In tenebris [PDF]

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Zitiervorschau

MAXIME CHATTAM IN TENEBRIS (In Tenebris, 2003) Posso darvi un piccolo suggerimento? Aspettate che faccia notte, accendete la lampada sul comodino e aprite la prima pagina. MAXIME CHATTAM Edgecombe, gennaio 2002 «Il diavolo non si fa scrupolo, pei suoi bisogni, di citar le Scritture.» WILLIAM SHAKESPEARE, Il Mercante di Venezia PROLOGO 12 aprile 1997, da qualche parte sopra il Colorado Harvey Morris aprì il tavolino davanti a sé e vi appoggiò il suo orologio al quarzo. Nella carlinga regnava un'atmosfera ovattata, a malapena turbata dal flebile piagnucolio di un bambino, qualche fila più in là. I passeggeri erano immersi nella visione del film, oppure dormivano, il capo chino sul mento. Harvey scrutò attraverso l'oblò; le sue dita tamburellavano nervosamente contro il bracciolo. Non ne poteva più di aspettare. Ogni minuto sembrava un'ora, e il supplizio pareva non finire mai. Cominciava ad aver male alla schiena, aveva bisogno di stendere le gambe e, ovviamente, il suo vicino si era appisolato, bloccandogli il passaggio al corridoio. Controllò l'ora, come se questo potesse cambiare qualcosa. Le 16 e 42. Il tempo non passava. Non potendo fumare, si mise in bocca un altro chewing gum, il quinto dalla partenza. Fuori questione accettare uno di quei cerotti per fumatori che le hostess distribuivano su richiesta. Metti che poi quelle schifezze ti fanno venire un cancro alla pelle, si diceva, diffidente. Sospirò e si rituffò nella contemplazione del cielo. Non si vedeva altro che un lungo pennacchio soffice come cotone, giù di sotto, lontano, e l'infinito elmo azzurro che lo portava. Mentre viaggiava a 30.000 piedi di altitudine, alla velocità di 325 nodi, il segnale radar del Boeing 747 della Continental scomparve dagli schermi

a 300 millibar di pressione, grosso modo l'equivalente dell'altezza dell'Everest. L'aereo planava maestosamente sopra un mare di nuvole opalescenti, scivolando furtivo tra il blu del cielo e l'immobile marea bianca; il sole brillava sulla sua superficie metallica, schegge di luce che si riflettevano qua e là, come piccoli diamanti sul punto di fondersi. Poi, all'improvviso, attraverso uno degli oblò opachi, apparve una scintilla. Niente di veramente strano, un lampo e nulla di più. Il resto durò meno di un istante. La fusoliera si accartocciò come aspirata dall'interno, simile a un cartone di succo di frutta succhiato con la cannuccia fino a svuotarlo di tutta l'aria. Una tonnellata di aria pressurizzata si era appena dispersa nell'atmosfera. Nello stesso momento divamparono le fiamme. Dal centro della carlinga si propagò una sfera di fuoco che divorò tutto l'apparecchio. Gli oblò esplosero, il guscio si lacerò e la velatura delle ali si volatilizzò mentre i serbatoi di cherosene venivano inghiottiti dall'esplosione. Il gigantesco impennaggio verticale con i colori della compagnia si spezzò, frantumandosi in migliaia di frammenti infuocati. In un batter d'occhio, le sedici tonnellate dei quattro motori Rolls-Royce RB211 si sparsero nel cielo, a parecchi chilometri di distanza. I quattro milioni e mezzo di pezzi che costituivano il volo CO-4133 furono polverizzati pressoché in silenzio. 9150 metri più giù, un ragazzo di quindici anni era disteso su un prato; il leggero cinguettio degli uccelli e il frinire irregolare di un grillo facevano da contrappunto ritmico al silenzio circostante. Con un filo d'erba tra i denti, pensava a Jessica, la ragazza che sedeva accanto a lui durante le lezioni di matematica. Mentre contemplava il candore delle nuvole, ebbe l'impressione di scorgere un punto luminoso. Fu breve, ma talmente intenso che si chiese se non si trattasse di una sorta di faro spaziale per le navicelle perdute. Poi, visto che il fenomeno non si riprodusse più, se ne dimenticò e si rituffò nei suoi sogni di adolescente. Quando più tardi, nel corso della serata, sentì parlare del disastro aereo al telegiornale, non ricollegò minimamente i due eventi. Trecentododici tra passeggeri e membri dell'equipaggio morirono senza testimoni, anonimamente. La conferenza stampa fu organizzata quando la neve delle Montagne Rocciose era ormai ricoperta di rosso. Come se si fosse atteso il crepuscolo

per parlare di morte. Vi presero parte i membri dell'NTSB e della FAA, oltre ad alcuni rappresentanti della compagnia aerea. A denti stretti, qualcuno ammise di non avere idea di cosa fosse accaduto e parlò di «tragico incidente» e «guasto tecnico», preparando il terreno per le scuse da offrire alle famiglie. Anche dopo parecchi anni di indagini, la causa dell'incidente» sarebbe rimasta ignota, e l'ipotesi del cortocircuito restò a lungo quella privilegiata, senza tuttavia essere confermata. Non si seppe mai cosa accadde davvero. Alcuni dissero che era stato un gruppo terrorista di estrema destra protetto da elementi del governo a compiere l'attentato, altri mormorarono che era stata fatta la volontà del Caos, altri ancora evocarono il Male. Voci. Le conseguenze di quella tragedia avrebbero tuttavia superato in orrore tutto ciò che era avvenuto prima. In seguito a quell'esplosione, stava per cominciare un massacro ancor più sanguinoso. Un mostro era appena uscito dal bozzolo e aveva cominciato la sua lenta maturazione. La distruzione dell'aereo non era che una chiave. Un passo verso l'indicibile, verso un essere diverso. Un assassmo senza cadaveri. Un assassino senza nome, un'ombra. Al vertice della società, al di là degli uomini. Invisibile. BROOKLYN gennaio 2002 PARTE PRIMA «Non si può avere una civiltà piacevole senza una buona quantità di vizi piacevoli.» ALDOUS HUXLEY, IL MONDO NUOVO 1 Il clacson del pick-up urlò nella notte, lacerando la silenziosa quiete del crepuscolo. Come se tutto stesse infilandosi in un improvviso caos, subito si sovrappose uno stridio di pneumatici ancora più insolente, feroce e penetrante. I fari scavavano nell'oscurità un unico profondo solco. Eppure non c'era più alcuna traccia deE'ombra. Era passata così in fretta!

Qualche metro più in là un altro veicolo fece un'impressionante sbandata, vomitando la rabbiosa protesta del proprio clacson. Lei fuggiva, sorda a quel tumulto, chiusa nell'involucro del panico, senza percepire altro che i battiti opprimenti del cuore, il sangue che pulsava violento nelle vene. ... È qui! Sta arrivando! È proprio dietro di me! Ora allunga la mano e mi afferra con quelle dita! Mi prenderà, me lo sento: lui è qui! Correva per la propria vita. Una figura sottile ed eterea che correva a grandi passi sull'asfalto, esponendo il corpo nudo alla luce accecante delle vetture che nella confusione cercavano di scansarla. A un tratto un concerto terrificante esplose al limitare del parco, ripercuotendosi contro i muri dei fabbricati vicini mentre le macchine si fermavano di botto l'una dopo l'altra. Due si scontrarono, aggiungendo alla partitura un'improvvisazione per lamiere accartocciate. Si sta avvicinando! Presto! Presto! Sta per prendermi! Non sentiva più niente. Né il respiro ardente che esalava dal suo petto come un geyser, né i crudeli morsi del suolo sulla pelle devastata dei suoi piedi. Correva disperata, lasciandosi dietro a ogni falcata un'impronta sanguinante. Senza esitazione, senza nemmeno rendersi conto di ciò che faceva, si gettò dentro un boschetto; lo attraversò in un batter d'occhio e sbucò su un'altra strada, davanti a un camion per le consegne. La frenata divorò in un istante la gomma degli pneumatici, lasciando sull'asfalto una lunga traccia scura. L'autista fu costretto ad alzarsi in piedi per sterzare, ma le dodici tonnellate atterrarrono sullo spartitraffico e contro un camioncino in sosta, prima di buttare giù un lampione e terminare infine la corsa sul marciapiede. Corri! Corri! La sua mano è qui, sulla tua schiena, pronta ad afferrarti! Corri! Sentiva già il respiro della morte che le carezzava una spalla, scendeva tra i seni e colpiva. Colpiva senza tregua. Da lontano, due passanti assistettero attoniti alla scena, che non durò comunque più di trenta secondi, il tempo di vedere una donna nuda, sconvolta, attraversare zigzagando a tutta velocità una serie di viali e immergersi nelle tenebre del parco. L'uomo guardò la moglie per accertarsi di non aver avuto un incubo a occhi aperti. Se ne stava lì, la bocca spalancata per lo choc alla vista dell'ampia crosta vermiglia che ricopriva il cranio di quella pazza.

La città scomparve dietro la sagoma nera, subito inghiottita dai folti rami carichi di mistero, divorata dall'implacabile meccanismo della natura. Neppure le luci artificiali della civiltà sopravvissero. Lei continuava a correre, il sudore della paura misto a quello distillato dallo sforzo, e le gocce ruscellavano sul suo corpo nonostante il freddo. Risalì un sentiero coperto di ramoscelli secchi, poi scelse di svoltare a destra. Presto! gridò disperata, ormai al limite delle forze. Si sentì sollevare, in preda a uno spasmo improvviso; le venne la pelle d'oca su tutto il corpo, e prese a tremare. Le vertigini che non l'avevano abbandonata da quando era fuggita si amplificarono fino a un punto insostenibile; l'ondata di terrore che seguì diede il colpo di grazia a ciò che ancora la teneva in piedi. Le gambe cedettero nell'attimo in cui scavalcava il piccolo bordo del sentiero e si lanciava giù dal pendio, tra gli alberi. Il suo corpo si immobilizzò dieci metri più in basso, in mezzo ai giunchi. Le braccia serrate contro il petto, le cosce ripiegate in posizione fetale, giaceva come una madonna dimenticata sotto lo sguardo imperturbabile della luna, il cui riflesso scivolava sulla superficie di un grande lago. Respirava ancora. 2 C'è sulla collina di Brooklyn una passeggiata che domina Manhattan, una striscia scura di cemento al di sopra della baia, frequentata da coppie e da persone di una certa età. Le case che delimitano questo viale sono alte e strette, con le facciate decorate da motivi in rilievo, piene di finestre che di notte spiccano nel buio. Sul tetto di una di queste case brilla una strana luce. È una cupola di vetro, come la sommità di una mongolfiera che spunta da un deposito. Se qualcuno si ritrovasse là in cima, sarebbe stupito di vedere un po' di semi di girasole lasciati per gli uccelli. Il suo sguardo potrebbe scendere quattro metri più in basso, attraverso la cupola, sul parquet dell'appartamento, e seguire i listelli del pavimento fino a un divano coperto da un plaid andino multicolore. È un salone pieno di calore, un bozzolo protettivo in cui il visitatore si sente subito a suo agio. Sul tavolino basso, un bastoncino d'incenso esala una spirale di fumo

che ondeggia in una fantasmagorica danza del ventre. L'ipotetico visitatore, catturato dalla serenità dell'ambiente, non può sfuggire all'impulso di esplorare, dopo appena un attimo di esitazione, ancora un po' la casa. Ed ecco, un bellissimo cavallo di tek, perfettamente conservato; di certo nessun bambino ci si è mai divertito sopra. Di fronte, un muro di mattoni rossi, da cui proviene una luce calda diffusa da tre applique. Quattro vasi canopi pendono immobili da altrettante catenelle. Il loro antico, sinistro contenuto è stato sostituito da edera finta, che protende il suo abbondante fogliame nel vuoto. Accanto a questo omaggio discreto al faraone e a Bacco, una litografia che riproduce i giardini pensili di Babilonia. In blu, con una grafia elegante, qualcuno ha scritto sotto il disegno: Ad Annabel, musa dall'Eden, ecco un piccolo giardino per la mia meraviglia. Alla lettura di una dedica così sincera, il curioso è tentato di tornare sui suoi passi e fuggire attraverso la cupola, ma nel fare dietrofront scopre l'altro muro. Ancora mattoni rossi, appena sporgenti, e due maschere africane dalla mimica piena di fascino. Non hanno nessuna espressione riconoscibile, e neanche dei veri occhi e una bocca, semmai orifizi vergini per accogliere le emozioni di colui che le indossa. E, tra questi volti dipinti, una quantità di foto. Centinaia di istanti fissati, sentimenti catturati, ritagliati e infine disposti gli uni con gli altri, gli uni sugli altri. Non potendo fare a meno di soddisfare il proprio desiderio di comprendere, il visitatore attraversa il salone. Scansa il divano e il tavolino e oltrepassa un tappeto di lana pregiata, senza neppure notare l'impianto hi-fi e le torri luminose dell'equalizzatore. Allora, sente la musica per la prima volta. Molto bassa, sospesa tra dolcezza e irrealtà, come un'assenza. Un'onda armoniosa che potrebbe essere un brano di Sade o di jazz sensuale. Ma lui non si lascia distrarre, e arriva in fretta davanti alle foto. Per la maggior parte ritraggono paesaggi esotici. Neve, sole, sabbia, tempesta, tempio, chiesa, Petra, Cappadocia e molti altri luoghi ancora, tantissimi e tutti diversi. In questo giro del mondo a due dimensioni qua e là appaiono dei volti, disseminati con intelligenza e moderazione. Due persone in particolare appaiono quasi sempre, spesso vicine, a volte abbracciate. Un uomo dai lunghi capelli scuri, non particolarmente bello, un tipo normale ma con un sorriso affascinante e uno sguardo gentile. Al suo fianco, una donna un po' più giovane di lui. Il colore caldo della sua pelle e le lunghe treccine nere lasciano presumere lontane ascendenze africane. L'uomo è sulla quarantina e scherza spesso, fa addirittura il pagliaccio,

scatenando risate irrefrenabili nella sua compagna. A questo grado di intimità, il visitatore può permettersi un ulteriore approfondimento, e il dolce sciacquio che sente oltre la porta alla sua destra sembra invitarlo. Apre la porta, e scopre una cucina stretta e lunga. Per nulla funzionale, dal momento che lo spessore dei mobili riduce lo spazio a un semplice corridoio. Quello che poi lo sorprende è un'arma da fuoco nella sua fondina, appoggiata su un sottile piano di lavoro. Una Beretta da 9 millimetri. Più in là, la donna che ha visto nelle foto rimesta con un cucchiaio di legno dentro una casseruola. Nelle foto assomiglia un po' ad Angela Basset, dal vivo ricorda più Angelina Jolie, con la pelle meno chiara. Assorta nella lettura de Il giovane Holden, sembra insensibile al vapore che le avvolge la mano. Nonostante il pullover sformato che ricade sui pantaloni di cotone, la sua silhouette rivela un fisico atletico. Ai piedi indossa delle espadrillas di corda. Da questa distanza dimostra trent'anni o poco più. L'abbronzatura naturale della pelle conferma le origini afro-americane. Le lunghe e fitte treccine sono raccolte in uno chignon disordinato fermato da una bacchetta cinese. Le labbra sono piene, appena rosate, il naso sottile alla radice e poi più camuso, i grandissimi occhi neri come due pozzi senza fondo. È concentrata, appassionata. Appoggia il mestolo e gira una pagina con tale piglio da strapparla un pochino. Il suo nome è Annabel O'Donnel. È investigatrice al 78° Distretto di Brooklyn da quattro anni e questa sera, dopo una giornata difficile, comincia il suo riposo compensativo. Ma forse tutto questo comincia a essere troppo per il nostro visitatore curioso, il quale potrebbe eclissarsi attraverso la finestra - la stessa contro la quale è appoggiata Annabel - che domina, dall'alto della collina di Brooklyn, la punta di Manhattan con le sue torri sfavillanti di luci. Annabel cenò con un piatto di spaghetti senza interrompere la lettura, seduta sul sofà multicolore, con la musica dello stereo come sottofondo. A mezzanotte il suo corpo era stanco, ma la mente continuava a divorare pagina dopo pagina, insaziabile. Adorava leggere fin da quando era bambina. In un angolo del salone giacevano pile traballanti di libri, alcuni ingialliti; torri di carta che sembravano sempre sul punto di crollare. Non si era mai comprata una libreria: le piaceva il fascino polveroso dei cumuli di volumi che crescevano anno dopo anno. Faceva lo stesso con le riviste; non gettava via niente, riempiva un baule di vimini con tutti i periodici a cui era ab-

bonata. Di fatto, tutto ciò che le passava tra le mani finiva in un cassetto o in una scatola di cartone, incapace com'era di gettare via alcunché, fosse anche una foto riuscita male o un biglietto del cinema, se solo la serata le aveva lasciato un buon ricordo. Tuttavia, il suo appartamento era sgombro, con pochi mobili e ancora meno suppellettili. Aveva cura di non esibire le sue piccole manie davanti agli occhi del primo venuto. E questo valeva anche per la sua anima composta da spessi strati accumulatisi nel tempo, in attesa della violenta scossa che un giorno li avrebbe fatti crollare, ammesso che fosse ancora possibile. La lampada vicina al divano era l'unica accesa nell'appartamento, una abat-jour in pelle di cammello che l'uomo delle foto aveva portato a casa due anni prima. Annabel girò le pagine senza cedere alla stanchezza (aveva finito per distendersi), fino a che l'ultima le consegnò i suoi segreti e le sue conclusioni. Rimase a riflettere per lunghi minuti, ammirando attraverso la vetrata l'orizzonte mutilato di Manhattan. Ai piedi degli edifici, l'Hudson e l'East River formavano una cosa sola, mescolando le loro acque in una gigantesca macchia nera. A un tratto Annabel sussultò allo squillo del telefono. Non era abituata a ricevere chiamate a casa a quell'ora. Quando era in servizio, era raggiungibile attraverso il cercapersone o il cellulare. Tese la mano verso la mensola e alzò il ricevitore. «Annabel, sono io, Jack», udì. «Jack?» Jack Thayer era il suo compagno di squadra. E, come ogni compagno, col tempo era diventato qualcosa di più: un amico, un confidente. Ma chiamava solo di rado sulla linea personale di casa O'Donnel, e sempre a orari decenti. «Ti ho svegliata?» chiese, senza peraltro scusarsi. C'era un che di imperioso nella sua voce, l'urgenza di qualcosa di grave. «No, ma non sono più in servizio. Non per stasera e ancora meno stanotte. E neanche tu, del resto», rispose lei, intuendo che il motivo della chiamata era professionale. «Senti, mi sono fermato un po' di più per far compagnia ai ragazzi e... ci è... Mi è appena capitato tra le mani qualcosa di grosso. Ho bisogno di te.» «Come? Così, su due piedi? Sei fuori di testa, Jack! Io...» «Hanno appena trovato una donna a Prospect Park», la interruppe lui. «Era nuda e...» Annabel attese il seguito, presentendo il peggio.

«Devi venire assolutamente: ha bisogno di una presenza femminile», tagliò corto Jack. «È sotto choc.» «Ci sono altre investigatrici, stasera, al distretto, perché proprio io?» Un'esitazione, all'altro capo del filo. Il detective Thayer, famoso perché non perdeva mai tempo ed era dotato di un sangue freddo a prova di bomba, frenò il suo slancio. «Può darsi che sia stata rapita.» Il cuore di Annabel si strinse. Chiuse gli occhi. Le parole magiche: rapimento e scomparsa. Le parole che tutti, al 78° Distretto, avevano imparato a non pronunciare alla leggera in sua presenza. Due situazioni che non aveva mai vissuto di persona ma che risvegliavano ogni volta in lei un dolore sordo. E lei lo allontanò dalla mente, prima che il disagio si facesse troppo pesante. Poi chiese: «Come sono andate le cose?» Jack Thayer tirò un profondo respiro, come per prendere coraggio prima di lanciarsi. «Uno dei guardiani del parco faceva un giro di ronda in direzione del lago quando ha ricevuto una chiamata radio. All'inizio della serata c'è stato un tamponamento a catena, provocato da... secondo i testimoni, 'una donna nuda, che correva come una matta'. È sparita nella zona sud del parco, all'altezza della Pergola, su Parkside Avenue. I colleghi del guardiano gli hanno chiesto di andare a dare un'occhiata, anche se erano piuttosto scettici. Il fatto è che lui l'ha trovata, semidelirante.» Di nuovo fece una pausa forzata, come a cercare le parole giuste. «Dovresti proprio venire», finì per sbottare. «Il guardiano pensa che si sia ridotta così da sola, che sia una povera pazza. Ma a me pare impossibile. È stato qualcun altro a conciarla in quel modo.» «A conciarla come? Jack, che cosa le hanno fatto?» Di nuovo, lui parve esitare. «Non al telefono. Bisogna che tu la veda con i tuoi occhi, raggiungimi. Sono alla villa Litchfield, dalle guardie del parco.» Nel minuto che seguì, Annabel recuperò la sua arma d'ordinanza, infilò un maglione più caldo e prese la giacca, poi uscì di corsa. Elettrizzata dal contrasto tra il precedente torpore e la rapidità della conversazione telefonica, quando arrivò in macchina le girava la testa. Si concesse due minuti per riprendere fiato, le r ani sul volante, poi mise in moto. Attraversò la selvaggia fortezza urbana sotto lo sguardo cupo della luna

che non mollava Brooklyn. 3 Arretrata rispetto a Prospect Park West, la villa Litchfield sembrava una nave persa nella notte. Le sue alte finestre brillavano tra le querce e gli aceri, dominando uno stretto viale sinuoso che sbucava in un minuscolo parcheggio. Le torri incappucciate di bianco dell'oscuro maniero si issavano al di sopra del paesaggio boscoso, vegliando coscienziosamente sui duecentodieci ettari della tenuta che formava un'immensa macchia in mezzo agli edifici di Brooklyn. Annabel conosceva l'edificio. Dal 1993 Prospect Park era sotto la giurisdizione del 78° Distretto, e spesso era stata chiamata lì per casi di aggressione. Tuttavia non c'era mai entrata di notte, e quella che di giorno era una sontuosa dimora somigliava ora a un lugubre castello. Chiuse la portiera della sua BMW 4x4 e si diresse all'entrata. Bandiere avvolte nell'oscurità ondeggiavano dall'alto di un'asta. Ad Annabel ricordarono dei pipistrelli giganti che sbattevano le ali. Che sciocchezze, si disse. Non hai niente di meglio a cui pensare? Salì i gradini della scalinata; comprese la gravità della situazione dall'agitazione che regnava nella sala della reception. La villa, che ospitava uffici, era generalmente vuota dal crepuscolo all'alba. Ma quella sera, a mezzanotte passata, c'erano almeno una mezza dozzina di uomini con l'uniforme delle guardie del parco che andavano avanti e indietro discutendo nervosamente. Quasi tutti si scaldavano le mani con un bicchiere di plastica pieno di caffè bollente. Quando Annabel entrò, uno di loro, un biondo grande e grosso con i baffi ben curati, le si avvicinò e le tese la mano. «Detective... ehm, O'Donnel?» Annabel annuì. «Mi chiamo Stanley Briggs, sono io che ho trovato la donna», spiegò, un po' troppo pieno di sé. «Venga, mi segua, il suo collega è al piano di sopra.» La guidò verso una scala ripida e poco illuminata. «Non si offenda», esordì la detective, cercando di assumere un tono amichevole, «ma da quando il parco dispone di guardie? C'è una squadra speciale assegnata, ma per quanto ne so non fa servizio di pattuglia di notte.»

«È proprio per questo motivo che siamo qui, signorina.» «Signora.» «Oh, mi scusi. Facciamo parte dell'Associazione di Prospect Park, siamo noi che ci occupiamo della manutenzione di questo posto. Da qualche mese, di notte, vengono bande di giovinastri che mettono tutto a soqquadro, così formiamo squadre di volontari per sorvegliare un po' la zona, in aggiunta al nostro lavoro nel parco. Sia ben chiaro che non ce l'abbiamo con la polizia, voi non potete certo pattugliare ovunque. So bene che di notte sulla 3a Avenue avete già i vostri problemi. È per questo che ci siamo organizzati tra noi.» Alle spalle di Briggs, Annabel inarcò le sopracciglia. La buona volontà era una qualità innegabile, ma talvolta era fonte di problemi, soprattutto per la polizia. «Ecco, ci siamo», disse il guardiano, aprendo una porta. Prima di entrare, Annabel gli tese la mano e lo ringraziò, invitandolo a lasciarli soli senza ulteriori formalità e spiegazioni. Richiuse la porta dietro di sé. Jack Thayer era seduto su una sedia; la fatica della giornata accentuava le sue rughe, già piuttosto marcate in condizioni normali. Era un quarantenne piccolo e nervoso, con i capelli pepe e sale corti, sempre vestito con lo stesso abito spiegazzato. La somiglianza con lo stereotipo dell'investigatore di polizia si fermava qui. Non fumava, non beveva caffè, e non era neppure volgare. Era un tipo battagliero, dinamico, ma capace anche di pensare. Appassionato di poesia e teatro, si portava sempre dietro in qualche tasca della giacca un volumetto, per ammazzare il tempo nei momenti di noia. Di tanto in tanto «scarabocchiava» qualche riflessione su un taccuino o sul retro della fotocopia di un mandato, e dispensava con aria modesta consigli filosofici ai colleghi. Era una spalla su cui piangere, che offriva anche il fazzoletto per asciugare le lacrime. Jack era per Annabel una sorta di surrogato casalingo di Marco Aurelio, pur senza la statura dell'imperatore. Lui a questo ribatteva che la «disciplina degli antichi» aveva, nel suo caso, una spiacevole tendenza a rompere l'equilibrio a favore della mente e a detrimento del corpo, benché godesse di buona salute. Queste osservazioni avevano sempre divertito molto Annabel. Nel corso degli ultimi quattro anni, le otto ore quotidiane in compagnia di Jack Thayer erano trascorse altrettanto in fretta di una conversazione appassionante. Talora si confidavano a vicenda ciò che non osavano dire alle persone più care, o cercavano insieme le soluzioni ai reciproci problemi.

Il grigio dei suoi occhi si posò su Annabel, e lei ebbe l'impressione di leggervi del sollievo. Jack si alzò e infilò nella tasca della giacca un libro di Tennessee «Williams. «Sono mortificato per averti fatta venire così. Quando ho sentito la chiamata alla centrale, mi sono precipitato. È stato solo quando ho visto qui la donna che ho pensato a te.» Aveva recitato le parole come se le avesse preparate. Indicò con il mento il fondo della stanza, alle spalle di Annabel. Disteso su un letto c'era un corpo imbacuccato in una coperta e raggomitolato con la schiena contro il muro. Le palpebre erano chiuse e la fronte si contraeva a intervalli regolari, mentre il trauma popolava di incubi il suo inconscio. Era impossibile dire di più senza un minuzioso esame; i lineamenti erano quelli di una persona stremata, sull'orlo del crollo, e quel cranio vermiglio rendeva ancora più difficile l'identificazione. Spesse croste coprivano la superficie dove avrebbero dovuto trovarsi i capelli, come continenti alla deriva su un oceano di fuoco. La scatola cranica con il suo prezioso tesoro palpitava di vita nell'aria asciutta della stanza. L'avevano scotennata. Annabel si voltò di scatto verso il suo compagno. «Jack! Che diavolo ci fa qui?» sibilò indignata, abbassando il più possibile la voce nonostante l'improvvisa collera. «Dovrebbe essere in ospedale!» Thayer mise le mani avanti, come per rassicurarla. «Lo so, sono le guardie che l'hanno portata qui. Quando ho sentito la loro chiamata, sono venuto subito e ho richiesto un'ambulanza. È già di sotto, dietro l'edificio nel caso ci fosse qualche giornalista nei paraggi. La ragazza è stata visitata e da un momento all'altro la trasferiranno al Methodist Hospital. Quindi calmati. Nel giro di dieci minuti sarà nelle mani di un medico competente.» Lo sguardo di Annabel la diceva lunga su come la pensava. Quella poveretta doveva essere lì da quasi un'ora! «Ha ripreso conoscenza da quando è arrivata?» «Non proprio: delirava come una tossica quando la guardia l'ha trovata. Strisciava per terra.» Annabel si passò una mano sulla bocca, non osando immaginare che razza d'inferno avesse vissuto la donna con il cranio scarlatto. Si avvicinò fino a toccarle il volto con gesti lenti, materni. Al contatto con la sua pelle,

la sconosciuta increspò le labbra ed emise un gemito soffocato. Annabel si affrettò a rassicurarla accarezzandole le guance e lei ritrovò la calma, il suo sonno parve più sereno. A parere della detective la ferita non era pericolosa, ma poteva esserci un inizio di infezione. L'incisione non era affatto netta. In più punti la lama - probabilmente un bisturi - aveva sbagliato strada, perdendosi in altrettanti piccoli fossati purpurei. Poi avevano dovuto sollevarle il cuoio capelluto dalla nuca fino alla fronte, per staccare lo scalpo assieme alla pelle. «Ma come hanno potuto credere questi imbecilli che si fosse mutilata da sola?» si meravigliò Annabel. «Non mi hai detto che la guardia pensa che sia una matta?» Jack annuì. Si volse per prendere un oggetto sul tavolo e lo porse alla collega. «Guarda, ecco perché. Aveva questa in mano.» Annabel afferrò il sacchetto di plastica e non poté reprimere una smorfia di disgusto alla vista dei capelli neri, di lunghezza media, tenuti insieme da un lembo di pelle. Il sangue all'interno era perfettamente asciutto, il lavoro non era recente; e si intuiva che era stato compiuto maldestramente, strappando in alcuni punti più del necessario. «Mio Dio!» «Esatto. In più, ha sul corpo le tracce di numerose percosse. Nulla che non avrebbe potuto farsi da sola, ma non credo sia evasa da Dartmoor. Stanley Briggs, che l'ha trovata, dice che roteava gli occhi come una drogata prima di accasciarsi al suolo.» «Perché sei così sicuro che non si tratti di una pazza?» chiese Annabel, pur sapendo d'istinto che non lo era. «Guardale il cranio. La ferita risale a ieri o all'altro ieri, si sono già formate le croste. Non se l'è fatta in un istituto psichiatrico. E ho qualche dubbio che una donna nuda con una testa in questo stato, nel bel mezzo di Brooklyn, possa passare inosservata per ventiquattr'ore.» Vi fu un lungo silenzio durante il quale i due si guardarono negli occhi, condividendo implicitamente le medesime deduzioni. Quando la porta si aprì per far entrare due uomini con una barella, Annabel arretrò e tese il sacchetto a Thayer. «Okay. Avverti il capitano o l'ufficiale di servizio che siamo sulla scena del crimine. Accompagno la ragazza all'ospedale mentre tu porti i capelli al laboratorio.» Jack annuì con un sorriso cinico sul volto. Gli piaceva che Annabel

prendesse in mano le cose, perché in quei momenti risplendeva con la determinazione di un'amante giunta all'ultimo atto di una tragedia. Peccato che succeda sempre in un contesto così drammatico, si disse. Stava per filarsela quando Annabel gli appoggiò la mano sul braccio. «Grazie, Jack.» Sapeva che lui non aveva risposto per caso a quella chiamata. Si trovava lì quando era giunta la notizia e aveva colto l'occasione al volo. Jack rivolse alla sua partner un caldo sorriso sincero e se ne andò. Era l'unico in tutta la divisione del 78° Distretto disposto ad alimentare l'ossessione della giovane donna. L'unico a pensare che questo le facesse più bene che male. Per lei era una necessità, e ogni indagine su un rapimento o su una persona scomparsa alla quale lavorava (anche se accadeva di rado) le ridava un po' di speranza. Una speranza che ormai da un anno le consentiva di tenere duro. 4 Si erano sposati in giugno e Brady era scomparso diciotto mesi più tardi. Una mattina era uscita per andare al lavoro, e la sera lui non c'era più. Non una parola, non una lettera. Semplicemente sparito. Mancavano solo il portafoglio e la giacca, tutte le altre cose erano intatte. Brady era un inviato speciale che lavorava soprattutto all'estero, spesso per il National Geographic. Ma quel 17 dicembre del 2000 non aveva in previsione alcun viaggio prima di due mesi. Avrebbero dovuto trascorrere il Natale insieme, lontano dall'industrializzazione estrema dell'America, e avevano scelto le Maldive con la loro natura selvaggia. Ad Annabel non era piaciuto prendere una decisione basandosi su dépliant turistici che le rinfacciavano l'indecenza del loro denaro. Tutto d'un tratto le vacanze le apparivano come l'osso che si getta a un cane per essere lasciati in pace e assicurarsi che, obbediente, tornerà. Sarebbe partita e sarebbe tornata a lavorare a lungo per potersi un giorno permettere un altro viaggio. Non si viveva gratis; la nascita era il primo conto da pagare, e poi bisognava saldare tutti i successivi per rimandare al massimo la scadenza finale. Nessuno era padrone di se stesso, su questa Terra degli Uomini Liberi. Ecco perché Annabel rifiutava l'idea di avere un bambino. Amava suo marito e il proprio lavoro, il resto era solo letteratura. Fin dall'adolescenza si ripeteva la massima di Chesterton: «La letteratura è un lusso, la finzione una necessità». L'aveva applicata alla propria esistenza, suddividendo tutto in due categorie: ciò che faceva parte

del lusso, e ciò che era finzione. Era la sua fonte di energia. Così rifiutava la concretezza di un bambino - il suo lusso personale - assieme alla responsabilità di proiettarlo in una simile giungla, per «circondarsi di sogni d'amore e di rari momenti di divertimento. Lusso e finzione, e, come corollario, una quotidianità lavorativa appagante. Il «paradosso Annabel» stava tutto lì. Investigatrice per passione, ribelle contro il sistema per convinzione, per bisogno di libertà. Il suo cruccio era soprattutto la miseria degli altri, lacrime di cui poteva solo immaginare il sapore. Poi toccò a lei. Tutto precipitò in un giorno. In un bacio fugace, che sarebbe diventato nelle settimane seguenti carico di nostalgia, un ricordo costellato di rimpianti. Quel giorno, Brady doveva andare a prendere qualche rullino fotografico, stampare su carta una foto del suo ultimo reportage in Spagna sull'architettura di Gaudi e poi andare a comprare qualcosa per la cena... niente di particolarmente rischioso. Tuttavia, quella sera Annabel aveva aperto la porta del loro appartamento per trovare un vuoto smisurato, un'assenza immotivata. E un'inquietudine che si tramutò in angoscia. Era scomparso senza lasciare traccia. Nelle settimane, e poi nei mesi successivi, fu assalita da ogni possibile domanda. Non smetteva di ripetersi che lo avevano rapito, mentre al tempo stesso continuava a chiedersi se lui non avesse semplicemente scelto di fuggire dalla loro vita in comune. Certi uomini si comportano così, con una romantica viltà degna dei secoli passati, a meno che non si tratti di un moderno egoismo. Quando era arrivata al punto di esitare su ciò che avrebbe preferito, se il rapimento o l'abbandono del tetto coniugale, aveva iniziato una psicoterapia durata otto mesi. Un anno dopo, Brady non era stato ritrovato, non c'era stato alcun movimento di denaro sui suoi conti personali, e nemmeno i suoi genitori e sua sorella avevano mai più avuto sue notizie. Annabel continuò la sua esistenza da sola, in compagnia del dubbio e delle schiere di domande che si levavano ogni volta che posava lo sguardo sul cuscino accanto al suo. Da lì era nata l'ossessione di occuparsi di tutti i casi di rapimento o scomparsa del distretto, benché fossero poco frequenti e in generale legati a problemi di custodia di bambini. Nutriva la speranza segreta di scoprire un giorno, da qualche parte, il nome di suo marito, o almeno la prova del suo passaggio, e finalmente sapere.

Conoscere la verità. Non portare più dentro di sé il sapore delle lacrime... La sconosciuta dal cranio rosso fu ricoverata all'ospedale metodista e Annabel si sistemò nella hall accanto a un telefono. Malgrado l'ora tarda, prese a chiamare tutti gli istituti psichiatrici di New York cominciando da quelli di Kingsboro, Ward Island e Dartmoor, per sapere se fosse fuggita una paziente. Come si aspettava, non mancava nessuno all'appello. Verso le due del mattino, un medico in camice verde le si avvicinò, togliendosi gli occhiali e massaggiandosi gli occhi doloranti per la mancanza di sonno. «L'avete identificata?» chiese con aria scettica. Annabel rispose con un cenno negativo. «Abbiamo appena finito le analisi: è sotto choc e deve riprendersi da una ipotermia, ma non è messa male. È ancora incosciente.» Il medico sembrava comunque preoccupato, due piccole rughe gli solcavano le guance ai lati del naso. «Ha ingurgitato qualche sostanza in dosi massicce», continuò. «Purtroppo per il momento gli esami del sangue non mi permettono di stabilire quale esattamente. Non credo che sia in pericolo, ma preferirei esserne certo. Ne sapremo di più domani mattina.» Annabel annuì e ficcò le mani nelle tasche; il freddo dovuto alla stanchezza cominciava a invaderla. «Mi domando chi sia, dottore. Quando ho scoperto quella... ferita alla testa, ho quasi sperato che fosse una pazza in fuga, visto ciò che un'altra ipotesi implicherebbe...» Il medicò la scrutò, poi distolse lo sguardo prima di rispondere: «È assai poco probabile, detective. Non credo che se lo sia fatto da sola, intendo il...» indicò il proprio cranio, «la pelle della testa.» Cercava le parole giuste, sempre più a disagio. Infine aggiunse: «È stata violentata. A più riprese. Le lesioni sono accentuate e alcune risalgono a parecchi giorni fa. C'era anche dello sperma». Annabel si passò una mano tra i capelli. Adesso non c'era più alcun dubbio sulla natura criminale del caso. «Abbiamo fatto un prelievo per i vostri schedari del DNA. Porta le tracce di numerose percosse, il corpo è coperto di ecchimosi e ha anche qualche ematoma...» Si pizzicò il naso, pensieroso. «Allora?» si spazientì la poliziotta. «C'è dell'altro?»

«Ha... Ha un marchio sulla spalla sinistra, una specie di tatuaggio.» «Bene. Forse ci servirà per scoprire la sua identità. Domani faremo una foto.» «No, non si tratta di questo. È un tatuaggio abbastanza recente, non si è neppure cicatrizzato, si è appena formata la crosta. Credo sia un lavoro artigianale; si direbbe china iniettata con un ago, come fanno certi carcerati.» L'espressione di Annabel si incupì improvvisamente. «Che cosa rappresenta?» «Quello che volevo dire è che gliel'hanno fatto da poche ore. E non si tratta di un disegno, ma di numeri. Una cosa piuttosto strana. Aspetti, glielo scrivo, così sarà più chiaro.» Prese un volantino di una compagnia di assicurazioni lasciato sul tavolo e vi trascrisse una breve serie di cifre che passò alla detective: 67 - (3) Di colpo i rumori diffusi dell'ospedale parvero crescere di intensità; mormorii, fruscii di passi sul linoleum, ronzii di strumenti elettronici. Annabel rilesse due volte: non credeva ai propri occhi. «Quando potrò parlarle?» «Non dipende da me. Domani, probabilmente.» Lei scosse il capo. «Mi faccia mettere una sedia accanto al suo letto per il resto della notte.» Il tono tagliente non ammetteva repliche. Il medico alzò le spalle e si ritirò, scomparendo nei meandri degli ambulatori. Le veneziane erano formate da sottili listelli di plastica talmente malridotti da far sembrare l'insieme uno scheletro disarticolato. Il sole invernale ci passava attraverso, accarezzando le lenzuola del letto con i suoi petali dorati. La donna - aveva la testa bendata - aveva aperto gli occhi per la prima volta verso le sei del mattino, per poi sprofondare nuovamente nel sonno. Fece altrettanto alle otto e poi alle nove, prima di risvegliarsi a metà mattinata. Annabel aveva sonnecchiato tra un risveglio e l'altro; le tese la mano quando i loro sguardi si incrociarono. La giovane sconosciuta non disse una parola; pianse prima di ricadere nel mutismo. Annabel vide sfilare un altro medico, due infermiere e uno psicologo, che le chiese gentilmente ma con fermezza di uscire.

Passò le ore che seguirono vicino alla macchina del caffè, e a mezzogiorno mangiò un sandwich confezionato. Durante tutto quel tempo rimuginò sulle informazioni frammentarie di cui disponeva. Le violenze sessuali all'interno di Prospect Park erano rare, e mai associate a una simile barbarie. Un brivido le fece venire la pelle d'oca. Doveva parlare al più presto con quella donna, interrogarla sul suo, o sui suoi, aggressori. E su quel tatuaggio sibillino. Qualche cosa in quella cifra la tormentava, la faceva sentire tesa. È macabro, pensò. Non si fa una cosa del genere alla propria vittima quando si vuole violentarla. Sì, ma non le si strappa nemmeno via tutta la capigliatura! La maggior parte degli stupri di cui il 78° Distretto si era occupato riguardavano aggressioni domestiche o perpetrate da sconosciuti. Nel primo caso, un marito ubriaco o violento abusava della moglie, talvolta della figlia, nel solo modo in cui sapeva concepire la cosa: a proprio piacimento. Nel secondo, una donna era assalita da un uomo che non aveva mai visto, o a volte da un gruppo di giovani, che fuggiva non appena commesso il crimine. Si pensa spesso che gli stupratori ricerchino il piacere sessuale nell'atto, mentre si tratta in genere di un movente secondario. Quasi tutti sono attratti soprattutto dal dominio che esercitano, dal terrore e dall'umiliazione che suscitano nelle loro vittime: è questo potere che li ossessiona. In rare occasioni, può arrivare fino all'omicidio. I casi di cui Annabel era a conoscenza erano semplici, un'aggressione lampo seguita dalla fuga del colpevole. Ma il violentatore non sequestrava mai la sua preda per così tanto tempo, per torturarla e lasciarle sulla pelle un segno per il resto della sua vita! «Un maniaco», mormorò. «Un lurido, schifoso maniaco.» Verso l'una, dopo che il capitano Woodbine l'aveva chiamata sul cellulare per fare il punto sul caso e manifestare il suo scarso entusiasmo all'idea che proprio lei se ne occupasse, un terzo medico la raggiunse nella sala d'attesa dove aveva finito per sistemarsi. Aveva una cinquantina d'anni e l'aspetto più riposato rispetto agli altri due. «Sono il dottor Darton. Lei è il detective O'Donnel, vero?» «Come sta la ragazza?» fu la risposta di Annabel. «Fisicamente sta reggendo bene, è fuori pericolo. È ancora un po' stordita a causa delle droghe che ha assunto, e le abbiamo bendato la ferita alla

testa. Tuttavia, è ancora afasica.» Annabel si alzò dalla sedia. «Che significa, che non parla più?» «Sì, almeno per il momento. Si tratta certamente dell'effetto dello choc per ciò che ha subito. Le abbiamo affiancato uno psicologo che qualche anno fa si è occupato degli effetti del PTSD: è un tipo in gamba, siamo fortunati. Ma non si faccia illusioni, la cosa può richiedere molto tempo. Suppongo la voglia interrogare per sapere cosa le è successo, vero?» «Esatto. Il più presto possibile.» Il medico fece una smorfia. «Ahimè, questo non...» «Mi lasci farle delle domande, forse potrà almeno annuire. Qui abbiamo una donna che è stata ritrovata drogata, nuda e stuprata. Non contento di avergliene fatte di tutti i colori, il suo assalitore le ha macellato il cranio per strapparle i capelli con tutta la pelle attaccata. A questo, aggiungiamo un tatuaggio in stile cabalistico e magari qualche altra porcheria da maniaco che il violentatore potrebbe averle inflitto... Capisce dove voglio arrivare?» Il dottor Darton batté le palpebre. «Non voglio sembrarle pessimista», prosegui Annabel, «ma tutto questo fa pensare a un individuo molto pericoloso. Capisce? È possibile che un maniaco si aggiri per le strade di Brooklyn mentre noi ce ne stiamo qui a chiacchierare. Forse le mie preoccupazioni sono eccessive, ma non posso aspettare.» Fece una pausa, fissando dritto negli occhi l'uomo di fronte a sé, prima di aggiungere: «È importante...» Confuso, il medico si mise a giocherellare con un mazzo di chiavi. «Capisco benissimo, ma è ancora troppo presto per vederla. Aspetti un pochino, non appena lo psicologo mi dà il via libera la chiamo, d'accordo?» Annabel stava per rispondergli, quando il suo cellulare cominciò a suonare. A gesti fece capire al dottor Darton che accettava, in mancanza di meglio, e rispose alla chiamata. «Sono Jack, dove sei?» «Ancora all'ospedale. La ragazza se la caverà fisicamente, ma non ha detto una parola. È sotto choc. Cambiando argomento, Woodbine mi ha chiamata: è seccato che io mi occupi di questa faccenda. Pensa che i miei sentimenti personali possano nuocere all'inchiesta, conosci il ritornello.

Aspetta le nostre prime conclusioni, poi vuole affidare il caso a Fremont e Lenhart. Ti rendi conto? Gloria manderà tutto all'aria; ha la sensibilità di un carro armato!» «Lascia perdere Gloria. Ho visto Woodbine nel suo ufficio: ci ha appena dato carta bianca. Tu e io.» Per far cambiare idea al capitano, Jack doveva esserci andato giù pesante, giocando tutte le sue carte. Jack, sei il migliore, pensò Annabel. Gli doveva molto. Soprattutto dopo la scomparsa di Brady, era sempre stato presente, pieno di attenzioni, a ogni ora del giorno e della notte. «D'accordo, ascoltami bene», riprese lui. «Ho contattato la sezione persone scomparse a Manhattan e ho trasmesso loro la segnalazione della nostra fanciulla, e sto aspettando la valanga di fax che manderanno per le donne che possono corrispondere. Farò una prima selezione con quelle che abitano a Brooklyn e poi vedremo. Ma non è per questo che ti ho chiamata.» Annabel fece qualche passo per tentare di migliorare il segnale. Dalla finestra scorse un'ambulanza che scaricava una sacca mortuaria nel piccolo cortile di sotto. «Ho appena parlato al telefono con il laboratorio», la informò Jack. «Era Harry DeKalb, voleva una conferma di quello che gli avevo detto stamattina. Dimmi una cosa, Anna, la donna che abbiamo trovato è un po' sul tipo ispanico, no?» «Sì, pelle bruna, sopracciglia scure, si può senz'altro dire così. Dove vuoi arrivare?» La risposta si fece attendere. Poteva sentire il respiro di Jack e la sua esitazione. «Jack?» «DeKalb voleva essere sicuro che non mi fossi sbagliato nella descrizione che gli ho fornito della ragazza.» «Perché? Che differenza può fare per lui?» «I capelli, Anna. Lo scalpo che gli ho portato. DeKalb dice che sono scuri perché sono stati tinti, ma che al naturale sono rossi, di un rosso chiaro.» Ci fu un nuovo silenzio, poi Thayer aggiunse: «Sono i capelli di un'altra donna». 5

Dall'inizio dell'inverno a New York c'era stata una sola settimana di neve, poi tutto si era tramutato in un'uniforme melassa di un incerto marrone trasparente, prima di scomparire. Mentre Annabel risaliva Prospect Park West, i primi fiocchi presero a turbinare davanti al suo parabrezza, cospargendo i marciapiedi di neve fresca. Di giorno, villa Litchfield conservava la sua singolarità, ma guadagnava in calore. Annabel parcheggiò lì accanto. Non le ci vollero più di cinque minuti per ritrovare Stanley Briggs, che si era appena svegliato dopo una siesta improvvisata per riprendersi dalla lunga notte di emozioni. «Briggs, ha un paio di minuti da dedicarmi?» gli chiese, rivolgendogli un sorriso amichevole (la migliore arma che conosceva per ottenere un favore). Ignorò l'espressione assonnata del guardiano e proseguì: «Avrei bisogno che mi indicasse con la massima precisione il punto dove ha trovato la donna». «Il fatto è che non è così facile, è una zona vasta, e se le indico un sentiero, magari poi lei lo scambia per un altro. La accompagnerò io. Cerca qualcosa di particolare?» Non volendo entrare nei dettagli, Annabel scosse il capo. «Voglio solo dare un'occhiata.» Briggs alzò le spalle e indossò il giubbotto con il distintivo dei guardiani del parco. «Venga, prendiamo la mia macchina, è più comodo.» Attraversarono con il piccolo pick-up verde la zona boscosa da ovest a est, seguendo due grandi viali asfaltati. Notando l'assenza di altri veicoli, Annabel ne chiese la ragione a Briggs. «Non c'è nessuno perché queste due strade resteranno chiuse al pubblico per parecchi mesi. Il parco è in piena ristrutturazione: fa parte di un progetto di risanamento urbanistico. Ovviamente la chiusura di queste arterie obbliga gli automobilisti a fare tutto il giro, e le lascio immaginare i reclami che riceviamo!» «Avevo sentito parlare del progetto, ma non sapevo che si fosse finalmente concretizzato. Se ben ricordo, comprende anche la risistemazione della Boathouse, il che è una buona cosa.» Annabel, come molti dei suoi colleghi, si era spesso occupata di casi di aggressione, di droga o di overdose nel decrepito edificio in riva allo stagno Lullwater, un luogo desolato. Proprio lì aveva affrontato la sua prima indagine come detective: il cadavere di un giovane nero. Ricordava ancora perfettamente la luce dei lampeggiatori che inondava il suo volto di blu e

di rosso, tra il borbottio delle anatre curiose e il vento che faceva sbattere una delle porte della Boathouse. Era un posto lugubre, e il ricordo la fece rabbrividire. La loro vettura passò su un ponte che dominava il lago da una decina di metri d'altezza. «Stiamo per arrivare alla collina Breeze: è là che stava la ragazza», annunciò Briggs, di colpo solenne, come se stesse giocando all'ispettore. Parcheggiò tra due alti noci bianchi e condusse Annabel verso un sentiero che iniziava con una serie di gradini di legno. Intorno a loro la città era scomparsa, rimaneva solo il rumore del traffico sulla East Lake Drive attutito dalla vegetazione. Il cielo plumbeo continuava a scaricare mollemente fiocchi di neve che si trasformavano in piccole pozze d'acqua non appena toccavano il suolo. Seguirono il pendio, procedendo a zigzag fra i tronchi imponenti, ascoltando gli scricchiolii delle cortecce. Briggs si arrestò in un punto a mezza costa; a strapiombo sotto di loro, un pezzo di lago si intravedeva attraverso gli alberi spogli. La superficie tetra era solcata da piccole onde grigie, incolori. Era il paesaggio dell'inverno, la stasi della vita, la bandiera dell'ottimismo a mezz'asta. «Ecco», disse il guardiano, «era laggiù.» Indicò una macchia di giunchi e di canne in riva al lago. «Strisciava fuori da là, diretta verso la zona più aperta, vede, proprio sotto di noi. È un vecchio sentiero che è stato chiuso per l'inverno, per proteggere le piante acquatiche.» «Dopo ha ispezionato la zona?» Briggs la guardò come se gli avesse appena parlato in russo. «Be'... no. Non era come se stessimo cercando una prova; non c'era un crimine. Insomma, voglio dire... lei era viva e io ho pensato solo che bisognava portarla al caldo il più in fretta possibile.» Annabel annuì senza distogliere lo sguardo dal canneto. «Era la cosa più importante, in effetti.» Scavalcò il minuscolo parapetto e fece per scendere lungo il pendio aggrappandosi ai cespugli, quando la mano di Briggs la afferrò. «Ehi, non così! Da questa parte rischia di farsi male. C'è un sentiero più giù. Mi segua.» L'investigatrice obbedì senza protestare, per quanto le sembrasse più rapido tagliare per il pendio. Approfittò del tragitto per prendere dalla tasca una bacchetta cinese e riannodare le treccine in uno chignon sulla nuca.

Una volta giunti sulla riva del lago, si ingobbì ancor più dentro il suo bomber, colpita dall'alito freddo del vento. «Doveva essere più o meno qui quando sono arrivato.» Il guardiano indicò un punto tra due cespugli rinsecchiti. Annabel gli girò intorno, si chinò sopra le tracce rimaste nella terra umida e cercò di indovinarne l'origine. Si potevano vedere diversi solchi freschi, paralleli. La giovane detective si mise a esplorare i dintorni, scrutando i tronchi e frugando i cespugli per un buon quarto d'ora, durante il quale Briggs la guardò lavorare, attento, senza che tuttavia l'idea di aiutarla gli sfiorasse la mente: a ciascuno il suo mestiere. Non avendo trovato nulla, Annabel risalì la pista seguendo le tracce sul terreno, là dove la donna aveva strisciato, fino alle canne. Qui il suolo era spugnoso, in parte ricoperto da avanzi di vegetazione in decomposizione. «È un miracolo che ne sia uscita viva», osservò. «Nuda, in una notte d'inverno, e per di più stesa a terra laggiù. Grazie a Dio, Briggs, l'ha trovata alla svelta.» Cominciò a passare tutto in rassegna, prima con una visione d'insieme, quindi con il naso all'altezza dei piedi; roba da rompersi la schiena. Stanley Briggs si teneva in disparte; si era scelto una roccia, ci si era seduto sopra e aspettava paziente. I minuti passavano, e la detective continuava a fare la sua «scena»; lui quasi se la vedeva tirare fuori di tasca da un momento all'altro una lente d'ingrandimento gigante... Si girò verso il lago, specchio sbiadito del cielo, e si chiese se non fosse proprio quello il vero riflettore del mondo, che faceva scaturire sulla terra il grigio del paradiso. E se era quella la verità? Se, con il tempo, il biancore immacolato dell'aldilà si fosse corrotto e la purezza originale fosse scomparsa? La Bibbia insegna che nulla è eterno, nemmeno l'innocenza... Briggs scosse vigorosamente il capo. Priva di questi lampi di dubbio, Annabel continuava il suo lavoro ormai da mezz'ora. Raccolse una canna spezzata e prese a frugare il terreno, cercando una traccia qualunque, anche se non credeva che l'avrebbe trovata. Bisogna farlo, vecchia mia, dato che per il momento non hai nulla in mano. Era venuta per questo. Ripensò allo scalpo, quello di una seconda donna. Era un indizio in sé. La prima donna era un tipo ispanico, pelle olivastra, peluria scura; l'altra era una rossa. E poi c'era lo sperma dell'aggressore, ma se non era schedato nella loro banca dati, voleva dire che dovevano ricominciare da capo; e lo scalpo di una sconosciuta rossa non costituiva agli occhi di Annabel l'i-

nizio di una pista. Riflettendoci bene, non costituiva assolutamente nulla, a parte un atto abominevole. Come poteva uno squilibrato arrivare al punto da staccare la pelle dal cranio... Annabel si immobilizzò. Qualcosa si muoveva tra le canne ai suoi piedi. Si chinò e scoprì il corpo viscido di una rana. Adesso ti spaventi anche per le ranocchie? Stava per rimettersi in piedi quando il suo sguardo fu attratto da quello che in un primo tempo le era parso un ciuffo d'erba, gialla come le canne. La rana ci aveva curiosato dentro. Sollevò il ciuffo con la punta del bastone. Sotto apparvero delle croste rosse. Il ventre le si contrasse mentre serrava le labbra, non sapeva se per il disgusto o per la collera. Teneva in mano uno scalpo con del sangue secco: uno scalpo di capelli biondi. «Non c'è alcun dubbio. Si tratta di una terza persona.» Annabel era in piedi dietro la sua scrivania, le braccia incrociate sul petto, e fissava il gigante nero appoggiato alla colonna di gesso in mezzo alla stanza. Anche Jack Thayer era presente, seduto, come al solito, sopra la sua scrivania. «Vi rendete conto di cosa significa?» insistette il capitano Woodbine. «Non voglio storie del genere nel mio distretto! I serial killer e compagnia bella vanno bene per i cowboy dell'FBI. Qui mi ritrovo tra capo e collo il capitano della divisione, poi il capo della polizia e magari alla fine anche il sindaco!» Di colpo, come se si fosse ricordato di un dettaglio, si voltò verso Thayer. «E poi non abbiamo niente di certo. Forse le donne a cui appartengono questi scalpi sono ancora vive, no?» «Non ne so nulla, Michael.» Thayer alzò le mani con le palme rivolte al soffitto. «Come faccio a saperlo? Ma la mia vocina mi dice che se non abbiamo sentito parlare di tipe che se ne vanno in giro per Brooklyn con il cranio scuoiato, forse è perché sono rinchiuse da qualche parte, non credete?» «Aspettiamo i risultati del laboratorio», aggiunse Annabel. «Ci hanno dato massima priorità. Le analisi dovrebbero dirci qualcosa di più su questi... scalpi. Che parola orribile!» Annabel si ritrovò a immaginare la donna che correva nuda per la strada, con due scalpi in mano, due trofei che aveva avuto il tempo di portare via

nel suo folle tentativo di fuga, come prove dell'incubo che aveva vissuto. Woodbine prese una Chesterfield dal taschino della camicia. «Sono spiacente di contrastare la tua pulsione autodistruttiva, ma questo è un ufficio per non fumatori, capitano», gli fece notare Thayer indicando il piccolo cartello che lui stesso aveva disposto sul suo sottomano. Doveva essere la millesima volta che glielo diceva, da quando si conoscevano. Woodbine non reagì, si limitò ad accendersi la sigaretta mentre rifletteva a voce alta. «Cazzo, provate per un attimo a immaginare la stampa su un caso del genere!» esclamò, esalando il fumo. Thayer annuì. «Ah, certo. 'L'assassino pellerossa colpisce a New York.' 'Uccide donne di origine olandese, per 24 dollari l'una!' Ah, no, accidenti! Dimenticavo che la nostra sconosciuta di Prospect Park è sicuramente di origine ispanica. Addio titoli di prima pagina!» Annabel aveva imparato a non fare più caso alle spiritosaggini del suo partner, che spesso tendeva a sdrammatizzare le situazioni con una battuta. «E quel tatuaggio, abbiamo almeno un'idea di cosa voglia dire?» chiese Woodbine. «Nulla di esplicito. Può essere qualunque cosa, a cominciare da un delirio privo di senso», rispose Annabel. «Perché non un messaggio, una specie di sciarada per metterci alla prova, come faceva il killer dello Zodiaco?» Il capitano lo aveva detto con un candore che divertì. Annabel. Vuole essere rassicurato, pensò. Vuole credere che abbiamo una risposta a tutto, che siamo padroni della situazione. Woodbine non era tipo da augurarsi un caso come quello nella speranza che la sua soluzione potesse metterlo sotto le luci dei riflettori; la sua ambizione si limitava alla gestione della squadra, senza andare a caccia di posti che implicavano responsabilità ben più alte. Tuttavia, la politica del risultato immediato messa in atto già da qualche anno lo spingeva a occuparsi del caso di persona, per migliorare le loro statistiche rispetto a quelle di un altro distretto. «No», replicò Thayer. «Non è un enigma da romanzo. La sconosciuta non doveva essere ritrovata. Io penso francamente che sia scappata.» «D'accordo, mettiamo le mani sul tipo che fa queste cose e troveremo la spiegazione del tatuaggio», concluse Woodbine come se fosse un gioco da ragazzi. Thayer alzò l'indice per protestare, ma Annabel lo bloccò.

«Jack, perché non ci dici cosa hai ricavato dai testimoni di Parkside Avenue?» «Niente di veramente utile. Tutti confermano che correva come una pazza, quando ha attraversato all'angolo di Ocean Avenue ed è entrata nel parco. Nessuno sembra in grado di dire da dove arrivasse. C'è un negoziante ha una drogheria a una decina di metri dall'incrocio - che dice di averla vista anche lui, mentre correva sul marciapiede, tutta nuda. Cronologicamente è il primo ad averla notata. Non sappiamo nient'altro. Non è che di sera a Flatbush ferva chissà quale attività, ma non è neanche il deserto, quindi possiamo dedurne che è scappata da qualche posto situato all'interno di un perimetro piuttosto limitato intorno alla confluenza tra Parkside e Ocean Avenue.» Il capitano Woodbine si fregò le mani, la sigaretta tra le labbra, quindi concluse: «Bene, vi mando Collins, Attwel, Fremont e Lenhart di rinforzo. Rastrellate il settore, interrogate chiunque abbia l'uso della parola, scoprite da dove può essere uscita la ragazza: da una casa o da una macchina, e in questo caso individuare marca e colore. Voglio sapere tutto». Thayer sospirò. «Sarà un vero spasso.» Dall'alto dei suoi due metri, «Woodbine scrutò i suoi due detective, esitò mentre aspirava il fumo della sigaretta, poi ordinò: «Prima di tutto, prendetevi un po' di riposo; gli altri possono cominciare senza di voi». Erano le sei di sera, e i due avevano gli occhi cerchiati per la fatica, ma non intendevano tornare a casa. La loro quotidianità era fatta di indagini su reati minori, taccheggi, furti con scasso, qualche aggressione, e in media non si occupavano che di quattro o cinque omicidi all'anno, ben contenti di aver scansato le frodi alle assicurazioni. Nessun poliziotto del NYPD si sarebbe fatto scappare un'indagine come quella: era emblematica del male che ogni detective desidera combattere, per quanto paradossale potesse sembrare. «Non c'è niente di più fragile della memoria di un testimone, capitano. Più passa il tempo e peggio è, quindi meglio cominciare subito», osservò Annabel indicando l'orologio. «È ancora un'ora decente.» Lei e Thayer si alzarono mentre Woodbine bofonchiava qualcosa, pro forma. Il tenente Roy Salvo entrò nella stanza senza bussare, con in mano un foglio che depose sulla scrivania di Annabel. «Un fax dall'ospedale metodista. Mi sa che c'è un dottore che ha un debole per te, e ti manda una ricetta medica», commentò con un sorriso sulle

labbra. Annabel lo scorse rapidamente: erano i risultati delle analisi. Il dottor Darton pensava di aver identificato la sostanza che la sconosciuta aveva ingerito: Ativan. Prescritto di solito come rimedio per l'ansia e l'insonnia, spiegava il medico, era un medicinale abbastanza potente se utilizzato in dosi elevate. A base di lorazepam, la quantità consigliata per un risultato efficace era fino a 1 milligrammo. La sconosciuta ne aveva assunti circa 4 milligrammi, sufficienti a far dormire chiunque per otto ore, se non addirittura a provocare il coma. «Ecco un buon inizio!» esclamò Woodbine. «O'Donnel, tu scava in questa direzione. Trovami l'elenco dei medici che hanno prescritto questo Ativan, e dei loro pazienti, tutti quelli che stanno intorno a Prospect Park, a cominciare dal quartiere di Flatbush. E non farti intimidire dalle manfrine sul segreto professionale! Spiega loro la situazione, adotta la strategia che ritieni più opportuna. Vedi un po' che cosa ne esce; se ti occorre aiuto possiamo sempre chiedere al 70° e al 71°. In fondo è il loro territorio.» «Capitano, lei è troppo buono», replicò Annabel. «Già. Farete bene a sbrigarvi. Non voglio che salti fuori un altro scalpo durante la notte, quindi muovetevi. Vi mando immediatamente gli altri quattro. Thayer, questa inchiesta la dirigi tu.» Spense la sigaretta in una lattina mezza vuota e uscì, chinandosi per passare sotto lo stipite della porta. Annabel e Jack Thayer scesero a precipizio gli stretti gradini che conducevano al piano terra del 78° Distretto. «Non sono sicuro che l'Ativan sia una pista affidabile», disse Jack. «L'aggressore può esserselo fatto prescrivere molto tempo fa, da qualunque medico di questa fottuta città, magari in un ospedale, oppure nel New Jersey. Anche nel caso che tu riesca a ottenere la loro collaborazione, ti ci vorranno giorni, se non settimane, per scovare qualcosa, ammesso che sia possibile. È un vicolo cieco. Per il momento lascia perdere e vieni con me.» Annabel era abituata al modo di procedere di Jack, che dava sempre ragione al capitano per non perdere tempo, ma quando aveva un'idea in testa non desisteva. Conduceva le indagini a modo suo, badando solo alla rapidità e al risultato. «Ho un'idea migliore, Jack», gli rispose lei. «Come dici tu, passare attraverso i medici è una perdita di tempo. Tenterò in un altro modo.» Gli indirizzò una strizzata d'occhio complice e chiuse la giacca, infagot-

tandosi nella doppia imbottitura di peEe pesante. Fuori, la neve continuava a cadere a grandi falde che il vento sparpagliava a suo capriccio. 6 Una fanghiglia trasparente aveva cominciato a ricoprire da una parte all'altra Flatbush Avenue, trasformando i marciapiedi in una pista da pattinaggio e riflettendo i neon dei negozi in schegge di luce sporca. Annabel procedeva a passo deciso, fendendo la folla di fine giornata. I negozietti a buon mercato si succedevano uno dietro l'altro; una lunga sfilza di venditori di orologi, commercianti di abiti usati, deli e snack bar con le vetrine unte di uno spesso strato di grasso marrone. In un quartiere in cui la maggioranza della popolazione era nera, sapeva che avrebbe dovuto accompagnare Jack: per quanto diluite nel sangue dei suoi genitori, le sue origini afro-americane erano comunque distinguibili, e questo avrebbe fatto sciogliere più lingue di un nervoso sbirro dallo sguardo acuto. Malgrado ciò, fedele alla sua reputazione di solitaria, stava percorrendo a grandi passi una zona fuori del suo distretto abituale, spinta da un'improvvisa intuizione. Tutto era accaduto molto in fretta, in meno di ventiquattro ore. L'accumularsi di indizi macabri, le prime piste, le supposizioni. Annabel era certa che l'Ativan era una pista utile. Si basava su un semplice postulato: l'aggressore della sconosciuta l'uomo degli scalpi - viveva nel quartiere. Poiché la sua vittima aveva corso nuda per la strada e non era stata notata che nei pressi della Pergola di Prospect Park, si poteva legittimamente supporre che fosse scappata da un posto molto vicino, altrimenti sarebbe stata vista anche da altre persone. E se il suo carnefice abitava nei dintorni, secondo Annabel c'erano molte probabilità che si rifornisse di medicinali nelle vicinanze. Partendo da questa idea, la detective aveva annotato dalle pagine gialle tutti i drugstore del quartiere e aveva già fatto visita a due Duane Reade senza risultati. Il primo non vendeva Ativan da più di sei mesi, e i suoi clienti abituali erano troppo anziani per essere sospettabili. Il secondo non ne vendeva da più di un anno: da quelle parti c'era il Kings County Hospital, semmai era là che i pazienti si rifornivano. Le restavano tre indirizzi da questo lato del parco; ma era tardi, e Annabel temeva di non riuscire a concludere il giro prima della fine della giornata.

Entrò nel terzo drugstore della sua lista. Alcuni clienti vagavano in cerca di benessere, sfilando davanti alle vetrine ricolme di confezioni di vitamine. Due turisti vestiti male la oltrepassarono a passo di carica alla ricerca di burro cacao per labbra screpolate. La detective si diresse in fondo al negozio, al banco delle prescrizioni mediche. Lo slogan della catena risplendeva a lettere bianche su sfondo rosso: AIUTIAMO LE PERSONE A VIVERE PIÙ A LUNGO, PIÙ SANE E PIÙ FELICI. Appena sotto, uno scaffale d'acciaio esponeva una quantità incredibile di dolciumi: Twix, Baby Ruth, Hershey's, c'erano tutti, come a sottolineare l'incredibile paradosso americano. Annabel non poté trattenere un sorriso; non riusciva ad abituarsi, e ogni volta si chiedeva se si trattasse di provocazione o solo di umana stupidità. «Spiacente, signora, siamo chiusi, il banco è aperto dalle nove alle diciotto, torni domani», cantilenò una voce rivolta verso di lei. Lei si voltò ed esibì il distintivo al venditore in camice bianco seduto dietro il computer. «È urgente», tagliò corto. «In tal caso, come posso esserle utile?» «Ha venduto dell'Ativan, di recente?» Il farmacista sussultò, colto di sorpresa. «Ehm... Sì, un po'.» Intuendo la sua reticenza, Annabel si affrettò ad aggiungere: «È molto importante, potrebbe essere in gioco la vita di più di una donna. Per favore, ho bisogno di questa informazione». «Sì, capisco. Hmm. Ecco... Il fatto è che ho due clienti per questo prodotto: il primo è una donna che lavora in questa via. Non riesce più a dormire; dopo l'11 settembre ha degli attacchi di angoscia. Sa, suo fratello era tra i pompieri che sono intervenuti. Si è salvato, grazie a Dio. Il secondo cliente è... come dire, un po' più particolare. Lo prende da molto tempo, viene a rifornirsi a intervalli regolari, sempre con la prescrizione. Un tipo nervoso. Tenga presente che di questo medicinale non ne vendiamo tanto, qui, è per questo che me ne ricordo. Mi dia un attimo, provo a controllare se risultano registrate altre vendite.» Prese a digitare sulla tastiera e scosse il capo nel leggere i dati sul video. «No, non c'è nient'altro di recente.» «E il tipo nervoso, com'è?» «Oh, be', piuttosto magro, di colore. Per essere sincero, mi è abbastanza antipatico, mai un buon giorno o un arrivederci.» Digitò qualche altro ta-

sto. «Ah, ecco qua, si chiama Spencer Lynch. L-Y-N-C-H.» «Come il regista?» Di fronte alla smorfia perplessa del farmacista, Annabel gli fece segno di lasciar perdere. «Ha l'indirizzo?» L'uomo annuì vigorosamente e scribacchiò qualcosa su un foglietto che le tese. «A essere sincero, non vorrei storie con lui, se lei potesse...» Annabel si mise l'indice sulle labbra indietreggiando e gettò un rapido sguardo al badge attaccato al camice. «Sarò muta. Grazie, Vince», gli sussurrò prima di rituffarsi nel freddo della sera. Il cellulare in una mano, l'indirizzo di Spencer Lynch nell'altra, Annabel schivava i passanti, risalendo la corrente umana alla massima velocità che le sue gambe le consentivano senza tuttavia mettersi a correre. «Jack, l'indirizzo di questo tizio corrisponde, è proprio accanto all'incrocio tra Parkside e Ocean Avenue, sullo stesso marciapiede del tuo droghiere che quella sera ha visto la donna che scappava. Potrebbe essere lui, si chiama Spencer Lynch.» «Andiamoci piano; cerchiamo di saperne di più, facciamo qualche domanda al tipo, e poi vedremo. Ci sono di sicuro altri amanti dell'Ativan, nella zona. Meglio non saltare subito alle conclusioni, d'accordo?» «Ma se ha ancora tra le mani le altre ragazze? Se si sente braccato dalla polizia, potrebbe ucciderle.» «Per il momento aspettami in qualche bar. Guarda, c'è un McDonald's all'angolo, vacci e rilassati un po'. Devo vedere ancora parecchie persone, sarò lì tra due ore.» Annabel cercò di fargli fretta, ma Thayer fu irremovibile e su questo chiusero la comunicazione. Lei si sentiva sulla cresta dell'onda, sovreccitata, con l'adrenalina che si diffondeva in tutto il corpo. Raggiunse in breve tempo l'indirizzo e andò ad appostarsi sul marciapiede di fronte, davanti a un telefono pubblico. Finse di comporre un numero ed estrasse un taccuino sul quale annotò qualcosa. Salvare sempre le apparenze, si disse, anche quando si pensa di non essere osservati, non si sa mai. Girò la testa per guardare l'edificio dove abitava Lynch, proprio sull'angolo di Parkside Court. Era a tre piani, in pietra ocra, con un largo cornicione che formava una sporgenza alla sommità e una scala antincendio arrugginita che lo percorreva tutto andando a terminare sopra un ristorante giamaicano abbandonato. Tutte le finestre erano coperte da teloni di plastica o da tavole di

legno, e una palizzata che delimitava una zona di lavori in corso ne impediva l'accesso. All'apparenza non ci viveva più nessuno da parecchie settimane. «Merda, era troppo bello per essere vero», mormorò. Il cartello STRADA SENZA USCITA posto ai piedi della palizzata le strappò un sorriso amaro. Rimase lì immobile a riflettere, sempre sulla difensiva, osservando» il flusso luminoso dei veicoli. Jack non sarebbe stato lì prima di due ore, e avrebbe potuto aiutarla a interrogare ancora una volta i negozianti della zona, per lo meno quelli ancora aperti, visto che si stava facendo tardi. Imprecò facendo schioccare la lingua, poi si infilò nello snack bar lì accanto. Prese una cheese-cake e ammazzò le ore che seguirono a forza di caffè. A braccia conserte studiava i passanti dal confortevole calore del suo rifugio, cercando di individuare il suo partner che ormai stava per arrivare. Attraverso la folla, lo sguardo di Annabel cadde su un uomo con in mano un sacchetto di carta: immobile davanti alla casa disabitata, girava nervosamente la testa a destra e a sinistra. Era un nero, abbastanza alto e, per quanto Annabel poteva valutare dal suo punto di osservazione, sembrava piuttosto magro. Era già un po' che lo osservava, chiedendosi il perché del suo atteggiamento. Un atteggiamento che non era normale: stava macchinando qualcosa. Non ci posso credere, che cosa diavolo combina questo qua? L'uomo strinse il sacchetto contro il corpo e sgusciò tra le assi della palizzata, nell'angolo meno illuminato dai lampioni. L'allarme interno di Annabel si mise a suonare. Corrispondeva tutto. Aspetto, razza, atteggiamento ambiguo, e soprattutto era appena entrato furtivamente in un edificio abbandonato che era l'indirizzo presunto di un sospetto! Che cosa le occorreva di più? Annabel non credeva all'accumulo di coincidenze fortuite. Maledizione! È la mia occasione. Influenzata dalle storie strane che suo marito riportava dai quattro angoli del mondo, Annabel aveva finito per convincersi che ognuno di noi dispone di un potenziale di buona sorte che si attiva a caso nel corso dell'esistenza. Il suo si era appena messo in moto. L'occasione della mia vita, si disse. Il colpo da non mancare. Controllò l'ora. Jack non doveva essere lontano. Compose il suo numero sul cellulare. Segreteria telefonica. Di certo non aveva ancora finito gli interrogatori, a meno che non fosse in metropolitana. Esitò. Ma se il tizio passa da dietro, lo perdo. Si morse un labbro, dondolandosi da un piede

all'altro. Poi chiuse gli occhi per un breve istante. Merda, devo essere pazza. E si lanciò. Depose una banconota da dieci dollari sul tavolo e corse fuori, attraversò la strada e sgusciò a sua volta dietro la recinzione di legno. Al riparo dallo sguardo dei passanti, spense il cellulare ed estrasse la Beretta. L'ingresso della casa era chiuso da una pesante catena il cui lucchetto giaceva a terra nella polvere. Cominciamo bene, pensò Annabel. Se tocco questa catena, neppure un miracolo gli impedirà di sentirmi. Non aveva il tempo di maneggiarla con cautela, in modo da non fare rumore. Cercò rapidamente un'altra via d'accesso e individuò una finestra al primo piano: la plastica che la chiudeva normalmente fluttuava nel vento, attaccata ormai solo da un lato. Coraggio, tira fuori le palle! Rinfoderò l'arma e cominciò ad arrampicarsi, appoggiandosi sull'insegna di un negozio chiuso e approfittando di un giunto del muro. Con qualche esitazione raggiunse il bordo della finestra, superando così la palizzata e sovrastando la strada. Almeno, può darsi che qualcuno chiami la polizia. A questa idea si tranquillizzò. Ma la sensazione che l'individuo potesse sfuggirle da un momento all'altro la angosciava. Girò su se stessa e penetrò nel primo piano della casa, la pistola di nuovo in pugno. Il peso dell'arma era rassicurante. Annabel sapeva di essere in grado di respingere un assalto corpo a corpo; era tra i migliori ai corsi di difesa personale e frequentava una palestra di boxe thailandese. Non aveva la massa muscolare degli uomini, ma la sua padronanza della tecnica le permetteva di sfidarne alcuni e talvolta di batterli. Tuttavia, fare irruzione in un edificio era una situazione nuova per lei. Contrariamente a quanto si vede nei film, la quotidianità di un detective si limita a inchieste piuttosto statiche, in cui l'azione è un caso eccezionale. Attraversò una stanza vuota e raggiunse uno stretto corridoio da cui partiva una rampa di gradini. La luce proveniente dall'esterno non si spingeva più in là, lasciando tutto il resto immerso in una sorta di intimità umida. Dai piani superiori proveniva un mormorio discontinuo; il pavimento cominciò a scricchiolare, come se qualcuno stesse trascinando un oggetto pesante. Era buio, e alcuni angoli erano immersi nell'oscurità più totale. Annabel tastò la tasca della giacca e imprecò in silenzio. Si maledisse per non aver portato con sé la sua torcia.

Certo che ora serve a molto, chiusa nel baule della macchinai si rimproverò aspramente. Non era preparata, non disponeva dell'equipaggiamento adeguato e sapeva che ciò che stava facendo era pura follia: non ci si lancia da soli all'inseguimento di qualcuno potenzialmente pericoloso. Comunque continuava ad avanzare, un passo dopo l'altro, il corridoio e i gradini, lentamente, appoggiando i piedi di lato per non farli scricchiolare, adagio, adagio, ecco, così... Teneva una mano sulla parete più vicina, per avere una guida nella penombra. Le sue dita entrarono in contatto con un liquido freddo. Un rivolo d'acqua putrida colava dal soffitto; una perdita dal serbatoio o una pozza sul tetto fatiscente, suppose Annabel. Il rumore cupo si era fatto più vicino, proveniva dal terzo piano. Annabel camminava rasente i muri. Tutte le porte erano state tolte, lasciando ovunque solo rettangoli neri. In ognuno poteva nascondersi un uomo armato. La giovane investigatrice avanzava con prudenza, di profilo, la schiena incollata all'intonaco scivoloso. A ogni apertura le venivano i sudori freddi; immaginava l'uomo acquattato dall'altra parte della parete, separato da lei solamente da cinque centimetri, entrambi i volti accanto allo stipite, pronti a fronteggiarsi da un istante all'altro. Lui con il bisturi, già intento ad alimentare i suoi osceni desideri con la fantasia di togliere lo scalpo a una donna poliziotto; lei terrorizzata dall'improvvisa apparizione di quegli occhi da folle, paralizzata dalla paura, incapace di servirsi della sua Beretta. Non ci pensare! disse a se stessa con asprezza. Rimani concentrata sul presente. Con un agile balzo, passò davanti al buco spalancato che si apriva su una stanza cieca. In cima alla scala apparvero dei riflessi ambrati. C'erano fiammelle che oscillavano, lassù. Ripetendo la manovra, Annabel salì i gradini con cautela, prestando un'attenzione spasmodica tanto ai propri spostamenti quanto al minimo rumore davanti a sé. Un velo di sudore le ricopriva la fronte. Si immobilizzò sulla soglia dell'ultimo piano. Tutte le finestre erano sbarrate da assi di legno e non lasciavano filtrare la luce dall'esterno. I muri erano coperti da scritte tracciate con la vernice nera. ELEVAZIONE, SPIRITO, FORZA e molte altre. Annabel riconobbe frasi di uomini politici, in particolare Martin Luther King. Sul pavimento c'erano decine di candele accese. Alcune si erano consumate fino in fondo, lasciando un piccolo grumo

di cera indurita, e altre erano intatte, non ancora accese. Il ronzio era ormai vicinissimo, dall'altro lato del muro. Impugnando la Beretta a due mani, Annabel si avvicinò all'apertura, sorpresa di non avere le gambe tremanti e neppure le mani troppo umide. Una volta frenata l'immaginazione, si sentiva divisa a metà tra paura ed eccitazione. Solo il presente, si ripeté, il presente. Nella penombra giallastra distinse una trappola per topi a cinque centimetri dal suo piede. Un'altra era in agguato poco più in là, poi una terza. Ce n'erano una mezza dozzina, una delle quali ospitava ancora il suo macabro occupante. Uno strano topo, con le orecchie aguzze... Arrivandogli vicino, Annabel si accorse che era un gattino. Il piccolo corpo peloso giaceva contorto sotto la pressione della barretta di metallo. Era morto da molto tempo. Maledizione, concentrati sul presente! Non sui tuoi sentimenti! Un tavola dell'impiantito scricchiolò sotto il piede. Annabel percorse gli ultimi metri di scatto ed entrò nella stanza, spazzandola con l'arma puntata in un unico movimento, da una parte all'altra, per accertarsi di essere sola. Immediatamente, si appiattì contro il muro per non farsi sorprendere alle spalle. Il suo cuore aveva praticamente quadruplicato le pulsazioni nel giro di dieci secondi; si sforzò di respirare a fondo per ritrovare un ritmo più pacato. Il ronzio proveniva da cinque ventilatori. Erano appoggiati sul pavimento, e le strisce di carta moschicida fissate alle griglie sbattevano nell'aria come decine di maniche a vento attorcigliate. La corrente non era stata tolta, forse a causa dell'inizio dei lavori, pensò Annabel, a meno che l'inquilino del luogo non fosse un appassionato di bricolage. Una tavola di truciolato appoggiata su due cavalietti fungeva da tavolo, e sopra c'erano degli strumenti simili a pennelli. Alla tavola era fissato un busto umano in plastica con un basamento a vite, e lunghe ciocche di capelli erano posate con cura accanto a un brandello di pelle disidratata. Guardando più da vicino, Annabel constatò che i capelli erano agganciati a un'asta di legno e si stavano asciugando per effetto dei ventilatori e delle candele. La sua respirazione adesso si era fatta più affannosa, non riusciva più a controllarla. Un filo d'acqua sgocciolava dal soffitto, emettendo una serie incessante di piccoli ploc. Il pavimento scricchiolò di nuovo. E un'ombra passò davanti all'uscita in fondo. Annabel puntò la pistola davanti a sé, tolse la sicura e scivolò nell'oscu-

rità. Non era in grado di dire se l'altro l'avesse vista. Passò sotto il rivolo d'acqua, e goccioline fredde le schizzarono negli occhi, lungo il collo e la schiena. Continuò a passi lenti. L'altro entrò nella stanza, l'andatura indolente, la testa affondata nelle spalle, gli occhi stretti, a spiare con diffidenza. La pistola cromata riluceva brillante nel riverbero delle fiamme guizzanti che illuminavano la sua tana. La detective vide nettamente tutta la scena come una sequenza cinematografica al rallentatore. Ogni minimo movimento venne suddiviso con cura, la sua stessa voce risuonò come un lungo grido distorto quando urlò: «POLIZIA! FERMO DOVE SEI!» Colse l'eleganza dei muscoli del collo quando la testa si girò verso di lei, e vide la bocca piegarsi in un sorriso quando l'uomo si accorse che aveva di fronte una donna. Il rallentatore non alterò la fluidità del suo gesto. Il metallo distruttore si sollevò, la bocca carica di morte, pronta a sputare il suo letale veleno. Curiosamente, solo il suono dell'acqua che colava dal soffitto rimase lo stesso, uno snervante gocciolio. E Annabel fece fuoco. Una volta sola. La spalla di Spencer Lynch esplose, centinaia di macchioline scure apparvero istantaneamente sui muri. Con la brutalità di uno choc fisico la scena accelerò, ritrovando la sua velocità naturale. Il giovane si abbatté al suolo e con lo stesso movimento, mentre anche la sua arma esplodeva, rotolò verso la stanza da cui era venuto. Annabel non ebbe modo di reagire. Vide il getto di fuoco nello stesso momento in cui l'intonaco le colpiva con violenza il viso. Perse l'equilibrio e si lasciò cadere, ma la rabbia le fece puntare la Beretta verso il muro dietro il quale era appena scomparso Spencer Lynch. Vuotò il caricatore. Tutti i quattordici colpi restanti. Una soffocante nuvola di intonaco e polvere da sparo si alzò nell'aria, mentre gli ultimi frammenti bianchi di muro ricadevano sul pavimento. Annabel espulse il caricatore vuoto e lo rimpiazzò con uno pieno, poi puntò di nuovo la canna contro il suo invisibile avversario. Rimase in quella posizione per un lungo istante, insensibile al dolore che si propagava lungo i muscoli delle sue braccia. Lentamente, la Beretta si abbassò quando le prime gocce di sangue apparvero nei buchi e colarono lungo il muro. 7

Jack Thayer era chino su Annabel. Dopo l'angoscia, la collera e la compassione, finalmente era arrivata l'ora della curiosità. Intorno a loro, diversi agenti di polizia stavano ispezionando l'appartamento. «Hai capito che era il nostro uomo quando hai visto i capelli sul tavolo?» La detective, che si teneva una compressa di garza sulla guancia ferita dalle schegge di intonaco, riportò lo sguardo sulle lunghe ciocche. «No. Ho capito che era lui quando l'ho visto per strada. Il modo in cui controllava di non essere seguito, e il fatto che corrispondeva alla descrizione che mi aveva fornito il farmacista. Quando è entrato nella casa sospetta, non ho avuto più dubbi. Hai presente cosa dice sempre Woodbine: 'Ogni sbirro ha un colpo di fortuna nella sua carriera, sta a lui non farselo scappare'? Ho sentito che era la mia occasione.» Thayer osservò gli schizzi di sangue sul muro in fondo. La fortuna non c'entrava nulla, Annabel aveva fatto il suo lavoro senza farsi scappare niente. Spencer Lynch era appena stato portato via d'urgenza in ambulanza. Le sue condizioni erano ritenute critiche: due proiettili lo avevano raggiunto all'addome. «La prossima volta aspettami, piccola stupida; è un miracolo che tu sia viva.» «Non ci sarà una prossima volta: un caso come questo non lo incontri due volte, Jack.» «È proprio questo che turba il mio ego! Allora, la tua faccia come va?» Lei gli fece segno che era tutto a posto. Un tecnico di laboratorio si chinò su di loro, munito di bastoncini di plastica e tamponi. «Spiacente, ma dato che c'è stato un colpo di arma da fuoco, devo prendere un campione delle tracce di polvere.» Annabel sospirò e tese le mani, scoprendo le ferite superficiali al viso. Quando ebbe finito, il tecnico la ringraziò e se ne tornò alla sua valigetta. «Ho appena parlato con Woodbine», la informò Thayer. «Per poco non gli è venuto un colpo quando gli ho detto cos'era successo. Sta arrivando. Inutile che ti dica che apprezzerà la tua iniziativa. Con i media attribuirà il merito dell'arresto al tuo coraggio, ma ufficiosamente aspettati una bella lavata di capo. Sono sicuro che farà in modo che gli Affari interni non si mettano in mezzo: potrebbero rimproverarti di non avere seguito la procedura di sicurezza, e persino insinuare che, se tu l'avessi rispettata, forse

Lynch non avrebbe fatto uso della sua arma e quindi non sarebbe all'ospedale. Siamo fortunati se non muore.» «Hai qualcos'altro di incoraggiante da dirmi?» «Spiacente. Tu non hai mai avuto gli Affari interni tra i piedi, volevo solamente metterti in guardia. Sii sincera, e se Woodbine ti sostiene - cosa di cui non dubito - tutto andrà per il meglio. Purché Spencer Lynch non crepi, perché questo complicherebbe le cose. Quanto alle buone notizie, abbiamo trovato un'altra pistola nella... nella camera di Spencer, e un fucile a pompa; è molto probabile che stesse andando a prenderlo quando l'hai colpito. E questo è un punto a tuo favore.» Un agente in uniforme si avvicinò. «Mi scusi, detective Thayer, ma dovrebbe venire a vedere... subito.» «Che cosa? Non si tratterà di qualche brutta sorpresa, eh?» chiese Jack in tono preoccupato. L'edificio era stato perquisito dopo l'arrivo dei rinforzi per tentare di ritrovare le tracce delle donne scotennate, ma senza successo. L'agente, Brian Raglin, era a disagio e si passava di continuo la lingua sulle labbra. Annabel si domandò se non stesse per vomitare. «Abbiamo trovato le ragazze, signore... Almeno credo», si lasciò scappare infine. Thayer si coprì gli occhi con una mano. «Oh, cazzo!» imprecò. Scambiò un rapido sguardo con la collega, prima di aggiungere rivolto a Raglin: «Guidaci». Raglin li condusse oltre il muro dietro il quale si era buttato Spencer Lynch. Scavalcarono la pozza di sangue lasciata dal corpo dell'uomo e proseguirono fino alla camera. Un vecchio letto, un grosso armadio e un televisore costituivano l'intero arredamento. L'agente si avvicinò all'armadio e aprì l'anta; alcuni abiti penzolavano dalle grucce. «Là dentro?» chiese stupito Thayer. «No, è...» Di colpo, Thayer comprese: «Mi stai dicendo che quella carogna si era costruito un passaggio segreto?» «Esatto. Ha sbarrato l'ingresso della stanza vicina con questo mobile di cui si può togliere il fondo», spiegò Raglin. Il giovane poliziotto tirò il pannello, che gli cadde tra le mani. «È semplicissimo e bastano dieci secondi: avremmo dovuto pensarci. A proposito, vi avverto... non è un bello spettacolo, là dentro.»

L'odore si diffuse in un attimo. Un miscuglio di incenso, deodorante chimico e cadavere in decomposizione, un tanfo ben noto a tutti i poliziotti come Thayer. Il detective si tolse di tasca un fazzoletto e se lo premette sul naso; Annabel fece lo stesso. Entrambi si chinarono per passare nell'armadio e sbucarono dall'altra parte. Thayer ebbe come la sensazione di oltrepassare la porta degli Inferi; si preparò a sentire il morso doloroso di Cerbero. Invece, scoprì l'antro della Follia, la dimora terrena del Male. Era uno spazio esiguo, privo di finestre. Una lampadina rossa diffondeva in quella tana nauseabonda un alone inquietante. In un angolo era stata allestita una specie di scrivania, sulla quale erano sparsi alcuni fogli. A terra giacevano numerose boccette di profumo, vuote. Di fronte, una vasca lurida ricolma di un liquido opaco, da cui spuntavano tre membra, tutte umane. Thayer si avvicinò, tenendo saldamente il fazzoletto. Annabel lo vide chiudere gli occhi quando arrivò davanti al macabro bagno. Lo raggiunse e represse un conato di vomito. Un volto deformato dalle percosse e dall'acqua fluttuava appena al di sotto della superficie, la bocca tesa in un'orribile supplica finale. Un cranio senza capelli, che lo strato di grasso faceva sembrare nero. Pareva che la donna fosse bloccata dall'altra parte, ed era come se implorasse di essere liberata dal liquido che la teneva prigioniera, la mano aperta che sfiorava la testa, come a colpire la superficie. Annabel vide il secondo volto e si piegò in due. Vomitò sul pavimento sudicio tutto ciò che aveva in corpo, ancora e ancora, nell'aria viziata che sapeva di incubo. Quando finalmente si tirò su, Thayer era di fronte a lei, con la bocca spalancata, e guardava al di sopra della sua spalla. Sembrava non potesse tollerare quella vista un solo attimo di più. La giovane detective si voltò, preparandosi al peggio. Rimase lì per parecchi minuti, ammutolita. Sul muro in cui si apriva il passaggio segreto erano state appese dozzine e dozzine di foto, di formati diversi. Su ognuna appariva una donna, un uomo o un bambino diverso. Tutte le età e tutte le razze erano rappresentate in quel mosaico di sofferenza. Perché tutti sembravano terrorizzati. Seminudi, alcuni mostravano tracce di violenza, e tutti guardavano in direzione dell'obiettivo con aria supplichevole. Qualcuno aveva le mani

giunte, altri si tenevano più dritti, ostili; ma tutti avevano negli occhi la stessa luce. Imploravano che l'incubo avesse fine. In un modo o nell'altro. Dopo un'eternità, la voce le risalì lungo la gola con difficoltà, tanto che lei stessa quasi non la riconobbe. «Jack, in che cosa ci siamo cacciati?» Lui scosse il capo e sfiorò con la punta delle dita i volti. «Quanti ce ne sono? Ottanta? Cento? Mio Dio, ma che cos'è?» La voce gli tremava: lui, il poliziotto filosofo, stava perdendo la sua razionalità. «È Spencer Lynch che ha fatto tutto questo?» chiese Annabel, incredula. «Non lo so. Guarda, le foto non sono dello stesso tipo, e non hanno neanche lo stesso sfondo, ci sono...» Una luce bianca e accecante si proiettò su di loro. «Ho pensato che una torcia potesse essere utile», disse Brian Raglin mettendo piede in quello che una volta era stato un bagno. Tese loro la lampada mentre si proteggeva il naso con l'altra mano. «Che fetore!» «Fermo!» gridò Annabel. «Torna indietro. Fai luce da questa parte.» Gli indicò il muro al di sopra della piccola scrivania, che Raglin, entrando, aveva casualmente illuminato con il fascio della torcia. «C'è qualcosa sulla parete, l'ho visto.» Raglin obbedì e diresse il ventaglio di luce bianca verso il punto indicato. Non l'avevano vista prima perché era in rosso: una scritta. La lampadina da laboratorio fotografico che fino a quel momento era stata la sola fonte di luce aveva assorbito il colore. L'inchiostro non era fresco, ma era colato il giorno in cui erano state tracciate a grandi lettere quelle parole: Caliban dominus noster In nobis vita Quia caro in tenebris lucet «Che roba è? Spagnolo?» chiese Raglia. «Latino», rispose Thayer, il volto accigliato. «Ci capite qualcosa?» Il detective volse la testa alle foto e strinse le mascelle. Ce n'erano dav-

vero troppi. Volti terrorizzati, ovunque. «La scritta dice: 'Caliban è il nostro signore. In noi è la vita, perché la carne riluce nelle tenebre'.» Poi si girò verso Annabel, e aggiunse: «Spencer Lynch non è solo. Sono in parecchi». Esalò un lungo sospiro e le sue rughe si accentuarono quando mormorò, pensando alle parole della Bibbia: «Essi sono legione». PARTE SECONDA «Riconosco che io stesso ho provato questa voglia malvagia: la voglia di distruggere, di dare libero sfogo alla frustrazione...» DONALD WESTLAKE, THE AX 8 L'aria condizionata era ancora in funzione a pieno regime nonostante l'aereo fosse ormai al suolo. I passeggeri del volo si stavano dirigendo docilmente verso l'uscita, come in una lenta processione. Un po' in disparte, ancora seduto, uno di loro guardava per l'ennesima volta la prima pagina del New York Post che teneva sulle ginocchia. Vi apparivano otto volti, otto foto differenti, otto persone terrorizzate di cui il giornalista aveva avuto cura di celare gli occhi con un rettangolo nero in un ridicolo sforzo di «proteggere» il loro anonimato. In alto, il quotidiano titolava: L'ORRORE DI BROOKLYN. Il passeggero rilesse le poche righe che seguivano: L'ombra di David «Sam» Berkowitz incombe su New York? È quanto lascia presagire la macabra scoperta avvenuta venerdì scorso durante il movimentato arresto di un criminale, nel corso del quale sono stati sparati diversi colpi di arma da fuoco ed è stato gravemente ferito colui che potrebbe essere il nuovo «figlio di Sam». L'uomo nascondeva nel suo appartamento i cadaveri di due donne, oltre a numerose foto di volti spaventati, pressoché insostenibili, che inducono a pensare al peggio. Queste otto persone sono vittime di un serial killer? Per quanto la polizia rifiuti di rilasciare dichiarazioni, una fonte non ufficiale riferisce che al

momento non è stato ritrovato alcun nuovo corpo. Segue alle pagg. 2-3. Appoggiò il giornale senza leggere oltre. Quella era la conseguenza di una fuga di notizie, lo scoop di un cronista bene informato, ma il testo era troppo superficiale. Si parlava dell'arresto di un criminale per nascondere l'ignoranza riguardo all'esatta natura dei crimini, non veniva citato nessun nome e la definizione di «fonte non ufficiale» non lasciava dubbi. Un poliziotto aveva parlato, facendo uscire sotto banco qualche foto delle vittime, semplici copie, in cambio di denaro sonante. L'uomo si alzò, la fila dei passeggeri era ridotta quasi a zero. Prese la sua sacca da viaggio dal portabagagli e si diresse verso l'uscita anteriore del Boeing. «La supplico, faccia in modo che a mia figlia non accada nulla!» Si immobilizzò, chiuse gli occhi e allontanò dalla mente l'immagine della donna in lacrime. Doveva concentrarsi su quello di cui si stava occupando in quel momento. Il giornale, il suo contenuto. L'articolo era un po' striminzito, non c'erano elementi a sufficienza, e il giornalista continuava a chiedersi che cosa la polizia sapesse esattamente. Chiaramente, aveva seguito anche la conferenza stampa, cosa che gli aveva fornito qualche informazione in più, ma il tutto era privo di consistenza. Probabilmente sotto la pressione dell'articolo, il NYPD aveva rilasciato una dichiarazione ufficiale nel pomeriggio del sabato, spiegando che c'era un'inchiesta in corso ma che nulla per il momento permetteva di dire con certezza che le persone fotografate fossero decedute. L'agente incaricato del comunicato aveva precisato che un uomo di nome Spencer Lynch era stato arrestato e si trovava all'ospedale. Le sue condizioni erano stazionarie, ma la prognosi rimaneva riservata. Il portavoce non era entrato nei dettagli, con la scusa che l'indagine era ancora in corso e che una dichiarazione più esauriente sarebbe stata rilasciata in seguito. Riguardo alle otto foto, per concludere, la polizia era sul punto di identificare le persone e l'inchiesta seguiva il suo corso. In pratica, era chiaro che il NYPD per il momento giocava a carte coperte, il che non aveva mancato di allarmare ancora di più la stampa. Ormai si parlava di serial killer a ruota libera: l'Harvey Glattman di New York, il Macellaio di Brooklyn; da due giorni si tirava in ballo di tutto. L'uomo con il giornale scese dall'aereo e recuperò la sua valigia, poi si diresse verso il banco dei bagagli. Dopo che ebbe dichiarato le proprie ge-

neralità gli fu consegnata un'altra borsa, più piccola, sulla quale spiccava un adesivo rosso - CONTIENE UN'ARMA DA FUOCO - che strappò via. Dopo l'11 settembre era cambiato tutto; ciò che prima poteva viaggiare nella stiva senza problemi adesso era soggetto a controlli senza precedenti. «Se lei è morta, non potrò sopportarlo! Non potrò più vivere dopo una cosa del genere!» No, maledizione, non puoi permetterti questi pensieri, ficcali in un angolo del cervello e stai concentrato, lascia da parte le emozioni. Dimentica questa madre che piange sua figlia. Coraggio, prova, fallo! Il passeggero attraversò l'aeroporto concentrandosi sullo scopo del suo viaggio. Il freddo della costa non gli parve così terribile; era abituato agli inverni rigidi, per cui si limitò a infilare dei guanti in pelle quando uscì alla ricerca di un taxi. Il taxi lo condusse dal LaGuardia al centro di Brooklyn in quaranta minuti. Là, l'uomo trovò l'hotel dove aveva prenotato, depositò i bagagli e, senza neppure un attimo di riposo, si affrettò a infilarsi con un brivido di emozione nella metropolitana, dove non scendeva da dieci anni. All'angolo tra la 6a Avenue e Bergen Street trovò quel che rappresentava la ragione del suo lungo viaggio. Un edificio bianco a quattro piani, con le finestre alte e due lampioni verdi ai due lati della porta d'ingresso: il 78° Distretto. Annabel spinse via il piatto vuoto sul bancone. Aveva la guancia destra ancora striata da piccole croste violacee, ricordo delle schegge di intonaco della casa di Spencer Lynch. «Fammene un altro, Tanner.» «Per essere una donna, mangi un sacco!» Il barista si mise a preparare un altro sandwich, tra le risate di un poliziotto in uniforme. L'atmosfera era rilassata, le battute volavano da un capo all'altro del locale e bisognava essere praticamente invisibili per non beccarsene una raffica di passaggio. La maggior parte dei clienti indossava l'uniforme del NYPD, gli altri erano poliziotti in borghese. Un uomo con dei sottili baffi rossicci, in completo beige e cravatta fantasia, si avvicinò ad Annabel. Aveva un volto allungato, come quello di una faina. «Non fare quella faccia, O'Donnel, non ti hanno tagliata fuori!» «Chiudi il becco, Lenhart!»

Abbandonando il tono ironico, Louis Lenhart si sedette sullo sgabello accanto alla detective. «Lasciamo perdere le cazzate», disse. «Jack Thayer dirige il seguito dell'indagine e tu sei nella sua squadra, che cosa vuoi di più?» «Toccava a me coordinare questo caso, sono io che ho rischiato in questa storia. Woodbine avrebbe dovuto dare a me il comando!» «Calma un attimo! Jack è detective di primo grado, è quello che ha più esperienza di tutti, e questo è un caso dove non possiamo fare errori, per non parlare della pressione dei media!» «Non si tratta solo di questo. Jack se lo merita e io sono contenta per lui, ma Woodbine non doveva metterci tra i piedi anche Bo Attwel. Lo sai anche tu come va a finire con quello stronzo che cerca sempre di attribuirsi tutti i meriti. Woodbine ha scelto male la squadra, ecco tutto, e questo mi fa incazzare.» «In ogni caso sei della partita, il resto cosa importa? Sarà l'indagine della vostra vita!» «Proprio per questo, Lou, proprio per questo. Forse non abbiamo gli elementi migliori con noi. Prendiamo te, per esempio, i tuoi modi non mi piacciono, e lo sai, però il tuo lavoro lo sai fare. Il capitano ha fatto una stronzata a non metterti nella squadra principale.» Lou parve trovare valida l'obiezione, e inarcando le sopracciglia aggiunse: «Be', diciamo che il capitano ci va coi piedi di piombo, e che si tiene di riserva uno o...» Il brusio delle conversazioni si era di colpo interrotto, la maggior parte delle facce girate verso la porta d'ingresso. La musica vagamente rock diffusa dallo stereo divenne improvvisamente udibile. Il Tanner's era un bar da sbirri, gestito da un ex sbirro e frequentato unicamente da sbirri, e le cose stavano così da quattordici anni, con una naturalezza che niente e nessuno avevano mai rimesso in discussione. Come ogni territorio, doveva però essere difeso, il che poteva dare origine a scene stereotipate che parevano uscite dritte dritte da un film. L'uomo sulla porta squadrò a sua volta i presenti, prima di fermare lo sguardo su Annabel e avvicinarsi a lei. Teneva un giornale sotto braccio. «Detective O'Donnel?» chiese. «Lei è un giornalista?» replicò la poliziotta indicando il New York Post. Il nuovo arrivato le mostrò la tessera di investigatore privato. «No. Vorrei parlarle a proposito del caso sul quale sta indagando.» Annabel lo osservò. Taglia media, atletico, piuttosto carino, con un ciuf-

fo di capelli castani che gli cadeva sugli occhi; aveva un vago look da star cinematografica: volto mal rasato, jeans e giacca di pelle logora. Fra i trenta e i quaranta, giudicò. «Sono specializzato in indagini su persone scomparse», aggiunse l'uomo. Questa volta lo sguardo di Annabel sembrò cambiare intensità, come esprimendo un rinnovato vigore. Il tipo sembrava sicuro di sé. E lei riconobbe il giornale che aveva portato: era quello che mostrava le otto foto. «Okay, mi segua, andiamo nel mio ufficio, signor...» Lui le tese la mano. «Brolin. Joshua Brolin.» 9 Le due finestre rendevano la stanza meno angusta, malgrado l'ammasso di scrivanie e schedari, l'angolo caffè e l'immenso tabellone delle indagini in corso. Pile di cartelline cartonate traboccanti di documenti occupavano tutti gli spazi disponibili. Annabel invitò Brolin a sedersi tra quelle torri di Pisa e si sedette a sua volta. «La sua tessera dice che viene dall'Oregon. Che cosa l'ha portata fin qui, quando sarebbe bastata una telefonata?» gli chiese, gettando la giacca su un appendiabiti che sembrava prossimo al crollo. Joshua Brolin depose il giornale sulla scrivania e indicò una delle otto foto. «Lei. Rachel Faulet. I suoi genitori mi hanno assunto per ritrovarla. La famiglia è di Portland, dove lavoro.» Annabel si sprofondò nella sua poltrona e fissò il detective privato. Lui proseguì: «Rachel ha vent'anni; è una ragazza piena di vita, molto ambiziosa. Lo scorso dicembre entra in crisi e lascia l'università. Ha appena scoperto di essere incinta del suo ragazzo. Per lei è una tragedia. Subito dopo Natale decide di venire a trovare la sorella maggiore da queste parti, a Phillipsburg, nel New Jersey. Viene a cercare un conforto diverso da quello che possono darle i suoi genitori. Le due ragazze sono molto vicine, per cui Rachel si sistema qui. Deve scegliere se tenere il bambino o abortire, e spera che sua sorella la aiuti a decidere. Poi, otto giorni fa, domenica 13 gennaio, Rachel esce a cavallo per una passeggiata nella foresta, un'abitudine che aveva preso da un paio di settimane. Il cavallo rientra qualche

ora più tardi: senza la ragazza. La polizia locale sta indagando, ma finora non hanno trovato nulla. I Faulet mi hanno contattato venerdì scorso. Stavo raccogliendo un po' di notizie su Rachel questo weekend, quando ho scoperto la sua foto sul New York Post. Sono arrivato da Portland stamattina». Annabel prese nota del nome; non sapeva a che punto fosse l'identificazione delle persone che comparivano nelle foto trovate da Lynch. «Ho bisogno del suo aiuto, detective. Ho promesso ai suoi genitori di fare tutto il possibile per scoprire dov'è Rachel e, nel caso fosse accaduto il peggio, di aiutarli almeno a capire cosa possa essere successo.» «Ha detto che la ragazza è incinta? Non si nota ancora, suppongo.» «No. Se non è lei a dirlo, chi l'ha rapita non può saperlo.» Annabel appoggiò il mento su una mano, pensosa. Si osservarono per un lungo minuto, senza parlare. «Specializzato in persone scomparse, non è così? Non si è certo scelto la parte più facile del mestiere di investigatore privato.» L'aveva detto così, per rompere il silenzio, ma se ne pentì immediatamente. Un'ombra attraversò lo sguardo dell'uomo, e lei di colpo si sentì una stupida. «Bene... stia a sentire», balbettò, «si tratta di un'indagine molto delicata, e per il momento non sono autorizzata a fornirle informazioni. Tuttavia, a titolo amichevole, posso magari orientare un po' le sue ricerche. Ma non si aspetti miracoli da me... la riservatezza è d'obbligo.» Accennò al giornale col mento. «Anche se c'è stata qualche fuga di notizie all'inizio, adesso abbiamo sotto controllo la situazione.» Brolin tirò fuori dalla giacca un taccuino e un paio di occhiali e se li sistemò sul naso, assumendo un'aria falsamente intellettuale, pensò Annabel. «Il tizio che vede là, sul muro, si chiama Spencer Lynch. È appena stato arrestato per omicidio; immagino che abbia seguito la conferenza stampa.» «Sì. Sarebbe possibile avere una copia della foto?» «Stia calmo. Il fatto è che per il momento lui è in coma, ma a casa sua abbiamo trovato un certo numero di foto, tutte di questo genere.» Ancora una volta indicò il giornale. «Un certo numero?» ripeté Brolin. «Non ce n'erano solo otto?» La frase risuonò più come una sinistra constatazione, che come una domanda. Annabel lo fissò. «Non esattamente, ma per il momento non le dirò nulla di più. Per quanto riguarda... Rachel, giusto? Non sappiamo granché. È una delle 'vittime'

fotografate; stiamo lavorando anche su questo fronte, ci vorrà del tempo. Tuttavia - dovrei dire fortunatamente - a casa di Lynch sono stati trovati soltanto due corpi. E inoltre... riteniamo che non sia l'unico implicato in questa storia.» «Una coppia di assassini?» Una volta di più, Annabel esitò, valutando quello che poteva dire e quello che doveva essere assolutamente taciuto. «È probabile. Forse anche tre, ma si tratta di una semplice ipotesi. Sia ben chiaro, signor Brolin, che tutto ciò che stiamo dicendo deve restare tra noi. D'accordo? Se per caso scopro che lei mette al corrente qualcun altro delle informazioni che le do, il nostro rapporto finisce qui. Sono stata chiara?» «Assolutamente. Se la cosa può rassicurarla, prima ero un poliziotto.» Annabel colse nel suo atteggiamento una sincerità conturbante, un sottile velo di emozione che l'uomo non riusciva a controllare, e ne fu incuriosita. Di fronte al suo silenzio, Brolin aggrottò le sopracciglia. «Che cosa c'è?» chiese. Lei fece per parlare, titubante; la curiosità la stava spingendo al di fuori dell'ambito professionale. Infine ammise: «Non so perché, ma mi sembra di conoscerla». Stavolta toccò a Brolin rimanere un attimo in silenzio, prima di cominciare a spiegare: «Poco più di due anni fa ho preso parte all'arresto di quello che la stampa nazionale aveva ribattezzato il Fantasma di Portland, il serial killer. Probabilmente è per questo... i giornali ne hanno parlato molto». Annabel si ricordò. Il caso aveva fatto molto scalpore, un temibile assassino che aveva giocato al gatto e al topo con la polizia, lasciando dietro di sé cadaveri e messaggi cabalistici. Non riusciva a ricordare con esattezza, ma le pareva che Brolin all'epoca fosse l'ispettore incaricato delle indagini e che, una volta risolto il caso, avesse dato le dimissioni, sentendosi colpevole per la morte di una delle vittime: si rimproverava di non essere intervenuto in modo abbastanza rapido. Sentì nascere dentro di sé un moto di simpatia verso l'uomo che aveva di fronte. In un attimo comprese le tensioni che si agitavano sul suo volto, la strana energia che gli conferiva tanto carisma; una forza inquietante ma piena di fascino, di un'intensità tale che nessun attore avrebbe potuto simularla. Fu lui il primo a rompere il silenzio: «Si tratta di una vecchia storia che

cerco di dimenticare». «Capisco. Posso offrirle un caffè?» «No, grazie. Riguardo a Rachel Faulet, può dirmi qualcos'altro?» Tu sei uno di quelli che non mollano la presa finché non hanno ottenuto quello che vogliono, eh? pensò Annabel, apprezzandolo ancora di più. «Nulla, spiacente. Ecco quel che posso dirle per il momento: Spencer Lynch aveva due cadaveri a casa sua, e ha tentato di uccidere una terza donna che è riuscita a fuggire, ed è proprio grazie a lei che lo abbiamo arrestato. Conservava molte foto di uomini, donne e bambini visibilmente terrorizzati. Abbiamo ragione di credere che si tratti di un gruppo, una sorta di clan alla Charles Manson, ma per il momento è una semplice supposizione.» «Basata su cosa?» «Spiacente, non posso dirglielo. Ma niente ci dice che queste persone siano morte; non ne sappiamo nulla, tuttavia...» «Tuttavia?» I loro sguardi si incrociarono. «Ogni foto riporta una data. Abbiamo cominciato a identificare alcune delle persone fotografate e, per due di loro, ci sono rispettivamente tre e sette settimane fra la data della scomparsa e quella segnata sulla foto.» «Sarebbero state tenute prigioniere per così tanto tempo?» «Anche su questo, non siamo sicuri di nulla. L'inchiesta sta muovendo i primi passi: a casa di Lynch c'era così tanto materiale che lo stiamo ancora smistando. Quattro investigatori ci stanno lavorando in contemporanea. E, a proposito, perché proprio io?» «Nella conferenza stampa il suo nome è stato l'unico a essere reso noto. Quando sono venuto qui, poco fa, i suoi colleghi mi hanno indicato il bar di fronte, dove potevo trovarla.» Lei schioccò le dita come se la risposta fosse ovvia. «Cosa mi può dire delle vittime di Spencer Lynch?» chiese ancora Brolin, indicando la foto dell'assassino. «L'autopsia è stata effettuata ieri pomeriggio. Tutte e due sono morte annegate. Prima le scotennava, poi le legava e infine le immergeva nella vasca, a quanto possiamo supporre.» «Le scotennava?» «Sì, pare confezionasse delle parrucche con i loro capelli: parrucche che rivendeva a caro prezzo a uno specialista. Questo tizio lo abbiamo interrogato, ma non sembra sapere granché.»

Sfogliò rapidamente il suo taccuino prima di precisare: «Si chiama Walter Sudmak, e non ha mai fatto domande a Lynch. Si limitava a pagare ogni volta in contanti. Sudmak ha clienti pronti a sborsare un sacco di grana perché la loro parrucca sembri vera come i capelli naturali». «Il movente dei delitti è unicamente il lucro?» si stupì Brolin. «Non soltanto. I capelli, temo, erano 'solo' per arrotondare. Tutte le vittime hanno o avevano profonde lesioni vaginali: questo pazzoide le violentava più volte prima di ucciderle. La terza, quella sopravvissuta, sta ricominciando a poco a poco a parlare; ci racconta quello che ha subito, e non è molto piacevole da sentire.» «Se capisco bene, lei pensa che Spencer Lynch abbia commesso due omicidi, ma che non c'entri con le persone delle foto, o meglio che avrebbe dei complici o qualcosa del genere... Dunque che Rachel Faulet potrebbe essere nelle mani di un altro folle, e forse ancora viva?» «Gliel'ho già detto, non ne so nulla. Ci sono molte possibilità. Diciamo che finora abbiamo buoni motivi di pensare che Spencer Lynch non sia che un anello di una catena. Per Rachel, tutto è possibile, glielo ripeto, ci sono diverse settimane di distanza tra le date dei rapimenti e quelle riportate sulle foto. Abbiamo un'enorme quantità di dati da elaborare, e per il momento la nostra priorità è l'identificazione di tutte queste persone. L'inchiesta è partita solo da due giorni, e ho paura che ce ne vogliano un po' di più, pur con tutta la buona volontà del mondo, per ottenere dei risultati.» Brolin annuì in segno di comprensione. Puntò la sua penna sulla scrivania di Annabel. «Immagino di non poter avere una copia del rapporto dell'autopsia, vero?» Annabel lo squadrò in silenzio, perplessa. Poi si alzò. «Mi aspetti qui.» Tornò dopo cinque minuti e gli porse delle fotocopie. «Rapporto dell'autopsia, foto di Spencer Lynch e quello che sappiamo finora delle due vittime.» Stringendo ancora in mano i documenti, aggiunse: «Ho fiducia in lei perché so chi è e che cosa ha fatto. Ma provi a fregarmi e io le spacco quel faccino così carino». Lasciò andare i fogli e gli porse il suo biglietto. «Se ha qualcosa di urgente, il mio numero di cellulare è sul retro. Mi tenga al corrente. Ultima cosa: io non le ho dato nulla, tutto questo resta tra noi.»

Brolin assentì, sul volto un'espressione quasi di sorpresa. «Che altro c'è? Vuole magari anche il mio ufficio?» Lui scosse il capo e lasciò affiorare un sorriso, il primo, che ebbe un effetto benefico su Annabel. Non perché fosse sensibile al fascino dell'investigatore privato, ma perché per un attimo aveva pensato che nulla avrebbe mai aperto una breccia in quel volto malinconico. «Ora la lascio. Grazie mille.» «Buona fortuna per Rachel», gli mormorò, quando lui era già sulla porta. 10 La metropolitana oscillava, cullata da scricchiolii stridenti e da fasci ammalianti di luce azzurrognola che sembrava elettrizzare i volti incollati ai finestrini. Fantasmi stralunati, prigionieri della routine quotidiana, con gli occhi fissi sul nulla dei tunnel senza fine, tunnel che puzzavano di gomma bruciata e acciaio surriscaldato; prigionieri catturati dalla sfilata di un paesaggio che avevano imparato a conoscere meglio del filo delle loro esistenze. In mezzo a loro, uno sguardo scuro attraversato da una ciocca di capelli: Joshua Brolin. Le rare luci gialle che si incontravano nei tunnel ricordavano a Brolin i momenti migliori della sua vita, radi punti luminosi sparsi nel caos della memoria. Raggiunse il suo albergo nel primo pomeriggio, e approfittò del fatto di essere il solo cliente nella hall per sedersi al bar a consultare i documenti che gli aveva dato la detective O'Donnel. Appoggiò su uno sgabello la sua vecchia giacca di pelle dai gomiti logori e si massaggiò il volto. A vederlo così, insaccato in un maglione nero a maglie larghe, i capelli un po' troppo lunghi, nessuno avrebbe potuto indovinare che quell'uomo in jeans e scarpe da jogging era stato addestrato dall'FBI. A soli trentaquattro anni, aveva già accumulato un'esperienza fuori del comune. «Neanche il tempo di riflettere», mormorò rivolto a se stesso. Ripensò a Rachel Faulet, alla foto che i genitori gli avevano dato. La tirò fuori dal portafoglio. La giovane donna aveva un aspetto gioioso, esibiva un sorriso candido e sincero; il canino destro era rotto e questo stranamente le conferiva un certo fascino, la rendeva più vulnerabile, più tenera. Brolin si ricordò della foto di Rachel sulla prima pagina del New York Post e

gli si strinse il cuore. Dov'erano quei begli occhi castani, la gioia sulle guance paffute? E quella spensieratezza che fine aveva fatto? Non rimaneva che la paura, quasi una sorta di rassegnazione. Chiedeva pietà, che tutto finisse e basta, che la sua vita smettesse di andare avanti, lei non ne voleva più sapere. Come avevano potuto i suoi genitori sopportare un'immagine del genere? Brolin digrignò i denti e strinse i pugni fino a sentir scricchiolare le ossa. Si raddrizzò per stiracchiarsi, pescò nella giacca una sigaretta e l'accese. Non c'era nessuno a dirgli che in quel luogo era vietato fumare. Riflessioni di quel genere sulla vittima non portavano da nessuna parte, se non in territori aridi di speranza. Restò lì a passare in rassegna le bottiglie di liquore allineate sui ripiani del bar, vuotandosi la mente a suon di bicchieroni immaginari. Dopo parecchi minuti, prese il suo taccuino e riportò la mente sulle cose concrete. Cerchiò a penna il nome di Walter Sudmak, il venditore di parrucche che aveva comprato i capelli delle vittime di Spencer Lynch. Probabilmente non era che un disgraziato senza scrupoli, senza alcun legame con gli omicidi, ma non era il caso di trascurarlo. Poi scrisse «sceriffo Murdoch, Phillipsburg», la città dove viveva la sorella di Rachel, una certa Megan. Era da quelle parti che Rachel era scomparsa; avrebbe dovuto incontrare Murdoch per le consuete formalità. Aprì i fascicoli con le informazioni biografiche sulle due donne uccise da Spencer Lynch: poche pagine prevalentemente tratte dai documenti redatti dalla polizia all'epoca della scomparsa. Doveva risalire a Rachel partendo da questo Spencer, anche se non aveva ancora idea di come procedere. Se Spencer non era il rapitore di Rachel, esisteva comunque un legame fra i due, visto che a casa dell'uomo avevano trovato la foto della ragazza, lo sguardo svuotato dalla paura fisso sull'obiettivo della macchina fotografica. Brolin controllò di essere ancora solo al bar, poi dispose i documenti a ventaglio davanti a sé. Si trovò davanti due volti. Le due vittime di Spencer. Meredith Powner, diciannove anni, era scomparsa il 17 agosto 2001, e Illiana Tarpov, ventisette anni, il 4 gennaio di quell'anno. La vittima mancata, quella che era fuggita e ora si trovava all'ospedale, si chiamava Julia Claudio; stando alla sua testimonianza, era stata rapita appena la settimana prima, il 15 gennaio. Brolin aprì il rapporto delle autopsie e cominciò a confrontare le infor-

mazioni. Tutte erano state scotennate, e le prime due erano state annegate nella vasca. Il corpo di Meredith non era che un'orrenda poltiglia, quello di Illiana, già in stato di putrefazione avanzata, cominciava a desquamarsi. La tana di Spencer non era mai stata riscaldata dall'inizio dell'inverno, così l'acqua della macabra vasca era rimasta ghiacciata per diverse settimane, conservando più a lungo i cadaveri in uno stato «umano», nonostante i volti fossero divenuti un orrido fiore scuro. Dopo tanto tempo in un liquido, la pelle scivola sul corpo umano come la coda di un gamberetto che si toglie per far apparire la polpa. Era stata necessaria la massima attenzione per estrarre i corpi, evitando soprattutto di tirarli per le braccia, per non trovarsi con due guanti di pelle umana in mano. Le due ragazze erano state identificate grazie ai documenti. Spencer Lynch aveva conservato i loro effetti personali, portafogli, borsette e anche i vestiti. Erano i suoi trofei. Il rapporto preliminare del laboratorio indicava che la biancheria intima femminile trovata nel letto di Spencer era coperta di chiazze giallastre, molto probabilmente sperma secco. Era impossibile stabilire se ci fossero stati anche atti di necrofilia; in ogni caso, quando la putrefazione dei corpi aveva raggiunto uno stadio troppo avanzato, Lynch non aveva potuto fare altro che eiaculare sulle mutandine, rivivendo per procura le fantasie che lo avevano guidato al momento di infliggere la morte. Masturbazione compulsiva, concluse Brolin, assai frequente negli assassini di quel tipo. Il processo per arrivare a comprendere l'assassino si era messo in moto. Con le dimissioni di Brolin, la polizia di Portland, e prima ancora l'FBI, avevano perso un elemento brillante, nel quale l'empatia si mescolava al sapere in un'alchimia sconcertante, talvolta terribile. Joshua Brolin si immedesimava nel criminale, nell'assassino, poi a poco a poco ne intuiva la natura, i desideri e le loro origini: capiva le sue paure. Senza spingersi oltre in queste riflessioni, l'investigatore privato accantonò la psicologia di Spencer Lynch, non disponendo di elementi sufficienti per comprenderla. Ciò che lo interessava, al momento, era il profilo delle vittime: bastava da solo a raccontare molto del loro assassino. La prima, Meredith, era un'adolescente nera piena di vita: coinvolta nelle iniziative della parrocchia, cantava nel coro, andava negli ospedali con le amiche per far compagnia ai bambini malati, e a scuola aveva buoni voti. Insomma, la tipica ragazza modello. La seconda era di origine russa, la sua famiglia si era trasferita negli Sta-

ti Uniti dopo la caduta del Muro. Viveva a Coney Island, nel quartiere di Little Odessa. Illiana lavorava come manicure in un salone di bellezza, non aveva un fidanzato e viveva sola. Per prendersela con lei era stata necessaria una maggiore abilità, poiché era più adulta, più indipendente e sicuramente più grintosa di Meredith. Hai fatto un bel salto in avanti, eh, Spence? Meredith era più vulnerabile, magari non ti è piaciuto? Non si è difesa abbastanza, è stato troppo facile? Cos'è che ti fa eccitare, Spence? È quando fanno resistenza? È questo? Quando si dibattono? Ti piace leggere il panico nei loro occhi, quando finalmente riesci a importi, è questo il tuo vero godimento, la tua piccola vittoria? Brolin afferrò la foto di Spencer Lynch e i pochi appunti che l'accompagnavano. Era schedato al NITRO, un database dedicato ai delinquenti recidivi ricercati per violazioni alla legge sugli stupefacenti; era stato in carcere per traffico di eroina e medicinali e per tentata aggressione sessuale, benché non fosse schedato nella banca dati del DNA. A ventotto anni, Lynch ne aveva già trascorsi nove dietro le sbarre. Ma fino a quando non era stato rilasciato nel 2001 non aveva mai ucciso. I fantasmi erano cresciuti dentro di lui, sviluppandosi ancora di più in carcere, dove scontava una pena per tentato stupro e dove aveva avuto tutto il tempo per rivedersi nella mente, come un film, l'aggressione. Quando era uscito di prigione, il suo desiderio era ormai giunto a un tale livello di parossismo da dover essere placato a ogni costo. Tuttavia, mettere in atto le proprie fantasie era ben più difficile che limitarsi a sognarle. Brolin scosse il capo. Si stava perdendo in congetture; nulla permetteva di arrivare con certezza a quelle conclusioni, anche se si trattava di uno schema ricorrente. Dentro di sé sapeva che l'evoluzione di Spencer, almeno a grandi linee, era stata proprio quella. Per il suo primo delitto - Meredith - aveva attaccato una donna della sua stessa razza, e questo lo aveva rassicurato; lei era giovane, aperta agli altri e generosa, quindi più vulnerabile e facile da manipolare. Molti serial killer rivoltano le qualità delle vittime contro di loro. Questo mondo ci incita proprio a diventare, per prudenza, dei paranoici individualisti... scherzò Brolin cinicamente fra sé e sé. Poi, era trascorso un intervallo abbastanza lungo prima che Spencer colpisse di nuovo. Per la terza vittima, invece, aveva agito molto più in fretta, ci stava prendendo gusto e soprattutto stava acquisendo sicurezza e fiducia in se stesso.

Ciò che colpiva Brolin era la diversità delle etnie delle vittime. Afroamericana, russa, ispanica. Allora, non sai cosa vuoi, Spence? Cerchi te stesso? Aveva cominciato con qualcuno della sua stessa etnia, e aveva certamente operato in un ambiente che gli era familiare - Brolin ci avrebbe scommesso la testa - in modo da prendere coraggio e sentirsi più tranquillo. Per passare all'azione, per la sua prima volta, aveva dovuto farsi coraggio in molti modi, darsi fiducia per riuscire a concretizzare dal vero ciò su cui fantasticava da tanto tempo. Secondo il rapporto redatto allora dalla polizia, Meredith era scomparsa in un pomeriggio in cui avrebbe dovuto trovarsi in chiesa, non lontano dal Navy Yard di Brooklyn. Illiana era di Coney Island: una bella distanza dalla casa di Spencer, per non parlare di Julia che viveva nel Queens, a Corona, ben lontana dal suo aggressore. Con il passare del tempo, l'assassino si era sempre più allontanato da casa sua, il che confermava la tesi di un primo delitto portato a termine in un luogo rassicurante, che lui dunque frequentava. Bisognava partire dalla prima vittima: era lei che poteva rivelare più cose su Spencer. E poi trovare il collegamento tra Spencer Lynch e Rachel Faulet. Perché lui aveva la sua foto? «La supplico, faccia in modo che a mia figlia non accada nulla! Impedisca che le facciano del male, la trovi...» Brolin chiuse gli occhi. Era stato il signor Faulet a convocarlo. La moglie era fuori di sé, sconvolta, ma era riuscita a contenersi, almeno fino a quando lui si era avviato verso la porta. A quel punto era scoppiata in lacrime, un pianto viscerale che Brolin conosceva ormai fin troppo bene. Lo aveva supplicato di ritrovare sua figlia sana e salva, come se fosse lui il rapitore e potesse disporre di lei. In realtà, non sapevano nemmeno se era stata rapita, e fino all'uscita del Post con la foto di Rachel avevano sperato che si fosse semplicemente smarrita nei boschi dopo aver perso la memoria in seguito a un incidente, o che fosse magari scappata via. Qualsiasi ipotesi, per quanto folle, piuttosto che immaginare il peggio. Dopo un anno e mezzo che faceva questo lavoro, Brolin non riusciva ancora a passare oltre le sofferenze delle famiglie. Le sentiva troppo vicine; era per via dell'esperienza che lui stesso aveva vissuto. Spense il mozzicone in un piattino che si trovava lì accanto sul bancone. Bisognava procurarsi anche la lista dei compagni di cella dell'assassino; la prigione era sempre il migliore dei club, se si voleva incontrare qualche

altro criminale. A questo pensiero, una smorfia amara gli attraversò il volto. «Tutto bene, signore?» Brolin si voltò: era arrivato il barista, e lo stava osservando con una certa inquietudine. «Sì, benissimo, grazie.» L'investigatore si affrettò a rimettere via le carte sparse in giro. Il commerciante di parrucche era il suo primo obiettivo, poi sarebbe andato dai genitori di Meredith Powner. Sapeva che non avrebbe potuto fare a meno di provare compassione per loro, e questo lo avrebbe fatto star male da morire, ma poteva essere l'unico modo per trovare una pista da seguire. E soprattutto una chiave: la chiave che apriva la porta del passaggio segreto che da Meredith arrivava a Rachel. In ogni caso, non disponeva di nient'altro. Si avvicinò a una finestra e osservò il cielo grigio, uniforme, che incorniciava la sommità degli edifici circostanti. Non doveva perdere altro tempo. Da qualche parte, in quel preciso momento, Rachel Faulet, vent'anni, forse stava urlando di paura... Nella migliore delle ipotesi. 11 Alla fine dell'undicesimo secolo, la città di Antiochia fu assediata per otto mesi dai cristiani della prima crociata. I musulmani difesero se stessi e i loro beni il più a lungo possibile. Quando i crociati facevano dei prigionieri, li decapitavano e poi lanciavano le teste dentro le mura, per seminare la paura e per diffondere infezioni. Chiudiamo gli occhi per un attimo sulla nostra esistenza e risvegliamoci tra quelle mura che tremano sotto l'impatto delle pietre nemiche. Ci sono questi uomini, queste donne e questi bambini che vedono l'esercito dell'occidente venire avanti nella notte. Le torce che oscillano, le armature senza volto, le macchine da guerra e i panieri colmi di teste tagliate. Le fortificazioni di Antiochia sono sul punto di cedere, ormai nulla può più fermare i cristiani. Dilagheranno nelle strade, portando la morte sotto i loro mantelli e nel riflesso iniquo delle loro lame. Gli uomini provano un senso di oppressione al petto all'avvicinarsi del massacro, le donne sentono il sangue scorrere nel ventre e i bambini piangono in silenzio. Sanno che stanno per morire, e la paura rende le loro lacrime più acide dell'odio. Migliaia di sguardi vacillano, mentre l'ariete sfonda la

grande porta della città. Ci siamo, tutto è finito. La morte è entrata. Mille anni dopo, attraverso i densi vapori che ricoprono Brooklyn, questa stessa intensità negli occhi, questa sorda rassegnazione intrisa di terrore si ritrova fissata per sempre su carta patinata. Icone di sofferenza, le foto sono state fissate alla parete, e da lì riflettono la luce dei neon, suddivisa in tante strisce immacolate. Al di sopra delle foto attaccate più in alto, l'intonaco rigonfio si stacca dal muro, e spesso capita di ritrovare piccoli frammenti bianchi sul pavimento, talvolta nel caffè, soprattutto quando la corrente fa sbattere la porta. Tra questo muro di sguardi e le quattro finestre ci sono parecchie scrivanie, delle sedie e persino un divano costellato di bruciature di sigarette e macchie di ogni genere. La vista dà sulla Bergen, tre piani più sotto, e sulle auto della polizia parcheggiate sulla strada. Al 78° Distretto di New York, questa stanza è chiamata il «sarcofago», a causa della mancanza d'aria quando tutti fumano; è qui che si tengono le riunioni o si insediano, all'occorrenza, i gruppi di crisi in occasione di una grave emergenza, cosa che si è verificata solo una decina di volte in un quarto di secolo. Quel giorno, l'unità investigativa che aveva piantato le tende nel «sarcofago» raggruppava Bo Attwel, Annabel O'Donnel e Fabrizio Collins, sotto la supervisione di Jack Thayer. La stanza era satura di fascicoli, e di vestiti e deodoranti a poco prezzo. Un caricaturista si sarebbe divertito un mondo a fare uno schizzo della scena. Avrebbe cominciato con un uomo con il volto solcato da rughe, fino a farlo assomigliare a un vecchio frutto secco, e questo era Thayer. Per Annabel avrebbe accentuato le sue origini, disegnando una meticcia, e avrebbe anche evidenziato la sua muscolatura, trasformando la figura atletica in quella di un body-builder gonfio di anabolizzanti. Fabrizio non sarebbe sfuggito alla caricatura dell'italiano tipo: abito elegante, capelli lucidi di gel, occhiali neri e l'immancabile Borsalino, tutto il contrario di quello che lui era in realtà. Per ultimo, il tenente Bo Attwel, il più difficile da rappresentare. A doverlo disegnare, solo il Figlio dell'uomo di Magritte con la bombetta e la mela davanti al volto si sarebbe rivelato adatto, in grado di riflettere quel misterioso non so che capace di rendere interessante anche l'individuo più ordinario. Bo Attwel ringraziò il suo interlocutore e riagganciò il ricevitore. Afferrò il foglietto di carta sul quale aveva appena trascritto un nome e andò a fissarlo sotto una delle foto. «Trentaquattresima identificazione», commentò con un tono strano, or-

goglioso e triste al tempo stesso. Attwel aveva superato la cinquantina e il suo fisico era lo specchio perfetto dell'americano medio, con un po' di pancetta e il volto segnato dallo stress. I vestiti comprati in saldo, due alla volta, completavano l'opera, rendendolo quasi invisibile sullo sfondo del paesaggio newyorchese. Le labbra erano sempre tirate, non si rilassavano mai; gli occhi, molto pacati, erano abituati a muoversi il meno possibile. Se non fosse stato per la mascella prognata e le sopracciglia nere che facevano a pugni con i capelli grigi, sarebbe stato impossibile ricordarsi di lui, a meno di non frequentarlo regolarmente. Dal suo cattivo umore era evidente che non apprezzava per nulla il fatto di non essere il numero uno in quella indagine. Arretrò di un passo e incrociò le braccia sul petto. Lo spettacolo era sconvolgente. Un identico brivido percorse le schiene di tutti i presenti. Sessantasette foto che ritraevano altrettanti esseri umani si susseguivano in lunghe file macabre. Annabel scrutò in quegli sguardi, in quelle paure, e l'immagine di uno spaventoso olocausto le si impose: per un istante immaginò di guardare le interminabili file di persone in attesa davanti all'entrata di Auschwitz-Birkenau. Quanti volti innocenti, quante disillusioni! La porta si aprì sul vociare del corridoio e il capitano Woodbine si unì al gruppo. Il gigante nero aveva l'aria preoccupata. Jack Thayer batté le mani. «Sediamoci e facciamo il punto della situazione. Dall'inizio.» Si sedettero tutti intorno a un lungo tavolo, sotto la luce di piccole lampade di ottone. Di lì a pochi minuti, dalle loro parole scaturirono ombre germoglianti come piante malsane, mentre il fumo delle sigarette si alzava in cerchi sempre più larghi, come un'eterea mitra sospesa sulla stanza, dando tutto il suo significato alla definizione di «sarcofago». Fuori, la luce del giorno impallidiva sotto le nubi, mentre il sole scompariva del tutto. Attwel parlava con la sua voce da baritono: «Venerdì 18 gennaio, cioè tre giorni fa, Spencer Lynch viene arrestato per le ragioni che abbiamo appena finito di ricordare. Al momento è ancora in coma. I medici pensano che sia fuori pericolo, ma non sono ottimisti sulle sue condizioni in caso di risveglio, né sanno quando potrebbe risvegliarsi. Bene, a casa di questo Lynch si trovano le foto di sessantasette persone, bambini, donne e uomini, di entrambi i sessi e di tutte le età».

Woodbine aveva l'aria stordita, osservava le file di volti come se non riuscisse a capire. «Secondo quanto siamo riusciti a stabilire, tutte queste persone risultano scomparse dalle loro rispettive famiglie», proseguì Attwel, come se fosse lui il capo dell'unità. «Le foto erano disposte in un certo ordine. Riunite in tre 'gruppi' differenti. Tre Polaroid con le vittime di Spencer erano distinte dal resto. Gli altri due gruppi erano separati da un tratto di pittura sul muro. Uno comprendeva quindici foto, stampate in modo amatoriale, mentre l'altro, il più terribile, era costituito da quarantanove scatti. Questi ultimi sono stati realizzati con una macchina fotografica digitale, poi stampati su carta speciale di buona qualità. In entrambi i casi, tecniche prudenti e senza rischi per i fotografi. E infatti, almeno per il momento, non abbiamo idea di come risalire a loro a partire dalle foto.» «Mi state dicendo che sessantasette persone sono state rapite, e poi fotografate, apparentemente senza alcuna ragione?» chiese il capitano Woodbine, che in realtà si aspettava solo una conferma di ciò che già sapeva, anche se non riusciva ancora a crederci. «Temo proprio che l'incubo sia solo all'inizio. Jack?» Attwel passò la palla a Jack Thayer, che si diresse verso una lavagna sulla quale erano riportate tre frasi in latino. «Caliban dominus noster. In nobis vita, Quia caro in tenebris lucet», lesse. «'Caliban è il nostro signore, in noi è la vita, perché la carne riluce nelle tenebre.' Anche qui, il numero chiave è il tre. Stiamo cercando di scoprire se Spencer conosceva il latino, cosa poco probabile. Senza voler mancare di rispetto a nessuno, diciamo che non ha proprio il profilo giusto. Non abbiamo trovato nessun vocabolario di latino tra le sue cose, e stiamo passando al setaccio i libri che possedeva per essere certi che non abbia preso la frase da uno di quelli.» «Tu credi che ce ne sia più di uno, vero?» chiese «Woodbine. «Una setta, satanisti o qualcosa del genere.» Thayer fisso gli altri per un attimo prima di rispondere. «Per il momento, pensiamo che siano in tre. Tutto funziona come se fosse un trio: i supporti fotografici, la disposizione delle foto sul muro di Spencer, e anche la citazione, divisa in tre frasi. Di concreto non abbiamo in mano ancora niente, ma una cosa è certa: Spencer non è da solo. E c'è dell'altro.» Toccò ad Annabel alzarsi per prendere una cartelletta su quella che nel frattempo era diventata la sua temporanea scrivania.

«Nella sua tana Spencer riceveva posta», spiegò la detective. «In realtà, supponiamo che gliela recapitassero, oppure che andasse lui a recuperarla da qualche parte; la sola busta che abbiamo trovato non portava né un nome né un indirizzo. Dentro c'era una cartolina, di cui stiamo cercando di scoprire l'esatta provenienza. Il testo sul retro è già significativo.» Prese la cartolina - un villaggio in bianco e nero attraversato da uno stretto fiume - e lesse, cercando di mantenere un tono di voce il più possibile neutro: Stai migliorando. Fai meno stronzate. Adesso devi imparare a diventare come noi. Invisibile. Fai un passo avanti, mostrati astuto: nella famiglia di John Wilkes troverai JC 115. Un piccolo indizio: questa famiglia ha portato sulla schiena le viscere della terra! Essa vive sopra il Delaware... Sii degno e a presto, mio piccolo S. Nel posacenere davanti a lui, Woodbine vide la sua sigaretta consumarsi da sola. «È firmato Bob», completò Annabel. «Apparentemente, Spencer bruciava le sue lettere o le sue cartoline: abbiamo trovato un bel po' di carta bruciata nella spazzatura. Questa era sicuramente più recente, forse non ha avuto il tempo di distruggerla.» «Nessun indizio sulla provenienza della busta?» chiese Woodbine. Annabel stava per rispondere ma Attwel fu più rapido, cosa che irritò la poliziotta; come al solito, voleva godersi da solo le luci della ribalta. «Sì, c'era della polvere un po' luccicante. L'abbiamo mandata al laboratorio, stiamo aspettando i risultati. Sul retro della busta ci sono tracce di nastro adesivo; pensiamo che le lettere venissero attaccate da qualche parte da qualcuno e che Spencer andasse poi a recuperarle. Chi? Dove? Come? È su questo che stiamo lavorando adesso.» Fino a quel momento Fabrizio Collins era rimasto in silenzio. I suoi lunghi capelli castani erano legati a coda di cavallo sulla nuca, le guance rasate alla perfezione brillavano sotto la luce delle lampade. Era un bell'uomo, reso però assai meno seducente da una dentatura terribilmente storta che non gli permetteva di sorridere. Si accarezzò i capelli prima di intervenire. «Stiamo lavorando anche all'identificazione di tutti... di tutti questi volti.» Indicò con un cenno maldestro il muro di foto. «Ci vorrà tempo, ma siamo già a buon punto: siamo riusciti a trovare trentaquattro nomi su sessantasette. La maggior parte, almeno finora, erano nello schedario delle

persone scomparse.» Come se stesse realizzando solo in quel momento la gravità della cosa, Woodbine strinse il pugno, premendoselo sulla bocca. «Signore Iddio...» Giocherellando con il colletto della sua polo da quattro soldi, Collins proseguì: «Basandoci sulle date delle sparizioni fornite dalle famiglie, il rapimento più in là nel tempo di cui abbiamo notizia risale al luglio del 1999. E siamo solo a metà delle vittime, in attesa di identificare tutte le altre. Il che significa due anni e mezzo. È una cosa spaventosa! Questa gente agisce nell'ombra da due anni e mezzo! Riuscite a immaginarvelo?» Annabel staccò un foglio dal suo bloc-notes e lo fece scivolare sul tavolo, in direzione del capitano. «Infine», disse, «c'è il tatuaggio che Spencer Lynch ha inciso su Julia Claudio: 67 - (3). Ora ne comprendiamo tutta la macabra portata», commentò. «67 è il numero complessivo, 3 il suo punteggio personale. È una spiegazione semplice, ma è la più logica.» «Qualcuno può spiegarmi con chi abbiamo a che fare?» tuonò Woodbine. Il disagio fluttuò al di sopra del tavolo, come uno spettro gelido. «Credo che abbiamo scoperto un segreto terribile, che diverse persone da parecchio tempo stanno cercando di tenere nascosto», riassunse Attwel. «Per quanto si possa essere astuti, è difficile rapire sessantasette cittadini in questo Paese senza farsi notare, una volta o l'altra. Sono... molto organizzati.» «Bell'eufemismo», ironizzò Thayer senza alcuna allegria. «Ma chi sono? Che razza di mente bacata può formare una setta per andare a rapire tutti questi poveracci?» ringhiò Woodbine. Annabel intervenne seccamente. «Sicuramente dei folli. E il problema sta proprio qui: perché lo fanno? Guardate queste facce, c'è di tutto. Non c'è traccia di logica, cazzo, ci sono persino dei bambini!» I quattro detective avevano trascorso il weekend chiusi in quella stanza a organizzare l'indagine, a mettere insieme le prime conclusioni e a cercare di individuare le piste più evidenti, tuttavia si sentivano ancora completamente sopraffatti. C'erano così tanti uomini e donne su quelle foto che le informazioni su di loro sembravano una montagna impossibile da scalare. A ogni brainstorming spuntavano nuove piste. Come a ribadire questo punto, Fabrizio Collins saltò su e obiettò: «Ehi,

un momento! Non è esatto dire che c'è davvero 'di tutto'.» Il piccolo gruppo spostò lo sguardo dal giovane con i capelli lunghi al muro, che rifletteva tutta quell'immane sofferenza. «Ci sono donne sia giovanissime sia mature, e lo stesso vale per gli uomini. Ci sono tutti i gruppi etnici, con una larga predominanza di bianchi. Ma, se guardate bene, non c'è nemmeno una persona anziana. Il più vecchio a me sembra quel tipo sulla cinquantina. La maggioranza è sulla ventina, forse trentenni.» «Giusto», convenne Thayer. «Il più giovane per il momento è questo qui.» Si alzò e mise l'indice sulla fronte di un bambino che sembrava non avere più lacrime in corpo da tanto aveva pianto. «Tommy Hickory, otto anni, come Carly Marlow, stessa età.» Tutti, a parte Woodbine, presero appunti. Poi Attwel, sempre impassibile, fissò la squadra prima di riassumere la situazione: «In concreto, abbiamo queste sessantasette fotografie, una specie di preghiera in latino e un enigmatico messaggio su una cartolina. Più una miriade di piste secondarie: l'inventario di ciò che possedeva Spencer, l'analisi della polvere sulla busta, la lista dei compagni di cella di Lynch in carcere...» Woodbine fece un cenno col capo. «Domani arrivano tre detective dalla centrale di Brooklyn nord per darvi una mano, e il vostro caso ha priorità su tutto.» Il capitano puntò l'indice verso l'alto. «Ordine del capo della polizia. I media non devono sapere nulla delle sessantasette foto, non voglio ulteriori pressioni. I ragazzi della centrale vi aiuteranno a gestire i rapporti con la stampa. Mollate tutte le inchieste su cui stavate lavorando, saranno assegnate ad altri colleghi: vi voglio a tempo pieno su questo caso. Bisogna essere veloci. L'FBI ci mette a disposizione il suo laboratorio e la polizia di Stato è pronta ad aiutarci, se necessario.» «I federali non vorranno immischiarsi nell'inchiesta?» si preoccupò Attwel. «No, questo incubo è già arrivato alle orecchie del sindaco, e anche del governatore, e vogliono che la faccenda sia trattata con discrezione. L'indagine rimane nelle vostre mani ma ci occorrono dei risultati, e alla svelta.» Ancora si girò verso il muro, verso quella sconcertante moltitudine di sguardi. «Spero veramente che queste persone non siano già tutte morte», aggiunse a bassa voce.

Jack Thayer gli appoggiò una mano sulla spalla. I due si conoscevano da molti anni. «Io... Io non sarei troppo ottimista, al posto tuo. C'è un punto che ancora non abbiamo toccato.» Le narici di Woodbine si contrassero; il capitano aveva ormai i nervi a fior di pelle. «La preghiera in latino che abbiamo trovato a casa di Spencer era scritta col sangue. Il laboratorio ci ha inviato un fax stamattina. Si tratta di sangue umano.» Woodbine chiuse gli occhi e annuì, non era certo sorpreso. Lo fu invece quando Attwel aggiunse: «È un miscuglio di sangue di diverse persone. E sono talmente tante che il laboratorio non riesce a stabilirne il numero esatto». Per quanto fosse un veterano, e in ventitré anni di polizia avesse avuto la sua buona dose di storie allucinanti, il capitano Woodbine ebbe di colpo la sensazione che i sessantasette sguardi sul muro fossero tutti puntati su di lui. La loro intensità gli strinse il cuore fino a strappargli lacrime di rabbia. Perché fate questo? Chi siete? Ma c'era qualcosa che lo tormentava ancora di più. Non riusciva a capire come potevano degli esseri umani mettersi insieme in una simile crudele impresa, frutto di una gelida e calcolata follia. E a quale scopo, poi? In fondo all'ufficio si udì il ticchettio di un termosifone. Restarono tutti in silenzio. 12 Lo strato impermeabile di civiltà formato da New York e dalle sue periferie copre la terra fino a spandersi sulle rive dell'oceano. Vista dal cielo, quando la notte ha ormai steso il suo manto, l'immensa macchia palpita di vita scintillante. Qua e là, vortici di cattivo augurio, si distinguono i lampeggiatori della polizia, riflessi rossi e blu che corrono lungo le facciate degli edifici. Sono queste luci a dare il ritmo alle strade tetre. Se una musica potesse accompagnare un simile spettacolo, sarebbe un coro lento, malinconico e lugubre allo stesso tempo, un inno all'incredibile anonimato di milioni di vite, paradossalmente solitarie tra i fantasmi della megalopoli. In fondo a uno di questi stretti canyon, una silhouette femminile procede

in senso inverso alla corrente. Un gran bel pezzo di donna, si potrebbe dire, piuttosto attraente, pelle tesa sui muscoli fini e duri, passo fermo. Annabel risaliva Clinton Street controvento, il sacchetto della spesa stretto fra le braccia, la mente persa in mille congetture. Mentre attraversava Joralemon, in mezzo alla strada, per un breve istante, scomparve nel denso vapore sprigionato da un tombino. Quando il suo piede toccò il marciapiede, il cellulare cominciò prima a vibrare, poi a suonare. Imprecò in silenzio. Merda. Un attimo, accidenti, sto arrivando! Trovò il davanzale di una finestra davanti a una banca e vi appoggiò il sacchetto della spesa. «O'Donnel.» «Buona sera. Sono Joshua Brolin, volevo parlarle. Ha un minuto?» Annabel osservò la sua borsa in precario equilibrio. «Mi dica.» L'investigatore privato entrò subito in argomento. «Questo pomeriggio ho incontrato il commerciante di parrucche a cui Spencer Lynch rivendeva i capelli delle sue vittime. Un tipo strano ma mi è sembrato sincero, i conti tornano. Credo che abbia qualche piccolo giro losco, e la polizia non gli piace, ma niente di preoccupante. Immagino abbiate verificato se aveva precedenti, vero?» «Certo: nessun precedente.» «Hmm...» Un sospiro, come se esalasse il fumo di una sigaretta. «La cosa non mi stupisce. Poi ho visto i genitori della giovane Powner, la prima vittima di Lynch, ma non ne ho ricavato niente di particolare. Più che altro, ho cercato di avere maggiori dettagli sul suo rapimento. A questo proposito...» «Brolin? Ne ha ancora per molto?» «È solo che ci tengo a essere corretto con lei. È uno scambio di favori. Lei mi ha passato dei documenti, io la ragguaglio sui miei progressi.» Annabel rialzò la testa. Era molto corretto, inatteso e piacevole. E anche furbo: in questo modo il detective privato si assicurava il suo aiuto. Non poté fare a meno di chiedersi quanto sarebbe durata tutta quella correttezza. Notò che gli altri passanti erano costretti a farsi da parte per non urtarla, anche se tutti si guardavano bene dal rivolgerle il benché minimo sguardo. «In che hotel alloggia?» si decise infine a chiedere. «Cajo Mansion, sulla Atlantic Avenue. Perché?»

«La raggiungo», sospirò lei, «mi pare la cosa più semplice.» Riagganciò, prese le sue provviste e fece dietro-front, tra i fari delle macchine e il rumore di tacchi frettolosi. Il bar dell'hotel si era riempito, un gruppo di uomini in giacca e cravatta discuteva a voce un po' troppo alta e numerose coppie stavano cenando, sedute ai tavolini di vetro rischiarati dalle candele. La radio diffondeva a basso volume una canzone di Edie Brickell che nessuno ascoltava, tranne forse l'uomo chino sul suo Martini, sempre più curvo e inconsapevole del fatto che stava cominciando a sembrare un vecchio oppresso dal peso degli anni. Brolin vuotò il bicchiere, mentre sfogliava il giornale. A guardarlo così, era difficile credere che fosse stato uno sportivo. Non che si fosse sformato, ma l'abitudine rigorosa dell'esercizio era venuta meno assieme al portamento del busto. La porta che dava sulla hall si aprì e Annabel fece il suo ingresso. Joshua Brolin si raddrizzò, realizzando solo in quel momento fino a che punto si era lasciato andare. Indicò lo sgabello accanto al suo. «Si accomodi. Ho chiamato nel momento sbagliato, vero?» chiese, indicando la borsa di carta che la donna reggeva tra le braccia. «No, mi ha privato di una scodella di zuppa e di un'ora di CNN, il mio film quotidiano.» «Il fast-food dell'informazione, quello sì che è un programma!» Lei si sedette e ordinò un'acqua tonica. «Allora, che cosa voleva dirmi? È a proposito del rapimento di Meredith Powner, ho capito bene?» Brolin annuì. Era totalmente preso dall'indagine e, senza lasciarle nemmeno il tempo di respirare, attaccò: «Esaminando il dossier, mi sono fatto qualche idea. Meredith era uscita di casa per trascorrere il pomeriggio in chiesa, il giorno in cui è stata rapita. Ha detto ai suoi genitori che avrebbe proposto al sacerdote della parrocchia di aiutarlo, voleva fare del volontariato. Secondo il rapporto di polizia, il prete di St Edwards non l'ha vista per tutto il giorno, anche se ha ammesso di aver passato la maggior parte del tempo nel presbiterio più che in chiesa. La polizia non ha trovato testimoni, e le persone che sono andate a St Edwards nel pomeriggio non hanno notato niente di strano. Nessuno si ricorda di un'adolescente che risponda alla descrizione di Meredith, ma quel giorno non c'è stato un gran movimento di gente. Gli agenti hanno ipotizzato che sia scomparsa lungo il tragitto.

«Se si osservano le vittime di Spencer Lynch, si nota che sono tutte di etnie differenti, il che è raro nei serial killer, che abitualmente se la prendono con persone della loro stessa razza. Come se Spencer non sapesse con certezza di cosa avesse bisogno per soddisfare le sue fantasie e lo stesse ancora cercando. Penso che con il suo primo omicidio volesse sentirsi sicuro, ed è per questo che ha scelto Meredith: è nera come lui, piuttosto giovane, parla volentieri con la gente, le piace aiutare gli altri e non è diffidente di natura. Lui la conosceva, almeno di vista. D'altro canto, la chiesa di St Edwards sta a Brooklyn Heights, non è proprio accanto alla sua tana ma non è certo all'altro capo della città, e anche questo probabilmente gli ha dato sicurezza». Annabel, che stava portando alle labbra il bicchiere, interruppe il gesto a metà. «D'accordo, la logica del suo discorso fila benissimo, tuttavia affermare che Spencer conosceva Meredith mi sembra un po' azzardato, non crede?» «Al contrario. Spencer ha una fedina penale tutt'altro che pulita, ma si tratta soprattutto di reati minori, non ha continuato con gli oltraggi al pudore o con le molestie sessuali; di fatto, ha compiuto 'solo' una tentata aggressione. Non è molto per qualcuno che si appresta a commettere, nei mesi successivi alla sua liberazione, tre delitti sessuali. Non c'è praticamente nessuna tappa intermedia; e però non è così facile arrivare a uccidere, non è come schioccare le dita, checché ne dicano alla televisione.» «Okay, tutto questo lo so anch'io. Forse Spencer ha commesso altri reati ma non si è fatto beccare!» Brolin si strinse nelle spalle, poco convinto. «Mi stupirebbe. Non è molto furbo: si è fatto beccare per droga come uno stupido, e ancor più da idiota per l'aggressione, ho letto i rapporti. Se avesse combinato qualcos'altro, sarebbe riuscito di sicuro a farsi arrestare. Credo che le pulsioni che l'hanno infine spinto a uccidere fossero già presenti in lui ben prima dell'aggressione sessuale, ma il suo temperamento insicuro gli aveva sempre impedito di agire. Me lo vedo come uno che dà libero sfogo alle sue fantasie, si immagina le cose, ma la cui sessualità è tutta nella mente, non nella realtà. Scommetto che gli avete trovato in casa un mucchio di materiale pornografico, vero?» «In effetti è così, pile e pile di riviste.» «Niente di strano, è ciò di cui si nutre. Chiuso in cella, ha avuto tutto il tempo di riflettere sul potere totale, sul controllo, sul dominio dell'altro ridotto a un mero oggetto sessuale completamente a sua disposizione. Ha

potuto sognare tutto questo, prepararsi, forse senza mai dirsi che sarebbe passato davvero all'azione. Ma era già troppo tardi, il bisogno si era fatto impellente. Poco tempo dopo la sua scarcerazione, comincia ad agire, a uccidere. E molto rapido; persino troppo, a mio avviso. C'è stato qualcosa che lo ha scatenato. Conosce la psicologia dei serial killer, detective O'Donnel?» «Ehm, no, non è il mio pane quotidiano, per così dire.» «Nel primo delitto di tutti i criminali di questo tipo c'è sempre un fattore scatenante. Spesso è uno stress che a una persona 'normale' non sembra affatto insormontabile, come un problema di denaro, un licenziamento, una rottura sentimentale o anche una paternità imminente. Per loro, tuttavia, questo stress supplementare fa salire troppo la pressione, cosi esplodono e passano all'azione. Dopo, per i delitti successivi, tale fattore non è più necessario, poiché ormai hanno varcato la soglia. Le risparmio i dettagli... Diciamo semplicemente che, nel caso di Spencer Lynch, trovo che l'intervallo tra la sua uscita di prigione e il primo delitto sia davvero troppo breve. Troppo poco tempo per accumulare tutta quella pressione. Mi sarei aspettato che un tipo come lui ritentasse come minimo una o due aggressioni sessuali, prima di arrivare all'omicidio. Un'evoluzione graduale. Prima mi ha parlato di un gruppo di assassini, no?» «No, un momento! Io non ho detto assassini! Fino a prova contraria, abbiamo solo le vittime di Spencer Lynch. Pensiamo a delle persone che probabilmente organizzano insieme dei rapimenti, ma non c'è traccia di altri cadaveri.» I loro sguardi si incrociarono. Brolin fissò Annabel con l'espressione di chi si sente sottovalutato. «Sappiamo tutti e due che ce ne saranno altri», profetizzò cinicamente. «Volevo arrivare appunto a queste altre persone, perché non mi stupirebbe affatto scoprire che Spencer è stato spinto a commettere il suo primo delitto da qualcuno di loro. Qualcuno che lo conosceva, un individuo del suo stesso genere, che ha saputo riconoscere in lui il medesimo bisogno e lo ha incitato a soddisfarlo. Il fattore scatenante di Spencer, quello che spiegherebbe come mai è arrivato così in fretta all'omicidio dopo essere uscito di prigione. Per la sua prima volta, Lynch ha ucciso qualcuno che conosceva, almeno di vista. Domani andrò a parlare con il prete di St Edwards. Se lei non ha niente in contrario, vorrei mostrargli la foto di Spencer: magari l'ha già visto a qualche messa o mentre gironzolava nei dintorni. Tenuto conto della riservatezza dell'indagine, volevo il suo permesso prima di utilizzare

la foto che mi ha dato.» Ora Annabel osservava il suo interlocutore con curiosità. Bevve il drink e scivolò giù dallo sgabello per avvicinarsi all'uomo e guardarlo un po' meglio negli occhi. «Perché si è messo a fare il detective privato? È in gamba nel suo mestiere, anche più di quel che sembra. Perché investigatore privato, allora, e 'specializzato in persone scomparse'?» gli chiese, citando le sue parole ma senza traccia di ironia. Il velo doloroso del dubbio oscurò il volto di Brolin. «È una storia... complicata», si costrinse a rispondere, in tono all'apparenza neutro. Di colpo, il sottofondo di chiacchiere si fece più forte, e il fastidio dissipò in un attimo il senso di familiarità che si stava instaurando. «E lei?» riprese Brolin. «Qual è la sua storia? Cosa l'ha spinta a entrare in polizia?» Annabel si lasciò sfuggire un sorrisetto divertito: la mossa mancava di eleganza, ma la sincerità di lui le piaceva. Nulla a che vedere con l'attrazione sessuale, semplicemente un contatto piacevole con una personalità così strana e multiforme da riuscire intrigante. In realtà, dopo la scomparsa di Brady non le era mai più capitato di provare desiderio per qualcuno. Non aveva neppure cercato di provarne. Tra il lutto totale e il mantenere comunque viva la fiammella della speranza, Annabel aveva fatto la sua scelta da tempo, e non intendeva rimetterla in discussione. Continuava a sperare, anche se a volte con l'amarezza dei vinti. «Nulla di speciale», finì per rispondere, con una voce incerta che sorprese lei non meno di Brolin. Tossicchiò per ridarsi un contegno, poi riprese in tono più brioso: «Spiacente, sono uno strazio, non ho da raccontare niente di più originale della maggior parte degli abitanti di questo Paese!» Brolin abbozzò a sua volta un sorriso, incoraggiando Annabel a continuare. «Una provinciale tirata su a granturco negli anni Settanta-Ottanta, con la paura di una guerra nucleare con l'URSS, il classico trauma di tutta la gioventù americana. Per il resto, diciamo che sono molto attratta dai rapporti umani quando si svolgono in un contesto atipico, che non mi piace stare ferma e che ho il gusto del rischio, ragion per cui sono entrata in polizia.» «Nessuna medaglia? Nessuna celebrità storica in famiglia? Nessuna separazione in stile hollywoodiano?»

A quest'ultima domanda, l'espressione del viso di Annabel si raggelò per un istante prima di tornare a distendersi. Si studiarono, un po' imbarazzati, finché lei non riportò l'attenzione sulla borsa delle provviste. Con una dolcezza quasi malinconica, finì per girarsi verso Brolin e chiedergli: «Che ne direbbe di una bella passeggiata?» Brolin strinse appena gli occhi e annuì. Annabel scelse due Bud Light, le ficcò nelle tasche del bomber e abbandonò il resto della spesa sul bancone del bar. Presero la metropolitana e attraversarono Brooklyn fino a Coney Island. Seduti nel vagone, senza scambiarsi una parola, si misero a osservare il paesaggio quando il treno sbucò dal sottosuolo per andare ad appollaiarsi su una lama d'acciaio sospesa a quindici metri di altezza. Talvolta i loro sguardi si incrociavano e si scambiavano un sorriso di complicità, come due bambini orgogliosi di aver marinato la scuola. Dopo una quindicina di chilometri, il treno cominciò a rallentare. Brolin osservò la successione di alte torri scure, giganteschi bunker illuminati da centinaia di finestre mentre scendeva la sera, e gli venne in mente che era la prima volta che vedeva un quartiere popolare con vista sul mare. Qui, più che altrove, era lampante l'ironia del mondo moderno, che parcheggiava folle di individui in quelle gabbie, avendo cura di fornire loro un balcone con vista su una libertà inesauribile che a loro era però negata. La fermata di Coney Island era deserta, nient'altro che lunghi corridoi che puzzavano di urina. Durante l'inverno, in spiaggia non andava quasi nessuno, a parte qualche anziano del quartiere. Anche i turisti stavano alla larga, e sulla zona cadeva un velo di cupezza che perdurava fino alle grandi pulizie di primavera. Annabel condusse Brolin lungo un sentiero pedonale costellato di chioschi di patatine fritte, che se ne stavano lì chiusi sotto lo sguardo indifferente di una delle torri. In un angolo, una mezza dozzina di ragazzi avvolti nei loro piumini North Face chiacchieravano mentre da una radio portatile fuoriusciva un rap furioso. Troppo presi dalle loro chiacchiere e dallo spinello che si stavano passando, non prestarono attenzione alla coppia. I due oltrepassarono il parco giochi, anch'esso ibernato in attesa della bella stagione, come un mostro marino da tempo arenato che lasciava intravedere nella notte il dorso scheletrico delle montagne russe. Annabel indicò una rampa di gradini. «Da questa parte la passeggiata non è male. Conosce bene New York?»

«Ci sono venuto qualche anno fa, come turista. Invece a Brooklyn non ho mai messo piede.» «Anche se questa zona ne fa parte, qui non siamo veramente a Brooklyn, è un po' un mondo a sé. D'estate è il paradiso della classe media, ma d'inverno... è solo una carcassa vuota. È così che la preferisco.» Risalirono i gradini e sotto i loro piedi apparve Riegelmann Boardwalk: un interminabile nastro di tavole di legno che costeggiava la spiaggia. Il vento si infilò tra i capelli di Annabel e ne scompigliò le treccine; lei si strinse nel giubbotto. Brolin rimase immobile a contemplare la sabbia grigia sotto la luna e la cortina scura che, a giudicare dal rumore delle onde, doveva essere il mare. «La maggior parte delle persone che vengono a New York per la prima volta non si aspettano uno spettacolo del genere; e del resto, la maggior parte non ha neppure l'occasione di vederlo!» commentò la poliziotta. «Non mi meraviglio.» Il vento sapeva del sale rubato alle onde. Annabel percorse qualche metro sulla passerella di legno, poi saltò sulla spiaggia, subito imitata da Brolin. Camminarono lentamente, avvicinandosi a poco a poco alla riva. Un po' a disagio, lei scelse con cura le parole prima di spezzare il silenzio: «Prima, quando le ho chiesto perché aveva deciso di fare l'investigatore privato, spero non se la sia presa a male, non volevo essere indiscreta...» «Non si preoccupi. Dopo l'aiuto che mi ha dato oggi pomeriggio, le devo pure una spiegazione. E inoltre, uno dei miei professori all'università diceva sempre: 'È soddisfacendo la curiosità degli sconosciuti che ci si fa degli alleati'. Un'idea che mi piace, lo confesso.» «Spera forse che io mi voti alla sua causa andando a toccare qualche corda sensibile?» gli chiese lei, divertita. «Non credo di averne bisogno. È già cosa fatta.» La prima reazione di Annabel fu di arrabbiarsi, per poi rendersi subito conto che in qualche modo lui stava dicendo la verità. La dolcezza del detective l'aveva colpita fin dai primi istanti, non meno della causa che perorava. Per questa ragione gli aveva fornito quei documenti riservati. E comunque non mancava certo di una bella faccia tosta, ma anche questo non le dispiaceva affatto, doveva ammetterlo. «Sono stato per alcuni anni nella polizia di Portland, con il grado di ispettore», attaccò Brolin. «All'inizio mi ero prefissato come obiettivo di entrare nell'FBI per diventare un profiler. Ho fatto l'università, poi gli esami di selezione del Bureau. Ho seguito i corsi di formazione a Quantico,

sono diventato agente federale, e alla fine ho mollato tutto. Ci avevo fantasticato molto su questo mestiere, ma la pratica quotidiana era tutta un'altra cosa. Ho avuto paura di dover passare il resto della mia vita a fare un lavoro che non era quello che volevo. A rischio di sembrare un bambino viziato che non sa quel che vuole, me ne sono andato: due anni di FBI e poi un biglietto di sola andata per l'Oregon. Sono entrato nella polizia di Portland e ho cominciato a fare indagini sul campo. In seguito, grazie alla formazione come profiler, ho avuto modo di lavorare su casi importanti.» Inghiottì una sorsata di Bud Light che il freddo di gennaio aveva mantenuto fresca. «Fino all'indagine su Leland Beaumont, il serial killer. E poi il Fantasma di Leland. Quando la stampa nazionale ha scoperto il caso, lo ha ribattezzato il Fantasma di Portland, forse perché così era più accessibile alla massa.» «Se non ricordo male, erano in più d'uno, vero?» Brolin ci pensò su in silenzio davanti ai flutti dell'Atlantico che schiumavano senza posa a una trentina di metri. «Non esattamente, è difficile da spiegare in poche parole. C'erano parecchi soprannomi: il Corvo, il Fantasma... Ma in ultima analisi era un solo individuo a tirare le fila di tutto. Quando penso a lui, io lo chiamo Dante.» Ogni ricordo di quel periodo gli infliggeva ondate di tristezza, tempeste di dolore che si abbattevano sul suo petto straziandogli il cuore e l'anima con i loro fulmini. Il pensiero dei suoi anni come poliziotto lo rimandava di continuo al Fantasma di Portland, a «Dante» e al modo in cui gli aveva sconvolto la vita. Quell'indagine gli aveva dato tutto: riconoscimento professionale e al tempo stesso delusione; stimoli, azione e persino l'amore. E l'aveva portato allo strazio ultimo, a una perdita da cui non era riuscito a riaversi perché troppo coinvolto personalmente, e infine alle dimissioni. «Perché Dante e non il suo vero nome?» Brolin si riscosse dai suoi pensieri e si portò la bottiglia alla bocca. «Perché gli somiglia», rispose dopo una sorsata, «e come Dante ha attraversato i gironi dell'Inferno. Forse anche perché rifiuto di ricordare la sua identità», ammise dopo una breve pausa. Annabel aggrottò le sopracciglia, ma non osò fare la domanda; la risposta doveva venire da Brolin. «Non merita di essere ricordato», finì per spiegare il detective. «Ovunque hanno parlato di lui, sono stati scritti libri su di lui. Le sue vittime, invece, saranno dimenticate, volti senza nome.» Si girò a guardarla. «Questo

è il mio modo per cercare di far dimenticare lui.» La compassione sul volto di Annabel non aveva nulla di affettato né di impacciato. Era assolutamente sincera. Fin dal primo momento, qualcosa in quell'uomo le aveva ispirato fiducia. Sembrava del tutto indifferente alle opinioni degli altri, faceva parte della società ma la sua mente non ne era schiava. Brolin era circondato dall'aura della libertà autentica e della sofferenza che aveva dovuto patire per ottenerla. Lei gli posò una mano sul braccio, un gesto che voleva essere di conforto, senza ambiguità, chiedendosi intanto da cosa potesse essere nato un tale odio nei confronti di questo Dante. Doveva esserci qualcosa di personale ben al di là dei delitti. «Quando Dante è stato arrestato, me ne sono andato il più lontano possibile. Poi ho lasciato la polizia. Ho viaggiato per mesi, senza sapere cosa avrei fatto in seguito.» «Che cosa l'ha spinta a tornare a casa?» Portata dal vento, la voce di Annabel era dolce come una carezza. «La pietra.» Bevve un'altra sorsata di fronte all'oceano. «Quando sono partito non stavo fuggendo, stavo rispondendo a una chiamata: quella del grande Perché. Del senso delle nostre vite. La vecchia Europa mi è sembrata il posto ideale; andavo a cercare una ragione per continuare a vivere nella culla della nostra storia. Prima la Francia, poi l'Italia. Ho attraversato l'ex Iugoslavia, devastata dalla disinformazione di cui è vittima ancora più che dalla guerra, prima di scoprire la Grecia... Ma non avvertivo nessuna eco in me. Ho visto il calare del sole dai bastioni di Carcassonne, ho sentito il mare ripetere all'infinito le imprese di Ercole nel suo Paese d'origine, ma niente di tutto questo mi parlava. La mia meta successiva è stata l'Egitto: ci sono rimasto sei mesi. Potrei raccontarle una quantità di meraviglie su quel Paese e sui suoi abitanti, il Cairo e il Khan el-Khalili, il Nilo... quante ricchezze! Laggiù sono riuscito a perdermi, a vuotare la mente dalle immagini atroci che mi ossessionavano. Non ero più io. Una mattina, dopo una nottata passata a discutere con un amico appena conosciuto, sono partito per Giza. Ho assistito allo spettacolo dell'alba sulle piramidi, e la luce del sole che danzava instancabile su quelle vestigia vecchie di quattromilacinquecento anni mi ha aperto gli occhi. La brezza sollevava la sabbia delle dune: era magnifico. Là, davanti a me, si ergevano tre geometriche regine, create dalla mano degli uomini per sfidare l'eternità degli astri; e, attraverso il tempo, attraverso la storia, gli uomini mi

parlavano. Il coraggio dei morti filtrava attraverso la sabbia del deserto, e io ho rivisto Atene e l'Acropoli, Carcassonne e le sue torri, i costruttori e i loro contemporanei, come se la pietra mi stesse parlando. Sono tornato al Cairo, ho riflettuto a lungo tra i pilastri di Ibn Tulun e alla fine ho detto addio al canto dei minareti.» Il suo sguardo pareva vibrare sotto il peso dei ricordi. Con voce malferma aggiunse: «Ecco qua. È tutto molto cinematografico, vero?» Sapeva di non essere in grado di esprimere davvero quanto aveva vissuto, le metamorfosi che aveva attraversato. Aveva letto nella pietra la percezione della Ruota del tempo. Tutti quei frammenti di esistenze portavano in sé i sorrisi e le lacrime di anonimi esseri, e tutta quella polvere gli aveva lasciato in gola un'impronta così aspra da rendere al confronto amari i suoi singhiozzi. Lui era vivo, ora, e non poteva permettersi di sprecare questo privilegio. L'Oregon lo aveva riaccolto nel grande valzer delle sue stagioni, e Brolin - benché invecchiato e non più innocente - si era di nuovo tuffato nei laghi e nei fiumi gelidi di casa. Non era guarito dal suo dolore, ma il vento del deserto e la saggezza della Storia lo avevano fortificato. Aveva infine fatto pace col mondo e trovato la sua risposta: accettare che non ce n'era alcuna. «Sono diventato investigatore privato perché condurre un'indagine è la cosa che so fare meglio. Stranamente, ho il dono di capire la natura criminale. Ho deciso di non lasciare questa competenza inutilizzata e la metto al servizio di chi ne ha bisogno. Credo non ci sia nulla di peggio che non sapere cos'è accaduto a qualcuno che ami, se per caso un giorno sparisce. Per questo mi occupo solo di casi di persone scomparse. Spesso si tratta di fughe, qualche volta c'è di mezzo un crimine. Porto alle famiglie delle risposte, magari le peggiori, ma almeno non le lascio a brancolare nel buio.» Finì la sua birra, e guardò Annabel. Lei lo fissava in modo strano, la labbra socchiuse. Batté più volte le palpebre, come se di colpo ricordasse dov'era e cosa stava facendo. «Che posso dire? Io...» Le parole le morirono sulle labbra. Avrebbe voluto svelargli così tante cose, confidargli i suoi dolori, nutrire questo senso di vicinanza, questa amicizia che sembrava improvvisamente possibile. Parlare della scomparsa di Brady, suo marito, dei suoi sussulti ogni volta che una porta sbatteva, della folle speranza che fosse lui, e poi delle notti di solitudine così dure da sopportare, di una vita resa invivibile da un'attesa che chiudeva fuori ogni altra cosa. Nelle parole di Brolin e nei suoi atteggiamenti c'erano proba-

bilmente tutti i presupposti perché loro due riuscissero a comprendersi, ma Annabel si sentiva incapace di aprirsi. Lui non le staccava gli occhi di dosso, ma lei non percepiva in quello sguardo alcuna attrazione, alcuna traccia di desiderio, come se fosse distaccato da tutto ciò. Era semplice gentilezza. «Tutto bene?» le chiese. La detective strinse il collo della bottiglia e sussurrò un «sì» appena percettibile. L'oceano continuava a gettarsi ai loro piedi, infaticabile inchino alla natura. «Non pensavo che si potessero vedere le stelle da qui», osservò Brolin. «Non molte, ma anche così è già bello.» Lei affondò la testa nel collo bordato di pelliccia e rimase in silenzio. Trascorsero un'altra ora sulla spiaggia a parlare di tutto e di niente, tranne di quello che le pesava sul cuore, di quel gusto di lacrime che la opprimeva. New York era una città abitata da dieci milioni di solitudini, e Annabel, per quanto eccezionale sotto molti aspetti, confermava la regola. Lontano, le luci di un cargo lampeggiarono mentre si avvicinava alla grande Babilonia. 13 Il peggio, all'inferno, sono i rumori. Rachel lo imparava ogni minuto, ogni ora, ogni giorno che trascorreva lì, tra i dannati. Doveva essere un luogo ampio, le grida degli altri le arrivavano soffocate e, a dire il vero, abbastanza di rado. In quel preciso momento, Rachel Faulet, vent'anni, era rannicchiata contro la parete rocciosa di quella che sembrava una grotta minuscola. Lo scorrere continuo dell'acqua non la cullava più come durante i primi sonni, dopo lo sfinimento da panico. No, ormai la faceva diventare matta. All'inizio, le era sembrata una fontanella che sgorgava dalla roccia nel bel mezzo della foresta. Adesso le faceva venire in mente piuttosto i torrenti di bava che sgocciolano dalla bocca feroce del mostro di Alien. Cosa ancor più subdola, era impossibile definirne la provenienza. Veniva da dietro la porta, dall'alto, o anche dai «muri». Rachel si sentiva immersa in permanenza in qualcosa di liquido. L'umidità trasudava ovunque. Aveva perso da un pezzo la nozione del tempo. Qui non c'erano né sole né luna.

Tuttavia, era convinta che il cane gemesse da ore. Non ne poteva più di sentirlo lamentarsi in quel modo. L'animale si lasciava sfuggire guaiti in continuazione, piccoli lamenti striduli di dolore. Supplicava che lo finissero, ecco cos'era: il cane stesso chiedeva di essere ucciso! Non doveva essere molto lontano, dietro la porta, nel corridoio. L'eco della sua sofferenza si ripercuoteva fino a Rachel senza perdere d'intensità. Più volte aveva assalito il muro a zampate, il rumore delle unghie che raspavano era riconoscibile, poi doveva essersi stancato, perché ormai lo si udiva solo piangere. Rachel si arrampicò a fatica sul suo giaciglio. La stanza era stretta, e conteneva soltanto il minimo indispensabile alla sopravvivenza: una bacinella d'acqua, un letto polveroso e arrugginito con la rete che cigolava orribilmente. E le candele come unica fonte di luce. Com'era arrivata lì? Non lo sapeva. Aveva preso il cavallo di sua sorella, come faceva più volte durante la settimana da quando era andata a stare da Megan. Un'ora di passeggiata, niente trotto, niente galoppo - pensava già al neonato -, solo la sensazione di potenza e di armonia tra lei, il cavallo e i boschi. Quando il tempo aveva cominciato a guastarsi, aveva fatto dietrofront; mentre usciva dal sentiero di terra per raggiungere il campo, lui era apparso dal nulla. Era lui che si occupava di lei, qui. Le portava i pasti. All'inizio, era terrorizzata dall'idea che la violentasse. Invece non ci aveva nemmeno provato. Per il momento. Aveva pianto, fino a non poter dormire per l'intensità del dolore che sentiva in fondo alla gola. Adesso, rabbrividiva di paura al minimo rumore. Lui veniva a trovarla, di quando in quando, apriva la porta e si sedeva a guardarla. Non diceva niente. Sul suo viso non c'era alcuna espressione. Tutto era nei suoi occhi. Occhi che brillavano. Poi, si alzava e se ne andava. Una volta si era appena chiuso la porta alle spalle, quando Rachel aveva sentito un grido, abbastanza lontano. Un grido di donna. Si era interrotto subito. Le era sembrato di sentir piangere un bambino, ma anche quello era durato poco. E, con lo scorrere continuo dell'acqua, era difficile stabilirlo con precisione. Doveva essere lì da poco quando lui si era presentato con una macchina fotografica digitale. L'aveva fotografata, una volta sola. Nell'uscire, le aveva parlato. Rachel non si sarebbe mai aspettata un simile tono di voce. Dolce, quasi amichevole. «Avrai diritto a un'altra foto più avanti», le aveva detto. «Tra qualche

mese...» Rachel aveva urlato. Si era lanciata su di lui. Ma lui aveva i riflessi pronti e sembrava abituato a simili reazioni, perché l'aveva immobilizzata all'istante. L'aveva colpita al volto una volta, molto forte, e Rachel aveva sentito il suo naso scricchiolare. L'aveva colpita di nuovo, un pugno violento. Selvaggio. Rachel aveva visto schizzare via goccioline del suo sangue. Poi un altro pugno. E un altro... Fino a che si era messa a piagnucolare come stava facendo ora il cagnolino, e poi aveva perduto i sensi, scivolando nel nulla. L'ultimo suo ricordo erano i denti grigiastri dell'uomo, che il sorriso aveva rivelato. Rachel era stremata. Ormai tremava senza interruzione. Aveva preso una decisione. Doveva farlo. Era la sua ultima possibilità. Doveva dirglielo. Dopotutto era un essere umano, forse sarebbe riuscita a suscitare in lui una qualche reazione. Dal fondo della sua sordida prigione, Rachel si aggrappava alla sua ultima speranza con l'ingenuità della disperazione. Si ripeté più volte quello che gli avrebbe confidato. Continuò finché lo scorrere dell'acqua e i gemiti del cane scomparvero dalla sua mente. Quando lo sportello ai piedi della porta si aprì per lasciar passare il suo pasto, mancò poco che Rachel, gli occhi persi nel vuoto, non se ne accorgesse. Si tirò su a fatica e riuscì a emettere un flebile «Aspetti!» con voce rauca. Vide i piedi di lui fermarsi dietro lo sportello aperto. Le luci ambrate proiettavano ombre danzanti sul suolo del corridoio. «Aspetti...» ripeté. Fu allora che notò che il cane non guaiva più. Non deconcentrarti! «Devo parlarle», sillabò a fatica Rachel. La sua voce era rauca. Ancora nessuna reazione dietro la porta. Lui era là, Rachel distingueva l'ombra dei suoi piedi. Aspettava. «Mi ascolti», gracchiò con un sospiro. «Volevo dirle una cosa... Le giuro che non dirò niente alla polizia. Mi inventerò una storia. In ogni caso qui è troppo buio, non ho visto la sua faccia, non potrei riconoscerla... Lei deve lasciarmi andare via... Signore, io... Io sono incinta... Aspetto un bambi-

no...» Si udì un tonfo sordo quando l'uomo dall'altra parte posò la mano sulla porta. Aprì lo spioncino ricavato alla bell'e meglio e Rachel vide i suoi enormi occhi frugarla con golosità. Un dolore indicibile le lacerò il petto quando lui, in tono canzonatorio, le rispose: «Che cosa credi, che non lo sappia? È proprio per questo che sei qui...» 14 Le iridi grigie di Jack Thayer erano fisse su Annabel. «Non sarà troppo presto? C'è mancato poco che ti dovessi aspettare», la punzecchiò lui. Erano nel loro ufficio, una stanza stretta con due finestre affacciate sul grigiore di un martedì mattina. «Ho messo Attwel e Collins all'identificazione delle foto; noi ci occupiamo della sciarada», cominciò Thayer. «Quella specie di salmo in latino?» «No, la cartolina e il messaggio che contiene. Non dovresti mandar giù quella robaccia», aggiunse indicando il bicchiere di caffè che lei teneva in mano. «Ti corrode lo stomaco.» Annabel era stata sveglia fino a tardi. Dopo la serata in compagnia di Brolin aveva sentito il bisogno irrefrenabile di tirare fuori dagli scatoloni qualche foto di lei e di Brady insieme. Era rimasta lì a lungo, fino a quando le lacrime avevano cominciato a macchiare le foto e le lettere dei loro primi tempi; poi si era addormentata in mezzo a quel mondo di ricordi fabbricato dalla Kodak, senza le braccia di suo marito a confortarla. La sincerità di Brolin e le sue parole le avevano ricordato fino a che punto Brady le mancava. «Ah, stavo per dimenticarmi: i ragazzi della centrale di Brooklyn nord arrivano questa mattina per darci manforte, uno è per noi due.» Annabel alzò un sopracciglio mentre sistemava le sue cose. Thayer prese in mano un sacchetto di plastica che conteneva la cartolina in questione. «Sopra ci sono le impronte di Spencer Lynch e di nessun altro. Questo Bob, quello che ha firmato il testo, è un tipo molto prudente.» «Ripetimi quello che c'è scritto.» Thayer prese un gesso e copiò le parole sulla lavagna che copriva un pezzo del muro dell'ufficio:

Stai migliorando. Fai meno stronzate. Adesso devi imparare a diventare come noi. Invisibile. Fai un passo avanti mostrati astuto: nella famiglia di John Wilkes troverai JC 115. Un piccolo indizio: questa famiglia ha portato sulla schiena le viscere della terra! Essa vive sopra il Delaware... Sii degno, e a presto, mio piccolo S. Bob. Accanto, trascrisse anche la preghiera dipinta con il sangue a casa di Spencer Lynch: Caliban dominus noster. In nobis vita, Quia caro in tenebris lucet. Caliban è il nostro signore, in noi è la vita, perché la carne riluce nelle tenebre. «Hai un'idea dell'origine del nome Caliban, Jack?» «No. Ieri sera ho consultato un dizionario mitologico: niente da fare. Può essere qualsiasi cosa, magari viene da un libro o da un film. Oppure è solo un nome di fantasia.» «E la firma sulla cartolina, questo Bob?» Thayer aggrottò le sopracciglia. «Secondo me si firma Bob per restare anonimo, un nome comune che con ogni probabilità non è il suo.» «Va bene, per il momento lasciamo perdere il nome. Vediamo la cartolina, da dove viene, di che epoca è.» Thayer prese il reperto e se lo portò all'altezza degli occhi. Viste attraverso la plastica, le sue rughe sembravano abissi di fatica. «La cartolina è recente, ma la foto risale agli inizi del ventesimo secolo, direi. Sul retro c'è il nome del fabbricante, basterà contattarlo. E di questa sciarada, che mi dici?» Annabel prese a mordicchiare la sua Bic mentre rileggeva quelle oscure frasi. «Chiaramente Spencer è appena entrato nella famiglia. Questo Bob gli parla come a una recluta, un novellino, quasi un ragazzino. Suppongo che ordinargli di diventare invisibile sia un modo per dirgli di essere più discreto.» Subito ripensò alle parole di Brolin, la sera prima. L'investigatore credeva che Spencer conoscesse la sua prima vittima. Così Bob chiede a Spencer di essere più prudente, gli dà un consiglio:

«Fai meno stronzate». Spencer ha capito, e adesso se la prende solo con sconosciute. Brolin aveva sicuramente ragione. Pensò alla chiesa dove il detective privato sarebbe dovuto andare quella mattina stessa. Non poté fare a meno di riconoscere che aveva fiuto da vendere. Se c'era una pista interessante, lui sarebbe riuscito a scovarla. Poi era un ex poliziotto: non avrebbe esitato a contattare la polizia, a chiamare lei, se avesse scoperto qualcosa. Si era appena trovata un alleato prezioso, o almeno lo sperava. «Hmm. Questa storia della famiglia da scovare mi preoccupa», disse Thayer. «A cosa stai pensando?» Lui riportò lo sguardo sulla sua partner. «Bob gli ordina di varcare la soglia e gli dà una famiglia da trovare. John Wilkes e questo JC 115. Sotto questo codice si nasconde forse l'identità delle prossime vittime di questi pazzoidi.» «Grazie all'arresto di Spencer, forse possiamo disporre di un po' più di tempo. Se Bob, quale che sia la sua vera identità, dà degli indizi così concisi alla sua piccola recluta, significa che non è una cosa tanto difficile...» «Proprio qui sta il punto. Forse si tratta di un test d'intelligenza per entrare nella setta. La setta senza nome, senza volto. Sai, una cosa del tipo: 'Se sei furbo e riesci a trovare e massacrare questa famiglia, complimenti! Entri nel nostro club molto esclusivo'. Hai capito il genere?» «Coraggio, andiamo con ordine: 'Nella famiglia di John Wilkes troverai JC 115'. Abbiamo un elenco dei John Wilkes della costa est?» chiese Annabel. Thayer afferrò una cartellina. «Abbiamo già fatto una prima cernita, ed ecco il risultato: diciassette John Wilkes, di cui due nello Stato di New York.» «Jack, perché questo nome non mi è nuovo? Sono sicura di averlo sentito da qualche parte, ma non riesco proprio a ricordare...» «Adesso ci arrivo. Anch'io ho avuto la stessa impressione, infatti è l'altra possibilità: John Wilkes Booth, l'assassino di Lincoln. Forse Bob vuole che si cerchi tra gli assassini di presidenti, o tra gli assassini in generale.» «E questo JC 115, riesci a vederci un rapporto con degli assassini? Cos'altro ti fa venire in mente, a parte Gesù Cristo?» «Non lo so, non mi dice nulla di particolare. Ho fatto qualche tentativo con Internet: il primo nome rimanda sistematicamente all'assassino di Lincoln, dal secondo non si ottiene niente, salvo un sito pornografico, Jane's

Cunt 115, molto spirituale.» Annabel si picchiettò le labbra con la punta delle dita, riflettendo sulle possibili piste da seguire. Rilesse il seguito dell'enigma: «Un piccolo indizio questa famiglia ha portato sulla schiena le viscere della terrai Essa vive sopra il Delaware» Analizzò minuziosamente ogni parola, cercandone tutti i possibili sensi, ogni eventuale significato simbolico. Vecchia mia, stai dando troppo credito a Bob, sarà forse anche astuto ma non è certo un genio! Eppure intuiva che c'era in quelle parole una sottigliezza, un dettaglio che occorreva collegare con il resto. ... sopra il Delaware... Rilesse ancora la frase, e un'idea cominciò a farsi strada nella sua mente. ... questa famiglia ha portato sulla schiena le viscere della terra... Schioccò le dita più volte, mordicchiandosi l'interno delle guance, poi fissò Thayer. «Sopra il Delaware ci sono la Pennsylvania e il New Jersey, due Stati con una pesante storia di sfruttamento minerario», gli fece notare. «Ci sono dei John Wilkes in questi due Stati?» «Giusto.» Thayer consultò la sua lista. «Sì, uno nel New Jersey, altri due in Pennsylvania. Li chiamo subito, per sapere se hanno un J.C. in famiglia, un Jeremy C. o un James C.» Annabel continuava a riflettere, l'indice appoggiato sulle labbra. Thayer la guardò, perplesso. «Che c'è? Ti viene per caso in mente qualcos'altro?» «C'è qualcosa di strano, Jack. Non riesco a capire, è solo che... Ho l'impressione che non quadri con il personaggio di Bob. Un'intuizione, chiamala come ti pare.» Tre colpi secchi contro la porta li interruppero. Entrò un uomo sulla trentina, capelli a spazzola, effluvi di dopobarba e un elegante completo Armani. «Spiacente di interrompervi. Sono Brett Cahill, dell'investigativa della centrale della zona nord.» «Venga, dunque è lei quello che avremo tra i piedi?» lo canzonò bonariamente Thayer. «E io che mi aspettavo un veterano!» Spostò lo sguardo da Brett Cahill ad Annabel, con un certo disappunto. «Si direbbe che la gioventù sia in maggioranza. Mi sento come Priamo, perduto in mezzo a tutti i suoi figli!» «Non gli faccia caso, ispettore Cahill, e si accomodi.»

Cahill aveva in mano una sacca di pelle e un cappotto che appese all'attaccapanni. Era un bell'uomo con i lineamenti fini, il volto ovale, la pelle rosata. Farà strage di donne, pensò Annabel divertita. Subito dopo notò la fede all'anulare sinistro. «Il capitano Woodbine ci ha fatto un resoconto della situazione e ci ha chiesto di aiutarvi», annunciò il nuovo venuto. «A partire da questo momento vi starò appiccicato come un francobollo.» Emanava una sorprendente sicurezza di sé, ma senza alcuna presunzione, cosa che Thayer non avrebbe tollerato. Doveva avere un buon diploma, ottimi voti al concorso per entrare in polizia, e probabilmente anche un talento non da poco, per essere arrivato così giovane alla centrale di Wilson Avenue. Quando si avvicinò tendendo la mano, Thayer scoprì dapprima una stretta energica, poi una camicia tesa su dei pettorali decisamente sviluppati. E in più segue la lezione degli antichi: mente sana in un corpo sano. La testa e il fisico. I giovani non rispettavano più niente, e spesso tendevano a strafare. «Allora, da dove si comincia?» chiese Cahill con entusiasmo. Thayer gli porse la cartolina. Sapeva che il giovane ispettore avrebbe pian piano tentato di assumere il controllo delle operazioni. Probabilmente lo avrebbe fatto senza colpi bassi, ma era nella logica delle sue funzioni. E Thayer da questo orecchio non ci sentiva proprio. «Lei comincerà con lo scoprire tutto su questa cartolina: origine, data di stampa, punti in cui viene venduta eccetera.» Se Cahill rimase sorpreso da questo tono autoritario, non lo lasciò vedere. Annabel nascose un sorriso con la mano. Thayer recuperò il cellulare e si rivolse alla sua partner. «Quanto a noi due, vediamo se riusciamo a trovare questo JC 115.» 15 Il vento ricacciava indietro le lunghe ciocche castane che di solito coprivano per metà il volto di Brolin. Con i suoi tratti dolci, il mento deciso e gli zigomi pronunciati avrebbe potuto essere molto seducente, se non avesse avuto un aspetto tanto distaccato. Nel freddo mattutino della via, sembrava un fantasma. Si infilò in Flatbush Avenue, e il respiro gelido che soffiava dall'oceano si fece ancora più potente. L'arteria principale era larga come un fiume e

dritta come una pista d'atterraggio. Nei pressi del Manhattan Bridge il traffico si stava facendo intenso. Brolin aveva lasciato l'hotel qualche minuto prima, dopo aver deciso che una passeggiata a piedi fino alla chiesa di St Edwards lo avrebbe risvegliato. Lungo il cammino prese il cellulare e compose il numero privato di Larry Salhindro, un poliziotto di Portland suo amico da parecchi anni. La differenza di fuso buttò Salhindro giù dal letto. «Grazie per la scelta dell'orario», brontolò quest'ultimo con voce rauca. «Come vanno le cose nella Grande Mela?» «Vanno. Larry, ho bisogno di un favore.» «Sentiamo.» Anche se i loro rapporti si erano allentati, Larry Salhindro continuava a fornire informazioni a Brolin con la massima sollecitudine. Le lacerazioni del passato hanno talvolta il vantaggio di dispensare coloro che hanno sofferto insieme da parole e gesti superflui e di mantenere sempre vicini i loro cuori, anche dopo una lunga lontananza. «Mi servirebbe la lista di tutti i detenuti con cui è stato in prigione Spencer Lynch, tutti i suoi 'compagni di stanza'.» «Aspetta. Prendo nota. Come hai detto che si chiama?» «Spencer Lynch, nato a Rochester, Stato di New York. Era in carcere a Riker's Island.» Larry Salhindro sospirò nel ricevitore. «È sulla costa est, sarà una rottura di coglioni avere 'sta roba.» «Lo so, Larry. Grazie.» «Seee, ti mando un fax appena posso.» Brolin gli diede il numero di fax del suo hotel. Salhindro riprese: «E tu, come stai?» «Bene. La città non è male, meglio di come me la ricordavo.» «Questo non mi stupisce.» Dentro di sé, Salhindro pensava che un uomo come Brolin, ormai sospeso tra due mondi, doveva per forza trovarsi bene in un posto come quello, ma non disse nulla. Di colpo provò un grande dispiacere per il suo amico. E se il buon giorno si vede dal mattino, non c'erano dubbi che sarebbe stata una giornata di merda. «Devo scappare. Ti chiamo più tardi, Larry. Grazie ancora.» Brolin chiuse la comunicazione e si domandò perché gli era venuta voglia di parlare di Annabel a Salhindro. Perché lei rivolge alla vita il tuo stesso sguardo, perché ti somiglia! Ti

piace, confessalo! Doveva ammettere che era vero. Se avesse mai deciso di vivere da quelle parti, avrebbe apprezzato la sua compagnia, le discussioni con lei. Sarebbero potuti diventare buoni amici, ne era sicuro. Il vento lo aiutò a scacciare questi pensieri, e riprese il cammino. Finalmente girò a destra e camminò sotto il ponte della Brooklyn-Queens Express che sovrastava Park Avenue, immergendola nell'oscurità per un buon chilometro. Camminò sul marciapiede dissestato, dominato dal fragore del traffico proprio sopra la sua testa. Quando imboccò la St Edwards scoprì tutta una serie di edifici marroni, un po' vetusti, con i muri dei piani inferiori completamente coperti da graffiti, come un immenso memoriale, a meno che non si trattasse di avvertimenti. Pur avendo lasciato la pistola nella cassaforte dell'hotel, Brolin non si sentiva in pericolo; era giorno, e comunque non era a Cabrini Green. Costeggiò quel patchwork di identità diverse, notando qualche vecchio che si aggirava nelle vie del quartiere. Un po' più lontano, davanti a lui, due ragazzi ascoltavano musica chiusi dentro una vecchia Pontiac parcheggiata. Lo osservavano, e nonostante portassero gli occhiali da sole, Brolin sapeva che lo stavano sorvegliando. Probabilmente fanno la guardia, se pensano che sono uno sbirro daranno il segnale e lo spacciatore della zona se la squaglierà al volo, dovunque sia, pensò. Ma se mi prendono per un ficcanaso, le cose potrebbero complicarsi. Più ci si addentrava, più gli sembrava che quel quartiere non fosse proprio il posto giusto per una passeggiata idilliaca. Il freddo incombeva sul paesaggio paralizzando tutto: l'aria si era fatta immobile e le pochissime persone che si vedevano in giro mostravano una totale apatia. Il fragore della Brooklyn-Queens Express arrivava fino a lì, sovrastato di tanto in tanto dalle ondate dei bassi potenti che fuoriuscivano dalla Pontiac. Quanto a discrezione, le due sentinelle lasciavano a desiderare. La chiesa di St Edwards con i suoi due campanili che si stagliavano contro il cielo pallido gli apparve all'angolo di un'aiuola rinsecchita dov'erano piantati degli aceri. Pareva minuscola in mezzo agli edifici scuri, malgrado le torrette e la navata rialzata da una torre ottagonale, con guglie che spuntavano da ogni possibile angolo. Brolin si avvicinò e notò una statua di marmo bianca di Maria davanti all'atrio, con la porta nera alle sue spalle, come la bocca di un mostro ancestrale.

La massa accovacciata del presbiterio, dotato di inferriate alle finestre, fiancheggiava la chiesa. Il detective optò per un primo approccio morbido. Si immerse nell'atmosfera impregnata di calma e di umidità di quel luogo. Non ci si vedeva molto bene, si stupì: le candele non compensavano la mancanza di luce solare, e le vetrate dai colori opachi non lasciavano filtrare che pallidi raggi blu, rossi o verdi. Non c'era in giro anima viva. L'odore di chiuso misto a quello della cera formava uno strano aroma, simile a quello di una vecchia cantina per il vino. Brolin girò intorno a un'impalcatura appoggiata contro un muro e arrivò ai piedi dei gradini che portavano al coro. Neanche lì c'era l'ombra di un prete. Arrivò in fondo alla chiesa e trovò una porta dietro una tenda, con la scritta ACCESSO RISERVATO. «C'è qualcuno?» chiese a bassa voce, prima di rifare la domanda un po' più forte. In mancanza di risposta, aprì la porta e seguì il corridoio buio che conduceva al presbiterio. Chiese di nuovo ad alta voce se c'era qualcuno, sempre senza risultato. Giunto all'angolo di una stanza, un volto apparve all'improvviso di fronte a lui. Brolin sussultò, l'altro gridò per la paura. Era un uomo grassoccio, con i capelli dritti in testa e la pelle della faccia deturpata da un eczema. A occhio e croce era sulla quarantina. «Che cosa ci fa qui?» domandò, un accenno di paura nella voce. «Buon giorno, sono un investigatore privato.» Brolin gli mostrò la sua tessera. «Mi dispiace, ero in chiesa e non ho visto nessuno, quindi... Vorrei parlare con padre Dewey, se è possibile.» L'ometto lo squadrò dalla testa ai piedi prima di chiedere in tono diffidente: «A che proposito?» «A proposito della scomparsa di una ragazza.» Brolin accennò un sorriso amichevole e proseguì garbatamente ma con fermezza. «È molto importante. Forse padre Dewey può aiutarmi a ritrovarla. È in pericolo.» Parlava lentamente, lasciando al suo interlocutore il tempo di assimilare ogni parola. A un tratto il prete assunse un'aria imbarazzata. «Il fatto è che... padre Dewey non si trova più qui, signore. È partito per Philadelphia un mese fa.» L'inizio non era promettente. Brolin ficcò le mani in tasca, con la voglia improvvisa di una sigaretta. «Lei è qui da molto tempo?»

Il volto rubicondo annuì orgogliosamente. «Tre anni. Sono padre Franklin-Lewitt.» «In tal caso, forse potrebbe essermi d'aiuto. Ma tutto ciò deve rimanere tra noi, si tratta di una questione confidenziale. Posso fare affidamento su di lei?» L'altro esibì un'espressione indignata. «Il mio ruolo esige il segreto, figliolo», replicò il prete indicando tutto ciò che li circondava come garanzia della sua fedeltà all'impegno. «Bene. Conosceva Meredith Powner?» «Oh, sì, è la giovane che è scomparsa l'anno scorso. Veniva spesso in chiesa: era molto devota! Si tratta di lei?» «In qualche modo. Suppongo che la polizia gliel'abbia già chiesto, ma ricorda di averla vista qui intorno con un uomo, a parlare?» «No. Il fatto è, vede, che lei parlava con tutti.» Brolin annuì, non si aspettava niente di meglio. Estrasse la foto di Spencer Lynch che gli aveva dato Annabel e la mostrò a padre FranklinLewitt. «E quest'uomo? L'ha mai visto qui?» Il sacerdote prese la foto e la guardò più da vicino. «Be'... Sì, credo di sì. Insomma, non è facile, visto che...» Indicò il proprio volto, imbarazzato. «Gli uomini di colore faccio un po' fatica a riconoscerli, ma questo credo di sapere chi è, voglio dire, non lo conosco per nome, ma l'ho già visto. Gli stessi occhi un po' sporgenti... Viene spesso. Non parla, si siede in fondo alla chiesa, sempre dallo stesso lato.» Brolin storse il naso. Riprese la foto. «Si siede sempre in fondo?» insistette. «C'è un altro uomo vicino a lui o sta da solo?» «No, sta da solo, almeno per quanto ne so. L'ultimo o il penultimo banco sulla sinistra, non sono sicuro. Senta, lei è un detective privato, vero?» «Esatto.» Il prete parve esitare, passandosi la lingua sulle labbra come se cercasse le parole giuste. «C'è qualcosa che non va?» chiese Brolin. Un sospiro rassegnato, poi l'uomo di chiesa finì per scuotere il capo. «No, no. Mi stavo solo chiedendo perché un investigatore privato e non la polizia, ecco tutto.» Brolin studiò l'atteggiamento nervoso del prete, non proprio convinto. «Lavoro per una famiglia.»

Padre Franklin-Lewitt si mostrò interessato, benché fosse evidente che aveva la testa da tutt'altra parte. Quindi riaccompagnò Brolin verso la chiesa, lungo lo stretto corridoio. C'erano due donne che pregavano in silenzio nella prima fila di banchi. L'investigatore ringraziò calorosamente il sacerdote, che ne parve infastidito. Poi gli lasciò il numero del suo cellulare, nel caso gli venisse in mente qualcosa di utile, e si congedò. Il prete si diede da fare a mettere un po' d'ordine sull'altare mentre Brolin si dirigeva verso il fondo, verso gli ultimi banchi. Sul lato sinistro, vicino alle impalcature, il detective si chinò ed esaminò con cura il pavimento. Trovava strano che Spencer venisse ogni volta a sedersi nello stesso posto: se non incontrava nessuno, allora andava a prendere qualcosa. Calma, piano con gli entusiasmi! Magari è solo un'abitudine; gli piace restare indietro, nell'ombra. Forse viene solo per meditare o per pregare... Sì, ma in tal caso perché sempre nello stesso banco e dallo stesso lato? Un'intuizione lo tormentava. Non poteva essere solo un caso. Non avendo trovato nulla in quel punto, passò alla fila seguente, inginocchiato sulla pietra fredda. Le sue dita passavano in rassegna il suolo, raccogliendo lanicci di polvere. Non si vede un accidente, qui! Che cosa conti di trovare, Sherlock? Un indizio fosforescente? Trasse di tasca una piccola torcia ed esplorò davanti a sé, centimetro dopo centimetro. Quando una delle due fedeli, diretta all'uscita, arrivò alla sua altezza, lo fissò con un misto di rabbia e di timore, poi si affrettò ad andarsene senza perdere tempo. Brolin si chinò ancora un po' per controllare sotto il banco. Esaminò tutto, senza fretta. Niente. Allora tornò alla fila in fondo, al banco che aveva esaminato per primo, un po' di corsa e senza luce, e ricominciò. Si mise praticamente disteso a terra, per vedere al di sotto. Qualcosa attirò la sua attenzione. A un metro da lui pendeva un pezzo di scotch. Brolin si avvicinò strisciando sulla schiena e scoprì due brandelli di nastro adesivo e le tracce di altri pezzi staccali in precedenza. Alcuni segni dovevano essere piuttosto vecchi, ma altri sembravano relativamente recenti. Il detective esultò. Ti tengo per le palle, Spence. È così che comunichi con gli altri del tuo clan, vero? Appiccicate i vostri messaggini qui sotto. In questo modo la vostra confraternita si scambia idee e ordini, nessuno si accorge di niente

e chi s'è visto s'è visto. Prese l'astuccio di cuoio che portava sempre nel cappotto e ne tolse un sacchetto di plastica per reperti e una pinzetta, con la quale prelevò il nastro adesivo. Si rialzò, trionfante, con quel senso di vertigine che provava ogni volta che faceva progressi in un'indagine, ogni volta che scopriva qualcosa. Dietro l'altare, padre Franklin-Lewitt lo stava osservando in piedi tra due candelabri, immerso nel fumo dell'incenso appena acceso, con l'aria sempre più preoccupata. 16 Fino al primo pomeriggio Jack Thayer, Brett Cahill e Annabel O'Donnel analizzarono insieme tutte le piste possibili relative all'enigma della cartolina. Thayer era riuscito a raggiungere solo uno dei tre John Wilkes che gli interessavano: abitava a Philadelphia e non aveva nessun parente né conoscente con le iniziali J.C. L'uomo aveva promesso di pensarci ancora un po' su, ma dal suo tono era evidente che non intendeva perdere altro tempo per fare un favore alla polizia. Brett Cahill, il nuovo arrivato, aveva uno stile tutto suo: gentilissimo finché riceveva collaborazione, cambiava bruscamente modi non appena uno dei suoi interlocutori si mostrava un po' reticente, fingendo a quel punto un attacco di collera. In mattinata aveva chiamato la società editrice della cartolina. Di fronte all'evidente pigrizia dell'impiegata che gli aveva risposto, aveva incominciato a punzecchiarla per la sua lentezza, poi per l'accento asiatico che rendeva difficile capire cosa diceva; pur senza essere scorretto, voleva mostrarsi minaccioso. Dopo essere riuscito a ottenere ciò che voleva, l'aveva richiamata due volte una in fila all'altra con dei pretesti - «solo per stuzzicarla», aveva detto - in modo che in futuro fosse più pronta a cooperare. Sotto la sua apparenza sorridente, si nascondeva un uomo incisivo e determinato che Thayer e Annabel stavano imparando a conoscere. Woodbine, reso sempre più nervoso dall'ampiezza che stava assumendo l'indagine, li convocò nel «sarcofago» verso le tredici. Si misero a sedere con i loro sandwich comprati al volo da Tanner's e cominciarono a fare il punto della situazione con il capitano. Gli esposero le deduzioni riguardo l'enigma, gli Stati minerari sopra il Delaware, i tre John Wilkes che ci vivevano e i tentativi fatti per contattarli. Annabel aveva raccolto informa-

zioni su questi tre uomini: indirizzo, professione, fedina penale. «Non riuscendo a raggiungere due delle tre persone che ci interessano, mi sono rivolto alla polizia locale», proseguì Thayer. «Sono andati sul posto. Il secondo John Wilkes della Pennsylvania in questo momento è in vacanza in Canada; nel giro di ventiquattr'ore dovrei riuscire a ottenere un numero di telefono dove raggiungerlo. L'ultimo, quello del New Jersey, si trova a casa sua, ma non risponde al telefono semplicemente perché ha un brutto carattere, stando allo sceriffo di Clinton. Il tipo è stato avvertito che riceverà una nostra visita, e visto che è necessario un viaggetto andrò a trovarlo», concluse, lasciando la parola a Brett Cahill. «Per quel che riguarda la cartolina trovata da Spencer Lynch, la foto rappresenta la città di Boonton nel New Jersey; risale al periodo tra il 1890 e il 1900 e raffigura la piccola cittadina e il canale che la attraversa. Questo tipo di cartolina probabilmente è stato in circolazione in tutto il New Jersey, tuttavia è improbabile che sia ancora in vendita al di fuori di Boonton. Lo stesso fabbricante dice che non ne vende praticamente più, e ha smesso di stamparla. Quindi dovremo fare una visiona in loco.» «Bel lavoro», si complimentò il capitano. «Se ho capito bene, Attwel, Collins e i due detective della centrale si stanno dedicando tutti a tempo pieno all'identificazione delle vittime e raccolgono dati, tentando di trovare eventuali legami, possibili collegamenti tra di loro, giusto?» Thayer annuì. «Una volta tanto», continuò Woodbine, «il nostro problema è che siamo sommersi dalle piste da seguire. A proposito, ecco il motivo per cui volevo vedervi.» Mostrò dei fogli con l'intestazione dell'FBI. «Abbiamo appena ricevuto i risultati di laboratorio riguardo alla polvere sulla busta.» «Che busta?» volle sapere Cahill. «Quella che conteneva la cartolina trovata in casa di Spencer.» Cahill annuì, ricordandosi dei fatti che gli erano stati esposti quel mattino. «La polvere», proseguì Woodbine con un'occhiata ai suoi appunti, «è un vero e proprio amalgama, costituito da sabbia silicea e potassio - da ceneri di vegetali, insomma - così come da particelle di piombo, nitrato di sodio, resina e ossido di ferro e di cobalto. Su questo siamo stati aiutati dall'FBI; secondo loro una buona parte di questa polvere è fatta di vetro, perciò ne hanno analizzato la densità e l'indice di rifrazione. Con l'aiuto della loro banca dati e di uno dei loro esperti hanno riunito i componenti del gruppo, per cui la sabbia, il potassio e il sodio formano il vetro, mentre i due ossidi

sono serviti a colorarlo di blu e di verde. L'insieme potrebbe far pensare a una vetrata, come quelle delle chiese.» Si chinò di nuovo sui fogli che aveva davanti. «Pare che una volta si utilizzasse il piombo per l'incastonatura delle vetrate, ma che adesso venga progressivamente sostituito con la resina. Quindi la busta si è trovata nei pressi di una finestra di cui stavano rinnovando le vetrate, e i lavori hanno prodotto della polvere che è andata a depositarvisi sopra. Ecco, questo è il dettaglio dei componenti esatti. Era un autentico ginepraio, tanto di cappello ai federali.» Appena era stata pronunciata la parola «vetrata», tutto era andato a posto nella testa di Annabel: lei aveva capito. «Ho assegnato tre pattuglie a questa ricerca», continuò «Woodbine. «Per cominciare stanno passando in rassegna tutte le chiese del nostro distretto, e ogni volta chiedono se negli ultimi mesi siano state restaurate delle vetrate. Che ne pensi, Jack?» «È inutile, capitano», si intromise Annabel. «Devo verificare, ma credo di sapere di quale chiesa si tratti.» Woodbine aggrottò le sopracciglia voltandosi verso la giovane investigatrice, che si limitò a un gesto della mano e a uno sbrigativo: «Si fidi di me, avrò la risposta in giornata». Il gigante afro-americano non esitò a lungo. «Molto bene, stiamo a vedere. Inoltre, bisogna predisporre l'interrogatorio dei compagni di detenzione di Spencer Lynch: uno è in carcere, l'altro è uscito due anni fa. Bisognerà farlo in settimana, perché voglio che si scavi anche in quella direzione. Cercate di mettere insieme tutto quello che sappiamo su questi due energumeni...» Il capitano Woodbine raddrizzò i suoi due metri e salutò i tre detective, prima di tornare a occuparsi dei compiti che gli spettavano. Brett Cahill si era alzato per guardare le sessantasette foto appese. Tutti quei corpi seminudi. «Quanto alle impronte, hanno rilevato qualcosa?» chiese. «Nulla», rispose Annabel. «Hanno trovato solo quelle di Spencer Lynch; i suoi complici sono molto prudenti.» «Forse sono solo in due, Lynch e questo Bob. Perché dovrebbero essere di più?» «Tanto per cominciare ci sono troppe persone scomparse per un solo uomo, se ne rende conto? Lynch ne aveva tre al suo attivo, restano dunque sessantaquattro persone rapite senza testimoni in meno di tre anni. Ci vuole un'organizzazione incredibile per fare una cosa del genere. Inoltre, ci

sono tre supporti diversi per le foto: uno utilizza delle Polaroid - e questo è Lynch -, il secondo se le sviluppa e stampa da solo, mentre tutte le altre sono state scattate con un apparecchio digitale. Le date si sovrappongono; non può essere lo stesso tipo che cambia in continuazione metodo. Sono almeno due diversi individui, oltre a Lynch. E poi c'è la frase di Bob sulla cartolina: 'Devi imparare a diventare come noi'.» «Comunque tutta questa storia è una follia», sbottò Cahill. «E questo Bob cos'è esattamente? Il guru di una setta,?» «Qualcosa del genere, sì», rispose Thayer. «E quella specie di preghiera in latino? Questo Caliban chi è?» insistette Cahill. Annabel allargò le braccia in segno di impotenza. «Non ne sappiamo nulla», ammise. «Si direbbe una sorta di motto. Caliban rappresenta un concetto, una divinità che si sono inventati. A meno che non si tratti del soprannome di Bob. 'Caliban è il nostro signore, in noi è la vita, perché la carne riluce nelle tenebre,'» L'incantesimo li sprofondò per un attimo nel silenzio. Cahill rivolse di nuovo la sua attenzione alle foto. «È impressionante questo muro, vero?» intervenne Thayer. L'altro non rispose. «Io lo chiamo il muro della Gehenna», continuò Thayer. «Sono tre giorni che è lì, e confesso che continua a terrorizzarmi tantissimo.» Cahill si era talmente avvicinato alle foto da toccarle quasi con il naso. «Secondo voi rapiscono queste persone con uno scopo preciso o sono solamente pazzi?» chiese. «Non capisco a cosa gli servono: niente richieste di riscatto, e abbiamo trovato solo due cadaveri. Che cosa se ne possono mai fare, cazzo?» «Questo è il dilemma», recitò Thayer con un tono da teatrante disilluso. Cahill appoggiò il dito sulla data che accompagnava il nome di una donna, sotto il suo ritratto impaurito. «Mio Dio, sono otto mesi che è scomparsa.» Il suo indice passava e ripassava sul volto, come se cercasse di rincuorarla. «Pensateci un attimo: e se tutte queste persone fossero ancora vive? Se questa donna fosse da qualche parte, prigioniera da otto mesi?» Annabel emise un sospiro stanco. Io credo di no. Spero di no, per lei. Decisero di lasciar cadere il discorso e di rimettersi al lavoro. Cahill passò gran parte del pomeriggio a consultare le schede delle vittime identificate. Leggeva le informazioni che erano state messe insieme, poi si piazzava

davanti al «muro della Gehenna» ed esaminava a lungo il volto della persona in questione. Associava il testo al viso e ritornava al tavolo, passava a un altro e così di seguito, cercando di impregnarsi della personalità di tutti quelli che era stato possibile identificare. Annabel e Thayer prepararono dei dossier il più possibile completi sui due compagni di detenzione di Spencer Lynch. Scartoffie, ricerche su banche dati, lunghi minuti trascorsi al telefono, tutto ciò che Annabel amava di meno nel suo mestiere. Tuttavia era sempre la prima a rispondere alle telefonate che arrivavano al «sarcofago», sperando di sentire la voce di Brolin. Il detective privato aveva visto giusto sulla chiesa e su Spencer Lynch. Sarebbe stato corretto con lei fino alla fine? Dentro di sé, Annabel non ne dubitava: lui era davvero diverso. Se aveva trovato qualcosa alla chiesa, l'avrebbe messa al corrente. «È strano», rifletté Cahill a voce alta. «Questo è davvero strano.» Stava davanti alle foto con un dossier in mano. «Di che stai parlando?» gli chiese la poliziotta. «Ecco, è proprio curioso. Stavo leggendo le informazioni che abbiamo raccolto su questo ragazzino, e osservando la sua foto ho notato questa piccola macchia, vedi, nella parte alta del braccio. Da vicino si vede che non è un livido, ma un tatuaggio, e sulla sua scheda non c'è traccia di questo dettaglio. Ho controllato.» «Siamo solo agli inizi, dai tempo agli altri di interrogare le famiglie; col passare dei giorni le nostre schede diventeranno più complete. Non si può venire a sapere tutto di tutti in tre giorni.» «Non è questo il problema. Ha solo dodici anni. Non è un po' presto per un tatuaggio?» Annabel stava per replicare, ma Cahill proseguì: «In effetti, la cosa mi è saltata agli occhi perché è la terza persona su cui l'ho notata. Guardate quel ragazzo: un tatuaggio nello stesso punto. Anche per lui non si fa cenno ad alcun tatuaggio da nessuna parte, e la sua scheda l'ha redatta ieri il tenente Attwel in persona dopo avere interrogato la moglie. Alla casella 'segni particolari (tatuaggi, segni distintivi sul corpo...)' non c'è nulla. Ho pensato a una dimenticanza della moglie, magari dovuta allo choc, ma mi sembra un po' improbabile. E guardate lì, quell'adolescente. Ho pensato che quella sul collo fosse una voglia, adesso non ne sono più così sicuro. Avete una lente da qualche parte?» Stavolta Thayer aveva alzato gli occhi dalla tastiera. Portò lui stesso la lente ed esaminò il collo della ragazza, una certa Genna Fitzgerald.

«È proprio un tatuaggio.» Passò a esaminare il ragazzino di dodici anni, poi l'uomo. «Merda.» «Che c'è?» chiese Annabel, preoccupata. «È lo stesso disegno tutte e tre le volte.» Si misero a esaminare le altre sessantaquattro foto alla ricerca del tatuaggio misterioso. In meno di cinque minuti ne avevano individuati altri sedici. Poi oltre una ventina. «Non riesco a crederci, sono tutti tatuati», mormorò Cahill sconvolto. Annabel prese un bloc-notes e tentò di riprodurre il simbolo che appariva costantemente. Fissò con una puntina il suo schizzo in cima al pannello di sughero. «Sto sognando, o è davvero quello che sembra?» mormorò Thayer. «Un codice a barre», stabilì Annabel. «Tutto questo è privo di senso, perché mai dovrebbero tatuare le loro vittime con dei codici a barre?» intervenne Cahill indignato. Annabel indicò le tre polaroid scattate da Spencer: «Sappiamo che Spencer Lynch faceva la stessa cosa. Lui usava ago e inchiostro nero. Non era tanto bravo, scriveva solo delle cifre; imitava i suoi maestri, forse nell'attesa di ottenere il modello del codice. Ma il senso simbolico mi pare evidente: considerano le loro vittime come semplici prodotti di consumo». Thayer prese in mano lo schizzo di Annabel. «Vado subito a faxarlo a tutti gli uffici di polizia della regione e a tutti gli Stati limitrofi, per cominciare, poi allargheremo il raggio a tutta la costa orientale. Annabel, è possibile far inserire questo disegno nel VICAP dell'FBI, al più presto?» «Penso di sì, dobbiamo contattarli.» Si diedero da fare per diffondere immediatamente il tatuaggio a tutte le forze dell'ordine, chiedendo se un simile disegno fosse già stato notato su dei cadaveri o da qualsiasi altra parte. Tutti i membri dell'unità investigativa, Attwel, Collins e i due nuovi detective, furono avvertiti. Sul finire del pomeriggio fluttuava nel «sarcofago» un alone di fatica, quando un addetto alla reception del piano terra comunicò ad Annabel che Joshua Brolin chiedeva di lei. Lei scese all'istante, lasciando il suo compagno con Cahill. «Non riesco ancora a crederci», esclamò quest'ultimo, cercando di sostenere lo sguardo supplichevole di sessantasette persone.

Thayer gli appoggiò una mano sulla spalla. «Nessuno può riuscirci.» «Dico, ci sono dei bambini, maledizione! Questi bastardi hanno preso dei bambini! Alicia Ronald, dieci anni; Philip Chapuisat, undici; Carly Marlow, otto! Questa piccolina ha solo otto anni!» Thayer strinse con tutte le sue forze la spalla del giovane poliziotto, fino a quando riuscì a farlo calmare. Non poteva dirlo, ma pensava a quei bambini con la speranza che si trovassero in un mondo migliore; per quanto ingiusto potesse essere, almeno così non avrebbero più sofferto. Era il suo modo di tenere duro. Alicia, Philip, Carly e tutti gli altri... 17 Carly Marlow aveva solo otto anni quando si era addormentata. Al suo risveglio, non aveva più età. In una notte il mondo era cambiato completamente; il bozzolo ovattato d'innocenza che conosceva si era trasformato in abominio. Questa nuova esistenza le aveva fatto perdere il gusto di vivere. Quella che ha scoperto è una vita senza speranza, senza desideri. Rinunciando ai suoi sogni, ha avuto in cambio un po' di tempo, ma a che prezzo? Qui non è mai giorno, né mai davvero notte. Con la fiammella di una candela come unico sole, la bambina ha imparato a inventarsi nuove stelle nelle gocce di umidità che scintillano sul soffitto. Su quel soffitto scuro che è il suo unico cielo. Adesso sono finite le crisi di nervi, finiti gli attacchi di angoscia che le opprimevano il petto; non riesce nemmeno più a piangere. E per una bambina della sua età, non piangere da settimane, forse da mesi - chi può dirlo? - è insopportabile. All'inizio c'era stato il terrore vero e proprio, così intenso da soffocarla, come una densa pozza viscosa che si fosse riversata su tutto il suo corpo. Carly aveva strillato come un'aquila, voleva la mamma. Quando il Mostro era arrivato, aveva urlato chiamando il padre. Era un vero mostro, non come quelli che si vedono nei film, un po' fasulli, no: lui era così reale che di più non si può. Orribile. Per nulla umano. Poi c'era stata una donna. Come a lei, le avevano preso la vita, ed era qui all'inferno. Carly non sapeva cosa aveva fatto di male per andare all'inferno, tuttavia era proprio là che si trovava, e il Mostro ne era la prova reale!

La donna le parlava da lontano, da qualche parte nell'umidità della fredda pietra. Non aveva volto, era solo una voce con un po' d'eco. Le diceva delle parole che la rincuoravano, e spesso Carly smetteva di piangere grazie a lei. Poco alla volta, la bambina aveva scoperto che le parole si trasformavano in carezze, poteva quasi sentirle sui suoi capelli; in quei momenti riusciva persino ad addormentarsi. Quando il Mostro arrivava, la donna lo insultava, gli gridava di lasciar stare Carly. E poi un giorno niente più parole di conforto. La donna era sparita. Come tutto il resto. Carly, dietro i suoi riccioli bruni, dovette affrontare il Mostro da sola. Quando non voleva mangiare, lui la costringeva a mandare giù una brodaglia disgustosa. A volte le portava una bacinella di acqua tiepida e del sapone e le ordinava di lavarsi. Lei non batteva ciglio. Il Mostro si riprendeva il tutto e se ne andava; una volta le aveva buttato l'acqua in faccia, una volta sola. Si avvicina la fine di gennaio, fuori nevica, ma Carly non ne sa nulla. Qui non ci sono né calendario, né luce del giorno, mai. All'improvviso, un fruscio nel corridoio. Carly non si alza nemmeno, è distesa sotto le tre coperte che ha ricevuto da quando fa freddo. Ormai da un bel po' non reagisce più al minimo rumore. Ce ne sono talmente tanti! La maggior parte delle volte è un po' di vento, talvolta un animale - di certo un demone, pensa lei -, molto più raramente il Mostro. Poco fa, lui le ha sorriso, per la prima volta. Le ha detto che presto tutto sarà finito. Ma dal fondo della sua stanzetta rocciosa, Carly sa bene che non è vero. Da quando è qui, ha molto riflettuto sulle parole che sua madre le aveva detto riguardo alla morte, quando il nonno era partito. Adesso Carly ha capito veramente: è morta, è all'inferno, e l'inferno non ha fine. Non si può morire una seconda volta, questo lei lo sa benissimo. 18 La neve gli ammantava le spalle e si stava sciogliendo tra i suoi capelli e sulle sopracciglia, quando Annabel lo raggiunse. Brolin se ne stava dritto in mezzo alla hall, senza che nessuno, stranamente, gli si avvicinasse. Un gruppo di giovani stava parlando con l'agente al bancone, ma nonostante fossero manifestamente agitati se ne stavano alla larga dal detective. Lui

sembrava circondato da uno strano magnetismo, come un avvertimento che gli altri d'istinto percepivano. La neve sciolta gli teneva i capelli all'indietro, salvo una ciocca che gli cadeva dalla fronte sulla guancia, come un graffio. Nessuna emozione traspariva dal suo viso forte, e Annabel lo trovò di una bellezza quasi incredibile. Quando lui la vide, nel suo sguardo si accese una scintilla, le sue labbra ebbero un leggero tremito. Lei lo interpretò come un sorriso, stava cominciando ad abituarsi al suo linguaggio piuttosto personale. «Ho qualcosa per lei», si limitò a dirle. «L'ha trovata in chiesa?» Non parve sorpreso che lei lo sapesse. Le mostrò il pezzo di nastro adesivo prelevato sotto il banco a St Edwards e le affidò il sacchetto di plastica. «Complimenti, forse non l'avremmo trovato che tra qualche giorno, il tempo di sfruttare tutte le nostre informazioni», gli disse Annabel con un sorriso di gratitudine. «Posso offrirle qualcosa da bere? Credo che abbiamo delle cose da dirci.» Attraversarono la strada ed entrarono da Tanner's; questa volta, nessun muro di silenzio né sguardi inquisitori: Annabel costituiva un salvacondotto rispettato e accettato. Ordinarono due birre analcoliche e Brolin le raccontò come aveva trovato l'indizio sotto il banco della chiesa. «Ha notato se ci sono stati di recente lavori sulle vetrate?» gli chiese lei. «C'era una piccola impalcatura proprio accanto alla nostra fila di banchi.» Questo spiegava la polvere di vetro. Annabel decise che era il momento di condividere le informazioni in suo possesso; lui stesso, venendo lì, aveva suggellato il patto di reciproca fiducia. Quindi gli comunicò che il laboratorio dell'FBI aveva analizzato le tracce e lo mise a parte delle loro conclusioni. «E un'altra cosa, Brolin.» C'era un'ombra di smarrimento negli occhi della detective, che stringeva il bicchiere tra le mani. «Adesso sono io in debito con lei.» Si aspettava che lui protestasse, almeno per la forma, invece non disse una parola. «Sto per metterla al corrente di quello che sappiamo al momento, quindi glielo ripeto: niente scherzi. Per una cosa del genere rischio il posto, chiaro?» Brolin annuì. Vecchia mia, sei proprio fuori. Credi di conoscerlo ma non sai mente di

lui; prima di ieri mattina non l'avevi mai visto! «Per cominciare, quanto alle foto che abbiamo trovato da Spencer Lynch, come forse avrà già sospettato ce ne sono di più delle otto che ha pubblicato il New York Post. Di fatto, si tratta di sessantasette foto, e di altrettante persone.» Brolin non aprì bocca, ma il suo volto si contrasse in una smorfia di sorpresa. «Ne abbiamo identificate circa la metà; risultano tutte scomparse, e di loro non si è più avuta alcuna notizia. Pensiamo che dietro a tutto questo ci sia una sorta di setta occulta, il cui leader sarebbe un certo Bob, anche se questo punto è da verificare. Inoltre, abbiamo appena scoperto che hanno tatuato le loro vittime. Motivazioni, scopi... tutto questo per il momento ci sfugge. Stasera abbiamo una riunione con l'intera squadra, che durerà probabilmente fino a notte inoltrata, ma ho forti dubbi che possa venirne fuori qualche elemento nuovo.» Bevve una lunga sorsata di birra, prima di proseguire. «C'è anche una sorta di salmo, di preghiera rituale. Era tracciata nel covo di Lynch, con del sangue umano. Dice: 'Caliban è il nostro signore, in noi è la vita, perché la carne riluce nelle tenebre'. Per essere precisi è in latino: Caliban dominus noster... eccetera.» «Questo Bob ha preso contatto con voi?» chiese Brolin fissandola. C'era nella sua espressione una tale durezza che Annabel non trovò subito le parole giuste per rispondere. «No... be', disponiamo di un testo scritto da lui, ma che non è diretto a noi.» «Se posso permettermi, fate in modo che l'inchiesta faccia capo a un nome ben preciso, che possa svolgere anche la funzione di portavoce nelle conferenze stampa, così se Bob vuole rivolgersi a voi saprà con chi parlare. Se guida un gruppo di persone e sente di avere il potere di rapire chiunque, come e quando vuole, prenderà di certo questa indagine come un oltraggio, una sfida diretta, personale. Nel suo universo, lui è Dio, nessuno può innalzarsi al suo livello. Questo potrebbe spingerlo a commettere degli errori, giocando al gatto e al topo con la polizia, per esempio, ma al tempo stesso potrebbe irritarlo e renderlo più violento.» Poi i suoi lineamenti si addolcirono, e tornarono a essere quelli di un uomo serio, malinconico. Annabel esitò prima di chiedergli: «Questo è un trucco da profiler, vero? Come può sapere chi è e che cosa pensa?» Brolin rispose con una smorfia amara che esprimeva tutta l'ironia della

situazione. «Mandando giù svariate centinaia di dossier criminali, studiando le patologie e le motivazioni si finisce per ricavare delle costanti. Certo, ogni caso è differente dagli altri, però si arriva sempre a trovare uno o due elementi già visti in precedenza. Ma tutto questo è solo aria fritta... se non si è capaci di sentire l'assassino, di capire chi è, di studiare il fascicolo di un delitto e comprendere la ragione che sta dietro ogni coltellata. Ci si sbaglia, spesso, ma si tenta, e c'è sempre qualcosa che può essere utile.» «Le faccio paura, detective O'Donnel?» aggiunse dopo una pausa. «No, buon Dio, no. Non conosco tutte le sottigliezze psicologiche di un delitto. Ho fatto la scuola di polizia; non c'è il tempo di esaminare a fondo trecento casi di serial killer. Ma quello che distingue un buon poliziotto da uno scadente non ha niente a che vedere con la formazione. È qualcosa di innato, che hai dentro da ben prima della scuola. Da parte mia ho la passione e, spero, anche il talento. Se le cose stanno cosi, io e lei ci assomigliamo. Non siamo degli incapaci in quello che facciamo perché ce l'abbiamo dentro, questa specie di tara.» Le labbra di Brolin si schiusero, rivelando i suoi denti bianchi; era divertito da quella tirata sincera. «Credo che non abbia tutti i torti.» Vuotò il suo bicchiere, si alzò e scivolò dentro il cuoio della sua vecchia giacca. «Grazie per la sua sincerità», disse, «e anche per le dritte. Rimarrò a Brooklyh ancora per un po'; le farò sapere se scopro qualcosa.» Prima di riuscire a fargli qualche altra domanda, Annabel lo vide scomparire sotto la neve della 6a Avenue, con le movenze fluide di un uccello portato dal vento. Quando Brolin rientrò al suo hotel, trovò ad attenderlo un fax proveniente da Portland, Oregon. Larry Salhindro se l'era cavata egregiamente nell'ottenere la lista dei detenuti che avevano avuto contatti in carcere con Spencer Lynch. Brolin si aspettava un elenco più lungo; in realtà soltanto due persone avevano diviso la cella con l'assassino. Probabilmente le sue condizioni psicologiche erano state giudicate instabili, o forse avevano voluto proteggerlo: l'investigatore sapeva bene cosa aspettava i violentatori una volta in prigione. Uno dei due era stato a sua volta condannato per violenza sessuale, il che confermava la seconda ipotesi. Il primo, James Hooper, era ancora dentro per ripetute molestie a bambini. Gli rimanevano da

fare due anni, il che rendeva difficile per Brolin incontrarlo. L'altro, un certo Lucas Shapiro, era stato rilasciato nel maggio del 2000, dopo un anno per furto con scasso. Ma in passato aveva scontato una pena più pesante: otto anni per aver stuprato una donna nel parcheggio di un locale notturno. Lucas Shapiro aveva trascorso i tre quarti degli anni Novanta dietro le sbarre, il che non lo aveva certo reso molto socievole. Salhindro, come sua abitudine, aveva fatto lo zelante, procurandosi informazioni complete su Shapiro tramite il suo agente di custodia per la libertà vigilata. L'ex detenuto lavorava adesso a Manhattan, al mercato delle carni, dove si riforniva di carne di manzo che rivendeva al dettaglio, e viveva con la sorella a Brooklyn. Brolin sapeva che il carcere è il posto migliore del mondo per un criminale che vuole stabilire rapporti con i suoi simili, un autentico ufficio di collocamento con un'ottima percentuale di successo. Spencer Lynch poteva aver conosciuto gli altri membri della setta durante la sua detenzione. Poteva trattarsi di un compagno di cella come Shapiro o Hooper, ma anche di un detenuto che incontrava nei corridoi, in refettorio o in cortile, e in quel caso sarebbe diventato impossibile trovare il bandolo della matassa. Shapiro era comunque una pista da non trascurare. Anche se non era lui che aveva iniziato Lynch all'omicidio, avrebbe potuto fare luce sulla personalità del giovane assassino. Brolin guardò l'orologio: erano quasi le sette di sera. Un po' tardi per una visita di cortesia. Sarebbe andato a trovarlo sul lavoro l'indomani mattina. E poi si sentiva psicologicamente stanco di tutta quell'atmosfera satura di delitti e di follia. Chiuse gli occhi. Sessantasette persone. La morte e la sofferenza aleggiavano lì intorno. Di scatto si alzò e scacciò tutti i pensieri neri. Aveva solo un desiderio: trovare un bar pieno di gente e bere fino a quando il cervello non lo avrebbe più importunato con immagini dolorose, per poi addormentarsi di botto senza pensare alla solitudine, all'esistenza, agli altri e all'immagine che rimandano di se stessi. Avrebbe viaggiato felice, immerso nel silenzio penetrante dell'alcool. 19 A pochi centimetri dalla superficie dell'East River il vento soffiava con

un furore incontenibile, turbinava e si alzava in volo, strappando via l'acqua per gettarla in faccia al cielo. Il velo di neve si era a poco apoco trasformato in un mantello soffocante, la tempesta si era gonfiata con arroganza per eruttare tutta la sua collera. Poco dopo mezzanotte, la metropoli tentacolare era scomparsa; non un solo edificio era visibile. Per nulla al riparo dietro le torri della sua chiesa, padre Franklin-Lewitt spalancò gli occhi nell'oscurità della sua camera. Il caos bussava alla sua finestra, scampanellando con il suo alito gelido moltiplicato dalle tenebre. Era una storia che il prete conosceva fin troppo bene. Si girava e rigirava nel letto, intontito dal sonno che non riusciva a riprendere. E la cosa poteva protrarsi fino alle prime luci dell'alba. Stizzito, si tirò su spingendo via le coperte; faceva un freddo terribile. A tastoni trovò in fretta le pantofole e scese in cucina. La luce del frigorifero danzava nella stanza come l'aureola dei santi. William Franklin-Lewitt bevve un bicchiere di latte in un sorso, sperando che quella passeggiatila notturna gli avrebbe permesso di riaddormentarsi. Stava per risalire quando un soffio glaciale gli sferzò i polpacci. Durò un attimo, poi cessò. Il sacerdote si chinò: la corrente d'aria proveniva da sotto la porta che conduceva alla chiesa. Pensò alla finestrella del bagno, che era sempre aperta, ma per uno spiffero simile bisognava che ci fosse un'altra sorgente. Qualcuno aveva aperto una porta, in chiesa. No! Ricomincia! Questa notte sta tornando di nuovo! Gli venne di colpo la pelle d'oca, e paura, tanta paura. Mio Dio, no! Fa' che non sia questo. Si accostò alla finestrella della scala, quella che dava sul vicolo cieco dove depositava la spazzatura. Di fronte a lui, a due metri, vedeva la sua chiesa, e soprattutto una delle finestre. E in quel momento, in piena bufera, distinse chiaramente la vetrata che si stava muovendo. Il profeta Zaccaria, che a cavallo di un asino annunciava la venuta dell'unico vero Re, ondeggiava in un nembo di neve. «Santa Maria madre di Dio», mormorò il prete facendosi il segno della croce. Addossato al muro, tra uno scalino e l'altro, la bocca spalancata, padre Franklin-Lewitt comprese che cosa stava succedendo, ma ciò non lo rassicurò affatto. La vetrata non si stava muovendo: qualcuno aveva acceso delle candele.

Si armò di coraggio, quel poco che ancora gli restava, e raggiunse la porta che dal presbiterio portava al coro. La mano sulla maniglia, sentì il sudore colargli lungo le guance come lacrime. Inspirò profondamente e spinse la porta. Arrivato alla fine del corridoio scostò con un gesto lento la tenda e penetrò in quel mondo che un tempo era stato il suo, dove si era sentito in armonia con il Signore, prima che l'orrore vi si rifugiasse. Le fiamme delle candele si riverberavano nel tabernacolo, sull'altare. Gli parve che si agitassero senza pudore, come perverse creature demoniache. Intorno a lui, qualcuno aveva acceso decine di ceri. Quando li vide, il cuore gli fece un balzo nel petto e la mascella si contrasse con uno scricchiolio d'ossa. Erano raccolti sotto la vetrata del profeta Zaccaria e sgocciolavano tutti sul pavimento. Le perle che ne sfuggivano non erano di cera. Ma di sangue. Ogni piccolo ploc risuonava in tutto l'edificio come un urlo, e padre Franklin-Lewitt alzò gli occhi verso la vetrata. Il sangue colava sul volto del profeta. 20 La città si risvegliò sotto un tappeto bianco spesso trenta centimetri. La neve continuava a cadere anche se più rada, incerta, dando al cielo un movimento percettibile, quasi rassicurante. Il sole si faceva attendere, ma dopotutto era inverno. Annabel aprì gli occhi rabbrividendo intorpidita nell'oscurità: la radiosveglia segnava le 6 e 10, mentre le dava il buon giorno con la voce ruvida di Bruce Springsteen. Cominciò a riprendersi poco alla volta; la riunione del giorno prima si era protratta fino a notte tarda. La giovane investigatrice aveva dato a Thayer il pezzetto di nastro adesivo e aveva dovuto dirgli tutto a proposito di Brolin. Il suo partner non l'aveva rimproverata, limitandosi a chiederle se era sicura di ciò che stava facendo. Thayer temeva soprattutto che attraverso il detective privato potessero arrivare alla stampa informazioni riservate. Non aveva aggiunto altro. Annabel batté le ciglia, poi si stiracchiò. A piedi nudi sul parquet freddo, attraversò il salone e mise a scaldare il caffè. Quando si sentì pronta, fece qualche esercizio di ginnastica mattutina: flessioni, addominali e trazioni alla sbarra montata sopra lo stipite della porta del bagno; alla fine si rifugiò nei vapori bollenti della doccia.

Dopo un evento tragico, gesti in precedenza considerati semplici diventano dolorosi. Piccoli dettagli, come prendere la saponetta sulla mensolina, improvvisamente si rivelano difficili. Annabel vedeva le sue dita posarsi sul quadrato rosa nella nebbiolina umida e, immediatamente, una mano più grande che copriva la sua. La pelle di Brady, fresca, aderiva alla sua schiena e lui cominciava a lavarla dolcemente. Era un giorno feriale qualunque, niente di particolare, solo un giorno banale come tanti. Era un lunedì, ricordò Annabel, e né Brady né lei lavoravano. Lui era entrato nella doccia a sorpresa e quel momento si era impresso nella sua memoria con l'aureola scintillante che incorona gli attimi belli. I fantasmi più difficili da affrontare e vincere non sono quelli che tutti credono, ma le ombre dei nostri gesti quotidiani. Annabel controllò velocemente i capelli allo specchio e si infilò in un paio di jeans sbiaditi. La giornata si preannunciava lunga. Aveva intenzione di passare all'ospedale per avere notizie di Julia Claudio e parlare un po' con lei. Quanto a Spencer Lynch, era sotto stretta sorveglianza, quindi, se fosse uscito dal coma, tutta la squadra investigativa sarebbe stata avvertita all'istante. Il viso della detective sbocciava come un fiore dal collo del suo pullover di cachemire nero, i capelli come una scura corolla. Agganciò la fondina alla cintura, dietro la schiena, e stava per mangiare un boccone quando il cellulare prese a squillare. Era Jack Thayer; la voce già rilassata e sicura di sé, sembrava perfettamente sveglio, al punto che Annabel si chiese se per caso non si fosse neppure coricato. «Sono qui, sotto casa tua», le annunciò. «Vieni giù subito.» Senza lasciarle il tempo di protestare, continuò: «Poi ti spiego, coraggio. Lo so che sei regolare come un orologio svizzero e ti alzi tutte le mattine alle sei, quindi non venirmi a dire che non sei pronta. Ti aspetto». E riappese. Quando sbatté la portiera della Ford dietro di sé, Annabel trovò un sacchetto di McDonald's sul cruscotto. «Per te», disse Jack accelerando, «succo d'arancia e dolcetto, proprio quello che ti ci vuole.» Lei scartò la bevanda a favore del dolce. «Grazie, papi», fece ironica. «Se non è chiedere troppo, potrei sapere che cosa succede?» Jack era rasato di fresco e odorava di dopobarba. Guidava concentrato

sulla strada. «Andiamo a Larchmont, nella contea di Westchester. Lo sceriffo ha chiamato questa mattina...» Lanciò una rapida occhiata all'orologio. «Venti minuti fa. Hanno trovato un cadavere stanotte, una donna. Omicidio, non ci sono dubbi. Pare sia stato un fattorino a trovarla, per puro caso, un ragazzo che vive con i genitori. Si alza molto presto la mattina; alle cinque meno un quarto è uscito per portare il cane a fare pipì nel parco. La bestiola ha cominciato a raspare nella neve e il fattorino ha visto spuntare una mano. Non dev'essere un bello spettacolo.» L'immaginazione di Annabel partì in quarta, assalita da immagini tutte l'una più orribile dell'altra. Le tornò in mente una vicenda squallida in cui era intervenuta un anno prima, una donna che viveva sola ritrovata morta con il volto letteralmente strappato via. Era stato il suo cane a divorarla, lasciando soltanto dei brandelli di pelle appesi ai due lati del cranio. Da quando era nella polizia, Annabel aveva perso il conto dei casi in cui un animale domestico aveva fatto un banchetto orgiastico sul cadavere del padrone. Soprattutto i gatti, che non aspettano che la carne si raffreddi. Ecco perché lei si era sempre rifiutata di averne uno in casa. Era, questo, uno dei piccoli segreti che molte professioni hanno e che non si raccontano tanto in giro, quelle cose della vita che la gente non è pronta ad accettare. Thayer proseguì: «Gli sbirri locali hanno fatto il loro lavoro; è arrivato il coroner e stavano per portare via il corpo quando hanno visto il tatuaggio sulla nuca. Un codice a barre come il nostro. Lo sceriffo ha ricevuto la comunicazione ieri sera, quindi se la ricordava benissimo: ha fatto subito due più due e ci ha chiamati. Ora che arriveremo lì saranno passate quasi tre ore dalla scoperta del cadavere. I giornalisti del posto saranno già isterici». Annabel rimase muta; detestava le relazioni pubbliche, soprattutto quelle con la stampa. I giornalisti si comportavano come se tutto fosse loro dovuto, succhiando ogni più piccola informazione direttamente dalle ferite delle vittime, senza riguardo per nessuno. Lei tendeva a perdere la pazienza alla svelta, per questo di solito era Jack a occuparsi di quel genere di formalità, mentre lei si dedicava al lavoro sul campo. «Quelli del posto hanno seguito le procedure?» gli chiese. «Per quanto riguarda la scena del crimine, voglio dire.» «Vuoi sapere se sono in gamba? Non ne so un accidenti di niente. Non penso che si ritrovino spesso tra le mani degli omicidi, e in ogni caso non hanno un granché di esperienza.»

«E Brett Cahill, il nostro superpoliziotto, è stato messo al corrente?» «Ci raggiungerà là. Anna, forse questo è il piccolo colpo di fortuna di cui avevamo bisogno. Voglio dire... questo cadavere tatuato: non dobbiamo trascurare nulla.» «Infatti mi sembra troppo bello per essere vero.» «Neanche poi tanto! Ci ho pensato per strada; al contrario, è nella logica delle cose. Nel giro di qualche giorno abbiamo provocato un bel casino negli affari di questa... setta o qualunque cosa sia. In poco tempo abbiamo scoperto la loro esistenza, proceduto con un arresto, messo le mani su un mucchio di foto compromettenti e altro ancora. Sono agitati, sentono che la pressione sta salendo, probabilmente tenteranno di sbarazzarsi almeno delle prove più schiaccianti... E agendo sotto l'effetto della paura faranno sicuramente degli errori, almeno per qualche tempo. Bisogna mettergli le mani addosso prima che si riprendano.» Annabel approvò senza troppa convinzione. Non poteva certo gioire per la morte di una donna, per quanti indizi potesse fornire. «Lasciamo che la polizia locale faccia il suo mestiere», concluse Thayer. «Ma abbiamo la priorità assoluta su questa indagine. Se c'è il minimo conflitto di giurisdizione me ne occupo io. Qualora occorresse, otterremo appoggi abbastanza importanti per avere carta bianca. Detto ciò, se si potesse evitare di arrivare a tanto...» Annabel sospirò e si immerse nella contemplazione del paesaggio. Il traffico era un po' congestionato a causa della nevicata; i veicoli spazzaneve avevano lavorato senza sosta fin dalla sera prima, eppure i loro lampeggiatori ancora ammiccavano dalle banchine laterali. La notte, che non voleva abbandonare il campo, manteneva tenace il suo mantello di tenebre sull'orizzonte; si stendeva sulla città e sulla gente, facendo scivolare l'oscurità sulle facce intorpidite. A guardare le persone nelle macchine, sui marciapiedi, veniva da chiedersi se valesse la pena vivere per avere quella faccia tutte le mattine per quarant'anni di vita lavorativa. Vita lavorativa... Annabel ci pensò su per qualche minuto, chiedendosi se fosse proprio necessario sprecare tante energie all'unico scopo di vivere di più. Pensò alle farmacie, ai medicinali, alle cure di bellezza, alla battaglia quotidiana per allungare la vita, per mantenere la giovinezza... Certo, si poteva rimanere belli fino a sessant'anni e oltre, si poteva vivere fino a cent'anni, ma qual era il reale prezzo da pagare? In nome di quale tacita perversione? Per chi e per che cosa? Nella solitudine il tempo diviene palpabile. E la cultura moderna ci in-

segna a temere l'una e l'altro. Annabel socchiuse il finestrino per prendere un po' d'aria e non disse più una parola fino al loro arrivo a Larchmont. Le case di Mamaroneck e Larchmont che fiancheggiavano la costa riflettevano il gusto di una ben precisa classe sociale: quelli che lavorano moltissimo e guadagnano altrettanto. Quando la Ford entrò nel quartiere residenziale dove era stato ritrovato il cadavere, Thayer non poté reprimere un fischio di ammirazione di fronte alle numerose ville grandi come tutto il suo condominio. Al termine di una via sinuosa sbucarono in un parco che costeggiava il Long Island Sound. Decine di auto e furgoncini erano parcheggiati un po' ovunque; la maggior parte recava le insegne di stazioni televisive o radiofoniche. Il parco consisteva in una fascia erbosa che si estendeva per poco meno di un chilometro, punteggiata da querce e hickory disseccati dall'inverno. In quella mattina di gennaio tutto era ricoperto da un tappeto di neve. I due detective trovarono un parcheggio e si diressero verso la folla. Mentre scavalcavano un muretto che divideva il parco dalla strada, Thayer diede una gomitata alla partner indicando col mento un pannello fissato a un albero: L'ACCESSO AL PARCO È VIETATO DAL TRAMONTO ALL'ALBA. La giovane dubitò che il divieto fosse rispettato alla lettera, ma la sera l'afflusso doveva comunque calare nettamente per ridursi a zero di notte. Annabel cominciò a guardarsi intorno, cercando di mettere a fuoco le caratteristiche generali del luogo: una collinetta al centro che nascondeva la riva, l'oscurità e i tronchi degli alberi che impedivano la vista a più di venti metri. Nessuna illuminazione, annotò mentalmente, e nessuna possibilità di introdursi con un veicolo dalla strada. Il gregge dei media rumoreggiava sulla loro sinistra, in parte mascherato da un boschetto di querce. La luce artificiale della scena emanava un alone torbido di indiscrezione. I due detective si fecero strada tra i giornalisti, cui si mescolavano i curiosi che cominciavano ad affluire man mano che la notizia si diffondeva nel quartiere. Un omicidio è comunque uno spettacolo che molti non si perderebbero per nulla al mondo. Prima di lasciarli attraversare il perimetro di sicurezza, un agente di polizia fece firmare loro un foglio di entrata e uscita, annotando generalità,

numero del distintivo e ora di arrivo. Fino a quel momento la polizia di Larchmont sembrava dar prova di affidabilità. Il rispetto delle procedure veniva meno appena oltrepassato il cordone di sicurezza. In mezzo al tappeto di neve due agenti in uniforme seduti su una panchina pubblica sorseggiavano una bevanda calda in bicchieri di carta. In tutto, Annabel contò una dozzina di uniformi e quasi altrettanti uomini in borghese. Il suolo era stato ripetutamente calpestato e ogni eventuale traccia doveva essere scomparsa da un bel po'. A rafforzare la sua collera, la poliziotta vide in lontananza un vicesceriffo che gettava il mozzicone della sigaretta in riva al mare. Da queste parti, mantenere intatta la scena del crimine era una specie di utopia. In teoria, il primo agente che arrivava sul posto doveva avvicinarsi alla vittima seguendo la traiettoria più diretta possibile e, in seguito, tutti gli altri avrebbero dovuto fare in modo di seguire il sentiero indicato senza uscirne per non contaminare la scena. In teoria. Lo sceriffo Douglas Williamson si avvicinò, tendendo loro la mano. Era un uomo magro, con il volto seminascosto da una corta barba e minuscoli occhietti ravvicinati, separati da un naso sottile. «Lieto di vedervi. Sono io che vi ho chiamati.» Fedele alle sue abitudini, Annabel saltò a piè pari le formalità per entrare subito nel vivo del discorso: «È stato lei ad arrivare per primo e a stabilire il perimetro?» Lo sceriffo sembrò gradire quest'immediatezza, doveva aver fretta di far portare via il corpo e far sgombrare il parco. «No, è stato Harry. Seguitemi.» Li condusse fino all'estremità della lingua di terra da cui si dominavano le scogliere che scendevano fino al Sound. Diverse persone si tenevano in bilico sulla cresta delle rocce davanti a piccoli proiettori montati su treppiedi. Williamson scese quattro gradini tagliati nella pietra e raggiunse il gruppo, allargando le braccia per mantenere l'equilibrio. La neve aveva reso scivolosa la superficie e tutti si muovevano con molta prudenza, talvolta con effetti ridicoli tenuto conto delle circostanze. «Harry», chiamò lo sceriffo, «ecco i nostri colleghi di New York. Vi presento Harrison Doubsky. E lui è il nostro coroner, Ed Foster.» Entrambi accennarono un saluto. Doubsky sembrava uno studente di liceo; Foster, un tipo sulla cinquantina dall'aria intelligente, aveva un aspetto più rassicurante. In lontananza, la corrente del Sound scuoteva una boa e la campanella

che vi era appesa sopra - ding-ding... ding-ding... - con un ritmo lento, funebre. Risuonava senza fine sull'immensa superficie grigia, inframmezzato da una raffica improvvisa di vento o dallo sciabordio dell'acqua tra le rocce. I due uomini si fecero da parte, e la scena apparve in tutto il suo orrore. Annabel si portò una mano alla bocca. «Mio Dio...» La mascella di Jack Thayer si irrigidì. Trovarsi di fronte ai cadaveri è una cosa, ma non si è mai vaccinati abbastanza contro la sofferenza. La donna era stesa sulla schiena, completamente nuda. La morte e la notte gelida non le avevano tolto il colorito roseo; al contrario, aree di color rosso chiaro apparivano qua e là sulla sua pelle. Ma la cosa che più colpiva era la posizione: le gambe sollevate in aria, piegate verso il torso, senza toccare il suolo, e le braccia dritte verso la luna calante, rigide e tese. Sarebbe bastato voltarla sul ventre per farla rimanere a quattro zampe o quasi, come fosse paralizzata. Era l'effetto combinato del rigor mortis e della sua posizione al momento del decesso. La natura apprezza il grottesco, cosa che il cinema e la letteratura tendono a dimenticare, rappresentando spesso la morte con delicatezza, armonia e dignità, nemici acerrimi della morte violenta. Annabel si avvicinò. Immaginò la donna mentre si batteva per sopravvivere, le braccia tese in avanti, le gambe ripiegate contro il corpo per proteggersi, tutti i muscoli irrigiditi per la paura e il dolore. Visto lo stadio del rigor mortis, si poteva supporre che fosse morta da quindici, massimo ventiquattro ore, anche se forse era lì da più tempo, e la rigidità poteva essere stata mantenuta dalla neve. La detective era arrivata ormai a meno di un metro, quando si accasciò accanto al corpo. Un attacco di nausea la scosse violentemente. Le sue dita! Sono strette contro il palmo della mano! E non hanno più le unghie! Il coroner, Ed Foster, girò intorno al cadavere e per poco non cadde, scivolando sulla neve. Riguadagnò l'equilibrio e mostrò il rapporto preliminare che aveva in mano. «Le hanno strappato le unghie», spiegò. «Probabilmente con una pinza. È un lavoro da macellaio, fatto in maniera improvvisata, con molta brutalità.» Il coroner parve esitare; guardò Annabel. Era piuttosto piccolo, con un'ampia calvizie, e portava occhiali dalla montatura molto sottile.

«Sicura di farcela con lo stomaco? Perché la cosa peggiore è quella», disse, indicando con la penna l'inguine della vittima. Lei fece un respiro profondo. Ding-ding... da qualche parte, la campanella suonava il canto delle anime. Sotto la luce spietata dei proiettori alogeni, lo sguardo di Annabel scivolò lungo la gamba fredda, fino all'alto della coscia, là dove la pelle diventava di colpo molto rossa, poi rigonfia, piena di vesciche e infine completamente nera. Calcinata. Le avevano bruciato la zona genitale, il pube era come fuso e l'ano sgocciolava ancora leggermente. Stavolta la detective si girò e vomitò sulla neve tutto quello che aveva in corpo. Harrison Doubsky le porse un fazzoletto di carta. «Ha fatto questo effetto a tutti noi», le confidò timidamente, sperando di rassicurarla. Quando si rimise in piedi, Annabel incrociò gli occhi di Thayer, fissi su di lei e colmi di apprensione. Lei inspirò a fondo e con un impercettibile battito di ciglia lo rassicurò. Andava tutto bene. Bel modo di dire! Questa donna è stata mutilata, non c'è niente che possa andare bene se devi lavorare su una cosa del genere. Si asciugò la bocca ancora una volta, più che altro per nervosismo. Non pensare all'essere umano, non adesso; concentrati sui fatti, unicamente sui fatti. Niente congetture, niente immaginazione; resta sul concreto, trova degli indizi, o almeno qualche pista, ma alla larga dalle emozioni, vecchia mia. Chiaro? Per un breve istante pensò a Brolin. I profiler facevano tutto il contrario, partivano dai fatti per mettersi nella pelle della vittima e poi dell'assassino, in totale empatia. Si domandò come poteva un uomo reggere il colpo in quel modo, e capì perché i profiler dell'FBI non resistevano a lungo prima di passare a un'altra unità. «Dov'è il ragazzo che ha trovato il corpo?» chiese Thayer. Williamson indicò le case in lontananza, oltre il parco. «A casa sua, con due dei miei uomini che hanno raccolto la deposizione e si stanno accertando che stia bene. Per lui è stato un autentico choc.» «Mi accompagni da lui; parleremo di tutto questo insieme, se per lei va bene», propose Thayer, appoggiando una mano sulla schiena dello sceriffo. Spostandosi, lanciò una rapida occhiata alla sua partner. Annabel annuì.

Come al solito, Jack si occupava dei rapporti con le persone, degli interrogatori, e lei degli indizi, del terreno; si rivolse a Doubsky, che era ancora lì con il suo pacchetto di fazzoletti di carta, visibilmente confuso. «A che ora è arrivato qui?» gli chiese. Una scintilla di fierezza apparve negli occhi del giovane agente, che si affrettò a estrarre dalla tasca un taccuino. «Ho tenuto una cronologia dettagliata di tutto», spiegò. «L'ora del mio arrivo, quella dello sceriffo, quella del coroner. Insomma tutto, ecco. Ho subito tracciato il perimetro. E ho preso un mucchio di appunti su quello che ho visto ispezionando i luoghi.» Annabel si complimentò per l'iniziativa: annotare i dettagli obbligava gli agenti a prendersi il tempo necessario, a procedere con calma invece di voler fare tutto in fretta e così guastare la scena del crimine. In molti casi, la priorità era quella di portare via il corpo al più presto. Ma, nonostante la buona volontà, Doubsky aveva fatto le cose a metà. Il perimetro stabilito era decisamente troppo limitato, e avrebbe dovuto proibire l'accesso alla zona a qualunque persona non indispensabile all'indagine. Era un problema delle piccole città, dove gli omicidi erano rari e spesso tutti i poliziotti accorrevano per dare un'occhiata, contaminando la scena del crimine. «Con che metodo ha proceduto a perlustrare la scena?» proseguì lei. «A ruota o a griglia? Il secondo è il più adatto a uno spazio così ampio.» «Ehm, ho fatto un giro dei dintorni, con la mia torcia...» Annabel immaginò tutti i poliziotti presenti calpestare il suolo, da tre ore ormai, e capì che non sarebbe servito a nulla ricominciare da capo. Impronte di passi, mozziconi e altri indizi sarebbero stati impossibili da identificare. Si voltò di nuovo verso il corpo. Stavolta si concentrò sui dettagli, sforzandosi per quanto possibile di non pensare all'insieme, all'individuo. Notò subito che era stata spazzata via la neve sotto il corpo e, peggio ancora, che era stata tracciata con il gesso la sagoma della vittima sulla roccia. «La fata del gesso», mormorò. Era così che veniva chiamata quando nessuno era in grado di dire chi l'aveva tracciata. Se ne ritrovavano spesso sulle scene del delitto: un poliziotto ben intenzionato disegnava i contorni del cadavere, come per un'irresistibile pulsione indotta dai film che aveva visto. «Chi l'ha fatta?» chiese, indicando il segno del gesso. «Io, perché?» «È un errore. Ha fatto delle foto del corpo?» «Sì, da tutte le angolazioni.»

«Con il segno del gesso sotto?» Doubsky annuì, a disagio. «Merda. In caso di processo, la difesa potrebbe sostenere che le fotografie non sono una rappresentazione esatta della scena del crimine perché la polizia ci ha piazzato dei segni di riconoscimento, e questo potrebbe rendere non ammissibili tutte le foto.» Adesso Doubsky si dondolava da un piede all'altro. «Si disegna la sagoma solo in casi estremi, quando bisogna spostare il corpo prima di esaminare la scena e non ci sono altre alternative», aggiunse. «E soprattutto le foto vanno fatte prima del gesso.» «Non lo sapevo.» Annabel non replicò. Si guardò in giro e fece cenno a Harry Doubsky di avvicinarsi. «Ha già incominciato a interrogare il vicinato?» Lui fece segno di no con la testa, non osando più aprire bocca. «Allora cominci dalla casa laggiù, quella illuminata.» «Perché proprio quella?» «È la sola che dà direttamente sul punto dove ci troviamo ora. Può darsi che qualcuno abbia visto qualcosa durante la notte. Non trascuri nulla.» Doubsky si pizzicò le labbra: sembrava molto scosso per i suoi errori. Stava per muoversi quando Annabel lo chiamò: «Harry! Le sue intenzioni erano ottime; le manca solo un po' di esperienza. Cominci col procurarsi un buon manuale della scena del crimine, e vedrà che diventerà un poliziotto coi fiocchi. D'accordo?» Harry annuì; si sentiva già un po' meglio, mentre risaliva i gradini. L'alba sorgeva lentissima al di là del Sound, mentre una bruma bianca cominciava a stendersi sopra il manto dell'oscurità. «Ha fatto bene a rassicurarlo», commentò Ed Foster. «Harry è un bravo ragazzo, ha solo bisogno di essere un po' guidato.» «Non mi piace trattare male le persone, nemmeno quando qualcuno se lo merita.» Annabel pescò nel suo bomber un elastico e si annodò le treccine a coda di cavallo, prima di studiare la posizione della vittima. «Di che cosa è morta?» «Strangolamento. Guardi.» Foster si chinò sul volto della donna. Era magra, con gli zigomi sporgenti e gli occhi infossati nelle orbite. La sua maschera facciale era deturpata da vaste ecchimosi di un viola acceso, ma non aveva avuto il tempo di

gonfiarsi, quindi voleva dire che era già morta. Il coroner infilò un paio di guanti spessi e sollevò una palpebra della vittima. L'occhio era anormalmente piatto, desquamato, la pupilla aveva assunto una forma ovale e, soprattutto, una lunga striscia rosso scuro copriva il bianco. «Ecchimosi congiuntivale, che testimonia l'asfissia», spiegò il medico. «E poi qui, vede queste piccole lesioni a forma di arco? Si tratta di stigmate ungueali: sono la traccia delle unghie del suo aggressore. Sarò più preciso dopo l'autopsia; nel frattempo, penso che lui stesse dietro di lei quando l'ha strangolata.» Intanto Annabel si era chinata sul cadavere e aveva notato tante piccole macchie disseminate sul torso. Piccole chiazze scure sotto la pelle. «Che cosa sono?» chiese, indicandone una con il dito. Foster le bloccò la mano. «Se proprio vuole toccarle, sarebbe meglio che si infilasse dei guanti. Penso siano dei sarcomi di Kaposi, o comunque ci somigliano molto.» Fissò lo sguardo in quello di Annabel. «In generale, questo tipo di sarcomi si riscontra nelle persone infettate dal virus dell'AIDS, detective. Tenuto conto delle circostanze, credo sia meglio essere prudenti.» Lasciò andare la mano della donna. «Si è fatto un'idea di come si sono svolti i fatti?» gli chiese lei. Ed Foster si strinse nelle spalle. «Non ne sono sicuro. Ho qualche dubbio. Si direbbe un delitto a sfondo sessuale, opera di uno squilibrato, ma io ho anche un'altra ipotesi... Guardi là, quelle piccole cicatrici da una parte all'altra del petto.» Annabel guardò, e in effetti c'era una sottile linea bianca che correva dall'anca fino all'ascella, su entrambi i lati; sembrava la giuntura che unisce le due metà di un giocattolo o di un uovo di cioccolato. «Si tratta della pressione della cucitura che si è impressa nella pelle dopo la morte; questa donna portava un abito molto aderente. E poi c'è questo.» Posò l'indice rivestito di latex sullo sterno e scese fino all'ombelico. La pelle era stata tagliata, un taglio molto sottile, che tuttavia lasciava apparire i bordi bianchi degli strati di tessuto sottostante. Per quanto lunga, la ferita era poco visibile, e non si scorgeva alcuna traccia di sangue. «Era già morta da qualche tempo quando gliel'hanno fatto; non ha sanguinato nemmeno un po', perché il cuore non batteva più. Penso che l'aggressore le abbia tagliato il vestito con un cutter o qualcosa del genere. Mentre lo faceva, ha tagliato anche la pelle.»

Fece schioccare la lingua contro il palato. «Ecco come vedo la cosa: lui la blocca e la violenta. Probabilmente le ha tolto i pantaloni, ma nient'altro. Poi, non so perché, forse perché vuole toccarle il seno, l'aggressore scopre le macchie sul petto. Si dice che si è imbattuto in una malata, e va fuori dai gangheri. La colpisce al volto, lei cade e lui la strangola. Quindi, in un delirio di vendetta, decide di bruciarle gli organi genitali. Poco prima di abbandonarla, taglia i vestiti che le coprono la parte superiore del corpo e viene a gettarla qui, nel buio. Ecco. Però è chiaro che senza l'autopsia tutto questo fa parte del regno delle congetture. Può darsi che tra qualche ora io le dica tutto il contrario.» Annabel annuì in segno di comprensione. In ogni caso apprezzava il tentativo; i medici legali e i coroner di solito si guardavano bene dal fornire il minimo suggerimento fino a quando non avevano in mano tutti i dati. «E il tatuaggio?» «Ah, già!» Foster cercò di sollevare il collo della vittima ma, a causa della rigidità cadaverica, dovette aiutarsi con entrambe le mani per girare interamente il corpo sul fianco. Un codice a barre era impresso alla base della nuca. Numerose croste sanguinolente lo rendevano un po' confuso. «È abbastanza strano», ammise il medico. «È molto recente, non si è ancora cicatrizzato: devono averglielo fatto al massimo qualche ora prima della morte. Ci vorrebbe un esame citologico per essere più precisi.» «Quando conta di fare l'autopsia?» «Questo pomeriggio. Le farò avere una copia del rapporto.» Si rimisero in piedi. Il cielo si stava schiarendo sempre più velocemente, di lì a poco i proiettori alogeni sarebbero diventati inutili. «Possiamo rimuoverla?» volle sapere il coroner. «Ormai è da un po' che sta lì; sarebbe bene che il giorno si levasse su qualcos'altro che non un cadavere.» Annabel si issò sulla sommità di una roccia che dominava le altre, e prese a scrutare la distesa piatta e ammaliante del Sound. La boa continuava a diffondere il suo lento ding-ding. «Chieda allo sceriffo, per me sta bene. Dovrebbe essere con il detective Thayer.» Seguì con lo sguardo il coroner che si allontanava e risaliva verso il parco, e vide la figura atletica di Brett Cahill, intento a conversare con i poliziotti locali. Anche lui era uno che non perdeva tempo. Lentamente, un orlo nero cominciò ad apparire sulla linea dell'orizzonte.

L'altra riva. Altre case, altre vite, così lontane, indistinguibili. E da qualche parte un assassino. No, non uno. Parecchi, si corresse Annabel. Un branco spietato. Il tatuaggio era identico a quelli delle foto, senza alcun dubbio. Annabel rabbrividì nel vento. Quante domande. Che cosa faceva esattamente la setta? Perché rapire tante persone? A che scopo? E perché non erano stati trovati cadaveri abbandonati in giro fino alla scoperta di questo? Tutto era accaduto in pochi giorni; forse la setta aveva deciso di cambiare metodo, di far ritrovare le vittime? Su questo aveva i suoi dubbi. No, ci doveva essere dell'altro. Ma per capirlo bisognava penetrare il mistero della setta stessa. Che cosa fanno realmente? Come inghiottita da un pesce gigante, la boa tacque improvvisamente. 21 Joshua Brolin camminava sulla Atlantic Avenue sotto i radi fiocchi di neve. Si infilò nel calore umido di una stazione della metropolitana, direzione sud-ovest, Manhattan. Della sua prima visita a New York, il ragazzo della costa ovest aveva conservato l'immagine di un'isola irta di grattacieli ultrasofisticati, un borough senza altra identità che le lastre scintillanti delle sue strutture di vetro e acciaio. Con tutta evidenza, il quartiere che divideva Chelsea dal Lower East Side era assai lontano da quell'immagine. Grande quanto una piccola città di provincia e sferzato senza tregua dai venti provenienti dall'Hudson River, questo angolo di New York era costituito essenzialmente da tozzi edifici di uno o due piani, da abitazioni malconce in cemento scuro e qua e là da grandi parcheggi dall'aria sinistra. Spingendosi più a ovest, Brolin raggiunse una zona ancora più deserta di depositi abbandonati, grigiastri, a otto o anche dieci piani, dalle finestre polverose grandi come vetrate di cattedrali, che davano all'insieme uno stile che si divertì a definire «nazi-revival». Risalendo lungo la 14a Ovest passò davanti a una serie di gallerie d'arte che stridevano in mezzo a quel tetro paesaggio industriale, e si domandò se almeno una persona ne avesse mai varcato la soglia. La neve turbinava al vento, riducendo sempre più la visibilità. I graffiti sui muri rivelavano un'intensa vita notturna, probabilmente piuttosto movimentata. Tutte le aperture erano protette da sbarre o saracinesche d'acciaio; i pochi spazi libe-

ri erano sommersi da manifesti di concerti e di manifestazioni varie, o da pubblicità erotiche. Finalmente, all'angolo con Washington Street, Brolin trovò il mercato delle carni, come un'ombra minacciosa che emergeva dal gelo. L'insieme dei fabbricati occupava un intero isolato, con qualche rara finestra ai vari piani, e per il resto cieco, chiuso al mondo da mattoni rossi anneriti dagli anni. Brolin rimase nuovamente sorpreso, questa volta dalla presenza di un negozio di abiti eleganti proprio di fronte a quella sinistra costruzione. Ma non era forse questa la quintessenza del paradosso newyorchese? Attraversò la strada e scavalcò i mucchi di ghiaccio che coprivano la carreggiata, un ghiaccio che non aveva niente a che fare con il clima e le cui striature rosa sparse qua e là lasciavano immaginare il peggio. Tutto il marciapiede era sovrastato da una strana pensilina, solcata da pulegge dalle quali pendevano uncini scorrevoli. I gabbiani si assiepavano sulla pensilina e sulle scale antincendio arrugginite. Uno di questi pseudo-gargouille lanciò un grido stridente al passaggio del detective e volò via assieme ad altri suoi simili, per andare a posarsi sul retro di un cassone per l'immondizia. Quattro uomini in grembiule bianco stavano riversando dentro fusti di plastica ricolmi tutto quello che non era utilizzabile delle carcasse degli animali. Parecchie tonnellate di rifiuti organici stavano lì all'aria aperta, con grande gioia dei volatili carnivori. Brolin mostrò la sua tessera da investigatore privato a uno dei macellai. «Buon giorno, cerco Lucas Shapiro. Mi sa dire dove posso trovarlo?» L'uomo gli lanciò un'occhiata poco amichevole; era evidente che parlare gli costava uno sforzo immenso. «È dentro», concesse. «Al taglio.» Brolin non si diede la pena di ringraziarlo e si diresse verso una delle entrate. A mo' di porta pendevano delle strisce di plastica, quasi una cascata fossilizzata. Penetrò in uno stretto corridoio con le pareti costituite da lastre di metallo e il soffitto esageratamente basso, la cui unica illuminazione consisteva in una serie di lampadine nude. Da qualche parte proveniva il ronzio di un potente impianto di ventilazione. Quel che lo assalì immediatamente fu l'odore di carne fredda. Odore di morte, di viscere e di sangue: un sentore pesante, che si depositava sugli abiti e si appiccicava alle mucose. La quotidiana sfilata delle carcasse aveva finito per lasciare dietro di sé l'inconfondibile firma rancida della carne andata a male. Sforzandosi di respirare con la bocca, Joshua raggiunse una sala dal soffitto più alto, dove decine di pezzi di carne pendevano dai ganci. Anche

qui non c'era la più piccola finestra, come se si preferisse tenere nascosto questo santuario del cibo. Vedendo l'immenso spazio, il numero di macchine per tagliare, i canaletti di scolo sul pavimento che formavano un autentico labirinto e tutti quei tavoli scuriti dal sangue, si domandò quante bestie potevano transitare lì dentro ogni giorno. Di colpo immaginò i locali del mattatoio, dove si uccidevano gli animali con una scarica elettrica o li si sgozzava, e pensò che per un po' forse gli sarebbe passata la voglia di mangiare carne, anche se l'aveva sempre apprezzata. Vide un uomo intento a spingere dentro un fusto rosso una massa di tessuti vischiosi che somigliavano a intestini, e andò a battergli sulla spalla. «Mi scusi, potrei parlare con Lucas Shapiro? Sono un detective privato.» Percepì la risposta attraverso il rombo di una sega circolare. L'altro gli indicava il fondo della sala, dove un individuo dalla corporatura imponente stava lavando alcuni strumenti metallici in un grande acquaio. Brolin lo raggiunse. Shapiro era biondo, con un principio di calvizie e un torace da giocatore di football. Il detective notò le sue scarpe: c'era attaccata una quantità di piccoli frammenti rosati, che ballonzolavano a ogni passo. Pelle, grasso, carne, di tutto. Si sforzò di guardare altrove e di concentrarsi sullo scopo della sua visita. «Lucas Shapiro?» L'altro si girò scoprendo una mascella quadrata, mal rasata, e sopracciglia cespugliose. Doveva essere sui trentacinque. Era circondato da quarti di bue che ruotavano lentamente, come in un'ultima danza macabra. «Che vuole?» Brolin mostrò la sua tessera. «Sono un investigatore privato. Può concedermi qualche minuto?» Shapiro si pulì le mani nel grembiule. «Un detective? E si può sapere che cazzo vuole da me?» Le sue labbra spesse lasciarono apparire una coppia di denti spezzati, un canino e un incisivo. «Mi occupo della scomparsa di una ragazza. Nel caso è implicato Spencer Lynch. Lo conosce, no?» Shapiro alzò gli occhi al cielo. «Senta, ho fatto le mie stronzate e ho pagato il conto; adesso sono una persona per bene, ho messo in piedi un'attività e lavoro come una bestia per farla andare avanti. Quindi non mi venga a rompere i coglioni con queste storie. Io ho chiuso con tutta questa merda, l'ho messa nel dimenticatoio.»

Shapiro era decisamente sprovvisto di fascino: aveva lineamenti grossolani e un naso, spezzato da tempo, troppo inclinato verso sinistra. «Capisco, ma vorrei soltanto farle qualche domanda su Spencer Lynch, tutto qui. Ci vorranno al massimo cinque minuti.» Shapiro strinse i denti, contraendo la faccia in una smorfia di rabbia. Aveva un carattere sanguigno, rimarcò Brolin, facile alla collera. «Ehi, mi sembra di aver parlato chiaro, no? È roba passata, l'ho buttata nel cesso e ho tirato lo scarico, capito? E adesso si levi dai piedi.» Nel vedere lo sguardo freddo di Lucas Shapiro e i suoi muscoli potenti che guizzavano sotto il grembiule, Brolin si ricordò di avere di fronte un uomo con precedenti penali che non erano proprio una bazzecola, uno che in passato aveva immobilizzato con la forza una donna e l'aveva stuprata. In quel corpo abitava una rabbia enorme, che era meglio non andare a stuzzicare. Forse quell'uomo aveva pagato il suo debito, come diceva, ma rimaneva un individuo pericoloso, se provocato. Brolin si spostò di lato, fissò Shapiro negli occhi e fece un passo indietro, come se stesse per andarsene. Parlò con calma, imprimendo a ogni parola una lentezza calcolata, per fare in modo che il concetto si facesse strada fino al cervello dell'ex detenuto: «La ragazza che sto cercando non ha neanche vent'anni, e forse sta per morire». Poche, semplici parole. Ma persino un individuo come Shapiro doveva avere dei sentimenti. Le carcasse di bue che circondavano i due uomini sembravano luccicare, le carni vermiglie e le ossa riflettevano la luce delle plafoniere. Brolin fece un altro passo indietro. Vide una luce accendersi nello sguardo dell'omaccione, che stava riflettendo a tutta velocità. Questi alla fine chinò la testa, fissando l'investigatore, e tutto sulla sua faccia diceva: okay, amico, ti aiuterò ma lo faccio solo per la ragazza, mica per te o per le tue tattiche del cazzo! «Spencer era uno stronzo.» Più chiaro di così, pensò Brolin. «Frequentava qualcuno in particolare?» chiese, avendo cura di non avvicinarsi. Se manteneva una certa distanza, Shapiro aveva abbastanza spazio per sentirsi tranquillo. «Non che io sappia. Ma l'ho conosciuto solo dietro le sbarre, e là parlava un sacco, un po' con tutti.» Pessimo inizio. Troppo generico. «Ci sarà pure stato qualcuno che vedeva più degli altri, un amico o qual-

cuno con cui si confidava, no?» Shapiro scosse il capo. «Non credo. Spencer è un tipo strano, un po' suonato.» Fece una pausa, sbuffando per esprimere tutto il suo disprezzo. «Ora che ci penso, se la intendeva mica male con Hooper.» «L'altro che era in cella con voi?» «Già. Eravamo in tre in gattabuia, e Spencer chiacchierava parecchio con Hooper, la sera, capisce cosa intendo? Si dicevano sottovoce delle stronzate e sghignazzavano come due idioti.» «Di che cosa parlavano?» «Ah, io non lo so. Comunque si divertivano un mondo. Spencer se ne fregava di tutto. Aveva qualcosa di strano negli occhi... In certi momenti, quando parlava delle cose che gli stavano a cuore, il suo sguardo diventava nero: a quel punto sapevi che non stava più facendo la commedia. Ho sentito i notiziari, e non mi meraviglia che abbia ricominciato dopo essere uscito di prigione. Se gli hacks e i giudici chiedessero un po' di più l'opinione dei carcerati, le giuro che a volte si potrebbero dire due paroline alle autorità su certi tipi loschi e magari si eviterebbero delle tragedie.» Brolin lasciò cadere l'argomento; quest'ultima osservazione suonava un po' troppo demagogica in bocca a uno come Shapiro. «E di questo Hooper, lei che ne pensa?» «Un coglione. Un pervertito di merda. D'accordo. Io non sono un santo, ma non ho mai toccato una sola bambina; questo qui invece è un rifiuto umano. Detto tra noi, se non avessi avuto dei progetti una volta fuori dalla galera, gli avrei fatto un buco in pancia, a quel rottinculo!» La collera si era scatenata in un istante, gli occhi di Lucas Shapiro si erano accesi e il suo grembiule si era gonfiato sotto la pressione dei pettorali, facendo colare al suolo qualche goccia rosata. «Pezzo di merda», concluse. Brolin ripensò a James Hooper. Era ancora in prigione, chiuso nella sua cella. Malgrado ciò, poteva mantenere dei contatti con l'esterno per posta o ancora più semplicemente per telefono; in molti istituti di pena bastava una carta di credito per avere accesso all'apparecchio nel corridoio principale. James Hooper. Però c'era qualcosa che non quadrava. In genere i pedofili sono uomini timidi, tendenzialmente solitari, e quando si ritrovano, lo fanno tra loro; ma Spencer Lynch aveva assalito solo donne e le foto ritrovate a casa sua erano in larga maggioranza di adulti. In ogni caso, la pista Hooper non era

da trascurare. Brolin riportò nuovamente la sua attenzione su Shapiro, ancora rosso in faccia per la rabbia. «Secondo lei», chiese il detective, «è possibile che Spencer fosse attratto dai bambini? Lo ha mai sentito parlare di questo con Hooper?» Shapiro ci pensò su prima di rispondere, la mano destra contratta sul bordo dell'acquaio. «No, non credo, ma io non stavo a sentire le loro tiritere, e se proprio ci tiene ad avere il mio parere, Spencer era abbastanza furbo da capire che questo genere di storie non mi piacevano. Quindi se ne avesse parlato con quell'altro mucchio di merda l'avrebbe fatto di nascosto da me.» Alle loro spalle, una sega circolare morse l'aria con un rumore stridente, prima di intaccare la carne con un suono molle di lacerazione. Brolin chiese a Shapiro qualche dettaglio di minore importanza, poi lo ringraziò e gli strinse la mano. L'uomo aveva una stretta d'acciaio e mise in mostra i denti spezzati abbozzando un sorriso: «Mi spiace per poco fa, ma è un passato pesante da portarsi dietro, e questo mi rende un po' aggressivo. E... be', buona fortuna per la piccola». Qualche istante di silenzio, imbarazzato. «Grazie», disse infine Brolin. «Spero che la ritroverà. I bambini sono sacri.» Dietro quei vestiti chiazzati di sangue, apparentemente, si nascondeva un uomo tutt'altro che insensibile. Brolin fissò lo sguardo in quello dell'ex detenuto e scattò una «istantanea mnemonica». Era il nome che aveva dato al suo metodo. Faceva parlare la persona, la ascoltava, cominciava a farsi una prima opinione sul carattere dell'interlocutore, poi aspettava che nell'altro apparisse qualcosa di sincero, uno sguardo, un'espressione, e a quel punto fissava nella memoria quell'istante. Quando ripensava alla persona, era quella l'immagine che rivedeva: una parvenza di sincerità, un frammento di identità non coperto da strati di finzione. In quell'occasione, riuscì a fissare un'immagine particolarmente netta di Shapiro. Se ne rallegrò e si affrettò a lasciare quella fabbrica di morte. Camminò una decina di minuti per raggiungere la metropolitana sulla 7a Avenue e arrivò alla Penn Station, da dove prese un autobus per Newark. Era tempo di spingersi verso l'interno e andare a trovare Megan Faulet, la sorella di Rachel, e lo sceriffo Murdoch. Noleggiare una macchina nel New Jersey ha due vantaggi: si pagano meno tasse e si evita il traffico in uscita da Manhattan. Brolin si recò all'a-

eroporto di Newark, dove c'era una quantità di società di autonoleggio, e percorse la distanza fino a Phillipsburg in meno di un'ora. Megan Faulet, venticinque anni, aveva una voglia color vino sulla fronte che le impediva di accedere al titolo di «bellezza» altrimenti rivendicabile. Era in uno stato di grande tensione, ed era seguita da uno psicologo da quando era scomparsa la sorella. Non fu in grado di dire nulla di particolare all'investigatore. La ragazza aveva trascorso poco meno di tre settimane da lei, per prendere una decisione riguardo al bambino che portava in grembo. Un intervallo di tempo terribilmente breve, per una scelta le cui conseguenze si sarebbero protratte per tutto il resto della sua esistenza. Megan le aveva fatto incontrare molti suoi amici per darle modo di parlare della questione: dal medico al professore di filosofia, tutta una serie di consiglieri che avevano offerto tante parole diverse e probabilmente tutte giuste. Nel weekend della sua scomparsa, Rachel era sul punto di fare la sua scelta. Brolin insistette per vedere il cavallo che l'aveva accompagnata nell'ultima passeggiata, ma non ne ricavò alcun indizio. La visita allo sceriffo Murdoch si rivelò altrettanto infruttuosa. Lo sceriffo era un omone di taglia impressionante, in passato buon giocatore di football americano, come confidò a Brolin, che alla soglia della quarantina aveva definitivamente ceduto ai piaceri della buona cucina, come si poteva notare dall'evidente soprappeso. Nel dire ciò si era battuto il ventre che traboccava sopra la cintura. Aveva aperto un'indagine di cui si occupava personalmente, ma non aveva trovato alcun testimone. Rachel era andata a cavallo nei boschi una domenica pomeriggio in cui si annunciava una nevicata, e ben poche persone avevano seguito il suo esempio. Erano ormai trascorsi dieci giorni. Lo sceriffo Murdoch si sentiva particolarmente toccato dal caso di Rachel Faulet perché era amico della sorella. Si era dato un gran daffare per scovare anche la minima pista, ma senza risultato. Promise a Brolin di informarlo immediatamente se fosse emerso qualcosa di nuovo e si salutarono con una virile stretta di mano. Brolin stava per scendere gli scalini fuori dall'ufficio dello sceriffo, quando il suo cellulare cominciò a squillare. Una voce tremolante uscì dall'apparecchio: «Detective Brolin... Devo parlarle, è importante». Joshua riconobbe all'istante l'uomo all'altro capo. Era padre Franklin-Lewitt.

22 Un paravento laccato tempestato di ideogrammi cinesi sovrastava due detective di Brooklyn. Sotto lo sguardo attonito di Annabel, Brett Cahill si ficcò in bocca con pochi colpi di bacchette una quantità incredibile di riso. «Non hai idea di quanto sono in grado di mangiare in un ristorante asiatico!» commentò, dopo aver deglutito. «Ci vengo dai tempi dell'università. A pranzo andavo da un amico: sua madre aveva una piccola bettola vietnamita, cazzo se era buono!» Erano ancora a Larchmont, intenti a concedersi una breve pausa in un ristorante del centro. La porta si aprì su Jack Thayer che veniva a raggiungerli. «Ho appena sentito Attwel: hanno identificato praticamente tutte le persone sulle foto, sono stati grandi. Adesso stanno esaminando i dossier che i dipartimenti di polizia coinvolti avevano raccolto all'epoca di ogni sparizione.» Thayer ordinò pollo all'ananas. Mangiarono quasi in silenzio, ricaricando le batterie in quell'oasi di esotica quiete. Cahill si alzò per andare alla toilette. Thayer si chinò verso la sua partner. «Il pezzo di nastro adesivo è stato mandato al laboratorio, e ci hanno appena dato lo conferma: quello che il tuo amico ha trovato sotto il banco è lo stesso adesivo della busta trovata da Spencer Lynch. È proprio 'attraverso' la chiesa che si tenevano in contatto. Adesso però mi devi dire qualcosa di più sul tuo mister Provvidenza. Per il momento sono disposto a coprirvi, tutti e due, ma posso sapere esattamente da dove sbuca?» «Te l'ho detto, Jack, è un investigatore privato dell'Oregon. Non l'ho mai conosciuto prima, se non per quello che mi ricordavo di aver letto sui giornali.» «Anna, tu stai rivelando a questo tizio informazioni fondamentali!» «Io ho fiducia in lui, sa quello che fa ed è in gamba. La riprova è la chiesa: senza di lui ci sarebbero voluti giorni e giorni, e chissà se l'avremmo trovata...» Gli occhi grigi di Thayer vagarono nella stanza, prima di tornare a posarsi sulla detective. Le due profonde rughe verticali che solcavano le sue guance si allargarono in una smorfia amara di scetticismo. «Senti, cara, io ti sostengo, lo sai che sto dalla tua parte. Però stavolta, se questo tipo ci combina un casino, tu e io finiamo a fare multe per divieto di

sosta fino all'età della pensione.» Annabel posò dolcemente una mano sul braccio dell'amico. «Me ne occupo io», disse, chiudendo così l'argomento. «E per la chiesa, cosa conti di fare?» «Ci andremo domani; finora non ho dovuto spiegare la provenienza di quel pezzetto di scotch...» «Per favore, non tirare in ballo Brolin. Penso preferisca restare nell'ombra...» «Naturale. Ufficialmente, sarà stata una delle tue brillanti deduzioni a permetterci di mettere le mani su...» Tacque, vedendo Cahill che ritornava. Annabel aveva ancora la bocca spalancata per protestare. «Mi sbaglio o interrompo un'importante confessione?» osservò Cahill. Thayer, da abile oratore, deviò la conversazione sugli elementi di indagine di cui disponevano fino a quel momento. In precedenza, nel corso della giornata, si erano già scambiati tutte le informa ioni in loro possesso. Non era emerso granché di nuovo; le principali speranze erano riposte nei risultati dell'autopsia attesi per la fine del pomeriggio. Il ragazzo che aveva scoperto il cadavere non aveva rivelato a Thayer nulla di più, non si ricordava di alcun veicolo e non aveva incrociato nessuno. Cahill non aveva avuto miglior fortuna con i poliziotti del posto. Li aveva interrogati quasi tutti, ma a nessuno era venuto in mente il ben che minimo dettaglio del momento in cui era arrivato sulla scena del crimine. Alla fine, tutto ciò che avevano era il cadavere di una giovane donna sulla ventina, torturata e assassinata. Era stata lasciata là di notte. Secondo Doubsky c'era un bel po' di neve sopra il corpo ma assai poca al di sotto, quindi era stata scaricata là all'inizio della serata, durante la tormenta. Inutile dire che nessuno del vicinato aveva notato qualcosa. L'assassino sapeva sfruttare gli imprevisti a proprio vantaggio. Forse pensava di sbarazzarsi del cadavere più tardi, ma vedendo arrivare la tempesta aveva cambiato i suoi piani, valutando l'opportunità che poteva offrirgli la neve. Ripresero la strada nel primo pomeriggio, sotto un cielo uniformemente bianco. La neve aveva smesso di cadere, ma aveva depositato ovunque una coltre di parecchie decine di centimetri. Quando furono di ritorno al 78° Distretto il sole era riapparso e squarci di azzurro si aprivano a poco a poco la strada tra le nubi. Mentre Thayer aggiornava il capitano Woodbine, Annabel si sedette alla

sua scrivania e si preparò un po' di caffè per riprendersi. Si sentiva tutta anchilosata per via del lungo viaggio. Mentre passava nel corridoio, Fabrizio Collins si fermò davanti alla sua porta. «Abbiamo dato un nome a cinquantuno persone, ne rimangono solo sedici!» esclamò con aria trionfale. E ce n'era motivo. Avevano identificato tutta quella gente in soli cinque giorni, il che a ben rifletterci poteva apparire inquietante. Tale rapidità era dovuta al fatto che la maggior parte delle vittime erano registrate nello schedario delle persone scomparse. La setta non sceglieva i suoi bersagli tra persone senza fissa dimora o altri emarginati che sarebbe stato facile far sparire senza farsi notare, no, loro preferivano un qualunque cittadino medio. Colpivano ovunque. Secondo i primi rapporti di polizia relativi alle sparizioni non c'era mai un testimone, mai un indizio. Era un'organizzazione terrificante. Erano in grado di impadronirsi di chiunque ritenevano adatto ai loro scopi. Via via che si faceva luce sulle loro attività, Annabel aveva la sensazione di scoprire una piramide sempre più grande: ciò che avevano scambiato in principio per un semplice altare sacrificale, stava assumendo ormai i contorni di un gigantesco tempio. Cahill si dedicò all'immane compito di scavare a fondo in tutti i dossier delle persone scomparse. Penna in pugno, annotava qualunque dettaglio potesse apparire importante, anche se per il momento erano assai pochi. Verso le cinque Ed Foster chiamò Annabel per avvisarla che le avrebbe inviato via mail tutte le conclusioni dell'autopsia. Mancavano ancora i risultati degli esami citologici e tossicologici, che sarebbero stati inviati in seguito dai laboratori incaricati delle analisi. «Può dirmi qualcosa di più rispetto a stamattina?» chiese Annabel. Al telefono la voce del coroner aveva un che di sibilante: «Prima di tutto, riguardo alla nostra vittima, per favorire l'identificazione ho misurato la circonferenza delle due braccia e il diametro articolare delle due ultime falangi dei pollici destro e sinistro, il più grande è senza dubbio il destro, quindi è destrimane, all'ottanta per cento. Possiamo aggiungere che si tratta certamente di una tossicodipendente: la sua milza era enorme, quasi settecento grammi, e c'erano tracce di punture sulle braccia, con una dermatite seborroica. Il resto lo vedrà nel mio rapporto. Altezza, peso, tutto quanto». «Ha scoperto qualcosa di più sulla cronologia degli avvenimenti?» Foster fece una pausa. «Sì», disse dopo un po', in tono cupo. «Non mi sbagliavo parlando di

una morte per strangolamento, ma diciamo che quando è stata strangolata era già sul punto di morire comunque.» Annabel non capiva dove volesse arrivare. «Mi spiego», proseguì il coroner. «Questa povera ragazza è stata torturata in modo brutale. Di fatto, credo che fosse ancora viva quando lui le ha bruciato la vagina, probabilmente con una fiamma ossidrica, niente di meno. Ho trovato il contenuto gastrico ancora intatto e soprattutto lesioni allo stomaco e ulcere duodenali per eccessiva secrezione acida da stress, che confortano la mia conclusione. Queste ulcere hanno provocato come conseguenza una emorragia gastrica molto imponente, associata a una diffusa congestione delle viscere, segno di un'agonia prolungata. In parole povere, la disgraziata ha sofferto talmente tanto da corrodersi lo stomaco, e a causa di ciò sarebbe morta comunque.» «Era viva quando le hanno fatto tutto questo? Ne è sicuro?» «Si è morsicata la lingua undici volte, fino a farla sanguinare.» Annabel si accasciò sulla poltrona. «Verso la fine l'assassino ha accelerato le cose, l'ha strangolata a mani nude, da dietro, anche se non abbiamo rilevato alcuna impronta. Il corpo era stato ripulito, a ogni modo la pelle trattiene male le impronte e per poco tempo. Ci sono molti graffi e dermoabrasioni, le dita sono scivolate via. Grazie alle lesioni della laringe, alle tracce delle unghie e alle ecchimosi 'a stampo' posso dirle due cose: primo, quello che l'ha uccisa ha pochissima forza, ci ha messo molto tempo a ottenere una completa asfissia.» «E secondo?» «L'assassino ha mani molto piccole. Mani da bambino.» Annabel rimase senza parole. Che cos'era quest'altra novità? «La vittima stava soffrendo le pene dell'inferno quando è stata strangolata. Probabile che non si sia nemmeno veramente dibattuta, il che spiega come lui l'abbia potuta uccidere pur avendo così poca forza. Da quando le ha preso la gola tra le mani, ci sono voluti non più di diciotto minuti prima che tutto fosse finito.» La morte per asfissia da strangolamento era atroce. Annabel l'aveva sempre avuta in orrore. Ne aveva studiato le tre fasi con l'aiuto di un medico legale nel corso di un'indagine, e ne aveva memorizzato alcune immagini da incubo. Non si muore in fretta, sarebbe troppo bello; ci vuole tempo, a volte anche molto. La vittima si dibatte, l'aggressore lascia la presa prima o poi, sotto l'effetto dei colpi ricevuti o perché non riesce più a far forza sulla gola con le dita indolenzite; ha dei crampi alle mani, quindi non

può fare a meno di allentare un po' la stretta. Un istante, e l'aria entra di nuovo in corpo, l'agonia è soltanto prolungata. La prima fase dello strangolamento provoca sudori intensi, vertigini, e sopravviene molto in fretta, nel giro di un minuto. La seconda arriva nei due minuti successivi, con violente convulsioni, poi le petecchie sulla cornea esplodono come un fuoco d'artificio. La terza fase è la più lunga, da cinque minuti a un quarto d'ora: si vomita, si urina, a volte si verifica l'eiaculazione o l'emissione di feci, ed ecco l'arresto respiratorio. È finita, ma il cuore batte ancora, per lunghi minuti sempre più soffocanti, senza la minima boccata di aria fresca. Il petto non si solleva più, rimane inerte sul cuore palpitante, prima che questo impazzisca e non pompi più, una volta svuotate le riserve d'aria. E a quel punto è finita davvero. Annabel fu assalita da un tremito violento, ma si sforzò di concentrarsi sulle parole del coroner. «... climatiche.» «Come? Chiedo scusa, mi è sfuggito qualcosa. Che cosa stava dicendo?» chiese la detective. «Che è impossibile per il momento stabilire con certezza l'ora della morte. Il fatto che sia rimasta sulla neve può falsare le stime. Comunque è recente, probabilmente ieri, in buona sostanza. Penso che sia stata torturata nel pomeriggio e uccisa all'inizio della serata.» Foster concluse il suo resoconto precisando che aveva allegato alla mail le foto scattate nel corso dell'autopsia, cosa che non rassicurò affatto Annabel. La detective tornò al silenzio e alla solitudine dell'ufficio, con tutti i fantasmi della sua immaginazione come unica compagnia. Mani da bambino. Era mai possibile? Come poteva l'assassino avere la meglio sulla sua vittima al momento del rapimento, se non aveva alcuna forza? Troppe cose stavano prendendo una piega anomala in questa storia. Annabel ricevette il rapporto dell'autopsia e passò l'ultima parte della giornata a spulciare a una a una ogni osservazione del coroner. Una sorda pulsazione dolorosa le appesantiva ormai la fronte quando sollevò la testa per ascoltare Thayer e Cahill che, in corridoio, discutevano dei benefici del riposo per la mente di un detective. Richiuse la cartella in cui aveva riposto i fogli stampati di fresco e si lasciò sprofondare nella poltrona. La notte era già di ritorno, con un nuovo carico di orrori. Annabel aveva l'impressione di non vivere più di giorno, come se fosse diventata un vampiro. La sua vi-

ta sembrava cominciare al calare del sole. Si tirò su e indossò il bomber, ben decisa stavolta a tornare a casa e ad abbrutirsi davanti alla TV, aspettando l'indomani, troppo stanca per qualsiasi altra cosa. Ma lo sguardo le cadde sulla cartella con la dicitura AUTOPSIA CADAVERE DI X LARCHMONT 23-01-02. 'Fanculo. È più forte di te, vero? Agguantò il dossier per sfogliarlo a casa. Di colpo ebbe un'idea che le parve migliore. No, lo aveva già letto più che attentamente, e non vi aveva trovato niente di interessante rispetto a quello che Ed Foster le aveva anticipato al telefono. Sì, la sua idea era decisamente migliore. 23 I suoi passi sulla neve scricchiolavano come se stesse calpestando lana di vetro. Si fermarono davanti all'ingresso della Cajo Mansion, sulla Atlantic Avenue. Annabel entrò nella calda hall dalle decorazioni messicane, con tanto di piante verdi e musica tipica che fluttuava sopra la reception. Pensandoci bene, quello che stava facendo non era una furbata, poteva trovarsi davanti a una porta chiusa, se lui non c'era. Per quel che ne sapeva... Le indicarono la suite numero 31. Accidenti! Addirittura una suite, il signore si tratta bene... Prese l'ascensore, quindi bussò alla porta con il numero 31. «Avanti», disse una voce soffocata, «è aperto.» Annabel obbedì e per poco non le sfuggì un'esclamazione di stupore, mentre restava immobile sulla soglia. Il salone era ampio, con un pavimento di piastrelle messicane ricoperto da tappeti felpati, ravvivato qua e là da mobili in legno laccato. Una grande vetrata correva per tutta la lunghezza della stanza, affacciata su un balcone di pietra bianca che dominava un cortile interno chiuso da una cupola di vetro. Il cortile era popolato da un'intera colonia di cactus annidati su cornicioni o infilati dentro vasi sospesi. In qualche modo, l'insieme le ricordava il suo appartamento, solo più in grande e molto più esotico. «Prego, entri e chiuda la porta», riprese la voce calma di Brolin. «A essere sincero, non mi aspettavo la sua visita.» Annabel si voltò e lo vide, seduto su un divano coperto da cuscini bianchi. Brolin era a piedi nudi; indossava pantaloni di lino nero e una camicia in tinta con i bottoni in alto slacciati. Aveva in mano un bicchiere di vino. I

capelli, freschi di doccia, erano tirati all'indietro, ma già qualche ciuffo ribelle si era messo a penzolare da entrambi i lati del viso, e arrivava quasi a sfiorargli le labbra. La parte superiore del divano, di ferro battuto, riproduceva l'intrico di una pianta di rose. La penombra che regnava nel salone, la cui sola luce proveniva da una abat-jour sul lato opposto della stanza, esaltava la purezza dei lineamenti del volto dell'investigatore. Di colpo, Annabel si sentì a disagio, per la prima volta da quando lo aveva conosciuto. Fu presa da una sensazione di imbarazzo, si chiese se avesse fatto bene ad andare fin lì, a penetrare nella sua intimità senza avvertirlo, senza lasciargli il tempo di indossare la maschera che riservava al mondo. Ma lui non ne ha! Lui è così come lo vedi adesso, ogni giorno... Fu allora che comprese che il suo disagio proveniva dall'aura che lo circondava. A causa della vicinanza, dell'atmosfera conturbante, Brolin emanava un magnetismo a cui era impossibile rimanere indifferenti. «Ha un'aria strana», le disse lui, la voce ammorbidita dal vino. Lei si sentì come se la bocca del detective fosse accanto al suo orecchio, come se lui le avesse parlato sottovoce. «Non mi disturba che sia venuta a trovarmi all'improvviso, ma gradirei che non rimanesse piantata lì in mezzo al salone a osservarmi. Mi mette a disagio.» Ancora una volta aveva parlato in tono pacato, imprimendo a ogni parola un'inflessione particolare perché Annabel ne cogliesse le singole sfumature senza lasciarsi distrarre dal resto. Lei sentì il peso della cartella tra le mani e ritornò con i piedi per terra. È solo l'effetto della penombra e del passare dal freddo al caldo, calmati. Respira e andrà tutto bene. Non è niente, è solo la vicinanza che ti turba, rilassati, respira. Ecco, così, brava. Brolin si chinò per accendere una piccola lampada appoggiata lì accanto. «Si sieda, la prego. Posso offrirle un po' di vino?» «No, grazie.» Scelse una poltrona dall'aspetto confortevole. «Sono venuta a chiedere il suo aiuto», gli disse. Lui non batté ciglio, i suoi occhi brillavano mentre esploravano la bellezza di Annabel, senza desiderio, giusto con un pizzico di curiosità. Lei appoggiò il dossier con il rapporto dell'autopsia sul tavolino basso, in vetro fumé e ferro battuto, perfettamente coordinato al divano. «Abbiamo appena trovato un altro cadavere. Il primo dopo quelli di Lynch, voglio dire.»

«Come avete fatto a collegarli?» la interruppe lui, una mano sul bicchiere e l'altra a sorreggere il mento, il gomito appoggiato sul bracciolo del divano. «Grazie al tatuaggio che aveva sulla nuca, identico a quello che appare nelle foto. È una donna sulla ventina, una drogata. Aspettiamo gli esiti degli esami tossicologici, ma è molto probabile che fosse affetta da AIDS.» Brolin prese il dossier e cominciò a studiarlo. Annabel riconobbe i gesti dello specialista: leggeva in diagonale, scrutava le foto e soprattutto sapeva quando soffermarsi su un passaggio e quando procedere più in fretta. Nel frattempo, lei continuava a elencargli tutto quel che avevano fatto al mattino assieme alla polizia di Larchmont e le informazioni che ne avevano tratto. Improvvisamente vide l'espressione dell'investigatore alterarsi ed ebbe la sensazione che un'ombra stesse scivolando sul suo volto, sulla sua pelle. Un brivido gelido la percorse mentre notava che gli occhi dell'ex profiler si erano incupiti. In un attimo percepì tutta la pesantezza del silenzio, il movimento incessante di ogni atomo, simile al crepitio elettrostatico di una radio; la calma fu spazzata via da un ronzio assordante. Gli occhi neri di Brolin si staccarono dal dossier per fissarsi su di lei. Erano levigati e scuri come una palla da biliardo. «È sicura di sentirsi bene?» Tutto scomparve in un istante, rumore, occhi neri, tutto il senso di malessere. Brolin la osservava, le sopracciglia che tradivano una certa inquietudine. Riprenditi, maledizione, che cosa ti succede? È la penombra, che assieme alla tua immaginazione si prende gioco di te! «Sì, certo, mi scusi», balbettò Annabel. «È la stanchezza.» Lui la esaminò da capo a piedi e annuì dolcemente. Le tese il suo bicchiere. «Beva questo. Vado a far scendere l'acqua nella vasca, un bagno la riscalderà e la rilasserà. Più tardi, quando si sentirà meglio, parleremo di tutta quanta la faccenda.» Lei fece di no con la testa e cercò di dire qualcosa, ma lui era già in piedi e bloccò sul nascere le sue proteste: «O così o niente. È stata lei a venirmi a cercare, quindi facciamo a modo mio. Inoltre, questo mi darà il tempo di studiare il rapporto». Si diresse verso il bagno, ma si fermò per aggiungere: «A proposito, non ho alcuna propensione per le molestie sessuali, se è questo che la preoccupa».

Annabel lo vide sparire dietro una porta da cui poco dopo arrivò lo scroscio dell'acqua che scendeva a cascata. «Sono desolato, ma dovrà rimettersi i suoi vestiti: non ho niente da prestarle», gridò lui per sovrastare il fragore. Lei non trovò la forza di rispondere e si limitò a entrare in bagno dopo che lui ne fu uscito. Le aveva lasciato un bicchiere di vino sul bordo della grande vasca. Sopra aveva appiccicato un bigliettino: Soltanto un bicchiere. Il lavoro ci aspetta. Buon bagno. 24 Quando uscì dal bagno, trovò Brolin esattamente dove lo aveva lasciato: seduto sul divano, ma senza il bicchiere di vino in mano. Al suo posto c'erano le foto a colori di un corpo aperto, le viscere esposte senza pudore, il volto celato dallo scalpo rovesciato in avanti, e parecchie pagine di rapporto. Senza una parola, lui le indicò con una mano l'ampio tavolo rotondo. Su una tovaglietta bianca era disposto un piatto di insalata mista e una fettina di petto di pollo. «Ho pensato che avrebbe gradito uno spuntino, prima della nostra seduta di meditazione.» Annabel, affamata, divorò il tutto in un baleno. Aveva ragione lui, adesso si sentiva molto meglio. Brolin non si era spostato da dov'era ma guardava verso la vetrata, verso il patio. «Forse vuole avvertire suo marito», suggerì. «Anche se non credo che ne avremo per molto, giusto un'oretta.» Annabel si alzò e gli si avvicinò. «Chi le ha parlato di mio marito?» chiese sospettosa, subito sulla difensiva. «La fede che ha al dito.» Ovvio E tu saresti una detective? Non cedere alla forza delle emozioni, rifletti! «Mi sono intromesso in qualcosa che non mi riguarda, mi scusi, volevo solo mostrarmi previd...» «No, sono io che... È un argomento... delicato, diciamo.» Il suo petto si sollevò più di quanto avrebbe voluto e sullo stesso slancio le parole uscirono da sole: «Per dirle le cose come stanno, mio marito è scomparso. Ormai è passato poco più di un anno».

L'espressione di Brolin cambiò, lasciando trasparire un po' della sua sorpresa. «Un giorno sono tornata dal lavoro e non c'era più. Non mancava nulla, non aveva preso nulla. Non c'era più, tutto qui. Nessuna lettera, nessuna richiesta di riscatto, niente. È anche per questo che ho deciso subito di aiutarla. Un investigatore che lavora soprattutto su casi di persone scomparse... mi suona bene, almeno per quanto mi riguarda.» Brolin annuì. In silenzio, i loro sguardi si incrociarono, poi lui iniziò a parlare con una voce piena di dolcezza e di comprensione: «Posso farle una domanda personale? Ha per caso pensato di assumermi?» Non era una proposta d'affari, semmai il contrario. Ad Annabel sfuggì un sorrisetto nervoso. «Ci penso ogni giorno da quando ci siamo conosciuti. Lei è in gamba. Lo so, lo vedo. E allora perché non potrebbe lavorare per me?» Lui chiuse la mano a pugno e se la portò davanti alla bocca con aria inquieta. Imbarazzata, Annabel scosse il capo e le sue treccine umide volarono nell'aria. «Lasci perdere», soggiunse, «è stato stupido da parte mia, io...» «No, non è così, e lei lo sa benissimo. Non è quello il problema. Mi piacerebbe aiutarla, ma disperdere le forze su due casi, uno dei quali oltretutto le è particolar...» «Ho detto lasci perdere», lo interruppe lei. «Stiamo uscendo dal seminato.» «Si potrebbe...» «Basta, il discorso è chiuso. Che ne pensa della vittima?» fece lei, indicando le foto sul tavolino. Brolin si passò la lingua sulle labbra. Non era più il caso di insistere sulla questione di suo marito, lei aveva appena chiuso tutti i boccaporti e teneva la barra dritta sull'indagine. Decise di abbandonare l'argomento, almeno per il momento, e di proseguire come previsto. «La cronologia è interessante», riprese dopo un lungo silenzio. «La rapisce» - adesso si sentiva a disagio nel pronunciare questa parola davanti ad Annabel, ma cercò di non farlo trasparire - «e la porta in un posto isolato. L'assassino ha bisogno di tranquillità, prima di tutto per trasferire là la sua preda senza farsi vedere da qualche vicino, poi per torturarla. Un appartamento non è adatto, c'è il rischio che si sentano i rumori di una lotta. Quindi lui ha una casa tutta sua. In seguito, il tizio decide...» «Magari è una donna», azzardò Annabel.

Un sorriso piegò appena gli angoli delle labbra del detective. «Forse. Per il momento diciamo che si tratta di un uomo. Dunque, adesso lui è qui con questa giovane tossica. Ma questo, secondo me, lui non lo sa ancora. Le toglie i pantaloni e la violenta. Dopo, scopre tutte quelle macchie sulla pelle di lei, i sarcomi di Kaposi. A quel punto va su tutte le furie, deve avere qualche conoscenza medica per riconoscere questo sintomo dell'infezione da virus dell'AIDS.» «Un medico?» Brolin alzò l'indice, chiedendo di lasciarlo continuare nel suo ragionamento. «Dunque, va su tutte le furie. Colpisce la vittima al volto a più riprese. Poi, a meno che non l'abbia fatto prima di scoprire i sarcomi, prende una fiamma ossidrica e la conficca nella vagina della ragazza: la brucia. Anche se era imbavagliata deve aver urlato come un'ossessa, il che significa che lui dispone di un locale isolato per queste cose. Forse stanco di stare a sentire le grida, o le suppliche, decide poco dopo di toglierla di mezzo. La strangola a mani nude.» «Lui ha mani da bambino, ha visto? Com'è possibile? C'è una seconda persona? È a questo che sto pensando da un po': che siano stati in due a violentarla e ucciderla.» Brolin approvò con un cenno del capo. «È anche il mio parere. Il primo è robusto, quanto basta per avere il sopravvento su una donna, l'altro è di piccola taglia, esile.» Fissò i suoi occhi in quelli dell'investigatrice. «Perché ha bruciato la vagina della vittima, secondo lei?» Era una semplice domanda, ma il tono di Brolin suggeriva che aveva già pronta la risposta, e che voleva fare appello all'intelligenza della giovane detective. «Per crudeltà, per sadismo.» «È una possibilità, ma ammetterà che il metodo è sbrigativo; se avesse voluto farla soffrire avrebbe potuto cominciare con altri metodi, per goderne più a lungo, per esempio tagliandole le mammelle, piantandole degli aghi nelle parti molli del corpo, cose di questo genere. Solo come ultima scelta avrebbe dovuto bruciarla, sapendo che dopo un simile trattamento lei non sarebbe più stata in grado di reggere a lungo. Per essere un sadico, è uno che non prolunga il piacere. Non le pare strano? Crudele lo è, certo, ma in questo caso non si è comportato da sadico. Allora, perché bruciarla?»

«Per fargliela pagare cara. L'ha stuprata e scopre che ha l'AIDS, o quanto meno lui lo crede, esattamente come noi; a quel punto impazzisce di rabbia e per vendicarsi le brucia la vagina, il luogo dal quale è passato il male, per così dire.» «Se è così furioso, è incredibile che non l'abbia ammazzata subito con le sue mani.» «Come possiamo saperlo? Forse è l'individuo con le mani piccole che si è arrabbiato...» «E se lasciamo da parte la collera, perché farle questo? Rifletta: per quale ragione doveva carbonizzarle gli organi genitali con la fiamma ossidrica?» Di colpo una luce si accese nella mente di Annabel. «Per cancellare qualunque traccia di sperma.» «Esatto. E perché?» «Perché sa che potremmo identificarlo attraverso il DNA. Lui... Oh, merda! Perché è schedato nella banca dati. È già dentro i nostri schedari, da qualche parte!» Brolin annuì, e aggiunse: «E, dal momento che si è già fatto beccare in questo modo, ha imparato la lezione. È un gaudente puro, fantastica sui suoi delitti per ore e ore, e quando passa all'azione non deturpa certo le sue fantasie mettendosi un preservativo. Lui vuole sentire la carne, sentire il potere del suo corpo sul corpo della donna che sottomette. Ma il prezzo da pagare è alto, e lui se ne ricorda. Così le conficca la fiamma ossidrica nella vagina e la brucia dentro, compreso l'utero. Se fosse trascorso abbastanza tempo, qualche spermatozoo avrebbe potuto risalire lungo le tube; stando al rapporto dell'autopsia, queste ultime non sono state completamente distrutte. Però il medico legale non vi ha trovato nulla: per l'assassino è stato un colpo di fortuna. Lui non lo sapeva, quindi non è un medico. Se ci pensiamo un attimo, dov'è che uno stupratore può aver frequentato persone colpite dall'AIDS? Dov'è che un assassino può aver visto e imparato a riconoscere cos'è un sarcoma di Kaposi?» Annabel si dondolò prima su un piede poi sull'altro, impaziente. Poi alzò la testa di botto. «In prigione! L'igiene è a livelli terrificanti e i malati spesso non ricevono trattamenti adeguati. In prigione, ecco dove.» «Quindi, cerchiamo un uomo che è stato in carcere per stupro e il cui DNA è schedato.» «Significa una quantità di gente, non vorrei sembrarle pessimista ma...»

«Ammettiamo che io le serva la sua identità su un vassoio d'argento, detective, mi lascerebbe tempo fino a domani prima di intervenire?» Annabel aggrottò le sopracciglia. «Cosa? Che significa?» «So chi è. Il tutto si fonda solo sull'elaborazione di un profilo; non sono neanche sicuro che un giudice le rilascerebbe un mandato in base alle mie deduzioni. L'arresto per causa probabile sarebbe ugualmente difficile da sostenere. Ma sia che lei vada a perquisire la sua baracca e non ci trovi nulla, sia che lo metta sotto sorveglianza in attesa che commetta un errore, se lui se ne accorge avvertirà i suoi amici e loro potrebbero sbarazzarsi di ogni prova a loro carico. Sa che cosa penso? Penso che abbiamo di fronte un'organizzazione di psicopatici che rapiscono delle persone e le tengono prigioniere per farci Dio sa cosa. Se facciamo uno sbaglio, niente di più facile che tutte le vittime che sono in questo momento in mano loro facciano una brutta fine. E forse tra loro c'è Rachel.» «Detesto dirglielo, ma non ci sono molte possibilità che sia ancora in vita, e...» «Se anche ce ne fosse una sola, io non la trascurerò. Mi ascolti: domani mattina l'uomo che sospetto sarà fuori di casa, io ci entrerò e la perquisirò con discrezione; forse non troverò quello che cerco, tuttavia vale la pena tentare. Le chiedo di fidarsi di me, chiudendo un occhio sul fatto che entrerò in quella casa. Più tardi, a mezzogiorno, riceverà una telefonata anonima che giustificherà l'intervento della polizia.» I loro sguardi si incrociarono quasi con sfida, mettendo a confronto due diverse concezioni di uno stesso mestiere. «Annabel, lei e io sappiamo che quello che conta è che questi pazzoidi vengano fermati, non importa con quali mezzi. Non facciamo del male a nessuno, si tratta di salvare delle vite!» Era la prima volta che la chiamava per nome, e a lei non piacque; era calcolato per creare un senso di maggiore vicinanza tra loro. Ma aveva forse altra scelta? Il suo stomaco era contratto per la tensione. Dentro di sé condivideva le idee di Brolin e tutto ciò che si augurava era di riuscire a mettere le mani su quella banda di pazzi criminali. «Il nome», finì per dire. «Voglio sapere chi è. In cambio le prometto che non farò nulla fino a domani a mezzogiorno.» «Si chiama Lucas Shapiro. Era nella stessa cella con Spencer Lynch, e penso che l'abbia 'reclutato' proprio là.» «Non mi dirà che ha scoperto tutto questo consultando il rapporto del-

l'autopsia, vero?» «No. Ha solo rafforzato le mie deduzioni. Prima del suo arrivo stavo già pensando a come entrare nella casa di Shapiro. In effetti, ci sono arrivato grazie al prete della chiesa di St Edwards, quella dove andava Spencer Lynch. Mi ha chiamato oggi, molto spaventato. Voleva assumermi, voleva che lo aiutassi a scoprire perché... perché le sue vetrate sanguinano.» «Le sue vetrate?» «Già. È successo sei volte. Di notte. Lui lo scopriva sempre il mattino dopo, al risveglio. Sono mesi che questa storia va avanti, ma non ha mai osato parlarne a nessuno. Ha paura. Credo sia incerto tra l'idea di un buffone malintenzionato e quella di un fenomeno demoniaco che non gli farebbe certo piacere. Io stavo per rifiutare, ma la faccenda del sangue mi è parsa tutto sommato interessante, specialmente in una chiesa frequentata da Spencer Lynch e da una delle sue vittime. Così mi sono concesso il pomeriggio per verificare se poteva esserci un legame con il nostro caso. Ho chiesto al prete una lista di tutte le persone che avevano le chiavi dell'edificio, visto che questi episodi si verificavano quando la chiesa era chiusa e non c'era alcun segno di effrazione. Una decina di nomi. Li ho letti e... bingo! C'è una Janine Shapiro che lavora alle pulizie.» «La moglie di Lucas?» «Sua sorella. Mi sono informato, ho scoperto che vive con lui e l'ho seguita. È una donna molto piccola. Con mani da bambino. Il rapporto dell'autopsia conferma ciò che pensavo, come vede.» Annabel era interdetta. Joshua Brolin era semplicemente sbalorditivo. «Ho incontrato Lucas questa mattina; mi ha indirizzato sulla pista di James Hooper, un pedofilo che è tuttora chiuso in cella. Mi ha preso per i fondelli.» Brolin aveva lungamente ripensato all'incontro, dopo aver lasciato Shapiro. L'istantanea che aveva conservato nella sua memoria rimandava all'immagine di un individuo complesso, pieno di collera trattenuta, e con un sorriso troppo affabile per essere sincero, soprattutto se confrontato con i suoi comportamenti precedenti. Shapiro aveva fiutato il pericolo e aveva preferito depistarlo verso qualcun altro. Naturalmente Brolin non aveva capito tutto quanto al volo; in principio aveva pensato che Shapiro fosse solo un tipo un po' strano. E come non esserlo, dopo aver passato in prigione otto anni per stupro e uno per furto con scasso, nel momento in cui ti trovi davanti un detective privato che viene a farti delle domande? Però poi aveva visto il nome di Janine Shapiro, e ogni pezzo era andato a posto.

La voce di Annabel, che pareva offesa, lo riscosse dai suoi pensieri: «Se sapeva già tutte queste cose, perché ha giocato agli indovinelli con me?» chiese, irritata. «Perché se avessi tirato fuori la mia proposta come un coniglio dal cappello, lei l'avrebbe presa di traverso. Sempre meglio fare le cose per gradi. Così lei ha fatto la strada tutta da sola, un passo alla volta; io mi sono limitato a offrirle il braccio.» Col cazzo! Mi hai preso per il culo, ecco cos'hai fatto! Annabel inghiottì la collera, assolutamente immotivata. Brolin aveva condiviso tutte le informazioni con lei, e lei si sentiva come sminuita, oltre che invidiosa della sua abilità. Loro erano solo un gruppo di sbirri sfigati istruiti alla bell'e meglio in accademia, lui era quello che trovava le informazioni. Lui non si batte sul tuo stesso piano, non dimenticartelo! Come se le avesse letto nel pensiero, lui le spiegò: «È grazie al suo lavoro, ai fatti che lei mi porta, che io posso fare delle estrapolazioni». «Le dirò come la penso: devo essere pazza per entrare in questo gioco, ma se lo faccio è perché non ha tradito la mia fiducia, perché è stato leale con me. Lei era un poliziotto, quindi conosce le regole della prudenza. Shapiro sarà fuori casa domani, va bene, ma cerchi di non strafare. Vada dentro, perquisisca e se non c'è niente di interessante, via di corsa. A quel punto verrà il nostro turno. A proposito, che cosa spera di trovare?» «A questo genere di assassini piace costruirsi un rifugio segreto, dove spesso rinchiudono le loro vittime.» Si voltò a guardare il patio. «Per essere sincero, spero di trovarci qualcuno. Vivo.» 25 I demoni custodivano il santuario. Erano sempre lì, vicinissimi, rannicchiati contro i muri dei corridoi. Perché l'inferno è grande, molto grande, e popolato non solo dalle grida, ma anche dai demoni. Rachel l'aveva appena scoperto a sue spese. L'individuo con i denti grigiastri e gli occhi brillanti era venuto a cercarla. Aveva spalancato completamente la porta. «Vieni, dai, sbrigati», le aveva detto, come se parlasse a un cane. Rachel non aveva protestato. Non ne aveva più il coraggio. Si era limitata a seguirlo...

Il corridoio era come la sua cella, scavato nella roccia, sotto, molto sotto la superficie della terra. Con la candela che teneva in una mano, l'uomo accese una torcia fissata a una parete. Le fiamme si alzarono e Rachel scoprì che la torcia era un osso. Un osso lungo, di origine incerta. Sai benissimo che è umano! si era detta rabbiosamente. Lui l'aveva spinta avanti lungo il corridoio; di tanto in tanto c'era un gradino da scendere. All'incirca ogni cinque metri si fermava per accendere una nuova torcia, della stessa orrida natura della prima. E poi apparvero. Tutti i demoni. Erano nascosti nella pietra. I loro crani lucenti sporgevano dalla roccia, le loro gabbie toraciche ospitavano decine di ragni pelosi. Non erano realmente degli scheletri, Rachel ne era certa, i crani si voltavano al suo passaggio, spiandola con avidità dalle loro orbite tenebrose. Erano demoni. E poi c'era il rumore delle catene. Sembrava distante, tante maglie metalliche che cozzavano le une contro le altre, tintinnando, e rantoli di uomini e donne. Lontani, supplichevoli. Di tanto in tanto, un grido. Dietro di lei, in un altro corridoio, si udì un grugnito. Pesante e cavernoso. Non un cane, ma qualcosa di più grosso. Di più turpe. L'uomo spinse in avanti Rachel, e la ragazza per poco non cadde. Arrivarono in una stanza circolare, dal soffitto alto, con un diametro di sette o otto metri. Come dappertutto là sotto, i muri erano fatti di roccia tagliata grossolanamente, a meno che non fosse il letto di un antico fiume sotterraneo. Non fare l'idiota! Questo posto non è naturale, povera stupida: è l'inferno! Sono le creature dell'inferno che l'hanno scavato! L'uomo le gettò in faccia un paio di guanti. «Puoi metterti questi, se non vuoi rovinarti le mani.» Rachel lo guardò. Lui si chinò e raccolse una catena che passò con una cinghia attorno a una delle caviglie della ragazza. Lei non reagì. Che altro poteva fare? La catena era attaccata a un anello piantato nella roccia, e le dava sufficiente libertà di movimento per raggiungere il muro opposto ma non la porta. L'uomo prese un piccone e lo lanciò a Rachel. «A partire da adesso, scaverai. Ti farà bene. E non preoccuparti per il tuo bambino. Scaverai fino a quando questo posto non sarà diventato più

salubre, poi mi occuperò di te.» Aveva posato il candeliere su una sporgenza ed era arretrato fin sulla soglia. Da lì l'aveva salutata con un'espressione di morbosa soddisfazione. La porta si era richiusa su Rachel. E su ogni sua speranza... Perché la obbligava a fare questo? Non faceva progressi, i suoi colpi di piccone non avevano strappato alla terra che pochi risibili brandelli. Eppure l'aveva fatto fino ad avere le braccia e le spalle doloranti; l'idea di disobbedire non le aveva nemmeno attraversato il cervello. Quando era tornato a riprenderla, aveva dovuto lanciare lontano il piccone prima che lui aprisse la porta, come le aveva ordinato attraverso la feritoia. Non aveva minimamente commentato il risibile lavoro che lei aveva fatto. Come se non gliene importasse nulla. Allora, perché farla scavare? A quel ritmo ci avrebbe messo dieci anni prima di intaccare davvero il fondo della grotta. Era questo che lui voleva? Non le aveva detto niente. Le aveva offerto un po' di acqua fresca e l'aveva riportata in cella. Più tardi, sentì un rumore di passi nel corridoio. Si inginocchiò per guardare sotto la porta, e distinse le ombre di numerose gambe. Una porta sbatté con violenza. L'unica candela ancora accesa accanto a Rachel si spense. E lei sentì sghignazzare i demoni. 26 Schiava dei mutamenti d'umore dell'inverno, la neve aveva ripreso a cadere all'alba. Senza violenza, incipriava l'aria con ipnotica monotonia. Infagottato nella sua giacca, Brolin aspettava pazientemente seduto nella macchina presa a noleggio per l'occasione. Aveva parcheggiato tra Dahill Road e la 50a Ovest, a una trentina di metri dalla casa di Shapiro. Era un quartiere residenziale, eppure per quel che si poteva vedere non c'era traccia di villette con giardino, solo fabbricati grigi, perfettamente rettangolari, di uno o due piani, che apparivano come rivestiti da una maschera lugubre, tutte le aperture nere come lenti di occhiali da sole. La casa di Shapiro era un po' in disparte rispetto alle altre, in fondo a un vicolo cieco; una costruzione stretta, a un piano, protetta da sbarre a tutte le finestre e da filo spinato sul tetto. Sconfinava in un terreno abbandonato, sul quale arrugginiva un vecchio capannone in parte crollato, e con scritte e disegni osceni su

uno dei muri. Faceva freddo. Brolin tentava di riscaldarsi le mani come poteva, tenendole nelle tasche o sfregandosele di tanto in tanto. Aveva appositamente cercato l'autonoleggio più scalcinato di Brooklyn, in modo da procurarsi una carretta vecchia e ammaccata in grado di passare del tutto inosservata. Per essere discreta, la macchina era discreta, ma il riscaldamento non funzionava più. Gli venne in mente un aneddoto raccontato da suo nonno a proposito del terribile inverno dell'assedio di Stalingrado, durante la seconda guerra mondiale. Per riscaldarsi, i tedeschi facevano una quantità di esercizi, muovendosi senza posa. Dall'altra parte, i russi rimanevano immobili. Un'enorme quantità di soldati del Terzo Reich morì di freddo. Brolin si ricordava ancora suo nonno chino su di lui, come a volergli svelare un segreto: «I russi sapevano che l'aria tra la pelle e i vestiti si sarebbe riscaldata grazie al calore del corpo, se stavano fermi, e quindi così facendo riuscivano a mantenere un ulteriore strato protettivo contro il gelo. I tedeschi, invece, muovendosi continuamente, non facevano che raffreddare l'aria proprio dove non dovevano». Braccia premute contro il corpo, Brolin era impegnato a far salire la temperatura del famoso strato. Nel frattempo si dedicava a osservare il vicolo cieco. La casa dei due Shapiro era l'ultima prima del terreno abbandonato, che era protetto da una recinzione. Un sentiero tagliava in due quella discarica per consentire ai pedoni di raggiungere un supermercato che stava dall'altro lato, in gran parte nascosto da una collinetta e da qualche albero raggrinzito. Non c'era nessuno. Il terreno incolto era cosparso di rifiuti di ogni genere, persino la carcassa di un furgone stava lì a marcire. Brolin si stava chiedendo come avesse fatto a entrarci, quando qualcuno bussò al finestrino. Sussultò. Un volto familiare si chinò all'altezza del suo. Le treccine nascoste da un cappellino da baseball, Annabel lo osservava sorridendo. Le aprì la portiera. «Mi ha fatto prendere un accidenti! Che ci fa qui?» Si affrettò a controllare i dintorni, con il timore improvviso di veder spuntare decine di poliziotti pronti ad arrestare Lucas Shapiro. «Stia calmo, ci sono solo io. Non sono riuscita a dormire all'idea di lasciarle fare una simile sciocchezza...» «Ne abbiamo già parlato, le chiedo soltanto...» «... da solo. Vengo con lei.» Brolin alzò gli occhi al cielo.

«Cosa? In questo modo rischia di rimetterci il posto. Lasci che ci pensi io. Se là dentro succede qualcosa e lei ci si trova in mezzo...» «Io non vengo dentro, farò da sentinella. Adesso stia zitto e mi ascolti. La nostra priorità è salvare delle vite umane, quindi lei perquisisce e se trova anche la minima prova che accusa Shapiro, mi avverte ma non tocca nulla. Per contro, se non si trova nulla, non voglio rischiare di arrestarlo perché sia rilasciato subito dopo senza averci parlato un po' dei suoi amici. Lo metteremo sotto sorveglianza. Io non posso sapere se ci sono indizi o prove in casa sua finché non ci saremo entrati... Cosa che non posso fare legalmente senza che Shapiro lo venga a sapere. Diciamo che è un caso particolare, una legge d'emergenza. Di cui siamo a conoscenza solo lei e io.» Gli strizzò l'occhio. «Salga prima che lui esca e ci veda.» Annabel si sistemò sul sedile del passeggero e aprì il suo zainetto. «I miei colleghi stamattina sono alla chiesa di St Edwards per interrogare il prete che lei conosce bene. Tenga, si metta questo.» Gli tese un auricolare e un microfono-spilla collegati a un walkie-talkie. «Li ho presi in prestito al distretto. Così potremo restare in contatto.» Brolin annuì in segno di approvazione. La ragazza era piena di risorse; doveva proprio ammettere che non si era minimamente aspettato un mutamento di rotta così netto da parte sua. Il semplice fatto di trovarsi seduta in quella macchina vicino alla casa di Shapiro poteva costarle caro. Pur disponendo di informazioni di capitale importanza, non aveva infatti messo al corrente i suoi colleghi. Qualche minuto più tardi, un camioncino beige apparve nel vialetto laterale che portava sul retro della casa. Al volante c'era Lucas Shapiro. Svoltò nella via e Brolin chinò la faccia sulle cosce di Annabel quando il veicolo passò loro accanto. «Mi scusi», disse il detective mentre si rialzava, «ma non doveva vedermi.» «Va bene, non ha nessuna importanza. Cerchi di essere prudente.» «C'è ancora Janine, la sorella. Mi sono informato: deve recarsi al lavoro stamattina, ma non so con esattezza quando. Che pazienza, la vita da sbirro...» Annabel alzò le sopracciglia. Dovettero aspettare ancora quasi tre ore prima che Janine Shapiro si decidesse a uscire. Era una donna piccolissima, dall'aspetto gracile, con i ca-

pelli tagliati alla maschietto, che sembrava annegare nel suo cappotto. Percorse il marciapiede a un passo maledettamente lento, prima di svoltare all'angolo della via in direzione della metropolitana. «Perché una donna dovrebbe essere implicata in una storia così?» si chiese Annabel a voce alta. «Lucas è uno stupratore violento, ma sua sorella? Che cosa ci guadagna? Non ha mica le stesse pulsioni, no?» «Nei casi di assassini che operano in coppia, c'è quasi sempre un dominatore e un dominato. Suppongo che Lucas, in conseguenza del suo fisico e del suo carattere, metta da sempre soggezione alla sorella. L'ha certamente malmenata quando erano adolescenti per piegarla alla sua volontà. Potrebbe anche averla violentata. Basta guardarla camminare per capire che è fragile, che non ha fiducia in se stessa; il fratello ha sicuramente giocato su questo aspetto, ripetendole un'infinità di volte che era una buona a nulla, che per sua fortuna c'era lui a occuparsi di lei. Ha fatto di tutto per rendersi indispensabile nella sua vita. Hanno passato la trentina, eppure vivono ancora insieme. Al punto che, anche quando era in prigione, Lucas non ha perso il controllo su di lei. Comunque, in realtà non so nulla di preciso, tutte queste sono solo ipotesi. È così che funzionano un bel po' di coppie omicide.» «Ma arrivare a uccidere? Siamo comunque in piena follia.» «Niente riesce più a stupirmi. Vuole un esempio? Paul Bernardo e Karla Homolka, anni Novanta. Si sono sposati e Karla ha accettato di mettere la sorella tra le mani del marito perché la violentasse. È stata Karla in persona a drogarla e a filmare la scena. La ragazzina ci ha lasciato la pelle. E il loro gioco perverso è andato avanti e si è ripetuto più volte prima che fossero arrestati e condannati. E di storie del genere ce n'è un'infinità. Un'infinità...» Annabel, dopo aver riflettuto per qualche attimo, riprese con voce dolce incrinata dall'amarezza: «Il mondo sembra impazzito. A volte ho l'impressione che sia sempre peggio, ogni giorno di più...» «Il mondo non c'entra un bel niente, sono gli uomini i colpevoli.» Si scambiarono uno sguardo d'intesa. I poliziotti sono i testimoni quotidiani della follia umana, ruolo nel quale si ritrovano terribilmente soli. Loro due si capivano, e questo pensiero li riscaldò. Lasciarono passare ancora mezz'ora, per essere certi che Janine Shapiro non avesse dimenticato nulla, poi Brolin scese. Si chinò verso la sua imprevista partner e disse: «È quasi mezzogiorno. Lucas rientra spesso a pranzo, ma deve attraversare Manhattan e Brooklyn, quindi se anche arriva

non potrà essere qui prima dell'una. All'una meno dieci mi dia un colpo di clacson. Le chiavi sono nel quadro, se c'è un problema qualsiasi tagli la corda, senza preoccuparsi di me, chiaro?» Annabel annuì. «Canale 7», gli disse, indicando la trasmittente che sbucava dalla tasca della giacca di Brolin. «A presto.» Le scoccò un sorriso amichevole che le arrivò al cuore. Poi attraversò la strada a passo di carica. Il conto alla rovescia era cominciato. 27 Brolin aveva già stabilito il suo piano d'attacco quando si avvicinò alla casa, che vista di lato sembrava ancora più tozza. Indossò un paio di guanti di pelle e lasciò l'auricolare in tasca assieme al walkie-talkie. Grazie alla cortina di neve dubitava di essere visto, ma sapeva che anche il più piccolo dettaglio avrebbe potuto attirare l'attenzione. E ovviamente preferiva evitarlo. Superò l'edificio e prese il sentiero che si inoltrava tra le recinzioni del terreno abbandonato. Dopo cinquanta metri si fermò, nel bel mezzo di un deserto costellato di rottami. Il rumore del traffico gli giungeva attutito; regnava una calma malsana, una mancanza di suoni e insieme di vita. Si accertò di non essere visto né dalla strada né dal parcheggio del supermercato e si lanciò sulla recinzione di destra. Facendo forza con i muscoli delle braccia e delle gambe la scavalcò senza difficoltà. Poi prosegui in senso inverso, avendo cura di guardare dove metteva i piedi in mezzo a tutto quell'ammasso nauseabondo. Tanta prudenza si rivelò giustificata quando scorse una siringa piantata nel terreno. Raggiunse il punto dove abitavano gli Shapiro e salì su un cumulo di casse di legno marcio per scavalcare nuovamente la rete metallica. Passando per il vialetto laterale avrebbe guadagnato cinque minuti e si sarebbe risparmiato qualche sforzo, ma sarebbe stato visibile dalle case vicine, problema da evitare se per caso più tardi fosse intervenuta la polizia: qualcuno avrebbe potuto chiedersi chi era il tizio intravisto quella mattina. Il cortile sul retro era lungo e ingombro di fusti di plastica rossa e di catene e ganci, tutti dall'aspetto assai poco rassicurante. Brolin immaginò gli strilli dei giornali: «L'assassino aveva in casa ganci da macellaio!» In fondo al cortile sorgeva una piccola rimessa costruita di recente, munita di un

enorme impianto di refrigerazione che andava a tutto spiano. La pesante porta d'ingresso metallica era chiusa con un lucchetto. Un sorrisetto apparve sulla bocca del detective. Non era un asso nelle effrazioni, ma con i lucchetti se la cavava piuttosto bene: erano più facili. Prese un kit di strumenti da scasso dalla tasca interna e lo aprì senza alcuna difficoltà. Socchiuse l'apertura e vi infilò la testa. Dal soffitto pendevano dei quarti di bue; la stanza era di dimensioni modeste, non c'erano né mobili né altre vie di accesso. Brolin arretrò e posò il lucchetto su un bidone. Sembrava proprio che non ci fosse nulla da vedere, lì. Per sicurezza avrebbe comunque ispezionato meglio la rimessa dopo aver finito con la casa, non si sa mai. Si avvicinò all'abitazione dalla porta posteriore e aprì la zanzariera, che cigolò orribilmente. Con l'aiuto del suo kit cominciò a lavorarsi la serratura. Era semplice e abbastanza logorata dall'uso, come in tutte le case del quartiere, e infatti cedette in pochi secondi. Scivolò rapido in casa, per evitare di far entrare la neve. Non appena ebbe chiuso, il silenzio gli cadde addosso, pesante come un dolore. Si trovava in una cucina immersa nella penombra. Una parte dei muri, sopra il lavello e i piani di lavoro, era coperta da piastrelle incrostate di sporcizia. L'investigatore avanzò e l'umidità delle suole fece scricchiolare il linoleum. Cominciamo bene. Il cuore in tumulto, esaminò a lungo la stanza con lo sguardo: i mobili in legno scuro, la tavola striata dalle carezze di centinaia di coltelli. In un angolo, una pila di libri di ricette. Accanto, un mucchietto di schede scritte a mano, altre ricette personalizzate. La parete sul lato ovest era nuda, tranne che per un calendario Pirelli appeso, aperto sul mese di gennaio e sul seno favoloso che lo illustrava. La mano inguantata sfogliò le pagine, alla ricerca di annotazioni. C'erano solo poche parole senza importanza: «spesa», «R.V. mattatoio», «consegna carne»... Brolin passò in corridoio. Ignorò la scala che portava al primo piano ed entrò in soggiorno. Il suo gomito urtò il rigonfiamento della tasca. «Cazzo! Annabel.» Afferrò la ricetrasmittente, regolò il canale 7 e sistemò il microfono e l'auricolare. «Annabel, mi sente?» Un crepitio sgradevole, seguito dalla voce della donna: «Sì, che cosa stava facendo?»

«Niente, sono entrato. Sto ispezionando il piano terra, tutto a posto.» Fece qualche passo verso il centro della stanza principale della casa. Anche lì la luce grigiastra proveniente dall'esterno non bastava a illuminare l'ambiente, senza contare che le pesanti tende ne assorbivano una buona parte. Nell'aria aleggiava un odore inebriante, ma meno penetrante dell'incenso, piuttosto qualcosa che sembrava uscire dai muri; un sentore di lavanda, pensò Brolin, come quei sacchetti per la biancheria che si mettono negli armadi. Il linoleum aveva lasciato il posto a una moquette da quattro soldi, talmente calpestata da assomigliare al pelame di un cane malato. Una tappezzeria annerita dalla mancanza di sole ricopriva la stanza dal pavimento al soffitto. Accese la sua torcia a stilo e illuminò il locale palmo a palmo. Il raggio di luce, però, era troppo piccolo, e nel giro di un minuto si ritrovò costretto a chinarsi fino ad appoggiare il naso sui particolari che voleva esaminare. Il divano era coperto da un lenzuolo blu, tutto sgualcito. Tra due pieghe era annidato il telecomando della TV. Sotto il tavolino, una pila di riviste di automobili. Dimmi come vivi, Lucas, fammi vedere quello che fai ogni giorno. A che cosa pensi la sera dopo il lavoro? Alle macchine? Vai a raccontarlo a qualcun altro. Alle ragazze? Ho indovinato, eh? Alle ragazze. Ma tu non sei mica uno che ci pensa come gli altri, vero? Mica come quel quattrocchi del vicino di casa, che se lo mena al cesso sfogliando Penthouse; a te lo fanno rizzare solo le foto che hai fatto tu, non è così? Le foto dove si vedono tutte quelle persone che gridano, dove tu gli metti paura. È questo il potere che cerchi. È il dominio, è l'autorità assoluta che ti dà il piacere totale, quello vero, l'unico, perché è unicamente riservato a te, puro egoismo al cento per cento. Il tuo piacere, il tuo potere sull'altro. Nient'altro, solo tu e le tue urla di godimento. Passo dopo passo, instancabile, senza sosta, continuò a squarciare una dopo l'altra le sacche di buio con il suo occhio luminoso. Non c'erano piante verdi, non sarebbero sopravvissute nella penombra. Sul fondo, tra un'asse da stiro appoggiata a un armadio e una credenza, c'era una macchina per cucire. Un vecchio modello, che a giudicare dal mucchio di stoffe nel cestino di plastica lì accanto doveva funzionare ancora. Probabilmente Lucas sfruttava la sorella in tutti i modi possibili, facendola lavorare senza posa, per tenerla schiava, per non darle il tempo di rimettere in questione la sua autorità. In quel momento Brolin realizzò che non aveva visto neppure una foto da quando era entrato. E neppure un og-

getto decorativo, tranne il calendario Pirelli, posto che lo si potesse definire in quel modo. Dopo un'ultima occhiata in giro tornò in corridoio. Le ultime tre porte conducevano rispettivamente alla scala della cantina, a un ripostiglio e a un bagno. Brolin perquisì ripostiglio e bagno senza aspettarsi granché, poi puntò la torcia verso i gradini che scendevano nella bocca spalancata della cantina. Se Shapiro si comportava come molti serial killer, doveva aver sistemato una piccola segreta personale per alloggiarvi il suo harem di schiave sessuali. Ed era in un luogo privo di finestre che sarebbe stato più probabile trovarla. Brolin scrutò il nulla assoluto che lo attendeva. I primi gradini erano di legno, gli altri invisibili nella notte del sottosuolo. Doveva scendere. Annabel era nervosa. Tamburellava con le dita sul cruscotto, senza un ritmo preciso, tanto per scaricare lo stress. Di tanto in tanto azionava il tergicristalli per liberare il vetro dalla neve che si stava accumulando, e per il resto del tempo continuava a tenere d'occhio le tre strade da cui poteva arrivare il pericolo. In teoria non avevano nulla da temere ancora per un bel po', anche se era rischioso basarsi solo sulle abitudini di Lucas Shapiro. Bastava un piccolo imprevisto perché il suo camioncino apparisse all'improvviso nel retrovisore. Annabel controllò l'ora. 12 e 31. Rimaneva mezz'ora prima del previsto arrivo dell'assassino. Presunto assassino, si corresse. Brolin non dava segni di vita. Decise di non importunarlo, di sicuro si stava concentrando sul suo compito. Un brutto presentimento l'aveva assalita da quando lui si era allontanato. Quel genere di sensazioni stupide che insinuano il dubbio che tutto andrà storto, che bisogna scappare via alla svelta, sciocchezze a cui non si deve dare retta, si ripeteva. Hai paura di rimetterci la pelle, e allora ti inventi dei pretesti per filare via prima possibile. E questo è proprio il momento meno adatto per dare retta alle tue fantasie. A proposito, i retrovisori, tieni d'occhio un po' meglio i retrovisori. Riuscì a resistere altri cinque minuti prima di arrendersi alla sua idea fissa. Si spostò sul sedile di guida e mise in moto. Aveva individuato un posto perfetto, proprio di fronte alla casa di Shapiro. Così, se capitava qualche intoppo, Brolin avrebbe raggiunto più facilmente la macchina.

Spostò la vecchia Oldsmobile e la parcheggiò nell'altro senso di marcia, pronta a partire. Controllò di nuovo l'orologio. 12 e 40. Il sottosuolo era un'immonda discarica, dove tutto si accumulava in disordine dentro sacchi della spazzatura coperti di polvere. Ci sarebbe voluto un intero weekend per ispezionarli tutti. Brolin aveva fatto il giro, battendo contro i muri alla ricerca di un suono cavo, spostando i rari mobili nella speranza di trovare una botola. Niente di niente. Vicino alla caldaia era stata costruita una parete di cartongesso, come per ricavare uno sgabuzzino. L'apertura era chiusa da una tela cerata rossa che l'investigatore scostò con un rumore di cerotto strappato via. L'alone giallo della sua piccola torcia scavò un buco nella viscosità impalpabile dello stanzino. Sì e no due metri per due, scaffali pieni di boccette di plastica, di scatole di cartone... Qualcosa gli sfiorò la testa. Un fruscio, come un insetto che spiega le zampe tra i capelli di un uomo. Brolin si spostò bruscamente e puntò il fascio luminoso su una corda di nylon e sulla molletta da biancheria che l'aveva sfiorato. Lesse i nomi sui flaconi e sulle scatole di cartone. Kodak, Agfa, macchina per sviluppo Konica... E poi acquaio, vaschette per il liquido rivelatore. Un laboratorio artigianale per lo sviluppo fotografico. Azionò l'interruttore e la lampadina rossa del soffitto proiettò intorno il suo alone sanguigno. Ecco che cos'era. La frenesia elettrica delle sue sinapsi sconvolte dilagò in tutto il suo corpo, mentre apriva le buste e ne svuotava il contenuto sulle piastrelle di ceramica. La carta era ancora vergine. Rimise a posto tutto e risalì con una fitta al cuore. Non c'era alcuna traccia di sequestri di persona, nessuna prova contro Lucas. Ci aveva fatto conto per rassicurare se stesso, e adesso era preoccupato. Se la pista Shapiro non portava a niente, la speranza di scoprire cos'era accaduto alla giovane Rachel Faulet si riduceva pressoché a zero. Fino a quel momento aveva potuto contare sia sulla fortuna sia sul talento, ma se non avesse ottenuto un risultato concreto qui sarebbe stato come non avere fatto niente fin dall'inizio. Doveva darsi da fare, il tempo stringeva, la mezza era già passata. Salì al primo piano. A terra, la solita moquette logora fino alla trama, al-

le pareti invece un rivestimento in tessuto color malva. Costeggiò il parapetto della scala, meravigliato di non trovare alcun oggetto decorativo, né un quadro né un poster, il che era piuttosto strano. Specie per qualcuno che disponeva di un proprio laboratorio fotografico. La prima porta dava su una stanza disposta in lunghezza. L'unica finestra, protetta da sbarre, era piena di adesivi screpolati vecchi di una decina d'anni, che raffiguravano campioni di basket: Dominique Wilkins, Patrick Ewing, Karl Malone. Entrò e fece un rapido giro. Difficile dire se si trattava della stanza di Lucas o di Janine. Niente libri, niente riviste, solo un letto, un armadio con dei mattoni al posto di uno dei piedi e una piccola cassettiera. A guardarlo più da vicino, il letto non era neppure fatto, solo una coperta sul materasso macchiato. Anche l'armadio era vuoto. Il detective ispezionò le pareti senza alcun risultato. Passò altri cinque minuti nel bagno senza trovare nulla di particolare se non dello spermicida. Si domandò a cosa servisse; dubitava che Lucas permettesse alla sorella di frequentare altri uomini: doveva essere lui il suo unico referente maschile, senza alcuna concorrenza. Sempre che non si sbagliasse completamente sui rapporti di forza tra i due. Poi entrò nell'ultima stanza, la più grande del piano. Alcuni vestiti maschili erano ammucchiati su una sedia davanti a delle mensole fissate al muro, su cui si trovavano, ripiegati, altri abiti sia da uomo sia da donna. Di fronte, un letto matrimoniale con le lenzuola in disordine. L'unico letto usato della casa, a quanto pareva. Brolin scosse piano il capo. Dormono insieme. Sul pavimento erano sparpagliati diversi calzini, oltre a un paio di collant e alcune scarpe da donna. Sussultò quando, preceduta da un crepitio, gli arrivò nell'auricolare la voce di Annabel: «Sono le dodici e quarantacinque. Non perda tempo, ormai siamo agli sgoccioli. Tutto a posto?» «Sì, ho quasi finito», bisbigliò lui. Dietro la porta intravide una scrivania con parecchie cartellette, qualche volume e una quantità di fogli sparsi. Cominciò a esaminarli rapidamente. La maggior parte riguardava acquisti di quarti di bue, vendite e consegne all'interno della regione. E poi libri sull'arte del commercio o su come far progredire la propria impresa. Nascosta sotto un mucchio di carte varie, trovò un'agenda rigonfia, la cui chiusura era sul punto di cedere per il gran

numero di dépliant e di post-it accumulati dentro. La sfogliò, cominciando dalla settimana in corso. «Brolin, è ora di uscire, è l'una meno dieci. Mi sente?» L'investigatore non rispose e continuò a voltare le pagine. La settimana prima. Si affrettò. Il mese di dicembre. Novembre. Ottobre. «Brolin, dobbiamo andare. Lucas sarà qui a momenti.» Lui ignorò il messaggio crepitante e posò l'agenda. Moriva dalla voglia di portarsela via; con un po' di tempo a disposizione avrebbe potuto analizzarla a fondo e scovare qualche elemento importante. Ma Shapiro si sarebbe messo in allarme, non era una buona idea. Imprecò e si mise in ginocchio per guardare sotto il letto. Scorse una scatola per scarpe e una sagoma nera più piatta. Li portò alla luce grigia della stanza. La sagoma nera era un registratore. Scosse la scatola da scarpe e la aprì. Delle cassette, numerate da 1 a 10... a 14... fino a 16. Prese la prima, la inserì nel registratore e schiacciò il tasto play. Una donna gemeva. Era un crescendo progressivo, inframmezzato da spasmi; a più riprese la donna ritrovava il respiro, e poi il tono della sua voce saliva di nuovo fino al parossismo, verso il culmine. Un culmine di dolore. I gemiti erano quelli di un supplizio. Di colpo, le grida in crescendo si spensero. Silenzio. I crepitii di una registrazione di cattiva qualità. Un tintinnio metallico. E la voce spezzata dai singhiozzi, dal terrore e probabilmente da un po' di sangue, sull'orlo del crollo finale: «La preeegoooo... No, no, no, questo no, oh no, pietà, no, no, nooooo...» E un urlo così forte da superare le capacità dell'udito saturò il piccolo altoparlante, un urlo insopportabile che fece tremare i muri, riecheggiando nel corridoio e giù per le scale, fino a riempire il piano terra. Seguirono grida frammiste a pianti e spasmi. Mentre il nastro continuava a girare, Brolin si rialzò. Perché tieni questa roba sotto il letto, Lucas? È rischioso, non credi? Allora perché, tu che sei così prudente? Le labbra del detective si piegarono in un ghigno amaro di fronte all'evidenza. La tieni qui per averla a portata di mano in qualunque momento, quan-

do sei a letto con tua sorella... Dai, è così, vero? Ascolti le cassette intanto che te la scopi? Contemplò le lenzuola sporche senza provare disgusto: questo stadio lo aveva ormai superato da tempo. Poi si dedicò ai vestiti sulle mensole, tastandoli per assicurarsi che non vi fosse nascosto niente. «Merda, Brolin, è l'una, esca subito, mi ha sentito? Lucas può arrivare da un momento all'altro!» Questa volta Brolin rispose, a voce bassissima, come se temesse di essere sentito dalla stanza accanto: «Arrivo, mi dia due minuti». «Non ce li abbiamo due minuti, lui potrebbe spuntare tra due secondi!» «Non mi ci vorrà molto.» Aveva appena finito la frase che un altro urlo partito dal piccolo registratore portatile fece tremare il suolo. Per sicurezza aveva spento il microfono, per non allarmare Annabel. Sollevò il materasso, per controllare che non ci fossero documenti o foto nascosti sotto, e per finire batté una serie di colpetti sul muro con il manico della torcia a stilo. Arrivato a circa un terzo della parete, gli sembrò di sentire un rumore anomalo. Un suono ovattato, morbido, invece della secca pienezza del resto del muro. Riprese a battere al di sopra, poi di lato. Nessun dubbio. C'era qualcosa sotto il tessuto della tappezzeria. Tastò tutto l'insieme scendendo verso il basso e a un certo punto percepì con le dita una bacchetta metallica, proprio a livello del pavimento. Ripeté l'operazione verso l'alto e ne trovò una identica vicino al soffitto, parallela alla prima. Brolin arretrò di un passo ed esaminò ciò che aveva sotto gli occhi, mentre le urla di sofferenza si riversavano nella stanza a ondate discontinue. Allora notò le due pieghe verticali lungo tutta l'altezza del rivestimento in tessuto che copriva la parete. In un primo momento non saltavano agli occhi, perché il tessuto non era perfettamente teso da nessuna parte e di pieghe che sporgevano se ne vedevano tante in giro per la stanza. Però quelle due in particolare erano perfettamente dritte e correvano per tutta l'altezza della stanza, dalla moquette fino al soffitto. Brolin provò a tirarle, prima in un senso, poi nell'altro. Un pannello scivolò di lato. Era come una tenda che copriva la parete, sovrapponendosi al resto del rivestimento, e scorreva su un binario con un lieve cigolio metallico. Come gli occhi neri e sfaccettati di un ragno, una miriade di sguardi insondabili si fissò su Brolin, immobilizzandolo. L'abisso di terrore in cui

erano sprofondati inghiottiva tutto, risucchiando avidamente l'imprudente curioso che si arrischiava a guardarli. Le foto erano fissate al muro con il nastro adesivo. A decine. Brolin si impose di respirare lentamente, per rallentare il battito del cuore. L'orologio del cruscotto segnava le 13 e 06. Avevano di gran lunga superato il margine di sicurezza stabilito. Annabel si morse le labbra. Che diavolo stai facendo, Brolin? Non lo aveva più sentito nella ricetrasmittente; immaginava che fosse troppo concentrato per risponderle. Riportò l'attenzione sul quadrante digitale, ormai non riusciva più a staccarsene. Erano in pericolo. Merda, merda, merda. Annabel infilò i guanti, richiuse il bomber e con uno scatto spalancò la portiera, precipitandosi fuori. Non potevano più aspettare. Shapiro stava arrivando, questione di attimi. Si calcò il berretto in testa e corse a tutta velocità sul marciapiede di fronte, poi si infilò nel vialetto laterale. E al diavolo la discrezione. Il cortile sul retro era allegro come una fabbrica in disuso, e altrettanto ben tenuto. La poliziotta vide la porta sul retro e soprattutto quella della rimessa, socchiusa. È logico. Brolin ha iniziato dalla casa, la cosa più importante, e adesso finisce con la rimessa. Notò il lucchetto appoggiato sul bidone, si disse che aveva visto giusto ed entrò. Le sue Timberland da trekking scricchiolarono sulle piastre di lamiera del pavimento. «Brolin, è qui?» sussurrò. Numerosi tranci di carne pendevano immobili, nella temperatura polare, appesi a ganci di acciaio inossidabile. Annabel fece un passo avanti; la porta non teneva bene e si richiuse per tre quarti, abbassando di colpo la luminosità. Anzi, il buio era quasi completo, a parte uno spicchio di luce che penetrava dallo spiraglio. «Brolin?» chiamò di nuovo Annabel, un po' più forte. Perché mai resta al buio? Stava per fare dietro-front, ma si trattenne istintivamente. Trovò un interruttore e accese le luci della rimessa. I neon spararono i loro flash intermittenti contro il soffitto, ticchettando. Fissati alle putrelle metalliche, i ganci a dente di lupo si succedevano in una sfilata di temibili mascelle. Alcuni reggevano l'anello di un uncino, altri pro-

tendevano le punte affilate nel freddo. La temperatura non riusciva a sopprimere l'odore acre che aleggiava, al contrario lo cristallizzava, distribuendolo allo stesso modo in tutto il locale. Era l'odore della carne morta, un sentore tenace che aggrediva le narici. Annabel camminò in mezzo alle enormi carcasse rosse e finì per chinarsi, per guardare al di sotto di esse. Nessuno. Alla sua sinistra, l'impianto di refrigerazione che marciava a pieno regime emetteva un ronzio costante. Se nel cortile fosse entrata una macchina, non l'avrebbe neppure sentita. Ma lui dov'era? Accostò il colletto della giacca alla bocca per parlare al microfono, con il tono più basso possibile. «Brolin, mi sente? Si può sapere dov'è? Dobbiamo filare via da qui, e alla svelta. Sono venuta a cercarla nella rimessa, se mi sta sentendo, io ora torno alla macchina, okay?» Il suono di una voce rosicchiata dalle scariche elettrostatiche le fece tendere l'orecchio. Le interferenze rendevano le parole incomprensibili. La struttura della rimessa, pensò. Per non parlare della qualità degli apparecchi a disposizione della polizia di New York. «Sto uscendo», concluse. Si voltò verso la porta. E si bloccò al primo passo. Colta da un dubbio improvviso, calcolò la distanza che la separava dall'uscita e si girò a guardare la parete di fondo. Vista da fuori, la rimessa le era sembrata più grande. Molto più grande. Ritornò alla parete opposta alla porta e la costeggiò. Quasi subito constatò che sulla lamiera del pavimento c'erano delle tracce nere disposte ad arco. I pannelli metallici che coprivano i muri e mantenevano bassa la temperatura erano larghi un paio di metri, il che corrispondeva all'ampiezza delle tracce sul pavimento. Annabel trovò il meccanismo di apertura sull'angolo: una piccola rotella, che fece girare prontamente. Lucas Shapiro aveva un certo talento per il bricolage, ma non era un genio delle costruzioni: aveva progettato il suo impianto per essere discreto, ma non introvabile. Il pannello si aprì silenziosamente. Dietro, l'oscurità regnava sovrana. Annabel entrò, restando nell'alone di luce che scendeva dal soffitto, alle sue spalle. Su un lato, appoggiati a uno scaffale, c'erano dei tubi luminosi Cyalume. Ne prese uno, lacerò l'involucro di plastica e sfregò il neon chi-

mico che si mise a brillare di una luce blu purissima. Così attrezzata, somigliava a un cavaliere Jedi armato di una minuscola spada laser. Il paragone le strappò un sorriso, che si spense subito. Alzò il tubo e diffuse nella stanza segreta una nebbia luminescente color zaffiro. Sbucò all'improvviso di fronte a lei. Un volto orribile, deformato da un grido silenzioso. A soli dieci centimetri da quegli occhi prominenti, Annabel urlò. Con la mascella staccata, il cadavere che la fissava sembrava fare altrettanto. Brolin contò sessantasette foto. Ma mancava quella di Julia Claudio, la vittima più recente di Spencer Lynch, la ragazza che era ricoverata all'ospedale. A casa del primo assassino quella foto c'era, dunque qui ce n'era un'altra in più. Il pannello scorrevole nascondeva un tratto di muro largo più di un metro, la maggior parte del quale spariva sotto le macabre fotografie. Al di sotto, si intuiva una scritta tracciata con l'inchiostro nero che qualcuno aveva tentato di cancellare. Brolin salì sulla sedia della scrivania per cercare di decifrare quella scritta che si intravedeva appena, come su un foglio di carta immerso nell'acqua. Le prime parole erano:

Non ebbe bisogno di andare molto più in là per riconoscere quella sorta di salmo di cui gli aveva parlato Annabel. Caliban dominus noster... Ecco cosa c'era scritto. Nulla di nuovo. Di lato, per contro, c'erano due fogli di carta fissati con delle puntine. Il primo conteneva una lista di nomi, tutti femminili. Il numero sedici era scritto a cifre più grandi, dopo un quindici barrato, un quattordici barrato e così via a partire dal numero otto. Conta le sue vittime. Le conta, cerca di accumularle. Alle sue spalle, il nastro registrato continuava a saturare di altro orrore l'atmosfera. Adesso la ragazza non riusciva più a respirare normalmente, tanto era forte il dolore. Era un miscuglio di grida d'agonia, di respiri spezzati e di spasmi, simile, a tratti, a un parto in procinto di finire male, molto male. Brolin deglutì e posò un indice guantato sull'altro foglio, la stessa scrittura a zampe di gallina dei fogli sulla scrivania, la scrittura di Lucas. La parola TEMPIO compariva a lettere maiuscole, seguita da una freccia pun-

tata verso le iniziali «I.dW.» e da un punto interrogativo. Sotto c'era la frase: «3000 $ / 6 mesi. Prevedere in seguito materiale». La setta si era trovata un luogo di culto. Al di sotto, con la sua grafia infantile, Lucas aveva tracciato uno schema a lettere minuscole. Lucas

Spencer

Caliban Perché Caliban è la nostra filosofia La conferma che in tutto si trattava di tre membri, come le foto lasciavano supporre. La presenza di Bob al centro non è casuale, pensò Brolin, è lui il leader. Immaginò a che genere di cerimonie potessero mai dedicarsi e scacciò subito dalla mente le immagini spaventose che vi si affacciavano. Non aveva più tempo a disposizione, doveva sbrigarsi. Dall'auricolare gli giunse un crepitio, seguito da un borbottio inintelligibile. Doveva essere Annabel, ma non riusciva a capire cosa diceva. Le lanciò lì un: «Ho trovato qualcosa, arrivo subito», senza sapere se poteva sentirlo. Guardò un'ultima volta il muro nascosto. I.dW. Gli diceva qualcosa, l'aveva già visto da qualche parte... L'agenda! Sfogliò freneticamente le pagine. Gennaio. No. Scoccò un'occhiata all'orologio. 13 e 15. La scadenza era già stata superata da un bel po'. Niente neanche in dicembre. Ma sotto la data del 20 novembre c'erano le iniziali I.dW. cerchiate in rosso con l'annotazione: «Ore 16, Bond St. 451. Discreto, niente domande se contanti». Bingo! Brolin prese il suo taccuino e scarabocchiò in fretta l'indirizzo. Doveva squagliarsela all'istante, Lucas stava per piombare lì, se già non aveva parcheggiato davanti a casa. Forse è questo che ti stava dicendo Annabel? Un sudore gelido gli imperlò la fronte, mentre un brivido gli scendeva

lungo la spina dorsale. Vattene da qui! Peccato per la rimessa, ma non poteva permettersi di tornarci; doveva correre via, e in fretta. Si affrettò a spegnere il registratore. Tornato il silenzio, si rese conto fino a che punto il nastro lo aveva angosciato. Era più forte di lui, aveva dovuto ascoltarlo, immergersi in quell'orrore per poterlo comprendere un po' meglio. Rimise tutto a posto sotto il letto, con gesti meticolosi. Infine fece scorrere il pannello in senso inverso, rimise la sedia al suo posto e corse verso la scala. I denti luccicavano flebilmente nella luce blu. Annabel fece un balzo all'indietro. La ragazza che la fissava era appesa a un gancio, i piedi nel vuoto. La sua maschera mortuaria era insostenibile, fissata com'era nel dolore dell'ultimo soffio di vita. Per un istante, La detective aveva creduto di sentirla urlare assieme a lei. L'immaginazione, unita alla paura. Sentiva il cuore battere talmente forte da martellarle nelle tempie, assordandola completamente. Questa ragazza è morta, si disse, cerca di riprenderti, non è il primo cadavere che vedi. Questo però era particolarmente spaventoso. Annabel riuscì a superare il disgusto e avvicinò il tubo luminoso al corpo. La pelle lattiginosa apparve dal nulla. I diversi liquidi che erano colati giù dal sesso, tra le gambe, si erano congelati, lasciando delle cicatrici di cristallo colorato. Capì al volo cos'era la chiazza nera al suolo, una specie di lastra che rifletteva l'alone ceruleo della luce. Era il sangue della ragazza. Era morta così, appesa per la schiena a un gancio, violentata e abbandonata lì come una bestia. Era morta assiderata, o forse dissanguata. La detective si impose di mantenere il sangue freddo e girò intorno al cadavere. Il tubo Cyalume non emetteva molta luce e oltretutto il colore blu non era il massimo per un esame del genere, doveva avvicinarsi molto per distinguere qualcosa. Parecchie lame affilate erano disposte su un banco da lavoro, accanto a manette, tenditori e corde. Roba da non credere. Lucas Shapiro aveva sistemato lì anche una cassa coibentata per evitare che il freddo troppo intenso danneggiasse il suo equipaggiamento. All'interno si trovavano un apparecchio per tatuare - l'attrezzatura di base che si poteva comprare per corrispondenza su qualunque rivista di tatuaggi -, un cannello ossidrico con la sua riserva di gas, del cloroformio e una Colt .45

con una scatola di cartucce. Era tutto lì. Di che spedire Shapiro dritto sulla sedia elettrica. Annabel chiuse la cassa e fece per uscire. Doveva andare via di lì subito e avvertire i suoi colleghi. Brolin avrebbe fatto una telefonata anonima per dire che aveva visto un tipo strano in compagnia della ragazza che compariva nei notiziari dalla sera prima. Avrebbe fornito questo indirizzo e il gioco sarebbe stato fatto. La porta d'ingresso della rimessa sbatté. Dal punto in cui si trovava, Annabel non poteva vederla. Niente panico, è solo una corrente d'aria. Salvo il fatto che non c'erano altre aperture. Merda. Si costrinse a respirare per non farsi prendere dallo spavento, ed estrasse la pistola dalla fondina. Non è niente, non c'è nessuno. Magari è Brolin che ha richiuso senza sapere che tu sei qui. Le parole le morirono nella mente appena la luce si spense. Subito Annabel piombò nel buio quasi totale. Solo il tubo luminoso emanava ancora una timida aura blu. Che indicava il punto in cui lei si trovava. 28 Il respiro ronzante dell'impianto di refrigerazione impediva ad Annabel di distinguere gli altri rumori. Solo dopo parecchi secondi percepì il cigolio. Quello dell'acciaio del gancio sulla carne gelata. Era distante, vicino alla porta. Poi un po' verso la sua destra, più vicino. Un altro scricchiolio. Si stava avvicinando. Puntò la Beretta davanti al volto, tenendola con la destra, e scagliò via il tubo luminoso. C'era qualcuno con lei, adesso ne era sicura. Il suo respiro stava accelerando, non riusciva più a controllarlo. Sentì il sudore colarle lungo la schiena, nonostante la temperatura. Una carcassa si mosse a tre o quattro metri da lei. Uno scricchiolio orribfle, come di cuoio attorcigliato, solo che si trattava di carne gelata. Puntando l'arma in direzione del movimento, Annabel spezzò il silenzio: «So che sei lì! Se fai un altro passo avanti, apro il fuoco!» Non far vedere che hai paura. Ma la sua voce non aveva la fermezza che avrebbe voluto. Deglutì, poi riprese: «Fermati dove sei e accendi la luce. Ti avverto, non esiterò a spa-

rare». Brrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr... Nient'altro che l'impianto di ventilazione, ossessivo. Percepì qualcosa in movimento, sulla sinistra questa volta, molto vicino. Non stette più a pensarci. Tirò il grilletto. La detonazione echeggiò contro le pareti metalliche, un urlo di acciaio, di fuoco e di morte. Il dolore fu lancinante. Annabel avvertì di essere stata colpita sul braccio e si rese conto di aver mollato la sua arma, quando un secondo colpo si abbatté sulla sua bocca, strappandole un grido strozzato. Cadde pesantemente a terra, ma ebbe il riflesso istintivo di rotolare di lato per schivare altri colpi. Li sentì sibilare mentre piovevano copiosi dall'alto. Il suo aggressore picchiava come un pazzo, martellando a caso nella speranza di colpirla. Lei singhiozzò e inghiottì il sangue che le fuoriusciva dal labbro spaccato, e che ormai le riempiva la bocca. Si spostò di un altro metro e, con un gesto rapido, si impadronì del tubo luminoso abbandonato in un angolo e lo lanciò davanti a sé, in direzione dei colpi. Lo vide rimbalzare contro un'ombra. L'alone di luce bastò per farle intravedere la sagoma dell'assalitore. Lui si voltò nella sua direzione e cominciò ad avvicinarsi. Approfittando del fatto di essere fuori dalla zona rischiarata, Annabel rotolò via di nuovo e si rialzò. Ora o mai più! Nonostante numerosi anni di corsi di autodifesa nella polizia, e di boxe thailandese, aveva la sensazione di non essere assolutamente in grado di sferrare un pugno o un calcio. Aveva le membra inerti, prive di forza. MUOVITI! Dimenticò tutti i suoi corsi e lasciò che a parlare fosse il corpo, e che i riflessi prendessero il sopravvento. Compì una torsione mentre il busto si piegava all'indietro. La gamba si tese con un movimento a scatto, simile a un elastico sul punto di spezzarsi. La tibia calò sull'altro come una frustata, in piena faccia. L'uomo finì a terra, mugolando di dolore. Annabel fece dietro-front e si spostò verso la direzione opposta con l'arto dolorante, tastando al suolo in cerca della pistola. Non vedeva assolutamente nulla. Correre fino all'interruttore era rischioso: Shapiro - non aveva dubbi che si trattava di lui - avrebbe avuto il tempo di cercare sul pavimento la sua Beretta. Senza contare che lei avrebbe anche potuto finire tra-

mortita andando a sbattere contro una delle carcasse penzolanti. Di colpo, si ricordò della Colt. Due rapide falcate alla cieca la portarono accanto alla cassa. L'aprì maldestramente, spingendo di lato l'apparecchio per i tatuaggi. Sentì sotto il palmo il calcio del revolver. Aprì il tamburo e lo ispezionò con la punta delle dita. Maledizione, vuoto! Alle sue spalle, Shapiro si rialzava sputacchiando. Pregò che non potesse vederla nell'oscurità. Il tubo luminoso era rimasto proprio in mezzo a loro, a metà strada; almeno, se si fosse avvicinato, l'avrebbe visto. Trovò la scatola di cartucce e cominciò a riempire il tamburo, una cartuccia, un'altra, senza togliere la sicura. Non c'era tempo per metterne altre. Chiuse il tamburo con un clic che le parve troppo rumoroso e si girò nel momento in cui sentì le vibrazioni dei pesanti passi di Shapiro. Stava correndo. Si aspettava di vedere il suo corpo massiccio lanciato su di lei. Invece fu sorpresa dalla luce del giorno che irrompeva dalla porta spalancata della rimessa. Il bastardo stava tagliando la corda. Respirò a fondo. Era viva. Se l'era cavata. La rabbia prese il posto dell'incredulità; strinse il calcio della pistola con tutte le sue forze prima di lanciarsi all'inseguimento. Alla vista del camioncino di Shapiro nel cortile sul retro il cuore di Brolin aveva accelerato di colpo le pulsazioni. Stava attraversando la cucina, diretto all'uscita, e aveva avuto giusto il tempo di nascondersi sotto il lavello. Non aveva visto nessuno, ma si era trattato solo di un attimo; Lucas Shapiro doveva essere lì da qualche parte, o magari stava per entrare in casa. Se lo faceva, avrebbe capito che c'era qualcosa che non andava, perché Brolin non aveva chiuso a chiave la porta sul retro. Un rombo di tuono dall'eco troppo metallica per essere naturale fece sussultare l'investigatore. Ci arrivò con un secondo di ritardo. Un colpo d'arma da fuoco nella rimessa. Alzò la testa per guardare fuori. Tutto sembrava calmo. Immobile. Lucas Shapiro schizzò fuori dalla rimessa, caricando come un runningback in una partita di football americano, un'autentica macchina da guerra. Nel tempo necessario a Brolin per estrarre la sua arma - questa volta non l'aveva lasciata nella cassaforte dell'hotel - e spalancare la porta, Shapiro si

era già tuffato dentro la sua vettura. Il motore ruggì nel momento in cui Brolin metteva il piede fuori. Shapiro non sarebbe riuscito a fare marcia indietro abbastanza alla svelta per arrivare al vialetto e poi alla strada. Si sarebbe trovato sotto il tiro del detective molto prima. L'assassino non inserì la retromarcia. Schiacciò il pedale dell'acceleratore e il camioncino fece un balzo in avanti contro la recinzione del terreno abbandonato, strappandola via. Il fuoco simultaneo della Glock di Brolin e della Colt di Annabel, che era appena uscita a sua volta, si concentrò sugli pneumatici. Dopo due colpi, la poliziotta gettò l'arma scarica e si mise a correre in direzione del fuggitivo, stando bene attenta a tenersi fuori dal campo di tiro di Brolin. Combattendo con la neve e soprattutto con le asperità del terreno, il camioncino rimbalzò tre volte, sollevandosi pericolosamente dal suolo, fino a che, non riuscendo più curvare, non finì per andare a cozzare violentemente contro il basamento di cemento del capannone abbandonato. Lo schianto delle lamiere accartocciate e dei vetri in frantumi lacerò l'atmosfera ovattata della coltre di neve, poi il motore tacque. Annabel, che era arrivata a metà strada, scorse la figura imponente di Lucas Shapiro mentre si chinava sullo sportello portaoggetti per prendere qualcosa. Subito dopo lo vide sgusciare fuori dal veicolo, attraverso il parabrezza andato in pezzi, in modo da tenersi al riparo dai tiri di Brolin. Si maledisse per aver lasciato la sua pistola nella rimessa, ma non aveva avuto il tempo di recuperarla. L'uomo si lanciò in avanti, impugnando un revolver dalla cromatura scintillante. È armato! Shapiro attraversò il terreno correndo a tutto spiano. Raggiunse il cancello, buttando fuori ritmicamente grandi nubi di fiato condensato. Si voltò e fece fuoco più volte. Mirava a Brolin, che lo stava inseguendo, ma con la coda dell'occhio scorse Annabel e spostò di qualche grado la canna della pistola, vomitando morte. Lei si buttò a terra in avanti. Stava letteralmente planando, quando l'impatto di un colpo le percosse la spalla. Il sibilo del proiettile le perforò i timpani. Si abbatté su un mucchio di immondizia. D'istinto si portò la mano alla spalla. Avvertì un bruciore, ma la pallottola aveva solo sfiorato il giaccone, lacerando il cuoio come una lama di rasoio. Non sanguinava neppure. Sentiva ancora il sibilo nelle orecchie. Si tirò lentamente su soltanto per con-

statare che Shapiro aveva già attraversato il cancello e correva lungo il vialetto che portava al parcheggio del supermercato. Lo vide piegarsi e poi sparire dietro una staccionata. Merda! Disarmata, non poteva farcela contro un tipo del genere. Alla sua sinistra sentì il cigolio della recinzione metallica e vide Brolin che la scavalcava per poi riprendere a correre sulle tracce dell'assassino. Imprecò di nuovo e fece un rapido dietrofront per correre a recuperare la sua Beretta nella rimessa. Brolin allungò il passo il più possibile respirando a bocca spalancata; già cominciava ad avvertire il debito di ossigeno. Si sforzò di respirare con il ventre e non con il torace. Shapiro correva forte e aveva un buon vantaggio. Quando il detective sbucò nel parcheggio, ringraziò il cielo che fosse deserto; gli ostaggi erano proprio l'ultima cosa che ci si potesse augurare. A quel punto cercò di abbassare il più possibile il suo baricentro, effettuando una rapida svolta a sinistra senza perdere in velocità. Piegato in due, spingeva con tutte le forze sui muscoli delle cosce. I due uomini attraversarono di scatto un viottolo, poi un altro, prima di imboccare un sentierino che costeggiava una linea ferroviaria industriale. Con lo sguardo annebbiato dallo sforzo, Brolin non vedeva più distintamente Shapiro. Tutto il paesaggio tremolava, come scosso da uno spaventoso sisma. I suoi polmoni impregnati di anidride carbonica si dilatavano e si contraevano spasmodicamente, arroventati, minacciando di prendere fuoco. Tese il corpo in avanti, facendo un ultimo appello alle energie di riserva. Non sentiva più le gambe per il dolore. Il respiro si fece incerto, sovrastato da un senso di vertigine. Sentiva un formicolio doloroso diffondersi anche nelle braccia. Un senso di vuoto al ventre, come se una granata lo avesse fatto a pezzi. La sagoma di Shapiro ondeggiava all'interno del suo quadro visivo alterato, ma ora sembrava più vicina. Brolin doveva tenere duro ancora un po', ma era sul punto di crollare al suolo e vomitare anche l'anima. Un ultimo colpo di reni, un bruciore di gola e tutto quel che c'era dentro il suo corpo prese fuoco. Ebbe ancora la forza di puntare l'arma davanti a sé.

Il paesaggio si mise a roteare come se la sua testa venisse proiettata in ogni direzione. Brolin non schiacciò il grilletto e rallentò la corsa. I soprassalti dovuti al fiato corto gli impedivano di mirare, così sparò un colpo in aria. Avrebbe voluto urlare a Shapiro di non muoversi, ma non ne aveva più la forza, non riusciva nemmeno più a parlare. Nell'udire la detonazione, Shapiro si buttò di lato, rotolando nell'erba per cinque o sei metri. Anche lui era stremato. Meno incline alla prudenza rispetto al suo cacciatore, fece fuoco tre volte, mirando vagamente in direzione di Brolin. Il detective si inginocchiò dietro un albero, il respiro mozzo, la testa chinata sul petto. Poi si voltò e vide che Shapiro era arrivato in fondo alla piccola scarpata, e correva lungo un treno merci fermo sui binari. Fortunatamente, il convoglio non rischiava di partire all'improvviso: era immobilizzato lì da tempo a causa di un vagone deragliato. Brolin lasciò il suo riparo e corse giù per la discesa. Shapiro si fermò di botto e sparò un colpo prima di mettersi al riparo tra due vagoni. Il proiettile fece schizzare in aria un turbine di ghiaia a trenta centimetri da Brolin. L'investigatore posò un ginocchio a terra e riuscì a controllare il respiro per il tempo necessario a prendere la mira. Mirò tra i due vagoni. Cinque proiettili sferzarono le pareti metalliche, producendo una pioggia di scintille. Lungo la massicciata ferroviaria scese nuovamente il silenzio. L'eco della sparatoria si era già disperso nell'aria. Brolin rimase dov'era, in attesa del minimo movimento di Shapiro, pronto a fare fuoco. Fece un rapido calcolo. La sua Glock aveva una capacità di quindici colpi. Contò quanti ne aveva esplosi. Dovevano esserne rimasti quattro. Ormai aspettava in agguato da un minuto quando notò la macchia scura che si allargava sulla neve, tra i due vagoni. I rimbalzi, pensò Brolin. L'ho preso con i colpi di rimbalzo. Si alzò e si avvicinò a piccoli passi, la pistola puntata in avanti. Quando arrivò il momento di uscire allo scoperto, si preparò mentalmente, poi fece un salto in avanti, la bocca della Glock rivolta verso il pericolo. Shapiro era là. Anche la sua pistola. L'occhio nero della canna puntato sulla testa di Brolin. Annabel era senza fiato. Aveva seguito i due uomini a distanza ma dopo la quarta svolta li aveva persi. Potevano essere ovunque entro quel perimetro, da qualche parte tra gli alberi che fiancheggiavano il sentiero. Se aves-

se incontrato Brolin, tutto a posto, ma se fosse stato Shapiro a trovarla per primo si sarebbe fatta ammazzare come un qualunque bersaglio da fiera. Per questo motivo procedeva passo passo, attenta al minimo segno di vita. Una serie di colpi d'arma da fuoco fece tremare l'aria attorno a lei. Erano vicini. Stavolta si rimise a correre, dritto davanti a sé. Le tracce di passi nella neve erano troppo numerose e confuse per capire chi potesse averle lasciate. Quando ne scoprì due che piegavano in direzione di un fossato, non ebbe la minima esitazione. Più in basso vide un treno merci che da parecchie settimane doveva essere in paziente attesa di essere rimesso in movimento. Udì un'ultima doppia detonazione. Simultanea. Proprio sulla sua destra, a cinquanta metri. Vide Brolin crollare a terra. Il suo corpo irrigidito urtò il terreno, con la pistola ancora in pugno puntata tra i due vagoni. Un velo di fumo usciva dalla canna. Annabel fece appello alle sue ultime forze e si mise a correre per raggiungerlo. Giunta accanto al detective posò un ginocchio a terra e capì cos'era successo. I due uomini si erano affrontati, ciascuno mirando all'altro, e avevano tirato il grilletto nello stesso momento. Si chinò su Brolin. Un lato della sua testa era macchiato di sangue. Premette le mani sulla ferita e pensò di togliersi il berretto da baseball per farne un tampone. Poi si voltò nella direzione indicata dall'arma ancora tesa del detective. Shapiro giaceva riverso sulla barra di aggancio. Dal torace e dalla coscia perdeva sangue che colava sulla neve. La bocca era spalancata, i denti brillavano fiocamente. Un fiocco di neve si posò sulla sua pupilla inerte. 29 Brolin spostò il tampone improvvisato La ferita era solo superficiale, il proiettile aveva intaccato l'estremità della guancia per poi staccargli il lobo dell'orecchio. Non era molto bello a vedersi, ma non avrebbe avuto bisogno neanche di punti di sutura. «Dobbiamo andarcene di qui, subito», fu il suo unico commento. «Rimanga disteso, vado ad avvertire i miei colleghi e...» Lui fissò lo sguardo ancora febbrile in quello della detective.

«Annabel, si rende conto di cosa abbiamo fatto? Io sono entrato in casa di Shapiro con un'effrazione; anche se il motivo era trovare le prove della sua colpevolezza, un tribunale trarrebbe una sola conclusione: non avevo alcun diritto di trovarmi lì, ed è proprio questo che ha innescato la sua ostilità. Di lì a dire che è morto per causa mia, non c'è che un passo.» Il che per certi versi era indubbiamente vero. Tuttavia, da un pezzo Brolin aveva smesso di sentirsi schiavo della sua coscienza, almeno da quando si era staccato dal sistema, e aveva capito che la coscienza era solo lo strumento tortuoso di cui si servono coloro che governano il mondo e stabiliscono leggi e religioni. Sulla sua bilancia personale la morte di Shapiro non pesava più di una piuma. A dire il vero, non se l'era augurata, ma non ne provava alcun rimorso. «Non possiamo...» «Tutte le prove saranno dichiarate non ammissibili, viste le circostanze, se lei e io siamo sul posto. Faccia come crede, io qui non ci resto.» Lei lo osservò, mentre si alzava e correva a raccogliere i bossoli che aveva seminato sul suo percorso. Seduta nella cucina di casa, Annabel aveva gli occhi chiusi sopra la tazza. Il vapore del tè bollente saliva a coprire il suo viso con un velo perlaceo. Non riusciva ancora a crederci. Erano fuggiti dalla scena di un crimine. Tutta la sua carriera poteva finire in un disastro. Per una decisione un po' affrettata. Per un impulso. E tutto per aver dato ascolto al suo istinto, per aver avuto fiducia in Brolin. Eppure, non riusciva ad avercela con lui. Avrebbe solo significato spostare il cuore del problema per non assumersi le proprie responsabilità. Aveva sempre fatto le sue scelte in piena consapevolezza, senza pressioni esterne. Si considerava a giusto titolo una dura, e per questo finiva sempre per mettersi nei guai; ma, come incapace di imparare dai propri errori, ogni volta - e soprattutto in quel momento - era pronta a ricominciare da capo. Brolin comparve sulla soglia, una benda sulla guancia e un'altra sulla parte inferiore dell'orecchio. «Si è disinfettata la spalla?» Lei fece cenno di no, senza aprire gli occhi. «La pallottola non mi ha colpito, è solo una bruciatura.» Lui sparì per ritornare un attimo dopo con l'alcool e un tampone di cotone. Tirò il tessuto per allargare lo strappo. Apparve la spallina del reggise-

no. Delicatamente, Brolin la fece scivolare di lato e applicò il tampone imbevuto di alcool sulla pelle violacea. «Lo nasconda sotto un pullover, in modo che i suoi colleghi non lo vedano.» Poi osservò le labbra della donna. «È un po' gonfio, ma niente di preoccupante. Con un po' di fortuna nessuno le farà domande.» Tacque per qualche momento, poi riprese, lentamente: «Credo di sapere come si sente. Ma era l'unica cosa da fare. Abbiamo giocato una mano di poker, la fortuna ci ha girato le spalle, e in qualche modo bisognava pure uscirne. Se questo può rassicurarla, i suoi colleghi della polizia non arriveranno mai a noi. I bossoli che posso aver dimenticato non li aiuteranno di certo: uso cartucce da 9 millimetri tipo Federal, le più diffuse, e con la neve che cadeva nessuno può averci visto abbastanza bene da riconoscerci. E poi non c'era nessuno. Stia certa che quando troveranno il cadavere la polizia andrà a casa sua, scopriranno che cosa nascondeva e faranno il collegamento con la vostra inchiesta. Penseranno a un regolamento di conti tra i membri della setta...» «Come può essere così distaccato?» gridò Annabel. La collera e l'incomprensione si erano mescolate in un attimo in un cocktail esplosivo. Brolin premette un'altra volta il cotone sulla sua spalla, poi lo gettò via. «Tutto questo non le fa alcun effetto?» riprese lei. «Ha appena ucciso un uomo; era un assassino, d'accordo, ma si tratta comunque di una vita umana! E ha ancora abbastanza sangue freddo per pensare a questa merda e prevedere tutto quello che succederà?» Brolin fece un passo indietro. La fissò senza dire una parola. Gli occhi sereni esprimevano un'assoluta tranquillità. Si affrontarono, sguardo contro sguardo, anima contro anima. Annabel si arrese per prima, la collera inghiottita dall'intensità degli occhi di lui che non si staccavano dai suoi. «Per molto tempo l'ho pensata anch'io come lei», spiegò Joshua con un tono calmo e carezzevole. «Per la mia formazione all'FBI ho studiato i fascicoli dei delitti più atroci, che mi hanno insegnato a forza di orrori come entrare nella testa di un assassino. Cosa per la quale mi sono rivelato particolarmente dotato. Provi a vivere tutta una vita con questa cosa nel cervello, poi ne riparliamo. E poi, un giorno, perdi qualcuno che ti è vicino e in quel momento capisci fino a che punto la solitudine è un abisso insondabi-

le.» Annabel rabbrividì, sentendosi di colpo terribilmente coinvolta da quelle parole. La forza della compassione spazzò via le ultime tracce di collera. «Negli ultimi due anni», proseguì lui, «ho lavorato per famiglie straziate dal dolore, con l'unico scopo di fornire loro delle risposte. In due occasioni la mia strada si è incrociata con quella di gente che ha rapito, stuprato e in un caso anche ucciso. E sa qual è stata la cosa più difficile? Consegnarli alla giustizia. Accettare che fossero giudicati, accettare che la società possa un giorno perdonarli e rimetterli in libertà. Volevo ucciderli, e non l'ho fatto. Non per pietà o altre sciocchezze del genere, no, ma perché non ne ho avuto il coraggio. Quindi, per quello che è successo stamattina, glielo dico chiaro e tondo: non mi fa né caldo né freddo. È successo durante uno scontro a fuoco. Il mio unico rimpianto è che si sia portato dietro tutti i suoi segreti.» Non c'era alcuna luce nel suo sguardo, né passione, né tanto meno collera. Era una semplice constatazione. Le sue labbra piene si chiusero e il volto si rilassò mostrando solo la sua bellezza fredda e distaccata. Un'aura di forza e di calore sembrava avvolgere tutta la sua figura, un potere ipnotico simile a una corrente elettrica che sprigionava minuscoli lampi. Una personalità calma e riflessiva racchiusa in un involucro esplosivo. Annabel trasalì sotto l'impulso improvviso di posare una mano sulla sua pelle, di rannicchiarsi contro di lui e persino, si sorprese a pensare, di aderire nuda al suo corpo. Di sentire il suo calore dentro di lei. Sentì le braccia ricoprirsi di pelle d'oca. Che cosa le stava succedendo? Così come era venuto, il desiderio scomparve in un istante. Era umana, fatta di carne e di sangue, e, malgrado tutto il suo amore per Brady, i suoi istinti avevano ripreso momentaneamente il sopravvento. Più tardi si sarebbe rimproverata per quello strano impulso, ma non era forse colpa dell'«insondabile abisso della solitudine» di cui parlava Brolin? Quest'ultimo le volse le spalle e si rifugiò nel soggiorno. Lei lo raggiunse un'ora più tardi. Per un po' contemplarono insieme i grattacieli di Manhattan attraverso la vetrata, dominando in silenzio l'orizzonte grigio e bianco. Fu lei a riprendere l'argomento: «Lo so che non si fermerà. Nonostante ciò che è successo, lei non mollerà l'osso». Brolin non aprì bocca, immobile sul divano. Sopra di loro la cupola di vetro, ricoperta da uno strato di neve, lasciava filtrare una luminosità cri-

stallina. Annabel continuò: «La aiuterò. Le farò delle copie di tutto quello che abbiamo, avrà accesso libero e potrà utilizzare i suoi metodi. In cambio voglio che mi tenga al corrente di tutto quello che trova, anche di una semplice idea, qualsiasi cosa. Voglio prendere la banda al completo, e soprattutto Bob. Andiamo avanti mano nella mano, massima fiducia reciproca.» Girò su se stessa e lo fronteggiò. Lui annuì lentamente. «Lei ha la mia fiducia dal primo giorno che l'ho vista», disse infine. Posò la mano su quella di lei, amichevolmente. 30 La notizia arrivò nel primo pomeriggio. In una zona in cui alcuni residenti avevano segnalato di aver udito forse dei petardi o forse dei colpi di arma da fuoco, era stato rinvenuto il cadavere di un uomo. Mentre ispezionavano la sua abitazione gli agenti di polizia che erano intervenuti avevano trovato un altro cadavere, quello di una donna, nella rimessa. E anche delle foto nascoste: venne avvertita la squadra speciale del 78° Distretto. Fu Thayer a informare Annabel. L'uomo si chiamava Lucas Shapiro, ed era possibile che fosse uno dei membri della setta... Fin dalle sue prime parole, la detective dovette combattere contro un insopprimibile senso di colpa. Aveva l'impressione che tutti potessero leggerle la verità negli occhi, che tutti fossero al corrente delle sue bugie. Quando si ritrovò sul posto, in un primo momento si sentì malissimo, poi sempre meglio. Si stupì di essere stata capace di agire in così totale impunità, e questo le ridiede fiducia. Prima di salutarsi, lei e Brolin si erano scambiati tutte le informazioni che avevano. Il detective sperava che il corpo venisse scoperto al più presto, in modo che la sorella fosse interrogata prima che, rientrando a casa, capisse che era successo qualcosa, nel qual caso sarebbe potuta sparire dalla circolazione. Quando Annabel arrivò, Janine Shapiro era seduta tra due agenti. Aveva lo sguardo turbato, nessuno avrebbe potuto dire se per la tristezza o per il sollievo. La detective salì al piano di sopra per vedere le foto che Lucas aveva appeso dietro la falsa parete. Brett Cahill era in piedi davanti al muro. «Spencer Lynch usava le Polaroid, Lucas Shapiro sviluppava le sue foto

da solo: eccone la prova. Rimangono soltanto le foto digitali», commentò. «Rispetto alle foto che abbiamo trovato da Lynch, manca quella di Julia Claudio; penso che Lynch non abbia avuto il tempo di farla girare. Per contro qui ce n'è una in più.» Appoggiò l'indice su una delle fotografie. Era la ragazza che Annabel aveva trovato impalata al gancio in fondo alla rimessa. «È la sua vittima più recente. Fresca fresca, a quanto pare, continuò Cahill senza tradire alcuna emozione. «Nella rimessa abbiamo trovato anche una fiamma ossidrica e tutto il necessario per fare i tatuaggi. Thayer è sicuro che sia lui l'assassino della drogata, quella trovata ieri a Larchmont.» Annabel cominciava a capire. «Voleva sostituire la ragazza infetta.» «Cosa?» Cahill si era girato verso di lei; gli si leggeva chiaramente in faccia che non stava capendo nulla. Annabel prese a spiegare, pazientemente: «Lucas Shapiro qualche giorno fa ha rapito una ragazza che si dà il caso fosse malata; questo non gli è piaciuto, per lui era impura o qualcosa del genere, così se ne è sbarazzato. Per lei ha cambiato le sue abitudini; non valeva la pena che si desse tanto da fare, perciò l'ha semplicemente abbandonata. Ma aveva bisogno di soddisfare le sue pulsioni o forse di compiere un rito particolare, non so. Quindi si è affrettato a rapire un'altra ragazza. Quella che sta nella rimessa.» «Sì, è possibile.» «C'è qualcos'altro?» «Lo schema, lì. I tre nomi che conosciamo, Spencer, Lucas e Bob sopra quello di Caliban. Sembra confermare le nostre supposizioni, che siano tre in tutto. Perché Caliban è la nostra filosofia: certo che sono parecchio suonati, eh?» «Però 'Bob' è scritto in maiuscolo», gli fece notare Annabel. «Ed è al centro, forse perché è il leader.» «Così pare. Ci sono anche gli altri due fogli: questo con la lista delle vittime, sedici in tutto, e l'altro, che parla di un tempio e di un 'I.dW.' Passeremo tutto al setaccio, qua dentro, fino a quando non riusciremo a capire cosa diavolo significa.» Annabel si ricordò di ciò che le aveva detto Brolin poche ore prima. Sapeva che nell'agenda c'erano informazioni che riguardavano I.dW., ma non poteva dirlo senza suscitare sospetti. In ogni caso, le avrebbero trovate in

breve tempo. Scese le scale e trovò Thayer assieme a Bo Attwel. Erano in piedi di fronte a Janine Shapiro. Minuscola, il volto emaciato e le mani da bambola. Una bambola con un volto da vecchia. Le sue pupille nere erano fisse nel vuoto; non batteva ciglio. «Le foto di sopra, sa di cosa si tratta?» le chiese Thayer con tono severo. Lei non aprì bocca. Bo Attwel prese sottobraccio Annabel e la tirò un po' in disparte. «Cazzo, hai visto la sue mani?» le disse. «Scommetto dieci verdoni che è stata lei a strangolare la ragazza di Larchmont. Ho letto il rapporto dell'autopsia. Che roba immonda! Magari viene fuori che il fratellino portava a casa le ragazze ed era lei a farle fuori, ti rendi conto? Questa è la famiglia Addams. Anzi, peggio.» Il contrasto tra le sue sopracciglia nere e i capelli grigi era ancora più accentuato dal debole raggio di sole che filtrava dalla finestra. «Abbiamo un'idea di cos'è successo a Lucas?» chiese Annabel con tutta la disinvoltura di cui era capace. «Non ancora. Sappiamo che gli hanno sparato. Nessun testimone oculare, niente di niente. La sorella non sa nulla, o per lo meno non dice nulla. Ci sono forti probabilità che uno degli altri pazzoidi del gruppo di Caliban sia venuto qui a regolare qualche conto. Per noi va bene comunque. È un regalo piovuto dal cielo. Smontando questa baracca fino alle fondamenta forse riusciremo a trovare il modo di risalire a Bob. Abbiamo rilevato un po' di impronte di passi nella neve e i proiettili che abbiamo recuperato ci indicheranno il calibro dell'arma, tanto per cominciare. Peccato che, come ti ho detto, non si è fatto avanti nessun testimone.» Se tu sapessi, pensò lei. Lo ringraziò con un cenno rapido e uscì. Aveva la nausea, le gambe la reggevano con difficoltà. Il senso di colpa sembrava andare e venire, come a ondate successive. Annabel continuò per un po' ad aggirarsi su e giù per la scena del crimine, di modo che, se in seguito si fosse trovata traccia della sua presenza lì, un capello o qualcosa del genere, la cosa sarebbe parsa del tutto normale. Vedendo che tutti sembravano concentrati sull'analisi degli indizi, sul piccolo laboratorio fotografico della cantina e sul cadavere nella rimessa, respirò di sollievo, un po' rassicurata. I suoi colleghi stavano focalizzando la loro attenzione più su questa inattesa scoperta e sugli indizi che la collegavano al culto di Caliban che sui moventi dell'omicidio, che erano in qualche modo dati per scontati, quindi non ci avrebbero sprecato sopra altro tempo. Avrebbe voluto recuperare il

proiettile che aveva esploso nella rimessa con la sua Beretta, ma era troppo rischioso. In ogni caso non c'era alcun motivo per fare una comparazione balistica con la sua arma; nessuno l'aveva vista aggirarsi lì quella mattina. Janine Shapiro non si fece scappare nemmeno una parola, e nel giro di un'ora fu portata via da un'autopattuglia. Annabel contribuì alla perquisizione in cerca di ulteriori indizi, prima di tornare al distretto. Mentre Cahill e Attwel dirigevano l'inventario dei reperti trovati dagli Shapiro e Thayer conduceva l'interrogatorio di Janine, lei si mise a fare copie di tutto ciò di cui già disponevano. Uno degli agenti che lavoravano sulle foto della scena del crimine era un ragazzo appena arruolato. Scoccava ad Annabel sorrisi in cui si mescolavano attrazione e timidezza. La detective non ebbe alcuna difficoltà a convincerlo a stampare in gran fretta delle copie di tutte le sessantasette immagini delle vittime trovate a casa di Lynch. Nel frattempo si impossessò di una delle fotocopiatrici, sussultando a ogni rumore di passi nel corridoio. Brolin aveva ottenuto risultati significativi in poco tempo e il suo tipo di approccio forniva all'indagine un punto di vista illuminante. Ora Annabel capiva come mai le polizie locali facessero talvolta ricorso all'FBI e ai suoi agenti speciali, ai profiler. Sapeva anche che con Woodbine era inutile tentare di percorrere la via ufficiale; lui e i suoi superiori volevano a ogni costo che il caso fosse gestito senza l'intervento del Bureau, maestro nell'accaparrarsi l'attenzione e il credito dei media. Mentre scendeva la sera, Annabel prese la scatola che conteneva le copie e si diresse verso le scale, pregando il cielo di non incontrare nessuno dell'unità investigativa. Arrivò alla macchina senza ostacoli e mise in moto, tirando un sospiro di sollievo. Le nuvole erano state spazzate via all'approssimarsi della notte, e la luna risplendeva attraverso la cupola di vetro che sovrastava il soggiorno. Annabel aveva staccato tutte le foto di lei e di Brady per sostituirle con sessantasette volti terrorizzati. Tutti i rapporti erano sparpagliati sul tavolino. Brolin passava dall'uno all'altro con la massima calma. Li aveva letti prendendo appunti, e ora stava piantato sul divano con la coperta andina sulle spalle. Era ormai mezzanotte. Avevano cenato con una pizza ordinata per telefono, studiando i dossier senza un attimo di relax. «Mi parli di Thayer: ci sa fare con gli interrogatori?» «Se Janine Shapiro sa qualcosa, lui gliela farà sputare», rispose Annabel con una sicurezza maggiore di quella che provava veramente. «A patto che

riesca a convincerla a non chiamare subito un avvocato, e in questo gioco è particolarmente bravo.» Era seduta su una sedia, di fronte a Brolin, le occhiaie scavate dalla stanchezza. «Quello che c'è da sapere, lo sa», replicò il detective privato. «Lavora in una ditta di pulizie che si occupa anche della chiesa di St Edwards, a cui lei stessa è addetta. È lei che imbratta le vetrate di sangue.» «Perché mai dovrebbe farlo?» «Sarà lei a dovercelo dire. Quanto a me, credo sia un mezzo per espiare. In qualche modo è lei stessa una vittima di suo fratello, che l'ha oppressa, l'ha tiranneggiata, ne ha fatto una schiava. Tocca a Thayer ottenere la risposta.» Appoggiò le mani sulle ginocchia, tenendosi ben dritto contro lo schienale. «Secondo le vostre supposizioni, la setta sarebbe composta da tre membri», riprese. «È così?» «Certo, almeno in teoria. Tutto ciò che abbiamo trovato da Spencer Lynch si basa sul numero tre. A cominciare dalle foto.» Annabel lanciò una rapida occhiata colma di ansia verso la parete. «Disposte in tre 'pacchi' di tre, quindici e quarantanove foto. È emerso che le prime tre corrispondevano alle vittime di Lynch, e oggi, a casa di... Lucas Shapiro, abbiamo trovato le stesse foto, di cui quindici rappresentano sicuramente le sue vittime. Di fatto, ce n'era anche una sedicesima, di cui a Lynch non era arrivata ancora la copia.» «Seguendo questo ragionamento, non resta ormai che un unico assassino. Che da solo ha fatto quarantanove vittime», sussurrò Brolin, come in una litania. «Non ne abbiamo alcuna prova, forse sono anche di più. In ogni caso, l'ipotesi dei tre per il momento regge. Se è quella giusta, l'ultimo sarebbe quindi Bob.» Brolin allungò le braccia davanti a sé, come per indicare che non era il caso di spingersi troppo in là. «Riassumiamo i collegamenti», disse. «Spencer Lynch è l'ultimo arrivato del gruppo, Shapiro l'ha reclutato in prigione. Evidentemente aveva percepito una personalità incline ai suoi stessi comportamenti. Con il tempo si sono confidati tra loro e alla fine Shapiro ha arruolato il ragazzo. Si sono scelti un punto di incontro, o di scambio. Tutto ciò che la setta di Caliban, chiamiamola così, aveva bisogno di comunicare a Spencer passava attra-

verso una busta fissata con il nastro adesivo a un banco nella chiesa di St Edwards. In questo modo si tenevano in contatto senza correre rischi. E, in effetti, si direbbe che sia questo Bob a tirare le fila; è lui che si rivolge a Spencer - Devi imparare a diventare come noi - e che firma la cartolina, o le cartoline; lui che gli indica la strada da seguire per entrare a far parte della famiglia.» Si avvicinò al tavolino e aprì il dossier delle vittime assieme al suo taccuino. «Quali sono al momento i metodi che state seguendo?» «Ci sono due squadre. Attwel, Collins e due investigatori della centrale nord si occupano delle vittime, chi sono, quando sono scomparse... Thayer, Cahill e io lavoriamo sugli indizi. E nei prossimi giorni dovrebbero aggiungersi altri cinque ispettori; gente di Manhattan, a quanto pare. Il che può farci solo del bene, perché non ce la facciamo a occuparci di ogni cosa e in fretta. A questo si aggiungono tutti gli agenti in uniforme di cui possiamo aver bisogno in caso di necessità. Inoltre abbiamo l'appoggio degli altri distretti di New York, che collaborano inviandoci la documentazione di cui dispongono quando viene fuori che una delle vittime rientra nella loro giurisdizione. L'inchiesta è cominciata solo da sei giorni, con l'arresto di Lynch.» «Avete considerato la vittimologia?» A giudicare dal tono, si aspettava di certo una risposta negativa. «Be', sì, insomma, è la squadra di Attwel che mette insieme queste cose. Ma è uno sforzo titanico, si tratta di mettere un nome e una vita intera sotto una foto, e non sono foto da carta di identità! Hanno già fatto dei bei progressi.» La cartella con i rapporti sulle vittime in mano, Brolin si alzò e si avvicinò al muro con le foto. Sessantasette sguardi convergevano su di lui. «E non hanno notato niente?» Annabel scosse il capo, dopo una breve pausa. «Non che io sappia.» Lui si girò verso di lei. «Provi allora a guardare le vittime in ordine cronologico.» La detective alzò le spalle. «Questo lo abbiamo già fatto. Se si riferisce al modus operandi dei rapimenti, ci stiamo lavorando. Per ora sembrerebbe che la priorità dei nostri 'amici' sia quella di agire senza testimoni.» «In effetti il loro modus operandi è interessante. Rivela una certa intelli-

genza, una buona organizzazione. Questa gente si prepara in anticipo, senza lasciare niente al caso. Ma non è esattamente questo che avevo in mente. Secondo le informazioni che avete raccolto non esiste alcun punto in comune - finora - tra le vittime, e anche cercando di raggrupparle non si trova nulla che possa collegarle. Arriviamo dunque alla conclusione che la setta di Caliban sceglie le proprie vittime secondo certi suoi criteri, non in relazione a qualcosa che le vittime hanno in comune. Guardi l'elenco cronologico dei rapimenti.» «Il rapimento più in là nel tempo risale al luglio del 1999. Una donna di ventiquattro anni, che viveva nel New Jersey. Poi, due rapimenti a settembre del 1999, ancora due donne, di ventuno e ventotto anni. La prima viveva anche lei nel New Jersey, la seconda nello Stato di New York.» Nella penombra dell'appartamento, gli occhi di Brolin brillavano di una luce quasi inquietante. «Continui», fece lui, «e lasci perdere le località, non è quello che ci interessa.» «Dicembre '99, scompaiono quattro persone. Tutte donne.» «Le loro età?» «Aspetti... Ah, ecco: ventinove anni, diciannove, ventiquattro e trentuno.» «Prosegua.» «A gennaio è il turno di due uomini e una donna, rispettivamente venticinque, ventidue e ventisei anni. Poi niente fino a marzo del 2000. Ma non tutte le persone sono state ancora identificate. A marzo, dicevo, due rapimenti. Due adolescenti, stavolta, diciassette e sedici anni. Erano insieme, due amici.» Annabel alzò la testa dal documento e Brolin le fece cenno di continuare a elencare ad alta voce le sparizioni. «Nell'aprile seguente, un rapimento: un'adolescente di diciassette anni. Niente fino a giugno, ma in quel mese recuperano il tempo perduto: cinque persone. Tre uomini e due donne.» «Le loro età», esclamò Brolin seccamente. «Quarantuno, quarantasette, trentotto, quarantaquattro e... trentanove», snocciolò lei, mentre alzava lentamente la testa. Percepì un brivido elettrico, mentre un barlume di comprensione si faceva strada nella sua mente. Brolin non la mollava con lo sguardo, aspettando il momento opportuno. Sollevò la testa.

«Ci è arrivata? La setta sceglie le sue vittime a gruppi. Selezionano una fascia di età e un sesso. Hanno cominciato con donne sulla ventina. Poi due maschi della stessa età. Poi mettono gli occhi sugli adolescenti, ma non per molto. In seguito sulle persone di età più matura.» «Crede che...» Ma dentro di sé sapeva che lui aveva visto giusto. «Come abbiamo potuto non accorgercene?» «In primo luogo perché vi siete concentrati sui fatti, sulla vita delle vittime anziché semplicemente su quello che sono. In secondo luogo perché con il tempo la setta di Caliban non ha mantenuto lo stesso rigore. A partire dall'autunno del 2000 hanno cominciato a rapire le loro vittime senza fare più distinzioni, né di età né di sesso. Tuttavia, se guarda bene quei dossier, anche nei gruppi iniziali di vittime c'era una specie di sottordine. Quando sono cominciati i rapimenti si trattava di giovani donne intorno ai vent'anni All'inizio sono bianche, poi rapiscono una donna di origine asiatica, e quindi una afro-americana. Troviamo lo stesso schema per gli uomini. Hanno ripetuto l'operazione a più riprese. Con una preferenza netta per le donne bianche e afro-americane.» «Ma perché lo fanno?» Brolin alzò le mani al cielo. «Sta lì la soluzione del nostro problema! Scoprite perché lo fanno e troverete chi sono.» Annabel sorvolò con lo sguardo le foto sul muro e si passò una mano sulla fronte. «Non so se sia una pista utile, ma uno dei miei colleghi aveva già notato che tra le vittime non c'è nessuna persona anziana. Bambini, adolescenti, ma nessuno che abbia oltrepassato la cinquantina.» Brolin alzò l'indice come per sottolineare l'importanza di quello che lei aveva appena detto. «Già. Sta a noi capire il perché. Cosa non può fare una persona anziana che invece possono fare un bambino o un adolescente? Perché arrivare fino a quarantacinque, cinquant'anni e non oltre? Ora sappiamo che la setta sceglieva le sue vittime molto accuratamente, per fascia di età, sesso e razza. Dopo più di un anno abbandonano questi criteri rigorosi. Perché?» Fissarono entrambi i sessantasette volti che li imploravano di trovare al più presto una risposta. Annabel notò allora che l'ex profiler aveva un'aria turbata. «Qualcosa non va?»

Lui alzò la testa immediatamente. «Ho un brutto presentimento riguardo a quello che potrà succedere.» «Un presentimento?» Brolin scosse il capo, aprì la bocca, esitò, come se non trovasse le parole esatte. «I suoi colleghi lo hanno sottolineato nel rapporto», finì per dire. «Diverse vittime si conoscevano tra loro. Non abbastanza per costituire un punto in comune, intendiamoci. All'inizio sono scomparsi due adolescenti che tornavano assieme da un allenamento, poi due sorelle. La cosa preoccupante è che sono state portate via a tre settimane l'una dall'altra.» «Lo so anch'io tutto questo, l'ho letto. Sono d'accordo con lei, fa venire i brividi tutta questa organizzazione, ma...» Brolin dardeggiò su di lei gli occhi fiammeggianti, che tanto contrastavano con l'imperturbabilità dei suoi lineamenti. «E poi il bambino di otto anni scomparso nell'agosto scorso, seguito in settembre da sua madre. C'è una vera e propria evoluzione.» Fece una pausa prima di aggiungere: «Se seguiamo questo schema, riesce a vedere dove ci porta? Quale sarà la prossima tappa?» Annabel aggrottò le sopracciglia. Per la maggior parte degli estranei tra loro, poi degli amici, due sorelle, madre e figlio, e intanto ancora altri estranei. No, decisamente non riusciva a capire dove portava tutto ciò. Non potevano essere coincidenze, però... D'istinto si portò le mani alla bocca. «Mio Dio... Una famiglia! Porteranno via un'intera famiglia!» «La loro logica sembra portarci proprio in quella direzione.» Brolin arretrò verso il cavallo a dondolo ed entrò nell'ombra. 31 La brina cominciava a ricoprire il parabrezza, lentamente, mentre decorava i prati del quartiere con un velo delicato di cristalli. L'uomo che da parecchie ore stava chiuso nell'abitacolo gelido controllò l'orologio. L'una del mattino ormai passata. Le prime due ore di attesa erano state piacevoli. Aveva giocato con la fantasia. Proiettandosi dei film su quello che avrebbe potuto fare alla donna che viveva lì. E anche alla figlia. Aveva rimuginato su tutte queste cose, prima accarezzandosi il mento, poi toccandosi il sesso attraverso i pantaloni. Dopo due ore aveva represso con qualche difficoltà la voglia di masturbarsi; doveva dedicarsi interamente al

lavoro che lo aspettava. Niente distrazioni. Questo tipo di operazioni doveva essere gestito alla perfezione, con la massima freddezza. Era una cosa così lunga da preparare! Prima di tutto bisognava individuare la vittima. Chiaramente doveva rispondere ai criteri del momento, ma questa era tutta un'altra storia. Anche se da un po' di tempo tendeva a non variare troppo, quella di stasera sarebbe stata proprio una nuova esperienza. Una volta stabiliti i criteri, scegliere su chi mettere gli occhi non era poi tanto difficile. Bastava avere molta pazienza. Individuare le persone più abitudinarie. Perché tutti siamo, in un momento o nell'altro, vulnerabili. E la routine non fa che accentuare tale vulnerabilità. Per prima cosa bisognava osservare, a lungo. Vedere chi abita dove, lo stile di vita, la quotidianità... Rubare di nascosto la spazzatura per entrare nell'intimità dei bersagli, tranquilli e inconsapevoli a casa loro. Tutto questo poteva richiedere, a volte, anche parecchie settimane. Quando un piano d'attacco finiva per sembrare troppo arrischiato, bisognava trovare qualcun altro. Per fortuna, questo avveniva di rado. Perché, appunto, siamo tutti vulnerabili. E l'uomo seduto in macchina viveva solo per questo. Gli piaceva ripetersi sempre lo stesso discorso: «Siamo tutti vulnerabili, in un momento o nell'altro. Se viviamo da soli, di notte, mentre dormiamo, un tipo in gamba e discreto può infilarsi in casa nostra; è difficile che una serratura lo fermi. Se non viviamo soli, abbiamo comunque tutti dei momenti di solitudine, il che implica un certo grado di vulnerabilità. Che a volte è massimo, basta conoscere le abitudini della persona. La sera, o al mattino presto quando non si è ancora svegli, al parcheggio quando non c'è nessuno in giro, la sera tardi di ritorno da un corso sportivo o da una riunione, mentre si va a correre al parco o mentre si va a prendere il bambino a casa di amici a mezzanotte. O in un qualsiasi giorno della settimana, quando non c'è in giro nessun vicino e si apre la porta a quello che si crede sia l'addetto della compagnia elettrica... Bastano pochi secondi. Un minuto al massimo. C'è sempre, per ognuno, un momento in cui si è poco vigili. E un uomo astuto, esperto e ben organizzato, non ci mette molto a scoprire quando e dove colpire. E a quel punto è già troppo tardi». Un sorriso si aprì su quel volto di solito così impassibile e l'uomo aggiunse tra sé: «Può essere ovunque, dietro ogni vostro passo. E voi non lo sapete». Era una buona sintesi del suo modo di agire. Quello che aveva inculcato nella testa dei suoi amici. Il problema era che non tutti si trovavano al suo

stesso livello. Se anche gli altri fossero stati come lui, le cose non sarebbero arrivate a quel punto. E adesso ci si erano messi di mezzo i poliziotti. Tutta colpa di Spencer Lynch. Farlo entrare era stato un errore. Era troppo idiota per comprendere veramente il senso di ciò che stavano facendo. Quel mentecatto era interessato solo a scopare. Rapiva per torturare, violentare e uccidere, nient'altro. Non capiva nulla. Per fortuna, non essendo ancora un iniziato, non sapeva niente di loro. Delle loro pratiche. Dei loro scopi. Lucas aveva scelto male. Lucas. Che cosa pensare di lui? I poliziotti della Grande Mela dicevano da quel pomeriggio che Lucas si era fatto ammazzare durante un regolamento di conti. Ma con chi? A chi volevano darla a bere? Era stato uno di quegli stronzi incompetenti a farlo fuori! E adesso stavano coprendo la cazzata che avevano fatto! Riflettendoci bene, era meglio così. Lucas non avrebbe parlato, ma non si poteva mai sapere. E la sua sorellina? Janine in quel momento era sotto interrogatorio, ma non era certo una che aveva la lingua lunga. In ogni caso neanche lei sapeva molto, e comunque niente di compromettente per lui. Lucas non era così stupido da parlarne con la sorella. Janine obbediva, punto e basta. Per qualche minuto l'uomo nella macchina si sentì inquieto. Sentiva puzza di bruciato. E se tra quei poliziotti ci fosse stato qualcuno capace di pensare? Avrebbero potuto capire. E allora avrebbero saputo dove cercare. Tu li stai sopravvalutando, vecchio mio! In ogni caso, aveva previsto un piccolo avvertimento per frenare il loro ardore. Nelle conferenze stampa avevano detto che tutta l'indagine era nata dalla perspicacia della detective O'Donnel. Quindi sapeva a chi rivolgersi... Fece il vuoto nella mente per concentrarsi. L'ora era vicina. Si chinò per vedere meglio tutta la casa. Era immersa nell'oscurità da almeno due ore. La luce dei vicini si era spenta una mezz'ora dopo. Era tutto calmo. Lo aspettavano. Infilò i guanti, si mise lo zaino in spalla e uscì nella notte. A ogni passo che lo avvicinava alla casa, l'eccitazione si impadroniva di lui a ondate successive, inebriandolo. Una volta aveva trovato la porta posteriore aperta; la donna che abitava quella casa non si era neppure data la pena di mettere il catenaccio. Era stato un gioco da ragazzi. Un'altra volta aveva progettato di rapire un ragazzino quando sarebbe uscito per andare al cinema con gli amici, come ogni sabato, ma dopo aver scoperto che la madre nascondeva la chiave di casa sotto una pietra, aveva cambiato i suoi piani. Era stato un piacere indicibile portarlo via in piena notte, mentre

dormiva accanto a lei. Penetrò in silenzio nel giardino. Se possibile, era meglio scegliere case dove non c'era un cane. Se no avvelenava l'animale prima di agire, un classico, anche se poteva dare adito a qualche sospetto. E lui preferiva colpire quando nessuno se lo aspettava. Non gli ci vollero più di due minuti per entrare nell'abitazione degli Springs. Pensò alle due ragazzine che vivevano lì e abbozzò un ghigno mentre mormorava: «Che buon odore di piccole gemme. Sicuro, piccole gemme di piacere...» Dalla gola gli sfuggì una risatina lasciva, subito soffocata. Attraversò il soggiorno con la torcia in pugno e salì passo dopo passo i gradini che portavano alle camere. Prima occuparsi della figlia maggiore, che aveva una stanza tutta per sé. A seguire, i genitori. Il bambino e la figlia minore potevano aspettare: a parte eventuali grida, non rappresentavano una minaccia. Era la notte tra giovedì e venerdì, e tutti i giovedì sera il padre di questa bella famigliola andava a giocare a squash con un collega. Tornava intorno alle ventidue, stanco morto. Quando il maschio di casa era addormentato e allo stremo delle forze, era il momento ideale. Se il predestinato praticava uno sport, lui faceva sempre in modo di colpirlo la sera, quando rientrava sfinito, meno vigile e lucido, svuotato di ogni energia. Ma, per il momento, la precedenza spettava alla puttanella. Inzuppò di cloroformio il cotone che aveva in mano. Era semplice e assolutamente efficace. Tanto più che era molto facile procurarsi del cloroformio. Nella peggiore delle ipotesi, se la polizia si metteva di mezzo, non lasciava nessuna traccia attraverso cui poter risalire a lui. Bisognava pensare anche a questo. Con l'altra mano si assicurò di avere pronto il nastro adesivo, il coltello in caso di necessità e una bomboletta lacrimogena. Spinse la porta della camera ed entrò in punta di piedi. Dannazione, che momenti! La tenda alla finestra non era tirata, e il chiarore notturno penetrava nella stanza. Ogni battito cardiaco imprimeva al suo corpo un sussulto quasi gioioso. Lottava per controllare la respirazione, temendo di fare troppo rumore con l'aria che gli entrava e usciva dai polmoni. Un passo avanti sulla moquette. Poi un altro. L'ombra si avvicinò al letto. La troietta si chiamava Laurie. Aveva diciassette anni e ne combinava di tutti i colori. Una volta, seguendola, l'aveva vista fare un pompino al suo amichetto, nella macchina di lui. Però non si lasciava toccare la micina: era una che sapeva come farsi desiderare

da un uomo. Le avrebbe... Si bloccò. Il letto era vuoto. Merda! Si voltò di scatto, spaventato all'idea che lei lo avesse sentito salire e si fosse nascosta dietro la porta. Niente. Da nessuna parte. Non c'era. Osservando più da vicino si accorse che la finestra che dava sul tetto della veranda non era chiusa perfettamente. Era stata lasciata una minuscola fessura, sotto. La troia! Se l'è squagliata proprio questa sera! E lui non l'aveva vista uscire. Se l'era filata dal retro, lontano dai suoi occhi. Le cose si complicavano. Doveva lasciar perdere tutto? Soppesò i pro e i contro. No, dopo tutte le energie spese, sarebbe stato un peccato. C'era ancora il resto della famiglia. E poi, chissà, avrebbe potuto essere una sfida avvincente in seguito... Il terzo sogghigno - un record per una sola notte - apparve sulle sue labbra. Un ghigno malvagio. L'ombra si avviò con passo deciso verso la stanza dei genitori. Salutando con un gesto languido la Camaro che si allontanava Laurie Springs fece un giro su se stessa e si trovò di fronte alla casa dei suoi genitori. Adesso l'operazione consisteva nel rientrare in casa senza mettere in subbuglio le truppe. Tim aveva il sonno piuttosto leggero. Se l'avesse sentita avrebbe spifferato tutto alla mamma. Con il piccolo marmocchio non c'era corruzione o minaccia che tenessero. Inspirò a fondo e passò sotto il portico, infilò la chiave nella serratura e, molto lentamente, la fece girare. Era il momento più delicato. Poi, dato che i gradini non scricchiolavano, sarebbe stata in camera sua in un batter d'occhio. Si chiuse la porta alle spalle, in silenzio, e vi si appoggiò contro buttando fuori l'aria. Era fatta. Doveva proprio andare all'università; là avrebbe potuto fare quello che le pareva. La storia con Kev stava diventando sempre più difficile. Adesso lui voleva una notte intera con lei. Si sfilò le scarpe e salì le scale tenendole saldamente in mano. La porta della stanza dei suoi era socchiusa. Vi scivolò davanti, affrettandosi in direzione del suo rifugio. La finestra della sua stanza proiettava sulla moquette un bagliore notturno, come un lungo solco lattiginoso. Di colpo, Laurie si fermò e lasciò cadere le scarpe. Nel tratto illuminato vide una grossa chiazza scura, vischiosa.

Restò lì senza sapere che fare, poi finì per inginocchiarsi. Sembra sangue... Non sei mica dentro un film dell'orrore di serie B. Smettila di delirare! Ma non poté impedirsi di immergere un dito nella macchia, toccandola appena, una smorfia di disgusto sul volto. Alzò l'indice nel chiarore azzurrino. Il liquido denso non era nero. È sangue! Represse a fatica un urlo. Niente panico! Di sicuro è Tim che ha fatto lo stupido e si è tagliato. Mamma non ha avuto il tempo di ripulire, ecco tutto... E quand'è che si è tagliato? Quando tutti dormivano, quando sei andata via? In piena notte? Si alzò, le gambe tremanti. Il corridoio in cui si trovava era immerso nelle tenebre, a parte il raggio di luna che filtrava dalla finestra della sua camera. Stava per entrarci, per rifugiarsi nel suo regno, quando si bloccò sul posto. La porta della sua stanza era spalancata. Ma lei si ricordava benissimo di averla chiusa prima di uscire, nel caso in cui... C'era qualcosa che non andava. C'era un problema, ne era sicura. Girò su se stessa, senza fare rumore, ma era talmente buio che non vedeva nulla nel corridoio. Era troppo lungo. Alt un attimo! Se è Tim che si è tagliato oggi, perché il sangue è tiepido? Stava per entrare nella camera dei suoi quando avvertì una presenza. Non era sola nel corridoio. C'era qualcuno, ne percepiva la vicinanza. Laurie deglutì, in preda alla paura, ed ebbe l'impressione che tutto il quartiere l'avesse sentita. Silenzio. Era un rumore sordo e sembrava provenire da qualcuno, e questo rumore lei lo captava perfettamente, era vicinissimo. «Mamma?» chiamò con una vocina strozzata dall'angoscia. «Tim, sei tu?» Non riusciva a dare abbastanza forza alle parole, che morivano appena oltrepassata la soglia delle sue labbra. Fece un passo indietro. Verso la luce, verso la sua camera. Verso il chiavistello della tua cazzo di porta! Di colpo lo sentì, come se lacerasse l'atmosfera. Un respiro. Pesante. No! Eccitato! Eccitato per il piacere! urlò un allarme nella mente della ragazza. Laurie fece un dietro-front. Istantaneo.

Strappò le fibre sintetiche della moquette proiettandosi in avanti con tutte le forze. Tutto il suo corpo si distese in un solo movimento. Correva, i muscoli tesi, come se fossero sul punto di spezzarsi. Il busto oltrepassò il riquadro della porta. Poi le gambe. La sua mano già frustava l'aria alla ricerca della maniglia. Sentì la plastica sotto le dita, ci si aggrappò con tutta la forza possibile e si gettò nel senso opposto, contro la porta, per chiuderla. La sua testa esplose, miriadi di scintille la accecarono. Un fiotto di sangue le schizzò dal naso, un incisivo si spezzò di netto per la forza del colpo. Le tenebre si erano scagliate contro la porta nel medesimo istante, con una potenza e una massa ben maggiori delle sue. Laurie cadde all'indietro, mentre un getto di saliva e di sangue le annegava in gola il grido che stava salendo. D'improvviso si sentiva come se il cuore le fosse schizzato in testa, pulsando contro le pareti del cranio, e una vampata di calore le avvolse il viso lasciandola stordita. Cercò di alzarsi, appoggiandosi sui gomiti. Un attimo dopo ricevette un colpo di inaudita violenza proprio sul naso. La brutalità dell'impatto le svuotò tutta l'aria dal petto, soffocando l'urlo ancora una volta, lasciandolo come sospeso nel nulla. Un liquido schifoso le piovve addosso: le stavano spruzzando acido sugli occhi, sulle guance, in bocca, sentiva la pelle e le mucose fondersi. Ebbe uno spasmo violentissimo e il suo sterno si sollevò un'ultima volta. Laurie sentì che era la fine. Cercò di ritrovare la calma. Il respiro si era fatto troppo affannoso. Le mani erano così contratte che le dita gli facevano male. L'eccitazione gli faceva spesso questo effetto. Si era accorto che, dopo l'azione, numerose piccole venuzze rosse gli scoppiavano dietro le orecchie, a volte anche negli occhi. Depose il tampone al cloroformio accanto alla bomboletta lacrimogena e al manico di scopa di cui si era servito per colpire la ragazza. Si chinò sul volto di lei, un po' preoccupato. Un miscuglio di liquido lacrimogeno e sangue. Era conciata male. Scostò i lembi della giacca e tirò su il pullover e la t-shirt di Laurie. Il suo ventre era piatto, la pelle serica, liscia e dolce. Una vera delizia da toccare. Con questa qua si sarebbe divertito un po', prima. Le cercò il polso. Al risveglio avrebbe sentito male, ma la sua vita non era in pericolo; le ferite non erano letali. L'aveva soltanto sfigurata.

Si alzò e sistemò gli attrezzi nello zaino. Meglio non perdere altro tempo. Doveva ancora portare la macchina accanto alla casa, caricarci tutta la famiglia bene avvolta nel nastro adesivo e rientrare. E soprattutto, il giorno dopo, doveva essere in piena forma sul lavoro, per salvare le apparenze. Era importante. Più che importante. Era vitale. 32 Con l'arrivo dei rinforzi, ora la squadra investigativa poteva contare su dodici detective per l'indagine sulla «setta di Caliban», come avevano ormai deciso di chiamarla. Jack Thayer capeggiava tutti quanti, sotto lo sguardo ansioso del capitano Woodbine. Bo Attwel e Fabrizio Collins continuavano a raccogliere dati sulle vittime, aiutati da due detective, mentre i nuovi venuti, agenti in completo grigio distaccati direttamente dall'ufficio del sindaco, si occupavano dei testimoni: Julia Claudio, che era sfuggita alle grinfie di Spencer Lynch, e Janine Shapiro. Quanto a quest'ultima, le cose non si presentavano affatto bene. Continuava a rifugiarsi nel più assoluto mutismo, non rispondendo alle domande se non con rari cenni del capo. Quel venerdì mattina Annabel arrivò alle sette e trovò Thayer nel «sarcofago», già indaffarato a mettere ordine nei suoi appunti. «Oggi abbiamo in programma un giretto nel New Jersey», le disse, senza alzare la testa dalle sue carte. «Avremmo dovuto occuparcene già da un po'.» «E Lucas Shapiro, non è una priorità?» «Una squadra ci sta già lavorando: frugano la casa e controllano tutto ciò che trovano. La guida Brett Cahill. Se mettono le mani su qualcosa di importante ci avvertono immediatamente. Noi andiamo a Boonton, per seguire le tracce di questa cartolina.» Le sventolò sotto il naso la cartolina sulla quale Bob aveva scritto il piccolo enigma destinato a Spencer Lynch. «Poi andremo a trovare mister John Wilkes, il tipo che non risponde al telefono. Lo sceriffo di Clinton l'ha avvisato del nostro arrivo.» «E l'altro, quello che se n'era andato in vacanza in Canada, sei riuscito a raggiungerlo?» Thayer alzò le sopracciglia. «Anche l'altro Wilkes è un bell'elemento. Tutt'altro che simpatico, e co-

munque non ha nessun J.C. tra il parentado.» «Jack...» Il tono di Annabel era abbastanza grave da indurlo a interrompersi di colpo e alzare gli occhi per guardarla in faccia. Lei non era sicura di quel che voleva dire, come una bambina che teme di essere rimproverata. Aveva dormito poco, e a dire il vero anche male, pensando a quel che aveva fatto, alla fuga dalla casa di Shapiro. Le parole dettate dal senso di colpa erano lì, sulla punta delle labbra, pronte a liberarla dal peso che la opprimeva. Gli occhi grigi del suo amico erano fissi su di lei. «Che c'è?» Jack girò intorno alla scrivania per andare ad appoggiarle una mano sul braccio. «Che ti succede, Anna?» Le frasi che aveva rimuginato tutta la notte le pendevano dalle labbra, sempre più pesanti, premevano sulla sua bocca, pronte a diventare reali e a prendere il volo per trasformarsi da fonte di dolore in sorgente di sollievo. Scosse il capo. «Niente, è la stanchezza. Sto bene.» Ingoiò l'amarezza, non poteva permettersi di confessare: lui era suo amico, ma era anche un poliziotto. Si ficcò le unghie nei palmi e cambiò discorso, abbozzando un sorriso stanco. Bloccata dietro un autoarticolato, la vettura guidata da Jack Thayer superò Jersey City in direzione di Newark. Accanto a lui, Annabel leggeva il giornale. La loro prima destinazione era Boonton, poi li aspettava Clinton, per incontrare il John Wilkes del New Jersey, anche se erano fuori dalla loro giurisdizione. Non c'era nulla di ufficiale in quel passo, intendevano solo fare qualche domanda per cercare di mandare avanti l'indagine. Avevano pensato che non valeva la pena di scomodare la polizia di Stato per così poco. Sarebbe stato un viaggetto rapido, in cerca di un paio di risposte, nella magra speranza che quel Wilkes avesse tra i suoi parenti un J.C. Oltrepassarono zone paludose, vari insediamenti industriali e cittadine anonime e tristi in riva all'Hudson. Mentre attraversavano Manhattan e poi l'Holland Tunnel, Annabel aveva confidato a Thayer di aver trascorso la serata con Joshua Brolin, l'investigatore privato. Lui non aveva fatto alcun commento, si era limitato ad ascoltare. Lei gli aveva descritto tutte le deduzioni del detective, e soprattutto quello che lasciavano presagire: l'aggressione a un'intera famiglia. Thayer era rimasto in silenzio. Che trovasse quel ragionamento tirato per

i capelli o del tutto sensato, che ci poteva fare? Mettere sotto sorveglianza tutte le famiglie della parte settentrionale della costa orientale? Le miglia seguenti scivolarono via senza che un solo suono venisse a disturbare il brontolio del motore. Più tardi la conversazione riprese, concentrandosi in prevalenza su Brett Cahill. Annabel lo trovava simpatico, dinamico, moderno (termine che in bocca a lei non suonava proprio come un complimento), e anche piuttosto attraente. Thayer lo vedeva invece come un giovane lupo, abbastanza intelligente per nascondere la sua spietata ambizione dietro un'aria da bravo ragazzo ben educato. Conclusero che nessuno di loro, per il momento, l'aveva frequentato a sufficienza. Lasciandosi alle spalle Newark e il suo andirivieni di aerei presero la I280; ben presto non rimase che l'autoradio a combattere il silenzio. Su entrambi i lati della strada una tetra periferia industriale, una distesa di caseprigione ribattezzata eufemisticamente città-dormitorio. La tappa a Boonton si rivelò assai deludente. La cartolina era in vendita in parecchi negozi della città, inoltre era possibile trovarla in diversi musei un po' in tutto lo Stato. Rappresentava una veduta di Boonton un secolo addietro, con il canale Morris, una struttura un tempo celebre ma ormai scomparsa, che attraversava il New Jersey da Phillipsburg fino a Jersey City. Non se ne vendevano più tante, ma in ogni caso ne esisteva ancora una discreta scorta. Ovviamente, nessuno si ricordava di nulla, né tanto meno di un cliente in particolare. Annabel e Thayer insistettero tutta la mattina senza successo. Bob poteva averla acquistata ovunque e in qualunque momento. Mangiarono in fretta un panino e ripresero la strada in direzione sud, delusi. Il paesaggio si trasformò, lasciando il posto a campi vuoti. Di tanto in tanto, dietro una curva appariva un boschetto, ora di sempreverdi rigogliosi, ora di piante caduche tristi e spoglie. Via via che si addentravano nel New Jersey sui bordi della strada apparivano chiazze di neve che costellavano il paesaggio di pennellate parsimoniose, come nubi arruffate adagiate al suolo. Lasciarono la strada principale per avvicinarsi alla loro destinazione: Clinton. La città era ripiegata su se stessa come una marmotta in letargo, in attesa del sole per mettere di nuovo in mostra la sua grazia e il suo fascino. Thayer si fermò due volte a chiedere la strada prima di trovare un vialetto fangoso che conduceva a due abitazioni un po' fuori città, ai piedi di una collina boscosa.

Parcheggiò l'auto sul ciglio della strada e scesero, avvertendo il freddo di un'aria più pungente rispetto a quella cui erano abituati. Annabel costeggiò una palizzata in legno che, al pari della casa, aveva subito più di un inverno e perso gran parte del proprio smalto. Nel giardino dall'erba incolta un'altalena arrugginiva cigolando nel vento. «La casa è questa», disse Thayer. «Ne ero sicura. È sempre quella dove c'è meno vita», ribatté lei con una punta di ironia. Non trovando alcun campanello, varcarono il cancelletto e salirono sulla veranda per bussare alla porta. Un cane abbaiò all'interno e la porta si aprì su un omone dai capelli bianchi. Anche se stava curvo, era alto almeno un metro e novanta. Le guance flosce penzolavano alle due estremità di una bocca sottile. Gli occhi azzurri e vivaci fissavano i due poliziotti. «Posso aiutarvi?» Thayer mostrò il suo distintivo. «John Wilkes?» «Sì», rispose il vecchio, un po' inquieto. «Sono il detective Thayer e lei è il detective O'Donnel. Gradiremmo farle alcune domande. A titolo amichevole, non c'è nulla di ufficiale e niente la obbliga a rispondere. Per noi è molto importante.» «Non siete di Clinton. Da dove venite?» chiese il vecchio gigante, senza muoversi dall'ingresso. «Da New York.» «Ah.» Era uno di quegli «ah» che la dicono lunga, un «ah» prodotto da una sfilza di esperienze deludenti e di seccature, un «ah» che non incoraggiava a proseguire. «Siete voi che avete chiamato, eh?» riprese. «Lo sceriffo è venuto a dirmelo, che sareste passati. Non rispondo mai al telefono, quando lavoro ai miei modellini. Mi deconcentra.» «Stiamo indagando sulla scomparsa di numerose persone, signor Wilkes», intervenne Annabel. «Tra loro ci sono anche alcuni bambini. Se accettasse gentilmente di rispondere alle nostre domande, ci sarebbe di grande aiuto. Ci vorranno solo pochi minuti.» Il vecchio, sguardo penetrante e capelli arruffati, li scrutò a lungo. Alla fine, indicandoli con un dito smisurato, chiese: «Non avete altri vestiti?» Thayer portava uno dei suoi soliti completi di cotone, stropicciato ma pulito, mentre Annabel era in jeans e maglione a collo alto sotto il bomber.

Si guardarono, dubbiosi, prima di scuotere il capo negativamente. «Pazienza, peggio per voi. Risponderò volentieri alle vostre domande, ma è l'ora di portare a passeggio il cane, e lui non capirebbe perché non si va, polizia o non polizia. Aspettatemi qui un momento.» Riapparve con indosso una giacca a vento gialla e un berretto Texaco rosso dall'aria vissuta in testa. Dietro di lui, un labrador biondo. «Andiamo Norb, sul sentiero!» Il cane sgattaiolò tra le loro gambe e cominciò il suo giro, annusando a destra e a manca. John Wilkes gli andò dietro senza indugi. «In principio è un po' nervoso, allora trotta un po'. Poi si dà una calmata, non vi preoccupate.» Percorsero il vialetto a passo di carica; in lontananza il rombo di una moto, proveniente dai boschi, lacerò l'aria silenziosa. «Ha già visto quest'uomo, signor Wilkes?» gli chiese Annabel, mostrandogli una foto di Spencer Lynch che aveva estratto da una tasca del giaccone. Il vecchio, che aveva il collo costellato di macchie dovute all'età, scosse il capo. «Mai visto. Ha fatto qualcosa di male?» «Sì, direi proprio di sì. Lei vive qui da molto?» Annabel stava cercando di creare un legame di fiducia che fosse propizio alla sincerità, di intessere un'intimità fittizia. «Da molto prima che lei venisse al mondo, signorina. Sono arrivato a Clinton nel 1952, dopo il matrimonio. Avevo la pompa di benzina all'ingresso della città. Non quella che si vede adesso, la mia era più vicina al centro, ma con gli anni Clinton si è ingrandita, ci si è dovuti adattare.» Il labrador girò il muso per guardarli ancora una volta, poi si infilò nel bosco da cui proveniva il ronzio di un motore che accelerava, di certo qualcuno che faceva motocross. Wilkes aveva tutte le caratteristiche del solitario di lunga data, secondo Annabel; non avrebbe saputo spiegarne il perché, ma ne era certa. In ogni caso, evitò qualsiasi riferimento all'esistenza di una moglie. «Quindi non è di queste parti?» «Oh, no! Sono nato in Arkansas e cresciuto in Georgia.» Scrutò la giovane poliziotta e un sorriso sarcastico gli affiorò sulle labbra. «Due Stati pieni di bifolchi! Non si può certo dire che io sia un cittadino, nell'anima!» Annabel si chiese cosa intendesse dire, se rideva di se stesso o se invece era di loro, i due newyorchesi, che si prendeva gioco.

Il terzetto seguì il cane fino in fondo alla stradina, al limitare della foresta, poi imboccò un sentiero scivoloso. I due detective compresero presto perché Wilkes si era preoccupato per i loro vestiti. Quando furono ricoperti di fango fino alle ginocchia, l'atmosfera si sciolse grazie alle risate di Annabel. Da uomo galante, Wilkes l'aiutò più volte a superare gli ostacoli più difficili. Lei ne approfittò per chiedergli: «Per caso, nella sua famiglia c'è qualcuno con le iniziali J.C.?» L'uomo rifletté per qualche istante, prima di scuotere la testa con aria sincera. «No, credo di no. È da un po' che mi state facendo domande personali, come se fossi un sospetto. Ho letto qualche romanzo poliziesco, Hammett, Chandler, conosco questi trucchetti. Ma voi siete maledettamente amichevoli, quindi perché non veniamo al dunque? Posso sapere che cosa c'entro io?» Erano ai piedi di una collinetta, sulla cui sommità videro sfrecciare una moto con alte ruote dentellate guidata da un pilota celato dietro un casco da gara. Quando il veicolo si fu allontanato rombando, Thayer cominciò a spiegare il perché della loro presenza: «Ebbene, come le stavamo dicendo prima, indaghiamo su una serie di sparizioni; di rapimenti, per essere più precisi. Uno dei rapitori è stato catturato di recente, ma il suo capo è ancora a piede libero.» Preferiva riassumere la situazione in questo modo, senza entrare nei dettagli autentici, semplificando. Proseguì: «E questo capo si è lasciato dietro un enigma, per trovare qualcuno, o qualcosa, non lo sappiamo. È a questo punto che entra in gioco lei». «Io?» Annabel appoggiò la mano sul braccio del vecchio, che nonostante gli anni conservava un'ottima forma fisica, come provava la sua andatura. «Le mostrerò una cosa», gli disse. «Ma voglio la sua parola che terrà tutto quanto per sé, è...» «Molto importante, ho capito. Allora, me lo fa vedere questo enigma?» Annabel gli diede un foglio di carta su cui era stato copiato il testo originale. Wilkes pescò un paio di occhiali dalle lenti rettangolari in una tasca, lo lesse e poi lo lesse una seconda volta, rallentando il passo. «... nella famiglia di John Wilkes troverai JC 115. Un piccolo indizio: questa famiglia...» «... questa famiglia ha portato sulla schiena le viscere della terra! Essa

vive sopra il Delaware...» recitò a memoria Annabel. «È per questo che abbiamo pensato agli Stati di Pennsylvania e New Jersey, a causa di tutti gli insediamenti minerari che ancora ci sono. Poi, l'accenno al suo nome ci ha condotti qui. Allora glielo chiedo di nuovo, signor Wilkes, e ci pensi bene prima di rispondere: c'è per caso nella sua famiglia qualcuno con le iniziali J.C.?» Il vecchio si fermò e portò una mano alla fronte senza staccare gli occhi dal foglio. «Sembra uno di quei giochi idioti che fanno alla televisione», commentò. Le sue labbra mormorarono qualcosa rivolto solo a se stesso. Il suo sguardo vagava tra gli alberi mentre frugava nella memoria. «Ne avete già parlato con qualcuno del posto?» volle sapere. «No. Pensa che qualcuno sarebbe in grado di aiutarci? Qualcuno della sua famiglia?» insistette Annabel, che continuava a pensare a quel J.C. Wilkes fischiò tre volte per richiamare il labrador. Porse il foglio alla detective. «No. E comunque non ha importanza. Non credo che dobbiate cercare una persona.» Ebbe un momento di esitazione. «Credo che dobbiate cercare un treno.» I due poliziotti lo guardarono. «Chi ha scritto questo indovinello è furbo», proseguì il vecchio. «Nella famiglia di John Wilkes troverai... John Wilkes è il nome di un treno che passava nel New Jersey. State a sentire, a parte qualche romanzo non ne so granché di indagini di polizia, ma non penso che un tipo che rapisce la gente faccia un enigma così contorto, e di John Wilkes come me ce ne sono a palate, mentre di treni che portano questo nome ce n'è soltanto uno. Tutti quelli di questo Stato che hanno la mia età lo conoscono.» A Thayer sfuggì un sorriso ironico. Dovevano prendere lezioni sulla loro indagine da questo vecchio galantuomo! Ma in quello che diceva c'era molto buon senso. «E questo J.C. 115 le dice qualcosa?» gli chiese Annabel. «No, ma se davvero si tratta di un treno, io non me ne intendo molto. Però c'è un tale con cui di tanto in tanto gioco a scacchi che è appassionato di treni, in particolare di storia ferroviaria del New Jersey. Abita qui in città, non so dove, ma immagino che Ron, del circolo dei giochi, potrà esserci utile.» Questa volta Jack Thayer scoppiò in una sonora risata. Una logica a pro-

va di bomba e per di più un giocatore di scacchi! Questo Wilkes non finiva di stupirlo. Il vecchio fischiò ancora una volta al cane. «Vieni, Norb, si torna a casa. Abbiamo del lavoro da fare.» 33 I lembi della giacca di pelle ondeggiavano, mossi dal vento freddo. Nessuno sembrava vederlo camminare sul marciapiede, infagottato nella lana pesante del suo maglione beige. Brolin scivolava furtivo da una strada all'altra. Avrebbe potuto essere chiunque, ma nessuno avrebbe pensato a un detective privato, per giunta ex profiler, con quei jeans consunti fino alla trama e i capelli che gli ricadevano sul volto come lacrime d'inchiostro. Aveva trascorso la mattinata a fare il suo lavoro di investigatore, esplorando la pista scoperta a casa di Lucas Shapiro, quella del tempio di Caliban e di quel tale I.dW., 451 Bond St., che Lucas aveva incontrato il 20 novembre. L'indicazione dell'agenda era chiara: «Discreto, niente domande se contanti». Stando alla nota trovata a casa sua, Shapiro e i suoi compari avevano pagato 3000 dollari per l'affitto di un locale, per sei mesi. Un locale che contavano di trasformare in un luogo di cerimonie. Fino a quel momento la connotazione esoterica o quanto meno spirituale dei delitti non era apparsa evidente, il tatuaggio rappresentava solo un elemento della firma; per contro la sparizione delle vittime senza il ritrovamento dei loro cadaveri era decisamente più inusuale. Il fatto che Shapiro avesse scritto TEMPIO su un foglio di carta apriva un varco inatteso. Neanche poi tanto, aveva concluso Brolin riflettendoci. Un tempio in onore di Caliban, questa specie di emblema che si sono scelti. Sapeva che scoprire l'origine di questo termine, Caliban, stava diventando sempre più importante. Probabilmente non l'avevano inventato, era tratto da qualcosa, un riferimento a qualcosa di specifico. Caliban dominus noster. In nobis vita... Nel giro di qualche ora Brolin aveva raccolto abbastanza informazioni su I.dW. - Ivan deWilde - per avere la certezza che quest'ultimo non era che un intermediario. Affittava magazzini a basso costo in alcuni quartieri industriali di Brooklyn e del Queens, un certo numero dei quali a produttori di film porno. DeWilde cercava gente in grado di pagarlo senza fare storie, se possibile in contanti, in modo da permettergli di sfuggire al fisco. Non era al corrente di nulla.

L'indirizzo indicato corrispondeva a un vecchio deposito scalcinato, che di certo non rispettava alcuna norma di sicurezza e quindi non poteva essere affittato ufficialmente, in una zona alquanto desolata di Red Hook. L'ideale per Bob e la sua banda. Nel primo pomeriggio Brolin decise di andarci, almeno per farsi un'idea dell'ambiente e magari per dare una rapida occhiata. Dalla mappa risultava che l'edificio era l'ultimo di Bond Street, in fondo a un vicolo cieco che dava sul canale Gowanus. Brolin non ignorava certo le voci che correvano su quella zona, e cioè che fosse il cimitero della mafia dove un buon numero di seccatori, con i piedi zavorrati dal cemento, finivano in pasto ai pesci del canale. Iniziava il ventunesimo secolo, ma Red Hook continuava ad avere una reputazione tutt'altro che impeccabile. Brolin scese dalla metropolitana in Carroll Street e cominciò ad addentrarsi nel silenzio che passo dopo passo si faceva sempre più pesante. Era una zona decisamente poco abitata di rimesse, fabbriche e sfilze di garage, con insegne su cui si alternavano l'inglese, l'italiano e il cinese. Il quartiere era composto da fabbricati bassi, dalle facciate tetre, come se niente qui avesse il diritto di diventare alto, neppure gli uomini. I rari passanti erano per la maggior parte individui dal volto chiuso, che camminavano guardandosi i piedi; di tanto in tanto un adolescente in motocicletta percorreva una via a tutta velocità. Nessun rumore di chiacchiere, solo il sospiro di una pressa idraulica in lontananza o il lamento di una gru. Una decina di minuti più tardi, Brolin svoltò in Bond Street. Uno sfasciacarrozze fiancheggiava il canale, la cui superficie color marmo rifletteva il grigio del cielo. Fece un giro su se stesso; a nord scorse un enorme camino dipinto di bianco, rosso e verde, i colori dell'Italia, il che gli fece venire in mente Dante. Il poeta, per una volta, e non l'assassino. Più in là, la scura geometria dei palazzi di un quartiere periferico deturpava il paesaggio con la brutalità di un ostracismo imposto dalla società. Arrivò in fondo alla via: un budello cieco e malsano con i marciapiedi stretti ingombri di pallet lasciati a marcire e di cartacce unte. Il numero 451 corrispondeva a un cumulo di mattoni rossi che con qualche difficoltà raggiungeva un'altezza di tre piani, con le finestre chiuse da avvolgibili decorati da «affreschi» urbani. Le due rampe di carico del magazzino non servivano più al loro scopo dai tempi della guerra in Vietnam, e ora scomparivano sotto cumuli di abiti stracciati e scatoloni sventrati, con tutte le pareti coperte di graffiti. Come a sottolineare ancora di più l'evidente stato di abbandono, la carcassa di un'auto giaceva contro una delle rampe, il co-

fano spalancato, le ruote senza pneumatici e le portiere coperte di scritte oscene. Di fronte, in un deposito di prefabbricati, quattro tizi taciturni disposti in fila, uno dietro l'altro, stavano scaricando mercanzie da due autoarticolati. Somigliavano già a una folla rispetto agli incontri fatti da Brolin da quando si era addentrato a Red Hook. Di notte, la zona doveva essere completamente deserta, tranne qualche personaggio che forse era meglio non incontrare. L'investigatore continuò a osservare il magazzino. Shapiro e Bob c'erano venuti e vi avevano installato quello che avevano previsto, ovvero il tempio? Impossibile stabilirlo da fuori. Dopo l'arresto di Lynch seguito dalla morte recentissima di Shapiro, Bob aveva certamente preso il largo da questo posto, e metterlo sotto sorveglianza non sarebbe servito a nulla. E comunque la polizia non avrebbe tardato ad arrivarci. Brolin fece qualche passo indietro, percorrendo gli ultimi metri di asfalto. Bond Street terminava con uno steccato cadente seguito da una discarica larga un metro, per finire con un primo piano sul Gowanus e le sue acque mefitiche. Il detective tirò fuori un pacchetto di sigarette. Si sedette sullo steccato e lasciò vagare lo sguardo. In lontananza, a sud, la metropolitana sopraelevata correva lungo un filo di cemento, come un funambolo dei tempi moderni. Appena più in alto - a meno che non si trattasse di un effetto ottico dovuto alla distanza - la Brooklyn-Queens Express dominava Red Hook e l'insenatura di Gowanus, lasciando intravedere le macchie incerte del corteo di veicoli che procedeva come sempre a passo di lumaca. Brolin esalò il fumo venefico. Ai suoi piedi una bicicletta interamente scarnificata, a cui era rimasto solo il telaio, pendeva dalla sua catena antifurto. Brolin osservò con occhio ironico il cilindretto di tabacco che teneva tra le dita. Un tempo, in un'altra vita, aveva smesso. Un sogno lontano, dalle immagini sfocate, petali di rosa e zaffiri lucenti. O piuttosto un incubo avvolto nella nebbia; sì, era così: un sorriso rosso sangue. Buttò la sigaretta in un bidone di plastica e riportò l'attenzione sul magazzino. Due degli scaricatori si apostrofavano scambiandosi insulti amichevoli. Il detective fissava il muro senza vederlo. Aveva letto tutti i dossier della polizia sul caso, su tutto quello che era stato scoperto. Le foto, le vittime che non si trovavano più nemmeno a due anni di distanza, i tatuaggi, la preghiera in latino a Caliban. Un'idea si era insinuata in lui quella mattina, quando si era svegliato. Un'idea a dir poco sgradevole. E se avesse visto

giusto? Se la teoria che aveva messo insieme fosse stata quella buona, per quanto falle potesse sembrare? Per prima cosa doveva introdursi nell'edificio, in seguito avrebbe avuto tutto il tempo di pensarci sopra. Inutile parlarne con Annabel, per il momento. Se si fosse sbagliato, l'avrebbe messa in allarme per nulla. La priorità spettava al tempio. Che cos'è che fai, Bob? A che gioco stai giocando? Perché così tanti rapimenti e così pochi cadaveri? E perché un tempio? Per pregare Caliban? Lanciò un'occhiata ai quattro uomini al lavoro, a una ventina di metri da lui. Era rischioso commettere un'effrazione per entrare; da dove si trovavano avrebbero potuto vederlo e chiamare la polizia. Meglio aspettare che facesse buio: al calare della notte il quartiere sarebbe stato deserto, senza testimoni. Allora avrebbe potuto mettere piede nella casa di Caliban. 34 Con un paio di telefonate John Wilkes localizzò il suo compagno di scacchi, Arnold McGarth, e lo avvertì del loro arrivo. Wilkes salì in macchina con i due detective, dopo aver insistito per portare anche il cane. Ritornarono in città, dove McGarth possedeva una casa in riva al fiume, accanto al mulino rosso di Clinton. Per strada, Wilkes aveva spiegato loro che il suo amico lavorava in proprio come commercialista, quindi era spesso a casa, dove Internet gli faceva da ufficio. McGarth era di corporatura media, con le spalle larghe e un cranio lucido al centro di una corona di capelli color nocciola. Dimostrava sui quarantacinque anni e aveva il volto e il ventre un po' appesantiti dal tempo. Portava calzoni di velluto sotto una camicia a quadri e non si rasava da almeno due giorni. Li fece accomodare nel caldo soffocante del soggiorno, dove un bel fuoco ardeva nel caminetto. La stanza era arredata con buon gusto; una collezione di ninnoli in vetro sulle mensole e una quantità di foto di famiglia confermarono ad Annabel che McGarth non viveva da solo. Il giocatore di scacchi chiese se volevano un caffè, senza manifestare la minima curiosità nei confronti dei due poliziotti. Wilkes lo aveva avvertito per telefono che stavano seguendo un'indagine importante e avevano bisogno del suo aiuto. McGarth non aveva fatto alcun commento, limitandosi a invitarli a raggiungerlo. Quando tornò dalla cucina con le tazze su un vassoio, spense lo stereo

che diffondeva musica di Schubert e chiese: «In cosa posso esservi utile? John mi ha accennato a un enigma, ma tanto vale che ve lo dica subito: non sono un granché, come giocatore. Gli scacchi per me sono solo un hobby, non una passione». «Gli scacchi non c'entrano nulla. In realtà sono le sue conoscenze in materia di treni che ci hanno portato qui», rispose Thayer, rifiutando con un gesto la tazza che gli veniva offerta. Annabel prese la parola per spiegargli a grandi linee la loro indagine e l'enigma per cui chiedevano il suo aiuto. John Wilkes la interruppe educatamente per esporre le proprie personali conclusioni, il che divertì due investigatori: il vecchio si era immedesimato nel gioco. «Hai proprio ragione», concordò McGarth. «Il John Wilkes è un treno, o meglio lo era. Attraversava tutto il New Jersey, andando da New York a Pittstown in Pennsylvania, e ha smesso di circolare nel 1961, mi pare, nel periodo in cui il traffico ferroviario era in pieno declino. Aspettate un attimo.» Si alzò e sparì nel corridoio, per ritornare con un libro e un raccoglitore. Consultò entrambi, un libro sull'argomento e i suoi appunti personali, per esclamare alla fine: «Sì, è giusto, in servizio dal 1939 al 3 febbraio 1961. La locomotiva era una Pacific K-5B, a vapore, ovviamente, che trainava carrozze Pullman. Materiale di qualità. Altroché! Un vero gioiello, quelle carrozze. Numerate 2101 e 2102. Ho un mucchio di materiale su di loro». «E la sigla JC 115, le dice qualcosa? Potrebbe essere gergo tecnico ferroviario?» gli chiese Thayer. McGarth esitò un attimo. «Certo che sì. Sulle cabine di manovra, sui vecchi serbatoi dell'acqua, sui locali tecnici, insomma dove si poteva, si scrivevano le iniziali della città di destinazione principale, o della città dove la linea si congiungeva a un'altra, seguite dal numero di chilometri mancanti da quel punto. Nel New Jersey, JC corrisponde a Jersey City. Fatemi vedere questo enigma...» McGarth prese il foglio e lo lesse ad alta voce: «...Un piccolo indizio: questa famiglia ha portato sulla schiena le viscere della terra! Essa vive sopra il Delaware...» Scosse il capo, poi cominciò a spiegare, con il tono di chi ha in mano la soluzione: «Per le viscere della terra, suppongo che si riferisca alle miniere, il che è del tutto logico: dalla fine del diciannovesimo secolo sino agli anni Cinquanta c'erano molte linee ferroviarie utilizzate esclusivamente per trasportare il carbone e il carbon fossile. La maggior parte erano con-

centrate nel nord-ovest dello Stato, ma sono state tutte smantellate, abbandonate o acquistate da N.J. Transit, Amtrack e Conrail per le loro reti.» Thayer e Annabel si guardarono. Trattenevano a fatica l'eccitazione. Se quel tipo aveva ragione - e fino a quel momento il ragionamento filava alla perfezione - stavano per fare un incredibile salto in avanti. In direzione di Bob. Una volta risvegliato l'appassionato che c'era in lui, McGarth sembrava inarrestabile: «Oggi non resta più granché dell'immensa rete ferroviaria del passato; la strada ferrata è caduta in disgrazia per molte cause, una delle quali, e non certo la minore in questa regione, è il frigorifero. Riuscite a immaginarvelo? D'un tratto New York non aveva più bisogno di far venire tonnellate di ghiaccio dai Poconos: tutti quanti lo trovavano a casa propria semplicemente aprendo lo sportello del frigo!» Thayer si protese in avanti sulla sedia per riportare la conversazione in tema: «Per tornare al nostro problema, se ho capito bene dobbiamo trovare una linea ferroviaria - che oggi forse non esiste più - che serviva al trasporto merci, e che passa esattamente a 115 chilometri da Jersey City», riassunse. «C'è un museo ferroviario in questo Stato?» La risposta di McGarth fu interrotta dal fruscio della porta d'ingresso. Una donna sulla quarantina entrò nella stanza reggendo una sporta con la spesa. Indossava un tailleur verde su una maglia di cachemire beige. Davanti a tutta quella gente nel suo soggiorno, aggrottò le sopracciglia abbozzando un cenno di saluto. «Questi signori sono della polizia, Marge», spiegò McGarth. Marge McGarth fissò lo sguardo su Thayer e impallidì. «Che è successo?» chiese ansiosa. «Nulla, cara, stai tranquilla, vogliono solo qualche informazione a proposito di treni.» Arnold McGarth la rassicurò con un gesto della mano, come a spazzare via ogni preoccupazione. Il viso tondo di Marge McGarth si rilassò e le sue labbra si piegarono in un sorriso. «Bene. Vi lascio soli, allora», fu il suo unico commento. Sospirò e si diresse in cucina. Il marito pareva imbarazzato dall'intrusione della moglie e si scusò con Thayer: «Mi spiace, è una persona molto emotiva. Sono sicuro che ha pensato subito che foste qui per annunciare chissà quale brutta notizia. Per tornare alla sua domanda, è inutile cercare un museo, possiedo parecchie

mappe». Ritornò nel suo ufficio per recuperare i preziosi rotoli e ne dispiegò uno sul tavolo da pranzo. «Vedete, questa, anche se a prima vista è un po' difficile da decifrare, raccoglie tutti i tracciati delle linee che sono esistite nel New Jersey. Dunque, abbiamo detto Jersey City...» Prese un righello e tracciò con qualche difficoltà una specie di cerchio per un raggio di 115 chilometri dalla città in questione. Poi seguì con le dita il percorso di diverse linee, alcune disegnate in rosso, altre in nero o in verde. «Credo che ci siamo», concluse picchiettando con l'indice su una linea disegnata in nero. «Questo colore indica le linee minerarie, e questa è la sola che passa esattamente a 115 chilometri da Jersey City; le altre sono linee passeggeri.» Il suo entusiasmo crebbe: «Si trova nelle Skylands, una regione di alta collina. E c'è di più: sovrasta il fiume Delaware. Sopra il Delaware: non dice così il vostro enigma? Che io sia impiccato se questo non è quello che state cercando!» Annabel notò che la moglie di McGarth stava vicino alla porta della cucina fingendosi indaffarata a sistemare la spesa, attenta a non perdere una parola di ciò che veniva detto nel soggiorno. La detective non se ne preoccupò più di tanto; sapeva che le indagini di polizia suscitano sempre una buona dose di curiosità indiscreta. Thayer pose una mano sul braccio di Arnold McGarth. «Se le capita di passare per Brooklyn, prossimamente, mi avverta: le dobbiamo un pranzo al ristorante. Annabel, avverti Woodbine che la polizia di Stato sia pronta a darci manforte, io chiamo lo sceriffo di...» Controllò sulla mappa. «... della contea di Montague, per avvisarlo del nostro arrivo.» McGarth aveva l'indice alzato, come uno scolaretto timido che chiede la parola. Dopo un attimo, Thayer lo notò e annuì rivolto verso di lui, incoraggiandolo a parlare. «Solo per dire che... Ecco, la linea di cui stiamo parlando è una linea abbandonata.» Lo sguardo di Thayer agganciò quello di Annabel. Stavano pensando la stessa cosa. Stavano sperando la stessa cosa. Di aver trovato il covo di Bob. Trascorsero i minuti successivi al telefono, fino a quando la situazione

non venne chiarita e non riuscirono a ottenere il via libera. Il capitano Woodbine avrebbe preso contatto con tutte le autorità competenti, in modo che si tenessero all'erta. Nel frattempo Thayer e Annabel sarebbero andati sul posto con lo sceriffo. Dovevano essere sicuri di non essersi lasciati ingannare, dopotutto c'era sempre una possibilità di errore. Se fosse emerso che avevano visto giusto, avevano ordine di non correre alcun rischio e aspettare i rinforzi. McGarth accettò senza esitare di consegnare ai detective la propria mappa. Sia lui sia Wilkes fornirono i propri recapiti con una certa fierezza, consapevoli del ruolo determinante che avevano appena svolto. Salutarono i due investigatori della metropoli, che partirono a tutta velocità verso la loro misteriosa destinazione, senza sapere cosa vi avrebbero trovato. Quando furono per strada - viaggiavano ben oltre i limiti di velocità - dal cielo cominciarono a piovere lacrime di neve, dapprima rare, poi senza più ritegno. Come se il cielo volesse impedire loro con ogni mezzo di raggiungere quel puntino segnato sulla mappa. Simile a una palla lanciata su un mare di cotone, la Ford si lanciò dentro la cortina opaca, i fari puntati verso l'ignoto. 35 La luminosità si era ridotta a zero, una tetra cappa di grigiore era calata su tutto lo Stato. Sembrava di essere nel pieno di un'eclissi solare. La Ford raggiunse Montague, all'estremità nord-ovest del New Jersey, in un'ora e mezza. Era una zona di colline e fitte foreste ai confini con la Pennsylvania. Lo sceriffo Sam Tuttle, avvertito dal capitano Woodbine del loro arrivo imminente e dello scopo della loro visita, li stava aspettando. Montague era una piccola comunità annidata tra due montagne coperte di boschi, un insieme di fabbricati dai tetti a punta, con poche strade e pochi negozi, tutti allineati sulla via principale. La neve conferiva alle rare insegne luminose un bagliore da fine del mondo. I pedoni si affrettavano verso il calore delle loro case, e solo qualche sporadica vettura era ancora in circolazione. Quando vide entrare nel suo ufficio Annabel e Thayer con le spalle e i capelli fradici, Sam Tuttle si affrettò a portare loro due tazze di caffè bollente. Si mostrò subito pronto a cooperare. Era un ometto prossimo alla cinquantina, la faccia tonda circondata dalla peluria grigia di una barba di tre giorni. Emanava gentilezza non meno che saggezza.

Rispondendo alla loro richiesta di un veicolo più adatto alle condizioni del tempo, li mise sull'avviso: «Non è una buona idea quella di mettersi in viaggio con tutta questa neve. Qui non bisogna fidarsi delle previsioni meteo: può smettere di nevicare tra due ore come tra due giorni. E se ci si trova sulle alture nel pieno della tormenta...» Inarcò le sopracciglia, mentre portava alle labbra la tazza che Thayer aveva rifiutato. «Questo non conta, dobbiamo andarci comunque», replicò Annabel. «Come sa, si tratta di un caso con priorità assoluta.» Tuttle sospirò, posando sulla donna lo sguardo di chi ha capito che non otterrà nulla insistendo. «Ho una Cherokee che ci permetterà di prendere anche i sentieri. Stando alla vostra mappa, dopo ci sarà un po' da camminare. Non so cosa speriate di trovare lassù, perché non c'è un accidente di niente e di nessuno. Magari una baracca o qualcosa del genere, ma non ci si può vivere in pieno inverno!» Annabel non riuscì a reprimere un brivido gelido pensando alle parole di Bob sulla cartolina diretta a Spencer Lynch. «... Adesso devi imparare a diventare come noi. Invisibile. Fai un passo avanti, mostrati astuto... questa famiglia ha portato sulla schiena le viscere della terra...» Pensò alla deduzione che ne aveva tratto Brolin: Bob stava per prendersela con una famiglia intera. Era possibile che l'avesse già fatto? Aveva il presentimento che fosse quella la famiglia che si apprestavano a scoprire. E se erano vivi, lassù da qualche parte, abbandonati in una capanna, alla mercé del primo venuto? Spencer Lynch adesso è all'ospedale, obiettò a se stessa. E allora? Vuoi assumerti il rischio di abbandonarli al freddo, se è vero che sono là? Supposizioni, nient'altro che supposizioni, si disse per rassicurarsi. «Comunque si porti un'arma», suggerì Thayer. «Non abbiamo la minima idea di ciò che ci aspetta là.» Lanciò un'occhiata ad Annabel. «Se ci rendiamo conto che c'è il minimo rischio, la polizia di Stato aspetta solo un nostro segnale per intervenire.» Lo sceriffo fece un gesto con la mano, che stava a significare «facciamo come volete voi», mentre chinava la testa per guardare fuori dalla finestra. Se c'erano problemi, non era affatto sicuro che i rinforzi potessero farcela ad arrivare in mezzo a quel nebbione. Soprattutto se si trovavano a Trenton, sede della polizia di Stato. Non ne era per niente sicuro. I lampeggiatori proiettavano lampi azzurri e rossi sulla neve che turbinava sempre più fitta. I cieli stavano sprofondando sulla terra attraverso

una ferita colossale, dove si riversava l'intero paradiso ridotto in cenere. Mentre i tergicristalli si affannavano a raschiare il parabrezza, Thayer contemplava la neve, cenere degli angeli che ricopriva il mondo. Ne apprezzava l'ironia, da appassionato di letteratura che nelle ore più difficili si compiaceva di affermare che aveva letto troppo per credere ancora in Dio. Dal suo comodo sedile si mise a comporre qualche verso, con il fantasma livido di John Milton che faceva capolino nel sorriso che gli increspava le labbra. Sulla Clove Road non incrociarono neppure un veicolo. Procedettero poi tra due ali di conifere e imboccarono la Old Mashipacong Road, salendo lungo il fianco della collina. Dovevano mantenere una velocità ridotta, soprattutto in curva, per evitare di slittare e finire nelle forre o contro gli alberi. Ci vollero tre quarti d'ora per raggiungere un punto a soli dodici chilometri da Montague. Quando la Cherokee si arrestò su una piazzola di sosta, fuori era così scuro che dovettero lasciare i fari accesi per riuscire a trovare l'imboccatura del sentiero. Il morso crudele del gelo li aggredì appena scesero dal fuoristrada. Tuttle si calcò in testa il berretto da sceriffo e distribuì ai compagni delle torce elettriche, poi prese con sé il suo fucile a pompa e, sotto lo sguardo di Thayer, tolse la sicura. Subito dopo, l'orco della foresta li inghiottì. Fin dai primi metri si sentirono come nudi sotto il ghiaccio sputato dal vento sulla loro pelle. I piedi si fecero di piombo, le dita doloranti. In pochi minuti le mani si trasformarono in appendici goffe, come riempite di neve ben pressata; quasi impossibile piegare i pollici. Di tanto in tanto sulla loro schiena scendeva un rivolo gelido, che strappava spiacevoli brividi. Presto si dimenticarono persino di avere delle orecchie e un naso che bruciava, mentre tutti i lineamenti del volto si irrigidivano. I rami stendevano le loro dita nodose fino ad aggrapparsi alle loro braccia, e alle gambe, come in una processione di mendicanti disperati. I tre attraversavano la vegetazione cupa usando i fasci luminosi delle torce come dei machete. Le fronde delle conifere formavano una tettoia protettrice contro la tempesta; il fianco della collina li aveva accolti sotto la coltre benevola del suo piumino mentre la bufera di neve riempiva il cielo con violenza. Il freddo tuttavia si stava intensificando. I rari fiocchi che superavano la cortina protettiva scendevano lievi come piume. La tempesta trasformava la luce artificiale in polvere d'oro. Sembrava di essere dentro una

fiaba. Una fiaba in cui - Annabel ne era ben consapevole - si aggirava un lupo, che anche in quel momento poteva benissimo essere nascosto da qualche parte e intento a spiarli. Nel bel mezzo di una curva in salita, dal suolo scaturiva una roccia, come una specie di dolmen o di totem di pietra: l'indice della terra puntato contro le stelle. Sam Tuttle vi si appoggiò e controllò la mappa di Thayer. Indicò le fitte tenebre dei boschi. «Se la croce che avete tracciato è giusta, dobbiamo lasciare il sentiero ora, altrimenti non ci possiamo arrivare. Ancora una volta, non credo sia una buona idea. Il tempo sta peggiorando.» Annabel gli mise una mano sulla spalla e lo gratificò con una smorfia amichevole: «Non abbiamo fatto tutta questa fatica per niente, perciò andiamo». Come lo sceriffo aveva predetto, il resto del cammino non fu affatto facile. Tra piante che pungevano e suolo scivoloso, ebbero la loro buona dose di scorticature e cadute dolorose. A ogni caduta era un po' di caldo che se ne andava e un po' di freddo in più che si insinuava. Scostando un ramo basso Tuttle scoprì all'improvviso un varco che si apriva nella vegetazione come una ferita, correndo ormai dimenticato lungo le Skylands per parecchi chilometri. Era uno scavo che in passato doveva essere largo quattro o cinque metri e che ormai era stato a poco a poco riassorbito. La foresta curava la ferita inferta dall'industria con germogli e piante in lenta ma costante crescita. Il vento si infilava in questo corridoio con la forza di un treno a tutta velocità. Annabel incassò la testa nel collo di pelo del giaccone e diede dei piccoli calci alla neve fino ad avere conferma che erano nel posto giusto quando liberò un tratto di binario scuro, coperto di ruggine. «Ci siamo quasi!» Thayer gridava per coprire il rumore del vento. «Ancora circa un chilometro in questa direzione.» Si avviò, il busto piegato in avanti. Tuttle teneva il fucile a pompa sulla spalla, calcandosi di continuo il cappello in testa per non farlo volare via. Mentre camminavano, Thayer si avvicinò alla sua partner e le batté sulla manica prima di gridare nella tempesta: «Lo senti l'urlo degli oracoli che ci respinge indietro? Cercano di impedirci di arrivare! Il respiro di Delfi arriva fino a noi, Anna! Dall'alto del suo tripode, la Pizia ci osserva!» La sua risata fu subito portata via da un turbine di vento. Annabel non condivideva il suo atteggiamento filosofico; lo conosceva abbastanza per sapere che la sua vena poetica era stimolata proprio da momenti come

quello, quando la tensione cresceva: lo aveva già sentito declamare versi là dove altri avrebbero iniziato a pregare. Questo era Thayer. Prima di quanto si aspettassero, di fianco alla via ferrata apparve una baracca di lamiera circondata da cumuli di neve. La costruzione era troppo piccola per servire da abitazione: bastava a malapena per riporre degli attrezzi. Via via che si avvicinavano, la tensione scioglieva le membra intorpidite dal freddo. Quando i caratteri dalla vernice scrostata apparvero sul lato della costruzione, Jack e Annabel seppero di trovarsi nel territorio del mostro. JC 114. Era impossibile non vederlo, il punto di riferimento per i macchinisti delle locomotive a vapore, dei ferrovieri che lavoravano alla manutenzione della linea: leggendo quel geroglifico ferroviario, sapevano dove si trovavano e dove portava quella linea. «Ci siamo. È là, davanti a noi, ormai manca poco», commentò cupamente Thayer. Tuttle riprese il cammino con il fucile puntato, reggendo la torcia nell'altra mano. Invisibile nella melassa grigia, il sole doveva essere al tramonto; le ombre si allungavano, assumendo consistenza e profondità. Presto il terzetto fu come cristallizzato, i capelli costellati di diamanti che si scioglievano, le guance coperte da una patina di vecchiaia precoce. Presidiato da due abeti imponenti, un ponte traballante emerse d'un tratto dal turbinio gelido e nebbioso. Una costruzione dall'aria spartana, in legno e acciaio, senza parapetto, che scavalcava un fosso profondo una ventina di metri formando una piccola U capovolta sopra il vuoto. Annabel non si sentì affatto rassicurata all'idea di camminare su quelle tavole malconce. Stava già cominciando a cercare con lo sguardo un altro passaggio, anche se dubitava che ve ne fossero, quando comparve l'occhio. Un ampio buco nero dall'altra parte del ponte. L'ingresso di un tunnel. Il covo di Bob? si chiese subito. Non essere stupida! Nessuno può vivere qui! Saggiarono con il piede la solidità del ponte, prima di avanzare uno dopo l'altro, Thayer in testa e Tuttle in coda. Il legno scricchiolava sotto il loro peso. A metà strada Annabel si rese conto che non distingueva più nulla intorno a sé, nulla se non l'immensità bianca e soffocante della coltre di neve e nebbia. Il suo cuore pulsava disperatamente, ma era come se fosse lontano. Il freddo le opprimeva il petto. Non sentiva più le cosce.

Una volta saldamente a terra, dall'altro lato, si concesse un sospiro di sollievo che ebbe però breve durata. La bocca spalancata della roccia si apriva davanti a lei, le zanne gocciolanti di umidità: canini di ghiaccio lunghi trenta centimetri che sembravano in procinto di caderle in testa. Alla voce di Thayer vicino al suo orecchio sussultò. «Fanno paura queste stalattiti, vero?» Tuttle li raggiunse. «Il ponte è robusto, ha retto bene il peso degli anni», osservò. Thayer annuì. «Se Bob e la sua banda vengono qui, è molto probabile che sia così.» I tre fasci luminosi furono puntati verso l'interno del tunnel. Entrarono cautamente, procedendo a zigzag tra binari e rottami. Dai muri pendevano centinaia di radici filamentose, e ben presto l'odore della polvere tolse loro il respiro. Una corrente di aria fredda testimoniava la presenza di un'altra uscita, ma non riuscivano a scorgerla. D'un tratto la luce delle torce fu catturata da una sagoma massiccia, dagli angoli minacciosi. Prima una catena arrugginita, poi una barra d'aggancio e infine l'acciaio color ocra di un vagone merci. Da qualche parte, gocce di umidità cadevano in una pozzanghera. Il vagone era già parecchio intaccato dalla ruggine ed era chiuso su un lato da un portellone scorrevole. Doveva essere rimasto lì fin da quando avevano chiuso la linea, abbandonato perché troppo costoso da recuperare, o semplicemente dimenticato dalla compagnia ferroviaria. Annabel gli girò intorno dal lato sinistro, con il sangue che le martellava le tempie. Tolse il gancio alla fondina e sfilò lentamente la Beretta. Intercettò con il fascio della torcia gli occhi grigi di Thayer, che la fissava. Per un attimo le parve che ridesse, poi l'impressione scomparve; lui accennò al portellone con la testa e andò a posizionarsi lì accanto, pronto ad aprirlo. Tuttle era dietro di lei. Annabel puntò la pistola e la torcia, e annuì. Thayer tirò con tutte le sue forze sul montante, che scivolò molto più facilmente di quanto si aspettasse. Sorsero dal nulla, occhi da folli e sorrisi da carnivori. Il terrore calò sui volti di Annabel, Jack e Sam Tuttle. In un istante la morte si impadronì di loro. 36 Con il calar della sera e la bufera di neve su Brooklyn il quartiere di Red

Hook si raggomitolò su se stesso, al riparo dei suoi caminetti, dei suoi depositi e dei suoi magazzini. L'edificio che Brolin voleva visitare era in mezzo a questa melassa bianca. Lentamente i suoi mattoni rossi furono inghiottiti da una nebbia totale, diadema perlaceo per una notte sovrano della città. Il detective aveva ammazzato il tempo bevendo tè alla menta in un bar sudicio, con una decina di habitué regolari come unica clientela. Aveva ascoltato le lingue schioccare sulle onde di parole che non capiva, con immagini che gli sfuggivano. A sera inoltrata si trovava accanto alla carcassa d'auto ai piedi del deposito dove, con ogni probabilità, Bob e la sua setta di pervertiti avevano officiato i loro riti. Approfittando della fitta neve che ostacolava la vista, Brolin si infilò nella polvere gelida e si arrampicò su una delle rampe di carico. Durante il giorno aveva individuato un possibile passaggio su uno dei lati. La discrezione era indispensabile, e ora, grazie alle pessime condizioni meteorologiche, il problema non si poneva più. Tastò per trovare il bordo, quindi si issò su un cornicione un po' più alto. In pochi movimenti si ritrovò sul tetto, al disopra delle rampe. L'ombra massiccia dei piani superiori lo sovrastava, proteggendolo dal vento. Carponi, si diresse all'altra estremità. Come aveva sperato, al di là si estendeva un cortile di cemento, una zona di stoccaggio vetusta esattamente quanto il resto. Il canale Gowanus con le sue acque verdastre in parte coperte dai vapori del cielo chiudeva l'altra estremità. Brolin si lasciò cadere giù da quel lato, nelle alte erbacce che spuntavano tra le crepe del cemento, e dopo una breve ricerca riuscì a trovare una porta. Adesso aveva a disposizione tutto il tempo che voleva, senza correre il rischio di essere visto da qualche vagabondo. Munito del suo kit da scasso, cominciò a lavorarsi la serratura. Le sue dita non erano molto predisposte per quest'arte (roba da far rivoltare Houdini nella tomba...) Gli ci vollero più di dieci minuti, a causa delle mani intorpidite, per aprire una banale porta di lamiera. Che si richiuse dietro di lui con un tonfo sordo, lasciandolo a tu per tu con un muro di tenebre. La sua torcia a stilo emise un sottile raggio luminoso, simile a un tratto bianco in mezzo a una lavagna nera. La polvere che fluttuava nell'aria diventava iridescente al passaggio della luce. Sulla sua destra erano impilate delle casse di legno, lasciate lì a marcire nell'umidità. Avanzò di qualche passo, tra cartoni fradici e detriti di ogni genere. Il soffitto scricchiolò. Brolin si irrigidì, la mano pronta sul calcio della Glock.

Lo scricchiolio si ripeté, più soffocato. Il detective alzò la testa: una parte del tetto era costituita da uno spesso strato di plastica, quel tipo di materiale che lascia filtrare la luce, quando ce n'è. È la neve, imbecille, il peso della neve che provoca questo rumore. Riprese a esplorare, sentendosi come dentro un antico galeone: scricchiolii, cigolii e umidità. Dopo aver controllato due grandi locali si infilò in uno stretto corridoio, passando dal deposito lungo e basso alla parte più alta dell'edificio. In un angolo erano ammassati diversi barattoli di vernice vuoti. Più in là, c'erano metri e metri di guaina isolante per fili elettrici, bucherellata o coperta di gesso secco. La torcia non permetteva di vedere tanto lontano, e l'edificio gli sembrò di colpo immenso. Procedi con cura. Ricordati della dottoressa Folstom, a Portland; lei diceva sempre: «Bisogna essere tecnici». Metti da parte le emozioni, e non scoraggiarti. Il volto sorridente di Rachel Faulet gli riaffiorò nella memoria. Una ragazza che conosceva solo attraverso le testimonianze di altre persone, attraverso le foto, e che sperava fosse ancora in vita, da qualche parte, per la sua famiglia. Per lei, per tutti gli altri. Concentrati. Dove si sistemerebbe Bob, secondo te? O meglio, dove sistemerebbe un tempio in onore di Caliban? Riesaminò velocemente tutte le informazioni che possedeva su Bob e su quel nome: Caliban. Quest'ultimo rimaneva oscuro, un concetto strano, quasi una divinità; il motto latino era chiaro, in proposito. Bob era probabilmente un egocentrico, come molti dei criminali della sua specie: riconduceva tutto a se stesso, si faceva passare per una sorta di guru. Cos'altro? Non è giovanissimo. È almeno sulla trentina ed è riuscito a manipolare parecchie persone, gente come Shapiro e Spencer. Non ha alcun pregiudizio per quanto riguarda la razza e il sesso delle vittime, dunque non uccide per il piacere sessuale, o almeno non direttamente. Crede in ciò che fa, soffre di mania di grandezza. È lui che si è inventato questa storia di Caliban. Se qui c'è il suo tempio, avrà voluto qualcosa di grandioso, quindi avrà scelto un locale grande, solenne. Inoltre è prudente, non lascia impronte; nessuno l'ha mai visto, cura enormemente il suo modus operandi per rapire le vittime, è intelligente. Certo, un po' paranoico. Avrà scelto una stanza il più possibile al riparo. In alto. L'edificio di mattoni rossi che faceva parte del complesso saliva a oltre

quindici metri di altezza, abbastanza per sentirsi al di sopra degli altri, in una posizione dominante. Brolin cercò una scala. E intanto la sua mente vagava negli abissi del Male, aperta sul crimine, su tutto ciò che aveva visto, letto e sentito nella sua vita. Migliaia di foto di cadaveri mutilati, carni straziate in primo piano, con annesso rapporto di autopsia, corpi viscidi che trasudavano sofferenza da tutti i pori. Lo stesso ammasso di carni spalancato sotto i suoi occhi sul luogo del delitto o alla morgue. I nastri audio che aveva ascoltato, in cui gli assassini si registravano mentre mettevano lentamente a morte una donna o un bambino. A volte i video, ripresi da questi stessi mostri, in cui la vittima comprendeva che avrebbe sofferto orribilmente, che sarebbe morta, e tuttavia continuava a sperare, fino a quando il suo stesso sangue la accecava e, nelle ore che seguivano, il suo sguardo cambiava per implorare che tutto finisse, che la morte prima tanto temuta venisse adesso a portare soccorso. Tutto questo, e altro ancora. Superò una stanza e sentì il tintinnio di una catena. Poi l'urlo atroce di una donna. In un flash dall'immagine rossa striata di bagliori bianchi, Brolin vide una bocca contorcersi, il rossetto spalmato sul mento a suon di botte. L'urlo si prolungò talmente da diventare inumano. Solo sull'orlo della morte, nel Regno della Sofferenza, si può urlare così. E le labbra cominciarono a venarsi. Chiazze color porpora apparvero sotto la delicata membrana rosea. Gli angoli delle labbra si incresparono, mentre l'urlo continuava senza finire mai, e d'un tratto, con uno schiocco secco, si lacerarono. Il solco rosso risalì da una parte e dall'altra lungo le guance, montò verso le orecchie, bocca demoniaca avida di prelibatezze vietate. Apparvero perle di sangue. Il liquido viscoso si mise a gocciolare lungo la mascella, parodia infernale della smorfia di un clown. Un lampo bianco scacciò l'immagine dalla sua mente. Brolin ansimava. Soffriva di questi disturbi da anni, violenze immaginarie che risalivano alla superficie come derelicts incontrollabili. Non avevano nulla a che vedere con i flash premonitori che hanno i profiler nelle serie televisive, che non sono altro che sciocchezze. Erano invece apparizioni molto più reali, frutto della sua personalità e delle sue conoscenze. Ma non portavano a nulla se non alla follia. Con un gesto irritato, Brolin spazzò l'aria davanti a sé. Chiuse gli occhi e si abbassò piegando le ginocchia, giusto il tempo di recuperare un po' di lucidità. I rumori dell'edificio gli arrivavano come un'eco proveniente da un cor-

ridoio senza fine. Riprese a muoversi, frugando ogni angolo con il suo fascio di luce. Una corrente d'aria sibilante gli sfiorò le tempie prima di spegnersi. C'erano così tanti buchi, fenditure arrugginite e finestre rotte che la cosa non aveva nulla di anormale. Il sibilo riprese, irregolare. Il fabbricato respirava. Un lungo respiro doloroso. Per aiutarsi, Brolin avanzava tenendo una mano contro il muro, e si aspettava quasi di sentirlo alzarsi e abbassarsi ritmicamente. Percepiva il tepore che a poco a poco ritornava nelle pareti. Era nelle fauci della bestia, a rovistare nelle sue viscere, e la bestia poteva ingoiarlo in qualunque momento. La luce della torcia venne improvvisamente riflessa da un parapetto metallico. La scala. Il detective la sfiorò con la punta delle dita e la colonna vertebrale della bestia trasalì con un tintinnio. Il respiro sibilante gli passò tra i capelli. Gelido. Mise un piede sul primo gradino ed esitò. La scala scendeva giù, nelle profondità dei sotterranei. Bob è uno molto prudente. Là sotto non ci sono spiragli né finestre, nessun varco da cui possa uscire qualche rumore. Erano tranquilli, al riparo! Fece un mezzo giro e cominciò a scendere. Non gli costava nulla cominciare di là. I suoi passi sul metallo dei gradini riecheggiarono sordi contro le pareti. Sottoterra, era come se la respirazione del deposito fosse più tenue, come se ci fosse una maggiore intimità. Una successione di locali, per lo più vuoti. Sui muri tubature serpeggianti, e in fondo un'enorme caldaia, il cuore assopito della bestia. Brolin drizzò la testa. Ritornò sui suoi passi, nella stanza precedente. Non era completamente vuota, a differenza delle altre. Il suolo era costellato di cartoni aperti che ricoprivano il cemento come un rudimentale linoleum. Si guardò intorno, sollevò qualche pezzo di cartone. Qualche insetto schiacciato, niente di particolare. Tuttavia sentiva di essere nel posto giusto. Muri ciechi nascosti nel sottosuolo, in mezzo a un labirinto che poteva facilitare un'eventuale fuga, e per di più un'atmosfera opprimente, perfetta per bizzarre cerimonie. Brolin non immaginava Bob e i suoi scagnozzi come adepti di Satana; secondo lui facevano qualcos'altro, qualcosa di molto più concreto. Avevano sparpagliato i cartoni perché assorbissero il sangue dei massacri.

La torcia diresse il suo occhio inquisitore sul pavimento. Tutto era talmente deteriorato che non c'era più alcuna traccia visibile. Continuò comunque a frugare dappertutto. Fino a scovare alcuni pezzi di carta appallottolati. Tre palline irregolari scivolate tra due brandelli di cartone. Una era un volantino pubblicitario, non ne restava quasi nulla, impossibile identificarlo. L'altra... Un tonfo sordo risuonò nel corridoio, alle sue spalle. Questa volta non era la struttura, piuttosto qualcuno che aveva cozzato contro qualcosa. Brolin estrasse lentamente la pistola e si rialzò. Cercando di non fare rumore, costeggiò il muro fino ad avvicinarsi al corridoio. Inspirò a fondo e si lanciò nel buio, torcia e pistola puntate. Niente. Avanzò a passi felpati, sentendosi pervadere da un'ondata di calore, sicuramente lo stress, che gli riempiva la testa fino a renderla pesante. Improvvisamente, un'ombra attraversò il pallido chiarore della torcia, subito seguita dal martellamento metallico di passi sulla scala. Brolin scattò. Sperava fosse un barbone, qualcuno che poteva essere stato testimone di qualcosa. Ma da qualche parte dentro di lui si era accesa anche una spia d'allarme; poteva trattarsi di una presenza ben più pericolosa... Raggiunse il fondo della scala con un minimo svantaggio. In un attimo si ritrovò al piano terra. Nel silenzio. Trattenne il fiato e si mise in ascolto. Stando in apnea, la prima cosa che sentì fu il palmo della mano, umido contro il calcio della pistola. Nessuna traccia dell'individuo. Le zone d'ombra erano tantissime, da ogni parte, e da lì poteva avere preso diverse direzioni. Poteva trovarsi ovunque. In quel momento si udì un fruscio, quasi impercettibile. Brolin capì al volo, ma si rese conto che era troppo tardi. L'altro era proprio dietro di lui. PARTE TERZA «Mi rendo conto che mi sto concentrando su tutto questo, queste case, questi segni esteriori di sicurezza e soddisfazione, non solo per distrarmi da quello che sto preparando, ma anche per rafforzare la mia decisione. Io dovrei condurre questo tipo di vita, allo stesso titolo di uno qualunque dei fottuti abitanti di questa fottuta strada

a curve, con i loro nomi sulle eleganti cassette delle lettere e sui rustici cartelli in legno.» DONALD WESTLAKE, THE AX 37 La morte. La morte fatta di bocche mute e orbite vuote. La morte ovunque, che avanzava compatta e implacabile, un'ondata dopo l'altra. Ecco cosa li aspettava. Prima di aprire il portellone scorrevole del vagone merci Thayer si era preparato praticamente a tutto, tranne che a questo. Annabel si sforzava timidamente di farsi coraggio. Ma quando la porta si aprì, anche sul suo volto scese una maschera di terrore. Quanto allo sceriffo Sam Tuttle, per poco non svenne: cadde a sedere su una pietra e non se ne staccò più. Era impossibile. Erano tutti là. Addossati gli uni agli altri, tutti gli scomparsi da due anni a quella parte, tutti o quasi. Stavano uniti, in una sorta di incredibile solidarietà, il braccio dell'uno intrecciato con la gamba dell'altro. Ognuno con il tempo si era trovato un suo posto, e adesso costituivano una matassa inestricabile. La porta si era aperta sui loro sguardi vuoti, quasi tutti fissavano la piccola luce che li inondava, una luce che sembrava un miracolo in quel luogo dimenticato. Nessuno batté le palpebre, né voltò la testa per proteggersi gli occhi. Una sessantina di scheletri abitava quella malandata dimora. Le ossa livide sporgevano come spine, incastonate insieme in un terrificante labirinto mortuario. Il labirinto delle ossa. L'ingresso era davanti a loro, l'uscita... Erano più di sessanta le uscite, e ognuna conduceva a una vita passata. Accettare di giocare significava ritrovarle tutte. I crani senza vita somigliavano ad altrettante trappole. Tra le mandibole qualche ponte dentario, qualche corona si attaccavano disperatamente alla luce delle torce come a un frammento di esistenza. La gabbie toraciche sembravano cancelli, le vertebre ponti. Regnava in quella necropoli un sentore aspro di crudeltà, una solitudine troppo grande persino per la morte. Ai rinforzi occorsero due ore per arrivare, un'attesa interminabile per i tre poliziotti all'ingresso del tunnel. Videro la strada ferrata sparire interamente sotto la neve, e con essa l'armatura del ponte, mentre il paesaggio

diventava sempre più spettrale. Ai nuovi arrivati dovettero indicare con precisione dove mettere i piedi, per evitare che cadessero. Era ormai notte inoltrata quando i tecnici collegarono i proiettori al gruppo elettrogeno portatile. Il vagone si illuminò in un incendio di polvere. Per evitare che si congelassero tutti fu installato un radiatore a gas dove andarsi a riscaldare a turno, forse l'anima più ancora delle mani. Fuori la neve continuava a cadere, e presto tutti ebbero l'impressione di trovarsi in una grotta segreta nascosta dietro una cascata. Il responsabile dei tecnici della scena del crimine, Clive Fielding, fu il primo ad ammettere di non avere mai visto prima nulla del genere. Le parole olocausto, campi di sterminio e Shoah risuonarono più volte tra la mezza dozzina di persone presenti. Fielding dirigeva le operazioni con voce baritonale, mentre prendeva in continuazione appunti su un taccuino. Annabel gli si avvicinò. «Pensa che si riuscirà a cavarne qualcosa?» gli chiese, indicando il vagone e il suo sinistro carico. Tra poliziotti si era soliti dire che più un cadavere era fresco, più la sua identificazione sarebbe stata rapida. Qui la situazione sembrava tutt'altro che favorevole. «Mi avete rifilato proprio un bel puzzle. Metterò al lavoro tutti gli antropologi forensi disponibili, e qualche odontologo forense per le mascelle e i denti. Staremo a vedere.» «E in questo modo cosa potrete arrivare a dirci?» insistette lei. Fielding distolse lo sguardo dal taccuino per posarlo sulla giovane dorma. «Inizieremo esaminando osso per osso, per tentare di rimettere insieme ogni corpo senza mescolarlo con gli altri. Per fare questo dovremo esaminare la morfologia generale, il colore, la fluorescenza ultravioletta eccetera. Poi cercheremo di stabilire la statura e il peso di ogni individuo, e attraverso l'esame del bacino anche il sesso, ma dato che sembra ci siano anche dei bambini, non sarà facile.» Si chinò su una valigetta e ne trasse un fascicolo che sventolò sotto il naso dell'investigatrice. Recava la scritta ISCHIUM-PUBIS INDEX. «Usiamo questo per avere risultati più precisi. Per calcolare l'età, fino a venticinque anni si lavora sui punti di ossificazione, ma spesso la saldatura di tutte le epifisi avviene un po' prima. Quindi si fa ricorso all'odontoiatra, che esamina i denti. Vi diremo anche se sono mancini o destri, e a che razza appartengono...»

«Riuscite a stabilire anche la razza?» «Per il cranio, dal momento che il nostro Paese è il regno del miscuglio etnico, si fa ricorso a programmi informatici che tengono conto di tutti i possibili parametri. Vede, la medicina legale può dirle ogni cosa su un essere umano a partire dal suo scheletro. Utilizzeremo tutto, studieremo tutto: l'osteoporosi, i punti di saldatura del cranio, i denti e, se ci sono ancora, i dischi intervertebrali. Analizzeremo gli aminoacidi per verificare l'età dei resti. Come vede, si tratta di una quantità di esami. Il problema non è cosa si può fare ma il tempo che ci vorrà: potrebbe occorrerne molto, soprattutto in un caso del genere. Troppi cadaveri in un colpo solo. È la sua prima indagine su uno scheletro, vero?» Prendendo l'osservazione come un rimprovero per la sua ignoranza, Annabel annuì lentamente e fece un passo indietro. Fielding le scoccò un sorriso amichevole con l'intento di rassicurarla, un sorriso che diceva «a ciascuno il suo mestiere» o qualcosa del genere. «E ora, se non le spiace, devo occuparmi delle foto. Bisogna fotografare tutta la scena e, tenuto conto del numero di ossa, temo proprio di non avere abbastanza pellicola.» Gettò il taccuino nella sua valigetta e si diresse verso uno dei suoi assistenti. Annabel era verde di rabbia. Si era dovuta sorbire una predica proprio sul suo terreno: le procedure d'indagine. Aveva letto molto sull'argomento - dato che i corsi all'accademia di polizia erano piuttosto sommari -, ma i possibili campi di studio e specializzazione erano troppi e troppo vasti. Notò Thayer che esaminava il suolo alla ricerca di indizi, un po' in disparte. Lui alzò gli occhi e incrociò il suo sguardo, alzando le spalle, l'espressione delusa di chi non stava trovando nulla. «Mi sa che ci passeranno la notte», commentò. «Conduco io l'indagine. Tu va' a riposarti, domani mi darai il cambio.» «Come vuoi. Tuttle torna a Montague tra un'ora, andrò con lui.» Tre quarti d'ora più tardi, Fielding fece cenno ad Annabel di avvicinarsi. Stava sulla porta del vagone, in equilibrio tra un omero, un bacino e un cranio. Metà del suo volto era coperta da una mascherina che serviva a proteggersi dai batteri della putrefazione. Se la tolse con un gesto disinvolto, come se l'intera situazione non gli procurasse il minimo disagio. Tese la mano verso di lei per aiutarla a salire. Ma la detective fu più rapida e con un balzo si ritrovò al suo fianco. In quella foresta di ossa, i proiettori accarezzavano i resti che si trovavano più in avanti; tutto ciò che rimaneva sul fondo o ai lati era immerso nel

buio. Annabel si appoggiò con la mano guantata alla parete. Le parve che l'aria all'interno del vagone fosse più calda, più pesante. Per fortuna mancava il tipico odore che ci si sarebbe potuti aspettare. Fielding innaffiò la siepe di ossa con la luce di una Mag-Lite. «Ha osservato bene i crani, prima?» le chiese. «Cosa?» Lui restò in silenzio per un attimo. Dunque lei non aveva notato niente. La invitò a mettersi in ginocchio accanto a lui, e puntò l'indice a un centimetro dal cranio più vicino. Un canaletto scuro correva lungo tutto il perimetro della testa. «La scatola cranica è stata aperta.» Annabel aggrottò le sopracciglia. «A che scopo?» «Non ne ho idea. Però la cosa che più mi sconvolge è che tutti i crani sono nelle stesse condizioni, almeno tutti quelli che si riescono a vedere da qui. E c'è dell'altro.» Indicò il pavimento del vagone. «Forse corro troppo, ma da come sono disposti alcuni mucchi di ossa penso ci siano resti che si trovano qui da tempo, diversi mesi o addirittura anni. E la cosa curiosa è la totale assenza di pupe.» «Di insetti?» «Sì, le pupe sono gli involucri lasciati dalle larve.» Annabel conosceva le basi dell'entomologia medico-legale. Un individuo che muore diviene immediatamente fonte di nutrimento per gli insetti necrofagi. Essi agiscono in otto successive ondate, ciascuna con un ruolo differente. La prima si apre il cammino quando il corpo è ancora tiepido, per deporre le uova. Talvolta gli insetti iniziano a deporre anche prima della morte, seminando le uova nelle piaghe di un ferito e ai bordi degli orifizi naturali quando la vittima non è più in grado di muoversi. La seconda ondata è attratta dagli odori di decomposizione e materia fecale. I grassi rancidi toccano alla terza ondata e così di seguito. Uscendo dal proprio stato di larva, l'insetto si lascia alle spalle una pellicola chitinosa chiamata pupa, che gli entomologi prelevano al fine di determinare la natura esatta del suo occupante. Questo lavoro permette spesso di stabilire la data della morte per uno scheletro o un cadavere in stato di decomposizione avanzata, e talvolta può indicare se il corpo è stato trasportato, quando gli insetti o le pupe trovati su di esso appartengono a una specie che vive solo in una certa regione.

«Mi sta dicendo che su questi corpi non è passato neanche un insetto?» Fielding fece crocchiare le dita sotto i guanti in latex. «Qualche opportunista, o qualche ragno che ha trovato il suo rifugio ideale, ma niente deposizione di uova. È vero che siamo in inverno e che i ditteri in generale non depongono al di sotto dei 14 gradi, né tanto meno di notte. Ma, come le stavo dicendo, alcuni corpi sono qui da tempo. Almeno dall'estate scorsa. L'entrata del tunnel è vicina, di giorno non credo faccia troppo buio, e comunque non abbastanza per fermare una mosca: sentono l'odore di una carogna a parecchi chilometri di distanza.» Annabel si volse a guardare tutti quei resti di esseri umani. Vide una gabbia toracica molto piccola. Ciò a cui Fielding stava alludendo era completamente assurdo. Lei si appoggiò al bordo della porta. Sentiva su di sé lo sguardo del tecnico. Che alla fine le disse: «Sì, signorina, se gli insetti non sono stati attratti da questi resti, significa che al loro arrivo qui erano già in questo stato. Qui non sono stati portati dei cadaveri sanguinanti, ma solamente scheletri». 38 Brolin sentì un brivido gelido corrergli sulla nuca. Gli si rizzarono i capelli in testa. Si era fatto fregare. Quello che stava inseguendo era proprio alle sue spalle. A conferma di quei timori, sentì nell'aria il respiro affannoso dell'altro. Il sudore rendeva poco salda la presa della sua mano intorno al calcio della pistola. Poi, in un attimo, tutta la paura scomparve. Sulle labbra dell'investigatore si disegnò persino un abbozzo di sorriso. Succeda quel che succeda, si disse, non ha importanza. Quello che importava era agire. Il pensiero degli ultimi anni della sua vita gli tolse ogni timore. Ruotò su se stesso il più in fretta possibile. Nello stesso movimento il braccio destro si tese, brandendo la sua protesi letale. Incontrò gli occhi dell'altro. Lo fissavano senza battere ciglio. Gialli. Le zanne acuminate sporgevano dalla bocca. Brolin si coprì la faccia con una mano. Un fottutissimo cane! Era un bastardone peloso che lo guardava con curiosità, senza aggressività, persino con un po' di timore. L'investigatore privato rimise la Glock

nel fodero e avvicinò una mano all'animale, che si lasciò accarezzare docilmente, contento di aver trovato un po' di calore. Brolin scoppiò a ridere. Il respiro sibilante dell'edificio continuava ad accarezzarlo: accarezzava lui, e il cane. Un soffio acuto, quasi un rantolo. «Che cosa ci fai qui, eh? Ti diverti a spaventare i visitatori?» Dopo qualche esitazione, l'animale prese a leccargli la mano, gli occhi luccicanti a tal punto che Brolin ebbe l'impressione che piangesse. Era magro, aveva il pelo sporco e di tanto in tanto era scosso da un brivido. Joshua rimase lì un bel po', accanto a quell'imprevisto compagno, prima di riprendersi. Infine decise che doveva mettere da parte la simpatia per quella povera bestia. Aveva cose più urgenti di cui occuparsi. Ridiscese, seguito dal cane, e tornò nella stanza con il pavimento coperto di cartoni appiattiti. Ritrovò i fogli di carta appallottolati e si sedette in un angolo per esaminarli meglio. Il cane si accovacciò sulla soglia, gli occhi fissi su di lui. Il primo era dunque un volantino pubblicitario. Il secondo era la parte inferiore di un foglio strappato, coperto da una scrittura sottile e contorta. Il primo foglio di carta era rimasto a mollo nell'acqua putrida fino a diventare illeggibile. Brolin si occupò del secondo. Era in cattive condizioni, la scrittura era in parte cancellata: «... con Lucas... distribuzione e Bob o Malicia Bents alla Corte dei Miracoli... la cerchia... intenditori». Lucas. Lucas Shapiro. Era di lui che si parlava, non poteva essere che lui, non era certo una coincidenza. Anche Bob era citato. Era qui che venivano, qui che sorgeva il loro tempio. Il tempio di Caliban. Quali erano però le regole? Che cos'era Caliban? Che cosa rappresentava? Era ormai indispensabile trovare la fonte, l'origine di quel nome. Dove l'aveva scovato Bob? Brolin rilesse il testo. C'era una nuova traccia, forse era quella buona. Malicia Bents. Un elemento che Bob si era lasciato sfuggire nonostante tutta la sua prudenza, un errore che forse avrebbe portato alla sua cattura. D'altronde, come poteva supporre che qualcuno sarebbe arrivato fino a quel luogo e che sarebbe riuscito a ricollegarlo a lui? Brolin ripose in tasca il prezioso indizio. Vide il cane disteso davanti all'ingresso, nel corridoio, la testa appoggiata sulle zampe, gli occhi che passavano da lui ai muri pieni di macchie. L'atteggiamento del suo nuovo amico lo colpì. L'animale aveva paura di quella stanza. «Tu hai visto delle cose, vero? O forse le hai sentite... Cose terribili.»

Il cane lo osservò, con il suo muso triste. In quello sguardo, pensò Brolin, c'era la dolorosa disillusione di chi ha scoperto di che cosa sono capaci gli uomini. Piantala, i cani non fanno questo genere di considerazioni... Ma alla fin fine non ne era più così certo. Quando si alzò, il cane fece altrettanto. Notò che la gola dell'animale si sollevava per deglutire. Sembrava nervoso. Brolin si ritrovò ad attraversare il deposito con un'ombra a quattro zampe alle calcagna. Una volta nel cortile, si girò a guardarlo. «Mi dispiace, ma le nostre strade si separano qui.» Il detective alzò lo sguardo verso il muro che doveva scalare. Non sarebbe stato difficile. Il cane deglutì nuovamente, e abbassò la testa. Per un attimo, Brolin fu colto di sorpresa: l'animale reagiva come se capisse le sue parole. «Non potrei comunque portarti via anche se volessi, dovrei per forza portarti fino al tetto e... Insomma, è impossibile. Lo capisci?» Gli fece un'ultima carezza. Il cane era senza collare, e aveva tutta l'aria di essere affamato. Leccò timidamente la giacca di Brolin. «Mi dispiace», ripeté il detective, voltandogli le spalle. Le sue dita protette dai guanti sfiorarono i mattoni, pronte a scalare il muro. Il cane si allungò nella neve ed emise un breve guaito triste, affondando la testa tra le zampe. Un quarto d'ora più tardi Brolin risaliva Carroll Street, confondendosi tra le ombre del marciapiede. Il cane saltellava allegramente tra le sue gambe. 39 In piena notte, l'appartamento di Annabel a Brooklyn Heights è pervaso da un'aura azzurrognola. La grande vetrata del salone si apre su Manhattan e sullo skyline amputato dei suoi due totem capitalistici. La cupola di vetro è ricoperta di neve attraversata dai raggi luminosi della luna. Brady guadagnava bene con il suo lavoro, era stato lui a finanziare la maggior parte dell'appartamento, e lo adorava. Dimostrava l'entusiasmo di un bambino anche per la macchina, la BMW X25 a quattro ruote motrici che aveva comprato meno di un anno prima di scomparire. Se occorrevano delle prove che non si era volatilizzato spontaneamente, quei due amori ne erano la perfetta dimostrazione. Ci si può ingannare sull'amore che si crede di veder

risplendere nel cuore dell'altro, per quanto crudele ciò possa sembrare. Annabel non nutriva dubbi sui sentimenti del marito, ma a coloro che non li conoscevano occorreva qualcosa di concreto per non credere che lui fosse semplicemente fuggito lontano da lei. L'orologio a muro appeso in cucina segna pigro l'una di notte. Un pallido chiarore invernale si riflette debolmente sul parquet del salone, e in questa luminosità soffusa sembra persino che il cavallo a dondolo oscilli lentamente. I vasi canopi traboccanti di piante verdi dondolano appena all'estremità delle loro catenelle. All'improvviso, il clic sommesso della chiave nella serratura, il volto stanco di Annabel che entra nella stanza, passandoci accanto. Comodamente seduti sul divano con £ plaid andino, passiamo perfettamente inosservati. Tanto più che lei non accende la luce. Si toglie le scarpe e attraversa la stanza in silenzio, scivolando sul parquet. La sua ombra si riflette sul muro dove sono attaccate tutte le foto, tutti quei volti sofferenti. Annabel getta con indifferenza il bomber su una sedia ed entra in cucina. Scioglie lo chignon che le trattiene i capelli, lasciando le lunghe treccine libere. Si accovaccia davanti al frigo, apre lo sportello che illumina d'oro i suoi lineamenti tirati. Rimane così, a bere latte direttamente dal cartone, appoggiata alla parete. Si sente sovrastata dall'ondata dolorosa dei ricordi. Veniva spesso a bere il latte così, davanti al frigo aperto, nel cuore della notte, nuda. Succedeva dopo aver fatto l'amore. Aveva ancora il sudore di Brady sulla pelle, un velo salino che li teneva uniti. Dal salone possiamo vedere la sottile silhouette della giovane donna che scivola sulle piastrelle del pavimento, allungando le gambe. La vediamo mordersi le labbra, nel silenzio della notte, mentre una perla salata e brillante scende lungo la sua guancia. A questo punto è giunto per noi il momento di sparire. Ci sono, nell'esistenza di un essere umano, momenti che non tollerano né conforto né testimoni, e solo il tempo può lenire il dolore che si prova. Così, attraverso la porta massiccia, ci volatilizziamo nella città addormentata. ... sotto le palme. La sabbia è dorata, il mare ricorda quello della Costa Azzurra e riversa con dolcezza rotoli di schiuma sulla riva, carezze tiepide sulle caviglie di Annabel. Lui è dietro di lei, ride, stranamente, e la sua mano scende sulla sua anca. Una mano forte, rassicurante, che diffonde nel suo ventre un calore inebriante, una sensazione che lei non prova da così tanto tempo. Lei si volta lentamente, le treccine che si sollevano come dotate di vita propria. Lui è lì, o almeno sembra, lei alza la testa e...

Annabel si svegliò di colpo nel suo letto, il cuore in subbuglio. Il telefono stava squillando. Con il respiro accelerato, sudata, riuscì a distinguere le cifre luminose della sveglia. 3 e 12. Non dormiva da molto. Il torpore e il panico lasciarono il posto a un'angoscia più greve. Sentì un peso sul petto. Chi poteva essere? Tese la mano e alzò il ricevitore. «Sì?» «Mi spiace di averla svegliata, ma ci sono novità.» Conosceva quella voce. «È importante e... Ecco, credo che dovrebbe venire qui. Insomma, bisogna che venga qui.» Brett Cahill. Il suo giovane collega. «Che genere di novità?» chiese sospirando. «Be', come dire... Si tratta dell'assassino. Ha lasciato un messaggio. Bob, voglio dire, si rivolge a lei.» A quelle parole, ogni residuo di sonno abbandonò la mente della poliziotta. «Che cosa? Dove?» «È una cosa un po' particolare. Diciamo che il messaggio è stato... portato da una donna.» «Una donna? Una delle sue vittime? È viva?» Cahill esitò. «Sì. Insomma, più o meno.» «Che significa?» «Non è facile da descrivere, detective. La busta contenente il messaggio portava il suo nome. Era spillata direttamente sulla pelle della ragazza, su un seno.» Dopo un breve silenzio, Cahill aggiunse con voce atona: «Continua a urlare che ha visto il diavolo, che era all'inferno». Annabel chiuse gli occhi. Non era davvero sveglia; tutto andava troppo in fretta, come in un sogno. Un incubo. «Arrivo.» Appoggiò il telefono sul cuscino. 40 Brett Cahill sputò il chewing gum in un cestino dei rifiuti. Si stiracchiò,

facendo scricchiolare la schiena. Negli ultimi tempi non praticava abbastanza sport. Era troppo stanco. Gli costava sempre più fatica tenere insieme le sue notti movimentate con le sue giornate da poliziotto. Doveva rallentare il ritmo, se voleva reggere fino alla fine, lavorare meno. Per quello che riguardava l'attività notturna, non poteva farci nulla; era ben più che un bisogno: era una necessità. Peraltro, trovarsi lì in piena notte non gli andava bene. Avrebbe dovuto organizzarsi per il giorno dopo. Con così tante cose da fare... La porta alle sue spalle si aprì, lui scosse il capo per scacciare quei pensieri e si costrinse ad assumere un'espressione di circostanza. Si voltò e vide Annabel O'Donnel. I suoi capelli sembravano liane, e il suo sguardo faceva pensare a una belva intenta a una battuta di caccia. Era conturbante. «Dov'è?» chiese immediatamente la detective. Cahill prese il cappotto. «A Trenton, nel New Jersey. Vagava lungo il ciglio di una strada quando un camionista l'ha trovata. È là che la stanno curando.» Scesero di corsa le scale strette e salirono sulla vettura di Annabel, la BMW, perfettamente in grado di affrontare anche le strade innevate. Lungo il tragitto, Cahill le fece un quadro più completo: «L'hanno raccolta verso l'una del mattino, in ipotermia. È completamente sotto choc». «E il messaggio?» «Un tipo di busta comunissimo, a quanto mi hanno detto, ma con la dicitura 'Detective Annabel O'Donnel NYPD' scritta sopra.» «Vuole rivolgersi ai poliziotti che conducono le indagini sul suo conto. Per il momento abbiamo fatto in modo che i comunicati stampa indichino solamente il mio nome, per lasciare più spazio di manovra a Thayer e agli altri.» Annabel si guardò bene dal precisare che quella scelta era in parte anche dovuta ai consigli di Brolin. Cahill la fissò. «Comunque sia, la busta era fissata con una grossa spilla da balia. Piantata nel capezzolo. La ragazza camminava per strada come uno zombi, non se l'era neppure tolta. Per il momento è sotto osservazione. I colleghi del posto ci stanno aspettando.» Annabel schiacciò a fondo l'acceleratore. L'auto passò sotto la campana dorata del Campidoglio di Trenton e filò dritta fino all'ospedale. Un agente in uniforme li aspettava fumando una si-

garetta. Era grosso e muscoloso come un lottatore di catch. I suoi occhi verdi scrutavano le persone di passaggio con un'intensità fuori del comune. Si avvicinò ai due detective di New York e porse loro la mano. «Salve, sono il vicesceriffo Hanneck.» Guardò Annabel e le fece un cenno di saluto. «Seguitemi, la ragazza è al primo piano. L'abbiamo appena identificata.» «Avete fatto in fretta», si stupì Cahill. «Un colpo di fortuna. Era schedata. Ha rubato una macchina a Philadelphia, e più di recente la madre ha segnalato alle autorità che la figlia era scappata. Un mese e mezzo fa.» «Avete qualche idea di quello che ha fatto in tutto questo tempo?» chiese il poliziotto, pur sapendo che era troppo presto per questo genere di domande. «No, interrogheremo i suoi amici e si vedrà. Vive a Phillipsburg, non lontano da qui.» Annabel camminava dietro i due uomini, e intanto li ascoltava. Dentro di sé era convinta che nessun amico avesse visto la ragazza dopo la fuga. A Bob piaceva vivere con le sue vittime. Per lunghi periodi. Le foto lo dimostravano: le date digitali impresse sulle immagini o quelle aggiunte a mano corrispondevano talvolta a parecchi mesi dopo il rapimento. Le fotografie di Spencer Lynch e di Lucas Shapiro non avevano questa caratteristica, che sembrava contraddistinguere solo quelle appartenenti al gruppo più numeroso, le quarantanove foto attribuite a Bob. «Ha subito violenze?» chiese. Hanneck si girò verso di lei. I suoi occhi erano chiarissimi, quasi disturbanti. «Non è stata stuprata, quanto meno il dottore che l'ha esaminata non ha rilevato lesioni vaginali né anali. Ma non si è spinto... troppo a fondo, viste le condizioni della ragazza. È come se... l'avessero fatta impazzire. Com'è possibile?» Nessuno rispose. In ascensore, Hanneck proseguì il suo resoconto: «Poco fa abbiamo avuto i primi risultati degli esami tossicologici. È pazzesco: non ha nulla nel sangue... In ogni caso nessuna sostanza chimica che possa averla ridotta in questo stato. Ha dei segni di percosse, delle ecchimosi, ma niente di preoccupante. Eppure si è lasciata infilare una spilla da balia enorme nella mammella e ce l'ha lasciata mentre camminava nella notte, completamente nuda». Come con Spencer Lynch, pensò Annabel. Le ragazze vengono spoglia-

te. Però Lynch le drogava e le violentava. E inoltre le scotennava. Bob, invece, che cosa gli fa, lui? Annabel aveva l'impressione di studiare un maestro e il suo allievo. Un maestro della morte - che non aveva bisogno di nessun artificio per agire, per seminare dolore - e il suo apprendista, un dilettante che si aiuta con tutti i mezzi artificiali possibili, sperando di arrivare un giorno alla quintessenza del male. Bob era un esemplare modello del crimine. Annabel non aveva smesso un istante di pensarci, quando era tornata a casa, la sera prima. Perché aveva portato degli scheletri in quel vagone? Portarci dei cadaveri per sbarazzarsene era concepibile, ma perché degli scheletri? «La ragazza ha parecchie unghie spezzate e soffre di malnutrizione. Se volete il mio parere, dal punto di vista psicologico è fottuta.» «Quanti anni ha? E come si chiama?» «Si chiama Taylor, ha diciassette anni.» Annabel strinse i pugni, furibonda. «Nella busta c'era un messaggio, vero?» Hanneck annuì, cupo. «Su di sopra. Glielo porterò.» Li guidò lungo un corridoio male illuminato, brulicante di segnali elettronici, fino a una porta con al centro una finestrella. La indicò con un dito e se ne andò. Annabel si chinò in direzione del pallido chiarore del vetro. Un viso di porcellana orlato da lunghi capelli neri, sporchi e arruffati, e un nasino picchiettato di lentiggini. Taylor indossava un camice verde ed era stata avvolta in una coperta che le ricadeva tutta intorno, sul letto. Tremava come una molla sottoposta a tensione. Le mani ferite vibravano contro le braccia, le gambe erano piegate contro il corpo. Era prossima a uno stato catatonico. La detective aprì la porta e si avvicinò. Si sedette accanto alla ragazza, cercando di muoversi il più lentamente possibile. Rimase così per un po', lasciando a Taylor il tempo di abituarsi alla sua presenza, poi le appoggiò una mano sulla schiena e cominciò ad accarezzarla con dolcezza, lentamente, per rassicurarla. Dopo qualche minuto, Taylor si mosse. Si voltò verso Annabel. I suoi occhi scuri erano fissi, brillanti, di una luminosità strana, con le pupille che si contraevano e si dilatavano in continuazione. Parecchi tic nervosi cominciarono ad alterarle il volto, il mento si corrugò, una guancia non smetteva più di scattare in su e in giù.

Con difficoltà, Taylor accostò il viso a quello di Annabel. Malgrado il suo stato, sembrava che volesse parlarle. Batté le palpebre più volte, sempre più rapida, poi lo sguardo si fissò. Con una violenza inimmaginabile in un essere così fragile, spalancò la bocca e mise in mostra i denti ingialliti. E urlò. Il bicchiere di polistirolo espanso le bruciava le dita, mentre Annabel respirava il profumo del caffè. Cahill la scrutava, un po' preoccupato. «È tutto a posto», insistette lei. Ormai il peso della fatica sul suo corpo si era come decuplicato. «Ho sentito del vagone», aggiunse Cahill, «siamo stati informati tutti qualche ora fa. Una notte infernale, eh?» Per tutta risposta, lei si addossò alla parete contemplando il muro di fronte. «Non riesco a capire questo personaggio, questo Bob», si sfogò Cahill. «È incredibile. Se davvero è lui che ha fatto fuori Lucas Shapiro, è un furbacchione. Nessuna impronta. Il medico legale ha recuperato i due proiettili che si trovavano nel cadavere. Li passeremo all'IBIS. Non che ci siano molte speranze, ma almeno, se useranno ancora la stessa arma, si potrà stabilire un collegamento.» Annabel rabbrividì. Non osava guardare in faccia Cahill nel timore di tradire il suo turbamento. Per fortuna, prima di andarsene, Brolin aveva preso tutte le precauzioni. Si era persino portato via la neve dove erano cadute le gocce del suo sangue. Il vicesceriffo Hanneck la salvò dall'angoscia che la stava sommergendo. Venne verso di loro reggendo un grosso sacchetto di plastica. «Adesso è sotto sedativi. Il dottore non è ottimista sulle sue condizioni mentali.» Si passò una mano sulla fronte e porse ad Annabel il sacchetto. «Ecco il messaggio.» All'interno c'era una busta piccola, assieme a una spilla lunga come una sigaretta. La punta era ancora macchiata di rosso. Il foglio stampato conteneva un breve testo e una foto di buona qualità, stampata direttamente sulla carta. «È stato tutto fatto con un computer. Anche la foto è computerizzata. Voglio dire: si tratta sicuramente di un'immagine digitale, che il tipo si è stampato da solo. Suppongo ci penserete voi a mandarla al laboratorio, per

le impronte.» Annabel annuì, già sapendo che non ne avrebbero trovata nessuna, come al solito. * Integrateti Ballistic Identification System: sistema informatico realizzato congiuntamente dall'Air (Bureau of Alcohol, Tobacco and Firearms) e dalla società canadese Forensic Technology per le comparazioni balisticne sia sui proiettili sia, più di recente, sui bossoli. IN cUL] Il testo era laconico ma preciso. Avete Lucas, che sarà un colpevole perfetto Agli occhi dell'opinione pubblica. Perciò dimenticatevi di me, o loro moriranno, Andate per la vostra strada, o loro moriranno, Non disturbatemi più, o loro moriranno. Se vi mettete anche solo un'altra volta contro di me, Loro moriranno. E ne ho altri ancora sottomano. Non sono morti tutti, aspettano il loro turno, molti altri Accanto a me. Ma questi li avrete sulla coscienza voi. Annabel non batté ciglio. «È un avvertimento», commentò. «Vuole che interrompiamo le indagini.» «E ha l'aria di essere in collera», aggiunse Hanneck. Cahill alzò le spalle. «Ma come sarebbe?» disse indignato. «Ci dà degli ordini?» «Non gli è piaciuto che siamo riusciti a trovare Lucas Shapiro», replicò lei. «Ci prende per stupidi? E lui che ha steso Shapiro, ci metto la mano sul fuoco!» Annabel si irrigidì. Avrebbe voluto raccontare tutto, ora, spiegare come lei e Brolin erano stati a casa di Shapiro, com'era morto. Lei era la sola, oltre all'investigatore privato, a capire la collera di Bob. Ben presto, quando si fosse accorto che la polizia aveva portato alla luce il macabro segreto del vagone, sarebbe diventato folle di rabbia. Tese il foglio a Cahill perché potesse vedere la foto. «Comunque, il peggio deve ancora venire», disse. Cahill aggrottò le sopracciglia e abbassò lo sguardo sulla fotografia. La qualità era sufficiente a distinguere uno sfondo nero, e su di esso un

uomo e una donna sulla quarantina assieme a due bambini e un'adolescente. Tutti guardavano l'obiettivo con un'espressione di terrore indicibile. Un'intera famiglia. 41 Il mondo di Carly, otto anni, si riduceva a quella grotta umida sbarrata da una porta di legno. Di tanto in tanto il Mostro le portava una candela nuova, la accendeva e la appoggiava su una pietra ormai ricoperta da uno spesso strato di cera. Un giorno in cui la candela pendeva un po' troppo di lato, Carly aveva voluto raddrizzarla - la luce della fiammella era tutto ciò a cui poteva ancora attaccarsi - e nel farlo si era rovesciata un po' di cera bollente sulle dita. Le aveva fatto male. Spinta da una curiosità malsana, aveva ripetuto lo stesso gesto. Il liquido traslucido scivolava sul dorso della sua mano, bruciando più forte delle ortiche, e prendeva un aspetto lattiginoso quando poi si solidificava. Questo dolore diventò il solo mezzo che la bambina aveva a disposizione per continuare a credere ancora in qualcosa. Le ricordava che esisteva. Chissà dove, all'inferno, ma comunque esisteva. Raggomitolata sotto le sue tre coperte per cercare di mantenere una parvenza di calore, Carly pensava a quello. E al buco nella porta. Lo aveva già notato da molto tempo - ma lì sotto che cosa voleva dire «molto tempo»? -, anche se era troppo pi colo per sperare di passarci. Per lo meno le permetteva di guardare fuori nel corridoio. Di solito, i rumori che ne provenivano erano terrificanti: tintinnii di catene, grugniti lugubri che le facevano pensare a un lupo mannaro, urla atroci. Ogni tanto succedeva qualcosa, un movimento, un passaggio. Accadeva di rado, e Carly non ci aveva mai prestato molta attenzione. Fino a quando la bruciatura con la candela le aveva ridato un briciolo di interesse per ciò che la circondava. Sentì un fruscio provenire dal corridoio. E un tonfo sordo di passi sul terreno. Si avvoltolò in una coperta e si avvicinò in silenzio alla porta. La sua fragile figuretta scivolò nell'angolo, accanto al muro, e accostò l'occhio alla fessura che si apriva tra due tavole sconnesse. Il corridoio era scavato nella pietra, come in una miniera. Sulla destra brillava la luce soffusa di una torcia, una torcia strana, che sembrava ricavata da un osso.

Un'ombra si allungò sul pavimento, i contorni indistinti come una lenta ondata nera di inchiostro. Apparve una donna. Camminava lentamente, scossa da brividi, il volto emaciato e sudicio, i lunghi capelli aggrovigliati. Carly pensò che avesse una quarantina d'anni. Sarebbe potuta sembrare un'attrice in un film sulla povertà, senza quella sincerità totale dei suoi occhi. La bambina pensò che era molto bella. Di colpo sentì il desiderio di rannicchiarsi contro di lei. Alle spalle della donna comparve il Mostro. La spinse avanti senza preavviso, tanto che per poco lei non cadde a faccia in avanti sulla roccia. «Avanti, muoviti. Se almeno mangiassi non saresti in questo stato, razza di idiota...» La sua voce era sempre colma di crudeltà. Smise di brontolare e osservò la torcia. «Questa roba non sta a posto, merda», sbuffò. «Tu, aspettami lì.» La donna si bloccò proprio davanti alla porta di Carly, mentre il Mostro si chinava per fissare l'osso della torcia contro il muro. Lo sguardo della bambina accarezzava le mani rovinate della donna, le immaginava tra i suoi capelli, con tutta la tenerezza di cui quei palmi callosi sarebbero stati comunque capaci. La donna sentì il suo sguardo. Volse la testa verso la porta, verso quel piccolo occhio che non si staccava da lei. D'istinto guardò il Mostro e, approfittando del fatto che lui le voltava le spalle, fece due passi e si inginocchiò davanti alla fessura. Quando vide Carly, il mento le tremò, si contrasse e i suoi occhi furono pervasi da una pena immensa. Appoggiandosi alla porta, la donna fece uno sforzo per riprendersi davanti alla bambina. «Come... come ti chiami?» farfugliò con la voce resa incerta dai singhiozzi. L'occhietto continuava a fissarla, più vicino che mai, ma non ci fu alcuna risposta. La donna infilò l'indice in un buco della porta. «Io mi chiamo Rachel.» Faticava a controllare l'emozione che rischiava di sommergerla, ma si sforzava di non mostrarlo alla bambina. «Dimmi come ti chiami», sussurrò di nuovo. Nemmeno una parola. Ma in quel momento Rachel sentì una piccola mano che si aggrappava al suo dito. Sentì un groppo in gola e il petto cominciò a sussultare. Non ne poteva più, aveva l'impressione che di lì a un

attimo si sarebbe messa a piangere per non smettere mai più. Che cosa ci faceva lì quella creatura? Nessuno aveva il diritto di ridurre così lo sguardo di una bambina. Introdusse anche l'altro indice nella fessura, per accarezzare la guancia di Carly. Un improvviso dolore le strappò un urlo stridente. Tutto il suo cranio prese fuoco. Fece un balzo all'indietro e rotolò fino alla parete opposta. Il Mostro le lasciò i capelli per rifilarle un calcio sui seni. Rachel urlò di nuovo. Un grido rauco, smangiato dalla sofferenza. Il Mostro si girò allora verso Carly, in due passi fu davanti alla porta. Accostò la bocca dai denti grigi, e i suoi occhi da folle apparvero nella fessura. «Tu torna là in fondo. Dimenticati di lei, non la rivedrai più. Mai più.» Carly arretrò tremante fino al giaciglio che le faceva da letto. Si avvolse completamente nelle coperte e chiuse gli occhi. Com'era stata stupida a nutrire una speranza! 42 Brolin fu svegliato dalla lingua del suo nuovo amico. Aveva dovuto allungare qualche banconota extra per farlo accettare in albergo. I soldi non erano un problema. Le famiglie per cui lavorava appartenevano alle più diverse classi sociali. Alcuni non pagavano quasi nulla, altri trovavano normale offrire un premio a quattro zeri al detective che avevano assunto, quando questi riportava a casa il loro rampollo fuggiasco in buona salute. Quando uscì dalla doccia il cane era là, accovacciato sulla soglia del bagno, e scodinzolava. «Anche tu avrai diritto a un bagno, appena trovo il tempo e il coraggio di fartelo. Dobbiamo anche trovarti un nome. Hai per caso qualche proposta?» L'animale si passò la lingua sulle labbra. Aveva un po' del labrador e un po' del cane lupo, con le orecchie penzolanti ai due lati del muso. Brolin ordinò al servizio in camera una prima colazione arricchita da un'abbondante porzione di bacon. Appoggiò una mano sulla testa del cane, che lo lasciò fare. «Tu e io siamo uguali. In molte più cose di quanto non immagini, amico mio...»

Diede una pacca amichevole sulla schiena del bastardone. «A partire da oggi, ti chiamerai Zaffiro.» Sentì un lieve pizzicore in fondo al cuore. Era il colore che amava di più. Un ricordo lontano. Uno sguardo, il cielo, l'oceano... Mandò giù la colazione in pochi minuti e diede il piatto con il bacon a Zaffiro, che lo divorò ancor più rapidamente. Indossò uno dei suoi soliti jeans e il suo maglione preferito, nero e morbido, prima di sedersi al tavolo della suite. Il grigiore mattutino aveva inondato il patio e si era fatto strada fino al lungo balcone. Al di là, le ombre che circondavano la vita dell'investigatore erano ancora troppo fitte. Brolin mise sul tavolo il pezzo di carta trovato nel magazzino. «... con Lucas... distribuzione e Bob o Malicia Bents alla Corte dei Miracoli... la cerchia... intenditori.» Prese il telefono e compose a memoria un numero della costa occidentale. Dopo parecchi squilli la voce impastata di Larry Salhindro, il suo amico ed ex collega di Portland, risuonò nel ricevitore: «Hhhmm?» «Larry, ho bisogno di un favore, ancora uno.» «Josh, è diventata un'abitudine per te svegliarmi? C'è una fottuta differenza di fuso orario, te ne sei dimenticato? Qui sono... Oh, cazzo, le cinque e mezzo, le cinque del mattino, merda!» «Lo so, Larry. Ma è importante.» «Seeee, come sempre.» Per un po' Salhindro finse di essere furioso, poi il suo tono cambiò, si fece più vicino, più sincero: «Josh, devi accettare il fatto che non puoi passare le tue giornate a salvare gli altri, ventiquattr'ore su ventiquattro. Dovresti avere anche tu un minimo di vita privata.» E aggiunse, con un pizzico d'ironia: «Sai, persino gli sbirri ce l'hanno!» Il telefono rimase muto. Un silenzio che i due uomini sapevano bene come interpretare. Un silenzio più eloquente di mille parole. «Come stai?» finì per chiedere Salhindro. A Brolin parve di vedere l'amico che si allungava nel letto dove dormiva da solo, per raggiungere un pacchetto di sigarette. «Bene. Mi sono fatto un nuovo amico.» «Un poliziotto?» «Un cane.» «Ah.» Di nuovo silenzio. «Allora? Cosa c'è di così importante?» volle sapere Larry.

«Ho bisogno che mi trovi tutto quello che puoi su una certa Malicia Bents. Penso che viva a New York o nei dintorni.» Brolin compitò esattamente il nome della donna misteriosa che sembrava far parte della cerchia di Bob. «Hai sempre lo stesso numero di fax?» «Sì. Un'altra cosa, Larry: la Corte dei Miracoli ti dice qualcosa?» «Boh... No, ma non è a Londra o magari a Broadway? Sembra il nome di una commedia musicale.» «No, un tempo era un quartiere malfamato di Parigi, un luogo dove si ritrovavano tutti i malviventi e i mendicanti. Mi chiedevo se era diventato un termine gergale o il nome di una nuova gang, qualcosa del genere.» «Non mi dice proprio nulla, mi dispiace.» «Larry, per Malicia Bents... è piuttosto urgente.» «Sì, lo so. Il più presto possibile.» I due si scambiarono qualche altra battuta, in un tono sempre meno allegro, e alla fine riagganciarono. Brolin rifletté a lungo. La Corte dei Miracoli. Non sapeva granché sull'argomento, salvo che il quartiere doveva il suo nome ai mendicanti che «guarivano» da ogni infermità non appena raggiungevano quella zona della città, che era il loro rifugio. Qual era il rapporto con la setta di Caliban? Bisognava intendere l'espressione in senso ironico o pensare a una sorta di misticismo monarchico all'ultimo stadio? Brolin stava girando intorno alle sue deduzioni, quando qualcuno bussò alla porta. Si avvicinò con prudenza all'ingresso. «Chi è?» «Sono io, Annabel.» La porta si aprì sul viso stanco della donna. «Ho poco tempo», gli spiegò lei. «La notte è stata lunga e stamattina devo tornare nel New Jersey.» Brolin la osservò, incuriosito. «C'è qualcosa che deve sapere», gli confidò lei, con il tono che accompagna le cattive notizie. Gli raccontò della scoperta del vagone con il suo carico di morte. Brolin chiuse gli occhi. Forse avevano appena ritrovato Rachel Faulet. «Non c'è niente che possa servire a identificarli? Vestiti, portafogli...» «Niente. Anzi, le cose stanno anche peggio.» Gli disse che i corpi erano stati portati nel vagone già ridotti a scheletri, e gli fece un resoconto dettagliato di tutto ciò che aveva appreso dai tecnici della scena del crimine. Poi gli raccontò della giovane Taylor e del mes-

saggio affidato alla sua carne martoriata. Man mano che le parole le uscivano di bocca, pareva accusare sempre più il colpo. Seduta su una sedia, vomitava fuori tutto l'orrore di una notte da incubo. «Vado a Phillipsburg. Taylor è originaria di là, così come altre quattro vittime, mentre altre ancora vivevano nei paraggi. Per una zona così piccola, è una concentrazione troppo alta per essere solo un caso. Andrò a parlare con lo sceriffo e con qualche amico di Taylor.» Brolin ascoltava senza dire una parola. «Ho pensato che dovevo metterla al corrente di tutto al più presto», continuò lei. «Cercherò di tenermi in contatto, se dovessero identificare qualche scheletro, non si sa mai...» Fece per andarsene, poi ci ripensò. «Aveva ragione», disse, «questa volta se l'è presa con un'intera famiglia.» Con un gesto amichevole, Brolin le mise una mano sulla spalla. «Vuole un po' di tè? Le farebbe bene.» Lei fece cenno di no. Brolin la guardò fisso negli occhi. «Annabel, per caso il nome di Malicia Bents le fa venire in mente qualcosa?» L'aveva chiamata per nome, e non accadeva di frequente. Sul momento la cosa la turbò, poi si rese conto che le faceva piacere. Era comunque un accenno di intimità, e non le dispiaceva affatto. Rifletté un attimo, prima di rispondere negativamente. «Non mi pare. Perché?» «Così... Possiamo vederci, questa sera?» Lei rimase sbalordita. «Intendo in senso professionale», aggiunse lui, davanti allo sguardo sorpreso della detective. Annabel si sentì immediatamente ridicola; le guance le avvamparono. Quanto riusciva a essere stupida, a volte! Ma cosa ti prende, idiota! Lui le sorrise e spiegò: «Magari avrò anch'io qualche novità, spero». Per allora, Malicia Bents avrebbe forse svelato i suoi segreti. Annabel fece un passo indietro e scorse Zaffiro ai piedi del divano. «L'ultima volta non mi ero accorta che avesse un cane.» Brolin aveva gli occhi fissi su di lei, e la sua aura sembrava brillare tutta attorno a lui. Il suo sorriso si allargò, e questo fu il suo unico commento. «La chiamerò», disse infine Annabel uscendo dalla stanza. Una volta nel corridoio, se la prese con se stessa per essersi comportata

in modo così maldestro. Era ancora turbata dalla forza che emanava da quell'uomo. In ascensore, si chiese perché mai era andata fino a lì. Sarebbe bastata una telefonata. No, non c'entra niente l'attrazione! E lo pensava davvero. In realtà aveva avuto semplicemente bisogno di vederlo, di parlargli. Perché lui risplendeva come un faro nelle tenebre, e perché, dopo tutte le emozioni che aveva provato, Annabel si era sentita davvero sola. La sua presenza era rassicurante. Sì, era questo: lui le faceva bene. 43 Larry Salhindro si schiarì rumorosamente la voce. «Tieniti forte», disse. «La tua Malicia Bents è un fenomeno. Ho controllato: ci sono due Malicia Bentz, con la zeta, in tutto il Paese, ma nessuna con la esse. Tranne il fatto che, e questa è la chicca, i nostri colleghi del servizio ispezioni di US Postal si interessano anche loro a questa Malicia Bents con la esse.» «Vale a dire?» «La cercano per una specifica infrazione postale. Ti spiego: sembra che qualcuno dei ragazzi di US Postal abbia intercettato un pacco sospetto qualche tempo fa. Non ho i dettagli, ma è in relazione con una certa Malicia Bents. E quindi hanno emesso un avviso di ricerca.» «Che genere di pacco?» «Non lo so, ma ho un numero di telefono, uno dei loro investigatori di New York. Hai carta e penna?» Brolin scarabocchiò il numero su un foglio di carta intestata dell'hotel. «Dunque, ufficialmente Malicia Bents non esiste, niente stato civile», riassunse Brolin, «ma, al tempo stesso, è ricercata per un crimine postale...» «Già. Come dire che è un nome falso.» «O un'immigrata clandestina.» «Giusto.» Brolin ringraziò caldamente l'amico e compose il numero dell'investigatore dell'US Postal. Presentandosi come un detective privato che si occupava del rapimento di un'adolescente riuscì a ottenere un appuntamento a colazione con Freddy Copperpot, l'agente incaricato dell'indagine su Malicia Bents. Prese la Glock e la pulì accuratamente. Doveva sostituirla al più presto. Sarebbe bastata una semplice comparazione balistica per ricollegarla alla

morte di Shapiro. Alle undici Brolin si infilò nella metropolitana, in mezzo a facce stralunate e sguardi vitrei. Una fermata dopo l'altra, il vagone si andò riempiendo di abiti scialbi, di adolescenti dalle voci squillanti e di turisti dall'aria pensosa. Passando sul Manhattan Bridge il convoglio sorvolò lo specchio grigio dell'East River, prima di farsi largo tra gli edifici ed essere inghiottito dalla terra. Brolin scese a Little Italy e non ebbe difficoltà a trovare Mulberry Street, dove lo attendeva Freddy Copperpot. Edifici grigi e tozzi incorniciavano una serie di negozi, quasi tutti di generi alimentari. Copperpot era in completo nero e camicia bianca, perfettamente anonimo nella folla di businessmen, con la barba tagliata corta e i capelli freschi di barbiere. Brolin gli diede una quarantina d'anni. Aveva in mano un portadocumenti di pelle, e l'investigatore colse il brillio fugace di un anello con sigillo. Scambiarono qualche convenevole; Joshua ne approfittò per ringraziarlo. Mise l'accento sull'urgenza della propria indagine, sul tempo che scorreva inesorabile dal momento in cui la ragazza era scomparsa. I due uomini si sedettero in un locale che di italiano aveva solo il nome, e ordinarono il pranzo. «Questa ragazza», chiese Copperpot, lanciando una rapida occhiata alla fasciatura che copriva l'orecchio di Brolin, «lei pensa che sia stata rapita?» «Rachel Faulet? Temo proprio di sì. Come le ho detto al telefono, ho trovato tra le cose di Rachel il nome di Malicia Bents, di cui non so un bel nulla. Ho pensato a un'amica, finché non sono venuto a sapere che non c'è traccia della sua esistenza, ma che voi in compenso la state ricercando da tempo.» Non aveva altra scelta che mentire: se avesse fatto cenno al pezzo di carta trovato nel deposito, avrebbe dovuto spiegare la sua presenza laggiù, e di conseguenza rischiare di ritrovarsi coinvolto nella morte di Lucas Shapiro. «In effetti, ci piacerebbe fare due chiacchiere con Malicia Bents! Senta, sarò sincero con lei: dopo che mi ha telefonato mi sono un po' informato sul suo conto.» Copperpot fece una pausa, il tempo di lanciargli un'altra occhiata. «Come ex poliziotto e detective privato, ha fama di essere un solitario. Se io condivido le mie informazioni, mi aspetto che lei faccia altrettanto.» «Sicuro. Ma non ho granché in mano, solo un pezzo di carta con il nome di Malicia Bents.» Si piegò verso Copperpot, le pupille ardenti fisse in

quelle dell'agente federale. «Voglio sapere che cosa è successo a Rachel, questo è quello che conta per me, e può darsi che Malicia sia in rapporto con la sua scomparsa.» Un gomito appoggiato sul tavolo e il mento nell'incavo della mano, Freddy Copperpot si grattava nervosamente la barba con la punta delle dita. Rifletteva, soppesando i pro e i contro. «Bene», disse dopo un po'. «Tutto quello che ci diciamo rimane tra di noi, e sto parlando all'ex poliziotto. Se, nel corso delle sue indagini, scopre qualsiasi cosa sul conto di Malicia, mi avverte all'istante. Conto su di lei. I suoi ex colleghi hanno detto che è un uomo di parola. Mi fido di loro.» Brolin batté appena le palpebre, in segno di assenso. Così Copperpot si era spinto fino a chiamare i suoi ex colleghi di Portland. «Circa sei mesi fa un impiegato postale si è trovato di fronte a un pacco quanto meno atipico. Stava caricando i colli da spedire su un furgoncino, quando ha visto delle gocce rosse che uscivano da una scatola. Tutto un lato del pacco era diventato rosso, come se fosse insanguinato. Ci ha avvertiti e noi abbiamo aperto un'indagine di routine. Sa, c'è un traffico postale mostruoso: ogni anno in questo Paese circolano centosessantasei miliardi di plichi, e alcuni contengono droga, materiale pedopornografico, a volte animali esotici introdotti illegalmente entro le nostre frontiere, come ragni, scorpioni, serpenti e persino scimmie, chiuse vive in scatole di cartone. Non ha idea di quello che ci capita di trovare.» Copperpot si interruppe, per permettere alla cameriera di posare i loro piatti: due porzioni di spaghetti alla bolognese. «Il pacco in questione era catalogato come First Class, cioè protetto dal Quarto Emendamento della Costituzione, quindi non potevamo aprirlo così su due piedi. Perciò abbiamo tentato di contattare il destinatario, una certa Malicia Bents. L'indirizzo corrispondeva a una casella postale in una città del New Jersey, presa a nolo a nome di Malicia Bents. Tutti i dati che aveva fornito si sono rivelati fasulli. La signorina Bents aveva fatto in modo che non si potesse risalire a lei. Abbiamo allora ottenuto un mandato per poter aprire il pacco.» Copperpot fissò Brolin, allontanando appena il proprio piatto. «Che cosa c'era dentro?» chiese l'investigatore, che già sospettava la risposta. «Ghiaccio avvolto nella plastica, e in mezzo un fegato e una tibia. Dopo le analisi del nostro laboratorio abbiamo avuto la conferma: erano di origine umana.»

Si guardarono attraverso il velo di vapore che saliva dai loro piatti ancora bollenti. «Anche il mittente era fasullo. Quando un ufficio postale entra in possesso di un pacco, questo viene registrato e gli si attribuisce un codice a barre che permette il trattamento informatico e le operazioni di inoltro. Grazie al codice a barre siamo riusciti a risalire a un ufficio postale di Paterson, New Jersey, che era il luogo di invio. Ma non c'è stato niente da fare, nessun testimone, dead zone. Allora abbiamo predisposto un appostamento a Phillipsburg...» «A Phillipsburg?» si stupì Brolin. «Sì. È là che Malicia Bents aveva aperto la sua casella postale.» Brolin si ricordò delle parole di Annabel, che aveva accennato a diverse vittime originarie di quella città e dei suoi dintorni. «Comunque sia, non abbiamo cavato un ragno dal buco. Forse Malicia ha capito che la stavamo cercando e non si è fatta più vedere, forse qualcuno l'ha avvertita, o magari ha semplicemente deciso di lasciar perdere tutto quanto... Legalmente non esiste, non c'è nessuno con questo nome in tutto il Paese.» «Per aprire una casella postale ha dovuto fornire molte informazioni?» «No, è una faccenda molto semplice; in certi uffici è possibile anche farlo per telefono. In ogni caso è un gioco da ragazzi procurarsi i dati di un'altra persona. Lo scorso anno ben cinquecentomila persone si sono fatte derubare della loro identità, nel nostro bel Paese! Se lo immagina? Gli ambulatori medici, come le scuole, hanno degli schedari con nomi, indirizzi, numeri di telefono e della previdenza sociale: non sono difficili da sottrarre. Ci sono anche compagnie di assicurazione e scuole che si servono dei numeri della previdenza sociale come identificativo. Si immagini un po'! Noi lavoriamo d'intesa con l'ufficio del procuratore e con i servizi segreti per smantellare questi traffici, ma è un autentico rompicapo. Quindi è inutile illudersi di riuscire a scoprire come abbia fatto Malicia Bents a costruirsi la sua falsa identità.» «E, in seguito, l'indagine ha fatto qualche progresso?» Copperpot picchiettò con l'indice sul suo portadocumenti. «Abbiamo scavato a fondo negli archivi informatici per scoprire se c'erano già stati dei plichi inviati a questa Malicia Bents. Ne abbiamo contati trentasette.» Sulla panchetta in skai, Brolin fremette. Era sicuro di aver visto giusto. L'agente federale proseguì, in tono didattico: «Naturalmente non sappiamo

cosa contenessero, ma se sono tutti dello stesso genere... A New York disponiamo di un laboratorio molto attrezzato, ma per le impronte era ormai tardi, dal momento che ben prima che arrivasse da noi il pacchetto era già stato manipolato da troppe persone. Allora abbiamo fatto ricorso a un esperto in grado di studiare la grafia del mittente. Le caratteristiche generali, la disposizione, i segni di accentazione e di punteggiatura uniti allo studio morfologico delle lettere di motricità infantile hanno permesso di stabilire che si tratta di un mancino, probabilmente di sesso maschile. Quanto all'inchiostro utilizzato, è un banale composto, materiale colorante e sali ferrosi in una sospensione di acido gallico. L'ATF ci ha permesso di accedere al suo database che contiene più di tremila tracce cromatografiche di inchiostri, ma ancora una volta il risultato ci ha rimandato a un prodotto troppo diffuso per costituire un indizio significativo. A tutt'oggi, dopo sei mesi di indagini, non sappiamo nulla di più su questa misteriosa donna né sul mittente suo amico.» Brolin cercò di mettere un po' d'ordine nella sua mente agitata. Che cosa poteva dedurre da tutto ciò? Che c'erano non uno, ma due membri della setta di Caliban ancora in circolazione? Malicia e un mancino, lo stesso Bob. No, aspetta. Ricordati di Lucas! Sì, Lucas era mancino. Brolin rivide come in un film l'accaduto: usava la pistola con la mano sinistra. Lucas poteva dunque essere il mittente del plico. Basandosi sugli indizi avevano ridotto la setta a tre individui, il che non escludeva che ci fossero altri membri con un ruolo minore. Come Janine Shapiro, che faceva da assistente al fratello. E a questo punto come Malicia Bents, l'ombra di Bob. Malicia Bents, qualunque fosse il suo vero nome. Una donna che viveva nella regione di Phillipsburg. Doveva parlare ad Annabel, esporle la sua teoria. Renderla partecipe dell'orrore contro cui stavano combattendo. Si alzò di scatto, di fronte a un Freddy Copperpot sconcertato. Lasciò una banconota sul tavolo e promise all'agente di chiamarlo quanto prima. Dall'esterno l'aria fredda si insinuò attraverso la porta aperta. Doveva identificare Malicia Bents, se voleva trovare Bob. 44 Mentre, su a nord, la terza squadra dava il cambio alla precedente per estrarre gli scheletri dal vagone sotto lo sguardo spossato di Jack Thayer,

Annabel si trovava a Phillipsburg, sulla Corliss Avenue, in un piccolo fabbricato in mattoni, nell'ufficio dello sceriffo locale. Lo sceriffo, Eric Murdoch, era proprio di fronte alla giovane detective e la stava ascoltando con la massima attenzione. Di primo acchito, Annabel era rimasta colpita dal suo fisico imponente. Murdoch, trentasei anni, era un metro e novanta per cento chili. In passato era stato uno sportivo, ma aveva ormai alzato bandiera bianca davanti ai piaceri della tavola. I chili superflui non bastavano tuttavia a nascondere la possente muscolatura del suo corpo. Aveva un viso rubicondo e i capelli radi con un principio di calvizie, ma non era comunque uno che passava inosservato. «Ci sono state troppe vittime in questa regione perché si tratti di un caso», stava spiegando Annabel. «Bob abita qui intorno. Bisognerà passare in rassegna tutta la zona, fare dei controlli su tutti gli individui già condannati per reati gravi, interrogare i vicini delle vittime, se per caso avessero visto qualcosa.» «Ben lieto di darle una mano, ma non vorrei avere noie con le autorità federali. Lei ha già preso accordi in merito?» Ecco, ci mancava solo questo: un burocrate. Era completamente fuori dalla sua giurisdizione, e anche se Woodbine o il sindaco di New York in persona la appoggiavano, doveva rispettare le procedure. «Detto tra noi, non è che io li ami alla follia», le confidò lo sceriffo. «Si comportano sempre come se fossero dei re. È solo che voglio evitare le rotture di scatole.» «Sistemeremo questo aspetto al più presto, si fidi di me. Nel frattempo avrò bisogno di una mano, visto che lei è di casa qui e conosce la gente che ci vive.» «Va bene... Senta, quello che mi ha detto prima a proposito di Taylor Adams, è proprio così che è andata? L'hanno ritrovata nuda con una busta spillata al corpo?» Annabel annuì cupamente. «Lei l'aveva già vista?» «Chi, Taylor? Certo che sì. Si potrebbe anche dire che era una cliente abituale. Continuava a combinare cazzate. Sono io che l'ho riportata a sua madre più di una volta, quando la ritrovavano completamente ubriaca per strada. Non è una cattiva ragazza, è solo che è sballata in testa. Se nessuno farà nulla per aiutarla, andrà a finire male...» «Temo purtroppo che d'ora in avanti starà assai più tranquilla. Ho appena parlato con sua madre, che mi ha fatto una lista degli amici di Taylor.

Che ne pensa?» Annabel tese il foglio con i nomi allo sceriffo, che lo afferrò con una mano dalle dita lunghe e callose. «Hmm... Niente di particolare. Ne conosco due, stesso genere della ragazza; gli altri invece non ho idea di chi siano: gente del posto, sembra. Posso farle una domanda?» «Spari.» «Che cosa c'era dentro la busta?» «Niente che siamo riusciti a capire», mentì Annabel. «Perché?» «Semplice curiosità. Bisogna essere pazzi, per fare una cosa del genere!» «O terribilmente sicuri di sé.» Ci aveva pensato parecchio, nelle ultime ore. Di colpo, sentì il bisogno di riconsiderare tutte le sue idee, esprimendole a voce alta. «È un po' come se volesse farci vedere che può fare ciò che vuole, e che per lui una vita umana non conta proprio nulla. Forse vuole dimostrarci che è così potente da potersi permettere di rapire delle persone solo per usarle come messaggeri. Come se dovesse solo schioccare le dita per rifornirsi di materia prima. Il mondo è il suo serbatoio, non deve fare altro che attingervi. In un certo senso, crede di essere Dio.» «Ho letto in un libro che è proprio questo il problema dei serial killer», intervenne Murdoch. «Vanno alla ricerca del dominio totale, del potere, spersonalizzando le loro vittime. Io penso che una cosa del genere sia un'idiozia, come si può...» Il cellulare di Annabel cominciò a squillare. Lei si allontanò di qualche passo prima di rispondere. Era Joshua Brolin. «Devo vederla. È importante», disse lui. «Ho ancora qualche persona da interrogare, gli amici della ragazza ritrovata stanotte, e poi torno.» «Lasci perdere, dobbiamo parlare.» «Cosa la rende così sicuro di...» «Sarò sotto casa sua tra un'ora. A dopo.» Riagganciò. Annabel rimase a bocca aperta per un attimo, poi raggiunse di nuovo Murdoch. «Io... Credo proprio di doverla salutare, sceriffo, ha il mio numero. Per qualunque cosa, non esiti a chiamarmi.» Murdoch alzò le ampie spalle e la detective tornò alla sua BMW. Accese

il lettore CD e le note di Miles Davis inondarono l'abitacolo. Lungo il tragitto, Annabel ricevette una chiamata da Thayer. Cattive notizie. In primo luogo, parecchi scheletri avevano la stessa, sinistra caratteristica: erano stati privati della parte superiore della tibia. Non tutti, ma almeno un quarto degli adulti. Per contro, nessuno dei bambini. A ciò si aggiungeva che non tutti erano completi: mancavano diversi crani, parecchi femori e gabbie toraciche. Inoltre, e nemmeno questa era una buona notizia, sul posto erano intervenuti i federali. Tenuto conto delle circostanze - l'attraversamento dei confini statali, i ripetuti rapimenti e infine la presenza di due dipendenti federali tra le vittime - l'FBI rivendicava la propria giurisdizione sull'inchiesta. I federali si erano prudentemente mantenuti nell'ombra dei poliziotti, ma ora, ritenendo di avere indizi a sufficienza grazie alla scoperta del vagone, entravano in scena per l'ultimo atto in modo da raccogliere tutti gli allori. Per il momento l'FBI non aveva ancora avocato ufficialmente le indagini, ma era questione di ore. L'attenzione dei media si stava facendo sempre più pressante man mano che si scopriva l'ampiezza del fenomeno rapimenti. Messe in allerta dall'imponente spiegamento di forze di polizia che avevano operato senza posa tutta la notte, le telecamere giravano a pieno regime nella regione di Montague. Se Bob era davanti al televisore, sapeva che il suo piccolo campo giochi era stato individuato. Dopo l'avvertimento della notte prima, Annabel temeva una reazione rabbiosa. Cominciò a maledire a voce alta i giornalisti, poi i G-men. Se mettevano le mani sulle indagini, il NYPD si sarebbe opposto con tutte le sue forze: erano loro che si erano sorbiti tutte le fatiche, le notti in bianco e il resto... Oppresso dalla stanchezza, ma più motivato di prima a non mollare l'osso adesso che l'FBI era nelle vicinanze, Thayer chiuse la telefonata con qualche parola di incoraggiamento alla collega. Annabel attraversò il ponte Da Verrazzano, da cui si godeva un'incredibile vista sulla baia immersa nel suo grigiore, e risalì Brooklyn fino agli Heights. Scese dalla macchina a dieci metri da casa. Una mano galante le tenne aperta la portiera. «Ho appena ascoltato alla radio un certo sceriffo Tuttle, di Montague», disse la voce di Brolin alle sue spalle. «Con un comunicato stampa dei più laconici annunciava la scoperta di un carnaio. Un uccellino mi dice che qualcuno gli ha suggerito quello che era il caso di dire. Fortunatamente ha evitato qualunque collegamento con la vostra inchiesta. Ma ho paura che

non durerà a lungo...» Annabel alzò le spalle. Con l'FBI in gioco, era solo questione di tempo prima che quelli prendessero in mano le redini, e le scocciature mediatiche sarebbero state tutte loro. Ma dentro di sé, come tutti i poliziotti coinvolti, non sopportava l'idea di essere esautorata dall'indagine. Con i piedi nella neve, fronteggiò l'investigatore privato. Le sue trecce danzavano nel vento. Notò la presenza del cane, che si teneva in disparte osservandoli con curiosità. Brolin era passato all'hotel per andarlo a prendere. «Che cos'ha di tanto importante da dirmi?»chiese senza indugio. «Ero a Phillipsburg, dallo sceriffo Murdoch, e lei mi ha chiuso il telefono in faccia senza una parola di spiegazione; se mi comportassi allo stesso modo, avrei dovuto piantarla in asso e non farmi nemmeno vedere.» Un abbozzo di smorfia divertita incurvò le labbra di Brolin. Lei non era affatto arrabbiata. Ha carattere, ecco tutto, e non sopporta di non avere il controllo... «Venga, ora ne parliamo.» La condusse nella via parallela, una passeggiata pedonale che dall'alto della collina sovrastava tutta la baia e l'intera Manhattan. Mazzolini di fiori tricolori e bandiere a stelle e strisce erano disposti lungo tutta la ringhiera, assieme alle foto delle persone scomparse nella catastrofe ancora troppo recente di settembre. Gli attentati, oltre a un aumento senza precedenti dei budget di tutti i servizi di informazione, avevano provocato un incredibile soprassalto di patriottismo. Tutto il Paese si era rivestito dei colori nazionali, e persino gli M&M erano diventati rossi, blu e bianchi. «Annabel, cosa può dirmi degli scheletri trovati in quel vagone?» «Ehi, non sono venuta qui per rispondere alle sue domande! Aveva qualcosa di importante da dirmi, giusto?» Si stava abituando alla presenza carismatica del suo complice, e ormai riusciva a non lasciarsi più soggiogare. Anche se rimaneva una persona davvero ammaliante, e Annabel sospettava che lui sapesse fin troppo bene come sfruttare questa dote per i suoi scopi. «Ora ci arrivo. Che cosa sa di quei corpi?» Lei sospirò. «E va bene. Non molto. Le ho detto tutto stamattina: sono i resti di una sessantina di persone. Uomini, donne e bambini. Sono stati portati là in quello stato, già ridotti a scheletri. Secondo i tecnici, non c'era più carne sulle ossa o quasi. E poco fa ho saputo che a parecchi di loro manca la par-

te superiore della tibia.» Brolin annuì. Il contenuto del pacco diretto a Malicia Bents. «Senta, a proposito della notte scorsa non le ho detto tutto», ammise Annabel. «Il messaggio, quello portato dalla giovane Taylor, era destinato a me, c'era il mio nome sopra. Non riesco a smettere di pensarci. In seguito ai suoi consigli avevo insistito con il capitano perché in tutte le dichiarazioni rilasciate alla stampa, se doveva comparire il nome di un investigatore addetto all'indagine, fosse citato il mio. Credo che abbia funzionato.» «Ha paura?» La detective rifletté un istante, poi scosse il capo. «Credo di no.» «Bob aveva bisogno di un interlocutore nella polizia. Lei rappresenta coloro che gli danno la caccia, e quindi non gli piace. Detto questo, però, può anche darsi che si senta lusingato. Dubito che arrivi a minacciarla personalmente: è il sistema che non gli va, e lei è solo una pedina. Comunque, sia prudente.» Annabel rimase a contemplare là discesa che conduceva ai magazzini giù in basso e i moli deserti. Respirò il profumo fresco del vento sul viso. «Chi è Malicia Bents?» chiese. «Me ne ha parlato stamattina.» «Penso sia il braccio di Bob. Il suo braccio destro, e in qualche modo il suo volto.» Annabel si voltò di scatto verso di lui. «Come fa a saperlo?» Brolin le fece un resoconto del tempio a Red Hook, del pezzo di carta con il nome di Malicia Bents e infine del colloquio con Freddy Copperpot. «Se ci atteniamo all'ipotesi di partenza, che Bob e la sua banda siano solo tre persone, allora Malicia è come Janine Shapiro, una tuttofare del crimine al servizio del gruppo.» «E se Malicia e Janine fossero la stessa persona?» «Non credo. La nostra Malicia ha una notevole faccia tosta. Usa con la massima semplicità la posta per il suo piccolo traffico e si serve con disinvoltura di nomi falsi, tutte cose che non quadrano con la personalità di Janine. Io vedo Janine come uno strumento del fratello, una donna spezzata che viveva nella sua ombra. No, Malicia è un'altra donna, che vive non lontano da Phillipsburg, dove riceveva i pacchi postali.» Zaffiro accelerò l'andatura e si infilò in una traversa, dove i due lo seguirono senza smettere di parlare.

«Perché una donna? Quali sarebbero le sue motivazioni? Janine faceva quello che faceva a causa del fratello. E Malicia?» «Janine si vedeva come una nullità, perché suo fratello faceva in modo di farla sentire tale. A forza di sevizie ha finito per scoprire che dare la morte o torturare altre persone la faceva diventare immediatamente qualcuno: era forte, era temuta, aveva il potere, il che le ha permesso di accettare tutto. Per contro, una parte di lei non voleva; è per questo che andava a mettere del sangue in chiesa: cercava il perdono oppure, al contrario, la dannazione per i suoi delitti.» «Senta, ma lei ci ha parlato?» chiese stupita Annabel. «No, questo è quello che sento. Naturalmente posso sbagliarmi, è solo un'interpretazione. È così che sono andate le cose, in molti casi analoghi. Per tornare a Malicia, ho l'impressione che abbiamo a che fare con una persona più sofisticata, più volitiva. Ma fino a quando non sapremo perché Bob mantiene in vita così a lungo le sue vittime, temo proprio che non riusciremo a comprendere le motivazioni di Malicia.» «Bob è un folle psicopatico!» esplose Annabel. «Ha tenuto sequestrata Taylor Adams per un mese e mezzo prima di rilasciarla con un messaggio spillato a un seno! L'ha fatta diventare pazza! Non apre più bocca se non per urlare o per dire che è stata all'inferno, che è stata con i demoni. Ma lui, che cosa se ne fa di tutta questa gente, maledizione?» «All'inizio ho pensato a delle schiave sessuali, ma la cosa non ha più molto senso alla luce delle nuove informazioni sulla sua personalità. Venga.» Brolin condusse la giovane detective verso Remsen Street. Percorsero tutta la via fino alla zona industriale sulle rive dell'East River, passando sotto la Brooklyn-Queens Expressway. Lungo tutto il cammino, Zaffiro si diede alla pazza gioia, annusando tutto ciò che gli arrivava a portata di naso. Il cane sembrava essere rinato a nuova vita. Il terzetto si intrufolò tra due recinzioni di alluminio, oltrepassò un edificio abbandonato e proseguì tra i resti di un molo di legno ormai in rovina. Alcune tavole scricchiolavano pericolosamente; le evitarono e scesero alcuni scalini traballanti per avvicinarsi alla riva. La baia si allargava, maestosa, come un deserto color mercurio in cui si rispecchiavano le nubi di piombo, che si muovevano a gran velocità. «Si guardi intorno, Annabel. Che cosa vede?» le chiese l'investigatore. Dal momento che lei non batteva ciglio, insistette: «Coraggio, guardi da ogni parte, e mi dica che cosa percepisce».

La poliziotta dapprima lo fisso, poi volse lo sguardo verso il profilo di Manhattan, irto di edifici. Salivano verso le nuvole, come titanici razzi formicolanti di attività. Di fronte, la linea grigia del New Jersey e delle sue gru era immersa in una sottile nebbiolina invernale. Alle spalle di Annabel la collina saliva ripida e non si distinguevano più né la terra né gli alberi, c'erano solo costruzioni umane che spuntavano da ogni dove e che facevano pensare a una casella del Monopoli troppo piena. La Expressway era costantemente invasa dal traffico: una striscia inquinante e rumorosa. Annabel aveva compiuto un intero giro su se stessa. Fu attratta dallo sciabordio. Sull'acqua galleggiavano alcuni sacchetti di plastica, simili a meduse artificiali. Più in là, un bidone vuoto oscillava sulla superficie accanto a un preservativo. L'uomo era ovunque. Conquistatore vittorioso di una terra che non era mai entrata in guerra. Annabel rivolse a Brolin uno sguardo ferito. La sua voce era dolce. «Non saprei... Un paesaggio... triste?» Lui socchiuse appena gli occhi. Ciocche nere gli frustavano le guance. Nella sua voce una totale assenza di emozioni, come se facesse una semplice constatazione. «Questo è quello che appare a prima vista: l'industrializzazione, l'inquinamento. Ma al di là si vede ciò che ogni essere vede da quando apre gli occhi: il consumo. A oltranza. Dappertutto, sempre di più. Gli spot pubblicitari proliferano, accompagnati da studi per renderli più subdoli, per migliorarne l'impatto. Quello che abbiamo davanti agli occhi ogni giorno è un mondo che non vive ormai altro che per il marketing, per lo studio della comunicazione, e non con scopi filantropici, oh no, si tratta solo di incrementare i consumi. Questa società si evolve solo in questa direzione. In qualsiasi ambito, persino in quello religioso, oggi le credenze non si basano più sulle convinzioni, ma sulle scelte! Le riviste pubblicano tabelle comparative con i pregi e i difetti di ciascuna religione, e in base a quelli si sceglie la propria spiritualità, pronti a sostituirla più e più volte nel corso della vita. La religione diventa così uno strumento per vivere meglio, per affrontare meglio la propria condizione mortale. Non si vive più per un Dio, ma solo per se stessi, e Dio ce lo vendono come una specie di ansiolitico spirituale adattato a seconda dei gusti.» Annabel si appoggiò a uno dei pilastri del pontile, aspettando di capire dove volesse arrivare il detective. «Noi non viviamo più per respirare l'aria pura, per amare e per godere di quel poco di tempo che trascorriamo quaggiù, mantenendo l'armonia con

l'essenza della vita; no, a poco a poco stiamo scivolando verso un modello sintetico. Ci stiamo robotizzando. Gli esseri umani dipendono sempre più dalle cose che possiedono e dal tempo che impiegano a usarle prima di scomparire. Guardi, Annabel, si guardi attorno. A chi diamo ascolto? Chi dirige questa società? A chi ubbidiamo? Ai consumatori. Ai ceti produttivi. Ai conformisti. Ai robot di questa terra.» Un sorriso amaro gli incurvò le labbra. Annabel scosse il capo. In linea di massima condivideva la sua opinione, ma lui stava calcando troppo la mano. «Adesso non esageri, non siamo in un film di fantascienza!» «No, perché un paio di secoli fa, se un romanzo avesse raccontato cosa è diventato il mondo di oggi sarebbe stato considerato un'assurdità, un orrore fuori dalla realtà. Lei pensa che io ci vada troppo pesante, vero? Eppure le cose stanno proprio così. Prima, l'uomo viveva o sopravviveva per avere dei figli, per amare una donna. I sistemi sociali antichi erano basati su una piramide: in alto i dominanti, poco numerosi, e in basso i dominati. Questi ultimi erano sfruttati, spesso usati come carne da cannone, e, poiché la speranza di vita era bassa, cercavano la felicità nelle cose semplici dell'esistenza, nell'amare, nell'essere vivi. L'essenziale. «Quelli in alto avevano il potere, a volte poco, a volte tanto. E avevano il tempo. Il potere e il tempo li rendevano esigenti, volevano sempre di più: più terre, più palazzi, più donne, più sudditi. Era un mondo di guerre... Oggi è cambiato tutto. Si è voluto dare un po' di potere a tutti, e questo potere si accresce a misura del tempo che ognuno dà alla società. E l'uomo continua a volerne di più, sempre di più, cadendo in una spirale frenetica. Le guerre quotidiane sono state sostituite dal lavoro; le battaglie non fanno meno vittime, sono solo meno visibili. Queste guerre di oggi non uccidono quasi più uomini: uccidono l'umanità.» Fece una pausa. L'acqua faceva scricchiolare il pontile accanto. «Fanno di noi delle macchine.» Un gabbiano che il freddo non era riuscito a cacciare via lanciò un'approvazione stridente e disperata, in volo nel cielo sopra di loro. Annabel rabbrividì. Era la prima volta che qualcuno riusciva a tradurre in parole quella sensazione che da tempo le stava crescendo dentro. L'impressione che, a poco a poco, il mondo stesse scivolando via. Tuttavia si costrinse a fare la parte dell'avvocato del diavolo: «Credo che lei disegni un quadro più nero di quello che è. In fondo questo mondo rende felici molti uomini, e molte donne».

«Certo. Conosce la storia della rana messa nell'acqua bollente, vero? Immersa nell'acqua all'improvviso, la rana schizza fuori con un balzo. Ma provi a metterla nell'acqua fredda, in modo che si senta come a casa sua, e poi faccia aumentare la temperatura dell'acqua, molto lentamente. La rana non si muoverà, neppure quando l'acqua diventerà bollente, e sarà troppo tardi.» Avvolse in un ampio gesto tutto il paesaggio e aggiunse: «Esattamente quello che facciamo con le nostre esistenze!» Annabel sospirò. Adesso stava davvero esagerando. «Lo sa che cos'è lei?» ribatté, senza cattiveria. «Un pessimista paranoico. Bisogna avere fiducia in questa società, in questo sistema.» Brolin scosse tristemente il capo. Lei era la perfetta illustrazione di ciò che aveva appena detto. «Caliban dominus noster... Si ricordi, Annabel. 'Caliban è il nostro signore.' È il prodotto di questo mondo nuovo. È questo che ha voluto creare Bob.» Lei afferrò le treccine con una mano e le spostò tutte dalla stessa parte, per riuscire a guardarlo meglio in faccia. «Caliban è il prezzo da pagare per questa società, il residuo di questa scelta. In un sistema dalla perversità latente, lui è l'effetto concreto», continuò Brolin. «Ci crede davvero?» «Sì. Non siamo forse riusciti a trasformare l'amore in un bene di consumo? Accumulare gli amplessi, le prede, sposarsi alla bell'e meglio, così, per fare una pazzia, per poi cambiare idea subito dopo. Bob è figlio di tutto questo. Di un mondo fatto di consumo. Un bambino che è cresciuto solo, nutrito dalla violenza della televisione e dei media, dal cinismo imperante, e di cui nessuno ha mai ascoltato le grida di paura, di disperazione, di solitudine. Adesso è troppo tardi. Bob è diventato grande seguendo il modello del consumo, in cui il potere sta in ciò che si possiede e per realizzare se stessi si passa sopra gli altri, se necessario. E oggi Bob ci mostra di aver imparato fin troppo bene la lezione: accumula, colleziona, detiene il potere. Si è dato come emblema Caliban, il simbolo cinico delle imperfezioni della modernità.» Annabel sussultò. «Cosa? Intende dire che è per questo? Che tutti questi rapimenti servono solo ad avere?» «No, Annabel, servono per essere! Lui ha imparato bene ciò che il mon-

do gli ha insegnato ogni giorno: per essere, bisogna avere! Bisogna avere un numero della previdenza sociale, una patente, una casa, una moglie o un marito, dei figli, un televisore gigante, dei vestiti sempre nuovi, nuovi CD, soldi sul conto per poter andare in vacanza, soldi per fare regali agli altri per il proprio piacere! Questo è ciò che Bob ha imparato.» Brolin fissò un mucchio di sacchetti di plastica arenati: «E allora lui decide di andare oltre, di elevarsi al di sopra degli altri, di possedere non degli oggetti, ma esseri umani. Lui ha delle vite intere. Tutte sue». Annabel aggrottò le sopracciglia. Non riusciva a inquadrare una simile motivazione. «È completamente folle!» «Per certi versi, non più che dedicare tutta la propria vita a un'azienda per ritrovarsi licenziati a pochi anni dalla pensione...» La detective deglutì a fatica. Si chiese se davvero Brolin pensasse quello che aveva appena detto. Cercò una risposta nel suo sguardo disperatamente vuoto. «Si ricordi dei tatuaggi», riprese lui. «Bob marchia le sue vittime con un codice a barre, le trasforma in beni di consumo, beni che a quel punto diventano di sua proprietà.» «Non riesco a crederci. Deve esserci qualche altra spiegazione...» «Può darsi», fece lui, alzando le spalle. «E gli scheletri? Perché abbandona le vittime in quel modo? E i pacchi postali di cui mi ha parlato, perché si scambiano pezzi di corpi?» «Quando ha qualcosa di nuovo, lei non lo fa vedere ai suoi amici? Suppongo sia quello che fanno anche loro. La carne e gli organi sono l'essenza stessa della vita, ma deperiscono in breve tempo, mentre le ossa sono più durature, come dei minerali. Un pezzo di entrambi per rappresentare una vita. In realtà non ne sono certo, la mia è soltanto una teoria... però sono sicuro che può stare in piedi.» Annabel si lasciò cadere su una grossa pietra. Rimase un attimo seduta ad accarezzare il cane. Di fronte a lei, la distesa vorace della civiltà. «Va bene, ma concretamente come facciamo a mettere le mani su Bob?» chiese, come se volesse ricondurre l'investigatore alla realtà. «Sul frammento di carta che ho trovato», rispose lui, «si accennava alla Corte dei Miracoli. Sa di cosa si tratta?» Lei lo osservò, una strana luce nello sguardo. «La Corte dei Miracoli di Babilonia. Ne ho già sentito parlare. Non stia a perderci tempo.»

Brolin le rivolse uno sguardo interrogativo. «È un mito», proseguì Annabel, «una leggenda metropolitana.» «Che intende dire?» «Una leggenda metropolitana, sa, quel genere di storie che tutti hanno sentito ma che nessuno ha vissuto e di cui non esiste alcuna prova. Come... ecco, come quella degli alligatori albini che si dice vivano nelle fogne della città da vent'anni e che nessuno ha mai visto. Roba così.» «Dove posso trovare informazioni sull'argomento?» «Da nessuna parte e ovunque, gliel'ho detto. È una storia inventata per mettere paura.» «Annabel, e se non fosse una leggenda?» Lei sospirò, lanciandogli un'occhiata irritata. «Qualunque piedipiatti di New York le dirà che sono stronzate... Ma se ci tiene a tutti i costi, le presenterò qualcuno che ci crede, la persona che me ne ha parlato. E, a quel punto, lei avrà pane per i suoi denti. Perché se questa Corte dei Miracoli esistesse davvero, a occhio e croce dovrebbe essere l'anticamera dell'inferno.» Gli tese la mano con un sorriso. Brolin la prese e l'aiutò ad alzarsi. 45 Annabel guidò fino a Little Nassau Street, a est di Fort Greene. Le alte gru del Brooklyn Navy Yard - i moli - dominavano gli edifici e i magazzini del quartiere. Non rispose a nessuna delle domande di Brolin relative alla Corte dei Miracoli. Per essere un sabato, non c'era in giro quasi nessuno. Manifesti e graffiti ricoprivano i muri come una seconda pelle. Un garage aperto lasciava intravedere tre afro-americani che discutevano e si scaldavano le mani sopra un fusto da cui si levavano lingue di fuoco guizzanti. Sul muro di fronte qualcuno aveva dipinto con la bomboletta spray l'enorme faccia di un uomo dalla bocca spalancata come un forno. Annabel passò davanti all'affresco e posò un piede nell'apertura, in mezzo alla bocca, strizzò l'occhio a Brolin e si infilò nel corridoio buio. L'investigatore la seguì con il cane al suo fianco. Sulla porta in fondo, che Annabel aprì senza bussare, Brolin lesse una scritta: MAE ZAPPE - CREATRICE DI GARGOUILLES. Ne ricavò solo ulteriori domande senza risposta. Procedettero lungo un corridoio stretto, in pietra grigia, la cui sola illu-

minazione proveniva dal soffitto molto basso interamente costituito da lastre di vetro bianche che lasciavano filtrare la luce del giorno. Faceva freddo tanto quanto all'esterno, e Brolin vide il suo respiro condensarsi in nuvolette. Addossato a un muro, un tripode in ferro battuto ospitava un cumulo di incenso fumante. Annabel scostò una cortina di finta edera che chiudeva il corridoio come una tenda e penetrarono nell'antro di Mae Zappe, una caverna ancora più oscura. Brolin controllò che Zaffiro fosse con loro, e quando guardò nuovamente davanti a sé si trovò di fronte alla dentatura affilata di un orribile mostro. Zanne di pietra, occhi tenebrosi e zampe possenti. Gli venne in mente un basilisco. Era un gargouille grande quanto un cavallo. In realtà, era tutta la stanza a essere occupata da gargouille, l'uno più inquietante dell'altro. La perfezione dei loro tratti era di una precisione sovrannaturale. Con sorrisi feroci o beffardi, le idre, le gorgoni e i draghi che componevano quel «museo» attendevano sul loro piedistallo che un semplice colpo di bacchetta magica venisse a liberarli dalla rigidità minerale. I tre attraversarono la scacchiera gigante fino a raggiungere il bancone in fondo al locale. Zaffiro avanzava a testa china, le orecchie penzoloni, come se sentisse realmente il pericolo che covava in quegli esseri addormentati. Appoggiata a un bancone di legno di ciliegio dalle sfumature rosseggianti, un'anziana donna di colore li osservava. I suoi occhi sembravano due perle nere cadute in un lago d'avorio. La lunga capigliatura d'ebano era attraversata da ciocche grigie. Brolin le diede una sessantina d'anni, ma potevano essere molti di più. «Buon giorno, Mae», esordì Annabel, prendendo due sgabelli da dietro il banco. «Ho portato con me un amico che ha qualche domanda per te.» Brolin le rivolse un cenno di saluto. Notò alle spalle della donna una scatola di legno inchiodata al muro. All'interno, un cranio umano faceva bella mostra di sé accanto a una bottiglia di rum, un pezzo di fune e ritagli di stoffa variopinti, oltre a una piccola candela accesa. Sentì la mano di Annabel sul suo braccio. «Li chiamano kay-mistè, servono per accogliere gli lwa, gli 'spiriti'», gli sussurrò lei. Lui annuì. Mae Zappe si ritrasse nell'ombra, in direzione di una porta. Il detective sentiva il suo sguardo fisso su di sé. «Benvenuto, figlio mio», lo salutò l'anziana donna. E scomparve nel locale adiacente. «Chi è?» chiese Brolin.

Annabel cercò di dissimulare la soddisfazione che le procurava quella circostanza. Joshua non aveva perso neanche un briciolo della sua arrogante sicurezza, ma non sembrava più così impermeabile a ciò che gli stava intorno. In lui si era accesa una scintilla di curiosità. «Mia nonna», rispose lei. «È a lei che devo il colore della mia pelle. E tutte le storie fantastiche che hanno popolato la mia infanzia.» Mae riapparve con un vassoio. Servì loro una tazza di caffè aromatizzato al rum e ai fiori d'arancio. Poi fissò Brolin. «Grazie», fece lui. «Sono impressionanti, tutte queste statue.» Lei non abbozzò neppure il più piccolo gesto. I suoi lineamenti rimasero privi di espressione. «Le fa lei?» Mae era sempre immobile. Poi scambiò un'occhiata complice con Annabel, e finalmente il suo volto si aprì in un sorriso amichevole. «I gargouille non vengono fatti: si fanno da sé. Per questo sono così belli. Tra i miei clienti ci sono persone molto ricche, che spendono una fortuna per avere una delle mie creature a casa loro. Sono pronti a pagare qualunque somma per beneficiare della protezione delle loro ali.» Nel laboratorio scese il silenzio. «Mae, non è il momento», intervenne Annabel. La vecchia annuì. «Hai ragione. Avanti, figliolo, sentiamo le tue domande. Vedo bene che sei di fretta.» Brolin inspirò a fondo e scambiò una rapida occhiata con Annabel. «Vorrei che mi parlasse della Corte dei Miracoli. Annabel mi ha detto che lei sa cos'è.» Mae si passò la spessa lingua sulle labbra. Poi vuotò la sua tazza in un solo sorso. Si allontanò per andare ad accendere una serie di grosse candele, disposte un po' ovunque sulle mensole dietro il bancone. L'alone ambrato crebbe di luminosità, formando una sorta di bozzolo rassicurante. «Perché lo vuoi sapere?» «Ne ho bisogno. Voglio ritrovare qualcuno, e la sua strada passa di là.» «Allora questa persona è cattiva. Oppure è morta.» Senza aggiungere altro, la vecchia prese un sacco di farina e la sparse sul cemento freddo. Con l'altra mano tracciò dei cerchi e delle linee, fino a creare nella polvere bianca un simbolo complesso. Annabel si accostò a Brolin per mormorargli nell'orecchio: «È un vevè, il disegno simbolico di un lwa. Suppongo che questo sia uno spirito protetto-

re. Ehi, non mi guardi così! Io l'avevo avvertita...» Da qualche parte nel laboratorio, Zaffiro emise un guaito pieno di timore e corse a rifugiarsi tra le gambe del suo nuovo padrone. «Che c'è, vecchio mio? Ti sei preso uno spavento con uno di questi gargouille?» Il tono divertito di Brolin si spense quando, accarezzando il cane, si rese conto che tremava di paura. Istintivamente ruotò sullo sgabello per guardare le statue. Erano di un realismo sbalorditivo. Di colpo, un particolare della loro postura gli accelerò i battiti del cuore. Tutti i volti erano girati nella sua direzione. Lo spiavano. La cosa era tanto più inquietante dal momento che arrivando non aveva affatto notato quel particolare. Eppure avrebbe dovuto balzargli agli occhi appena entrato nella stanza. Un capriccio della vecchia . È lei che dispone le statue in modo che la guardino. Rassicurò Zaffiro con mano ferma e si appoggiò al mobile di ciliegio, sentendosi però un po' meno a suo agio. Quando ebbe terminato, Mae si alzò e prese una candela che andò a deporre sul bancone, tenendola proprio al di sotto del viso. «Credi agli spiriti malvagi, figlio mio?» «Hmm, no, mi dispiace.» «Allora devi prepararti a cambiare idea. Perché, se andrai laggiù, ne incontrerai. Molti.» «Dove?» Una risatina stridula. «Sei tu che sei venuto a parlarmi della Corte dei Miracoli.» «Mi dica che cos'è.» Mae tuffò le mani nella sua folta capigliatura, poi alzò le braccia verso l'alto, fino a sollevare le lunghe ciocche come ali di pipistrello. «È la perdizione.» Allargò ancora di più le braccia e le sue chiome ricaddero con un lieve fruscio. «È la che si ritrovano tutti i vizi dell'uomo», riprese. «Non hai mai sentito parlare di un luogo dove si radunano tutti i paria, dove esistono tutte le perversioni e dove ci si può procurare qualunque cosa malvagia? Quella è la Corte dei Miracoli. Un santuario segreto di depravazione, il regno di chi vive del sangue degli innocenti. Questa città è la regina delle anime malvagie, e la Corte dei Miracoli ne è il cuore. Essa è il trono dei dannati.» La vecchia aveva la pelle d'oca sulle braccia.

«Supponiamo che io voglia andarci. Come devo fare?» chiese Brolin. Annabel scosse il capo. «È solo una leggenda...» «Invece no, esiste!» ribatté con veemenza Mae. «Tu non ascolti quello che dicono le voci, Anna. Tu non ascolti più!» Alle loro spalle, un piccolo gargouille cadde a terra rompendosi in due pezzi. La vecchia si irrigidì. «Vedete, ci sono argomenti che turbano gli lwa!» Brolin osservò i due tronconi spezzati. Guardando in alto vide una piccola cornice nel punto in cui qualche secondo prima doveva trovarsi la statuetta. Il piedistallo era troppo grosso, era in equilibrio precario, si disse l'investigatore per rassicurarsi. Una vibrazione dovuta alla metropolitana o a un camion in strada è bastata per farla cadere. «Perché vuoi andare in quell'antro maledetto?» chiese Mae. Joshua ebbe cura di scegliere bene le parole. «Voglio salvare una ragazza. E credo che il mostro che la tiene prigioniera sia un frequentatore della Corte. Se conosce un modo per arrivare laggiù, me lo dica, per favore.» Mae congiunse le mani davanti al volto, come raccogliendosi in preghiera. «È davvero questo che vuoi?» Brolin annuì, le mascelle contratte. «Lasciami un recapito dove trovarti. Vedrò quello che posso fare», disse la donna a malincuore. Lui scrisse il numero di telefono del suo hotel. Le fiammelle delle candele disegnavano l'ombra della sua testa sul bancone. Mae pose una mano su quell'ombra. «Spero che tu sia forte», lo avvertì, «e che il tuo cuore sia puro, perché i demoni che incontrerai sono potenti. Al minimo segno di debolezza, ti divoreranno l'anima.» I suoi occhi scintillarono. «Così!» disse, stringendo di colpo il pugno, come per afferrare l'ombra di Brolin. La candela sotto il suo volto si spense. 46 Brolin e Zaffiro cenarono nella stanza dell'albergo. L'investigatore ap-

prezzava sempre di più il suo nuovo amico. Attraverso la finestra, l'intera New York brillava come un immensa ghirlanda su un albero di Natale d'acciaio. Brolin continuava a sfiorare con le dita una strana collana di perle di legno variopinte posta accanto al vassoio della cena. Un pwen, gli aveva detto Annabel, un oggetto di grande valore che doveva servire a scacciare la malasorte. Mae Zappe glielo aveva offerto al momento di salutarli. La sua unica possibilità di ritrovare Rachel Faulet, o ciò che ne restava, sempre che non facesse parte degli scheletri nel vagone, dipendeva ora da una vecchia eccentrica che viveva in mezzo ai suoi gargouille. Che strana donna! Ma ciò che lo turbava ancora di più, in realtà, era la conoscenza che possedeva Annabel delle pratiche vudù. Perché di questo si trattava. Mae si era annodata un fazzoletto rosso tra i capelli, simbolo dei seguaci del vudù. Annabel mostrava grande rispetto per le credenze della nonna, pur avendo deciso di non lasciarsi coinvolgere; del resto, il suo scetticismo nei riguardi delle leggende metropolitane lasciava supporre che non avesse mai coltivato molto il suo lato mistico. Si avvicinò alla vetrata e osservò il patio avvolto nell'azzurra oscurità della sera. Provava qualcosa per quella ragazza? Provava qualcosa per qualcuno? Appoggiò la mano sul vetro freddo. Un embrione di amicizia, forse a lungo andare una complicità sincera... Scosse il capo. Si ripromise di scrivere ad Annabel, una volta tornato dall'altra parte del Paese, a Portland. Lettere da amico, per farla sentire meno sola nelle ore del crepuscolo. Per condividere la sua solitudine. Il palmo della sua mano lasciò un'impronta spettrale sulla finestra. Brolin trascorse la serata al bar dell'albergo, bevendo white russian mentre guardava con occhio assente il televisore posto al di sopra delle bottiglie. A un certo punto riconobbe le foto delle vittime già pubblicate dal New York Post, e per poco non ruzzolò giù dallo sgabello. Chiese al barman di alzare il volume. «... dichiarazione pubblica dell'agente speciale Warren. I due casi sembrano dunque collegati, anche se al momento si ignora in che modo. La quantità di cadaveri ritrovati nelle Skylands induce purtroppo a pensare al peggio, qui si parla addirittura di un 'carnaio'. In ogni caso, l'FBI si è dichiarato pronto a mettere in campo tutti i possibili mezzi per...» Ecco fatto, adesso era entrato in ballo l'FBI. Brolin pensò ad Annabel,

che probabilmente in quel momento stava ribollendo di rabbia. Nella migliore delle ipotesi, il Bureau avrebbe chiesto l'appoggio del NYPD, e Annabel e i suoi colleghi avrebbero proseguito le indagini, anche se al servizio dei federali. Altrimenti avrebbero dovuto accontentarsi di fare da spettatori... L'alcool cominciò a far turbinare le immagini. Brolin vide scheletri in completo scuro e occhiali da sole che si scambiavano complimenti. Aveva la bocca impastata. Sopraffatto da tutto quello che aveva bevuto, salì in camera e si addormentò senza nemmeno togliersi i vestiti. 47 Sdraiata sul letto, Annabel si era ormai liberata della collera. Aveva fatto fuoco e fiamme per due ore, e alla fine aveva scaricato tutta la rabbia nelle flessioni e negli addominali che aveva appena terminato. Ormai priva di energie, fissava il soffitto cercando di riprendere fiato. Jack Thayer l'aveva chiamata al telefono per comunicarle la novità. L'FBI non li aveva estromessi: sarebbero stati incaricati di fornire appoggio ai federali a New York. Come dire che si erano appena fatti mettere guinzaglio e museruola. Al telefono, il suo collega aveva proseguito parlando di Brolin e delle teorie che quest'ultimo aveva elaborato su Bob. Thayer voleva incontrarlo. Al di là delle dichiarazioni verbali, Annabel comprese che da sbirro ostinato qual era non avrebbe affatto mollato l'osso. Avrebbe continuato. Le orbite vuote di tutti quegli scheletri erano troppo pesanti da sopportare, al momento di prendere sonno, per poterle dimenticare solo perché lo ordinava un semplice pezzo di carta federale. Tutte quelle foto sotto i loro occhi ogni giorno, tutte quelle vite. L'indagine era cominciata solo da una settimana, eppure tutti quanti avevano l'impressione di conoscere quelle persone da anni. Annabel e Jack avrebbero incontrato l'investigatore privato l'indomani e gli avrebbero proposto uno scambio. Il sudore che si asciugava le tendeva la pelle, mentre sentiva crescere l'apprensione. Aveva paura che Jack scoprisse cos'era accaduto a casa di Shapiro. Aveva paura di parlargliene e paura di tacere. Si alzò, lasciò cadere i vestiti su una sedia, passò in mutande davanti alla splendida vista su Manhattan illuminata ed entrò in bagno. Aprì i rubinetti della doccia e terminò di svestirsi. Di fronte allo specchio, il suo corpo le parve più saldo che mai. L'ippocampo che viveva sulla sua anca ricambiò lo sguardo, con la coda innaturalmente lunga che si arrotolava con grazia

seguendo la curvatura dell'anca stessa. Si ricordò l'espressione divertita di Brady, la prima volta che aveva visto il tatuaggio. «La mia sirena ospita dei draghi di mare nel cuore delle sue grazie», aveva commentato ridendo. Appoggiò una mano sul ventre piatto. A ogni respiro sentiva emergere la muscolatura ben disegnata. Non avrebbe mai portato in grembo il figlio di suo marito. Questo grande lusso, un lusso ora divenuto impossibile, era come una cicatrice nelle viscere che non guariva. Aveva trovato la sua personale aporia. Sentì montare le lacrime, si riscosse ed entrò nella doccia. Il vapore caldo la avvolse immediatamente. Rimase a lungo sotto l'acqua, assaporando l'abbraccio del getto violento, il morso bollente che scioglieva le tensioni e spezzava i nodi. Si costrinse a pensare a cose senza importanza, e si concentrò sulla neve e sul manto che proteggeva la città. Ci pensò con tale intensità che rabbrividì, come se una corrente d'aria gelida l'avesse sorpresa all'improvviso. Tutta la stanza era colma di vapore quando uscì dalla cabina della doccia. Per un attimo Annabel pensò di essere al centro di una nuvola, più fitta di una nebbia londinese. Si asciugò rapidamente e aprì il piccolo lucernario per far uscire il vapore. Attraversò il soggiorno avvolta in una salvietta e andò a prepararsi un sandwich con i sottaceti; poi spense la luce e si diresse verso la camera da letto. Sulla TV via cavo stavano trasmettendo uno di quei vecchi film in bianco e nero per cui andava matta. Appoggiò il vassoio sul letto e lasciò cadere la salvietta. Fu allora che lo vide. E le gambe cominciarono a tremarle. 48 Era rimasto a lungo in macchina, a meditare. Il cerchio si stava stringendo. Per fortuna la prudenza era sempre stata il suo motto, fino all'eccesso. Adesso si trattava di riflettere, e di non fallire il colpo. Quella troietta di Annabel non si era lasciata scappare niente, e soprattutto aveva messo le mani sul vagone. Questo era un grosso problema. D'ora in avanti avrebbe dovuto trovare un altro modo di procedere. Ma prima ancora bisognava far pagare alla detective il prezzo della sua curiosità. Qualcosa che le facesse molto male, una tremenda umiliazione. E, in questo campo, lui era un'autorità. Non era necessario ucciderla, era preferibile spezzarla.

Di primo acchito aveva pensato di portarla nel suo antro. Farle subire ciò che aveva subito Taylor Adams. Farla diventare pazza. Lui aveva inventato un procedimento micidiale. Aveva fatto diversi esperimenti, e tutti senza eccezione avevano dato risultati notevoli. Aveva sviluppato il potere di far impazzire gli esseri umani. Pensandoci meglio, gli era venuta un'idea ancora più traumatizzante. Voleva farla soffrire. Farle provare dolore. E l'idea appena affiorata dalle oscure acque del suo cervello era di gran lunga la migliore, a tale scopo. Lui aveva il dono di saper individuare le paure più recondite delle persone. Con Annabel O'Donnel, aveva capito dove colpire. Si era dovuto organizzare perché nessuno notasse la sua assenza, ma questo non era più un problema. La cosa più lunga era stata preparare l'operazione, tre ore in tutto. Quanto all'azione, era bastata una manciata di minuti. Trovare il modo di entrare, prima di tutto. La sorpresa avrebbe generato la paura, la sua arma favorita. Un problema fin troppo semplice. La serratura poteva essere forzata rapidamente. Poi predisporre una piccola messa in scena, per raggiungere il massimo dell'effetto. Quando sentì del rumore in camera da letto, si fregò le mani e la sua ombra si confuse con quelle del soggiorno. Si avvicinò, un passo alla volta. Dannazione, sarebbe stato fantastico! 49 La lampada sul comodino proiettava un pallido alone nella camera da letto. Un attimo prima, Annabel aveva i sensi intorpiditi. Ora si trovava di colpo sul chi vive. L'angoscia le era esplosa dentro, offuscando la sua lucidità, come se si fosse svegliata troppo in fretta da una siesta. Si sentì mancare l'aria, negli occhi una miriade di macchioline nere. Era nuda, vulnerabile, e non riusciva a staccare lo sguardo dal pacchetto giallo che stava appoggiato sul suo cuscino. Esattamente dove un'ora prima si trovava lei. Qualcuno si era introdotto lì, mentre lei era in casa! Di colpo si rese conto di essere sulla soglia della stanza e di volgere le spalle all'ampio soggiorno immerso nell'oscurità. Lentamente raccolse la

salvietta, si coprì e girò intorno al letto. Sul pacchetto, tracciata malamente a grandi caratteri, lesse una scritta: APRILO ADESSO! Nel soggiorno, le tavole del parquet scricchiolarono. Il suo battito cardiaco accelerò di colpo, così come il ritmo della respirazione. Stai calma, succede spesso, è la differenza di temperatura. Quello che è venuto a portare questa roba se n'è già andato, non correrebbe il rischio di restare qui. Il parquet scricchiolò di nuovo. Più vicino, le parve. Molto vicino, proprio al di là della parete. Se era lui, si trovava a pochi centimetri dal vano della porta. Annabel immaginò un sorriso sadico su un volto stravolto dall'odio. Impossibile. Non è più qui! Fece ancora un passo e raggiunse quello che stava cercando: gli indumenti che si era tolta per fare la doccia. Tastò a casaccio fino a sentire il cuoio della fondina. Si impadronì della Beretta con una sorda frenesia e si voltò di scatto, mirando al riquadro buio del soggiorno. Esitò. Non sapeva più che fare. La prudenza consigliava di ispezionare l'appartamento e accendere tutte le luci, ma se lui era davvero lì gli bastava aspettarla in un angolo, buttarsi su di lei e disarmarla. Chiamare Jack. Arretrò e lasciò cadere la salvietta. Tanto peggio. Senza distogliere lo sguardo dall'apertura, che teneva sotto tiro, frugò con l'altra mano tra i vestiti ammucchiati. Non aveva messo via il cellulare, quindi doveva essere nella tasca dei jeans. La tasca era vuota. Scosse i pantaloni senza risultato. Oh, merda.. Merda! Ormai non c'erano più dubbi: qualcuno aveva violato la sua intimità. Gli occhi le caddero di nuovo sul pacchetto. APRILO ADESSO! Va bene, se è questo che vuoi... Tentava di tranquillizzarsi, ripetendosi che stava mantenendo il sangue freddo nonostante la paura aumentasse di intensità. Prese l'involto per un'estremità, e ne cadde fuori una videocassetta. Sopra era stato attaccato un post-it con la scritta: METTILA SU SUBITO! Era una di quelle cassette fatte per inserire in un videoregistratore le cassette delle videocamere, più piccole. Si sentì tremare. D'accordo, d'accordo, starò al tuo gioco Ansimava, anche se si stava muovendo lentamente; la paura le aveva rivestito la pelle di un velo di sudore. Si avvicinò al televisore ai piedi del

letto e inserì la cassetta nel videoregistratore. La sua pistola era sempre puntata in direzione del soggiorno. Si sedette sul bordo del letto e tirò a sé la coperta per coprirsi il seno. Sullo schermo apparvero delle strisce bianche. Poi il suo soggiorno. È illuminato. L'individuo che filma tiene la videocamera in modo che non si veda nulla di lui. Si avvicina alla camera da letto. Annabel non poté fare a meno di gettare un'occhiata in direzione del soggiorno. Sullo schermo, l'individuo fa una panoramica completa della stanza, prima di soffermarsi sul mucchio di indumenti accanto al letto. Una mano guantata appare nella parte bassa dell'inquadratura e si infila sotto il maglione per estrarne un portafoglio, che rimette però subito a posto. La mano trova poi il cellulare di Annabel e lo fa sparire fuori campo. Poi ricompare e questa volta si impossessa della Beretta. L'immagine diventa tremolante, come per i sussulti di una risata crudele. E la mano toglie i proiettili dal caricatore, uno dopo l'altro. Annabel rabbrividì di paura. Con un gesto professionale fece scivolare fuori il caricatore dalla pistola. Vuoto. Era così tesa da non avere percepito la differenza di peso. Il parquet del soggiorno scricchiolò di nuovo. Leggermente. Non ne poteva più. Intuiva fino a che punto l'incoscienza le avrebbe restituito il profumo delizioso della calma, ma lasciarsi andare ora significava la morte. Il suo respiro era troppo forte, era in iperventilazione. Il televisore continua a diffondere le immagini della cassetta. L'individuo si raddrizza ed esce dalla camera da letto. Compie un giro su se stesso e si ferma sulla porta del bagno. Si può sentire il fruscio dell'acqua nella doccia. Si avvicina. La mano guantata sospinge cautamente il battente della porta, e lui entra. Era entrato mentre lei si lavava! La corrente d'aria non te la sei sognata! Annabel urlò dentro di sé. Non era la tua immaginazione assieme alla neve, era lui! Era qui! La telecamera prosegue inquadrando la moquette e si ferma sulle mutandine di Annabel. Zoom. Poi risale a poco a poco verso la cabina della doccia. Il vapore ondeggia, rendendo l'immagine meno nitida. Annabel si rivide sullo schermo televisivo, addossata alla parete della cabina, mentre sognava sotto il getto d'acqua. La pelle della schiena e delle

natiche era bianca attraverso il vetro, costellata di goccioline che ruscellavano. La mano guantata si accosta, mimando una carezza oscena, si appoggia alla parete, a mezzo centimetro dalle natiche di Annabel, e si muove su e giù. Si sentì girare la testa, si strinse disperatamente addosso la coperta e lasciò cadere la Beretta scarica. Non lasciarti andare! Lui era lì, vicinissimo, ne era certa. Le immagini videoregistrate non si fermavano. La camera ruota su se stessa di centottanta gradi e si piazza davanti allo specchio. La condensa lo ricopre di una patina opaca, che rende impossibile vedere il riflesso di chi sta filmando. L'inquadratura si sposta sulla sinistra, eliminando ogni residua speranza di intravedere l'individuo, e l'indice guantato si posa sulla superficie dello specchio. Si muove senza esitazioni tracciando simboli che a poco a poco diventano parole, e poi una frase. Uno zoom all'indietro ne rivela il contenuto: MI PIACCIONO LE MUTANDINE NEL TUO ARMADIO, PUTTANA! L'immagine diventa disturbata, poi scompare. Annabel era senza fiato. Non sfiorò nemmeno il televisore, lasciando che la luminescenza sfrigolante si riverberasse nella stanza. Si allontanò dalla porta tirandosi dietro la coperta e si appoggiò all'armadio. Le mani umide lasciavano aureole di sudore ovunque si posavano. Con un movimento rapido aprì il cassetto dove riponeva la biancheria intima. Non c'era più nulla. Le aveva rubato tutti gli indumenti intimi. Al loro posto, un altro messaggio. NON DOVEVI TOCCARE IL VAGONE. LORO TI RINGRAZIANO PER QUESTO... Accanto, la stessa foto trovata addosso a Taylor Adams: un'intera famiglia terrorizzata. Il bambino più piccolo era cerchiato con il pennarello rosso. Annabel sentì che in fondo al cassetto c'era qualcosa che rotolava, qualcosa di piccolo. Tirò il cassetto fino in fondo. Due falangi paffute rotolarono alla luce. Erano di un bambino. 50 Aveva ottenuto in fretta quello che voleva.

Come al solito. Senza perdere altro tempo se n'era andato dal soggiorno di quella casa malsana. Con in tasca il regalino riservato ad Annabel. La sua macchina aveva divorato la strada fino a Willow Street, dove viveva l'investigatrice. L'idea era di entrare quando la donna dormiva, ma mentre aspettava paziente nel corridoio della casa, seduto sui gradini, aveva sentito il brontolio della caldaia. L'edificio aveva solo due appartamenti, quello al pianterreno e quello di Annabel al piano superiore. Era perfetto, non correva alcun rischio di essere scoperto. Incollando l'orecchio al muro, poi alla porta, gli parve di riconoscere il rumore dell'acqua scrosciante. Derogando alle sue abitudini, aveva forzato la serratura per lanciare una rapida occhiata all'appartamento. Sì, lei stava proprio facendo la doccia. Di colpo, la messa in scena che aveva previsto non gli parve più un granché, e gliene venne in mente un'altra, molto più d'effetto. Annabel non si sarebbe svegliata con una videocassetta sul cuscino che la mostrava addormentata, mentre qualcuno faceva gesti osceni sopra il suo volto. No, ci sarebbe andata a dormire, con le immagini della cassetta! Aveva avuto bisogno di molto autocontrollo per non restare più a lungo. Per non cedere alla voglia di passare più tempo in compagnia di lei. Le due falangi erano scivolate fuori dal sacchetto come bastoncini di granchio. In quel momento, era stato sfiorato dall'idea di collezionarle. Disporre di un enorme sacco pieno di dita umane doveva essere divertente, e la sensazione di tuffarci dentro le mani doveva essere il massimo! Un po' come zio Paperone che si tuffava nella sua riserva d'oro, per di più morbida. Un'idea ben presto dimenticata; lui era già ben oltre. Ciò che faceva andava al di là delle normali capacità di comprensione. Era un cerchio che si chiudeva. Avrebbe trasformato l'intera umanità. Le generazioni future avrebbero venerato come sacra la sua immagine. Adesso stava sul sentiero pedonale, di fronte alla casa di Annabel. L'appartamento della ragazza dava su un giardino riservato agli occupanti del piano terra; e, da dove si trovava - contro il parapetto - poteva vedere la vetrata del soggiorno. Lei doveva aver già trovato la cassetta. Ed era sicuramente terrorizzata. Portarsi via tutta la biancheria era stata una buona idea. Il significato implicito nel gesto, unito alla parola «puttana», l'avrebbe messa molto a disagio. Anche se a lui, in verità, delle sue mutandine non importava un bel

nulla. Gli interessava tutt'altro. Scorse un'ombra muoversi all'interno. La luce del soggiorno si accese. Lei era là. Vestita solo di un maglione che arrivava appena alle cosce. Era un po' lontana per vederla bene, ma con lo zoom della videocamera il tremito delle braccia si distingueva. Miracoli della tecnologia. La osservò attraversare l'ampia stanza armata di una mazza da baseball. Sul tavolo trovò il cellulare, che lui si era limitato a spostare, e lo afferrò. Come sarebbe stato bello farlo squillare in quel momento. Parlarle. Anche se avrebbe dovuto camuffare la voce, non si sa mai. Sempre guardandosi attorno, lei compose un numero. Nel freddo della notte di gennaio lui si massaggiò le reni, stirandosi a fondo la schiena. Momenti come quello gli piacevano enormemente. Com'era bello essere vivi! 51 Come c'era da aspettarsi, non appena messi al corrente dell'accaduto gli agenti dell'FBI si precipitarono a casa di Annabel. Presero possesso della videocassetta, del pacchetto giallo che la conteneva e delle due falangi. Fecero tante di quelle domande all'investigatrice che lei finì per mandarli a quel paese. Tentò di nuovo di contattare Thayer, senza miglior risultato di quando, in precedenza, lo aveva chiamato appena uscita dalla camera da letto. Come ultima risorsa vagò lungo la Atlantic Avenue fino a raggiungere l'hotel Cajo Mansion. Brolin le aprì la porta, completamente vestito, la faccia stropicciata quanto la t-shirt che aveva indosso. Erano le tre del mattino. Vedendola, lui capì subito che le era accaduto qualcosa. La fece accomodare e le preparò un tè con il bollitore elettrico del minibar. Lei gli raccontò tutto. Fino alla mano guantata che le accarezzava il corpo attraverso la cabina della doccia. E le dita del bambino. Tutta la paura che aveva provato la buttò fuori attraverso le lacrime, tra violenti singhiozzi. Alle cinque, Zaffiro dormiva ai piedi del letto e Annabel sotto le coperte, tra le braccia di Brolin. Dormiva schiacciata contro il calore rassicurante del suo corpo. Glielo aveva chiesto lei, l'imbarazzo attenuato dalla stanchezza. Un abbraccio amichevole, bisogno di conforto e nulla più. Annusando il profumo muschiato dei capelli di Annabel, Brolin respirava piano. Aveva gli occhi aperti.

Con due borse scure sotto gli occhi e una barba di due giorni, Brett Cahill entrò in soggiorno e lanciò un libricino sul tavolo a mo' di frisbee. «Il rottinculo legge Shakespeare!» proclamò. Era a casa di Annabel, quartier generale improvvisato per sfuggire al controllo dell'FBI, assieme alla padrona di casa, a Brolin e a Jack Thayer. Quest'ultimo si prese la testa tra le mani. «E pensare che sono io l'appassionato di teatro! Mi è sfuggito, non ci ho neanche pensato. Voi siete stati orbi, ma io proprio cieco!» Brolin prese il volumetto: La Tempesta di William Shakespeare. «Guardi l'elenco dei personaggi», disse Cahill. Brolin obbedì. Trovò a metà pagina ciò a cui si riferiva Cahill. Caliban: creatura selvaggia e deforme. «È un personaggio del dramma... L'ha letto?» Cahill fece segno di no. «Ma ho intenzione di leggerlo quanto prima. È stato un caso se ho fatto il collegamento. Anzi, è stata mia moglie. Questa mattina, quando ho saputo...» Lanciò uno sguardo imbarazzato in direzione di Annabel. «Per farla breve, mi sono messo a imprecare a voce alta contro Bob e questa stronzata di Caliban davanti a mia moglie. Lei ha una passione per Shakespeare: all'università ha scritto una tesina su di lui. È stata lei a mostrarmi quest'opera.» «Che cosa fa Caliban nel dramma?» chiese Annabel. «Jack, tu l'hai letto, no?» «Sì. Se la memoria non mi inganna, inventarsi una divinità simile al Caliban della tragedia di Shakespeare non è certo un elogio, anzi, è davvero strano. Caliban è un mostro, figlio della strega Sicorace e del diavolo. Dopo la morte della madre, era il re della sua isola fino all'arrivo degli uomini, dei naufraghi. Poi diventa loro schiavo. È una creatura astuta, che vuole solo una cosa: recuperare il suo potere. Ma le descrizioni che vengono fatte di lui, sotto tutti gli aspetti, sono piuttosto pungenti. Il nostro amico Bob avrebbe potuto trovare di meglio, come paragone...» «Non necessariamente», obiettò Brolin. «Bob, l'assassino, ha già dato prova di essere intelligente. Del resto, per riuscire a portare a termine la prodezza di stanotte deve essere in gamba, molto in gamba. Probabile che abbia scelto un simile nome per la sua simbologia, più che per la sua apparenza. Che cosa ci dice il testo? Che Caliban è figlio di una strega e del diavolo e che è pronto a tutto per riavere il suo potere. Questa è una cosa

interessante. Mi viene da pensare che Bob possa nutrire assai poco rispetto per i suoi genitori, che considera cattivi, e che si senta in qualche modo leso. Cerca con tutti i mezzi di farsi più grande, di provare la sua superiorità. Per essere sincero, questo non fa che confermare ciò che già sappiamo, caratteristiche arcinote in questo genere di criminali. Per lo meno, adesso sappiamo qual è la sua fonte di ispirazione.» Gli occhi grigi di Thayer erano fissi sul detective privato. Si erano appena conosciuti, e Thayer si faceva un sacco di domande su quell'uomo strano. La sicurezza con cui si guardava intorno, senza fretta, senza timore. Annabel lo aveva messo al corrente di tutte le supposizioni di Brolin fin dall'inizio. Aveva l'istinto del poliziotto che gli diceva come affrontare un'indagine, certo, ma dietro quella maschera c'era qualcos'altro, un'altra natura, più selvaggia. «Sono passato giusto per questo», fece Cahill, indicando il testo teatrale. «Devo filare... Stamattina mi aspettano gli agenti del Bureau: andremo a trovare Janine Shapiro. I signori le vogliono parlare.» «Lei come sta?» chiese Annabel. «Scossa. La morte del fratello l'ha sconvolta. Questa mattina ha chiesto di parlare con la persona incaricata dell'indagine.» «Doveva aspettare proprio adesso!» disse Thayer con amara ironia. «Non poteva decidersi prima che arrivassero i federali...» «Comunque, se c'è anche la minima notizia, io ve lo faccio sapere.» Cahill li salutò e se ne andò. Thayer si alzò e andò a piazzarsi esattamente di fronte alle foto di tutte le vittime dei seguaci di Caliban. «Ne hai fatto delle copie?» chiese alla sua partner. «Volevo avere il parere di Joshua.» Questi alzò le sopracciglia, sentendo pronunciare il suo nome da Annabel. Gli piaceva l'amicizia che si stava instaurando tra di loro. «E i federali, ieri? Non ti hanno detto niente di questa roba?» «Lavoro a questo caso, ho il diritto di avere sott'occhio i miei dossier. Comunque, mi sembra che se ne fottano. Jack, io non riesco a smettere di pensare a quel vagone e a tutte le persone che c'erano dentro.» «Ti chiedi perché c'erano solo scheletri, vero? Anch'io ci penso. Il medico legale sul posto ha notato tracce di raschiamento su molte ossa. Il che significa che i corpi sono stati spolpati a mano, non sono stati immersi nell'acido o fatti bollire fino a lasciare soltanto le ossa, no, sono stati raschiati via, uno dopo l'altro.»

Thayer osservò tutti i volti sul muro. Era molto probabile che molti di loro facessero parte degli scheletri nel vagone. «Comunque io la mia ideuzza ce l'ho», disse poi. «Ricordi quel messaggio di Bob destinato a Spencer Lynch? Gli aveva scritto: 'Adesso devi imparare a diventare come noi. Invisibile'. E come riprova tirava in ballo l'enigma che doveva condurlo al vagone.» «Dove Lynch avrebbe dovuto depositare i suoi cadaveri.» «I suoi scheletri, mia cara! Perché identificare uno scheletro non è una faccenda semplice. A volte è proprio impossibile. Fintanto che nessuno trova il vagone, niente corpi, quindi niente omicidio. E se qualcuno lo trova, le ossa non hanno identità; quindi, in qualche modo, niente vittime, per lo meno conosciute. Questo è diventare invisibile, un assassino senza cadaveri. Bob voleva crearsi un cimitero privato, e così non dover rendere conto di nulla a nessuno.» Annabel fece una smorfia. Questo non spiegava le scatole craniche aperte, né le tibie asportate. E poi Bob aveva lasciato i denti, spesso l'elemento più utile per identificare uno scheletro, e in ogni caso c'era il DNA. Parecchie ossa del corpo umano sono grosse a sufficienza per conservare abbastanza a lungo le cellule necessarie al test. Forse Thayer vedeva giusto, ma quella poteva essere solo una parte della risposta. Osservò Brolin. Non aveva detto una parola, dopo che Cahill se n'era andato. «A ogni modo», proseguì Thayer, «Spencer Lynch non avrebbe mai trovato il vagone. Era tutt'altro che semplice.» «Spencer non era un iniziato», intervenne Brolin. «Non tatuava il codice a barre. Lo imitava con un tatuaggio artigianale, perché non era membro del gruppo a pieno titolo. Imprimere delle cifre è una forma rudimentale di codice a barre, e a me sembra anche un comportamento un po' puerile. Trovare il vagone doveva essere una sorta di rito iniziatico; se ci fosse riuscito sarebbe diventato membro del club, e si sarebbe guadagnato il suo codice a barre.» «Non c'è una pista da seguire in questa direzione?» chiese Annabel. «I tatuaggi?» Thayer alzò una mano per bloccarla. «No, se ne sono già occupati Lenhart e Collins. Bob e Lucas usano un'attrezzatura che ci si può procurare ovunque. Gli basta una copia su carta carbone per riprodurre l'originale. Tracciare delle linee parallele non è la cosa più difficile di questo mondo.» Brolin fu tentato di parlare della pista che portava a Malicia Bents. Ma

Thayer non avrebbe mancato di chiedergli come c'era arrivato, e parlare del magazzino e soprattutto della sua presenza a casa di Lucas Shapiro poteva essere un problema. Preferì tenere la bocca chiusa. Al suo risveglio, Annabel gli aveva proposto di unirsi a lei e a Thayer per proseguire le indagini. Jack non era affatto disposto a lasciar perdere tutto solo perché quelli dell'FBI erano entrati nel gioco. Come non smetteva di ripetere dall'inizio: «Un'indagine come questa si presenta solo una volta nella vita di un poliziotto... se ha molta fortuna, o sfortuna, a seconda del punto di vista». Il suo obiettivo era difendere tutto il lavoro che avevano già fatto fino a quel punto. E il patto con Brolin era semplice: avrebbero condiviso ogni informazione con il detective privato, che in cambio avrebbe collaborato mettendoli a parte delle sue deduzioni e delle sue scoperte. Joshua si chinò verso Annabel. «Mi piacerebbe vedere il rapporto con le prime conclusioni dei patologi relative agli scheletri. «Vorrei sapere se ne hanno uno di sesso femminile, statura circa un metro e sessantacinque.» Lei capì dove voleva arrivare. Rachel Faulet. I suoi genitori dovevano subissarlo di domande, ogni giorno che passava. «Di sicuro i federali accentreranno tutte le informazioni», rispose, «quindi le avremo in ritardo, ma vedrò se Brett Cahill riesce a ottenere qualcosa più in fretta.» Il telefono prese a squillare. Era lo sceriffo Murdoch di Phillipsburg. Annabel si ricordò del suo fisico da ex atleta convertito alla buona cucina, prima di associare la sua faccia alla voce. Ne era rimasta impressionata. «Spero di non disturbarla. Come vede, sto facendo buon uso del numero che mi ha lasciato.» Per un attimo, la detective fu presa dal timore che stesse tentando un approccio. «Ieri, dopo che è partita, ho lavorato per lei. Sono andato a fare qualche domanda a tutti gli amici di Taylor Adams. Mi è sembrato che lei si fosse irritata per essere dovuta andare via all'improvviso, perciò me ne sono occupato io.» «È stato molto gentile, sceriffo.» «Vedrà, non c'è niente di particolare, ma può darsi che un dettaglio a lei possa dire più cose di quelle che dice a me. Comunque ho messo tutto per iscritto.» «Perfetto. Può fare in modo di mandarmelo?» Murdoch parve deluso. Però finì per accettare, promettendole che il

giorno successivo avrebbe trovato tutto quanto sulla sua scrivania. «È importante continuare ad averlo dalla nostra parte», fece osservare Thayer. «Sempre che i ragazzi dell'FBI non gli mettano la museruola.» Annabel si lasciò sfuggire un sospiro. Eric Murdoch non le era parso entusiasta di andare contro le normali procedure, quindi doveva arrendersi all'evidenza: aveva fatto colpo su di lui. Ma lei detestava l'idea di servirsi del proprio fascino per ottenere delle informazioni, anzi, a dire il vero si sentiva incapace di farlo. Thayer si alzò e prese a camminare avanti e indietro di fronte alla vetrata. Aveva qualcosa in testa. «Anna, hai fatto una copia anche degli indizi raccolti finora? Mi interessa soprattutto la cartolina.» Annabel andò a prendere un dossier su uno scaffale e lo aprì. Trovò la fotocopia fronte-retro della cartolina, in mezzo a due schizzi della tana di Spencer Lynch. La porse a Jack. «No, tienila pure tu. Hai detto che assieme alla cassetta di stanotte c'erano due post-it, vero? Riconosci la scrittura?» Lei esaminò la cartolina scritta da Bob, prima di annuire. «È la stessa.» «Si potrebbe provare con un'analisi grafologica, no?» «L'FBI la starà già facendo.» «E allora? Ce ne stiamo piantati qui, ad aspettare che il tempo passi?» Ignorando il nervosismo di Thayer, Brolin si avvicinò e prese la fotocopia dalle mani di Annabel. «Non è una cartolina comune, sembra anche abbastanza vecchia. Avete provato a cercare in questa direzione?» «Certo che sì», replicò Thayer, un po' seccato. «In effetti la cartolina non è recente, ma Bob può essersela procurata un po' ovunque in giro per il New Jersey... Nei musei, per esempio. È una veduta della cittadina di Boonton e del canale Morris, che la attraversava nel secolo scorso. Tutto qui. Che cosa si è fatto all'orecchio e alla guancia?» «Non è nulla... un problemino con il mio cane», svicolò Brolin. Annabel alzò di scatto la testa. «Jack! Ti ricordi cosa ci hanno detto proprio sul canale Morris? Da dove partiva, voglio dire.» Thayer si grattò il naso, perplesso. Poi si strinse nelle spalle. «Phillipsburg!» continuò Annabel, trionfante. «Il canale andava da Phillipsburg a Jersey City. Non ti sembra un po' troppo, come coincidenza?

Tutte quelle vittime rapite nel territorio intorno a Phillipsburg, e questa cartolina del canale Morris...» Thayer alzò le mani, il palmo aperto in avanti. «Calma, Anna, stai correndo troppo, mi stupirebbe...» Ma lei non lo ascoltava già più, intenta a comporre un numero di telefono. «Sceriffo Murdoch? Senta, ci ho ripensato. Non mi mandi il suo rapporto: verrò io da lei. E ne approfitterò per farle qualche domanda a proposito del canale Morris, ne ha sentito parlare? Se potesse anche cercare di scoprire se nella zona c'è qualche museo dove reperire delle informazioni in proposito... Arriverò a metà pomeriggio, grazie.» «Si può sapere che ti ha preso?» chiese Thayer dopo che ebbe riagganciato. «Ricordati l'enigma, Jack. Il treno John Wilkes, JC 115, il binario abbandonato, e adesso la cartolina che rappresenta il canale Morris. Bob se ne intende, di mezzi di trasporto antiquati. Si direbbe che tutto ciò che in passato serviva a trasportare merci, e oggi è scomparso, non abbia alcun segreto per lui. Forse lavora in un museo, oppure è uno storico, o qualcosa del genere!» Un breve lampo divertito balenò nello sguardo di Brolin, che non aveva neppure tentato di partecipare a quello scambio di battute. L'ipotesi di Annabel era perfettamente plausibile. «Abbiamo quattro ore per stilare una lista dei musei che si occupano di queste cose», riprese lei. «Cominceremo con i dintorni di Phillipsburg fino a coprire tutto il New Jersey e la zona limitrofa della Pennsylvania. E, alla fine, vedremo di appurare anche che cosa può saperne lo sceriffo Murdoch.» Brolin si alzò. «Lei non ci dà una mano?» gli chiese Thayer. «Mi sembra che ve la caviate benissimo anche senza di me. Vado a occuparmi del mio cane e a fare qualche telefonata.» E si congedò con un rapido cenno di saluto. Mezzogiorno si avvicinava, e il consiglio che gli aveva dato Mae Zappe, quella mattina stessa, era inequivocabile: doveva essere puntuale all'appuntamento. La Corte dei Miracoli non lo avrebbe aspettato. 52

La morsa si stava a poco a poco stringendo intorno a Bob. Brolin, da parte sua, rimaneva convinto che per arrivare al leader della setta di Caliban bisognava passare attraverso Malicia Bents. Si era svegliato quella mattina con Annabel rannicchiata contro di lui. Non si erano detti nulla, godendosi il silenzio fino al momento della colazione, durante la quale lei gli aveva presentato la proposta di Thayer: una collaborazione fra tutti loro, all'insaputa dell'FBI. Mentre Annabel era sotto la doccia, il telefono aveva cominciato a squillare. Era Mae Zappe. Gli aveva detto di trovarsi davanti al suo negozio a mezzogiorno e mezzo, se era ancora ansioso di saperne di più sulla Corte dei Miracoli, ma che non doveva farne parola ad Annabel. Mae temeva per la nipote. Brolin svoltò in Little Nassau Street, superò un campo da basket improvvisato dove si stava allenando una banda di adolescenti e proseguì lungo i muri sporchi e decrepiti. L'enorme volto minaccioso non si era mosso dalla facciata dell'edificio. In mezzo a quella bocca urlante c'era qualcuno in attesa, addossato all'ingresso. Era un afro-americano dallo sguardo diffidente, con baffi e pizzetto che sottolineavano la durezza dei suoi lineamenti spigolosi. Vedendo Brolin avvicinarsi, il tizio, che dimostrava una trentina d'anni, si spinse in avanti con i gomiti per staccarsi dal muro e gli venne incontro. «Sei tu l'amico di manbo Zappe?» Brolin annuì, anche se ignorava che cosa volesse dire manbo. «La descrizione è abbastanza fedele. Mi chiamo Nemek. Vieni, togliamoci da qui.» Nemek lo condusse in una viuzza laterale. Camminava senza dire una parola, scavalcando i mucchi di scatoloni e cartacce lasciati lì a marcire. Poi si fermò sotto una scala di sicurezza, che tirò giù in modo che potessero salire fino alla sommità di un fabbricato di quattro piani. Il tetto era coperto da un tappeto di neve e striato da fili per stendere il bucato, inutilizzati, che formavano un'impressionante tela di ragno. Nemek si scostò da Brolin e pescò una sigaretta dalla tasca, continuando a osservarlo. «Chi ti ha parlato della Corte dei Miracoli?» «Un amico.» Nemek accese la sigaretta e soffiò fuori il fumo, subito trascinato via dal vento freddo. «Chi?» Brolin sospirò.

«Lucas Shapiro.» I piccoli occhi di Nemek fissavano il detective privato con curiosità. L'uomo inarcò un sopracciglio. «Mai sentito. Senti, fratello, chiariamo come stanno le cose. Ho il massimo rispetto per Mae, e lei mi ha chiesto di aiutarti. Mae dice che mi devo fidare di te.» Brolin infilò le mani nelle tasche della giacca di pelle. «Il problema», continuò Nemek, «è che qui non si tratta di spacciare un pacchetto di erba. Qui si tratta della Corte dei Miracoli.» Inalò il fumo della sigaretta, facendo un passo avanti. «Io non ti conosco mica, a te. E se mi fai qualche cazzata là sotto, scoppia un puttanaio.» «Non hai nulla da temere, non sono uno sbirro e...» «Ehi! Non sono io quello che deve avere paura! Manbo Zappe vuole che ti aiuti, e le ho detto che avrei fatto quello che posso. Perché ci vuoi andare?» «Si può comprare di tutto.» Brolin pregò che quello che gli aveva detto la vecchia Zappe fosse esatto. «Vero. Cos'è che cerchi?» «Informazioni, qualcosa che rientra sicuramente nel giro d'affari della Corte.» «Hai del grano? Molto grano?» «Avrò quello che ci vuole.» «Per portarti voglio trecento dollari.» Brolin si voltò e fissò lo sguardo sul paesaggio, in lontananza. «Non credo proprio. Centocinquanta basteranno.» Sapeva che non si doveva mai accettare subito; solo i poliziotti lo facevano, dal momento che non si trattava dei loro soldi, e la buona causa li spingeva ad accettare qualunque prezzo. I poliziotti non perdevano tempo a negoziare, preferivano puntare dritti verso il risultato. Nemek parve apprezzare la cosa. Si accordarono per duecento dollari. «Per scendere alla Corte dovrai pagare ancora. Ai trafficanti. Sono loro che hanno creato la Corte dei Miracoli, e sono loro che garantiscono sicurezza e protezione. Prendono anche il quindici per cento su tutte le transazioni che si fanno lì. È così che funziona, e guarda che non è trattabile.» «Benissimo. A proposito di sicurezza, davvero non si corrono rischi? Non ho nessuna voglia di farmi pizzicare dai piedipiatti...»

«Di questo non ti preoccupare. La Corte dei Miracoli esiste da cinque anni e gli sbirri di questa città che ne hanno sentito parlare pensano sia solo una leggenda. Non ci credono. A ogni modo, lo vedrai da te, nessuno può riuscire a ritrovarla, anche dopo esserci stato. Sono i trafficanti gli unici a sapere dov'è esattamente.» «Allora è perfetto.» Nemek scosse il capo, come se trovasse tutta la faccenda completamente assurda. «Cazzo, spero che la manbo sappia quello che fa», mormorò. Si avvicinò a Brolin e stava per posargli una mano sulla spalla, quando qualcosa nello sguardo del detective lo bloccò. Tutto d'un colpo, Nemek perse un po' della sua sicurezza. «Okay, allora, ricordati di non fare domande finché non sarai alla Corte, capito?» Brolin annuì. «Non si entra armati», proseguì Nemek. «Io non ti accompagno dentro, ti faccio da padrino e basta. È così che funziona la Corte dei Miracoli: uno che ci fa affari fa da padrino a un altro e via di seguito. Tutto si basa sulla fiducia. Se uno dei due fa una cazzata, di solito finiscono nei guai entrambi. I tipi che gestiscono la cosa sono organizzati quanto basta per decidere se correre il rischio di accettarti oppure no. Se ti accettano, fai esattamente quello che ti dicono. Non sono dei pagliacci, perciò non fare il coglione. Loro sono a posto: se non fai stronzate non hai niente da temere per il tuo grano. Questo è il loro business, ovvio che non hanno nessun interesse a farlo andare in malora. Ti recupero qui stasera alle dieci. Per il ritorno dovrai cavartela da solo.» «Mi sta bene.» Nemek si appoggiò a uno dei fili per stendere. «Devi proprio essere nelle grazie della manbo Zappe, se si fa garante per te...» Anche se non era certo il caso di farglielo capire, Brolin era sorpreso quanto Nemek. Non pensava di aver fatto colpo fino a quel punto sulla strana nonna di Annabel, e neppure che lei fosse così influente. «Posso farti una domanda? Che cosa significa manbo?» Nemek rimase in silenzio per un attimo, prima di rispondere. «È una sacerdotessa vudù.» Questo poteva spiegare i rapporti che esistevano tra la donna e lui, e di sicuro una buona parte della comunità del quartiere. Doveva essere tanto

temuta per i suoi poteri quanto rispettata per i servizi che rendeva a quanti credevano in lei. Strano culto, si disse Brolin. Ma forse non più di quello che venera un uomo che camminava sull'acqua... Trattenne prontamente il ghigno che stava per formarsi sulle sue labbra. «Nemek, tu ci sei già stato, alla Corte dei Miracoli, tu lo sai com'è davvero... Voglio dire di persona, non attraverso quello che ne raccontano gli altri, no?» Il volto del giovane nero si fece ancora più duro. «Sicuro. E non ci tornerò più.» «Perché? Che cosa hai fatto laggiù?» Nemek lanciò il mozzicone nella neve e squadrò Brolin come se questi non avesse capito nulla. «Non è quello che ho fatto, è quello che ho visto. Comunque, tra poco lo saprai anche tu. Questa notte. Questa notte, anche tu conoscerai l'inferno.» Brolin rabbrividì nel freddo pungente che avvolgeva Brooklyn. Decisamente, quella città tendeva a essere ossessionata dall'inferno. Scendendo gli scalini, Joshua si chiese se non fosse per caso lui ad attirare il male. Si chiese se non fosse lui stesso legato ai demoni che imperversavano nel mondo. Qualunque aspetto avessero. 53 Le scatole di cartone erano sparpagliate sul pavimento, con qualche avanzo di spaghetti cinesi e una lattina di succo di litchi. Al centro era impilata una quantità di guide del telefono. Sul tavolino, il computer portatile collegato a Internet proiettava un alone lattiginoso sul volto di Annabel. Accanto a lei, sul divano, c'era Jack Thayer, il ricevitore del telefono incollato all'orecchio, irritato per dover aspettare un po' più a lungo perché era domenica pomeriggio e tutto si muoveva al rallentatore. La lista dei musei che in qualche modo c'entravano con la storia dei trasporti nel New Jersey comprendeva undici indirizzi. Inoltre disponevano di una decina di nomi di appassionati dell'argomento. Con un orecchio distrattamente appoggiato al telefono, Thayer attendeva che l'interminabile musichetta di attesa finisse, per poter parlare con qualcuno. Annabel appoggiò la mano sul polso del collega, in un gesto non tanto di tenerezza, quanto piuttosto amichevole, per non dire fraterno.

«Ieri sei stato il primo che ho chiamato, quando... insomma, quando è successa la storia della videocassetta.» «Sono davvero dispiaciuto, Annabel... Avrei voluto essere qui con te.» «Per dirtela tutta, ho avuto una gran paura. Di solito sei raggiungibile in qualunque momento, e per almeno un minuto ho proprio creduto che ti fosse capitato qualcosa di grave, come se... Voglio dire, non sappiamo di che cosa può essere capace Bob.» Thayer parve a disagio. Si agitò sul divano, cercando una posizione più comoda. «Io... Sinceramente, mi sento in colpa. Soprattutto perché... Annabel... ero con una donna, ieri sera.» «Oh.» Subito si rimproverò per una risposta così stupida. Era una cosa così inattesa, da parte di Thayer! Lui, lo scapolo incallito, l'eremita intellettuale. «Be', direi che è il migliore dei motivi per non rispondere al telefono», riuscì solo a farfugliare, davanti all'imbarazzo del compagno. Da quando lavoravano insieme in squadra, avevano parlato di tutti gli argomenti possibili e immaginabili, tranne che della vita amorosa di Thayer. Lui era sempre stato un tipo più che discreto. «È una ragazza molto simpatica. L'ho conosciuta tre settimane fa. Non sapevo come fare a dirtelo.» «Sono contenta per te, Jack.» Prima che lui avesse il tempo di risponderle, la voce all'altro capo del filo risuonò nel ricevitore. Ancora stupita e al tempo stesso felice per il suo collega, Annabel cercò di mettere ordine tra tutti i dossier aperti un po' ovunque in giro per l'appartamento. In ogni caso erano già tre settimane che stava con una ragazza, avrebbe anche potuto parlargliene... Staccò le sessantasette foto dalla parete e le ripose tutte in una vecchia borsa di pelle. Se si fossero trovati a dover partire in fretta e furia per il New Jersey, contava sull'aiuto dello sceriffo Murdoch per fare dei suoi uffici il loro nuovo quartier generale. Andarono avanti per un po' a lavorare, ciascuno rintanato nel suo angolo. Thayer era impegnato a trascrivere nomi e cognomi di tutti gli impiegati dei vari musei, quando il telefono di Annabel squillò. Era Brett Cahill che, come promesso, non li aveva abbandonati. «Sì, qui le cose sembra che si stiano muovendo. Quelli dell'FBI sono

davvero in gamba, mi costa ammetterlo ma ci sanno fare. Quello che dirige le operazioni è l'agente speciale Neil Keel: è lui che ha interrogato Janine Shapiro. Quell'uomo è un prodigio di retorica, si è studiato il dossier di Janine e dopo due ore passate con lei, a parlarle senza sosta, lei ha vuotato il sacco su tutto ciò che sapeva. Per questo voleva vederlo oggi. Stanno passando al setaccio tutto quello che ha vissuto, e pian piano Keel la sta portando a suo fratello, a Bob e al culto di Caliban.» «Qualcosa di interessante? Nomi?» «No, non un granché», grugnì Cahill. «Gli sta raccontando la sua vita. La casa nella prateria, al confronto, è uno spasso. Comunque vi ho chiamati perché gli uomini di Keel hanno evidenziato un particolare importante. Un legame tra i delitti, nel modus operandi.» Annabel si ficcò le mani fra le treccine. «Che cosa ci siamo lasciati sfuggire?» «In apparenza, il sessanta per cento dei rapimenti si è verificato in presenza di condizioni climatiche pessime. Durante una forte nevicata, un temporale o comunque sotto la pioggia battente.» «Sei sicuro?» «Ehi, non ci ho lavorato sopra io! Keel sta facendo spulciare tutto. Bisogna riconoscere che avremmo potuto pensarci! Comunque, loro sembrano convinti che valga la pena darci dentro, per seguire questa pista. Voglio dire che stanno mettendo sottosopra tutte le stazioni meteorologiche locali per scoprire con precisione che tempo faceva sul luogo di ogni rapimento. Forse l'FBI ha scoperto il segreto della loro invisibilità.» «E questo Keel? Che tipo è? Fa domande su di noi?» volle sapere Annabel. «No, credo si accontenti di non avervi tra i piedi. I suoi uomini vanno dal capitano Woodbine quando hanno bisogno di qualcosa, tutto qui. L'agente speciale Keel sembra il gemello di Yul Brinner in giacca e gilè, stessa presenza inquietante e stesso cranio lucido» «Grazie davvero, Brett.» «Un'ultima cosa. Cercate di essere discreti. Keel mi sembra il tipo da darvi una strigliata coi fiocchi, se si accorge che avete invaso il suo campo. Ha seguito le indagini passo passo fin dall'inizio, come uno squalo; ha fiutato subito il colpo grosso, ma ha aspettato il momento propizio per venire allo scoperto. Pare che abbia fatto di tutto per essere della partita; uno dei suoi mi ha detto che lui e l'assistente del sindaco sono parenti. Chiaro il quadro?»

«Sembra un incubo dipinto da Hans Ruedi Giger. Brett, noi andiamo a Phillipsburg. Tienici informati se si verificano cambiamenti, o se Keel dovesse decidere di andare nella stessa direzione.» Mentre riagganciava, non poté trattenere un sospiro di ammirazione. Bob era maledettamente furbo. Cercava la sua vittima, poi probabilmente la spiava fino a conoscerne perfettamente le abitudini. Per finire, aspettava che il tempo si guastasse per organizzare il suo agguato. Doveva avere sempre sott'occhio almeno due o tre vittime potenziali. Il giorno in cui si metteva a piovere o a nevicare, o scoppiava un violento temporale, prendeva di mira quella che sapeva essere più vulnerabile in quel momento. Mai un testimone. E per forza! Chi presta davvero attenzione a ciò che gli accade intorno quando piove? Si cammina con la testa infossata tra le spalle per evitare che l'acqua si infili nel collo; la visuale è ridotta, non si indugia, anzi ci si affretta, e nessuno vede niente di niente. Quanto agli eventuali testimoni che si trovavano a casa loro, posto che fossero proprio davanti alla finestra, non potevano certo vedere un granché se fuori c'era una tempesta o cadeva una neve fitta. Annabel annuì. Sì, bisognava riconoscerlo: Bob era furbo. Era ingegnoso e paziente. E quando il tempo non gli era favorevole - il che nella zona di New York capitava comunque di rado - agiva di notte e scegliendo posti isolati. «Tutto a posto?» le chiese Thayer. «Sì. Mi dicevo che questo Bob a cui diamo la caccia appartiene alla categoria dei piccoli geni del crimine. E che il tipo dell'FBI che ha preso in mano il caso non è da prendere sottogamba neppure lui.» «Che vuoi dire?» «Prendi i dossier, Jack, ti spiegherò in macchina. Andiamo a chiedere allo sceriffo Murdoch di darci una mano.» Come per prendersi gioco della giovane donna, l'ombra opaca delle nuvole avvolse il profilo di Manhattan, per poi offuscare la baia e assorbirne tutti i riflessi. Ricominciò a nevicare. 54 Le pareti erano coperte da uno smalto verde, da graffiti osceni e incisioni poco profonde. Oltre a una porta e a uno specchio, nient'altro. Al centro un tavolo e, su una delle due sedie, il corpo fragile di Janine

Shapiro. Le sue braccia sporgevano dalle maniche della blusa beige, simili a due ossa, e le mani correvano nervosamente lungo la superficie del tavolo; le dita minuscole le facevano sembrare due insetti tropicali che continuamente piegavano e dispiegavano le loro zampine gialle. Gli occhi castani, in confronto alla testa, parevano fin troppo grossi e pesanti, quasi invadenti rispetto allo spazio striminzito di quel viso esausto. L'agente speciale Keel entrò nella stanza facendo sbattere la porta dietro di sé. Janine sussultò. Neil Keel aveva trascorso un'ora dietro il falso specchio, osservando Janine Shapiro mentre l'ansia finiva di corrodere le sue ultime capacità di resistenza. Le mise davanti un foglio di carta e una penna. «Janine, vorrei che proseguissimo la nostra conversazione.» Nel corso del pomeriggio aveva interrotto la seduta quando si era reso conto che le resistenze della donna aumentavano non appena lui le faceva domande precise sulle imprese del fratello. «Può leggere questo testo a voce alta, per favore?» Lei ubbidì, rabbrividendo. «Intendo rispondere alle domande che mi vengono poste, e per il momenro non voglio un avvocato. La mia decisione di rispondere alle domande senza la presenza di un avvocato è perfettamente consapevole.» «Perfetto. Aggiunga le sue iniziali e firmi.» «Credo di aver già firmato qualcosa del genere», replicò Janine con una voce bassissima e tremante. Keel inclinò la testa da una parte, come una madre intenerita dal figlio. «Non si preoccupi», la rassicurò con un tono amichevole e pieno di calore. «Non le ho dimostrato comprensione? Non le ho forse dato modo di spiegarmi nel dettaglio tutto ciò che ha dovuto sopportare? Coraggio, Janine, vede bene che io sono dalla sua parte.» Si chinò su di lei e le porse la penna. Janine abbassò gli occhi e firmò. «Perfetto», commentò Keel, sedendosi di fronte a lei. «Vogliamo riprendere?» Prese dalla tasca della giacca un piccolo registratore e lo appoggiò sul tavolo, poi premette il tasto «record» prima di ripetere il suo nome e quello della sua interlocutrice, seguito dalla data e dall'ora. «Ormai so molte cose, Janine, sulla morte dei suoi genitori, sul modo in cui suo fratello si è occupato di lei, e su come ha abusato di lei. So che lei è una vittima, che era lui a obbligarla a fare... certe cose. E per questo che lei andava in quella chiesa di notte, servendosi del doppione della chiave

che le avevano dato per fare le pulizie, e spargeva il sangue delle vittime sulle vetrate per espiare i suoi peccati. Tutto questo è ormai chiarito. Quello che dobbiamo fare ora è occuparci del colpevole, la persona che l'ha fatta cadere in questo abisso. Mi parli di Lucas. Come è iniziata questa cosa assieme a lui?» Di fronte alla sommaria rievocazione della sua vita, Janine sembrò trattenere le lacrime a fatica. Trasse un profondo respiro e iniziò a raccontare, lentamente, cercando le parole giuste. «Lucas è sempre stato un donnaiolo. Gli piacevano molto le ragazze. Da bambino mi chiedeva di aiutarlo a legare le mie amiche; ogni volta finiva in un litigio, finché alla fine non ho più avuto neanche un'amica...» «Capisco. Lucas ne aveva, di amici? Per esempio, si vedeva con qualcuno negli ultimi tempi? Faceva venire i suoi amici a casa vostra?» «Raramente. In realtà, da ragazzo Lucas avrebbe voluto stare in una gang, diceva che la fratellanza era bella. Ma lui era un solitario: non credo che sarebbe riuscito ad andare in giro sempre in gruppo, come fanno quelli delle bande...» «Comunque gli capitava di incontrare gente, no? Dei parenti, qualche amico con cui usciva?» «Pochi.» Keel si massaggiò il collo, un po' contrariato. Si rendeva conto che le resistenze della giovane donna stavano tornando di nuovo a galla, dopo tutta la fatica che aveva fatto per convincerla a parlare. Con un gesto discreto spense il registratore. «E questi uomini, lei li conosceva?» Janine gli lanciò un'occhiata diffidente. «Non so... non so se voglio continuare. Può darsi che un avvocato...» L'agente Keel picchiò violentemente il pugno sul tavolo. «Questa è bella!» gridò. «Sto facendo di tutto per mostrarmi comprensivo, per stendere un rapporto che vada a suo vantaggio, e lei invece cosa fa? Si tira indietro!» Si alzò, sovrastandola da sopra il tavolo. «Rifletta bene, Janine! Per il momento, il resoconto dell'autopsia della ragazza ritrovata a Larchmont indica chiaramente che sono le sue mani ad averla strangolata! Se il suo avvocato è un asso, le farà avere le attenuanti per via di suo fratello, così sfuggirà alla pena di morte e passerà il resto della sua vita dietro le sbarre! Ma se il suo avvocato è un incapace, non so se mi spiego... Lei non ha i mezzi per permettersi un difensore di quelli

buoni, e gli avvocati d'ufficio, mi dia retta, io li conosco fin troppo bene...» Le afferrò il mento, costringendola a guardarlo. «Janine, se non mi aiuta adesso a capire come sono andate le cose, per lei è finita. Sarò io a preparare il suo dossier, perciò il suo destino si decide ora. Subito. Mi aiuti a salvarla.» Restò immobile per un interminabile minuto. Il neon alle sue spalle proiettava la sua ombra gigantesca sulla fragile figura. «Lucas praticamente non aveva amici», riprese lei. «Soltanto i ragazzi del suo 'gruppo', come li chiamava lui.» L'agente speciale Keel fece ripartire il registratore. «Lei li conosceva?» Janine scosse il capo. «No, ma Lucas diceva spesso che loro tre insieme potevano fare quello che volevano, che erano un trio unico. Sì, ecco, è questo che continuava a ripetere: il 'trio unico', gli piaceva chiamarlo in quel modo.» Keel esultò. Finalmente sapeva quanti erano. «Dunque erano in tre», ribadì. «Lei ne ha visto qualcuno?» «No, però so che c'era anche un negro che Lucas aveva conosciuto in prigione. Ne parlava come del suo pupillo.» Spencer Lynch. Nulla di nuovo. Keel strinse i denti, sforzandosi di mantenere la calma. Gli occorreva una pista seria, non semplici dettagli. «Poi c'era l'altro, Bob.» «Bob?» ripeté lui. Keel sperava che la donna avesse ulteriori informazioni sull'autore della cartolina trovata dai poliziotti a casa di Spencer. Era lui che sembrava guidare la setta, almeno per quel che ne sapevano. «Sì, lo chiamava così, tutto qui. Lucas ne parlava come di un tipo in gamba. Era Bob quello che deteneva le conoscenze di Caliban.» «Ma allora che cosa rappresenta, questo Caliban?» Janine rabbrividì. «È la nuova potenza.» «Un dio?» «No, secondo Lucas è ancora di più: è il piacere finale, il potere. È il mezzo per diventare dei superuomini. Lucas continuava a ripetere una frase di Bob: 'Caliban è la voce dei padroni'.» «Ora le farò una domanda importante, Janine, la prego di concentrarsi. Sa per quale motivo Bob potrebbe aver ucciso suo fratello? Avevano avuto qualche discussione?»

Janine deglutì a fatica. «No, non lo so. Si vedevano pochissimo», rispose con una voce tremolante. «Lucas mi lasciava fuori da tutta questa storia, gliel'ho già detto; non ho mai visto né Bob né il negro.» «Quindi non vede nessuna ragione perché Bob potesse avercela con suo fratello? Lucas non le aveva detto proprio niente?» «No. Niente.» Dopo un attimo di esitazione, lei alzò timidamente l'indice. «Ma si sono visti poco tempo fa. Domenica scorsa. Mi pare che fosse a proposito del negro. Qualcosa che li aveva mandati su tutte le furie.» L'arresto di Spencer Lynch. Keel la incoraggiò a continuare. «Mi ricordo anche che Lucas ha ricevuto una telefonata. Anche lui è rimasto stupito; di regola non usavano mai il telefono di casa. Credo che Bob l'abbia rassicurato, dicendogli che chiamava da un apparecchio pubblico o qualcosa del genere. Hanno parlato per parecchi minuti e si sono dati un appuntamento.» «Dove?» «Non lo so. Lucas ha scritto l'indirizzo sul suo bloc-notes, me lo ricordo perché sono andata io a prenderglielo in camera sua.» Keel trattenne un grido di vittoria. «Janine, può dirmi che cosa facevano, esattamente, suo fratello e i suoi amici?» A Janine Shapiro venne la pelle d'oca sulla braccia. La sua bocca ebbe un tremito. Non sapeva molto, solo frammenti. Quando ebbe finito, l'agente speciale Keel era bianco come un lenzuolo. Uscì dalla stanza e fece un cenno a uno dei suoi uomini. «Walsh, dov'è l'ufficiale di collegamento?» «Eccomi», disse Brett Cahill avvicinandosi. Keel si deterse il sudore dal cranio liscio con un fazzoletto. «Cahill, mi faccia un favore: vada al magazzino dove sono custoditi tutti gli effetti di Lucas Shapiro e mi trovi il suo blocco per appunti. Stando a sua sorella, è un piccolo taccuino con una custodia in pelle. Dentro dovrebbe esserci annotato il luogo dell'appuntamento di Lucas con questo misterioso Bob, avvenuto domenica scorsa, il 20 gennaio.» «Va bene, signore.» «E se ha bisogno dell'autorizzazione del procuratore distrettuale per por-

tare fuori il taccuino, mi chiami immediatamente e l'avrà nel giro di un'ora.» «Capito. Ci vado subito.» L'agente Walsh attese che Cahill fosse nell'ascensore, prima di indicare la porta con un dito. «E di lei, che cosa ne facciamo?» Keel si passò la lingua sulle labbra. «Voglio che il procuratore abbia un dossier a prova di bomba sul suo conto. Voglio che non possa mai più vedere il sole, se non attraverso le sbarre.» Neil Keel fece una smorfia. Provava un senso di oppressione al petto, come se fosse schiacciato da una trave d'acciaio. 55 Il pomeriggio volgeva al termine; l'inchiostro della notte si allargava nel solco del crepuscolo, infittendo le ombre di Phillipsburg. Seduto dietro la sua scrivania, lo sceriffo Murdoch ascoltava Annabel che gli faceva un resoconto completo di tutto ciò che sapevano sul culto di Caliban. L'arresto di Spencer Lynch, la scoperta delle foto e del versetto in latino, la morte di Lucas Shapiro, il vagone degli scheletri e l'incursione di Bob a casa della detective. Avrebbe voluto aggiungere anche il nome di Malicia Bents, ma era impossibile farlo senza coinvolgere Brolin, con il rischio di collegarlo alla morte di Shapiro. Al di sopra dell'imponente corporatura dello sceriffo, la bandiera americana pendeva dal muro accanto a una foto del presidente. Secondo Annabel, Bob viveva nei dintorni. Faceva tutto il possibile per essere prudente, per confondere le sue tracce. Tuttavia non avrebbe mai potuto sorvegliare regolarmente le sue vittime per conoscerne tutte le abitudini, se le loro case non fossero state vicine alla sua. Bob braccava le sue prede entro un perimetro regolare intorno a Phillipsburg. «Però forse è una falsa pista», suggerì Murdoch. «Se è davvero così intelligente come lei sostiene, non farebbe una simile sciocchezza, non crede? Potrebbe anche comportarsi così a bella posta, proprio per farci credere che abita da queste parti.» «No, ci sono cose su cui non si può barare», replicò Annabel. «Sappiamo che le sue operazioni le prepara bene, ispeziona i luoghi e controlla le abitudini delle vittime: è per questo che non ci sono mai testimoni. Ma tut-

to ciò implica frequenti andirivieni. Non potrebbe permettersi di scegliere le sue prede sull'altra riva dell'Hudson: per questo c'erano Lucas Shapiro e Spencer Lynch. Se dovesse farlo di persona, gli occorrerebbe troppo tempo, dovrebbe passarci delle intere giornate, e non può perché ha un lavoro.» «Come fa a esserne così sicura?» si stupì Murdoch. «Questo Bob potrebbe essere uno che vive sulla strada, magari in un camper o in una roulotte.» La detective fece cenno di no con la testa. «Mantiene in vita le sue vittime vicino a sé, talvolta per parecchie settimane. Collegando le date dei rapimenti con quelle riportate sulle foto scattate da Bob e dai suoi complici, si nota che molte si sovrappongono. Il che vuol dire che in certi periodi si è ritrovato tre, quattro, anche cinque o sei persone prigioniere nello stesso momento. Nutrirle richiede denaro, per non parlare del luogo abbastanza grande e isolato, o insonorizzato, che serve per tenerle rinchiuse. Bob ha una certa disponibilità finanziaria, quindi ha un lavoro. Probabilmente dedica tutti i suoi risparmi a questa 'attività', come se fosse un hobby, se mi perdona l'espressione.» Lo sceriffo annuì lentamente, impressionato dalle deduzioni della poliziotta. «Che cosa posso fare per aiutarvi?» chiese. Thayer, in posizione di riposo con le mani appoggiate dietro la nuca, fece schioccare la lingua. «Lei sa che la nostra presenza qui è in veste non ufficiale. L'inchiesta ora è in mano ai federali.» «Questo mi è chiaro, sì. Però voi siete i primi a venirmi a trovare, quindi che male può esserci se vi do una mano?» replicò Murdoch con uno sguardo d'intesa. «Fino a quando non arrivano qui anche loro...» L'animosità esistente tra polizia e FBI era tutt'altro che una leggenda, anche se Thayer supponeva che la disponibilità di Murdoch fosse più che altro dovuta alla presenza di Annabel, come testimoniavano le lunghe occhiate che le lanciava. «Se le cose stanno così», disse infine, «non avrebbe per caso i dossier di tutti i rapimenti che si sono verificati nella regione?» «Solo quelli sotto la mia giurisdizione.» Murdoch frugò dentro un armadio di metallo e ne estrasse delle cartelline rosse. Ognuna conteneva una foto della persona rapita, una denuncia di scomparsa da parte dei famigliari, un rapporto preliminare e un rapporto

sull'indagine. Ce n'erano nove, tra cui quella di Rachel Faulet. Vedendo la foto della ragazza sorridente, il suo sguardo allegro, i capelli serici raccolti in due trecce e le lentiggini sulle guance, Annabel pensò a Brolin e al suo accanimento nel tentare di ritrovarla. Richiuse la cartellina e fissò Eric Murdoch. «Sceriffo, avremo bisogno di lei. Dovremo studiare questi fascicoli da cima a fondo, ma intanto, come le ho detto al telefono, stiamo cercando dei musei sulla storia dei trasporti nel New Jersey, oppure degli specialisti sull'argomento.» «Sì, mi sono informato mentre vi aspettavo. Dovrei riuscire a fissarvi qualche incontro per domani, in particolare con un certo Calvin Valentin, uno molto esperto in questo genere di cose. Sarà in città in mattinata.» «È urgente.» «In questo momento Calvin è su un aereo; sta tornando dalla California, dove abita la sua famiglia. Per quanto riguarda i musei, suggerirei di aspettare domani: è domenica sera, e otterremo molta più collaborazione da tutti se non andremo a disturbarli mentre sono a casa con le loro famiglie.» Thayer stava per replicare, ma Murdoch alzò una mano per bloccarlo. «Sentite cosa vi propongo: venite a casa mia, vi preparerò la cena e nel resto della serata passeremo in rassegna tutti questi fascicoli. Potete anche dormire lì, di posto ce n'è. Domani vi accompagnerò a incontrare chi vorrete. Datemi retta: questo è il mio regno, fate le cose a modo mio. È così che funziona da queste parti. La gente sarà più incline a collaborare.» Thayer e Annabel si scambiarono un'occhiata, incerti sul da farsi. Un lampo di vittoria brillò negli occhi dello sceriffo quando la detective gli disse che accettavano. «Vedrete, non sono un campione di deduzioni, ma in cucina me la cavo abbastanza bene...» Annabel non lo ascoltava. Stava pensando a Calvin Valentin. Non sapeva perché, ma percepiva un senso di urgenza, come se fosse una questione vitale incontrare questo Valentin il più presto possibile. 56 Brett Cahill parcheggiò all'imbocco di Gold Street. Sapeva che con l'84° Distretto a metà via la piccola strada era perennemente ingombra di veicoli. Prima di uscire fuori, nel freddo, si massaggiò le tempie. Non ne poteva più. Aveva bisogno di riposo. In un modo o nell'altro doveva riuscire a ri-

lassarsi, non poteva andare avanti così all'infinito. Salvaguardare le apparenze con i suoi colleghi durante il giorno, e poi essere in grado di reggere la parte di vita che seguiva il calare del sole stava diventando insostenibile. Eppure non poteva lasciar perder. No, era impensabile. E del resto lui non lo voleva. Se un giorno avesse dovuto scegliere tra questo e il suo lavoro, la scelta era già fatta; i soldi di cui aveva bisogno li avrebbe trovati altrove. Percorse il marciapiede in direzione del distretto, che conosceva bene per averci lavorato un anno. Un anno in quel bunker scuro dalle finestre strette. Aggirò le autopattuglie, Ford Crown Victoria bianche orlate di neve, con la scritta CORTESIA - PROFESSIONALITÀ - RISPETTO impressa sulle portiere, e arrivò al cancello di fronte. Non entrò neanche negli uffici del distretto: sapeva già che l'avrebbero mandato nell'annesso edificio dove tutti gli oggetti prelevati a casa di Shapiro sarebbero stati custoditi per l'intera durata dell'indagine. Una montagnetta di sacchi della spazzatura bianchi e azzurri era ammassata davanti al numero 300, un fabbricato grigio di cinque piani che da tempo avrebbe dovuto essere rimesso a nuovo, come molte altre cose nella polizia della città. Attraversò l'ingresso, aprendo il soprabito di lana su un completo impeccabile. Fintanto che gli rimaneva il tempo di passare in lavanderia a recuperare i suoi abiti, si disse sorridendo dentro di sé, la situazione non poteva essere poi così critica. Mostrò il distintivo e spiegò brevemente il motivo della sua visita; gli fu aperta la porta di un magazzino interrato, una stanza foderata da alte scaffalature in acciaio sepolte sotto pile di documenti. Gli effetti di Shapiro erano contenuti in scatole di cartone numerate dall'1 al 36. Per mancanza di tempo non era ancora stato fatto un inventario. Brett Cahill si mise a frugare una scatola dopo l'altra, tra cassette dai contenuti equivoci e materiale per i tatuaggi. C'era in effetti un'agenda, ma non un taccuino in pelle. Imprecò a voce alta. Tornò alla macchina e si infilò in Flatbush Avenue, costeggiò la massa avvizzita di Prospect Park e attraversò il quartiere di Kensington in direzione di Parkville, per raggiungere la 19a Avenue, più simile a un minuscolo vicolo cieco che a un'arteria commerciale. Uscendo dall'auto controllò sommariamente che nessuno lo stesse osservando - la strada era senza uscita e deserta - e raggiunse il vialetto che portava alla casa di Shapiro. Infranse i sigilli della porta sul retro e la forzò per entrare. L'agente Keel aveva l'aria di ritenere che il taccuino fosse una

priorità, perciò l'ispettore non si preoccupò affatto dell'infrazione che stava commettendo. La sola cosa importante era il contenuto del taccuino. Cahill salì direttamente al piano superiore. Per prima cosa frugò nella stanza da letto, tra gli oggetti che i poliziotti non avevano ritenuto di dover portare via per le indagini. Non trovò nulla, e sempre più perplesso passò all'altra stanza. Non gli ci volle molto per passarla in rassegna, ma neppure lì niente che assomigliasse al blocchetto per appunti di Lucas. Scese e passò al setaccio il soggiorno, cercando tra le riviste, guardando dietro il divano... L'atmosfera era pesante, resa più opprimente dalla tappezzeria sui muri, e ristagnava un profumo di lavanda così forte da dare alla testa. Non poteva fare a meno di pensare a tutto quello che era avvenuto in quella casa, a tutta la violenza tra Lucas e sua sorella, a tutte quelle scene degradanti di tortura mentale e fisica. E poi, di colpo, lo vide. Era a due metri da lui. Accanto al telefono, raccoglieva pigramente i riflessi spenti della sera che calava. Un taccuino dentro un astuccio di pelle logoro. Esattamente là dove doveva essere. Roba da non crederei Non l'hanno nemmeno portato via! Cahill lo aprì e fece scorrere le pagine fino all'ultima. Appunti relativi a risultati sportivi datati sabato 19 gennaio, il giorno prima dell'incontro tra Lucas e Bob. Passò alla pagina seguente. Niente neppure lì. Eppure, dovrebbe esserci... Una striscia di carta lacerata in alto: l'ultima pagina utilizzata era stata strappata via. Cahill cercò una lampada; accese quella accanto al tavolo. Inclinò il taccuino per individuare i segni che la punta della penna poteva avere lasciato premendo sulla carta. Niente da fare. «Cazzo!» Prese il cellulare e si mise in contatto con Neil Keel. «Ho il taccuino ma manca l'ultima pagina, sicuramente quella dove è stato scritto l'indirizzo.» «Pazienza, me lo porti comunque.» «Ho guardato se la penna aveva lasciato qualche traccia sulla pagina dopo, ma non si vede nulla.» «Torni qui prima che può, ispettore Cahill. Le insegnerò a far parlare la carta.» «Ma...»

«Non discuta e si sbrighi. Bob non ha esitato a far diventare pazza una donna e a tagliare le falangi delle dita a un bambino per dire ai poliziotti di fermare le indagini. Pensi a cosa potrebbe fare sapendo che ormai è l'FBI a dargli la caccia.» «Va bene, arrivo.» Cahill chiuse la telefonata e appoggiò la mano umida sulla copertina di pelle. Keel aveva ragione: i media stavano mettendo in evidenza la presenza dell'FBI, cosa che avrebbe sicuramente amplificato il furore di Bob. Bisognava muoversi in fretta, prima che colpisse di nuovo. Questo qui è capace di rendere folle una donna che prima era sana di mente! E non aveva esitato ad amputare le falangi di un ragazzino. Qual era la prossima tappa? Quale crescendo di orrore stava preparando? Era solo questione di tempo, prima o poi l'avrebbero scoperto. 57 Il telefono squillò alle diciotto per svegliarlo, come Brolin aveva richiesto. Il detective fece una lunghissima doccia per liberarsi da ogni residuo di sonno. Si era concesso una siesta in previsione della notte a venire, perché non aveva la minima idea di ciò che lo aspettava. Stava per scendere nelle tenebre. Era il grande brivido, l'ondata di adrenalina che precede il primo passo nell'ignoto. Uscì con Zaffiro, una lunga passeggiata per le vie gelate del quartiere, utile non solo al cane, ma anche per sgombrare la mente. Gli edifici coperti di brina somigliavano a stalagmiti artigianali. Le auto si incrociavano indifferenti davanti alle vetrine illuminate dei negozi. In mezzo a questo balletto scintillante, un viavai di persone cammina sulla neve che scricchiola. Ognuno di loro si porta dietro un'esistenza complessa, una percezione unica: in ognuno di loro si svolge una tragedia, nell'indifferenza degli altri. Presi dai tanti grattacapi del loro piccolo mondo, si scansano al passaggio di Brolin, lontani mille miglia dall'immaginare chi è quell'uomo e cosa sta facendo. All'inizio della serata l'investigatore cenò in camera sua, un pasto leggero scandito dal rumore dell'ingordo masticare del cane accovacciato ai suoi piedi. Alle ventuno e trenta prese un rotolo di banconote e lo divise in diverse mazzette, che nascose su di sé in diversi punti: nelle tasche, nei calzini...

Infilò il caricatore nella Glock e lasciò l'albergo, diretto alla metropolitana. Nemek arrivò in perfetto orario, senza lasciarlo ad aspettare troppo a lungo in mezzo a Little Nassau Street. Una vetusta Chevrolet rossa con il tettuccio bianco striato di ruggine si fermò accanto al detective. Nemek gli aprì la portiera. «Sei pronto?» Per tutta risposta, Brolin gli tese i duecento dollari. «Okay, se è questo che vuoi», borbottò Nemek, accendendosi uno spinello. Si avviarono in direzione di Manhattan. Presto tutto l'abitacolo fu invaso dall'inebriante odore dell'erba. Senza nemmeno bisogno di fare un tiro dal «corpo del reato», Joshua ebbe per qualche minuto l'impressione che la sua vista divenisse più nitida, come se la droga avesse il potere di acuire i suoi sensi. «Allora, dove andiamo di preciso?» chiese. Un sorriso enigmatico prese forma sul volto di Nemek, che si limitò ad appoggiarsi un indice di traverso sulle labbra, invitandolo a tacere. Volarono sopra l'East River e risalirono verso nord, costeggiando le acque nere e placide da un lato e il profilo aggressivo dei palazzi dall'altro. Davanti a loro, una miriade purpurea di luci posteriori somigliava a una processione demoniaca. Lasciarono la corsia a scorrimento veloce all'altezza della 102a Strada, mentre Brolin scrutava la massa grigia del centro psichiatrico di Manhattan chiedendosi che cosa celassero quelle mura. Svoltando nella 111a, dentro Spanish Harlem, Nemek si decise finalmente ad aprire bocca. «Qualunque cosa succeda, fino a quando non sono io che me ne vado, tu mi segui senza fare domande. Ci siamo capiti?» «Sì.» «Mae Zappe ha garantito al cento per cento per te, quindi non fare cazzate. Sono io che ti faccio da padrino per farti entrare alla Corte dei Miracoli, il che vuol dire che se tu fai cazzate, io sono nella merda. E se io sono nella merda...» «... ci sono dentro anch'io, ho capito. Stamattina mi hai parlato dei tizi che gestiscono questa cosa, i trafficanti. Ma chi sono?» «Una gang di latinos. Per loro la Corte dei Miracoli è la gallina dalle uova d'oro: quindi non ti preoccupare, non ti fregheranno. Questo però non vuol dire che tu puoi fregare loro. Sono tipi pericolosi, pronti a tutto per difendere il loro business. Meno ne saprai di loro, meglio sarà per te.»

Nemek parcheggiò la Chevrolet un po' più avanti. Fuori il freddo li inghiottì in un colpo solo, lambendo loro le orecchie fino a farle dolere. Simile a un acquedotto, la linea ferroviaria a quattro binari che partiva da Grand Central Terminal tagliava la 111a proprio davanti a loro, privando l'ultimo tratto di marciapiede delle luci della città. Dinanzi a quel tappeto d'ombra un'insegna proiettava un alone rosso e blu su un gruppo di «iniziati». Nemek superò la fila e fece un cenno di saluto ai due guardiani all'ingresso. Mentre si scambiavano qualche commento che Brolin non riuscì ad afferrare, il detective scoprì con un certo divertimento il nome del locale: OE-DEEP. Lo fecero entrare e scendere per una scala tappezzata di moquette rossa, i muri rivestiti da un tessuto dello stesso colore, fino a una piattaforma che dominava un'immensa fossa dove un centinaio di tizi fuori di testa danzavano frenetici. La musica martellava l'aria con i suoi ritmi assordanti, con i bassi che a ogni colpo risucchiavano momentaneamente l'ossigeno e schiacciavano il torace. Intorno a Brolin il freddo si dissolse immediatamente. Davanti a loro un'ampia scala portava all'interminabile pista da ballo e alla marea ribollente che la ricopriva. Sia a destra sia a sinistra partivano due passerelle di metallo, una per fare il giro della sala, l'altra per dominare dall'alto la festa, il tutto inframmezzato da spazi più larghi dove alcune ballerine si contorcevano in cima a cubi luminosi, davanti a giovani lupi che sbraitavano. «Vieni!» Nemek urlò in mezzo alla musica. «Di là!» Gli indicò il bancone del bar, lunghissimo, interamente illuminato da neon colorati. Si aprirono un passaggio a forza di gomitate, poi Nemek superò il bar e scomparve dietro un angolo. Brolin lo imitò, e poté così apprezzare lo spettacolo: il corridoio era rivestito di vernice fluorescente, esaltata da un'adeguata illuminazione. Non ci si vedeva molto bene, e il detective era costretto a seguire Nemek da vicino per non rischiare di perderlo nella ressa. La folla era eterogenea; tutti gli stili vi si mescolavano, anche se a prevalere era una dominante in chiave underground. Era tutto un florilegio di tatuaggi, tanto che Brolin si chiese se non fossero sul punto di sostituire la carta di identità. Nemek passò in mezzo ad alcuni box dalla luce soffusa, rischiarati solo da un globo violetto sul tavolino che conferiva un alone vaporoso alle creature sedute sui divanetti. Il primo sbarramento lo incontrarono davanti a una porta appena visibile, nella persona di un colosso in canottiera con un berretto da cui sfuggivano delle treccine color ebano. Si era fatto tatuare sul braccio DEVI TEMERMI a caratteri gotici, e a dispetto dell'oscurità

portava occhiali da sole. Nel vedere Nemek, accennò un saluto e mise una mano sulla maniglia. Joshua sentì la sua guida dire al colosso: «È con me, garantisco io, è uno a posto». L'altro squadrò il detective e gli rivolse un cenno del capo, prima di aprire la porta. «Buona serata, signori.» La scala dall'altra parte era lunga e stretta, e un'eco di bassi ancora più aggressivi risaliva lungo i gradini. In fondo, alcune ragazze nude si esibivano impudiche nelle loro coreografie lascive. Sovrastavano il pubblico, in piedi sopra piattaforme di plexiglas, e giocavano con questo effetto, strofinandosi a pochi centimetri dagli uomini che salivano sulle sedie per riuscire a incollare la bocca alla plastica trasparente. In meno di due minuti, il tempo di attraversare il locale, Brolin notò due passaggi di droga e vide una ragazza strizzargli l'occhio mentre inghiottiva una compressa. La presenza di donne proprio lì, tra i clienti, lo sorprese assai più che la vendita pressoché libera di stupefacenti. La seconda sala gli riservò nuove sorprese. Nella folla di curiosi che si ammassavano intorno ai palchi e alle gabbie, tre uomini e due donne ci stavano dando dentro senza risparmio con un'esibizione di body-piercing. La loro pelle era attraversata da anelli di metallo chirurgico, dalle arcate sopraccigliari fino alle ginocchia. Tutti e cinque erano appesi al soffitto per mezzo dei loro anelli, attaccati a catene provviste di ganci che tiravano orribilmente la pelle. In perfetto equilibrio a meno di due metri e mezzo dal suolo, i cinque suppliziati si muovevano grazie ad alcune pulegge; il pubblico poteva far avanzare i corpi semplicemente alzandosi sulla punta dei piedi e spingendo con la punta delle dita. La pelle sulle cosce degli «artisti» formava tre triangoli là dove i ganci reggevano il peso. Lo stesso avveniva sulle natiche, la schiena e le braccia. A ogni spinta era come se uno degli anelli potesse lacerare la carne, tanto era forte la trazione esercitata. Uno degli uomini, appeso ventre all'aria, aveva un anello inserito nel glande che gli teneva il sesso teso verso l'alto a tal punto che sembrava lì lì per rompersi. Una donna offriva uno spettacolo analogo con i seni, con i capezzoli deformati dai piercing che li attraversavano. La sofferenza in assenza di gravità scatenava urla eccitate tra la folla. Superate le toilette, Nemek strinse la mano di un altro gorilla, del tutto simile al precedente. Questa volta la discussione fu un po' più lunga; l'armadio a tre ante voleva essere certo che Nemek conoscesse bene Brolin e che ne garantisse al cento per cento l'affidabilità.

Un altro pianerottolo, seguito da un'altra scala. «A che profondità stiamo scendendo?» «Molto in basso», rispose Nemek, in tono cupo. «Com'è che ci sono tanti piani sotterranei, proprio sotto questo club?» «Ehi, amico, questa è New York! Dicono che c'è più spazio di sotto che di sopra. C'è un'altra città, sotto Manhattan; qui è tutto un sotterraneo. Le vecchie gallerie della metropolitana, le linee private abbandonate, le società di forniture idriche che si sono scavate ognuna la propria rete, di cui per la maggior parte oggi nessuno si ricorda più, ed è lo stesso per l'elettricità o le fognature, tanti livelli differenti, più o meno vecchi e per lo più in disuso. Poi ci sono i sotterranei scavati dagli indiani, i loro cimiteri e roba del genere, e infine centinaia di caverne naturali, di faglie, di fenditure... Più tutti gli accessi necessari per la manutenzione, i locali tecnici, e Dio sa che altro. Credimi, potresti girare e rigirare ogni angolo dell'isola senza mai rifare due volte lo stesso cammino, e senza mai mettere il naso fuori. Come dire che uno lasciato là in giro senza mappa né bussola è un uomo morto. Ai bei tempi la mafia disponeva di Red Hook per sbarazzarsi dei cadaveri ingombranti. Oggi le gang hanno i sotterranei di Manhattan, e si potrebbe svuotare tutta la città dei suoi abitanti prima di riuscire a riempirli!» In fondo alla scala furono accolti da un ometto in camicia di seta dalle fattezze ispaniche, la pelle del volto devastata dai postumi di una forma di vaiolo. «¡Nemek! ¿Como estàs?» «Muy bien, Enrique.» «Hai già rifilato via tutta la mercanzia?» chiese Enrique, strofinando il pollice e l'indice in un gesto inconfondibile. «Non sono qui per me. Ti ho portato un cliente per la Corte.» Brolin entrò nel cono di luce ed Enrique accennò un saluto con il capo, rimanendo piuttosto sulle sue. «È un tipo giusto, lo conosco bene, garantisco io per lui», si affrettò ad aggiungere Nemek. Enrique strinse le labbra. «Non ti devi preoccupare», insistette il mentore di Brolin. «Ci metto la mano sul fuoco, per lui; lo sa già che deve essere discreto, e ha la grana per comprare quello che vuole.» Joshua si avvicinò ancora di più, mettendo in mostra tutta la sua prestanza, come se volesse attrarre a sé tutte le ombre e usarle per sottolineare la

potenza del proprio sguardo. «E io ho bisogno a mia volta di discrezione», disse con una voce calma e sicura di sé. Enrique lo scrutò con diffidenza, poi fece segno a Nemek di seguirlo. Si tirarono in disparte e parlottarono rapidamente, mentre Nemek non smetteva di annuire. Enrique parve soddisfatto, e i due tornarono da Brolin. «Siamo d'accordo», disse l'uomo, che aveva un accento messicano. «Vieni giù con me. Ti fai il tuo business e poi ti molliamo da qualche parte in giro per la città. Se un giorno vuoi tornare qui, lo fai assieme a Nemek, e non da solo, perché se vieni da solo ti faccio sbattere fuori con un braccio rotto. Se facciamo affari spesso, e non ci sono problemi, tra un po' di tempo potrai anche venire da solo, ma senza portarti dietro qualcun altro che non conosciamo. Quello che fa lui», accennò con il mento a Nemek, «non devi neanche sognartelo. Io e te non siamo amici; e fino ad allora niente fiducia, quindi non se ne parla di fare da garante. E adesso, se vuoi scendere, sono cinquanta dollari, prendere o lasciare.» Brolin pagò il pedaggio ed estrasse lentamente la pistola. «Ho anche questa; di solito la porto sempre con me, questione di prudenza.» «Di solito.» Enrique prese i soldi e la Glock, poi perquisì Brolin da cima a fondo. Gli chiese anche di tirare su la t-shirt. «Non ho addosso niente. Cerca pure: niente microfoni, né altre armi, né trasmettitori. Niente, sono pulito.» «Tranquillo, amico, è solo per sicurezza. A ogni modo, dove andiamo ora trasmettitori e altre merdate del genere non funzionano. Va bene, puoi passare, quanto al tuo cannone, lo riavrai all'uscita.» «Bene, non c'è più bisogno di me, quindi me la filo», intervenne Nemek, porgendo la mano a Brolin. «No es posible», lo bloccò Enrique. «Fino a quando il tuo amico non se ne sarà andato, tu resti qui. Felipe ti farà compagnia. Andate a divertirvi con le ragazze, offro io.» Enrique gridò qualcosa in spagnolo e apparve un altro membro della gang, il cranio rasato e un sorriso arricchito da due denti d'oro. Scambiò qualche parola con Enrique e annuì, poi fece segno a Nemek di seguirlo. Una volta rimasti soli, Enrique si rivolse a Brolin. «Vieni.» Percorsero un corridoio con il soffitto a volta e arrivarono in una stanza

da cui proveniva un clamore assordante. Una ventina abbondante di persone faceva cerchio intorno a un'arena minuscola in cui combattevano due cani, ringhiando e strappandosi a vicenda pezzi di carne. Gli uomini scommettevano senza limiti sulle due bestie. «Tra un'ora questi uomini saranno più eccitati che durante la loro prima notte di nozze», ghignò Enrique, beffardo. «Tra un'ora si passa ai combattimenti tra uomini, come al tempo dei gladiatori.» Guardò Brolin. «Sai che solo per assistere a un combattimento sono pronti a pagare cinquecento dollari? Senza scommettere, solo per vedere.» L'informazione non stupì affatto il detective. Per un attimo ebbe l'impulso di rispondere parlando di ciò che certe persone erano capaci di fare per sentirsi vive, per sopportare la propria esistenza o semplicemente per provare piacere, ma restò in silenzio. L'argomento «serial killer» era fuori posto, lì. Per quanto... Se si doveva dare credito al pezzo di carta trovato nel magazzino, Malicia Bents aveva sceso quelle stesse scale, accompagnata idealmente da Bob in persona. Enrique passò per un corridoio in pietra, un angusto budello dove l'unica illuminazione proveniva da una sfilza di arcaiche lampadine sfrigolanti. Più che un corridoio sembrava una fenditura nella roccia, irregolare e trasudante umidità com'era. La guida svoltò sulla sinistra, scese alcuni scalini e si fermò davanti a una torcia infissa nel muro, che accese servendosi dell'accendisigari. L'alone ambrato della fiamma, ondeggiando sulle pareti, diradò un po' le tenebre. Enrique ripartì, la torcia puntata verso il basso. D'improvviso, dal buio emerse una vecchissima porta. Era avvolta da un manto di polvere e da brandelli di ragnatele. L'intelaiatura di ferro assorbiva la luce, il legno prosciugava il coraggio: al centro, come se fosse stato scolpito secoli prima, appariva in rilievo il volto del diavolo. Le corna minacciose, le zanne che grondavano fiele, gli occhi deformi. Enrique girò la maniglia, e la porta si aprì con un cigolio che aveva qualcosa di diabolico. I due primi gradini di una scala scavata direttamente nella roccia apparvero, sottomessi, nel timido chiarore. «Spero che tu abbia i cojones, hombre, perché tocca a te scendere per primo.» Dalle tenebre impenetrabili arrivò un urlo, molto lontano, ma così realistico da mettere i brividi. Enrique arretrò, e gli fece segno di passare.

58 Lo sceriffo Murdoch viveva nella parte nord-est della città, ai confini della civiltà. Bisognava prendere una strada costellata di buche, superare un ponte che scavalcava un corso d'acqua pressoché inesistente e disporre infine di un buon raggio di sterzata per superare in un colpo solo l'ultima curva. Annabel e Thayer lo seguirono con la loro vettura fino a una casa isolata, una vecchia costruzione in legno che sventolava i suoi pinnacoli verso un cielo senza stelle. Gli alberi di noce tutt'intorno protendevano i loro rami in ogni direzione. Il vento sibilava lugubre nel boschetto che circondava l'edificio in fondo alla discesa. «Sono spiacente per la strada», si scusò Murdoch dopo che furono scesi. «La casa è grande e bella, ma me la sono potuta permettere solo perché era in cattivo stato e soprattutto servita da un sentiero in cattivo stato. Quando c'è troppo ghiaccio o neve mi tocca arrivare a piedi fino alla strada principale e farmi venire a prendere da uno dei miei aiutanti.» Sferzata dalla lingua gelida della tempesta in arrivo, Annabel si affrettò a seguire lo sceriffo all'interno. Tenne addosso la pesante giacca ancora per qualche minuto, il tempo di riscaldarsi. «Accomodatevi nel salone, vi preparo un vino caldo e poi mi metto ai fornelli.» Entrarono in una stanza tutta sviluppata in lunghezza, con una zona pranzo davanti alle porte-finestre affacciate su una terrazza che dominava il bosco. L'arredamento era scarso, per non dire spoglio, e i mobili non mostravano alcuna impronta di stile: un tavolino basso con un posacenere e il telecomando della TV, un po' di libri disposti su mensole sovrapposte e un cassettone sopra il quale stavano un telefono e una lampada. Niente foto, niente piante verdi, nessuna traccia di animali. Tutto parlava di assenza: era il rifugio di un uomo che passava poco tempo lì dentro. Annabel si chiese se fosse uno scapolo incallito o se avesse una relazione con una donna, giù in città. Ma che cosa te ne importa, replicò a se stessa subito dopo. Non poté evitare di pensare con ironia all'altro scapolo. C'era da credere che più passavano gli anni e più aumentavano le anime solitarie, come se la speranza di vita non potesse crescere se insieme non cresceva anche la solitudine. Thayer depose la pila di fascicoli sul tavolo. «Ecco di che trascorrere una piacevole serata!»

Si diresse alle porte-finestre per tentare di guardare all'esterno. Si appoggiò al vetro, facendo corona al volto con le mani. «Si è messo a nevicare. Spero che domani non ci ritroveremo bloccati qui...» Murdoch riapparve qualche minuto dopo. Si era messo un maglione su una polo bianca e aveva perso un po' della severità che gli conferiva l'uniforme. Appoggiò un vassoio sulla tavola, e tutti incollarono con piacere le mani alle rispettive tazze di vino caldo. Nel silenzio che seguì si udirono i frequenti scricchiolii della vecchia casa, intervallati dai terrificanti sibili del vento contro le finestre. Nel corridoio principale il tic-tac di una pendola tesseva nel nulla la tela del tempo. «Avete l'aria stanca», fece notare Murdoch. «Tutti e due.» Jack annuì. «Il caso ha avuto inizio dieci giorni fa. Dieci giorni senza tregua, c'è di che essere stanchi.» Lo sguardo immerso nel vino fumante, Annabel non aggiunse una parola: la pensava esattamente allo stesso modo. Le emozioni vissute nella settimana appena trascorsa l'avevano invecchiata di dieci anni. «E se lo trovate, il vostro Bob, cosa ne fate?» La domanda di Murdoch fece sorridere Thayer. «Personalmente mi piacerebbe condurlo al supplizio della ruota, ma dubito che l'FBI sia d'accordo. Probabilmente finirà nel braccio della morte, sempre che si arrivi a provare che è lui il colpevole. In realtà, il problema non è questo. È delle vittime che dobbiamo preoccuparci: capire se ce ne sono ancora in vita e, se sì, se si trovano a casa sua. In caso contrario, ci ritroveremmo in un bel casino. Nessuno vuole una vittoria di Pirro. Pensateci un attimo: l'FBI lo cattura, ma non trova nessuno a casa sua. Sappiamo che i federali hanno la mano pesante, ma supponiamo che non lo facciano fuori durante l'arresto. In ogni caso, se Bob non parla non sapremo mai dove si trovano i suoi ultimi 'ostaggi'.» «Ostaggi? Pensate che li usi come ostaggi?» si stupì Murdoch. «No», rispose seccamente Annabel. «Rapisce tutte quelle persone per un motivo ben preciso, che io ignoro, ma il suo scopo non ha nulla a che vedere con il denaro o con una garanzia per la sua sicurezza. Detto questo, Jack ha ragione: se per caso Bob si fa ammanettare e a casa sua non troviamo nessuno, comincerà un conto alla rovescia che porterà dritto dritto alla morte delle sue vittime. Perché alcune, in questo momento, sono ancora vive, ne sono certa.»

Si chinò sul tavolo per prendere una cartelletta, da cui tirò fuori una serie di foto e di fogli dattiloscritti. «Guardi. Confrontando le date dei rapimenti con quelle stampate sulle foto possiamo constatare che spesso trascorrono settimane, se non addirittura mesi, tra gli uni e le altre. Fin dall'inizio c'è stata in permanenza almeno una persona prigioniera, e spesso assai più di una. Spencer Lynch non era che l'ultimo arrivato; invece Bob è sicuramente riuscito a mantenere in vita più di una persona e anche per parecchio tempo. Ma la vera domanda è: dove?» Lo sceriffo Murdoch si strinse nelle spalle. «Questo pomeriggio lei mi ha detto che da Shapiro c'era un nascondiglio segreto nella rimessa, potrebbe essere lì che...» «No, lì dentro faceva troppo freddo, nessuno avrebbe potuto sopravviverci a lungo. Ci abbiamo trovato 'solo' un cadavere, se così posso esprimermi. Quel nascondiglio serviva a Lucas quando si scatenava a torturare, a stuprare e sicuramente anche a uccidere. Se voleva tenere prigioniera una persona per settimane senza ucciderla, aveva bisogno di un altro posto. Il posto dove Bob tiene le sue vittime. Un simile luogo isolato è difficile da trovare e da predisporre, quindi ci sono forti probabilità che entrambi utilizzassero lo stesso.» Murdoch incrociò le braccia sul petto, le labbra corrucciate. Scosse il capo, meditando su tutto quello che aveva sentito. Poi si alzò. «Vado a preparare la cena. Per favore, mettetevi comodi», disse, indicando il cumulo di fascicoli. «Dopo mangiato vi darò una mano e potremo riesaminare tutto quanto fin dal principio.» Mentre i fiocchi di neve turbinavano caotici nel vento, i tre cenarono con un arrosto di manzo e contorno di patate rosolate, che Murdoch aveva passato a fuoco lento nel sugo della carne assieme alle cipolle. Se per sua stessa ammissione non era un poliziotto eccezionale, bisognava però ammettere che come cuoco avrebbe potuto benissimo avere un futuro. Parlarono di tutto un po', anche uscendo dal seminato, e col passare delle ore Annabel sentì sciogliersi il groppo di tensione che le opprimeva il petto. Gli aneddoti sull'emozionante vita di uno sceriffo a Phillipsburg fecero ridere fino alle lacrime i due piedipiatti di New York. Sazi, Annabel e Jack accettarono infine di buon grado il digestivo offerto da Murdoch. Lo sorseggiarono in silenzio, fino a quando lo sguardo della donna intercettò le cartelline con le foto delle sessantasette vittime. Si alzò e ne raccolse un certo numero. Dapprima incerti, poi con maggior de-

terminazione, si scambiarono i rispettivi punti di vista sul modus operandi e sulle biografie delle vittime, tentando una volta di più di trovare dei collegamenti. Stava in quello tutta la difficoltà. Non avevano abbastanza elementi per capire; non disponevano nemmeno del necessario per stabilire un profilo, pensò Annabel, l'immagine di Brolin nella mente. Allineò davanti a sé tutte le foto, cominciando da quelle trovate da Lynch, e accanto a ciascuna ne appoggiò un'altra, fornita dai famigliari, della stessa persona prima del rapimento. Passò in rassegna i nomi e le età, tentando di capire cosa poteva essere passato per la testa di uno come Bob. Di fronte a lei, Thayer e Murdoch esaminavano il rapporto d'autopsia della ragazza ritrovata nel parco di Larchmont. Annabel fece scorrere l'indice sulle foto. Perché tu? E tu? Brolin a ha visto giusto: in principio Bob e la sua banda rapivano rispettando un ordine. Un segmento di età, poi un altro, una razza, o un sesso, poi due sorelle, una madre e un figlio, fino a un'intera famiglia. E, in mezzo, un po' di tutto, pescando a destra e a sinistra, come se non sapessero più cosa scegliere... Perché? Fissò tutti gli sguardi, allineati da un'estremità all'altra del tavolo. Parlatemi... Annabel studiava le facce stravolte e i corrispondenti volti sorridenti. Metteva a confronto la spensieratezza con il dolore, la vivacità con la disperazione. Poteva quasi toccare la soluzione dell'enigma; ce l'aveva lì, davanti al naso. Qualcosa non quadrava, ma non riusciva a capire cosa fosse. La sua bocca si spalancò méntre confrontava le foto una dopo l'altra, con crescente nervosismo. E se...? Come aveva fatto a non vederla prima? Quella sottile differenza tra una foto e l'altra. Allarmato dall'improvvisa agitazione della collega, Jack alzò la testa. «Che c'è, Anna?» Lei prendeva le foto a due a due, le une dopo le altre, sempre più in fretta, e confrontava le date. «Anna?» L'investigatrice lasciò cadere quelle che aveva in mano e abbracciò tutte le foto con un unico sguardo. Chiuse gli occhi e poi li riaprì, con una lentezza quasi onirica. «Jack», mormorò, respirando a fatica. «Credo di aver capito. Avevamo la risposta sotto gli occhi fin dall'inizio. Guarda le foto, Jack... È incredibi-

le...» 59 Le mani intrecciate dietro la schiena e il naso contro l'immensa vetrata, Brett Cahill stava assistendo alla nascita della scrittura. Seduto alle sue spalle, l'agente speciale Keel era intento a sfogliare una rivista scientifica. Dall'altra parte della vetrata, dentro uno dei laboratori dell'FBI di New York, Diane Bardolino ritagliava con molta cura l'ultima pagina del taccuino per appunti di Lucas Shapiro. La lama tracciava un solco preciso; sullo sfondo, il ronzio di apparecchiature che si riscaldavano. Diane non era particolarmente di buon umore. Aveva passato tutta la giornata sognando un bel bagno caldo, e quando finalmente il momento era arrivato, il telefono si era messo a squillare. Aveva odiato quell'istante. Un'emergenza. Lei era l'unica con le competenze necessarie raggiungibile al momento. Aveva mollato su due piedi la morbida spugna dell'accappatoio per infilarsi in un tailleur, e poco dopo in un camice da laboratorio. Era meglio se quel pezzo di carta si decideva a rivelare tutto ciò che sapeva, prima che si arrabbiasse sul serio. Diane prese la carta ancora intonsa e la depose su una lastra di bronzo poroso. Premette un pulsante e una spia passò dal verde al rosso. La Vacuum Box si mise in movimento e la pompa aspirò uniformemente l'aria da sotto il foglio, incollandolo saldamente alla lastra. Cahill continuava ad andare avanti e indietro per la stanza, mentre seguiva i vari procedimenti. «Nervoso?» chiese Neil Keel. Cahill sbuffò. «Più che altro teso. Non sopporto l'idea di stare a guardare quel pezzo di carta senza sapere se ci mostrerà il nome di uno dei peggiori criminali della nazione, oppure se resterà immacolato come fosse nuovo.» La luce dei neon si rifletteva sul cranio calvo dell'agente Keel. «Si goda questi minuti, ispettore Cahill», gli consigliò Keel, con un certo distacco, «questo inimitabile intervallo di incertezza. Può darsi che tra un quarto d'ora ci ritroviamo a mani vuote, come può darsi che tra un quarto d'ora tutta questa storia sia risolta. Le autentiche gioie della vita non si trovano nei sorrisi di felicità, ma in questi intervalli di incertezza, quando la normale quotidianità può cambiare di colpo direzione, ma non sappiamo ancora da che parte.»

Cahill si passò una mano tra i capelli tagliati corti e sospirò. «Cosa sta facendo?» Keel si avvicinò a pochi centimetri dal vetro. A ogni respiro, un velo di vapore si formava davanti ai suoi occhi piccoli e acuti. «Diane sta utilizzando un procedimento elettrostatico chiamato ESDA, Electro-Static Document Analyser. Ha messo in funzione la pompa aspirante, e la pellicola che sta posando sulla carta è un film di poliestere, non facile da maneggiare perché ha uno spessore di soli 5 micron. Ecco fatto. Poi sottoporrà il foglio a una scarica Corona, vale a dire a una tensione pari a 5000 volt. E, per finire, l'aerosol che vede là permette di diffondere una polvere rivelatrice che andrà a depositarsi nei solchi, cioè dove il nostro documento offre minore resistenza alla corrente elettrica. Quei solchi sono le tracce infinitesimali, invisibili a occhio nudo, che la penna di Lucas Shapiro ha lasciato scrivendo sul foglio o sui fogli precedenti.» «Un po' come quando si passa la punta di una matita sulla carta per far apparire i rilievi... O no?» «Certamente, salvo il fatto che il nostro procedimento permette di essere molto più precisi e di evidenziare anche quelle deformazioni che lei non avrebbe mai potuto individuare. È un metodo che serve anche a rilevare certi tipi di impronte digitali. Guardi, Diane ha trovato qualcosa sul film di poliestere. Lo copre con un adesivo trasparente, in modo da fissare il risultato e rendere più agevole l'uso del film. Non sono un esperto in materia, ma è un metodo che abbiamo usato spesso.» Keel batté due colpetti secchi contro il vetro. Diane Bardolino gli fece cenno di aspettare un attimo. Si spostò dall'altro lato del laboratorio e piazzò la pellicola sotto un'enorme lente d'ingrandimento. Annuì, e fece segno ai due uomini che potevano entrare. «Signori, non so se è quello che vi aspettavate, ma questa è l'ultima cosa che è stata scritta nel vostro taccuino, sulla pagina prima di questa.» Porse loro il film, che aveva appoggiato su un supporto bianco. La polvere si era raccolta nei solchi, fino a formare una scritta: «OAK'S BAR, BOX 2 - MONTAGUE - 15 H». Keel afferrò il gomito di Cahill. «È fatta. Montague è la città nei pressi del vagone degli scheletri. Adesso capisce cosa intendevo: il piacere vero era poco fa...» Prese il cellulare. «MacNamer? Metti in moto tutti quanti. Si va a Montague, New Jersey. Sì, là dove abbiamo trovato tutti gli scheletri. Voglio una squadra d'assalto

pronta a intervenire. Partenza tra mezz'ora. Datti da fare.» Si volse verso Cahill, fissandolo dritto negli occhi. «Ce l'abbiamo in pugno, questo pezzo di merda di Bob.» 60 I gradini erano scivolosi. Scendevano senza tregua giù verso le viscere del mondo, portando Brolin sulle loro spalle. Enrique lo seguiva da vicino, la torcia in mano per aprire un varco nello spessore delle tenebre. Ogni passo era un passo nell'incognito. Brolin si appoggiava ai muri per non rischiare di cadere; il chiarore moriva ai suoi piedi e davanti a lui non vedeva altro che l'insondabile abisso. Poi non ci furono più gradini. Un corridoio scavato direttamente nella pietra, tanto basso quanto stretto, partiva, serpeggiante, verso la notte eterna. Brolin si incamminò a testa china, seguito da Enrique che reggeva la torcia il più in alto possibile. La fiamma lambiva il soffitto, lasciandovi una cicatrice di bava nera. Alla prima biforcazione, Joshua udì chiaramente un grido di dolore, da qualche parte davanti a loro. Un uomo in agonia. «Fai come se non avessi sentito», lo avvertì la sua guida. «Coraggio, vai avanti, sempre diritto.» La mano del detective si contrasse sulla fondina vuota. Mae Zappe non aveva voluto che sua nipote fosse messa al corrente di quella discesa nel mondo sotterraneo perché non voleva metterla in pericolo. Di colpo fu assalito dai dubbi. E se quel posto era davvero pericoloso come gli aveva fatto intendere la vecchia sacerdotessa vudù? In ogni caso, ormai era tardi per fare marcia indietro. Dopo un centinaio di metri che spezzarono la schiena a Brolin, Enrique gli fece segno di fermarsi. Passò davanti e scambiò un saluto con un altro membro della gang che stava nascosto nell'ombra e li accompagnò per qualche metro, fino a una porta socchiusa. La aprì e disse qualcosa in spagnolo ai suoi compari. Con la coda dell'occhio Brolin scorse la nuca di un uomo su una sedia di schiena alla porta. Del sangue scendeva sullo schienale. Il guardiano tornò con una pila elettrica, che rimpiazzò la loro torcia. «Si ricomincia», fece, rivolto al detective. Avevano fatto sì e no dieci passi, quando alle loro spalle risuonò una voce furibonda:

«¿Porqué no quieres pagar? ¡Hijo de puta!» Poi lo schiocco di un colpo brutale sulla pelle, e un urlo di dolore. Enrique non fece alcun commento, come se non avesse neppure sentito. Dopo una serie di curve a gomito e di incroci arrivarono finalmente a una porta di metallo. Enrique infilò una chiave nella serratura e spinse il pesante battente. Attraversarono una sala dal soffitto alto piena di condotti, di rotelle e di serbatoi, i loro passi che risuonavano sulla passerella d'acciaio. Poi scesero e salirono una scala dopo l'altra, prima di imboccare un corridoio immerso nei vapori in fuga da una conduttura difettosa. Brolin cercò di tenersi a non più di un metro dalla sua guida, per non perderla di vista nel bel mezzo di quella nube umida. Di nuovo una pesante porta che Enrique aprì con una chiave, e ancora una serie di passaggi stretti e bassi. Stavano attraversando il sottosuolo di Manhattan, e Joshua aveva già perso completamente l'orientamento a forza di cambiare livello e direzione. Per quel che ne sapeva potevano trovarsi sotto Central Park come sotto Ward's Island. L'unico suo punto di riferimento era il pallido cerchio di luce della torcia che Enrique teneva puntata davanti a loro. Dopo una scala formata da pioli infissi nel cemento procedettero a zigzag tra sagome umane coperte da borse di plastica o da fetidi sacchi per la spazzatura. Una di esse grugnì qualcosa al loro passaggio, e Brolin pensò che Enrique fosse sul punto di prenderla a calci. Il piccoletto dall'accento messicano però si trattenne, limitandosi a sputare per terra. Un'altra infilata di gradini e un corridoio costellato di lampadine nude agli angoli del soffitto, come una livida ghirlanda aggrappata a quei muri grigi. Mentre procedevano lungo questo passaggio il suolo prese a tremare, poi un clangore stridente di metallo in movimento li avvolse. In un caotico frastuono un treno della metropolitana passò proprio sopra di loro, facendo vibrare fino quasi a spezzarla la griglia metallica che li separava dai binari. Un po' più tardi Enrique sollevò una lastra di metallo che dava su un vecchio locale tecnico da tempo abbandonato. Una volta di sotto, fece segno a Brolin di voltarsi. «Non puoi vedere il resto del percorso. Ti devo bendare, perciò niente discussioni.» Il detective obbedì, e si ritrovò un fazzoletto annodato intorno alla testa. Adesso era alla completa mercé della gang. «Vedi qualcosa?» «Niente.»

Percepì un improvviso spostamento d'aria proprio davanti alla faccia, e si rese conto con un attimo di ritardo che Enrique gli aveva appena sferrato un pugno fermandosi a pochi centimetri dal suo naso. Un test per accertarsi che davvero non vedesse nulla. «Adesso fai attenzione ai miei ordini, alza i piedi o abbassati quando te lo dico io. Andiamo.» Afferrò il braccio sinistro del detective, e insieme intrapresero l'ultima tappa. Girovagarono a destra, a sinistra, in alto e in basso, per quella che a Brolin parve una mezz'ora. A un certo punto gli venne il dubbio che Enrique gli stesse facendo fare tutto quell'andirivieni sempre nella stessa stanza, con l'intento deliberato di disorientarlo. Non andavano tanto in fretta, ma lui cominciava a sudare, sulla schiena. L'aria si faceva sempre più umida e calda, nonostante l'inverno. Di colpo Enrique si bloccò e disse qualcosa in spagnolo. Gli rispose un'altra voce maschile, poi Brolin udì dei passi che si allontanavano lentamente. Una guardia in giro di pattuglia, il che significava che si stavano avvicinando. Il fazzoletto sparì all'improvviso. «Bienvenido alla Corte dei Miracoli», proclamò Enrique. Lunghe candele bruciavano all'interno di nicchie scavate nei muri. Era un luogo antico; le tracce di scavi e di colpi contro la pietra erano ormai smussate, levigate dai secoli. Il corridoio, per quanto relativamente basso, era abbastanza largo da permettere a cinque uomini di procedere affiancati. Oltre che dal chiarore ambrato delle candele l'ambiente era aureolato da un alone azzurrognolo del quale Brolin non avrebbe saputo spiegare l'origine. Seguendo Enrique, l'investigatore superò una curva e scoprì le prime nicchie mortuarie. Nelle cavità che ospitavano gli scheletri ormai in briciole di una tribù indiana erano state poste decine di candele. Le fiamme tremolavano silenziose tra i crani e le gabbie toraciche, la cera colava a grumi sui femori e le ossa pelviche. Di solito, il duello fra tenebre e luce avviene in modo molto diretto, come una battaglia campale che non conosce pietà né mezze misure. Qui le candele diffondevano la loro luce senza forza, amoreggiando delicatamente con l'oscurità, spartendosi il territorio senza violenza, oscillando senza posa nell'onda del vento che danzava. Brolin si fece largo nella polvere che ricopriva il suolo, fino a passare sotto l'arco a ogiva che sbucava al centro della necropoli nascosta. Il cerchio perfetto dell'ampia sala terminava con altre alcove funerarie illuminate da un velo ardente color arancio. In netto contrasto con il sito, sedie e tavolini da campeggio pieghevoli ospitavano altri due uomini della gang di

Enrique. Entrambi avevano fazzoletti neri annodati sulla fronte e l'aria di crudeli aguzzini, più che di guide turistiche. Una Desert Eagle .357 Magnum e un fucile-mitragliatore Kalashnikov AK-47 riposavano sul tavolo a portata di mano, tra cassette di metallo, un libro contabile e varie riviste. Enrique indicò Brolin con il dito e parlò ai suoi, che annuirono senza staccare gli occhi dal nuovo arrivato. Poi l'ispanico gli mostrò uno squarcio aperto nel muro in fondo. «Si entra per di là. Chiedi quello che devi chiedere, compri quello che sei venuto a comprare e torni fuori per la stessa strada, e a quel punto io ti riporto su. Ehi, ricordati che i tipi che stanno là dentro ci vengono perché noi gli garantiamo un posto sicuro e gli portiamo i clienti, perciò di chi sono o di cosa fanno non te ne frega niente, chiaro? Se vedi cose che non ti piacciono, vai oltre e non pianti casini. È così che funziona, qui. Noi prendiamo il quindici per cento su tutte le transazioni, il resto non ha importanza. Perciò occupati del tuo business e tieni il becco chiuso, chiaro?» «Chiarissimo.» «Per quello che riguarda marijuana, coca, crack ed ero devi trattare direttamente con noi.» Brolin fissò l'ingresso del mercato del vizio. «Credo che me la caverò, grazie.» Si avviò, diretto alla soglia del passaggio. Ciò che si estendeva dall'altra parte era ancora più oscuro. Abbassò la testa e fece il primo passo. Altri tavoli, lampade antivento alimentate a olio come unica fonte d'illuminazione, e facce. Mal rasati, con i denti ingialliti e gli occhi sadici spiritati, ben pettinati o con i capelli per aria, vestiti come barboni o più curati, gli individui che tenevano i diversi «stand» erano variegati tanto quanto la mercanzia che proponevano. Il primo «esponeva» su un pezzo di stoffa decine di armi da taglio accanto a una ventina di armi da fuoco, tra cui due fucili d'assalto. Per un istante l'investigatore fu tentato di acquistare una pistola, visto che doveva a ogni costo liberarsi della sua Glock. Ma le armi vendute laggiù potevano benissimo essere state usate per commettere reati, quindi non erano certo la soluzione migliore. Qualche passo più avanti, seduti dietro un tavolo, due uomini con i capelli rasati a zero proponevano daghe naziste, probabilmente autentiche. Al passaggio di Brolin il più giovane, che secondo il detective doveva avere sì e no diciotto anni, richiamò la sua attenzione in maniera discreta.

«Sono d'epoca, autentiche. Guarda, c'è persino il marchio delle SS impresso sull'impugnatura.» Gli rivolse un sorriso complice, prima di aggiungere con fierezza: «Sono state usate, puoi starne certo. Questi piccoli gioielli hanno fatto scorrere il sangue dei topi, se capisci a chi mi riferisco». Brolin strinse i denti e represse la voglia di rispondergli per le rime. Accanto alle daghe, un autentico elmetto della Wehrmacht e qualche ninnolo davanti a una pila di riviste neonaziste. Allontanandosi, Brolin notò le bandiere (con le svastiche dalle braccia uncinate verso destra) appese dietro i due nazistelli. La merce che veniva dopo era ammucchiata su cinque tavoli. Tra gadget sadomaso e strumenti di tortura sessuali, una quantità di videocassette prive di etichetta. Seguendo lo sguardo di Brolin, il venditore si avvicinò. «È proprio quello che stai pensando. Tutta roba vera... e, qua dentro, arrivano fino in fondo.» Joshua alzò lentamente lo sguardo sull'individuo scheletrico che gli stava parlando, uno spilungone con i capelli rossi e i denti sporgenti. «Sai, amico, dicono che gli snuff non esistono, che è tutta un'invenzione. Bene, qui hai la prova che invece è tutto assolutamente vero. Non hai che da scegliere. Ne ho parecchi che vengono dall'Asia, dalla Russia, dall'Africa, e un paio di casa nostra, con della bella carne americana che se lo fa mettere per bene prima di farsi spaccare il muso. Occhio, questa è davvero hard: i tipi la violentano e poi le tagliano la gola. Roba forte. Basta vedere gli occhi della ragazza e sentire come urla per capire che non è un gioco.» Questa volta Brolin non riuscì a trattenersi. «Razza di maniaco...» Si conficcò le unghie nel palmo delle mani per non andare oltre. «Ma sentilo! Ma ti sei guardato? Che cosa ci fai qui, eh? Che cosa credi? Se dei tizi sono pronti a far fuori una figa davanti a una videocamera, è perché ci sono dei clienti, e neanche pochi! Per finanziare una roba così ce ne vuole di gente che cacci il grano!» Brolin proseguì, ma la voce dello spilungone rosso continuò a inseguirlo:; «E il porno, allora? Viviamo nel Paese dove tutti sputano sui film porno, dove tutti lo considerano il peggiore dei mali, il vizio dei seguaci di Satana, ma produciamo il maggior numero di film porno del mondo! Questa è l'America, uomo, questo è il puritanesimo! Moralisti in giacca e cravatta che ti dicono di non guardare questa roba, e intanto si fanno fare un pom-

pino! E il porno non è altro che l'anticamera dello snuff movie, amico... Il prossimo vizio di quelli che hanno già provato tutto...» Alla svolta successiva, Brolin rischiò di scontrarsi con un uomo panciuto, esattamente il tipo di individuo da cui comprare una macchina usata. Del genere discreto, il tipo qualunque, il vicino di casa anonimo. Il detective si scusò e l'altro gli fece un sorrisone, mostrandogli una scatola di cartone. «Senti, ti può interessare? Sto organizzando un circuito su Internet, se vuoi...» In mano gli apparvero due polaroid. Erano nude tutte e due; una si teneva una mano sul sesso con una smorfia, l'altra sembrava più a suo agio, come se fosse abituata. Una mano maschile si protendeva ad afferrare tra due dita un piccolo seno. Le due ragazzine non dovevano avere più di dieci anni. Altre foto mostravano ancora bambini, ritratti in atti sessuali impensabili. Brolin pestò con tutte le sue forze il piede del pedofilo e proseguì per la sua strada, seguito da una bordata di insulti. Vagò tra bacinelle di plastica piene di pillole multicolori e carte di credito di ogni tipo, e scorse persino tre involucri che portavano la dicitura SEMTEX. Esplosivi. Si fermò davanti al banchetto di uno strano personaggio. Senza età, segnato da una ragnatela di rughe, insaccato in un gilè scuro con tanto di orologio da taschino, osservava Brolin da dietro gli occhiali rettangolari inalberando un sorriso che ispirava fiducia. Tuttavia, l'attenzione dell'investigatore non era stata attratta dall'uomo, ma da ciò che proponeva. Carte d'identità, passaporti, patenti, permessi per il porto d'armi, tutti i tipi di documenti immaginabili erano ammucchiati lì, ancora vergini, pronti per essere usati. Dietro una batteria di timbri il venditore aveva anche installato un telo bianco, e c'era una macchina fotografica per le istantanee. «Abbiamo bisogno di diventare qualcun altro?» chiese l'uomo, con una voce acuta e sibilante. Brolin scartabellò con indifferenza tra i documenti in esposizione. «Non proprio. Cerco informazioni.» «Tratto anche quelle. Tutto dipende da che tipo di informazioni.» «Sto cercando di entrare in contatto con qualcuno. Qualcuno che di sicuro ha fatto ricorso alle sue capacità.» «Se mi dà un nome, potrei dirle un prezzo.» «Malicia Bents.»

Poiché non esisteva alcuna Malicia Bents sul territorio nazionale, o si trattava di un falso nome oppure di un'immigrata clandestina. In entrambi i casi, aveva avuto bisogno di documenti falsi per noleggiare una casella postale a Phillipsburg. Anche se non ci era andata di persona e aveva fatto tutto per posta, doveva aver fornito un documento di identità. E il foglio che Brolin aveva trovato nel magazzino di Red Hook era chiaro:... Malicia Bents alla Corte dei Miracoli... Lei era stata lì. Il detective sentì il cuore palpitare quando l'anziano uomo rispose. «Conosco questo nome. Cento dollari.» Joshua non cercò di mercanteggiare. Gli porse subito il denaro, ma senza mollare la presa. Il venditore annuì, divertito. Lo osservò da sopra la montatura degli occhiali. «E va bene. Non ho mai visto questa persona, ma le ho preparato qualche documento falso.» «Su richiesta di chi?» «Di Bob.» Il battito cardiaco di Brolin si quadruplicò. «Chi è questo Bob?» Il falsario posò lo sguardo stanco sulle banconote che Joshua teneva ancora in mano. «Per cosa mi paga? Per Malicia o per Bob?» Brolin aggiunse altri cento dollari. «Così va bene. Bob è uno dei venditori che vengono qui.» Assieme all'adrenalina, l'investigatore sentì il sudore diffondersi ovunque sul suo corpo. Anche le mani erano umide. «È qui, ora?» chiese con impazienza. «No, oggi no. In realtà non viene molto spesso.» «Perché viene qui, allora? Per vendere?» L'altro rispose con un cenno affermativo. Colto da un orribile dubbio, Brolin si chinò sul vecchio. «E mi dica, che cosa viene a vendere Bob, qui?» Il falsario prese di colpo un'aria imbarazzata. Si passò la lingua sulle labbra. «A ognuno il suo lavoro. Come ha notato, qui si trova di tutto. E ci sono acquirenti per ogni cosa. Per quanto folle possa sembrare, Bob ne ha un certo numero, di clienti fedeli.» «Che cosa vende?» insistette Brolin.

Voleva sapere. Di fronte a lui, l'uomo deglutì a fatica con una smorfia. «Vende carne umana.» 61 Annabel non credeva ai propri occhi. «Che c'è? Cosa vuoi dire?» chiese spazientito Thayer. «Cosa devono farci capire queste foto?» La detective scelse due foto della stessa vittima: una con una data precedente il rapimento, l'altra successiva. «Confrontale. Che cosa vedi?» Jack si accarezzò il mento, riflettendo. «Il terrore... Lei che ne pensa, sceriffo?» Eric Murdoch si fece più vicino. «Il tizio, in questa foto, è molto pallido, mentre prima era piuttosto abbronzato», osservò. «A voi non pare?» «Non è solo questo», disse Annabel. «Se vi dico che questa foto è stata scattata circa tre mesi dopo il rapimento, non vedete nulla che vi colpisce?» L'espressione di allegria che l'uomo esibiva sulla prima foto era stata sostituita dalla quintessenza della paura; ma, a parte questo, era simile a se stesso punto per punto. I capelli più lunghi, spettinati, la faccia non rasata, ma il vero cambiamento era negli occhi, e da nessun'altra parte. «La sua morfologia!» gridò Annabel. «Il viso ha la stessa forma di prima del rapimento, non ha perso peso. E guardate gli altri: è sempre la stessa cosa. Sono tutti in buone condizioni come prima, se non di più. Mentre sono sotto sequestro li nutrono abbondantemente. Jack, pensando ai tatuaggi che abbiamo trovato su tutte queste persone, cosa ti viene in mente?» «Un marchio di proprietà?» «Esatto! Come se fossero animali. Gli adepti di Caliban hanno messo insieme una mandria, Jack, né più né meno, una mandria che marchiano con il loro sigillo!» Si rese conto dell'enormità di quanto stava dicendo nel momento stesso in cui le parole le uscivano di bocca. Le foto di vittime ben nutrite, gli scheletri ripuliti dalle carni... In una frazione di secondo tutto andò a posto. La correlazione tra la scoperta che aveva appena fatto e il movente di Bob. «Li ingrassano e poi li divorano!»

«Ma è assurdo!» replicò lo sceriffo Murdoch. Scosse le spalle, come se fosse scioccato. «Diamine, rifletta un attimo, siamo nel ventunesimo secolo: i rituali degli antropofagi sono scomparsi!» «Al contrario, Annabel ha ragione», intervenne Thayer. «Questo spiega meglio anche il nome di Caliban. Non ha a che fare tanto con il dramma di Shakespeare, è piuttosto un macabro gioco di parole con canibal, cannibale.» Era impietrito. L'anagramma era talmente evidente che ci aveva pensato fin dai primi passi dell'indagine, ma non aveva mai voluto prenderlo davvero in considerazione. «Cazzo», sbottò Annabel. «Ma ti rendi conto? È una setta di cannibali! Bob comanda una setta di mangiatori di carne umana!» L'investigatrice pensò subito all'intera famiglia vista nella foto che Bob aveva lasciato spillata a un seno. Poi a Rachel Faulet. Non era scomparsa da molto, c'era la possibilità che fosse ancora in vita. In attesa di essere divorata. Prese il cellulare. Non c'era alcun segnale di campo. «Di bene in meglio. Sceriffo, permette che usi il suo telefono?» «Prego.» Fece il numero del cellulare di Brett Cahill. L'ispettore rispose al terzo squillo. «Brett, mi stia a sentire, credo di sapere quello che fa Bob, quello che fa alle sue vittime. Le mangia. Parli con l'agente dell'FBI, loro...» «Abbiamo una pista importante, detective O'Donnel. A dirla tutta, siamo in viaggio per Montague. Se la fortuna ci assiste avremo identificato Bob, o qualunque sia il suo vero nome, prima dell'alba. Con noi c'è una squadra d'assalto. Penso che l'incubo sia finito.» Di fronte ad Annabel, Thayer la guardava con un'espressione preoccupata. «Che sta dicendo?» Lei premette il tasto del viva-voce e la voce di Cahill riempì il salone. «Un gruppo di tiratori scelti è pronto a intervenire appena saremo certi dell'identificazione.» «Cristo, non dimenticate che forse Bob tiene prigioniere le sue vittime in un posto diverso da casa sua!» gridò Thayer. «Abbatterlo equivale a firmare la loro condanna a morte!» «Bob è considerato estremamente pericoloso e l'agente speciale Keel,

che guida le operazioni, ha fatto del suo arresto una priorità. Ma non intende in alcun modo rischiare la vita dei suoi uomini.» Dopo un pesante silenzio, Cahill aggiunse: «In ogni caso, Keel non pensa che ci siano ancora dei sopravvissuti. Ha già messo in conto di trovare solo morti». 62 Due van e un furgone del reparto d'assalto dell'FBI fendevano la notte lungo le strade del New Jersey. Lacerarono il velo bianco che ricopriva a poco a poco l'asfalto, inoltrandosi tra le Skylands, nelle propaggini minacciose dei monti coperti di conifere. Quando i federali si precipitarono a Montague era quasi mezzanotte. Trovarono subito l'Oak's Bar, e arrivarono nel momento stesso in cui calava la saracinesca metallica e i neon venivano messi a dormire. Neil Keel bussò alla porta, tenendo bene in vista il suo distintivo. Con lui c'erano due agenti, oltre a Cahill. Il proprietario, una specie di orso che rispondeva al nome di Geoff Hewitt, li fece entrare, un po' frastornato dal ritrovarsi in casa l'FBI una domenica sera. «Signor Hewitt, abbiamo bisogno del suo aiuto... e della sua memoria», disse Keel, dopo aver fatto le presentazioni. «Che cosa posso... Cosa volete, esattamente?» «Domenica scorsa, alle quindici, due persone si sono date appuntamento qui, nel box numero 2. Questo le dice qualcosa?» «I box sono laggiù in fondo; in pratica sono solo dei tavoli, ma, dato che sono isolati, li chiamiamo box.» Indicò una serie di sei angoli pranzo separati da tramezzi in legno, proprio in fondo alla sala principale. «Ha modo di sapere chi occupava il box numero 2 la settimana scorsa?» insistette l'agente Keel. «Oh, credo proprio di sì, ma ora controlliamo.» Geoff Hewitt prese un'agenda da sotto il bancone del bar e la sfogliò. «Ecco qua. Sabato scorso Bob mi ha chiamato per prenotare il box per l'indomani alle quindici. Non so per fare cosa, non mi occupo degli affari degli altri. Ho un vago ricordo di averlo visto proprio la domenica di cui parliamo in compagnia di un altro tizio, però non mi ricordo quest'altro che aspetto aveva.» «E questo Bob, lo conosce? Sa come si chiama?» Cahill notò che KeeL dietro la facciata di assoluta calma, stava perdendo

la pazienza. «Sì, viene qui di tanto in tanto: si chiama Robert Fairziak. Abita un po' più in giù, sulla strada per Millville.» Cahill scosse il capo, se per il dispetto o lo stupore non lo sapeva nemmeno lui. E come se non bastasse, quel rottinculo usa anche il suo vero nome! Keel mostrò a Hewitt una foto di Lucas Shapiro presa dalla sua patente. «Riconosce quest'uomo?» «Ma sì, è lui, non c'è dubbio. È il tizio che è venuto qui con Bob domenica scorsa.» Un minuto dopo le portiere sbattevano mentre gli uomini della squadra d'assalto si preparavano, sistemandosi i visori notturni sulla fronte. 63 In fondo al corridoio scavato nella pietra umida il falsario lo guardava a braccia conserte. Nell'oscurità circostante la lampada antivento posta davanti al vecchio allungava le ombre del volto, conferendo al suo vago sorriso un che di subdolo. Brolin aveva accusato il colpo. Ci aveva pensato abbastanza spesso, respingendo ogni volta quella spiegazione come troppo folle. Il cannibalismo. Bob vendeva la carne delle sue vittime a gente dalla curiosità malata, in cerca di sensazioni nuove. Menti perverse o disturbate. Di colpo, le parole sul pezzo di carta che aveva trovato nel magazzino assunsero un senso macabro. «... con Lucas... distribuzione e Bob o Malicia Bents alla Corte dei Miracoli... la cerchia... intenditori.» Vide gli spazi bianchi riempirsi da soli. Le macchie d'inchiostro si schiarirono per riacquistare una struttura più nitida e precisa, per formare delle parole. «con Lucas alla grande distribuzione e Bob o Malicia Bents alla Corte dei Miracoli per la cerchia ristretta degli intenditori.» Lucas lavorava in un mattatoio, comprava carni che lavorava nel suo capannone per confezionarle e poi rivenderle ai negozi della grande distribuzione. Era possibile che tra i suoi clienti ci fossero appassionati di carne umana?

Brolin ricacciò tutto in un angolo della testa. «Conosce il vero nome di Bob, o il suo aspetto?» «Mio caro amico, questo non è il genere di posto dove ci si scambia il numero di telefono, e io non sono molto fisionomista. Detto questo, mi pare che sia abbastanza alto, un tipo scattante, con i capelli castani. Un signor nessuno, insomma. Posso sapere il perché di tutte queste domande?» L'investigatore gli restituì il sorriso, cercando di avere un'aria rassicurante. «Una questione personale. Ma può stare certo che proteggo le mie fonti, tanto più se si rivelano fruttuose.» «Ha l'aria di essere una cosa maledettamente importante per lei. Senta, non so granché di questo Bob, ma può dare un'occhiata alla sua scrittura, se le interessa.» Senza neppure rispondergli, Brolin aggiunse quaranta dollari alle altre banconote. Soddisfatto, il falsario si chinò sotto il suo tavolo e frugò in una cassa di plastica, tirandone fuori una cartolina postale. «Eccola. Me l'ha lasciata lui, una volta. Tenga.» Brolin la prese con la punta delle dita. Una vecchia cartolina, un'immagine in bianco e nero che riproduceva una città all'inizio del secolo scorso, con un carro su un ponte che valicava un fiume. Sul retro, qualche parola, la stessa grafia della cartolina trovata da Spencer Lynch: «Ciao, Ed, devo andarmene prima del previsto. Se uno dei miei clienti si fa vivo digli che ci sarò sicuramente di nuovo domenica prossima. Grazie, Bob». Ed il falsario indicò la cartolina. «Gli piace scrivere sulle cartoline come questa; gliel'ho visto fare spesso. Penso sia una specie di biglietto da visita. Ne ha sempre con sé una piccola scorta.» «Quanto per la cartolina?» Ed si strinse nelle spalle, incerto. Brolin contò tre biglietti da venti, e il vecchio parve contento. «E di questa Malicia Bents, Bob gliene ha parlato spesso?» chiese il detective. Basandosi su quello che sapevano della setta di Caliban, cioè che si trattava unicamente di tre individui, Spencer, Lucas e Bob, Brolin aveva dapprima supposto che Malicia fosse solo un'aiutante, una succube come lo era Janine Shapiro per suo fratello. Ma ora, l'istinto gli suggeriva di mostrarsi più curioso. Sospettava che occupasse una posizione più importante,

che fosse un'intermediaria. Tra chi e per cosa? «No, non mi ha detto molto. Un giorno è venuto a chiedermi di preparare qualche documento falso con questo nome.» I suoi occhi brillavano di un riflesso allegro, come se non avesse detto tutto ciò che sapeva e ridesse di quello che si era tenuto per sé. «E questa donna che aspetto ha? Deve pur aver visto una sua foto, no?» Stavolta Ed si fece una risata a trentadue denti. Era chiaro che trovava la situazione divertente. Si chinò verso Brolin con l'aria di fargli una confidenza. «Il fatto è che questa donna, questa Malicia Bents... ecco, in realtà non è una donna.» «Cosa?» «Malicia Bents è un uomo. L'ho visto sulle foto che Bob mi ha portato per i documenti falsi. Era un uomo truccato da donna, ci metterei la mano sul fuoco.» Il detective non ci si raccapezzava. Perché nascondersi dietro un volto di donna? Per non essere riconosciuto? Per confondere le tracce? «E c'è dell'altro», aggiunse il falsario, entusiasta. Quando capì di avere tutta l'attenzione di Brolin, parlò piano, quasi sussurrando. «L'attività principale di Bob, qui, era vendere la carne, ma di tanto in tanto poteva fornire anche un altro genere di servizio. Pagando quello che c'era da pagare poteva offrire qualcosa di completamente diverso. E una notte in cui stavamo chiacchierando, Bob mi ha confessato che non era lui che si occupava di fornire quest'altro servizio: era Malicia. E la cosa lo faceva ridere da sbellicarsi, mi creda. Non riusciva a trattenersi quando mi ha sussurrato che Malicia...» Con un gesto fulmineo, Ed il falsario tirò a sé la testa di Brolin e gli bisbigliò l'informazione nell'orecchio. 64 I tre veicoli dei federali lasciarono la strada sollevando schizzi di neve. Sobbalzarono da tutte le parti sul sentiero che si snodava tra le conifere, avvicinandosi alla casa di Robert Fairziak, detto «Bob». A meno di cinquecento metri di distanza, prima dell'ultima curva, si fermarono, e tutti gli uomini scesero rapidamente. Neil Keel passò a Brett Cahill un giubbotto antiproiettile Ultima Ballistic Threat Level II di nona generazione, il me-

glio in materia, e gli ordinò di restarsene dietro, qualunque cosa accadesse. Penetrando nel gelo notturno dei boschi, il serpente letale della squadra d'assalto si snodò fino a circondare la casa sui lati nord, est e ovest. Era un edificio dall'apparenza modesta, sul genere detto chalet, costruito sulla sommità di una piccola altura rivolta a sud. Era completamente isolato, e nel vederlo Cahill non poté fare a meno di pensare alle grida. In quel luogo si poteva far urlare una persona senza che nessuno la sentisse. Era il posto ideale per darsi ai piaceri più perversi. L'agente speciale Keel portò alle labbra il walkie-talkie. «Lowels, Martin, siete in posizione?» «Affermativo.» «Affermativo. Ho una visuale su una finestra da cui proviene della luce. Credo sia il soggiorno.» «Che nessuno si muova», ordinò Keel. «Prima di tutto voglio un quadro completo della situazione. Qualcuno degli altri vede dei movimenti nella casa?» Una serie di risposte negative crepitarono nel ricevitore. All'apparenza Robert Fairziak era nel soggiorno, unica fonte di luce. Voltandosi verso Cahill, Keel estrasse la sua automatica da sotto la giacca. «E se Bob non fosse solo?» chiese Brett. «Questa sera è da solo», rispose il federale. «C'è un'unica macchina davanti alla porta.» «E nella rimessa? La macchina davanti alla casa forse è di qualche ospite, e magari la sua è ben al caldo in quella specie di granaio...» «Mi stupirebbe, ha l'aria di essere sul punto di crollare. A ogni modo, appena individuiamo un varco, entriamo.» Cahill sospirò. Keel gli scoccò un'occhiata irritata. Non gli piaceva l'atteggiamento del poliziotto. La voce leggermente gracchiante di Martins risuonò nel walkietalkie. «C'è movimento nel soggiorno, ho visto un'ombra passare davanti alla finestra!» «Una sola persona, secondo te?» «Impossibile dirlo. Penso di sì.» Keel guardò ancora Cahill. Di nuovo la voce di Martins. «Merda! La luce si è spenta. Ripeto, l'unica luce accesa in casa si è spen-

ta.» «Passiamo in visione notturna», ordinò Keel. «Poi andiamo dentro.» 65 Tutta la schiera di volti irrigiditi dal terrore era allineata sul tavolo del salone. Thayer li stava esaminando a uno a uno, confuso. Lo sceriffo Murdoch, si tormentava il maglione, del tutto impreparato a gestire una situazione di stress come quella. Da parte sua, Annabel cercava di mostrarsi calma, almeno all'apparenza. Dentro di sé era furiosa per non poter essere presente all'arresto di Bob. Ci aveva messo tutta se stessa, in quell'indagine; si era spinta al punto di farsi coinvolgere assieme a Joshua Brolin nella morte di Lucas Shapiro. E ora avrebbe assistito al gran finale come un qualunque cittadino, leggendo il resoconto dei fatti nei giornali della sera del giorno dopo. Il suono stridulo del suo cercapersone li fece sussultare tutti quanti. Sul display comparve il numero del cellulare di Brolin. Annabel si alzò. L'investigatore privato doveva aver tentato di raggiungerla sul suo numero, senza risultato. Senza chiedere di nuovo il permesso a Eric Murdoch, la poliziotta prese il telefono dello sceriffo e compose il numero di Brolin. «Joshua? Sono Annabel. Che succede?» «Mi stia bene a sentire. Credo che ci siamo fatti fregare.» La voce di lui era più nervosa del solito, e sembrava quasi senza fiato. «Dov'è ora?» «Sarebbe troppo lungo da spiegare. Diciamo che sono appena ritornato a galla... Annabel, la setta di Caliban: non sono più sicuro che siano solamente in tre.» «Finora sembra l'ipotesi più probabile. Anche Janine Shapiro lo ha confermato all'FBI, me lo ha detto Cahill.» «Si ricorda che le ho parlato di una certa Malicia Bents, vero? Bene, credo che abbia un ruolo più importante di quanto credessi. Rimane nell'ombra, come un fantasma. In realtà, è uno specchietto per le allodole.» «Che intende dire?» Dietro di lei Thayer e Murdoch, silenziosi, la interrogavano con lo sguardo. «Malicia Bents non è una donna. È un uomo, che si nasconde dietro questa falsa identità per restare invisibile, in modo che nessuno sospetti

della sua esistenza. Annabel, lei dov'è?» «A casa dello sceriffo Murdoch, a Phillipsburg, assieme a Jack Thayer. Che cosa c'è? Mi dica.» All'altro capo del filo, Brolin esitò. «Il fatto è che ho parlato con un uomo che ha visto Bob», finì per ammettere. «Sono stato alla Corte dei Miracoli.» L'investigatore le spiegò tutto, pur senza entrare nei particolari. Le raccontò della Corte dei Miracoli, di Ed il falsario che aveva «aiutato» Bob, e soprattutto della merce che Bob vendeva in quel luogo maledetto. «E non è tutto. Capita di tanto in tanto che qualcuno si rivolga a Bob per qualcosa di diverso dalla carne umana. A volte gli chiedono informazioni ben precise, informazioni riservate, del genere che solo un poliziotto può ottenere. I precedenti di qualcuno, un'operazione in corso, cose di questo tipo. Niente di straordinario, certo. Ma il punto è: si rende conto di quello che significa? Ed, il falsario di cui le ho detto, chiacchierava spesso con Bob, e mi ha raccontato che una volta, in vena di confidenze, Bob gli ha rivelato che il tizio che si nasconde dietro il nome di Malicia Bents è un piedipiatti. Annabel, in questa confraternita di assassini c'è dentro un poliziotto, magari qualcuno che abbiamo incrociato chissà quante volte!» In piedi accanto al telefono, Annabel era sbalordita. «Ora devo filarmela, ho ancora qualcosa da controllare», aggiunse Brolin. «Se ho delle novità, la chiamo.» Con la testa in subbuglio, tutta concentrata su Malicia Bents, ad Annabel venne in mente con un attimo di ritardo di informare Brolin dell'imminente arresto di Bob. Ma lui aveva già chiuso la comunicazione. «Allora?» chiese preoccupato Thayer. «Era Brolin», rispose Annabel, esitante. «E chi è?» La voce di Murdoch, che si sentiva tagliato fuori. «Un detective privato che ci sta dando una mano», spiegò Thayer. Il volto dello sceriffo si illuminò. «Ah, ho capito, è quello che è venuto a farmi delle domande sul rapimento della giovane Rachel Faulet.» Annabel annuì, e tornò a concentrarsi su Thayer. «Be', crede che la setta di Caliban non sia limitata a tre persone. Secondo lui, ce n'è un quarto.» Si morse l'interno della guancia, prima di proseguire. «E pensa che sia un poliziotto.»

«Un poliziotto?» ripeté Thayer, sul volto un'espressione di stupore. «Ma ha delle prove, un nome, qualcosa?» «Non ancora.» Murdoch li guardava come se pensasse che gli stesse dando di volta il cervello. Scosse il capo, dicendosi che era impossibile. Si alzò per riporre le tazze vuote del caffè su un vassoio, e sparì in cucina senza smettere di scuotere la testa. Thayer cominciò a fare su e giù per la stanza. «So bene che i poliziotti di questo Paese non sono tutti degli angioletti, ma non ti pare che in questo caso sia un po' troppo? Insomma, cos'è che glielo fa dire?» «Non lo so. Però mi fido di lui, Jack. È andato a controllare qualcosa, e ha promesso di richiamarmi se trova ciò che cerca.» La detective andò ad appoggiarsi alla vetrata che dava sul balcone. Fuori, la neve scendeva sui boschi, una miriade di piccole ombre grigie su sfondo nero. «Un poliziotto», mormorò. Che ruolo aveva nell'organizzazione della banda? Chi era? Cosa faceva? Tutto sembra dimostrare che Bob è il capo... È lui che firma i delitti, è lui l'uomo a cui fare riferimento. Il freddo si stava propagando alle mani di Annabel, appoggiate alla finestra. La condensa provocata dal suo fiato velava appena il paesaggio. Arretrò di qualche centimetro. Poteva vedere tutta la stanza nel riflesso traslucido del vetro. C'era qualcosa di diverso. Qualcosa che aveva cambiato di posto nella scena. Jack non c'era più. Se ne rese conto di colpo, assieme al fatto che intorno a lei era calato il silenzio. Non un suono in tutta la casa, salvo il tic-tac ipnotico della pendola nel corridoio. In un batter d'occhio le ultime luci ancora accese, quelle del salone, si spensero. Immergendo Annabel nel mondo dei ciechi. I muri scricchiolarono appena. 66

La risalita era avvenuta con lo stesso metodo della discesa. Enrique aveva bendato gli occhi di Brolin per una parte del tragitto, fino a riportarlo al night-club OE-DEEP. Poi l'investigatore era uscito all'aria aperta per telefonare ad Annabel. L'eccitazione e le emozioni suscitate in lui dalla Corte dei Miracoli lo avevano spinto a camminare a grandi falcate. Era passato sotto le linee ferroviarie che sovrastavano Lexington, per poi risalire verso Central Park North, fino al Morningside Park. I campanili di St John the Divine dominavano gli alberi del parco dall'alto della collina. La notte conferiva alla loro elaborata architettura un'aria ancora più lugubre. Brolin percorse la salita, alitando nuvole di fiato gelato, e svoltò in Amsterdam Avenue. La Columbia University e le sue orde di studenti avevano stimolato la nascita di numerosi locali aperti fino a tardi. Rattrappito nella sua giacca di pelle, il detective affrontava il freddo e la neve e intanto rifletteva su quello che aveva appena scoperto. Avevano continuato a pensare alla setta di Caliban come a un gruppo di tre persone. Le foto trovate da Spencer Lynch puntavano in questa direzione, con tre diversi tipi di supporti fotografici, proprio come gli appunti di Lucas, che si riferivano a tre uomini, Spencer, Bob e lui stesso. La presenza di Janine Shapiro era un dettaglio a sé. Lei non faceva realmente parte del gruppo, era solo uno strumento in balia del fratello, una pedina nelle sue mani. E lo stesso valeva per Malicia Bents, aveva supposto Brolin. Lei era solo una gregaria al soldo di Bob. Ora la «lei» era diventata un «lui». E per di più un poliziotto. Chi è? E Bob come ci entra? Già, cosa si poteva dire del buon Bob? Si presentava come il guru della fratellanza. Anche se non aveva mai avvicinato Spencer, seguiva la sua iniziazione attraverso le lettere recapitate da Lucas Shapiro. E sempre lui si era rivolto ad Annabel, senza preoccuparsi di camuffare la propria scrittura. Senza preoccuparsi di camuffare la propria scrittura. Non era un dettaglio in contraddizione con tutto il resto? Possibile che un individuo talmente prudente, che non correva mai rischi inutili, che non si lasciava mai alle spalle alcun indizio, alcuna prova che lo ricollegasse ai rapimenti, trascurasse un dettaglio così compromettente come un campione della propria grafia? Afferrati dal vento, i capelli di Brolin gli sferzarono il volto per un attimo, per poi sparire di nuovo dietro la testa.

Rifletti! Perché uno dovrebbe essere così prudente, tanto da non lasciare mai impronte, nemmeno sulle lettere destinate a Spencer, e allo stesso tempo non preoccuparsi di mostrare la sua grafia? Che persona è? Il suo bisogno di collezionare uomini e donne in totale impunità testimonia una grande sicurezza di sé, una volontà forte. È il desiderio che lo spinge ad accumulare, e non ha alcuna paura della polizia, anzi si diverte a prendersene gioco. Non esita a servirsi di un essere umano per trasmettere i suoi messaggi, che è un modo di dimostrare la sua onnipotenza, la sua arroganza. È Bob che controlla gli altri due, Lucas e Spencer, è lui che domina, pieno di orgoglio e assetato di potere com'è. E, malgrado tutta questa prudenza, non fa niente per mascherare la sua grafia. Gli basterebbe usare un qualunque computer, invece usa messaggi scritti sulla carta che lascia un po' ovunque, anche quando si rivolge alla polizia. Annabel ha riconosciuto chiaramente la sua scrittura, sui post-it messi sul pacchetto e sulla videocassetta che lui le ha lasciato in casa. Bob è narcisista al punto da sentirsi al di sopra di tutto questo? Al punto da non aver paura che si possa risalire fino a lui per questa strada? No, ha dimostrato di essere molto astuto nel modo di agire, calcola attentamente quello che fa e, anche se è vanitoso all'eccesso, si controlla. Quindi la scrittura non è un errore. Che cosa rappresenta la scrittura? Una firma? Una manifestazione tangibile dell'identità? Con i mezzi di cui dispongono i laboratori scientifici della polizia e i periti grafologi, è impossibile contraffare una grafia con la garanzia del risultato. E Bob sembrava troppo intelligente e preparato per non saperlo. Il massimo della prudenza a tutti i livelli, e poi l'ingenuità di scrivere tutto a mano, lasciandosi dietro una traccia perfettamente identificabile. Il paradosso stava tutto lì. A meno che... Si fermò di botto in mezzo al marciapiede. Le vetrine dei negozi coloravano la neve di riflessi iridescenti. A meno che non l'abbia fatto apposta. Brolin cercò di immaginarsi il volto anonimo del misterioso Bob, il quale, le armi dei delitti in pugno, si era lasciato dietro indizi sufficienti per ricollegarlo a tutta la storia. E di colpo, alle spalle di Bob, ecco apparire un'ombra, intenta a tirare i fili del burattino. «Diciamo che io sono il capo di una setta di fanatici cannibali. Un uomo imbevuto di pulsioni morbose, deliri di onnipotenza, desideri di dominio. Sono un amante del potere e dell'ordine, che vuole essere rispettato; uno

che è diventato poliziotto proprio per questo e per essere a contatto con il delitto, per vedere ogni giorno il sangue degli altri facendo un lavoro che alimenta le mie voglie. Ma tutto questo non mi basta, ho bisogno di qualcosa di più... Non importa come tutto si è concatenato, come ho incontrato gli altri eccetera. Sono avido di potere, ma sono anche molto prudente; sono un poliziotto e so bene com'è facile farsi beccare. Bisogna stare molto attenti a quel che si fa. Conosco i metodi della polizia, e soprattutto so per esperienza che un criminale è alla mercé di imprevisti che possono tradirlo. E visto che sono previdente, mi nascondo dietro un falso nome, e per giunta di donna, per confondere ancora di più le tracce. Meglio ancora, ricorro all'uomo in cui ripongo la mia fiducia e lo innalzo al mio posto, mentre io rimango nell'ombra, controllando tutto senza correre rischi. Pianifico ogni cosa, fino alle modalità dei rapimenti, grazie alla mia esperienza di poliziotto, ma mi nascondo dietro il mio scagnozzo, dietro Bob. Nel peggiore dei casi, se tutto dovesse precipitare, se la setta venisse smascherata, si cercherebbe la testa pensante, l'istigatore dei crimini di Caliban. Spencer e Lucas, se dovessero parlare, farebbero il nome di Bob, perché è l'unico che conoscono, e i campioni della sua scrittura lo incastrerebbero. È lui che ha scritto di suo pugno le cartoline, è la sua scrittura quella trovata a casa di Annabel, quindi è Bob quello che ci andrebbe di mezzo. A me basterebbe agire con discrezione, in modo da passare inosservato. Forse potrei far eliminare Bob, per essere certo che non apra bocca. O forse neanche. Dopotutto, se ho scelto proprio lui, è perché avevo le mie buone ragioni... Sì, deve essere così...» Nel viale deserto Brolin si appoggiò al semaforo di un incrocio. Era sulla pista giusta, ne era certo. Il poliziotto che si nascondeva dietro Malicia Bents non era un semplice gregario. Era lui che manovrava tutto da dietro le quinte. Il trucco della grafia riconoscibile, un dettaglio che stonava con il quadro, era la sua uscita di sicurezza, la garanzia che se il gruppo di Caliban fosse caduto nelle mani della polizia le indagini si sarebbero fermate a Bob. Nessuno avrebbe mai dovuto sentir parlare di Malicia Bents. Malicia Bents... Malicia Bents. Di colpo, Brolin ritornò sui suoi passi. Risalì la strada a passo di carica, fin quando trovò quello che cercava: un negozio specializzato in dolciumi di ogni genere, un tipo di locale tornato molto in voga tra gli studenti di New York, giovani e giovanissimi. Un santuario che non chiudeva prima delle due di notte, accogliendo una clientela in preda alla nostalgia infanti-

le. Attiguo al grande salone, un negozio di giochi esibiva i suoi tesori ai passanti. Joshua si addentrò fra gli scaffali dal contenuto variegato ed entrò nel regno dei giocattoli, dove una coppia era impegnata nella scelta di una bambola. È una particolarità di New York, quella di vivere in modo diverso da tutto il resto del mondo. L'investigatore trovò il reparto giochi di società. Individuò rapidamente quello che cercava. Lacerò l'involucro di cellophane della confezione di Scarabeo e aprì il sacchetto contenente le lettere dell'alfabeto impresse sui gettoni di plastica. Frugò fino a trovare quelle per scrivere MALICIA BENTS, e compose il nome sul pavimento. Poi cominciò a spostare le lettere in modo da formare altre parole. L'idea gli era venuta così su due piedi, pensando a Caliban che alla luce degli ultimi sviluppi si era trasformato nell'anagramma di Canibal. Una lettera dopo l'altra, Brolin mise insieme parole, spezzoni di frasi, fino a ottenere la prima parola, e via via le altre. Malicia Bents era un anagramma. L'anagramma di Caliban it's me. L'uomo che manovrava nell'ombra non era privo di faccia tosta. Il suo smisurato egocentrismo e la sicurezza di sé trasparivano da quel gioco di parole che doveva averlo divertito un mondo. Brolin aveva visto giusto. Bob era solo una pedina. Il vero responsabile del macabro gioco era ben più pericoloso. Perché nessuno conosceva il suo vero volto. 67 Quando l'ordine dell'agente speciale Keel risuonò nel suo auricolare, Mark Martins trasse un respiro profondo e segnalò ai due uomini che lo seguivano che l'assalto era iniziato. Uscì dal sottobosco e corse verso la casa, con l'Heckler & Kock MP5 in pugno. In meno di trenta secondi tutte le vie d'uscita furono sotto il controllo del gruppo di uomini armati e muniti di visori notturni ITT Night Enforcer 6015, che in piena notte permettevano di vedere come se fosse pieno giorno. L'ariete sfondò la porta d'ingresso nello stesso istante in cui due finestre volavano in pezzi. Mentre l'eco degli schianti si ripercuoteva nella casa, cinque uomini in tenuta da combattimento fecero irruzione, mettendo in sicurezza gli angoli per gli altri che si stavano precipitando in avanti a passo di corsa.

Mark Martins faceva parte della seconda squadra. Si mise accovacciato con un ginocchio a terra davanti all'ingresso del soggiorno, accanto al suo partner che scrutava tutta la stanza da dietro il mirino. Nessuno. Martins si alzò e si lanciò verso la parete opposta, vicino a quella che doveva essere la camera da letto. Si trovava a dieci centimetri dalla porta aperta. Il suo respiro era accelerato. Malgrado le centinaia di ore di addestramento, nulla valeva l'adrenalina e la tensione delle azioni reali. Ebbe appena il tempo di distinguere una sagoma nel vano della porta, poi nell'alone verde del suo visore notturno brillò la cromatura di un'arma da fuoco. Qualcuno gliela stava puntando addosso. Neil Keel osservò i suoi uomini disporsi intorno alla casa di Robert Fairziak con movimenti fluidi e silenziosi. Stan Lowels, l'ufficiale in comando, gli trasmetteva le informazioni in tempo reale. «Squadra Alfa in posizione, ariete pronto, squadra Bravo e Charlie in attesa... Vai!» Il rumore soffocato della porta che cedeva di colpo, il martellare di passi sul pavimento. «FBI! Nessuno si muova!» Il respiro degli uomini dell'unità, il rumore di una lampada o di un vaso che si infrangono al suolo nell'impeto dell'assalto, il fruscio delle tute amplificato dai microfoni. «Qui Bravo, il soggiorno è pulito.» «Qui Alfa, la cucina è pulita.» Otto secondi dall'irruzione. Keel fece un cenno a Brett Cahill per indicargli che tutto stava procedendo bene. Ormai potevano entrare, visto che Robert Fairziak sarebbe stato catturato da un momento all'altro. Una voce che il crepitio del microfono rendeva metallica, e quindi irriconoscibile, urlò: «Giù quell'arma! La metta giù!» «Sospetto armato!» urlò un'altra voce. «Il sospetto è nella camera.» «Non si muova! Giù l'arma! Non un gesto!» «Voglio una squadra in posizione alle sue spalle, dalla finestra!» ordinò la voce del capitano Lowels. «Negativo, capitano, è il lato della parete rocciosa, impossibile arrivarci da là!» «Ho un angolo di tiro, in piena testa!»

Venti secondi. «Negativo, aprite il fuoco solo se vi punta l'arma!» «Ricevuto. Credo che si possa passare...» «No!» Il crepitio delle detonazioni saturò il ricevitore, riecheggiando immediatamente nell'aria tutt'intorno a Neil Keel e Brett Cahill. Seguirono degli schianti ancora più secchi e infine il silenzio. «Cessate il fuoco! Cessate il fuoco!» Keel prese il walkie-talkie e si avvicinò alla casa, curvo come se volesse evitare le pallottole vaganti. «Lowels, cos'è successo?» Un silenzio precedette lo sfrigolio della risposta del capitano. «Fairziak è a terra.» «Cazzo. Ci sono perdite?» «Negativo. Abbiamo fatto fuoco prima di lui.» «Arrivo.» Keel e Cahill raggiunsero la squadra d'assalto. L'odore pungente della polvere da sparo ristagnava nella stanza. Le luci del soggiorno e della camera da letto erano state riaccese. Mark Martins era sulla soglia della camera, in ginocchio accanto a un corpo intorno al quale si stava allargando un alone rosso. Martins alzò lo sguardo: «Ci vuole un elicottero per portarlo via». Dal tono della sua voce, tutti capirono che Robert Fairziak sarebbe morto prima ancora che l'elicottero decollasse. Cahill si chinò su di lui. Bob era molto magro, con un colorito bianco latteo. I peli radi della corta barba nera spuntavano a chiazze, formando un netto contrasto con il resto del volto. I capelli erano solo ciuffi spettinati sul cranio. Lentamente ruotò gli occhi su Cahill, fissandolo con le grandi pupille nere. Batté le palpebre con difficoltà, il respiro sibilante tra le labbra insanguinate. Studiò Cahill come se volesse giudicare colui che l'aveva catturato. Nonostante tutto quello che Bob aveva commesso, in quell'attimo Brett non riuscì a considerarlo un mostro. Quello che vedeva era un uomo dall'apparenza fragile, un individuo debole che la vita stava abbandonando a poco a poco, e che stava per morire sotto lo sguardo freddo di una dozzina di uomini, nella più totale solitudine. Gli passò una mano sotto la testa. L'uomo ai suoi piedi era stato un bambino martirizzato, e da quelle sofferenze era nato Bob l'assassino. Nel momento crudele in cui la sua esistenza si concludeva, Bob era ridiventato

quel bambino dall'anima gravata da più cicatrici di quante ne avrebbe potute sopportare il corpo di un adulto. «Ce la farai, ma non devi muoverti», mentì Cahill. Le labbra arrossate di Bob si schiusero in un sorriso. «Non ho paura», sussurrò, in un sibilo gorgogliante. Ogni volta che si alzava in un respiro, il suo petto emetteva uno sgradevole rumore di risucchio, un gorgoglio umido di carni squarciate. «Non... ho... paura... Non sono più solo, ormai...» Un sottile rivolo di sangue gli colò lungo il mento. «Non sono più solo... Mai...» Gli occhi si coprirono di un velo di lacrime. «Loro sono con me... Tutti... Li ho dentro di me... Adesso...» Brett rabbrividì, continuando a sostenere il corpo insanguinato. Il sorriso di Bob si allargò ancora di più. «Sono dentro di me... Li ho mangiati... Abitano in me... E io non sarò mai più... solo.» Le lacrime non scesero più. Non sarebbero mai più scese. Robert «Bob» Fairziak si fece più pesante, le sue membra si rilassarono e non rimase altro che un involucro di carne svuotato di ogni spirito vitale. Cahill rimase chino accanto a lui per qualche minuto, poi si rivolse al capitano Lowels. «Cos'è successo?» Neil Keel, responsabile dell'operazione, non fece alcun commento, limitandosi a fissare Lowels. «È stato colto di sorpresa dal nostro assalto», spiegò il capitano, «ma ci stava aspettando con una pistola in mano. L'abbiamo preso di mira, e questo idiota è andato avanti per qualche secondo a cercare di individuarci nel buio. Credo che abbia capito di essere in trappola e abbia deciso di farla finita. Ha puntato la pistola contro Martins, il più vicino. A quel punto abbiamo aperto il fuoco.» «Cosa la spinge a dire che voleva farla finita?» «Ecco, mi pare che abbia sorriso prima di mirare su Martins. Voglio dire: il sorriso amaro di chi sa di aver perso.» Uno degli uomini della squadra d'assalto entrò nel soggiorno. «C'è una scala nascosta nell'armadio, credo che porri a una cantina», disse. Keel prese il fucile mitragliatore dalle mani di Martins. «Andiamo a vedere. Dio solo sa cosa può esserci là sotto.»

Quattro uomini seguirono i suoi passi. Cahill estrasse la pistola e, dopo un attimo di esitazione, andò con loro. 68 Brolin si abbandonò all'indietro, contro le scatole del Monopoli. Erano tutti caduti nel gioco delle apparenze. Caliban non era un concetto astratto. Caliban è il nostro signore... Era un individuo in carne e ossa, il capofila dell'intera banda. «Ehi, lei! Cosa le viene in mente?» gridò in quel momento un commesso. «Non si possono aprire così le scatole!» Uno scatto, e Brolin si rimise in piedi. Nei suoi movimenti c'era un'energia cupa e irrefrenabile, tale da far ammutolire il malcapitato per tutto il tempo necessario a raggiungere la strada. Spinse da parte due adolescenti, che si limitarono a un accenno di protesta, e compose di nuovo il numero del cercapersone di Annabel. Il cellulare della donna era irraggiungibile, quindi bisognava che fosse lei a richiamarlo. Infilò le mani nelle tasche della giacca e sfiorò la cartolina scritta da Bob e lasciata a Ed il falsario, quella che Ed gli aveva venduto appena un'ora e mezza prima. La esaminò di nuovo. Non era affatto recente, una vecchia foto in bianco e nero dal cartoncino ingiallito. Gli tornò in mente la cartolina trovata da Spencer Lynch. Dello stesso genere, altrettanto vecchia, ma con un soggetto differente. Osservò il retro. La scritta in alto, a caratteri microscopici, recitava: CITTA DI LEDGEWOOD - IL CANALE. 1899. Frugò nella memoria fino a far riemergere il nome di Boonton. Annabel gli aveva spiegato che la cartolina trovata nel covo di Spencer non era più in produzione e che rappresentava la città di Boonton attraversata dal canale... Non riusciva a rammentarne il nome. Fermò una coppia di giovani e chiese loro se c'era nelle vicinanze un posto dove collegarsi a Internet. Gli diedero il nome di un bar poco lontano, sulla 103a. Brolin lo trovò senza difficoltà. All'interno, i tavoli erano avvolti da una piacevole atmosfera pervasa di musica disco. Malgrado l'ora inoltrata, quasi tutti i posti a sedere erano occupati. Due donne con un look da vampire gli lanciarono una serie di occhiate interessate. Indifferente alle loro atten-

zioni, il detective individuò ciò che cercava in fondo al locale. Pagò la tariffa minima a forfait e si sedette davanti a un computer. Mise la cartolina accanto alla tastiera e si collegò a un motore di ricerca mentre si sfilava la giacca. Inserì come prime chiavi «Ledgewood + Boonton» e attese, per vedere apparire tre risultati che comprendevano i nomi di entrambe le città. Nel leggere il sunto del secondo, Brolin schioccò le dita. «... partendo da Phillipsburg, il canale Morris attraversa le città di Lopatcong... Ledgewood... Boonton...» Si accarezzò il mento con una mano. Perché Bob utilizza vecchie cartoline che hanno come punto in comune il canale Morris? Phillipsburg... Era nei suoi dintorni che era stato riscontrato il maggior numero di sparizioni. Caliban e i suoi rapivano forse le persone lungo il canale Morris? Ma no, era assurdo... Le dita del detective andarono su e giù per la tastiera. Scoprì parecchi siti concernenti il canale Morris. Scelse quello che sembrava il più serio e informato, e trovò una cartina del tracciato originale del canale. Seguendolo con l'indice sullo schermo ebbe la conferma che non c'era alcun rapporto tra i rapimenti e i luoghi in cui il canale passava. In ogni caso, il canale era abbandonato da decenni e la maggior parte del suo letto era ormai distrutto, cancellato dall'avanzare della vegetazione. E allora, perché Bob usava le cartoline del canale? Dove se le era procurate, tanto per cominciare? In un museo? Forse ci lavorava? Brolin, che in un primo momento aveva pensato che bisognasse trovare Malicia Bents per arrivare a Bob, si rese conto, ironia della sorte, che era vero esattamente il contrario. Sfogliò diverse pagine del sito fino a trovare un'icona «Museo» nell'angolo di una di esse. Si aprì una pagina nella quale si spiegava con rammarico che il museo del canale Morris aveva chiuso i battenti quattro anni prima, causa mancanza fondi. Venduto all'asta assieme a tutto il suo contenuto, che rivestiva un certo valore solo agli occhi di qualche raro collezionista, il vecchio fabbricato aveva trovato un acquirente nella persona di... Brolin rimase interdetto nel leggere il nome che si stagliava netto davanti ai suoi occhi. Ma il peggio era ciò che quel nome significava.

Annabel era in pericolo di morte. 69 Tutte le luci si erano spente all'improvviso. Annabel sospirò, irritata. «Jack, non mi sembra il momento.» In effetti, non era nel suo stile. Improvvisamente, si sentì a disagio. «Jack?» Cercava di mantenere un tono di voce normale. L'unica risposta furono gli scricchiolii del legno della casa. «Ehi, Jack!» Il tono di voce sempre meno calmo. «Sceriffo Murdoch? È di là?» Che cosa stava succedendo? Perché mai spegnere tutto? Non ti agitare, è stata solo un'interruzione della corrente. Se è così, perché non mi risponde nessuno? Annabel era a un passo dall'estrarre la pistola, pur sentendosi ridicola per quell'improvvisa paura. «C'è qualcuno?» chiese nuovamente. Cazzo, perché non mi rispondono? La coincidenza era per lo meno inquietante. Lei li informava che Bob stava per essere catturato, e che si sapeva che dietro a tutto questo c'era un quarto uomo, un poliziotto per di più, e subito dopo, ecco che sparivano tutti... Un poliziotto... Uh, no! Non è il momento di farsi prendere dalla paranoia! Eppure, i fatti parlavano da soli. E perché no, poi? Molti dei rapimenti erano avvenuti intorno a Phillipsburg, e lo sceriffo Murdoch era un poliziotto. E poi... Di colpo Annabel rivide nella mente l'intero caso. Come tutto aveva avuto inizio. Jack era ormai fuori servizio, quella sera. Aveva sentito la notizia, la ragazza scotennata rinvenuta nuda a Prospect Park, e aveva insistito per occuparsi delle indagini. «Un caso di rapimento per Annabel», aveva detto. E se... No, era impensabile. Eppure... Jack viveva solo, ma la sera in cui qualcuno si era introdotto da lei aveva detto che era con una donna: era vero? E poi, adorava il teatro:

possibile che gli fosse sfuggito il rapporto tra La Tempesta di Shakespeare e Caliban? O lo aveva fatto a bella posta, sperando che sfuggisse anche agli altri? Era dotato dell'intelligenza necessaria a reggere i fili di tutto l'intrigo. A ben rifletterci, lei non sapeva che cosa facesse Jack nel tempo libero. Sosteneva di leggere, di andare a teatro, a passeggio... Era vero? E poi l'atteggiamento che aveva avuto fin dall'inizio delle indagini, il suo voler seguire sempre tutto da vicino, la sua ostinazione a non cedere il campo, nemmeno di fronte all'FBI. Le aveva parlato spesso della sua casa di campagna: già, dove si trovava? Ah, sì! Nel Connecticut, ma lei non c'era mai stata, e lo stesso valeva per gli altri colleghi. Thayer era un individuo talmente solitario che poteva benissimo avere sempre mentito. La casa poteva trovarsi dalle parti di Phillipsburg, era più vicino del Connecticut; poteva andarci nei weekend e anche di sera, durante la settimana, con un piccolo sforzo. No, non è possibile, non Thayer! Un fruscio di tessuto alle sue spalle. Annabel fece un rapido dietro-front, portando la mano alla fondina. Le sue dita staccarono il cinturino di sicurezza e si strinsero intorno al calcio della pistola. In quel momento la sua visuale si oscurò, coperta dall'ombra che stava avanzando verso di lei. Arretrò di un passo, urtando la porta-finestra. L'indice agganciò il grilletto e il braccio uscì da sotto il maglione, iniziando il movimento ad arco per allineare l'arma e tirare. L'ombra la inghiottì. La Beretta era a metà strada, non ancora in linea con il bersaglio. Il pugno rabbioso dell'ombra si abbatté sulla sua tempia. Una volta. La seconda, la detective sentì il naso che si spezzava sotto il colpo e il calore del sangue sulle labbra. Al terzo pugno mollò la pistola, e una vibrazione elettrica le attraversò la mascella. Il sentore metallico del sangue le inondò la bocca. Cadde a terra, pensando di avere un bel po' di denti rotti. Poi, più nulla. Era finita. 70

Il nascondiglio allestito da Bob Fairziak era, tutto sommato, abbastanza rudimentale. Con qualche pannello di truciolato di legno aveva costruito un armadio sopra la scala che portava in cantina, creandosi il proprio passaggio segreto. Era bastato che Thomas Crombie, uno dei componenti della squadra d'assalto, socchiudesse la porta per percepire una corrente d'aria. Con la punta della scarpa l'agente aveva spostato il pezzo di moquette malamente sistemato sopra gli scalini e il trucco era venuto alla luce. Brett Cahill tastò il primo gradino con il piede. Pareva solido. In compenso, non si vedeva un bel nulla. L'agente speciale Keel, munito di una torcia, era già sceso assieme ai suoi uomini per mettere in sicurezza la cantina. Si mosse con cautela, mentre uno degli agenti giù dabbasso esclamava: «È incredibile! Ma dove diavolo siamo?» Anche Cahill se lo chiese, quando si trovò di fronte agli scaffali che correvano attraverso tutta la cantina. C'erano parecchie paia di manette, flaconi di cloroformio, uno sfollagente, rotoli di corda sottile, e un altro di corda più grossa. Più avanti, tra un kit di attrezzi da scasso, dei guanti e dello scotch largo, Cahill scorse una serie di bombolette lacrimogene perfettamente allineate. Le cinque torce elettriche inondavano di luce il locale cieco, spostandosi lentamente da un angolo all'altro, creando l'effetto di un balletto sotto la luna. Cahill allentò la presa sul calcio della pistola, mentre girava intorno all'ultimo scaffale, e si trovò di fronte un Neil Keel dal volto impassibile. L'agente federale stava osservando una lastra di porfido montata su blocchi di calcestruzzo. Assomigliava agli antiquati tavoli da lavoro sui moli, dove si eviscerava il pesce prima di mandarlo alla catena di preparazione dei surgelati. A ben guardare, forse era davvero qualcosa di simile. C'era anche uno scarico, da un lato, per evacuare le viscere e il sangue. La misura del tavolo e la serie di coltelli, seghe e trincianti puliti a dovere, ben allineati su un asciugamano blu, lasciavano intuire un uso assai più sinistro. I riflessi crudeli delle lame captarono il fascio luminoso della torcia di Keel. «Abbiamo fatto bingo», mormorò l'agente speciale. Illuminò un piano da lavoro dove erano sparsi una pietra per affilare i coltelli, pellicole di plastica per avvolgere i prodotti freschi da congelare, un coltello per disossare e persino un tritacarne a manovella. Le torce proiettavano raggi dritti come lame d'argento, che tagliavano l'oscurità lasciandosi dietro scie di riflessi sgradevoli. «Oh, no... Ditemi che non è vero!» sibilò uno degli agenti, arretrando di

scatto. Keel e Cahill gli si avvicinarono. L'uomo tese il braccio verso un enorme vaso di vetro polveroso, guardando da un'altra parte. Sul vaso era attaccato con il nastro adesivo un foglio di carta. «Gli occhi sono il riflesso dell'anima. Colui che possiede gli occhi cattura l'anima. Allora non è più solo.» Keel alzò il foglio. Il liquido giallastro prese a brillare. E tutti gli occhi che vi galleggiavano dentro fecero lo stesso. Cahill si coprì la bocca con il dorso della mano. Keel era sbalordito. Ma la sua espressione di disgusto durò poco; lasciò ben presto il posto alla riflessione e infine a un'illuminazione. «Possibile che... Lo sa che cosa significano questi occhi?» chiese, con un tono che lasciava presagire che avesse già trovato la risposta. «Che Bob era completamente folle.» «Niente affatto. Bob non era soltanto Bob, era anche un uomo che stiamo cercando da più di sette anni. Sono pronto a scommettere il mio stipendio che era lui il cosiddetto assassino delle paludi.» «Di cosa si tratta?» chiese Cahill a bassa voce. «Tra il 1995 e il 1997 nelle paludi del North Carolina sono stati ripescati diciannove cadaveri. A tutti erano stati asportati gli occhi, l'unica parte dei corpi che non siamo mai riusciti a ritrovare. L'indagine è rimasta al palo per parecchio tempo, anche a causa della morte dell'agente incaricato del caso, una morte accidentale dovuta a un disastro aereo. Stranamente, dopo la sua scomparsa non sono più stati scoperti altri cadaveri. Ci sono state numerose speculazioni in proposito, un giornalista ha persino ipotizzato che l'assassino fosse l'agente dell'FBI morto nella sciagura aerea, e le indagini non hanno più fatto un solo passo in avanti. Da parte nostra abbiamo pensato che l'assassino delle paludi fosse morto, oppure che fosse finito in prigione per qualche altro crimine, senza però essere ricollegato ai cadaveri senza occhi. Cinque anni dopo la sua scomparsa, pare proprio che sia tornato alla ribalta.» Cahill rimase lì con lo sguardo fisso su quella quarantina di noccioli bianchi immersi in un liquido denso. Tutti quei morti senza identità. Un gorgoglio ripugnante lo strappò improvvisamente da quella sorta di trance morbosa. Si voltò, e vide uno degli agenti vomitare anche l'anima davanti a un congelatore aperto. Per un attimo, Cahill chiuse gli occhi. Ma dov'erano finiti?

Nel bel mezzo della mente malata di un assassino. Un altro componente del gruppo d'assalto si avvicinò al congelatore, chinandosi per guardare il contenuto. Spalancò la bocca, ma non ne uscì alcun grido. Il suo petto si contrasse sotto il giubbotto antiproiettile, e si precipitò verso l'uscita. Erano nell'antro del demonio, in viaggio all'interno dell'inconscio di un folle psicopatico. Un tonfo sordo proveniente dal muro in fondo alla cantina fece sobbalzare tutti. Quella parte non l'avevano ancora ispezionata per bene. Keel si avvicinò, puntando il mitragliatore che aveva preso a Mark Martins prima di scendere. Si mossero simultaneamente in direzione del rumore, crivellando il muro di aloni bianchi. Fu Keel a vederla per primo. Una solida porta di quercia, rinforzata da un'armatura d'acciaio e chiusa con quattro catenacci. Qualunque cosa vi si trovasse dietro, era stato fatto tutto il possibile perché non potesse uscire. Keel fece segno che lo coprissero, e cominciò a spingere i catenacci uno dopo l'altro. Al quarto, arretrò di un passo e mise la mano sul pomello. Annuì, accertandosi che tutti fossero pronti. Tirò verso di sé la porta. Un insopportabile fetore di urina ed escrementi uscì dal minuscolo ridotto in terra battuta che si apriva al di là della soglia. Subito, nel chiarore delle torce, apparve un viso tumefatto. Un'adolescente, lo sguardo dilatato dal terrore. Poi, nell'alone di luce, videro una donna, e dopo di lei un uomo... Un'intera famiglia. Tra cui un bambino con una mano bendata. 71 Fu il dolore a risvegliare Annabel. Era come se avesse preso una cannonata in pieno volto; sentiva le carni martoriate, e la paura che anche il più piccolo movimento potesse trascinare nella direzione sbagliata un osso spezzato, che avrebbe lacerato tutto al suo passaggio. Oltre alle ecchimosi sul volto e sulla tempia aveva il naso fratturato e un canino praticamente scalzato via, attaccato solo per un filo sanguinolento

alla gengiva. Riuscì ad appoggiarsi sui gomiti. Era ancora tutto buio. Cercò di rimettersi in piedi e si lasciò sfuggire un gemito di dolore. La testa sembrava sul punto di esplodere. «Ci stiamo riprendendo?» disse Caliban, vicino a lei. Parlava con una voce artefatta, di un tono troppo alto per essere naturale, come una cattiva imitazione del lupo che fingeva di essere la nonna in Cappuccetto Rosso. Annabel riconobbe il timbro di voce. Come aveva potuto non capire per tempo quello che stava accadendo? «Dove sono?» chiese, con una smorfia di dolore. «A casa mia.» Dov'era lui? La voce veniva da sopra o di lato? Impossibile stabilirlo. Strinse i pugni e si mise seduta. Provò un dolore così acuto da farle tremare le braccia e le gambe. Perduta in mezzo al nulla, si sentiva come se tutto il corpo stesse roteando nel caos. Era disorientata dall'assenza di qualunque punto di riferimento. «Che cosa... Che cosa vuoi?» La domanda non ricevette risposta. Tastò il suolo. Terra battuta. Eppure non erano all'esterno, c'era troppo buio, e la presenza dei muri era come palpabile. Aveva l'impressione di essere rinchiusa da qualche parte. Poi Caliban parlò. «Niente che tu possa darmi. Quello che voglio, me lo prendo da me.» Annabel allungò un braccio sulla destra, sperando di farsi un'idea migliore del luogo dove si trovava. «Lo sai chi sono, vero?» La detective si irrigidì. Sì, ormai lo aveva smascherato. Ormai sapeva. «Sì. Tu sei Caliban. Vale a dire Eric Murdoch.» Intuì nel silenzio che seguì il sorriso di soddisfazione dello sceriffo. «Che ne hai fatto di Jack?» «Chi, il buon vecchio Thayer? Mi è sembrato che voi due foste ottimi amici... Hmm. Ho paura che per un po' non sarà disponibile. Appena prima che togliessi la corrente è venuto in cucina a vedere che cosa succedeva. Purtroppo è... inciampato in una pentola lasciata in giro. Ma non preoccuparti, non ha sofferto.» Una risatina secca, perfida. In lontananza, Annabel sentì una donna che piangeva. I gemiti erano attutiti dalla distanza, ma non c'era possibilità di errore.

«Dove siamo?» chiese, sconvolta. «Te l'ho detto, a casa mia.» «Cos'era quel...» Si ricordò delle foto di tutte le vittime dei rapimenti, e chiuse gli occhi. Ci era arrivata. Nel cuore della sua tana. Dove le teneva prigioniere, prima di ucciderle. «Perché? Perché... tutto questo?» «Perché?» ripeté lui, con stupore. «Vuoi dire che non hai capito nulla? Andiamo, Annabel... Ma allora non sei stata attenta, non hai visto proprio niente. La prima volta che ci siamo incontrati ho pensato subito che ci saresti arrivata da sola, che avresti ricollegato tutto. Le vittime, Annabel. Sono loro la chiave.» Caliban sospirò. Era combattuto tra il mutismo, il desiderio di terrorizzare la donna con il suo silenzio e la voglia di renderla partecipe della sua genialità. Controllando a fatica l'eccitazione, decise di riprendere a parlare. «Guardiamo la cosa da un altro lato, Annabel. Quando cammini per strada, che cosa vedi? E quando fai la spesa al supermercato? O in vacanza, al mare? Che cosa vedi? «Te lo dico io. Vedi la folla. La gente. Intere mandrie di consumatori. Quegli stessi esseri che vengono chiamati umani, sai, quelli che stanno al vertice della catena alimentare, i padroni del mondo. Detto tra noi, ma a te sembra che abbiano un'aria da padroni del mondo, tutti quegli idioti ammassati nei centri commerciali? A ingozzarsi di schifezze, a spendere tutti i soldi che hanno, per dover ricominciare a guadagnarli la mattina dopo. A gettare i loro rifiuti ovunque, da veri parassiti di questa terra.» Annabel era sempre più inquieta. La preoccupava la foga che vibrava nella voce dell'uomo. «Ecco, in fondo è semplice. Un giorno camminavo in mezzo alla folla, e a furia di guardarli, loro e le loro piccole meschinità, mi hanno dato il voltastomaco. Ho vomitato sull'uomo, ho vomitato sulla sua stupidità, ho vomitato sulla sua presunzione.» La poliziotta si raggomitolò su se stessa. La paura cominciava a germogliarle dentro. «Per farti capire bene la portata delle mie azioni, ti parlerò un po' di me, se non ti dispiace.» Cosa poteva fare? La sua unica speranza era guadagnare tempo, incoraggiandolo a parlare. Murdoch era un solitario, probabilmente era la prima volta che aveva di fronte qualcuno in grado di riconoscere il suo talen-

to criminale. Non aveva mai avuto occasione di condividere con nessuno i suoi piaceri, per macabri che fossero. Lo sceriffo trasse un profondo respiro e cominciò a parlare. Un discorso fluido, come se se lo fosse già ripetuto mentalmente centinaia di volte. «Fin da quando ero bambino mi è sempre piaciuta la sensazione di poter controllare le cose, avere una certa dose di potere ed essere rispettato. Adoravo legare gli altri bimbi a un albero e aspettare fino a quando mi supplicavano di staccarli, fino a quando vedevo nei loro occhi la sottomissione totale, e in quel momento sapevo che potevo chiedere loro qualunque cosa. Ti stupisce che sia diventato un poliziotto, viste le premesse? Certo, c'è stata qualche sbavatura, talvolta mi sono lasciato un po' andare, e ho avuto anche qualche noia, ma non c'è niente da fare: il distintivo ti aiuta, eccome! Lo vuoi sapere, come è cominciato tutto, eh? Lo vuoi sapere?» In risposta, Annabel si lasciò sfuggire un gemito. Doveva guadagnare tempo, non sapendo quali fossero le sue intenzioni. «Colpa del destino», proseguì lui. «Tu ci credi, al destino? Io sì. Un po'. Nel 1997 avevo sempre più pensieri. Ogni tanto diventavo violento... Niente di grave, ma tu lo sai come sono le persone... Basta un nonnulla e vanno fuori di testa. E poi sentivo questa maledetta attrazione per i cadaveri. Sognavo di aprirli per vedere com'erano dentro, per assaggiarli. È una curiosità che ho sempre avuto, quella del sapore degli altri.» Ricadde il silenzio. Murdoch sembrava immerso nei suoi ricordi. Nell'oscurità, solo il sibilo lento del suo respiro. Quando riprese aveva un tono più pacato, quasi dolce, come se si stesse lasciando a poco a poco inebriare dalle sue stesse parole. «Più passava il tempo e più mi riusciva impossibile liberarmene. Ti risparmierò i dettagli, ma ormai era un'ossessione, una vera fottuta ossessione. «Ed ecco che un bel giorno, nell'aprile del 1997, si presenta nel mio ufficio un agente dell'FBI. All'epoca ero sceriffo in una cittadina della California. Mi dice che sta indagando sull'assassino delle paludi, nel North Carolina. Seguendo una pista individuata da poco, riteneva possibile che il killer fosse vissuto nella zona di mia giurisdizione, quando era più giovane. Voleva che lo aiutassi a passare in rassegna tutti i dossier degli ultimi dieci anni relativi a casi di stupri e violenze sessuali, in particolare riguardo alle mutilazioni degli occhi. È quello che abbiamo fatto per quattro giorni. Quattro lunghi giorni in cui ho continuato a pensare a quello strano assassino, a chi era, cosa pensava quando si alzava al mattino, con un ca-

davere nel letto. Quattro giorni a inseguirlo tra le carte per scoprire chi fosse, per dare un volto alle mie fantasie. Fin quando non ci siamo imbattuti in un certo Robert Fairziak. Robert aveva avuto guai con la giustizia nei primi armi Novanta, quando era ancora un ragazzo. Aveva sequestrato due autostoppisti per una settimana. Non aveva fatto loro alcun male, li aveva solamente tenuti prigionieri: per non essere più solo, aveva confessato al mio predecessore. Ma quello che ha attirato l'attenzione dell'agente federale è stata la testimonianza di uno degli autostoppisti. Secondo lui, Robert gli aveva chiesto a più riprese di dargli gli occhi; in cambio, lo avrebbe lasciato andare. La storia si era conclusa senza clamori, alla fine Robert li aveva lasciati andare e si era fatto dieci mesi in un istituto psichiatrico. È stato nel verificare il suo indirizzo che l'agente dell'FBI ha capito di avere trovato l'uomo giusto: Robert Fairziak si era trasferito sulla costa orientale, in North Carolina. Ricordo che ha fatto un salto sulla sedia, quando l'ha saputo. Era certo di aver appena identificato l'assassino delle paludi. Si è precipitato all'aeroporto.» Murdoch fece un'altra pausa, un lungo minuto senza parole. «La sera stessa vengo a sapere che era precipitato un aereo, ma non mi è nemmeno venuto in mente che avesse a bordo l'agente federale. È stato solo quando mi hanno telefonato quelli dell'FBI, tre o quattro giorni dopo, che ho fatto due più due. Mi hanno detto che il loro uomo che era venuto a trovarmi era morto nella sciagura. E mi hanno chiesto se aveva scoperto qualcosa. Allora ho capito. Nell'eccitazione della scoperta, il tizio del Bureau non si era nemmeno preso la briga di chiamare i colleghi. Era saltato direttamente sull'aereo, con il nome dell'assassino delle paludi chiuso nella sua testa. A quel punto io ero il solo a saperlo. Ma non ho aperto bocca. Non so perché, ma non gli ho detto nulla. Ho raccontato che non avevamo trovato niente, e che il loro collega si era affrettato a ripartire, furioso per avere perso tempo.» Caliban tacque, il respiro affannoso. Ad Annabel parve che si trovasse a poca distanza da lei, sulla sinistra. Ma non appena ricominciò a parlare, la voce sembrò cambiare posizione, come se lui le stesse ruotando intorno. «Ho passato una settimana a riflettere. Avevo il nome e l'indirizzo di un serial killer, ti rendi conto? Sarei potuto diventare un eroe, lo sceriffo che ha catturato l'assassino delle paludi. Ma questa idea non mi faceva nessun effetto. Era un tipo di gloria che non mi attirava, non mi faceva risuonare nessuna eco. Semmai ero affascinato da quello che lui era, da quello che faceva.»

Annabel non poteva vedere Murdoch, ma se lo immaginava con la bava alla bocca, lo sguardo febbricitante di ricordi. «Ogni giorno pensavo alla sua casa, cercavo di figurarmi come poteva essere dentro. Cosa mai poteva fare un individuo del genere nei weekend e altre cose così. Ero ossessionato. Così sono andato in North Carolina. L'ho spiato per un po', poi l'ho avvicinato. Gli ho detto che sapevo tutto di lui. Che lo ammiravo. Mi ricordo che siamo andati a fare un giro in un centro commerciale. E là, in mezzo a tutta quella gente, gli ho detto che noi due, insieme, potevamo fare di meglio. «Oh, Annabel, il primo è stato un disastro, una cosa atroce: si dibatteva da tutte le parti, il suo sangue zampillava in aria come una fontana. A un certo punto non riusciva più a urlare; era solo un interminabile gorgogliare, come il rantolo di un maiale. Ma il primo boccone di carne...» Inspirò rumorosamente, ansimante. «Che delizia! Di colpo, tutto quel sangue non aveva più alcuna importanza. Anzi, è stata un'esperienza adorabile mangiare l'uomo di cui avevo appena contemplato la morte. Perché non c'era niente che potesse stargli alla pari. Era meglio del sesso, più inebriante di un orgasmo. Avevo il potere assoluto sull'uomo: con un solo gesto mi ero spinto al culmine della catena alimentare, oltre l'uomo stesso. L'uomo era il mio banchetto. E io ero solo, solo in cima alla piramide. Annabel, tu non puoi nemmeno immaginare la sensazione di energia, di potenza che si prova dopo, camminando tra la folla, a divorare con gli occhi uomini e donne, ben sapendo che basta un niente per impossessarsi di loro. Uno non cammina più, si libra nell'aria, perché sa che nessuno può stargli alla pari. E quel sapore, mia cara... Il gusto squisito, la morbidezza... Non c'è carne migliore, credimi! Tutto il nostro corpo percepisce, inconsciamente, che sta ingerendo carne della sua stessa razza; c'è un senso di appartenenza, un riconoscimento. È un ciclo che si chiude.» La detective represse un moto di nausea. «Tu sei... rivoltante», proferì con qualche difficoltà. «È questo che pensi? Ma io sono identico a te, la sola differenza è che io sono cosciente, sono lucido, e rifiuto di nutrirmi dell'ipocrisia della tua società! Guarda gli allevamenti di bovini, quelle povere bestie trasformate in cose, private dell'anima per farci sentire in pace con la coscienza, nient'altro che cibo a quattro zampe, un sostituto della carne perfetta, che sarebbe quella degli uomini. Le nutrono con le farine animali. Lo sai che molte di queste farine contengono placenta umana? Lo sai che i laboratori farma-

ceutici e cosmetici si contendono accanitamente la placenta umana e i feti? In tutto il mondo ci sono grandi società che fabbricano medicinali a base di questi ingredienti. Migliaia di donne, dopo il parto, prendono granuli di un prodotto a base di placenta che dovrebbe fortificarle, favorirne il recupero.» Il tono dello sceriffo si era alzato, si era fatto più aggressivo. «Mi sembra di sentirlo, tutto il tuo scetticismo! Vuoi qualche esempio concreto? È questo che vuoi? Benissimo, prendi l'Uro Kinase, il medicinale per i problemi di cuore a base di urina umana. O andiamo a Pittsburgh, dove più di dieci persone hanno ricevuto iniezioni di neuroni ottenuti a partire da cellule di embrioni umani, per rimettersi dalle conseguenze di un'emorragia cerebrale. E che dire dei trattamenti per ringiovanire, preparati a base di feti o di placenta umana, da prendere per bocca o per iniezione? Io lo so che ciò che ti disturba veramente non è tanto il fatto che io uccida per nutrirmi, ma che io mangi la carne umana. Questo ti disgusta più di tutto. Ma non lo trovi piuttosto ironico questo tabù, tu che vivi in una società in cui una delle principali religioni chiede che del proprio Dio si beva il sangue e si mangi la carne? Se invece di un po' di mela Eva avesse mangiato un pezzo della carne di Adamo, il vero peccato della carne, il vero dono di sé, il vero amore... Il mondo sarebbe diverso, puoi starne certa! L'uomo è ipocrita, adatta i codici ai suoi bisogni. Oggi per salvare delle vite occorrono organi per i trapianti: non è una forma di cannibalismo anche questa? Non passa attraverso la bocca, ma il risultato è identico!» «Questo non ha niente a che vedere... I trapianti di organi le salvano, le vite!» replicò Annabel. «Tutte stronzate! Se un domani la popolazione mondiale avrà bisogno di carne per sopravvivere, si legalizzerà il cannibalismo, un passo alla volta. Con tutti i guai che causa l'alimentazione industriale di oggi! Non si può più mangiare nulla senza correre il rischio di morire intossicati!» Un'altra breve pausa. «La mucca pazza, tanto per fare un esempio... Una malattia che manda in pappa il cervello, mica male. È come se ci dicessero: 'Signori, pensate di meno e mangiate di più, e bando alle emozioni'.» «È assurdo...» Annabel faticava a trovare le parole per esprimersi, ma Caliban era tutto preso dal suo racconto e lei doveva incoraggiarlo a continuare il più a lungo possibile. «Non è vero! Io faccio oggi quello che sarà tollerato domani. Sono un

precursore, ecco tutto.» «Perché proprio quelle persone? Hai ucciso persino dei bambini!» Lui fece una risatina crudele. «Perché loro? Perché non gli altri? Fai la coda al tuo solito supermercato e guardati intorno, maledizione! Io metto tutti nello stesso cestino. La risposta è nella scelta delle vittime, credevo che avessi capito... Non ho fatto altro che imitare il comportamento di un qualunque consumatore di fronte a una nuova gamma di prodotti: ho fatto dei confronti, poi ho fatto la spesa! Adolescenti, uomini, donne, bambini... Ho cercato di scoprire se c'era una differenza di sapore tra una madre e suo figlio, tra due sorelle, tra le diverse razze, i sessi e le età. Tutto qui. Come scegliere tra il manzo del Kansas o il vitello del Tennessee. E più di recente, ecco... sono passato a fare confronti su un'intera famiglia.» Il tono era volutamente provocatorio. Il silenzio che seguì straziò Annabel, che pensava alle falangi del bambino. «Sono sicuro che hai capito... Li ho lasciati a casa del mio amico Bob. Questione di spazio. La sera in cui ho fatto un salto da te, sono passato prima da Bob, per tagliar via qualche pezzetto di dita... Ah, spero proprio che questo ti smuova qualcosa dentro! Non ho avuto difficoltà a procurarmi il tuo indirizzo. Ti confesso che, nel vederti sotto la doccia, ho avuto un'ondata di desiderio, mia cara, la tua pelle così... tenera mi ha molto tentato. Ma sarebbe stato stupido da parte mia, avrei lasciato troppe tracce; e poi lo stupro non è proprio il mio genere. Certo, se ci fosse stato Lucas al mio posto... Lui era il tipo giusto. «Nota che ho anche commesso un errore, quella sera. Se fossi stata più attenta ti saresti accorta che la grafia sullo specchio non era la stessa dei post-it. Forse è stata la mia sola sciocchezza, per fortuna passata inosservata.» La poliziotta scosse il capo. Quell'uomo era completamente demente. «Tu sei malato...» «Non cominciare con questa solfa! Non sono io che ho fatto il mondo così com'è, quindi non dare a me la colpa! Io sono solo un prodotto di questa società! Che cosa credi, eh? Oggi un ragazzo di questa nazione, a diciotto anni, ha visto in televisione più di diciottomila omicidi, e in Europa si possono vedere sullo schermo, ogni settimana, duecento o trecento morti. Ormai c'è solo la corsa al consumo, all'aspetto estetico, ai soldi. Una persona con i soldi può comprarsi la bellezza, la giovinezza. Dal 1999 gli

ovuli sono in vendita su Internet, come entrare in un negozio. Si spogliano con gli occhi le candidate, si valutano misure, certificati medici, pedigree familiari, si controlla tutto, poi si ordinano gli ovuli della prescelta. Il corpo ormai è solo un accessorio commerciale al servizio del marketing. Nient'altro. «E allora perché io dovrei privarmene? Bisogna sempre andare avanti, bisogna innovare, produrre, consumare. Sono stato cresciuto così. No, non dai miei genitori: dalla televisione, dai giornali... E poi la pubblicità, i cartelloni per strada, i discorsi della gente. Tutto, persino quello che si studiava a scuola, era inserito in quest'ottica. Quindi che nessuno venga a rimproverami! Mamma, papà, guardate, ce l'ho fatta! Ho fatto tutto questo, sono un uomo di successo! Sono in cima, sono oltre tutti gli altri uomini!» Si interruppe, il tempo di riprendere fiato, e concluse: «E tu... tu non sei certo meglio degli altri». Malgrado il dolore, Annabel gli rispose, furiosa: «Solo perché non mangio il mio prossimo?» Nella notte eterna dei sotterranei, gli occhi di Caliban brillarono. E la sua risata dilagò. Insopportabile. 72 Appena superato il pedaggio all'ingresso dell'Holland Tunnel, Brolin schiacciò a fondo l'acceleratore e l'ago del tachimetro schizzò verso l'alto. Quando aveva scoperto chi aveva comprato il vecchio museo del canale Morris, si era segnato l'indirizzo, quindi aveva scovato una mappa su Internet. Poi si era letteralmente scaraventato fuori. Aveva corso fino a trovare una via poco illuminata, e là aveva «preso in prestito» un'auto. Si era dato da fare con l'impianto elettrico di avviamento fin quando aveva sentito rombare il motore. L'investigatore aveva già incontrato l'assassino. Conosceva Caliban. Riflettendoci bene, non era poi così strano. Caliban imperversava nei dintorni del luogo dove abitava; non poteva conciliare continui andirivieni dall'altra parte dello Stato con i suoi orari di lavoro, e insieme con i suoi «svaghi» macabri, nel chiuso della sua tana. E il rapimento di Rachel Faulet aveva fatto sì che incontrasse Brolin. Eric Murdoch. Joshua ricordava un uomo dal fisico imponente, un corpo muscoloso

ormai ricoperto da uno strato di grasso. E non c'era da stupirsi. Il cacciatore era anche un buongustaio, a spese delle sue prede. Nel 1998, per una manciata di soldi, Murdoch aveva comprato il museo del canale Morris, che stava per chiudere. Era un vecchio edificio cadente la cui unica particolarità stava nel sottosuolo. Nel periodo in cui il canale era ancora attivo esistevano numerosi piani inclinati che permettevano di varcare le colline. Per poter arrivare fino in cima ai tratti in salita le chiatte venivano trainate da una catena, grazie a un ingegnoso sistema di turbine sotterranee mosse dall'acqua, alla maniera di una ruota da mulino. La casa che ospitava il museo aveva nel sottosuolo le antiche strutture del piano inclinato, oltre a numerosi locali e corridoi in stato di abbandono. Una prigione perfetta per le vittime di Caliban. Il quale, recuperando anche tutti i beni del museo, era entrato in possesso di un'ampia collezione di fotografie e cartoline raffiguranti il canale. Questo era stato il suo errore. Volendo dare un'impronta ai suoi messaggi, aveva affidato a Bob una certa quantità di cartoline, e proprio le cartoline l'avevano tradito. Brolin superò Newark e accelerò ancora. Il traffico, a quell'ora, era quasi inesistente. Era furioso per non avere un numero sul quale raggiungere Thayer, il partner di Annabel. Se avesse chiamato un qualunque centralino di polizia per spiegare che lo sceriffo di una cittadina del New Jersey era un pericoloso psicopatico, lo avrebbero mandato al diavolo, o nella migliore delle ipotesi gli avrebbero chiesto di presentarsi a fare una deposizione. Nessuno avrebbe mandato una pattuglia in piena notte a casa di uno sceriffo solo in base alla telefonata di uno sconosciuto. Non poteva permettersi di fermarsi a un posto di polizia. Il tempo giocava contro di lui. Improvvisamente, un'orribile vampata di angoscia lo assalì. Provò una sensazione di déjà-vu, in un altro luogo, in un altro tempo, in un incubo che da allora non aveva mai smesso di rivivere dentro di sé. La morte dell'innocenza, perché lui non era stato abbastanza rapido. L'ago del tachimetro superò i centottanta chilometri orari. Sentiva il peso della Glock su di sé. Non avrebbe esitato a usarla. Il che voleva dire finire in prigione. Se uccideva Murdoch, ci sarebbe sicuramente stato un esame balistico. Lo studio dei solchi sul proiettile avrebbe indicato chiaramente la provenienza dalla sua arma, e gli schedari avrebbero sputato un confronto positivo con le pallottole che avevano ucciso Lucas Shapiro. La stratificazione urbana cominciò a diradarsi, lasciando uno spazio

sempre più ampio al paesaggio naturale: qualche bosco, stagni gelati o campi coperti di neve. Phillipsburg pareva posta all'estremità di un nastro trasportatore che scorreva all'incontrarlo. Brolin si aggrappò al volante e tornò a premere con tutte le forze sull'acceleratore. 73 Annabel non avrebbe mai voluto sentirla. Non avrebbe voluto sentire la risata di Murdoch. Una stridente esplosione di demenza. Lo sceriffo si divertiva a giocare con la detective. Adorava quei momenti, quando si dimostrava capace di spezzare una persona con la semplice forza della sua mente, di annullarla psicologicamente. «La vita, Annabel, è solo ironia. Le catastrofi vengono dalle buone intenzioni, questa è la sola lezione che possiamo trarre dalla storia. Per esempio, prendiamo la povera Rachel, quella che il tuo amico detective privato sta cercando dappertutto come un segugio. Vuoi che te lo dica? Ho scelto lei perché è incinta, ed è stata sua sorella a dirmelo. Megan Faulet è una mia amica. Se Megan non mi avesse parlato della sorellina incinta, Rachel non sarebbe qui adesso. Vedi, ecco l'ironia dell'esistenza!» Si mise a ridere, piuttosto compiaciuto dalle proprie parole. I gemiti di Annabel gli confermarono che era quasi pronta. Entro breve le avrebbe mostrato tutto il suo genio. La sua invenzione formidabile, lo strumento con cui poteva rendere folle chiunque. Non era soltanto per narcisismo che si era dilungato nella spiegazione delle sue azioni, anche se aveva tratto un vivo piacere dal fatto di poter raccontare le sue imprese proprio a colei che lo aveva braccato. Quello che voleva, in realtà, era soprattutto mettere la donna in una condizione di incertezza, di fragilità, in modo che fosse più facile da destabilizzare. Decise di rincarare ancora un po' la dose, un'ultima volta, per portarla al limite. «Pensavo proprio che trovando gli scheletri del vagone avresti capito tutto. Devo ammettere che quello è stato un brutto colpo per me. Adesso, anche gli ultimi pezzi del puzzle dovrebbero essere andati a posto, no? Le scatole craniche aperte, qualche tibia di meno... No? Suvvia, Annabel! Ti piace lo stinco di vitello? Se ne preparano di ottimi con le ossa umane, la parte sotto il ginocchio. Forza, finiamo in bellezza. Tu sai che Lucas si oc-

cupava della fornitura di carne per vari negozi. Andava al mercato delle carni, comprava quello che voleva e tornava a casa, a imballare il tutto nei soliti vassoietti plastificati. E se ti dicessi che piuttosto spesso finiva con l'aumentare la sua produzione con qualcosa di diverso dal manzo o dal vitello? Chi mi dice che tu stessa o chissà quanti altri non vi siate già trovati nel piatto qualcuno dei vostri? È questo il vantaggio dell'essere umano: che non si butta via nulla, che tutto si può consumare!» Questa volta ci era andato pesante; dentro di sé, lei stava certamente urlando. Passò all'azione. La sua voce calò di tono, e si fece insieme più grave. Non giocava più. «C'è una scatola di fiammiferi alla tua destra, prendila.» In stato di choc, Annabel faticava a seguirlo, ma il cambiamento di tono la fece reagire. Rabbrividì. Doveva uscire da lì prima di impazzire. La risata di Caliban l'aveva ferita, vi aveva intravisto l'ironia di cui lui continuava a parlare e ormai si aspettava il peggio. Aveva bisogno di sciacquarsi la bocca, e insieme anche la memoria e l'anima. «Proprio lì, a destra. Avanti, muoviti, allunga la mano.» Lei non voleva più stare al buio, non lo sopportava. Tastò alla cieca alla sua destra e trovò la scatola. Si udì un lieve fruscio quando la aprì. «Annabel, tutte le persone che ho rapito... loro... non sono morti, Annabel. Sono con te. Adesso. Tutti intorno a te. Grazie a me sarete insieme, per sempre. Tutti insieme...» Al limite della resistenza nervosa, la donna non comprese che si trattava di un avvertimento. Tutto ciò che desiderava era un po' di luce, un po' di calore. E uscire di lì. Strofinò il fiammifero. L'odore di zolfo si sparse assieme a un filo di fumo. Le tenebre si ritirarono furtive, alzando il sipario sull'orrore. La fiammella crebbe di intensità, e in quel momento Annabel alzò lo sguardo. Si trovava al centro di una stanza circolare. Stretta e bassa. Apparvero tutti. A decine. Uomini, donne, bambini. Erano tutti lì, o quasi. I muri erano coperti dalla pelle dei loro volti, gli abiti fragili delle loro menti si succedevano gli uni agli altri. Non c'era un solo frammento di terra o di pietra libero. Tutto era solo pelle tesa, labbra allungate e palpebre

vuote. Era circondata da un patchwork di esseri umani, simile ai giudici del Giudizio Universale. Annabel si mise a tremare. La fiammella si abbassò. Fu in quel momento che notò un viso diverso dagli altri. Convesso, là dove tutti erano piatti. Più pallido e meno cereo. Le labbra non erano di un viola sbiadito, ma umide e scure. Lo riconobbe: era il volto di Rachel Faulet. Annabel si avvicinò. E gli occhi si aprirono. Occhi terrorizzati. Annabel lasciò il fiammifero, e le tenebre inghiottirono avidamente la cantina. 74 All'uscita dalla curva gli pneumatici proiettarono schizzi di neve da tutte le parti. L'auto di Brolin aveva appena superato il cartello che indicava Phillipsburg. Il vecchio museo era all'ingresso della città, in fondo a una stradina poco praticabile. L'investigatore la individuò e la imboccò a tutta velocità. Di lì a poco avrebbe scoperto se la mappa trovata su Internet era esatta oppure no. Dopo un ponticello traballante la macchina si impantanò nella curva a gomito. Il detective non perse tempo in tentativi inutili e uscì ad affrontare il gelo. I fiocchi di neve non arrivavano a toccare il suolo, sferzati senza posa dal vento turbinante che sibilava tra gli alberi di noce tutti intorno. Brolin si mise a correre, superò un tronco abbattuto e sbucò ai piedi di un terrapieno. La casa era vecchia proprio come nella foto sul web. Le finestre riflettevano la notte come gli occhi di un gigantesco ragno. Brolin estrasse la pistola e corse verso l'edificio. Salì sulla veranda e lanciò qualche occhiata attraverso i vetri. Buio. Nessuna traccia di vita. Forse è troppo tardi, sussurrò una voce dentro di lui. Oppure non erano lì. Forse non aveva capito bene quello che gli aveva detto Annabel. No, sono qui, di sotto, sotto la casa, nelle cavità dove prima stavano i meccanismi per la risalita delle chiatte. Agguantò la maniglia della porta. Chiusa. Stava per prendere il suo kit da scassinatore, ma ci ripensò. Non c'era più tempo per agire con discrezione. Calcolando la resistenza della vecchia porta di legno, prese un po' di rincorsa e si buttò in avanti. La porta si aprì con uno schianto, proiettando

schegge di legno tutt'intorno. Si spostò di lato, la Glock puntata. Come si accedeva al sottosuolo? Forse dall'esterno? Piroettò più volte su se stesso, in modo da raggiungere il soggiorno riuscendo a mantenere l'intero ambiente sotto il tiro della pistola. Con l'altra mano accese la torcia a stilo. La luce si bloccò sul tavolo. Era ricoperto dalle foto delle vittime di Caliban. Soprattutto, c'erano un paio di manette e una fondina con dentro una Beretta. L'arma di Annabel. Lei era lì. Brolin sapeva con assoluta certezza che la detective non era tipo da abbandonare spontaneamente la sua arma di ordinanza in giro per la casa. Quindi doveva essere tra le grinfie del mostro. Si avvicinò, controllò che il caricatore fosse pieno e ripose la Glock, impugnando la Beretta. Rimaneva da scoprire come scendere. Eric Murdoch, anche se in quel preciso momento preferiva pensare a se stesso come Caliban - figura nuova di un cannibalismo rivalutato - si allontanò dalla cripta delle anime. Era così che aveva battezzato la sua invenzione. Di solito vi gettava il prigioniero dopo un lungo soggiorno in una delle celle, accompagnato da una tortura mentale regolare in modo da spezzarne ogni residuo di resistenza. Si accertava che la persona in questione fosse già abbastanza sconvolta, prima di rinchiuderla nella cantina e lasciarvela per il tempo necessario. Da quel momento le dava come unico cibo dei pezzi di carne, senza spiegare da dove provenivano. Dopo aver fatto un discorso inquietante sul cannibalismo, lasciava la mente della vittima libera di immaginare ciò che voleva. Era proprio quello il peggio. In preda alla fame, tutti finivano prima o poi per mangiare. Ed erano ben pochi quelli che uscivano di là ancora in possesso delle loro facoltà mentali. Taylor Adams ne era un perfetto esempio. Senza contare che con lei aveva dovuto prendere la precauzione di non farsi mai vedere in volto. Taylor lo conosceva, sarebbe stata un'imprudenza nell'eventualità che un giorno potesse parlare, dopo la liberazione. Gli era piaciuta particolarmente l'idea della spilla nel seno. Che bella trovata! A parte questa preparazione, il suo maggior divertimento lo ricavava dai volti. Staccare la pelle era un calvario, ma grazie alla pratica era infine diventato abile. E il colpo di scena del volto vivente, quello sì che era un tocco da artista! E non richiedeva poi tanto lavoro! Somministrava un se-

dativo a uno dei suoi «pensionanti» e lo faceva stendere a pancia in giù su una lettiga. Lo legava da capo a piedi, poi gli bastava lasciar sporgere la testa e spingere la lettiga fino ad allinearsi con il buco che aveva ricavato nella porta della cripta delle anime. Coperta dalla pelle dei volti, la porta era invisibile dall'interno. Poi infilava per bene la testa nella cavità, sistemava un po' della pelle dei volti vicini per dissimulare il tutto e, a quel punto, non gli restava che attendere il risveglio. Qualche volta capitava che accelerasse la trafila, infilando la punta di un bisturi nei genitali dell'uomo o della donna di turno. Questo, non mancava mai di provocare un bell'urlo, di solito seguito dall'urlo del prigioniero nella cripta. Era davvero molto fiero del suo stratagemma. I gemiti di una donna lo distolsero dalle sue riflessioni. Ancora lei, cominciava a dargli sui nervi. Era lì da un mese e non si era ancora placata, un fatto raro. Quasi sempre gli attacchi isterici e i pianti cessavano dopo la seconda settimana. Questa qui avrebbe pagato cara la sua testardaggine. In ogni caso, aveva bisogno di spazio. Il giovane asiatico poteva aspettare; Caliban voleva che prendesse ancora un po' di peso. Anche la bambina, Carly. Per lei valeva lo stesso che aveva in mente per gli altri due bambini: li voleva tenere più a lungo. Il tempo che il loro organismo si purificasse completamente, che si ripulissero di tutte le porcherie che avevano ingurgitato fuori, prima di venire da lui. Gli bastava farli uscire di tanto in tanto, a turno, per metterli a scavare nella stanza in fondo ai sotterranei. In sé gli scavi non avevano alcuna importanza per lui, anche se potevano servire ad allargare il suo antro; quello che contava era lo sforzo che i bambini dovevano mettere in atto. In quel modo facevano sport, ossigenando i muscoli e le carni. Col tempo aveva imparato che i suoi ospiti non storcevano il naso per scavare; preferivano qualunque cosa piuttosto che restare inattivi, a pensare. Controllando l'alimentazione dei tre bambini e imponendo loro un po' di esercizio si assicurava dei corpi perfetti, un allevamento selezionato al cento per cento. Succulento. Caliban si immobilizzo. Gli era sembrato di sentire un rumore. Tese l'orecchio in direzione delle scale. Un improvviso soffio d'aria fredda gli fece correre un brivido sulle braccia. Nulla di strano, c'era una gran quantità di spifferi lì sotto. Una porta cigolò. Questa volta Caliban aggrottò le sopracciglia. Raccolse un piccone ar-

rugginito e andò ad appostarsi in un angolo in ombra, ai piedi delle scale. Brolin mise un piede sul primo gradino, poi sul secondo. Sembravano solidi. Cominciò a scendere. Alla fin fine, l'ingresso del sottosuolo non era stato così difficile da trovare. Aveva seguito le tracce di sangue in cucina, fino alla porta nel corridoio. Le macchie di liquido tiepido lo avevano preoccupato. Voleva dire che Caliban era entrato in azione. Con la Beretta in pugno, l'investigatore arrivò in fondo alle scale e spense la pila. Alle pareti ardevano alcune torce. Il suolo di terra battuta smorzava i passi, attutiva ogni suono. Avanzò, con prudenza. Senza vedere la figura massiccia che uscì dall'ombra alle sue spalle. Il detective procedeva lentamente. Era nel territorio di Caliban, e il minimo errore poteva essergli fatale. Cinque porte si susseguivano sulla sinistra. L'ombra alle sue spalle era ormai vicina. All'improvviso, Brolin udì un singhiozzo soffocato. Proveniva dall'ultima porta. C'era arrivato: quello era il posto dove Caliban teneva rinchiuse le sue vittime. La sua dispensa. L'ombra si allungò, e la punta del piccone si alzò. Qualcosa attirò lo sguardo di Brolin. Un occhio. Dall'altro lato della prima porta. Un occhio infantile. Una bambina. Lo guardava con un'apatia tale da lasciare sconcertati. Bruscamente, l'occhio sussultò, invaso dalla paura. La piccola era terrorizzata da ciò che si trovava dietro di lui. Brolin si buttò in avanti, spingendo con tutto il suo peso. Il piccone fendette l'aria nel punto in cui mezzo secondo prima si trovava la sua testa. Il detective rotolò il più lontano possibile, per mettersi fuori portata, e si raddrizzò, un ginocchio a terra. Gli girava la testa. La sua visuale si riposizionò sui normali punti di riferimento: suolo, muri, soffitto. Nessuno. Si rimise in piedi, senza abbassare la Beretta. Caliban poteva solo essere tornato sui suoi passi, altrimenti l'avrebbe visto passare. Avanzò di un paio di metri e si appoggiò alla porta dietro la quale c'era la bambina. Sempre tenendo la pistola puntata, fece passare un dito tra due assi di legno.

«Ehi», sussurrò. «Non avere paura, adesso sono qua io, d'accordo?» La bambina non proferì parola. Brolin sentì un suono di passi sulla pietra. La scala. Il bastardo sta scappando! Si precipitò verso l'entrata del sottosuolo. In un angolo morto, che non aveva visto quando era arrivato, c'erano dei gradini che sprofondavano ancora più giù. Caliban poteva benissimo essere sceso. Il detective decise di scendere verso il luogo da cui sembrava provenire un'eco. Per non perdere l'equilibrio nella penombra, si appoggiò con una mano alla parete fredda. In basso, uno stretto passaggio scompariva nel buio, immerso nell'umidità. A Brolin diede la sensazione di trovarsi all'imboccatura di un esofago gigante. Da qualche parte, davanti a lui, un suono di schizzi, come di piedi che pestano dentro una pozzanghera. L'investigatore riaccese la torcia a stilo e si infilò nel budello, abbassando la testa. Corse per parecchi metri, stringendo con tutte le sue forze il calcio della pistola. Un liquido bianco colava sui muri, da entrambi i lati. L'acqua era talmente calcarea che le pozze sparse al suolo sembravano ciotole piene di latte. Non si udiva più alcun rumore, a parte lo scorrere dell'acqua. A un certo punto il corridoio svoltava ad angolo retto, e a Brolin parve di intravedere un debole chiarore che proveniva da quella direzione. Caliban poteva trovarsi appena dopo il gomito, pronto a colpire. Proprio prima del gomito, il detective si bloccò davanti a un lungo nastro d'acqua opalescente. Non si poteva scavalcarlo, bisognava saltare, con il rischio di scivolare dall'altra parte e diventare un facile bersaglio. Valutò che, viste le dimensioni, non poteva essere molto profonda. Mise un piede in acqua, cautamente, poi l'altro e... Lo schiocco metallico si mescolò al fruscio delle acque. Le mascelle della tagliola si richiusero sulla caviglia di Brolin, mordendo la carne. Trattenne un grido, mentre una sagoma spaventosa emergeva dall'oscurità per assalirlo. Il predatore balzò sulla preda con un movimento repentino. Immobilizzato, Joshua non poté far nulla per evitarlo. Ricevette l'urto in pieno, sullo sterno. Per un attimo pensò che la sua caviglia fosse stata strappata via dalla violenza della caduta. Si sentì mozzare il respiro, e i polmoni si svuotarono di colpo, mentre un rantolo soffocato gli saliva a fatica dalla gola. E la torcia a stilo gli sfuggì dalle mani quando urtò il terre-

no. Subito sentì il morso di Caliban sull'avambraccio. Questa volta urlò, mentre premeva il grilletto. La torcia brillava al di sotto della superficie dell'acqua, ma l'alone che proiettava era troppo debole per poter distinguere qualcosa. Sparò ancora. E ancora. Fino a quando non cominciò di nuovo a percepire le informazioni che il suo corpo gli trasmetteva, mentre l'ossigeno ritrovava la strada dei polmoni. Sopra di lui non incombeva più alcun peso. Caliban era fuggito al primo colpo di arma da fuoco. Brolin si tirò su immediatamente e immerse le mani nell'acqua per fare forza sulle mascelle d'acciaio e liberare la gamba. Strie di sangue formavano un delta sulla superficie del nastro opalescente. Percepì l'eco di un percussore che veniva armato. Era vicinissimo, a nemmeno una decina di metri, subito dopo il gomito. Il fiato corto, Brolin si affrettò a liberare la caviglia e recuperò la piccola torcia. Una smorfia di dolore gli contraeva il volto. Zoppicando leggermente si avvicinò all'angolo morto. Inspirò a fondo, poi con uno scatto puntò l'arma contro ciò che vi stava dietro. Tre metri più avanti una fila di scalini portava a un locale più grande. Un'unica torcia illuminava la grotta, immersa in un chiarore ambrato. In mezzo alla grande sala Caliban aveva montato delle pareti di legno che formavano una cabina rotonda del diametro di circa tre metri. Le tavole andavano dal suolo fino al soffitto, isolando completamente quella specie di cella. Brolin si appiattì contro la pietra, tenendo d'occhio il silos di legno al centro, a pochi metri da lui. Caliban non poteva che essere dietro quella bizzarra costruzione. Si mosse tenendosi contro la parete, adattandosi agli anfratti, fin quando non scorse una lettiga, montata su gambe telescopiche a rotelle. Sopra vi era distesa una figura umana, a pancia in giù. La testa era sollevata, appoggiata a un cuscino, e spariva dentro quella che doveva essere la porta della cabina. Era tenuta in quella posizione innaturale per mezzo di cinghie, e quindi probabilmente poteva vedere solo all'interno della costruzione. Brolin si rese conto che una delle cosce era coperta da una fasciatura rossa. Le bende disegnavano una forma anomala, penetrando troppo profondamente nella gamba. Si morse le labbra. Tutto il muscolo della coscia era stato tagliato via.

Fece un altro passo in diagonale. E Caliban apparve. Appiattito contro la parete di legno, teneva il revolver puntato alla tempia della persona stesa sulla lettiga. «No, fermo, non un gesto di più», disse, rivolto all'investigatore. Brolin strinse il calcio della Beretta fino a far sbiancare le nocche delle dita. «Se ti muovi la ammazzo. Lo sai chi è?» Murdoch si teneva dietro la lettiga, al riparo del corpo disteso. Tirò indietro il piccolo veicolo, facendo cigolare le rotelle. Il volto fuoriuscì dal buco nella porta. Nel riconoscerla, Brolin avvertì una contrazione alle viscere. Era Rachel Faulet. Batteva senza sosta le palpebre. Non sembrava in possesso delle sue facoltà. Caliban l'aveva drogata. «Sorpresa!» esclamò Murdoch, stupidamente. «Adesso getta la pistola.» Brolin non cedette, il muso della Beretta ancora proteso verso lo sceriffo. «Non giocare all'eroe, in questo modo ci hanno già lasciato la pelle la tua amica Annabel e il suo partner.» L'indice dell'investigatore si contrasse sul grilletto. Un niente e il colpo sarebbe partito. «No, tu non li hai uccisi», replicò, la voce incredibilmente pacata. «Sarebbe la tua condanna a morte.» Il sangue tiepido nella cucina. «Che cosa pensavi? Tutto quello che avevo intenzione di fare era scoprire quello che sapevano, a che punto erano con le indagini. Ma quando tu hai chiamato per dire loro che sapevi la verità su Malicia Bents, le cose hanno preso tutta un'altra piega. Non potevo permettere che questa informazione fosse divulgata.» Rimase in silenzio. Per lunghi, terribili istanti. «Ho dovuto agire», riprese. «Mi mancavi solo tu, ed ecco che vieni qui da me su un vassoio d'argento.» Caliban lasciava intravedere solo la testa e la mano con la pistola. Era sgusciato contro la porta, per restare al riparo del corpo di Rachel Faulet. Una luce febbrile brillava nei suoi occhi, riflettendo le fiamme della torcia. Brolin l'aveva nel mirino. Era pronto a tirare. Si trattenne. C'era troppa poca luce, rischiava di colpire Rachel. La sua fronte si coprì di sudore.

«La pistola!» urlò lo sceriffo. «Te lo dico per l'ultima volta: buttala giù!» E premette la canna del suo revolver contro la tempia di Rachel, fino a farne scaturire un filo di sangue. Nello stesso istante, Brolin vide una mano uscire dal buco nella porta e aggrapparsi ai capelli di Eric Murdoch, tirandoli con rabbia all'indietro. Con un grido, Caliban si tirò su di una ventina di centimetri per tentare di liberarsi. L'indice di Brolin premette il grilletto. La molla venne compressa, fece scattare il cane in avanti. Il percussore si abbatté all'istante sull'innesco della cartuccia, che diede fuoco alla polvere. Il proiettile attraversò la canna in una nube di gas ardenti e subito dopo, surriscaldato dal tragitto, penetrò senza difficoltà nel cranio di Caliban per uscire dal lato opposto, facendo schizzare nel suo solco gocce di sangue ovunque, prima di conficcarsi nel legno. Il corpo del mostro restò in bilico per una manciata di secondi, prima di registrare il messaggio e trasmetterlo al resto delle membra e degli organi. Poi crollò a terra. La detonazione aveva riscosso Rachel dal suo torpore artificiale. La ragazza guardò Brolin, talmente confusa da non riuscire né a piangere né a urlare. La mano che aveva afferrato Caliban scomparve nel foro. Al suo posto una voce, quella di una donna disorientata: «Joshua? Fammi uscire di qui...» Annabel scoppiò in lacrime. 75 Il corpo senza vita di Jack Thayer fu ritrovato in un freddo stanzino del sottosuolo. Le scorte di cibo che lo circondavano avrebbero consentito a dieci persone di sopravvivere per un anno. A condizione che fossero antropofagi. L'FBI stabilì che si trattava dei resti di trentaquattro persone, frattaglie comprese. Jack era andato in cucina per parlare con Eric Murdoch, che lo aspettava armato di un coltello con trenta centimetri di lama. Il primo fendente, alla gola, aveva sezionato carotide, trachea e corde vocali, il secondo aveva perforato il polmone sinistro. Il terzo e il quarto avevano raggiunto il cuore.

A casa di Murdoch non fu trovato nulla che spiegasse quello che lui e la sua banda avevano fatto nel magazzino di Red Hook. La ragione per cui l'avevano affittato rimase sconosciuta, e si poterono solo ipotizzare oscure orge dai risvolti macabri. Il modo in cui Murdoch aveva allestito il sottosuolo della casa per farne la sua dispensa era stupefacente. Celle, depositi, sala per tagliare le carni, cavità da scavare per mantenere in forma le vittime: tutto era stato accuratamente progettato. Lo sceriffo aveva riutilizzato il vecchio sistema idraulico del canale Morris con diabolica intelligenza. Fu ritrovata anche un'ingegnosa apparecchiatura hi-fi, i cui altoparlanti erano nascosti nei muri. Caliban se ne serviva per diffondere suoni strani, grugniti, ticchettii, tutto ciò che poteva accentuare ancora di più l'atmosfera lugubre, in modo da spezzare definitivamente le residue resistenze dei suoi «pensionanti». Fra tutti i suoi effetti personali fu un taccuino malmesso, nascosto dietro una pila di riviste, a suscitare il maggiore interesse nei federali. Una specie di diario. Con interi passaggi sottolineati. Essi permisero agli agenti dell'FBI di meglio definire la personalità di Caliban. Contrariamente alla maggior parte dei serial killer, Murdoch non era mai stato maltrattato dai genitori o da qualche parente. Suo padre era un uomo severo, certo, ma non un violento. Dopo il divorzio dei suoi genitori, Eric era cresciuto con la madre, una donna gentile, ma un po' assente. A scuola non aveva praticamente nessun amico. Era collerico, intransigente ed egoista. Aveva la perenne ossessione di controllare tutto, voleva sempre che tutto fosse fatto secondo i suoi ordini. Molto presto il suo modo di comportarsi lo aveva escluso dalla compagnia dei bambini della sua età, che avevano imparato a diffidare di lui e dei suoi tiri mancini ed erano giunti a odiarlo. Lui contraccambiava quest'odio, e intanto si rinchiudeva sempre più nella solitudine. Da dove gli veniva la sete di potere, di dominio, la tendenza ad agire subdolamente che aveva dimostrato fin dalla più tenera età? Per il momento anche le scienze comportamentali non avevano una risposta: era un altro dei tanti misteri che gravitano intorno alla genesi della personalità degli assassini seriali. Tre pagine di una scrittura prima fitta poi molto più larga diedero ai federali ciò che cercavano più di ogni altra cosa: una giustificazione per quella follia, da dare in pasto ai mass media. Nel sole di giugno Eric giocava per strada, da solo, vicino a un canaletto di scolo. Schiacciava le formiche, o le annegava, a seconda del momento.

Concentrato su una colonna di insetti, non si era reso conto di avere camminato fino al centro di un incrocio. Era un quartiere residenziale, e quella domenica mattina c'era poco traffico. Inginocchiato sull'asfalto, alzò la testa solo dopo parecchi minuti, sentendo il rombo improvviso di una moto. Il veicolo uscì a tutta velocità dalla curva, dritto verso di lui. Il pilota ebbe giusto il tempo di dare una sterzata per evitare il bambino. Una sterzata che lo mandò a sbattere violentemente contro una quercia. Il corpo si schiantò contro il tronco e rimbalzò sulla strada, una volta, due volte, tre volte, urtando ripetutamente il marciapiede. Spentosi l'eco del clangore metallico, Eric vide tutto quel sangue. Rimase a guardare l'ammasso di tessuti sanguinanti, ancora palpitante, e i getti scarlatti che inondavano la staccionata. Aveva scritto nel taccuino di avere spesso rivissuto quella scena, lo sguardo fisso sull'arabesco rosso che saliva nel cielo azzurro e immobile. Il pilota era solo un mucchietto tremolante, un sacco di carne tiepida senza testa. E tutto era successo per causa sua. Era stato lui a provocarlo. Eric era tornato a casa e non aveva detto nulla. Non c'era stato nessun testimone, e non si capì come mai l'uomo si fosse ammazzato in quel modo. Si disse che doveva aver fatto la curva a una velocità eccessiva. Il senso di stupore del bambino crebbe ulteriormente. Era stata colpa sua, e non veniva punito. Un'ora dopo, sua madre servì il pranzo. Eric non aveva fame. Per poco non vomitò sull'arrosto al sangue che si raffreddava nel piatto. Assomigliava esattamente a quello che restava del motociclista. Sua madre si arrabbiò, ed Eric fu costretto a terminare la sua porzione. A ogni boccone aveva la sensazione di inghiottire un pezzo di quell'uomo. Non se ne dimenticò mai più. Di fatto, ne ricavò una sorta di ossessione. Crescendo, ogni volta che incontrava qualcuno che gli piaceva non poteva fare a meno di chiedersi come fosse dentro, e che sapore potesse avere. Tutto questo andò avanti fino all'aprile del 1997, fino all'arrivo di Harvey Morris, l'agente dell'FBI che indagava sull'assassino delle paludi. Eric Murdoch aveva scritto in seguito che quello era stato un segno del destino. Nello schianto dell'aereo, Caliban aveva mosso i primi passi. Aveva ritrovato Robert Fairziak, e insieme si erano trasferiti nel New Jersey. Presto Bob Fairziak era finito in prigione: si era fatto arrestare penetrando con la forza in casa di una donna, fortunatamente assente. Quando era arrivata la polizia era steso sul letto, a sonnecchiare accanto al cu-

scino, che aveva vestito con abiti trovati nell'armadio. Era rimasto dietro le sbarre solo pochi mesi, il tempo di fare amicizia con Lucas Shapiro. Costui gli aveva parlato della Corte dei Miracoli, dove lui stesso andava a comprare gli snuff movies, il suo eccitante preferito. A quel punto tutto era pronto perché la banda si mettesse al lavoro, con Bob come capo anche se in realtà era Eric Murdoch a tirare le fila nell'ombra. Bob era manipolabile, e in poco tempo divenne il burattino dello sceriffo, completamente sottomesso alla sua volontà. Come Brolin aveva fatto notare, la maggior parte delle coppie criminali sono costituite da un dominante e da un dominato. Murdoch si era assicurato la fedeltà dell'ingenuo Bob e faceva correre a lui i rischi maggiori, servendosi tra l'altro della sua scrittura per trasformarlo, in caso di necessità, nel capro espiatorio. I quattro cacciatori, includendo nel numero anche Spencer Lynch, si aiutavano tra loro. Murdoch, con Bob come paravento, stabiliva le migliori strategie per commettere un sequestro senza lasciare tracce; per esempio, studiare gli orari abituali della vittima potenziale e agire solo in condizioni meteorologiche molto perturbate. Ognuno ricavava dalle vittime il proprio personale tipo di piacere, ma tutti finivano per nutrirsi della loro carne e rivenderne una parte. Fu lo stesso Bob a convincere Lucas ad assaggiare la carne proibita. Mangiare il frutto del piacere era diventato per Lucas Shapiro l'espressione della potenza al massimo grado, al punto che gli accadeva di mordere a sangue la donna che stava stuprando. Sempre guidati dai piani elaborati da Murdoch, condividevano il cimitero, quel vagone isolato che nessuno avrebbe mai dovuto trovare e che faceva di loro degli assassini senza cadaveri, invisibili. E in questa folle corsa al piacere malato si scambiavano le foto delle loro prede, allo stesso modo in cui si mostra a un amico una polaroid della fidanzata o della macchina nuova. Tutto ciò era stato orchestrato da Eric Murdoch, alias Caliban, la cui unica testimonianza di sé, di quello che era stato, consisteva in un piccolo taccuino logoro. Se le informazioni che se ne ricavarono permisero all'FBI di concludere che era stato traumatizzato durante l'infanzia, e che la sua patologia criminale proveniva da una lunga serie di disillusioni, lo stesso accadde per Robert Fairziak, Lucas Shapiro e Spencer Lynch. Nelle loro vite erano rintracciabili dozzine di ragioni in grado di giustificare la loro instabilità psichica. Non fu invece fatta menzione alcuna dei discorsi di Caliban, riportati da

Annabel O'Donnel. Riferendo tutto ciò che le aveva confidato, Annabel aggiunse che Caliban aveva ammesso l'omicidio di Lucas Shapiro, commesso durante un delirio paranoide. L'arma del delitto non fu però mai ritrovata. Molto a proposito, Brolin aveva abbattuto Eric Murdoch con la Beretta di Annabel. La donna mentì, con una sicurezza impeccabile, in testa il volto di Brolin e tutto il suo carisma per farsi coraggio, benché lui non le avesse chiesto nulla. Brolin lo venne a sapere solo più tardi. Oltre alla famiglia Springs, ritrovata a casa di Bob Fairziak, dal covo di Caliban furono estratte vive cinque persone, tra cui tre bambini. La più piccola, Carly, non aprì bocca neppure quando riabbracciò i suoi genitori all'ospedale. Rachel Faulet fu trasferita d'urgenza in terapia intensiva perché aveva perduto molto sangue. Riuscì a farcela soprattutto grazie alla sua voglia di vivere. Brett Cahill ottenne due settimane di ferie, di cui approfittò per riposarsi e soprattutto per aiutare la moglie a occuparsi del loro ultimo nato. Non seppe mai se avesse fatto bene a tenere il segreto sulla sua recente paternità per non farsi escludere dalle indagini. Al momento dell'arresto di Robert Fairziak era stremato, consapevole che non avrebbe potuto tenere duro ancora per molto. Fece visita ad Annabel durante il suo breve ricovero in ospedale, e le rivelò di essere padre da pochi giorni di un bimbetto, che gli aveva rovinato il sonno per tutta la durata della movimentata inchiesta. Quanto ad Annabel, fu operata al setto nasale e per il resto se la cavò con qualche ora di chirurgia dentale. Il grosso dei danni era dentro di lei. La morte del suo collega e amico Jack Thayer la fece soffrire molto più di qualunque ferita. Dopo la sparizione di suo marito, la scomparsa di Jack ebbe l'effetto di un faro che si spegne per sempre alle prime luci dell'alba, condannando l'intero orizzonte a una successione di notti cupe e solitarie. EPILOGO Era giovedì mattina. Attraverso le immense vetrate, l'aeroporto LaGuardia appariva immerso in una strana luminosità grigia. Zaffiro, in attesa di essere imbarcato nella stiva, guaiva nella sua gabbia.

Brolin si chinò e fece passare la mano attraverso la griglia metallica per accarezzarlo. «Vedrai, andrà tutto bene.» Alle spalle dell'investigatore, Annabel chiese, in tono dolce: «E per te? Anche per te andrà tutto bene?» Brolin le si avvicinò. Irradiava una serenità conturbante. Annabel rivide come in un flash tutti i loro sorprendenti faccia a faccia, quando i fiocchi di neve scivolavano su di lui con un'eleganza inusitata, o quando il vento nella strada sembrava evitarlo. Dentro di sé, sapeva che tutte queste non erano che autosuggestioni, eppure le era capitato, qualche volta, di cogliere la stessa sfumatura di ammirato stupore negli occhi di altri passanti. Percepiva sulla pelle la carezza del suo sguardo. Era rassicurante. Non lo desiderava, non in quel senso. Voleva sentirlo vicino, sperava di condividere con lui un'intimità fraterna, qualcosa che le permettesse di addormentarsi tra le sue braccia, serenamente. Poiché non rispondeva, gli prese la mano. «Non potrò mai ringraziarti abbastanza. Ti devo la vita.» «E io ti devo la libertà.» Lei scosse la testa, di colpo preda di un'improvvisa malinconia. Alle loro spalle il nastro trasportatore portò via Zaffiro, che continuava a uggiolare in direzione del suo nuovo padrone. Con passo lento si diressero verso la zona d'imbarco. «Non hai mai pensato di venire a stare a New York?» gli chiese lei. «Non ti mancherebbe certo il lavoro.» «Non ci starei bene. Questa città non mi corrisponde.» Annabel sbuffò appena. «Perché, c'è da qualche parte una città che ti corrisponde?» Brolin alzò la testa, lo sguardo perduto verso l'estremità opposta del terminal. «Non lo so... In ogni caso, non è qui.» New York palpita di una vita continua, in cui il moderno costeggia l'antico. È una città verticale, che vibra e si estende. Un luogo che chiama a fare di più, un universo di estremi, in continuo movimento. Non c'è sicuramente nessun altro posto al mondo con una tale concentrazione di individui, e dove ci si può sentire così soli e al tempo

stesso altrettanto vivi. E altrettanto mortali. Niente qui è definitivo, neppure le certezze. New York chiede sempre di più, ghermisce le energie e ogni mattina rende le anime di nuovo vergini. È come una droga, ad alcuni toglie la lucidità, ad altri i lustrini. New York è fatta di infimo e di sublime. Ognuno ci può trovare quello che vuole. E Brolin non vi aveva trovato che ombre. Davanti a loro un bambino di una decina d'anni tempestava la madre di domande a getto continuo sul perché di questo e sul percome di quello. Innervosita dalla troppa curiosità, la madre gli tese il suo Gameboy per farlo tacere. Provando una profonda amarezza, Annabel si morse le labbra. «Credo di aver capito quello che intendevi dire l'altro giorno, in riva al mare. A proposito di Caliban, che lui era il prezzo da pagare per i nostri eccessi», disse, fissando il ragazzino fattosi silenzioso. «Era solo un ingranaggio. Un elemento collegato a un altro. Domani ce ne sarà un altro...» Lo sguardo del detective era pieno di rancore. Arrivarono all'ingresso della zona passeggeri. Le loro strade si sarebbero separate al di là della linea bianca sul pavimento. «Spero che ripasserai da New York, un giorno o l'altro... Se capita, fatti vivo.» A lei non interessava un'amicizia epistolare, né qualche telefonata di tanto in tanto. Sapeva che condividevano lo stesso sguardo, che la presenza dell'uno dava conforto e calore all'altra, e viceversa. Ciò che avevano di più forte, ciò che condividevano sopra ogni altra cosa, erano i silenzi. Quei silenzi che si riempiono di sguardi, che si curano con un sorriso, e che si sfogano meglio su una spalla per piangere che con un lungo discorso. Le loro solitudini si sfioravano maldestramente, mentre alle loro spalle le loro ombre danzavano e si disegnavano al suolo come se si prendessero per mano. Brolin cacciò una mano in tasca, e ne trasse il pwen che gli aveva affidato Mae Zappe. «Tieni... Restituisci questa collana a tua nonna, e ringraziala da parte mia.» «Penso che lei vorrebbe che la tenessi tu.» Joshua sorrise, ma Annabel non scorse traccia di gioia nel suo sorriso. «Torno a casa, laggiù non ho niente da temere dagli spiriti», replicò lui gentilmente.

Le perle di legno ticchettarono, scivolando tra le dita di Annabel. «Sono contento di averti conosciuta», le disse lui. «Forse un giorno, in altre circostanze, andremo a berci ancora una birra in spiaggia, sotto la luna.» Un ciuffo di capelli gli cadde sugli occhi, arricciato verso l'esterno, nella direzione in cui stava per partire. «Ne sarei felice.» Le sfiorò la spalla, con un gesto tenero e amichevole. Lei abbassò gli occhi. Quando guardò di nuovo su, lui non c'era più. Fu allora che si chiese se non avesse sognato tutto... Quella presenza eterea, quell'aura carismatica. Dopotutto aveva ragione lui. Laggiù, a casa sua, non aveva nulla da temere dagli spiriti. La paura appartiene ai vivi. I fantasmi, tra di loro, se ne infischiano altamente. I gomiti appoggiati a un tavolino di plastica, Joshua Brolin dominava con lo sguardo l'immensa sala d'imbarco, con centinaia di passeggeri in attesa, gli occhi fissi sui pannelli che annunciavano le partenze. Non si era mai sentito così solo come in mezzo a tutta quella gente. Pensava a tante cose, tutte insieme. Tra quella folla, lo sapeva, domani ci sarebbe forse stata la vittima di un mostro. Sapeva che forse quel mostro era già lì, nascosto dietro il suo giornale. Quanti altri Caliban ci sarebbero stati ancora? E Annabel? All'idea di non rivederla più gli si strinse il cuore. Avrebbe dovuto farsene una ragione. Non sapeva che le loro strade si sarebbero incrociate di nuovo, ben prima di quanto entrambi immaginassero. Per un'altra storia, ai confini del possibile, l'ultima... Allungata su due sedili, una ragazzina guardava il cielo che si oscurava con il calare del crepuscolo. Brolin provò pena per lei. Per la fragilità della sua esistenza, per la vecchiaia che già le incombeva addosso, nascosta dietro le pieghe della sua gonnellina sexy alla Britney Spears. Per la sua semplice condizione di mortale. Attraverso le vetrate, oltre le piste, oltre le tracce di civiltà, poteva vedere le luci della città. Dal loro febbrile tepore trasudavano immagini di vite anonime. Tutta quella gente, tutte quelle fonti di gioia, di lacrime e di morte. Il suo stomaco si contrasse; si sentiva prigioniero dell'angoscia tenace di un Amleto, un malessere sterile. Il cuore stretto nel petto, i sentimenti come prigionieri della solitudine di una sera in aeroporto. Brolin pensò a

tutto questo, e si disse che l'essenza autentica della lucidità umana è la tristezza. Salendo a bordo dell'aereo che lo avrebbe riportato nel suo habitat, si lasciò invadere dalla malinconia. Inutile combatterla. Respirò piano, l'occhio fisso sull'oblò. Vide un tecnico sulla pista allontanarsi dall'aereo, e si chiese come poteva essere la sua vita, quali fossero le sue lacerazioni interiori. Si volse, e osservò l'uomo anziano nella fila accanto. E lui, la sua vita, a cosa assomigliava? E quella della donna là in fondo? E di questa qui vicino? Quando l'aereo decollò, Brolin vide la terra scurirsi per l'arrivo della sera, l'orizzonte perfetto incappucciato dall'alone rosso del sole morente. Il suo smarrimento si attenuò un poco. Il pianeta parve tremare, per un istante, allo spegnersi dell'ultimo raggio purpureo. Poi la notte coprì interamente il paesaggio. RINGRAZIAMENTI Nella stesura di questo romanzo mi hanno aiutato parecchie persone, la mia famiglia, naturalmente, e i miei amici; ma anche Claire, le cui critiche hanno senz'altro risparmiato al lettore i miei eccessi. Claire mi ha spinto a rafforzare il realismo, e so che sarà ricompensata dei suoi sforzi solo il giorno in cui scriverò una bella storia d'amore. Ci sto pensando... Questo libro sarebbe diverso senza il contributo di Sébastien, la mia ombra a Brooklyn, che mi ha suggerito idee durante le nostre lunghe passeggiate in giro per la città e che è pronto a correre ogni rischio per scattare le foto dei nostri sopralluoghi. Grazie a te di esserci. Grazie anche a Frédéric, il mio lettore «modello», perché attraverso la ricchezza delle nostre conversazioni e la pertinenza delle sue osservazioni mi fa continuamente venire voglia di migliorare. A volte, nella vita, si incontrano individui particolari, che non si comportano come tatti gli altri, che sono eccezionali. Il mio editore è uno di questi: ha avuto fiducia in me, e tutti i suoi collaboratori mi incoraggiano con il loro lavoro straordinario. A voi tutti, grazie. Da ultimo, non mi sono dato la pena di sovraccaricare il romanzo con note a piè di pagina per segnalare le mie fonti, la maggior parte delle informazioni (in cifre o meno) in esso fornite sono vere... Al di là della finzione, è questo che più mi ha spaventato mentre scrivevo questo libro.

Maxime Chattam Edgecombe, 17 ottobre 2002 [email protected] FINE