stare con Saphira valeva bene il disagio. Rimasero seduti insieme per un’ora o due, finché la dragonessa ebbe digerito ed Eragon si fu stancato di decifrare le frasi contorte di Heslant il Monaco. Poi, annoiati, vagarono per le tende, ispezionando le difese e scambiando parole di circostanza con le sentinelle appostate lungo il perimetro. Vicino al margine orientale dell’accampamento, dove si era stabilita la maggior parte dei nani, ne notarono uno che se ne stava accovacciato accanto a un secchio pieno d’acqua, con le maniche arrotolate fin sopra i gomiti. Stava modellando una palla di fango grande un pugno; ai suoi piedi c’erano una pozza di melma e un bastoncino che era stato usato per smuoverla. La scena era così assurda che trascorsero parecchi secondi prima che Eragon si accorgesse di avere davanti Orik. «Derûndânn, Eragon... Saphira» li salutò lui senza alzare lo sguardo. «Derûndânn» rispose il Cavaliere nella lingua dei nani, e si accovacciò dall’altro lato della pozza. Rimase a guardare Orik che rifiniva i contorni della pallina, lisciandola e plasmandola con il pollice. Di tanto in tanto il nano si abbassava, afferrava una manciata di terriccio secco e lo faceva cadere a pioggia sul globo giallastro; poi, con delicatezza, ne spazzolava via l’eccesso. «Non avrei mai pensato di vedere il re dei nani accovacciato in terra a giocare col fango come un bambino» commentò Eragon. Orik sbuffò stizzito, facendo vibrare i baffi. «E io non avrei mai pensato di avere un drago e il suo cavaliere come spettatori mentre faccio un Erôthknurl.» «E che cosa sarebbe un Erôthknurl?» «Un thardsvergûndnzmal.» «Un thardsver...?» Eragon si bloccò a metà, incapace di ricordare la parola, men che meno di pronunciarla. «Cioè?» «Qualcosa che non è quel che sembra.» Orik sollevò la palla di fango. «Come questa. Una pietra forgiata con la terra. O piuttosto, tale apparirà quando avrò finito.» «Una pietra dalla terra... È magia?» «No, soltanto abilità. Nulla di più.» Quando Orik rimase in silenzio, senza offrire altre spiegazioni, Eragon domandò: «Come si fa?» «Se hai pazienza lo vedrai.» Dopo un momento Orik cedette e disse: «Per prima cosa devi trovare del terriccio.» «Un compito arduo.» Il re dei nani gli scoccò un’occhiataccia da sotto le sopracciglia cespugliose. «Alcuni tipi di terra sono migliori di altri. La sabbia, per esempio, non funzionerebbe. Il terriccio deve avere particelle di varia grandezza, che possono aderire tra loro facilmente. E poi dovrebbe contenere dell’argilla, come in questo caso. Ma la cosa più importante di tutte è che se faccio così...» e batté col palmo su una striscia di nuda terra tra le chiazze di erba

calpestata, «il terreno deve essere molto polveroso. Vedi?» Levò la mano, mostrando a Eragon lo strato di pulviscolo rimasto attaccato al palmo. «Perché è importante?» «Ah!» esclamò Orik, e si picchiettò un lato del naso, lasciandoci sopra una macchia biancastra. Riprese a manipolare la sfera, girandola e rigirandola. «Una volta trovato del buon terriccio, lo bagni e lo mescoli come si fa con la farina, fino a ottenere un impasto di fango bello denso.» Indicò con un cenno la pozza melmosa ai suoi piedi. «Dal fango crei una palla come questa. Poi la comprimi per spremere ogni goccia d’acqua e cerchi di renderla perfettamente rotonda. Quando inizia a diventare appiccicosa, fai quello che sto facendo io: ci versi sopra del terriccio asciutto, per assorbire altra umidità dall’interno. Continui così finché la palla non è abbastanza secca da mantenere la forma, ma non così tanto da rompersi. «Il mio Erôthknurl è quasi pronto. Quando sarà asciutto al punto giusto, lo porterò nella mia tenda e lo lascerò al sole per un bel po’. La luce e il calore faranno evaporare i residui di umidità; poi ci verserò sopra altro terriccio e lo ripulirò. Dopo aver ripetuto il procedimento tre o quattro volte, la superficie dovrebbe essere dura come pelle di Nagra.» «Tutto questo soltanto per avere una palla di fango secco?» esclamò Eragon, sbalordito. Sentì che Saphira condivideva le sue impressioni. Orik raccolse un’altra manciata di terriccio. «No, non ho ancora finito. È a questo punto che ci serve la polvere. La prendo e la spargo sulla superficie dell’Erôthknurl, così da creare un involucro sottile e liscio. Poi lascerò riposare la palla e attenderò che altra umidità trasudi all’esterno; dunque aggiungerò altra polvere, e aspetterò ancora. Ci verserò di nuovo polvere... e così via.» «Fino a quando?» «Finché la polvere non aderirà più. È il guscio che si forma all’esterno che conferisce all’Erôthknurl la sua bellezza. Nel giro di un giorno acquisterà uno splendore lucente, come se fosse fatto di lustro marmo. Senza levigatura né magia, ma usando soltanto cuore, mente e mani, avrai una pietra scaturita dalla semplice terra, una pietra fragile, vero, ma sempre una pietra.» Nonostante l’enfasi di Orik, agli occhi di Eragon era ancora difficile credere che il fango ai suoi piedi potesse essere trasformato in ciò che il re dei nani sosteneva, e senza l’ausilio della magia. Ma perché ne fai uno?, domandò Saphira. Avrai molte responsabilità, ora che devi governare la tua gente. Il nano borbottò. «Non c’è nulla che debba fare al momento. I miei uomini sono pronti per la battaglia, ma non c’è nessuna guerra da combattere, e farei solo danni se li opprimessi come una chioccia. E non mi va nemmeno di restarmene seduto da solo nella mia tenda a guardarmi crescere la barba... ecco perché fabbrico un Erôthknurl.» Orik tacque, ma Eragon tenne a freno la lingua perché il re gli sembrava preoccupato per qualcosa, e attese che proseguisse. Dopo circa un minuto, Orik si schiarì la voce e riprese: «Un tempo potevo bere e giocare a dadi con gli altri del mio clan, e a nessuno importava che fossi il figlio adottivo di Rothgar. Parlavamo e ridevamo insieme, senza alcun imbarazzo. Non ho mai chiesto trattamenti di favore e non ne ho mai ricevuti. Ma adesso è

diverso. I miei amici non sono capaci di dimenticare che ora sono il loro re, e io non riesco a far finta di niente, quando vedo come hanno cambiato atteggiamento nei miei confronti.» «C’era da aspettarselo» puntualizzò Eragon. Si identificava con la difficile situazione di Orik, poiché aveva vissuto la stessa esperienza quando era diventato Cavaliere. «Forse. Ma saperlo non rende affatto più facile accettarlo.» Orik sbuffò irritato. «Ah, la vita è strana, e a volte è un viaggio crudele... Ammiravo Rothgar come re, ma a volte lo giudicavo un po’ brusco con chi gli stava intorno, anche senza apparente motivo. Adesso capisco meglio perché si comportava così.» Orik raccolse la sfera e la rimirò, le sopracciglia unite in un’espressione corrucciata. «Quando hai incontrato Grimstborith Gannel a Tarnag, ti ha spiegato il significato dell’Erôthknurl?» «Non ne ha mai parlato.» «Suppongo ci fossero altre questioni più importanti da affrontare... Comunque, come membro dell’Ingeitum e knurla adottivo, dovresti conoscere l’importanza e il valore simbolico dell’Erôthknurl. Non è soltanto un modo per trovare la concentrazione, passare il tempo e creare un oggetto interessante. No. Creare la pietra dalla terra è un atto sacro. Attraverso di esso ribadiamo la nostra fede nel potere di Helzvog e gli offriamo il nostro tributo. Ci si dovrebbe dedicare a tale compito con reverenza e determinazione. Eseguire un Erôthknurl è un atto di devozione, e gli dei non guardano con favore coloro che si accostano ai riti in modo frivolo. Dalla pietra la carne; dalla carne la terra; e dalla terra di nuovo la pietra. La ruota gira, e noi cogliamo solo un frammento del tutto.» Soltanto allora Eragon comprese l’inquietudine di Orik. «Dovrebbe esserci Vedra qui con te» disse. «Ti starebbe accanto, impedendoti di cedere alla malinconia. Non ti ho mai visto così felice come quando eri con lei alla Rocca di Bregan.» Orik sorrise, e le rughe attorno ai suoi occhi tristi si fecero più profonde. «Sì... ma lei è la grimstcarvlorss dell’Ingeitum, e non può tralasciare i suoi doveri per confortare me. Inoltre non potrei riposare tranquillo se la sapessi a meno di trecento miglia da Murtagh e Castigo, o peggio, da Galbatorix e dal suo maledetto drago nero.» Per tentare di risollevare Orik, Eragon disse: «Mi fai venire in mente la soluzione di un indovinello: un re nano seduto per terra che crea una pietra dal nulla. Non so come potrebbe essere formulata la filastrocca, ma immagino che suonerebbe più o meno così: Forte e risoluto, tredici stelle sulla fronte, pietra viva che siede plasmando dura terra in pietra morta. «Non fa rima, lo ammetto, ma sai bene che è arduo improvvisare una vera poesia. Comunque immagino che un indovinello del genere sarebbe un bel grattacapo per la maggior parte della gente, non credi?» «Pff» commentò Orik. «Non per un nano. Perfino i nostri bambini saprebbero risolverlo all’istante.» E anche un drago, disse Saphira. «Suppongo che abbiate ragione» disse Eragon.

Poi chiese a Orik di essere aggiornato su ciò che era successo tra i nani da quando lui e Saphira avevano lasciato Tronjheim, la seconda volta che erano andati nella foresta degli elfi. Eragon non aveva avuto l’opportunità di parlare diffusamente con il re da quando i nani erano arrivati a Dras-Leona, ed era ansioso di sapere come se l’era cavata il suo amico da quando era salito sul trono. Orik non si astenne dal descrivere gli intrighi della politica nanesca; anzi, mentre parlava la sua espressione si illuminò, facendosi sempre più animata. Trascorse quasi un’ora a riferirgli i battibecchi e i giochi di potere tra i diversi clan prima di riunire l’esercito e marciare verso i Varden. I clan erano fazioni litigiose, come ben sapeva Eragon, e, perfino da re, Orik aveva non poche difficoltà a ottenere la loro obbedienza. «È come tentare di tenere insieme un branco di oche» commentò Orik. «Cercano sempre di andarsene per conto proprio, starnazzano in continuazione e ti beccano la mano alla prima buona occasione.» Durante il racconto di Orik, Eragon pensò di chiedergli di Vermûnd. Si era spesso domandato che cosa ne fosse stato del capoclan che aveva tentato di ucciderlo. Gli piaceva sapere dove fossero i suoi nemici, soprattutto quelli pericolosi come Vermûnd. «È tornato al suo villaggio, nel Feldarast» rispose Orik. «Lì, secondo le voci che mi sono giunte, se ne sta seduto a bere e blatera su cosa è e cosa sarebbe potuto essere. Ma ormai non lo ascolta nessuno. I knurlan dell’Az Sweldn rak Anhûin sono orgogliosi e testardi. Potrebbero perdonare a Vermûnd quasi ogni cosa e gli rimarrebbero leali anche contro il parere degli altri clan, ma tentare di uccidere un ospite, no, quello è un oltraggio imperdonabile. E non tutti i membri dell’Az Sweldn rak Anhûin ti odiano come Vermûnd. Non posso credere che acconsentirebbero a isolarsi dalla loro gente soltanto per proteggere un grimstborith che ha perduto ogni briciolo di dignità. Potrebbero volerci anni, ma alla fine gli si rivolteranno contro. Ho sentito che molti del clan lo evitano, anche se loro stessi sono emarginati.» «Cosa credi che gli succederà?» «Accetterà l’inevitabile e si farà da parte, altrimenti un giorno o l’altro qualcuno gli metterà del veleno nell’idromele, o gli conficcherà un pugnale tra le costole. In ogni caso non è più una minaccia per te in qualità di capo dell’Az Sweldn rak Anhûin.» Continuarono a parlare finché Orik ebbe concluso le prime fasi della creazione dell’Erôthknurl e giunse il momento di mettere la sfera di fango a riposare su un pezzo di stoffa nella sua tenda, affinché si seccasse. Quando Orik si alzò raccogliendo il secchio e il bastoncino, disse: «Apprezzo molto che tu sia così gentile da ascoltarmi, Eragon. E anche tu, Saphira. Sembrerà strano, ma voi siete gli unici oltre a Vedra con i quali posso parlare liberamente. Tutti gli altri...» Si strinse nelle spalle. «Bah.» Anche Eragon si alzò. «Sei nostro amico, Orik, che tu sia il re dei nani oppure no. Saremo sempre lieti di parlare con te, e sai che le tue confidenze sono al sicuro con noi.» «Sì, lo so, Eragon.» Orik gli scoccò un’occhiata obliqua. «Tu partecipi profondamente agli eventi di questo mondo, eppure non sei rimasto intrappolato nelle trame meschine che vengono tessute intorno a te.» «Non mi interessano. E poi devo affrontare cose più importanti, al momento.»

«Bene. Un Cavaliere dei Draghi non dovrebbe farsi condizionare dagli altri. Altrimenti come potresti giudicare in completa libertà? Prima non apprezzavo l’autonomia dei Cavalieri, adesso invece sì, anche se per ragioni egoistiche.» «Io non sono del tutto indipendente» ribatté Eragon. «Ho giurato fedeltà a te e a Nasuada.» Orik chinò il capo. «Giusto. Ma tu non fai davvero parte né dei Varden, né dell’Ingeitum, se è per questo. In ogni caso sono felice di potermi fidare di te.» Sul volto di Eragon si aprì un sorriso. «E io posso dire lo stesso di te.» «Dopotutto siamo fratelli adottivi, o no? E i fratelli dovrebbero guardarsi le spalle a vicenda.» Già, dovrebbero, pensò Eragon, ma non lo disse ad alta voce. «Fratelli adottivi» concordò, e diede una pacca sulla spalla a Orik.

LA VIA DELLA CONOSCENZA Più tardi nel pomeriggio, quando ormai era improbabile che l’Impero lanciasse un attacco da Dras-Leona nelle ultime ore di luce, Eragon e Saphira raggiunsero il campo di addestramento dietro l’accampamento dei Varden. Lì Eragon si incontrò con Arya, come ogni giorno da quando erano arrivati alle porte della città. Le chiese come stava e lei spiegò con poche, concise parole che era stata bloccata fin da prima dell’alba in un noioso colloquio con Nasuada e re Orrin. Poi Eragon estrasse la spada; Arya fece lo stesso, e i due presero posizione. Si erano già messi d’accordo per usare gli scudi; era più simile a un combattimento reale, e introduceva una piacevole variazione nei loro scontri. Si squadrarono con lenti passi misurati, come ballerini su un terreno irregolare, saggiando il suolo con i piedi senza mai chinare il capo, senza mai distogliere lo sguardo l’uno dall’altra. Era il momento dei loro allenamenti che Eragon amava di più. Guardare Arya dritto negli occhi, senza esitazioni né ammiccamenti, aveva un che di intimo e profondo, come lo era essere guardato da lei con la stessa intensità e concentrazione. Anche se gli creava un certo imbarazzo, a lui piaceva il legame che quella situazione instaurava tra di loro. Arya attaccò per prima, e in meno di un secondo Eragon si ritrovò rannicchiato in posizione innaturale, con la lama dell’elfa che gli premeva dolorosamente sul lato sinistro del collo. Eragon rimase immobile finché Arya decise di ritirare l’arma, consentendogli di raddrizzare la schiena. «Sei stato lento» commentò l’elfa. «Com’è possibile che continui a battermi?» borbottò Eragon, tutt’altro che soddisfatto. «Perché ho alle spalle un centinaio di anni di pratica» rispose lei, e finse un attacco alla sua spalla destra, facendolo indietreggiare con lo scudo levato. «Sarebbe strano se non fossi più brava di te, non credi? Dovresti essere fiero di essere riuscito a tenermi testa. Ben pochi possono vantarsene.» Brisingr sibilò nell’aria quando Eragon tentò di colpire l’elfa alla coscia. Arya parò l’attacco con lo scudo e rispose con un’abile stoccata avvitata, colpendo Eragon alla base della mano; il Cavaliere si sentì percorrere il braccio da una miriade di aghi di ghiaccio che gli risalirono fino alla base del cranio. Con una smorfia di dolore arretrò, in cerca di una tregua. Una delle difficoltà nel combattere contro gli elfi era che, grazie alla loro velocità, potevano scagliarsi contro un nemico da distanze maggiori di quanto era lecito agli umani. Perciò, per essere al sicuro dai fendenti di Arya, Eragon dovette allontanarsi di quasi un centinaio di passi. Arya scattò verso di lui con due balzi lunghissimi, i capelli che le ondeggiavano alle spalle. Il Cavaliere tentò di colpirla mentre era ancora in volo, ma l’elfa ruotò su se stessa, evitando Brisingr. Poi fece scivolare il bordo del suo scudo sotto quello di Eragon e glielo scostò con uno strattone, lasciandogli il petto completamente esposto. Con un movimento fulmineo levò la spada, e di nuovo la lama scese a toccare il collo del Cavaliere, stavolta sotto il mento.

Arya costrinse Eragon a rimanere fermo in quella posizione, gli occhi a mandorla ad appena una spanna dai suoi. Aveva un’espressione feroce e intensa che lui non sapeva come interpretare, ma quella stasi gli garantiva almeno un attimo di pausa. Poi un’ombra parve velare lo sguardo di Arya, che abbassò la spada, facendosi da parte. Eragon si massaggiò la gola. «Se sei così esperta nell’arte della scherma» la sfidò, «perché non mi aiuti a migliorare?» Gli occhi smeraldo dell’elfa arsero ancora più intensi. «Ci sto provando» replicò lei, «ma il problema non è qui.» Con la spada gli indicò il braccio destro. «Il tuo problema è qui» spiegò dandogli un colpetto, stavolta sull’elmo, e facendo tintinnare metallo contro metallo. «E non so cos’altro insegnarti, se non continuare a mostrarti i tuoi stessi errori finché non smetterai di commetterli.» Gli picchiettò di nuovo sull’elmo. «Anche a costo di ricoprirti di lividi.» Che Arya continuasse a batterlo feriva il suo orgoglio molto più di quanto fosse pronto ad ammettere, persino con Saphira, e lo faceva dubitare di essere in grado di avere la meglio su Galbatorix, Murtagh o qualsiasi altro formidabile avversario, se avesse avuto la sfortuna di affrontarli faccia a faccia senza l’aiuto del suo drago o della magia. Eragon si voltò di scatto e si allontanò a passi pesanti da Arya, fermandosi a circa dieci iarde da lei. «Ebbene?» disse tra i denti. «Continua, allora.» E molleggiò sulle gambe, preparandosi a un altro violento scontro. Gli occhi di Arya si ridussero a due fessure, dando al suo volto spigoloso un’espressione diabolica. «Come vuoi.» Si avventarono l’uno contro l’altra lanciando grida di guerra, e il campo risuonò del clangore dei loro assalti furiosi. Combatterono finché non si ritrovarono esausti, madidi di sudore e coperti di polvere, Eragon con parecchie dolorose contusioni. Ma continuarono ad aggredirsi a vicenda con una determinazione feroce fino a quel momento assente nei loro allenamenti. Nessuno dei due chiese di porre fine a quel duello brutale e senza esclusione di colpi, e nessuno dei due si offrì di farlo. Saphira li osservava dal bordo del campo, abbandonata sul molle tappeto erboso. Teneva gran parte dei suoi pensieri per sé per evitare di distrarre Eragon, ma di tanto in tanto faceva un breve commento sulla sua tecnica o su quella di Arya, che il Cavaliere trovava sempre utile. Inoltre Eragon sospettava che la dragonessa fosse intervenuta in più di un’occasione per salvarlo da un colpo particolarmente pericoloso, perché a volte le sue braccia e le sue gambe scattavano molto più veloci del normale, perfino prima che volesse muoverle; e in quelle circostanze aveva sempre sentito un formicolio nella mente, chiaro segnale che Saphira si era inserita nella sua coscienza. Alla fine la pregò di smetterla. Devo riuscire a cavarmela da solo, Saphira, la rimproverò. Non puoi aiutarmi ogni volta che ne ho bisogno. Posso provarci. Lo so, e vale lo stesso per me. Ma sono io a dover scalare questa montagna, non tu. La dragonessa arricciò un labbro. Perché scalare se puoi volare? Non arriverai mai da nessuna parte con quelle zampette corte che ti ritrovi.

Non è vero, e lo sai. Inoltre potrei volare solo su ali non mie, e otterrei soltanto la blanda soddisfazione che deriva da una vittoria non meritata. La vittoria è la vittoria e la morte è la morte, comunque le si ottenga. Saphira..., borbottò Eragon in tono di ammonimento. Piccolo mio. Con suo sollievo la dragonessa lo lasciò fare, pur continuando a tenerlo sotto stretta sorveglianza. Anche gli elfi della guardia personale di Eragon e di Saphira si erano radunati lungo i margini del campo. La loro presenza metteva il giovane a disagio – non gli piaceva che qualcun altro oltre a Saphira o Arya assistesse alle sue sconfitte – ma sapeva che gli elfi non avrebbero mai acconsentito a ritirarsi nelle loro tende. In ogni caso, oltre a proteggere lui e Saphira, servivano a un utile scopo: impedire agli altri guerrieri di star lì a guardare con aria allocchita un Cavaliere e un’elfa scontrarsi senza pietà. Non che gli stregoni di Blödhgarm facessero qualcosa di particolare per scoraggiare gli osservatori: bastava la loro presenza intimidatoria a spaventare chiunque. Più Eragon combatteva con Arya, più si sentiva avvilito. Vinse a fatica due incontri, con disperati stratagemmi che gli riuscirono più per fortuna che per abilità, e che non avrebbe mai osato tentare in un vero duello, a meno che non avesse più a cuore la propria incolumità. A parte quelle vittorie isolate, però, Arya continuava ad avere la meglio con una facilità deprimente. Alla fine la rabbia e la frustrazione esplosero, ed Eragon perse il senso della misura. Ispirato dalle mosse che gli avevano garantito quegli sporadici successi, levò il braccio destro e si preparò a scagliare Brisingr contro Arya, come se fosse stata un’ascia da guerra. In quel momento percepì la presenza di un’altra mente. Sapeva che non apparteneva né a Saphira né ad Arya né agli altri elfi, poiché era inconfondibilmente maschile, di un drago. Eragon si ritrasse dal contatto, affrettandosi a riordinare i pensieri così da respingere quello che temeva fosse un attacco di Castigo. Ma prima di riuscirci una voce immensa riverberò fin nei recessi più profondi della sua coscienza, come il fragore di una montagna che si sposta con tutto il suo peso. Basta così, disse Glaedr. Eragon si irrigidì e si bloccò un istante prima di lanciare Brisingr, incespicando. Percepì che anche Arya, Saphira e gli stregoni di Blödhgarm si erano immobilizzati, sorpresi, e ne dedusse che anche loro avevano sentito Glaedr. La mente del drago non sembrava cambiata: antica, misteriosa, straziata dal dolore. Ma per la prima volta dalla morte di Oromis a Gil’ead, Eragon avvertì in Glaedr un’energia diversa da quella che lo aveva spinto a immergersi pressoché completamente negli abissi impenetrabili del suo tormento privato. Glaedr-elda!, esclamarono Eragon e Saphira nello stesso momento. Come ti senti... Stai bene... Ti sei...

Anche gli altri presero a parlare – Arya, Blödhgarm, due elfi che Eragon non riuscì a identificare – e la sovrapposizione di tante parole produsse un fastidioso e incomprensibile brusio. Basta così, ripeté Glaedr, con voce affaticata e irritata insieme. Volete attirare attenzioni indesiderate? Tacquero tutti all’istante, in attesa di sentire che cosa aveva da dire il drago dorato. Eccitato, Eragon scambiò uno sguardo con Arya. Glaedr non parlò subito, ma rimase a osservarli per qualche minuto. Il Cavaliere sentiva la presenza del drago dorato premere sulla sua coscienza, pesante come un macigno, ed era sicuro che anche gli altri stessero provando qualcosa di analogo. Poi, con voce autoritaria e stentorea, Glaedr riprese: È andata avanti fin troppo... Eragon, non dovresti trascorrere tanto tempo ad allenarti. Ti distrae da cose più importanti. Non è la spada nella mano di Galbatorix che devi temere, né quella nella sua lingua, ma piuttosto la spada nella sua mente. Il suo più grande talento risiede nell’abilità di scavarsi una via nelle più intime parti del tuo essere, fino a costringerti a obbedire al suo volere. Invece che su questi scontri con Arya, dovresti concentrarti sul migliorare la padronanza dei tuoi pensieri; sono ancora troppo indisciplinati... Perché perseveri in questo futile sforzo? A Eragon vennero in mente un’infinità di risposte: che gli piaceva incrociare la propria lama con quella di Arya, nonostante le dolorose conseguenze; che voleva diventare un temibile spadaccino, il migliore del mondo, se possibile; che l’esercizio lo aiutava a distendere i nervi e lo teneva in forma; e tanti altri motivi ancora. Cercò di reprimere il tumulto di pensieri sia per preservare un minimo di riservatezza sia per non inondare Glaedr con informazioni non richieste, confermando così al drago la sua inettitudine. Ma non ci riuscì del tutto, e una debole aura di disappunto emanò da Glaedr. Eragon scelse le argomentazioni più forti. Se riuscissi a respingere Galbatorix con la mente – non dico sopraffarlo, ma soltanto tenerlo a bada – la vittoria potrebbe ancora dover essere decisa con la spada. In ogni caso il re non è l’unico nemico che dobbiamo temere; c’è Murtagh, per esempio, e chissà quali altri uomini o creature Galbatorix ha asservito al suo volere... Non sono riuscito a sconfiggere Durza con le mie sole forze, né Varaug, né tantomeno Murtagh. Ho sempre avuto qualche aiuto. Ma non posso sempre contare su Arya, Saphira o Blödhgarm per salvarmi se mi trovo nei guai. Dovrei migliorare con la spada, eppure non riesco a fare progressi, per quanto impegno ci metta. Varaug?, domandò Glaedr. Non ho mai udito questo nome prima d’ora. Toccò a Eragon raccontare a Glaedr della presa di Feinster, e di come lui e Arya avevano annientato lo Spettro appena nato nel momento stesso in cui Oromis e Glaedr avevano trovato la morte mentre combattevano nei cieli sopra Gil’ead. Eragon gli riassunse i movimenti dei Varden da quel momento in poi, poiché comprese che Glaedr si era isolato dal mondo più di quanto lui avesse creduto. Il racconto si protrasse per diversi minuti, durante i quali sia Eragon sia gli elfi rimasero immobili sul campo, fissandosi con sguardi assenti, concentrati unicamente sul rapido scambio mentale di pensieri, immagini e sensazioni. Un altro lungo silenzio seguì mentre Glaedr assimilava le novità apprese. Quando decise di parlare di nuovo, fu quasi con una punta di divertimento nella voce: Sei oltremodo ambizioso se il tuo obiettivo è uccidere uno Spettro rimanendo illeso. Persino i più antichi e saggi tra i Cavalieri dei Draghi avrebbero esitato ad attaccare uno Spettro da soli. Tu sei già

sopravvissuto al confronto con due di loro, mi sembra più che sufficiente. Sii grato di aver avuto tanta fortuna, e lascia le cose come stanno. Cercare di sopraffare uno Spettro è come desiderare di volare più in alto del sole. Sì, osservò Eragon, ma i nostri avversari sono potenti quanto gli Spettri, se non di più, e Galbatorix potrebbe crearne altri soltanto per rallentare la nostra avanzata. È un pazzo scellerato, non si fa scrupoli a usarli, senza curarsi della devastazione che potrebbero arrecare al Paese. Ebrithil, intervenne Arya, Eragon ha ragione. I nostri nemici sono letali... come tu ben sai, aggiunse con un tono più gentile, ed Eragon ha ancora tanto da imparare. Per prepararsi a ciò che ci aspetta deve raggiungere l’eccellenza. Ho fatto del mio meglio addestrandolo, ma alla fine i progressi che contano devono giungere da dentro, non da fuori. Il cuore di Eragon si accese nel sentirla prendere le sue difese. Come prima, Glaedr fu lento a rispondere. Ma Eragon non ha ancora nemmeno la piena padronanza dei suoi pensieri, che invece dovrebbe avere. Nessuna capacità, fisica o mentale, è di molto aiuto isolata dalle altre; ma delle due quella mentale è la più importante. Si può vincere una battaglia contro uno stregone o contro un guerriero con la sola forza del pensiero. Mente e corpo dovrebbero essere in equilibrio, ma se devi decidere quale dei due allenare, la scelta dovrebbe ricadere sulla mente. Arya, Blödhgarm, Yaela, voi sapete che è vero. Perché nessuno si è preso la briga di proseguire l’istruzione di Eragon in questo campo? Arya abbassò lo sguardo, quasi come una bambina messa in castigo, mentre a Blödhgarm si rizzò la pelliccia sulle spalle, e l’elfo senza volerlo dischiuse le labbra, mostrando la punta delle bianche zanne affilate. Fu proprio Blödhgarm che infine osò rispondere. Esordendo nell’antica lingua disse: Arya è qui in qualità di ambasciatrice del nostro popolo. Il compito assegnato ai miei compagni e a me, invece, è di proteggere le vite di Saphira Squamediluce ed Eragon Ammazzaspettri, ed è stata una missione dura, che ci ha richiesto molto tempo. Abbiamo tutti cercato di aiutare Eragon, ma non è nostro il compito di addestrare un Cavaliere, né dovremmo provarci, dato che uno dei suoi legittimi maestri è ancora vivo e presente, anche se sta trascurando il suo dovere. Un’enorme, oscura massa gonfia di collera montò dentro Glaedr, come nubi temporalesche che si addensano all’orizzonte. Eragon si ritrasse dalla sua coscienza, temendone l’ira. Il drago dorato non era più in grado di ferire nessuno, ma era ancora molto pericoloso, e se avesse perso il controllo sprigionando tutta la forza della sua mente nessuno sarebbe stato in grado di contrastarlo. La mancanza di educazione e di tatto di Blödhgarm all’inizio lasciò Eragon allibito – non aveva mai sentito un elfo rivolgersi a un drago in quei termini prima d’ora – ma dopo un momento di riflessione comprese che doveva averlo fatto per scuotere Glaedr ed evitare che si ritirasse di nuovo nel suo guscio di disperazione. Eragon ammirò il coraggio dell’elfo, ma si domandò se insultare Glaedr fosse davvero l’approccio migliore. Di certo non era il più sicuro. Le nubi temporalesche crebbero, squarciate da lampi abbaglianti mentre la mente di Glaedr saltava da un pensiero a un altro. Hai oltrepassato il limite, elfo, ruggì nell’antica lingua. Non sta a te mettere in discussione il mio operato. Non puoi nemmeno lontanamente comprendere la mia perdita. Se non fosse per Eragon e Saphira, e gli obblighi che ho nei loro confronti, sarei impazzito già da tempo. Perciò non accusarmi di negligenza, Blödhgarm, figlio di Ildrid, a meno che non desideri confrontarti con l’ultimo dei grandi Antichi.

Scoprendo i denti Blödhgarm emise un sibilo. Eppure, nonostante tutto, Eragon colse un accenno di soddisfazione sul volto dell’elfo. Con sommo sgomento di Eragon, Blödhgarm proseguì dicendo: Dunque non biasimarci per aver fallito nel perseguire responsabilità che sono tue, non nostre, Antico. Tutta la nostra razza piange la tua perdita, ma non puoi aspettarti da noi indulgenza per la tua autocommiserazione quando siamo in guerra contro il nemico più letale della nostra era, lo stesso che ha sterminato quasi tutti i membri della tua specie, e che per di più ha ucciso il tuo Cavaliere. La furia di Glaedr esplose come un vulcano, nera e terribile. Eragon ne fu investito con tanta forza da temere che le sue stesse membra finissero a brandelli, come una vela squarciata dal vento. Sul lato opposto del campo vide gli uomini lasciar cadere le armi e afferrarsi la testa con le mani, i volti deformati dal dolore. La mia autocommiserazione?, tuonò Glaedr dando enfasi a ogni sillaba, e rendendo ogni parola simile a una dichiarazione di condanna. Eragon percepì che nei recessi della mente del drago prendeva forma qualcosa di spiacevole, qualcosa che se reso reale sarebbe stato motivo di sofferenza e rimpianto. Allora parlò Saphira, e la sua voce mentale si insinuò nel turbine emotivo di Glaedr come un coltello nell’acqua. Maestro, disse, sono stata in pensiero per te. È bello sapere che stai bene, e sei di nuovo in forze. Nessuno di noi può eguagliarti, e abbiamo bisogno del tuo aiuto. Senza di te non possiamo sperare di sconfiggere l’Impero. Glaedr brontolò minaccioso, ma non la ignorò né la interruppe o la insultò. Invece l’elogio parve compiacerlo. Dopotutto, rifletté Eragon, se c’è una cosa alla quale i draghi sono sensibili è l’adulazione, e Saphira lo sapeva bene. Senza fermarsi, per non dare modo a Glaedr di ribattere, la dragonessa proseguì: Dato che non puoi più far uso delle tue ali, consentimi di offrirti le mie. L’aria è calma, il cielo è limpido, e sarebbe una gioia volare in alto, ancora più su di quanto osino librarsi le aquile. Dopo essere rimasto così a lungo bloccato nel tuo cuore dei cuori vorrai lasciarti tutto alle spalle e sentire ancora una volta le correnti spirare sotto di te. La cupa tempesta dentro Glaedr si placò un poco, sebbene ancora vasta e minacciosa e sempre sul punto di scatenarsi con forza rinnovata. Sarebbe... sarebbe piacevole. Allora voleremo presto insieme. Però... Maestro? Sì, cucciolo di drago? Prima c’è qualcosa che vorrei chiederti. Dimmi. Insegnerai a Eragon l’arte della scherma? Puoi aiutarlo? Non è ancora bravo quanto dovrebbe, e io non voglio perdere il mio Cavaliere. Saphira mantenne un contegno dignitoso per tutto il tempo, ma c’era un tono supplichevole nella sua voce che fece venire un groppo in gola a Eragon. Le nubi temporalesche si sgonfiarono, lasciando sullo sfondo un paesaggio grigio e desolato che a Eragon parve indicibilmente triste. Glaedr rimase in silenzio. Ai margini del panorama Eragon intravvide strane ombre muoversi appena, mastodontici monoliti che non aveva il minimo desiderio di trovarsi davanti. Molto bene, sentenziò Glaedr dopo una lunga pausa. Farò il possibile per il tuo Cavaliere, ma dopo che avremo finito dovrà lasciare che io disponga del suo addestramento come riterrò più opportuno.

D’accordo, disse Saphira. Eragon notò che Arya e gli altri elfi si rilassavano, come se fino a quel momento avessero trattenuto il fiato. Eragon si allontanò dagli altri quando Trianna e altri stregoni al servizio dei Varden lo cercarono, insistendo per sapere che cos’era la presenza che aveva quasi dilaniato le loro menti e sconvolto uomini e animali in tutto l’accampamento. Trianna sovrastò gli altri, incalzandolo: Siamo sotto attacco, Ammazzaspettri? È Castigo? È Shruikan? Il panico che la attanagliava era così intenso che il Cavaliere provò l’impulso di abbandonare scudo e spada e correre al riparo. No, va tutto bene, disse col tono più calmo possibile. L’esistenza di Glaedr era ancora un segreto per la maggior parte dei Varden, inclusi Trianna e i maghi che a lei rispondevano. Ed Eragon voleva che così rimanesse, per ridurre il rischio che la notizia arrivasse alle spie dell’Impero. Mentire durante la comunicazione mentale con un’altra persona era molto difficile, perché era quasi impossibile evitare di pensare a ciò che si desiderava tenere nascosto, per cui Eragon cercò di chiudere la conversazione. Io e gli elfi ci stavamo esercitando con la magia. Vi spiegherò tutto più tardi, ma non c’è ragione di preoccuparsi. Era certo che le sue rassicurazioni non li avessero convinti del tutto, ma non osarono assillarlo chiedendogli ulteriori dettagli e si congedarono prima di schermare di nuovo le menti dal suo occhio interiore. Arya dovette notare il cambiamento, perché gli si avvicinò, e in un sussurro gli chiese: «Va tutto bene?» «Benissimo» rispose Eragon, anche lui a bassa voce. Indicò con un cenno gli uomini che stavano recuperando le armi. «Ho dovuto rispondere a qualche domanda.» «Ah. Non hai detto loro chi...» «Certo che no.» Prendete posizione come prima, tuonò Glaedr, ed Eragon e Arya si separarono, allontanandosi di una ventina di passi l’uno dall’altra. Eragon sapeva che poteva essere un errore, ma proprio non riuscì a trattenersi, e così chiese: Maestro, riuscirai davvero a insegnarmi ciò che mi serve sapere prima che raggiungiamo Urû’baen? Abbiamo così poco tempo... Posso insegnartelo qui e ora, se mi darai retta, rispose il drago dorato. Ma dovrai ascoltarmi con estrema attenzione. Sono tutto orecchi, Maestro. Malgrado ciò, Eragon non riuscì a non domandarsi quanto in realtà ne sapesse il drago di combattimenti con la spada. Glaedr poteva anche aver imparato moltissimo da Oromis, come Saphira aveva imparato da lui, ma nonostante le esperienze che avevano condiviso il drago non aveva mai maneggiato una spada; e come avrebbe potuto? Glaedr che insegnava a Eragon a tirare di spada era come Eragon che insegnava a un drago a sfruttare le correnti ascensionali sul fianco di una montagna; il ragazzo avrebbe potuto anche provarci, ma non sarebbe stato capace di spiegarlo bene quanto Saphira, perché la sua era una conoscenza riflessa, e nemmeno dopo secoli di contemplazione astratta avrebbe potuto colmare quello svantaggio. Eragon tenne per sé i suoi dubbi, ma una parte doveva comunque essere filtrata oltre le sue barriere mentali fino a Glaedr, perché il drago si lasciò sfuggire un versetto divertito – o piuttosto ne imitò uno con la mente, poiché le abitudini del corpo erano dure da dimenticare – e disse: Tutti i grandi combattimenti sono uguali, Eragon, e perfino tutti i

guerrieri più temibili lo sono. Superata una certa soglia, non ha più importanza che tu brandisca una spada, un artiglio, un dente o una coda. È vero, devi essere esperto con la tua arma, ma chiunque con il tempo e la giusta predisposizione può acquisire la competenza tecnica. Per raggiungere l’eccellenza tuttavia è necessaria l’abilità artistica, che richiede capacità di meditazione e immaginazione. Queste qualità accomunano tutti i migliori combattenti, anche quelli che all’apparenza possono sembrare completamente diversi. Glaedr rimase in silenzio per un istante, poi disse: Ora, ricordi cosa ti avevo detto? Eragon non dovette nemmeno pensarci. Che devo imparare a vedere quello che guardo. E ho tentato, Maestro. Davvero. Ma ancora non vedi. Prendi Arya. Come mai è stata in grado di batterti innumerevoli volte? Perché ti capisce, Eragon. Sa chi sei e cosa pensi, ed è questo che le permette di sconfiggerti con ampio margine. Ti sei chiesto come ha fatto Murtagh a sbaragliarti sulle Pianure Ardenti, anche se non era veloce o forte come te? Perché ero stanco e... E come ha potuto trafiggerti il fianco l’ultima volta che vi siete incontrati, mentre tu sei riuscito a malapena a graffiargli la guancia? Te lo dico io, Eragon. Non perché tu eri stanco e lui no. No, è accaduto perché lui ti capisce, ma tu non capisci lui. Murtagh ne sa più di te, ed è questo che gli dà potere su di te, e lo stesso vale per Arya. Glaedr parlò ancora: Osservala, Eragon. Osservala bene. Lei ti vede per quello che sei, ma tu sei in grado di vedere lei? Di vederla abbastanza bene da poterla sconfiggere in duello? Eragon fissò Arya, e nei suoi occhi trovò un misto di determinazione e circospezione, come se lei lo stesse sfidando a curiosare tra i suoi segreti più nascosti ma fosse anche spaventata al pensiero di cosa sarebbe successo se ci fosse riuscito. Nella mente di Eragon si insinuò il dubbio. La conosceva davvero bene come credeva? Oppure si era ingannato, confondendo l’interiorità con l’esteriorità? Hai permesso a te stesso di covare più rabbia di quanto avresti dovuto, disse Glaedr in tono calmo. Anche la rabbia aiuta, è vero, ma non in questa sede. La via del guerriero è la via della conoscenza. Se la conoscenza ti impone di far uso della rabbia, allora la userai, ma non arriverai mai alla conoscenza se continui a perdere le staffe. Se ci provi, la tua unica ricompensa sarà dolore e frustrazione. Invece devi sforzarti di rimanere calmo, anche con centinaia di nemici assetati di sangue alle calcagna. Svuota la mente e trasformala in uno specchio di acqua tranquilla, che riflette ogni cosa intorno senza esserne intaccata. La conoscenza giungerà a te in quello spazio vuoto, quando sarai libero dalle paure irrazionali di vittorie e sconfitte, vita e morte. Non puoi prevedere tutte le eventualità, e non puoi dare per scontato il successo ogni volta che affronterai un nemico, ma imparando a vedere le cose senza tralasciare nulla potrai adattarti prontamente a qualsiasi cambiamento. Il guerriero che vivrà più a lungo è quello che riesce ad adeguarsi meglio agli imprevisti. Dunque guarda Arya, e vedi quello che stai guardando, infine fai ciò che ritieni più opportuno. E una volta che sarai in movimento, non lasciarti distrarre dai tuoi pensieri. Pensa senza pensare, reagisci con l’istinto e non con la ragione. Ora vai, prova. Eragon si prese un minuto per raccogliere i pensieri e considerare tutto ciò che sapeva su Arya: quello che le piaceva e quello che non le piaceva, le sue abitudini e le sue peculiarità, gli eventi importanti della sua vita, le sue paure e le sue speranze, e soprattutto la sua vera

indole, ciò che caratterizzava il suo approccio alla vita e al combattimento. Valutò tutto, e da lì cercò di indovinare la sua vera essenza. Era un compito scoraggiante, in particolar modo perché dovette fare uno sforzo per vederla non come era abituato a fare – una bellissima donna che ammirava e desiderava – ma come la persona che in realtà era, intera e completa, separata dalle pulsioni e dai bisogni che lui provava nei suoi confronti. Trasse le conclusioni che poté in quel breve lasso di tempo, anche se temeva che le sue osservazioni fossero infantili e troppo semplicistiche. Poi depose l’incertezza, fece un passo avanti e levò scudo e spada. Sapeva che Arya si aspettava da lui qualcosa di diverso, così diede inizio al combattimento come aveva fatto le ultime due volte: scartò in diagonale verso il lato destro della sua avversaria, come per evitare lo scudo e colpirla al fianco scoperto. L’espediente non l’avrebbe ingannata, ma l’avrebbe fatta interrogare sulle reali intenzioni di Eragon, e più a lungo riusciva a tenerla in quell’incertezza, meglio era. Inciampò in un sassolino aguzzo con la punta del piede destro. Spostò il peso di lato per mantenere l’equilibrio. L’inconveniente causò un’impercettibile interruzione dei suoi movimenti altrimenti fluidi, ma Arya se ne accorse e gli balzò addosso con un grido acuto. Le spade cozzarono una, due volte, poi Eragon si voltò, e, folgorato dall’improvvisa certezza che il prossimo fendente di Arya sarebbe stato all’altezza della testa, puntò al petto più veloce che poté, mirando un punto vicino allo sterno che l’elfa avrebbe dovuto scoprire se avesse voluto colpirlo sull’elmo. L’intuizione era giusta, ma i calcoli si rivelarono sbagliati. Si mosse così in fretta che Arya non ebbe nemmeno il tempo di levare il braccio per portare il suo affondo, e l’elsa della sua spada deviò la punta blu di Brisingr. Un istante dopo, il mondo vorticò intorno a Eragon e un’esplosione di scintille rosse e arancioni gli annebbiò la vista. Barcollò e cadde su un ginocchio, puntando a terra tutte e due le mani. Un rombo sordo gli riecheggiava nelle orecchie. Il rumore diminuì, e a quel punto Glaedr disse: Non cercare di muoverti in fretta, Eragon. E nemmeno piano. Muoviti al momento giusto e il tuo attacco non sarà veloce né lento, ma fluido. Il tempismo è tutto in una battaglia. Devi fare bene attenzione agli schemi e ai ritmi dei tuoi avversari: i punti di forza e di debolezza, di rigidità ed elasticità. Asseconda le loro movenze quando servirà al tuo scopo, e mutale quando non ti servirà, e sarai in grado di plasmare la battaglia a tuo piacimento. Devi far tuo questo concetto. Imprimilo bene nella mente e ripensaci spesso... Adesso prova ancora! Guardando Arya di traverso, Eragon si rialzò, scosse il capo per schiarirsi i pensieri e per quella che gli parve la centesima volta assunse una posizione di guardia. I lividi e le escoriazioni bruciavano di rinnovato dolore, facendolo sentire come un vecchio artritico. Arya gettò all’indietro i capelli e gli sorrise, scoprendo i denti candidi. Il gesto non ebbe alcun effetto su di lui. Era concentrato sul suo compito imminente e non avrebbe permesso a se stesso di cadere nella trappola una seconda volta. Prima ancora che il sorriso le svanisse dalle labbra Eragon si gettò in avanti, caricando con lo scudo e tenendo Brisingr bassa sul fianco. Come sperava, la posizione della sua spada

spinse Arya a un avventato attacco preventivo: un colpo violento che se fosse andato a segno lo avrebbe centrato sulla clavicola. Il Cavaliere si abbassò schivando la lama, che rimbalzò sullo scudo, e levò Brisingr tracciando un arco, come se volesse colpirla poco sotto i fianchi. Arya parò l’affondo con lo scudo e lo spintonò via, svuotandogli i polmoni. Seguì una breve pausa mentre i due si fronteggiavano alla ricerca di un varco da sfruttare. L’atmosfera tra i duellanti era pesante: lui studiava Arya e lei faceva lo stesso con lui, ed entrambi si muovevano rapidi come uccelli a causa dell’adrenalina che scorreva loro nelle vene. La tensione si ruppe come una bacchetta di vetro spezzata a metà. Eragon partì all’attacco e Arya parò il colpo; le loro spade vorticavano così veloci da essere pressoché invisibili. In quello scambio di fendenti, Eragon continuò a fissarla dritto negli occhi, ma si sforzò anche, come gli aveva consigliato Glaedr, di studiare il ritmo e gli schemi che il corpo dell’elfa seguiva, cercando nel frattempo di tenere a mente chi era lei e come era più probabile che agisse e reagisse. Aveva così tanta brama di vincere che pensava che se non ci fosse riuscito sarebbe scoppiato. Eppure, malgrado tutti i suoi sforzi, Arya lo colse di sorpresa e lo colpì alle costole con il pomolo della spada. Eragon si fermò e lanciò un’imprecazione. È andata meglio, commentò Glaedr. Molto meglio. Il tuo tempismo era quasi perfetto. Ma non abbastanza. No, non abbastanza. Sei ancora troppo arrabbiato, e la tua mente è troppo confusa. Ricorda sempre le cose importanti, ma non lasciare che ti distraggano da quello che sta succedendo. Trova un luogo di quiete dentro te stesso, e lasciati scivolare addosso le preoccupazioni terrene senza permettere loro di trascinarti via. Un po’ come quando Oromis ti disse di ascoltare i pensieri delle creature nella foresta. In quel momento eri cosciente di ogni cosa intorno a te, eppure non eri concentrato su alcun dettaglio. Non limitarti a guardare soltanto gli occhi di Arya. Il tuo campo visivo è troppo ristretto, troppo dettagliato. Ma Brom mi aveva detto che... Ci sono molti modi per usare lo sguardo. Brom aveva il suo, ma non era uno degli stili più flessibili, né il più appropriato per le grandi battaglie. Ha trascorso la maggior parte della sua vita a combattere faccia a faccia o contro piccoli gruppi di nemici, e si è regolato di conseguenza. È meglio una visuale più ampia rispetto a una ristretta, che potrebbe indurti a tralasciare un dettaglio, un luogo o una situazione. Capisci? Sì, Maestro. Allora ritenta, ma stavolta rilassati, e dilata le tue percezioni. Eragon riconsiderò tutto quello che sapeva di Arya. Quando ebbe stabilito un piano chiuse gli occhi, rallentò la respirazione e si immerse in se stesso. Le ansie e le paure pian piano lo abbandonarono, lasciando un profondo spazio vuoto che attenuò il dolore delle sue ferite e gli donò una lucidità straordinaria. Sebbene volesse ancora vincere il duello, la prospettiva della sconfitta non lo preoccupava più. L’esito era già scritto, e lui non avrebbe lottato invano contro le decisioni del fato. «Pronto?» domandò Arya quando lui riaprì gli occhi.

«Pronto.» Presero posizione e rimasero lì immobili, ciascuno in attesa che l’altro attaccasse per primo. Eragon aveva il sole sulla sua destra, e se fosse riuscito a spingere Arya nella direzione opposta l’elfa sarebbe stata accecata dalla luce. Ci aveva già provato senza riuscirci, ma ora aveva un piano. Sapeva che Arya era convinta di poterlo battere. L’elfa conosceva l’abilità di Eragon con la spada e il suo desiderio di migliorarsi, ma aveva vinto quasi tutti i loro duelli precedenti. E così, anche se la ragione poteva suggerire il contrario, i ripetuti successi dovevano averla convinta che batterlo sarebbe stato facile. La sua sicurezza perciò era anche la sua debolezza. Crede di essere migliore di me con la spada, disse a se stesso. E forse è vero, ma posso usare le sue aspettative contro di lei. Se c’è qualcosa che potrà rivelarsi la sua rovina, saranno proprio le sue certezze. Avanzò cauto di pochi passi e sorrise ad Arya come lei aveva sorriso a lui. L’elfa rimase impassibile. Un istante dopo lo caricò, come se volesse placcarlo e scaraventarlo al suolo. Eragon scattò all’indietro, scartando leggermente sulla destra, e iniziando così a guidare la sua avversaria nella direzione da lui desiderata. Arya si fermò a parecchie iarde da lui e rimase immobile, come un animale braccato in una radura. Poi con la spada tracciò un mezzo cerchio davanti a sé, senza smettere di fissarlo. Eragon sospettava che avere Glaedr come spettatore la rendesse ancora più determinata a dare il meglio. A quel punto Arya lo stupì emettendo un basso ringhio felino. Come il sorriso che aveva esibito in precedenza, quel verso rabbioso era un trucco per turbarlo. E funzionò, ma solo in parte, perché lui ormai era preparato a simili espedienti. Arya coprì la distanza tra loro con un singolo balzo e iniziò a menare una serie di fendenti di dritto e di rovescio che lui parò con lo scudo. La lasciò attaccare senza opporsi, come se i suoi colpi fossero così forti da spingerlo soltanto a difendersi. A ogni dolorosa botta contro il braccio e la spalla si ritirava sempre più sulla destra, incespicando per darle l’impressione di essere in difficoltà. E ancora rimaneva calmo e composto, vuoto. Seppe che il momento opportuno stava arrivando ancora prima che succedesse, e allora agì senza pensare né esitare, senza tentare di essere lento o veloce, cercando solo di sfruttare il potenziale di quell’unico istante perfetto. Mentre la spada di Arya guizzava disegnando un arco verso il basso, Eragon girò su se stesso, schivando la lama e mettendosi con il sole esattamente alle spalle. La punta della lama di Arya si conficcò nel terreno con un tonfo. Lei si voltò per non perderlo di vista e fece l’errore di guardare dritto verso la luce. Socchiuse gli occhi, le pupille ridotte a due minuscole macchioline scure. Mentre Arya aveva la visuale impedita, Eragon le infilò Brisingr sotto il braccio sinistro, colpendola alle costole. Avrebbe potuto mirare alla nuca – e l’avrebbe fatto, se fosse stato un combattimento reale – ma si trattenne, perché anche con una spada smussata sarebbe stata una stoccata letale.

Arya emise un grido acuto e indietreggiò di parecchi passi. Si teneva il braccio premuto contro il fianco e aveva la fronte aggrottata in una smorfia di dolore; negli occhi uno sguardo strano. Eccellente!, esultò Glaedr. Di nuovo! Eragon s’infiammò di soddisfazione, ma dopo un attimo riprese il controllo delle proprie emozioni e tornò allo stato di contemplazione distaccata. Arya recuperò la sua solita espressione distesa e riabbassò il braccio; poi, i due avversari si misurarono circospetti finché nessuno di loro ebbe il sole negli occhi, e a quel punto ricominciarono. Eragon notò subito che Arya era molto più cauta. In un’altra circostanza ne sarebbe stato compiaciuto, e anzi si sarebbe spinto ad attaccare con maggiore slancio, ma resistette all’impulso, perché gli sembrava ovvio che l’elfa lo faceva di proposito. Se avesse abboccato si sarebbe ben presto ritrovato alla sua mercé, come già era accaduto tante volte. Il duello durò soltanto pochi secondi, pur sufficienti a uno scambio ininterrotto di colpi. In un clangore di scudi che urtavano, tonfi di zolle che volavano dal terreno, tintinnio di spade che si incrociavano, i due passavano da una mossa all’altra con fluida agilità, avvitandosi in aria come colonne di fumo gemelle. Alla fine il risultato fu lo stesso. Eragon si intrufolò sotto la guardia di Arya con un abile movimento del corpo e un guizzo del polso, e le menò un gran fendente al petto, dalla spalla allo sterno. Il colpo la fece vacillare e crollare su un ginocchio, e lì Arya rimase, con lo sguardo torvo e il respiro pesante. Aveva le guance esangui, salvo che per due boccioli cremisi sugli zigomi. Ancora!, ordinò Glaedr. Eragon e Arya obbedirono senza ribattere. Le ultime due vittorie avevano donato a lui nuove energie, cancellando in parte la sua stanchezza; a guardare Arya, invece, sembrava si trovasse nella situazione opposta. Il combattimento che seguì non ebbe un netto vincitore: l’elfa si era ripresa e aveva sventato tutti i trucchetti e le trappole di Eragon, e viceversa. Continuarono a combattere finché furono così stanchi che nessuno dei due ce la faceva a proseguire, e rimasero appoggiati alle spade, ormai troppo pesanti da reggere, ansimando, il viso grondante di sudore. Di nuovo, disse Glaedr a voce bassa. Eragon estrasse Brisingr dal terreno con una smorfia. Più era esausto, più diventava difficile tenere la mente sgombra e ignorare le proteste del suo corpo dolorante. Inoltre trovava sempre più arduo mantenere la calma ed evitare di cadere vittima del malumore che lo attanagliava quando aveva bisogno di riposare. Imparare ad affrontare quella sfida, pensò, faceva parte degli insegnamenti del drago dorato. Aveva i muscoli delle spalle in fiamme, e così, invece di reggere spada e scudo ben alti come aveva fatto fino a quel momento, si limitò a tenerli all’altezza della cintola, sperando di riuscire a levarli in tempo al momento giusto. Arya fece lo stesso. Si mossero con passi scomposti, una grossolana imitazione della grazia che fino a poco prima avevano sfoggiato.

Eragon era stremato, eppure si rifiutava di arrendersi. Per qualche strano motivo che non coglieva appieno, quell’allenamento era andato oltre il semplice confronto con le armi: era diventato un esame su di lui, sul suo carattere, la sua forza e la sua capacità di recupero. E non era soltanto Glaedr a sottoporlo a quella prova, ma, poteva sentirlo, anche Arya. Gli sembrava che volesse qualcosa da lui, una qualche dimostrazione: di cosa, Eragon non lo sapeva, ma era determinato a fare del suo meglio. Fin quando Arya avesse voluto continuare, lui sarebbe andato avanti, per quanto male facesse. Una goccia di sudore gli finì nell’occhio. Batté le palpebre, e Arya gli si scagliò contro urlando. Una volta ancora ingaggiarono la loro danza micidiale, e di nuovo giunsero a un punto morto. La fatica li rendeva maldestri, eppure si muovevano insieme in una primitiva armonia che impediva a ciascuno di prevalere sull’altro. Finirono faccia a faccia, con le spade incastrate all’altezza dell’elsa, spingendosi con le poche forze rimaste. E mentre erano lì a dondolare avanti e indietro senza che nessuno dei due riuscisse ad avere la meglio, Eragon disse, con voce bassa e feroce: «Io... ti... vedo.» Un lampo illuminò gli occhi di Arya; poi svanì con la stessa rapidità con cui era comparso.

CUORE A CUORE Glaedr li fece scontrare ancora due volte. Ogni duello fu più breve del precedente, e terminarono entrambi in un pareggio, un risultato che parve frustrare il drago dorato più che Eragon o Arya. Glaedr avrebbe voluto che continuassero a lottare finché non fosse emerso con chiarezza il guerriero più forte, ma alla fine dell’ultimo scontro erano tutti e due così sfiniti che caddero a terra l’uno accanto all’altra, ansanti, e persino il drago dovette ammettere che continuare sarebbe stato per loro controproducente, se non addirittura dannoso. Quando si furono ripresi abbastanza da potersi reggere in piedi, Glaedr li convocò nella tenda di Eragon. Per prima cosa, con l’energia di Saphira curarono le ferite più dolorose. Poi riportarono gli scudi ormai inutilizzabili a Fredric, il maestro d’armi dei Varden, che ne diede loro di nuovi, solo dopo aver fatto a tutti e due una predica sulla cura che dovevano dimostrare per il proprio equipaggiamento. Quando raggiunsero la tenda trovarono Nasuada ad attenderli, con la sua onnipresente scorta. «Era ora» li accolse in tono tagliente. «Se avete finito di farvi a pezzi, vi devo parlare.» E senza aggiungere altro si infilò all’interno. Blödhgarm e i suoi compagni stregoni si disposero in un ampio cerchio intorno alla tenda, ed Eragon ebbe l’impressione che mettessero piuttosto a disagio le guardie di Nasuada. Eragon e Arya la seguirono dentro; Saphira li sorprese infilando il muso oltre i lembi dell’ingresso, riempiendo all’istante il ristretto spazio con il suo odore di fumo e carne bruciacchiata. Nasuada fu colta di sorpresa dall’improvvisa comparsa del muso squamoso di Saphira, ma si riprese in fretta. Rivolgendosi a Eragon, gli domandò: «La presenza che ho avvertito... Era Glaedr, vero?» Eragon scoccò un’occhiata all’ingresso della tenda, sperando che le guardie fossero troppo lontane per udire, poi annuì. «Sì, era lui.» «Ah, lo sapevo!» esclamò, soddisfatta. Poi, con voce più incerta, chiese: «Potrei parlare con lui? Se è... permesso, voglio dire. Può comunicare soltanto con un elfo o un Cavaliere?» Eragon esitò e guardò Arya in cerca di consiglio. «Non lo so» rispose alla fine. «Non si è ancora ripreso del tutto, e potrebbe non voler...» Parlerò con te, Nasuada, figlia di Ajihad, disse Glaedr, e la sua voce riverberò nelle loro teste. Chiedimi quel che devi, poi lasciaci al nostro lavoro; c’è ancora molto da fare per preparare Eragon alle sfide che ci attendono. Eragon non aveva mai visto Nasuada intimorita prima d’ora, eppure adesso lo era. «Dove?» mimò con le labbra, e allargò le braccia. Eragon indicò una zolla di terra accanto al letto. Nasuada inarcò le sopracciglia; poi annuì, e raddrizzandosi diede a Glaedr il benvenuto formale. Seguì uno scambio di convenevoli, nel corso dei quali Nasuada si informò sullo stato di salute del drago e gli domandò se c’era qualcosa che i Varden potessero fare per

lui. In risposta alla prima domanda, che aveva innervosito Eragon, Glaedr spiegò con gentilezza che stava bene, e la ringraziò; e per quanto riguardava la seconda questione, non gli serviva nulla, anche se apprezzava l’interessamento di Nasuada. Non ho più bisogno di mangiare, raccontò; non ho più bisogno di bere, e nemmeno di dormire, non come intendete voi almeno. Il mio unico piacere ora, il mio unico appagamento, sta nel mettere a punto un piano per contribuire alla caduta di Galbatorix. «Ti capisco» concordò Nasuada, «perché mi sento come te.» Poi chiese a Glaedr se avesse consigli da dare ai Varden su come conquistare Dras-Leona senza dover sacrificare un alto numero di uomini e attrezzature belliche, e senza, così disse, “dover consegnare Eragon e Saphira all’Impero come una coppia di polli legati”. Impiegò un po’ a descrivere al drago dorato la situazione nel dettaglio, e dopo le dovute considerazioni Glaedr annunciò: Non ho una soluzione per te, Nasuada. Continuerò a pensarci, ma al momento non riesco a scorgere una strada chiara per i Varden. Se Murtagh e Castigo fossero soli, potrei prendere facilmente il controllo delle loro menti. Ma purtroppo Galbatorix ha dato loro troppi Eldunarí perché io possa sopraffarli. Perfino con l’aiuto di Eragon, di Saphira e degli elfi la vittoria non è scontata. Visibilmente delusa, Nasuada rimase in silenzio per qualche istante; poi si premette le mani sul petto e ringraziò Glaedr per il tempo che le aveva concesso. Si congedò e uscì, stando bene attenta a non toccare la testa di Saphira mentre le passava accanto. Eragon si rilassò un po’ quando si sedette sulla sua branda, mentre Arya prese posto su un treppiede. Si strofinò i palmi sui calzoni – sentiva le mani appiccicose, come il resto del corpo – e poi offrì ad Arya da bere dal suo otre; l’elfa accettò riconoscente, e quando si fu dissetata, Eragon bevve a sua volta a lunghe sorsate. Il combattimento l’aveva reso famelico; l’acqua mise a tacere i brontolii del suo stomaco, ma sperava che Glaedr non li trattenesse ancora a lungo. Il sole era quasi tramontato, e voleva rimediare un pasto caldo dai Varden prima che spegnessero i fuochi e si ritirassero per la notte. Altrimenti si sarebbe dovuto accontentare di sbocconcellare del pane stantio, qualche striscia di carne secca, formaggio ammuffito e, con un po’ di fortuna, una cipolla cruda o due. Una prospettiva poco allettante. Una volta che si furono sistemati, Glaedr iniziò a parlare, istruendo Eragon sui principi del combattimento mentale. Il Cavaliere li conosceva già, ma rimase ad ascoltare attento, e quando il drago dorato gli chiedeva di fare qualcosa, seguiva le sue istruzioni senza obiezioni né lamentele. Passarono ben presto dalla teoria alla pratica. Glaedr iniziò mettendo alla prova le capacità di difesa di Eragon con attacchi di sempre maggiore intensità, che si trasformarono in combattimenti nei quali tutti e due lottavano per avere il dominio, anche se solo per pochi istanti, sui pensieri dell’altro. Mentre si affrontavano, Eragon giaceva disteso con gli occhi chiusi, concentrando tutte le sue energie nella tempesta interiore che infuriava tra lui e Glaedr. L’intenso allenamento fisico di poco prima lo aveva lasciato debole e con la mente annebbiata, mentre il drago dorato era fresco e ben riposato, oltre a essere immensamente potente; il Cavaliere non poté far altro che cercare di sventare gli attacchi di Glaedr. Resistette abbastanza bene, pur sapendo che in una battaglia reale il vincitore sarebbe stato senza dubbio il suo avversario.

Per fortuna Glaedr gli concesse delle attenuanti per le sue condizioni, anche se commentò: Devi essere pronto a difenderti in ogni momento, anche mentre riposi. Potrebbe succederti di dover affrontare Galbatorix o Murtagh quando sei esausto come adesso. Dopo altri due attacchi, Glaedr tornò al ruolo di spettatore – sebbene molto loquace – e fece assumere ad Arya quello di antagonista. L’elfa era stanca quanto lui, ma Eragon capì in fretta che in uno scontro magico lei gli era superiore. Non ne fu sorpreso; l’unica altra volta che avevano combattuto con la mente lei l’aveva quasi ucciso, ed era successo mentre era ancora sotto l’effetto delle droghe che le avevano somministrato durante la prigionia a Gil’ead. I pensieri di Glaedr erano disciplinati e focalizzati, ma nemmeno lui era in grado di eguagliare il controllo ferreo che Arya esercitava sulla propria coscienza. La sua imperturbabilità era un tratto comune agli elfi, aveva scoperto Eragon. Il più esemplare a questo proposito era stato Oromis che a quanto gli era sembrato aveva sempre avuto un perfetto dominio di sé, senza che mai il minimo dubbio avesse potuto turbarlo. Eragon riteneva il contegno degli elfi una caratteristica innata della loro razza, nonché una naturale conseguenza della loro rigorosa educazione e dell’uso dell’antica lingua. Parlare e pensare in un linguaggio che impedisce di mentire – e capace di invocare un incantesimo con ogni sua parola – non permette di essere incauti con i pensieri e i discorsi, e favorisce invece il distacco dalle emozioni. Era quindi normale per gli elfi possedere un maggiore autocontrollo rispetto ai membri delle altre razze. Eragon e Arya combatterono con la mente per un paio di minuti, durante i quali lui cercò di sfuggire alla sua morsa invasiva, e lei di pungolarlo e bloccarlo per imporgli il proprio volere. Riuscì a catturarlo parecchie volte, ma Eragon riusciva sempre a liberarsi dopo un secondo o due, anche se sapeva bene che se Arya avesse voluto fargli male quegli istanti gli sarebbero stati comunque fatali. E per l’intera durata del loro contatto mentale Eragon fu cosciente della musica di sottofondo che si spandeva negli oscuri recessi della coscienza di Arya. Lo attirava lontano dal proprio corpo e minacciava di intrappolarlo in una rete di arcane e innaturali armonie che non avevano uguali sulla terra. Avrebbe volentieri ceduto alla malia della melodia se non fosse stato distratto dagli attacchi di Arya e dalla consapevolezza che gli umani non uscivano illesi dopo aver vagato troppo a lungo nella mente di un elfo. Ma lui se la sarebbe cavata: era un Cavaliere dei Draghi, dopotutto. Era diverso dagli altri. Non voleva comunque correre rischi, visto che aveva a cuore la propria integrità mentale. Aveva sentito dire che esaminare la mente di Blödhgarm aveva ridotto Garven, una delle guardie di Nasuada, a un sonnambulo dall’aria trasognata. Perciò resistette alla tentazione, nonostante gli costasse un enorme sforzo. Poi anche Glaedr e Saphira presero parte allo scontro, a volte contro Eragon e a volte in suo aiuto perché, come disse Glaedr: Devi diventare abile quanto Eragon, Squamediluce. Quando Saphira si schierò con Eragon il risultato dei loro duelli mentali cambiò non poco: lui e Saphira insieme riuscirono a respingere Arya con regolarità, se non con facilità. Unendo i poteri furono capaci perfino di soggiogarla in un paio di occasioni. Quando Saphira si alleava con Arya, invece, i due lo sovrastavano di tale misura che Eragon rinunciò a ogni tentativo di offesa e si ritirò in se stesso, chiudendosi come un riccio ferito e recitando frammenti di poesie in attesa che le ondate di energia che gli venivano scagliate contro diminuissero d’intensità. Alla fine Glaedr propose di lavorare a coppie – lui con Arya, ed Eragon con Saphira – e combatterono un duello come se fossero stati due Cavalieri che si scontravano insieme ai

loro draghi. Durante i primi estenuanti minuti le coppie si tennero testa, ma in seguito la potenza e l’esperienza di Glaedr accoppiate alle rigorose competenze di Arya furono insostenibili per Eragon e Saphira, che vennero sopraffatti e non ebbero altra scelta che dichiararsi sconfitti. Eragon percepì l’insoddisfazione di Glaedr. Ferito nell’orgoglio, annunciò: Domani faremo meglio, Maestro. L’umore di Glaedr si incupì ancora di più. Anche lui sembrava affaticato dal loro allenamento. Sei stato bravo, cucciolo d’uomo. Non avrei potuto chiedere di più a nessuno di voi due nemmeno se foste stati miei allievi a Vroengard. Tuttavia è impossibile per voi apprendere quanto vi serve in pochi giorni o settimane. Il tempo ci scorre tra i denti come acqua, e presto terminerà. Sono necessari anni per raggiungere l’eccellenza nel combattimento mentale: anni, decenni, o secoli addirittura, e perfino allora avrai tanto ancora da scoprire, su di te, sui tuoi nemici, sui principi fondamentali dell’esistenza. Con un ruggito furibondo, si interruppe. Allora non ci resta che imparare più che possiamo e lasciare che il fato decida il resto , riprese Eragon. Inoltre Galbatorix ha avuto un centinaio d’anni per allenare la mente, ma ne sono trascorsi altrettanti e forse di più dall’ultima volta che tu gli hai fatto lezione. Avrà di sicuro dimenticato qualcosa nel frattempo. Con il tuo aiuto, io so che possiamo batterlo. Glaedr sbuffò. La tua lingua sta diventando sempre più melliflua, Eragon Ammazzaspettri. Ciononostante sembrava compiaciuto. Si raccomandò che mangiassero e riposassero, poi si ritirò dalle loro menti e tacque. Eragon era certo che il drago dorato li stesse ancora osservando ma non riusciva più ad avvertirne la presenza, e fu sopraffatto da un inatteso senso di vuoto. Fu scosso da un brivido. Lui, Saphira e Arya rimasero a lungo in silenzio seduti nella tenda sempre più buia. Poi, scuotendosi, Eragon disse: «Sembra che stia meglio.» Aveva la voce roca dopo tanti minuti trascorsi senza parlare, e si protese per prendere l’otre. «Tutto questo gli fa bene» commentò Arya. «Tu gli fai bene. Se nessuno gli avesse più dato uno scopo, il dolore l’avrebbe ucciso. Che sia sopravvissuto a tutto quello che gli è capitato è... impressionante. Lo ammiro. Pochi altri, elfi, umani o draghi, conserverebbero il raziocinio dopo una tale perdita.» «Brom l’ha fatto.» «È stato altrettanto notevole.» Se uccidiamo Galbatorix e Shruikan, come pensate che reagirà Glaedr?, domandò Saphira. Continuerà ad andare avanti, oppure... si fermerà e basta? Arya spostò lo sguardo da Eragon a Saphira, e un barlume di luce si riflesse nelle sue pupille. «Solo il tempo ce lo dirà. Spero che non sia così, ma se trionferemo a Urû’baen, può darsi che Glaedr non voglia più continuare a esistere da solo, senza Oromis.» «Non possiamo lasciare che si dia per vinto!» Sono d’accordo. «Non è compito nostro fermarlo se deciderà di entrare nel vuoto» li contraddisse Arya in tono severo. «La scelta è sua e sua soltanto.»

«Sì, ma noi potremmo ragionare con lui e cercare di aiutarlo a capire se vale la pena continuare a vivere.» Arya rimase immobile per un istante, con un’espressione solenne dipinta sul viso; poi riprese: «Non voglio che muoia. Nessun elfo lo desidera. Tuttavia, se ogni istante di veglia è un tormento per lui, non sarebbe meglio cercare la liberazione?» Né Eragon né Saphira avevano una risposta. I tre continuarono a discutere gli eventi della giornata ancora per un po’; poi Saphira sfilò la testa dalla tenda e si accoccolò sul suo spiazzo erboso . Mi sento come una volpe nella tana di un coniglio, si lamentò. Mi fa prudere le squame non sapere se qualcuno mi si avvicina alle spalle. Eragon si aspettava che anche Arya si congedasse ma con sua sorpresa l’elfa rimase, quasi fosse felice di star seduta a chiacchierare con lui. Gli sembrava troppo bello per essere vero. La fame che l’aveva attanagliato era svanita durante lo scontro mentale con lei, Saphira e Glaedr, e in ogni caso avrebbe rinunciato volentieri a un pasto caldo per il piacere della sua compagnia. Calò la notte, e l’accampamento divenne sempre più silenzioso mentre la loro conversazione passava da un argomento all’altro. Eragon era stordito dalla stanchezza e dall’euforia, come se avesse esagerato con l’idromele, e gli parve che anche Arya fosse più serena del solito. Parlarono di molte cose: di Glaedr e dei loro combattimenti; dell’assedio di Dras-Leona e di che cosa avrebbero potuto fare; e di tante altre questioni meno importanti, come la gru che Arya aveva visto cacciare tra i giunchi sulle rive del lago, o la squama che Saphira aveva perso sul muso, o ancora l’arrivo della nuova stagione, e i giorni che stavano diventando freddi. Ma poi tornavano sempre all’unico argomento che non abbandonava mai i loro pensieri: Galbatorix e cosa li aspettava a Urû’baen. Mentre facevano ipotesi, come tante altre volte prima, su quali trappole magiche Galbatorix avesse predisposto e sulle eventuali contromisure da adottare, Eragon ripensò alla domanda che Saphira aveva posto sul futuro di Glaedr e disse: «Arya.» «Sì?» L’elfa trascinò l’ultima lettera, in un tono cantilenante come una leggera melodia. «Che cosa farai quando tutto questo sarà finito?» Se saremo ancora vivi, voglio dire. «Tu cosa vorresti fare?» Eragon giocherellò con il pomolo di Brisingr mentre rifletteva sulla domanda. «Ancora non lo so. Non ho pensato molto al dopo Urû’baen... Dipenderà da cosa vorrà fare lei, ma credo che io e Saphira torneremo nella Valle Palancar. Potrei costruire un palazzo su una delle colline ai piedi delle montagne. Non credo che ci passeremo molto tempo, ma almeno avremo una casa dove tornare quando non saremo occupati a volare da una parte all’altra di Alagaësia.» Fece un mezzo sorriso. «Sono sicuro che ci sarà di che tenerci occupati, anche dopo la morte di Galbatorix... Ma non hai ancora risposto alla mia domanda: che cosa farai tu se vinciamo? Devi avere qualche idea. Hai avuto anche più tempo di me per pensarci.» Arya sollevò una gamba, la cinse tra le braccia e posò il mento sul ginocchio. Nella debole luce della tenda, il suo volto sembrava fluttuare nell’oscurità, come un’apparizione magica scaturita dal buio. «Ho trascorso più tempo tra gli umani e i nani che tra gli älfakyn» disse, usando il termine che indicava gli elfi nell’antica lingua. «Mi ci sono abituata, e non vorrei tornare a vivere a

Ellesméra. Lì non accade mai nulla; te ne stai seduto a contemplare le stelle, e senza che te ne accorga passano i secoli. No, credo che continuerò a servire mia madre come ambasciatrice. La ragione per cui ho lasciato la Du Weldenvarden è che volevo dare il mio contributo per ristabilire l’equilibrio nel mondo. Come tu stesso hai detto, ci sarà ancora tanto da fare se riusciremo a sconfiggere Galbatorix, molto da rimettere in ordine, e io voglio esserne parte.» «Ah.» Non era esattamente ciò che sperava di sentirle dire, ma almeno c’era ancora la possibilità di non perdersi di vista dopo Urû’baen, di incontrarsi ancora, di tanto in tanto. Se anche Arya notò la sua delusione, non lo diede a vedere. Parlarono per qualche altro minuto, poi l’elfa si congedò e si alzò. Mentre gli passava accanto, Eragon si sporse in avanti, quasi a volerla trattenere, poi ritrasse in fretta la mano. «Aspetta» le disse, non sapendo in che cosa sperare, ma sperando comunque. Il cuore prese a battergli più in fretta, gli risuonò nelle orecchie, e il calore gli imporporò le guance. Arya si fermò all’ingresso della tenda, di spalle. «Buona notte, Eragon» lo salutò. E scivolò oltre le falde svanendo nella notte, lasciandolo solo nell’oscurità.

SCOPERTE I tre giorni successivi passarono in un lampo per Eragon. Lo stesso non si poteva dire per il resto dei Varden, che rimasero immersi in uno stato letargico. La situazione di stallo restava inalterata, anche se c’era stato un momento di agitazione quando Castigo aveva spostato la sua posizione abituale dal cancello principale a una sezione dei bastioni alcune centinaia di piedi più a destra. Dopo molte discussioni in merito, e dopo aver consultato più volte Saphira, Nasuada e i suoi consiglieri erano giunti alla conclusione che il drago si era spostato per stare più comodo; l’altra sezione dei bastioni era più lunga e piatta. A parte questo, l’assedio languiva senza cambiamenti. Nel frattempo Eragon trascorreva le mattine e le sere studiando con Glaedr e i pomeriggi ad allenarsi con Arya e diversi altri elfi. Gli scontri con gli elfi non erano lunghi né estenuanti come il combattimento con Arya – sarebbe stato sconsiderato spingersi a tali estremi ogni giorno – ma le sue sessioni con Glaedr erano più intense che mai. L’antico drago non si risparmiava per migliorare l’abilità e la conoscenza di Eragon, né tollerava scuse. Eragon era felice di scoprire che finalmente era in grado di tenere testa agli elfi in un duello, sebbene dal punto di vista mentale fosse faticoso; se avesse abbassato anche solo un istante la guardia sarebbe finito con una lama tra le costole o alla gola. Nelle sue lezioni con Glaedr fece progressi che in circostanze normali sarebbero stati enormi, ma data la situazione sia lui sia Glaedr erano frustrati dal suo ritmo di apprendimento. Il secondo giorno, durante la lezione mattutina con il drago dorato, Eragon chiese: Maestro, quando sono arrivato per la prima volta tra i Varden, nel Farthen Dûr, i Gemelli mi hanno messo alla prova; hanno voluto verificare la mia conoscenza dell’antica lingua, e della magia in generale. L’hai già detto a Oromis. Perché ripeterlo a me ora? Perché mi è tornato in mente che i Gemelli mi hanno chiesto di evocare l’essenza di un anello d’argento. All’epoca non sapevo come fare. Me l’ha spiegato Arya più tardi: come grazie all’antica lingua si possa pronunciare il nome di ogni oggetto o essere vivente e richiamarne l’essenza. Eppure Oromis non me ne ha mai parlato, e mi sono domandato perché. Glaedr parve sospirare. Evocare la vera forma di un oggetto richiede uno sforzo enorme. Perché funzioni devi conoscere tutto ciò che è importante dell’oggetto in questione, come dovresti fare per indovinare il vero nome di una persona o di un animale. Inoltre è di scarsa utilità pratica. Ed è pericoloso. Molto. L’incantesimo non può essere strutturato come un processo ininterrotto al quale porre fine quando si vuole. O si riesce a evocare l’essenza di un oggetto, o si fallisce e si muore. Non c’era motivo per cui Oromis dovesse farti tentare qualcosa di tanto rischioso, né eri a un livello così avanzato del tuo percorso di formazione da poter affrontare un simile argomento. Eragon fu scosso nel profondo quando capì quanto Arya dovesse essersi arrabbiata con i Gemelli, che gli avevano chiesto di evocare l’essenza dell’anello d’argento che tenevano in mano. Poi disse: Vorrei tentare ora. Eragon percepì su di sé la piena attenzione di Glaedr. Perché?

Ho bisogno di sapere se ho raggiunto quel livello di conoscenza, anche se per un oggetto così piccolo. Di nuovo: perché? Incapace di spiegarglielo a parole, il Cavaliere riversò il miscuglio dei pensieri e sensazioni nella coscienza di Glaedr. Quando ebbe finito, il drago rimase in silenzio per un po’, assimilando il flusso delle informazioni. Ho ragione a ritenere, disse infine, che lo associ alla possibilità di sconfiggere Galbatorix? Tu credi che se riuscirai a sopravvivere allora potresti sconfiggere anche il re? Sì, rispose Eragon, sollevato. Non era stato in grado di articolare le sue motivazioni con la stessa chiarezza del drago, ma era proprio così. E sei deciso a provarci? Sì, Maestro. Potrebbe ucciderti, gli ricordò Glaedr. Lo so. Eragon!, esclamò Saphira. I pensieri della dragonessa arrivavano deboli nella sua mente: stava volando alta nel cielo sopra l’accampamento, in cerca di eventuali pericoli, mentre lui studiava con Glaedr. È troppo pericoloso. Non te lo permetterò. Devo farlo, replicò lui, tranquillo. Rivolto a Saphira, ma anche a Eragon, Glaedr disse: Se insiste nel provarci, allora è meglio che tenti sotto il mio controllo. Se la sua conoscenza non lo aiuta, potrei essere in grado di supplire alle sue lacune con le informazioni necessarie e salvarlo. Saphira ruggì, un suono rabbioso e lacerante che riempì la mente di Eragon, poi fuori dalla tenda si alzò una spaventosa folata d’aria e si levarono grida allarmate di uomini ed elfi: la dragonessa atterrò con tanta violenza che la tenda e gli oggetti al suo interno tremarono. Pochi istanti più tardi Saphira infilò la testa nella tenda e guardò Eragon di traverso. Ansimava, e l’aria che soffiava dalle narici gli scompigliava i capelli e gli irritava gli occhi per l’odore di carne bruciata di cui era carica. Hai la testa dura come quella di un Kull, disse. Ma non quanto la tua. La dragonessa arricciò il labbro in un accenno di ringhio. C osa stiamo aspettando? Se dovete farlo, allora procediamo! Cosa vuoi evocare?, gli domandò Glaedr. Deve essere qualcosa che conosci bene. Eragon fece vagare lo sguardo all’interno della tenda, poi lo abbassò sull’anello di zaffiro che portava alla mano destra. Aren... Si era tolto di rado quell’unico ricordo di Brom da quando Ajihad glielo aveva consegnato. Era diventato parte di lui come le braccia o le gambe. Durante le ore trascorse a guardarlo, aveva memorizzato ogni intarsio, e se chiudeva gli occhi poteva richiamare un’immagine che era la perfetta riproduzione dell’oggetto vero. Eppure c’era tanto che non conosceva dell’anello: la sua storia, il procedimento che gli elfi avevano usato per farlo, e da ultimo gli incantesimi di cui era stato impregnato durante la sua creazione. No... Aren no.

Poi il suo sguardo si spostò dall’anello al pomolo di Brisingr, posata all’angolo della sua branda. «Brisingr» mormorò. Si udì un debole fruscio, e la spada uscì di mezzo pollice dal fodero, come sospinta dall’interno, e piccole lingue di fiamma guizzarono dall’imboccatura della guaina fino a lambire la parte inferiore dell’elsa. Le fiamme svanirono e la spada rientrò nel fodero quando Eragon pose fine all’incantesimo involontario. Brisingr, pensò, sicuro della scelta. Era stata l’arte di Rhunön a forgiare la spada, ma lui stesso aveva tenuto in mano gli arnesi, legato alla mente dell’elfa durante tutto il processo. Se c’era un solo oggetto al mondo che potesse dire di conoscere in tutto e per tutto, quello era la sua spada. Sei sicuro?, domandò Glaedr. Eragon annuì, poi gli venne in mente che il drago dorato non poteva vederlo. Sì, Maestro... Una domanda, però: Brisingr è il vero nome della spada? E se non lo è, avrò bisogno di indovinare quello vero perché l’incantesimo funzioni? Brisingr è il nome del fuoco, come sai bene. Il vero nome della tua spada è qualcosa di più complesso, anche se è probabile che includa brisingr nella sua descrizione. Se lo desideri puoi riferirti alla spada con il suo nome, ma potresti benissimo chiamarla solo spada e ottenere lo stesso risultato, finché avrai bene a mente il sapere necessario. Il nome è una mera etichetta della conoscenza, e non ne hai bisogno per raggiungere il vero sapere. È una distinzione sottile, ma è importante. Capisci? Sì. Allora procedi come meglio credi. Eragon si concesse un momento per concentrarsi. Poi trovò il nucleo della propria mente e lo raggiunse per attingere alla riserva di energia del corpo. Incanalando quell’energia nella singola parola e pensando contemporaneamente a tutto ciò che sapeva sulla spada, disse forte e chiaro: «Brisingr!» Eragon avvertì la propria forza calare di botto. Allarmato, cercò di parlare o di muoversi, ma l’incantesimo lo teneva bloccato. Non riusciva nemmeno a battere le palpebre o a respirare. A differenza delle altre volte, la spada nel fodero non prese fuoco ma tremolò, come un’immagine riflessa sull’acqua. Poi accanto all’arma comparve una perfetta e scintillante raffigurazione di Brisingr, libera dal suo fodero. Eccellente come l’originale – Eragon non vi aveva mai trovato il minimo difetto –, il duplicato era ancora più impeccabile. Gli sembrava quasi che stesse guardando l’ idea della spada, un’idea che nemmeno Rhunön, con tutta la sua esperienza nella lavorazione del metallo, avrebbe potuto sperare di catturare. Non appena l’apparizione divenne più nitida, Eragon fu di nuovo in grado di respirare e di muoversi. Mantenne l’incantesimo per alcuni secondi, per ammirare la bellezza dell’evocazione, e poi lo lasciò estinguersi: la spada fantasma svanì lentamente nell’oblio. Una volta sparita del tutto, la tenda piombò in un’oscurità inattesa. Solo allora Eragon divenne di nuovo consapevole della presenza di Saphira e Glaedr: i due draghi premevano contro la sua coscienza e osservavano con la massima attenzione ogni suo più piccolo pensiero. Eragon non li aveva mai sentiti tanto tesi. Se avesse pungolato

Saphira su una spalla, pensò, ne sarebbe stata talmente sorpresa da mettersi a girare in tondo. E se lo facessi io, di te non resterebbe altro che una macchia. Eragon sorrise e si distese sulla branda, stanco. Nel momento in cui Glaedr si rilassò, Eragon avvertì nella mente un suono simile al frusciare del vento in una landa desolata. Hai fatto un buon lavoro, Ammazzaspettri. L’elogio di Glaedr lo sorprese: il vecchio drago gli aveva concesso ben pochi complimenti da quando era diventato suo maestro. Ma non riproviamoci. Eragon tremò e si massaggiò le braccia, cercando di scacciare il freddo che gli si era insinuato nelle ossa. D’accordo, Maestro. Non smaniava all’idea di riprovare l’esperienza. Tuttavia, non poteva che sentirsi soddisfatto di ciò che aveva compiuto. Aveva dimostrato con certezza che c’era almeno una cosa che sapeva fare meglio di chiunque altro in Alagaësia. E questo gli infuse speranza. La mattina del terzo giorno, Roran si riunì ai Varden insieme ai suoi compagni: erano stanchi, acciaccati e provati dal viaggio. Il suo ritorno risvegliò i Varden dal torpore per qualche ora – lui e gli altri ricevettero un’accoglienza da eroi – ma poi un senso di noia s’impadronì di nuovo delle truppe. Eragon fu felice di rivedere Roran. Sapeva che il cugino era salvo e l’aveva divinato diverse volte mentre era lontano. Tuttavia vederlo di persona lo liberava da un’ansia che fino a quel momento non sapeva di avere dentro. Roran era la sola famiglia che gli rimaneva – Murtagh non contava – ed Eragon non poteva tollerare nemmeno il pensiero di perderlo. Ora, guardandolo da vicino, Eragon fu spaventato dal suo aspetto. Aveva immaginato che Roran e i suoi compagni fossero esausti, ma il cugino appariva molto più emaciato degli altri: sembrava invecchiato di cinque anni durante quel viaggio. Aveva gli occhi rossi e cerchiati, la fronte solcata da rughe profonde e si muoveva rigido, come se fosse interamente coperto di lividi. E poi la barba: bruciata per metà, era ricresciuta a chiazze. I cinque uomini – uno in meno rispetto a quando erano partiti – andarono subito dai guaritori del Du Vrangr Gata, dove gli stregoni si occuparono delle loro ferite. Poi si presentarono al cospetto di Nasuada, nel suo padiglione. Dopo averli encomiati per il loro coraggio, Nasuada li congedò tutti a eccezione di Roran, al quale chiese un resoconto dettagliato del viaggio di andata e ritorno da Arughia e della conquista della città. Il racconto fu piuttosto lungo, ma sia Nasuada sia Eragon, in piedi alla sua destra, lo ascoltarono con un misto di rapimento e orrore. Quando terminò, Nasuada sorprese tutti e due annunciando che avrebbe messo Roran a capo di uno dei battaglioni dei Varden. Eragon pensò che il cugino avrebbe gioito alla notizia. Invece aggrottò le sopracciglia, e le rughe sul suo volto si fecero più profonde. Comunque Roran non fece obiezioni né si lamentò, si limitò a fare un inchino e a dire con voce roca: «Come desideri, Lady Nasuada.» Più tardi, Eragon scortò Roran alla sua tenda, dove Katrina li stava aspettando. La ragazza accolse Roran con un tale trasporto che Eragon distolse lo sguardo, imbarazzato.

Saphira li raggiunse, e cenarono tutti insieme, ma il Cavaliere e la dragonessa si congedarono il prima possibile, poiché era palese che Roran non aveva la forza di intrattenere gli ospiti e che Katrina desiderava averlo tutto per sé. Mentre attraversava con Saphira l’accampamento nelle tenebre sempre più fitte del crepuscolo, Eragon sentì qualcuno gridare alle sue spalle: «Eragon! Eragon! Aspetta un attimo!» Si voltò: l’erudito Jeod, sottile e allampanato come al solito, correva verso di lui, con le ciocche di capelli svolazzanti intorno al volto magro. Nella mano sinistra teneva un logoro foglio di pergamena. «Cosa c’è?» domandò Eragon, preoccupato. «Questo!» esclamò Jeod con occhi scintillanti. Agitò la pergamena. «Ce l’ho fatta di nuovo, Eragon! Ho trovato una via!» Nella luce morente del giorno, la cicatrice sulla tempia risaltava più pallida che mai sulla pelle abbronzata. «Hai fatto di nuovo cosa? Hai trovato quale via? Calmati, quello che dici non ha senso!» Jeod si guardò intorno furtivo, poi si avvicinò al Cavaliere e bisbigliò: «Le mie letture e le mie ricerche hanno dato i loro frutti. Ho scoperto un tunnel segreto che conduce diritto dentro le mura di Dras-Leona!»

DECISIONI «Spiegamelo di nuovo» disse Nasuada. Eragon spostò il peso da un piede all’altro, impaziente, ma tenne a freno la lingua. Jeod pescò un volume sottile rilegato in pelle rossa dalla pila di libri e pergamene di fronte a lui e ricominciò il suo racconto per la terza volta: «Circa cinquecento anni fa, stando a quanto ho potuto rilevare...» Jörmundur lo interruppe: «Risparmiaci le precisazioni. Sappiamo che sono mere congetture.» Jeod riprese imperterrito: «Circa cinquecento anni fa, la regina Forna inviò Erst Barbagrigia a Dras-Leona, o meglio quella che sarebbe diventata Dras-Leona.» «E perché proprio lui?» domandò Nasuada tormentando la frangia della manica. «I nani erano nel bel mezzo di una guerra tra clan e la regina sperava di guadagnare l’appoggio della nostra razza aiutando re Radgar a progettare e costruire le fortificazioni della città, proprio come i nani avevano fatto con le difese di Arughia.» Nasuada rigirò tra le dita un filo della sua veste. «Poi Dolgrath Mezzadoga uccise Forna...» «Esatto. Ed Erst Barbagrigia non poté fare altro che tornare sui Monti Beor il più in fretta possibile, per difendere il proprio clan dal saccheggio di Mezzadoga. Ma...» Jeod alzò un dito e aprì il libro rosso «pare che prima di partire Erst abbia iniziato la sua opera. Lord Yardley, primo consigliere di re Radgar, lasciò scritto nelle sue memorie che Erst aveva abbozzato il progetto di un sistema fognario che correva sotto il centro della città, poiché ciò avrebbe influito sulla costruzione delle fortificazioni.» Orik, dall’estremità opposta del tavolo che occupava il centro del padiglione di Nasuada, annuì e disse: «Questo è vero. Bisogna studiare come e dove distribuire il peso e stabilire quale materiale è più opportuno usare in base al terreno con cui si ha a che fare. Altrimenti si rischiano dei cedimenti.» Jeod riprese: «Certo, Dras-Leona non ha un sistema fognario sotterraneo, perciò ho dato per scontato che i progetti di Erst non siano mai stati effettivamente realizzati. Tuttavia, alcune pagine dopo Yardley prosegue...» Affondando il naso tra le pagine, Jeod lesse: «... e nel più deprecabile degli episodi, i predoni bruciarono moltissime case e fecero razzia di abbondanti tesori. I soldati furono lenti a respingerli, poiché erano stati messi a lavorare sottoterra, impiegati come villici qualunque.» Jeod abbassò il libro. «Quindi cosa stavano scavando? Non sono stato in grado di rintracciare altri riferimenti ad attività simili dentro o attorno a Dras-Leona, fino a che...» Jeod posò il volume rosso e prese un altro libro, un tomo massiccio rivestito di listelli di legno e spesso quasi un piede. «Stavo sfogliando Le imprese di Taradas e altri misteriosi fenomeni occulti registrati durante le ere degli umani, dei nani e degli elfi più antichi, quando...» «È un’opera piena di errori» intervenne Arya. Era in piedi sul lato sinistro del tavolo, le mani appoggiate su una mappa della città. «L’autore conosceva molto poco della mia gente e ciò che non sapeva l’ha inventato.»

«Può darsi» concesse Jeod, «ma sapeva molte cose degli umani e sono loro che ci interessano in questo momento.» Jeod aprì il libro a metà e abbassò con delicatezza la parte superiore fino a posarla sul tavolo. «Nel corso delle sue ricerche, Othman passò un po’ di tempo in questa regione. Perlopiù si dedicò allo studio dell’Helgrind e degli strani fenomeni a esso collegati, ma su Dras-Leona aggiunse: Gli abitanti della città si lamentano spesso di rumori sinistri e di effluvi che provengono da sotto le strade e i pavimenti, in particolar modo di notte. Li attribuiscono a fantasmi, spiriti e altre creature inquietanti, ma se davvero si tratta di spiriti allora sono diversi da qualunque tipo mai conosciuto finora, poiché in genere quelli evitano gli spazi chiusi.» Jeod chiuse il libro. «Per fortuna Othman era a dir poco zelante e ha segnato le varie ubicazioni dei rumori su una mappa di Dras-Leona dove, come potete vedere, formano una linea retta che taglia la parte vecchia della città.» «E secondo te questo indica la presenza di un tunnel» intervenne Nasuada. Era un’affermazione, non una domanda. «Sì» rispose Jeod con un cenno del capo. Re Orrin, che era seduto vicino a Nasuada e fino ad allora aveva taciuto o quasi, prese la parola. «Nulla di ciò che hai detto finora, Jeod Gambelunghe, prova che ci sia davvero. Ammesso che ci siano degli spazi cavi sotto la città, potrebbero benissimo essere magazzini o catacombe, o una stanza qualsiasi che conduce agli edifici sovrastanti. E se anche ci fosse un passaggio, non sappiamo se sbuca da qualche parte fuori da Dras-Leona né, sempre che esista, dove conduce. Nel cuore del palazzo, magari? Per di più, stando a quanto dici, è molto probabile che la costruzione di questo ipotetico tunnel non sia mai stata portata a compimento.» «Data la sua forma, sembra improbabile che possa essere qualcosa di diverso, Maestà» replicò Jeod. «Nessun magazzino o catacomba sarebbe tanto stretto e lungo. Quanto al suo completamento... sappiamo che non venne mai usato per lo scopo prefissato, ma sappiamo anche che resistette quanto meno fino all’epoca di Othman, il che significa che il tunnel, o il passaggio, o come volete chiamarlo, doveva essere in qualche modo finito, altrimenti le infiltrazioni d’acqua lo avrebbero distrutto molto tempo fa.» «E che mi dici dello sbocco, allora... o dell’ingresso, se preferisci?» domandò il re. Jeod rovistò per qualche momento tra le pile di pergamene prima di estrarre un’altra mappa di Dras-Leona, con una raffigurazione del paesaggio circostante. «Di questo non posso essere certo, ma se conduce fuori dalla città, allora l’uscita dev’essere da qualche parte qui intorno...» Posò l’indice su un punto vicino al confine orientale della città. Molte delle costruzioni esterne alle mura che proteggevano il centro di Dras-Leona si trovavano sul lato occidentale della città, vicino al lago. Ciò voleva dire che il luogo indicato da Jeod, benché in mezzo al nulla, era quello da cui più ci si poteva avvicinare al cuore di DrasLeona senza incontrare edifici. «Ma è impossibile dirlo senza andare a constatare di persona.» Eragon si accigliò. Aveva creduto che Jeod avesse scoperto qualcosa di più preciso. «Devo congratularmi con te per la tua ricerca, Jeod Gambelunghe» disse Nasuada. «Ancora una volta hai reso un ottimo servizio ai Varden.» Si alzò dal suo scranno e si avvicinò alla mappa. L’orlo del vestito strisciò sul pavimento. «Se mandiamo un uomo in perlustrazione, rischiamo che l’Impero intuisca il nostro interesse per quella zona. E a quel punto, ammesso che esista il tunnel, ci sarebbe di ben poca utilità: ci sarebbero Murtagh e

Castigo ad attenderci all’altro capo.» Guardò Jeod. «Quanto pensi che possa essere largo questo passaggio? Quanti uomini potrebbero entrarci?» «Non saprei. Forse...» Orik si schiarì la voce e obiettò: «Il terreno qui è molle e simile ad argilla, con in più uno spesso strato di fango... pessimo per scavare tunnel. Se Erst aveva un minimo di senno, non può aver progettato un unico grande canale per far defluire le acque di scolo della città; piuttosto avrà predisposto diversi condotti più stretti, per ridurre il pericolo di crolli. E nessuno di essi più largo di una iarda, per come la vedo io.» «Troppo piccolo perché possa passarci più di un uomo alla volta» osservò Jeod. «Forse anche per più di un knurla» aggiunse Orik. Nasuada tornò al suo posto e fissò la mappa con occhi vacui, come se stesse guardando un punto molto lontano. Dopo qualche momento di silenzio, Eragon disse: «Potrei cercarlo io il tunnel. So come nascondermi usando la magia, le sentinelle non riuscirebbero mai a vedermi.» «Forse» mormorò Nasuada, «ma continua a non piacermi l’idea di mandare te o chiunque altro da quelle parti. Le probabilità che l’Impero se ne accorga sono troppo alte. E se Murtagh fosse in agguato? Saresti in grado di ingannarlo? Sai di cosa è capace?» La donna scosse il capo. «No, dovremo dare per scontato che il tunnel esiste e decidere di conseguenza. Se gli eventi dimostreranno il contrario, non avremo perso nulla, ma se il tunnel esiste davvero... potrebbe permetterci di conquistare definitivamente Dras-Leona.» «Cos’hai in mente?» domandò re Orrin, circospetto. «Qualcosa di audace. Una mossa... inaspettata.» Eragon sbuffò. «Allora dovresti consultare Roran.» «Non ho alcun bisogno di Roran per mettere a punto i miei piani, Eragon.» Nasuada tacque e tutti nel padiglione, Eragon compreso, rimasero in attesa di scoprire che cosa avrebbe escogitato. Alla fine si voltò ed esordì: «Ecco la mia idea. Manderemo un manipolo di guerrieri per aprire i cancelli dall’interno.» «E come pensi che ci riuscirebbero?» chiese Orik. «Sarebbe già abbastanza complicato se dovessero limitarsi a fronteggiare le centinaia di soldati che piantonano quella zona. Ma nel caso tu l’abbia dimenticato c’è pure un lucertolone sputafuoco lì in agguato e puoi star certa che lui non si farà passare sotto il muso chiunque sia così sciocco da forzare i cancelli. Senza considerare Murtagh...» Prima che la discussione potesse degenerare, Eragon intervenne: «Lo farò io.» Le sue parole troncarono la conversazione. Il Cavaliere si aspettava che Nasuada liquidasse subito la proposta ma con suo grande stupore la valutò. E poi lo sorprese ancora di più dicendo: «D’accordo.» Eragon fissò esterrefatto Nasuada e tutte le argomentazioni che si era preparato svanirono in una bolla di sapone. Era chiaro che anche lei aveva seguito il suo stesso ragionamento. Tutti presero a parlare nello stesso momento e nella tenda esplose un fracasso di voci sovrapposte. Arya riuscì a sovrastare il baccano: «Nasuada, non puoi permettere a Eragon di correre questo rischio. Sarebbe irragionevole. Piuttosto manda alcuni degli stregoni di

Blödhgarm; sono certa che acconsentiranno ad aiutarci e sono dei guerrieri all’altezza di chiunque altro, compreso Eragon.» Nasuada scosse il capo. «Nessuno degli uomini del re oserebbe uccidere Eragon. Né Murtagh né i maghi al servizio del re, e nemmeno il più infimo dei soldati. Dovremmo approfittare di questo vantaggio. Inoltre Eragon è il nostro stregone più potente e potrebbe essere necessaria una forza sovrumana per aprire i cancelli. Di tutti noi è lui ad avere le maggiori probabilità di successo.» «E se venisse catturato? Non può tenere testa a Murtagh, lo sai benissimo!» «Distrarremo Murtagh e Castigo, concedendo a Eragon la sua occasione.» Arya sollevò il mento. «Come? Come intendi distrarli?» «Attaccheremo Dras-Leona da sud. Saphira volerà sulla città dando fuoco agli edifici e uccidendo i soldati sulle mura. Murtagh e Castigo non potranno far altro che inseguirla, soprattutto perché sembrerà che ci sia Eragon a cavalcarla. Blödhgarm e i suoi stregoni creeranno un’immagine-specchio di Eragon, come hanno fatto in passato. Basterà che Murtagh non si avvicini troppo e non scoprirà mai il nostro sotterfugio.» «Sei davvero decisa?» «Sì.» Con espressione dura e risoluta, Arya disse: «Allora io andrò con lui.» Eragon fu pervaso da un profondo sollievo. Aveva sperato che lei lo accompagnasse, ma non aveva osato chiederglielo per paura di un suo rifiuto. Nasuada sospirò. «Sei la figlia di Islanzadi. Preferirei non farti correre un simile pericolo. Se tu dovessi morire... Ricordi come ha reagito tua madre quando ha creduto che Durza ti avesse uccisa? Non possiamo permetterci di perdere l’appoggio del tuo popolo.» «Mia madre...» Arya serrò le labbra e si interruppe, poi ricominciò: «Posso garantirti, Lady Nasuada, che la regina Islanzadi non abbandonerà i Varden, qualunque cosa mi accada. Di questo non devi avere alcun timore. Io affiancherò Eragon insieme a due degli stregoni di Blödhgarm.» Nasuada scosse il capo. «No, puoi prenderne solo uno. Murtagh ormai sa quanti sono gli elfi che proteggono Eragon. Se nota che ne mancano due o più sospetterà una trappola o qualcosa di simile. E in ogni caso, Saphira avrà bisogno di tutto l’aiuto possibile per sfuggirgli.» «Tre persone non bastano per tentare una simile missione» insistette Arya. «Non potremmo garantire la sicurezza di Eragon, e tantomeno aprire i cancelli.» «Allora verrà con voi uno del Du Vrangr Gata.» Un ghigno denigratorio alterò l’espressione di Arya. «Nessuno dei tuoi stregoni è abbastanza forte o abile. Saranno cento volte più di noi, e dovremo fronteggiare sia comuni spadaccini sia maghi esperti. Solo gli elfi o i Cavalieri...» «O gli Spettri» borbottò Orik. «O gli Spettri...» concesse Arya, benché Eragon riuscisse a scorgere la sua irritazione. «Solo loro possono sperare di prevalere su una tale superiorità numerica. E anche in quel caso non è affatto sicuro. Lasciaci prendere due degli stregoni di Blödhgarm, nessun altro tra i Varden è all’altezza dell’obiettivo.»

«E io non conto niente?» Tutti si voltarono sorpresi, mentre Angela avanzava da un angolo in fondo alla tenda. Eragon non aveva nemmeno percepito la sua presenza. «Affascinanti le parole con più significati, non credete?» proseguì l’erborista. «“Contare”, per esempio: una persona può contare e...» Sorrise. «Be’, suppongo che non sia così importante.» Si fermò di fronte ad Arya e la guardò negli occhi. «Avresti qualcosa in contrario se vi accompagnassi io, Älfa? Non sono un membro dei Varden in senso stretto, ma mi offro comunque come quarto componente della vostra banda.» Con grande sorpresa di Eragon, Arya chinò il capo e disse: «Ma certo, venerabile. Non era mia intenzione recarti offesa. Sarà un onore averti con noi.» «Ottimo!» esclamò Angela. «Sempre che a te non dispiaccia» aggiunse, rivolgendosi a Nasuada. Nasuada scosse il capo, vagamente confusa. «Se tu sei disposta ad andare, e né Eragon né Arya hanno da ridire, allora non vedo perché non dovresti. Tuttavia non capisco perché tu voglia farlo.» Angela fece danzare i ricci. «Ti aspetti che mi metta a spiegare ogni decisione che prendo? Oh, d’accordo... Se serve a soddisfare la tua curiosità, diciamo che ho un conto in sospeso con i sacerdoti dell’Helgrind e mi piacerebbe poter mettere le mani su di loro. Inoltre c’è sempre la possibilità che Murtagh decida di farsi vivo: ho in serbo un paio di trucchetti che potrebbero impressionarlo.» «Potremmo chiedere anche a Elva di venire con noi» aggiunse Eragon. «Se c’è qualcuno che può aiutarci a evitare i pericoli...» Nasuada si rabbuiò. «L’ultima volta che abbiamo affrontato l’argomento è stata molto chiara. Non intendo inginocchiarmi e supplicarla per cercare di farle cambiare idea.» «Le parlerò io» dichiarò Eragon. «È con me che è arrabbiata, sono io a doverglielo chiedere.» Nasuada afferrò la frangia della veste dorata. Rigirò diversi fili tra le dita e aggiunse in tono brusco: «Fa’ come vuoi. Sono contraria a mandare una bambina in battaglia, sia pure dotata come Elva, ma suppongo che sia perfettamente in grado di badare a se stessa.» «Purché non venga sopraffatta dal dolore che la circonda» osservò Angela. «Gli ultimi scontri l’hanno sfinita; era a stento in grado di muoversi o di respirare.» Nasuada smise di giocherellare con la frangia e scrutò il Cavaliere con espressione seria. «Elva è imprevedibile, Eragon. Ammesso che decida di prendere parte alla missione, sta’ attento.» «Contaci» la rassicurò lui. Dopodiché Nasuada prese a discutere di questioni logistiche con Orrin e Orik, ed Eragon, non potendo contribuire in alcun modo, si estraniò dalla conversazione. Nell’intimità della propria mente raggiunse Saphira, che tramite lui aveva seguito gli avvenimenti. Be’?, domandò. Che ne pensi? Sei stata molto silenziosa. Ero sicurissimo che saresti intervenuta quando Nasuada ha proposto di introdursi a Dras-Leona. Non l’ho fatto perché non avevo niente da ridire. È un buon piano. Sei d’accordo con lei?

Non siamo più dei cuccioli impacciati, Eragon. I nostri nemici possono essere spaventosi, ma lo stesso vale per noi. È tempo che glielo ricordiamo. Saremo separati. Non t’importa? Certo che m’importa, ringhiò la dragonessa. Dovunque tu vada i nemici ti piovono addosso come api sul miele. Tuttavia non sei più così indifeso come una volta. E così dicendo parve fare le fusa. Io? Indifeso?, replicò Eragon, fingendosi indignato. Solo un pochino. Ma il tuo morso è più pericoloso che in passato. Be’, anche il tuo. Mmm... vado a caccia. Sta arrivando una tempesta da spezzare le ali e non avrò un’altra occasione per mangiare prima dell’assalto. Fa’ attenzione, la ammonì Eragon. Mentre sentiva scivolar via la sua presenza, tornò a concentrarsi sulla conversazione nella tenda: sapeva che la sua vita e quella di Saphira dipendevano dalle decisioni di Nasuada, Orik e Orrin.

SOTTO IL MONTE E LA ROCCIA Eragon inarcò la schiena per tentare di sistemarsi meglio la cotta di maglia nascosta sotto la tunica. Erano immersi in un’oscurità fitta e soffocante; uno spesso strato di nubi copriva la luna e le stelle. Se non fosse stato per il globo di luce rossa che Angela teneva sospeso sulla mano, nemmeno Eragon e gli elfi sarebbero riusciti a vedere qualcosa. L’aria era umida ed Eragon si sentì sferzare le guance da qualche rada, gelida goccia di pioggia. Quando era andato da Elva per chiederle aiuto, lei era scoppiata a ridere e si era rifiutata. Il Cavaliere aveva cercato a lungo di convincerla, ma invano. Alla fine era intervenuta perfino Saphira. La dragonessa era atterrata accanto alla tenda della strega-bambina, si era chinata fino a piazzarle l’enorme testa a un palmo dal viso costringendola a guardare uno dei suoi occhi luminosi e impassibili. Elva non aveva più avuto l’ardire di ridere, ma era rimasta ferma sulle sue posizioni. Eragon era irritato dall’ostinazione della ragazza, eppure non poteva fare a meno di ammirarne la caparbietà: dire di no a un Cavaliere e a un drago non era cosa da poco. Del resto Elva aveva dovuto sopportare sofferenze indicibili nella sua breve vita, e per questo aveva maturato una durezza di spirito rara anche nei guerrieri più consumati. Alle sue spalle, Arya si avvolse in un lungo mantello. Eragon la imitò e lo stesso fecero Angela e Wyrden, l’elfo che Blödhgarm aveva scelto per la missione. I mantelli servivano a ripararli dal rigore della notte, ma anche a nascondere le armi nel caso che, una volta in città, avessero incontrato qualcuno. Sempre ammesso che fossero riusciti a entrarvi. Nasuada, Jörmundur e Saphira li avevano accompagnati fino al limitare dell’accampamento, ed era proprio lì che si trovavano in quel momento. Nelle tende i Varden, i nani e gli Urgali si preparavano alla marcia imminente. «Mi raccomando» li esortò Nasuada, con il respiro che formava piccole nuvole di condensa, «se non riuscite a raggiungere i cancelli entro l’alba trovate un posto dove attendere che sia giorno, e poi ci riproveremo.» «Forse non potremo permetterci il lusso di aspettare» replicò Arya. Nasuada si massaggiò le braccia e annuì. Sembrava insolitamente preoccupata. «Lo so. Noi comunque saremo pronti ad attaccare al vostro segnale, in qualsiasi momento. La vostra incolumità è più importante della conquista di Dras-Leona, ricordatelo.» Mentre pronunciava quelle parole scoccò un’occhiata a Eragon. «Dovremmo andare» intervenne Wyrden. «La notte avanza.» Eragon appoggiò la fronte contro Saphira. Buona caccia, gli sussurrò la dragonessa. Anche a te. Si separarono a malincuore ed Eragon raggiunse Arya e Wyrden: seguendo Angela, imboccarono il sentiero che conduceva fuori dall’accampamento e da lì proseguiva verso il confine orientale della città. Nasuada e Jörmundur li salutarono augurando loro buona

fortuna, poi tutto tacque: i soli rumori a infrangere la quiete erano i loro respiri e il calpestio degli stivali sul terreno. Angela smorzò la luce nella propria mano. Eragon riusciva a malapena a distinguersi i piedi, e perfino evitare i rami e i sassi sul sentiero divenne insidioso. Procedettero in silenzio per un’ora, poi l’erborista si fermò e bisbigliò: «Ci siamo, credo. Sono piuttosto brava nel calcolare le distanze, ma potrei sbagliarmi di circa mille piedi. È difficile essere precisi con questo buio.» Una serie di puntini luminosi fluttuavano all’orizzonte: Dras-Leona. Le luci parevano tanto vicine che sembrava bastasse tendere una mano per toccarle. Wyrden si inginocchiò e si sfilò il guanto dalla mano destra; Eragon e le due donne gli si strinsero attorno. Dopo aver posato il palmo sulla terra nuda, l’elfo pronunciò l’incantesimo per individuare la presenza di aree sotterranee. Gliel’aveva insegnato il mago dei nani che Orik aveva inviato da loro prima della partenza. Mentre Wyrden cantava la formula, Eragon scrutò nell’oscurità in cerca del minimo movimento sospetto. Pioveva più forte, e il Cavaliere sperò che il tempo migliorasse prima dell’inizio della battaglia. Un gufo bubolò in lontananza ed Eragon impugnò d’istinto Brisingr, esitando un attimo prima di estrarla. Barzûl, imprecò tra sé usando l’espressione preferita di Orik. Era troppo nervoso. La prospettiva di un nuovo scontro con Murtagh e Castigo gli metteva una certa agitazione. Se continuo così, tanto vale che mi dia già per vinto, pensò. Rallentò la respirazione e iniziò il primo degli esercizi mentali che Glaedr gli aveva insegnato per controllare le emozioni. Il vecchio drago non era stato entusiasta della missione quando Eragon gliene aveva parlato, ma non si era opposto. Dopo aver considerato varie eventualità, aveva detto: Sta’ attento alle ombre, Eragon. Strane creature si annidano nei luoghi oscuri. Il che, pensò Eragon, non era proprio un avvertimento incoraggiante. Si asciugò la pioggia dal viso senza scostare l’altra mano dall’elsa di Brisingr. Poi infilò il pollice sotto la cintura della spada: la cintura di Beloth il Savio, con i suoi dodici diamanti nascosti. Quella mattina era andato ai recinti del bestiame, e mentre i cuochi uccidevano volatili e pecore per il rancio, aveva trasferito nelle gemme l’energia degli animali morenti. Era una cosa che odiava: quando raggiungeva con la mente una di quelle creature – sempre che avesse ancora la testa attaccata al collo – riusciva a condividere la paura e il dolore che l’animale stava provando, e nel momento in cui la bestiola entrava nel vuoto si sentiva come se fosse lui stesso a morire. Era un’esperienza orribile, che lo gettava nel panico. Se poteva, mormorava a quegli animali parole di conforto nell’antica lingua. A volte funzionava, altre no. Ormai erano spacciati, e a lui serviva quell’energia, ma detestava comunque assorbirla, perché gli dava l’impressione di essere l’artefice della loro fine. Lo faceva sentire sporco. Adesso gli sembrava che la cintura fosse un po’ più pesante di prima, carica com’era dell’energia di tutte quelle creature. Anche se i diamanti fossero stati privi di valore, agli occhi di Eragon quella cintura sarebbe stata più preziosa dell’oro, proprio in virtù delle decine di vite che vi erano fluite. Quando Wyrden ebbe concluso l’incantesimo, Arya domandò: «L’hai trovato?»

«Da questa parte» rispose l’elfo alzandosi. Eragon si sentì travolgere dal sollievo e dall’eccitazione. Jeod aveva ragione! Con Wyrden che apriva la fila, attraversarono una strada e superarono una serie di basse colline per poi scendere nel letto di un fiumiciattolo in secca nascosto nelle ondulazioni del terreno. «L’ingresso del tunnel dovrebbe essere qui da qualche parte» disse Wyrden, indicando la sponda occidentale dell’avvallamento. L’erborista aumentò la luce del fuoco fatuo quel tanto che bastava a esplorare l’area. Eragon, Arya e Wyrden si avventurarono tra la vegetazione dell’argine aiutandosi con i bastoni. Per due volte Eragon urtò gli stinchi contro i ceppi delle betulle cadute e il dolore gli tolse il fiato. Rimpianse di non aver indossato bracciali e schinieri, ma li aveva lasciati all’accampamento insieme allo scudo: avrebbero attirato troppo l’attenzione in città. Perlustrarono la riva per venti minuti, finché Eragon sentì un clangore metallico e Arya li richiamò a bassa voce: «Qui.» Gli altri si affrettarono a raggiungerla. Nascosta sul fianco dell’argine c’era una piccola cavità nascosta: Arya scostò la vegetazione rivelando un passaggio sotterraneo di pietra alto cinque piedi e largo tre. L’accesso era sbarrato da una grata di ferro arrugginito. «Guardate» disse Arya indicando a terra. Dal cunicolo sbucava un sentiero. Persino nell’innaturale chiarore rossastro del globo di luce Eragon riuscì a distinguere le orme di una o più persone che dovevano aver usato il passaggio per entrare e uscire di nascosto da Dras-Leona. «Dovremo avanzare con prudenza» bisbigliò Wyrden. Angela tossicchiò. «E in che altro modo pensavi di avanzare? Preceduti da araldi e squilli di tromba? Non farmi ridere...» L’elfo non replicò, ma il suo imbarazzo era evidente. Arya e Wyrden spostarono la grata e si addentrarono con cautela nel cunicolo. Accesero tutti e due dei fuochi fatui. Le sfere galleggiarono sopra le loro teste come piccoli soli rossi, benché non producessero più luce di una manciata di braci. Eragon rimase indietro e domandò ad Angela: «Come mai gli elfi ti trattano con tanto riguardo? Sembrano quasi intimoriti.» «Perché, non merito forse rispetto?» Eragon esitò. «Sai, prima o poi dovrai rivelarmi chi sei davvero.» «E perché, di grazia?» Lo spinse di lato per passare ed entrò nella galleria. Le pieghe del suo mantello oscillavano come le ali di un Lethrblaka. Eragon scosse il capo e la seguì. La minuta erborista non dovette chinarsi molto per evitare di urtare la testa contro il soffitto, ma Eragon e i due elfi erano ingobbiti come vecchi afflitti dai reumatismi. Il cunicolo era deserto; il pavimento era ricoperto da un sottile strato di sporcizia incrostata. Vicino all’ingresso c’erano rami sparpagliati, sassi e persino una muta di serpente. Nell’aria aleggiava un odore di paglia bagnata e muffa. Eragon e i suoi compagni camminavano facendo meno rumore possibile, ma la galleria amplificava i suoni. Ogni colpo o scricchiolio riecheggiava tra le pareti: l’aria si riempiva

di decine di sussurri, come un coro dotato di vita propria. A Eragon parve di essere circondato da una schiera di fantasmi che commentavano ogni loro mossa. E ora possiamo dire addio all’effetto sorpresa, pensò quando urtò lo stivale contro un sasso con uno schiocco secco che rimbalzò tra le pareti e riverberò forte nella galleria. «Scusate» mormorò quando tutti si girarono a guardarlo. Un sorriso beffardo gli increspò le labbra. Almeno ora sappiamo cos’erano quei suoni inquietanti sotto Dras-Leona. Doveva dirlo a Jeod una volta tornati all’accampamento. Dopo aver percorso un bel tratto del cunicolo, Eragon si fermò e si voltò: l’ingresso del tunnel era già immerso nelle tenebre. L’oscurità era palpabile, come un pesante drappo calato sul mondo e, sommata alle pareti strettissime e al soffitto basso, faceva sentire Eragon senz’aria, in trappola. Di norma il Cavaliere non soffriva negli spazi chiusi, ma quel luogo gli ricordava il labirinto di passaggi sconnessi all’interno dell’Helgrind, dove insieme a Roran aveva affrontato i Ra’zac: non precisamente un ricordo piacevole. Trasse un respiro profondo. Stava per riprendere il cammino quando scorse il lampo di due grandi occhi che brillavano nel buio come pietre di luna ramate. Afferrò Brisingr e l’aveva già quasi sguainata quando Solembum emerse dall’oscurità a passi felpati. Il gatto mannaro si fermò sul bordo del cono di luce. Mosse di scatto le orecchie, guardandolo sornione. Eragon si tranquillizzò e gli rivolse un cenno del capo. Dovevo immaginarlo. Dove andava Angela, arrivava puntuale anche Solembum. Ancora una volta Eragon si interrogò sul passato dell’erborista: Come avrà fatto a conquistarsi anche la sua lealtà? Un attimo dopo, dato che il resto del gruppo aveva continuato a procedere tenendo davanti a sé i fuochi fatui, le tenebre tornarono a inghiottire Solembum. Confortato dal pensiero che il gatto mannaro gli guardava le spalle, il Cavaliere si affrettò a raggiungere gli altri. Prima che il gruppetto lasciasse l’accampamento, la signora dei Varden li aveva aggiornati sul numero di soldati che avrebbero trovato in città e sulle loro postazioni, mansioni e abitudini. Aveva anche fornito dettagli sugli alloggi di Murtagh e su che cosa mangiava, specificando persino di che umore fosse la sera prima. Le informazioni erano state fin troppo esaustive. Quando gli altri le avevano chiesto spiegazioni in merito, lei aveva risposto sorridendo che i gatti mannari erano diventati le sue spie dentro le mura di DrasLeona fin dall’arrivo dei Varden. Nel momento in cui Eragon e gli altri fossero riemersi all’interno della città, i gatti mannari li avrebbero scortati fino ai cancelli meridionali cercando per quanto possibile di rimanere nell’ombra per non rivelare la propria presenza all’Impero: in caso contrario non sarebbero più stati in grado di ragguagliare Nasuada con la stessa precisione. Chi mai avrebbe sospettato che il grosso gatto sornione a zonzo per il quartiere fosse una spia nemica? Ripensando all’incontro con Nasuada, a Eragon venne in mente che Murtagh era sensibilmente più vulnerabile quando accusava la carenza di sonno. Se non lo catturiamo o uccidiamo oggi, potrebbe essere utile trovare un modo per svegliarlo nel cuore della notte, anche per qualche giorno di seguito. Basterà meno di una settimana senza che possa farsi una bella dormita e non sarà in condizioni di combattere.

Proseguirono il cammino lungo il cunicolo, che correva diritto come un fuso. A Eragon sembrava che la galleria procedesse in lieve salita – il che aveva senso, essendo stata progettata come canale di scolo –, ma non ne era del tutto sicuro. Dopo un po’ la sporcizia sul pavimento iniziò ad ammorbidirsi e ad appiccicarsi alle suole come argilla bagnata. Di tanto in tanto dal soffitto cadevano gocce d’acqua, che gli si infilavano sotto la tunica e scendevano lungo la sua schiena come gelide carezze. Eragon scivolò su un mucchio di fango e allungando una mano per tenersi in equilibrio sfiorò la parete del cunicolo: era coperta di melma. Non sapeva dire da quanto tempo stavano camminando. Poteva essere un’ora, dieci, o magari solo qualche minuto. In ogni caso, a forza di stare chino aveva male al collo e alla schiena, ed era stufo di vedere intorno a sé sempre e solo pietra. A un certo punto l’effetto eco che li aveva accompagnati lungo tutto il tunnel scemò, e poco dopo sbucarono in un’ampia stanza rettangolare. Aveva il soffitto a mezza cupola, scanalato, e il suo punto più alto misurava all’incirca una quindicina di piedi. Era vuota, a parte i resti di un barile accatastati in un angolo. Di fronte a loro si aprivano tre passaggi ad arco identici, affacciati su altrettante camere uguali, piccole e buie. Non si riusciva a vedere se conducessero da qualche parte. Il gruppo si fermò ed Eragon si stiracchiò, allungando la schiena e i muscoli indolenziti. «Non credo che questa stanza facesse parte del progetto di Erst Barbagrigia» dichiarò Arya. «Quale dei tre passaggi prendiamo?» chiese Wyrden. «Non è ovvio?» ribatté l’erborista. «Quello a sinistra. È sempre quello a sinistra.» Così dicendo si incamminò verso l’arco prescelto. Eragon non poté trattenersi. «A sinistra rispetto a cosa? Perché venendo in senso opposto la sinistra...» «La sinistra sarebbe destra e la destra sinistra, sì, sì» lo interruppe Angela. Con gli occhi ridotti a due fessure aggiunse: «A volte sei troppo sveglio per i miei gusti, Ammazzaspettri... Va bene, faremo a modo tuo. Ma quando ci ritroveremo a vagare qui sotto fino alla fine dei nostri giorni non venire a dirmi che non ti avevo avvertito.» In realtà Eragon avrebbe preferito prendere la via centrale, che gli sembrava la più probabile per raggiungere la superficie, ma non voleva discutere con l’erborista. Troveremo comunque le scale in fretta, pensò. Quante stanze potranno mai esserci sotto Dras-Leona? Tenendo in alto il suo globo di luce, Angela fece strada. Wyrden e Arya la seguirono ed Eragon chiuse la fila. La stanza dietro l’arco di destra era più ampia di quanto non sembrasse all’inizio: si estendeva lateralmente per venti piedi, poi curvava e proseguiva per qualche altra iarda, terminando in un corridoio fiancheggiato da torce spente. In fondo a esso c’era un altro piccolo locale delimitato da tre archi: ciascuno si affacciava su una sala attraversata da archi, che si aprivano su altri corridoi, che conducevano ad altri archi... Chi li ha costruiti, e perché?, si domandò Eragon, sconcertato. Tutte le stanze che attraversavano erano vuote, senza mobili. Le uniche cose che trovarono furono un paio di sgabelli a due gambe, che andarono in pezzi quando Eragon li toccò con la punta dello stivale, e mucchi di cocci di ceramica accatastati in un angolo e ricoperti di ragnatele.

Angela non mostrò mai alcuna esitazione circa la strada da prendere, scegliendo sempre il corridoio a destra. Eragon avrebbe voluto obiettare, ma non aveva alcuna valida alternativa da offrire. L’erborista si fermò quando raggiunsero una sala circolare con sette passaggi ad arco – incluso quello da cui erano sbucati – distribuiti lungo le pareti, tutti alla stessa distanza l’uno dall’altro. Ciascuno si apriva su un corridoio. «Segna l’arco da cui siamo arrivati, o ci perderemo del tutto» disse Arya. Eragon si avvicinò all’arco e tracciò un segno sulla parete con la punta della guardia crociata di Brisingr. Ne approfittò per scrutare nel passaggio oscuro alla ricerca di Solembum, ma non scorse nemmeno una vibrissa. Sperò che il gatto non si fosse perso in qualche cunicolo di quel labirinto. Per un attimo pensò di raggiungere il felino con la mente, ma si trattenne: se fosse stato intercettato avrebbe rivelato la loro posizione all’Impero. «Ah!» esclamò Angela, e in punta di piedi alzò il fuoco fatuo più che poteva: le ombre intorno a Eragon si dispersero. Il Cavaliere raggiunse di corsa il centro della sala, dove si trovavano i suoi compagni. «Che succede?» bisbigliò. «Il soffitto, Eragon» mormorò Arya. «Guarda il soffitto.» Il Cavaliere alzò lo sguardo ma non vide altro che blocchi di pietra consumata coperti di muffa, così crepati che era un miracolo che fossero ancora al loro posto. Poi però si concentrò meglio: e rimase senza fiato. Quei segni non erano crepe, ma rune incise nella pietra. Intere file di rune. La scrittura era piccola e ordinata, con tratti marcati e lineari. I secoli e la muffa avevano in parte cancellato il testo, ma si riusciva ancora a leggerlo quasi tutto. Eragon studiò le rune per un po’ ma fu in grado di decifrare solo alcune parole, per di più scritte in maniera diversa da come le conosceva. «Cosa dicono?» domandò. «È la lingua dei nani?» «No» rispose Wyrden. «È la lingua della tua razza com’era tanto tempo fa, e nel dialetto del vate Tosk.» Eragon ricordava quel nome. «Quando io e Roran abbiamo salvato Katrina, abbiamo sentito i sacerdoti dell’Helgrind accennare a un libro di Tosk.» Wyrden annuì. «È il libro sacro della loro religione. Tosk non fu il primo a rivolgere preghiere all’Helgrind, ma fu il primo a codificare le proprie credenze e i propri rituali. Da allora molti hanno seguito il suo esempio. Coloro che venerano l’Helgrind lo considerano un profeta della divinità. E questa» aggiunse l’elfo allargando le braccia «è la storia di Tosk, dalla nascita fino alla morte: è una storia vera, custodita dai suoi discepoli e mai diffusa al di fuori della setta.» «Potrebbe rivelarci molte cose» disse Angela senza allontanare lo sguardo dal soffitto. «Se solo avessimo il tempo...» Eragon era stupito di vederla così rapita. Arya scoccò un’occhiata ai sette corridoi. «Possiamo concederci un momento, però leggete in fretta.»

Mentre Angela e Wyrden esaminavano le rune con avidità febbrile, Arya si avvicinò a uno degli archi e intonò a bassa voce un incantesimo di ricerca. Quando ebbe terminato rimase in attesa per un istante con il capo inclinato, poi si spostò verso l’arco successivo. Eragon fissò le rune ancora un po’, poi tornò all’ingresso del passaggio dal quale erano arrivati e si appoggiò alla parete. Il freddo delle pietre gli si insinuò nelle ossa. Arya raggiunse il quarto arco. Il ritmo ormai familiare della sua litania crebbe e si spense come una leggera folata di vento. Ancora niente. Sentendosi solleticare il dorso della mano destra, Eragon abbassò lo sguardo e scoprì di avere un enorme grillo aggrappato al guanto. Era orrendo: tozzo e nero, con zampe dentellate e una grossa testa a forma di teschio. La corazza riluceva come se fosse unta. Rabbrividendo, Eragon scrollò il braccio e lanciò il grillo nelle tenebre. L’insetto atterrò con un tonfo. L’incantesimo sul quinto corridoio si rilevò infruttuoso al pari degli altri quattro. Arya oltrepassò l’arco a cui era appoggiato Eragon e si fermò di fronte al settimo. Prima che potesse aprire bocca un verso gutturale riecheggiò tra i corridoi: rimbombò così forte nella sala che parve giungere da ogni direzione. Subito dopo Eragon sentì dei soffi, dei sibili e infine un miagolio che gli fece accapponare la pelle. Angela si voltò di scatto: «Solembum!» I quattro sguainarono le armi all’unisono. Eragon arretrò fino al centro della sala, facendo saettare lo sguardo da un arco all’altro. Il gedwëy ignasia prudeva e pizzicava come il morso di una pulce: un avvertimento inutile, dato che non gli indicava quale fosse il pericolo né da dove arrivasse. «Da questa parte» li esortò Arya indicando il settimo arco. L’erborista non si mosse. «No!» bisbigliò con veemenza. «Dobbiamo aiutarlo.» Eragon si accorse che impugnava una spada corta: la lama incolore splendeva nella luce come un diamante. Arya si accigliò. «Se Murtagh scopre che siamo qui...» Accadde tutto talmente in fretta e nel massimo silenzio che Eragon non si sarebbe accorto di nulla se per puro caso non avesse guardato proprio nella giusta direzione: lungo le pareti di tre diversi corridoi si spalancarono all’improvviso cinque o sei porte nascoste da cui sbucarono una trentina di uomini, tutti vestiti di nero e armati di spada. «Letta!» gridò Wyrden. Parecchi guerrieri si urtarono a vicenda, come se quelli che li precedevano fossero andati a sbattere contro un muro invisibile. Ma alcuni si avventarono contro di loro e non ci fu più tempo per la magia. Eragon schivò con facilità un fendente e tranciò di netto la testa dell’aggressore. Come i suoi compagni, l’uomo aveva il volto coperto da un fazzoletto nero, che lasciava scoperti solo gli occhi; il tessuto svolazzò quando il capo ruzzolò a terra. Eragon ne fu sollevato: per un momento aveva temuto che gli avversari fossero protetti da incantesimi o armature o, peggio ancora, che non fossero umani.

Infilzò un secondo nemico tra le costole e si voltò per fronteggiarne altri quando una spada sbucata dal nulla tagliò l’aria, diritta verso la sua gola. Gli incantesimi di protezione lo salvarono da morte certa, ma quando si ritrovò la lama a un palmo dal collo Eragon non riuscì a evitare di inciampare all’indietro. Con suo sommo stupore, scoprì che l’uomo che aveva trafitto era ancora in piedi: il sangue gli colava lungo il fianco e sembrava del tutto indifferente alla ferita che Eragon gli aveva procurato. Il Cavaliere impallidì per il terrore. «Non sentono il dolore» gridò, e si affannò a respingere un triplice attacco. Non sapeva se gli altri l’avessero sentito, perché non arrivò nessuna risposta. Non sprecò altro tempo a parlare e si concentrò sul combattimento, certo che i compagni gli avrebbero coperto le spalle. Eragon affondò, parò e schivò le stoccate nemiche mulinando Brisingr come una frusta. In condizioni normali avrebbe potuto uccidere quegli uomini senza troppa fatica; il fatto che fossero immuni al dolore, tuttavia, lo obbligava a decapitarli o a trapassare loro il cuore per essere certo di averli finiti, o a colpirli finché non perdevano i sensi per le emorragie. In tutti gli altri casi gli aggressori continuavano ad attaccarlo, incuranti delle ferite. I nemici erano così tanti che era difficile riuscire a evitare tutti gli assalti e contrattaccare. Avrebbe potuto lasciare che a sventare i fendenti fossero i suoi incantesimi di protezione, ma la magia lo avrebbe spossato tanto quanto brandire Brisingr. Non potendo prevedere quando le sue difese si sarebbero esaurite – prima o poi doveva succedere, altrimenti lo avrebbero ucciso – e sapendo che in seguito avrebbe dovuto necessariamente farvi ricorso, combatté con la massima attenzione, parando gli attacchi nemici come se non fosse protetto da alcun intervento sovrannaturale. Dalle porte segrete sbucarono altri guerrieri in nero. Circondarono Eragon, e la loro superiorità numerica lo costrinse ad arretrare. Si sentì afferrare per le braccia e per le gambe: stavano cercando di immobilizzarlo. «Kverst» sibilò Eragon, pronunciando una delle dodici parole di morte che Oromis gli aveva insegnato. Come si aspettava, la formula non ebbe alcun effetto su quegli uomini: erano protetti dagli attacchi magici diretti. Optò per un incantesimo che Murtagh una volta aveva usato contro di lui: «Thrysta vindr!» Era una strategia insolita, dato che il sortilegio non mirava a colpire gli uomini ma a spingerli via sfruttando una forte corrente d’aria. In ogni caso funzionò. Un turbine di vento si levò nella stanza, agitando i capelli e il mantello di Eragon; gli uomini che gli erano addosso furono scaraventati a dieci passi di distanza e rovinarono sui compagni. Il Cavaliere sentì le forze calare di colpo, ma non al punto di non poter più combattere. Si voltò per vedere come se la cavavano gli altri. Non era l’unico ad aver trovato un modo per aggirare le difese degli aggressori: Wyrden scagliava lampi di luce contro chiunque gli si avventasse contro, imprigionando i malcapitati in una morsa scintillante. Le spirali di energia sembravano quasi formare delle gabbie liquide attorno alle loro vittime. Ma altri uomini continuavano a riversarsi nella stanza. «Da questa parte!» gridò Arya correndo verso il settimo corridoio, quello che non era riuscita a esaminare prima dell’imboscata.

Wyrden ed Eragon la seguirono; Angela era dietro di loro di qualche passo, zoppicante e ferita a una spalla. Gli uomini in nero esitarono per un istante, poi si lanciarono alla carica con un grido di battaglia. Mentre raggiungeva l’arco, Eragon si sforzò di escogitare una variante del suo precedente incantesimo, che uccidesse i nemici anziché limitarsi a scaraventarli lontano. Ne ideò uno in fretta e si preparò a usarlo non appena gli uomini si fossero raggruppati. Chi sono?, si domandò. E quanti sono? Più avanti lungo il corridoio intravvide un’uscita da cui filtrava una pallida luce violacea. Si stava chiedendo preoccupato quale ne fosse l’origine quando Angela urlò alle sue spalle. Nel corridoio esplose un lampo arancione, seguito da uno stridio assordante, e un gran puzzo di zolfo appestò l’aria. Eragon si girò di scatto: cinque uomini trascinavano via l’erborista attraverso una porta comparsa all’improvviso su un lato del corridoio. «No!» gridò, ma prima di riuscire a bloccarla, la porta si richiuse silenziosa come si era aperta, e la parete tornò liscia, senza fessure. «Brisingr!» urlò, e la spada prese fuoco. Posò la punta contro il muro e cercò di trapassare la roccia nel tentativo di aprire la porta nascosta. Tuttavia la parete era spessa e ci metteva troppo tempo a liquefarsi; ben presto Eragon comprese che l’operazione gli sarebbe costata molta più energia di quanta fosse in condizione di spenderne. Arya comparve al suo fianco, posò una mano nel punto in cui si trovava la porta e mormorò: «Ládrin.» Apriti. La porta non obbedì all’ordine, ma Eragon si vergognò di non averci pensato lui per primo. Nel frattempo i nemici li avevano raggiunti. Eragon voleva usare l’incantesimo che aveva inventato, ma il corridoio era così stretto che riuscivano a passarci soltanto due uomini per volta: in tali condizioni non sarebbe riuscito a ucciderne di più, dato che non poteva vederli. Decise che era meglio serbare quella formula per un’occasione più propizia. Lui e Arya decapitarono i primi due avversari e passarono alla coppia successiva. Eliminarono sei uomini in rapida successione, ma gli aggressori sembravano non finire mai. «Di qua!» urlò Wyrden. «Stenr, slauta!» gridò Arya. Le rocce del corridoio nel raggio di qualche iarda esplosero all’improvviso. Gli uomini in nero barcollarono e si accovacciarono sotto la pioggia di detriti; molti caddero a terra, inerti. Eragon e Arya si voltarono e raggiunsero Wyrden, che aveva quasi guadagnato l’uscita in fondo al corridoio. L’elfo era a soli trenta passi dall’apertura. Poi i passi divennero dieci. Poi cinque. E infine da numerosi fori nel soffitto e nel pavimento uscirono di scatto spuntoni d’ametista che intrappolarono Wyrden nel mezzo. L’elfo pareva essere sospeso al centro del corridoio: le punte acuminate erano a meno di un pollice dalla sua pelle e le difese magiche lo proteggevano dalle punte aguzze. All’improvviso ogni spuntone fu percorso da una scarica di energia: le estremità affilate come aghi brillarono di una luce accecante e con un orribile stridio lo trafissero. Wyrden urlò e si contorse; il suo globo di luce si spense, e l’elfo giacque immobile.

Eragon fissò la scena incredulo, incespicando fino a un passo dagli spuntoni. In tutte le battaglie a cui aveva preso parte non aveva mai assistito alla morte di un elfo. Aveva sempre pensato che Wyrden, Blödhgarm e il resto della loro coorte fossero così abili che sarebbero potuti morire solo per mano di Galbatorix o di Murtagh. Arya parve altrettanto sconvolta, ma si ricompose in fretta. «Eragon» lo esortò, «crea un passaggio con Brisingr.» Eragon capì immediatamente che cosa intendeva l’elfa: la sua spada, al contrario di quella di Arya, sarebbe stata immune a qualunque diabolica magia contenuta in quegli spuntoni. Fece roteare Brisingr e la abbatté con tutta la sua forza sulle sporgenze aguzze, frantumandone alcune. Spaccandosi, l’ametista rintoccò come una campana e i frammenti tintinnarono al suolo come pezzi di ghiaccio. Eragon si tenne sulla destra del corridoio, facendo in modo di non sfiorare gli spuntoni insanguinati che imprigionavano il corpo di Wyrden. Continuò a far mulinare Brisingr aprendosi una strada attraverso la trappola scintillante. Ogni colpo faceva volare in aria schegge di ametista; una lo colpì alla guancia ed Eragon trasalì, stupito e preoccupato che le sue difese non avessero funzionato. Si mosse con cautela, attento a evitare i bordi frastagliati degli spuntoni spezzati. Quelli in basso potevano trapassargli gli stivali con facilità, quelli in alto lacerargli la testa e il collo. Alla fine riuscì a raggiungere l’altro lato della barriera solo con un altro piccolo taglio sul polpaccio destro; per quanto minuscolo, pulsava ogni volta che Eragon caricava il peso sulla gamba. Gli uomini in nero li avevano quasi raggiunti nel momento in cui Eragon aiutò Arya a superare le ultime file di spuntoni. Non appena furono al sicuro corsero verso l’uscita e la luce violacea; Eragon avrebbe voluto voltarsi e affrontare i loro aggressori per ucciderli tutti e vendicare la morte di Wyrden, ma non era possibile. Dietro il passaggio si celava una sala buia e imponente che gli ricordò le caverne sotto Tronjheim. Al centro del pavimento c’era un cerchio di pietre intarsiate: marmo, calcedonio e lucida ematite. Il disco era incorniciato da un anello di ametiste grandi quanto un pugno, incastonate in colletti d’argento. Le pietre emettevano un lieve, misterioso bagliore. Al di là del disco intarsiato, addossato alla parete in fondo, c’era un grande altare nero coperto da un drappo dorato e cremisi. Pilastri e candelabri fiancheggiavano l’altare, che aveva una porta chiusa su ciascun lato. Eragon vide tutto questo mentre piombava nella stanza, un istante prima di comprendere che nell’impeto del momento stava finendo dritto in mezzo al cerchio di ametiste. Cercò di fermarsi, di scartare di lato, ma andava troppo veloce. Con la forza della disperazione fece l’unica cosa possibile: saltò verso l’altare, sperando di riuscire a oltrepassare il disco con un solo balzo. Passò sopra la prima pietra di ametista: l’ultima sensazione che provò fu di rimpianto, e il suo pensiero corse a Saphira.

PER NUTRIRE UN DIO La prima cosa che Eragon notò fu che i colori gli sembravano diversi. I blocchi di pietra sul soffitto erano più scuri e massicci. Dettagli che prima gli erano parsi insignificanti ora risaltavano, mentre altri che erano vividi erano privi di forza. La ricchezza del disco intarsiato spiccava ancora di più. Gli ci volle un attimo per capire la ragione del cambiamento: la stanza non era più illuminata dal rosso fuoco fatuo di Arya. Le uniche fonti di luce erano il bagliore tenue dei cristalli e le fiammelle dei candelabri. Solo allora si accorse di avere un oggetto nella bocca, così grosso che lo costringeva a spalancare le mascelle tanto da fargli male. Una catena stretta ai polsi lo teneva appeso al soffitto e quando cercò di muoversi scoprì che gli avevano fissato le caviglie al pavimento con anelli di metallo. Ruotò su se stesso e vide Arya accanto a lui: l’elfa era appesa e imprigionata nello stesso modo. Anche lei aveva un panno appallottolato in bocca, bloccato da uno straccio legato intorno alla testa. Era rinvenuta e lo guardava con sollievo. Perché non è già fuggita?, si domandò. Che cosa è successo? Faceva fatica a pensare e a concentrarsi, come se fosse ebbro di stanchezza. Guardò in basso e vide che non aveva più le armi né la cotta di maglia. Indossava solo i pantaloni. La cintura di Beloth il Savio era sparita, così come la collana che gli avevano donato i nani e che impediva a chiunque di divinarlo. Poi si guardò la mano e scoprì che anche l’anello elfico Aren era scomparso. Si sentì travolgere da un’ondata di panico, ma poi si consolò pensando che aveva ancora la magia e quindi non era del tutto indifeso. A causa del bavaglio, però, non avrebbe potuto pronunciare gli incantesimi, e questo rendeva l’operazione più pericolosa, perché se mentre formulava il sortilegio si fosse intromesso qualche pensiero errante avrebbe potuto sbagliare le parole. D’altra parte evocare un incantesimo senza usare l’antica lingua sarebbe stato ancora più rischioso. E poi sarebbe bastata una piccola quantità di energia per liberarsi: Eragon era sicuro di farcela. Chiuse gli occhi e raccolse le energie. A quel punto Arya agitò con forza la catena ed emise dei versi soffocati. Eragon la guardò: l’elfa gli stava facendo cenno di no. Inarcò le sopracciglia, come per chiederle: Che cosa c’è? Arya però non riusciva a fare altro se non mugolare e scuotere il capo. Frustrato, Eragon provò con cautela a raggiungerla con la mente, attento al minimo segnale di intrusione esterna, e con sgomento percepì intorno a sé soltanto una lieve e vaga pressione, come se la sua mente fosse avvolta da una coperta di lana. Per quanto si sforzasse di rimanere calmo, l’angoscia cominciò ad attanagliarlo. Non l’avevano drogato – di questo era certo –, ma non sapeva che cos’altro potesse impedirgli di raggiungere la mente di Arya. Se si trattava di una magia, gli era

sconosciuta. Lui e Arya si fissarono per un momento, poi Eragon colse un movimento con la coda dell’occhio e levò lo sguardo: rivoli di sangue le scorrevano lungo le braccia dai polsi escoriati dalle manette. In un impeto di rabbia, afferrò la catena sopra di lui e la strattonò con tutta la forza che aveva in corpo. I ganci resistettero, ma lui non si arrese. Accecato dall’ira, continuò a tirare con violenza, incurante delle ferite che si stava procurando. Alla fine fu costretto ad arrendersi e si abbandonò, esausto; sangue caldo gli sgorgava dai polsi e gli colava lungo il collo e la schiena. Deciso a liberarsi, si immerse ancora di più nel flusso di energia del proprio corpo e lanciò l’incantesimo contro le manette con un grido mentale: Kverst malmr du huildrs edtha, mar frëma né thön eka threyja! Si ritrovò a urlare nel bavaglio e sentì bruciare ogni fibra del suo corpo. Il dolore interruppe la concentrazione e l’incantesimo si spezzò. Le fitte svanirono all’istante ma Eragon rimase senza fiato, con il cuore che batteva all’impazzata, come se si fosse appena lanciato da una scogliera. Era un dolore simile a quello che aveva provato alla schiena prima dell’Agaetí Blödhren, quando i draghi gli avevano guarito la cicatrice. Lentamente il suo respiro tornò regolare. Eragon si accorse che Arya lo fissava preoccupata. Anche lei deve aver tentato un incantesimo. Poi pensò: Com’è potuto succedere? Lui e Arya legati e indifesi, Wyrden morto, l’erborista catturata o uccisa, e Solembum... Con tutta probabilità il gatto mannaro giaceva ferito da qualche parte nel labirinto sotterraneo, sempre che gli uomini in nero non lo avessero già eliminato. Eragon non riusciva a capacitarsene. La loro squadra era composta di elementi esperti e temibili come pochi altri in Alagaësia, eppure avevano fallito. E lui e Arya erano alla mercé dei loro nemici. Se non riusciamo a fuggire... Scacciò all’istante il pensiero. Avrebbe voluto cercare Saphira, anche solo per assicurarsi che fosse sana e salva e trarre conforto dalla sua compagnia. Anche se Arya era accanto a lui, si sentiva solo come non mai: ed era proprio questa la cosa che più lo atterriva. Ignorando le fitte lancinanti ai polsi, riprese a strattonare la catena, convinto che insistendo sarebbe riuscito a sradicarla dal soffitto. Provò ad attorcigliarla, pensando che sarebbe stato più semplice spezzarla, ma i ceppi a cui erano assicurate le caviglie gli impedivano di muoversi come avrebbe voluto. Alla fine le ferite ai polsi lo costrinsero a fermarsi. Bruciavano come il fuoco ed Eragon temeva che a lungo andare si sarebbe lacerato anche il muscolo. E poi rischiava di aggravare l’emorragia: aveva già perso molto sangue e chissà per quanto ancora lui e Arya sarebbero rimasti lì ad aspettare. Non sapeva da quanto tempo erano legati, ma dovevano essere al massimo un paio d’ore, dato che non aveva fame né sete, e che non si sentiva troppo indolenzito. Non sarebbe stato così per sempre, comunque, e presto il disagio sarebbe aumentato. Il dolore ai polsi faceva sembrare ciascun minuto lungo un’eternità. Ogni tanto Eragon e Arya si scambiavano un’occhiata e cercavano di comunicare, senza risultati. In un paio di occasioni Eragon approfittò dell’arresto temporaneo dell’emorragia per strattonare ancora la catena, ma invano. Perlopiù lui e Arya si limitarono a resistere.

Quando ormai pensava che non sarebbe arrivato nessuno, udì rimbombare tra le gallerie il tintinnio metallico di pesanti campane. Le porte ai lati dell’altare si spalancarono in silenzio. Eragon e Arya rimasero a fissarle in attesa. Trascorse un minuto interminabile. Alla fine le campane emisero un altro rintocco assordante che scatenò un’ondata di echi in tutta la stanza. Tre novizi varcarono la soglia: erano giovani, avvolti in vesti dorate; ciascuno portava un piccolo telaio di metallo da cui pendevano delle campane. Li seguiva un gruppo di ventiquattro persone, sia uomini sia donne, tutti senza almeno un arto. Al contrario dei novizi, gli storpi indossavano indumenti di pelle scura, cuciti in modo da adattarsi alle menomazioni. Chiudevano il corteo sei schiavi dalla pelle lucida, cosparsa di olio, che trasportavano una lettiga su cui era adagiata una creatura senza braccia, senza gambe, senza denti e senza indizi che permettessero di capire se era uomo o donna: il Sommo Sacerdote dell’Helgrind. Sul capo portava una cresta di cuoio alta tre piedi, che lo faceva sembrare ancora più deforme. I sacerdoti e i novizi si disposero tutti intorno al disco intarsiato sul pavimento mentre gli schiavi posavano con delicatezza la lettiga sull’altare. I tre perfetti, bellissimi giovani suonarono ancora una volta le campane in una cacofonia di rintocchi discordanti, e i sacerdoti vestiti di pelle recitarono una breve strofa, così in fretta che Eragon non distinse le parole, anche se riconobbe la tipica cadenza delle formule di un rituale. Nel fiume di parole riuscì a cogliere i nomi dei tre picchi dell’Helgrind: Gorm, Ilda e Angvara il Crudele. Il Sommo Sacerdote si voltò e posò su Eragon e Arya lo sguardo di ossidiana. «Benvenuti nelle sale di Tosk» esordì, ma la bocca avvizzita distorceva le parole. «Questa è la seconda volta che profani i nostri sacri luoghi, Cavaliere dei Draghi. Non avrai l’opportunità di farlo ancora. Galbatorix vorrebbe che vi risparmiassimo e vi mandassimo a Urû’baen. Crede che potrà obbligarvi a servirlo. Sogna di restaurare l’ordine dei Cavalieri e di riportare in vita la razza dei draghi. Io ritengo che sia una folle utopia. Voi siete troppo pericolosi e non vogliamo vedere i draghi risorgere. Si crede che noi veneriamo l’Helgrind, ma è una bugia creata ad arte per celare la vera natura del nostro credo. Non è l’Helgrind che adoriamo, ma gli Antichi che vi hanno costruito i loro rifugi, ai quali offriamo in sacrificio la nostra stessa carne. I Ra’zac sono i nostri dei, Cavaliere dei Draghi, i Ra’zac e i Lethrblaka.» Il terrore si impossessò di Eragon insinuandosi nelle sue membra come un potente veleno. Il Sommo Sacerdote sputò verso di lui e la saliva gli colò dal labbro pendulo. «Non esiste tortura abbastanza orribile per il crimine di cui ti sei macchiato, Cavaliere. Tu hai ucciso i nostri dei, tu e il tuo maledetto drago. Per questo devi morire.» Eragon lottò con le catene e provò a urlare nonostante il bavaglio. Se avesse avuto la bocca scoperta avrebbe cercato di guadagnare tempo, magari facendo leva sulle ultime parole dei Ra’zac, o minacciandoli con la prospettiva della vendetta di Saphira. Ma i loro carcerieri non mostrarono la minima intenzione di rimuovere i bavagli. Il Sommo Sacerdote gli rivolse il più inquietante dei sorrisi. «Non riuscirai a fuggire, Cavaliere. I cristalli sono stati stregati per intrappolare chiunque tenti di violare il nostro tempio o di rubare i nostri tesori, e nemmeno tu puoi opporti all’incantesimo. Nessuno verrà in tuo soccorso. Due tuoi compagni sono morti, sì, anche quella spregevole strega, e Murtagh non sa che sei qui. È giunta la tua ultima ora, Eragon Ammazzaspettri.» Il

Sommo Sacerdote rovesciò il capo all’indietro e dalla gola gli uscì un suono macabro e gorgogliante. In quel momento quattro schiavi a torso nudo fecero il loro ingresso dalla porta alla sinistra dell’altare. Trasportavano sulle spalle un vassoio con due larghi supporti rotondi. Su ognuno di loro era adagiato un oggetto ovale poroso come arenaria, lungo più di un piede e largo mezzo, di un colore tra il blu e il nero. A Eragon parve che il tempo rallentasse. Non possono essere..., pensò. No, l’uovo di Saphira era liscio e venato come marmo. Qualunque cosa fossero, non erano uova di drago. Le possibili alternative tuttavia lo terrorizzarono ancora di più. «Dal momento che gli Antichi sono morti per mano tua» disse il Sommo Sacerdote, «è più che giusto che sia tu il tramite della loro rinascita. Non meriti un simile onore, ma gli Antichi ne saranno compiaciuti, e noi cerchiamo di soddisfare i loro desideri in tutto e per tutto. Siamo servi fedeli e loro sono i nostri padroni, crudeli e implacabili. Gli dei a tre facce: cacciatori di uomini, divoratori di carne e bevitori di sangue. A loro offriamo i nostri corpi, sperando nella rivelazione dei misteri di questa vita e nell’assoluzione per le nostre mancanze. Come Tosk scrisse, così sia.» I sacerdoti vestiti di pelle ripeterono all’unisono: «Come Tosk scrisse, così sia.» Il Sommo Sacerdote annuì. «Gli Antichi hanno sempre dimorato nell’Helgrind, ma ai tempi del padre di mio nonno, Galbatorix rubò le loro uova, ne uccise la progenie e li costrinse a giurargli fedeltà, minacciando di estinguere la loro specie per sempre. Scavò le caverne e i tunnel che gli Antichi continuano a usare da allora e a noi, i loro devoti seguaci, affidò le uova, affinché le custodissimo e le proteggessimo fino al momento opportuno. Così abbiamo fatto, e in modo ineccepibile. «Tuttavia preghiamo per la caduta di Galbatorix, poiché nessuno può permettersi di assoggettare gli Antichi. È un abominio.» La creatura deforme si leccò le labbra ed Eragon notò che parte della lingua era stata mozzata. «Ma desideriamo anche la tua morte, Cavaliere. I draghi erano i più grandi nemici degli Antichi. Eliminati loro e Galbatorix, nessuno potrà più impedire ai nostri padroni di banchettare dove e come desiderano.» Mentre il Sommo Sacerdote parlava, i quattro schiavi avanzarono e posarono con cautela il vassoio all’interno del cerchio, a pochi passi da Eragon e Arya. Terminato il compito, chinarono il capo e si ritirarono. «C’è forse onore più grande dello sfamare un dio con il midollo delle proprie ossa?» domandò il Sommo Sacerdote. «Rallegratevi, poiché quest’oggi riceverete la benedizione degli Antichi e grazie al vostro sacrificio monderete i vostri peccati: entrerete nell’aldilà puri come neonati.» Il Sommo Sacerdote e i suoi fedeli levarono il capo e intonarono uno strano canto con un accento che Eragon faticò a riconoscere. Poteva essere il dialetto di Tosk? Ogni tanto coglieva qualche parola nell’antica lingua, benché storpiata e usata in maniera impropria. La litania si concluse con un altro coro di «Come Tosk scrisse, così sia» e la grottesca congrega tacque. I tre novizi suonarono le campane in un parossismo di fervore religioso, con un fracasso da far tremare il soffitto. Senza smettere di suonare, il terzetto lasciò la stanza, seguito dai ventiquattro sacerdoti storpi; la processione si chiuse con il loro mutilato maestro trasportato sulla lettiga dai sei schiavi unti di olio.

La porta sbatté dietro di loro con un tonfo sordo, seguito da quello di una sbarra pesante che veniva calata per bloccarla. Eragon si voltò verso Arya e nei suoi occhi lesse pura disperazione: nessuno dei due aveva la minima idea di come fuggire. Guardò in alto e tirò la catena con tutta la forza che riuscì a raccogliere. Le lacerazioni ai polsi si riaprirono e ripresero a sanguinare. L’uovo sulla sinistra cominciò a dondolare avanti e indietro, e dall’interno giunse un ticchettio simile a piccoli colpi di martello. Eragon fu pervaso da un orrore profondo. Fra tutti i modi possibili in cui immaginava di morire, essere mangiato vivo da un Ra’zac era di gran lunga il peggiore. Strattonò la catena con nuova determinazione, mordendo il bavaglio per sopportare il supplizio alle braccia. La vista gli si annebbiò per il dolore. Anche Arya si contorceva e si dimenava: tutti e due lottavano in un silenzio di tomba per cercare di liberarsi. Il ticchettio all’interno dell’uovo continuò. È inutile, comprese Eragon. Le catene non si sarebbero spezzate. Nel momento stesso in cui accettò la realtà, si rese conto che lo attendevano altri tormenti, ben più terribili di quelli che già aveva sopportato. Non poteva evitarlo. Aveva però la possibilità di decidere se aspettare che fossero altri a imporglieli oppure scegliere da solo quali affrontare. Almeno devo salvare Arya. Studiò le fasce di metallo attorno ai polsi. Se riesco a spezzarmi i pollici potrei sfilare le mani. Così sarei ancora in grado di combattere, magari usando un frammento del guscio dei Ra’zac come coltello. Con un oggetto affilato avrebbe potuto liberarsi anche le gambe, ma il pensiero era così ripugnante che lo accantonò subito. Mi basterebbe strisciare fuori dal cerchio di pietre. A quel punto sarebbe riuscito a usare la magia e avrebbe potuto arrestare sia il dolore sia l’emorragia. Ci avrebbe messo pochi minuti, ma sapeva che sarebbero stati i più lunghi della sua vita. Trasse un profondo respiro e si preparò ad agire. Prima la mano sinistra. In quel momento Arya urlò. Eragon si voltò di scatto e lanciò un’imprecazione muta nel vedere le dita martoriate della mano destra dell’elfa. La pelle era rivoltata come un guanto verso le unghie e tra i muscoli cremisi si intravvedeva il bianco delle ossa. Arya si afflosciò e per un attimo parve perdere conoscenza, ma si riprese quasi subito e strattonò il braccio ancora una volta. Eragon gridò con lei quando la mano passò attraverso l’anello, strappando via pelle e carne. Il braccio dell’elfa ricadde lungo il fianco, e anche se Eragon non riusciva più a vederlo, c’era la pozza di sangue che si allargava sul pavimento a ricordargli cosa aveva appena fatto Arya. Gli occhi gli si riempirono di lacrime. La chiamò attraverso il bavaglio, ma lei non parve udirlo. Mentre l’elfa si preparava a ripetere l’operazione, la porta alla destra dell’altare si aprì e uno dei novizi in veste dorata entrò nella sala. Arya esitò, ma Eragon sapeva che al minimo accenno di pericolo avrebbe liberato anche l’altra mano.

Il giovane guardò l’elfa di sottecchi, poi si avvicinò con cautela al centro del cerchio, scoccando occhiate ansiose all’uovo che dondolava. Era esile, con occhi grandi e lineamenti delicati; Eragon intuì che aveva ottenuto quella posizione grazie al suo aspetto. «Ecco» bisbigliò il giovane. «Ho portato questi.» Estrasse dalla tunica una lima, uno scalpello e un maglio di legno. «Se vi aiuto, dovete portarmi con voi. Non posso stare qui un minuto di più, odio questo posto. È orribile! Promettetemi che mi porterete via!» Eragon annuì più volte prima ancora che lui finisse di parlare. Il ragazzo si mosse verso di lui, ma il Cavaliere grugnì indicando Arya con un cenno del capo. Il novizio ci mise alcuni secondi a capire. «Oh, certo» mormorò, e si avvicinò ad Arya. Era così lento che Eragon si ritrovò ad affondare i denti nel bavaglio per la rabbia. Lo strofinio ruvido della lima coprì il ticchettio che proveniva dall’uovo. Eragon osservò impaziente il loro salvatore inatteso che segava un tratto della catena sopra la mano destra di Arya . Basta che tagli un solo anello, idiota!, pensò schiumante di collera. Il ragazzo dava l’impressione di non aver mai usato una lima in vita sua ed Eragon dubitava che avesse la forza per tagliare anche solo una lamina di metallo. Mentre il novizio lavorava, Arya penzolava inerte, di tanto in tanto scossa da improvvisi tremori; i lunghi capelli le spiovevano sul viso e dalla mano ferita sgorgavano fiotti di sangue. Eragon si accorse con sgomento che la lima non riusciva nemmeno a intaccare il metallo. Qualunque magia proteggesse la catena, era troppo potente perché una semplice lima potesse spezzarla. Il novizio sbuffò deluso. Si fermò e si asciugò la fronte, poi si rimise all’opera con sguardo accigliato: aggredì la catena agitando i gomiti, con le maniche della tunica che sventolavano e il respiro affannato. Non capisci che non funziona?, pensò Eragon. Prova lo scalpello sui ceppi alle caviglie. Ma il giovane non poteva sentirlo e continuò imperterrito a usare la lima. Un rumore secco echeggiò nella sala ed Eragon si voltò verso l’uovo maculato: in cima era comparsa una fessura sottile, che si allargò in fretta creando una ragnatela di piccole crepe. A quel punto anche il secondo uovo cominciò a dondolare e dall’interno giunse un secondo ticchettio che si unì al primo dando vita a un ritmo ancora più angosciante. Il novizio impallidì, lasciò cadere a terra la lima e si ritrasse da Arya scuotendo il capo. «Mi dispiace... Mi dispiace. È troppo tardi.» Rughe profonde gli solcarono il volto. Si mise a piangere. «Mi dispiace.» Estrasse un pugnale dalla tunica ed Eragon si allarmò ulteriormente. «Non posso fare altro» disse, quasi tra sé e sé. «Nient’altro...» Tirò su col naso e si avvicinò a Eragon. «È la cosa migliore.» Mentre il giovane avanzava, Eragon strattonò le catene, cercando di liberare una mano. L’anello che aveva al polso però era troppo stretto e riuscì soltanto a scorticarsi ancora di più. «Mi dispiace» ripeté il novizio: si fermò davanti al Cavaliere e levò il pugnale. No!, gridò Eragon nella propria mente.

Un frammento di ametista scintillante sfrecciò fuori dal tunnel che lui e Arya avevano percorso per arrivare nella sala. Colpì alla nuca il giovane, che cadde addosso a Eragon. Il Cavaliere trasalì sentendo il bordo del pugnale scivolargli sul costato. Il novizio si accasciò a terra e rimase lì disteso, privo di sensi. Dai recessi della galleria emerse una sagoma sottile e zoppicante. Eragon cercò di capire chi fosse, ma fu solo quando la creatura entrò nel cono di luce che la riconobbe. Solembum. Fu travolto dal sollievo. Il gatto mannaro era nella sua forma umana, nudo tranne che per uno straccio che gli cingeva i lombi, con tutta probabilità un pezzo di tessuto strappato dalle vesti dei loro aggressori. Aveva i capelli arruffati e un ringhio ferino sulle labbra. Profondi tagli gli coprivano le braccia, l’orecchio sinistro pendeva mezzo strappato e gli mancava una striscia di pelle dal cuoio capelluto. In mano stringeva un pugnale macchiato di sangue. E dietro il gatto mannaro, a qualche passo di distanza, c’era Angela l’erborista.

INFEDELI IN FUGA «Che idiota» sentenziò Angela, precipitandosi sul bordo del disco intarsiato. Anche lei si era procurata graffi e tagli, e aveva i vestiti macchiati di sangue, ma Eragon sospettava che non fosse suo. A parte questo, sembrava illesa. «Bastava che facesse... così!» Levò la spada dalla lama trasparente e colpì forte con il pomolo una delle ametiste che circondavano il disco. Il cristallo andò in frantumi con un bizzarro schiocco simile a una scarica elettrica; il bagliore che emanava sfarfallò e poi si spense. Gli altri cristalli continuavano a irradiare luce. Senza fermarsi, Angela passò all’ametista successiva e la fracassò, quindi si concentrò sulla terza, e poi sulla quarta... Eragon non era mai stato così felice di vedere qualcuno. Guardava un po’ l’erborista e un po’ l’uovo: le crepe sul guscio si stavano moltiplicando. Il Ra’zac si apriva la via d’uscita a colpi di becco e sembrava che si fosse reso conto di avercela quasi fatta, perché squittiva e picchiettava più veloce. Eragon intravvide la testa dal becco adunco, orrida e mostruosa, spingere alla cieca contro la spessa membrana bianca che correva sotto il guscio nei punti in cui l’uovo si era crepato. Più in fretta, più in fretta, pensò Eragon quando un frammento di guscio grande quanto la sua mano si staccò dall’uovo e cadde sul pavimento con un rumore di terracotta che va in frantumi. La membrana si lacerò, e la testa del piccolo Ra’zac si affacciò dall’uovo; la creatura gracchiò trionfante mostrando l’ispida lingua violacea. Dal guscio gocciolava una bava melmosa, e un tanfo di muffa appestò la stanza. Eragon strattonò ancora una volta i ceppi, anche se sapeva che era inutile. Il Ra’zac gracchiò di nuovo e lottò per uscire dall’involucro. Riuscì a liberare una zampa artigliata, ma il suo movimento fece inclinare l’uovo, rovesciando sul disco intarsiato un denso liquido giallastro. Il grottesco pulcino giacque su un fianco per un istante, stordito. Poi si raddrizzò sulle zampe e rimase a dondolare indeciso, dibattendosi come un insetto agitato. Eragon fissava la scena sgomento e rapito insieme. Il Ra’zac aveva il petto crestato e pieno di sporgenze, come se le costole fossero state fuori e non dentro. Gli arti della creatura erano sottili e nodosi come rametti, e aveva la vita più stretta di quella di un essere umano. Ogni zampa esibiva due articolazioni, di cui una retroflessa: era un dettaglio che Eragon non aveva mai notato, ma che spiegava l’andatura inquietante dei Ra’zac. Il carapace sembrava morbido e malleabile, al contrario di quello dei Ra’zac adulti che Eragon aveva incontrato. Si sarebbe indurito presto, senza dubbio. Il Ra’zac inclinò la testa riflettendo la luce con i suoi enormi occhi privi di pupille e gorgheggiò come se avesse scoperto qualcosa di interessante. Fece un passetto stentato verso Arya, poi un altro, e poi un altro ancora, spalancando il becco mentre cercava di avvicinarsi alla pozza di sangue ai piedi dell’elfa. Eragon urlò nonostante il bavaglio, sperando così di distrarre la creatura, ma il Ra’zac gli rivolse un’occhiata fugace. «Ora!» gridò Angela, e infranse l’ultimo dei cristalli.

Mentre le schegge di ametista schizzavano dappertutto, Solembum balzò verso il Ra’zac. Mutò forma a mezz’aria – la testa si restrinse, le gambe si accorciarono, la pelle si ricoprì di pelo – e atterrò sulle quattro zampe, di nuovo in fattezze feline. Il Ra’zac sibilò e cercò di artigliarlo, ma Solembum lo schivò e lo colpì alla testa con una delle grosse, pesanti zampe. Il collo del Ra’zac si spezzò con uno schiocco secco e la creatura volò attraverso la stanza atterrando in un mucchietto scomposto. Fu scosso dalle convulsioni e giacque immobile. Solembum soffiò, con l’orecchio sano appiattito sul cranio; poi si dimenò per liberarsi dallo straccio con cui si era coperto quando era in forma umana e si sedette accanto all’altro uovo. «Che cosa ti sei fatta?» esclamò Angela precipitandosi accanto ad Arya, che riuscì appena a levare il capo ma non tentò nemmeno di rispondere. Con pochi rapidi colpi della sua lama incolore l’erborista tagliò in due i ceppi e la catena al polso che ancora la imprigionavano, come se il metallo temperato fosse fatto di burro. L’elfa cadde in ginocchio, premendosi la mano ferita sullo stomaco. Si tolse il fazzoletto dalla bocca. Angela liberò anche Eragon, e il Cavaliere fu felice di poter finalmente abbassare le braccia indolenzite. Si sfilò il pezzo di tessuto dalla bocca e con voce roca disse: «Ci hanno detto che eri morta.» «Ci vuole un po’ più di impegno per ammazzarmi. Massa di incompetenti.» Ancora in ginocchio, Arya iniziò a cantare incantesimi di guarigione. Aveva la voce debole e affaticata, ma non esitò né sbagliò mai. Mentre lei si curava le ferite alla mano, Eragon si medicò il taglio sul costato e le escoriazioni ai polsi. Poi fece un cenno a Solembum e gli disse: «Spostati.» Il gatto mannaro agitò la coda ma fece come Eragon aveva chiesto. Il Cavaliere levò la mano destra ed esclamò: «Brisingr!» Una colonna di fiamme azzurre avvolse il secondo uovo. La creatura all’interno strillò: un gemito agghiacciante e innaturale, più simile allo stridio del metallo che al pianto di una persona o di una bestia. Socchiudendo gli occhi per il calore, Eragon rimase a guardare con soddisfazione l’uovo bruciare. E speriamo che sia l’ultimo della loro specie, pensò. Quando le urla cessarono, Eragon estinse la fiamma. Calò un silenzio inaspettato, perché Arya aveva concluso l’incantesimo, e tutto era immobile. Angela fu la prima a riscuotersi; si avvicinò a Solembum e mormorando parole nell’antica lingua gli curò l’orecchio e le altre ferite. Eragon si inginocchiò accanto ad Arya e le posò una mano sulla spalla. Lei levò lo sguardo e gli mostrò la mano. La pelle alla base del pollice, sul bordo esterno del palmo e sul dorso era arrossata e lucida, ma i muscoli sotto sembravano integri. «Come mai non l’hai guarita del tutto?» domandò lui. «Se sei troppo stanca posso...» L’elfa scosse il capo. «Mi sono lacerata parecchi tendini e non riesco a ricucirli. Mi serve l’aiuto di Blödhgarm; nessuno è bravo come lui a manipolare la carne.»

«Ce la fai a combattere?» «Devo stare molto attenta.» Eragon le strinse delicatamente la spalla. «Quello che hai fatto...» «Era la cosa più logica...» «Pochi altri ne avrebbero avuto il coraggio. Io ho tentato, ma l’anello era troppo stretto. Vedi?» E confrontò la sua mano con quella dell’elfa. Arya annuì, poi si aggrappò al suo braccio e si sollevò a fatica. Eragon si alzò con lei, sostenendola. «Dobbiamo recuperare le nostre armi» disse il Cavaliere, «e il mio anello, la cintura e la collana che mi avevano dato i nani.» Angela aggrottò le sopracciglia. «Perché la cintura? È incantata?» Eragon esitò, ma Arya intervenne e spiegò: «Forse non conosci il nome del suo artefice, venerabile, ma durante i tuoi viaggi avrai certo sentito parlare della cintura delle dodici stelle.» L’erborista la guardò sorpresa. «Quella cintura? Credevo fosse andata perduta secoli fa, distrutta durante...» «L’abbiamo ritrovata» concluse Arya in tono piatto. Angela aveva mille domande da fare, ma alla fine si limitò a dire: «Capisco. Però non possiamo perdere tempo a cercare in ogni stanza di questo labirinto. Quando i sacerdoti si accorgeranno della vostra fuga li avremo tutti alle calcagna.» Eragon indicò il novizio con un cenno. «Forse può dircelo lui, dove hanno messo le nostre cose.» L’erborista si accovacciò sul ragazzo e gli controllò il battito posandogli due dita sulla giugulare. Poi gli schiaffeggiò le guance e gli sollevò le palpebre. Il novizio non si mosse. L’erborista parve seccata da quella mancanza di collaborazione. «Un momento» sussurrò chiudendo gli occhi. Un leggero cipiglio le corrugò la fronte. Rimase immobile per qualche istante, poi balzò in piedi con un rapido scatto. «Che miserabile egoista! Non mi meraviglia che i genitori l’abbiano spedito dai sacerdoti. Mi stupisce soltanto che l’abbiano sopportato così a lungo prima di toglierselo di torno.» «Sa qualcosa che può tornarci utile?» domandò Eragon. «Soltanto la strada per uscire.» Indicò la porta alla sinistra dell’altare, la stessa da cui i sacerdoti erano entrati e usciti. «È incredibile che abbia cercato di liberarti; sospetto che sia stato l’unico gesto spontaneo della sua vita.» «Dobbiamo portarlo con noi.» Eragon detestava l’idea, ma il dovere glielo imponeva. «Ho promesso che l’avrei fatto se ci avesse aiutato.» «Ha tentato di ucciderti!» «Gli ho dato la mia parola.» Angela sospirò sgranando gli occhi. «Immagino che nemmeno tu riusciresti a fargli cambiare idea» disse ad Arya.

L’elfa scosse il capo, poi si caricò il novizio in spalla senza apparente sforzo. «Lo porto io» dichiarò. L’erborista si rivolse a Eragon: «Allora sarà meglio che questa la tenga tu, dato che saremo soltanto noi due a poter combattere.» Gli consegnò la spada corta, poi dalle pieghe del vestito estrasse un pugnale con il manico tempestato di gemme. «Di cosa è fatta?» domandò Eragon. Osservò la lama trasparente della spada catturava e rifletteva la luce come un diamante. Tuttavia non riusciva immaginare che qualcuno potesse aver creato un’arma da una pietra preziosa: di energia necessaria a impedire alla pietra di rompersi a ogni colpo avrebbe qualsiasi mago.

e notò che proprio a la quantità annientato

«Né pietra né metallo» rispose l’erborista. «Maneggiala con attenzione. Non toccare mai il filo e non avvicinarlo alle cose a cui tieni; te ne pentiresti. E bada di non appoggiare la spada a qualcosa di cui potresti sentire la mancanza. Una gamba, per esempio.» Eragon allontanò la spada dal corpo con estrema cautela. «Perché?» «Perché questa è la lama più affilata che sia mai stata creata» rispose l’erborista con aria compiaciuta. «Non c’è spada, ascia o pugnale che possa eguagliarla. Nemmeno Brisingr. È la suprema espressione di uno strumento di incisione. Questo...» fece una pausa per dare maggior enfasi alle parole «è l’archetipo di un piano inclinato... Non troverai nulla che possa competere con il suo filo. Può tagliare qualsiasi materiale che non sia protetto dalla magia, ma anche molte cose che lo sono. Prova, se non mi credi.» Eragon si guardò intorno alla ricerca di un oggetto su cui mettere alla prova la lama. Alla fine si avvicinò all’altare e calò la spada su uno spigolo del lastrone di pietra. «Non così forte!» gemette Angela. La lama incolore attraversò la pietra di quattro pollici, come se il granito fosse fatto di crema, e continuò a scendere verso i suoi piedi. Eragon urlò e fece un balzo indietro, riuscendo a malapena a fermare il braccio prima di ferirsi. Lo spigolo dell’altare crollò sul gradino sottostante, rimbalzò e rotolò al centro della stanza. Quella spada poteva benissimo essere di diamante, dedusse Eragon. Non aveva bisogno di incantesimi di protezione: di rado avrebbe potuto difendersi con materiali più resistenti. «Tieni» disse Angela. «È meglio che tu prenda anche questo.» Si slacciò il fodero dell’arma e glielo consegnò. «Una delle poche cose che non riuscirai a tagliare con quella.» Eragon impiegò un momento per ritrovare la voce: c’era mancato poco che si mozzasse le dita. «La spada ha un nome?» Angela rise. «Certo. Nell’antica lingua il suo nome è Albitr, che significa proprio quello che pensi. Ma io preferisco chiamarla Trillamorte.» «Trillamorte!» «Già. Per via del suono che fa quando ci batti sopra.» Picchiettò la lama con la punta dell’unghia, e una nota squillante riecheggiò nella sala tenebrosa rallegrandola come un raggio di sole. Angela sorrise. «Allora, ce ne andiamo?» Eragon controllò che non avessero dimenticato nulla; poi annuì e si avviò a grandi passi alla porta di sinistra. La aprì più piano che poté.

Oltre la soglia si stendeva un ampio, lungo corridoio illuminato da torce. E sui lati, allineati in due file perfette, c’erano di guardia una ventina dei soldati in nero che gli avevano teso l’imboscata. Misero mano alla spada non appena videro Eragon. Il Cavaliere imprecò a mezza voce e scattò in avanti, deciso ad attaccare prima che i suoi avversari potessero sguainare le armi. Tuttavia aveva fatto soltanto pochi passi quando notò uno sfarfallio accanto a ognuno degli uomini: un movimento indistinto e appena percettibile, simile a uno stendardo esposto a un debole vento. Senza neppure un grido, i venti uomini si irrigidirono e crollarono a terra morti, dal primo all’ultimo. Allarmato, Eragon si bloccò per non inciampare in uno dei cadaveri. Erano stati tutti trafitti in un occhio. Si voltò per chiedere ad Arya e Angela se sapessero che cos’era accaduto, ma le parole gli morirono in gola quando vide l’erborista: era appoggiata al muro, con le mani sulle ginocchia, ansimante. Dal pugnale che reggeva gocciolava del sangue. Eragon ne fu intimorito e anche spaventato. Qualsiasi cosa Angela avesse fatto andava oltre la sua comprensione. «Venerabile» disse Arya, e anche lei aveva un tono esitante, «come hai fatto?» L’erborista rise, pur senza fiato. «Ho usato un trucco... imparato dal mio maestro... Tenga... tanto tempo fa. Che mille ragni gli mordano le orecchie e tutto quello che gli sporge.» «Sì, ma come hai fatto?» insistette Eragon. Un trucco del genere potrebbe esserci molto utile a Urû’baen. Angela ridacchiò di nuovo. «Cos’è il tempo se non movimento? E cos’è il movimento se non calore? E non sono forse calore ed energia due nomi diversi per dire la stessa cosa?» chiese. Con una spinta si staccò dal muro, si avvicinò a Eragon e lo pizzicò sulla guancia. «Quando comprenderai cosa intendo dire, capirai anche ciò che ho fatto e come... Per oggi non sarò in grado di ripetere l’incantesimo, non senza farmi del male, perciò non aspettatevi che la prossima volta che incappiamo in una squadra come questa li faccia fuori tutti io.» Con qualche difficoltà Eragon represse la curiosità e annuì. Sfilò casacca e giustacuore imbottito a uno dei nemici, li indossò e si avviò lungo il corridoio e oltre l’arco che si apriva in fondo. Non incontrarono nessun altro nel complesso di stanze e corridoi che seguirono, né trovarono traccia di ciò che era stato loro rubato. Sebbene Eragon fosse lieto di passare inosservato, non incrociare nessuno – nemmeno un servitore – era inquietante. Sperò che senza volerlo non avessero innescato qualche allarme. A differenza delle sale abbandonate che avevano attraversato prima dell’imboscata, quelle in cui passavano adesso erano ricche di arazzi, mobili e misteriosi marchingegni di ottone e cristallo. Più di una volta fu tentato di avvicinarsi a uno scrittoio o a uno scaffale e di esaminarne il contenuto, ma resistette all’impulso. Non avevano tempo di leggere pergamene ammuffite, per quanto interessanti potessero essere.

Era Angela a scegliere la direzione da prendere ogni volta che arrivavano a un bivio, ma Eragon rimase in testa al gruppo: stringeva così forte l’impugnatura di filo metallico di Trillamorte che gli venne un crampo. Raggiunsero ben presto un corridoio in fondo al quale c’era una scala che si faceva più stretta man mano che saliva. Alla base dei gradini c’era una coppia di novizi, uno per lato. Reggevano campane simili a quelle che Eragon aveva già avuto modo di vedere. Corse verso di loro e ne colpì uno al collo senza dargli modo di reagire. Tuttavia l’altro ebbe il tempo di urlare e suonare le campane prima che Solembum gli saltasse addosso scaraventandolo a terra e gli straziasse il viso con gli artigli. Il frastuono riverberò lungo tutto il corridoio. «Presto!» gridò Eragon lanciandosi su per i gradini. In cima alle scale trovarono un tramezzo largo all’incirca dieci piedi, decorato con volute ornamentali e bassorilievi che a Eragon parvero familiari. Vi girò intorno e si ritrovò nel fascio di una luce rosata così intensa che lo costrinse a bloccarsi di colpo, confuso. Si riparò gli occhi con il fodero di Trillamorte. A meno di cinque passi da lui c’era il Sommo Sacerdote. Sedeva sulla sua lettiga, e da una ferita alla spalla gli stillava del sangue. Un altro dei sacerdoti – una donna che non aveva più le mani – era inginocchiato lì accanto, e con i moncherini reggeva un calice dorato in cui stava raccogliendo il sangue del Sommo Sacerdote. Tutti e due fissarono Eragon sbigottiti. Il Cavaliere spinse lo sguardo oltre le loro spalle e vide, come lampi abbaglianti in sequenza, massicce colonne scanalate che svettavano verso un soffitto a volta immerso nell’ombra; mura torreggianti in cui si aprivano ampie vetrate istoriate, a sinistra incendiate dal sole nascente, a destra buie e senza vita; pallide statue fra una vetrata e l’altra; banchi di granito punteggiati da varie sfumature di luce lungo l’ampia navata centrale; e nelle prime quattro file un gruppo di sacerdoti vestiti di pelle, lo sguardo rivolto verso l’alto e le bocche aperte a intonare un canto, simili a pulcini in cerca di cibo. Solo allora Eragon capì che erano sbucati nella grande cattedrale di Dras-Leona, dal lato opposto dell’altare davanti a cui si era inginocchiato in preghiera tanto tempo prima. La donna monca lasciò cadere il calice e spalancò le braccia, facendo da scudo col corpo al Sommo Sacerdote. Sul bordo della lettiga alle sue spalle Eragon intravvide qualcosa di blu: il fodero di Brisingr. E subito accanto gli parve di scorgere anche Aren. Prima che potesse correre a recuperare la spada, due guardie sbucarono dai lati dell’altare, menando fendenti con le picche dalle nappe rosse e dalla lama incisa. Il Cavaliere schivò la prima guardia con un rapido movimento e tagliò in due l’asta di legno della picca che reggeva, facendo saltar via la lama. Poi tagliò in due l’uomo stesso: Trillamorte si fece strada tra carne e ossa con una facilità impressionante. Eragon si sbarazzò della seconda guardia con la stessa rapidità e si voltò per affrontarne altre due che cercavano di sorprenderlo alle spalle. L’erborista si unì allo scontro brandendo il pugnale, e Solembum ringhiò. Arya si tenne lontana dal combattimento, sempre con il novizio in spalla. Il sangue rovesciato del Sommo Sacerdote aveva imbrattato il pavimento intorno all’altare, rendendolo scivoloso. Le guardie finirono nella pozza e caddero travolgendosi a vicenda.

Eragon si avvicinò a loro trascinando i piedi per non perdere l’equilibrio e le uccise prima che potessero reagire. In quel momento udì il Sommo Sacerdote gridare: «Uccidete gli infedeli! Ammazzateli! Non lasciate scappare i sacrileghi! Meritano di essere puniti per i loro crimini contro gli Antichi!» I sacerdoti della congrega iniziarono a gridare ed Eragon sentì le loro menti artigliare la sua, come un branco di lupi che si accaniscono su un cervo indebolito. Si ritrasse in se stesso, respingendo gli attacchi grazie alle tecniche imparate sotto la guida di Glaedr. Ma non era facile difendersi da così tanti avversari, e temette che le sue barriere mentali non avrebbero resistito ancora a lungo. Il suo unico vantaggio era che i sacerdoti, spaventati e colti alla sprovvista, lo avevano attaccato singolarmente; se si fossero uniti lo avrebbero presto sopraffatto. E poi sentì la coscienza di Arya premere contro la sua, una presenza familiare e rassicurante rispetto al manipolo di nemici che stava cercando di respingere. Con un sospiro di sollievo si aprì a lei e unì la sua mente a quella dell’elfa come avrebbe fatto con Saphira: per un po’ le loro identità si mescolarono, ed Eragon non fu più in grado di dire a chi appartenessero i pensieri e le sensazioni che stavano condividendo. Insieme attaccarono la mente di uno dei sacerdoti. L’uomo si batté per sfuggire al loro controllo, come un pesce che si divincola tra le dita di un pescatore, ma loro serrarono la presa e gli tagliarono ogni via di fuga. Per respingerli dalla sua coscienza stava recitando una strana frase ampollosa; Eragon si disse che doveva essere un brano del libro di Tosk. Tuttavia il sacerdote mancava di disciplina, e la sua concentrazione vacillò quando pensò: Gli infedeli sono troppo vicini al Maestro. Dobbiamo ucciderli prima che... Aspettate! No! No! Eragon e Arya colsero al volo l’occasione e soggiogarono la mente del sacerdote. Quando si furono assicurati che non potesse contrattaccare con la mente né col corpo, Arya lanciò un incantesimo grazie al quale, sfruttando i ricordi dell’uomo, avrebbe potuto superarne le difese magiche. Un uomo nei banchi in terza fila urlò e prese fuoco; fiamme verdi gli uscivano da occhi, bocca e orecchie, e incendiarono le vesti di parecchi altri accanto a lui. Tutti iniziarono a dibattersi correndo alla cieca e smisero di attaccare il Cavaliere. Le fiamme crepitavano come rami sbattuti dal vento. L’erborista corse giù dall’altare e si tuffò nella mischia, menando fendenti. Solembum la seguiva e finiva quelli che lei colpiva. A quel punto per Eragon e Arya fu facile assumere il controllo delle menti dei loro nemici. Continuando l’attacco congiunto uccisero altri quattro sacerdoti, e fu allora che il resto della congrega si disperse. Alcuni corsero attraverso il vestibolo che, ricordò Eragon, portava nella sacrestia accanto alla cattedrale; altri si rannicchiarono dietro i banchi portandosi le mani alla testa. Sei sacerdoti tuttavia non fuggirono né si nascosero, ma partirono alla carica brandendo coltellacci ricurvi. Eragon tentò di colpire la prima sacerdotessa al collo giocando di anticipo, ma con irritazione scoprì che la donna era protetta da un incantesimo di difesa che bloccò e respinse Trillamorte. Provò allora a colpirla con un pugno, e per qualche

ragione spezzò l’incantesimo: il Cavaliere sentì le ossa del torace della donna scricchiolare, e riuscì a scaraventarla all’indietro, contro gli uomini alle sue spalle. I sacerdoti si liberarono del corpo e tornarono alla carica. Eragon parò un maldestro fendente dell’uomo in prima fila e gli sferrò un pugno allo stomaco che lo spedì contro una panca, dove il sacerdote si schiantò con un rumore sinistro. Eragon ne uccise un altro in modo simile. Un sacerdote alla sua destra venne trafitto al collo da un dardo verde e giallo, e con la coda dell’occhio Eragon intravvide una macchia fulva sfrecciargli accanto: era Solembum, che con un balzo si lanciò verso un altro uomo. Rimaneva soltanto una seguace di Tosk. Arya la afferrò per i vestiti all’altezza del petto e la scaraventò urlante una trentina di piedi oltre la fila di banchi. Quattro novizi avevano sollevato la lettiga del Sommo Sacerdote e la stavano trasportando con passo affrettato lungo il lato est della cattedrale, verso il portone. Vedendoli fuggire, Eragon ruggì infuriato e salì sull’altare, facendo cadere un piatto e una coppa. Da lì superò con un balzo i cadaveri dei sacerdoti atterrando lieve nella navata laterale e si lanciò verso l’ingresso della cattedrale, all’inseguimento dei novizi. Vedendolo arrivare i quattro giovani si fermarono. «Dall’altra parte!» gridò il Sommo Sacerdote. «Dall’altra parte!» I suoi servitori obbedirono e si ritrovarono faccia a faccia con Arya, che portava in spalla un loro compagno. I novizi urlarono e si infilarono tra due file di banchi, ma Solembum spuntò all’estremità opposta, camminando verso di loro con passo felpato. Aveva le orecchie appiattite sulla testa, ed Eragon sentì accapponarsi la pelle quando udì il suo basso ringhio minaccioso. Angela raggiunse il gatto mannaro a grandi passi e prese posizione alle sue spalle, con il pugnale in una mano e un dardo verde e giallo nell’altra. Eragon si domandò tra sé e sé quante altre armi ancora tenesse nascoste. Dovette riconoscere che i novizi non si persero d’animo, e nemmeno abbandonarono il loro maestro. Anzi, i quattro si misero a urlare e a correre più in fretta verso Solembum, forse perché il gatto mannaro era il più piccolo e il più vicino dei loro avversari, e quindi credevano che fosse il più facile da sconfiggere. Si sbagliavano. Con un solo agile movimento Solembum si acquattò e balzò sullo schienale di un banco. Poi si lanciò su uno dei due novizi in prima fila. In quell’istante il Sommo Sacerdote gridò qualcosa nell’antica lingua; Eragon non riconobbe le parole, ma a giudicare dal suono appartenevano senza dubbio alla lingua madre degli elfi. Qualsiasi incantesimo fosse, parve non avere effetto su Solembum, ma Eragon vide Angela incespicare come se fosse stata colpita. Il gatto mannaro artigliò il novizio su cui si era lanciato: il giovane crollò a terra urlando, mentre le sue carni venivano straziate. Gli altri tre inciamparono sul corpo del loro compagno e gli caddero addosso, formando un groviglio confuso di corpi e rovesciando il Sommo Sacerdote dalla lettiga; la creatura ricadde su uno dei banchi e rimase lì a contorcersi come un verme. Eragon li raggiunse un attimo dopo e con tre rapidi colpi li trucidò tutti, tranne quello che Solembum aveva azzannato al collo.

Quando fu certo che erano morti, si voltò per affrontare il Sommo Sacerdote ma, non appena iniziò ad avvicinarsi al tronco senza arti, una mente sconosciuta tentò di prendere il controllo dei suoi pensieri. L’attacco fu talmente feroce che il Cavaliere fu costretto a fermarsi per concentrarsi sulle proprie difese al fine di contrastare l’intrusione. Con la coda dell’occhio vide che anche Arya e il gatto mannaro erano stati immobilizzati. L’erborista no: all’inizio dell’attacco sembrava sul punto di soccombere, ma poi aveva continuato ad avanzare verso Eragon con passi lenti e strascicati. Il Sommo Sacerdote fissò il Cavaliere con gli occhi infossati e cerchiati di nero colmi di odio e furore. Se avesse avuto braccia e gambe, Eragon era convinto che avrebbe tentato di strappargli il cuore dal petto a mani nude. Non poteva, ma lo sguardo puntato su di lui era così carico di rabbia che Eragon non si sarebbe stupito se il sacerdote fosse riuscito a rotolare giù dalla panca per azzannargli le caviglie. L’assalto mentale divenne ancora più intenso quando Angela si avvicinò. Il Sommo Sacerdote – perché doveva esserne lui il responsabile – era molto più dotato dei suoi subalterni. Ingaggiare un combattimento mentale contro quattro avversari contemporaneamente e costituire una minaccia per ciascuno di loro era una prova non da poco, soprattutto se gli avversari in questione erano un elfo, un Cavaliere dei Draghi, una strega e un gatto mannaro. Il Sommo Sacerdote possedeva una delle menti più formidabili che Eragon avesse mai incontrato: se non fosse stato per l’aiuto dei suoi compagni, sospettava che avrebbe ceduto a quegli attacchi furibondi. E poi usava tecniche a lui del tutto sconosciute, come quando collegò i pensieri di Eragon, Arya e Solembum in un ammasso così intricato che più di una volta il Cavaliere temette di aver smarrito la propria identità. Alla fine Angela riuscì a infilarsi nello spazio tra i due banchi. Aggirò con cautela Solembum – che si era raggomitolato con il pelo irto accanto al novizio che aveva ucciso – e oltrepassò i cadaveri degli altri tre che Eragon aveva abbattuto. Mentre Angela si avvicinava, il Sommo Sacerdote cominciò a dimenarsi come un pesce preso all’amo e strisciò sulla panca per tentare di allontanarsi. Nello stesso istante Eragon sentì la pressione sulla sua coscienza allentarsi, ma non abbastanza da convincerlo che muoversi non era più rischioso. L’erborista si fermò davanti al Sommo Sacerdote, che con sorpresa di Eragon cessò l’attacco e rimase a boccheggiare sul sedile del banco. Per un minuto la creatura dagli occhi infossati e la donna minuta con il volto severo rimasero a guardarsi, ingaggiando un’invisibile lotta di volontà. Poi il Sommo Sacerdote sussultò e un sorriso increspò le labbra di Angela. L’erborista lasciò cadere il pugnale e dalle pieghe del vestito estrasse uno stiletto dalla lama color del tramonto. Chinandosi sul Sommo Sacerdote disse a voce bassa: «Avresti dovuto conoscere la mia fama, lingua mozza. In quel caso non avresti mai osato opporre resistenza. Lascia che ti spieghi...» La voce di Angela si ridusse a un sussurro, ed Eragon non riuscì a capire che cosa stesse dicendo, ma mentre parlava il Sommo Sacerdote impallidì e spalancò la bocca raggrinzita: poi dalla gola gli sgorgò un ululato innaturale. L’intera cattedrale risuonò dei suoi latrati. «Oh, taci!» intimò l’erborista, e gli piantò lo stiletto al centro del petto.

La lama vermiglia risplendette di un lampo chiarissimo e svanì con un rumore simile a un lontano rombo di tuono. L’area intorno alla ferita brillò come brace ardente, poi la pelle e la carne cominciarono a sbriciolarsi in una fuliggine scura e impalpabile che si riversò sul petto del Sommo Sacerdote. Con un gorgoglio, il gemito della creatura cessò di colpo. L’incantesimo divorò in fretta il resto del tronco, riducendolo a una montagnola di polvere nera che aveva la forma della testa e del torso del Sommo Sacerdote. «Che liberazione!» esclamò infine Angela con un cenno deciso del capo.

IL RINTOCCO DELLA CAMPANA Eragon si riscosse come da un brutto sogno. Ora che non doveva più combattere contro il Sommo Sacerdote si accorse che la campana della sacrestia stava suonando: un tintinnio forte e insistente che gli ricordò la sua prima visita a Dras-Leona con Brom, quando i Ra’zac gli avevano dato la caccia nella cattedrale. Murtagh e Castigo arriveranno presto, pensò. Dobbiamo andarcene, e in fretta. Rinfoderò Trillamorte e la consegnò ad Angela. «Ecco» disse, «credo che tu la rivoglia.» Poi si fece largo tra i cadaveri e recuperò Brisingr. Fu un sollievo stringerne di nuovo l’impugnatura: nonostante quella dell’erborista fosse un’ottima lama, e letale per giunta, non era la sua. Senza Brisingr si sentiva esposto e vulnerabile, come quando era lontano da Saphira. Impiegò qualche altro istante a trovare il suo anello, che era rotolato sotto uno dei banchi, e la collana, che era avvolta intorno a una delle maniglie della lettiga. Tra i mucchi di cadaveri ritrovò anche la spada di Arya, che l’elfa fu lieta di riavere. Ma della sua cinta, la cintura di Beloth il Savio, nessuna traccia. Eragon controllò sotto i banchi vicini e frugò anche intorno all’altare. «Non c’è» concluse alla fine, disperato. Scoccò un’occhiata alla parete che nascondeva l’ingresso alle stanze sotterranee. «Devono averla lasciata nelle gallerie.» Poi si voltò a guardare la sacrestia. «O forse...» Esitò, incerto tra le due possibilità. Mormorò un incantesimo di recupero che lo conducesse alla cintura, ma non percepì altro che un’immagine grigia e vuota. Come temeva, la cintura era difesa da una serie di incantesimi che la proteggevano dalle intrusioni, così come Brisingr. Il Cavaliere s’incupì, ma mentre si avvicinava alla parete divisoria la campana risuonò più forte che mai. «Eragon» lo chiamò Arya dalla parte opposta della cattedrale, spostando il giovane novizio da una spalla all’altra. «Dobbiamo andare.» «Ma...» «Oromis capirebbe. Non è colpa tua.» «Ma...» «Lascia stare! La cintura è già andata persa in passato. La ritroveremo. Ma adesso dobbiamo fuggire. Sbrigati!» Eragon lanciò un’imprecazione, si voltò e raggiunse di corsa Arya, Angela e Solembum all’ingresso della cattedrale. Di tutte le cose che potevo perdere... Gli sembrava quasi sacrilego abbandonare la cintura, quando tanti esseri viventi erano morti per infonderle energia. E poi aveva la sensazione spiacevole che prima della fine della giornata avrebbe avuto bisogno di quel sostegno. Non appena ebbe aperto insieme ad Angela il battente del pesante portone che conduceva all’esterno, Eragon cercò Saphira con la mente; sapeva che l’avrebbe trovata di ronda sui cieli della città, in attesa che lui la chiamasse. Il tempo della prudenza era finito ormai da

un pezzo, e a Eragon non importava più se Murtagh o qualche altro stregone avessero percepito la sua presenza. Avvertì presto il tocco familiare della mente di Saphira. Non appena i loro pensieri tornarono a mescolarsi, Eragon sentì sciogliersi un peso nel petto. Perché ci avete messo tanto?, esclamò Saphira. Eragon sentì la sua preoccupazione, e leggendo tra i suoi pensieri scoprì che era stata sul punto di fiondarsi su Dras-Leona e raderla al suolo per cercarlo. Riversò in lei i ricordi, condividendo tutto ciò che era accaduto da quando si erano separati mentre insieme ad Arya, Angela e il gatto mannaro usciva dalla cattedrale e correva giù per l’ampia scalinata. Senza attendere che Saphira riuscisse a mettere ordine nei suoi ricordi sconnessi, Eragon esclamò: Ci serve un diversivo, subito! La dragonessa colse il messaggio: Eragon la sentì lanciarsi e scendere in picchiata. E di’ a Nasuada di iniziare l’attacco. Saremo al cancello sud tra pochi minuti. Se i Varden non saranno lì quando lo apriremo, ho seri dubbi che ce la faremo a fuggire. [eBookLove - eBL 043] Christopher Paolini - Inheritance [by Pico]

INFIDA-NERA-CAVERNA-SPINOSA Saphira scendeva in picchiata verso la città-nido-di-ratti illuminata a metà dal sole nascente, con la fresca e umida aria-del-giorno-senz’acqua che le fischiava accanto. I bassi raggi di luce facevano risaltare le case-di-legno-gusci-d’uovo-puzzolenti, ma solo sul lato a est, perché quello occidentale era ancora immerso nell’ombra. L’elfo-lupo-copia-di-Eragon sul suo dorso le gridò qualcosa, ma il vento rabbioso strappò via le parole, e lei non riuscì a capire che cosa le stava dicendo. Iniziò a farle domande con la sua mente-che-canta, ma lei lo interruppe. Lo informò sulla situazione di Eragon e gli chiese di dire a Nasuada che era arrivato il momento di muoversi. Saphira non capiva come l’ombra-di-Eragon che Blödhgarm indossava potesse ingannare qualcuno. Non odorava come il suo compagno-di-cuore-e-di-mente, e aveva pensieri diversi da quelli di Eragon. Eppure i bipedi sembravano impressionati dalla sua comparsa, ed erano proprio loro che volevano raggirare. Sul lato sinistro della città-nido-di-ratti vide il profilo scintillante di Castigo. Era disteso sugli spalti merlati del cancello sud, e in quel momento levò la testa cremisi: di sicuro l’aveva vista lanciarsi verso il terreno-spezza-ossa. Era proprio questo il piano. Ciò che provava per Castigo era troppo complicato per poterlo riassumere in poche sensazioni. Ogni volta che pensava a lui diventava confusa e incerta, cosa a cui non era abituata. Comunque non avrebbe permesso a quel marmocchio di sconfiggerla in battaglia. Quando si fu avvicinata ai neri comignoli e ai tetti appuntiti spiegò ancora le ali e rallentò la discesa. Sentì tendersi i muscoli del petto e delle spalle. Arrivata a un centinaio di piedi dall’ammasso di edifici cabrò, spalancando le ali il più possibile. Fermare la picchiata le costò uno sforzo immenso: per un momento temette che il vento le strappasse le ali. Usò la coda per mantenere l’equilibrio e prese a volteggiare sulla città finché non individuò l’infida-nera-caverna-spinosa dei sacerdoti-adoratori-del-sangue. Ripiegò le ali e con un boato assordante piombò sul tetto della cattedrale. Piantò gli artigli nelle tegole, arpionandole. Poi rovesciò indietro la testa e ruggì più forte che poté, sfidando il mondo intero. Una campana suonava nella torre dell’edificio accanto all’infida-nera-caverna-spinosa. Quel suono la infastidiva, perciò si voltò verso la torre e le sputò contro una fiammata blu e gialla. Era di pietra e quindi non prese fuoco, ma la fune e le travi che sorreggevano la campana divamparono e si consumarono in fretta: dopo pochi istanti la campana precipitò all’interno della torre e si fracassò al suolo. Guardò con un certo piacere i bipedi dalle orecchie rotonde che correvano via urlando. Era una dragonessa, dopotutto. Era giusto che avessero paura di lei. Uno di loro si fermò sul ciglio della piazza di fronte all’infida-nera-caverna-spinosa, e lei lo sentì lanciarle un incantesimo con una vocetta da topo spaventato. Di qualunque natura fosse il sortilegio, le difese con cui Eragon l’aveva schermata lo respinsero, o almeno così le parve, perché non avvertì cambiamenti né in lei, né nel mondo intorno. L’elfo-lupo-copia-di-Eragon uccise il mago al suo posto. Sentì Blödhgarm ghermire la mente dello stregone e duellare con il bipede dalle orecchie rotonde fino a sottometterlo,

dopodiché Blödhgarm pronunciò una singola parola nell’antica-lingua-magica-degli-elfi e il bipede cadde a terra sputando sangue. Poi l’elfo-lupo le picchiettò sulla spalla e disse: «Preparati, Squamediluce. Stanno arrivando.» Vide Castigo sorvolare le cime dei tetti; Murtagh-mezzo-fratello-di-Eragon era un puntino nero sul suo dorso. Nella luce del mattino Castigo risplendeva quasi quanto lei, ma non aveva le squame altrettanto pulite. Lei si era preparata con grande cura. Le piaceva essere al meglio quando andava in battaglia: i suoi avversari dovevano temerla, ma anche ammirarla. Sapeva di essere vanitosa, ma non le importava. Nessun’altra razza poteva competere con la magnificenza dei draghi. E poi lei era l’ultima femmina della sua specie, e voleva che tutti coloro che la vedevano si stupissero del suo aspetto e lo tenessero bene a mente, così che se anche i draghi fossero scomparsi per sempre i bipedi avrebbero continuato a parlarne con il dovuto misto di rispetto, timore e meraviglia. Mentre Castigo sovrastava la città-nido-di-ratti, Saphira si assicurò con una rapida occhiata che il suo compagno-di-cuore-e-di-mente si fosse allontanato dall’infida-neracaverna-spinosa. Non voleva che restasse ferito per errore nella lotta che sarebbe seguita. Era un cacciatore feroce, ma era piccolo e poteva rimanere schiacciato. Non aveva ancora finito di sbrogliare i bui-echeggianti-dolorosi-ricordi che Eragon le aveva trasmesso, ma gli eventi della mattinata le sembravano l’ennesima conferma di ciò che da tempo sosteneva: ogni volta che si separavano il suo compagno-di-cuore-e-dimente finiva nei guai. Sapeva che Eragon non sarebbe stato d’accordo, ma la sua ultima disavventura parlava chiaro, e provò un piacere perverso all’idea che i fatti le avevano dato ragione. Quando Castigo ebbe raggiunto la giusta altezza fece un giro su se stesso e si lanciò verso di lei sputando fiamme. Non temeva il fuoco – gli incantesimi di Eragon le avrebbero fatto da scudo –, ma era perfettamente consapevole che Castigo, avversario potentissimo e dalla mole massiccia, sarebbe riuscito in fretta a superare le sue difese. Per ripararsi chinò il capo e si appiattì contro il tetto della cattedrale, ma tentò di azzannargli il pallido bassoventre. Un muro di fiamme vorticanti la travolse, ruggendo e rombando come una gigantesca cascata. Le vampate erano così brillanti che d’istinto chiuse le palpebre interne, come avrebbe fatto sott’acqua, smorzando così l’effetto della luce accecante. Le fiamme ben presto si dispersero: Castigo le sfrecciò sopra la testa, e con la spessa coda graffia-costole le lasciò un solco sulla membrana dell’ala destra. La ferita sanguinava, ma non tanto, e anche se faceva male non l’avrebbe ostacolata in un combattimento aereo. Castigo le si lanciò contro più e più volte, istigandola ad alzarsi in volo. Lei però si rifiutò di muoversi. Alla fine il drago rosso si stancò di provocarla e virò verso il lato opposto dell’infida-nera-caverna-spinosa, tenendo dispiegate le enormi ali per mantenere l’equilibrio. L’intero edificio tremò quando Castigo atterrò, e molte delle finestre-di-vetro-colorato delle mura sottostanti esplosero in una pioggia di schegge tintinnanti. Grazie a quel rompi-uova di Galbatorix, Castigo adesso era più grande di lei, ma ciò non bastava a intimidirla. Aveva più esperienza, e si era addestrata con Glaedr, più grande e temibile di

loro due messi insieme. E poi Castigo non avrebbe osato ucciderla; forse non voleva nemmeno farlo. Il drago rosso ringhiò e fece un passo avanti, graffiando le tegole del tetto con gli artigli. Lei ruggì in risposta e arretrò di qualche passo, finché sentì la coda premere contro la base delle guglie che svettavano sulla facciata dell’infida-nera-caverna-spinosa. Castigo rizzò la coda: era il segno che stava per sferrarle un attacco. Saphira aspirò più aria possibile e lo inondò con un fiume di fiamme guizzanti. Il suo compito era non far capire a Castigo e Murtagh che non era Eragon quello che portava in dorso. C’erano due modi per riuscirci: tenere il drago abbastanza lontano, in modo che Murtagh non potesse leggere i pensieri dell’elfo-lupo-copia-di-Eragon; oppure tenerli impegnati con assalti brevi e feroci così che Murtagh non avesse neanche l’occasione di provarci. Non sarebbe stato facile: Murtagh era perfettamente in grado di combattere in sella al suo drago anche quando Castigo si capovolgeva e si rigirava in volo. Adesso però erano ancora a terra e questo la aiutava: perciò scelse di attaccare. D’altronde era la tattica che prediligeva. «È il meglio che sai fare?» gridò Murtagh con una voce resa potente dalla magia attraverso il bozzolo-sempre-palpitante di fuoco. Quando l’ultima fiamma le si smorzò in gola, Saphira si scagliò su Castigo. Lo colpì in pieno petto e i due draghi fecero cozzare le teste mentre tentavano di azzannarsi alla gola a vicenda. La forza dell’impatto spinse Castigo all’indietro facendolo cadere dall’infidanera-caverna-spinosa; il drago agitò le ali e colpì Saphira: un attimo dopo stavano precipitando entrambi. Atterrarono con uno schianto che mandò in frantumi un’intera sezione del selciato e scosse gli edifici circostanti. Qualcosa si spezzò nell’ala sinistra di Castigo, che inarcò la schiena in modo innaturale quando le difese di Murtagh intervennero per impedire al drago di schiacciarlo. Saphira sentì Murtagh imprecare da sotto la schiena di Castigo, e decise che era meglio allontanarsi alla svelta prima che il bipede dalle orecchie rotonde cominciasse a scagliare incantesimi. Balzò – colpendo Castigo alla pancia mentre si dava lo slancio – e si posò sul tetto della casa alle spalle del drago rosso. L’edificio era troppo fragile per sostenerla, perciò spiccò di nuovo il volo, non prima di aver dato fuoco all’intera fila di costruzioni. Che se la vedano con questo, pensò soddisfatta mentre le fiamme divoravano le strutture di legno. Tornata all’infida-nera-caverna-spinosa, infilò gli artigli sotto le tegole e prese a squarciarne il tetto, come aveva già fatto al castello di Durza a Gil’ead. Adesso però era più grande e più forte. I blocchi di pietra le sembravano leggeri come dovevano esserlo i ciottoli per Eragon. I sacerdoti-adoratori-del-sangue che pregavano lì dentro avevano ferito il suo compagno-di-cuore-e-di-mente, e anche Arya-elfa-sangue-di-drago, Angelaviso-giovane-mente-antica e Solembum-gatto-mannaro-dai-molti-nomi, e avevano ucciso Wyrden. Per vendicarli Saphira avrebbe raso al suolo la loro infida-nera-caverna-spinosa. In pochi istanti aprì un grosso squarcio nel soffitto dell’edificio e riempì l’interno di fiamme; poi artigliò le canne d’ottone dell’organo a vento e le divelse scagliandole con un fragore metallico sui banchi sottostanti.

Castigo ruggì, si alzò in volo e battendo con foga le ali per mantenere la posizione rimase sospeso sopra l’infida-nera-caverna-spinosa. Aveva alle spalle gli edifici incendiati, e stagliato contro quel muro di fiamme sarebbe sembrato quasi un’anonima, indistinta sagoma nera, se non fosse stato per i riflessi cremisi e arancio delle sue ali. Sfoderò gli artigli seghettati e le si lanciò contro. Saphira aspettò, poi all’ultimo istante balzò via dall’infida-nera-caverna-spinosa, e Castigo rovinò sulla cattedrale battendo la testa contro la guglia centrale. La pietra-alta-irtabucherellata vibrò per l’impatto, e la punta, un’asta d’oro cesellato, dondolò e precipitò sulla piazza dopo un volo di oltre quattrocento piedi. Ruggendo di frustrazione, Castigo si dimenò per rialzarsi, ma scivolò con gli arti posteriori nello squarcio che Saphira aveva aperto nel tetto; allora raspò furioso sulle tegole cercando di ricavarsi con gli artigli un appiglio che gli permettesse di uscire. Nel frattempo Saphira volò intorno all’infida-nera-caverna-spinosa e atterrò dall’altro lato della guglia contro cui Castigo aveva urtato la testa. Raccolse le forze e poi tentò di abbatterla colpendola con la zampa anteriore. Le statue e i bassorilievi tremarono; nuvole di polvere le riempirono le narici, e pezzi di pietra e malta piovvero nella piazza. La guglia rimase in piedi, e lei la colpì di nuovo. Il ruggito di Castigo assunse una nota disperata quando capì che cosa lei stava tentando di fare, e il drago lottò ancora più disperatamente per liberarsi. Saphira vibrò un terzo colpo, e la pietra-alta-irta si spezzò alla base; poi con una lentezza straziante iniziò a franare verso il tetto. Castigo ebbe appena il tempo di lanciare un ringhio furioso prima che la guglia lo investisse, facendolo cadere all’interno dell’edificio e seppellendolo sotto una montagna di macerie. Il rumore della guglia che andava in frantumi riverberò per tutta la città-nido-di-ratti come un rombo di tuono. Saphira ruggì di gioia selvaggia per celebrare la vittoria. Castigo si sarebbe liberato presto, ma per adesso voleva godersi il piccolo trionfo. Ripiegando le ali volò intorno all’infida-nera-caverna-spinosa. Mentre sfrecciava lungo i lati colpì i contrafforti scanalati che sorreggevano le pareti e li demolì uno a uno. I blocchi di pietra precipitarono a terra con un fragore assordante. Le pareti, rimaste prive di contrafforti, iniziarono a piegarsi verso l’esterno. Castigo stava ancora tentando di liberarsi, ma i suoi sforzi non fecero che peggiorare la situazione: pochi istanti dopo le pareti cedettero. L’intera struttura crollò con un boato simile a quello di una valanga, sollevando un’enorme nuvola di polvere. Saphira esultò; poi atterrò accanto al cumulo di macerie e lo investì con il getto di fiamma più caldo che riuscì a emettere. Le lingue di fuoco erano facili da deviare, ma schermarsi dal calore che avrebbero comunque generato richiedeva un grande dispendio di forza. Murtagh doveva averne consumata già parecchia per non rimanere schiacciato insieme a Castigo nel crollo dell’edificio, e sarebbe stato costretto a usarne dell’altra per evitare di finire arso vivo: con le riserve di energie tanto ridotte, Eragon e i bipedi dalle orecchie rotonde sarebbero forse riusciti a sconfiggerlo.

Mentre eruttava fuoco, sentiva l’elfo-lupo sulla sua schiena recitare incantesimi. Ignorava a che cosa servissero, e nemmeno le importava. Si fidava di lui: qualsiasi cosa stesse facendo, era sicura che sarebbe stato d’aiuto. Arretrò in fretta quando i blocchi al centro del cumulo di detriti esplosero e con un ruggito Castigo si liberò dai calcinacci. Aveva le ali accartocciate come quelle di una farfalla calpestata, e sanguinava da numerosi squarci sulle zampe e sul dorso. Il drago rosso la guardò e ringhiò, gli occhi color rubino cupi e traboccanti di rabbia. Per la prima volta l’aveva fatto infuriare sul serio, ed era chiaro che non vedeva l’ora di azzannarle le carni e assaggiare il suo sangue. Bene, pensò lei. Forse non era il vigliacco sottomesso che credeva. Murtagh estrasse da una borsa che teneva appesa alla cintura un piccolo oggetto rotondo. Saphira indovinò subito che doveva essere qualcosa di magico e che l’avrebbe usato per curare le ferite di Castigo. Senza attendere spiccò il volo, cercando di allontanarsi il più possibile prima che Castigo fosse in grado di lanciarsi al suo inseguimento. Ma quando poco dopo guardò in basso lo vide risalire verso di lei a folle velocità, un enorme-sparviero-rosso-artigli-affilati. Si voltò a mezz’aria e stava per lanciarsi contro di lui quando nelle profondità della mente sentì Eragon gridare: Saphira! Allarmata, continuò a girare su se stessa fino a quando non realizzò che la voce di Eragon proveniva dall’ingresso sud della città. Serrò le ali e si tuffò in picchiata quasi verticale verso quel punto. Sfrecciò accanto a Castigo, che virò e si lanciò subito al suo inseguimento; Saphira non aveva bisogno di guardarsi alle spalle per sapere che era vicinissimo. E così tutti e due si precipitarono verso le sottili mura della città-nido-di-ratti, e nelle orecchie di Saphira la fresca aria-del-giorno-senz’acqua ululò come un lupo ferito. [eBookLove - eBL 043] Christopher Paolini - Inheritance [by Pico]

MARTELLO ED ELMO Finalmente!, pensò Roran quando i corni diedero ai Varden il segnale di avanzare. Si voltò a guardare Dras-Leona e intravvide Saphira scendere in picchiata verso la massa scura degli edifici; le sue squame splendevano alla luce del sole nascente. Più in basso, Castigo si drizzò come un enorme gatto che era rimasto a prendere il sole su una staccionata lanciandosi all’inseguimento. Roran si sentì percorrere da una scarica di adrenalina. Alla fine era arrivato il tempo della battaglia, e lui era ansioso di farla finita. Per un istante pensò a Eragon, e si augurò che stesse bene, poi si alzò dal ceppo su cui era seduto e si affrettò a raggiungere gli altri uomini che si stavano schierando in formazione in un ampio rettangolo. Fortemartello fece correre lo sguardo sui ranghi per verificare che le truppe fossero pronte. Erano rimasti in attesa per quasi tutta la notte ed erano stanchi, ma sapeva che la paura e la concitazione avrebbero presto schiarito loro la mente. Anche lui era stanco, ma non ci badò: avrebbe dormito a battaglia finita. La sua unica preoccupazione era evitare che lui e i suoi uomini cadessero nell’imminente scontro. A pensarci, gli sarebbe piaciuto avere tempo per una tazza di tè: forse gli avrebbe sistemato lo stomaco. Aveva mangiato qualcosa di avariato a cena e da allora crampi e nausea l’avevano tormentato, ma stava abbastanza bene da poter combattere. O almeno così sperava. Soddisfatto delle condizioni dei suoi uomini, Roran si mise l’elmo sopra la calotta imbottita. Poi afferrò il martello e infilò il braccio sinistro nelle cinghie dello scudo. «Ai tuoi ordini» gli disse Horst avvicinandosi. Roran annuì. Aveva scelto il fabbro come comandante in seconda, e Nasuada aveva accettato la decisione senza obiettare. Non c’era altra persona – a parte Eragon – che Roran avrebbe preferito avere al proprio fianco. Era egoista da parte sua, lo sapeva – Horst aveva appena avuto un figlio, e per i Varden era preziosa l’abilità che lui poteva vantare nel suo mestiere –, eppure Roran non riusciva a pensare a qualcuno di più adatto per quell’incarico. Horst non era sembrato particolarmente felice della promozione, ma non ne era nemmeno rimasto turbato. Si era invece dedicato a organizzare le truppe con la calma, la sicurezza e la competenza che Roran si aspettava da lui. I corni suonarono ancora una volta; lui levò il martello. «Avanti!» gridò, e si portò alla testa dei suoi uomini, che iniziarono a marciare insieme agli altri quattro battaglioni dei Varden. Mentre i soldati attraversavano i campi aperti che li separavano da Dras-Leona, nella città si levarono grida di allarme. Qualche istante più tardi alle urla si unì il suono di corni e di campane, e ben presto l’intera città riecheggiò di rumori rabbiosi: i difensori reagivano. In aggiunta al clamore, spaventosi ruggiti e schianti tremendi provenivano dal punto in cui i due draghi stavano combattendo. Di tanto in tanto l’uno o l’altro spuntava sopra i tetti degli edifici, con le squame che brillavano luminose, ma perlopiù restavano fuori dalla visuale di Roran.

Ben presto arrivarono al labirinto di edifici fatiscenti che correva intorno alla città. Le vie strette, buie e tortuose preoccupavano Roran: sarebbe stato facile per i soldati dell’Impero – e perfino per i cittadini di Dras-Leona – tendere loro un’imboscata. E una battaglia in spazi tanto angusti sarebbe stata ancora più brutale, disordinata e confusa. Roran sapeva che ben pochi dei suoi uomini ne sarebbero usciti illesi. Mentre avanzava nel cono d’ombra della prima fila di casupole si sentì serrare lo stomaco e afferrare da un nuovo accesso di nausea. Si inumidì le labbra per soffocare un conato. Sarà meglio che Eragon apra quei cancelli, pensò. Altrimenti rimarremo rinchiusi qui dentro come agnelli destinati al macello. [eBookLove - eBL 043] Christopher Paolini - Inheritance [by Pico]

E LE MURA CADDERO... Il fragore di un crollo lo costrinse a fermarsi. Eragon si voltò, e guardando tra i tetti di due case in lontananza scoprì la causa di quel boato: dove un tempo svettava la guglia dentellata della cattedrale c’era soltanto uno spazio vuoto. Da quel punto si innalzava una colonna di polvere, come un pennacchio di fumo bianco, che lentamente salì verso le nuvole. Eragon sorrise tra sé, orgoglioso di Saphira. Quando servivano caos e distruzione nessuno poteva competere con i draghi. Continua così, pensò. Falla a pezzi! Seppellisci quell’antro consacrato sotto mille piedi di pietra! Poi riprese a correre lungo la buia e tortuosa via lastricata insieme ad Arya, Angela e Solembum. C’era già una piccola folla per la strada: mercanti che andavano ad aprire le botteghe, guardiani di notte a fine turno, nobiluomini ubriachi che si riprendevano dai bagordi, vagabondi e soldati che si precipitavano verso le mura cittadine. Tutti, perfino quelli che correvano, guardavano verso la cattedrale: la ferocia del combattimento tra i due draghi che da lì riecheggiava in ogni angolo della città. E tutti – dai tristi mendicanti ai soldati temprati dalle guerre fino ai nobili agghindati con sfarzo – avevano un’aria atterrita; nessuno rivolse a Eragon o ai suoi compagni più di un’occhiata fugace. E poi, si disse il Cavaliere, per fortuna a uno sguardo distratto lui e Arya potevano tranquillamente essere scambiati per umani. Aveva insistito perché Arya lasciasse il novizio ancora incosciente in un vicolo a debita distanza dalla cattedrale. “Gli ho promesso che lo avremmo portato con noi” aveva spiegato Eragon, “ma non ho mai detto fino a dove. Da qui in poi saprà cavarsela.” Arya aveva annuito, sollevata di non dover più reggere sulle spalle il peso del novizio. Mentre correvano, Eragon fu assalito da una strana sensazione di familiarità. La sua ultima visita a Dras-Leona si era conclusa più o meno nello stesso modo: lui che correva nei vicoli tra le case strette e sudicie, sperando di raggiungere i cancelli della città prima di venire scoperto dall’Impero. L’unica differenza era che adesso i pericoli che avrebbe potuto affrontare non erano solo i Ra’zac. Si voltò di nuovo verso la cattedrale. Saphira avrebbe dovuto tenere occupati Murtagh e Castigo per una manciata di minuti ancora: a quel punto sarebbe stato troppo tardi per fermare l’avanzata dei Varden. Tuttavia in battaglia i minuti sembrano ore, ed Eragon sapeva fin troppo bene quanto in fretta possano ribaltarsi gli equilibri durante uno scontro. Tieni duro!, pensò, anche se non inviò i suoi pensieri a Saphira per non distrarla e non far scoprire la propria posizione. Solo un altro po’! Le strade divennero sempre più strette via via che si avvicinavano alle mura, e gli edifici tutto attorno – perlopiù case – lasciavano intravvedere soltanto una sottile striscia di cielo. I canaletti di scolo ai bordi dei vicoletti erano pieni di liquami stagnanti, ed Eragon e Arya dovevano correre coprendosi naso e bocca con la manica. L’erborista sembrava immune al fetore; Solembum però agitava la coda e soffiava infastidito.

Eragon colse con la coda dell’occhio un movimento sul tetto di un edificio vicino, ma quando si girò non notò nulla di strano. Non distolse lo sguardo, però, e dopo qualche istante scorse qualcosa di insolito: una macchia bianca che risaltava contro il nerofumo sui mattoni di un comignolo; strane sagome appuntite che si stagliavano nel cielo mattutino; un piccolo ovale, grande quanto una moneta, che riluceva come fuoco nell’ombra. E dopo un attimo capì, sbalordito, che quelli che vedeva allineati sui tetti erano gatti mannari, decine di gatti mannari, tutti in forma animale. Balzavano di casa in casa, osservando silenziosi dall’alto Eragon e i suoi compagni che avanzavano in quel dedalo di viuzze buie. Eragon sapeva che gli sfuggenti mutaforma non si sarebbero degnati di aiutarli se non in circostanze disperate, perché volevano tenere nascosta il più a lungo possibile a Galbatorix la loro alleanza con i Varden, ma si sentì rincuorato dalla loro presenza. In fondo alla strada che stavano percorrendo c’era un incrocio da cui si snodavano altri cinque vicoli. Eragon si consultò con Arya e con l’erborista: decisero di proseguire diritti e si infilarono nella viuzza di fronte. Un centinaio di passi più avanti, superata una curva a gomito, si ritrovarono nella piazza di fronte al cancello sud di Dras-Leona. Eragon si fermò. Davanti al cancello si erano raccolte centinaia di soldati. Stavano imbracciando le armi e si allacciavano le armature, scomposti e confusi mentre i comandanti latravano ordini. La filigrana dorata sulle loro tuniche cremisi scintillava al sole. Eragon non si aspettava di trovarsi di fronte una truppa così nutrita, ma ancor più grande fu il suo sgomento quando vide il cumulo di pietre e calcinacci che avevano ammassato contro i cancelli per impedire ai Varden di entrare in città. Imprecò. Era una catasta enorme, una vera montagna. Ci sarebbero voluti cinquanta uomini e parecchi giorni per sgombrarla. Saphira avrebbe potuto liberare i cancelli in pochi minuti, ma Murtagh e Castigo non glielo avrebbero certo permesso. Abbiamo bisogno di un altro diversivo, pensò. Eppure non riusciva a farsene venire in mente uno. Saphira!, gridò alla fine, espandendo i pensieri verso di lei. La dragonessa lo aveva sentito, ne era sicuro, ma non ebbe tempo di spiegarle la situazione perché in quello stesso istante uno dei soldati si fermò e indicò Eragon e i suoi compagni. «Ribelli!» Eragon sguainò Brisingr e si lanciò in avanti prima che il resto del battaglione potesse raccogliere l’allarme. Non aveva altra scelta: ritirarsi avrebbe significato abbandonare i Varden in balia dell’Impero. E poi non poteva lasciare Saphira a sbrigarsela da sola con le mura e i soldati. Urlò mentre caricava, e lo stesso fece Arya, che si unì a lui in quel folle assalto. Insieme si gettarono nella mischia dei soldati, che rimasero interdetti. Alcuni erano così allibiti che non si resero conto che Eragon era un loro nemico finché lui non li trafisse. Nugoli di frecce piovvero sulla piazza dalle postazioni degli arcieri lungo il parapetto. In parte rimbalzarono contro le difese magiche di Eragon, ma molte altre finirono per ferire e uccidere proprio i soldati imperiali.

Per quanto veloce, Eragon non riusciva a parare con Brisingr tutte le spade, i pugnali e le lance che gli venivano branditi contro. A respingere la maggior parte degli attacchi erano dunque le sue difese magiche, e ben presto il Cavaliere avvertì un allarmante calo di energie. A meno che non fosse riuscito a liberarsi dalla ressa di soldati, si sarebbe indebolito al punto da non essere più in grado di combattere. Con un urlo spaventoso prese a girare su se stesso, e tenendo Brisingr all’altezza della vita falciò tutti i soldati a portata di spada. L’azzurra lama iridescente squarciò ossa e carne senza fatica. Il sangue colava dalla punta in un lungo nastro attorcigliato, che lentamente si scomponeva in gocce scintillanti come perle di lucido corallo; gli uomini raggiunti dalle stoccate impietose crollarono a terra con le mani strette al ventre nel tentativo di tamponare le ferite. Ogni dettaglio di quella scena era chiaro e nitido, come inciso nel vetro. Eragon riusciva a distinguere i peli della barba di ogni singolo spadaccino che si trovava dinanzi, poteva contare le gocce di sudore che gli imperlavano il volto, e avrebbe saputo indicare tutti i graffi, i tagli o gli strappi nella sua uniforme. Il fragore della battaglia gli feriva il fine udito, ma il Cavaliere provava una profonda quiete. Non era immune alle paure che l’avevano assalito in passato, ma erano meno intense, e per questo combatteva meglio. Completò il giro, e stava per avventarsi su uno spadaccino quando Saphira gli passò in volo sopra la testa. Teneva le ali raccolte contro il corpo, frementi come foglie in una tempesta. Quando la dragonessa lo superò, una folata di vento gli scompigliò i capelli e lo spinse a terra. Un istante dopo sulla sua scia comparve Castigo, con le fauci spalancate tra cui ribollivano vampe infuocate. I due draghi sfrecciarono mezzo miglio oltre il muro di fango giallastro di Dras-Leona; poi fecero una giravolta e tornarono indietro. Dal lato opposto delle mura Eragon udì grida e acclamazioni. I Varden devono essere ormai quasi ai cancelli. Sentì un punto dell’avambraccio bruciare come se qualcuno gli avesse versato addosso del grasso bollente. Ci soffiò sopra e scosse il braccio, ma il dolore non svanì: fu allora che si accorse di avere una grossa chiazza rossa sulla tunica. Guardò Saphira: era di certo sangue di drago, ma non sapeva di quale dei due. Mentre i draghi si avvicinavano di nuovo, Eragon sfruttò la momentanea confusione dei soldati per ucciderne altri tre. Poi gli uomini ancora in vita si riebbero, e la battaglia ricominciò sul serio. Un guerriero con un’ascia gli si parò davanti e tentò di colpirlo, ma Arya intervenne e si sbarazzò del soldato sorprendendolo alle spalle con un fendente. Eragon la ringraziò per l’aiuto con un rapido cenno. Di tacito accordo i due si misero schiena contro schiena per fronteggiare insieme i soldati. Arya ansimava quanto lui. Nonostante fossero più forti e veloci della maggior parte degli umani, c’era un limite alla loro resistenza, e anche alle loro risorse. Ne avevano già uccisi a decine, ma ne rimanevano centinaia, e il Cavaliere sapeva che i rinforzi sarebbero presto arrivati da qualche altra parte di Dras-Leona. «E adesso?» gridò, parando un affondo di lancia alla coscia.

«Magia!» rispose Arya. Mentre respingeva gli assalti, Eragon iniziò a recitare tutti gli incantesimi di morte che ricordava. Un altro refolo di vento gli agitò i capelli, e un’ombra lo sovrastò: Saphira stava volando in circolo per rallentare. La dragonessa dispiegò le ali e iniziò a scendere verso le merlature. Prima che potesse atterrare, Castigo la raggiunse in picchiata ed eruttò un getto di fiamme lungo oltre cento piedi. Saphira ruggì di frustrazione e virò allontanandosi dalle mura, battendo in fretta le ali per guadagnare altitudine. I due draghi risalirono avvinghiati l’un l’altro, azzannandosi e artigliandosi con ferocia. Vedere Saphira in pericolo non fece che rafforzare la determinazione di Eragon. Il Cavaliere recitò sempre più in fretta gli incantesimi nell’antica lingua, cercando di non sbagliare la pronuncia. Eppure né i suoi sortilegi né quelli di Arya sembravano avere effetto sui soldati. In quel momento Murtagh tuonò dal cielo, come se fosse un gigante delle nuvole: «Quegli uomini sono protetti dai miei incantesimi, Fratello!» Eragon levò lo sguardo: Castigo si stava tuffando verso la piazza. Il repentino cambio di rotta del drago rosso aveva colto alla sprovvista Saphira, che era ancora sospesa in alto sopra la città. Lo sanno, pensò Eragon, e la paura minò la sua precedente freddezza. Guardò di nuovo la schiera di nemici che aveva intorno, e si accorse che molti altri guerrieri si stavano riversando nelle strade. L’erborista era con le spalle al muro contro una delle case: con una mano brandiva Trillamorte, con l’altra lanciava fiale di vetro sui nemici. Quando si rompevano, le fiale liberavano nuvolette di fumo verde; i soldati investiti dalle esalazioni crollavano a terra stringendosi la gola, mentre strane bolle brune spuntavano nei punti della pelle esposti al veleno. Dietro Angela, accovacciato sul muretto di un giardino, c’era Solembum. Il gatto mannaro sfruttava la posizione sopraelevata per graffiare il volto dei soldati che tentavano di avvicinarsi all’erborista, e li distraeva sfilando loro l’elmo. Sembravano tutti e due in difficoltà, ed Eragon dubitava che sarebbero riusciti a resistere ancora a lungo. Ovunque si voltasse non vedeva un barlume di speranza. Alzò gli occhi verso l’immensa mole di Castigo: il drago rosso allargò le ali e rallentò la discesa. «Dobbiamo andarcene!» urlò Arya. Eragon esitò. Sarebbe stato facile levitare e portare con sé Arya, Angela e Solembum oltre il muro, dove avrebbero trovato i Varden in attesa. Ma se fossero fuggiti, per i guerrieri sarebbe stata la fine. L’esercito non si poteva più permettere indugi: ancora qualche giorno e le riserve di viveri sarebbero finite, e gli uomini avrebbero iniziato a disertare. Ed Eragon sapeva che a quel punto non sarebbero mai più riusciti a unire tutte le razze contro Galbatorix. Il corpo e le ali di Castigo oscurarono il cielo e crearono un cono d’ombra rossastro nascondendo Saphira. Dal collo e dalle zampe del drago stillavano grumi di sangue grossi quanto il pugno di Eragon, e più di un soldato urlò quando venne colpito dal liquido ustionante.

«Eragon! Adesso!» gridò Arya. Lo afferrò per un braccio e iniziò a trascinarlo, ma lui si rifiutò di lasciarsi portare via, incapace di ammettere la sconfitta. Arya lo strattonò con maggior forza ed Eragon fu costretto a guardare in basso per non perdere l’equilibrio. Fu così che lo sguardo gli cadde sul dito della mano destra al quale portava Aren. Aveva sperato di serbare l’energia contenuta nell’anello per il giorno in cui finalmente avesse affrontato l’Impero. Era una misera quantità, se paragonata a quella che il re poteva aver accumulato nei suoi lunghi anni di regno, ma era la più grande riserva che Eragon possedeva, e il Cavaliere sapeva che non avrebbe più avuto l’occasione di accumularne altrettanta prima che i Varden raggiungessero Urû’baen, se mai ci fossero riusciti. Inoltre era una delle poche cose che gli aveva lasciato Brom. Per tutte quelle ragioni esitava a usarlo. Ora, però, non vedeva altre alternative. L’energia di Aren gli era sempre sembrata immensa; si domandò se sarebbe bastata per ciò che aveva in mente. Con la coda dell’occhio vide Castigo puntare su di lui sfoderando gli artigli grandi quanto un uomo, e una vocina dentro di lui gli suggerì di darsela a gambe prima che quel mostro lo sbranasse vivo. Eragon inspirò a fondo e poi decise di intaccare la preziosa scorta. «Jierda!» gridò. Il flusso di energia che lo attraversò era il più intenso che avesse mai sentito; era come un fiume di lava incandescente che bruciava e lo scuoteva con una violenza quasi insopportabile. Una sensazione a metà tra la pena e l’estasi. Al suo comando, l’enorme cumulo di macerie che bloccava i cancelli esplose verso l’alto in una colonna di pietre e terra che colpì Castigo al fianco, gli squarciò l’ala e lo scagliò verso i sobborghi di Dras-Leona. Poi l’obelisco di detriti si aprì a ventaglio calando come una cappa sul versante sud della città. L’esplosione fece tremare la piazza e scaraventò tutti a terra. Anche Eragon fu sbalzato via, ma non distolse lo sguardo dalla valanga di macerie, evitando così che l’incantesimo si spezzasse. Quando l’energia contenuta nell’anello si fu quasi esaurita, mormorò: «Gánga raehta.» Come una nube temporalesca catturata dal vento, la massa di polvere e detriti si spostò verso le rive del Lago di Leona. Eragon continuò a spingerla finché poté lontano dal cuore della città; poi, mentre gli ultimi residui di energia gli attraversavano il corpo, pose fine all’incantesimo. La nuvola crollò su se stessa con un suono smorzato. I detriti più pesanti – pietre, ceppi di legno, zolle di terra – precipitarono nel lago, mentre le particelle più leggere rimasero sospese a mezz’aria, formando una caligine bruna che scivolò lenta verso ovest. Dove prima erano accalcate le macerie adesso c’era un cratere vuoto; le pietre infrante che ne orlavano i margini somigliavano a tanti denti rotti. I cancelli della città erano spalancati, i battenti incurvati e spaccati, ormai impossibili da riparare. E al di là dei cancelli Eragon vide i Varden. Gli sfuggì un sospiro di sollievo e abbandonò il capo, esausto. Ha funzionato, pensò esterrefatto. Poi si alzò a fatica, vagamente consapevole che il pericolo non era ancora passato.

Mentre i soldati arrancavano per rimettersi in piedi, i Varden si riversarono dentro le mura di Dras-Leona con urla di guerra e battendo le spade sugli scudi. Pochi secondi più tardi Saphira atterrò fra di loro, e quella che si era annunciata come una battaglia campale si trasformò in una miserabile disfatta per i soldati nemici, che si diedero a una fuga disperata. Eragon scorse Roran tra la folla di uomini e nani, ma poi lo perse di vista prima di poter attirare la sua attenzione. Arya...? Eragon si voltò e scoprì allarmato che l’elfa non era accanto a lui. Si guardò intorno e finalmente la vide: era al centro della piazza, circondata da una ventina di soldati. Gli uomini l’avevano afferrata per le braccia e le gambe e tentavano di trascinarla via. Lei riuscì a liberare una mano e colpì un uomo al mento spezzandogli il collo, ma un altro soldato ne prese il posto prima che l’elfa potesse divincolarsi. Eragon si lanciò verso di lei. Era sfinito, e la punta di Brisingr, che non riusciva più a tenere diritta, si incastrò nell’usbergo di un soldato caduto, facendogli scivolare l’elsa via di mano. La spada cadde a terra sferragliando ed Eragon esitò, incerto se fermarsi e tornare indietro a prenderla o proseguire, ma poi vide due uomini che tentavano di pugnalare Arya e corse verso di lei. L’elfa riuscì a scrollarsi di dosso i soldati per un attimo, e prima che potessero riacciuffarla Eragon si avventò sul più vicino e gli sfondò la cassa toracica col pugno. Un soldato con grossi baffi impomatati cercò di colpirlo con la spada, ma il Cavaliere afferrò la lama a mani nude, gliela strappò via, la spezzò e lo sventrò con una delle due metà. In pochi istanti tutti i soldati che avevano tentato di trascinare via Arya giacevano a terra, morti o in fin di vita. L’elfa finì quelli che Eragon non aveva ucciso. Dopo, Arya disse: «Sarei riuscita a batterli da sola.» Eragon si chinò, posando le mani sulle ginocchia per riprendere fiato. «Lo so» le concesse, e con un cenno indicò la mano destra di Arya, quella che l’elfa si era ferita cercando di liberarsi dai ceppi, e che ancora stringeva contro la gamba. «Consideralo un regalo di ringraziamento.» «Un dono alquanto macabro» ribatté lei, ma sulle labbra le danzò l’ombra di un sorriso. La maggior parte dei soldati era fuggita dalla piazza; i pochi rimasti erano arretrati contro le case, spalle al muro, e i Varden li circondavano. Ovunque Eragon guardasse, vedeva gli uomini di Galbatorix gettare le armi e arrendersi. Lui e Arya recuperarono Brisingr e si sedettero vicino al muro giallastro, dove il terreno era sgombro. Da lì guardarono i Varden occupare la città. Saphira li raggiunse qualche istante dopo. Strofinò il muso contro Eragon, che sorrise e prese ad accarezzarla. La dragonessa emise un sommesso mugolio in risposta. Ce l’hai fatta, disse. Ce l’abbiamo fatta, la corresse lui. Blödhgarm smontò di sella e si lasciò scivolare lungo il fianco della dragonessa. Per un attimo Eragon provò la bizzarra esperienza di incontrare il suo doppio; decise all’istante che non gli piaceva come i capelli gli si arricciavano sulle tempie. Blödhgarm mormorò una misteriosa parola nell’antica lingua. La sua immagine tremolò come un miraggio creato dal calore e l’elfo tornò se stesso: alto, ricoperto di pelliccia, con

gli occhi gialli, le orecchie a punta e le zanne affilate. Non sembrava né umano né elfo, ma sul viso aveva dipinta un’espressione tesa e indurita in cui Eragon scorse rabbia e dolore. «Ammazzaspettri» esordì con un inchino. «Saphira mi ha detto della sorte di Wyrden. Io...» Prima che potesse finire la frase, i dieci elfi rimasti sotto il suo comando emersero dalla massa dei Varden brandendo le spade e si affrettarono a raggiungerlo. «Ammazzaspettri!» esclamarono. «Argetlam! Squamediluce!» Eragon li salutò con un cenno stanco e si sforzò di rispondere alle loro domande, anche se avrebbe preferito restare in silenzio. D’improvviso un ruggito troncò la conversazione e un’ombra si stagliò sulla piazza. Eragon levò lo sguardo: Castigo – di nuovo sano e in forze – era sospeso sopra di loro. Il Cavaliere imprecò e si arrampicò in fretta sul dorso di Saphira sfoderando Brisingr, mentre Arya, Blödhgarm e gli altri elfi formavano un circolo protettivo intorno alla dragonessa. Il loro potere combinato era formidabile, ma Eragon non era in grado di dire se sarebbe bastato per respingere Murtagh. Tutti i Varden alzarono lo sguardo. Erano intrepidi, ma anche il guerriero più valoroso trema davanti a un drago. «Fratello!» gridò Murtagh con una voce così potente che Eragon dovette coprirsi le orecchie. «Il tuo sangue mi ripagherà delle ferite che hai inferto a Castigo! Prendi pure Dras-Leona; non vale nulla per Galbatorix. Ma non ti sei liberato di noi, Eragon Ammazzaspettri, questo te lo posso assicurare.» Un istante dopo Castigo si voltò verso nord e volò via da Dras-Leona: ben presto svanì tra le volute di fumo che si innalzavano dalle case in fiamme accanto alle rovine della cattedrale.

SULLE RIVE DEL LAGO DI LEONA Eragon attraversò a grandi falcate l’accampamento immerso nell’oscurità, con la mascella serrata e i pugni stretti. Aveva trascorso le ultime ore a colloquio con Nasuada, Orik, Arya, Garzhvog, re Orrin e i rispettivi consiglieri: avevano discusso gli avvenimenti del giorno e analizzato la situazione attuale dei Varden. Verso la fine dell’incontro avevano convocato la regina Islanzadi per ragguagliarla sulla conquista di Dras-Leona e informarla della tragica fine di Wyrden. A Eragon non era affatto piaciuto doverle raccontare le circostanze della morte di uno dei suoi stregoni più anziani e potenti, né la regina aveva gradito ricevere la notizia. La sua prima reazione era stata di una tristezza così profonda che Eragon ne era rimasto sorpreso: non immaginava che lei avesse tanto a cuore le sorti di Wyrden. Parlare con Islanzadi aveva gettato Eragon nello sconforto, perché aveva reso ancora più evidente ai suoi occhi quanto la morte dell’elfo fosse stata inutile e casuale. Se ci fossi stato io in testa al gruppo gli spuntoni avrebbero trafitto me, pensò, aggirandosi con circospezione nell’accampamento. O magari Arya. Saphira sapeva che cosa aveva intenzione di fare, ma aveva deciso di tornare a dormire accanto alla tenda di Eragon perché, come gli aveva detto, “ Se mi metto a saltellare tra una tenda e l’altra terrò tutti svegli, e i Varden si sono più che meritati il loro riposo .” Mantennero comunque il legame mentale: Eragon era certo che se avesse avuto bisogno di lei, la dragonessa sarebbe stata al suo fianco in un attimo. Evitò di passare vicino ai falò e alle torce accese davanti alle tende per mantenere inalterata la sua vista notturna; tuttavia scrutò con estrema attenzione ogni punto illuminato, in cerca della sua preda. Mentre setacciava l’accampamento pensò che forse lei lo stava evitando di proposito. Eragon nutriva nei suoi confronti sentimenti tutt’altro che amichevoli, e questo le avrebbe permesso di individuare la sua posizione ed evitarlo, se lo avesse voluto. Ma non era una vigliacca: nonostante la giovane età, Eragon la riteneva uno degli esseri più impavidi che avesse mai incontrato, inclusi umani, elfi e nani. Alla fine la scorse davanti a una tenda piccola e anonima. Elva era seduta e stava giocando a ripiglino con una cordicella alla luce morente di un falò. Accanto a lei c’era la sua domestica, Greta, che faceva la maglia. Eragon si fermò a osservare la scena per un momento. Non aveva mai visto l’anziana donna tanto serena e gli dispiaceva disturbarla. Poi Elva disse: «Non perderti d’animo proprio ora, Eragon, ormai sei arrivato fin qui.» La voce aveva un tono sommesso, come se avesse pianto, ma quando la strega-bambina levò lo sguardo Eragon vi lesse ferocia e provocazione. Greta parve sorpresa quando vide il Cavaliere avanzare nel cono di luce; raccolse i ferri e il gomitolo e si inchinò: «Salute a te, Ammazzaspettri. Posso offrirti qualcosa da mangiare o da bere?»

«No, ti ringrazio.» Eragon si fermò di fronte a Elva e la guardò. L’esile fanciulla lo fissò di rimando per un istante, poi tornò a intrecciare il filo tra le dita. I suoi occhi violetti, notò lui con un improvviso nodo allo stomaco, erano della stessa tonalità delle ametiste che i sacerdoti dell’Helgrind avevano usato per imprigionare lui e Arya e uccidere Wyrden. Eragon si inginocchiò e afferrò il filo nel mezzo, interrompendo il gioco di Elva. «So che cosa sei venuto a dirmi» lo anticipò lei. «Immagino di sì» ringhiò Eragon, «ma te lo dirò comunque. Hai ucciso tu Wyrden. È come se lo avessi pugnalato con le tue stesse mani. Se tu fossi venuta con noi avresti potuto avvisarlo della trappola, avresti potuto avvisarci tutti. È morto sotto i miei occhi, e ho dovuto vedere Arya che si scarnificava mezza mano a causa tua. Per colpa della tua rabbia, della tua testardaggine, del tuo orgoglio. Odiami pure, se vuoi, ma non osare più far soffrire qualcun altro per colpire me. Se ci tieni tanto ad assistere alla disfatta dei Varden, perché allora non ti unisci a Galbatorix? È questo che desideri?» Elva scosse lentamente il capo. «Allora non negare mai più il tuo aiuto a Nasuada per puro dispetto, oppure dovrai fare i conti con me, Elva la Veggente, e non sarò certo io a perdere.» «Non saresti mai in grado di sconfiggermi» mormorò la bambina, turbata. «Non esserne così sicura. Tu hai un talento incredibile, Elva. I Varden hanno bisogno del tuo contributo, ora più che mai. Non so come faremo ad annientare il re a Urû’baen, ma se tu sarai dalla nostra parte, se userai le tue doti contro di lui, allora potremmo avere una possibilità.» Elva parve essere preda di un dilaniante conflitto interiore. Alla fine annuì ed Eragon notò che aveva gli occhi pieni di lacrime. Non fu felice di vederla in quello stato, ma si sentì vagamente soddisfatto nel constatare che le sue parole avevano prodotto in lei un simile effetto. «Mi dispiace» bisbigliò la bambina. Eragon lasciò andare il filo. «Le tue scuse non riporteranno in vita Wyrden. Comportati meglio in futuro, e forse potrai fare ammenda per i tuoi errori.» Salutò con un cenno del capo Greta, che era rimasta in silenzio durante tutta la conversazione, poi si allontanò dal falò e ripiombò nell’oscurità dell’accampamento. Sei stato bravo, si congratulò Saphira. Credo che cambierà da oggi in poi. Lo spero. Rimproverare Elva era un’esperienza del tutto nuova per Eragon. Ricordava ancora quando era stato lui a subire i rimbrotti di Brom e Garrow. Trovarsi nell’altro ruolo lo fece sentire diverso: più maturo. La ruota gira, pensò. Si attardò di proposito lungo il tragitto di ritorno, godendo della brezza fresca che spirava dal lago nascosto tra le ombre. Dopo la conquista di Dras-Leona, Nasuada aveva sorpreso tutti decidendo di non far accampare i Varden in città per la notte. Non aveva fornito alcuna spiegazione in merito, ma Eragon si era fatto un’idea in proposito: il grande ritardo accumulato a Dras-Leona l’aveva resa più che impaziente di riprendere il viaggio verso Urû’baen; inoltre non aveva

alcuna voglia di trattenersi in un luogo dove potevano nascondersi chissà quante spie di Galbatorix. I Varden avevano setacciato le vie per assicurarsi che non vi fossero nemici appostati, e Nasuada aveva affidato la città a un gruppo di guerrieri comandati da Martland Barbarossa. Poi i suoi uomini avevano lasciato Dras-Leona e si erano messi in marcia verso nord, costeggiando le sponde del lago. Lungo il cammino c’era stato un viavai ininterrotto di messaggeri tra i Varden e Dras-Leona, perché Nasuada e Martland dovevano discutere delle numerose questioni riguardanti il governo della città. Prima di partire, Eragon, Saphira e gli stregoni di Blödhgarm erano tornati alle rovine della cattedrale per recuperare il corpo di Wyrden e cercare la cintura di Beloth il Savio. Saphira aveva impiegato pochi minuti a rimuovere il cumulo di pietre che ostruiva l’ingresso alle sale sotterranee e altrettanto ci avevano messo Blödhgarm e gli altri elfi a rinvenire il cadavere dello stregone. Per la cintura invece nulla da fare: tutto il tempo e gli incantesimi a loro disposizione non bastarono a trovarla. Gli elfi avevano adagiato il corpo del compagno sui loro scudi e l’avevano trasportato fuori dalla città, sopra una collinetta affacciata su un piccolo ruscello. L’avevano sepolto lì, intonando struggenti litanie nell’antica lingua, commuovendo Eragon fino alle lacrime e attirando tutti gli uccelli e gli animali della zona, che si fermarono ad ascoltare. L’elfa dai capelli argentei, Yaela, si era inginocchiata accanto alla tomba, aveva estratto una ghianda dalla borsa e l’aveva poggiata proprio sopra il petto di Wyrden. A quel punto i dodici elfi, compresa Arya, si erano messi a cantare e la ghianda, che aveva messo radici, era germogliata ed era cresciuta in un forte fusto nodoso con i rami rivolti all’insù, simili a braccia tese. Al termine del canto la quercia frondosa era alta venti piedi e da ogni ramo pendevano lunghe ghirlande di fiori verdi. Per Eragon fu il funerale più toccante a cui avesse mai assistito. Era di gran lunga preferibile alla pratica dei nani di tumulare i loro morti nelle profondità della terra, dentro bare di pietra dura e fredda. Gli piaceva l’idea che il corpo di qualcuno potesse dare origine a un albero che sarebbe vissuto per centinaia di anni ancora. Potendo scegliere, avrebbe voluto che sopra di lui venisse piantato un melo, così la sua famiglia e i suoi amici avrebbero potuto mangiare i frutti generati dal suo corpo. Un pensiero tetro ma a suo modo confortevole. Oltre a perlustrare la cattedrale e a recuperare il cadavere di Wyrden, Eragon aveva fatto anche un’altra cosa degna di nota a Dras-Leona. Con il benestare di Nasuada aveva reso libero ogni schiavo della città ed era andato lui stesso nei manieri e nelle case dei mercanti a spezzare le catene di uomini, donne e bambini imprigionati. Aiutare tutte quelle persone l’aveva fatto star bene, e sperava di aver regalato loro una vita migliore. Avvicinandosi alla sua tenda dopo il colloquio con Elva, vide che Arya lo aspettava davanti all’entrata. Accelerò il passo, ma prima che potesse salutarla qualcuno lo chiamò: «Ammazzaspettri!» Eragon si voltò: uno dei paggi di Nasuada correva verso di loro. «Ammazzaspettri» ripeté il ragazzo ansimando, e fece un inchino all’elfa prima di riferirle il motivo della sua visita: «Lady Arya, la mia signora desidera che tu la raggiunga nella sua tenda domattina, un’ora prima dell’alba, per conferire con lei. Cosa devo risponderle?»

«Dille pure che ci sarò» replicò Arya con un lieve cenno del capo. Il paggio s’inchinò di nuovo, poi corse via. «Si rischia di far confusione, ora che abbiamo ucciso tutti e due uno Spettro» osservò Eragon, divertito. Arya sorrise a sua volta: nell’oscurità il movimento delle labbra fu quasi impercettibile. «Avresti preferito che avessi lasciato Varaug in vita?» «No... no, niente affatto.» «Avrei potuto tenerlo come schiavo e comandarlo a mio piacere.» «Mi stai prendendo in giro, vero?» ribatté Eragon. Arya gli rivolse un ghigno divertito. «Magari invece dovrei chiamarti principessa... principessa Arya.» Gli piaceva come suonavano quelle parole. «Non è il caso» replicò l’elfa, più seria. «Visto che non lo sono.» «Perché no? Tua madre è una regina: come puoi non essere una principessa? Il suo titolo è dröttning, il tuo è dröttningu. Uno significa regina, e l’altro...» «Non significa principessa» lo interruppe Arya. «Non esattamente. Non esiste un corrispettivo per dröttningu nella tua lingua.» «Ma se tua madre dovesse morire o abdicare, tu prenderesti il suo posto come capo del vostro popolo, no?» «Non è così semplice.» Arya preferì non aggiungere altro, perciò Eragon le chiese: «Vuoi venire dentro?» «Sì» rispose l’elfa. Il Cavaliere scostò i lembi della tenda, e Arya entrò. Dopo aver scoccato un’occhiata a Saphira che dormiva acciambellata lì vicino – come testimoniava il suo respiro pesante – Eragon seguì Arya. Si avvicinò alla lanterna appesa al centro della tenda e mormorò: «Istalrí.» Non usò di proposito brisingr, per evitare che la sua spada prendesse fuoco. La luce della fiamma riscaldò l’ambiente e lo scarno arredo della tenda parve quasi accogliente. Si sedettero e Arya esordì: «Ho trovato questo tra gli averi di Wyrden, e ho pensato che avremmo potuto condividerlo.» Dalla tasca dei pantaloni estrasse una fiaschetta di legno intagliato, e la porse a Eragon. Il Cavaliere svitò il tappo e annusò il liquore. Inarcò le sopracciglia quando riconobbe il profumo dolce e al tempo stesso forte. «È faelnirv?» domandò. Si trattava della bevanda che gli elfi ottengono dalle bacche di sambuco e, così aveva detto Narí, dai raggi di luna. Arya rise e con voce limpida come acciaio temprato disse: «Sì, ma Wyrden ci ha aggiunto un altro ingrediente.» «Quale?»

«Le foglie di una pianta che cresce nelle regioni orientali della Du Weldenvarden, sulle rive del Lago di Röna.» Eragon si accigliò. «E io conosco il nome di questa pianta?» «Forse sì, ma non è importante. Avanti, bevi, ti piacerà. Ne sono sicura.» E rise di nuovo. Eragon era perplesso. Non l’aveva mai vista così: era strana, spensierata. Con una certa sorpresa si rese conto che era già abbastanza brilla. Esitò, domandandosi se Glaedr li stesse guardando, poi portò la fiaschetta alle labbra e inghiottì una sorsata di faelnirv. Il liquore aveva un sapore diverso da quello che ricordava: un gusto forte e muschiato, simile all’odore di una faina o di un ermellino. Eragon fece una smorfia e represse un conato quando il faelnirv gli ustionò la gola. Ne buttò giù ancora un po’ e passò la fiaschetta ad Arya, che bevve a sua volta. Il giorno appena trascorso era stato segnato da sangue e orrore. Ne aveva passato la maggior parte combattendo, uccidendo e cercando di non farsi uccidere; aveva bisogno di lasciarsi andare. Di dimenticare. Aveva accumulato troppa tensione per riuscire a scacciarla con qualche trucco mentale. Serviva qualcos’altro. Qualcosa che non poteva trovare dentro di sé, ma che doveva venire dall’esterno, come dall’esterno si era scatenata la violenza che lo aveva travolto. Quando Arya gli restituì la fiaschetta, Eragon tracannò un altro sorso di liquore e poi rise, senza riuscire a trattenersi. Arya inarcò un sopracciglio e lo fissò, incuriosita e felice al tempo stesso. «Cosa c’è di tanto divertente?» «Questo... Noi... Il fatto che siamo sani e salvi, mentre loro...» Tese il braccio puntandolo verso Dras-Leona. «Loro sono morti. È la vita a divertirmi, il mistero della vita e della morte.» Un tiepido calore gli aveva già scaldato lo stomaco, e la punta delle orecchie pizzicava. «È bello essere vivi» concordò Arya. Continuarono a passarsi la fiaschetta finché il liquore finì. Eragon rimise il tappo al suo posto, operazione che richiese diversi tentativi perché non rusciva a coordinare le dita goffe e pesanti. La branda su cui erano seduti parve oscillare come il ponte di una nave in alto mare. Il Cavaliere porse la fiaschetta vuota ad Arya e quando lei la prese le afferrò la mano – la destra – voltandola verso la luce. La pelle era di nuovo liscia e immacolata. Non c’era più traccia della ferita. «Blödhgarm ti ha guarita?» chiese Eragon. Arya annuì e lui le lasciò la mano. «Mi sono ripresa quasi del tutto.» La aprì e la chiuse più volte per dar seguito alle sue parole. «Ma è rimasta una piccola zona alla base del pollice in cui non ho sensibilità» aggiunse, indicando un punto della pelle con un dito. Eragon la sfiorò. «Qui?» «Sì» rispose Arya. Eragon spostò appena la mano. «E Blödhgarm non ha potuto farci nulla?» L’elfa scosse il capo. «Ha provato diversi incantesimi, ma i tendini non hanno voluto saperne di rinsaldarsi.» Gli rivolse un rapido gesto, come a voler liquidare la questione.

«Non ha importanza. Posso ancora impugnare una spada e tendere un arco. Non serve altro.» Eragon esitò, poi disse: «Ti sono molto grato per quello che hai fatto... per il tuo disperato tentativo. Mi dispiace solo che ti abbia lasciato un segno permanente. Se avessi potuto evitarlo in qualche modo...» «Non angosciarti. La vita ci lascia sempre dei segni. Ed è un bene che sia così. Attraverso le ferite che portiamo sul nostro corpo possiamo misurare le nostre imprudenze e i nostri successi.» «Angela ha detto qualcosa di simile riguardo ai nemici: se non ne hai sei un codardo, o peggio.» Arya annuì. «C’è un fondo di verità nelle sue parole.» Mentre la notte avanzava, continuarono a parlare e a ridere. Anziché diminuire, gli effetti del faelnirv parevano ingigantirsi. Eragon si sentì avvolgere da un manto di nebbia. Le ombre nella tenda sembravano danzare intorno a lui e strani lampi luminosi, simili a quelli che vedeva quando chiudeva gli occhi la notte, galleggiavano nel suo campo visivo. La punta delle orecchie gli scottava e la schiena gli prudeva come se ci stesse marciando sopra un esercito di formiche. Alcuni suoni, poi, avevano acquistato una peculiare intensità, come il frinire ritmico degli insetti del lago o il crepitio della torcia fuori dalla tenda; dominavano il suo udito al punto che aveva difficoltà a distinguere qualunque altro rumore. Sono stato avvelenato?, si domandò. «Tutto bene?» gli chiese Arya, notando la sua agitazione. Eragon si inumidì le labbra – aveva la bocca arida come il deserto – e le disse come si sentiva. L’elfa rise e si appoggiò all’indietro sui gomiti; aveva gli occhi socchiusi. «È giusto che sia così. La sensazione svanirà prima dell’alba. Fino ad allora rilassati e goditi il momento.» Eragon pensò per un attimo di usare un incantesimo per schiarirsi la mente – sempre ammesso che ci riuscisse –, ma alla fine decise di fidarsi di Arya e di seguirne il consiglio. Mentre il mondo intorno a lui si deformava e si distorceva, Eragon si rese conto di quanto dipendesse dai propri sensi per stabilire che cosa fosse reale o meno. Avrebbe giurato che i lampi luminosi fossero davvero lì davanti a lui, anche se la parte razionale della mente gli suggeriva che erano solo visioni generate dal faelnirv. Lui e Arya continuarono a parlare, ma la conversazione si fece sempre più confusa e incoerente. Eragon era comunque convinto che tutti i loro discorsi fossero di importanza capitale, benché non sapesse spiegarne il motivo né ricordasse cosa si erano detti solo pochi istanti prima. Qualche tempo dopo Eragon sentì risuonare nell’accampamento il tono basso e gutturale di un flauto di canna. Subito pensò che anche quelle note altalenanti fossero frutto della sua immaginazione, ma poi vide Arya volgere il capo in direzione della musica, segno che la sentiva anche lei. Eragon non fu in grado di determinare chi stesse suonando e perché, né gli importava. Era come se la melodia fosse balzata fuori dall’oscurità della notte, simile a una folata di vento, solitaria e sperduta.

Rimase in ascolto, il capo gettato all’indietro e le palpebre socchiuse, e intanto nella mente gli turbinavano immagini stupefacenti: immagini che il faelnirv aveva creato ma che la musica plasmava. A poco a poco la melodia si fece sempre più incalzante e quella che era partita come una cadenza lamentosa si trasformò in una marcia forsennata: le note si susseguivano a un ritmo così veloce, insistente, complicato e... allarmante che Eragon prese a temere per l’incolumità del musicista. Suonare tanto in fretta e con tale abilità sembrava innaturale persino per un elfo. Arya rise quando la musica si fece ancora più infervorata, balzò in piedi e assunse una strana posizione, con le braccia ben tese verso l’alto. Pestò i piedi e batté le mani, una, due, tre volte; poi, con sommo stupore di Eragon, cominciò a ballare. All’inizio lenta, poi sempre più veloce, fino ad assecondare il tempo febbrile della musica. Il brano raggiunse l’apice, poi il ritmo iniziò a scemare e il flautista attaccò gli accordi finali della melodia. Ma prima che la canzone terminasse Eragon si sentì prudere all’improvviso la mano destra, tanto che fu costretto a grattarsi il palmo. Nello stesso istante avvertì una fitta nei recessi della mente e uno degli incantesimi di protezione si innescò, avvertendolo di un pericolo imminente. Un attimo dopo il cielo fu scosso dal ruggito di un drago. Il terrore s’impadronì di Eragon, ghiacciandogli il sangue nelle vene. Il ruggito non era di Saphira.

LA PAROLA DI UN CAVALIERE Eragon afferrò Brisingr e si precipitò fuori dalla tenda. Appena uscito, la terra parve inclinarsi; barcollò e cadde su un ginocchio. Si aggrappò a un piccolo arbusto, usandolo come appiglio in attesa che il capogiro passasse. Quando riuscì a levare lo sguardo dovette strizzare gli occhi. La luce delle torce vicine era accecante: le fiamme gli guizzavano davanti come pesci, quasi fossero separate dallo straccio imbevuto d’olio che le alimentava. Non riesco a mantenere l’equilibrio, pensò. Non vedo bene. Devo schiarirmi la mente. Devo... Colse un movimento con la coda dell’occhio e si chinò. La coda di Saphira gli passò sopra, sferzando l’aria ad appena una spanna dalla sua testa; poi colpì la tenda e la appiattì, spezzando i pali di legno come ramoscelli secchi. Saphira ruggì, azzannando l’aria mentre cercava di rimettersi sulle zampe. Poi si fermò, confusa. Piccolo mio, cosa... Un rombo simile a una raffica di vento la interruppe, e dalle profondità del cielo notturno emerse Castigo, rosso come il sangue e più splendente di un universo di stelle. Atterrò accanto al padiglione di Nasuada, facendo tremare la terra. Le guardie della signora dei Varden gridarono; poi Castigo sferrò una zampata obliqua e metà delle urla si spensero. Da un’imbragatura di corde fissata ai fianchi del drago rosso saltarono giù decine di soldati, che si lanciarono verso le tende con le armi in pugno e falciarono le sentinelle. I corni risuonarono lungo il perimetro dell’accampamento. E subito dalla cerchia difensiva si levò il fragore di altri combattimenti: un secondo attacco da nord, si disse Eragon. Quanti saranno?, si chiese. Siamo circondati? Il panico lo attanagliò a tal punto che per poco non si lanciò a correre alla cieca per l’accampamento. Riuscì a trattenersi soltanto grazie alla consapevolezza che le sue percezioni erano amplificate dal faelnirv. Mormorò rapido un incantesimo di guarigione, sperando di annullare gli effetti del liquore, ma senza esito. Amareggiato, cercò di riacquistare l’equilibrio, sollevò Brisingr e raggiunse Arya: spalla a spalla si prepararono ad affrontare i cinque soldati nemici che correvano verso di loro. Eragon non aveva idea di come avrebbero potuto batterli. Non in quelle condizioni. Gli uomini erano a meno di venti passi da loro quando Saphira ruggì e colpì il terreno con la coda, facendo cadere i soldati. Eragon, che aveva indovinato le sue intenzioni, si aggrappò ad Arya; l’elfa fece lo stesso, e sostenendosi a vicenda riuscirono a rimanere in piedi. In quel momento Blödhgarm e un altro elfo, Laufin, sbucarono dal labirinto di tende e trucidarono i cinque avversari prima che potessero rialzarsi; gli altri elfi comparvero subito alle loro spalle.

Un gruppo più nutrito di soldati – una ventina, questa volta – si lanciò verso di loro come se sapessero dove trovarli. Gli elfi si schierarono davanti a Eragon e Arya, ma prima che i soldati arrivassero nel raggio d’azione delle loro spade una delle tende si spalancò all’improvviso e Angela si precipitò urlando nella mischia dei nemici, cogliendoli di sorpresa. L’erborista indossava una camicia da notte rossa, aveva i riccioli arruffati e in ciascuna mano brandiva un pettine per cardare la lana. I pettini erano larghi tre piedi e avevano due file di denti d’acciaio più lunghi dell’avambraccio di Eragon, con le punte affilate come aghi; il Cavaliere sapeva che una sola puntura sarebbe stata letale a causa dei residui di lana sporca che avevano trattenuto. Due soldati crollarono a terra quando Angela piantò loro i pettini nei fianchi, affondando i denti nelle cotte di maglia. L’erborista era più bassa di una buona spanna della maggior parte degli uomini, ma non mostrava alcun timore nei loro confronti. Anzi, con i capelli arruffati, le urla selvagge e lo sguardo truce, era il ritratto della ferocia. I guerrieri la accerchiarono, e per un attimo Eragon temette che potessero sopraffarla. Poco dopo da un altro punto dell’accampamento spuntò Solembum, che si lanciò sui soldati con le orecchie appiattite sulla testa. Altri gatti mannari lo seguivano: venti, trenta, quaranta. Un intero branco, e tutti in forma animale. Una cacofonia di sibili, miagolii e grida riempì la notte quando i felini balzarono sugli assalitori e li scaraventarono a terra, dilaniandoli con gli artigli e con i denti. I soldati combatterono con tutte le loro forze, ma non potevano reggere il confronto con i grossi gatti irsuti. L’intera scena, dalla comparsa di Angela all’intervento dei gatti mannari, fu così veloce che Eragon ebbe a stento il tempo di reagire. Mentre Solembum e l’esercito dei suoi simili si accalcavano sui soldati, batté le palpebre e si inumidì le labbra riarse, guardandosi intorno come se nulla di quello che vedeva fosse reale. Poi Saphira lo incitò: Presto, sali, e si accovacciò per consentirgli di montare. «Aspetta» disse Arya, e gli posò una mano sul braccio, mormorando alcune frasi nell’antica lingua. Un istante dopo gli effetti del faelnirv svanirono ed Eragon si ritrovò finalmente nel pieno possesso delle sue facoltà. Rivolse all’elfa un cenno di riconoscenza, poi raccolse il fodero di Brisingr dai resti della tenda, si arrampicò sulla zampa anteriore di Saphira e si assestò al solito posto, alla base del collo. Cavalcava senza sella, e i bordi taglienti delle squame di Saphira gli si conficcarono nella carne, una sensazione che ben ricordava dal primo volo insieme a lei. «Ci serve la Dauthdaert» gridò ad Arya. L’elfa annuì e corse verso la sua tenda, che era stata montata a diverse centinaia di piedi sul lato orientale dell’accampamento. Un’altra coscienza, diversa da Saphira, gli premette nella mente, ed Eragon si ritirò in se stesso per schermarsi. Poi capì che si trattava di Glaedr, e permise al drago dorato di oltrepassare le sue difese. Vi aiuterò anch’io, propose Glaedr. Nelle sue parole Eragon sentiva ribollire una rabbia terribile nei confronti di Murtagh e Castigo, un furore tanto potente da ridurre il mondo in cenere. Unite le vostre menti alla mia, Eragon, Saphira. E anche tu, Blödhgarm, e tu, Laufin, e

tutti quelli della vostra specie facciano altrettanto. Lasciate che veda con i vostri occhi e ascolti con le vostre orecchie, così che possa consigliarvi cosa fare e trasferirvi la mia energia in caso di bisogno. Saphira prese il volo con un balzo, e rasentando le file di tende puntò verso l’enorme massa vermiglia di Castigo. Gli elfi la seguivano dal basso, uccidendo ogni soldato che incontravano. Saphira aveva il vantaggio dell’altezza, dato che Castigo era ancora a terra. Tracciò un arco sopra di lui, con l’intenzione, comprese Eragon, di piombargli sul dorso e azzannargli il collo, ma quando il drago rosso la vide arrivare ringhiò e si voltò, acquattandosi come un cagnolino di fronte a una bestia più grande. Eragon ebbe appena il tempo di notare che la sella sul dorso di Castigo era vuota quando il drago si impennò e tentò di colpire Saphira con una delle possenti zampe anteriori, che fendette l’aria con un sibilo. Il candore dei suoi artigli riluceva nelle tenebre. Saphira virò, contorcendosi per schivare la zampata. Cielo e terra divennero un’unica massa turbinante intorno a Eragon, che si ritrovò a guardare l’accampamento dal basso mentre la punta dell’ala destra di Saphira squarciava una tenda. La forza della manovra lo strattonò e si sentì scivolare via. Strinse le cosce e si aggrappò meglio, ma lo scarto di Saphira era stato troppo violento, e un istante dopo perse l’appiglio: si ritrovò a cadere nel vuoto, senza sapere bene quale fosse il sopra e quale il sotto. Anche precipitando non lasciò andare Brisingr, e si sforzò di tenere la lama lontano dal corpo; difese o no, a causa degli incantesimi di Rhunön la spada era sempre in grado di ferirlo. Piccolo mio! «Letta!» gridò Eragon, e con un sobbalzo si bloccò a mezz’aria a non più di dieci passi dal suolo. Mentre il mondo ancora gli vorticava intorno, vide la sagoma scintillante di Saphira tornare indietro a recuperarlo. Castigo ruggì furioso e scaricò una vampa di fuoco sulla fila di tende tra lui ed Eragon; le fiamme incandescenti risalirono guizzando verso il cielo, e dall’accampamento esplosero le urla di dolore degli uomini che bruciavano vivi. Eragon si schermò il viso con la mano. La magia lo proteggeva dai danni fisici, ma il calore era insopportabile. Sto bene, non tornare a prendermi, disse a Saphira, includendo nella conversazione mentale anche Glaedr e gli elfi. Devi fermarli. Ci vediamo al padiglione di Nasuada. Saphira accolse quella proposta con palpabile disappunto, ma cambiò di nuovo rotta e tornò all’attacco di Castigo. Eragon ruppe l’incantesimo e si lasciò cadere, atterrando lieve sulla punta dei piedi; poi sfrecciò di corsa tra le tende in fiamme, molte delle quali stavano già crollando sotto una pioggia di scintille. Fumo e odore di lana bruciata appestavano l’aria: il Cavaliere prese a tossire, gli occhi già pieni di lacrime. Diverse centinaia di piedi più avanti, Saphira e Castigo stavano lottando, due giganti nella notte. Eragon si sentì travolgere da un indicibile terrore. Che cosa stava facendo? Perché correva verso due creature che ringhiavano e spalancavano le fauci, grandi come una casa

– due case, se pensava a Castigo – e provviste di artigli, zanne e punte enormi? Anche quando lo sgomento istintivo fu acquietato, nell’avvicinarsi ai due draghi Eragon non riuscì comunque a scacciare del tutto la paura. Sperava che Roran e Katrina fossero al sicuro. La loro tenda era sul lato opposto dell’accampamento, ma Castigo e i soldati avrebbero potuto lanciarsi in quella direzione in qualunque momento. «Eragon!» Arya superò a grandi falcate le tende in fiamme, tenendo ben stretta la Dauthdaert. Un fievole alone verde circondava la lama della lancia con i suoi barbigli, sebbene il bagliore fosse difficilmente distinguibile in mezzo a tutte quelle fiamme. Accanto a lei trotterellava Orik, che si faceva strada tra le lingue di fuoco come se non potessero nuocergli più di uno sbuffo di vapore. Brandiva l’antico martello da guerra Volund, e nell’altra mano reggeva un piccolo scudo rotondo. Le estremità dell’arma grondavano sangue. Eragon li salutò con un cenno e un grido, felice di avere i suoi amici accanto. Quando lo raggiunse, Arya gli offrì la lancia, ma Eragon scosse il capo. «Tienila tu!» disse. «Avremo maggiori possibilità di fermare Castigo se tu usi Niernen e io Brisingr.» Arya annuì e impugnò meglio la lancia. Per la prima volta Eragon si domandò se l’elfa sarebbe stata in grado di uccidere un drago. Poi scacciò il pensiero: se c’era una cosa che sapeva su di lei, era che Arya faceva sempre il necessario, per quanto difficile fosse. Castigo artigliò Saphira alle costole, ed Eragon si sentì mozzare il respiro quando la fitta di dolore della dragonessa si propagò nella sua mente. Dalla coscienza di Blödhgarm apprese che gli elfi erano vicini ai due draghi, ma erano ancora occupati ad abbattere i soldati. Non si sarebbero comunque avvicinati oltre a Saphira e Castigo per paura di venire schiacciati. «Per di là» disse Orik, indicando con il suo martello un gruppetto di soldati che si aggirava tra le file di tende distrutte. «Lascia perdere» intervenne Arya. «Ora dobbiamo aiutare Saphira.» Orik grugnì. «Bene, allora andiamo.» I tre iniziarono a correre, ma ben presto Eragon e Arya distanziarono Orik. Nessun nano poteva sperare di competere con loro, anche se forte e allenato come lui. «Andate avanti!» gridò loro. «Vi seguo più in fretta che posso!» Mentre Eragon schivava brandelli di stoffa in fiamme che fluttuavano nell’aria, scorse Nar Garzhvog in una mischia di dieci soldati. La luce vermiglia delle fiamme faceva sembrare il Kull una creatura quasi grottesca: le zanne snudate e le ombre sulla fronte cornuta gli conferivano un aspetto brutale e primitivo, come se il cranio fosse stato scavato da una roccia con uno scalpello smussato. Combatteva a mani nude, e mentre Eragon lo guardava afferrò un soldato e gli strappò gli arti come un qualsiasi essere umano avrebbe staccato una coscia da un pollo arrosto. Pochi passi più avanti, non c’erano più tende in fiamme. Dall’altro lato della parete di fuoco imperava il caos. Blödhgarm e due maghi elfici erano alle prese con quattro uomini in nero: stregoni dell’Impero, intuì Eragon. Nessuno dei sette muoveva un muscolo, sebbene i loro volti mostrassero uno sforzo intenso. Decine di soldati giacevano a terra morti, ma altri

correvano ancora per l’accampamento: alcuni avevano ferite così orribili che dovevano per forza essere immuni al dolore. Eragon non riusciva a vedere gli altri elfi, ma percepiva la loro presenza dalla parte opposta del padiglione rosso di Nasuada, che si ergeva al centro della devastazione. Gruppi di gatti mannari rincorrevano i soldati sullo spiazzo antistante; re Zampamonca e la sua compagna, Cacciaombre, guidavano due truppe, e Solembum una terza. Accanto al padiglione l’erborista si batteva contro un uomo grosso e muscoloso: lei con i pettini da lana, lui con un randello e un mazzafrusto. Lo scontro sembrava in equilibrio, nonostante le differenze di sesso, altezza, peso e armamenti dei due avversari. C’era anche Elva, ed Eragon fu sorpreso di vederla. La strega-bambina era seduta sul bordo di un barile, e si stringeva lo stomaco con le mani. Sembrava stare molto male: anche lei stava dando il suo personale contributo alla battaglia. Ammassati lì di fronte c’erano decine di soldati, a cui Elva rivolgeva brevi frasi, muovendo le labbra così in fretta che la bocca era solo un’ombra confusa. Ognuno dei nemici reagiva in modo diverso alle sue parole: uno rimase impalato, incapace di muoversi; un altro rabbrividì e si coprì il volto con le mani; il terzo si inginocchiò e si pugnalò al petto con un lungo stiletto; un altro abbandonò le armi e fuggì via; un altro ancora prese a blaterare come un mentecatto. Nessuno alzò un dito contro Elva né fu più in grado di combattere. E su quello scenario apocalittico incombevano, come due montagne sospese nell’aria, Saphira e Castigo. Si erano spostati sul lato sinistro del padiglione e ogni loro movimento frantumava file intere di tende. Lingue di fuoco tremolavano nelle narici e tra le zanne affilate come rasoi. Eragon esitò. In quella baraonda era difficile scegliere dove fosse più necessario intervenire. Murtagh?, domandò a Glaedr. Dobbiamo ancora scovarlo, ammesso che sia qui. Non riesco a percepire la sua mente, ma è difficile, vista l’enorme concentrazione di persone e incantesimi. Attraverso il loro legame il Cavaliere capì che il drago dorato non stava soltanto parlando con lui: Glaedr ascoltava i pensieri di Saphira e degli elfi e stava sostenendo Blödhgarm e i suoi due compagni nel combattimento mentale contro gli stregoni dell’Impero. Eragon confidava che sarebbero riusciti a sconfiggerli, così come sapeva anche che Angela ed Elva sarebbero state in grado di difendersi dai soldati. Saphira era già stata più volte ferita, ma nonostante questo si batteva ancora per impedire a Castigo di attaccare il resto dell’accampamento. Eragon scoccò un’occhiata alla Dauthdaert di Arya, poi tornò a guardare i profili massicci dei draghi. Dobbiamo ucciderlo, pensò, e il suo cuore sprofondò. Poi lo sguardo gli cadde su Elva, e gli venne un’altra idea. Le parole della bambina erano più potenti di qualsiasi arma; nessuno, nemmeno Galbatorix, sarebbe stato in grado di resisterle. Se fosse riuscita a parlare con Castigo sarebbe riuscita a scacciarlo. No!, ruggì Glaedr. Stai perdendo tempo, cucciolo d’uomo. Vai dal tuo drago, subito! Ha bisogno di te. Devi uccidere Castigo, non spaventarlo! Il suo spirito è corrotto, e non c’è più nulla che tu possa fare per salvarlo. Eragon si voltò verso Arya.

«Elva farebbe prima» disse. «Abbiamo la Dauthdaert.» «Troppo pericoloso. Troppo difficile.» Arya esitò, poi annuì. Insieme corsero verso Elva, ma prima che potessero raggiungerla Eragon udì delle grida soffocate. Si voltò, e con sommo orrore vide Murtagh uscire a grandi passi dal padiglione trascinando Nasuada per i polsi. La donna aveva i capelli scarmigliati e un brutto taglio su una guancia; la vestaglia gialla che indossava era strappata in più punti. Nasuada tentò di colpire Murtagh a un ginocchio con un calcio, ma il tallone rimbalzò contro una delle sue difese magiche, lasciandolo illeso. Lui la trasse a sé con un violento strattone, poi la colpì alla tempia con il pomolo di Zar’roc. Nasuada svenne. Eragon urlò e si lanciò verso di loro. Murtagh gli scoccò una rapida occhiata; poi rinfoderò la spada, si issò Nasuada in spalla e si piegò su un ginocchio, chinando il capo come in preghiera. Una fitta di dolore di Saphira distrasse Eragon, e la dragonessa gridò allarmata: Sta’ attento! Mi è scappato! Eragon balzò oltre un mucchio di cadaveri e levò lo sguardo: la pancia scintillante di Castigo e le sue ali vellutate oscuravano metà delle stelle in cielo. Il drago rosso accennò un volteggio mentre si lasciava trasportare verso il suolo come un’enorme foglia pesante. Eragon si tuffò di lato e rotolò dietro il padiglione, cercando di allontanarsi il più possibile dal drago. Un sasso gli si conficcò nella spalla. Senza rallentare, Castigo protese una zampa grossa e nodosa come un tronco d’albero e afferrò Murtagh e Nasuada. Gli artigli affondarono nel terreno scavando un solco di parecchi piedi quando li raccolse da terra. Poi, con un ruggito trionfante e un potente battito d’ali, spiccò il volo e si allontanò dall’accampamento. Saphira si lanciò all’inseguimento; perdeva sangue dalle numerose ferite che il drago rosso le aveva inferto con zanne e artigli. La dragonessa era più veloce di Castigo, ma se anche l’avesse raggiunto, Eragon non riusciva a immaginare come avrebbe fatto a salvare Nasuada senza ferirla. Una folata di vento gli agitò i capelli quando Arya lo superò di corsa. L’elfa balzò su una serie di barili impilati e spiccò un salto, volando altissima, troppo persino per un elfo. A meno che non ci fosse qualcuno ad aiutarlo. Arya tese le braccia e afferrò la coda di Castigo: rimase lì appesa a dondolare come un ciondolo. Eragon fece un mezzo passo in avanti, come per fermarla, poi imprecò e ringhiò: «Audr!» L’incantesimo lo scaraventò in cielo come una freccia scagliata da un arco. Espanse la mente verso Glaedr e il drago lo alimentò con la sua energia per sostenere l’ascesa. Il Cavaliere bruciò l’energia, incurante delle conseguenze: il suo unico obiettivo era raggiungere Castigo prima che accadesse qualcosa di orribile a Nasuada e Arya. Intanto l’elfa si arrampicava sulla coda di Castigo, afferrando le vertebre come fossero i pioli di una scala. Usando la mano libera infilzò Castigo con la Dauthdaert, reggendosi

alla lancia per ancorarsi e risalire così il corpo massiccio. Castigo si dimenò, si contorse e spalancò le fauci, ma non riuscì a raggiungerla. Allora il drago scarlatto ripiegò le ali, e stringendosi al petto il prezioso carico si tuffò verso il basso con una serie di giri della morte. La Dauthdaert gli scivolò via dalle carni, e Arya venne scaraventata di lato, costretta a sorreggersi solo con la destra: la mano debole, quella che si era ferita nelle sale sotto Dras-Leona. Poco dopo perse definitivamente la presa e precipitò nel vuoto con braccia e gambe aperte come i raggi di una ruota. Doveva aver lanciato un incantesimo, però, perché rallentò la caduta fino a fermarsi del tutto, fluttuando a mezz’aria. Irradiata dal bagliore della Dauthdaert che ancora stringeva, sembrava una libellula verde sospesa nell’oscurità. Castigo allargò le ali e curvando bruscamente si lanciò verso di lei. Arya scoccò un’occhiata a Saphira, poi si voltò a fronteggiare Castigo. Una luce maligna illuminò le fauci del drago; un attimo dopo Castigo eruttò una vampa di fiamme che avvilupparono Arya. Eragon era ormai a una cinquantina di passi da lei, abbastanza vicino da avvertire il calore del fuoco sulle guance. Le fiamme si diradarono e Castigo sfrecciò accanto all’elfa, poi girò su se stesso e le si avventò di nuovo contro. Nel frattempo agitò la coda come una frusta, così in fretta che Arya non ebbe modo di evitarla. «No!» gridò Eragon. La coda colpì Arya con uno schiocco tremendo e la scaraventò nell’oscurità come una pietra lanciata da una fionda; l’elfa perse la Dauthdaert, che cadde tracciando un ampio arco. Il bagliore emanato dalla lama diminuì fino a scomparire nel buio. Eragon si sentì mancare il respiro, come se una morsa di ferro gli avesse artigliato il petto. Castigo stava volando via, ma lui forse poteva raggiungerlo, se avesse attinto ancora all’energia di Glaedr. Il legame con il drago dorato si stava però affievolendo, ed Eragon non poteva sperare di avere la meglio su Murtagh e Castigo da solo, e a quell’altezza vertiginosa. Non quando Murtagh aveva decine di Eldunarí a sua disposizione. Imprecò, estinse l’incantesimo che lo sosteneva a mezz’aria e si tuffò verso Arya. Il vento gli urlava nelle orecchie e gli tirava indietro i capelli, i vestiti e perfino le guance, costringendolo a socchiudere gli occhi. Un insetto lo colpì sul collo: una pietra non avrebbe potuto fargli più male. Mentre cadeva, Eragon espanse la mente per cercare Arya. Aveva appena percepito un palpito della coscienza dell’elfa nell’oscurità quando Saphira comparve sotto di lui, le squame iridescenti che brillavano alla luce delle stelle. La dragonessa girò su se stessa, e tendendo le zampe raccolse un piccolo oggetto scuro. L’ho presa, piccolo mio, lo tranquillizzò. «Letta» disse Eragon, e rallentò fino a fermarsi. Si guardò ancora intorno alla ricerca di Castigo, ma vide soltanto stelle e buio. Verso oriente udì un paio di volte il suono indistinto di un battito d’ali, poi tutto tacque. Lanciò un’occhiata all’accampamento dei Varden. Fiamme arancio brillante salivano al cielo miste a pesanti nuvole di fumo. Centinaia di tende distrutte, e lì accanto i corpi di

tutti coloro che non erano riusciti a fuggire prima che Saphira o Castigo li travolgessero. Ma non erano quelle le uniche vittime: da quell’altezza, Eragon non riusciva a contare i cadaveri, ma nel combattimento diverse decine di Varden dovevano aver trovato la morte. Aveva in bocca il sapore della cenere e tremava; lacrime di rabbia e frustrazione gli riempivano gli occhi. Arya era ferita, forse morta. Nasuada era stata catturata, portata via, e presto sarebbe stata in balia dei più abili aguzzini di Galbatorix. Fu sopraffatto dalla disperazione. Come potevano proseguire la battaglia, adesso? Come potevano sperare nella vittoria, senza la sapiente guida di Nasuada?

CONCLAVE DI RE Saphira atterrò nell’accampamento dei Varden e con la massima delicatezza depose Arya in uno spazio erboso; Eragon le corse incontro. L’elfa giaceva a pancia in giù, immobile. Eragon la fece voltare piano: le palpebre tremolarono, poi l’elfa aprì gli occhi. «Castigo... che fine ha fatto Castigo?» chiese con un filo di voce. È fuggito, rispose Saphira. «E Nasuada? L’avete salvata?» Eragon abbassò lo sguardo e scosse il capo. Arya chiuse gli occhi, affranta. Tossì, e con una smorfia tentò di mettersi seduta. Un rivolo di sangue le colò da un lato della bocca. «No» disse Eragon. «Non ti muovere. Vado a chiamare Blödhgarm.» «Non serve.» Appoggiandosi alla spalla di Eragon, Arya riuscì piano piano ad alzarsi. Lo sforzo, però, le spezzava il respiro, e a Eragon bastò quel dettaglio per capire che l’elfa, nonostante cercasse di nasconderlo, stava soffrendo molto. «È solo qualche graffio, niente di grave. Le mie difese magiche mi hanno protetta dai colpi più violenti di Castigo.» Sebbene dubbioso, Eragon non replicò. E adesso?, chiese Saphira avvicinandosi. L’aria si impregnò dell’odore pungente e muschiato del sangue della dragonessa. Eragon si guardò intorno: l’accampamento era devastato, c’erano fiamme ovunque. Pensò di nuovo a Roran e a Katrina e si domandò se fossero sopravvissuti all’attacco. Già, e adesso? La risposta non si fece attendere. Due soldati feriti emersero da un banco di fumo e attaccarono lui e Arya. Mentre Eragon si sbarazzava in fretta dei nemici, otto elfi accorsero nello spiazzo. Dopo che Eragon li ebbe convinti che lui stava bene, gli elfi si concentrarono su Saphira. Il Cavaliere avrebbe voluto curare di persona le ferite che Castigo le aveva inferto, ma loro insistettero per farlo al suo posto. Sapendo che gli incantesimi di guarigione avrebbero richiesto qualche minuto, lasciò Saphira con gli elfi e corse tra le file di tende verso il padiglione di Nasuada, dove Blödhgarm e altri due maghi elfici erano ancora impegnati in un duello mentale con l’ultimo dei quattro stregoni nemici. L’uomo era accasciato a terra, la fronte premuta sulle ginocchia e le braccia strette intorno alla nuca. Invece di unire la propria mente alla lotta invisibile, Eragon si avvicinò al mago, gli picchiettò un dito sulla spalla e gridò: «Ah!» Lo stregone trasalì per la sorpresa, e quel momento di distrazione probabilmente permise agli elfi di insinuarsi oltre le sue barriere mentali, perché l’uomo rotolò su un fianco, rovesciò gli occhi e la bocca gli si riempì di schiuma giallastra. Un attimo dopo aveva già smesso di respirare.

Con poche frasi concise Eragon raccontò a Blödhgarm e agli altri due elfi cosa era successo ad Arya e a Nasuada. Blödhgarm lo ascoltò fremendo di rabbia, ma si limitò a commentare nell’antica lingua: «Tempi oscuri incombono su di noi, Ammazzaspettri.» Poi inviò Yaela a cercare la Dauthdaert, ovunque fosse caduta. Insieme, Eragon, Blödhgarm e Uthinarë, l’elfo rimasto con loro, setacciarono l’accampamento e uccisero i pochi soldati scampati alle grinfie dei gatti mannari o alle lame degli umani, dei nani, degli elfi e degli Urgali. Fecero anche ricorso alla magia per estinguere alcuni degli incendi più grandi, spegnendoli come se si fosse trattato di piccole candele. Mentre si aggirava tra quel che restava dell’accampamento, Eragon si sentiva attanagliato da un profondo terrore, che lo opprimeva come un mantello di lana bagnata. Non riusciva a percepire intorno a sé altro che morte, sconfitta e fallimento. Era come se il mondo gli fosse crollato addosso, e tutto quello per cui lui e i Varden avevano lottato si stesse sgretolando sotto i suoi occhi senza che lui potesse far nulla per evitarlo. Quel senso di impotenza minava la sua determinazione, tanto che per un attimo fu tentato di accucciarsi in un angolo e arrendersi al dolore. Eppure si rifiutò di cedere a quell’impulso, valutando che a quel punto sarebbe stato meglio morire durante l’attacco. Così continuò ad affaccendarsi insieme agli elfi nel tentativo di esorcizzare la profonda disperazione che provava. Il suo stato d’animo non migliorò quando Glaedr lo contattò per dirgli: Se mi avessi dato ascolto, avremmo potuto fermare Castigo e salvare Nasuada. Non è detto, ribatté Eragon. Avrebbe preferito non approfondire la discussione, ma non riuscì a trattenersi, e aggiunse: Hai permesso alla rabbia di annebbiarti la mente. Uccidere Castigo non era l’unica soluzione, e non avresti dovuto essere così ansioso di distruggere uno degli ultimi membri della tua specie. Non pensare di potermi fare la predica, cucciolo d’uomo!, replicò aspro Glaedr. Non puoi nemmeno lontanamente immaginare cosa ho perso io. Invece lo capisco meglio di quanto tu creda, rispose Eragon; ma il vecchio drago si era già ritirato dalla sua mente e probabilmente non lo aveva sentito. Il Cavaliere spense un incendio e stava per passare al successivo quando un trafelato Roran lo afferrò per le spalle. «Sei ferito?» Fu un vero sollievo scoprire che il cugino era sano e salvo. Eragon scosse il capo. «Saphira?» «Gli elfi hanno già curato le sue ferite. E Katrina? Sta bene?» Roran annuì, un po’ più tranquillo. Aveva però ancora l’espressione carica di preoccupazione quando chiese: «Cosa è successo? Cosa sta succedendo? Jörmundur sembra impazzito, e si aggira come un pollo senza testa; le guardie di Nasuada sono cupe e sconsolate. Ma nessuno mi dice niente. Siamo ancora in pericolo? Galbatorix sta per attaccarci?» Eragon si guardò intorno, poi lo prese in disparte, dove nessuno poteva sentirli. «Non dirlo a nessuno, non ancora» lo ammonì. «Hai la mia parola.»

Bastarono poche frasi per spiegare al cugino la situazione in cui si trovavano, dopodiché Roran rimase a fissarlo con aria smarrita: «Non dobbiamo lasciare i Varden allo sbando.» «Certo che no. Non lo permetteremo, ma re Orrin potrebbe cercare di assumere il comando, o...» Un gruppo di guerrieri passò lì accanto, ed Eragon s’interruppe. Poi: «Resta con me, d’accordo? Potrei aver bisogno del tuo aiuto.» «Del mio aiuto? A cosa posso servirti io?» «Tutto l’esercito ti ammira, Roran, perfino gli Urgali. Tu sei Fortemartello, l’eroe di Arughia: la tua opinione è tenuta in alta considerazione. E questo potrebbe rivelarsi utile.» Roran rifletté un istante, poi annuì. «Farò quello che posso.» «Per il momento basta che tu tenga gli occhi aperti» lo congedò Eragon, ritornando all’incendio che stava per spegnere quando il cugino l’aveva raggiunto. Mezz’ora dopo, mentre l’ordine e il silenzio calavano lentamente tra i superstiti della missione, un messaggero informò Eragon che Arya lo attendeva subito nel padiglione di re Orik. Eragon e Roran si scambiarono un’occhiata, poi si avviarono in fretta verso il quadrante nordoccidentale dell’accampamento, dove quasi tutti i nani avevano piantato le loro tende. «Non abbiamo alternative» annunciò Jörmundur. «Lady Nasuada era stata molto chiara in proposito. Eragon, devi prendere il suo posto come capo dei Varden.» I partecipanti alla riunione, raccolti in cerchio dentro la grande tenda, si scambiarono sguardi severi e inflessibili. Ombre scure si annidavano tra le rughe sulle tempie dei bipedi, come li avrebbe chiamati Saphira. L’unica a non avere la fronte aggrottata era proprio la dragonessa, che aveva infilato la testa fra i lembi d’ingresso del padiglione per poter partecipare al conclave. Tuttavia aveva le labbra leggermente arricciate, come se stesse per ringhiare. C’erano re Orrin, con un mantello color porpora drappeggiato sulla tunica da notte; Arya, ancora un po’ scossa ma risoluta; re Orik, avvolto in una cotta di maglia; il re dei gatti mannari, Grimrr Zampamonca, con una benda sulla spalla ferita; Nar Garzhvog, il Kull, che stava curvo per non graffiare il soffitto con le corna; e Roran, un po’ in disparte. Fino a quel momento si era limitato ad ascoltare in silenzio. Nessun altro era stato ammesso all’interno del padiglione: guardie, consiglieri e servitori erano rimasti fuori, e così Blödhgarm e gli altri elfi. Davanti all’ingresso un cordone di dodici guerrieri, tra umani, nani e Urgali, impediva a chiunque – amico o nemico – di interferire con la riunione. E tutto intorno alla tenda era stata intessuta in gran fretta una ragnatela di incantesimi allo scopo di evitare che qualcuno origliasse usando la magia. «Non ho mai desiderato questo ruolo» intervenne il Cavaliere fissando la mappa di Alagaësia sul tavolo intorno al quale erano seduti. «E nessuno di noi ha mai voluto che tu lo ricoprissi» fu il commento tagliente di re Orrin. Arya era stata saggia a organizzare l’incontro nel padiglione di Orik, si disse Eragon. Il re dei nani era un noto sostenitore di Nasuada e dei Varden, nonché il capoclan di Eragon e suo fratello adottivo, ma nessuno poteva accusarlo di aspirare alla posizione di Nasuada, né gli umani lo avrebbero accettato di buon grado come suo sostituto.

Eppure, convocando lì la riunione Arya aveva consolidato la posizione di Eragon a scapito dei suoi detrattori, senza però sostenerlo apertamente. L’elfa, bisognava ammetterlo, era molto più esperta di lui a manipolare la gente. Certo, gli altri potevano credere che si sarebbe fatto manovrare da Orik, ma era un rischio che il Cavaliere era disposto a correre in cambio del sostegno del suo amico. «Non ho mai desiderato questo ruolo» ripeté, e guardò a uno a uno i partecipanti al conclave, che lo scrutavano con attenzione. «Ma ora che mi è stato assegnato dal fato, giuro sulla tomba di tutti coloro che abbiamo perduto che farò del mio meglio per seguire l’esempio di Nasuada e guidare i Varden alla vittoria contro Galbatorix e l’Impero.» Si sforzò di mostrarsi sicuro, ma la realtà era ben diversa: tutta quella situazione lo intimoriva e non sapeva se sarebbe stato all’altezza del compito. Nasuada era stata un capo dalle doti eccezionali e replicare anche solo la metà dei suoi successi sarebbe stata un’impresa titanica. «Davvero encomiabile» disse re Orrin. «Tuttavia i Varden hanno sempre agito di comune accordo con i loro alleati... gli uomini del Surda; il nostro leale amico re Orik e i nani dei Monti Beor; gli elfi; e, in tempi più recenti, gli Urgali guidati da Nar Garzhvog e i gatti mannari.» Rivolse a Grimrr un cenno del capo, che Zampamonca ricambiò. «Sarebbe meglio evitare che le nostre truppe ci vedessero dissentire in pubblico. Non sei d’accordo?» «Certo.» «Bene» riprese re Orrin. «Quindi suppongo che continuerai a consultarti con noi per le questioni importanti, come faceva Nasuada...» Eragon esitò, ma prima che potesse rispondere Orrin proseguì. «Tutti noi...» e indicò i presenti «tutti noi abbiamo affrontato rischi enormi in questa missione, e nessuno vuole sentirsi scavalcato né sottomettersi agli ordini. Per essere franco, malgrado i tuoi successi, Eragon Ammazzaspettri, sei ancora giovane e inesperto, e proprio la tua inesperienza potrebbe rivelarsi fatale. Ognuno di noi sa come si gestiscono uomini e risorse perché ha comandato per anni le proprie milizie, oppure perché ha studiato i propri superiori mentre lo facevano. Possiamo guidarti sulla giusta via, e forse insieme troveremo il modo di rimettere ordine nel mondo e sconfiggere Galbatorix.» Eragon era d’accordo con Orrin: era ancora giovane e inesperto, e aveva bisogno dei consigli degli altri. Ma non poteva ammetterlo apertamente senza uscirne indebolito ai loro occhi. Così rispose: «Posso garantirti che mi consulterò con te ogni volta che sarà necessario, ma prenderò le decisioni in completa autonomia, come ho sempre fatto.» «Perdonami, Ammazzaspettri, ma ho qualche difficoltà a credere alle tue parole. A tutti è nota la tua familiarità con gli elfi...» e così dicendo scoccò un’occhiata ad Arya. «Per di più sei un membro adottivo del clan Ingeitum, e soggetto all’autorità del capoclan, che si dà il caso sia proprio re Orik. Può darsi che mi sbagli, ma dubito che prenderai le tue decisioni “in completa autonomia”.» «Prima mi esorti ad ascoltare i nostri alleati, adesso mi dici di non farlo. Vorresti forse che dessi retta solo a te?» ribatté Eragon, sempre più stizzito. «Vorrei solo che esercitassi la tua autorità nell’interesse del nostro popolo, e non di altre razze!»

«Ho sempre agito in favore della nostra gente» ringhiò di rimando Eragon. «E continuerò a farlo. Devo la mia lealtà sia ai Varden sia al clan Ingeitum, certo, ma anche a Saphira, a Nasuada e alla mia famiglia. Sono molte le persone a cui devo rispondere, così come succede a te, Maestà. Ma il mio principale obiettivo è sconfiggere Galbatorix e l’Impero. È sempre stato così, e se mi trovassi di fronte a un conflitto di interessi, sarà quello scopo ad avere la precedenza. Dubita della mia capacità di giudizio, se vuoi, ma non delle mie motivazioni. E ti sarei grato se ti astenessi dall’insinuare che sono un traditore del mio popolo!» Orrin corrucciò la fronte e le guance gli si imporporarono. Stava per replicare quando un forte tonfo lo interruppe: Orik aveva battuto Volund, il suo martello da guerra, contro lo scudo. «Ne ho abbastanza di queste scempiaggini!» tuonò il re dei nani. «Ti preoccupi per una crepa nel pavimento quando tutta la montagna sta per crollarci addosso!» Orrin si accigliò ancora di più, ma decise di non insistere. Prese un calice di vino dal tavolo e sprofondò nella sedia alle sue spalle, da dove rimase a fissare Eragon con occhi fiammeggianti. Credo che ti detesti, gli fece notare Saphira. Può darsi, oppure odia quello che rappresento. In un caso o nell’altro, per lui sono un ostacolo. Sarà meglio tenerlo d’occhio. «La questione è semplice» riprese Orik. «Cosa dobbiamo fare ora che Nasuada non c’è più?» Posò Volund sul tavolo e ne accarezzò la testa con la mano tozza e nodosa. «Non credo che la nostra situazione sia poi tanto diversa rispetto a stamattina. A meno che non ammettiamo la sconfitta e cerchiamo un accordo di pace, ci resta una sola cosa da fare: marciare su Urû’baen più in fretta che possiamo. Nasuada non avrebbe mai affrontato di persona Galbatorix. Questo spetta a voi...» indicò Eragon e Saphira con un cenno «e agli elfi. Lady Nasuada ci ha condotti fin qui, e anche se ci mancherà moltissimo, non abbiamo bisogno di lei per continuare. Al punto in cui siamo, il nostro cammino non consente deviazioni. Se anche lei fosse qui, non vedo cosa potrebbe fare di diverso. Perciò dobbiamo andare a Urû’baen, punto e basta.» Grimrr giocherellava con un piccolo pugnale dalla lama nera, in apparenza indifferente alla conversazione. «Concordo» intervenne Arya. «Non abbiamo altra scelta.» Garzhvog, torreggiante sugli altri come sempre, annuì, e la sua testa massiccia gettò ombre deformi sulle pareti del padiglione. «Il nano dice bene. Gli Urgralgra resteranno coi Varden finché Spadafuoco sarà il condottiero. Con lui e Lingua di Fuoco a guidare il nostro attacco riscuoteremo il debito di sangue che quel traditore senza corna di Galbatorix ancora ci deve.» Eragon spostò il peso da un piede all’altro, in imbarazzo. «Tutto molto bello e interessante» commentò sarcastico re Orrin, «ma ancora non ho sentito come pensate di sconfiggere Murtagh e Galbatorix una volta raggiunta Urû’baen.» «Abbiamo la Dauthdaert» replicò Eragon, dal momento che Yaela aveva recuperato la lancia, «e con essa possiamo...»

Re Orrin lo interruppe con un gesto della mano. «Sì, sì, certo, la Dauthdaert. Non mi risulta che ti abbia aiutato a fermare Castigo, e non vedo perché Galbatorix e Shruikan dovrebbero lasciarsi avvicinare da qualcuno – soprattutto da te – che la impugni. In ogni caso, resta il fatto che non sei un avversario all’altezza di quel traditore dal cuore nero. Dannazione, Eragon, non sei nemmeno al livello di tuo fratello, e dire che è un Cavaliere dei Draghi da meno tempo di te!» Fratellastro, pensò Eragon, ma tenne a freno la lingua. Non riusciva a trovare un modo per confutare le argomentazioni di Orrin: erano tutte assolutamente valide e quella consapevolezza lo riempiva di vergogna. Il re proseguì. «Ci siamo imbarcati in questa guerra nella convinzione che avresti trovato il modo di contrastare la potenza sovrannaturale di Galbatorix. Così Nasuada ci ha detto e garantito. Eppure eccoci qui, in procinto di affrontare il mago più potente della storia del mondo, e non mi pare che abbiamo più probabilità di sconfiggerlo di quanto potessimo supporre all’inizio!» «Siamo entrati in guerra» lo incalzò Eragon, scandendo bene le parole, «perché era la prima volta dalla caduta dei Cavalieri dei Draghi che avevamo una minima possibilità di rovesciare Galbatorix. E tu lo sai.» «Ma quale possibilità?» ringhiò re Orrin. «Siamo tutti marionette appese ai fili manovrati da Galbatorix. L’unica ragione per cui siamo arrivati dove siamo è perché ce l’ha permesso lui. Galbatorix vuole che andiamo a Urû’baen. Desidera che ti portiamo da lui. Se fosse stato determinato a fermarci, sarebbe volato fino alle Pianure Ardenti e ci avrebbe annientati. E quando ti avrà nelle sue mani, sarà questo che farà: annientarci.» L’aria nella tenda era così carica di tensione da poterla quasi toccare. Attento, disse Saphira a Eragon. Lascerà il branco se non lo convinci. Arya sembrava condividere la stessa preoccupazione. Eragon si puntellò sul tavolo e raccolse i pensieri. Non voleva mentire, ma al tempo stesso doveva trovare il modo di infondere speranza in Orrin, cosa alquanto difficile, dato che lui per primo ne aveva pochissima. Era così che si sentiva Nasuada ogni volta che ci incitava a combattere per la causa, ad andare avanti anche quando non vedevamo via d’uscita? «La nostra posizione non è così precaria come la fai sembrare» si decise a dire. Orrin sbuffò e bevve un sorso di vino. «La Dauthdaert rappresenta davvero una grande minaccia per Galbatorix» continuò Eragon, «e questo può tornare a nostro vantaggio. Starà in guardia. E grazie a questo, potremo costringerlo a fare quello che vogliamo. Forse non tutto, ma qualcosa sì. Anche se non possiamo usarla per uccidere lui, magari riusciremo ad avere la meglio su Shruikan. La loro non è una vera coppia drago-Cavaliere, ma la morte di Shruikan potrebbe comunque ferirlo nel profondo.» «Non succederà mai» protestò Orrin. «Adesso lui sa che abbiamo la Dauthdaert, e prenderà tutte le precauzioni necessarie.» «Forse no. Dubito che Murtagh e Castigo l’abbiano riconosciuta.» «Loro no, ma Galbatorix sì, quando esaminerà i loro ricordi.» E saprà anche dell’esistenza di Glaedr, se non gliel’hanno già detto, disse Saphira a Eragon.

Eragon si scoraggiò ancora di più. Non ci aveva pensato, ma la dragonessa aveva ragione. E allora addio alla speranza di coglierlo di sorpresa. Non abbiamo più segreti. La vita è piena di segreti. Galbatorix non può prevedere con esattezza quando lo attaccheremo. In questo, se non altro, possiamo prenderlo alla sprovvista. «Quale lancia di morte hai trovato, Ammazzaspettri?» domandò Grimrr in tono apparentemente annoiato. «Du Niernen, l’Orchidea.» Il gatto mannaro batté le palpebre, ed Eragon ebbe l’impressione che fosse sorpreso, anche se l’espressione sul suo volto rimase neutra come sempre. «L’Orchidea, dici? Che strano, trovare un’arma del genere in quest’epoca, soprattutto quella in particolare.» «Perché?» domandò Jörmundur. Grimrr si passò la piccola lingua sulle zanne. «Niernen è famosssa.» Concluse la frase con un breve sibilo. Prima che Eragon chiedesse al gatto mannaro altre spiegazioni, intervenne Garzhvog. «Cos’è questa lancia di morte di cui parlate, Spadafuoco? È quella che ha ferito Saphira a Belatona? Ne abbiamo sentito parlare, ma erano racconti piuttosto bizzarri.» Troppo tardi Eragon ricordò che Nasuada si era raccomandata di non parlare di Niernen né con gli Urgali né con i gatti mannari. Be’, pensò, prima o poi doveva succedere. Spiegò a Garzhvog che cos’era la Dauthdaert, poi invitò tutti i presenti nel padiglione a giurare nell’antica lingua che non ne avrebbero mai fatto parola con nessuno senza autorizzazione. Qualcuno borbottò, ma alla fine tutti giurarono, compreso il gatto mannaro. Cercare di nascondere la lancia a Galbatorix poteva essere inutile, ma era comunque meglio evitare che l’esistenza della Dauthdaert diventasse di pubblico dominio. Quando anche l’ultimo dei presenti ebbe finito di giurare, Eragon riprese a parlare. «Ritornando al nostro discorso: primo, abbiamo la Dauthdaert. Secondo, non intendo affrontare Murtagh e Galbatorix insieme, non ci ho mai pensato. Quando arriveremo a Urû’baen attireremo Murtagh fuori città e lo accerchieremo, con l’intero esercito se necessario, elfi compresi, e lo uccideremo o lo cattureremo una buona volta.» Eragon fece una pausa per guardare negli occhi tutti i presenti, cercando di impressionarli con la forza della sua convinzione. «Terzo, ed è quello in cui più dovete credere dal profondo del vostro cuore, Galbatorix, per quanto potente, non è invulnerabile. Può aver evocato migliaia di incantesimi per proteggersi, ma nonostante tutte le sue conoscenze e la sua astuzia ci sarà sempre una magia capace di sopraffarlo, se solo saremo abbastanza bravi da scovarla. Ora, potrei essere io a trovarla, ma potrebbe anche essere un elfo o un membro del Du Vrangr Gata. Galbatorix sembra intoccabile, lo so, ma ogni nemico ha un punto debole, una crepa dove infilare una lama e colpire.» «Se gli antichi Cavalieri hanno fallito, come possiamo sperare di riuscirci noi?» lo provocò re Orrin. Eragon allargò le braccia. «Forse non ci riusciremo. Non c’è niente di sicuro al mondo, meno che mai in guerra. Tuttavia, se gli sforzi congiunti degli stregoni di tutte e cinque le nostre razze non saranno sufficienti a distruggerlo, allora non ci rimarrà altro che accettare il fatto che Galbatorix regnerà finché gli pare e piace, e non potremo fare niente per cambiare la storia.»

Un silenzio pesante calò sulla tenda. Roran fece un passo avanti. «Vorrei dire una parola, se mi è concesso.» Eragon notò che gli altri partecipanti si scambiavano occhiate perplesse. «Parla pure, Fortemartello» acconsentì Orik, con evidente irritazione di re Orrin. «Voglio dire solo questo: troppe lacrime e troppo sangue sono già stati versati perché possiamo tirarci indietro adesso. Sarebbe una mancanza di rispetto nei confronti dei morti, ma anche di coloro che li ricordano. Potrà sembrare una guerra fra dei, questa...» A Eragon parve estremamente serio mentre pronunciava queste parole. «Ma io intendo combattere finché gli dei non mi sconfiggeranno, o finché non sarò io a sconfiggere loro. Un drago può uccidere diecimila lupi, in una volta sola, ma diecimila lupi possono uccidere un drago.» Ho i miei dubbi, ribatté Saphira nella segretezza dello spazio condiviso fra la sua mente e quella di Eragon. Roran sorrise amaro. «E noi abbiamo un drago dalla nostra. Decidete come volete ma io andrò a Urû’baen e affronterò Galbatorix, dovessi farlo da solo.» «No, non da solo» intervenne Arya. «So di parlare a nome della regina Islanzadi quando dico che il nostro popolo si batterà al tuo fianco.» «Anche noi» tuonò Garzhvog. «Anche noi» dichiarò Orik. «E noi» aggiunse Eragon in un tono che sperava non ammettesse repliche. Quando, dopo una breve pausa, i quattro si voltarono verso Grimrr, il gatto mannaro tirò su col naso e disse: «Be’, suppongo che ci saremo anche noi.» Si ispezionò le unghie affilate. «Qualcuno dovrà pur infiltrarsi tra le schiere nemiche, e non saranno certo i nani con quei loro calzari di ferro.» Orik inarcò un sopracciglio, ma se si era offeso lo nascose bene. Orrin bevve altri due sorsi; poi si asciugò la bocca col dorso della mano e annunciò: «D’accordo, come volete. Proseguiremo verso Urû’baen.» Col calice ormai vuoto, tese una mano verso la bottiglia che aveva davanti.

SENZA VIA D’USCITA Eragon e gli altri passarono il resto del conclave a discutere di logistica: linee di comunicazione; assegnazione di incarichi; riassetto delle difese magiche e delle sentinelle per impedire a Castigo o Shruikan di attaccare l’accampamento; riequipaggiamento dei combattenti che avevano perduto armi, armature e quant’altro negli incendi o nella battaglia. Si decise all’unanimità di rimandare l’annuncio della scomparsa di Nasuada al giorno seguente: era molto più importante che i guerrieri dormissero almeno qualche ora prima che l’alba rischiarasse l’orizzonte. L’unica cosa di cui non parlarono fu un eventuale tentativo di salvare Nasuada. Tutti sapevano che l’unico modo per liberarla era conquistare Urû’baen, ma a quel punto lei probabilmente sarebbe già stata uccisa, o ferita, o legata a Galbatorix da un giuramento nell’antica lingua. Perciò evitarono di affrontare l’argomento, quasi fosse tabù. Eppure Lady Nasuada rimaneva una presenza costante nei pensieri di Eragon. Ogni volta che chiudeva gli occhi vedeva Murtagh che la colpiva, poi Castigo che la ghermiva con i suoi artigli, e infine il drago rosso che si allontanava nella notte con la sua preda. Erano ricordi strazianti, ma il Cavaliere non riusciva a scacciarli, e li riviveva ancora e ancora. Quando la seduta fu sciolta, Eragon fece un cenno a Roran, Jörmundur e Arya. I tre lo seguirono senza fare domande fino alla sua tenda, dove lui chiese il loro parere e spiegò che cosa intendeva fare il giorno dopo. «Il Consiglio degli Anziani ti darà filo da torcere, ne sono certo» disse Jörmundur. «Non ti considerano un politico esperto come Nasuada, e cercheranno di approfittarne.» Da quando l’attacco era finito il guerriero dai lunghi capelli aveva mostrato una calma innaturale, tanto che Eragon sospettava che fosse sull’orlo di una crisi di pianto o un accesso di rabbia, o forse tutte e due le cose. «E hanno ragione» concordò il Cavaliere. «Non sono di certo un politico esperto.» Jörmundur chinò il capo. «Devi mostrarti forte. Io posso aiutarti fino a un certo punto, ma il resto dipenderà da te. Se permetti loro di influenzare eccessivamente le tue decisioni, allora si convinceranno di aver ereditato la guida dei Varden al tuo posto.» Eragon scoccò ad Arya e a Saphira uno sguardo preoccupato. Non temete, disse Saphira a tutti. Nessuno avrà il sopravvento su di lui finché ci sarò io di guardia. Quando anche quel secondo, più ristretto convegno ebbe fine, Eragon attese che Arya e Jörmundur uscissero dalla tenda, poi posò una mano sulla spalla di Roran e gli chiese: «Dicevi sul serio prima, quando hai parlato di una guerra fra dei?» Roran fissò il Cavaliere diritto negli occhi. «Sì... Tu, Murtagh e Galbatorix siete troppo potenti perché una persona normale possa sconfiggervi. Non è giusto. Non lo è affatto, ma le cose stanno così. Noi siamo come formiche sotto i vostri stivali. Hai idea di quanti uomini hai ucciso tu da solo?» «Troppi.» «Appunto. Sono felice che tu combatta dalla nostra parte, e soprattutto di poter contare su di te come se fossi mio fratello, anche se non portiamo lo stesso cognome, ma credimi,

vorrei che non dovessimo fare totale affidamento su un Cavaliere dei Draghi o sugli elfi o su qualche stregone per vincere questa guerra. Nessuno dovrebbe dipendere da un’altra persona. Non in questo modo. Così si altera l’equilibrio del mondo.» Detto questo, Roran uscì dalla tenda. Eragon si lasciò cadere affranto sulla branda, come se fosse stato colpito da un pugno. Rimase seduto per un po’, sudato e inquieto, finché il peso opprimente dei suoi pensieri in tumulto non lo spinse ad alzarsi e a uscire dalla tenda. I sei Falchineri di guardia all’esterno scattarono in piedi, pronti ad accompagnarlo ovunque avesse intenzione di andare. Eragon fece loro cenno di restare dov’erano. Malgrado le sue proteste, Jörmundur aveva insistito per assegnargli le guardie di Nasuada, in aggiunta alla scorta di Blödhgarm e degli altri elfi. “La prudenza non è mai troppa” aveva detto. A Eragon non piaceva l’idea di avere tanta gente intorno, ma era stato costretto ad accettare. Superò le guardie a passo rapido e raggiunse lo spiazzo dove Saphira era andata a riposare. La dragonessa aprì un occhio quando lui si avvicinò, e sollevò un’ala per accoglierlo nel tepore della sua pancia. Piccolo mio, mormorò, e cominciò a mugolare piano, dal profondo della gola. Eragon si accoccolò contro di lei e si lasciò cullare dal lieve mormorio della sua voce e dal fruscio dell’aria che entrava e usciva dai polmoni possenti. Alle sue spalle, il ventre di Saphira si alzava e si abbassava a un ritmo lento e rilassante. In qualunque altra occasione sarebbe bastata la sola presenza di Saphira a calmarlo, ma non in quella. La mente di Eragon si rifiutava di placarsi, il cuore gli batteva forte, sentiva ribollire mani e piedi. Decise di tenere per sé le sue preoccupazioni per non turbare Saphira. La dragonessa aveva combattuto due volte contro Castigo ed era così stanca che ben presto cadde in un sonno profondo: la cantilena si spense, lasciando il posto al costante fruscio del suo respiro. Eragon invece non riusciva a darsi pace; più tentava di distrarsi, più la sua mente si ostinava a tornare sullo stesso pensiero: era il capo dei Varden. Lui, che un tempo era solo il membro più giovane di una povera famiglia di contadini adesso era il capo del secondo esercito di Alagaësia. Gli sembrava assurdo, quasi che il fato volesse prendersi gioco di lui, attirandolo in una trappola che lo avrebbe annientato. Non aveva mai voluto quella responsabilità, non l’aveva mai cercata, eppure gli eventi gliel’avevano deposta sulle spalle. Perché Nasuada ha designato proprio me come suo successore?, si domandò. Ricordò le ragioni che lei gli aveva spiegato, ma non servirono ad alleviare il suo tormento. Credeva davvero che avrei potuto prendere il suo posto? Perché non Jörmundur? Lui è con i Varden da decenni e in fatto di comando e strategie ne sa molto più di me. Eragon ripensò a quando Nasuada aveva deciso di accettare l’offerta di alleanza degli Urgali, nonostante l’odio e i rancori vicendevoli che le due razze covavano, e sebbene fossero stati proprio gli Urgali a uccidere suo padre Ajihad. Io avrei fatto lo stesso? Si rispose di no: non allora, quanto meno. Sarò capace adesso di prendere questo genere di decisioni, se dovessero servire a sconfiggere Galbatorix?

Non ne era del tutto convinto. Tentò di rilassarsi. Chiuse gli occhi e iniziò a contare i propri respiri dieci alla volta. Ma non era facile mantenere la concentrazione: ogni due o tre secondi un altro pensiero o un’altra sensazione minacciava di distrarlo, e spesso perdeva il conto. A poco a poco, però, il corpo cominciò ad abbandonarsi, e senza che quasi se ne accorgesse le visioni mutevoli e colorate del sonno vigile gli si insinuarono nella mente. Vide molte cose: alcune cupe e inquietanti, che riflettevano gli eventi della giornata trascorsa; altre più agrodolci, ricordi di ciò che era accaduto o di quello che desiderava fosse accaduto. Come mosse da un vento improvviso, le visioni prima ondeggiarono, poi si fecero più concrete, quasi fossero realtà sostanziali, tangibili. Intorno a lui ogni cosa sbiadì, lasciando il posto a un altro tempo e un altro spazio: era tutto estraneo e familiare insieme, come se lo avesse già visto nel suo passato ma se ne fosse dimenticato. Eragon aprì gli occhi, ma le immagini rimasero con lui, oscurando l’ambiente circostante, e fu allora che il Cavaliere capì che quello non era un sogno normale. Davanti a lui c’era una pianura buia e deserta, solcata da un corso d’acqua che scorreva lento verso est: un nastro d’argento scintillante ai raggi della luna piena. Sul fiume senza nome galleggiava una nave, fiera e imponente, con le bianche vele spiegate, pronta a salpare. File di guerrieri armati di lance, e in mezzo due figure incappucciate, come in una processione solenne. L’odore dei salici e dei pioppi, e una sensazione di profondo cordoglio. Poi l’urlo di angoscia di un uomo, un lampo di squame e un improvviso vortice di movimento che nascondeva più che rivelare. E poi più nulla, se non silenzio e tenebra. Le immagini sbiadirono, ed Eragon si ritrovò di nuovo sotto l’ala di Saphira. Liberò il fiato che non si era accorto di aver trattenuto e con mano tremante si asciugò le lacrime dagli occhi. Non riusciva a capire come mai quella visione lo avesse scosso tanto. Era una premonizione?, si chiese. O qualcosa che sta accadendo in questo preciso momento? E perché è così importante per me? A quel punto ogni tentativo di riposare sarebbe stato inutile. Le sue preoccupazioni riacquistarono forza e lo assalirono senza dargli tregua, rodendolo come un’orda di ratti dal morso infetto. Alla fine Eragon sgusciò da sotto l’ala di Saphira, attento a non svegliarla, e tornò alla sua tenda. Come prima, i Falchineri scattarono sull’attenti appena lo videro. Il capitano, un uomo tarchiato dal naso a becco, si fece avanti. «Possiamo fare qualcosa per te, Ammazzaspettri?» gli chiese. Si chiamava Garven, ed Eragon ricordava vagamente che Nasuada gli aveva parlato di lui, raccontandogli che si era smarrito dopo aver esaminato le menti degli elfi. Garven sembrava abbastanza in sé, anche se il suo sguardo aveva ancora un che di trasognato. Eragon era convinto però che fosse in grado di assolvere al meglio i suoi compiti: altrimenti Jörmundur non gli avrebbe consentito di riprendere l’incarico. «Per il momento no, capitano» replicò Eragon a bassa voce. Fece un altro passo, poi si fermò. «Quanti Falchineri sono stati uccisi stanotte?»

«Sei, signore. Un’intera squadra in servizio. Saremo a corto di guardie per qualche giorno, finché non troveremo dei rimpiazzi adeguati. E ce ne serviranno altri. Vogliamo raddoppiare la tua scorta.» Un’ombra di angoscia oscurò lo sguardo altrimenti distaccato di Garven. «Abbiamo fallito con lei, Ammazzaspettri. Se fossimo stati più numerosi forse...» «Abbiamo fallito tutti con lei» lo interruppe Eragon. «E se foste stati di più, di più sarebbero morti.» L’uomo esitò, poi annuì con aria triste. Io ho fallito con lei, pensò Eragon rientrando nella tenda. Nasuada era la sua signora; era suo dovere proteggerla, molto più che dei Falchineri. Eppure l’unica volta che lei aveva avuto bisogno del suo aiuto lui non era stato in grado di proteggerla. Si maledisse con ferocia. In qualità di vassallo, Eragon avrebbe dovuto essere il primo a cercare un modo per salvarla, ma sapeva che Nasuada non avrebbe mai voluto che abbandonasse i Varden per soccorrerla. Avrebbe preferito soffrire e morire piuttosto che consentire che la sua assenza danneggiasse la causa a cui aveva dedicato tutta la vita. Eragon si maledisse ancora e iniziò a misurare la tenda a grandi passi. Sono il capo dei Varden. Soltanto adesso che era scomparsa, Eragon si rendeva conto che Nasuada era diventata qualcosa di più che la sua signora e il suo comandante; era un’amica, e nei suoi confronti Eragon nutriva lo stesso istinto di protezione che spesso provava per Arya. Tuttavia se avesse tentato di liberarla avrebbe messo in pericolo i Varden. Sono il capo dei Varden. Pensò a tutti coloro di cui era responsabile: Roran, Katrina e gli altri abitanti di Carvahall; le centinaia di guerrieri con cui aveva combattuto, e molti altri ancora: i nani, i gatti mannari, persino gli Urgali. Adesso erano tutti sotto il suo comando e dipendevano da lui per le mosse che avrebbero dovuto portare alla sconfitta dell’Impero. Il cuore iniziò a battergli più forte e la vista gli si annebbiò. Eragon si fermò e si appoggiò al palo centrale della tenda, asciugandosi il sudore dalla fronte e dal labbro. Parlarne con qualcuno, ecco che cosa gli serviva. Pensò di svegliare Saphira, ma scartò l’idea: il riposo della dragonessa era più importante delle sue lamentele. Non voleva nemmeno assillare Arya o Glaedr con problemi che non potevano risolvere. E poi dubitava che avrebbe trovato in Glaedr un ascoltatore indulgente, considerato il loro ultimo scambio di frasi taglienti. Eragon ricominciò il suo circuito monotono: tre passi avanti, un giro su se stesso, altri tre passi, giro e così via. Aveva perduto la cintura di Beloth il Savio. Aveva lasciato che Murtagh e Castigo catturassero Nasuada. E adesso era il capo dei Varden. Tre passi e tre pensieri, gambe e mente che marciavano allo stesso ritmo; e ogni volta che ricominciava, la sua ansia cresceva. Gli sembrava di essere finito in un labirinto senza via d’uscita, dove a ogni svolta imprevista era annidato un mostro pronto a saltargli addosso.

Malgrado quello che aveva detto durante la riunione con Orik, Orrin e gli altri, non aveva idea di come lui, i Varden e i loro alleati avrebbero potuto sconfiggere Galbatorix. Non sarei capace nemmeno di salvare Nasuada, ammesso che gli altri mi permettessero di andare a cercarla. Si sentì travolgere da un senso di amara impotenza. Il compito che lo attendeva era impossibile. Perché ci è dovuta capitare una cosa del genere? Imprecò e si morse l’interno della guancia finché il dolore non divenne insopportabile. Si fermò di nuovo e crollò a terra, le mani strette dietro la nuca. «Non c’è niente che possiamo fare. Non c’è niente che possiamo fare» mormorò, dondolandosi avanti e indietro. «Non c’è niente...» Nella sua disperazione Eragon pensò di pregare il dio dei nani, Gûntera, come già aveva fatto in passato. Deporre i suoi problemi ai piedi di un essere più grande di lui e affidargli il suo destino sarebbe stato un sollievo. Gli avrebbe permesso di accettare la sorte che gli era toccata, e quella delle persone che amava, con maggiore serenità, perché non sarebbe più stato responsabile del futuro. Ma Eragon non riuscì a formulare la preghiera: la vita degli altri ora dipendeva da lui, volente o nolente, e non sarebbe stato giusto scaricare quel peso su qualcun altro, fosse anche un dio, o l’idea di un dio. Il problema era semplice: ciò che andava fatto superava le sue capacità. Certo, sarebbe riuscito a comandare i Varden, su questo non aveva dubbi; ma conquistare Urû’baen e uccidere Galbatorix, era tutta un’altra storia. Non aveva la forza di opporsi a Murtagh né tantomeno al re, e trovare il modo di aggirare le loro difese magiche e catturarne le menti – anche solo quella di Galbatorix – gli sembrava altrettanto impossibile. Mentre si lambiccava il cervello in cerca di ogni possibile soluzione, affondò le unghie nella nuca fino a graffiarsi la pelle. E poi, d’un tratto, si ricordò del consiglio che gli aveva dato Solembum tanto tempo prima, a Teirm. Il gatto mannaro aveva detto: “ Ascolta bene le due cose che ho da dirti. Quando giungerà il momento e ti servirà un’arma, guarda sotto le radici dell’albero di Menoa. Poi, quando tutto ti sembrerà perduto e il tuo potere non basterà, vai alla Rocca di Kuthian e pronuncia il tuo nome per schiudere la Volta delle Anime.” Le parole che riguardavano l’albero di Menoa si erano avverate: sotto quelle radici Eragon aveva trovato l’acciaioluce con cui aveva forgiato la lama della sua spada. E così, mentre rifletteva sulla seconda frase del gatto mannaro, gli si accese un tenue barlume di speranza. Se mai c’è stato un momento in cui il mio potere non basta e tutto mi sembra perduto è proprio questo, pensò Eragon. D’altro canto non aveva idea di dove o che cosa fossero la Rocca di Kuthian e la Volta delle Anime. In diverse occasioni aveva provato a chiederlo a Oromis e ad Arya, ma loro non gli avevano mai risposto. Eragon espanse la mente e setacciò l’accampamento finché non avvertì la coscienza del gatto mannaro. Solembum, disse, mi serve il tuo aiuto! Per favore, vieni nella mia tenda. Dopo qualche istante percepì un brontolio di assenso da parte del gatto mannaro. Eragon rimase solo nel buio e aspettò.

VAGHI FRAMMENTI CONFUSI Passò più di un quarto d’ora prima che il lembo della tenda si muovesse. Solembum s’infilò all’interno con passi felpati. Il gatto mannaro dal pelo rossiccio sfilò sotto gli occhi di Eragon senza degnarlo di uno sguardo; saltò sulla branda e si acciambellò sulle coperte, dove iniziò a leccarsi gli artigli della zampa destra. E sempre senza guardarlo disse a Eragon: Non sono un cane che va e viene ai tuoi comandi, Eragon. «Non ho mai pensato che lo fossi» rispose il Cavaliere. «Ma ho bisogno di te, è urgente.» Mmm. Solembum si concentrò sul morbido cuscinetto sotto la zampa e il raspare della sua lingua si fece più sonoro. Allora parla, Ammazzaspettri. Cosa vuoi? «Un momento.» Eragon si alzò e si avvicinò al palo dov’era appesa la lanterna. «Voglio fare luce.» Sussurrò una parola nell’antica lingua e una fiammella si accese sullo stoppino, spandendo nella tenda un bagliore caldo e soffuso. Quando i suoi occhi si furono abituati al cambiamento di luce, Eragon sedette sullo sgabello accanto alla branda. Fu allora che, con una certa sorpresa, notò che Solembum lo fissava con occhi azzurro ghiaccio. «Non avevi gli occhi di un altro colore?» gli chiese. Il gatto mannaro batté le palpebre, e i suoi occhi passarono dall’azzurro al dorato. Poi riprese a pulirsi la zampa. Cosa vuoi, Ammazzaspettri? La notte è fatta per agire, non per starsene seduti a chiacchierare. La folta punta della sua coda frustava l’aria. Eragon s’inumidì le labbra: quel sottile filo di speranza che provava lo rendeva nervoso. «Solembum, una volta mi hai detto che quando tutto mi fosse sembrato perduto e il mio potere insufficiente sarei dovuto andare alla Rocca di Kuthian e schiudere la Volta delle Anime.» Il gatto mannaro smise di leccarsi la zampa. Ah, quello. «Già... Devo sapere che cosa intendevi. Se c’è qualcosa che può aiutarci a sconfiggere Galbatorix, devo scoprirlo adesso. Non dopo, quando magari sarò riuscito a risolvere questo o quell’indovinello, ma adesso. Dove posso trovare la Rocca di Kuthian, come faccio a schiudere la Volta delle Anime e cosa ci troverò dentro?» Solembum inclinò appena le orecchie all’indietro e sfoderò gli artigli che si stava pulendo. Non lo so. «Non lo sai?» esclamò Eragon, incredulo. Devi proprio ripetere tutto quello che dico? «Come fai a non saperlo?» Non lo so. Eragon si sporse in avanti e afferrò la grossa zampa di Solembum. Il gatto mannaro appiattì le orecchie dalla punta nera e sibilò, poi rigirò la zampa e affondò le unghie nella

mano di Eragon. Il Cavaliere sorrise a denti stretti e ignorò il dolore. Il gatto mannaro era più forte di quanto pensasse, abbastanza da farlo quasi cadere dallo sgabello. «Basta con gli enigmi» disse Eragon. «Devi dirmi la verità, Solembum. Dove hai preso questa informazione e cosa significa?» Il pelo sul dorso del gatto mannaro si rizzò. A volte gli enigmi sono la verità, ottuso di un umano. E adesso mollami, altrimenti ti strappo la faccia a unghiate e do le tue budella in pasto ai corvi. Eragon tenne stretta la zampa del gatto mannaro ancora per un istante, poi la lasciò e tornò a sedersi sullo sgabello. Si strinse la mano graffiata per alleviare il dolore e fermare il sangue. Solembum lo guardava con occhi di fuoco: ogni traccia di finto distacco era svanita. Ho detto che non lo so perché nonostante quello che tu possa pensare non lo so davvero. Non ho idea di dove sia la Rocca di Kuthian, né di come fare a schiudere la Volta delle Anime, né di cosa potrebbe contenere. «Dillo nell’antica lingua.» Gli occhi di Solembum si ridussero a due fessure, ma il gatto mannaro ripeté la sua affermazione nella lingua degli elfi. Non c’era alcun dubbio: stava dicendo la verità. Eragon aveva così tante domande che non sapeva da dove iniziare. «Allora come sai della Rocca di Kuthian?» La coda di Solembum scattò di nuovo a destra e a sinistra, lisciando le pieghe della coperta. Per l’ultima volta, non so niente. E nessuno della mia specie lo sa. «Ma allora come...?» Eragon non riuscì a terminare la frase, sopraffatto dalla confusione. Subito dopo la caduta dei Cavalieri dei Draghi, fra la nostra razza si diffuse la convinzione che se avessimo incontrato un nuovo Cavaliere, uno non legato a Galbatorix, avremmo dovuto dirgli quello che ho detto a te sull’albero di Menoa e la Rocca di Kuthian. «Sì, ma da dove arriva questa informazione?» Solembum snudò le zanne in un sorriso poco rassicurante e il suo muso si coprì di grinze. Non lo sappiamo. Possiamo dire soltanto che chiunque ne è responsabile aveva buone intenzioni. «Come fai a esserne certo?» esclamò Eragon. «E se fosse stato Galbatorix? Potrebbe avervi ingannati. Magari voleva attirare me e Saphira in un tranello per catturarci.» No, disse Solembum affondando gli artigli nella coperta sotto di lui. I gatti mannari non si lasciano ingannare tanto facilmente. Non c’è Galbatorix dietro tutto questo. Chiunque volesse farti arrivare questa informazione è la stessa persona o creatura che ha fatto in modo che trovassi l’acciaioluce per la tua spada. E perché Galbatorix avrebbe dovuto fare una cosa del genere? Eragon aggrottò le sopracciglia. «Non avete cercato di scoprire di chi si tratta?» Sì. «E...?» Non ci siamo riusciti. Il gatto mannaro arruffò il pelo. Ci sono due possibilità. La prima è che i nostri ricordi siano stati alterati contro la nostra volontà e che siamo pedine di qualche malvagia entità. La seconda è che abbiamo accettato l’alterazione, per chissà quale ragione. Forse siamo stati noi stessi a cancellare i nostri ricordi. Trovo difficile e disgustoso credere che qualcuno sia riuscito a

manipolare le nostre menti. Se si trattasse solo di un paio di noi, lo capirei. Ma tutta la nostra razza? No. Lo escludo. «Perché questa informazione sarebbe stata affidata proprio a voi gatti mannari?» Perché, immagino, siamo sempre stati amici dei Cavalieri e dei draghi... Noi osserviamo. Ascoltiamo. Andiamo in giro. Camminiamo da soli negli oscuri recessi del mondo, e ricordiamo cosa è e cosa è stato. Solembum distolse lo sguardo. Devi capire una cosa, Eragon. Nessuno di noi è stato felice di avere una tale responsabilità. A lungo abbiamo discusso se riferire questa informazione al momento opportuno avrebbe fatto più male che bene. Alla fine la decisione è toccata a me, e io ho voluto dirtelo, perché mi sembrava che avessi bisogno di tutto l’aiuto possibile. Ora fanne ciò che vuoi. «Ma cosa dovrei fare?» domandò Eragon. «Come faccio a trovare la Rocca di Kuthian?» Non so risponderti. «E allora a cosa mi serve questa informazione? Tanto valeva che non mi avessi rivelato niente.» Solembum chiuse e riaprì gli occhi. Una cosa posso dirtela, però. Magari non significa niente, ma potrebbe indicarti la via. «Cosa? Di che si tratta?» Aspetta e lo saprai. Quando ti ho incontrato la prima volta a Teirm, ho avuto la strana sensazione che tu dovessi avere il Domia abr Wyrda. Mi ci è voluto del tempo per organizzare tutto, ma è merito mio se Jeod ti ha dato quel libro. Il gatto mannaro alzò l’altra zampa, e dopo un rapido esame cominciò a leccarla. «Hai avuto qualche altra strana sensazione negli ultimi mesi?» chiese Eragon. Soltanto l’impulso di mangiare un piccolo fungo rosso, ma è passato in fretta. Eragon sbuffò e si chinò per prendere il libro da sotto la branda, dove lo teneva insieme al resto dell’occorrente per scrivere. Fissò per qualche istante il grande volume rilegato in pelle e poi lo aprì a una pagina a caso. Come al solito, a prima vista quel fitto groviglio di rune non aveva senso, ma dopo qualche sforzo riuscì a decifrare alcune righe: ... il che, a voler dar credito a Taladorous, significherebbe che le montagne stesse sono il risultato di un incantesimo. Questo ovviamente è assurdo, perché... Eragon ringhiò deluso e richiuse il libro. «Non ho tempo per questo. È troppo lungo, e io sono lentissimo a leggere. Ho già sfogliato qualche capitolo, ma non ho visto niente che abbia a che fare con la Rocca di Kuthian o la Volta delle Anime.» Solembum lo squadrò per un momento. Potresti chiedere a qualcuno di leggerlo per te, ma se c’è un segreto nascosto nel Domia abr Wyrda, dovresti essere tu l’unico a saperlo. Eragon trattenne l’impulso di imprecare. Si alzò di scatto dallo sgabello e ricominciò a camminare avanti e indietro. «Perché non mi hai parlato prima del libro?» Non mi sembrava importante. Il mio consiglio sulla volta e sulla rocca poteva essere utile oppure no, e conoscere le fonti di questa informazione, o meglio, non conoscerle, non avrebbe cambiato niente! «Ma se avessi saputo che questo libro aveva qualcosa a che fare con la Volta delle Anime avrei passato più tempo a leggerlo.»

Noi non sappiamo se davvero contiene qualcosa di rilevante in tal senso, ribatté Solembum. Si passò la lingua sui baffi. Il libro potrebbe non rivelare niente su quei luoghi. Chi può dirlo? Per giunta lo stavi già leggendo. Davvero avresti passato più tempo sulle sue pagine se ti avessi detto che avevo la sensazione... bada bene, soltanto una sensazione... che il libro per te fosse importante? Eh? «Forse no, ma avrei dovuto saperlo comunque.» Il gatto mannaro raccolse le zampe sotto il corpo e non replicò. Accigliato, Eragon afferrò il libro con l’insana voglia di farlo a pezzi. «Non può essere tutto qui. Dev’esserci qualche altra informazione che ti sei dimenticato.» Molte, ma nessuna, credo, collegata a questo. «In tutti i tuoi viaggi per Alagaësia insieme ad Angela o da solo non hai mai scoperto niente che potesse spiegare questo mistero? O qualcosa da usare contro Galbatorix?» Ho trovato te, mi pare. «Non sei per niente spiritoso» ringhiò Eragon. «Devi saperne di più.» No. «Allora pensaci! Se non riesco a trovare qualcosa o qualcuno che mi aiuti a combattere Galbatorix, perderemo, Solembum. Saremo sconfitti e la maggior parte dei Varden, e dei gatti mannari, morirà.» Solembum sibilò di nuovo. Cosa ti aspetti da me, Eragon? Non posso inventarmi un aiuto dove non esiste. Leggi il libro. «Arriveremo a Urû’baen prima che io lo abbia finito. È come non averlo.» Solembum appiattì ancora le orecchie. Non è colpa mia. «Non mi interessa di chi è la colpa. Voglio solo trovare il modo di non finire in catene o sottoterra. Pensaci! Devi sapere qualcos’altro!» Solembum emise un basso ringhio. Non so niente. E... «Devi, altrimenti siamo tutti spacciati!» gridò Eragon. Appena ebbe finito la frase si accorse che qualcosa nel gatto mannaro era cambiato. Le orecchie fremettero e tornarono diritte, i baffi gli ricaddero ai lati del muso, rilassati, e lo sguardo si ammorbidì, perdendo il consueto luccichio felino. Al tempo stesso la mente di Solembum divenne stranamente vuota, come se gli avessero immobilizzato o rimosso la coscienza. Eragon rimase impietrito: non sapeva che cosa fare. Poi sentì Solembum dire, con pensieri piatti e incolori come una pozza d’acqua sotto un nuvoloso cielo invernale: Capitolo quarantasette. Pagina tre. Dal secondo paragrafo in poi. Lo sguardo di Solembum tornò a risplendere, e le orecchie ripresero la posizione di prima. Cosa c’è?, chiese con evidente irritazione. Perché mi fissi a bocca aperta? «Cos’hai detto prima?» Ho detto che non so nient’altro. E che... «No, no, dopo. Il capitolo e la pagina.»

Non mi prendere in giro. Non ho detto niente del genere. «Invece sì.» Solembum studiò Eragon per qualche secondo. Poi, con un pensiero estremamente calmo, gli chiese: Dimmi con precisione che cosa hai sentito, Cavaliere dei Draghi. Eragon gli riferì le sue parole come meglio poté. Quando ebbe finito, il gatto mannaro rimase a lungo in silenzio. Non me lo ricordo, mormorò alla fine. «Cosa pensi che voglia dire?» Che dovremmo andare a leggere cosa c’è a pagina tre del capitolo quarantasette. Eragon esitò, poi annuì e cominciò a sfogliare il libro. Ricordava quel capitolo; parlava del periodo subito dopo la secessione dei Cavalieri dei Draghi dagli elfi, e della breve guerra degli elfi contro gli umani. Eragon aveva letto l’inizio del capitolo, ma gli era parso soltanto un noioso resoconto di trattati e negoziati, così l’aveva accantonato per altre occasioni. Trovò la pagina in questione. Seguendo le righe di rune con l’indice, cominciò a leggere a voce alta: ... L’isola gode di un clima relativamente temperato rispetto alle zone del continente alla stessa latitudine. Le estati sono spesso fresche e piovose, ma gli inverni sono miti e non soggetti al gelo rigido delle propaggini più settentrionali della Grande Dorsale. Ciò permetteva di avere raccolti per buona parte dell’anno. Il suolo è ricco e fertile – l’unico beneficio delle montagne di fuoco, che di quando in quando eruttano ricoprendo l’isola di uno spesso strato di cenere – e le foreste erano piene di selvaggina di grosso taglio, del genere che i draghi amavano cacciare, comprese molte specie che non si trovano in nessun’altra regione di Alagaësia. Eragon fece una pausa. «Non mi sembra rilevante.» Continua a leggere. Eragon aggrottò le sopracciglia e continuò col paragrafo successivo: Fu lì, nella grande caldera al centro di Vroengard, che i Cavalieri dei Draghi fondarono la loro celebre capitale, Doru Araeba. Doru Araeba! L’unica città nella storia progettata per ospitare draghi, elfi e umani. Doru Araeba! Un luogo di magia, studio e antichi misteri. Doru Araeba! Il nome stesso sembra vibrare di eccitazione. Non c’è mai stata una città come quella, e mai ci sarà, perché ora è perduta, distrutta, ridotta in polvere dall’usurpatore Galbatorix. Gli edifici furono costruiti in stile elfico – con successive influenze da parte dei Cavalieri umani – ma con la pietra, non con il legno; come il lettore potrà senza dubbio intuire, il legno era il materiale meno adatto da usare in presenza di creature sputafuoco dagli artigli affilati come rasoi. La caratteristica di Doru Araeba più degna di nota stava tuttavia nelle sue dimensioni. Ogni strada era larga abbastanza perché ci potessero passare due draghi affiancati, e salvo rari casi le sale e le porte erano enormi, capaci di accogliere draghi di ogni taglia. Di conseguenza, Doru Araeba era un’immensa distesa di edifici così imponenti che perfino un nano ne sarebbe rimasto colpito. La città era adorna di giardini e fontane grazie all’incontenibile amore degli elfi per la natura, e molte torri svettavano dai palazzi e dalle fortezze dei Cavalieri. Sui picchi che circondavano la città i Cavalieri eressero torri di avvistamento e nidi d’aquila contro eventuali attacchi. Più di un drago col suo Cavaliere aveva una caverna arredata con ogni comodità fra quelle montagne, dove vivevano appartati dal resto dell’ordine. Erano soprattutto i draghi più

grandi e anziani a preferire quella sistemazione, perché amavano la solitudine e perché era più facile spiccare il volo da lassù che non dal fondo della caldera. Eragon si interruppe, frustrato. La descrizione di Doru Araeba era interessante, ma aveva letto altri resoconti più dettagliati sulla capitale dei Cavalieri dei Draghi durante il suo soggiorno a Ellesméra. E poi decifrare quelle rune complicatissime era sempre un compito ostico, perfino in condizioni più serene. «È inutile» sentenziò, posando il libro. Solembum provava la stessa irritazione di Eragon. Non arrenderti. Leggi altre due pagine. Se non avrai trovato niente, rinunciamo. Eragon trasse un profondo respiro e annuì. Riprese il libro, trovò la pagina e ricominciò a leggere da dove si era interrotto, sempre a voce alta: La città vantava molte meraviglie, dalla Fontana Canterina di Eldimírim alla fortezza di cristallo di Svellhjall, fino alle dimore dei draghi. Ma nonostante tutto il loro splendore sono convinto che il più grande tesoro di Doru Araeba fosse la biblioteca. Non, come si potrebbe supporre, per la sua imponenza – sebbene fosse davvero maestosa – ma perché nel corso dei secoli i Cavalieri dei Draghi avevano accumulato una delle più complete collezioni di saperi al mondo. All’epoca della caduta dei Cavalieri esistevano soltanto tre biblioteche in grado di competere con essa: quella di Ilirea, quella di Ellesméra e quella di Tronjheim, ma nessuna di queste tre conteneva tante informazioni sulle arti magiche quanto quella di Doru Araeba. La biblioteca si trovava ai margini nordoccidentali della città, vicino ai giardini che circondavano la Guglia di Moraeta, nota anche come la Rocca di Kuthian... Eragon si sentì morire le parole in gola mentre fissava sbalordito quel nome. Dopo un momento, riprese, più lentamente: ... nota anche come la Rocca di Kuthian (vedi capitolo dodici), e non lontano dall’alta corte dove i capi dei Cavalieri ricevevano i re e le regine che chiedevano udienza. Eragon si sentì pervaso da un profondo timore reverenziale. Qualcuno, o qualcosa, aveva fatto sì che lui trovasse quella particolare informazione, lo stesso qualcuno o qualcosa che gli aveva permesso di trovare l’acciaioluce per la sua spada. Era un’idea inquietante, e adesso che sapeva qual era la destinazione, Eragon non era più tanto sicuro di volerci andare. Cosa poteva mai attenderli, lì a Vroengard?, si domandò. Aveva paura di pensarci, per non alimentare vane speranze.

DOMANDE SENZA RISPOSTE Eragon sfogliò il Domia abr Wyrda finché non trovò il riferimento a Kuthian nel capitolo dodici. Con sua grande delusione, il paragrafo riportava semplicemente che Kuthian era stato uno dei primi Cavalieri dei Draghi a esplorare l’isola di Vroengard. Chiuse il libro e rimase a fissarlo, accarezzando col pollice una nervatura della costola. Sulla branda Solembum taceva. «Credi che nella Volta delle Anime ci siano gli spiriti?» domandò Eragon. Gli spiriti non sono le anime dei defunti. «No, ma cos’altro potrebbero essere?» Solembum si alzò e si stiracchiò, con un fremito che gli percorse tutto il corpo come un’onda, dalla testa alla punta della coda. Se lo scopri, mi piacerebbe saperlo. «Allora credi che io e Saphira dovremmo andarci?» Non posso dirti cosa devi fare. Se è una trappola, vuol dire che la mia razza è stata soggiogata senza accorgersene, e allora tanto vale che i Varden si arrendano adesso, perché non sconfiggeranno mai Galbatorix. Ma se non lo è, potrebbe rivelarsi l’occasione di trovare un aiuto in un luogo insperato. Quanto a me, ne ho abbastanza di questo mistero. Saltò giù dalla branda e si avviò verso l’uscita della tenda. Sulla soglia si fermò e scoccò un’occhiata a Eragon. Ci sono molte forze incomprensibili che operano in Alagaësia, Ammazzaspettri. Ho visto cose che sfidano ogni logica: turbini di luce che vorticano nelle grotte più buie del sottosuolo, uomini che ringiovaniscono col passare del tempo, pietre che parlano e ombre che strisciano. Stanze più grandi dentro che fuori... Quello di Galbatorix non è l’unico potere al mondo con cui dobbiamo confrontarci, e forse nemmeno il più forte. Sii prudente nella tua scelta, Ammazzaspettri, e se decidi di andare, cammina in punta di piedi. Detto questo, il gatto mannaro scivolò fuori dalla tenda e si dileguò nel buio. Eragon si lasciò sfuggire un lungo sospiro. Sapeva che cosa doveva fare: andare a Vroengard. Ma non poteva prendere quella decisione senza prima consultarsi con Saphira. La svegliò raggiungendola con la mente, e dopo averla rassicurata condivise con lei i ricordi della visita del gatto mannaro. La dragonessa era stupita quanto lui. Non mi piace l’idea di correre il rischio di trasformarmi in una marionetta nelle mani di chiunque abbia stregato i gatti mannari, commentò . Neanche a me, ma cos’altro possiamo fare? Se c’è Galbatorix dietro tutto questo, allora cadremo nella sua trappola. Ma se non ci andiamo, non finirà molto diversamente, solo che avverrà quando arriveremo a Urû’baen. Con la differenza però che in quel caso avremo i Varden e gli elfi con noi. Anche questo è vero. Seguì un lungo silenzio. Poi Saphira decretò: Sono d’accordo con te. Va bene, andiamo. Ci servono artigli più lunghi e zanne più acuminate se vogliamo sconfiggere Galbatorix e Shruikan, oltre a Murtagh e Castigo. E poi il re si aspetta che ci precipitiamo a Urû’baen nella speranza di salvare Nasuada. E se c’è una cosa che mi fa prudere le squame è fare quello che i nostri nemici si aspettano.

Eragon annuì. E se fosse un tranello? Un basso ringhio risuonò fuori dalla tenda. Allora insegneremo a chiunque l’abbia ideato a temere i nostri nomi, fosse anche Galbatorix in persona. Eragon sorrise. Per la prima volta da quando Nasuada era stata rapita aveva uno scopo preciso, qualcosa di concreto da fare, che avrebbe permesso a lui e a Saphira di influire sul corso degli eventi invece che restare immobili come spettatori passivi. «D’accordo, allora» mormorò. Arya entrò nella tenda di Eragon una manciata di secondi dopo che lui l’aveva convocata con la mente. La sua rapidità lo lasciò senza parole, finché l’elfa non gli spiegò che stava facendo la guardia con Blödhgarm e gli altri elfi, nel caso in cui Murtagh e Castigo fossero tornati. Eragon espanse allora la mente verso Glaedr, e lo convinse con le lusinghe a unirsi alla conversazione, anche se il burbero drago non era in vena di parlare. Quando tutti e quattro – c’era anche Saphira – ebbero unito i pensieri, Eragon non riuscì più a trattenersi e sbottò: So dove si trova la Rocca di Kuthian! Di quale rocca parli?, brontolò Glaedr in tono acido. Il nome mi suona familiare, disse Arya, ma non riesco a ricordarmi dove l’ho udito. Eragon si accigliò. Aveva raccontato a entrambi del consiglio di Solembum in altre occasioni, ed era strano che tutti e due se lo fossero dimenticato. Ciononostante Eragon ripeté la storia del loro incontro a Teirm, poi li ragguagliò sulle recenti rivelazioni del gatto mannaro e rilesse il paragrafo in questione del Domia abr Wyrda. Arya si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio a punta. Parlando sia a voce alta sia con la mente disse: «Come hai detto che si chiama quel luogo?» «Guglia di Moraeta, o Rocca di Kuthian» rispose Eragon allo stesso modo. La domanda di Arya l’aveva colto un po’ alla sprovvista, e così esitò prima di aggiungere: «È un lungo volo, ma...» ... se io ed Eragon partiamo subito..., intervenne Saphira. «... possiamo essere di ritorno...» ... prima che i Varden arrivino a Urû’baen. Questa... «... è la nostra unica occasione per andare.» Non avremo tempo... «... per fare questo viaggio in seguito.» E dimmi, fin dove dovreste volare, voi due?, chiese Glaedr. «Cosa... cosa vuoi dire?» Proprio quello che ho detto, ringhiò il drago. La sua mente si stava rabbuiando. Parlate, parlate, ma non ci avete ancora detto dove si trova questo... posto misterioso. «Sì, invece!» protestò Eragon. «Sull’isola di Vroengard!» Ah, finalmente una risposta diretta...

Sulla fronte di Arya comparve una ruga di apprensione. «Ma cosa farete una volta lì?» «Non lo so!» esclamò Eragon, sempre più spazientito. Per un momento si chiese se fosse il caso di ribattere ai commenti di Glaedr: il drago sembrava stuzzicarlo di proposito. «Dipende da quello che troveremo. Arrivati sull’isola cercherò di introdurmi nella Rocca di Kuthian per vedere quali segreti nasconde. Se è una trappola...» Si strinse nelle spalle. «Be’, allora combatteremo.» Arya era sempre più turbata. «La Rocca di Kuthian... Sembra un nome carico di importanza, ma non saprei dire perché; mi risuona nella mente come una melodia che conoscevo e poi ho dimenticato.» Scosse il capo e si posò le mani sulle tempie. «Ah, l’ho persa...» Alzò lo sguardo. «Scusa, di cosa stavamo parlando?» «Di andare a Vroengard» riprese il Cavaliere scandendo le parole. «Ah, già... ma a quale scopo? Tu ci servi qui, Eragon. E poi a Vroengard non c’è più niente di importante.» Già, concordò Glaedr. È un posto sterile e abbandonato. Dopo che Doru Araeba è stata distrutta, i pochi di noi che erano sopravvissuti tornarono in cerca di qualcosa che potesse tornarci utile, ma i Rinnegati avevano già spogliato le rovine. Arya annuì. «Vorrei sapere chi è stato a metterti in testa quest’idea. Non capisco come puoi anche solo pensare di abbandonare i Varden proprio ora che sono più vulnerabili. E per cosa, poi? Volare fino ai confini di Alagaësia senza una valida ragione? Ti credevo più saggio. Non puoi andartene solo perché ti senti a disagio col tuo nuovo incarico, Eragon.» Eragon separò la mente da Arya e da Glaedr e segnalò a Saphira di fare altrettanto. Non si ricordano! Non riescono a ricordare! È magia. Magia potente, come quella che impedisce di ricordare i nomi dei draghi che tradirono i Cavalieri. Ma tu non ti sei dimenticata della Rocca di Kuthian, vero? Certo che no, disse lei, e una scintilla di irritazione le balenò nella mente. Come potrei, quando siamo così legati? Quando Eragon intuì le implicazioni di quella scoperta venne travolto da un senso di vertigine. Per essere efficace, l’incantesimo doveva cancellare prima i ricordi di tutti coloro che sapevano della rocca, e poi anche quelli di chi ne aveva letto o sentito parlare. Il che vuol dire che tutta Alagaësia è succube di questo incantesimo. Nessuno escluso. Tranne noi. Tranne noi, concordò lui. E i gatti mannari. E forse Galbatorix. Eragon rabbrividì: gli sembrava che una colonna di ragni di ghiaccio gli risalisse lungo la spina dorsale. La portata di quell’inganno lo sbalordiva e lo faceva sentire piccolo e vulnerabile. Confondere la mente di elfi, nani, umani e draghi senza suscitare in loro il benché minimo sospetto era un’impresa ineguagliabile. Eragon dubitava persino che fosse il frutto di un sortilegio intenzionale: era più probabile che fosse stato evocato istintivamente, dato che un incantesimo di quel genere sarebbe stato troppo complicato da formulare a parole.

Eragon doveva scoprire chi era responsabile della manipolazione della mente di ogni abitante di Alagaësia e perché. Se era Galbatorix, allora Solembum aveva ragione: la sconfitta dei Varden era inevitabile. Credi che sia opera dei draghi, come la Revoca dei Nomi?, domandò a Saphira. La dragonessa non rispose subito. Può darsi. D’altro canto, come ti ha detto Solembum, ci sono molti poteri occulti in Alagaësia. Solo a Vroengard potremo saperne di più. Se mai ci andremo. Già. Eragon si passò le dita fra i capelli. All’improvviso si sentiva esausto. Perché deve essere tutto così difficile?, chiese. Perché tutti vogliono mangiare ma nessuno vuole essere mangiato, replicò Saphira. Il Cavaliere sogghignò. Nonostante la rapidità con cui Eragon e Saphira si scambiavano i pensieri, la loro conversazione era durata abbastanza perché Arya e Glaedr la notassero. «Come mai avete schermato le menti?» chiese Arya. Scoccò un’occhiata al lato della tenda dietro cui, nel buio, era raggomitolata Saphira. «C’è qualcosa che non va?» Sembri turbato, aggiunse Glaedr. Eragon represse un sorriso amaro. «Forse perché lo sono.» Arya lo guardò preoccupata, e lui si sedette sul bordo della branda, con le mani abbandonate fra le ginocchia. Dopo un istante di silenzio passò dalla sua lingua madre a quella degli elfi e della magia: «Vi fidate di me e di Saphira?» La pausa che seguì per fortuna fu breve. «Certo» ribatté Arya, anche lei nell’antica lingua. Certo, concordò Glaedr. Lo faccio io o lo fai tu?, chiese Eragon a Saphira. Sei tu quello che vuole dirglielo, perciò coraggio. Eragon guardò Arya negli occhi. Poi, sempre nell’antica lingua, si rivolse sia a lei sia a Glaedr: «Solembum mi ha rivelato il nome di un luogo, un luogo che si trova a Vroengard, dove io e Saphira potremmo trovare qualcuno o qualcosa che ci aiuterà a sconfiggere Galbatorix. Tuttavia quel nome è stregato. Ogni volta che lo pronuncio, voi lo dimenticate.» Negli occhi di Arya brillò un tenue lampo di sgomento. «Mi credete?» «Sì» mormorò Arya. Io credo che tu sia convinto di quello che stai dicendo, ringhiò Glaedr. Ma ciò non lo rende necessariamente vero. «In quale altro modo posso provarvelo? Se vi dico il nome o condivido con voi i miei ricordi, li dimenticherete. Potete interrogare Solembum, ma a cosa servirebbe?» A cosa servirebbe? Tanto per cominciare, potremmo provare che non sei stato ingannato da qualcosa che aveva soltanto le sembianze di Solembum. Quanto all’incantesimo, ci sono molti modi per dimostrare la sua esistenza. Fai venire qui il gatto mannaro e vedremo cosa si può fare.

Ci pensi tu?, disse Eragon a Saphira, certo che il gatto mannaro sarebbe stato più accomodante se glielo avesse chiesto lei. Un attimo dopo percepì la mente della dragonessa che setacciava l’accampamento, e poi il contatto con la coscienza di Solembum. Dopo un breve scambio di pensieri con il gatto mannaro, Saphira annunciò: Sta arrivando. Aspettarono in silenzio. Eragon trascorse quei lunghi istanti a fissarsi le mani e a stilare nella sua mente un elenco di quello che gli sarebbe servito per il viaggio a Vroengard. Quando Solembum scostò il lembo della tenda ed entrò, Eragon notò con una certa sorpresa che era nella sua forma umana: un ragazzo dagli occhi scuri e insolenti. Rosicchiava una coscia di anatra arrosto, e aveva labbra e mento unti; goccioline di grasso sciolto gli erano colate sul petto nudo. Continuando a masticare un boccone di carne, Solembum fece un cenno verso la zolla di terreno dov’era sepolto il cuore dei cuori di Glaedr. Cosa vuoi, sputafuoco?, domandò. Sapere se sei quello che sembri!, rispose Glaedr. La coscienza del drago avvolse quella di Solembum, un ammasso di nuvole nere intorno a una fiamma vivace che ondeggiava nel vento. Il potere del drago era enorme: Eragon sapeva per esperienza personale che pochi potevano sperare di resistergli. Con un miagolio strozzato, Solembum sputò il boccone di carne e fece un salto indietro, come se avesse calpestato un serpente. Rimase lì, scosso dai tremiti, le zanne aguzze snudate. Negli occhi dorati gli ardeva una tale furia che il Cavaliere per precauzione mise mano all’elsa di Brisingr. La fiamma tremolò, ma non cedette: un puntolino incandescente in un turbine di nubi tempestose. Dopo un minuto la tempesta si placò e le nubi si ritrassero, anche se non scomparvero del tutto. Le mie scuse, gatto mannaro, disse Glaedr, ma dovevo esserne sicuro. Solembum sibilò, e i capelli si gonfiarono e si rizzarono tanto da farlo somigliare a un fiore di cardo. Se tu avessi ancora il tuo corpo, vecchio, ti avrei strappato la coda per questo. Ma davvero, micetto? Al massimo mi avresti lasciato qualche graffio. Solembum sibilò ancora, poi si voltò e si avviò verso l’uscita con la testa incassata fra le spalle. Aspetta, disse Glaedr. Hai parlato tu a Eragon di questo posto a Vroengard, un luogo di segreti che nessuno ricorda? Il gatto mannaro si fermò, e senza voltarsi ringhiò e brandì la coscia di anatra sopra la testa in un gesto d’impazienza. Sì. E sei stato tu a dirgli in quale pagina del Domia abr Wyrda avrebbe trovato indicazioni su questo luogo? A quanto pare sì, ma non me lo ricordo, e spero che qualunque cosa ci sia a Vroengard ti bruci i baffi e le zampe. Solembum marciò fuori, facendo sbatacchiare i lembi della tenda che rimase socchiusa: la sua piccola sagoma si confuse fra le ombre come se il gatto mannaro non fosse mai esistito. Eragon si alzò e con la punta dello stivale spinse la coscia rosicchiata fuori dalla tenda per poi richiuderne i lembi.

«Non avresti dovuto essere così sgarbato con lui» lo rimproverò Arya. Non avevo altra scelta, rispose Glaedr. «Ne sei sicuro? Potevi almeno chiedergli il permesso.» E dargli l’opportunità di prepararsi? No. E comunque è fatta. Non ci pensare, Arya. «Non posso. Hai ferito il suo orgoglio. Dovreste tentare di riappacificarvi. È pericoloso avere un gatto mannaro per nemico.» È molto più pericoloso avere un drago per nemico, cucciola d’elfo. Eragon scambiò un’occhiata preoccupata con Arya. Glaedr riusciva a essere molto irritante – anche l’elfa lo pensava, si capiva dal suo sguardo –, ma il Cavaliere non sapeva come rimediare. E adesso, Eragon, disse il drago dorato, mi permetti di esaminare i ricordi della tua conversazione con Solembum? «Se lo desideri, ma perché? Tanto finiresti per dimenticarli.» Può darsi. Oppure no. Vedremo. Poi, rivolto ad Arya, aggiunse: Sciogli la tua mente dalle nostre e non permettere ai ricordi di Eragon di contaminare la tua coscienza. «Come desideri, Glaedr-elda.» A queste parole, la musica dei suoi pensieri si fece sempre più lontana; un attimo dopo l’arcana melodia si spense del tutto. Dunque Glaedr riportò la sua attenzione su Eragon. Mostrameli, gli ordinò. Mettendo da parte l’ansia che lo attanagliava, Eragon tornò con la mente al momento in cui Solembum era entrato nella tenda e si era acciambellato sulla branda. Ricordò tutto quello che si erano detti lui e il gatto mannaro, cercando di essere il più preciso possibile. La coscienza di Glaedr si fuse con quella di Eragon in modo che il drago potesse rivivere l’esperienza insieme a lui. Era una sensazione inquietante, come se lui e il drago fossero due immagini impresse sulla stessa faccia di una moneta. Quando ebbe finito, Glaedr si ritirò dalle profondità della mente di Eragon e disse ad Arya: Quando mi sarò dimenticato, se mai accadrà, ripetimi le parole “Andumë e Fíronmas sulla collina del dolore, e la loro carne come vetro”. Questo luogo a Vroengard... lo conosco. O almeno una volta lo conoscevo. Era una cosa importante, una cosa... I pensieri del drago si fecero grigi per un istante, come se una cappa di nebbia fosse calata sulle colline e le valli del suo essere. Ebbene?, chiese nel suo solito tono burbero. Cosa aspettiamo? Eragon, mostrami i tuoi ricordi. «L’ho già fatto.» L’umore scontroso del drago si trasformò in incredulità. Arya intervenne: «Glaedr, ricorda: “Andumë e Fíronmas sulla collina del dolore, e la loro carne come vetro”.» Come... iniziò il drago dorato, poi ringhiò talmente forte che Eragon quasi si aspettava di sentire davvero quel suono, non soltanto nella sua mente. Ahhh. Odio gli incantesimi che interferiscono con la memoria. Sono la peggiore forma di magia, e portano sempre al caos e al disordine. La metà delle volte finiscono con i membri di una famiglia che si uccidono a vicenda senza rendersene conto. Cosa significa la frase che hai usato?, domandò Saphira.

Niente, se non per me e Oromis. Era proprio questo lo scopo: nessun altro poteva conoscere quella frase, a meno che non fossi stato io a dirgliela. Arya sospirò. «Perciò è vero che siamo vittime di un incantesimo. Immagino che a questo punto dobbiate andare a Vroengard. Non prestare ascolto a qualcosa di così importante sarebbe pura follia. Se non altro dobbiamo scoprire chi è il ragno che ha tessuto questa tela.» Dovrei andare anch’io, osservò Glaedr. Se c’è qualcuno che vuole farvi del male non si aspetterà di combattere contro due draghi invece di uno. E poi vi servirà una guida. Dopo la caduta dei Cavalieri, Vroengard è un luogo pericoloso, e non lascerò che finiate preda di qualche dimenticata entità maligna. Gli occhi di Arya si velarono di un’ombra di struggimento, ed Eragon non fece fatica a interpretarla: anche lei avrebbe voluto accompagnarli. «Saphira volerà più veloce se dovrà portare soltanto una persona» disse lui in tono sommesso. «Lo so... È solo che ho sempre voluto visitare la dimora dei Cavalieri dei Draghi.» «Sono sicuro che lo farai. Un giorno.» L’elfa annuì. «Un giorno.» Eragon rimase un istante seduto sulla branda a raccogliere le energie e riflettere su tutto quello che era necessario fare prima che lui, Saphira e Glaedr partissero. Poi trasse un profondo respiro e si alzò. «Capitano Garven!» chiamò. «Vieni qui, per favore.»

PARTENZA Per prima cosa Eragon chiese a Garven di mandare in tutta segretezza uno dei Falchineri a mettere insieme le provviste per il viaggio a Vroengard. Saphira aveva mangiato dopo la conquista di Dras-Leona, ma non a sazietà, per essere pronta nel caso in cui avesse dovuto combattere di nuovo, come infatti era successo. Aveva quindi abbastanza energie per volare fino a Vroengard senza fermarsi, ma una volta arrivati Eragon sapeva che avrebbe dovuto procurarsi il cibo sull’isola o nei paraggi, e questa prospettiva lo impensieriva. Posso sempre volare indietro a stomaco vuoto, lo rassicurò la dragonessa, ma Eragon non ne era così convinto. Poco dopo mandò un messaggero a chiamare Jörmundur e Blödhgarm. Eragon, Arya e Saphira impiegarono un’altra ora buona per spiegare loro la situazione; ancora più complicato fu convincerli che il viaggio era necessario. Blödhgarm si lasciò persuadere con relativa facilità, mentre Jörmundur protestò con foga. Non dubitava che l’informazione di Solembum fosse vera, né metteva in discussione la sua importanza: aveva accettato le parole di Eragon senza obiettare. Semplicemente, come precisò con crescente veemenza, i Varden sarebbero rimasti sconvolti e disorientati se al loro risveglio avessero scoperto non solo che Nasuada era stata rapita, ma che Eragon e Saphira erano svaniti per andare chissà dove. «Galbatorix potrebbe pensare che ci avete abbandonati» disse Jörmundur. «Non possiamo correre questo rischio, non quando siamo così vicini a Urû’baen. Potrebbe mandare Murtagh e Castigo a intercettarvi, o approfittare dell’occasione per schiacciare i Varden una volta per tutte.» Eragon dovette ammettere che i timori di Jörmundur avevano valide fondamenta. Infine arrivarono a una soluzione: Blödhgarm e gli altri elfi avrebbero creato un’immagine-specchio sia di Eragon sia di Saphira, come avevano fatto con Eragon quando era andato sui Monti Beor per partecipare all’elezione e all’incoronazione del successore di Rothgar. Le immagini sarebbero apparse come perfette copie viventi di Eragon e Saphira, con un’unica differenza: le loro menti sarebbero state vuote. Se qualcuno vi avesse guardato dentro, dunque, avrebbe scoperto il trucco. L’immagine di Saphira, poi, non sarebbe stata in grado di parlare; il discorso era diverso per quella di Eragon: gli elfi erano in grado di farla parlare, ma era comunque meglio evitarlo, perché le sfumature nella sua pronuncia avrebbero messo in allarme chi la ascoltava. Comunque le illusioni funzionavano al meglio solo da una certa distanza, e quelli che avevano un rapporto più personale con Eragon e Saphira, come Orik e Orrin, si sarebbero presto accorti che qualcosa non andava. Eragon ordinò a Garven di convocare nella sua tenda i Falchineri con la massima discrezione. Quando furono tutti radunati davanti all’ingresso, Eragon spiegò al gruppo di uomini, nani e Urgali perché lui e Saphira erano in procinto di partire, anche se si mantenne sul vago circa i dettagli del viaggio e non rivelò la destinazione. Poi spiegò come avrebbero fatto gli elfi a nascondere la loro assenza e impose a tutti un giuramento di segretezza nell’antica lingua. Si fidava di loro, ma non si era mai troppo prudenti quando c’entravano Galbatorix e le sue spie.

Terminata la riunione, Eragon e Arya andarono da Orrin, Orik, Roran e dalla maga Trianna. Come avevano fatto con i Falchineri, spiegarono la situazione e li fecero giurare. Re Orrin, come c’era da aspettarsi, si dimostrò il più intransigente. Definì inammissibile l’idea che Eragon e Saphira se ne andassero a Vroengard e si oppose con tutte le sue forze. Mise in dubbio il coraggio di Eragon, l’attendibilità dell’informazione di Solembum, e minacciò di ritirare le proprie truppe dai Varden se Eragon avesse insistito per imbarcarsi in quel viaggio assurdo. Ci volle un’altra ora di minacce e lusinghe per convincerlo a giurare, e anche allora Eragon continuò a temere che si sarebbe rimangiato la parola. Le visite a Orik, Roran e Trianna durarono molto meno, ma a Eragon quei minuti parvero comunque interminabili. L’impazienza lo rendeva brusco e irrequieto: voleva partire al più presto, e ogni istante che perdeva non faceva che aumentare la sua smania. Mentre passava con Arya di tenda in tenda, attraverso il legame con Saphira percepì sullo sfondo la lieve, onnipresente cantilena sussurrata degli elfi, come un arcano ordito nascosto sotto il tessuto del mondo. Saphira era rimasta accanto alla tenda di Eragon, e gli elfi le si erano disposti intorno in cerchio; tenevano le braccia larghe, con le punte delle dita che si toccavano appena, e cantavano. Lo scopo del lungo e complicato incantesimo era raccogliere ogni dettaglio visivo della dragonessa per ricrearne una copia perfetta. Era già difficile imitare la forma di un elfo o di un umano, ma con un drago era ancor più complicato, soprattutto per la natura rifrangente delle sue squame. Eppure la parte più ardua dell’illusione, come Blödhgarm aveva spiegato a Eragon, sarebbe stata la riproduzione degli effetti del peso di Saphira sul terreno ogni volta che la sua immagine-specchio spiccava il volo o atterrava. Quando Eragon e Arya ebbero concluso il loro giro di visite, la notte aveva ceduto il posto al mattino e il sole era già alto sull’orizzonte di una spanna. Alla luce impietosa dei suoi raggi i danni provocati dall’attacco all’accampamento parvero ancora più gravi. Eragon voleva partire subito, ma Jörmundur insistette perché si rivolgesse ai Varden almeno una volta in qualità di nuovo capo. Così poco dopo il Cavaliere si ritrovò in piedi su un carro con l’esercito schierato davanti: un mare di facce, umane e non, tutte rivolte verso di lui. Eragon avrebbe voluto essere da qualunque altra parte. Qualche minuto prima aveva chiesto consiglio a Roran, e il cugino gli aveva detto: “Ricorda, non sono tuoi nemici. Non hai nulla da temere. Loro vogliono ammirarti. Parla chiaro, sii schietto, e qualunque cosa ti passi per la testa, tieniti i tuoi dubbi per te. È questa la maniera per conquistarli. Quando scopriranno cos’è successo a Nasuada si sentiranno smarriti e spaventati. Tu rassicurali, perché di questo hanno bisogno, e ti seguiranno fin nel cuore di Urû’baen.” Malgrado l’incoraggiamento di Roran, Eragon si sentiva ancora in ansia per il discorso. Di rado gli era capitato di tenerne davanti a una platea così vasta, e anche in quei casi si era trattato di qualche semplice frase. Mentre osservava i guerrieri davanti a lui, bruciati dal sole, veterani di mille battaglie, decise che avrebbe preferito affrontare cento nemici piuttosto che parlare in pubblico e rischiare la loro disapprovazione. Fino all’istante prima di aprire bocca, Eragon non sapeva che cosa avrebbe detto. Una volta iniziato, però, le parole parvero uscire da sole, ma era così teso che in seguito non avrebbe ricordato nulla: il discorso passò come un vortice confuso di cui gli rimasero

impressi il caldo e il sudore, i gemiti dei guerrieri quando appresero la sorte di Lady Nasuada, le loro grida di esultanza quando lui li esortò alla vittoria e il boato finale della folla quando concluse. Con enorme sollievo balzò giù dal carro e tornò dove Arya e Orik lo aspettavano accanto a Saphira. Le guardie della scorta si strinsero intorno ai quattro, proteggendoli dalla calca e dissuadendo quelli che volevano avvicinarsi a lui. «Ben fatto, Eragon!» esclamò Orik dandogli un colpetto sul braccio. «Sul serio?» domandò il Cavaliere, ancora stordito. «Sei stato molto eloquente» aggiunse Arya. Eragon si strinse nelle spalle, imbarazzato. Lo intimidiva ricordare che Arya aveva conosciuto la maggior parte dei capi dei Varden, e non poteva fare a meno di pensare che Ajihad o il suo predecessore, Deynor, sarebbero stati molto più bravi ad affascinare il loro esercito. Orik lo tirò per una manica. Eragon si chinò verso il nano. Riuscendo a malapena a sovrastare il chiasso della folla, Orik disse: «Spero che qualunque cosa cerchi meriti il lungo viaggio in cui ti stai imbarcando, amico mio. Attento a non farti ammazzare, intesi?» «Farò del mio meglio.» Con grande sorpresa di Eragon, Orik lo afferrò per la spalla e lo attirò in un ruvido abbraccio. «Che Gûntera ti protegga.» Quando si separarono, il re dei nani diede una pacca sul fianco di Saphira. «Che protegga anche te, Saphira. Buon viaggio a tutti e due.» La dragonessa rispose con un basso mugolio. Eragon guardò Arya. All’improvviso si sentì impacciato, incapace di trovare qualcosa da dire che non suonasse banale. La bellezza dei suoi occhi lo incantava; l’effetto dell’elfa su di lui sembrava non diminuire mai. Poi Arya gli prese il capo fra le mani e gli diede un bacio sulla fronte. Eragon la fissò a bocca aperta. «Guliä waíse medh ono, Argetlam.» Buona fortuna, Mano d’Argento. Quando lo lasciò, Eragon le prese le mani fra le sue. «Non ci accadrà niente di brutto. Non lo permetterò. Nemmeno se Galbatorix ci stesse aspettando. Spaccherò le montagne a mani nude, se serve, ma ti prometto che torneremo sani e salvi.» Prima che lei potesse rispondere, Eragon le lasciò le mani e si arrampicò sul dorso di Saphira. I Varden proruppero in nuove grida di esultanza quando lo videro montare in sella. Lui li salutò con la mano e i guerrieri raddoppiarono l’entusiasmo, battendo i piedi per terra e picchiando le spade sugli scudi. Con la coda dell’occhio, Eragon vide che Blödhgarm e gli altri elfi erano stretti in gruppo dietro un padiglione lì vicino. Rivolse loro un cenno del capo e loro ricambiarono. Il piano era semplice: lui e Saphira si sarebbero alzati in volo come se volessero pattugliare i cieli ed esplorare il territorio, una consuetudine quando l’esercito si metteva in marcia. Ma dopo aver sorvolato l’accampamento un paio di volte Saphira si sarebbe infilata in una nuvola ed Eragon avrebbe evocato un incantesimo per renderla invisibile a chi guardava da sotto. A quel punto gli elfi avrebbero creato i vuoti simulacri destinati a prendere il loro

posto, mentre i due continuavano il viaggio. A emergere dalla nuvola sarebbero state le immagini-specchio. Con un po’ di fortuna nessuno si sarebbe accorto della differenza. Con gesti rapidi ed esperti, Eragon strinse le cinghie intorno alle gambe e controllò che le bisacce fossero ben legate. Dedicò particolari premure a quella alla sua sinistra, perché dentro, avvolto in un fagotto di coperte e indumenti, c’era lo scrigno foderato di velluto che conteneva il cuore dei cuori di Glaedr, il suo Eldunarí. Andiamo, disse il vecchio drago. A Vroengard!, esclamò Saphira, e spiccò il volo, facendo roteare il mondo intorno a Eragon. La dragonessa batté le possenti ali alzando una folata d’aria e li portò sempre più in alto. Tenendosi ben stretto, Eragon chinò il capo per proteggersi dal vento. Fissando il cuoio liscio della sella, inspirò a fondo e cercò di non pensare più a ciò che si lasciavano alle spalle e a ciò che si sarebbero trovati ad affrontare. Non poteva far altro che aspettare: aspettare e sperare che Saphira riuscisse a volare fino a Vroengard e a tornare prima che l’Impero attaccasse di nuovo i Varden; sperare che Roran e Arya se la cavassero; sperare di riuscire a salvare Nasuada; e sperare che partire per Vroengard si sarebbe rivelata la scelta giusta, perché si avvicinava in fretta il momento in cui avrebbero dovuto affrontare Galbatorix. [eBookLove - eBL 043] Christopher Paolini - Inheritance [by Pico]

IL TORMENTO DELL’INCERTEZZA Nasuada aprì gli occhi. L’oscura volta del soffitto era rivestita di mattonelle, su cui era stato dipinto un motivo a disegni geometrici rosso, blu e oro. L’intrico di linee catturò la sua svogliata attenzione per qualche istante. Alla fine si costrinse a distogliere lo sguardo. Dalle sue spalle proveniva un bagliore arancione. Non sapeva che cosa fosse a spanderlo, ma se la luce bastava a rivelare la forma ottagonale della stanza, non era tanto forte da disperdere le ombre che penzolavano agli angoli come brandelli di velo. Deglutì; aveva la gola secca. Era distesa su una superficie fredda, liscia e dura, simile a pietra. Un brivido di freddo la percorse fin dentro le ossa, e soltanto allora si accorse di non indossare altro che la leggera camiciola da notte con cui abitualmente dormiva. Dove sono? I ricordi l’assalirono all’improvviso, senza senso né ordine: una sgradita cavalcata che le balenò in mente con un’intensità tale da sembrare reale. Boccheggiò e tentò di alzarsi a sedere – doveva correre, fuggire, combattere se necessario – ma scoprì di non potersi muovere. Aveva manette imbottite ai polsi e alle caviglie, e una spessa cinghia di cuoio le teneva la testa bloccata contro la lastra di pietra, così che lei non riusciva né a sollevarla né a voltarla. Provò a divincolarsi, ma i legacci erano troppo stretti e robusti. Sospirò e si abbandonò sulla lastra di pietra, lo sguardo di nuovo perso sul soffitto. Il cuore le martellava nelle orecchie come un tamburo impazzito. Sentiva caldo dappertutto: aveva le guance bollenti e le sembrava di avere mani e piedi immersi nel sego fuso. Allora è così che morirò. Per un attimo si lasciò prendere dallo sconforto e da un senso di autocommiserazione. Aveva appena cominciato a vivere, e stava per finire tutto, nel più triste e orribile dei modi, per giunta. Ma la cosa peggiore era che non aveva portato a termine nessuno degli obiettivi che si era prefissa: la guerra, l’amore, la maternità, la vita. E che cosa si lasciava alle spalle? Battaglie, cadaveri e lunghi convogli di rifornimenti; così tanti stratagemmi che era impossibile ricordarli tutti; giuramenti di amicizia e fedeltà che valevano meno della promessa di un marinaio; e un esercito di uomini smarriti, indocili e troppo vulnerabili, lasciato sotto la guida di un ragazzino, sebbene fosse un Cavaliere dei Draghi. E di lei non sarebbe rimasto che un ricordo. Era l’ultima della sua stirpe. Una volta morta, non ci sarebbe stato nessuno a continuare la discendenza. Era un pensiero che la tormentava, e si rimproverò di non aver generato figli quando poteva. «Mi dispiace» mormorò vedendo il volto del padre davanti a sé.

Ma poi si riscosse e scacciò la disperazione. C’era ancora una cosa che poteva controllare, e non aveva alcuna intenzione di rinunciarvi per il discutibile piacere di indulgere a paure, dubbi e rimpianti. Finché fosse rimasta padrona dei propri pensieri e delle proprie emozioni non era del tutto indifesa. Era la più piccola delle libertà, la libertà della mente, ma era grata di averla; la consapevolezza che di lì a poco avrebbero potuto strappargliela la rese ancor più decisa a esercitarla. Oltretutto aveva ancora un ultimo compito da assolvere: resistere all’interrogatorio. E per riuscirci aveva bisogno del pieno possesso delle proprie facoltà. Altrimenti non avrebbe retto a lungo. Rallentò la respirazione e si concentrò sul flusso regolare d’aria che dai polmoni saliva fino alle narici e viceversa. Quando si sentì calma, si preparò a decidere cosa era più sicuro pensare. Troppi argomenti potevano rivelarsi pericolosi: per lei, per i Varden, per i loro alleati, per Eragon e Saphira. Ma evitò di stilare una lista di quali evitare, perché altrimenti avrebbe dato ai suoi carcerieri proprio le informazioni che cercavano. Si limitò invece a scegliere qualche pensiero e ricordo innocuo sforzandosi di ignorare il resto, di convincersi che tutto ciò che lei era ed era stata consistesse in quei pochi, banali elementi. In poche parole cercò di crearsi una nuova identità, più semplice di quella reale, in modo che al momento dell’interrogatorio avrebbe potuto dichiarare la propria ignoranza in tutta sincerità. Era una tecnica pericolosa: perché funzionasse, doveva credere lei stessa al proprio inganno, e se mai l’avessero liberata, le sarebbe stato difficile riappropriarsi della sua vera identità. D’altro canto era improbabile che qualcuno sarebbe andato a salvarla o che l’avrebbero rilasciata. L’unica cosa che lei stessa osava sperare era di frustrare i piani dei suoi carcerieri. Gokukara, dammi la forza di sopportare questa prova. Proteggi la tua piccola civetta, e dovessi morire portami via da questo luogo... portami nei campi sereni e sicuri di mio padre. Studiò come poteva la stanza piastrellata. Doveva essere a Urû’baen. Era logico che Murtagh e Castigo l’avessero portata lì, e quella deduzione spiegava anche lo stile elfico della stanza: gli elfi avevano costruito la maggior parte della città che loro chiamavano Ilirea sia prima dell’antica guerra contro i draghi sia dopo, quando era diventata capitale del regno di Broddring e i Cavalieri dei Draghi ne avevano fatto il loro presidio. O almeno così le aveva detto suo padre. Lei non ricordava niente della città. Era possibile tuttavia che la tenessero prigioniera da tutt’altra parte: in una delle residenze private di Galbatorix, per esempio. E forse la stanza era completamente diversa da come lei la percepiva. Uno stregone esperto poteva manipolare tutto quel che lei vedeva, sentiva, udiva e odorava; poteva alterare il mondo intorno senza che lei se ne accorgesse. Qualunque cosa le fosse successa – qualunque cosa immaginava che le fosse successa – non si sarebbe fatta trarre in inganno. Se anche Eragon avesse fatto irruzione nella stanza in quel preciso momento per tagliarle i legacci, avrebbe comunque creduto che si trattava di un trucco dei suoi carcerieri. Non osava fidarsi dei suoi sensi. Nel momento stesso in cui Murtagh l’aveva rapita dall’accampamento il mondo intero era diventato un inganno, e non c’era modo di capire quando sarebbe finito, se mai fosse successo. Di una sola cosa poteva essere certa: era viva. Tutto il resto era sospetto, perfino i suoi stessi pensieri.

Passata la sorpresa iniziale, la noia dell’attesa cominciò a snervarla. Non aveva modo di misurare lo scorrere del tempo se non con la fame e con la sete, e la fame si faceva sentire soltanto a tratti per poi scemare. Provò a tenere il conto delle ore, ma l’esercizio la tediava e perdeva sempre il conto quando arrivava a diecimila. Malgrado gli orrori che senza dubbio erano in agguato sperava che i suoi nemici si sbrigassero a mostrarsi. Gridò tanto da sgolarsi, ma a risponderle fu solo l’eco della sua stessa voce. La luce arancione alle sue spalle non tremolava né diminuiva mai. Nasuada intuì che doveva trattarsi di una lanterna senza fiamma, simile a quelle usate dai nani. Non era facile dormire con quel bagliore, ma alla fine la stanchezza prese il sopravvento e le palpebre le si chiusero. Sognare era una prospettiva che la terrorizzava. Il sonno era il momento in cui era più vulnerabile, e temeva che il suo inconscio trasmettesse le informazioni che lei cercava di tenere nascoste. Ma non aveva molta scelta. Presto o tardi avrebbe dovuto cedere, e costringersi a restare sveglia avrebbe soltanto contribuito a indebolirla di più. Così dormì. Ma il suo riposo fu agitato e insufficiente, e quando si destò si sentiva ancora stanca. Un forte rombo la fece trasalire. Da qualche parte dietro di lei udì lo scatto di un chiavistello e poi lo scricchiolio di una porta che si apriva. Il cuore iniziò a batterle forte. Non poteva esserne certa, ma le sembrava che fosse passato più o meno un giorno da quando aveva ripreso conoscenza. Aveva una sete terribile, la lingua gonfia e appiccicosa, il corpo indolenzito. Passi che scendevano scale. Stivali dalla suola morbida che strusciavano sulla pietra. Una pausa. Tintinnio di metallo. Chiavi? Coltelli? O peggio? Poi lo scalpiccio riprese. Era più vicino. Sempre più vicino. Sempre più vicino. Un uomo corpulento con una tunica di lana grigia entrò nel suo campo visivo. Portava un vassoio d’argento con formaggio, pane, carne, vino e acqua. Si chinò e posò il vassoio ai piedi della parete, poi si voltò e le si avvicinò con passo breve, svelto e deciso. Quasi affettato. Si appoggiò al bordo della lastra di pietra – aveva un po’ di fiatone – e la fissò. La testa somigliava a una zucca: rigonfia in cima e in fondo, e più sottile al centro. Era rasato alla perfezione e quasi calvo, tranne che per una corta frangetta di capelli scuri che gli girava tutto intorno al cranio. Aveva la fronte lucida e le guance paffute e rubiconde, labbra grigie come la tunica e occhi marroni e ravvicinati, senza altri particolari degni di nota. Quando fece schioccare la lingua, Nasuada scoprì che aveva i denti convergenti come le ganasce di una pinza e che sporgevano più del normale, ricordando vagamente un muso animalesco. Il suo alito caldo e umido emanava odore di fegato e cipolle. Nonostante la fame, lo trovò nauseabondo. Gli occhi dell’uomo che indugiavano sul suo corpo le rammentarono che indossava solo la camiciola da notte. Quello sguardo la faceva sentire vulnerabile, come un giocattolo o un cucciolo regalatogli per farlo divertire. Avvampò di rabbia e umiliazione.

Decisa a non aspettare che lui per primo manifestasse le sue intenzioni, cercò di parlare per chiedergli dell’acqua, ma dalla sua gola riarsa uscì soltanto un rantolo roco. L’uomo in grigio emise un borbottio di disappunto, e con grande sorpresa di Nasuada cominciò a scioglierle i legacci. Nel momento stesso in cui fu libera scattò a sedere sulla lastra e tentò di colpirlo al collo con il taglio della mano destra. Lui le afferrò il polso a mezz’aria, senza il minimo sforzo. Lei ringhiò e cercò di accecarlo con le dita della sinistra. Di nuovo lui le impedì il movimento. Lei tentò di divincolarsi, ma invano: era come avere i polsi saldati alla pietra. Al colmo della frustrazione, scattò in avanti e affondò i denti nell’avambraccio del suo carceriere. Avvertì in bocca il sapore del sangue, salato e metallico. Sentì salire un conato di vomito, ma continuò a mordere anche se il sangue le colava dalle labbra. Fra i denti e sulla lingua sentì i muscoli del braccio dell’uomo scattare come serpenti intrappolati che cercano di fuggire. Ma a parte questo, l’uomo non ebbe altra reazione. Alla fine lei mollò la presa, rovesciò la testa all’indietro e gli sputò il sangue in faccia. Lui però continuò a guardarla con la stessa espressione vacua, senza battere ciglio né mostrare dolore o rabbia. Nasuada diede uno strattone per provare a liberarsi le mani ancora una volta, poi piegò una gamba, decisa a sferrargli un calcio alla pancia. Ma ancora prima che ci provasse lui le lasciò il polso e le diede un violento ceffone. Un lampo accecante le balenò negli occhi, e le parve che intorno esplodesse una deflagrazione silenziosa. La testa si piegò di lato, i denti sbatacchiarono e una fitta lancinante le corse lungo la spina dorsale. Quando si riprese scoccò un’occhiata fulminante all’uomo, ma non cercò più di colpirlo. Aveva capito di essere alla sua mercé. Se voleva batterlo doveva trovare un’arma con cui tagliargli la gola o trapassargli un occhio. Lui le lasciò anche l’altro polso e infilò la mano nella tunica, da dove estrasse un fazzoletto bianco. Lo usò per asciugarsi il volto dal sangue e dalla saliva, poi se lo legò intorno al braccio ferito usando i denti per tenere un capo del nodo. Subito dopo le afferrò un braccio con le dita grandi e tozze e la trascinò giù dalla lastra color cenere. Le gambe le cedettero non appena toccò il pavimento. Rimase a penzolare come una bambola di pezza, con il braccio che lui le stringeva piegato sopra la testa in una posizione innaturale. Lui la rimise in piedi. Questa volta riuscì a sorreggersi. L’uomo la guidò verso una porticina secondaria che dal punto in cui era sdraiata prima non aveva visto. Accanto c’era una rampa di scale che conduceva a un’altra porta, più grande, la stessa da cui era entrato il suo carceriere. Era chiusa, ma al centro c’era una piccola grata di metallo attraverso la quale scorse un arazzo appeso a una liscia parete di pietra. L’uomo aprì la porticina e la scortò in un’angusta latrina. Con suo grande sollievo fu lasciata da sola. Si guardò intorno nella stanzetta spoglia, in cerca di qualcosa da usare

come arma o di un modo per fuggire, ma trovò soltanto polvere, trucioli di legno e sinistre macchie di sangue secco. Così fece quello che era previsto che facesse, e quando uscì dalla latrina, l’uomo sudato la afferrò di nuovo per il braccio e la riaccompagnò al suo giaciglio di pietra. Lei cominciò a scalciare e a dibattersi: piuttosto che essere di nuovo legata avrebbe sopportato tutte le torture del mondo. Eppure, nonostante i suoi sforzi, non riuscì a fermare o a rallentare l’uomo: sembrava che avesse le mani di ferro e persino la grossa pancia, all’apparenza così molle, non accusò i suoi colpi. Sollevandola come una bambina, l’uomo la rimise distesa, le premette le spalle contro la pietra e le assicurò le manette ai polsi e alle caviglie. Infine le passò la cinghia di cuoio sulla fronte e la fissò abbastanza stretta da impedirle di muovere la testa, ma non tanto da farle male. Lei si aspettava che l’uomo consumasse il suo pranzo, o cena, o qualsiasi cosa fosse; invece lui prese il vassoio, lo portò accanto alla lastra e le offrì un calice di vino allungato con l’acqua. Era difficile deglutire da sdraiata, così dovette bere a piccoli sorsi dal calice d’argento che lui le premeva contro le labbra. Il vino diluito che le scorreva nella gola riarsa fu un immenso, rinfrescante sollievo. Quando ebbe svuotato il calice, l’uomo lo mise da parte, tagliò qualche fetta di pane e di formaggio e gliela porse. «Come...» disse lei, con la voce che finalmente rispondeva ai comandi. «Come ti chiami?» L’uomo la fissò senza lasciar trasparire la benché minima emozione. Alla luce della lanterna senza fiamma la fronte sporgente scintillava come avorio levigato. Le spinse il pane e il formaggio verso la bocca. «Chi sei? Siamo a Urû’baen? Sei un prigioniero anche tu? Possiamo aiutarci a vicenda. Galbatorix non è onnipotente. Insieme troveremo un modo per evadere. Sembra impossibile, ma non è così, te lo garantisco.» Continuò a parlare con voce bassa e calma, nella speranza di conquistarsi le simpatie dell’uomo o almeno di suscitarne l’interesse. Sapeva di poter essere persuasiva – come attestavano le lunghe ore di negoziati per conto dei Varden – ma le sue parole non parvero sortire alcun effetto sull’uomo. Se ne stava lì impalato con il pane e il formaggio in mano, e se non fosse stato per il fatto che respirava si sarebbe potuto benissimo credere che fosse morto. Le era anche venuto il dubbio che fosse sordo, ma lui lo aveva fugato reagendo quando lei gli aveva chiesto dell’acqua. Parlò finché non ebbe esaurito ogni argomento e supplica; appena tacque per cercare un diverso tipo di approccio, lui le premette il pane e il formaggio contro le labbra. Infuriata, gli gridò di toglierli subito, ma lui non le diede ascolto, e continuò a fissarla con lo stesso sguardo neutro e disinteressato. Nasuada rabbrividì quando alla fine realizzò che l’atteggiamento di quello strano essere non era una posa: lei davvero non significava niente per lui. Se l’avesse odiata, o avesse dimostrato un perverso piacere nel tormentarla, o se fosse stato uno schiavo che eseguiva di malavoglia gli ordini di Galbatorix lei se ne sarebbe senz’altro accorta. Ma non era così: quell’uomo era semplicemente indifferente, privo della benché minima traccia di compassione. Era certa che l’avrebbe uccisa con la stessa facilità con cui si prendeva cura di lei, e senza mostrare più scrupoli di chi schiaccia una formica.

Suo malgrado, si costrinse ad aprire la bocca e gli permise di posarle piccoli bocconi di pane e formaggio sulla lingua, resistendo all’impulso di mordergli le dita. Lui la nutrì. Come una bambina. Le infilò ogni pezzetto di cibo in bocca con estrema delicatezza, quasi fosse stato una sfera di vetro soffiato che poteva rompersi alla minima sollecitazione. Lei fremeva d’odio. Passare dall’essere il capo della più grande alleanza nella storia di Alagaësia a... No, no, doveva rimanere concentrata. Tenere bene a mente le sue origini: era nata e cresciuta nel caldo e nella polvere del Surda, fra le grida dei bottegai per richiamare i potenziali clienti nelle affollate vie del mercato. Tutto qui. Non aveva alcun motivo per fare la superba, nessun motivo per rammaricarsi della sua caduta. Eppure non poteva fare a meno di detestare l’uomo che incombeva su di lei. La infastidiva il modo in cui insisteva a nutrirla quando lei avrebbe potuto farlo da sola. Odiava che Galbatorix, o chiunque fosse responsabile della sua prigionia, stesse cercando di spogliarla di ogni orgoglio e dignità. E soprattutto, non sopportava dover ammettere con se stessa che sotto certi aspetti ci stava riuscendo. E fu allora che si ripromise di uccidere quell’uomo, fosse stata l’ultima cosa che faceva in vita sua. A parte la fuga, nient’altro le avrebbe dato più soddisfazione. Lo farò, costi quel che costi. Mangiò il resto del pane e del formaggio con gusto, cercando nel frattempo di escogitare la maniera di sbarazzarsi di lui. Quando Nasuada ebbe terminato il suo pasto, l’uomo raccolse il vassoio e se ne andò. Nasuada udì i passi che si allontanavano, la porta che si apriva e si chiudeva, lo scatto del chiavistello e poi il tonfo cupo e sconfortante di una sbarra che ricadeva nel suo alloggiamento dall’altro lato della porta. E si ritrovò di nuovo sola, con ben poco da fare se non aspettare e cullarsi nelle sue fantasie omicide. Per qualche tempo si distrasse seguendo con lo sguardo una delle linee dipinte sul soffitto, nel tentativo di scoprire dove cominciava o finiva. Aveva scelto una linea blu: quel colore le piaceva perché lo associava alla persona che più di tutte non osava ricordare. Ma finì comunque per stancarsi dei decori della stanza così come dei progetti di vendetta; chiuse gli occhi e scivolò in una sorta di dormiveglia dove le ore sembravano susseguirsi con la logica paradossale degli incubi: più rapide e più lente del normale. L’uomo con la tunica grigia tornò e lei fu quasi felice di vederlo; si disprezzò all’istante per quella reazione, perché il sollievo era sinonimo di debolezza. Non sapeva quanto tempo fosse rimasta lì in solitudine, ma le sembrava ne fosse trascorso di meno rispetto alla prima visita. Eppure l’attesa era stata comunque interminabile, e aveva quasi temuto di dover rimanere lì immobilizzata e dimenticata dal mondo – anche se di sicuro sorvegliata – per lo stesso, lunghissimo lasso di tempo di quando aveva ripreso i sensi. Stare completamente ferma per ore su una piatta lastra di pietra era già abbastanza penoso, ma vedersi negato il contatto con una qualsiasi creatura vivente – fosse pure quel carceriere grasso e abominevole – era una tortura ben peggiore. Mentre l’uomo la liberava dalle manette, notò che la ferita sul braccio era guarita del tutto: la pelle era liscia e rosea come quella di un maialino da latte.

Stavolta non si ribellò, ma mentre lui l’accompagnava sostenendola verso la latrina fece finta di inciampare e cadere nella speranza di avvicinarsi al vassoio dove avrebbe potuto afferrare il piccolo coltello che l’uomo usava per tagliare il cibo. Sfortunatamente il suo obiettivo era troppo lontano e l’uomo troppo robusto perché lei riuscisse a trascinarlo da quella parte senza destare sospetti. Fallito il suo piano, si rassegnò ad accettare le cure del carceriere senza protestare: doveva convincerlo che si era arresa, così lui si sarebbe fatto più gentile e con un po’ di fortuna più distratto. Mentre le dava da mangiare, lei gli studiò le unghie. La volta prima era troppo arrabbiata per notarle, ma adesso che si era calmata rimase affascinata dalla loro singolarità. Erano spesse, arrotondate e affondate nella carne. Le bianche mezzelune sopra le cuticole erano grandi e larghe. Tutto sommato non molto diverse da quelle dei tanti uomini e nani con cui aveva avuto a che fare. Quando le era successo di incontrarli? Non se ne ricordava. Ciò che le rendeva speciali era la cura con cui erano state coltivate. E coltivate sembrava proprio il termine adatto, dal momento che sembravano fiori rari a cui un giardiniere premuroso avesse dedicato lunghe ore di attenzioni. Le cuticole erano lisce e morbide, senza pellicine, e le unghie erano state tagliate né troppo lunghe né troppo corte, con i bordi limati ad arte. Erano state lucidate fino a risplendere come ceramica invetriata, e la pelle intorno sembrava fosse stata ammorbidita con olio o burro. Elfi esclusi, non aveva mai visto un uomo con unghie tanto perfette. Gli elfi? Scacciò quel pensiero, furiosa con se stessa. Non conosceva nessun elfo. Quelle unghie erano un enigma, un’anomalia in uno scenario altrimenti comprensibile, un mistero che voleva risolvere per quanto probabilmente fosse inutile provarci. Chi poteva essere l’artefice di quella perfezione esemplare? Aveva fatto tutto da solo? L’uomo aveva l’aria scostante e antipatica, e lei non riusciva a immaginare una moglie, una figlia, una serva o un’altra persona a lui vicina che dedicasse tanta cura alle sue mani. D’altro canto poteva sempre sbagliarsi. Molti veterani di guerra, uomini burberi e taciturni che amavano soltanto il vino, le donne e le battaglie, l’avevano sorpresa mostrando imprevedibili lati nascosti: la passione per l’intaglio, la tendenza a imparare a memoria poesie romantiche, la tenerezza per i cani o un’assoluta dedizione alla famiglia che tenevano nascosta al resto del mondo. Le ci erano voluti anni per scoprire che Jör... Represse quella digressione sul nascere. Comunque fosse, la domanda su cui tornava ad arrovellarsi era ogni volta la stessa: perché? Le motivazioni erano sempre importanti, anche quando si trattava di cose insignificanti come le unghie. Se la cura che rispecchiavano era opera di qualcun altro, allora doveva essere il frutto o di un grande affetto o di una grande paura. Ma forse si sbagliava: aveva la sensazione che affetto o paura non c’entrassero nulla. Se al contrario l’uomo se ne occupava da solo, allora le spiegazioni possibili erano svariate: forse le unghie erano un modo per esercitare un minimo di controllo su una vita che non gli apparteneva più; oppure erano l’unica parte del suo corpo che pensava fosse attraente; o forse era soltanto un tic nervoso, un’abitudine che non serviva a niente se non a passare il tempo.

Quale che fosse la verità, restava il fatto che qualcuno le aveva tagliate, limate, lucidate e ammorbidite con cura precisa e meticolosa. Continuò a riflettere sulla questione mentre mangiava, sentendo a malapena il sapore del cibo. Di tanto in tanto alzava lo sguardo e studiava il volto dell’uomo in cerca di qualche indizio, ma sempre senza successo. Dopo averle dato l’ultimo pezzo di pane, l’uomo si scostò dalla lastra, prese il vassoio e fece per andarsene. Lei masticò e inghiottì più in fretta che poté senza strozzarsi; poi con voce roca, ormai disabituata a parlare, disse: «Hai delle belle unghie. Sono splendide.» L’uomo si fermò di scatto e voltò l’enorme testa rotonda. Lei per un momento pensò che l’avrebbe colpita di nuovo, ma le labbra grigie del carceriere si schiusero in un sorriso che mise in mostra tutta la chiostra di denti. Represse un brivido: l’uomo sembrava capacissimo di staccare la testa a un pollo con un morso. Con la stessa espressione inquietante, il grasso carceriere riprese a camminare e uscì dalla sua visuale. Qualche secondo dopo, udì la porta della cella che si apriva e si chiudeva. Stavolta fu lei a compiacersi. L’orgoglio e la vanità erano debolezze che avrebbe potuto usare a proprio favore. Se c’era una cosa in cui era abile era la capacità di piegare gli altri al suo volere. L’uomo le aveva dato inconsapevolmente una mano a cui aggrapparsi – anzi un dito, o meglio un’unghia, ironizzò fra sé – ma le sarebbe bastata. Adesso poteva cominciare la sua scalata.

LA STANZA DELL’ORACOLO Quando per la terza volta l’uomo entrò nella sua cella, Nasuada stava dormendo. Il rumore della porta che sbatteva la svegliò di soprassalto, col cuore in gola. Impiegò qualche istante per ricordare dov’era. Aggrottò le sopracciglia e batté le palpebre, rimpiangendo di non potersi stropicciare gli occhi. Rimase ancor più sconcertata quando abbassando lo sguardo si accorse che la macchia sulla camicia da notte dove le era caduta una goccia di vino diluito durante il suo ultimo pasto era ancora umida. Come mai è tornato così presto? La sorpresa mutò in sgomento quando l’uomo le passò accanto con un grande braciere di rame pieno di carboni. Posò il tripode vicino alla lastra di pietra. Nei carboni erano infilati tre lunghi attizzatoi. Il momento tanto temuto era arrivato. Cercò di incrociare il suo sguardo, ma l’uomo non la degnò nemmeno di un’occhiata: da un sacchetto che teneva appeso alla cintura estrasse pietra focaia e acciarino, e si chinò su una matassa di stoppa al centro del braciere. Quando sprizzarono le scintille la stoppa rosseggiò come un gomitolo di filo metallico incandescente. L’uomo ci soffiò sopra con la delicatezza di una mamma che bacia il suo bambino e lei vide levarsi una tenue fiammella. L’uomo alimentò il fuoco per lunghi minuti, costruendo un letto di braci profondo diversi pollici. Dalla griglia iniziò a uscire il fumo. Lei si ritrovò a osservarlo con fascino morboso: sapeva che cosa l’aspettava, eppure non riusciva a distogliere lo sguardo. Nessuno dei due parlò: pareva quasi che entrambi si vergognassero troppo per ammettere che cosa stava per accadere. Lui soffiò ancora sulle braci, poi si voltò come per andarle vicino. Non cedere, si disse lei, tesa. Serrò i pugni e trattenne il fiato mentre l’uomo si avvicinava... sempre di più... sempre di più... Un leggerissimo sbuffo d’aria le accarezzò il viso quando lui le sfilò accanto, poi sentì i suoi passi spegnersi nel silenzio mentre saliva le scale e lasciava la stanza. Lei scaricò la tensione lasciandosi sfuggire un piccolo gemito. I carboni ardenti attirarono di nuovo il suo sguardo come calamite. Un bagliore rossastro si diffondeva dalle barre di ferro infilate nel braciere. Si inumidì le labbra, pensando che le sarebbe piaciuto bere un sorso d’acqua. Uno dei carboni si spaccò scoppiettando; per il resto la cella era immersa in un assoluto silenzio. Mentre giaceva lì immobile, senza poter né combattere né fuggire, si sforzava di non pensare. Pensare avrebbe soltanto minato la sua determinazione. E farsi prendere dal panico e dall’ansia sarebbe servito ancora meno.

Altri passi risuonarono fuori dalla stanza: erano molti, stavolta, alcuni che marciavano a tempo, altri no. Insieme generavano un’eco confusa di tonfi che le impediva di indovinare di quante persone si trattasse. Il corteo si fermò sulla soglia e lei sentì delle voci che mormoravano, e poi due serie di rumori secchi e bruschi – stivali dalla suola dura, pensò – irruppero nella stanza. La porta si richiuse con un colpo sordo. I nuovi arrivati scesero le scale, a ritmo lento e cadenzato. Con la coda dell’occhio scorse un braccio che posava per terra uno scranno di legno intagliato. Vi prese posto un uomo. Era imponente: aveva le spalle larghe, avvolte in un lungo mantello nero che sembrava pesante, come se fosse stato foderato di maglia di ferro. La luce delle braci e della lanterna senza fiamma delineava la sua sagoma, ma i tratti del viso restavano in ombra. Il profilo della corona a punte che portava sulla testa si vedeva bene, però. Il cuore di Nasuada parve quasi fermarsi, poi, a fatica, riprese il suo ritmo accelerato. Un secondo uomo, in panciotto e calzoni aderenti color ruggine e bordati d’oro, si avvicinò al braciere dandole le spalle e smosse i carboni con uno degli attizzatoi. L’uomo sullo scranno iniziò a sfilarsi i guanti lentamente, un dito dopo l’altro. Aveva le mani color bronzo annerito. Infine parlò, e la sua voce era calda, profonda e seducente. Se un cantore avesse posseduto un tale incantevole strumento, sarebbe stato venerato in tutto il Paese come il bardo dei bardi. Quel suono le provocò un brivido sulla pelle: le parole le scivolavano addosso come onde d’acqua calda che l’accarezzavano, la allettavano, la avvolgevano. Ascoltarlo, si rese conto, era pericoloso quanto ascoltare Elva. «Benvenuta a Urû’baen, Nasuada figlia di Ajihad. Benvenuta nel cuore della mia dimora, sotto queste antiche pietre. Molto tempo è passato da quando un ospite della tua levatura ci ha onorati della sua presenza. Le mie energie sono state impegnate in altre faccende, ma ti assicuro che d’ora in poi non trascurerò i miei doveri di padrone di casa.» Mentre terminava il suo saluto, una nota minacciosa trapelò dalla voce suadente, come un artiglio che spunta all’improvviso da una zampa. Non aveva mai incontrato Galbatorix di persona; aveva soltanto sentito qualche descrizione e visto un paio di disegni che lo raffiguravano, ma l’effetto che le sue parole esercitavano era così viscerale, così potente che non poteva trattarsi che del re. Sia nell’accento sia nella pronuncia c’era qualcosa di estraneo, come se la lingua in cui si esprimeva non fosse quella con cui era stato allevato. La differenza era sottile ma impossibile da ignorare una volta notata. Forse, pensò lei, perché la lingua si era evoluta da quando era nato. Le sembrava la spiegazione più plausibile, dato che il suo modo di parlare le ricordava... No, non le ricordava niente. Lui si sporse in avanti, e lei sentì il suo sguardo che la scrutava. «Sei più giovane di quanto pensassi. Sapevo che eri entrata da poco nell’età adulta, eppure dimostri molto meno della tua età. Ma ultimamente sono in tanti a sembrarmi ancora dei bambini: mocciosetti capricciosi, arroganti e sciocchi che non sanno cosa è meglio per loro, cuccioli a cui serve una guida più anziana e saggia di loro.» «Come te?» disse lei sprezzante.

Lo sentì ridacchiare. «Preferiresti che ci dominassero gli elfi? Io sono il solo della nostra razza in grado di tenerli a bada. Secondo il loro computo del tempo, perfino i nostri più anziani vegliardi sarebbero considerati giovincelli inadatti alle responsabilità di un adulto.» «Secondo il loro computo anche tu lo sei.» Non sapeva dove trovasse tutto quel coraggio, ma si sentiva forte e insolente. Non le importava che il re la punisse: avrebbe detto ciò che pensava, punto e basta. «Ah, ma io possiedo più degli anni che ho vissuto. Sono miei i ricordi di migliaia di individui. Una vita dopo l’altra: amori, rancori, battaglie, vittorie, sconfitte, lezioni imparate, errori commessi... sono tutti concentrati nella mia mente, e da lì mi sussurrano la loro saggezza. Io ricordo interi eoni. In tutta la storia del mondo non c’è mai stato uno come me, nemmeno tra gli elfi.» «Com’è possibile?» mormorò lei. Lui si chinò in avanti. «Non provare a fingere con me, Nasuada. So che Glaedr ha dato il suo cuore dei cuori a Eragon e Saphira, e che in questo momento lui è lì, con i Varden. Sai benissimo di cosa sto parlando.» Lei soffocò un gemito di terrore. Se Galbatorix era disposto ad affrontare con lei un tale argomento, facendo riferimento, seppure indiretto, alla fonte del suo potere, voleva dire solo una cosa: non aveva la benché minima intenzione di lasciarla andare. Il re fece un ampio gesto con la mano con cui reggeva i guanti. «Prima di procedere, vorrei che sapessi qualcosa sulla storia di questo luogo. Quando gli elfi si avventurarono per la prima volta in questa zona del mondo, scoprirono un profondo crepaccio nella scarpata che si erge dalle pianure circostanti. La scarpata era un prezioso baluardo contro i draghi, ma anche il crepaccio costituiva un tesoro inestimabile, per tutt’altro motivo. Per puro caso, infatti, si erano accorti che i vapori che risalivano dalla fessura nella roccia davano a chi ci dormiva accanto la possibilità di cogliere qualche sprazzo, per quanto confuso, degli eventi futuri. E così, più di duemila e cinquecento anni fa, gli elfi vi eressero sopra questa stanza, in cui venne a vivere un’indovina che qui rimase per molti secoli, anche dopo che il popolo elfico ebbe abbandonato il resto di Ilirea. Sedeva lì dove sei tu adesso, e passò gli anni a sognare tutte le cose che erano e quelle che sarebbero state. «Col tempo l’aria perse il suo potere, e l’indovina e i suoi servitori lasciarono questo luogo. Chi fosse e dove sia andata nessuno lo sa per certo. Tutti la chiamavano semplicemente Oracolo, e alcune storie mi portano a credere che non fosse né un’elfa né una nana, ma un essere del tutto diverso. Durante la sua permanenza, questa stanza venne chiamata, come puoi ben intuire, la Stanza dell’Oracolo, e così è ancora oggi... solo che adesso l’oracolo sei tu, Nasuada figlia di Ajihad.» Galbatorix allargò le braccia. «Questo è un luogo di verità da rivelare e da ascoltare. Non tollero menzogne fra queste mura, nemmeno la più innocente. Chiunque sia sdraiato su quel duro blocco di pietra diventa il nuovo oracolo, e sebbene molti abbiano avuto difficoltà ad accettare il ruolo, alla fine nessuno lo ha rifiutato. E tu non farai eccezione.» Le gambe dello scranno grattarono sul pavimento, e un attimo dopo lei sentì l’alito caldo di Galbatorix vicino a un orecchio. «Sarà doloroso, Nasuada, doloroso oltre ogni immaginazione. Dovrai disfare quello che sei prima che il tuo orgoglio ti consenta di sottometterti. Non c’è nulla di più difficile al mondo che cambiare se stessi. Lo so, perché anch’io ho riplasmato me stesso in più di un’occasione. Ma non temere, sarò qui a tenerti

la mano e ad accompagnarti in questa trasformazione. Non dovrai fare il viaggio da sola. E ti sia di conforto sapere che non ti mentirò mai. Nessuno di noi lo farà. Non in questa stanza. Ora puoi anche dubitare delle mie parole, ma col tempo imparerai a credermi. Considero sacro questo luogo e non profanerei l’idea che rappresenta più di quanto non mi taglierei una mano. Puoi chiederci quello che vuoi e ti prometto, Nasuada figlia di Ajihad, che ti risponderemo in tutta sincerità. Come re di questo Paese, hai la mia parola d’onore.» Lei rimase in silenzio un istante, a decidere come replicare. Poi sibilò: «Non ti dirò mai quello che vuoi sapere!» Una lenta risata gutturale risuonò nella stanza. «Mi hai frainteso. Non ti ho portata qui perché tu mi faccia delle rivelazioni. Non c’è niente che potresti dirmi che io non sappia già. L’entità e la disposizione del tuo esercito; lo stato dei vostri equipaggiamenti; l’ubicazione dei vostri convogli di rifornimenti; come intendi mettere sotto assedio questa fortezza; i compiti, le abitudini e le capacità di Eragon e Saphira; la Dauthdaert che avete preso a Belatona; persino i poteri della strega-bambina Elva, che hai tenuto al tuo fianco fino a poco tempo fa... so tutte queste cose, e molte altre ancora. Vuoi che vada avanti? No? Bene, allora. Le mie spie sono molto più numerose e ben piazzate di quanto immagini, e ho altri mezzi per acquisire informazioni. Tu per me non hai segreti, Nasuada. Quindi è inutile che tu insista a non dirmi nulla.» Quelle parole la colpirono con la forza di un maglio, ma lei non lasciò che la scoraggiassero. «Allora perché?» «Perché ti ho fatta condurre qui? Perché, mia cara, tu hai il dono del comando, una dote più letale di qualsiasi incantesimo. Eragon non rappresenta una minaccia per me, e nemmeno gli elfi, ma tu... tu sei pericolosa in un modo diverso da loro. Senza di te l’esercito dei Varden si ridurrà a un toro accecato che sbuffa, s’infuria e carica a testa bassa, inconsapevole. Allora li prenderò al laccio e, proprio grazie alla loro foga, li annienterò. «Ma lo sterminio dei Varden non è la ragione per cui ti ho rapita. No, tu sei qui perché hai dimostrato di meritare la mia attenzione. Sei spietata, tenace, ambiziosa e intelligente... le qualità che più apprezzo in un servitore. Mi piacerebbe averti al mio fianco, Nasuada, come mio primo consigliere e come generale del mio esercito quando il grandioso progetto a cui lavoro da oltre un secolo arriverà alle battute decisive. Un nuovo ordine sta per sorgere in Alagaësia, e vorrei che tu ne facessi parte. Da quando è morto l’ultimo dei Tredici, ho cercato la persona più adatta a prenderne il posto. Fino a qualche tempo fa le mie ricerche si sono rivelate infruttuose. Durza è stato uno strumento utile, ma essendo uno Spettro aveva certi limiti: l’assoluto disinteresse per la propria incolumità, per citarne uno. Fra tutti i candidati che ho esaminato, Murtagh è stato il primo che mi è sembrato valido, e il primo a sopravvivere alle prove cui l’ho sottoposto. Tu sarai la prossima, ne sono convinto. Ed Eragon il terzo.» Mentre lo ascoltava, Nasuada si sentì travolgere da un orrore sconfinato. Quello che le proponeva era molto peggio di quanto avesse mai immaginato. L’uomo con gli abiti color ruggine davanti al braciere infilò un attizzatoio nei carboni con una tale violenza che la punta urtò contro il fondo del recipiente di rame. Lei trasalì.

Galbatorix continuò a parlare. «Se sopravviverai avrai l’occasione di compiere imprese che con i Varden non saresti mai riuscita a conseguire. Pensaci! Potrai aiutarmi a portare la pace in tutta Alagaësia, e sarai artefice insieme a me di questa svolta epocale.» «Preferirei farmi mordere da mille serpenti piuttosto che accettare di servirti» replicò lei sputando in aria. La terribile risata risuonò ancora una volta nella stanza: il ghigno di un uomo che non aveva paura di niente e di nessuno, nemmeno della morte. «Lo vedremo.» Un attimo dopo un dito le sfiorò l’incavo del gomito. Tracciò un lento cerchio, poi scivolò sulla prima delle cicatrici che aveva sull’avambraccio e si fermò sulla carne in rilievo. Tamburellò tre volte prima di passare agli altri segni, scorrendo su e giù come sulle ondulazioni di un’asse da bucato. «Hai sconfitto il tuo avversario nella Prova dei Lunghi Coltelli» disse Galbatorix, «e con molti più tagli di quanti ne abbiano sopportati altri di recente memoria. Dimostra che hai una volontà di ferro, ma anche che sei capace di tenere a freno la tua immaginazione... perché è la troppa immaginazione a trasformare gli uomini in codardi, non, come molti credono, la troppa paura. Tuttavia nessuna di queste due qualità adesso ti tornerà utile. Al contrario, ti saranno d’intralcio. Tutti hanno un limite, fisico o mentale che sia. L’unica incognita è quanto tempo ti ci voglia per raggiungerlo. E succederà, te lo garantisco. La forza di cui disponi potrà permetterti di rimandare quel momento, ma non di evitarlo. E le tue difese non ti serviranno a niente finché sarai in mio potere. Perché allora soffrire inutilmente? Nessuno mette in dubbio il tuo coraggio: lo hai già dimostrato a tutto il mondo. Arrenditi adesso. Non c’è vergogna nell’accettare l’inevitabile. Continuare a resistere ti porterebbe soltanto a subire una lunga serie di tormenti, per nessun’altra ragione se non quella di appagare il tuo senso del dovere. Appagalo subito. Giurami fedeltà nell’antica lingua, e nel giro di un’ora avrai schiere di servitori ai tuoi piedi, abiti di seta e damasco, appartamenti sontuosi come dimora e un posto riservato alla mia tavola.» Fece una pausa in attesa di risposta, ma lei rimase a fissare le linee dipinte sul soffitto nel più assoluto silenzio. Sul suo braccio, il dito del re continuava l’esplorazione, passando dalle cicatrici fino al polso, dove si fermò su una vena pulsante. «D’accordo. Come desideri.» La pressione sul polso scomparve. «Murtagh, vieni, non essere scortese: mostrati alla nostra ospite.» Oh, no, anche lui no, pensò Nasuada, pervasa da un’improvvisa tristezza. L’uomo davanti al braciere si girò lentamente, e anche se una maschera d’argento gli copriva la metà superiore del viso non c’erano dubbi: era Murtagh. Gli occhi erano in ombra, ma sulla bocca aveva dipinta una smorfia feroce. «Murtagh era piuttosto ribelle quando è entrato al mio servizio, ma col tempo si è rivelato un allievo capace. Ha le doti di suo padre. Non è vero?» «Vero, sire» replicò lui con voce aspra. «Mi ha sorpreso quando ha ucciso re Rothgar nella battaglia delle Pianure Ardenti. Non mi aspettavo che si rivoltasse contro i suoi vecchi amici con tanto zelo, ma d’altro canto Murtagh è pieno di collera e assetato di sangue. Squarcerebbe la gola a un Kull a mani nude se gliene dessi l’opportunità, e gliel’ho data. Non c’è niente che ti piace più che uccidere, vero?»

Murtagh tese i muscoli del collo. «Vero, sire.» Galbatorix rise. «Murtagh il Regicida... Un bel nome, degno di una leggenda, ma non devi più provarci se non te lo ordino io.» Poi si rivolse alla prigioniera: «Finora ho trascurato la sua istruzione nelle sottili arti della persuasione, ed è per questo che l’ho portato qui con me, oggi. È stato spesso oggetto di tali arti, ma non le ha mai esercitate. È giunto il momento che cominci. E quale modo migliore per iniziare se non con te? Dopotutto è stato lui a convincermi che meritavi di unirti alla nuova generazione di miei discepoli.» Una strana sensazione la pervase: si sentiva tradita. Nonostante i suoi trascorsi, in qualche modo Nasuada aveva sempre pensato bene di Murtagh. Tentò di incrociare il suo sguardo in cerca di una spiegazione, ma lui rimase rigido come una sentinella, fissando un punto dritto davanti a sé. Dal suo viso non trapelava nulla. Il re indicò il braciere, e in tono noncurante disse: «Prendi un attizzatoio.» Murtagh strinse i pugni. Fu questa la sua unica reazione. Una parola echeggiò nelle orecchie di Nasuada, come il rintocco di un’enorme campana. Il tessuto stesso del mondo parve riverberare di quel suono, come se un gigante avesse afferrato la trama della realtà e l’avesse scrollata. Per un momento le parve di precipitare, e l’aria intorno a lei tremolò come acqua. Nonostante l’immenso potere di quella melodia, lei non riuscì a ricordare le lettere che la componevano, né la lingua a cui apparteneva, perché la parola attraversò la sua mente senza lasciare tracce se non il ricordo dei suoi effetti. Murtagh rabbrividì; poi si voltò, afferrò uno degli attizzatoi e lo estrasse dal tripode, esitante. Si levò una nuvola di scintille, e i frammenti di brace ricaddero sul pavimento come una pioggia di pinoli. L’estremità del ferro riluceva di un giallo chiarissimo, che ben presto sfumò in arancio scuro. Il bagliore del metallo incandescente si rifletteva sulla maschera d’argento di Murtagh, dandogli un aspetto grottesco, disumano. Anche lei si vide riflessa nella maschera, ma l’immagine era distorta: un busto tozzo dalle gambe sottili che si allungavano fino a scomparire oltre la curva della guancia di Murtagh. Pur sapendo che era inutile, non poté fare a meno di strattonare i legacci che la immobilizzavano. «Non capisco» disse a Galbatorix con una calma soltanto apparente. «Non userai i tuoi poteri mentali contro di me?» Non che lo volesse, ma avrebbe preferito difendersi da un attacco alla propria mente che sopportare il dolore del ferro arroventato sulle sue carni. «Per questo ci sarà tempo dopo, qualora si rendesse necessario» rispose il re. «Al momento sono più curioso di vedere quanto sei coraggiosa, Nasuada figlia di Ajihad. E poi preferirei non dover assumere il controllo della tua mente e costringerti con la forza a giurarmi fedeltà. Voglio che tu prenda questa decisione di tua spontanea volontà, nel pieno possesso di tutte le tue facoltà.» «Perché?» gracchiò lei. «Perché mi piace così. E ora, per l’ultima volta, ti arrendi?» «Mai.» «Così sia. Murtagh?»

Il ferro calò su di lei: la punta somigliava a un gigantesco rubino scintillante. Non le avevano dato niente da mordere, così non poté impedirsi di gridare, e la stanza ottagonale echeggiò delle sue urla strazianti finché la voce non le si spezzò e una tenebra assoluta la avvolse nelle sue pieghe. [eBookLove - eBL 043] Christopher Paolini - Inheritance [by Pico]

SULLE ALI DI UN DRAGO Eragon alzò il capo, trasse un profondo respiro e parte delle sue angosce si dissolse. Cavalcare un drago era faticoso, ma stare così vicini aveva il potere di calmare entrambi. Il semplice piacere del contatto fisico lo confortava come pochissime altre cose, e il rumore e il movimento costanti del volo lo aiutavano a distrarsi dai pensieri cupi che lo tormentavano. Malgrado l’ansia legata al viaggio e la precarietà della situazione in cui si trovavano, Eragon era felice di essersi allontanato dai Varden. Dopo i recenti spargimenti di sangue aveva avuto spesso la sensazione di aver smarrito se stesso. Da quando si era riunito ai Varden a Feinster aveva passato la maggior parte del tempo sul campo di battaglia o in attesa di impugnare le armi, e la tensione e la fatica lo stavano logorando, soprattutto dopo la violenza e gli orrori di Dras-Leona. Aveva ucciso centinaia di soldati che non avevano la minima possibilità di nuocergli al solo scopo di difendere quella gente, e sebbene ciò giustificasse le sue azioni quei ricordi lo turbavano. Non che avrebbe preferito combattere battaglie disperate né affrontare nemici pari o superiori a lui, ma la facilità con cui aveva trucidato tutti quegli uomini lo faceva sentire più un macellaio che un guerriero. La morte, stava cominciando a credere, somigliava a una sostanza corrosiva: più la toccava, più ne veniva consumato. Tuttavia trascorrere un po’ di tempo da solo con Saphira e Glaedr – anche se il drago dorato si era chiuso in se stesso da quando erano partiti – lo aiutava a recuperare un vago senso di normalità. Era più a suo agio quando poteva starsene per conto suo o con poca gente intorno, e preferiva non trascorrere troppo tempo in un villaggio, una città o un accampamento come quello dei Varden. A differenza dei più, lui non odiava né temeva la natura selvaggia: per quanto aspre e inospitali fossero certe lande deserte, possedevano una grazia e una bellezza con cui nessuna costruzione eretta dall’uomo poteva competere, e gli infondevano sempre nuova energia. Si lasciò quindi distrarre dal volo di Saphira, e per buona parte della giornata non fece altro che contemplare il panorama che scorreva sotto di loro. Lasciato l’accampamento, Saphira aveva virato a nordovest, sorvolando il Lago di Leona a una tale altitudine che Eragon era dovuto ricorrere a un incantesimo per proteggersi dal freddo. Visto dall’alto, il lago sembrava coperto di chiazze: scintillava nelle zone dove le onde riflettevano i raggi del sole nella loro direzione, ma era grigio e opaco nelle altre. Eragon non si stancava mai di ammirare lo spettacolo impareggiabile dei giochi di luce sull’acqua. Falchi pescatori, gru, oche, anatre, storni e altri uccelli volavano spesso sotto di loro, perlopiù ignorando Saphira. Due falchi però risalirono a spirale verso di lei e la accompagnarono per un po’, più incuriositi che spaventati; anzi, a un tratto si mostrarono tanto audaci da compiere un paio di evoluzioni ad appena una spanna dalle sue zanne aguzze. Per certi versi i fieri rapaci dagli artigli a uncino e dal becco giallo ricordavano a Eragon la stessa Saphira. La dragonessa ne fu lusingata perché anche lei ammirava i falchi, non tanto per il loro aspetto quanto per la loro abilità nella caccia.

Le sponde del lago ben presto sfumarono in un’indistinta linea violetta per poi svanire del tutto. Per oltre mezz’ora Eragon e Saphira videro soltanto uccelli e nuvole, e il grande lago battuto dal vento sotto di loro. Poi all’orizzonte iniziò a delinearsi il grigio profilo frastagliato della Grande Dorsale. Eragon sorrise. Non erano le montagne della sua infanzia, ma facevano pur sempre parte della stessa catena, e gli bastava guardarle per sentirsi un po’ più vicino a casa. Le alture divennero sempre più imponenti finché i massicci picchi innevati non si innalzarono davanti a loro come merlature diroccate di un castello. Le verdi pendici boscose erano solcate da decine di cascate bianche, che più a valle si trasformavano in altrettanti torrenti che sfociavano nel grande lago. Sulle rive o poco distante dalle sponde sorgeva una manciata di villaggi, ma grazie alla magia di Eragon gli abitanti non videro Saphira sfilare sopra le loro teste. Mentre osservava i paesini, Eragon si rese conto di quanto sembravano piccoli e isolati: a pensarci con il senno di poi, anche Carvahall avrebbe dovuto fare la stessa impressione. In confronto alle grandi città che aveva visitato, quelli non erano altro che pugni di modeste casupole di povera gente. La maggior parte degli uomini e delle donne che ci abitavano non si erano mai spinti più in là di un paio di miglia da dove erano nati, e avrebbero passato tutta la vita in un mondo limitato dai confini della loro visuale. Un’esistenza coi paraocchi, pensò Eragon. Eppure non poteva fare a meno di domandarsi se non fosse meglio rimanere sempre nello stesso posto e imparare a conoscerlo perfettamente piuttosto che viaggiare di continuo per tutto il Paese. Una cultura vasta ma superficiale era forse meglio di una ristretta ma approfondita? Non sapeva darsi una risposta certa. Ricordò che una volta Oromis gli aveva detto che si può capire tutto il mondo da un minuscolo granello di sabbia, se si è capaci di studiarlo a fondo. La Grande Dorsale non poteva certo competere in altitudine con i Monti Beor, ma le sue vette a lastroni torreggiavano di oltre mille piedi più in alto di Saphira, costretta a zigzagare fra le gole e le valli in ombra che tagliavano la catena. Di tanto in tanto cabrava per superare un passo innevato, e in quelle occasioni Eragon godeva di una vista eccezionale: le montagne gli sembravano tanti molari che spuntavano dalle gengive scure della terra. Quando la dragonessa sorvolò una valle particolarmente profonda, Eragon notò una piccola radura erbosa solcata da un torrente sinuoso. Lungo i margini scorse quelle che gli parvero case, o forse semplici tende: difficile dirlo, nascoste com’erano dai folti abeti che spuntavano dalle pendici delle montagne intorno. In uno spiraglio fra i rami rosseggiava un falò da campo, come una piccola pepita d’oro incastonata fra gli aghi neri. A un tratto Eragon intravvide una figura solitaria che si aggirava vicino al torrente. Era massiccia e aveva la testa sproporzionata rispetto al corpo. Credo di aver visto un Urgali. Dove?, chiese Saphira, curiosa. Nella radura qui sotto. Condivise l’immagine con lei. Peccato che non abbiamo il tempo di tornare indietro a dare una sbirciatina. Mi piacerebbe vedere come vivono.

La dragonessa sbuffò: il fumo caldo le risalì lungo il muso e avvolse Eragon. Potrebbero non gradire che un drago e il suo Cavaliere piombino in mezzo a loro senza essere invitati. Eragon tossì e strizzò gli occhi che avevano preso a lacrimare. Perché, ti importerebbe? Saphira non rispose, ma la scia di fumo si dissolse, e l’aria intorno a Eragon tornò limpida. Poco dopo la sagoma delle montagne si fece più familiare, e quando davanti a Saphira si aprì un grande valico, Eragon si rese conto che stavano sorvolando il passo che portava a Teirm, proprio quello che lui e Brom avevano attraversato due volte a cavallo. Era esattamente come lo ricordava: il ramo occidentale del fiume Toark scorreva rapido e impetuoso verso il mare, la superficie punteggiata di creste bianche dove i massi emergevano dallo specchio dell’acqua. La strada sterrata che lui e Brom avevano seguito lungo il fiume era una pallida riga polverosa poco più larga di una pista di cervi. Gli parve perfino di riconoscere un boschetto dove si erano fermati a mangiare. Saphira virò a ovest e seguì il fiume finché le montagne non cedettero il posto a campi rigogliosi e bagnati di pioggia, poi corresse la rotta verso nord. Eragon non dubitava delle sue decisioni: la dragonessa non perdeva mai l’orientamento, nemmeno in una notte senza stelle o nelle viscere del sottosuolo del Farthen Dûr. Il sole era basso sull’orizzonte quando uscirono dalla Grande Dorsale. Mentre il crepuscolo inghiottiva la terra, Eragon cercò di escogitare piani per intrappolare, uccidere o ingannare Galbatorix. Dopo un po’ Glaedr emerse dal suo isolamento e si unì a lui. Passarono un’ora a discutere le possibili strategie e poi si allenarono a duellare con la mente. Partecipò anche Saphira, ma con scarso successo, perché era troppo concentrata sul volo. Quando ebbero finito, Eragon si soffermò per qualche tempo a contemplare le fredde stelle nel firmamento, poi domandò a Glaedr: La Volta delle Anime potrebbe contenere altri Eldunarí nascosti dai Cavalieri? No, rispose Glaedr senza esitazioni. Impossibile. Oromis e io l’avremmo saputo se Vrael avesse attuato una simile mossa. E, se fosse rimasto qualche Eldunarí a Vroengard, l’avremmo trovato quando siamo tornati a setacciare l’isola. Nascondere una creatura vivente non è facile come credi. Perché no? Se un riccio si chiude a palla, non vuol dire che diventa invisibile, giusto? Le menti non sono diverse. Puoi schermare i pensieri, ma la tua esistenza resta sempre visibile a chiunque esplori la zona. Ma con un incantesimo si potrebbe... Se la magia avesse alterato i nostri sensi ce ne saremmo accorti, perché le difese di cui ci dotiamo sono mirate proprio a evitare questa eventualità. Quindi niente Eldunarí, concluse Eragon, avvilito. Purtroppo no. Continuarono a volare in silenzio mentre la luna crescente sorgeva da dietro le cime frastagliate della Dorsale. Bagnata da quel chiarore, la terra sembrava fatta di peltro, ed Eragon si divertì a immaginare che fosse un’immensa scultura che i nani avevano modellato a colpi di scalpello e conservato in una grotta grande quanto tutta Alagaësia.

Il Cavaliere percepiva il piacere che Glaedr provava a volare. Come Eragon e Saphira, il vecchio drago sembrava gradire l’opportunità di lasciare a terra tutti i problemi, anche se soltanto per poco tempo, e di librarsi libero nel cielo. Fu Saphira a interrompere la quiete. Fra un battito e l’altro delle possenti ali chiese a Glaedr: Raccontaci una storia, Ebrithil. Che tipo di storia ti piacerebbe ascoltare? Dicci di quando tu e Oromis foste catturati dai Rinnegati, e di come riusciste a fuggire. L’interesse di Eragon si accese. Anche lui era sempre stato curioso di sapere com’era andata, ma non aveva mai trovato il coraggio di chiederlo a Oromis. Glaedr tacque per qualche istante, poi cominciò. Quando Galbatorix e Morzan tornarono dalla loro vita selvaggia e vagabonda per organizzare la campagna contro il nostro ordine, non ci rendemmo subito conto della gravità della minaccia. Eravamo preoccupati, è ovvio, ma non più che se avessimo scoperto che uno Spettro si aggirava nel Paese. Galbatorix non era il primo Cavaliere che impazziva, anche se era il primo ad avere un discepolo come Morzan. Le avvisaglie dei terribili eventi che sarebbero seguiti c’erano già tutte, ma noi ne prendemmo consapevolezza solo a posteriori. All’epoca non pensavamo che Galbatorix potesse radunare altri seguaci intorno a sé, e nemmeno che volesse provarci. Ci sembrava assurdo che qualcuno dei nostri fratelli si facesse corrompere dalle sue parole velenose. Morzan era ancora un novizio, la sua debolezza era comprensibile. Ma quelli che erano già Cavalieri esperti? Non avremmo mai messo in dubbio la loro lealtà. E infatti soltanto quando furono indotti in tentazione rivelarono il loro risentimento e la loro profonda vulnerabilità. Alcuni volevano vendicarsi di vecchi torti; altri credevano che in virtù del nostro potere draghi e Cavalieri meritassero di dominare tutta Alagaësia; altri ancora, duole ammetterlo, volevano soltanto godersi il piacere di rovesciare l’ordine costituito e fare il bello e il cattivo tempo. Il vecchio drago fece una pausa, ed Eragon percepì gli antichi rancori e le sofferenze che gettavano un’ombra sulla sua mente. Poi Glaedr continuò. A quel punto fu il caos più totale. Poco si sapeva di come la situazione si stava evolvendo, e i rapporti che ci pervenivano erano così infarciti di dicerie e illazioni da risultare inutili. Io e Oromis iniziammo a sospettare che ci fosse sotto qualcosa di molto più grave. Provammo a convincere alcuni dei draghi e dei Cavalieri più anziani, ma loro non si persuasero e minimizzarono in fretta le nostre preoccupazioni. Non erano certo degli sciocchi, ma secoli di pace avevano annebbiato il loro giudizio, e non riuscivano a vedere che il mondo stava cambiando. Frustrati per la mancanza di informazioni attendibili, io e Oromis lasciammo Ilirea per cercarle per conto nostro. Portammo con noi due giovani Cavalieri, elfi e guerrieri esperti, che erano tornati di recente da un viaggio di esplorazione ai margini settentrionali della Grande Dorsale. Fu in parte per le loro insistenze che partimmo per la spedizione. Avrai di certo sentito parlare di loro: si trattava di Kialandí e Formora. «Ah» disse Eragon, illuminato dalla rivelazione. Già. Dopo un giorno e mezzo di viaggio ci fermammo a Edur Naroch, una vecchia torre di avvistamento eretta per vigilare sulla Foresta Imbiancata. Io e Oromis non sapevamo che i nostri due compagni ci erano già stati e avevano ucciso i tre elfi di guardia. Sulle rocce che circondavano la torre avevano preparato una trappola, che scattò non appena le mie zampe toccarono l’erba della collinetta. Era un trucco ingegnoso che avevano imparato da Galbatorix in persona; le nostre difese erano inadatte a contrastarlo, poiché non ci faceva del male, ma si limitava a trattenerci e rallentarci come se i nostri corpi e le nostre menti fossero immersi nella melassa. Mentre eravamo lì

immobilizzati i minuti passarono velocissimi. Kialandí, Formora e i loro draghi ci volavano intorno più rapidi di colibrì, scure macchie indistinte ai margini del nostro campo visivo. Quando furono pronti, ci liberarono. Avevano evocato decine di sortilegi: per tenerci bloccati, per oscurarci la vista, per impedire a Oromis di parlare e rendergli così più difficile evocare a sua volta dei controincantesimi. Anche in quel caso la magia non era stata lanciata per offendere, e quindi non avevamo una protezione efficace. Non appena ci fu possibile attaccammo Kialandí, Formora e i loro draghi con la mente, e loro reagirono allo stesso modo. Combattemmo per ore, e non fu... piacevole. Erano più deboli e meno esperti di noi, ma erano pur sempre in quattro contro due, e avevano ad aiutarli anche il cuore dei cuori di una dragonessa di nome Agaravel, il cui Cavaliere era stato ucciso. Di conseguenza fu molto faticoso resistere. Il loro intento, scoprimmo, era costringerci ad aiutare Galbatorix e i Rinnegati a entrare a Ilirea senza farsi scoprire, per poter cogliere i Cavalieri di sorpresa e rubare gli Eldunarí che si trovavano in città. «Come avete fatto a fuggire?» chiese Eragon. Col passare del tempo era sempre più evidente che non saremmo riusciti a sconfiggerli. Così Oromis decise di usare la magia per tentare di liberarci, pur sapendo che avrebbe indotto Kialandí e Formora a rispondere allo stesso modo. Era un tentativo disperato, ma non avevamo altra scelta. A un certo punto, ancora ignaro del piano di Oromis, io attaccai i nostri aggressori. Era il momento che Oromis stava aspettando. Non era un mistero chi fosse il Cavaliere che aveva istruito Kialandí e Formora nelle arti magiche, e Oromis conosceva bene i ragionamenti contorti di Galbatorix. Grazie a questo era in grado di capire come funzionavano i loro incantesimi, e di intuirne i punti deboli. Oromis aveva solo una manciata di secondi per agire. Non appena iniziò a usare la magia, Kialandí e Formora indovinarono le sue intenzioni, furono colti dal panico e cominciarono a scagliare i loro incantesimi. Ci vollero tre tentativi prima che Oromis riuscisse a spezzare i nostri legacci. Non saprei dire di preciso come ci riuscì. Anzi, dubito che lui stesso lo abbia compreso. Eppure ci spostò di un palmo dal punto in cui eravamo. Come quando Arya mandò il mio uovo dalla Du Weldenvarden alla Grande Dorsale?, chiese Saphira. Sì e no, replicò Glaedr. Ci trasportò da un posto all’altro senza percorrere lo spazio intermedio, questo sì. Ma non si limitò a questo: cambiò anche la sostanza della nostra carne, riplasmandola affinché non fossimo più quello che eravamo prima. È possibile trasformare senza effetti collaterali molte delle più piccole parti del corpo, e così fece Oromis con ogni muscolo, osso e organo dei nostri corpi. Eragon aggrottò le sopracciglia. Un incantesimo del genere era uno straordinario capolavoro di magia che pochi nella storia potevano sperare di realizzare. Per quanto impressionato, non poté fare a meno di domandare: «Ma come ha funzionato? Voglio dire, eravate sempre gli stessi di prima.» Devo rispondere come poco fa: sì e no. La differenza fra chi eravamo stati e quello che eravamo era minima, ma bastò a rendere inoffensivi gli incantesimi che Kialandí e Formora ci avevano tessuto intorno. E i sortilegi che vi lanciarono quando capirono che cosa stava facendo Oromis?, volle sapere Saphira. Eragon percepì l’immagine di Glaedr che apriva le ali, come chi è stanco di stare nella stessa posizione per troppo tempo. Il primo incantesimo, lanciato da Formora, aveva lo scopo di ucciderci, e le nostre difese magiche lo bloccarono. Il secondo, di Kialandí, era di natura completamente diversa. Lo aveva imparato da Galbatorix, che a sua volta lo aveva appreso dagli

spiriti che possedevano Durza. Lo so perché ero in contatto con la mente di Kialandí mentre formulava il sortilegio. Era un incantesimo astuto e diabolico, mirato a impedire a Oromis di toccare e manipolare l’energia intorno a lui e quindi di usare la magia. «Kialandí fece lo stesso con te?» Avrebbe voluto, ma temeva sia di uccidermi sia di recidere il mio legame con il mio cuore dei cuori, generando così due versioni indipendenti di me cui avrebbero dovuto tenere testa. Ancora più degli elfi, noi draghi dipendiamo dalla magia per esistere: senza di essa, siamo condannati a una rapida morte. Eragon sentì che Saphira era sempre più curiosa. È mai successo? È mai stato reciso il legame fra un drago e il suo cuore dei cuori mentre il corpo dell’animale era ancora vivo? Sì, ma ve lo racconterò un’altra volta. La dragonessa non protestò, ma era facile intuire che avrebbe risollevato la questione alla prima occasione. «Però l’incantesimo di Kialandí non impedì a Oromis di usare la magia, giusto?» Non del tutto. Quello era il suo scopo, ma l’incantesimo fu lanciato proprio mentre Oromis ci trasportava, e questo ne diminuì l’efficacia. Certo, lo limitò a ricorrere soltanto alle forme più elementari di magia, e come sai il sortilegio gli rimase addosso per il resto della sua vita, nonostante gli sforzi dei nostri guaritori più esperti. «Perché le sue difese non lo protessero?» Glaedr parve sospirare. È un mistero. Nessuno aveva mai fatto niente del genere prima di allora, e ormai una sola persona al mondo può vantarsi di conoscerne il segreto: Galbatorix. L’incantesimo mirava ad agire sulla mente di Oromis, ma senza colpirlo direttamente. È probabile che abbia influito sull’energia che lo circondava o sul suo legame con essa. Gli elfi hanno studiato a lungo la magia, ma anche loro non comprendono appieno come il mondo materiale e quello immateriale interagiscono fra di loro. Tuttavia è ragionevole presumere che gli spiriti sappiano molto più di noi sul materiale e sull’immateriale, dato che sono la manifestazione del secondo e che si incarnano nel primo quando prendono la forma di uno Spettro. Quale che sia la verità, il risultato fu questo: Oromis evocò il suo incantesimo e ci liberò, ma lo sforzo gli costò troppa energia e fu facile preda del primo dei molti attacchi che subì in seguito. Non fu mai più capace di evocare un incantesimo potente, e da allora soffrì di una malattia della carne che lo avrebbe ucciso se non fosse stato per le sue conoscenze di magia. Il morbo era già dentro di lui quando Kialandí e Formora ci catturarono, ma quando ci spostò e riassemblò le parti dei nostri corpi i sintomi esplosero. Se non fosse stato per quella fatica probabilmente la malattia sarebbe rimasta latente per molti altri anni. Oromis cadde a terra, inerme come un cucciolo, mentre Formora e il suo drago, un’orrenda creatura marrone, correvano verso di noi, con gli altri dietro. Balzai oltre Oromis e li attaccai. Se avessero capito fino a che punto Oromis era provato, avrebbero approfittato delle sue condizioni per insinuarsi nella sua mente e impadronirsene. Dovevo distrarli finché lui non si fosse ripreso. Non mi sono mai battuto con tanta furia come in quel giorno. Erano quattro contro uno, cinque se contiamo anche Agaravel. Quelli della mia specie, il drago marrone e quello viola di Kialandí, erano più piccoli di me, ma avevano artigli affilati e zanne aguzze. La rabbia però aveva moltiplicato la mia forza e inflissi gravi ferite a entrambi. Kialandí fu così sciocco da avvicinarsi troppo e io lo afferrai e lo scaraventai contro il suo drago. Glaedr emise un ringhio divertito. La sua magia non lo protesse e finì appeso a una delle punte dorsali. Avrei potuto ucciderlo seduta stante, ma il drago marrone mi costrinse a ritirarmi.

Combattemmo per quasi cinque minuti, poi sentii Oromis gridare che dovevamo fuggire. Con una zampata gettai una nuvola di polvere in faccia ai miei nemici e tornai dal mio Cavaliere, lo agguantai con la zampa destra e spiccai il volo da Edur Naroch. Kialandí e il suo drago non potevano seguirmi, ma Formora e il suo sì. Ci raggiunsero quando eravamo a meno di un miglio dalla torre di avvistamento. Iniziammo a batterci lì, sospesi nel cielo, poi il drago marrone planò sotto di me e Formora mi puntò la spada contro la zampa destra. Voleva costringermi a lasciare Oromis, o forse ucciderlo. Io mi voltai per schivare il colpo e invece della zampa destra mi mozzò la sinistra. Nella mente di Glaedr brillò il ricordo di una sensazione dura, fredda, pungente, come se la spada di Formora fosse stata di ghiaccio, non di acciaio. Riviverla attraverso di lui bastò a Eragon per sentir salire la nausea. Deglutì a fatica e si aggrappò alla sella, lieto che Saphira fosse sana e salva. Fu meno doloroso di quanto immagini, ma sapevo di non poter continuare a combattere, così virai verso Ilirea volando quanto più veloce mi permettevano le ali. Formora mi aveva battuto, è vero, ma la vittoria le si ritorse contro, perché senza il peso della mia zampa ebbi modo di distanziare il suo drago e di fuggire. Oromis riuscì a fermare l’emorragia, ma non fu in grado di far altro: era troppo debole per contattare Vrael o gli altri Cavalieri anziani per avvertirli dei piani di Galbatorix. Sapevamo che non appena Kialandí e Formora lo avessero informato di quanto era successo, Galbatorix avrebbe subito attaccato Ilirea. Un ritardo nell’offensiva ci avrebbe soltanto dato modo di rinsaldare le difese, ma a quei tempi l’arma più potente di Galbatorix era proprio l’effetto sorpresa. Quando arrivammo a Ilirea restammo sbalorditi nello scoprire come si erano ridotte le nostre file: durante la nostra assenza molti erano partiti in cerca di Galbatorix o per andare a consultarsi con Vrael in persona a Vroengard. Riuscimmo a persuadere del pericolo quelli che erano rimasti e li esortammo ad avvertire Vrael, gli altri draghi e i Cavalieri anziani. Erano restii a credere che Galbatorix avesse forze sufficienti ad attaccare il nostro avamposto, o che anche solo osasse fare una cosa del genere, ma alla fine ci diedero ascolto. Fu così deciso che tutti gli Eldunarí di Alagaësia venissero portati a Vroengard per sicurezza. Allora ci parve una misura prudente; invece avremmo dovuto portarli a Ellesméra, o almeno lasciare nella Du Weldenvarden quelli che già si trovavano lì. In questo modo alcuni di loro sarebbero scampati alle grinfie di Galbatorix. Purtroppo nessuno di noi poteva immaginare che sarebbero stati più al sicuro con gli elfi che a Vroengard, nel cuore del nostro ordine. Vrael ordinò a ogni drago e Cavaliere nel raggio di un paio di giorni di volo da Ilirea di accorrere in nostro aiuto, ma io e Oromis temevamo che fosse già troppo tardi. Noi due non eravamo in condizioni di contribuire alla difesa della città, così raccogliemmo le nostre cose e insieme agli allievi che ci erano rimasti, Brom e la dragonessa che portava il tuo stesso nome, Saphira, partimmo quella notte stessa. Hai visto, mi pare, il fairth che Oromis creò quando partimmo. Eragon annuì con aria assente, ricordando l’immagine della splendida città turrita ai piedi di una scarpata e illuminata dalla luce rossastra di una luna nascente. Ecco perché non eravamo a Ilirea quando Galbatorix e i Rinnegati attaccarono qualche ora dopo. E perché non eravamo a Vroengard quando i traditori sconfissero le nostre forze e saccheggiarono Doru Araeba. Da Ilirea ci recammo nella Du Weldenvarden con la speranza che i guaritori elfici riuscissero a curare la malattia di Oromis e a renderlo di nuovo capace di usare la magia. Fallito ogni tentativo, decidemmo di restare lì perché ci sembrava più sicuro che non volare fino a Vroengard quando eravamo entrambi troppo deboli, rischiando di cadere in un agguato durante il viaggio.

Brom e Saphira, però, non rimasero con noi. Contro il nostro parere partirono per unirsi alla battaglia, e fu in quell’occasione che morì la tua omonima, Saphira. Adesso sai come i Rinnegati ci catturarono e come riuscimmo a scamparla. Dopo un momento Saphira disse: Ti ringrazio di questa storia, Ebrithil. Non c’è di che, Bjartskular, ma non chiedermi più di ripeterla. La luna era ormai al suo zenit quando Eragon scorse una massa di luci arancioni che galleggiavano nel buio. Gli ci volle qualche istante per capire che erano le fiaccole e le lanterne di Teirm, a molte miglia di distanza. Per un attimo, al di sopra delle luci si stagliò un piccolo globo giallo brillante, come un occhio gigantesco che lo fissava; poi svanì e ricomparve, accendendosi e spegnendosi a un ritmo costante, come se l’occhio ammiccasse. Il faro di Teirm è acceso, comunicò sia a Saphira sia a Glaedr. Allora si avvicina una tempesta, commentò Glaedr. Saphira smise di battere le ali, ed Eragon la sentì planare verso il basso, in una lunga e lenta discesa. Dopo mezz’ora atterrò. A quel punto Teirm non era altro che un fievole bagliore alle loro spalle, e il raggio del faro non più brillante di una stella. Saphira si era adagiata su una spiaggia deserta disseminata di tronchi contorti e altri relitti portati dal mare. Al chiaro di luna la lunga e piatta striscia di sabbia sembrava quasi bianca, mentre le onde che si frangevano sulla battigia erano grigie, nere e arrabbiate, come se l’oceano volesse invadere la terra con la sua cavalleria spumeggiante. Eragon slacciò le cinghie che gli tenevano legate le gambe, poi scivolò giù da Saphira, felice di potersi finalmente sgranchire. Inalò una lunga boccata d’aria salmastra e corse lungo la spiaggia fino a un grosso tronco di legno, con il mantello che gli svolazzava alle spalle. Arrivato al tronco, si voltò e tornò di corsa da Saphira. La dragonessa era accovacciata, e osservava il mare. Eragon si fermò, immaginando che lei volesse dirgli qualcosa dal momento che percepiva in lei una certa apprensione, ma quando la dragonessa rimase in silenzio lui si girò e corse di nuovo verso il tronco. Saphira gli avrebbe parlato quando si fosse sentita pronta. E così continuò per diversi minuti, con Eragon che faceva avanti e indietro e Saphira che fissava il mare. Quando sentì di essersi liberato abbastanza della tensione, Eragon si lasciò cadere su un cespuglio di carici accanto alla dragonessa e sentì Glaedr dire: Sarebbe una follia provarci. Il Cavaliere levò il capo, senza sapere bene a chi si stesse rivolgendo il drago. So di potercela fare, replicò Saphira. Non sei mai stata a Vroengard, proseguì Glaedr. E se arriva una tempesta potrebbe spingerti in mare aperto, o peggio. Più di un drago è morto per aver ostentato troppa sicurezza. Il vento non è tuo amico, Saphira. Può aiutarti, ma anche distruggerti. Non sono più una cucciola che ha bisogno di lezioni sugli agenti atmosferici! No, ma sei ancora giovane, e non credo che tu sia pronta per questo. Ma nell’altro modo ci vorrà troppo tempo!

Può darsi, ma meglio arrivare con calma che non arrivare affatto. «Di cosa state parlando?» domandò Eragon. Saphira affondò gli artigli nella sabbia. Abbiamo di fronte una scelta, gli spiegò Glaedr. Da qui Saphira può volare diritto fino a Vroengard oppure risalire la linea costiera verso nord fino a raggiungere il punto sulla terraferma più vicino all’isola, e allora, soltanto allora, virare a ovest e attraversare il mare. Qual è la rotta più breve?, chiese Eragon, anche se aveva già intuito la risposta. Volare diritto fin lì, ribatté Saphira. Non incontreremo che mare aperto, però. Saphira si irritò. Quante miglia sono? Più o meno le stesse che abbiamo fatto oggi da quando siamo partiti dall’accampamento dei Varden, giusto? Sei più stanca, adesso, e se arriva una tempesta... Vuol dire che la aggirerò!, protestò lei sbuffando dalle narici una piccola fiammata gialla e azzurra. Eragon ne rimase accecato per un attimo. «Ah! Non riesco a vedere.» Si stropicciò gli occhi finché la vista gli si schiarì. Andare direttamente a Vroengard sarebbe davvero così pericoloso? Potrebbe, borbottò Glaedr. Quanto ci vuole seguendo la linea costiera? Mezza giornata, forse anche di più. Eragon si grattò il mento fissando la massa ribollente d’acqua. Poi guardò Saphira e in tono sommesso le chiese: «Sei sicura di farcela?» La dragonessa si voltò solo in parte verso di lui, e rimanendo di profilo ricambiò il suo sguardo con un solo occhio enorme. La pupilla si dilatò fino a diventare un cerchio quasi perfetto, tanto grande e nera che Eragon ebbe quasi l’impressione di poterci sprofondare dentro. Sicurissima, rispose lei. Eragon annuì e si passò una mano fra i capelli per prendersi il tempo di abituarsi all’idea. Allora dobbiamo tentare... Glaedr, se fosse necessario, puoi guidarla? La aiuterai? Il vecchio drago rimase in silenzio; poi sorprese Eragon lasciandosi sfuggire un mugolio simile a quello che emetteva Saphira quando era felice o divertita. D’accordo. Se dobbiamo sfidare la sorte, tanto vale farlo con spavalderia, no? Che mare sia. Presa la decisione, Eragon rimontò in sella, e con un unico balzo Saphira si lasciò alle spalle la sicurezza della terraferma e virò verso la sconfinata distesa del mare. [eBookLove - eBL 043] Christopher Paolini - Inheritance [by Pico]

IL SUONO DELLA SUA VOCE, IL TOCCO DELLA SUA MANO «Maledetto!» «Mi giurerai fedeltà nell’antica lingua?» «Mai!» Quella domanda e l’immancabile ribellione erano diventate una sorta di rituale, come uno di quei botta e risposta con cui a volte si divertono i bambini: solo che a questo gioco lei avrebbe perso in ogni caso. Era solo grazie ai rituali che Nasuada riusciva a conservare l’equilibrio mentale. Le erano indispensabili per mettere ordine nel suo mondo; era in grado di resistere perché le davano qualcosa a cui aggrapparsi quando tutto il resto le era stato strappato via. Rituali di pensiero, rituali di azione, rituali di dolore e sollievo: erano diventati l’ossatura su cui si reggeva la sua vita. Senza di essi si sarebbe sentita smarrita, una pecorella senza pastore, un credente senza fede. Un Cavaliere senza drago. Purtroppo quel particolare rituale finiva sempre nello stesso modo: la terribile carezza dell’attizzatoio. Urlò e si morse la lingua, e il sangue le riempì la bocca. Tossì per evitare che le scendesse in gola, ma ce n’era troppo, e presto si sentì soffocare. I polmoni le bruciavano per la mancanza d’aria. Le linee sul soffitto tremolarono e sbiadirono, e poi i suoi ricordi si interruppero, e non rimase nulla, nemmeno la tenebra. In seguito, mentre nel braciere gli attizzatoi si arroventavano, Galbatorix le parlò. Anche questo era diventato un rituale per loro. Le aveva guarito la lingua, o almeno credeva che fosse stato lui e non Murtagh, dal momento che le disse: «Non sarebbe opportuno se non riuscissi a parlare, ti pare? Altrimenti come faresti a dirmi che sei pronta a servirmi?» Come le altre volte, il re sedeva alla sua destra, ai margini del suo campo visivo, così che lei non riusciva a mettere a fuoco che una sagoma scura contornata da un alone dorato, avvolta in un lungo, pesante mantello che ne nascondeva le fattezze. «Ho conosciuto tuo padre, sai, quando faceva il maggiordomo nella tenuta di Enduriel» disse Galbatorix. «Te l’ha mai raccontato?» Lei rabbrividì e chiuse gli occhi, con le lacrime che le scivolavano lungo le tempie. Odiava starlo ad ascoltare. La sua voce era troppo seducente: le faceva venir voglia di fare tutto ciò che lui desiderava pur di mendicare anche una sola, minuscola parola di lode. «Sì» mormorò lei. «All’epoca mi accorsi a malapena di lui. E come poteva essere altrimenti? Era un servo, un poveraccio senza importanza. Enduriel gli lasciava parecchia libertà nella gestione della casa... troppa libertà, a conti fatti.» Il re fece un gesto sprezzante, e la luce illuminò la sua mano scarna. «Enduriel è sempre stato troppo permissivo. Il suo drago era senz’altro più intelligente di lui: Enduriel si limitava a fare quello che gli si diceva... Che strana e

singolare serie di eventi aveva in serbo il destino: l’uomo che si occupava di farmi avere gli stivali sempre lucidi sarebbe diventato il mio più acerrimo nemico dopo Brom, e adesso tu, sua figlia, sei tornata a Urû’baen per servirmi come un tempo fece tuo padre. Che ironia della sorte, non trovi?» «Mio padre scappò e quasi uccise Durza durante la fuga» ribatté lei. «Tutti i tuoi giuramenti e sortilegi non l’hanno piegato più di quanto non riuscirai a fare con me.» Non poteva vederlo, ma ebbe la nettissima sensazione che Galbatorix si fosse accigliato. «Già, una vera sventura. Durza si seccò molto all’epoca. A quanto pare avere una famiglia rende più facile cambiare se stessi e quindi il proprio nome. Ecco perché adesso scelgo i miei servi soltanto fra quelli che sono sterili e non sposati. Tuttavia ti sbagli di grosso se pensi di poter fuggire. L’unico modo per lasciare la Stanza dell’Oracolo è giurarmi fedeltà o morire.» «Allora morirò.» «Che visione miope.» L’ombra del re, circonfusa di luce dorata, si sporse verso di lei. «Ti è mai passato per la mente, Nasuada, che il mondo sarebbe stato ben peggiore se non avessi distrutto i Cavalieri dei Draghi?» «I Cavalieri mantenevano la pace» osservò lei. «Proteggevano Alagaësia dalla guerra, dalle pestilenze... dalla minaccia degli Spettri. In tempi di carestia portavano cibo agli affamati. Come poteva essere migliore questa terra senza di loro?» «Perché c’era un prezzo da pagare per i loro servigi. Tu per prima dovresti aver imparato che a questo mondo tutto si paga, vuoi in oro, vuoi in tempo, oppure in sangue. Nessuno fa niente per niente, nemmeno i Cavalieri dei Draghi. Anzi, soprattutto loro. «Già, mantenevano la pace, ma dominavano le razze di questo Paese, tanto noi umani quanto gli elfi e i nani. Cosa si dice sempre in memoria dei Cavalieri dei Draghi quando i bardi celebrano la loro gloria passata? Che il loro regno durò migliaia di anni, e che durante questa cosiddetta età dell’oro ben poco cambiò, a parte i nomi dei re e delle regine che se ne stavano seduti compiaciuti e tranquilli sui loro troni. Oh, certo, ogni tanto qualcosa arrivava a turbare la loro calma: uno Spettro qui, una razzia di Urgali là, una scaramuccia fra due clan di nani per una miniera che importava a loro e a nessun altro. Ma nel complesso l’ordine delle cose rimase lo stesso di quando i Cavalieri dei Draghi erano entrati in scena.» Murtagh rimestò i carboni nel braciere con un rumore sordo. Nasuada avrebbe voluto vederlo in faccia per studiare le sue reazioni alle parole di Galbatorix, ma come al solito lui le dava la schiena e fissava il tripode di rame. La guardava solo quando le marchiava la carne con il ferro rovente. Questo era il suo rituale, e lei sospettava che ne avesse bisogno almeno quanto lei non poteva fare a meno dei suoi. Galbatorix continuò a parlare. «Non ti sembra una cosa terribile, Nasuada? La vita è cambiamento, eppure i Cavalieri dei Draghi facevano di tutto per evitarlo, e il Paese versava in uno stato di torpore e indolenza, incapace di scuotersi dalle pastoie che lo imprigionavano, incapace di avanzare o ritirarsi secondo natura... incapace di reinventarsi. Ho visto con questi occhi, nei sotterranei di Vroengard e anche qui a Ilirea, rotoli e rotoli di pergamena che parlavano di scoperte magiche, meccaniche e in ogni altro campo della filosofia naturale, meraviglie che i Cavalieri tenevano nascoste perché temevano ciò che sarebbe successo se fossero diventate di pubblico dominio. I Cavalieri erano dei codardi,

ancorati a un modo di pensare obsoleto, decisi a difenderlo fino all’ultimo respiro. Era una tirannia gentile, ma pur sempre una tirannia.» «E omicidi e tradimenti erano la soluzione?» chiese lei, incurante delle possibili conseguenze. Lui rise, e sembrava davvero divertito. «Ma senti! Non stai facendo la stessa cosa, tu? Se potessi mi uccideresti qui, seduta stante, con gli stessi scrupoli che riserveresti a un cane rabbioso.» «Tu sei un traditore, io no.» «Io sono il vincitore. È solo questo che conta, nient’altro. Non siamo poi così diversi, Nasuada. Tu vuoi eliminarmi perché credi che la mia morte renderebbe Alagaësia un luogo migliore, e perché tu, poco più che una bambina, sei convinta di poter governare l’Impero meglio di me. Altri ti disprezzerebbero per la tua arroganza, ma io no, perché ti capisco. Ho imbracciato le armi contro i Cavalieri dei Draghi per le stesse ragioni, e avevo tutto il diritto di farlo.» «Vuoi farmi credere che non è stata la sete di vendetta a muoverti?» Le parve quasi che il re sorridesse. «Forse può avermi dato l’ispirazione iniziale, ma dietro le mie azioni non c’era certo l’odio né il desiderio di pareggiare i conti. Ero preoccupato per quello che i Cavalieri dei Draghi erano diventati; ero convinto – e lo sono tuttora – che soltanto se loro si fossero estinti la nostra razza avrebbe prosperato.» Per un attimo il dolore delle ferite le impedì di parlare. Poi riuscì a mormorare: «Ammesso che quello che dici sia vero... non ho motivo di crederti, ma ammesso che lo sia... allora non sei migliore di loro. Hai saccheggiato le loro biblioteche e hai attinto al loro sapere, ma finora non lo hai condiviso con nessuno.» Lui si protese fino a bisbigliarle nell’orecchio: «Questo perché disseminati fra le montagne dei loro segreti ho trovato gli indizi di una verità più grande, una verità che potrebbe dare risposta a una delle domande più inquietanti della storia.» Un brivido corse lungo la schiena di Nasuada. «Quale... domanda?» chiese. Lui si abbandonò di nuovo sullo scranno e si sistemò l’orlo del mantello. «Ebbene: come può un re o una regina far rispettare le leggi che emana se fra i suoi sudditi ci sono persone capaci di usare la magia? Quando ho capito dove potevano condurmi quegli indizi, ho messo da parte tutto il resto e mi sono dedicato alla ricerca di questa verità di questa risposta, perché sapevo che era di fondamentale importanza. Ho tenuto per me i segreti dei Cavalieri perché ero troppo occupato a fare luce su questa vicenda. Bisognava che fosse svelata la soluzione a questo problema prima di poter divulgare le altre scoperte. Il mondo è un luogo già abbastanza turbolento; è meglio lasciare che le acque si calmino prima di agitarle di nuovo... Mi ci sono voluti cento anni per trovare l’informazione che mi serviva, e adesso che è nelle mie mani la userò per rimodellare Alagaësia. «La magia è la più grande ingiustizia del mondo. Forse non lo sarebbe se fosse prerogativa dei deboli, una sorta di risarcimento per quello che il destino o le circostanze hanno loro sottratto, ma non è così. Anche i forti sanno usare la magia, e sono proprio loro a trarne i maggiori benefici. Pensa agli elfi e capirai che ho ragione. Il problema non riguarda solo i singoli individui, ma appesta anche le relazioni fra le razze. Per gli elfi è più facile mantenere l’ordine nella propria società perché tutti sono capaci di usare la magia, e quindi in pratica nessuno è inferiore a un altro. Da questo punto di vista sono fortunati;

ma lo stesso non vale per noi, per i nani e nemmeno per i dannati Urgali. Abbiamo potuto vivere qui in Alagaësia soltanto perché gli elfi ce l’hanno permesso. Se avessero voluto, ci avrebbero spazzati via con la stessa facilità con cui un’inondazione annienta un formicaio. Ma questo non succederà, non finché ci sarò io a oppormi al loro strapotere.» «I Cavalieri dei Draghi non avrebbero mai permesso agli elfi di ucciderci o di scacciarci.» «No, ma fin quando sono esistiti noi dipendevamo dalla loro benevolenza, e non è giusto dover riporre negli altri la propria sicurezza. L’ordine dei Cavalieri dei Draghi nacque per mantenere la pace fra elfi e draghi, ma alla fine il loro scopo principale si ridusse a dettare legge su tutta Alagaësia. Tuttavia erano troppo pochi per tale compito, e lo stesso vale anche per i miei stregoni, la Mano Nera. Il problema è troppo vasto perché un solo gruppo possa affrontarlo. La mia stessa vita ne è la prova. E se anche esistesse un manipolo di stregoni esperti a cui affidare il compito di controllare tutti gli altri maghi di Alagaësia, pronti a intervenire al minimo accenno di sopraffazione, ci ritroveremmo sempre in balia di quei poteri che cerchiamo di contenere. Alla fine il Paese non sarebbe più sicuro di quanto non lo sia adesso. No, per risolvere la questione bisogna affrontarla a un livello molto più profondo e radicale. Gli Antichi sapevano cosa si poteva fare, e adesso lo so anch’io.» Galbatorix, pur restando seduto sullo scranno, si mosse un poco, e lo scintillio di una lanterna si rifletté in uno dei suoi occhi. «Farò in modo che nessun mago sia in grado di nuocere a un’altra persona, umano, nano o elfo che sia. Nessuno potrà evocare incantesimi se non autorizzato, e saranno consentite soltanto magie benigne e utili. Anche gli elfi saranno vincolati a questo precetto, e impareranno a misurare le parole con cautela, oppure a non parlare affatto.» «E chi darà il permesso?» chiese lei. «Chi deciderà cosa è lecito e cosa no? Tu?» «Qualcuno dovrà pur farlo. Sono stato io a scoprire ciò di cui c’era bisogno e i mezzi per ottenerlo, e sarò io a metterli in pratica. La trovi un’idea ridicola? Ebbene, allora rispondi a questa domanda, Nasuada: sono stato un cattivo re? Sii onesta. Considerati i miei predecessori non si può certo dire che io sia stato troppo intemperante.» «Sei stato crudele.» «Non è la stessa cosa... Sei stata il capo dei Varden, perciò sai cosa significa avere sulle proprie spalle il fardello del comando. Avrai capito già da sola quale minaccia sia la magia per la stabilità di un regno. Ti faccio un esempio: ho passato più tempo a elaborare incantesimi per impedire che la moneta del regno fosse falsificata di quanto ne abbia dedicato ad altri miei doveri. Eppure da qualche parte ci sarà di sicuro un astuto incantatore che ha trovato la maniera di aggirare le mie protezioni e che adesso è indaffarato a contraffare interi sacchi di monete con cui frodare nobili e comuni cittadini. Per quale altra ragione credi che sia stato tanto attento a limitare l’uso della magia in tutto l’Impero?» «Perché rappresenta un pericolo per te.» «No! Ti sbagli di grosso. Io non temo la magia. Non temo niente e nessuno. Gli stregoni sono una minaccia per il sano funzionamento di questo regno, e io non lo tollererò più. Quando avrò legato ogni mago del mondo alle leggi della terra, immagina la pace e la prosperità che regneranno. Nessun uomo e nessun nano dovrà più temere gli elfi. Non ci saranno più Cavalieri dei Draghi a imporre il loro volere sugli altri. Quelli che non sanno usare la magia non saranno più preda di chi è in grado di evocarla... Alagaësia sarà

trasformata, e con la sicurezza che garantirò costruiremo un domani radioso. E tu potresti farne parte. «Mettiti al mio servizio, Nasuada, e avrai l’opportunità di presiedere alla creazione di un mondo diverso da tutti quelli esistiti finora... un mondo dove un uomo cadrà o starà in piedi soltanto in base alla forza delle proprie gambe e all’acume della propria mente, e non perché il caso ha voluto che avesse dei poteri magici. Un essere umano può allenare i muscoli e aguzzare l’ingegno, ma non potrà mai imparare a usare la magia se il destino non gliene ha fatto dono. Come ho detto, la magia è la più grande ingiustizia, e una volta per tutte io imporrò dei limiti a ogni mago di Alagaësia.» Nasuada fissava il soffitto e cercava di ignorarlo. In effetti molte delle affermazioni del re collimavano con le sue stesse convinzioni. Tutto sommato aveva ragione: la magia era la forza più distruttiva del mondo, e se si fosse trovato il modo di regolamentarla, Alagaësia sarebbe stata un Paese migliore. Detestava che non ci fosse stata niente a impedire a Eragon di... Blu. Rosso. Linee di colori intrecciati. Il dolore pulsante delle ustioni. Lottò disperatamente per concentrarsi su una cosa qualsiasi che non fosse... che non fosse niente. Qualunque cosa stesse pensando era niente, non esisteva. «Tu mi credi malvagio. Maledici il mio nome e vuoi distruggermi. Ma ricorda una cosa, Nasuada: non sono stato io a cominciare questa guerra, e non sono responsabile delle vite che per colpa di essa sono andate perdute. Non sono stato io a volerla. L’avete voluta voi. Io sarei stato ben felice di dedicare il mio tempo agli studi, ma i Varden si sono ostinati a rubare l’uovo di Saphira dal mio tesoro. Tu e i tuoi scherani siete gli unici responsabili del sangue e delle lacrime versati. In fin dei conti siete voi che tiranneggiate le campagne, bruciando e razziando tutto ciò che trovate sul vostro cammino. E hai anche l’impudenza di dire che sono io il malvagio! Entra in casa di un contadino qualsiasi e ti dirà che ciò che più teme sono i Varden. Ti confermerà che cerca la protezione dei miei soldati, che spera che l’Impero sconfigga i tuoi uomini e che tutto torni come prima.» Nasuada si inumidì le labbra. Pur sapendo che la sua audacia poteva costarle caro, replicò: «E a me sembra che tu stia esagerando un po’. Se davvero avessi a cuore solo il benessere dei tuoi sudditi, saresti volato dai Varden settimane fa invece di lasciare un esercito libero di spadroneggiare all’interno dei tuoi confini. A meno che tu non sia tanto sicuro della tua forza quanto vuoi dare a intendere. O forse hai paura che gli elfi conquistino Urû’baen in tua assenza?» Com’era diventata sua abitudine, parlava dei Varden come se non ne sapesse niente di più di un qualsiasi altro abitante dell’Impero. Sentì Galbatorix agitarsi sullo scranno, già sul punto di ribattere: ma lei non aveva ancora finito. «E gli Urgali? Non puoi convincermi della bontà della tua causa quando saresti capace di sterminare un’intera razza solo per lenire il dolore causato dalla morte del tuo primo drago. Non hai niente da dire in proposito, vero, traditore? Allora parliamo dei draghi. Spiegami perché ne hai uccisi tanti da condannare la loro specie a una lenta e inesorabile estinzione. E visto che siamo in argomento, dimmi anche la ragione del maltrattamento degli Eldunarí che hai catturato.» Nella sua furia si concesse quell’unico passo falso. «Li hai piegati, spezzati e incatenati al tuo volere. Non c’è giustizia in quello che fai, solo egoismo e un’insaziabile sete di potere.»

Galbatorix la guardò in silenzio per un lungo, interminabile istante. Poi incrociò le braccia. «Credo che i ferri siano abbastanza roventi, ormai. Murtagh, se non ti dispiace...» Nasuada serrò i pugni affondando le unghie nei palmi, e cominciò a tremare malgrado gli sforzi per evitarlo. Murtagh estrasse uno degli attizzatoi facendolo stridere contro il bordo del braciere e si voltò verso la lastra su cui era incatenata; per un attimo Nasuada rimase come ipnotizzata dalla punta incandescente del ferro. Poi guardò Murtagh negli occhi, li vide traboccare di senso di colpa e di odio per se stesso, e fu presa da una profonda tristezza. Che sciocchi siamo, pensò. Che desolati, miseri sciocchi. Poi non ebbe più la forza di pensare e ripiombò nei suoi rituali, aggrappandosi a loro per sopravvivere come un naufrago a un relitto. Quando Murtagh e Galbatorix se ne andarono, le ferite la straziavano al punto da lasciarle energie appena sufficienti a guardare il soffitto e sforzarsi di non piangere. Sudava e tremava insieme, come se avesse la febbre, e non riusciva a rimanere concentrata per più di una manciata di secondi. Il dolore delle ustioni non scemava come sarebbe successo se l’avessero torturata con lame o bastoni; anzi, col passare del tempo pareva peggiorare. Chiuse gli occhi e si concentrò sulla respirazione per cercare di rilassarsi. La prima volta che Galbatorix e Murtagh erano stati da lei si era dimostrata molto più coraggiosa. Li aveva insultati ripetutamente, cercando di ferirli con l’unica arma a sua disposizione: le parole. Ma Galbatorix, attraverso Murtagh, l’aveva punita per la sua insolenza, e lei aveva perso ogni velleità di ribellione aperta. Il ferro la terrorizzava: bastava il ricordo dell’attizzatoio rovente a farle venir voglia di rannicchiarsi su se stessa quasi fino a scomparire. Durante la loro seconda e più recente visita aveva parlato il meno possibile fino a quell’imprudente sfogo finale. Galbatorix le aveva garantito che né lui né Murtagh le avrebbero mai mentito, e lei li aveva messi alla prova. Grazie alle sue spie sapeva come funzionavano gli apparati interni dell’Impero, ma dato che il re non poteva sospettare che lei ne fosse a conoscenza, aveva deciso di concentrare le sue domande proprio su quell’argomento. E in base alle risposte che si era sentita rivolgere doveva ammettere che le stavano davvero dicendo la verità; si era però ripromessa di non credere alle parole di Galbatorix se non fosse stata in grado di dimostrarne con assoluta certezza l’attendibilità. Con Murtagh il discorso era diverso. Se nella stanza c’era anche il re, lei non si fidava delle sue parole, ma quando era solo... Ore dopo la sua prima, atroce udienza con Galbatorix, mentre Nasuada dormiva di un sonno leggero e agitato, Murtagh era entrato da solo nella Stanza dell’Oracolo. Aveva gli occhi annebbiati, e si sentiva che aveva bevuto. Si era fermato davanti alla lastra su cui era legata e l’aveva fissata con un’espressione strana e tormentata, del tutto indecifrabile. Alla fine si era voltato, aveva raggiunto la parete più vicina e si era lasciato cadere a terra. Era rimasto lì seduto con le ginocchia strette al petto, i lunghi capelli spettinati che gli ricadevano sul viso, il sangue che gli usciva dalle nocche scorticate della mano destra. Dopo qualche minuto aveva frugato nel panciotto color ruggine – era vestito come prima, solo senza maschera – e aveva preso una fiaschetta di pietra. Aveva tratto lunghi sorsi, e poi aveva cominciato a parlare.

Lui parlava e lei ascoltava. Non poteva fare altrimenti, ma non credeva a una sola parola. Almeno non all’inizio. Per quello che ne sapeva, tutto ciò che lui diceva o faceva poteva essere un trucco per conquistarsi la sua fiducia. Murtagh aveva esordito narrandole una storia ingarbugliata su un certo Tornac, che comprendeva una disavventura a cavallo e una sorta di consiglio che Tornac gli aveva dato su come dovrebbe vivere un uomo d’onore. Lei non era riuscita a capire se costui fosse stato un amico, un servitore, un lontano parente o tutte e tre le cose insieme, ma in ogni caso quell’uomo sembrava aver contato molto per Murtagh. Finito di raccontare quella storia, il giovane aveva proseguito: “Galbatorix voleva farti uccidere... Sapeva che Elva non ti sorvegliava più come prima, e aveva deciso che era il momento giusto per assassinarti. Ho scoperto il suo piano per puro caso: c’ero anch’io quando ha dato l’ordine alla Mano Nera.” Murtagh aveva scosso il capo. “È colpa mia. Sono stato io a convincerlo che era meglio portarti qui. L’idea gli è piaciuta. Sapeva che in questo modo avrebbe attirato Eragon qui molto più in fretta. Era l’unica maniera per impedirgli di ucciderti... Mi dispiace... Mi dispiace.” E si era sepolto la testa fra le mani. “Avrei preferito morire.” “Lo so” aveva risposto lui con voce roca. “Potrai mai perdonarmi?” Lei non aveva replicato. La rivelazione di Murtagh l’aveva messa soltanto più a disagio. Perché si era esposto per salvarle la vita, e che cosa si aspettava in cambio? Lui era rimasto in silenzio per un po’. Poi, tra le urla e le lacrime, le aveva raccontato della sua infanzia alla corte di Galbatorix, delle invidie e del disprezzo che aveva dovuto sopportare come figlio di Morzan, dei nobili che avevano cercato di usarlo per conquistarsi i favori del re e del suo struggimento per una madre che ricordava a malapena. Due volte aveva fatto il nome di Eragon, definendolo uno stupido baciato dalla fortuna. “Non sarebbe stato altrettanto bravo a parti invertite. Ma nostra madre scelse di portare lui a Carvahall, non me.” Così dicendo aveva sputato sul pavimento. Nasuada aveva trovato l’intero episodio lacrimevole e sdolcinato, e la debolezza di lui non le aveva ispirato altro che maggiore disprezzo, almeno finché lui non le aveva parlato di quando i Gemelli lo avevano rapito dal Farthen Dûr, maltrattandolo per tutto il viaggio verso Urû’baen, e del modo in cui Galbatorix lo aveva soggiogato dopo il suo arrivo. Alcune delle torture descritte erano peggiori di quelle che lei stava sopportando e le avevano suscitato un briciolo di compassione per la sua sventura, ammesso che il racconto rispecchiasse il vero. “Castigo è stato la mia rovina” aveva confessato Murtagh alla fine. “Quando l’uovo si è schiuso davanti a me e ci siamo legati...” Aveva scosso il capo. “Gli voglio bene. Come potrei non volergliene? È lo stesso affetto che Eragon nutre per Saphira. Nel momento stesso in cui l’ho toccato è iniziata la mia fine. Galbatorix l’ha usato contro di me. Castigo era forte, non voleva arrendersi. Ma io non potevo sopportare di vederlo soffrire, così ho giurato fedeltà al re, poi...” Le labbra di Murtagh si erano arricciate in una smorfia di disgusto. “Poi Galbatorix entrò nella mia mente. Imparò tutto su di me, e mi impartì il mio vero nome. E adesso sono suo... per sempre.” A quel punto aveva reclinato il capo contro il muro, chiudendo gli occhi. Piangeva. Alla fine si era alzato, e mentre si avviava alla porta si era fermato accanto a lei posandole una mano sulla spalla. Le sue unghie, aveva notato lei, erano pulite e curate, ma meno di

quelle del carceriere. Murtagh aveva mormorato qualche parola nell’antica lingua, e un istante dopo il dolore che la straziava era svanito, anche se le ferite erano rimaste immutate. Quando lui aveva tolto la mano, lei gli aveva detto: “Non posso perdonarti, ma capisco.” Murtagh aveva annuito ed era uscito, lasciandola a domandarsi se non avesse trovato un nuovo alleato.

PICCOLE RIBELLIONI Distesa sulla lastra di pietra, sudata e tremante, con ogni centimetro del corpo che urlava di dolore, Nasuada si scoprì a desiderare che Murtagh tornasse, se non altro per liberarla di nuovo da quel tormento. Quando la porta della camera ottagonale si aprì non riuscì a reprimere un sospiro di sollievo, che si trasformò in amara delusione non appena udì i passi strascicati del suo carceriere che scendevano le scale. Come già prima, l’uomo corpulento dalle spalle strette le tamponò le ustioni con un panno bagnato, poi le fasciò con bende di lino. Quando la liberò dalle manette perché potesse andare alla latrina, lei si sentiva troppo debole per tentare di afferrare il coltello sul vassoio del pasto. Si limitò invece a ringraziare l’uomo per il suo aiuto, e per la seconda volta gli fece i complimenti per le unghie, che erano persino più lucenti e che ovviamente lui desiderava mostrarle, dato che continuava a tenere le mani in bella vista. Dopo averla nutrita se ne andò, e lei cercò di dormire, ma il bruciore costante delle ferite le concesse a malapena di assopirsi. Aprì gli occhi di colpo quando sentì scivolare all’indietro la trave della porta. Non di nuovo!, sospirò, in preda al panico. Non così presto! Non ce la faccio... non sono abbastanza forte. Poi domò le sue paure e si disse: Smettila. Non devi nemmeno pensarle certe cose, altrimenti finirai per crederci. Se però riuscì a dominare la mente, nulla poté sul cuore, che prese a battere all’impazzata. Nella stanza echeggiarono i passi di un solo uomo, e poi Murtagh comparve ai margini del suo campo visivo. Non portava la maschera e aveva un’aria triste. Questa volta lenì subito le sue sofferenze, senza aspettare. Il sollievo che la travolse quando le ferite smisero di farle male rasentò l’estasi. In tutta la sua vita non aveva mai provato una sensazione così celestiale come la cessazione della pena. «Grazie» mormorò, stordita. Murtagh annuì e si sedette contro la parete, come l’altra volta. Lei lo studiò per un istante: la pelle delle nocche era di nuovo liscia, senza traccia di cicatrici. Era sobrio ma scuro in volto. I suoi abiti un tempo eleganti e curati erano logori, sdruciti e rattoppati. Aveva degli strappi lungo la parte interna delle maniche, e lei si chiese se avesse combattuto. «Galbatorix sa che sei qui?» gli domandò infine. «Può darsi, ma ne dubito. Si starà intrattenendo con le sue concubine preferite. Oppure starà dormendo. È notte fonda. E poi ho evocato un incantesimo per impedire a chiunque di ascoltarci. Potrebbe spezzarlo, se vuole, ma io me ne accorgerei.» «E se viene a saperlo?» Murtagh si strinse nelle spalle. «Lo scoprirà, sai, se abbatte le mie difese» disse lei.

«Allora non permetterglielo. Sei più forte di me, e non hai nessuno di caro che lui può minacciare. Puoi resistergli, al contrario di me... I Varden si avvicinano in fretta, e così gli elfi da nord. Se tieni duro un altro paio di giorni, allora forse... forse potranno liberarti.» «Tu non credi che ci riusciranno, vero?» Lui si strinse di nuovo nelle spalle. «Allora aiutami a fuggire.» Lui esplose in una risata roca e amara. «E come? Posso a malapena mettermi gli stivali senza il permesso di Galbatorix.» «Puoi allentarmi le manette, e quando te ne vai magari ti dimentichi di chiudere la porta.» Lui le scoccò un’occhiata di scherno. «Ci sono due guardie fuori dalla porta e incantesimi di sorveglianza sparsi in tutta la stanza per avvertire Galbatorix se un prigioniero tenta di scappare, per non parlare delle centinaia di soldati che incontreresti sul percorso da qui al cancello più vicino. Saresti fortunata se arrivassi in fondo al corridoio.» «Può darsi, ma vorrei provarci.» «Ti faresti uccidere.» «E allora aiutami tu. Se volessi, potresti trovare il modo di aggirare i suoi incantesimi.» «Non posso. Il mio giuramento mi impedisce di usare la magia contro di lui.» «E le guardie? Se tu riuscissi a tenerle a bada per il tempo che mi serve a raggiungere l’uscita mi potrei nascondere in città, e allora anche se Galbatorix scoprisse che...» «La città è sua. Con la magia ti troverebbe ovunque tu andassi. L’unico modo per sfuggirgli sarebbe allontanarti dalla città prima che lui si accorga della tua fuga, e non ci riusciresti nemmeno a dorso di drago.» «Ma dev’esserci un’alternativa!» «Magari ci fosse...» Le rivolse un sorriso disincantato e abbassò lo sguardo. «È inutile perdere tempo a pensarci.» Lei rimase a fissare il soffitto per qualche istante, frustrata. Poi: «Almeno toglimi le manette.» Lui si lasciò sfuggire uno sbuffo di esasperazione. «Giusto per alzarmi» continuò lei. «Non ce la faccio più a stare sdraiata su questa pietra, e poi mi viene male agli occhi a guardarti così di traverso.» Lui esitò, poi si alzò e con un unico movimento fluido si avvicinò alla lastra cominciando a slegare le manette imbottite che le serravano polsi e caviglie. «Non pensare di potermi uccidere» le sussurrò. «Non puoi.» Non appena l’ebbe liberata, tornò al suo posto e sedette sul pavimento, gli occhi persi nel vuoto. Era, intuì lei, il suo modo per concederle un po’ di riservatezza mentre si alzava. La camiciola da notte era a brandelli, bruciata in più punti, e rivelava le forme del suo corpo. Non che prima le coprisse molto, comunque. Scese dalla pietra – il pavimento di marmo era freddissimo – e si sedette accanto a Murtagh. La imbarazzava essere così poco vestita, e si strinse le braccia intorno al corpo per cercare di nasconderlo un po’.

«Tornac era il tuo unico amico da ragazzo?» gli domandò. Murtagh continuò a non guardarla. «No, ma era la persona più vicina a un padre che abbia mai avuto. Mi insegnava, mi confortava... mi rimproverava quando ero troppo arrogante, e mi ha impedito di fare la figura dell’idiota in ben più di un’occasione. Fosse stato ancora vivo, mi avrebbe dato una sonora legnata per essermi ubriacato in quel modo l’altro giorno.» «Hai detto che è morto durante la vostra fuga da Urû’baen, vero?» Lui sbuffò. «Mi credevo furbo. Avevo corrotto una guardia perché lasciasse aperto un cancello secondario. Avevamo intenzione di lasciare la città col favore del buio, e Galbatorix lo avrebbe scoperto soltanto quando sarebbe stato troppo tardi per riacciuffarci. Peccato che lui sapesse della nostra fuga fin dal principio. Come ci fosse riuscito non lo so, ma immagino che mi avesse divinato tutto il tempo. Quando io e Tornac superammo il cancello, trovammo dei soldati ad attenderci dall’altra parte... Gli ordini erano di riportarci indietro illesi, ma noi combattemmo, e uno di loro uccise Tornac. Il più bravo spadaccino di tutto l’Impero ammazzato con una coltellata alla schiena.» «Ma Galbatorix ti ha lasciato scappare.» «Credo che non si aspettasse che avremmo lottato. E poi quella notte la sua attenzione era rivolta da tutt’altra parte.» Un enigmatico sorrisetto gli affiorò sulle labbra e lei aggrottò le sopracciglia. «Ho contato i giorni» riprese lui. «Era lo stesso periodo in cui i Ra’zac battevano la Valle Palancar in cerca dell’uovo di Saphira. Perciò, come vedi, Eragon ha perso il suo padre adottivo più o meno quando io ho perso il mio. Il destino ha un crudele senso dell’umorismo, non trovi?» «Già... ma se Galbatorix poteva divinarti, perché poi non ti ha rintracciato per riportarti a Urû’baen?» «Sono stato un piacevole diversivo per lui, immagino. Mi rifugiai da un uomo di cui credevo di potermi fidare. Come al solito mi sbagliavo, ma lo scoprii soltanto dopo, quando i Gemelli mi riportarono qui. Galbatorix sapeva dove mi trovavo, e sapeva che ero ancora furioso per la morte di Tornac, così mi lasciò nella tenuta mentre lui andava a caccia di Eragon e Brom... Però io lo sorpresi: partii. Quando scoprì che me n’ero andato, ero già in viaggio per Dras-Leona. Ecco perché Galbatorix quella volta si era precipitato fin là. Non per punire Lord Tábor, anche se ovviamente fece anche quello, ma per trovare me. Però arrivò troppo tardi. Io avevo già conosciuto Eragon e Saphira ed eravamo partiti per Gil’ead.» «Perché te ne sei andato?» domandò lei. «Eragon non te l’ha detto? Perché...» «No, non da Dras-Leona. Perché hai lasciato la tenuta? Lì eri al sicuro, o almeno così credevi. Quindi perché andarsene?» Murtagh rimase in silenzio per un po’. «Volevo vendicarmi di Galbatorix, e volevo farmi un nome per liberarmi dall’ombra di mio padre. È tutta la vita che la gente mi vede con occhi diversi perché sono il figlio di Morzan. Volevo che mi rispettassero per le mie azioni, non per le sue.» Finalmente la guardò, ma solo per un breve attimo. «Be’, si può dire che io

ci sia riuscito, ma ancora una volta il destino ha sfoderato il suo crudele senso dell’umorismo.» Chissà se c’era qualcun altro alla corte di Galbatorix a cui lui teneva, si chiese lei; ma poteva rivelarsi un argomento pericoloso da affrontare e così gli domandò: «Quanto sa davvero Galbatorix dei Varden?» «Tutto. Ha molte più spie di quante tu creda.» Nasuada si sentì torcere le viscere. «Sai come possiamo ucciderlo?» «Pugnale. Spada. Freccia. Veleno. Magia. Un modo vale l’altro. Il problema è che ha così tante difese magiche intorno a sé che è impossibile che qualcuno o qualcosa gli faccia del male. Eragon è più fortunato di tanti altri: il re Galbatorix non vuole ucciderlo, e quindi lui potrebbe attaccare il re. Ma anche se ci provasse cento volte non troverebbe il benché minimo spiraglio per scalfire le sue barriere protettive.» «Ogni enigma ha una soluzione, e ogni uomo ha una debolezza» insistette lei. «È innamorato di una delle sue concubine?» L’espressione di Murtagh fu eloquente. Poi disse: «Sarebbe così terribile se Galbatorix continuasse a regnare? È un bel mondo, quello di cui parla. Se sconfiggerà i Varden, Alagaësia vivrà finalmente in pace. Porrà fine all’abuso della magia; elfi, nani e umani non avranno più alcun motivo per odiarsi. E c’è di più: se i Varden perdono, io ed Eragon torneremo a essere fratelli, com’è giusto che sia. Ma se vincono, per me e Castigo significherà la morte. È inevitabile.» «E io?» ribatté lei. «Se trionfa Galbatorix, diventerò la sua schiava e dovrò obbedire ai suoi ordini?» Murtagh non rispose, ma strinse i pugni. Non le sfuggì quella reazione, tanto da spingerla ad aggiungere: «Non puoi arrenderti, Murtagh.» «Cos’altro posso fare?» gridò lui, e l’eco delle sue parole risuonò nella stanza. Lei si alzò, si allontanò di qualche passo, poi si voltò e osservandolo dall’alto in basso lo incitò: «Puoi combattere! Guardami... Guardami, ti ho detto!» Lui levò gli occhi riluttante. «Puoi opporti in molti modi. E se i tuoi giuramenti non ti permetteranno che la più piccola delle ribellioni... be’, forse sarà proprio quella a segnare la sua disfatta! Perché escluderlo a priori?» E per dare maggiore enfasi alle sue parole, gli rigirò la domanda che lui le aveva appena rivolto. «Cos’altro puoi fare? Puoi continuare a sentirti impotente e infelice per il resto della tua vita. Puoi lasciare che Galbatorix ti trasformi in un mostro. Oppure puoi combattere!» Allargò le braccia perché lui vedesse tutti i segni di bruciature che aveva sul corpo. «Ti diverti a torturarmi?» «No!» esclamò lui. «E allora ribellati, dannazione! Devi opporti, altrimenti perderai tutto quello che sei. E anche Castigo.» Lui balzò in piedi, agile come un gatto, e le si avventò addosso, fermandosi a un palmo dal suo viso. Ma lei si costrinse a non muoversi. Murtagh la fissava con occhi di fuoco, la mascella serrata e i pugni stretti. Nasuada aveva già visto tante volte quell’espressione, e non fece alcuna fatica a riconoscerla: era quella di un uomo ferito nell’orgoglio, che avrebbe voluto colpire la persona che l’aveva insultato. Era pericoloso insistere, ma lei sapeva di doverlo fare, perché quella poteva essere la sua unica occasione.

«Se io posso continuare a combattere» lo incalzò, «puoi farlo anche tu.» «Torna alla lastra» le ordinò lui con voce dura. «Lo so che non sei un vigliacco, Murtagh. Meglio morire che vivere da schiavi di uno come Galbatorix. Almeno farai qualcosa di buono, e il tuo nome sarà ricordato con benevolenza quando non ci sarai più.» «Torna alla lastra» ringhiò lui, e afferrandola per un braccio la trascinò verso il suo giaciglio. Lei non si ribellò quando Murtagh la spinse sul blocco color cenere, le legò polsi e caviglie e le immobilizzò la testa con la cinghia. Quando ebbe finito, rimase a fissarla con occhi tenebrosi e pieni di collera; tremava come una corda troppo tesa. «Devi decidere se sei disposto a rischiare la vita per salvarti» riprese lei. «Per liberare te stesso e Castigo. E devi deciderlo adesso, finché sei ancora in tempo. Chiediti questo: Tornac cosa ti avrebbe consigliato di fare?» Senza rispondere, Murtagh le posò la mano destra sul petto; era bollente, e lei trasalì. Poi, con la voce ridotta a un sussurro, lui iniziò a parlare nell’antica lingua. E a ogni arcana parola che fluiva dalle sue labbra lei si sentiva sempre più terrorizzata. Parlò per quelli che le parvero interi, lunghissimi minuti. Non avvertì alcuna differenza nel momento in cui lui tacque, ma quando era coinvolta la magia, non si poteva mai dire se quello fosse un buono o un cattivo segno. Quando lui tolse la mano, il punto che aveva toccato era diventato freddo. Murtagh fece un passo indietro e si avviò verso la porta. Lei stava per chiamarlo per domandargli che cosa le avesse fatto, quando lui si fermò sulla porta e disse: «Questo dovrebbe proteggerti dal dolore delle torture, ma dovrai fingere di soffrire, altrimenti Galbatorix scoprirà cosa ho fatto.» E se ne andò. «Grazie» mormorò lei alla stanza vuota. Nasuada rifletté a lungo sulla loro conversazione. Le sembrava improbabile che Galbatorix avesse mandato Murtagh a parlarle, ma improbabile non significava impossibile. Si ritrovò anche a domandarsi se nel profondo dell’animo Murtagh fosse una persona buona o cattiva. Ripensò a re Rothgar, che era stato come uno zio per lei, e al modo in cui il ragazzo lo aveva ucciso senza pietà sulle Pianure Ardenti. Poi però pensò all’infanzia e alle sofferenze che aveva patito, e a come aveva lasciato Eragon e Saphira liberi di andarsene quando non avrebbe avuto alcuna difficoltà a portarli a Urû’baen. D’altro canto, se anche Murtagh era stato un tempo un uomo d’onore e degno di fiducia, Nasuada era consapevole che la servitù forzata poteva averlo corrotto. Infine decise che avrebbe ignorato il passato di Murtagh per giudicarlo solo in base alle azioni del presente. Buono o cattivo, o entrambi, che fosse, era un potenziale alleato, e lei aveva bisogno del suo aiuto. Se stava mentendo, poco sarebbe cambiato nella sua situazione. Ma se era sincero, allora forse aveva una possibilità di fuggire da Urû’baen. Valeva ben la pena di rischiare. Senza il dolore a tormentarla, riposò bene e a lungo per la prima volta da quando era arrivata nella capitale. Si svegliò più fiduciosa che mai e prese a studiare di nuovo le linee

dipinte sul soffitto. Seguendo uno dei sottili tratteggi blu arrivò a una mattonella che presentava in un angolo una piccola macchia bianca. Non l’aveva mai notata prima, e le ci volle qualche istante per capire che quella macchiolina più chiara era una scheggia saltata. Scoprire quel difetto la fece sorridere, perché era divertente – e per certi aspetti consolante – sapere che la perfetta stanza di Galbatorix tutto sommato perfetta non era, e che malgrado ciò che il re sosteneva, lui non era né onnisciente né infallibile. Quando la porta si aprì, il carceriere entrò reggendo il vassoio con quello che, secondo le sue congetture, doveva essere il pranzo. Gli chiese se questa volta poteva prima mangiare e poi alzarsi, perché, spiegò, aveva più fame che altro, il che non era del tutto falso. Lui acconsentì in silenzio. Si limitò a rivolgerle quell’odioso sorriso a tenaglia e si sedette sul bordo della lastra. Mentre le infilava cucchiaiate di minestra densa e calda nella bocca, lei si spremette le meningi per ripassare il piano ed essere pronta a ogni eventualità, perché sapeva di avere soltanto una possibilità di successo. La trepidazione le chiudeva lo stomaco, ma nonostante tutto riuscì a mangiare, e quando ebbe svuotato la scodella e bevuto a sazietà si preparò. Come sempre, l’uomo aveva posato il vassoio ai piedi della parete di fronte, vicino a dove Murtagh si era seduto, ad appena cinque passi dalla porta della latrina. Una volta libera dai legacci scivolò giù dalla lastra. L’uomo dalla testa di zucca si chinò per afferrarla e sorreggerla, ma lei alzò una mano e con voce dolce e remissiva disse: «Ce la faccio da sola adesso, grazie.» Il carceriere esitò, poi sorrise di nuovo e batté i denti due volte, forse il suo modo di dire: “Bene, sono contento per te!” Si avviarono verso la latrina, lei davanti, lui qualche passo indietro. A un tratto lei torse di proposito la caviglia e inciampò di lato. L’uomo urlò e tentò di agguantarla – lei sentì le sue dita tozze che stringevano l’aria dietro la nuca – ma fu troppo lento e lei riuscì a sfuggirgli. Crollò a pancia in giù sul vassoio, mandando in mille pezzi la brocca ancora mezza piena di vino diluito; la scodella di legno rotolò via sul pavimento. Cadendo aveva tenuto di proposito la mano destra sotto il corpo, e iniziò subito a tastare il vassoio in cerca del cucchiaio di metallo. «Ah!» esclamò, come se si fosse fatta male, poi si voltò verso l’uomo, sforzandosi di sembrare mortificata. «Forse non ero così in forze» disse, e gli rivolse un sorriso di scuse. Sfiorò con le dita il manico del cucchiaio e lo raccolse proprio mentre l’uomo la afferrava per l’altro braccio e la aiutava ad alzarsi. Lui la squadrò da capo a piedi e arricciò il naso, disgustato dalle macchie di vino sulla camiciola. Nel frattempo lei portò la destra dietro la schiena e incastrò il manico del cucchiaio in un buco vicino all’orlo della veste. Poi levò la mano, come a dimostrare che non aveva preso niente. L’uomo grugnì e la trascinò verso la latrina. La spinse dentro, poi tornò al vassoio strascicando i piedi e borbottando fra sé. Quando la porta alle sue spalle si fu chiusa, Nasuada recuperò il cucchiaio e tenendolo tra i denti si strappò alcuni capelli dalla nuca, dove erano più lunghi. Cercando di fare il più in fretta possibile attorcigliò la ciocca sfregandosela sulla coscia, attenta a tenerne ferma

un’estremità con la mano. Si sentì accapponare la pelle quando si rese conto che la corda che aveva così ottenuto era troppo corta. Fece in fretta un nodo alle estremità e posò la cordicella a terra. Poi si strappò altri capelli e ripeté l’operazione, ricavandone una seconda corda. Sapeva che le rimanevano solo pochi secondi e li sfruttò per legare le due corde insieme. Poi riprese il cucchiaio che teneva tra i denti e con lo spago improvvisato si legò il cucchiaio all’esterno della gamba sinistra, dove l’orlo della camiciola lo avrebbe nascosto. Aveva pensato molto a quel dettaglio, e aveva deciso per la sinistra perché Galbatorix sedeva sempre alla sua destra. Si alzò e fece qualche passo per assicurarsi che il cucchiaio non cadesse. Teneva. Si concesse un sospiro di sollievo. Ora la sfida consisteva nel tornare alla lastra senza che il carceriere si accorgesse di niente. L’uomo la stava aspettando fuori quando lei aprì la porta. Le rivolse uno sguardo imbronciato, e le sopracciglia rade si unirono in un’unica riga sottile. «Cucchiaio» disse, masticando la parola come fosse un pezzo di rapa mal cotta. Lei indicò la latrina con il mento. L’uomo si accigliò ancora di più. Entrò nella stanzetta ed esaminò con scrupolo le pareti, il pavimento, il soffitto e tutto il resto, per poi tornare indietro pestando i piedi. Si grattò la testa bulbosa, come se fosse dispiaciuto – e forse un po’ offeso – che lei avesse gettato via il cucchiaio. Era stata gentile con lui prima, e lei sapeva che quel piccolo gesto di sfida lo avrebbe confuso e fatto arrabbiare. Resistette all’impulso di sottrarsi quando lui le si piazzò davanti, e dopo averle posato le mani grasse sulla testa le frugò tra i capelli. Non trovò nulla, ovviamente, e parve abbattuto. L’afferrò di nuovo per un braccio, la portò alla lastra e le rimise le manette. Poi raccolse il vassoio con aria avvilita e uscì dalla stanza. Lei aspettò finché non fu assolutamente certa che se ne fosse andato. Poi distese il più possibile le dita, e piano piano alzò l’orlo della camiciola. Un largo sorriso le illuminò il volto quando sfiorò il cucchiaio con l’indice. Aveva un’arma. [eBookLove - eBL 043] Christopher Paolini - Inheritance [by Pico]

UNA CORONA DI GHIACCIO E NEVE Quando i primi pallidi raggi di sole lambirono la superficie increspata del mare, illuminando la spuma delle onde semitrasparenti, Eragon si destò dal suo sonno vigile e guardò a nordovest, curioso di scoprire che cosa riservava il cielo adesso che non c’era più la notte a nasconderne i segreti. Rimase sconcertato: il fronte temporalesco abbracciava metà dell’orizzonte, e la più grande delle gonfie nuvole bianche era alta quanto le vette dei Monti Beor: troppo perché Saphira la sorvolasse. L’unico squarcio di cielo limpido era alle loro spalle, ma anche volendo non sarebbero mai riusciti a raggiungerlo, perché le lunghe braccia della tempesta stavano per avvolgerli. Dovremo passarci in mezzo, li avvertì Glaedr, ed Eragon percepì l’ansia crescere nella mente di Saphira. E se la aggirassimo?, chiese lei. Attraverso Saphira, Eragon sentì che Glaedr studiava la struttura delle nuvole. Alla fine il drago dorato disse: Non voglio che voli troppo fuori rotta. Mancano ancora parecchie leghe, e se ti vengono meno le forze... Tu mi presterai le tue per non farci precipitare. Mmm... Anche in quel caso dobbiamo essere prudenti. Ho già visto tempeste simili. Sono più estese di quanto immagini. Per aggirarla dovresti volare così a ovest che finiresti per oltrepassare Vroengard, e probabilmente ci vorrebbe una giornata intera per raggiungere la terraferma. Non manca poi così tanto a Vroengard, osservò lei. No, ma il vento ci rallenterà. E poi l’istinto mi dice che la tempesta si estende fino all’isola. In un modo o nell’altro dovremo attraversarla. Tuttavia non occorre passare per il centro. Vedi quel varco a forma di V fra quei due piccoli cumuli a ovest? Sì. Punta da quella parte e forse riusciremo a trovare un passaggio sicuro fra le nuvole. Saphira abbassò l’ala sinistra e virò a ovest, verso il varco indicato da Glaedr. Eragon si tenne ben stretto alla sella durante il cambio di rotta, ma poi sbadigliò e si strofinò gli occhi. Si voltò e pescò dalle bisacce una mela e qualche striscia di carne essiccata. Era una magra colazione, ma non aveva molto appetito, e poi mangiare troppo mentre era in sella a Saphira gli avrebbe fatto venire la nausea. Mentre sbocconcellava, guardava un po’ le nuvole un po’ il mare scintillante. Lo turbava il pensiero che sotto di loro non ci fosse che acqua, e che la terraferma più vicina – il continente – secondo i suoi calcoli fosse lontana ormai cinquanta miglia. Per un attimo immaginò di sprofondare nei freddi e oscuri abissi dell’oceano e rabbrividì. Chissà che cosa c’era sul fondo, e gli venne in mente che con la magia forse avrebbe potuto viaggiare fin laggiù e scoprirlo, ma l’idea non lo attirava. Le profondità oceaniche erano troppo buie e pericolose per i suoi gusti. Sentiva che quello era un luogo che non gli apparteneva: meglio lasciarlo alle creature che vi dimoravano, quali che fossero.

Col passare della mattinata si accorsero che le nuvole erano più lontane di quanto era sembrato all’inizio, e che come aveva detto Glaedr la tempesta era più vasta di quanto Eragon e Saphira avessero prefigurato. Si levò un leggero vento contrario, ma anche se volare divenne più faticoso, Saphira continuò a procedere spedita. Quando furono a poche leghe dal fronte temporalesco, Saphira sorprese Eragon e Glaedr abbassandosi fino al pelo dell’acqua. Cosa stai facendo, Saphira?, chiese Glaedr. Sono curiosa, rispose lei. E vorrei riposare le ali prima di entrare nelle nuvole. Volava rasentando le onde, e sulla superficie del mare la sua ombra e il suo riflesso replicavano ogni movimento come due compagni fantasma, uno scuro l’altro chiaro. Poi la dragonessa portò le ali in verticale, e con tre rapidi battiti rallentò e atterrò sull’acqua. Due ventagli di spruzzi si levarono ai lati del suo collo mentre con il petto fendeva le onde. Eragon si ritrovò fradicio. L’acqua era fredda, ma dopotutto quel tempo in alta quota lì sul mare faceva quasi caldo, tanto che Eragon si tolse mantello e guanti. Saphira raccolse le ali e galleggiò placida, lasciandosi cullare dalle onde. Eragon scorse alla sua destra masse di alghe, lunghi filamenti marroni interrotti da vescicole grandi quanto bacche. Più avanti, alla stessa quota che stava tenendo Saphira poco prima di planare, vide una coppia di albatros con le ali dalla punta nera che si allontanava dalle nuvole minacciose. Quella scena non fece che accrescere la sua inquietudine: gli ricordava di quando aveva visto un branco di lupi e uno di cervi fuggire insieme da una foresta in fiamme sulla Grande Dorsale. Se avessimo un briciolo di buonsenso, disse a Saphira, torneremmo indietro. Se avessimo un briciolo di buonsenso lasceremmo Alagaësia per non tornare mai più, ribatté lei. La dragonessa inarcò il collo e tuffò il muso in acqua, poi scrollò la testa e si passò due o tre volte la lunga lingua cremisi sulla bocca, come se avesse assaggiato qualcosa di sgradevole. All’improvviso Eragon sentì venire da Glaedr un’ondata di panico, e il vecchio drago ruggì nella sua mente: Decolla! Ora, ora, ora! Decolla! Saphira non perse tempo a fare domande. Dispiegò le ali con un boato simile a un tuono e cominciò a batterle, impennandosi fuori dall’acqua. Eragon si aggrappò alla sella per evitare di cadere all’indietro. Battendo le ali, Saphira alzò un velo di nebbiolina che gli appannò la vista, così usò la mente per capire che cosa aveva allarmato Glaedr. Eragon percepì qualcosa che risaliva dagli abissi verso Saphira a una velocità che non avrebbe mai creduto possibile: qualcosa di freddo, enorme, spinto da una voracità insaziabile. Provò a spaventarla con la mente, tentò di scacciarla, ma la creatura misteriosa risaliva implacabile, come se non notasse nemmeno i suoi sforzi. Nelle oscure caverne della sua coscienza Eragon scorse sprazzi di ricordi di innumerevoli anni passati in solitudine, a cacciare ed essere cacciato.

Preso dal panico, cercò a tentoni l’elsa di Brisingr, mentre Saphira si liberava dalla morsa dell’acqua e cominciava a levarsi in volo. Saphira! Presto!, gridò lui con la mente. La dragonessa guadagnò velocità e altitudine. Una colonna d’acqua esplose dietro di lei, ed Eragon vide emergere dagli spruzzi due fauci grigie spalancate, grandi abbastanza da inghiottire un intero uomo a cavallo, irte di centinaia di zanne bianche e scintillanti. Saphira percepì ciò che lui aveva visto e fece una brusca virata per sfuggire alle mandibole letali. La punta dell’ala tagliò l’acqua. Un istante dopo Eragon sentì con le orecchie e con la mente insieme lo schiocco feroce delle fauci che si richiudevano. Le zanne lunghe e sottili come aghi avevano mancato la coda di Saphira per un soffio. Quando il mostro ripiombò in acqua, Eragon riuscì a vederlo meglio: aveva il muso lungo e triangolare, e gli occhi sormontati da una cresta ossea da cui nasceva un tentacolo filamentoso lungo più di sei piedi; il collo ricordava un enorme serpente grinzoso; ai lati del torso liscio e possente spuntavano due grandi pinne simili a pagaie che frustavano l’aria inutilmente. La creatura cadde su un fianco sollevando una gigantesca onda spumosa. Prima che l’acqua si richiudesse sul mostro, Eragon incrociò uno dei suoi occhi rotondi e neri come la pece. Nello sguardo impassibile della creatura lesse un tale misto di odio, rabbia e frustrazione che non poté fare a meno di rabbrividire. E si scoprì a pensare che avrebbe dato qualsiasi cosa pur di essere al centro del deserto di Hadarac: soltanto lì si sarebbe sentito al sicuro dalla fame ancestrale del mostro. Si accasciò sulla sella col cuore che batteva forte. «Cos’era?» Un Nïdhwal, rispose Glaedr. Eragon aggrottò le sopracciglia. Non ricordava di aver mai letto quel nome a Ellesméra. E che cos’è? Sono creature rarissime, di cui si sa poco. Sono per il mare quello che i Fanghur sono per l’aria. Entrambi cugini dei draghi. Nonostante l’aspetto sicuramente diverso, i Nïdhwal sono molto più simili a noi dei gracchianti Fanghur. Sono intelligenti e nel petto hanno un organo simile agli Eldunarí: è grazie a esso, credo, che riescono a sopravvivere per lunghi periodi negli abissi marini. Sputano fuoco? No, ma come i Fanghur usano spesso i poteri mentali per paralizzare la preda, abilità che più di un drago ha scoperto a sue spese. Cacciano quelli della loro specie!, esclamò Saphira. Non ci considerano loro simili, rispose Glaedr. Però sì, si mangiano anche tra di loro: ecco perché i Nïdhwal sono ormai tanto rari. Non sono interessati a ciò che accade fuori dal loro regno, e ogni tentativo di ragionare con loro è fallito. È strano averne incontrato uno così vicino alla costa. Un tempo si trovavano soltanto a parecchi giorni di volo dalla terraferma, dove il mare è più profondo. A quanto pare sono diventati più audaci – o disperati – dall’epoca della caduta dei Cavalieri. Eragon rabbrividì ancora ripensando alla sensazione che aveva provato toccando la mente del Nïdhwal. Come mai tu e Oromis non ci avete insegnato niente su di loro? Ci sono tante cose di cui non vi abbiamo parlato, Eragon. Avevamo poco tempo, ed era meglio impiegarlo per addestrarvi contro Galbatorix che per istruirvi su ogni misteriosa creatura che infesta le regioni inesplorate di Alagaësia.

Vuoi dire che ci sono altre cose come i Nïdhwal di cui non sappiamo niente? Qualcuna. Ce ne parlerai, Ebrithil?, chiese Saphira. Farò un patto con te, Saphira, e con te, Eragon. Aspettiamo una settimana, e se poi saremo ancora vivi e liberi allora sarò lieto di passare i prossimi dieci anni a parlarvi di ogni singola specie che conosco, comprese le diverse varietà di scarafaggi, che sono moltissime. Ma fino ad allora concentriamoci sul compito che ci aspetta. D’accordo? Eragon e Saphira acconsentirono, anche se a malincuore, e non ne parlarono più. Via via che si avvicinavano al fronte della tempesta, il vento contrario aumentò di intensità fino a trasformarsi in un’impetuosa burrasca. Saphira volava alla metà della sua velocità abituale. Di tanto in tanto potenti folate la scuotevano con violenza, e a volte addirittura la bloccavano per qualche secondo. Sapevano sempre quando le raffiche stavano per colpire, perché vedevano comparire sulla superficie del mare un’argentea chiazza increspata che avanzava verso di loro. Dall’alba le nubi si erano fatte grandi il doppio e da vicino facevano ancora più paura. In basso erano scure e violacee, con lunghe cortine di pioggia che univano la tempesta al mare come un diafano cordone ombelicale. Più in alto erano del colore dell’argento brunito, mentre in cima erano di un bianco accecante e sembravano solide e compatte come le mura di Tronjheim. A nord, nel cuore della tempesta, le nuvole avevano formato una gigantesca incudine piatta che torreggiava su tutto il resto, come se gli dei in persona volessero forgiare qualche strano, terribile strumento. Quando Saphira si librò fra due enormi cumuli bianchi, al cui confronto non era altro che un puntolino azzurro, e il mare scomparve sotto uno strato di nuvole gonfie come cuscini, il vento contrario cessò, e le correnti si fecero tempestose, vorticando intorno a loro senza una direzione precisa. Eragon strinse i denti, ma avvertì comunque una sensazione di vuoto allo stomaco quando Saphira precipitò di una decina di piedi per poi venire sbalzata in alto di altri venti. Glaedr le chiese: Hai qualche esperienza di volo turbolento, a parte la volta che siete incappati nel temporale fra la Valle Palancar e Yazuac? No, fu la risposta secca di Saphira. Glaedr doveva aspettarsela, perché cominciò subito a istruirla sui segreti della navigazione in una tempesta. Cerca gli schemi delle correnti e osserva le formazioni intorno a te, le disse. In questo modo potrai capire dove il vento soffia più forte e in quale direzione spira. Saphira conosceva già la maggior parte di quegli espedienti, ma il vecchio drago continuava comunque a parlare, e la sua voce ebbe un effetto rassicurante sia su di lei sia su Eragon. Se avessero percepito un tono di allarme o di paura nella mente di Glaedr si sarebbero persi d’animo, e forse il vecchio drago ne era consapevole. Un brandello di nuvola strappato dal vento si parò sulla rotta di Saphira. Invece di aggirarlo, lei ci volò diritta in mezzo, bucandolo come un’azzurra lancia lucente. Una nebbia grigia li avvolse e il rumore del vento si attutì. Eragon strinse gli occhi e li riparò con una mano. Quando sfrecciarono fuori dalla nuvola, milioni di goccioline imperlavano il corpo di Saphira, che scintillava come se avesse tanti diamanti appesi alle squame già brillanti.

Il volo continuava a essere agitato: a volte Saphira riusciva a mantenere l’assetto, altre una raffica improvvisa la sballottava o le spostava un’ala facendola sbandare. E se Eragon faticava non poco per mantenersi saldo in sella, lottare contro il vento era per Saphira una battaglia estenuante, aggravata dalla consapevolezza che era ben lontana dal concludersi e che non si poteva tornare indietro. Dopo un paio d’ore di scossoni e vuoti d’aria la fine della tempesta non si vedeva ancora. Dobbiamo virare, disse Glaedr. Ti sei già spinta troppo a ovest, e se vogliamo sfidare la piena furia della tempesta meglio farlo ora che non quando sarai sfinita. Senza dire una parola, Saphira virò a nord, verso la torreggiante montagna di nuvole illuminata dal sole, nel cuore della gigantesca tempesta. Mentre si avvicinavano alla parete ondulata del cumulonembo – la cosa più grande che Eragon avesse mai visto in vita sua, persino più grande del Farthen Dûr – lampi azzurri illuminarono le morbide pieghe della nuvola mentre un fulmine risaliva verso la testa dell’incudine. Un istante dopo il fragore di un tuono squarciò l’aria ed Eragon si tappò le orecchie. Sapeva che le sue difese magiche li avrebbero protetti dai fulmini, ma lo inquietava lo stesso pensare che si stavano avvicinando tanto a quelle saette crepitanti di energia. Se Saphira aveva paura, lui non lo avvertiva. In lei non percepiva altro che determinazione. La dragonessa prese a battere le ali più veloce e qualche minuto dopo arrivò davanti alla parete della montagna di nuvole. Vi si tuffò dentro, dritto nel cuore della tempesta. Tutto divenne grigio e informe, come se il resto del mondo avesse cessato di esistere. Le fitte nuvole impedivano a Eragon di vedere al di là del muso, della coda e delle ali di Saphira. Volavano alla cieca, ed era soltanto grazie alla forza di gravità che riuscivano a distinguere l’alto dal basso. Eragon espanse la mente e lasciò che la sua coscienza vagasse il più lontano possibile, ma non percepì altre forme di vita a parte i due draghi, nemmeno un uccello ramingo. Per fortuna Saphira aveva un eccellente senso dell’orientamento: non si sarebbero persi. E continuando a cercare con la mente altri esseri viventi, piante o animali che fossero, Eragon avrebbe scongiurato un eventuale impatto con una montagna. Evocò anche un incantesimo che gli era stato insegnato da Oromis, che lo informava costantemente sulla distanza che li separava dall’acqua o dal suolo. Nel momento in cui entrarono nella nuvola l’aria si fece più umida ed Eragon si ritrovò quasi subito con i vestiti zuppi. Non sarebbe stata una gran seccatura se la combinazione di acqua e vento non lo avesse gelato fin dentro le ossa, minacciando di farlo morire assiderato. Allora formulò un altro incantesimo che filtrò l’aria intorno a lui di ogni possibile gocciolina d’acqua, e su espressa richiesta di Saphira schermò con lo stesso sortilegio gli occhi della dragonessa, perché l’umidità continuava a raccogliersi sulle cornee, costringendola a battere le palpebre senza sosta. Il vento che spirava dentro la testa dell’incudine era leggero. Eragon lo fece notare a Glaedr, ma il vecchio drago replicò, cupo come al solito: Il peggio deve ancora arrivare. Le sue parole trovarono conferma quando una feroce corrente ascensionale investì Saphira dal basso e la trascinò migliaia di piedi più in alto, dove l’aria era troppo rarefatta perché Eragon riuscisse a respirare. La nebbiolina si condensava in minutissimi cristalli di

ghiaccio che gli trafiggevano il naso e le guance come tanti aghi. E come tanti aghi trapassavano anche la membrana delle ali di Saphira. Tenendo le ali aderenti al corpo, Saphira si buttò in picchiata nel tentativo di sfuggire alla corrente. Dopo qualche secondo la pressione sotto di lei scomparve, sostituita da una forza altrettanto potente che la spingeva verso le onde a velocità impressionante. Mentre precipitavano, i cristalli di ghiaccio si sciolsero, formando un grande alone iridescente di goccioline tutto intorno a Saphira. Un fulmine saettò vicinissimo, spandendo un inquietante bagliore azzurro nella massa di nuvole, ed Eragon urlò quando esplose il tuono. Con i timpani che ancora gli ronzavano strappò due strisce di tessuto dall’orlo del mantello, le arrotolò e se le ficcò nelle orecchie. Soltanto quando fu quasi in fondo al cumulonembo Saphira riuscì a liberarsi dalla forte spinta discendente. Nello stesso momento una seconda corrente ascensionale la catturò, e come una mano gigantesca la spinse verso l’alto. A quel punto Eragon perse la cognizione del tempo. Saphira non riusciva a resistere alla violenza del vento e continuava a salire e cadere nel vortice d’aria come un relitto alla deriva dibattuto da un mulinello. Fece qualche progresso, un paio di miglia conquistate a fatica, ma ogni volta che si districava da una corrente si ritrovava intrappolata in un’altra. Fu umiliante per Eragon pensare che lui, Saphira e Glaedr erano indifesi davanti alla tempesta, e che nonostante tutti i loro poteri non avevano alcuna speranza di competere con la furia degli elementi. Per due volte il vento minacciò di scaraventare Saphira fra le onde ribollenti. In entrambe le occasioni la spinta discendente la scagliò fuori dal ventre della tempesta scaraventandola nei groppi di pioggia che martellavano lo specchio dell’acqua. La seconda volta che accadde Eragon si sporse oltre la spalla di Saphira, e per un secondo gli parve di scorgere la lunga figura scura del Nïdhwal; ma quando esplose un lampo la sagoma scomparve, e lui si disse che forse si era trattato solo di un gioco di ombre. Via via che perdeva le forze, Saphira opponeva sempre meno resistenza al vento e si lasciava trasportare dalle correnti. Si ribellava alla tempesta solo quando si avvicinava troppo all’acqua, altrimenti teneva le ali rigide per stancarsi il meno possibile. Eragon sentì che Glaedr le trasmetteva un lieve flusso di energia per aiutarla, ma bastava appena a tenerla in volo. Alla fine quel poco di luce che c’era cominciò ad affievolirsi ed Eragon si scoraggiò. Avevano trascorso buona parte della giornata sballottati dalle correnti, ma la tempesta non dava ancora segno di placarsi, e non si poteva nemmeno dire quante miglia mancavano per uscirne. Quando il sole tramontò Eragon non riusciva più a vedersi la punta del naso, e non faceva differenza se teneva gli occhi aperti o chiusi. Era come se li avesse avvolti un’enorme, pesante matassa di lana nera: la tenebra sembrava avere davvero una consistenza fisica, e li schiacciava con il suo peso. Ogni due o tre secondi un lampo squarciava l’oscurità, a volte da dietro una nuvola, altre no, e in quei momenti aveva l’ardente bagliore di dieci soli. Dopo lo splendore abbagliante delle scariche a minore distanza la notte sembrava due volte più nera, ed Eragon e Saphira alternavano fasi in cui erano accecati dai lampi ad altre in cui a renderli ciechi era il buio.

Per quanto vicini, i fulmini non colpirono mai Saphira, ma il costante fragore dei tuoni faceva scoppiare la testa. Per quanto tempo ancora avrebbero proseguito volando in quel pandemonio? Eragon non lo sapeva. D’un tratto però Saphira entrò in una corrente ascensionale molto più estesa e violenta delle precedenti. Cominciò subito a lottare per sfuggirle, ma il vento era così forte che riusciva a stento a tenere ferme le ali. Al colmo della frustrazione, la dragonessa ruggì e sputò una vampa di fuoco, illuminando i cristalli di ghiaccio che brillarono come pietre preziose. Aiutatemi, disse a Eragon e a Glaedr. Da sola non ce la faccio. I due fusero le loro menti e con Glaedr che forniva l’energia necessaria Eragon gridò: «Gánga fram!» L’incantesimo spinse Saphira in avanti, ma sempre lentamente, perché muoversi nella giusta direzione controvento era come nuotare nel fiume Anora con la piena del disgelo primaverile. Anche se Saphira procedeva in assetto orizzontale, la corrente continuava a spingerla velocissima verso l’alto. Ben presto Eragon si ritrovò senza fiato: purtroppo erano ancora al centro del torrente d’aria. Ci stiamo mettendo troppo e stiamo sprecando troppa energia, disse Glaedr. Spezza l’incantesimo. Ma... Spezzalo. Perderete i sensi tutti e due prima che riusciamo a liberarci. Dovremo cavalcare il vento finché non calerà e Saphira potrà sfuggirgli. E come?, domandò la dragonessa, mentre Eragon obbediva a Glaedr. La stanchezza e il senso di sconfitta che le annebbiavano la mente fecero preoccupare il Cavaliere. Eragon, tu devi espandere l’incantesimo che ti riscalda fino a includere anche me e Saphira. Farà freddo, molto più freddo che nel peggiore degli inverni della Grande Dorsale, e senza magia moriremo congelati. Anche tu? Mi frantumerei come un pezzo di vetro bollente tuffato nella neve. Poi dovrai evocare un sortilegio per creare una bolla d’aria intorno a te e Saphira, così potrete respirare. Ma devi anche permettere un ricambio, altrimenti l’aria stagnante vi soffocherà. Non sarà facile pronunciare correttamente questa formula, e non devi commettere errori, perciò ascoltami bene. Per prima cosa... Glaedr recitò nell’antica lingua tutte le frasi necessarie, ed Eragon le ripeté finché il drago non fu soddisfatto. A quel punto il Cavaliere fu in grado di enunciarlo. Poi alterò l’incantesimo di riscaldamento come Glaedr gli aveva chiesto, per proteggere tutti e tre dal freddo. Infine aspettarono, mentre la corrente li portava sempre più in alto. Con il passare dei minuti Eragon cominciò a domandarsi se si sarebbero mai fermati, o se avrebbero continuato a sfrecciare verso la luna e le stelle. E un istante dopo pensò che forse era proprio così che nascono le comete: un vento inesorabile risucchia un uccello, un drago o un’altra creatura della terra e li scaglia verso il cielo a una velocità tale da far prendere loro fuoco, come una freccia incendiaria. Se era così, allora lui, Saphira e Glaedr sarebbero stati la più brillante e spettacolare cometa a

memoria d’uomo, sempre ammesso che ci fosse qualcuno ad assistere alla loro fine, lontani dalla costa com’erano. Il ruggito del vento scemò; persino il terribile rimbombo dei tuoni si spense, e quando Eragon si tolse i tappi di stoffa dalle orecchie fu sorpreso dal silenzio irreale che li circondava. Udiva ancora un fievole sussurro in lontananza, come il mormorio di un ruscello di montagna, ma a parte questo regnava una quiete assoluta. Eragon notò anche che lo sforzo imposto dalla magia – non tanto quella per impedire al calore di dissiparsi dal corpo quanto quella che li racchiudeva in una bolla d’aria per respirare – cominciava a sfibrarlo. Per chissà quale motivo ci voleva molta più energia per mantenere il secondo incantesimo che non il primo. Ben presto cominciò ad avvertire i sintomi dell’esaurimento della forza vitale: mani gelate, pulsazioni irregolari e un generale senso di letargia, che forse era il peggiore di tutti. Allora Glaedr gli venne subito in aiuto. Con enorme sollievo Eragon accolse il flusso di energia del drago, un calore febbrile che dissipò il suo torpore e gli ridonò vigore. E andarono avanti. Saphira si accorse che il vento s’indeboliva – non di molto, questo no, ma il cambiamento era pur sempre evidente – e si preparò ad allontanarsi dalla corrente d’aria. Prima ancora che ci potesse provare, però, le nuvole intorno a loro si diradarono ed Eragon scorse alcuni puntini scintillanti: erano stelle, bianche e lucenti come non le aveva mai viste. Guarda, disse. Poi, come d’incanto, le nuvole si aprirono e Saphira volò fuori dalla perturbazione restando in bilico sulla colonna di vento. Sotto di loro la tempesta si estendeva in tutta la sua terribile magnificenza per un raggio di oltre cento miglia. Il centro somigliava al cappello di un fungo, spianato dai venti vorticosi che soffiavano da ovest a est minacciando di rovesciare Saphira dal suo precario equilibrio. Sia le nuvole più vicine sia quelle lontane erano lattiginose ed emanavano un tenue chiarore, come se fossero illuminate dall’interno. Avevano un aspetto placido, che non lasciava trapelare nulla della violenza che si scatenava nel loro cuore. Poi Eragon guardò il cielo e rimase esterrefatto: c’erano più stelle di quante pensava ne esistessero. Rosse, blu, bianche, dorate, punteggiavano il firmamento come manciate di polvere scintillante. Ritrovò le costellazioni che conosceva, ma erano incorniciate da migliaia di altre stelle più fievoli che non aveva mai visto. E non solo gli astri sembravano più luminosi, ma lo spazio tra loro pareva ancora più buio. Era come se tutte le volte che aveva contemplato il cielo dalla terra un velo di nebbia gli avesse impedito di percepire la vera gloria delle stelle. Rimase rapito da quello spettacolo per lunghi minuti, ammaliato dalla natura imperscrutabile di quelle luci pulsanti. Solo quando riabbassò lo sguardo si accorse che c’era qualcosa di insolito sull’orizzonte violetto. Invece della linea che congiungeva il cielo e il mare c’era una curvatura, come il bordo di una circonferenza dal raggio sconfinato. Era uno spettacolo così insolito che Eragon impiegò qualche secondo per capire che cosa stava osservando. Ma quando comprese il significato di quella curvatura rimase senza fiato per l’enormità della rivelazione. «La terra è rotonda» mormorò. «Il cielo è vuoto e la terra è rotonda.»

Così sembra, commentò Glaedr, asciutto, anche se si capiva che era rimasto altrettanto colpito. Ne avevo sentito parlare da un drago selvatico, ma non avrei mai pensato di vederlo con i miei occhi. A est un tenue bagliore dorato all’orizzonte annunciava il ritorno del sole. Eragon pensò che se Saphira fosse riuscita a rimanere in bilico sulla colonna d’aria ancora per un po’, l’avrebbero visto sorgere, anche se ci sarebbero volute parecchie ore prima che i caldi, benefici raggi accarezzassero la superficie del mare. I tre rimasero ancora sospesi a metà fra stelle e terra, galleggiando nel silenzio e nell’oscurità come spiriti disincarnati. Si trovavano in un non-luogo, e non facevano parte né degli spazi celestiali né del mondo terreno: erano un granellino di polvere che fluttuava sul confine fra quelle due immensità. Poi Saphira si gettò in avanti e si spinse verso nord, metà volando metà cadendo, perché lassù l’aria era così rarefatta che le sue ali non riuscivano a sostenerne il peso dopo essere uscita dalla corrente ascensionale. Eragon disse: Se avessimo abbastanza gemme da riempire di energia, credi che potremmo volare fino alla luna? Tutto è possibile, rispose Glaedr. Quando Eragon era bambino, Carvahall e la Valle Palancar erano tutto il suo universo. Aveva sentito parlare dell’Impero, ovviamente, ma non gli era mai sembrato reale finché non aveva iniziato a viaggiare. In seguito la sua immagine mentale della terra si era ampliata fino a includere l’intera Alagaësia, e, anche se in modo vago, altri Paesi di cui aveva letto. Ma adesso si rendeva conto che quel mondo che lui aveva creduto immenso in realtà era solo una piccolissima parte di una dimensione molto più vasta. Era come se nel giro di pochi secondi il suo punto di vista fosse passato da quello di una formica a quello di un’aquila. Perché il cielo era vuoto e la terra rotonda. Quella scoperta lo portò a riconsiderare tutto quello che stava vivendo con un altro metro. Rispetto all’effettiva vastità dell’universo, la guerra fra i Varden e l’Impero sembrava una cosa insignificante, ma viste dall’alto anche le sofferenze e le preoccupazioni che tormentavano la gente parevano contare ben poco. Disse a Saphira: Se solo gli altri potessero vedere quello che abbiamo visto noi, forse ci sarebbero meno conflitti nel mondo. Non puoi aspettarti che i lupi si trasformino in agnelli. No, ma non è giusto nemmeno che i lupi siano crudeli con gli agnelli. Saphira ripiombò ben presto nel grigiore delle nuvole, ma riuscì a evitare di incappare in un altro ciclo di turbolenze. Planò per parecchie miglia sfruttando le correnti ascensionali intrappolate nella tempesta per conservare le energie. Un paio d’ore dopo la nebbia si dissolse e volarono fuori dall’enorme montagna di nuvole al centro della tempesta. Discesero lungo i suoi fianchi fino alle morbide collinette ai suoi piedi, che a poco a poco sfumarono in una soffice distesa bianca che copriva ogni cosa, tranne la torreggiante formazione a incudine.

Quando alla fine il sole fece capolino all’orizzonte, Eragon e Saphira non avevano nemmeno più la forza di guardarsi intorno: non che nel candido piatto paesaggio ci fosse qualcosa degno di attenzione. Fu Glaedr che a un certo punto disse: Saphira, alla tua destra. Le vedi? Eragon, che aveva il capo sepolto tra le braccia, levò lo sguardo, strizzando gli occhi per abituarsi al cambiamento di luce. Qualche miglio di distanza più a nord una catena di montagne emergeva dal letto di nubi. Le vette erano bianche di neve e ghiaccio, e sembravano un’antica corona adagiata sugli strati di nebbia. Le pendici esposte a est brillavano sotto i raggi del sole, ma ombre scure ne ammantavano i fianchi esposti a ovest, fino a coprire parte delle nuvole; contro quella candida distesa somigliavano a pugnali minacciosi. Eragon si rimise diritto; non riusciva a credere che il viaggio stesse per terminare. Guardate, annunciò Glaedr. Aras Thelduin, le montagne di fuoco a guardia del cuore di Vroengard. Vola in fretta, Saphira, perché abbiamo ancora un bel po’ di strada da fare. [eBookLove - eBL 043] Christopher Paolini - Inheritance [by Pico]

FRA LE ROVINE Le dense nuvole grigie si divisero, e dal dorso di Saphira Eragon ammirò l’entroterra dell’isola di Vroengard. Davanti a loro si estendeva un’enorme vallata circolare, orlata dalle montagne scoscese che avevano visto spuntare dal banco di nubi. Una fitta foresta di pini, abeti e pecci ricopriva i fianchi delle montagne e le colline più basse, come un esercito di picchieri che scendesse dalle vette. Gli alberi erano alti e lugubri, e anche da così lontano Eragon riusciva a scorgere i festoni di muschi e licheni che pendevano dai rami. Bianchi brandelli di nebbia fluttuavano sulle pendici dei monti e a tratti la vallata era bagnata da rade cortine di pioggia scaricata dal soffitto di nubi. Sopra il fondovalle Eragon intravvide una serie di strutture di pietra fra gli alberi: grotte seminascoste da massi caduti e coperte di vegetazione; scheletri di torri bruciate; grandi palazzi dai tetti crollati; e un paio di piccoli edifici che sembravano ancora abitabili. Una decina di fiumi scorrevano dalle montagne solcando la terra verdeggiante fino a confluire in un grande lago al centro della valle. Intorno al lago sorgevano i resti della capitale dei Cavalieri dei Draghi, Doru Araeba. Le vuote costruzioni erano immense, così grandi da poter contenere tutta Carvahall. Ogni portone somigliava alla bocca spalancata di una vasta, inesplorata caverna; ogni finestra era alta e larga quanto il cancello di un castello; ogni muro torreggiava come una ripida scogliera. Folti arazzi di edera tappezzavano i blocchi di pietra, e dove non c’era l’edera c’era il muschio: gli edifici sembravano parte integrante del paesaggio naturale, quasi fossero cresciuti dalla terra. Le poche pietre nude che si scorgevano erano di un ocra pallido; qua e là spuntavano chiazze rosse, marroni e azzurro polvere. Come ogni altra struttura costruita dagli elfi, i palazzi avevano linee aggraziate, fluide, meno spigolose di quelle dei nani o degli umani, ma al tempo stesso emanavano una sensazione di solidità e autorevolezza che mancava alle dimore arboricole di Ellesméra. In alcuni Eragon colse somiglianze con le case della Valle Palancar e rammentò che i primi Cavalieri dei Draghi umani erano originari proprio di quella regione di Alagaësia. Il risultato era uno stile architettonico unico nel suo genere, né del tutto elfico, né del tutto umano. Fra gli edifici danneggiati, alcuni sembravano in condizioni peggiori di altri. I segni della devastazione si irradiavano verso l’esterno da un punto preciso ai margini meridionali della città, dove si apriva un ampio cratere profondo almeno trenta piedi. Nella depressione aveva messo radici un boschetto di betulle, e le raffiche di vento agitavano le foglie d’argento. Gli spiazzi all’interno della città erano infestati da erbacce e cespugli; una frangia d’erba orlava ogni singola pietra delle strade lastricate. Nei punti in cui le costruzioni avevano protetto i giardini dei Cavalieri dall’esplosione che aveva raso al suolo la città c’erano ancora aiuole fiorite. I colori erano spenti, ma disegnavano tuttora una composizione perfetta, senza dubbio frutto di qualche incantesimo ormai dimenticato. Nell’insieme la tonda vallata offriva uno spettacolo desolante.

Ammirate le rovine del nostro orgoglio e della nostra gloria, disse Glaedr; poi aggiunse: Eragon, devi evocare un altro sortilegio. La formula è... E pronunciò diverse parole nell’antica lingua. L’incantesimo era strano, le frasi oscure e involute, ed Eragon non riuscì a capire a che cosa servisse. Quando lo chiese a Glaedr, il vecchio drago rispose: C’è un veleno invisibile che inquina l’aria che respirate, il terreno su cui camminerete, il cibo che potreste mangiare e l’acqua che potreste bere. L’incantesimo ci proteggerà. Quale... veleno?, domandò Saphira. Era così esausta che i suoi pensieri erano rallentati come il battito delle sue ali. Glaedr trasmise a Eragon un’immagine del cratere ai margini della città e spiegò: Durante la battaglia con i Rinnegati, uno dei nostri, un elfo di nome Thuviel, si uccise facendo ricorso alla magia. Non siamo mai riusciti a stabilire se l’abbia fatto intenzionalmente o se si sia trattato di un incidente, ma il risultato è ciò che vedete e anche ciò che non potete vedere, perché l’esplosione rese il luogo inadatto alla vita. Coloro che rimasero qui videro comparire lesioni alla pelle, persero i capelli e molti morirono subito dopo. Preoccupato, Eragon lanciò l’incantesimo, che non gli richiese molta energia, poi domandò: Come può una sola persona, elfo o no, causare tanti danni? Anche ammesso che Thuviel sia stato aiutato dal suo drago, non riesco a immaginare come sia potuta accadere una cosa del genere, a meno che il drago non fosse grande quanto una montagna. Il suo drago non lo aiutò, replicò Glaedr. Il drago era morto. No, Thuviel fece tutto da solo. Ma come? Nell’unica maniera possibile: trasformò la sua carne in energia. Si trasformò in uno spirito? No. L’energia era priva di struttura, senza logica, e una volta liberata si espanse fino a esaurirsi. Non sapevo che un solo corpo potesse contenere tanta forza. È una questione ancora oscura per certi aspetti, ma si sa che anche la più piccola particella di materia corrisponde a una grande quantità di energia. La materia, a quanto pare, è come energia congelata. Se la fondi, liberi un flusso cui pochi sono in grado di resistere. Si dice che l’esplosione fu udita fino a Teirm e che la nuvola di fumo che sprigionò era alta quanto i Monti Beor. Fu quell’esplosione a uccidere Glaerun?, chiese Eragon. Glaerun era un membro dei Rinnegati, e a quanto gli avevano detto era morto a Vroengard. Sì. Galbatorix e il resto dei Rinnegati ebbero qualche istante di preavviso e riuscirono a schermarsi, ma molti di noi non furono altrettanto fortunati e morirono. Quando Saphira calò al si sotto della cappa di nuvole sfilacciate, Glaedr le disse di spingersi verso la parte nordoccidentale della valle, e lei virò. Mentre sorvolavano le montagne, il drago dorato ne elencò i nomi: Ilthiaros, Fellsverd e Nammenmast, e ancora Huildrim e Tírnadrim. Menzionò anche alcune delle roccaforti e delle torri crollate, raccontandone la storia a Eragon e Saphira, ma soltanto il Cavaliere gli prestava attenzione. Eragon percepì un antico cordoglio risvegliato nella coscienza di Glaedr. Ad addolorarlo non era tanto la distruzione di Doru Araeba quanto la morte dei Cavalieri, la pressoché totale estinzione dei draghi e la perdita di migliaia di anni di conoscenze e di sapienza. Il ricordo di ciò che era stato, della compagnia che un tempo aveva condiviso con gli altri

membri dell’ordine esacerbava la sua solitudine, che sommata alla pena gettava il vecchio drago in una tale infelicità che anche Eragon fu pervaso da una profonda tristezza. Si ritrasse dalla coscienza di Glaedr, ma la valle continuava a essere malinconica e struggente, come se la terra stessa piangesse la caduta dei Cavalieri dei Draghi. Più Saphira si abbassava, più gli edifici apparivano enormi. Eragon si rese conto che quello che aveva letto nel Domia abr Wyrda non era un’esagerazione: i palazzi più imponenti erano così grandi che Saphira avrebbe potuto volarci dentro. Ai margini della città abbandonata cominciò a notare cumuli di gigantesche ossa sbiancate: gli scheletri dei draghi. Nonostante la repulsione, Eragon non riusciva a distogliere lo sguardo. La cosa più impressionante erano le dimensioni. Un paio di draghi dovevano essere stati più piccoli di Saphira, ma gli altri scheletri erano molto più grandi. Ce n’era uno in particolare le cui costole erano lunghe almeno ottanta piedi e larghe forse quindici. Il solo teschio – enorme, spaventoso, coperto da chiazze di licheni come un ruvido masso – era più lungo e più alto del busto di Saphira. Perfino Glaedr, quando era ancora in carne e ossa, sarebbe sembrato piccolo in confronto a quei resti. Lì giace Belgabad, il più grande di tutti noi, disse Glaedr notando l’oggetto delle attenzioni di Eragon. Il Cavaliere ricordava vagamente quel nome; l’aveva incontrato in una delle storie che aveva letto a Ellesméra. L’autore aveva scritto soltanto che Belgabad aveva partecipato a quella battaglia nella quale, come tanti altri suoi simili, aveva perso la vita. Chi era il suo Cavaliere?, domandò. Nessuno. Era un drago selvatico. Era vissuto per secoli nelle regioni ghiacciate del nord, ma quando Galbatorix e i Rinnegati cominciarono a massacrarci lui volò in nostro aiuto. C’è mai stato un drago più grande di lui? Nella storia del mondo probabilmente sì, ma all’epoca no. Come faceva a trovare il cibo che gli serviva? I draghi di quell’età e di quelle dimensioni passano la maggior parte del tempo in uno stato di trance in cui sognano qualunque cosa catturi la loro fantasia, sia lo spostamento delle costellazioni o l’innalzamento e l’abbassamento delle montagne nel corso degli eoni. Ma capita anche che la loro immaginazione venga rapita da qualcosa di infinitesimale, come il battito delle ali di una farfalla. Io già avverto il fascino di quel riposo, ma devo restare sveglio e ce la farò. Hai... c-c-conosciuto... Belgabad?, balbettò Saphira, sempre più affaticata. L’ho incontrato, ma non posso dire di averlo conosciuto. Di norma i draghi selvatici non frequentavano quelli di noi che si erano legati ai Cavalieri. Ci guardavano dall’alto in basso perché ci consideravano troppo docili e remissivi, mentre noi giudicavamo loro troppo inclini a seguire i loro istinti, anche se a volte li ammiravamo per questo. Devi ricordare che non avevano un linguaggio proprio, e questo ci rendeva più diversi di quanto immagini. Il linguaggio altera la mente in un modo troppo complicato da spiegare. I draghi selvatici potevano comunicare con la stessa facilità degli elfi o dei nani, solo che lo facevano condividendo ricordi, immagini e sensazioni, non parole. Soltanto i più intelligenti di loro scelsero di imparare questa o un’altra lingua. Glaedr fece una breve pausa, poi aggiunse: Se non mi sbaglio, Belgabad era un lontano antenato di Raugmar il Nero, e Raugmar... sono sicuro che te lo ricordi, Saphira... era il bis-bisbisnonno di tua madre, Vervada.

Saphira era così esausta che non reagì subito, ma alla fine voltò la testa e guardò di nuovo il grande scheletro. Doveva essere un bravo cacciatore per essere cresciuto così tanto. Era il migliore, concordò Glaedr. Allora... sono fiera di avere il suo stesso sangue. La quantità di ossa disseminate sul terreno era sbalorditiva. Fino ad allora Eragon non aveva mai compreso fino in fondo le dimensioni epocali della battaglia, né sapeva con precisione quanti draghi erano esistiti un tempo. Si sentì travolgere da una nuova ondata d’odio per Galbatorix e giurò ancora una volta che lo avrebbe ucciso. Saphira attraversò un banco di nebbia. All’improvviso le si aprì davanti un campo d’erba incolta e lei atterrò con un sobbalzo. La zampa destra anteriore cedette e la dragonessa franò sulla spalla, arando il terreno con una tale violenza che Eragon sarebbe rimasto impalato sulla punta cervicale, non fosse stato per le difese magiche. Quando alla fine si fermò, Saphira giacque immobile, frastornata dall’impatto. Poi si rialzò adagio, richiuse le ali e si accovacciò. Muovendosi fece scricchiolare le cinghie della sella: nell’atmosfera ovattata che permeava l’entroterra dell’isola quel rumore parve innaturalmente forte. Eragon si liberò delle staffe e balzò giù, affondando nel terreno molle, zuppo di pioggia. «Ce l’abbiamo fatta!» esclamò, quasi incredulo. Si avvicinò a Saphira, le accarezzò la lunga testa e le posò la fronte sul muso. Grazie, disse, e lei chiuse gli occhi e iniziò a mugolare piano. Dopo un momento Eragon si guardò intorno. Il campo dove erano atterrati sorgeva alla periferia nord della città. L’erba era disseminata di blocchi di pietra, alcuni grandi quanto Saphira, e il Cavaliere si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo pensando che per fortuna la dragonessa non ci era finita contro. Il prato risaliva dolcemente verso la collina ai piedi della montagna più vicina, coperta di foreste. Dove il prato e la collina si incontravano c’era una grande piazza lastricata; sul fondo un imponente cumulo di pietre squadrate proseguiva verso nord di oltre mezzo miglio. Prima di essere abbattuto, l’edificio doveva essere stato uno dei più grandi dell’isola e certo uno dei più decorati, perché fra i blocchi di pietra che un tempo formavano le pareti c’erano decine di colonne affusolate e pannelli con intarsi raffiguranti fiori e rampicanti; si riusciva ancora a intravvedere una serie di statue, alla maggior parte delle quali mancava un pezzo di corpo, come se anche loro avessero partecipato alla battaglia. Lì c’è la Grande Biblioteca, li informò Glaedr. O almeno quel che ne è rimasto dopo che Galbatorix l’ha saccheggiata. Eragon studiò con attenzione la zona. A sud dell’edificio scorse sotto radi ciuffi d’erba le tracce di sentieri abbandonati. Le piste conducevano a un fitto boschetto di meli, dietro il quale svettava un pilastro di roccia alto più di duecento piedi, su cui erano cresciuti rami contorti. Eragon si sentì animare da una scintilla di eccitazione. Ne era certo, ma domandò lo stesso: È quella? È la Rocca di Kuthian? Sentì che Glaedr guardava la formazione rocciosa attraverso i suoi occhi, poi il drago disse: Mi sembra stranamente familiare, ma non riesco a ricordare quando posso averla vista...

A Eragon non servivano altre conferme. «Andiamo!» esclamò, e si incamminò fra l’erba alta fino alla cintola verso il sentiero più vicino. Lì le erbacce erano meno fitte, e il fondo non era più terreno molle ma lastricato di pietre. Con Saphira che lo seguiva a ruota, corse lungo il sentiero e insieme attraversarono le ombre del meleto. Rallentarono, attenti a dove mettevano i piedi, perché gli alberi sembravano vigili sentinelle e la forma dei loro rami aveva un che di sinistro, come artigli pronti a ghermirli. Senza volerlo, Eragon trasse un sospiro di sollievo quando furono usciti dal boschetto. La Rocca di Kuthian si ergeva ai margini di un’ampia radura dove cresceva un fitto groviglio di rose, cardi, lamponi e cicuta acquatica. Alle spalle del pilastro di roccia c’era una foresta di abeti frondosi che risaliva fino alla montagna torreggiante sullo sfondo. Dalle viscere della foresta provenivano gli squittii irritati degli scoiattoli, ma degli animali in carne e ossa nemmeno l’ombra. Intorno alla radura erano disposte a intervalli regolari tre panche di pietra, semisepolte dall’intrico di radici, piante e rampicanti. Da un lato c’era un grande salice; un tempo i rami discendenti dovevano aver formato una sorta di nicchia dove probabilmente i Cavalieri si sedevano ad ammirare il panorama; negli ultimi cent’anni però il tronco principale era cresciuto troppo perché tra esso e i rami cascanti potesse insinuarsi un uomo, un elfo o perfino un nano. Eragon si fermò ai margini della radura per contemplare la Rocca di Kuthian. Arrivò anche Saphira, affannata, e si lasciò cadere al suo fianco, facendo tremare il terreno. Eragon mantenne a stento l’equilibrio. Le accarezzò una spalla, poi si voltò di nuovo verso la torre di roccia: non vedeva l’ora di arrivarci. Eragon dilatò la mente e setacciò la zona circostante per capire se vi fosse nascosto qualcuno in agguato. Le uniche creature viventi che sentì erano le piante, gli insetti, le talpe, i topi e i serpenti che vivevano fra gli arbusti. Poi prese a formulare l’incantesimo che gli avrebbe permesso di rilevare eventuali trappole magiche, ma aveva pronunciato appena un paio di parole quando Glaedr disse: Fermati. Tu e Saphira siete troppo stanchi, adesso. Prima dovete riposare; domani torneremo e vedremo cosa c’è da scoprire. Ma... Non siete in condizioni di difendervi se veniste attaccati. Qualunque cosa ci sia da scoprire, sarà qui anche domattina. Eragon esitò, poi a malincuore non terminò l’incantesimo. Sapeva che Glaedr aveva ragione, ma non sopportava di dover aspettare quando la meta del loro viaggio era così vicina. D’accordo, disse, e salì in groppa a Saphira. Sbuffando esausta, la dragonessa si alzò e si girò lentamente, arrancando di nuovo attraverso il boschetto di meli. L’impatto delle sue zampe sul terreno fece cadere qualche foglia secca dagli alberi; una atterrò sulle gambe di Eragon. Il Cavaliere la raccolse e stava per gettarla via quando notò che era diversa da una comune foglia di melo: i denti del bordo seghettato erano più lunghi e distanziati, e le venature seguivano un disegno casuale invece del consueto schema simmetrico.

Prese un’altra foglia, stavolta verde. Come la sua cugina avvizzita, anche questa presentava le stesse anomalie. Dopo la battaglia le cose non sono più state come prima, commentò Glaedr. Eragon aggrottò le sopracciglia e gettò via le foglie. Sentì di nuovo il chiacchiericcio degli scoiattoli, e ancora una volta non riuscì a vederli né a percepirli con la mente, cosa che lo turbò. Se avessi le squame questo posto me le farebbe prudere, confessò a Saphira. La dragonessa sbuffò divertita e una nuvoletta di fumo le risalì lungo il muso. Proseguirono verso sud finché non incontrarono uno dei molti corsi d’acqua che scendevano dalle montagne: un ruscello trasparente che gorgogliava allegro nel suo letto di ciottoli. Saphira risalì il torrente fino a un declivio erboso all’ombra della foresta di conifere. Qui, annunciò, e si accasciò. Sembrava un buon posto per accamparsi e comunque Saphira non era in condizione di cercare qualcosa di meglio, così Eragon annuì e smontò dalla sua groppa. Si concesse una breve pausa per ammirare il panorama, poi slegò sella e bisacce dal dorso di Saphira. La dragonessa scrollò la testa e si sgranchì le spalle, poi, piegando il collo, si mordicchiò un punto in cui le cinghie erano affondate nel petto. Terminata l’operazione si rannicchiò sull’erba, infilò la testa sotto un’ala e si avvolse la coda intorno al corpo. Non svegliarmi, a meno che qualcosa non cerchi di mangiarci, disse. Eragon sorrise e le diede una pacca sulla coda, poi si voltò a guardare di nuovo la valle. Rimase a lungo così, a godersi la sensazione di serenità che gli regalava il pensiero di essere vivo e di poter osservare il mondo senza dover per forza trovare un significato. Alla fine prese il rotolo di coperte e lo distese di fianco a Saphira. Faresti la guardia per noi?, chiese a Glaedr. Certo. Riposa e non preoccuparti. Eragon annuì, anche se il drago non poteva vederlo, poi si sdraiò sulle coperte e si abbandonò ai suoi sogni vigili.

I BRUCOTARLI La catturarono all’incrocio fra due corridoi identici, entrambi fiancheggiati da pilastri, fiaccole e stendardi scarlatti con la fiamma d’oro guizzante, l’emblema di Galbatorix. In cuor suo Nasuada sapeva che non sarebbe riuscita a evadere, eppure non poteva fare a meno di sentirsi delusa per aver fallito. Se non altro aveva sperato di arrivare più lontano prima di essere riacciuffata. Lottò per tutto il tragitto di ritorno alla prigione. Gli uomini che la trascinavano avevano il petto e le braccia protetti da placche di metallo, e così lei si concentrò sui volti e sulle mani: graffiando e mordendo riuscì a procurare loro ferite anche gravi. I soldati esclamarono sgomenti quando entrarono nella Stanza dell’Oracolo e videro che cosa aveva fatto al suo carceriere. Attenti a non calpestare la pozza di sangue, la riportarono sulla lastra di pietra, la legarono con le manette e corsero via, lasciandola sola con il cadavere. Lei gridò alla stanza vuota e strattonò i legacci, infuriata con se stessa per non aver saputo fare di meglio. Ancora schiumante di collera, scoccò un’occhiata al corpo riverso sul pavimento, poi voltò in fretta il capo dall’altra parte: il cadavere pareva fissarla con uno sguardo accusatorio che lei non riusciva a sostenere. Dopo aver rubato il cucchiaio aveva passato ore a limarne il manico sulla lastra di pietra. Era fatto di metallo morbido e quindi facile da modellare. Si aspettava una nuova visita di Galbatorix e Murtagh, ma il primo a entrare nella stanza era stato invece il carceriere, con quella che presumibilmente era la cena. L’uomo aveva iniziato a slacciarle le manette per portarla nella piccola latrina, ma appena le aveva liberato la mano sinistra lei gli aveva conficcato sotto il mento il manico appuntito del cucchiaio, affondandolo nelle pieghe di grasso. L’uomo aveva urlato, un orribile verso stridulo che ricordava quello di un maiale scannato, e aveva girato su se stesso tre volte, facendo mulinare le braccia. Un attimo dopo era stramazzato al suolo, dove aveva continuato a schiumare sangue dalla bocca e a dibattersi in preda alle convulsioni per quella che era parsa un’eternità. Ucciderlo l’aveva turbata. Non sembrava cattivo – malgrado lei non avesse capito chi o cosa fosse realmente –, ma la sua semplicioneria le dava la sensazione di essersi approfittata di lui. D’altro canto aveva fatto ciò che era necessario, e per quanto il pensiero fosse sgradevole rimaneva convinta che le sue azioni fossero giustificate. Mentre l’uomo si contorceva tra gli spasimi dell’agonia lei si era liberata degli ultimi legacci ed era saltata giù dalla pietra. Poi, facendosi coraggio, aveva estratto il cucchiaio dalla gola dell’uomo, e la ferita le aveva spruzzato un fiotto di sangue sulle gambe, come vino schizzato da un barile a cui venga tolto il tappo. Nasuada aveva fatto un balzo indietro soffocando un’imprecazione. Era stato facile sbarazzarsi dei due uomini di guardia alla porta della Stanza dell’Oracolo. Li aveva colti di sorpresa, uccidendone uno con la stessa mossa usata con il carceriere. Quindi aveva strappato il pugnale che l’uomo teneva alla cintura e si era avventata sull’altro, che brandiva maldestro la sua picca. In un combattimento corpo a corpo il

pugnale era decisamente meglio della picca, e lei lo aveva ammazzato prima che avesse l’occasione di fuggire o dare l’allarme. Non era andata molto più lontano. Se a far fallire la sua fuga fossero stati gli incantesimi di Galbatorix o la semplice sfortuna non sapeva dirlo: comunque fosse, era finita in un gruppo di cinque soldati che non ci avevano messo molto a catturarla, anche se lei non si era certo arresa senza combattere. Non poteva essere passata più di mezz’ora quando udì i passi pesanti di un folto gruppo di uomini marciare verso la porta. Galbatorix piombò nella stanza, seguito da numerose guardie. Come al solito si fermò ai margini del suo campo visivo: una sagoma alta e scura dal profilo spigoloso. Lo vide volgere lentamente il capo per studiare la scena; poi in tono glaciale il re domandò: «Com’è successo?» Un soldato col pennacchio sull’elmo si affrettò a raggiungere Galbatorix, s’inginocchiò e gli porse il cucchiaio appuntito. «Sire, abbiamo trovato questo conficcato nel collo di uno dei soldati a guardia della porta.» Il re prese il cucchiaio e lo rigirò fra le mani. «Capisco.» Si voltò di scatto verso di lei, e tenendo il cucchiaio per le estremità lo piegò fino a spezzarlo, senza il minimo sforzo. «Sapevi di non poter fuggire eppure ti sei ostinata a provarci. Non ti permetterò di uccidere i miei uomini solo per spregio verso di me. Non avevi il diritto di togliere loro la vita. Tu non hai il diritto di fare niente se non te lo dico io.» Scagliò i pezzi di metallo sul pavimento. Poi si voltò e uscì dalla Stanza dell’Oracolo, con il mantello che gli svolazzava alle spalle. Due soldati portarono via il cadavere del carceriere, poi lavarono il sangue dal pavimento, imprecando a mezza voce mentre strofinavano. Quando alla fine Nasuada si ritrovò di nuovo sola si lasciò sfuggire un sospiro, allentando la tensione che la attanagliava. Scomparsa l’adrenalina della fuga scoprì di avere fame. Sospettava però che avrebbe dovuto aspettare ore prima di poter mangiare, sempre ammesso che Galbatorix non decidesse di punirla privandola del cibo. Stava fantasticando su pane, carne arrosto e calici di vino quando udì dei passi pesanti nel corridoio fuori dalla cella. Cercò di prepararsi mentalmente a ciò che stava per accaderle, presagendo che sarebbe stato terribile. La porta si spalancò e due serie di passi echeggiarono nella stanza ottagonale. Murtagh e Galbatorix entrarono nel suo campo visivo. Murtagh prese il suo solito posto, solo che in assenza del braciere si limitò a incrociare le braccia, appoggiarsi alla parete e fissare il pavimento. La maschera d’argento gli nascondeva quasi tutto il viso, ma quel poco che si riusciva a intravvedere non lasciava certo ben sperare: le rughe sul volto sembravano più profonde e la bocca era atteggiata in una smorfia che le fece venire un brivido di paura. Invece di sedersi alla sua destra come faceva abitualmente, Galbatorix si mise alle sue spalle, dove lei non poteva vederlo. Il re tese le braccia sopra di lei. Con le dita adunche reggeva un cofanetto decorato da intagli di corno; lei pensò che potevano essere glifi dell’antica lingua. La cosa più

sconcertante era però lo scri-scri che si sentiva provenire dall’interno della scatola, un rumore leggero come lo zampettare di un topo, ma non per questo meno distinto. Galbatorix aprì il coperchio scorrevole della scatola. Infilò dentro due dita e ne estrasse quella che sembrava una grossa larva color avorio. La creatura era lunga tre pollici, con una piccola bocca a un’estremità: era con quella che emetteva il suo strano scri-scri, forse per esprimere il suo disagio. Era grassa e grinzosa come un bruco, ma se aveva le zampe dovevano essere così piccole da risultare invisibili. Mentre la creatura si contorceva nel vano tentativo di liberarsi dalle dita di Galbatorix, il re disse: «Questo è un brucotarlo. Non è quel che sembra. In effetti ben poche cose lo sono, ma mai come nel caso del brucotarlo questa affermazione calza a pennello. Si trovano soltanto in una zona particolare di Alagaësia e sono molto più difficili da catturare di quanto pensi. Quindi prendi come un segno di rispetto, Nasuada figlia di Ajihad, il fatto che mi degni di usarne uno per te.» La sua voce si abbassò, facendosi ancor più lugubre. «Anche se io non vorrei mai trovarmi al tuo posto.» Il verso del brucotarlo s’intensificò quando Galbatorix glielo posò sul braccio, appena sotto il gomito. Lei fece una smorfia: la disgustosa creatura era più pesante di quanto sembrasse e il suo ventre le aderì alla pelle con quelli che parevano centinaia di minuscoli uncini. Il brucotarlo emise ancora quello strano rumore, poi contrasse il corpo e con un balzo le risalì il braccio di una spanna. Lei strattonò le manette nella speranza di far cadere il bruco, ma la creatura le rimase appiccicata addosso. E balzò ancora. E ancora, e adesso le era arrivata alla spalla, con gli uncini che le pizzicavano la pelle come una striscia di lappole. Con la coda dell’occhio vide il bruco alzare la testa priva di organi visivi e puntargliela verso il viso, come a fiutare l’aria. Poi aprì la piccola bocca, e fu allora che lei vide le robuste, affilate mascelle che la creatura nascondeva. Scri-scri?, fece il brucotarlo. Scri-scra? «Non lì» disse Galbatorix, e poi pronunciò una parola nell’antica lingua. Il brucotarlo voltò subito la testa, e lei fu in parte sollevata. La creatura ricominciò a scendere lungo il braccio. Poche cose spaventavano Nasuada. Il ferro rovente che le lacerava la pelle era una di quelle. Poi il pensiero che Galbatorix regnasse per sempre a Urû’baen. E la morte, certo, non tanto perché temeva la fine della propria esistenza, quanto perché le dispiaceva lasciare incompiute tutte le cose che sperava di realizzare. Ma per chissà quale ragione la vista e la sensazione del brucotarlo sul suo braccio la terrorizzavano come non le era mai accaduto. Sentiva ogni muscolo del corpo bruciare e formicolare, e provava l’irrefrenabile impulso di correre, fuggire, di mettere fra sé e la creatura la maggiore distanza possibile, perché nel brucotarlo c’era qualcosa di orribilmente sbagliato. Non si muoveva come un bruco qualsiasi, e il rumore agghiacciante che la sua piccola, ripugnante bocca emetteva le suscitava un ribrezzo infinito. Il brucotarlo si fermò poco prima del gomito. Scri-scri!

Poi contrasse il grasso corpo bitorzoluto e balzò, tuffandosi a capofitto nell’incavo del gomito. Quando atterrò, si divise in una decina di piccoli millepiedi verdi che iniziarono a sciamarle sul braccio, ciascuno in cerca di un punto dove affondare le mandibole e scavarsi un solco nella carne. Soffrì pene atroci, intollerabili; lei si divincolò e urlò, ma non poteva far nulla per sfuggire al suo tormento. La tortura parve durare un tempo infinito. Il ferro rovente faceva più male, ma lo avrebbe preferito, perché il metallo incandescente era impersonale, inanimato e prevedibile. Il brucotarlo no. Era un orrore diverso sapere che la causa di tanta sofferenza era una creatura che la stava masticando, e per di più dall’interno. Alla fine perse ogni residuo di orgoglio e autocontrollo: implorò la dea Gokukara di avere pietà di lei, e poi iniziò a balbettare come una poppante, incapace di trattenere il flusso di parole incomprensibili che le uscivano dalla bocca. Alle sue spalle Galbatorix rideva, e la goduria che il re provava per il suo dolore glielo fece odiare ancora di più. Socchiuse gli occhi e riprese lentamente i sensi. Dopo qualche istante si rese conto che Murtagh e Galbatorix se n’erano andati. Non ricordava di averli visti uscire: doveva essere svenuta. Il dolore era meno intenso di prima, ma costante. Provò a esaminarsi il corpo ma distolse all’istante lo sguardo, con il cuore che batteva forte. Nei punti in cui avevano banchettato i millepiedi – non era sicura che le singole creature si potessero ancora definire brucotarli – la carne era gonfia, e linee di sangue violetto riempivano i minuscoli solchi che le avevano scavato sottopelle. E ogni solco bruciava. Come se l’avessero frustata con una sferza di metallo. Erano ancora dentro di lei?, si chiese. Magari riposavano per digerire il pasto. O forse stavano per compiere una metamorfosi, come i bachi in farfalle, e si sarebbero trasformati in qualcosa di peggiore. O ancora, e questa era l’ipotesi più agghiacciante, stavano deponendo le uova dentro di lei, uova che si sarebbero presto dischiuse per generare centinaia di altre creature che l’avrebbero divorata dall’interno. Fu scossa da un brivido e urlò di paura e frustrazione. Era difficile rimanere lucida con quelle ferite. La vista le si annebbiava e si schiariva, e si ritrovò a piangere suo malgrado. Per distrarsi provò perfino a parlare con se stessa, dicendo cose senza senso che servivano a rincuorarla e ad aiutarla a concentrarsi su altro. Funzionò, sia pure per poco. Sapeva che Galbatorix non voleva ucciderla, ma temeva che nella sua collera il re si fosse spinto più in là del previsto. Tremava e il corpo era martoriato come se l’avessero punta centinaia di vespe. La forza di volontà poteva sostenerla fino a un certo punto: per quanto determinata, il suo fisico aveva dei limiti di sopportazione, e lei aveva la sensazione di averli oltrepassati. Qualcosa dentro le si era spezzato, e non era così sicura di potersi riprendere da quelle ferite. La porta della stanza si aprì con uno scricchiolio. Lei si sforzò di mettere a fuoco chi fosse. Murtagh.

Lui la guardò con le labbra serrate, le narici dilatate e un profondo solco fra le sopracciglia. Lì per lì lei pensò che fosse arrabbiato, poi si rese conto che era preoccupato e spaventato a morte. L’impeto delle sue emozioni la sorprese: sapeva di piacergli – per quale altro motivo altrimenti avrebbe convinto Galbatorix a tenerla in vita? –, ma non pensava che tenesse a lei così tanto. Cercò di rassicurarlo con un sorriso. Non doveva essere stata abbastanza convincente, però, perché Murtagh serrò la mascella come se stesse lottando per trattenersi. «Non ti muovere» disse lui. Distese le mani su di lei e cominciò a mormorare frasi nell’antica lingua. Come se potessi, pensò lei. Il suo incantesimo fece subito effetto, e ferita dopo ferita il dolore scemò, senza però scomparire del tutto. Lei lo guardò perplessa, e lui si scusò: «Perdonami. Non posso fare di più. Solo Galbatorix saprebbe come guarirti, è una magia che va oltre le mie capacità.» «E... e i tuoi Eldunarí?» chiese lei. «Di sicuro potrebbero aiutarti.» Lui scosse il capo. «Sono tutti giovani draghi, o almeno lo erano quando i loro corpi sono morti. Non avevano ancora imparato molto sulla magia, e da allora Galbatorix non ha insegnato loro quasi niente... mi dispiace.» «Quelle... cose sono ancora dentro di me?» «No! Non ci sono più. Galbatorix le ha tolte quando sei svenuta.» Il sollievo che Nasuada provò fu enorme. «Il tuo incantesimo non ha eliminato tutto il dolore» disse. Aveva tentato di non suonare accusatoria, ma non era comunque riuscita a evitare che una nota aggressiva le si insinuasse nella voce. Lui fece una smorfia. «Non so perché. Avrebbe dovuto. Di qualunque creatura si tratti, non ha niente a che fare con questo mondo.» «Sai da dove viene?» «No, ne ho sentito parlare solo oggi, quando Galbatorix è andato a prenderla nelle sue stanze private.» Lei chiuse gli occhi per un momento. «Aiutami ad alzarmi.» «Sei sicu...» «Aiutami ad alzarmi» ripeté. Senza protestare oltre, lui le sciolse i legacci. Lei scese dalla lastra di pietra e vi rimase appoggiata in attesa che le passasse l’attacco di vertigini. «Tieni» le disse Murtagh, porgendole il mantello. Lei se lo avvolse intorno al corpo, coprendosi sia per pudore sia per il freddo, e anche per non essere costretta a vedere tutte le ustioni, le croste, le vesciche e i solchi pieni di sangue che la sfiguravano. Zoppicando – perché fra i tanti posti il brucotarlo aveva visitato anche le piante dei piedi – Nasuada si avvicinò alla parete della stanza e scivolò a sedere sul pavimento. Murtagh la imitò, e i due rimasero in silenzio a fissare la parete opposta.

D’un tratto lei cominciò a piangere. Qualche istante dopo sentì che lui le sfiorava la spalla e si ritrasse di colpo. Fu più forte di lei. In quei pochi giorni le aveva causato più dolore di chiunque altro in vita sua, e anche se sapeva che non ne aveva l’intenzione non poteva dimenticare che era stato lui a impugnare l’attizzatoio rovente. Ma quando si accorse che la sua reazione lo aveva ferito si addolcì e gli prese la mano. Lui le strinse delicatamente le dita, poi le cinse le spalle con un braccio e l’avvicinò a sé. Lei resistette un momento, poi si lasciò andare e gli appoggiò il capo sul petto, continuando a piangere; i suoi sommessi singhiozzi echeggiavano nella nuda stanza di pietra. Rimasero così per qualche minuto, poi lei lo sentì muoversi. «Troverò il modo di liberarti, lo giuro. È troppo tardi per me e Castigo. Ma non per te. Finché non giurerai fedeltà a Galbatorix avrò sempre una possibilità di farti fuggire da Urû’baen.» Lei alzò lo sguardo e osservandolo capì che non stava mentendo. «Come?» mormorò. «Non ne ho idea» ammise lui abbozzando un sorriso. «Ma ci riuscirò. A qualunque costo. Tu però devi promettermi che non ti arrenderai... almeno finché non ci avrò provato. D’accordo?» «Non credo di poter sopportare ancora quella... cosa. Se me la rimette addosso solo un’altra volta, gli darò tutto quello che vuole.» «Non serve. Non ha intenzione di usare ancora il brucotarlo.» «E cosa mi farà, allora?» Murtagh rimase in silenzio per un po’. «Ha deciso di cominciare a manipolare i tuoi sensi, tutto ciò che vedi e che senti, insomma. Se non funziona, allora sferrerà un attacco mentale diretto. Non potrai resistergli, in quel caso. Nessuno ci è mai riuscito. Ma prima di allora sono sicuro che ti avrò liberata. Tutto quello che devi fare è tenere duro un altro paio di giorni. Solo un paio di giorni.» «Ma come faccio se non posso più fidarmi dei miei sensi?» «Ce n’è uno che lui non può ingannare.» Murtagh la guardò negli occhi. «Mi permetti di toccarti la mente? Non per leggere i tuoi pensieri, voglio solo che tu senta la mia almeno una volta, così potrai riconoscerla... così potrai riconoscere me... in futuro.» Lei rimase in silenzio. Sapeva di essere davanti a una svolta decisiva: doveva decidere se fidarsi di lui oppure rifiutare e forse perdere l’unica occasione per non diventare schiava di Galbatorix. Eppure esitava a concedergli l’accesso alla sua mente. Forse Murtagh la stava invitando ad abbassare le difese per potersi insinuare più facilmente nella sua coscienza, o magari sperava di carpire qualche informazione preziosa spiandole i pensieri. Ma poi pensò: Perché mai Galbatorix dovrebbe ricorrere a un trucco simile? Potrebbe fare tutte e due queste cose da solo. Murtagh ha ragione: non riuscirei a resistergli... Accettare la proposta di Murtagh potrebbe essere la mia rovina, ma se non lo faccio il mio destino è segnato. In un caso o nell’altro Galbatorix mi piegherà al suo volere. È solo questione di tempo. «Fallo, se vuoi» concesse alla fine. Murtagh annuì e socchiuse le palpebre. Nel silenzio della sua mente, lei cominciò a recitare i versi che usava quando voleva difendere i propri pensieri o schermare la coscienza da un intruso. Si concentrò con tutte le

sue forze, decisa a respingere Murtagh al primo accenno di pericolo, e anche a non pensare a nessuno dei segreti che era suo dovere nascondere. A El-harím viveva un uomo, un uomo dagli occhi dorati. «Attenta ai sussurri» mi disse, «perché sono inganni velati. Non lottare contro i demoni dell’oscuro regno, Che nella tua mente lascerebbero il segno. E le ombre degli abissi, ti prego, non ascoltare, Se non vuoi che il tuo sonno tornino a perseguitare!» Quando avvertì la pressione della mente di Murtagh sulla sua, Nasuada si irrigidì e cominciò a recitare i versi sempre più in fretta. Rimase sorpresa nell’avvertire una sensazione di familiarità. La somiglianza fra la sua coscienza e quella di... No. Non poteva dire di chi, ma i tratti comuni erano notevoli. Così come le differenze. Fra le maggiori c’era la rabbia, annidata al centro del suo essere come un freddo cuore nero, compresso e immobile, con tentacoli di odio che avvolgevano tutto il resto della sua mente. Ma c’era qualcos’altro nella sua coscienza: lui era preoccupato per lei. Quell’apprensione illuminava la rabbia oscura, e lei si convinse che fosse sincera, perché dissimulare il proprio io interiore era difficilissimo e lei non pensava che Murtagh fosse tanto abile. Fedele alla promessa fatta, lui non provò a scavare nella sua mente, e dopo qualche secondo si ritrasse, e lei si ritrovò di nuovo sola con i propri pensieri. Murtagh aprì gli occhi e disse: «Fatto. Adesso credi di potermi riconoscere se ti cercherò di nuovo?» Lei annuì. «Bene. Galbatorix è capace di tante cose, ma nemmeno lui può imitare la sensazione che dà la mente di un’altra persona. Cercherò di avvertirti prima che cominci ad alterare i tuoi sensi, e ti dirò quando smette. In questo modo non potrà confonderti su ciò che è reale e ciò che non lo è.» «Grazie» sussurrò lei, ben sapendo che quell’unica parola non poteva esprimere tutta la riconoscenza che sentiva nei suoi confronti. «Per fortuna abbiamo un po’ di tempo. I Varden sono ad appena tre giorni da qui, e gli elfi si avvicinano in fretta da nord. Galbatorix è andato a ultimare l’organizzazione delle difese di Urû’baen e a discutere di strategie con Lord Barst, che ha il comando dell’esercito ora che è di stanza qui in città.» Lei si accigliò. Pessima notizia, pensò. Aveva già sentito parlare di lui: aveva una reputazione terribile fra i nobili della corte di Galbatorix. Si diceva che fosse astuto e sanguinario, e che schiacciasse senza pietà chiunque avesse l’ardire di mettersi sulla sua strada. «E tu?» chiese lei. «Galbatorix ha altri progetti per me, anche se ancora deve parlarmene.» «Per quanto tempo sarà occupato con i preparativi?» «Oggi e tutto domani.» «Credi di potermi liberare prima che torni?»

«Non lo so. Probabilmente no.» Fra i due calò il silenzio. Poi lui riprese: «Adesso vorrei farti una domanda. Perché hai ucciso quegli uomini? Sapevi che non ce l’avresti mai fatta a uscire dalla fortezza. È stato solo per spregio verso Galbatorix, come ha detto lui?» Lei sospirò e si scostò dal petto di Murtagh, appoggiandosi alla parete. A malincuore lui le tolse il braccio dalle spalle. Lei tirò su col naso, poi lo guardò diritto negli occhi. «Non potevo starmene qui sottomessa e lasciare che facesse di me quello che voleva. Dovevo combattere; dovevo mostrargli che non mi ha spezzata, e volevo ferirlo in qualche modo.» «Quindi era spregio!» «In parte. E allora?» Lei si aspettava che Murtagh la disprezzasse o la condannasse per il suo gesto, invece le rivolse uno sguardo di ammirazione, seguito da un timido sorriso complice. «Allora... ben fatto!» Dopo un istante lei ricambiò il sorriso. «E poi» aggiunse «c’era sempre una remota possibilità che riuscissi a fuggire.» Lui sbuffò. «Già, e qualcuno riuscirà a convincere i draghi a mangiare erba.» «Comunque dovevo provarci.» «Capisco. Potendo, avrei fatto la stessa cosa quando i Gemelli mi portarono qui.» «E adesso?» «Adesso non posso, e se anche potessi a cosa servirebbe?» Nasuada non seppe rispondere. Seguì un altro lungo silenzio, poi disse: «Murtagh, se non riuscirai a farmi evadere, allora promettimi che mi aiuterai a fuggire... in un altro modo. In un’altra circostanza non te lo chiederei mai, credimi: non voglio scaricare questo fardello sulle tue spalle, ma con il tuo aiuto sarebbe più facile, e potrei non avere l’occasione di farlo da sola.» Le labbra di lui si ridussero a una riga sottile mentre lei parlava, però non la interruppe. «Qualunque cosa succeda, non permettere che diventi un giocattolo nelle mani di Galbatorix. Sono disposta a tutto pur di evitare quel destino. Lo capisci?» Lui rispose con un brusco cenno di assenso. «Allora ho la tua parola?» Lui abbassò lo sguardo e serrò i pugni. «Sì.» Murtagh si era chiuso in un cupo mutismo, ma lei riuscì a scuoterlo di nuovo, e così passarono il tempo a parlare di cose banali. Murtagh le raccontò di come aveva modificato la sella che Galbatorix gli aveva dato per Castigo, migliorie di cui era giustamente orgoglioso perché gli consentivano di montare e smontare molto più in fretta e di sguainare la spada senza intralci. Lei gli parlò del mercato di Aberon, la capitale del Surda, e di come da bambina scappava spesso dalla sua balia per esplorarne le viuzze. Il suo mercante preferito era un uomo delle tribù nomadi di nome Hadamanara-no Dachu Taganna, ma lui insisteva perché lei lo chiamasse soltanto Taganna. Vendeva coltelli e pugnali, ed era sempre felice di mostrarle la sua mercanzia, anche se lei non aveva mai comprato niente. Via via che chiacchieravano la conversazione si fece sempre più rilassata e disinvolta. Nonostante le sventurate circostanze Nasuada scoprì che le piaceva parlare con Murtagh.

Era brillante e cortese, e aveva uno spirito arguto che lei apprezzava, soprattutto considerate le sue attuali condizioni. E Murtagh sembrava a proprio agio quanto lei. Purtroppo arrivò il momento in cui si resero conto che era pericoloso continuare a stare insieme, perché rischiavano di essere scoperti. Così Nasuada tornò alla lastra di pietra, dove si distese e lasciò che lui le stringesse i legacci. Stava per andarsene, quando lo chiamò: «Murtagh.» Lui si fermò e si girò a guardarla. Lei esitò per un attimo, poi trovò il coraggio di chiedergli: «Perché?» Sapeva che lui aveva capito che cosa intendeva: perché lei? Perché salvarle la vita, perché tentare di liberarla? Aveva intuito la risposta, ma voleva ascoltarne il suono. Murtagh la fissò per un lungo istante, poi con un filo di voce disse: «Lo sai perché.» [eBookLove - eBL 043] Christopher Paolini - Inheritance [by Pico]

SNALGLÍ A COLAZIONE Era tardo pomeriggio quando Eragon aprì gli occhi. Fasci di luce dorata filtravano dagli squarci nella cappa di nuvole e illuminavano gli edifici in rovina. Anche se la valle aveva ancora un’aria fredda, umida e inospitale, quel riverbero le conferiva una nuova maestosità. Per la prima volta Eragon capì perché i Cavalieri dei Draghi avevano scelto di stabilirsi sull’isola. Sbadigliò e scoccò un’occhiata a Saphira, sfiorandole appena la mente. La dragonessa era ancora sprofondata in un sonno senza sogni: la sua coscienza ricordava a Eragon una fiamma ridotta a una piccola brace fumante, pronta però a riavvampare da un momento all’altro. Tuttavia non gli trasmetteva una sensazione piacevole: somigliava troppo alla morte. Il Cavaliere tornò in sé e rimase collegato alla coscienza di Saphira solo con un sottile filamento di pensiero, sufficiente ad assicurargli che lei stesse bene. Nella foresta dietro di loro una coppia di scoiattoli prese a discutere con una serie di squittii. Eragon aggrottò le sopracciglia: le loro voci sembravano troppo stridule, troppo veloci, un po’ troppo gorgoglianti. Era come se un’altra creatura ne stesse imitando il verso. Quel pensiero gli fece formicolare la pelle. Rimase lì per un’ora, ad ascoltare le strida e i mugolii che venivano dai boschi e a contemplare i giochi di luce sulle colline, i prati e le montagne. Poi gli squarci nelle nuvole si richiusero, il cielo si oscurò e sulle vette cominciò a nevicare. Eragon si alzò e disse a Glaedr: Vado a prendere della legna per accendere il fuoco. Faccio in fretta. Il drago assentì ed Eragon si allontanò dal prato in punta di piedi per non svegliare Saphira. Una volta arrivato ai margini della foresta accelerò il passo. Anche se lì c’era abbondanza di rami secchi voleva sgranchirsi le gambe, e se possibile cercare la fonte di quegli strani rumori. Così si addentrò fra le ombre fitte degli alberi. L’aria era fredda e immota come in una caverna sotterranea, e odorava di funghi, legno marcio e resina. I muschi e i licheni che penzolavano dai rami sembravano merletti strappati, macchiati e fradici, ma possedevano ancora una certa delicata bellezza. Dividevano come sipari il bosco in tante celle di varie misure, ed era difficile vedere a più di venti passi. Eragon usò il mormorio del ruscello per orientarsi nel folto della vegetazione. Ora che li vedeva da vicino si accorse che i sempreverdi erano diversi da quelli della Grande Dorsale o della Du Weldenvarden. Avevano ciuffi di sette aghi invece che di tre e, per quanto potesse essere un abbaglio dovuto alla luce morente, Eragon aveva la sensazione che l’oscurità aderisse ai tronchi e ai rami come un mantello. Ogni dettaglio degli alberi – dalle rughe della corteccia alle radici esposte alle pigne squamose – aveva una singolare, feroce spigolosità: sembravano quasi in procinto di staccarsi dal suolo e marciare sulla città.

Eragon rabbrividì ed estrasse Brisingr dal fodero. Non era mai stato in una foresta così minacciosa. Era come se gli alberi fossero arrabbiati, e al pari del boschetto di meli volessero allungare i rami per strappargli la carne a brandelli. Con il dorso della mano scostò un festone di lichene giallo e si fece strada con cautela. Da quando si era inoltrato nel bosco non aveva ancora visto impronte di selvaggina né tracce di orsi o lupi. Strano, perché così vicino al ruscello avrebbero dovuto esserci piste che portavano all’acqua. Forse gli animali evitano questa parte del bosco, pensò. Ma perché? Un tronco caduto gli sbarrava il passo. Eragon lo scavalcò e il suo stivale affondò in un folto tappeto di muschio. Un istante dopo si sentì prudere il gedwëy ignasia e udì un flebile coro di scri-scri! e scri-scra!, mentre cinque o sei creature simili a bruchi, ciascuna grande quanto il suo pollice, emergevano dal muschio e saltellavano via. Un istinto primordiale prese il sopravvento ed Eragon si fermò di colpo come se avesse incontrato un serpente. Rimase immobile e trattenendo il fiato guardò quei grassi bruchi disgustosi darsi alla fuga. Cercò di ricordare se a Ellesméra aveva appreso qualcosa su quelle creature, ma non gli sembrava. Il Cavaliere raggiunse con la mente il drago dorato: Glaedr! Cosa sono? Come si chiamano nell’antica lingua?, gli chiese indicandogli i bruchi. Eragon rimase sorpreso quando Glaedr rispose: Non lo so. È la prima volta che li vedo, e non ne ho mai sentito parlare. Sono nuovi per Vroengard, e nuovi per Alagaësia. Non lasciare che ti tocchino: potrebbero essere più pericolosi di quanto sembrano. Dopo essersi allontanati da Eragon, i bruchi senza nome balzarono ancora e con un sonoro scri-scro! si rituffarono nel muschio. Non appena toccarono terra si divisero in decine e decine di millepiedi verdi, che sciamarono nel muschio e scomparvero. Soltanto allora Eragon osò respirare. Non dovrebbero esistere, disse Glaedr. Sembrava turbato. Eragon liberò con cautela lo stivale e scavalcò il tronco all’indietro. Esaminando meglio il muschio si accorse che quelli che poco prima aveva scambiato per rami secchi erano in realtà frammenti di costole e corna, probabilmente i resti di uno o più cervi. Dopo un istante di riflessione Eragon si voltò e tornò sui suoi passi, bene attento a evitare ogni chiazza di muschio lungo il tragitto, il che non era per niente facile. Non valeva la pena rischiare la vita per scoprire quale fosse l’origine di quegli strani squittii, soprattutto perché sospettava che si sarebbe imbattuto in qualcosa di peggio dei bruchi annidati nel muschio. Il palmo continuava a prudergli ed Eragon sapeva per esperienza che ciò indicava che c’era davvero qualcosa di pericoloso nei paraggi. Quando intravvide il prato e le squame blu di Saphira attraverso i tronchi delle conifere piegò di lato e si incamminò verso il ruscello. La riva era coperta di muschio, così Eragon balzò di tronco in pietra fino a raggiungere un masso piatto al centro della corrente. Si accovacciò, si tolse i guanti e si lavò mani, viso e collo. Il contatto con l’acqua fredda lo rinvigorì e poco dopo si sentì arrossare le orecchie e un’ondata di calore gli pervase il corpo.

Mentre finiva di asciugarsi, dall’altra parte del ruscello proruppe un forte cicaleccio. Cercando di evitare qualsiasi movimento brusco, Eragon si voltò a guardare la cima delle piante sulla riva opposta. Quattro ombre stavano appollaiate su un ramo a una trentina di piedi di altezza. Avevano la testa nera, ovale, da cui spuntavano larghi ciuffi di piume arruffate. Al centro di ogni ovale brillavano occhi bianchi sottili e obliqui, e la vacuità di quelle fessure rendeva impossibile capire dove stessero guardando. Ma la cosa più sconcertante di quelle ombre era che, come tutte le ombre, non avevano profondità. Se si mettevano di profilo scomparivano. Senza perderle di vista, Eragon strinse l’elsa di Brisingr. L’ombra più a sinistra arruffò le piume ed emise lo stesso verso stridulo che lui aveva scambiato per quello di uno scoiattolo. Altre due ombre la imitarono, e la foresta echeggiò del clamore delle loro grida. Eragon pensò per un istante di toccare le loro menti, ma poi cambiò idea, ricordando cos’era successo quando sulla strada per Ellesméra aveva incontrato i Fanghur. A bassa voce disse: «Eka aí fricai un Shur’tugal.» Sono un Cavaliere dei Draghi e un amico. Gli parve quasi che le ombre lo fissassero, e per un momento tutto fu silenzio, rotto soltanto dal dolce mormorio del ruscello. Poi ricominciarono a squittire, e i loro occhi bianchi sembrarono farsi più luminosi, come schegge di metallo incandescente. Dopo qualche minuto le ombre non accennavano ancora ad attaccarlo ma nemmeno ad andarsene. Eragon si alzò e allungò con estrema cautela una gamba all’indietro per tornare sul sasso precedente. Il movimento parve allarmare le ombre, che presero a urlare all’unisono. Poi scrollarono le spalle, iniziarono a scuotersi e al loro posto comparvero quattro grossi gufi, con gli stessi ciuffi di piume intorno alle teste screziate. Aprirono i becchi gialli ed emisero versi arrabbiati, come avrebbe fatto uno scoiattolo infastidito dalla sua presenza; poi dispiegarono le ali e volarono via fra gli alberi. «Barzûl!» esclamò Eragon. Rifece di corsa tutto il tragitto fino al prato, fermandosi solo per raccogliere una manciata di rami secchi. Non appena ebbe raggiunto Saphira, posò la legna per terra, si inginocchiò e cominciò a evocare tutti gli incantesimi di protezione che conosceva. Glaedr gliene suggerì uno che gli era sfuggito, poi disse: Nessuna di quelle creature era qui quando io e Oromis tornammo dopo la battaglia. Non sono come dovrebbero essere. La magia sprigionata in quell’occasione deve aver alterato la terra e coloro che ci vivono. Adesso questo è un luogo corrotto. Quali creature?, chiese Saphira. Aprì gli occhi e sbadigliò, uno spettacolo che metteva i brividi. Eragon condivise i suoi ricordi con lei, e la dragonessa lo rimproverò: Avresti dovuto portarmi con te. Mi sarei mangiata quei bruchi e quegli uccelli-ombra, così tu non avresti avuto nulla da temere. Saphira! La dragonessa fece roteare un occhio enorme. Ho fame. Magia o no, perché non dovrei mangiare questi strani esseri?

Perché potrebbero essere loro a mangiare te, Saphira, replicò Glaedr. Conosci la prima regola della caccia: non attaccare la preda finché non sei sicuro che è una preda. Altrimenti finirai per diventare il pranzo di qualcun altro. «Io non oserei nemmeno andare a caccia di cervi» intervenne Eragon. «Dubito che ne siano rimasti molti. E poi è quasi buio, e se anche ce ne fossero sono convinto che andare a caccia non sia prudente.» La dragonessa ringhiò sommessa. Va bene. Allora me ne torno a dormire. Ma domani andrò a caccia, non m’importa dei pericoli. Ho la pancia vuota e devo mangiare prima di riattraversare il mare. Fedele alle sue parole, Saphira chiuse gli occhi e si riaddormentò all’istante. Eragon accese un piccolo falò e consumò una misera cena mentre la valle piombava nell’oscurità. Lui e Glaedr discussero dei piani per il giorno dopo, e Glaedr gli narrò ancora la storia dell’isola, risalendo all’epoca in cui in Alagaësia erano arrivati gli elfi e Vroengard era ancora il regno esclusivo dei draghi. Prima che le ultime luci del giorno si spegnessero, Glaedr gli chiese: Ti piacerebbe vedere com’era Vroengard al tempo dei Cavalieri dei Draghi? Molto, rispose Eragon. Allora guarda, disse Glaedr, e gli riversò nella mente una serie di immagini e di sensazioni. Un attimo dopo sulla valle che Eragon stava osservando si sovrappose una scena gemella ed evanescente. Nel ricordo del drago dorato era il crepuscolo, più o meno come nel presente, ma il cielo era limpido e una miriade di stelle brillava nel firmamento sul grande anello di montagne di fuoco, Aras Thelduin. Gli alberi di quell’epoca erano più alti, più diritti e meno cupi, e in tutta la valle gli edifici dei Cavalieri dei Draghi erano intatti e risplendevano come tanti fari grazie alla luce soffusa delle lanterne senza fiamma degli elfi. Le pietre color ocra non erano coperte di edera e muschio come adesso, e i palazzi e le torri avevano una nobiltà che le rovine avevano perduto. Lungo i viali lastricati e sopra la valle Eragon vide le sagome lucenti di molti draghi: leggiadri giganti dalle fulgide squame che valevano come mille tesori di re. La visione durò ancora un istante, poi Glaedr liberò la mente di Eragon, e la valle tornò al suo aspetto reale. Era bellissima, disse Eragon. Era... ora non lo è più. Eragon continuò a guardarsi intorno, confrontando il paesaggio con quello che gli aveva mostrato Glaedr, e si accigliò quando vide una fila di luci ondeggianti – lanterne, probabilmente – all’interno della città abbandonata. Mormorò una magia per aguzzare la vista e riuscì a scorgere una processione di figure incappucciate con lunghi mantelli neri che si snodava lenta fra le rovine. Avevano un’aria solenne, quasi religiosa nel loro modo di incedere e far dondolare le lanterne. Chi sono?, domandò a Glaedr. Aveva la sensazione di assistere a qualcosa che nessuno avrebbe dovuto vedere. Non lo so. Forse sono i discendenti di quelli che si nascosero durante la battaglia. O forse sono uomini della tua razza che hanno pensato di stabilirsi qui dopo la caduta dei Cavalieri. O magari sono quelli che venerano i draghi e i Cavalieri come dei.

Davvero esistono? Un tempo sì. Noi scoraggiavamo queste pratiche, ma erano abbastanza comuni nelle regioni più isolate di Alagaësia... È un bene, immagino, che tu abbia piazzato tutte quelle difese magiche. Eragon rimase a guardare le figure incappucciate sfilare per le tortuose vie della città per quasi un’ora. Quando arrivarono al capo opposto le lanterne si spensero una dopo l’altra, ma nemmeno con l’ausilio della magia lui riuscì a vedere dove fossero finiti coloro che le reggevano. Allora spense il fuoco gettandovi sopra qualche manciata di terra e si avvolse nelle coperte per riposare. Eragon! Saphira! Svegliatevi! Il Cavaliere spalancò gli occhi di colpo. Si alzò a sedere e afferrò Brisingr. Era ancora buio, a parte il tenue bagliore rossastro delle braci alla sua destra e uno squarcio di cielo stellato a est. Ma nell’oscurità Eragon riuscì comunque a scorgere i contorni della foresta, del prato e della mostruosa lumaca gigante che strisciava sull’erba verso di lui. Eragon urlò e indietreggiò in fretta. La lumaca, una chiocciola dal guscio alto oltre cinque piedi, esitò, poi continuò ad avanzare verso di lui veloce quanto un uomo che corre. Dalla nera fessura della sua bocca venne un sibilo simile a quello di un serpente; aveva occhi rotondi, sporgenti e grandi quanto il pugno di un uomo. Eragon si preparò a lanciare un incantesimo, ma Saphira fu più svelta di lui: scattò in avanti e catturò la lumaca tra le fauci. Il guscio dell’animale si frantumò fra le zanne col rumore dell’ardesia che si spezza, e la creatura emise un verso stridulo e vibrante. Saphira lanciò in aria la lumaca, spalancò la bocca e la inghiottì intera deglutendo due volte, come fa un pettirosso con un lombrico. Eragon vide altre quattro lumache giganti sul prato: una si era ritirata nel guscio, le altre fuggivano strisciando sulle pance dai bordi arricciati. «Laggiù!» gridò Eragon. Saphira spiccò un balzo e atterrò su tutte e quattro le zampe: divorò una lumaca, poi un’altra e quindi una terza. Non mangiò l’ultima, quella chiusa nel guscio, ma la avvolse in una vampa di fiamme gialle e azzurre che incendiarono il prato nel raggio di diverse centinaia di piedi. La fiammata durò un paio di secondi, poi Saphira raccolse la lumaca fumante tra le fauci con la stessa premura di una mamma gatta che prende il suo micino per la collottola e la portò da Eragon, lasciandola cadere ai suoi piedi. Il Cavaliere la guardò con diffidenza, ma sembrava decisamente morta. Adesso puoi fare colazione come si deve, gli disse Saphira. Eragon la guardò, poi scoppiò a ridere, sempre più forte, fino a rimanere senza fiato. Cosa c’è di tanto divertente?, domandò la dragonessa, e annusò il guscio annerito. Già, perché ridi?, chiese Glaedr. Eragon scosse il capo. Alla fine rispose: «Perché...» Si interruppe, e ricominciò daccapo parlando con la mente perché anche Glaedr lo sentisse. Perché... lumaca e uova! E prese di nuovo a ridacchiare, sentendosi uno sciocco. Perché... bistecche di lumaca!... Hai fame? Sgranocchia un’antenna. Sei stanco? Rinfrancati mangiando un occhio! Hai sete? Niente idromele,

ma un goccio di bava! Potrei mettere i peduncoli in una tazza come una manciata di fiori, e poi... Rideva così forte che non riuscì a continuare. Cadde in ginocchio, boccheggiante, con le lacrime agli occhi. Saphira schiuse le fauci in una parvenza di sorriso e si lasciò sfuggire un piccolo verso strozzato. A volte sei proprio strano, Eragon. Ma la sua ilarità l’aveva contagiata. La dragonessa fiutò di nuovo il guscio. Un po’ di idromele non sarebbe male. «Almeno tu hai mangiato» disse lui, sia con la voce sia con la mente. Non molto, ma mi basterà per tornare dai Varden. Mentre la risata si spegneva, Eragon pungolò la lumaca con la punta dello stivale. È passato così tanto tempo da quando c’erano i draghi a Vroengard che non devono averti riconosciuta, e si sono avvicinate convinte che fossi un pranzetto facile... Che morte atroce, finire mangiato da una lumaca. Però memorabile, aggiunse Saphira. Già, memorabile, concordò lui, di nuovo sul punto di scoppiare a ridere. E qual è la prima regola della caccia, cuccioli?, chiese Glaedr. Eragon e Saphira risposero in coro: Non attaccare la preda finché non sei sicuro che è una preda. Molto bene, commentò Glaedr. Poi Eragon disse: Bruchi che saltano, uccelli-ombra, e ora lumache giganti... Come hanno fatto gli incantesimi lanciati durante la battaglia a generare quelle creature? I Cavalieri, i draghi e i Rinnegati liberarono enormi quantità di energia nei combattimenti. Molta si riversò negli incantesimi, ma una parte si disperse. Coloro che sopravvissero raccontarono che per un certo periodo il mondo impazzì e che non ci si poteva fidare di niente di ciò che si vedeva o si sentiva. Un po’ di quella energia deve essersi depositata sugli antenati dei bruchi e degli uccelli che hai visto oggi, alterandoli. Ma al contrario di quanto credi, questo discorso non vale per le lumache. Le snalglí – così si chiamano – sono sempre vissute a Vroengard. Erano uno dei cibi preferiti di noi draghi per ragioni che certo comprendi benissimo, Saphira. Lei si leccò i baffi. Non solo la loro carne è morbida e saporita, ma il guscio favorisce la digestione. Se sono animali normali, come mai le mie difese magiche non le hanno fermate?, chiese Eragon. Avrebbero quanto meno dovuto avvertirmi del loro arrivo. Potrebbe essere una conseguenza della battaglia, rispose Glaedr . La magia non ha creato le snalglí, ma non significa che le forze che si sono scatenate in questo luogo non le abbiano contaminate. Non dovremmo restare qui più del necessario. Meglio partire, prima che qualche altro strano essere decida di farci visita. Con l’aiuto di Saphira, Eragon spaccò il guscio della lumaca bruciata, e alla luce rossa di un fuoco fatuo ripulì la carcassa, un lavoro sporco e appiccicaticcio che lo lasciò coperto di viscidume fino ai gomiti. Poi Saphira seppellì la carne accanto alla brace del falò e infine tornò nello spiazzo erboso e riprese il sonno interrotto. Questa volta Eragon andò con lei. Portando con sé le coperte e le bisacce, una delle quali conteneva il cuore dei cuori di Glaedr, s’infilò sotto una delle sue ali e si accoccolò nel caldo, buio incavo del suo collo. E lì trascorse il resto della notte, pensando e sognando.

Il giorno seguente si annunciò grigio e cupo come quello che l’aveva preceduto. Una leggera nevicata aveva imbiancato i fianchi delle montagne e le cime delle colline, e a giudicare dall’aria gelida e frizzante era probabile che più tardi avrebbe nevicato di nuovo. Stanca com’era, Saphira continuò a dormire fino a quando il sole non fu già alto. Eragon era impaziente, ma la lasciò riposare. Era più importante che lei recuperasse le forze per il viaggio di ritorno. Una volta sveglia, Saphira riportò alla luce la carcassa di lumaca sepolta e lui preparò la colazione. Non sapeva come chiamarla: pancetta di lumaca? A ogni modo, le strisce di carne erano squisite, e lui mangiò più di quanto facesse di solito. Saphira divorò gli avanzi, e poi attesero un po’, perché non sarebbe stato saggio affrontare un’eventuale battaglia a stomaco pieno. Alla fine Eragon arrotolò le coperte, rimise la sella sul dorso di Saphira e insieme partirono per la Rocca di Kuthian.

LA ROCCA DI KUTHIAN Il tragitto verso il boschetto di meli parve più breve del giorno prima, ma gli alberi contorti avevano sempre quell’aria minacciosa e mentre li attraversavano Eragon non scostò mai la mano dall’elsa di Brisingr. Si fermarono solo quando ebbero raggiunto i margini della radura cespugliosa ai piedi della Rocca di Kuthian. Decine di cornacchie se ne stavano appollaiate in cima al pilastro di roccia, ma non appena videro Saphira si levarono in volo gracchiando: il presagio più funesto che Eragon potesse immaginare. Rimasero lì per una buona mezz’ora, mentre Eragon evocava un incantesimo dopo l’altro in cerca di eventuali magie pericolose per lui, Saphira o Glaedr. In tutta la radura, sulla Rocca di Kuthian e nel resto dell’isola era disseminata una varietà impressionante di sortilegi. Alcuni impregnavano il terreno in profondità, ed erano così potenti che Eragon aveva l’impressione che un tumultuoso fiume di energia gli scorresse sotto i piedi. Altri erano piccoli e all’apparenza innocui, a volte mirati a un fiore o a un singolo ramo di albero. Più della metà degli incantesimi erano latenti, perché mancava l’energia sufficiente a sostenerli, era svanito il loro obiettivo o aspettavano ancora il verificarsi di determinati eventi per entrare in azione; parecchi poi sembravano in contrasto fra di loro, come se i Cavalieri dei Draghi, o chiunque li avesse evocati, avessero tentato di modificare o annullare sortilegi precedenti. Di molti Eragon non riuscì a comprendere lo scopo. Non restavano tracce delle parole usate per evocarli: a indicare la loro presenza c’erano soltanto le strutture di energia che stregoni da tempo defunti avevano creato con cura e che erano difficili, se non impossibili, da interpretare. Glaedr gli fu d’aiuto perché conosceva molti degli incantesimi più elaborati e antichi di Vroengard, ma per il resto Eragon tirò a indovinare. Per fortuna anche quando non riusciva a capire a che cosa servisse un sortilegio era in grado comunque di stabilire se avrebbe influito su di lui, Saphira o Glaedr. Era un procedimento complesso che richiedeva incantesimi altrettanto complessi, e impiegò un’altra ora per esaminarli tutti. Quelli che lo preoccupavano di più – e Glaedr condivideva il suo timore – erano i sortilegi occulti: individuare l’opera che uno stregone aveva intenzionalmente celato era molto, molto più complicato. Alla fine, quando Eragon fu abbastanza certo che non ci fossero trappole sopra e intorno alla Rocca di Kuthian, lui e Saphira attraversarono la radura fino alla base del pinnacolo roccioso coperto di licheni. Eragon piegò la testa all’indietro e guardò la sommità del pilastro. Era altissimo. Né lui né Saphira notarono niente di insolito nella roccia. Forza, pronunciamo i nostri nomi e facciamola finita, disse Saphira. Eragon chiese con la mente l’opinione di Glaedr, e il drago rispose: Ha ragione. Non c’è motivo di indugiare oltre. Di’ il tuo nome, e io e Saphira faremo lo stesso. Un po’ nervoso, Eragon aprì e chiuse i pugni un paio di volte, poi afferrò lo scudo, sguainò Brisingr e si inginocchiò su una gamba.

Con voce bassa e profonda scandì: «Il mio nome è Eragon Ammazzaspettri, figlio di Brom.» Il mio nome è Saphira Bjartskular, figlia di Vervada. E il mio è Glaedr Eldunarí, figlio di Nithring dalla lunga coda. Aspettarono. In lontananza le cornacchie gracchiarono come a volersi burlare di loro. Eragon era agitato, ma rimase in ginocchio. Non si era certo aspettato che aprire la volta sarebbe stato facile. Proviamo di nuovo, ma stavolta diciamo il nostro nome nell’antica lingua, suggerì Glaedr. Così Eragon disse: «Nam iet er Eragon Sundavar-Vergandí, sönr abr Brom.» Saphira e Glaedr fecero altrettanto. Ancora niente. Eragon era sempre più preoccupato. Se quel viaggio si fosse rivelato inutile... No, era meglio non pensarci. Non ancora, almeno. Forse dobbiamo pronunciare tutti i nostri nomi ad alta voce, suggerì. E io come faccio?, chiese Saphira. Devo ruggire alla rocca? E Glaedr? Potrei dire i vostri nomi per voi, propose Eragon. Mi sembra improbabile come espediente, ma vale la pena tentare, concordò Glaedr. Nella mia o nell’antica lingua? Direi nell’antica lingua, ma prova in tutti e due i modi. Eragon elencò i loro nomi due volte, ma niente nella roccia parve cambiare. Al colmo della frustrazione ipotizzò: Forse siamo nel posto sbagliato; o l’ingresso della Volta delle Anime è dall’altra parte della rocca. Magari in cima. Se così fosse, il Domia abr Wyrda l’avrebbe detto, non credi?, fece notare Glaedr. Eragon abbassò lo scudo. Quando mai gli enigmi sono facili da risolvere? E se soltanto tu dovessi pronunciare il tuo nome?, gli disse Saphira. Solembum non ha forse detto: “... quando tutto ti sembrerà perduto e il tuo potere non basterà, vai alla Rocca di Kuthian e pronuncia il tuo nome per schiudere la Volta delle Anime.” Il tuo nome, Eragon, non il mio o quello di Glaedr. Eragon aggrottò le sopracciglia. Può darsi. Ma se serve soltanto il mio nome, allora forse dovrei essere solo mentre lo dico. Con un ringhio spazientito, Saphira spiccò il volo, e il vento che sollevò battendo le ali scompigliò i capelli di Eragon e sferzò i cespugli della radura. Allora provaci, ma fa’ in fretta!, esclamò allontanandosi verso est. Quando lei fu a un quarto di miglio di distanza, Eragon si voltò di nuovo verso la ruvida superficie di roccia, levò lo scudo e pronunciò ancora il suo nome nella propria lingua e poi in quella degli elfi. Nessuna porta si schiuse. Nella pietra non comparve né una crepa né uno spiraglio. Nessun simbolo affiorò sulla superficie. L’alto pinnacolo restò in tutto e per tutto ciò che sembrava: un solido blocco di granito privo di segreti.

Saphira!, gridò Eragon con la mente. Poi cominciò a camminare avanti e indietro nella radura, imprecando fra sé e prendendo a calci i ciottoli che incontrava sul percorso. Tornò alla base della rocca quando Saphira atterrò, lasciando dietro di sé lunghi solchi scavati con gli artigli. La dragonessa batté le ali per fermarsi, sollevando mulinelli di erba e foglie secche, poi si appoggiò su tutte e quattro le zampe e richiuse le ali. Ne deduco che non hai avuto successo..., disse Glaedr. Già, borbottò Eragon scoccando un’occhiataccia alla rocca. Il vecchio drago parve sospirare. Lo temevo. Allora c’è soltanto una spiegazione. Solembum ci ha mentito, vuoi dire? Voleva farci intraprendere una missione impossibile affinché Galbatorix possa distruggere i Varden mentre noi non ci siamo? No. Significa che per aprire questa... questa... Volta delle Anime, gli venne in aiuto Saphira. Sì, per schiudere questa volta di cui il gatto mannaro ti ha parlato... dobbiamo dire i nostri veri nomi. Le parole caddero fra loro come macigni. Per un po’ rimasero tutti in silenzio. Eragon era intimorito da quello che Glaedr aveva appena suggerito, e preferiva quasi non pensarci. Ma... E se fosse una trappola?, chiese Saphira. Sarebbe una trappola diabolica, replicò Glaedr. La questione da risolvere è questa: vi fidate di Solembum? Il rischio che corriamo non è tanto quello di perdere la vita, ma la nostra libertà. Se siete certi che lui non ci abbia ingannato, allora saprete essere abbastanza onesti con voi stessi da scoprire il vostro vero nome, e in fretta? Siete disposti a vivere con questa consapevolezza, per quanto possa essere spiacevole? Se la risposta è no, allora è meglio che ce ne andiamo all’istante. Io sono cambiato dalla morte di Oromis, però so bene chi sono. Ma tu, Saphira? E tu, Eragon? Sapete dirmi davvero cosa fa di voi il drago e il Cavaliere che siete? Eragon guardò sgomento la Rocca di Kuthian. Chi sono?, si chiese. [eBookLove - eBL 043] Christopher Paolini - Inheritance [by Pico]

TUTTO IL MONDO È UN SOGNO Nasuada rideva mentre il cielo stellato le vorticava intorno e lei precipitava verso un crepaccio di luce abbagliante miglia e miglia più in basso. Il vento le scompigliava i capelli, e la camiciola da notte con le maniche strappate si agitava come una logora bandiera. Enormi pipistrelli neri le svolazzavano intorno, tormentandole le ferite con i denti aguzzi, taglienti e gelidi come aghi di ghiaccio. Ma lei continuava a ridere. La cavità divenne più larga e il suo nitore la avvolse, accecandola per qualche istante. Quando le si schiarì la vista si ritrovò nella Stanza dell’Oracolo, a guardare se stessa sdraiata e legata sulla lastra di pietra. Accanto al suo corpo inerte c’era Galbatorix: alto, le spalle larghe, il volto in ombra e una corona di fuoco cremisi sulla testa. Lui si voltò a guardarla e le tese una mano guantata. «Vieni, Nasuada figlia di Ajihad. Abbandona il tuo orgoglio e giurami fedeltà, e io ti darò tutto quello che vuoi.» Lei gli indirizzò una risata di scherno e gli si avventò contro con le dita ad artiglio. Ma prima che potesse afferrargli la gola il re svanì in una nuvola di fumo nero. «Quello che voglio è ucciderti!» gridò lei al soffitto. La voce di Galbatorix echeggiò nella stanza come se provenisse da ogni direzione. «Allora resterai qui finché non ti renderai conto dei tuoi errori.» Nasuada aprì gli occhi. Era ancora sul blocco di pietra, con i polsi e le caviglie legati. Le ferite del brucotarlo pulsavano come se quell’orrenda creatura fosse ancora dentro di lei. S’incupì. Era svenuta o aveva appena parlato col re? Difficile dirlo, quando... In un angolo del soffitto vide la punta di un grosso rampicante verde farsi strada fra le mattonelle dipinte, spaccandole. Altri viticci spuntarono dalle pareti, e contorcendosi come serpenti si allungarono sul pavimento, coprendolo di un groviglio di rami. Nasuada li guardò strisciare verso la lastra su cui era distesa e iniziò a ridacchiare. Tutto qui, quello di cui è capace? Faccio sogni sempre più strani quasi ogni notte. Come in reazione al suo disprezzo, la lastra di pietra si sciolse e i tentacoli verdi le si chiusero intorno. Le avvolsero braccia e gambe, e la tennero più stretta di quanto avrebbe potuto fare qualsiasi catena. Poi si moltiplicarono, gettandola in un’oscurità totale, in cui l’unico suono che riusciva a sentire era lo scricchiolio che producevano strisciando e intrecciandosi tra loro, come di sabbia che cade. L’aria intorno a lei si fece calda e soffocante. Se non avesse saputo che i rampicanti erano soltanto un’illusione si sarebbe lasciata prendere dal panico. Invece sputò nel buio e maledisse il nome di Galbatorix. Non era la prima volta, e non sarebbe stata l’ultima, ma si rifiutava di concedergli il piacere di sapere che l’aveva turbata nel profondo. Luce. Raggi di sole dorati bagnavano una serie di colline ondulate tappezzate di campi coltivati e vigneti. Era in piedi ai margini di un piccolo cortile, sotto una pergola carica di convolvoli in fiore e viticci dall’aria familiare ma inquietante. Era vestita di uno splendido abito giallo. Aveva un calice di cristallo colmo di vino in mano, e il sapore ricco e dolce

della bevanda sulla lingua. Una brezza leggera spirava da ovest. L’aria era tiepida e profumava di terra appena arata. «Ah, eccoti» sussurrò una voce alle sue spalle. Lei si voltò e vide Murtagh uscire da una grande casa colonica e venirle incontro. Anche lui reggeva un calice di vino. Indossava aderenti calzoni neri e una giubba di raso color ruggine orlata di passamaneria dorata. Aveva un pugnale tempestato di gemme infilato nella cintura borchiata. Portava i capelli più lunghi di quanto lei ricordasse e aveva un’aria rilassata e affabile che non gli aveva mai visto. La luce del sole gli illuminò il viso, e lei pensò che era bello, nobile addirittura. Murtagh la raggiunse sotto la pergola e le posò una mano sul braccio nudo. Il gesto aveva un che di intimo e familiare. «Non osare mai più lasciarmi solo con Lord Ferros e i suoi racconti interminabili. Ci ho messo mezz’ora per liberarmi.» Poi esitò e la guardò, un po’ preoccupato. «Ti senti bene? Sei pallida.» Lei aprì la bocca, ma non disse niente. Non sapeva come reagire. Murtagh aggrottò le sopracciglia. «Hai avuto un altro dei tuoi attacchi, vero?» «Io... io non lo so... Non ricordo come sono arrivata qui, o...» Si interruppe a metà frase quando notò il velo di dolore che rabbuiò lo sguardo di Murtagh. Ma fu solo un attimo, perché lui si affrettò a nasconderlo. Lui le passò una mano attorno alla vita affiancandosi a lei per ammirare il panorama. Vuotò il calice di vino in un solo sorso. Poi a voce bassa mormorò: «Non è la prima volta che ti succede, ma...» Trasse un profondo sospiro e scosse il capo. «Qual è l’ultima cosa che ricordi? Teirm? Aberon? L’assedio di Cithrí?... Il regalo che ti ho fatto quella notte a Eoam?» Lei si sentì travolgere da un terribile senso d’incertezza. «Urû’baen» rispose con un filo di voce. «La Stanza dell’Oracolo. Quella è l’ultima cosa che ricordo.» La mano di lui tremò, ma la sua espressione non tradì alcuna emozione. «Urû’baen» ripeté Murtagh con voce roca. Poi la guardò. «Nasuada, sono passati otto anni da Urû’baen.» No, pensò lei. Non è possibile. Eppure tutto quello che vedeva e sentiva le sembrava reale. Il vento che agitava i capelli di Murtagh, l’odore dei campi, la carezza del vestito sulla sua pelle... era tutto proprio come avrebbe dovuto essere. Se però quella era la realtà, allora perché Murtagh non l’aveva rassicurata entrando nella sua mente come aveva fatto le altre volte? Se n’era dimenticato? Ma se erano passati otto anni, forse non ricordava la promessa che le aveva fatto tanto tempo prima nella Stanza dell’Oracolo. «Io...» cominciò a dire, poi udì una donna gridare: «Mia signora!» Si voltò: una domestica corpulenta correva verso di loro, con il grembiule bianco che svolazzava. «Mia signora» ripeté facendo un inchino. «Mi dispiace disturbarti, ma i bambini speravano di averti con loro alla recita che hanno organizzato per gli ospiti.» «Bambini...» mormorò lei. Guardò Murtagh e vide che i suoi occhi scintillavano di lacrime. «Sì» confermò lui. «Quattro figli, tutti forti, sani e intelligenti.» Lei fu scossa da un brivido, sopraffatta dall’emozione. Poi alzò il mento. «Mostrami che cosa ho dimenticato. Mostrami perché ho dimenticato.»

Murtagh sorrise con una punta di malcelato orgoglio. «Sarà un piacere» le disse, e la baciò sulla fronte. Le tolse il calice e passò i due bicchieri alla cameriera. Poi le prese le mani fra le sue, chiuse gli occhi e chinò il capo. Un istante dopo lei avvertì una presenza che premeva contro la sua mente, e in quel momento comprese: non era lui. Era impossibile. Infuriata per essersi lasciata ingannare, liberò la mano destra dalle dita di Murtagh, gli strappò il pugnale dalla cintura e glielo conficcò nel fianco. E gridò: A El-harím viveva un uomo, un uomo dagli occhi dorati. «Attenta ai sussurri» mi disse, «perché sono inganni velati...» Murtagh la guardò con espressione curiosamente vacua, e un attimo dopo scomparve. Tutto ciò che aveva intorno – la pergola, il cortile, la casa, le colline con i vigneti – svanì come d’incanto, e Nasuada si ritrovò a fluttuare in un vuoto senza luce né rumori. Cercò di continuare la sua litania, ma era come muta. Non riusciva nemmeno ad avvertire il battito del proprio cuore. Poi sentì che la tenebra si distorceva, e... Inciampò e cadde carponi. Pietre appuntite le graffiarono le mani. Battendo le palpebre per abituare gli occhi alla luce, si alzò e si guardò intorno. Foschia. Nastri di fumo che aleggiavano su un campo desolato simile alle Pianure Ardenti. Indossava di nuovo la camiciola strappata ed era scalza. Qualcosa ruggì alle sue spalle, facendola voltare di scatto: un Kull alto dodici piedi la caricava, facendo roteare una clava di legno e ferro grossa quanto lei. Un altro ruggito alla sua sinistra introdusse un secondo Kull insieme ad altri quattro Urgali più piccoli. Infine una coppia di figure gibbose e incappucciate emerse dalla caligine per sfrecciare verso di lei. Emettevano una serie di schiocchi e cinguettii e mulinavano le spade a lamina; non li aveva mai visti, ma sapeva che erano i Ra’zac. Rise di nuovo. Galbatorix stava solo cercando di punirla. Decise di non badare alla carica dei nemici – sapeva che non sarebbe mai riuscita a ucciderli né a seminarli – e si sedette a gambe incrociate sul terreno. Poi cominciò a canticchiare un’antica filastrocca dei nani. All’inizio di quella tortura Galbatorix si era servito di illusioni sottili e ingegnose, che certo sarebbero riuscite a ingannarla se Murtagh non l’avesse avvertita. Per non far capire al re che il suo servo fedele la stava aiutando, aveva finto di non sapere che Galbatorix stava manipolando la sua percezione della realtà, ma qualunque cosa vedesse o udisse si rifiutava di lasciare che il suo nemico la inducesse a pensare a cose che voleva tenergli segrete o, peggio, a giurargli fedeltà. Opporsi non era sempre stato facile, ma si era attenuta ai suoi rituali di pensiero e di parola, e grazie a essi era riuscita a resistergli. La prima illusione era stata quella di Rialla, una donna condotta nella Stanza dell’Oracolo come sua compagna di cella. Rialla sosteneva di essersi sposata in segreto con una spia dei Varden a Urû’baen e di essere stata catturata mentre portava un messaggio a suo marito. Nel corso di quella che parve una settimana Rialla aveva cercato di ingraziarsi Nasuada e di convincerla con arti subdole che il destino dei Varden era segnato, che combattevano per le ragioni sbagliate e che l’unica cosa giusta e saggia da fare era sottomettersi all’autorità di Galbatorix.

All’inizio Nasuada non si era resa conto che Rialla stessa fosse frutto della sua immaginazione. Era convinta che fosse una donna in carne e ossa, alterata nei pensieri e nella fisionomia da Galbatorix. Poi aveva pensato che il re si stesse concentrando non sulla sua compagna di cella ma su di lei, manipolando le sue emozioni per renderla più sensibile agli argomenti di Rialla. Murtagh sembrava scomparso, e con il passare dei giorni aveva iniziato a temere che l’avesse abbandonata nelle grinfie di Galbatorix. Quel pensiero la faceva soffrire più di quanto volesse riconoscere, e non riusciva a smettere di rimuginarci. Poi aveva iniziato a domandarsi perché Galbatorix non fosse venuto a torturarla in quei giorni, e le era venuto in mente che se era davvero passata una settimana, allora i Varden e gli elfi dovevano aver già attaccato Urû’baen. In quel caso Galbatorix però gliene avrebbe parlato, se non altro per vantarsi. Alla fine lo strano comportamento di Rialla, i buchi di memoria inspiegabili che accusava, la prolungata assenza di Galbatorix e il silenzio di Murtagh – non poteva credere che avesse infranto la promessa – l’avevano convinta che, per quanto assurdo potesse sembrare, Rialla era un’apparizione e non era davvero passato tutto quel tempo. Scoprire che Galbatorix poteva farle credere di aver vissuto più giorni del vero l’aveva sconvolta. Era una cosa terribile. Aveva perso in parte la cognizione del tempo durante la prigionia, ma bene o male era riuscita a conservare una minima consapevolezza del suo scorrere. Essere separata dalla dimensione temporale significava ritrovarsi ancora di più alla mercé di Galbatorix, perché lui poteva prolungare o comprimere le sue esperienze come meglio credeva. Nasuada però era comunque decisa a opporsi ai tentativi di coercizione di Galbatorix, che avessero a che fare con il tempo o meno. Se doveva resistere cent’anni in quella cella, cent’anni avrebbe resistito. Quando si era dimostrata immune agli insidiosi sussurri di Rialla e aveva accusato la donna di essere una vigliacca e una traditrice, la visione era scomparsa dalla stanza, e Galbatorix era passato a un altro piano. Da quel momento in poi le sue illusioni si erano fatte sempre più complesse e inverosimili, ma nonostante tutto nessuna sfidava le leggi della ragione o contraddiceva ciò che il re le aveva già mostrato, perché Galbatorix puntava ancora a tenerla all’oscuro dei suoi raggiri. I suoi sforzi avevano raggiunto il culmine quando lui aveva finto di portarla in un’altra segreta della fortezza, dove lei aveva visto quelli che sembravano Eragon e Saphira in catene. Galbatorix aveva minacciato di uccidere Eragon se lei non gli avesse giurato fedeltà. Quando lei si era rifiutata per l’ennesima volta, irritando il re e sorprendendolo al tempo stesso, Eragon aveva gridato un incantesimo che li aveva liberati tutti e tre. Dopo un breve duello Galbatorix si era ritirato – dubitava che l’avrebbe mai fatto nella realtà – e poi lei, Eragon e Saphira erano fuggiti per i corridoi e i vicoli della cittadella. Era stata un’esperienza eccitante, e per un attimo era stata tentata di non dire nulla per restare nell’illusione e vedere che cosa sarebbe successo a quel punto, ma poi si era detta che aveva giocato troppo a lungo con le immagini ingannevoli di Galbatorix. Così aveva approfittato della prima discrepanza – la forma delle squame intorno agli occhi di Saphira – e l’aveva usata come scusa per fingere la scoperta che il mondo intorno a lei era una finzione.

«Mi avevi promesso che non mi avresti mai mentito mentre ero nella Stanza dell’Oracolo!» aveva gridato alla cella vuota. «Questa cos’è se non una menzogna?» Galbatorix aveva reagito alla sua scoperta con un’esplosione d’ira ineguagliabile: aveva lanciato un ruggito di cui solo un drago grande quanto una montagna sarebbe stato capace e, abbandonata ogni sottigliezza, aveva preso a sottoporla a una serie di bizzarri tormenti. Alla fine le apparizioni erano terminate, e Murtagh l’aveva cercata per farle sapere che poteva di nuovo fidarsi dei suoi sensi. Non era mai stata più felice di sentire il tocco della sua mente. Quella notte lui era venuto nella cella e avevano passato ore seduti a parlare. Le aveva raccontato dei progressi dei Varden – erano ormai alle porte della capitale – e dei preparativi dell’Impero, e le aveva riferito di aver forse trovato il modo di liberarla. Quando lei gli aveva chiesto di spiegarle i dettagli del suo piano, lui aveva scosso il capo dicendo: «Mi serve un altro giorno, al massimo due, per capire se può funzionare. Ma c’è un modo, Nasuada. Non perderti d’animo.» Lei aveva annuito, ma a confortarla erano state soprattutto la serietà e la premura che lui le dimostrava. Anche se non fosse riuscita a evadere, era felice di sapere che non sarebbe rimasta sola nella sua prigionia. Quando gli aveva raccontato alcune delle visioni che Galbatorix le aveva trasmesso e come era riuscita ogni volta a smascherarlo, Murtagh aveva riso. «Ti sei dimostrata molto più tenace di quanto pensasse. È passato molto tempo dall’ultima volta che qualcuno gli ha dato tanto filo da torcere. Io di sicuro non ce l’ho fatta... Ne capisco poco, ma so che è molto difficile creare illusioni verosimili. Qualunque mago di una certa esperienza può farti credere di fluttuare in cielo o di avere freddo o caldo, o che ti stia spuntando un fiore davanti agli occhi. Piccole cose complesse o grandi cose semplici sono il massimo che uno stregone possa sperare di creare, e anche in quei casi bisogna rimanere molto concentrati per mantenere la finzione. Basta un attimo di distrazione e all’improvviso il fiore ha quattro petali invece di dieci, oppure svanisce di colpo. I particolari sono la cosa più difficile da riprodurre. La natura è composta da infiniti dettagli, ma la nostra mente ne rileva solo alcuni. Se ti viene il dubbio che ciò che stai guardando non è reale, concentrati su quello. Cerca le minuzie che lo stregone non conosce, che ha dimenticato di aggiungere o che ha eliminato per risparmiare energia.» «Ma se è così difficile, come fa Galbatorix a riuscirci?» «Perché usa gli Eldunarí.» «Tutti?» Murtagh aveva annuito. «Gli forniscono l’energia e i dettagli che gli servono, e lui li ricombina a suo piacimento.» «Allora le cose che vedo sono costruite sui ricordi dei draghi?» aveva chiesto lei, con una sorta di timore reverenziale. Lui aveva annuito di nuovo. «Dei draghi e dei loro Cavalieri, per quelli che ne avevano uno.» La mattina seguente Murtagh l’aveva svegliata toccandole la mente per dirle che Galbatorix era pronto a ricominciare. Poco dopo fantasmi e illusioni l’avevano travolta, ma col passare delle ore Nasuada si era accorta che le visioni – tranne alcune eccezioni, fra cui

quella di lei e Murtagh nella tenuta – si facevano sempre più confuse e semplici, come se Galbatorix o gli Eldunarí si stessero stancando. E adesso era seduta a gambe incrociate sulla pianura desolata, a canticchiare una filastrocca dei nani mentre i Kull, gli Urgali e i Ra’zac le piombavano addosso. La catturarono e le parve che la picchiassero e la ferissero; ci furono momenti in cui urlò e desiderò che il dolore svanisse, eppure nemmeno per un istante prese in considerazione l’idea di cedere al re. Poi la pianura scomparve, come anche la sua sofferenza, e lei rammentò a se stessa: Non sta succedendo davvero. Non cederò. Non sono un animale. La mente è più forte della carne. Intorno a lei prese forma un’oscura caverna illuminata da verdi funghi fosforescenti. Udì una grossa creatura aggirarsi ansimante nel buio fra le stalagmiti, e poi ne sentì il fiato caldo sul collo: puzzava di carne putrefatta. Ricominciò a ridere, e andò avanti finché Galbatorix la costrinse ad affrontare un altro orrore, e poi un altro e un altro ancora, alla ricerca di quella particolare combinazione di paura e dolore che l’avrebbe sopraffatta. Lei rideva perché sapeva che l’immaginazione del re non era in grado di competere con la sua forza di volontà, e anche perché sapeva di poter contare sull’aiuto di Murtagh. E con lui come alleato nessuno degli incubi terrificanti che Galbatorix poteva creare le avrebbe più fatto paura. [eBookLove - eBL 043] Christopher Paolini - Inheritance [by Pico]

UNA QUESTIONE DI CARATTERE Eragon scivolò su un punto viscido di fango e cadde nell’erba umida. Borbottò e si lasciò sfuggire una smorfia quando il fianco cominciò a pulsare. Di sicuro gli sarebbe venuto fuori un livido. «Barzûl» disse rialzandosi. Almeno non sono caduto su Brisingr, pensò, sfregando via dai calzoni residui di fango freddo. Di malumore, riprese a camminare verso le rovine di un palazzo dove avevano deciso di accamparsi, convinti che lì sarebbero stati più al sicuro che vicino alla foresta. Passando spaventò diverse rane-toro acquattate tra l’erba alta, che saltarono fuori dai loro nascondigli e scapparono via. Le rane-toro erano le sole altre creature bizzarre che avevano incontrato sull’isola: sopra gli occhi vitrei e rossastri avevano una protuberanza simile a un corno, e al centro della fronte cresceva un lungo peduncolo curvo; ricordava vagamente una canna da pesca e terminava con un’escrescenza carnosa che di notte riluceva. L’organo luminoso consentiva alle strane bestiole di attirare centinaia di insetti volanti, che catturavano con la lingua: grazie alla facilità con cui si procuravano il cibo erano di dimensioni ragguardevoli. Eragon ne aveva viste alcune grandi quanto la testa di un orso, con la bocca larga due palmi. Le rane-toro gli fecero tornare in mente Angela, e il Cavaliere rimpianse di non aver portato con sé l’erborista a Vroengard. Se al mondo esiste qualcuno in grado di dirci i nostri veri nomi scommetto che quel qualcuno è lei. Gli era sempre sembrato che Angela fosse capace di guardargli dentro, che lo capisse meglio di chiunque altro, meglio perfino di se stesso. Era un’esperienza inquietante, a volte, ma in quel momento l’avrebbe sopportata ben volentieri. Lui e Saphira avevano scelto di fidarsi del gatto mannaro e di fermarsi a Vroengard ancora tre giorni per tentare di scoprire i loro veri nomi. Glaedr aveva preferito non intervenire nella questione, spiegando: Voi conoscete Solembum meglio di me. Possiamo restare o partire, scegliete voi. I rischi che correremo saranno enormi sia in un caso sia nell’altro. Davanti a noi non si aprono più sentieri sicuri. Alla fine era stata Saphira a prendere la decisione. I gatti mannari non servirebbero mai Galbatorix. Amano la libertà più di ogni altra cosa. Credo alla loro parola più che a quella di chiunque altro, elfi compresi. E così erano rimasti. Era quasi un giorno e mezzo, ormai, che lui e Saphira stavano seduti a pensare, parlare, condividere ricordi e scrutarsi la mente a vicenda provando svariate combinazioni nell’antica lingua. Speravano così di trovare i loro veri nomi quasi per deduzione, o anche solo di incapparvi per caso grazie a un colpo di fortuna. Glaedr offriva il suo aiuto ogni volta che gli veniva richiesto, ma perlopiù restava in silenzio, e lasciava che Eragon e Saphira godessero della più completa intimità. Alcune delle loro conversazioni oltretutto toccavano argomenti così personali che Eragon per l’imbarazzo non avrebbe mai potuto affrontarle sapendo che c’erano altri ad ascoltarli. Bisogna scoprire da soli il proprio vero nome, disse Glaedr. Se trovassi i vostri ve li rivelerei perché non abbiamo tempo da perdere, però sarebbe meglio se ci riusciste per conto vostro.

Ma fino a quel momento nessuno dei due aveva avuto successo. Dal momento in cui Brom gli aveva parlato dei veri nomi, Eragon voleva a tutti i costi sapere il suo. La conoscenza – e in particolare la conoscenza di sé – era una cosa molto utile e sperava che il suo vero nome lo aiutasse a controllare meglio pensieri ed emozioni. Eppure non poteva fare a meno di provare una certa apprensione all’idea di ciò che avrebbe potuto scoprire. Sempre ammesso che fosse riuscito a trovare il suo vero nome nei prossimi due giorni, cosa di cui non era del tutto sicuro. Sperava di farcela, sia per il buon esito della missione sia perché non voleva che fossero Glaedr o Saphira a scoprirlo per lui. Se proprio doveva sentire la sua intera essenza descritta con una parola o una frase, allora voleva arrivarci da solo, e non sentirsela dire da qualcun altro. Eragon sospirò e salì i cinque gradini sgretolati che portavano al palazzo diroccato. Glaedr gli aveva spiegato che quella costruzione fungeva da nido durante il periodo della cova. Rispetto agli altri edifici di Vroengard era piccola, tanto da passare quasi inosservata, eppure le mura erano alte tre piani, e dentro c’era abbastanza spazio perché Saphira si potesse muovere tranquillamente. L’angolo a sudest era crollato portando con sé anche parte del tetto, ma per il resto la struttura era integra. Eragon entrò e si incamminò verso la sala principale; il rumore dei suoi passi echeggiava nell’enorme atrio. Il soffitto era a volta e il pavimento era rivestito di mattonelle invetriate attraverso cui si scorgevano volute colorate che componevano un disegno di sconcertante complessità: ogni volta che le guardava Eragon credeva di riconoscervi una forma, ma la sensazione svaniva in fretta. Il pavimento era segnato da una ragnatela di crepe che partiva dal cumulo di macerie dov’era crollata la parete. Lunghi tentacoli di edera pendevano dal soffitto sfondato come tante corde annodate. Le foglie dei rampicanti raccoglievano l’acqua piovana, che da lì cadeva in terra raccogliendosi in piccole pozze. Il gocciolio riverberava in tutto l’edificio, con un tamburellio continuo e irregolare che lo avrebbe fatto impazzire se fosse stato costretto a sentirlo per più di un paio di giorni. Davanti alla parete nord c’era un semicerchio di massi che Saphira aveva trascinato e ammucchiato a formare una barriera difensiva. Eragon balzò sul blocco di pietra più vicino, alto più di sei piedi, e atterrò dall’altro lato. Saphira smise di leccarsi la zampa e con la mente gli domandò se ci fossero novità. Eragon scosse il capo, e la dragonessa tornò alla sua igiene personale. Eragon si avvicinò al falò che aveva acceso ai piedi del muro. Si slacciò il mantello bagnato e lo distese sul pavimento, poi si sfilò gli stivali incrostati di fango e mise anche quelli ad asciugare. Altra pioggia in arrivo?, chiese la dragonessa. Pare di sì. Eragon rimase accovacciato accanto al fuoco per un po’, poi sedette sul rotolo di coperte con la schiena appoggiata al muro e rimase a osservare Saphira leccarsi gli artigli con la sua lingua cremisi. D’un tratto gli venne un’idea e mormorò una frase nell’antica lingua, ma con sua grande delusione non avvertì alcun sussulto di energia nelle parole, né Saphira reagì al richiamo, come aveva fatto Sloan quando Eragon aveva pronunciato il suo vero nome.

Il Cavaliere chiuse gli occhi e abbandonò il capo contro il muro. Era frustrante non riuscire a indovinare il vero nome di Saphira. Poteva accettare di non comprendere del tutto se stesso, ma conosceva Saphira dal momento in cui il suo uovo si era schiuso, e ne condivideva quasi ogni ricordo. Come potevano esserci parti di lei che ancora ignorava? Com’era possibile che fosse stato capace di comprendere Sloan, un assassino, e non riuscisse a fare altrettanto con la dragonessa, con cui aveva un legame indissolubile? Era perché appartenevano a due specie diverse, o solo perché l’identità di Sloan era più semplice di quella di Saphira? Non lo sapeva. Dietro suggerimento di Glaedr, lui e Saphira si erano confessati i reciproci difetti. Era stato umiliante. Anche il drago dorato aveva partecipato all’esercizio, e sebbene avesse usato un tono gentile mentre elencava le varie debolezze di Eragon, il ragazzo non era proprio riuscito a non sentirsi ferito nell’orgoglio. E sapeva di dover tenere conto anche di questo aspetto della sua personalità mentre cercava di scoprire il suo vero nome. La critica più difficile da accettare per Saphira era risultata quella mossa alla sua vanità e che a lungo la dragonessa si era rifiutata di ammettere. Per Eragon erano state l’arroganza, che a detta di Glaedr dimostrava spesso, i suoi sentimenti verso le persone che aveva ucciso, la petulanza, l’egoismo, la rabbia e molti altri difetti che condivideva con la maggior parte degli uomini. Eppure, nonostante fossero stati completamente onesti mentre si scrutavano a vicenda, la loro introspezione non aveva dato frutti. Ci restano solo oggi e domani. Lo avviliva il pensiero di tornare dai Varden a mani vuote. Come faremo a sconfiggere Galbatorix?, si chiese per l’ennesima volta. Ancora un paio di giorni e la nostra vita non ci apparterrà più. Saremo schiavi, come Murtagh e Castigo. Imprecò fra i denti e sferrò un pugno al pavimento. Mantieni la calma, Eragon, lo esortò Glaedr, e il Cavaliere notò che il drago stava schermando i propri pensieri perché Saphira non sentisse. E come faccio?, protestò lui. È facile restare calmi quando non c’è niente di cui preoccuparsi, Eragon. Ma riuscirci nelle situazioni più ardue... È questo il vero esame a cui devi sottoporre il tuo autocontrollo. Non puoi permettere alla rabbia o alla delusione di annebbiarti la mente, non adesso. Devi sgombrare la tua coscienza, ora più che mai. Tu sei sempre stato capace di rimanere calmo anche nelle circostanze più difficili? Il vecchio drago parve ridacchiare. No. Un tempo ringhiavo, mordevo, abbattevo alberi e artigliavo il terreno. Una volta ho spezzato la cima di una montagna sulla Grande Dorsale; gli altri draghi mi rimproverarono. Ma ho avuto a disposizione molti anni per imparare a mie spese che perdere le staffe non serve a un bel niente. Tu no, lo so, ma lasciati guidare dalla mia esperienza. Liberati dalle preoccupazioni e concentrati solo sul compito che ti attende. Lascia che il destino faccia il suo corso: angustiarsi potrà solo rendere più probabile che i tuoi timori si avverino. Lo so, sospirò Eragon, ma non è così semplice. Certo che no. Le cose davvero importanti non lo sono mai. Poi Glaedr si ritirò e lo lasciò al silenzio della sua mente.

Eragon estrasse dalla bisaccia la ciotola, scavalcò con un balzo la barriera di pietre e si avvicinò a una delle pozzanghere che si erano raccolte sotto lo squarcio nel soffitto. Era scalzo, e dato che aveva iniziato a cadere una pioggerella fitta, si scivolava. Eragon si accovacciò sul bordo di una pozza, riempì la ciotola di acqua piovana e la posò su un blocco di pietra alto quanto un tavolo. Poi fissò nella mente un’immagine di Roran e disse: «Draumr kópa.» L’acqua nella ciotola tremolò e dopo un attimo sulla superficie apparve l’immagine di Roran. Stava camminando con Horst e Albriech, e teneva per la cavezza Fiammabianca, il suo cavallo. Sembravano tutti e tre stanchi e sofferenti, ma avevano ancora le armi, così Eragon capì che l’Impero non li aveva catturati. Poi divinò Jörmundur, Solembum – il gatto mannaro stava divorando un pettirosso – e infine Arya, ma l’elfa era protetta dalle difese magiche ed Eragon non vide altro che tenebra. Terminò l’incantesimo e gettò via l’acqua. Mentre risaliva sulla barriera di pietre, Saphira sbadigliò e si stiracchiò, inarcando la schiena come un gatto. Come stanno?, domandò lei. «Bene, a quanto ho potuto vedere.» Rimise la ciotola nella bisaccia, poi si sdraiò sulle coperte, chiuse gli occhi e ricominciò a rimuginare sul suo vero nome. Ogni due minuti gli veniva una nuova idea, ma nessuna toccava le sue corde interiori, così la scartava e ricominciava daccapo. Tutti i nomi presentavano alcune costanti: il suo status di Cavaliere dei Draghi; l’affetto per Saphira e Arya; il desiderio di deporre Galbatorix; la parentela con Roran, Garrow e Brom; e il legame di sangue tra lui e Murtagh. Continuava a inventare nuove combinazioni tra questi elementi, ma il nome che ne risultava non gli diceva mai nulla. Era ovvio che gli sfuggiva un elemento fondamentale di se stesso, e così continuava a formulare nomi sempre più complessi nella speranza di imbattersi per caso nel dettaglio che poteva aver trascurato. Quando i nomi cominciarono a diventare così lunghi che impiegava un minuto per recitarli, si rese conto che stava perdendo tempo. Meglio riesaminare i concetti di base, si disse, perché lì doveva nascondersi l’errore. Era convinto di aver trascurato un difetto, o di non aver dato il giusto rilievo a uno che già conosceva. La gente, come aveva osservato, di rado era disposta ad ammettere le proprie imperfezioni, e lui sapeva di non far eccezione. Doveva guarire da questa cecità finché era in tempo. Nasceva dall’orgoglio e dall’istinto di autoconservazione, perché gli consentiva di affrontare la vita con una più alta considerazione di sé. Tuttavia non poteva più permettersi di indulgere a quella illusione. E mentre pensava e ripensava, il giorno volse al termine: ma i suoi sforzi si dimostrarono inutili. La pioggerella aumentò d’intensità. Eragon odiava quel tamburellio costante perché gli impediva di sentire se qualcuno si avvicinava di soppiatto. Dalla loro prima notte a Vroengard non aveva più visto tracce di quelle misteriose figure incappucciate che erano sfilate in processione per le vie della città, né aveva percepito le loro menti. Tuttavia erano ancora sull’isola, lo sentiva, e dunque lui e Saphira rischiavano di essere aggrediti da un momento all’altro. La grigia luce del giorno sbiadì nelle ombre del crepuscolo, e una notte buia e senza stelle avvolse la valle. Eragon gettò altra legna sul fuoco; era l’unica fonte di luce, e nell’enorme edificio sembrava una minuscola candela. Vicino al falò il pavimento invetriato rifletteva il

bagliore dei ciocchi che ardevano e scintillava come una lastra di ghiaccio: le volute colorate spesso distraevano Eragon dalle sue meditazioni. Non cenò. Aveva fame, ma la tensione gli chiuse lo stomaco. E poi sapeva che la digestione gli avrebbe rallentato la mente. Era sempre stato così: a pancia vuota ragionava meglio. Decise che sarebbe rimasto a digiuno finché non avesse scoperto il suo vero nome, o finché non fossero partiti dall’isola. Passarono lunghe ore. Parlarono poco, anche se Eragon percepiva i flussi di pensiero e i cambiamenti di umore di Saphira, così come la dragonessa sentiva i suoi. All’improvviso, mentre Eragon stava per scivolare nel suo sonno vigile – sia per riposare sia nella speranza che le visioni gli fornissero qualche indizio –, Saphira emise un lungo lamento e batté una zampa sul pavimento. Alcuni rami del falò caddero e si disfecero, sollevando una nuvola di scintille. Eragon scattò in piedi allarmato e sguainò Brisingr, scrutando nelle tenebre dall’altra parte della barriera di pietre. Un istante dopo si rese conto che a farle battere la zampa sul pavimento non era stata la paura né la rabbia. Era stato il trionfo. Ce l’ho fatta!, esclamò Saphira. Inarcò il collo ed eruttò una fiammata gialla e azzurra che lambì il soffitto. Conosco il mio vero nome! Pronunciò una sola frase nell’antica lingua, e la mente di Eragon riecheggiò con un riverbero simile a quello del rintocco di una campana; per un attimo le squame di Saphira scintillarono come se fossero illuminate dall’interno: sembrava fatta di stelle. Il nome era solenne e maestoso, sebbene venato di tristezza, perché la definiva l’ultima femmina della sua specie. Nelle parole che lo componevano Eragon sentì tutto l’amore e la devozione che lei provava per lui, come anche altri tratti distintivi della sua personalità. Molti li riconobbe; altri no. I suoi difetti erano evidenziati quanto le sue virtù, ma l’impressione generale era di fuoco, bellezza e maestà. Saphira fremette dalla punta del muso a quella della coda, poi stropicciò le ali. So chi sono, si compiacque. Ben fatto, Bjartskular, le disse Glaedr, soddisfatto. Hai un nome di cui andare fiera. Ma se fossi in te non lo ripeterei più, nemmeno a me stessa, finché non saremo alla... alla rocca per la quale siamo venuti qui. Devi stare molto attenta a custodire il tuo nome, ora che lo conosci. Saphira socchiuse gli occhi e stropicciò ancora le ali. Sì, Maestro. L’eccitazione che la pervadeva era quasi palpabile. Eragon rinfoderò Brisingr e si avvicinò alla dragonessa. Lei abbassò la testa fino a guardarlo negli occhi. Il Cavaliere le accarezzò il muso, poi vi premette la fronte, e si strinse forte a lei. Calde lacrime cominciarono a rigargli le guance. Perché piangi? Perché... penso a quanto sono fortunato a essere legato a te. Piccolo mio. Chiacchierarono ancora un po’; Saphira era ansiosa di raccontare ciò che aveva imparato su se stessa. Eragon era felice di ascoltarla, anche se gli era quasi impossibile scacciare del tutto l’amarezza per non essere ancora riuscito a scoprire il proprio nome.

Poi Saphira si rannicchiò e si addormentò, lasciando Eragon a rimuginare alla luce del fuoco morente. Glaedr era sveglio e vigile, e ogni tanto Eragon si consultava con lui, ma perlopiù preferì rimanere in solitudine. Le ore strisciavano inesorabili e il senso di frustrazione che Eragon provava crebbe. Stavano per esaurire il tempo a disposizione – in teoria sarebbero dovuti tornare dai Varden già il giorno prima –, eppure, malgrado i suoi sforzi, sembrava incapace di descrivere se stesso. Doveva essere quasi mezzanotte quando smise di piovere. Eragon era sempre più inquieto, poi si alzò, dolorante. Vado a fare quattro passi per sgranchirmi un po’ le gambe, annunciò a Glaedr. Era sicuro che il drago dorato avrebbe avuto da obiettare, invece gli disse: Lascia qui le armi e l’armatura. Perché? Qualunque cosa troverai, dovrai affrontarla da solo. Non puoi scoprire la tua essenza più profonda se puoi sempre contare sull’aiuto di qualcuno o di qualcosa al di fuori di te. Le parole di Glaedr erano sagge, eppure Eragon esitò per un istante. Alla fine però slacciò la cintura con la spada e il pugnale, si sfilò la cotta di maglia e si mise gli stivali e il mantello ancora umido. Poi trascinò la bisaccia con il cuore dei cuori di Glaedr accanto a Saphira. Mentre Eragon stava per lasciare il semicerchio di pietre, Glaedr lo ammonì: Fa’ quel che devi, ma sii prudente. Il cielo era ancora coperto, ma in mezzo alle nuvole si aprivano squarci da cui filtrava la luce della luna e delle stelle. Eragon era sollevato del fatto che non piovesse più e dopo un attimo di indecisione si avviò di buon passo verso il centro della città in rovina. Il senso di impotenza che albergava dentro il suo cuore prese a un tratto il sopravvento, così il Cavaliere accelerò fino a mettersi a correre. Chi sono?, si chiedeva mentre i suoi passi rimbombavano sulla strada lastricata nel silenzio della notte. Ma non riuscì a trovare una risposta. I polmoni parevano scoppiargli, ma lui non si fermò fino a quando le gambe si rifiutarono di obbedirgli. Si abbandonò contro il bordo di una fontana coperta di alghe per riprendere fiato. Intorno a lui torreggiavano edifici imponenti: sagome scure che somigliavano a una catena di antiche montagne franate. La fontana sorgeva al centro di un ampio cortile quadrato, quasi del tutto ingombro di macerie. Si allontanò spingendosi via dal bordo cui era appoggiato e girò piano su se stesso. In lontananza sentiva le rane-toro gracidare, un coro particolarmente tonante quando al canto generale si univano le voci degli esemplari più grossi. Una lastra di pietra spaccata lì vicino catturò la sua attenzione. Eragon si chinò, la afferrò per i bordi e la sollevò. Era pesante, e con i muscoli delle braccia in fiamme barcollò fino al margine del cortile e la gettò sul prato. La lastra atterrò con un tonfo.

Eragon tornò alla fontana, si slacciò il mantello e lo posò sul bordo. Poi marciò verso un frammento di cornicione che aveva scheggiato un blocco più grande, ci infilò le mani sotto e se lo caricò in spalla. Continuò a sgombrare il cortile per oltre un’ora. Alcuni dei blocchi di pietra erano così grandi che dovette ricorrere alla magia per spostarli, ma per il resto usò soltanto le mani. Lavorava con precisione metodica: andava avanti e indietro nello spiazzo e lo liberava da ogni maceria che incontrava, grande o piccola che fosse. Ben presto si ritrovò madido di sudore. Si sarebbe volentieri tolto la tunica, ma le pietre avevano spesso i bordi taglienti e avrebbe finito per ferirsi. Senza contare che aveva già il petto e le spalle coperti di escoriazioni e le mani tutte piene di graffi. La fatica fisica lo aiutò a liberare la mente, e dato che spostare pesi era un lavoro meccanico che non richiedeva particolare concentrazione, ebbe modo di riflettere su chi era e chi poteva essere. Mentre si riposava dopo aver spostato un pezzo di cornicione particolarmente pesante, sentì un sibilo minaccioso e levò lo sguardo: una snalglí dal guscio alto almeno sei piedi scivolava nel buio a velocità impressionante. Aveva il collo molle teso in avanti, la bocca socchiusa e gli occhi bulbosi puntati dritto su di lui. Al chiaro di luna la pelle della snalglí scintillava d’argento, così come la scia di bava che lasciava dietro di sé. «Letta» disse Eragon alzandosi, e si pulì il sangue dalle mani ferite. «Ono ach néiat threyja eom verrunsmal edtha, O snalglí.» Quando ebbe pronunciato la frase di avvertimento, la lumaca rallentò. Si fermò a un paio di iarde da lui, sibilò di nuovo e poi cominciò a giragli intorno. «Oh, no, non ci provare» borbottò Eragon voltandosi insieme a lei, e si guardò rapido intorno per assicurarsi che altre snalglí non tentassero di sorprenderlo alle spalle. La lumaca gigante probabilmente aveva capito che non poteva più coglierlo di sorpresa perché si fermò, sibilando e agitando i peduncoli degli occhi. «Sembri una teiera che sta per fischiare» la provocò Eragon. La snalglí agitò ancora i peduncoli degli occhi, poi lo caricò; i bordi del ventre molle fremevano per le ondulazioni del terreno. Eragon attese, e poi all’ultimo momento balzò di lato, evitando l’assalto dell’animale. Rise e le diede una pacca sul guscio. «Non sei molto sveglia, eh?» Si allontanò saltellando e iniziò a insultare la creatura nell’antica lingua, usando ogni sorta di epiteti, ma scegliendone sempre di calzanti. La lumaca parve scoppiare di rabbia: le si gonfiò il collo e dalla bocca spalancata cominciarono a volare sputi, oltre che sibili. Provò ancora ad attaccare Eragon, ma ogni volta lui scartava all’ultimo momento. Alla fine la snalglí si stancò di quel giochetto. Si ritirò a una decina di passi di distanza e rimase immobile a fissarlo con i grandi occhi sporgenti. «Come fai a catturare una preda qualsiasi se sei così lenta?» la derise Eragon, e le fece una linguaccia. La snalglí cacciò un ultimo sibilo irritato, poi si voltò e si dileguò nel buio.

Eragon attese qualche minuto per assicurarsi che se ne fosse andata davvero, poi ricominciò a sgombrare il cortile. «Forse mi dovrei chiamare Scaccialumache» borbottò, facendo rotolare un frammento di colonna. «Eragon Ammazzaspettri, Scaccialumache... Chissà che terrore incuterei nel cuore degli uomini.» Era notte fonda quando lasciò cadere l’ultimo blocco di pietra nell’erba che orlava il cortile. Si fermò a riprendere fiato. Aveva fame e freddo, era stanchissimo e i graffi sulle mani e sui polsi gli bruciavano. Era finito nell’angolo nordorientale del cortile. A nord si ergeva un immenso palazzo quasi del tutto distrutto durante la battaglia: restavano soltanto parte delle mura di fondo e un solo pilastro coperto di edera dove un tempo doveva aprirsi l’ingresso. Eragon fissò a lungo la colonna. Sopra di lui, una manciata di stelle rosse, blu e bianche brillavano da uno squarcio fra le nuvole, scintillando come diamanti sfaccettati. Provava una strana attrazione per quelle stelle, come se la loro presenza in cielo in quel momento non fosse casuale, ma avesse un preciso significato di cui avrebbe dovuto accorgersi. Senza fermarsi a riflettere su quello che stava facendo, raggiunse la cima di un cumulo di macerie ai piedi del pilastro e afferrò un tralcio di edera grosso quanto il suo braccio e coperto da una sottile peluria. Strattonò il viticcio per assicurarsi che avrebbe retto il suo peso. Una volta certo che non avrebbe ceduto, saltò e cominciò ad arrampicarsi sul pilastro. Doveva innalzarsi per trecento piedi buoni, ma più saliva, più gli sembrava alto. Dopo un po’ i viticci, soprattutto quelli più piccoli, cominciarono a staccarsi dalla pietra quando lui vi si aggrappava con tutto il peso. Eragon fece attenzione a reggersi soltanto al tronco centrale e ai tralci più grossi. Quando arrivò in cima, gli appigli erano ormai ben pochi. Lassù il pilastro era intatto: una superficie piatta e quadrata abbastanza grande da poterci stare comodamente seduto. Con le braccia che gli tremavano per la fatica, Eragon si sedette a gambe incrociate e posò le mani sulle ginocchia, palmi all’insù, lasciando che l’aria gli accarezzasse la pelle scorticata. Sotto di lui si estendeva la città distrutta: un labirinto di gusci vuoti e diroccati che echeggiava di versi strani e lamentosi. Qui e là, in alcune pozzanghere, i lumicini che le rane-toro usavano da esca dondolavano come lanterne lontane. Rane pescatrici, pensò all’improvviso nell’antica lingua. Ecco il loro vero nome: rane pescatrici. E sapeva di avere ragione perché la parola combaciava alla perfezione con quelle creature, come una chiave nella sua serratura. Poi levò lo sguardo verso le stelle che gli avevano ispirato l’arrampicata. Rallentò il respiro e si concentrò sul lento, costante ritmo con cui l’aria entrava e usciva dai suoi polmoni. Il freddo, la fame e la stanchezza gli donavano una singolare lucidità mentale: gli parve di fluttuare fuori dal suo corpo come se il legame fra la sua coscienza e la sua carne si fosse allentato. Percepiva la città e l’isola in modo più netto: sentiva ogni minima variazione nel vento, e ogni suono e odore che l’aria trasportava fin lassù. Pensò a molti altri nomi, ma nessuno descriveva pienamente chi era. Eppure gli ennesimi fallimenti non lo demoralizzarono: la lucidità di cui si sentiva ammantato era troppo profonda perché qualcosa turbasse la sua serenità.

Come faccio ad abbracciare tutto quello che sono in poche parole?, continuava a chiedersi mentre le stelle proseguivano il loro cammino nel firmamento. Tre ombre sfilacciate volarono sulla città come sottilissimi squarci nella realtà, e si posarono sul tetto di un edificio accanto. Poi le scure sagome di gufo arruffarono le piume e lo fissarono con occhi luminosi e ostili. Le ombre bubolarono, e due si grattarono le ali inconsistenti con gli artigli piatti. La terza stringeva i resti di una rana-toro fra le zampe nere. Eragon osservò gli uccelli minacciosi e loro ricambiarono il suo sguardo per qualche minuto, poi si levarono in volo e si allontanarono come fantasmi verso ovest. Una piuma che cade avrebbe fatto più rumore. Era quasi l’alba. Eragon vide la stella del mattino brillare fra due picchi a est e si domandò: «Cosa voglio?» Fino a quel momento non si era soffermato su quel particolare argomento. Voleva vedere Galbatorix sconfitto, questo era certo. Ma se lui e i Varden fossero riusciti a deporlo, cosa sarebbe successo dopo? Da quando aveva lasciato la Valle Palancar aveva sempre pensato che un giorno lui e Saphira vi sarebbero tornati, per vivere accanto alle montagne che tanto amava. Tuttavia, mentre rifletteva su questa prospettiva, iniziò a rendersi conto che non lo allettava più. Era cresciuto in quella valle e l’aveva sempre considerata casa sua. Ma adesso che cos’era rimasto lì per lui o Saphira? Carvahall era distrutto, e se anche un giorno gli abitanti l’avessero ricostruito, il villaggio non sarebbe mai più stato quello di un tempo. La maggior parte degli amici che si erano fatti nel corso delle loro avventure viveva altrove, e tutti e due avevano obblighi di lealtà nei confronti di svariate razze di Alagaësia, obblighi che non potevano ignorare. E dopotutto ciò che avevano fatto e visto, Eragon non riusciva a immaginare che si sarebbero accontentati di rimanere in un villaggio tanto piccolo e isolato. Perché il cielo è vuoto e la terra è rotonda... E anche ammesso che fossero tornati lì, che cosa avrebbero potuto fare? Allevare vacche e seminare frumento? Non ci teneva proprio a sbarcare il lunario coltivando la terra come la sua famiglia quando era piccolo. Lui e Saphira erano un Cavaliere e il suo drago: il loro destino era volare in prima linea nella storia, non sedere davanti a un fuoco a ingrassare, pigri e indolenti. E poi c’era Arya. Se avessero deciso di stabilirsi nella Valle Palancar l’avrebbe vista di rado, se non mai più. «No» disse Eragon, e nel silenzio quella parola risuonò come un colpo di maglio. «Non voglio tornare indietro.» Un formicolio gelido gli corse lungo la spina dorsale. Sapeva di essere cambiato da quando lui, Brom e Saphira erano partiti sulle tracce dei Ra’zac, ma aveva sempre pensato di essere rimasto lo stesso in fondo al cuore. Ora capiva che non era così. Il ragazzo che era stato quando aveva messo piede per la prima volta fuori dalla Valle Palancar non esisteva più; Eragon non gli somigliava, non si comportava come lui e non voleva più le stesse cose dalla vita. Trasse un profondo respiro ed emise un sospiro tremante mentre la verità si faceva strada dentro di lui.

«Non sono più quello che ero.» Pronunciare quel pensiero ad alta voce parve dargli peso e consistenza. Poi, proprio mentre i primi raggi di sole illuminavano il cielo a oriente sull’isola di Vroengard, dove un tempo erano vissuti i draghi e i Cavalieri, gli venne in mente un nome a cui non aveva mai pensato prima, e si sentì pervadere da una sensazione di assoluta certezza. Pronunciò quel nome, lo sussurrò a se stesso nei più intimi recessi della sua mente e prese a tremare, come se Saphira avesse urtato il pilastro sotto di lui. Trasalì, e poi scoppiò a ridere e a piangere insieme: rideva perché finalmente aveva trovato ciò che cercava e per la gioia suprema che si irradiava da quella nuova consapevolezza di sé, e piangeva perché vedeva tutti i suoi fallimenti, tutti gli errori commessi, senza più illusioni a confortarlo. «Non sono più quello che ero» mormorò, stringendo i bordi della colonna, «però so chi sono adesso.» Il nome, il suo vero nome era più fiacco e imperfetto di quanto gli sarebbe piaciuto: Eragon si detestò per questo, ma c’era anche tanto di cui andare fiero, e cominciò ad accettare la vera natura della sua essenza. Non era la persona migliore del mondo, ma nemmeno la peggiore. «E non mi arrenderò» ringhiò. Si consolò sapendo che la sua identità non era immutabile: avrebbe potuto migliorare, se avesse voluto. E in quel momento si ripromise che in futuro si sarebbe comportato meglio, per quanta fatica gli sarebbe costato. Fra il pianto e il riso, alzò lo sguardo al cielo e allargò le braccia. Le lacrime e le risate si spensero a poco a poco per cedere il posto a una profonda calma, venata di gioia e di rassegnazione. Malgrado l’ammonimento di Glaedr, sussurrò ancora il suo vero nome, e ancora una volta il suo intero essere riverberò della forza di quelle parole. Con le braccia sempre allargate, si mise in piedi e poi si tuffò dal pilastro. Un attimo prima di sfracellarsi disse: «Vëoht» e rallentò, fino ad atterrare con leggerezza sul cumulo di macerie come se fosse appena sceso da una carrozza. Tornò alla fontana al centro del cortile per recuperare il mantello. Poi, mentre la luce del giorno inondava la città distrutta, corse al palazzo della cova, ansioso di svegliare Saphira per raccontare a lei e a Glaedr ciò che aveva scoperto.

LA VOLTA DELLE ANIME Eragon levò la spada e lo scudo con un misto di impazienza e paura. Come la prima volta che lui e Saphira erano stati alla Rocca di Kuthian, si era fermato ai piedi del pinnacolo, con il cuore dei cuori di Glaedr custodito nello scrigno e chiuso nella bisaccia sul dorso di Saphira. Era ancora presto, e il sole splendeva dagli squarci sempre più ampi fra le nuvole. Eragon e Saphira avrebbero voluto andare subito alla Rocca di Kuthian, ma Glaedr aveva insistito perché il Cavaliere mangiasse prima qualcosa. Ora però erano finalmente al cospetto della grande guglia di roccia frastagliata, ed erano stanchi di aspettare. Da quando avevano condiviso i loro veri nomi, il legame che li univa sembrava ancora più forte, forse perché avevano compreso quanto ciascuno teneva all’altro. Avevano sempre saputo di essere uniti, ma sentirlo ribadire con tale potenza aveva accresciuto il senso di comunione. A nord un corvo gracchiò. Provo io, disse Glaedr. Se è una trappola, è meglio che sia io a farla scattare, non voi. Eragon e Saphira si ritrassero dalla mente di Glaedr per consentire al drago di pronunciare in segreto il suo vero nome, ma Glaedr li esortò: No, voi mi avete detto i vostri. È giusto che sappiate il mio. Eragon scoccò un’occhiata a Saphira, e tutti e due sussurrarono: Grazie, Ebrithil. Glaedr scandì il proprio nome, che rimbombò nella mente di Eragon come una fanfara di trombe, regale e allo stesso tempo disarmonico, tinto con i colori del cordoglio e della rabbia per la morte di Oromis. Il suo nome era più lungo di quello di Eragon o di Saphira: era composto da diverse frasi e descriveva alla perfezione una vita lunga secoli e secoli che aveva contemplato troppe gioie, sofferenze e imprese perché si potesse contarle. Da quelle parole trapelava la profonda saggezza del drago dorato, ma affioravano anche le sue contraddizioni: era un’identità così complessa che sembrava impossibile comprenderla appieno. Al cospetto del nome di Glaedr, Saphira provò lo stesso timore reverenziale di Eragon: il modo in cui risuonò nelle loro coscienze fece capire a entrambi quanto erano giovani e quante cose dovevano ancora fare per poter anche solo sperare di eguagliare la conoscenza e le esperienze di Glaedr. Chissà qual è il vero nome di Arya, si domandò Eragon. Scrutarono la Rocca di Kuthian con attenzione, ma non videro alcun cambiamento. Allora toccò a Saphira. La dragonessa inarcò il collo e scalpitò come un focoso destriero, poi pronunciò con fierezza il proprio vero nome, e ancora una volta le sue squame scintillarono e brillarono. Nel sentire i veri nomi di Saphira e Glaedr, Eragon non riuscì a fare a meno di provare una punta di vergogna pensando al proprio. Non erano perfetti, però non si biasimavano per i loro difetti; anzi, li accettavano e li perdonavano.

Ancora una volta non accadde nulla. Allora Eragon fece un passo avanti. Il sudore gli velava la fronte. Sapeva che poteva essere l’ultima cosa che faceva da uomo libero, e proprio per questo i draghi gli avevano suggerito di non dire ad alta voce il suo nome per evitare il rischio che qualcuno potesse sentirlo. E così lo recitò nella mente, come avevano fatto Glaedr e Saphira. Aveva appena finito di pronunciarlo quando ai piedi del pinnacolo roccioso comparve una sottile linea scura. Risalì lungo la roccia per una cinquantina di piedi, poi si biforcò e ridiscese ad arco, tracciando i contorni di due grandi battenti. Sul portale comparvero file e file di glifi dorati: incantesimi di protezione da intrusioni sia fisiche sia magiche. Quando il disegno fu completo, i battenti si spalancarono ruotando su cardini invisibili e spazzarono via la polvere e il fogliame che si erano accumulati davanti alla rocca dall’ultima volta che il portale si era aperto, chissà quanto tempo prima. Oltre la soglia si palesò ai loro occhi un’enorme galleria dal soffitto a volta, che scendeva ripida nelle viscere della terra. I battenti si fermarono e la radura piombò di nuovo nel silenzio. Eragon guardò l’antro buio con crescente apprensione. Avevano trovato quello che stavano cercando, ma c’era ancora la possibilità che fosse una trappola. Solembum non ha mentito, commentò Saphira saggiando l’aria con la lingua. Già, ma cosa ci aspetta dentro?, chiese Eragon. Questo posto non dovrebbe nemmeno esistere, sentenziò Glaedr. Noi e i nostri Cavalieri abbiamo nascosto molti segreti a Vroengard, ma l’isola è troppo piccola perché qualcuno potesse scavare una galleria tanto grande all’insaputa degli altri. Eppure non ne ho mai sentito parlare. Eragon aggrottò le sopracciglia e si guardò intorno. Erano ancora da soli; nessuno stava per aggredirli alle spalle. E se l’avessero costruita prima che i Cavalieri dei Draghi si stabilissero qui a Vroengard? Glaedr rifletté per qualche istante. Non saprei... può darsi. È l’unica spiegazione plausibile, ma se davvero è così, allora dev’essere antichissima. I tre scandagliarono il tunnel con la mente, ma non percepirono tracce di vita. D’accordo, disse Eragon. Avvertiva in bocca il sapore amaro della paura, e gli sudavano le mani. Qualunque cosa avessero trovato in fondo alla galleria, voleva scoprirlo una volta per tutte. Anche Saphira era nervosa. Andiamo a stanare il ratto che si nasconde qui dentro, li esortò. Insieme varcarono il portale ed entrarono nel tunnel. Quando la punta della coda di Saphira ebbe oltrepassato la soglia, i battenti si richiusero con un tonfo di pietra, gettandoli nell’oscurità più assoluta. «Oh, no, no, no!» esclamò Eragon tornando di corsa alla porta. «Naina hvitr» aggiunse, e una bianca luce uniforme illuminò l’ingresso della galleria. Il portale da quel lato era perfettamente liscio; Eragon lo martellò di pugni e lo prese a spallate, ma non lo spostò nemmeno di un millimetro. «Maledizione. Avremmo dovuto

usare un ramo o un sasso per tenerlo aperto» borbottò, rimproverandosi per non averci pensato prima. Se serve, possiamo sempre abbatterlo, propose Saphira. Ne dubito, la contraddisse Glaedr. Eragon strinse l’elsa di Brisingr. Non possiamo far altro che proseguire, allora. Il Cavaliere modificò l’incantesimo affinché la luce bianca splendesse da un unico punto del soffitto – l’assenza di ombre gli avrebbe altrimenti impedito di valutare le distanze – e cominciarono a scendere lungo la ripida galleria. Nel tunnel non c’erano scalini, ma il pavimento non era liscio e ci si camminava bene. Dove s’incontrava con le pareti non c’erano segni di giunzione: sembrava quasi che la pietra fosse stata fusa, il che suggerì a Eragon che con tutta probabilità a scavare quel tunnel erano stati gli elfi. Continuarono a scendere, e dopo un po’ Eragon si disse che con ogni probabilità avevano ormai superato le colline alle spalle della Rocca di Kuthian e si stavano addentrando nelle viscere della montagna. Il tunnel correva diritto, senza curve né diramazioni, le pareti del tutto spoglie. A un tratto Eragon sentì un soffio di aria tiepida risalire dalla galleria e notò un fievole bagliore arancione in lontananza. «Letta» mormorò, e il fuoco fatuo si spense. La temperatura nel tunnel salì via via che scendevano e il bagliore divenne più intenso. Ben presto riuscirono a scorgere la fine: un enorme arco nero interamente coperto di glifi scolpiti che sembravano un cespuglio di rovi. L’aria era satura di zolfo, ed Eragon si sentì lacrimare gli occhi. Si fermarono davanti all’arco: dall’altra parte si intravvedeva soltanto un liscio pavimento di pietra grigia. Eragon si guardò rapido alle spalle, poi tornò a studiare l’arco. Quel passaggio irregolare lo rendeva nervoso, e sentì che anche Saphira era tesa. Cercò di decifrare i glifi, ma erano troppo fitti e intricati, e non riuscì a rilevare tracce di energia nell’oscuro passaggio. Eppure era certo che fosse incantato. Chiunque avesse costruito la galleria era stato abile a nascondere l’incantesimo di apertura del portale all’esterno: era probabile che l’arco celasse una magia altrettanto difficile da individuare. Scambiò una rapida occhiata con Saphira, poi si inumidì le labbra ricordando ciò che aveva detto Glaedr: “Davanti a noi non si aprono più sentieri sicuri.” Saphira sbuffò, eruttando un piccolo getto di fuoco dalle narici; poi lei ed Eragon attraversarono insieme l’arco.

LACUNE COLMATE, PARTE PRIMA Eragon notò diverse cose tutte insieme. Primo: si trovavano ai margini di una vasta sala circolare del diametro di oltre duecento piedi, con un grande pozzo al centro; era da lì che proveniva il bagliore arancione. Secondo: l’aria era torrida e irrespirabile. Terzo: tutto intorno alla stanza correvano due anelli concentrici di spalti che reggevano numerosi oggetti scuri. Quarto: la parete dietro gli spalti scintillava come se fosse tempestata di cristalli colorati. Ma non ebbe modo di esaminare meglio la parete né gli oggetti scuri, perché nello spazio aperto accanto al pozzo c’era un uomo dalla testa di drago. Era di metallo, e splendeva come se fosse stato fatto di acciaio lucidato. Era nudo, tranne che per un perizoma plissettato, sempre di metallo, e aveva i muscoli del torace, delle braccia e delle gambe scolpiti come quelli di un Kull. Nella mano sinistra reggeva uno scudo e nella destra impugnava una spada iridescente. Appena la vide Eragon non ebbe alcun dubbio: era la spada di un Cavaliere dei Draghi. Alle sue spalle, incassato nella parete opposta della sala, c’era un trono che recava impres