In tante trasparenze. Il verme setaiuolo e altre scintille poetiche
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Giacomo Lubrano

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G ïâcom o L ib ra n o XNaJìpii. 1639-1693), gesui­ ta, eccelso predicatore in grado di sconvolgere ogni uditòrio con la drammatica intensità del suo stile «a la napolitanà», consegno alla più apparta­ ta pratica poetica in volgare e .in latino il compito di fu! minare quei concetti che riversava, «a volo erboh», dal pulpito. Attrav< eritorio di una tecnica che si potrebbe definire della giustapposizione di due ferm o-im m agine,(anam orlosi), Lubrano scopre cos?, nell'ìmpeto tor­ rentizio del tempo ?1 vaporare di «minutissime gócciole d'istanti -, e scorge nella materia già fatta esimale di esseri e fe r­ menti. Su questo sostrato instabile e scivoloso, vi­ vo di una vita perennemente in scadenza, Lubra. >one prr.N’ocatoriaiaerte le ■ renze». (riflèssi senza chi vi si rifletta, ovvero -si­ mulacri) con cui dal barocco in poi, fra le pieghe dello spettacolo che ria im bragato il mondò, si esercita il controllo sociale. L a presente antologia (60 son,-', ri trat ti dalie Scintille poetiche, accompa­ gnati da,due saggi dei curatóri) si prefigge di met-tere m contatto un pubblico non di sóli specialisti con l'opera di uno dei più intensi poeti italiani del Seicento.

158 ^ 88 - 85414 - 76-1

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Scansione a cura di Natjus, Ladri di Biblioteche

Giacomo Lubrano

In tante trasparenze Il verme setaiuolo e altre scintille poetiche

a cura di

Giancarlo Alfano e Gabriele Frasca

© 2002 Edizioni Cronopio Calata Trinità Maggiore, 4 - 80134 N apoli Tel./fax 0815518778 Progetto grafico di Andrea Branzi www.cronopio.it c-m ailxronopio@ blu.it

IS B N 88-85414-76-1 Finito (il stampare net mese di ottobre 2002 press'O hi Graficarte - Marano

Indice

N o ta ai testi

9

Scheda biografica

11

G iancarlo A lfan o, L ’eloquenza d e ll’im m agin e

15

M oralità tratte d alla considerazione d el Verme Setaiuolo

49

A ltre Scintille poetiche

85

G abriele F rasca, L ’angelica fa rfa lla f r a i riflessi

123

Indice dei son etti

175

... bastati due p assi alla memoria di G iorgio Fulco

N ota ai testi La trascrizione dei testi è stata effettuata dall’edizione del 1690 (Scintille poetiche o poesie sacre e m orali di Paolo Brinacio napole­ tano, N apoli, Dom enico A ntonio Parrino e Michele Luigi M uzii), confrontata con l’edizione curata da M arzio Pieri nel 1982 (che ha visto anche le due successive edizioni veneziane). Si sono natural­ mente accettate le correzioni (ma nel prim o e nel terzo caso si trat­ ta di varianti) presenti nell’ultima pagina dell’edizione napoletana (7 14: «e fallan le Credenze» in luogo di «e gelano le M enze»; 19 2: «schiude a tiepido Ciel alma» in luogo dell’erroneo «schiude a tie­ pido iel Calm a»; 42 11: «ronzar di m orta essenza», variante di «ronzare a lauta M enza»). Si è inoltre corretto l’ovvio refuso di 12 2 «Tinacria» in «Trinacria». N el trascrivere i testi si sono conserva­ te le maiuscole enfatiche, non soltanto per la vocazione iconica che hanno spesso le stampe del secolo, ma anche perché talvolta par­ rebbero segnalare, come nel caso ad es. di «M ori», uno speciale uso enfatico (quasi tropico) della parola, o una sua pregnanza morale. E stata rispettata, ogni qual volta l’unione avrebbe determinato un raddoppiam ento (c malgrado le oscillazioni), la divisione delle pre­ posizioni articolate, che negli altri casi (cs. de gli) sono state invece unite. Il gruppo ij, ii (talvolta semplicemente j) è stato sciolto in z, i, tranne quando segue nasale (es. Uranii). L’articolo g l’, dinanzi a vo­ cale diversa da i, si c norm alizzato in gli. Si e eliminata la h etim o­ logica. Si è invece intervenuti sulla punteggiatura, di m odo da ren­ dere più agevole seguire la frastagliata sintassi lubraniana. Solo quando necessario per l’intelligenza (del ritmo) del testo si sono in­ fine aggiunti segni diacritici (dieresi e accenti disam biguanti), e mai si è fatto ricorso alla dieresi quando misura sillabica e schema accentuativo potrebbero essere, fatta salva la loro regolarità, diversa­ 9

mente interpretati (ad esempio con una dialefe). I testi recano una doppia numerazione: la prima, in cifre arabe da 1 a 60, contrassegna la disposizione continuata dei componimenti nella presente edizio­ ne; la seconda, in cifre romane e tra parentesi, segue la disposizio­ ne dell’edizione Pieri. I rimandi ai testi lubraniani presenti nell’an­ tologia e nei saggi sono contrassegnati con due cifre arabe, la prima, in corsivo, indica il sonetto, la seconda, in tondo, il numero del ver­ so. I riferimenti ai sonetti non accolti in questo volume rimandano, in tondo, alla num erazione (in cifre romane) dell’edizione Pieri, mentre per le O di si adotta la numerazione (sempre in cifre rom a­ ne) presente già nella princeps e per le Composizioni per musica il ti­ tolo in corsivo (i versi, nell’uno come nell’altro caso, sono contrassegnati in tondo e in numeri arabi). Per l’intelligenza e la passione profusa, si ringraziano gli stu­ denti della Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Napoli Federico II che, nell’anno accademico 1999-2000, hanno preso parte ai lavori seminariali sulle opere di Giacom o Lubrano. Un ringraziam ento particolare va a Sergio Pinzi, che con una scintilla ha m esso in moto l’ordigno. Durante la correzione delle prime bozze (settembre 2002) ci è giunta notizia dell’imminente pubblicazione, presso l’editore La Finestra di Lavis (Trento), di una nuova edizione curata da M arzio Pieri delle Scintille poetiche (con un C D -rom comprendente le Pre­ diche quaresim ali di Lubrano). A tale volum e, dunque, rimandiamo il lettore appassionato. [G.A . e G.F.]

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Scheda biografica Giacom o Lubrano nasce a N apoli il 12 settembre del 1619. E n ­ trato a quindici anni nella Com pagnia di G esù, vi ebbe la form a­ zione culturale im prontata alla Ratio studìorum. Durante gli anni di noviziato egli ebbe anche, com ’era di norma per i gesuiti napoleta­ ni, il prim o tirocinio nei discorsi sacri, predicando al p op olo nelle vie e piazze della città. Il successo dovette essscre precoce, se già nel 1649 veniva indicato come uno dei principali predicatori della Com pagnia. N el 1651 pubblica l’orazione funebre Gem inatus fortunae triumpbus (che era stata tenuta dinanzi al Sacro Collegio Teologico napoletano), e due anni dopo il panegirico per il capitano dell’arti­ glieria del Regno di N apoli don D iego di Q uiroga y Faxardo (Il Tempio della Memoria), m ostrandosi così da sùbito in grado di te­ ner saldo il vincolo tra il potere amministrativo-militarc e il potere religioso. Partito verso la metà del decennio per la Calabria, dove restò anche per lo scoppio (1656) di una terribile epidemia di peste a N a ­ poli (che dim ezzò la popolazione della città), alla fine degli anni Cinquanta è di nuovo nel napoletano, tra M assalubrense e la capi­ tale, che diventa sua sede definitiva nel 1660. A partire da questa da­ ta, Lubrano si assenta da N apoli solo per brevi periodi, di solito d u ­ rante la Q uaresim a o a Pasqua, invitato a predicare in altre im por­ tanti piazze d ’Italia e a Malta. È quanto accade nel 1666, quando si reca a Palermo per tenervi l’orazione funebre in onore di Filippo IV, o nel 1675, quando predica il Quaresim ale a Venezia. Alla metà degli anni Settanta, come c’inform ano le lettere scambiate col letterato veneziano C ristoforo Ivanovich, si deve far tuttavia risalire il primo germinale declinare del successo di Lubra11

no: lo stile “ a la napolitana” , caratterizzato dalla ricca fioritura re­ torica e il prevalere delPornato sulla disposino degli argomenti, non incontra più lo stesso favore dei primi decenni del secolo. È l’epo­ ca dei Segneri e dei Bartoli che, pur rimanendo ben dentro la cultu­ ra barocca, privilegiano il prim ato della lettera della parola di D io e la subordinazione del com piacim ento virtuositico all’esaltazione del Signore. Lubrano si trova dunque a rappresentare il cam po di chi so ­ stiene che «a com pungere gli uditori vi vogliono acutezze di con­ cetti», subendo pertanto gli attacchi di chi sosteneva, come il gio­ vane cappuccino Francesco Maria Casini (giunto a N apoli su invi­ to del cardinale Caracciolo) c altri, la necessità di un nuovo stile, più piano e diretto. L a contrapposizione non era solo tra tendenze stilistiche, ma tra politiche religiose (da una parte i gesuiti, dall’al­ tro gli O rdini minori) e interessi territoriali (da parte delle famiglie patrizie, come per l’appunto quella dei Caracciolo, che da Rom a tentavano il controllo sui possedim enti italiani di una Spagna sem ­ pre più debole e isolata). L a durezza dello scontro propriamente re­ ligioso raggiunse l’acme nel 1680, quando Innocenzo X I pubblicò la decretale che ingiungeva l’abbandono dello stile «vano e accade­ m ico» per il ritorno alia pura lezione dei Vangeli. N ello stesso anno si ebbero anche le prime avvisaglie di una grave indisposizione fisica che avrebbe allontanato Lubrano defini­ tivamente dal pulpito: predicando infatti il 3 dicembre 1680 in on o­ re di s. Francesco Saverio egli accusò una «paralisia di lingua» che nemmeno i m aggiori medici del Viceregno riuscirono a curare. Il tracollo non dovette essere però repentino, se ancora nel 1686 pre­ dicava nell’im portante chiesa dei Gerolom ini a Napoli. Già in quegli anni, intanto, il fatto che il giovane Vico si rivol­ gesse a lui per un giudizio su certi suoi componimenti poetici di­ m ostra che alla fama di predicatore si andava affiancando quella di poeta. A parte poche attestazioni manoscritte depositate nei fondi bibliotecari lasciati dalle C ase Professe gesuitiche, dove si trova 12

qualche ulteriore testo databile alla metà del secolo, la sua p rod u ­ zione poetica italiana è tuttavia quasi per intero raccolta nelle Scin­ tille'poetiche, che, riordinate durante gli ultimi anni Ottanta, ap ­ parvero nel 1690, nello stesso anno in cui videro le stam pe i suoi componimenti latini, i Suaviludia M usarum ad Sebethi ripam. Un anno dopo Lubrano pubblica anche la più volta prom essa raccolta di panegirici, I l Cielo domenicano , mentre nel 1692 appare la prim a ristam pa veneziana delle Scintille (che avrà anche una terza «im ­ pressione», sempre a Venezia, nello stesso anno o, al più tardi, nei primi mesi del successivo). La morte lo colse il 23 ottobre del 1693, mentre ancora mette­ va ordine tra le carte che contenevano le trascrizioni dei suoi di­ scorsi sacri, pubblicati poi postum i col titolo di Prediche quaresi­

mali.

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G ian carlo A lfano

L’eloquenza dell'immagine Verbiete du dem Seidenw urm , zu spinnen, Wenn er sich schon dem Tode näher spinnt: D as köstichlc G ew eb* en tw ick elt er Aus seinem Innersten und läßt nicht ab, Bis er in seinen Sarg sich eingeschlossen O geb ’ ein guter G o tt uns auch dereinst D as Schicksal des beneidenswerten W urms, Im neuen Sonnental die Flügel rasch Und freudig zu enfalten! (G oethe, Torquato Tusso, V, in)*

Q uando nel 1690 si dccidc a riordinare e pubblicare, sia pure affidandolo alla paternità etcronoma di Paolo Brinacio, il non tro p ­ po cospicuo m anipolo di com ponim enti poetici cui era venuto at­ tendendo negli anni, Giacom o Lubrano è oramai prossim o alla morte, da cui verrà colto tre anni dopo. D a qualche tempo egli è co­ stretto a trascorrere il tem po in ozio forzato nella casa gesuitica di Chiaia, lontano da quel pulpito su cui, per decenni e in diverse chie­ se d ’Italia, aveva fatto sfoggio delle sue eccezionali doti di oratore sacro: Palermo, Venezia, Reggio Calabria, ovviamente N apoli; c qui nella Chiesa madre del G esù, al Carm ine e in Palazzo, innanzi alla m aggiore nobiltà del Vicereame nonché alla presenza dello stes­ so Viceré, dopo il dovuto apprendistato giovanile per le strade tur-

■ «N o n puoi vietare al baco da seta di filare / il filo che lo conduce a m or­ te. / Dal suo intimo ordisce / la preziosa tela e non l’abbandona / finché non si è chiuso dentro la sua bara. / C i perm ettesse un dio benigno / la sorte invidia­ bile del bruco: / aprire in una nuova valle di sole / le ali veloci e felici» (trad. di C . Lievi).

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bolente della capitale spagnola. Quelle doti eccezionali nulla aveva­ no potuto contro «una specie» di devastante «paralesia» da cui era stato colpito e che nemmeno il grande medico napoletano Tom m a­ so C ornelio (tra i capofila della nuova scienza ‘cartesiana’) era sta­ to in grado di guarire. Q uasi nulla avevano potuto, anzi, se, per quanto «rauco cantore orbo di denti», il predicatore gesuita era ri­ uscito, grazie alla lunga esperienza e alla grande forza di volontà, a im porre un tono e un ritmo alle labbra malferme, quel tanto alme­ no da provare a «far qualche predica». La sensazione come di sgo­ m ento per non poter più controllare il proprio fiato, l’esperienza del balbettio nel rimasticare la parola divina, dovettero essere ver­ tiginose più che dolorose per chi era stato considerato il campione di quella predicazione «a la napolitana» che del concettismo oltranzoso e dell’accumulazione m etaforica aveva fatto i suoi più vi­ stosi strumenti. «R o m ito», chiuso nella cella tra appunti, scartafacci, trascrizio­ ni de verbo dei suoi discorsi sacri, Lubrano, pur riluttante al para­ digm a um anistico della gloria letteraria1, si impegna allora a racco­ gliere le proprie opere, o forse meglio a fermare in iscritto il flut­ tuante materiale delle passate imprese oratorie, e a metter ordine tra gli erranti individui m anoscritti che conservavano le desultorie oc­ casioni poetiche: escludendo le avventure più lontane nel tempo, quei com ponim enti intorno ai naufragi (Pianto d ’un Capitan anne­ gato e N au fragio d ’Em anuel Sosa) che erano forse analogia troppo vistosa d ’una sua condizione soggettiva, e taluni testi che per qual­ che ragione dovevano apparirgli fuori squadra (i Lam enti quasi co­ evi a quei primi testi e i sonetti sui fuochi d ’artificio, per esempio);

' In questa chiave si posson o leggere gli spassosissim i sonetti dedicati alla Tarm a , causa di irrim ediabili danni ai volumi che contengono le opere dei gran­ di del p assato: «D el suo m inuto dente a noi s ’invola / lo spirto degl’ingegni» (cfr. i sonetti 40 e 41). Si tenga presente che C. O rtesta, Giacomo Lubrano: il tempo del verm e, in «P aragone / Letteratura», XXVIII (1 9 7 7 ), pp. 1 8 -2 7 , ha sostenuto che « l’attività del baco è sim bolo dell’operazione letteraria». C he è proprio quel che G oeth e aveva già fatto dire al suo Torquato Tasso. M a su questo cfr. V. Bonito, Il canto della crisalide. Poesia e orfanìt'a, Bologna, C L U É B , 19 9 9 , pp. 7 8 -8 8 .

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selezionando tra i temi quelli di m aggior successo nella coeva rim e­ ria napoletana (terremoti e pesti) o di più visibile significato p rop a­ gandistico dell’ordine dei gesuiti (in ispecie il martirio dei m issio­ nari e degli assistenti agli appcstati); am pliando e com pattando, in­ fine, la corona sonettistica m onotematica sul «verme setaiuolo» cui affidava il com pito di incipit collettivo dell’intera raccolta. Ben più che la peculiarità della scelta di principiare con una co ­ rona di sonetti, resta impressionante che dei com plessivi centoqua­ ranta testi com ponenti la prima sezione del libro (la seconda è de­ dicata alle O di , la terza alle Composizioni p er musica) ben trenta siano dedicati al baco, e che la pur non irrilevante tradizione ma­ noscritta (in gran parte risalente a una data precedente la stam pa) ne attesti solo la metà: il che vuole dire che, se addirittura non li ven­ ne com ponendo per la stampa, il predicatore a riposo forzato recu­ però l’intera sua produzione intorno al tema ‘verm inoso’ avendo di vista la pubblicazione di una raccolta, se non completa, almeno in qualche m odo unitaria, progettata come un organism o dalla strut­ tura chiaramente visibile. La scelta di inaugurare il volume all’inse­ gna di una tale com pattezza fu allora forse il frutto di una partico­ lare sintonia con l’argomento, ma certo almeno in parte dipese dal­ l’intenzione di costruire un ‘libro’ di versi di cui fossero denuncia­ ti sin dalla soglia liminare il tono com plessivo e la matrice ideolo­ gica. In quell ’incipit è infatti possibile individuare un segnale di con­ tinuità tra l’operazione poetica e la passata esperienza predicatoria, tanto più che sappiam o l’autore al lavoro, contemporaneamente, sulle poesie e su dì una raccolta di orazioni sacre, il Cielo domeni­ cano, che venne stam pata appena l’anno dopo, nel 1691. U na con­ tinuità che può essere individuata innanzi tutto nello svolgimento dell’argomento affrontato, se è vero che la predica, ogni predica cri­ stiana, indipendentemente dalla partizione interna degli argomenti, sviluppa il ragionamento teologico o morale a partire da un verset­ to biblico che viene pronunciato all’inizio con la funzione di atti­ vatore del discorso com plessivo: il versetto, pertanto, non viene so ­ lo commentato nel corso della predica, ma contribuisce a fornirne 17

l’orientamento argomentativo, il cam po semantico e metaforico nel quale verrà disponendosi, il tenore com plessivo da cui essa sarà so ­ stenuta. Il rapporto tra thema (come veniva chiamato il versetto) e predica risultava insom m a im prontato al modello retorico dc\Yam­ plificano, cioè appunto dell’ampliamento e variazione di un medesim o argom ento2. Se nella predicazione è il testo biblico, nel libro lubraniano e il «verme setaiuolo» a fornire il them a , il quale viene poi sviluppato nei successivi trenta sonetti, che è proprio, del resto, quanto dichiarato apertamente nel titolo della corona: «M oralità tratte dalla considerazione del Verme Setaiuolo». E però, se il rap­ porto tra thema e svolgim ento è il medesimo nei due registri d i­ scorsivi, poetico e predicatorio, anche l’impianto concettuale e il si­ stema form ale dovranno risultare imparentati, congiunti in un me­ desim o orizzonte retorico3. D ’altra parte, oltre a un parallelo con la ‘nuova’ costruzione musicale della fuga ‘a canone’, è proprio dalla teoria retorica che traiam o la definizione tecnica di questo procedimento. Emanuele

- Se nella predicazione medioevale è privilegiata una lucida e rigorosa strut­ tura argom entativa che consiste nella suddivisione dei significati del them a in un’ordinata serie di partitiones, a partire dalla seconda metà del C inquecento si deve constatare il prim ato della elocutio > ovvero della ricerca stilistica e figurale. Per u n’analisi m inuziosa dei procedim enti retorici nella predicazione cinque-se­ centesca, cfr. G . Pozzi, Saggio sullo stile deWoratoria sacra del Seicento esempli­ ficata sul padre Em m anuele O rchi , Rom a, Istituto Storico dell’O rdine dei Fra­ ti M inori C appuccini, 1954. L . B olzon i, O ratoria e prediche^ in Letteratura Ita­ lian a , vol. 111/2, Le form e del testo. L a prosa , Torino, Einaudi, 1984 (pp. 10411074) fornisce un efficace quadro sintetico della storia della predicazione tra Tre e Settecento, insistendo opportunam ente sulla natura spettacolare della predica, sul fatto cioè che essa è un evento legato a uno spazio e a un tem po circoscritti e proprio per questo saturi di significati culturali (su questo cfr. anche Ead., L a rete delle im m agini. Predicazione in volgare dalle origini a Bernardino da Siena , Torino, E inaudi, 2002), 3 «Il son etto», è stato giustam ente osservato, «vale una predica in cifra, un’etica in nuce, una enciclopedia in com pendio» (cfr. M. Pieri, introduzione a G. L u bran o, Scintille poetiche , Ravenna, L on go E ditore, 1982, pp. 22-23). A ri­ scontro si confrontino i seguenti titoli lubraniani: L a Voglia sm oderata di com­ parire distrugge la sostanza d e ’ Patrim om i; L a voglia di sfoggiare negli abiti im ­ poverisce le case. Il prim o è il titolo di una delle prediche quaresim ali pubblica­ te postum e, il secondo, il titolo del sonetto 7 della presente raccolta.

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Tcsauro dedica infatti all’interno del Cannocchiale aristotelico un Trattato d e ’ concetti predicabili, dove spiega che il concetto in que­ stione «è un’arguzia leggiermente accennata dall’ingegno divino, leggiadramente svelata dall’ingegno um ano e rifermata con l’au to­ rità di alcun sacro scrittore», precisando inoltre che esso è «u n ’ar­ gutezza concettosa, cioc un argomento ingegnosam ente provante una proposizione di materia sacra e persuasibile al p op olo il cui m ezzo termine sia fondato in m etafora»4. Risulta evidente insom ­ ma che per il teorico, già gesuita, piemontese, il concetto predicabi­ le è una sentenza morale suscettibile di declinazione teologica, così da rendere com prensibile il m essaggio divino altrimenti solo ‘ac­ cennato’ . N el Trattato viene anche fornita la genealogia di queste nuove risorse comunicative, o merci come opportunam ente volge in metafora lo stesso Tesauro, che, inventate in Spagna, «di colà pri­ mieramente sbarcarono in N apoli; onde in Italia, che ancor non le conosceva, fur chiamate concetti napolitani». L a diffusione della nuova tecnica ebbe dunque il proprio epicentro in quella N apo li che Cervantes poteva lodare come «la mas hermosa ciudad de Espaiìa»: ed è evidente che di essa fecero largo uso i sacerdoti m e­ ridionali, paladini di un nuovo stile di predicazione, lo «stile fiori­ to», che per qualche decennio ebbe grande successo in tutta Italia, almeno fino a quando, nel 1680 (ma a N apoli il conflitto tra le scuo­ le si era già aperto trentacinque anni prima), una bolla di papa In­ nocenzo X I ingiunse ai predicatori di tornare all’ortodossia espres­ siva. Lubrano era certo tra i paladini di quello stile, se all’amico C ristoforo Ivanovich poteva scrivere che «per com punger gli u d i­ tori vi vogliono acutezza di concetti»; o forse si dovrebbe dire: ne

4 Si cita il testo dalla silloge dei Trattatisti e n arratori del Seicento curata da E. Raim ondi, M ilan o-N apoli, Ricciardi, 1960, p. 102; per la citazione su ccessi­ va cfr. ivi, p. 105. NeH’introdurre una sua recente antologia del Cannocchiale aristotelico , Yves H ersant, recuperando la riflessione di E rnesto G rassi sul si­ gnificato della m etafora, ha afferm ato che Tesauro supera A ristotele, giacché per l’autore del X V I I secolo «ne s ’agit plus de “ percevoir des sim ilitu des”, mais de produire des effets de sens»: cfr. Un jeu sérieux, in Y. H ersant (a cura di), L a m é­ taphore baroque. D ’Aristote à Tesauro , Paris, Seuil, 2001, p. 23.

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fu addirittura un caposcuola, se veniva fatto oggetto di satira in un com ponim ento anonimo contro gli estremismi predicatori; e anzi ancora meglio: un potente caposcuola, se, a dispetto della bolla, proprio nel 1680 potè predicare nella Cappella di Palazzo, ovvero innanzi alle massime autorità politiche5. Il tema del baco da seta va dunque considerato alla stregua di un concetto predicabile, in quanto esso fornisce elementi concet­ tuali applicabili a realtà e verità molteplici: come infatti accade nel­ la corona di sonetti, nella quale il baco viene utilizzato come em ­ blema ora dell’industriosità ora dell’inutile sfarzo, ora viene con­ tem plato nella sua m iracolosa resurrezione primaverile dal letargo, ora ridotto a effigie dell’avarizia, sì da rivelarsi, come recita il tito­ lo del sonetto quattordicesim o, «un enimma di naturali prod igi»6. Se però l’ ipotesi appena form ulata è corretta, se cioè il «verm e» co­ stituisce un “ concetto predicabile”, risulta allora chiaro che il the­ m a di quelle particolari ‘prediche’ in versi che sono i primi trenta sonetti qui presentati agisce sia come m etafora comune delle diver­ se realtà e verità illustrate, sia come immagine leggibile in traspa­ renza dietro quelle realtà e verità molteplici. In altri termini, esso assum e il ruolo di collante retorico della corona, essendone nel contem po il suo supporto discorsivo, il “ sale” con cui viene condi­ to il cibo spirituale7.

5 L e inform azioni biografiche, e la citazione dalla lettera allTvanovich, si traggono da C . Sensi, Giacom o Lubrano: contributi per una biografia, in «Italianistica», v (1976), pp. 238-259. h M arzio Pieri ha osservato che se «nei “ m arinism o” una linea portante era stata quella della “ predicazione multipla della d on n a” », come spiegò Giovanni G etto, nelle raccolta lubraniana viene realizzata una «predicazione multipla del­ l’illu sio n e» (cfr. Introduzione, cit., p. 24). 7 Per questa m etafora “ salina” , cfr. Bernardino G om ez de M iedes, Com m entariorum de sale libri quinque, editio secunda, Valentiae. E x O fficina Petri H uete, 1579. In una sua predica, Lubrano avrebbe proprio lam entato la para­ dossale accusa di m ancanza di sale lanciata dagli «appestati N ovatori» alle Sacre Scritture: « L a sola parola di D io sa di cibo ricotto, d’insipido» (Cfr. L a Treno­ dia della Tede, in G . L u bran o, Prediche quaresim ali postum e del P. Giacom o L u ­ ti r ani della C om pagn ia di Giesu [.../, in N apoli, MDCCII, N ella Stam pa di G ia­ com o Raillard, p. 61.

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Proviamo a prendere un testo predicatorio, anzi la diceria sacra di un autore laico dell’inizio del secolo: Benedicavi per sempre la mano eterna, lodinvi per sempre le lingue mortali, creature belle, primogeniti di Dio, virtù sublimi, spiritelli lievi, intelletti ignudi, menti separate, fiamme lucide, folgore ardenti, stelle dell’Empireo, lampe del tempio felice, lu­ cerne della scena beata, colonne del palagio immortale, gigli del giardino celeste, specchi dell’increato Sole, Api del sempiterno Aprile, Cigni ed Usignuoli della uccelliera del Paradiso, Sirene e Muse della musica superna, Pirali c Salamandre del divino amore, scudieri e cavalieri della corte celestiale, sentinelle e spie della sante operazioni, araldi ed ambasciatori degli affari del­ l’Altissimo, paraninfi ed imenei tra Dio e l’uomo, guerrieri e campioni dell’essercito onnipotente, cittadini eletti della celeste Gerusalemme, Prencipi illustrissimi della luce, solleciti tutori e custodi degli uomini, vigilanti guardiani e difensori de’ Regni e de’ Regi, amatori della pace, rappresentatori delle visioni, libe­ ratori degli oppressi... Si tratta di Giovanbattista Marino, L a Pittura, Diceria prim a sopra la Santa Sindone , pubblicata nel 1614 insieme ad altre tre D i­ cerie sacre, per le quali il Cavaliere confidava in un discreto succes­ so, «sì per la novità e bizzarria della invenzione, poiché ciascun di­ scorso contiene una metafora sola, sì per la vivezza dello stile e per la maniera del concettare sp iritoso»8. In realtà, com e ebbe a spiega­ re Giovanni Pozzi, l’espediente della m etafora unica per reggere l’intero discorso predicatorio era già stato utilizzato negli ultimi decenni del secolo precedente dal Panigarola e in anni più vicini da] napoletano Capaccio, ma certo Vexploit del M arino contribuì a p o ­ tenziare il gusto per una tale tendenza espressiva. Il brano riporta­ to sopra è la parte iniziale di un encom io degli angeli su cui l’au to­ re si diffonde ancora oltre per una porzione di testo almeno altret­ tanto lunga: più che la lunghezza, è però interessante osservare il

8 Cfr. G . B. M arino, Dicerie sacre e L a Strage de g l’innocenti, a cura di G . Pozzi, Torino, Einaudi, 1960, p. 131. L a citazione è tratta dalla lettera a G uidubaldo Benam ati, in G .B . M arino, Lettere, a cura di M . Gugliclm inetti, Torino 1966, p . 167

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procedim ento linguistico che vi è attivo, in virtù del quale il lesse­ ma ‘angeli’ resta taciuto e sostituito da serie appositive sintattica­ mente parallele. Più precisamente, lo schema fisso testa-modificatore9 viene variato per le prime tre serie, passando dal più semplice sintagm a form ato da “ sostantivo + aggettivo” a quello “ sostantivo + com plem ento di specificazione” e infine a quello “ coppia sinoni­ mica + com plem ento di specificazione”, con un evidente incremen­ to nella dimensione del sintagma stesso, nonché con un incremen­ to numerico dei membri per ogni serie (da sci a otto). In questo m o­ do, se il contenuto angeologico risulta am plificato, esso viene anche come diffratto nelle espressioni che lo qualificano, anzi quasi sosti­ tuito dal catalogo dei realia, vólto in caleidoscopio metaforico. Vi è così nel testo mariniano, come ha spiegato ancora Giovanni Pozzi, un rovesciam ento rispetto all’im piego medioevale del materiale al­ legorico: lì «im portava la verità religiosa da esporre mediante delle convenzioni cifrate tratte a fine pedagogico dalle cose m ondane», qui invece «sulle trafile allegoriche [viene confezionata] una m o­ dellistica non di verità predicando' vestite di metafora, ma di meta­ fore occasionate da materia predicabile: non modellando il traslato nella matrice del dogm a, ma organizzando un apparato di propor­ zioni tra il prim um del traslato e il secundum del predicabile»10. Un simile procedim ento ci interessa soprattutto per quanto ri­ guarda il funzionam ento della metafora barocca, la quale, proprio perché oltranzosa, continuata, spesso demoltiplicata e pertanto ba­ sata su un progressivo scollamento tra figurato e figurante, tuttavia, in virtù di quella «richiesta di socialità della parola poetica» fonda­ tiva della cultura b arocca'1, richiede poi la presenza ben chiaramen­

9 Per questa term inologia, efr. P. H. M atthews, Sintassi [1981 j, Bologna, Il M ulino, 1982. 10 G . P ozzi, Introduzione alle « Dicerie Sacre », in G .B . M arino, Dicerie sa­ cre , cit., p. 34. 11 P. Frare, Contro la m etafora. Antitesi e m etafora nella prassi c nella teo­ ria letteraria d el Seicento , in «Studi secenteschi», XXX l li (1992), p. 17. D ello stes­ so si legga anche, per l’im portante discorso sulla figura retorica dell’antitesi, Il “ Cannocchiale aristotelico": da retorica della letteratura a letteratura della reto-

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te visibile, all’interno della serie figurante, del tenor , ovvero del fi­ gurato, se non addirittura la sua esposizione in apice, per esempio nel titolo. I trenta sonetti lubraniani dedicati esplicitamente al «Ver­ me Setaiuolo» declinano così la figura emblematica prescelta nella sua varia predicabilità, facendo però salva la leggibilità del testo, non solo grazie al titolo com plessivo, che precisa l’argomento comune, ma anche ai titoli di ciascun sonetto, il cui com pito e appunto di chiarire la singola predicazione attivata in ogni individuo poetico. 11 parallelo formale, tra predica e concetto da un lato e testo poetico e metafora dall’altro, risulta ancora più evidente quando si accetti, con Pierantonio Frare, la definizione di metafora barocca come di un sistema basato principalmente sulla costruzione di si­ stemi simmetrici e più precisamente sull’antitesi, giacché «i rela­ ta antitetici si situano ai due estremi opposti di un asse di significa­ to, incarnando così al meglio il progetto barocco - relativo alla m e­ tafora - della massima distanza tra gli oggetti convocati»12. Indi­ pendentemente dalla perdita di profondità teologica derivante dal­ lo scatenamento metaforico, la proporzionalità tra il traslato e il predicabile, potenziata nel progressivo allontanamento di figurante e figurato di cui parlava già padre Pozzi, potrebbe essere conside­ rato un fenomeno analogo a quello sviluppo per orchestrazioni bi­ membri incentrate sull’antitesi, che è agevole individuare nella teo­ ria e nella prassi poetica barocche. C laudio Sensi ha del resto osser­ vato che «la bimem brazione è lo schema favorito del Lubrano per concentrare la carica metaforica; anzi, alcune sue com posizioni ten­ dono strutturalmente a risolversi nella giustapposizione di endeca­ sillabi bimembri contenenti esclusivamente sostantivi e aggettivi,

rica, in «Studi secenteschi», XXXII (1 9 9 1 ) . Interessante al riguardo anche M. Za nardi, L a m etafora e la sua dinam ica di significazione nel “ Cannocchiale aristo­ telico" di Em anuele Tesauro , in «G iornale storico della Letteratura italiana», XCVHI (1 9 8 0 ) , p p . 3 2 1 - 3 6 8 .

12 P. Frare, C ontro la m etafora, cit., p. 18. Si rivela qui l’aspetto squ isita­ mente form ale di quella duplicità costitutiva della cultura barocca, sulla quale spunti interessanti si p o sson o trarre anche da G. Lam arche-Vadel, D e la dupli­ cité. Les figu res du secret au X V Ile siècle, Paris, L a Différence, 1 9 94.

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con l’estrom issione di ogni voce verbale»13. Il tema della corona, svolto nelle diverse polarizzazioni dei membri antitetici volta a vol­ ta declinati sulla rete concettuale di ciascun sonetto, viene così p o ­ tenziato nella dem oltiplicazione delle occorrenze, e nel contem po finisce col perdere forza concreta a vantaggio della sua predicabilità. C om e già era accaduto per l’opera di Giovanbattista Marino, in­ som m a, «non tanto la varietà delle cose, quanto la varietà dei pre­ dicati delle c o se »14 dom ina la scrittura lubraniana. E evidente, tuttavia, che nel caso del predicatore gesuita non si assiste alla medesima perdita di valore emblematico e di significato teologico ravvisabile invece nell’opera mariniana, e ciò non solo per le ovvie differenze nelle com petenze “ professionali” dei due auto­ ri, ma soprattutto per il meditato lavorìo costruttivo cui Lubrano sottopose lo sparso materiale poetico sì da poterlo racchiudere in un libro coerente. Un aneddoto filologico rende chiaro lo sforzo di elaborazione unitario realizzato dal gesuita ncll’allestire il suo v o ­ lume. Piero Pieretti ha illustrato il caso del m anoscritto 482 della Biblioteca Governativa di Lucca, contenente tre odi del nostro au­ tore: esse «stanno in un gruppo di 4 carte ripiegate [...]; 2 carte ri­ piegate insieme contengono l’ode sulle Spine, le altre, ripiegate cia­ scuna a sé, contengono I Fiori e L a Cometa-, queste ultime carte in­ serite nelle prime interrom pono quindi a metà Le Spine, che nella prim a parte sem bra anonima, e nella seconda, che comincia con “ ami della foresta” , appare senza titolo». C om e mài - ci si deve chiedere - colui che legò insieme le quattro carte non si accorse dei confini tra i testi? «Q uesto è potuto accadere perche non c’è filo narrativo che poteva far riconoscere individualmente questi com ­ ponimenti, e le immagini dei Fiori potevano essere fraintese come appartenenti alle Spin e»15. Ovviamente, padre Lubrano non poteva

13 C . Sensi, L ’ ”arcim on do" della parola. Sag g i su Giacom o Lubrano, P ado­ va, Liviana, 1983, p. 58. 14 G . P o zzi, Introduzione alle «D icerie Sacre », cit., p. 63. 15 P. Pieretti, Testi inediti di G iacom o Lubrano, in «Studi secenteschi», X (1969), pp. 289-300, p. 295. I «testi inediti» son o stati poi pubblicati in C . Sen­ si, L ’“arcim ondo ” della p aro la, cit.

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sapere del fraintendimento del copista lucchese, ne questi avrebbe potuto ricorrere all’autore qualora avesse avuto dei dubbi rispetto all’ordinamento in successione dei com ponim enti, come invece sa­ rà potuto accadere al proto in occasione del m ontaggio dei piombi per la stam pa napoletana; e tuttavia l’aneddoto sem bra fornire un esempio abbastanza chiaro di quale doveva essere la situazione te­ stuale - nel senso di ‘progetto letterario’ non di ‘certezza della let­ tera’ - precedente il definitivo intervento sistematore, allorché l’au ­ tore pensò per la prima volta a qualcosa di simile a un indice del vo ­ lume. U n ’ipotesi plausibile sul senso dell’apertura del libro con la co ­ rona dedicata al baco da seta può dunque essere avanzata, soste­ nendo che essa avrebbe dovuto fornire una prospettiva di ordine per l’intera raccolta: un ordine certo non progressivo, non sintag­ matico, di svolgimento narrativo dei singoli pezzi, ma verticale, ov­ vero paradigm atico, di integrazione di quei pezzi in un com une si­ gnificato superiore. Sistem ando sotto il cartiglio del verme il non ristretto m anipolo di individui poetici, Lubrano pensava di realiz­ zare un’organizzazione che fosse strategica per il senso com plessi­ vo, nonché vettoriale per il m odo in cui leggere l’opera nella sua in­ terezza. U n ’organizzazione la cui logica interna risiedeva nella fi­ gura dell’antitesi. Proviamo allora a leggere nel concreto dei testi il sistem a che rende om ogeneo il piano dell’immagine e della produzione di sen­ so. C om inciam o dal sonetto proemiale, dove il poeta dichiara il suo rifiuto di dedicarsi alla poesia epica, avente come oggetto le batta­ glie (vv.1-4) o l’amore (vv. 5-6), cui contrappone una poesia del ve­ ro all’insegna della moralità (vv. 7-8). Egli dichiara inoltre di riusci­ re a im m obilizzare le ore instabili grazie alla scrittura (che è quan­ to lamentare l’inattività senile del poeta costretto al tavolo scritto­ rio anziché potersi slanciare dal pulpito), svegliando spiriti celesti per una poesia, non bellicosa, ma «inerm e» (vv. 9-11). O ram ai vec­ chio, dunque, egli desidera che i suoi primi testi siano intessuti da quel verme industrioso che va fam oso per il suo bozzolo. 25

Le quartine sono suddivise in due couplets, di cui il secondo si collega al precedente sviluppandolo e precisandolo, o meglio com ­ pattandolo e poi invertendolo. La prima terzina dilata poi il m oti­ vo della moralità, proponendo l’opposizione tra il suono della lira erotica (Erato) e quello della poesia morale (il Plettro inerme): si tratta di una delle poche risorse lasciate a chi è oramai vecchio, che trova la sua ragione in un’ispirazione celeste {uranio), la quale con­ sente di fermare (im balsam are) e insieme addolcire ( balsam o) il passare del tem po. La seconda terzina chiarisce ulteriormente l’o g­ getto poetico, associandolo in m odo ancor più stretto al motivo del tem po che passa: la poesia tratterà di quell’insetto che può vantarsi delle sue spoglie. Il sistema della bimem brazione - e del principio dell’antitesi, da cui è retto - può esser seguito con maggior dettaglio attraverso una breve analisi delle strutture sintattiche e metaforiche attive nel com ­ ponimento. Il prim o periodo è infatti costituito da una consecutiva negativa («N o n ... sì... che»), in virtù della quale si verifica il pas­ saggio dallo strumento poetico (la «trom ba») all’oggetto poetato (il suono delle armi). Il secondo dilata il contenuto dei primi due versi e specifica la ragione della negativa incipitaria, giacché l’azione lì ne­ gata si rivela un’operazione delittuosa, colpevole in quanto esalta­ zione della crudeltà umana. L’ultimo verso della quartina e infine una m etafora che restituisce in form a preziosa la stereotipa formula metaforica del “ mare di sangue” . C on un m edesim o tipo di m etafora si apre la seconda quartina, la quale presenta la trasfigurazione di un’espressione metaforica b a­ nale, quale “ infiammare la fantasia” o qualcosa di simile. L a strut­ tura sintattica del prim o periodo di questa quartina ricalca esatta­ mente la struttura del periodo corrispondente della quartina prece­ dente («N o n ... sì... che»), salvo che presenta una diversa disposi­ zione degli elementi grammaticali. Il parallelismo è tuttavia raffor­ zato dalla ribadita occorrenza all’inizio del secondo verso della congiunzione ‘che’, nonché dalla presenza di un toponim o (qui ag­ gettivo, «Idalie», anziché sostantivo: «Pindo»); la corrispondenza con variatio viene arricchita dalla desinenza “- i ” delle due voci ver­ 26

bali, di terza (v. 2) e di prim a persona (v. 6), nonché dal chiasmo m orfologico per cui al passaggio dalla prim a alla terza persona dei vv. 1 e 2 segue l’inverso passaggio dalla terza alla prim a dei vv. 5 e 6. Le «m enzogne» del v. 6 corrispondono infine al «suon de l’armi» del v. 2, c tale corrispondenza stabilisce il parallelo tra i soggetti «Trom ba» (v. 1) ed «E stro insano» (v. 5), ai quali si oppone ad aper­ tura del v. 7 la «Saggia M oralità», soggetto della ‘dettatura’ dei testi poetici e come tale prolettico rispetto all’aggettivo «Febei» della terzina successiva (in quanto A pollo-Febo detta i versi della poesia più eccelsa). L’embricatura progressiva dei termini viene sigillata dal verso conclusivo dell’ottetto proem iale, che contiene una d o p ­ pia apposizione del precedente soggetto, una positiva (A qu ila ) e una negativa («n on ... Farfalla»), ulteriormente marcata dalla pola­ rizzazione Vero/Vano (M oralità vs. armi e amore) che si ripercuo­ te sui sostantivi con valore di apposizione: l’A quila è del resto in^ segna di A pollo, quindi della Saggia M oralità, ovvero del soggetto poetante (sia pure solo “ v aso ” della divinità che ispira), mentre la Farfalla è prolettico della definizione dell’oggetto che seguirà nelle terzine. L a prima terzina avvia il processo di chiusura della significa­ zione attraverso una serie di riprese e contrazioni di sintagmi pre­ cedenti. Febei sta per “ di F e b o ” e dunque, si è visto, per Saggia M o ­ ralità; «spirti» del v. 11 richiama l’ «E stro» del v. 5, mente «U ranii» si ricollega a «Febei», e «Plettro» rimanda a «E rato», dea che pre­ siede alla lirica. La strofe è costituita da un unico periodo sintatti­ co, cui le riprese semantiche conferiscono struttura circolare (Febei-Uranii, inchiostri-Plettro): all’interno di esso si svolge una so r­ ta di cronomachia per cui gli inchiostri, in virtù della lira, o, alla let­ tera, in virtù del «Plettro», im m obilizzano gli istanti (i minuti se­ condi) alle ore ammalaticce, ovvero leniscono le infinitesime parti delle ore che non si fermano mai. Che è poi l’esito dell’operosa inattività senile. L a seconda terzina è anch’essa costituita da un unico periodo, di struttura leggermente più com plessa della precedente per la pre­ senza di un’oggettiva e di una frase relativa, ma saldamente costrui­ 27

to in virtù della disposizione di ciascun verbo in un verso a se stan­ te (secondo la serie gerarchica che vede susseguirsi: una principale; una subordinata di prim o grado; una subordinata di secondo gra­ do). Il prim o verso di quest’ultima strofa riprende, contraendoli, i vv. 9-10 («vicino al m orir» = « l’ore inferme», “ gl’istanti”; i «mici canti» = «inchiostri Febei», ovvero «o zio senile»). Il v. 13, attraver­ so il termine «corde», recupera dall’ultim o verso della terzina pre­ cedente il riferimento allo strum ento della poesia e pertanto (per l’insieme sem antico in esso esplicitato) l’opposizione alla m usa liri­ ca ricordata al v. 2. Ma quelle corde sono il com plem ento oggetto di un verbo il cui soggetto è il «Verme», ovverosia l’oggetto della com posizione e della collana di sonetti tutta. I «canti» sono così le «corde» tessute dal baco, cioè il bozzolo dentro cui esso è chiuso. I «canti» sono allora fatti della stessa stoffa di cui si canta nella serie verm inosa iniziale, e l’oggetto si muta nel soggetto della poesia. C iò appare conferm ato dall’ultim o verso, la cui disposino chiastica («tom ba sua ... suoi vanti») mette in risalto a fine verso, e al termi­ ne del com ponim ento, il lemma vanti che sembra rimandare all’al­ trettanto finale (fine delle due quartine) vano : mentre quest’ultimo è collegato alla F arfalla , cioè allo stadio conclusivo della trasform a­ zione del bom bice, quello lo era al Verme, cioè allo stadio iniziale di tale m etam orfosi. La tom ba, cioè il bozzolo del baco, quasi om o­ fono del prim o lemma del sonetto, tromba, sembra infine rinchiu­ dere l’ intero com ponim ento dentro una Ringkomposition che strin­ ge la negazione iniziale e l’asserzione conclusiva in un’apoteosi del­ la trom ba della resurrezione. La serie delle metafore intrecciate per m ezzo di richiami, parallelismi, contrazioni e dilatazioni sintattiche risulta così retta da una doppia antitesi che si trasform a in identità: farfalla (vano) vs. verme (vanto) e trom ba vs. tomba. La peritosa concertazione linguistica e la dislocazione retorica sulla figura cardinale dell’antitesi dell’individuo proemiale, che reg­ ge tutto il com plesso im pianto metaforico ed emblematico squa­ dernato nei successivi trenta individui poetici, compattati come una variazione sulla predicabilità del «verme setaiuolo», rivela pertanto il proprio carattere strategico di apertura al libro nel suo com ples­ 28

so, così che il proemio fornisce lo schema concettuale incipitario di tutta l’opera, nonché il suo modello esistenziale. Il prim o sonetto, e per estensione la corona di sonetti nel suo com plesso, si presenta davvero come una breve predica poetica sul noto versetto memen­ to, quia pulvis es, versetto che costituisce il thema, ovvero, dal pun­ to di vista delle figure dominanti, il tenor delle Scintille poetiche tut­ te16. Sorta all’interno di una cultura conservatrice, urbana, m asiva e dingida, di m assa e diretta, com ’è quella barocca, l’operazione lubraniana non può d ’altra parte non avere un risvolto direttamente orientato sulla società. La parabola morale della m editazione sulla morte e l’esercizio gesuitico della costruzione di uno spazio men­ tale (per il quale vengono mobilitate le risorse retoriche più diret­ tamente vòlte allo scatenamento delle forze psichiche) converge­ ranno in tal m odo verso l’indottrinamento delle classi sociali, river­ sando il com plessivo apparato immaginifico e concettuale su una sfera che va oltre la chiusa camera della coscienza, sì da recuperare la viva esperienza sociale e politica di ognuno. Teologia e pedago­ gia sociale si avvalgono d ’altra parte di quegli strumenti espressivi che abbiamo appena avuto m odo di individuare17. N e fa fede una lettura ravvicinata del quarto individuo della se­ rie, intitolato Si assonna per poco tempo, e m uta le prim e spoglie, dove possiam o riconoscere un meccanismo com unicativo per nulla

16 Tale schem a è peraltro realizzato, per così dire en abym e, dallo stesso Lubrano nel sonetto 19, dove il consueto titolo esplicativo viene sostitu ito da un versetto tratto da Isaia (N oli tim erc verm is Jac o b ), e, in form a meno ortod ossa, nei due sonetti conclusivi (29 e 30), che costituiscono lo svolgim ento di due ci­ tazioni tratte addirittura da autori pagani quali Plinio il Vecchio c Tacito. 17 Jo se A ntonio M aravall, L a cultura del Barocco. A nalisi di una struttura storica [1975], Bologna, Il M ulino, 1999. Per YO rtodossìa d ell’im m agine (e la politica a essa sottintesa) cfr. Roland Barthes, Loyola, in Sad e , Fourier, Loyola. L a scrittura come eccesso, Torino, Einaudi 1977, nonché quanto osservato qui da Gabriele Frasca. Per l’estensione al cam po cittadino di quanto qui emerge rin­ vio a G . Alfano, Per dolore rum ando, Introduzione a G . A lfano, M. Barbato, A. M azzocchi (a cura di), Tre catastrofi. E ruzioni , rivolta e peste nella poesia del Seicento napoletano, N ap oli, C ron o pio, 2000.

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dissim ile rispetto a quello attivato nel prim o componimento. Vi vengono illustrati il letargo e il risveglio del baco da seta, le cui fasi fisiologiche («m eccanico» vale appunto fisiologico, secondo l’indi­ cazione di M arzio Pieri)18 sono interpretate in chiave morale. La giustapposizione nel prim o verso di due cola sinonimici, armonicamente distribuiti sui due emistichi («Breve sonno, meccanico risto­ ro»), contiene già il significato com plessivo del prim o couplet di versi: anzi di tutta la prim a quartina, se il v. 3 non aggiunge che il luogo del letargo e il v. 4 suggerisce un parallelo tra l’industriosità del verme, apparentemente interrotta nell’abbraccio vegetale («ve­ geto sen») delle foglie irrorate di sole, e l’attività del santo interrot­ ta dai momenti estatici. N ella seconda quartina vengono, come al solito, sviluppati i motivi dei prim i quattro versi: secondo la con­ sueta partizione bimembre della strofe, il baco viene dapprim a pre­ sentato mentre sogna il lavoro da farsi, poi al momento del suo ri­ sveglio, allorché si appresta a mutare di spoglie, cioè a rivestirsi del b ozzolo serico. Il poeta dichiara in termini espliciti nella strofe suc­ cessiva com e l’apparente pausa dall’attività risulti null’altro che un differente momento di una medesima operosità. Più precisamente, la prima terzina risulta serrata tra un epifonema a carattere gnom i­ co e una sentenza esplicitamente sapienziale, attraverso le quali vie­ ne recuperato il carattere naturale della m iracolosa trasformazione del baco; mentre la seconda quartina amplifica la sentenza del v. 11, bilanciandosi tra due relative coordinate, dove si disloca la defini­ zione del neghittoso, e la principale in fine di com ponim ento, dove viene presentata l’inanità della sua azione. La strofe bimembre è tutta costruita su un sistema di progres­ siva am plificazione della scenetta georgica, la quale subisce però in coda un’accelerazione, in virtù dello scatto analogico fornito dalla m etafora, qui del più classico tipo ‘di proporzione’, secondo cui “ sogno: verme = estasi: san to” . Le estasi verminose saranno dunque semplicemente i sogni, come si evince dall’csplicito gerundio del

18 Cfr. G iaco m o Lubrano, Scintille poetiche , cit. p. 167.

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verso successivo, laddove tale dimensione onirica è però ricca di contenuto, proprio come, sul piano del figurante, lo è l’estasi del santo. O ccorre tuttavia notare che il figurato di questa m etafora e a sua volta un figurante, in quanto ‘sogn i’ è l ’analogon um ano del le­ targo; il figurante secondo, ‘estasi’, segnala pertanto il passaggio del discorso dall’iniziale, e letterale, ambito animale a quello umano: il che vuol dire che il processo metaforico, altro che allontanare la si­ gnificazione dal contenuto morale, li avvicina, sino a rendere ine­ quivoca la com prensione del com ponim ento. L a bipartizione della seconda quartina ha inoltre il com pito di avvicinare i due momenti cronologicam ente successivi, ovvero il ri­ poso e il risveglio, oggetto poetico del sonetto. L o stretto rap p or­ to tra le due fasi fisiologiche (il cui arco sem antico si poggia , an­ cora una volta, sulla figura concettuale deU’antitesi) è rafforzato dal ‘meditare’ del v. 5, che indica l’ininterrotta industriosità del baco, dedito al lavoro anche mentre siede, quando cioè è in letargo La se­ conda parte della strofe, in virtù dell’arcilessem a ‘o ro ’, ricollega in­ fine questo sonetto ai due precedenti, tanto che la m etafora «veglie d ’oro», oltre a riprendere il colorism o solare del terzo sonetto e quello dell’animarsi in oro, com une al secondo e al terzo com p o­ nimento, annuncia anche lo sviluppo gnom ico delle terzine, sì da ricordare l’«aurea usura» di 2 14. Il sistema di interrelazioni è ulte­ riormente rafforzato dal tema del risveglio-trasform azione, nonché ribadito dal lessema fab ro, che rimanda al «fabra del ver» di 2 12. La culla del v. 10 appartiene, inoltre, alla medesima isotopia del­ l’allogamento tra i seni trattato nel sonetto precedente. Q u i il les­ sema contribuisce a spiegare l’operazione della natura (c si raffor­ za il collegamento con la terzina finale del secondo sonetto) come attività operosa e m iracolosa. L’espressione m etaforica (form are la culla dei miracoli per ‘fornire le condizioni idonee alla trasform a­ zione’), stretta, lo si è già notato, tra due espressioni di carattere sentenzioso ispirate a una concreta m orale della prassi, contribui­ sce a rafforzare quella connessione tra operosità e m iracolosità, e dunque santità, stabilita al v. 4: ancora una volta, dunque, l’uso di metafore, sia pure ardue, e la com plessa am plificazione per paralle­ 31

lismi sintattici, realizzano un sistem a figurale in cui predom ina la figura concettuale dell’antitesi. L’ultima strofe presenta infine l’antitesi che si può considerare strutturante dell’intero com ponim ento: al baco industrioso si con­ trappone infatti chi perde o non usa bene il tempo. L’antitesi è rea­ lizzata per m ezzo del recupero invertito di alcune espressioni, per cui: «suda in vano e si trastulla» (v. 12) si oppone a «siede sognan­ do e m edita» (v. 5); «capricci» (v. 13) a «lavoro» (v. 5); «om bra im ­ pura» (v. 13) ad «apriche foglie» (v. 3); mentre fondamentale è l’o p ­ posizione stabilita dal verso finale, dove le «reti», cioè la secrezio­ ne del ragno, sono in antitesi con la secrezione del baco, cioè il «bion do fil» di 3 10, ovvero con le «più lucide spoglie» prodotte durante le «veglie d ’oro» del v. 8. Il «nulla» con cui si chiude il so ­ netto è infine in chiara opposizione con l’«aurea usura» di 2 14, sic­ ché la morale di cui testimonia questo sonetto sembrerebbe, piut­ tosto che religioso, di tipo laico, e, se non addirittura filoborghese, certo in polem ica con l’inerzia nobiliare, laddove la stessa azione dei santi e della natura, abbiam o visto, è ispirata all’attivismo e alla produttività19. A riprova della fungibilità del baco sarà infine interessante o s­ servare come il sistem a costruito nel quarto sonetto venga rove­ sciato nel sesto. Innanzi tutto andrà notato, a proposito della in­ tenzione costruttiva soggiacente alla corona nel suo com plesso, co­ me qui venga riquadrato il vettore semantico sino a questo punto vigente. N o n solo, infatti, vi viene rimarcata la prcdicabilità politi­ ca del ‘verm e’, ma tale nuova predicazione viene ottenuta mutando

19 N on o stan te taluni mom enti di ‘sfo g o ’ malinconico, com e nell’ode E ra ­ clito su ll’epidem ia di peste che decim ò la popolazion e napoletana nel 1656, «il “ relativism o p ro sp ettico ” [che G iovanni G etto individuò come proprio della cultura barocca italiana] rivela [in Lubrano] la labilità delle cose umane, non per indurre gli uom ini a sfiducia, ma anzi per aiutarli a dom inare meglio il m ondo che li circonda, per insegnar loro una costruttiva saggezza», cfr. Franco C roce, Tre linci d e ll’ultimo barocco. I l - Giacom o Lubrano, «L a rassegna della lettera­ tura italiana», 1962, p. 252 (poi in fd., Tre m om enti del barocco letterario italia­ no , Firenze, Sansoni, 1966).

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di segno l’immagine del protagonista della sequenza: non più la metam orfosi strabiliante di un verme come analogon di vita d op o la morte, ma l’emblema della vanità e dell’inane sfarzo. Q uanto al­ l’armonica dei riferimenti storici, è qui evidente la connessione con i cruciali, sebbene temporalmente distanti (almeno al m om ento della pubblicazione a stam pa, che la stesura m anoscritta potrebbe invece risalire alla metà del secolo), eventi napoletani del 1647, an­ no della rivolta di Masaniello, e dunque con la sesta ode della rac­ colta, intitolata appunto Per le rivolture popolari di N apoli nell’an ­ no 1647. M a lasciando da parte le possibili allusioni alla storia p o ­ litica locale e tornando ai modelli concettuali e strutturali che cu­ ciono insieme i singoli individui della corona, varrà la pena di no­ tare come anche in questo caso il com ponim ento sia im brigliato coi precedenti per m ezzo di una fitta serie di connettivi interte­ stuali, così che, per esem pio, la culla del prim o verso ricalca il m e­ desim o termine del terzo e del quarto sonetto e (insieme alla voce verbale «vagisce») rimanda all’ultim o verso del testo precedente, bambin. E però con il quarto sonetto, di cui costituisce il rovescia­ mento, che i rapporti sono più serrati, giacché non solo la «verde culla», le «rustiche foreste», il «pam pino» e poi il «pensil trono» (vv. 1, 2, 4, 6) costituiscono una riform ulazione (m etaforica, m eto­ nimica, sinonimica e di nuovo metaforica) delle «apriche foglie» di 4 3; non solo il «siede sognando» di 4 5 è qui ricalcato dal «sogna» del decimo verso, ma è lo stesso lavoro del baco che viene so tto p o ­ sto a un confronto ravvicinato. L’avvolgim ento nel b o zzolo non è più infatti il momento positivo del riposo produttivo: esso è inve­ ce giustapposto, nella seconda quartina, alla stagione ‘verm inosa’ del baco descritta nella prim a, così da volgere la cronologia fisiolo­ gica delle fasi di trasform azione del protagonista nel contrasto tra due diverse condizioni sociali, una corrispondente a un idillico ‘stato di natura’, in cui il baco si accontenterebbe della sua origina­ ria condizione20, e una, all’inverso, significativa dell’am bizione a

20 Dal punto di vista del repertorio tem atico e retorico, è interessante che per una realtà, se non proto-industriale (e a N apoli l’A rte della Seta si era riuni-

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crescere e arricchirsi. La costruzione del bozzolo diventa in questo m odo non più la preparazione dei «m iracoli strani» che rivolgono «gli occasi in orti» (come nel secondo individuo della serie), ma tutt’al contrario il funesto allestimento, per m ezzo di «poche bave inteste», della propria «tom ba» L’immagine adibita nel sonetto non è più quella della metam orfosi del verme nella farfalla-anima che si libera dei vincolanti ceppi della carne, ma il precipitoso affrettarsi di un vile corpo verso la propria morte. U n tale discorso non sem ­ bra però obbedire a una logica della salvezza, quanto piuttosto as­ sum ere un carattere politico. L a stessa ricorrenza del verbo ‘sogna­ re’ illustra con chiarezza a quale fine sia in questo caso vòlta la fi­ gura del baco, che nel quarto sonetto, propriamente e letteralmen­ te «siede sognando», in quanto è in letargo, mentre nel sesto lascia che a sognare, cioè a fingersi nell’immaginazione, «cime d ’onor», sia « l’infima plebe»: se nel prim o caso, dunque, del figurante ‘ver­ m e’ viene predicato un carattere proprio, poi ritradotto in equiva­ lenza sul piano del figurato (l’uom o operoso), nel secondo la pre­ dicazione riguarda direttamente il figurato, avendo il figurante ab­ bandonato il cam po, una volta (com ’è tipico in questi sonetti) che le due quartine hanno fissato l’immagine. Q ui dunque il paradigm a molteplice fissato dal «verme setaiuolo» viene utilizzato per illu­ strare il piano della politica, e addirittura dell’amministrazione, giacché la terzina finale appare ricca di riferimenti alla «Tebe» na­ poletana (e a N apo li c’era infatti stata, più di una volta, la peste) e a quella «plebe» che, «cercando fortune a Ciel straniero» (inurban­ dosi dalle cam pagne?), si ritrova senza più «glebe» dove fissare la propria sepoltura. L’architrave concettuale dell’antitesi viene per­ tanto utilizzato da Lubrano anche per reggere un attacco nei con­ fronti della tanto inoperosa quanto sfarzosa nobiltà del Viceregno, verso cui egli, che pure non nutriva alcuna intenzione di «m utare la

ta in una potente corporazione dagli anni settanta del Q uattrocento), almeno georgica (la coltivazione dei bachi sarebbe infatti simile alla virgiliana coltiva­ zione della api) - qui venga utilizzato quasi esclusivam ente materiale bucolico, tra rustici addobbi e ninfe, ora benevole ora crudeli.

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struttura politico-sociale in cui vìveva»2', era del resto sovente p o ­ lemico. Dai vari esempi qui passati in rassegna risulta ìnsom m a che, più che un’immagine polifunzionale, quella del baco da seta è una struttura concettuale: un paradigm a comune a realia tra loro anche m olto distanti, perché articolato sull’opposizione polare propria dell’antitesi (bruco/farfalla; tom ba/trom ba; vile/glorioso). L a m ol­ teplice predicabilità del concetto “ verme setaiuolo” funge dunque da strumento retorico principe per il molteplice intento predicatorio che soggiace al progetto lubraniano, rendendo evidente la con­ tiguità tra l’attività omiletica a quella poetica. Se, d ’altra parte, la va­ rietà è caratteristica precipua del barocco, essa è tale perché ob be­ disce innanzi tutto all’intenzione «feras della retorica secentesca, cioè all’attenzione verso la pluralità e diversità dei destinatari del discorso. C he è quanto si poteva già leggere nell’epistola A l letor del trattato di Baltasar Graciàn intitolato A gudeza y arte de ingenio (1648), dove il gesuita spagnolo affermava di aver ricercato «la variedad en los cjcm plos [...] principalmente por la diversidad de gustos para quienes se sazonò»; e che poi sarebbe stato ribadito dai napoletani Federico Meninni e Pietro C asaburi, nel sostenere, il primo, che «in un Canzoniere si ricerca cibo per ogni palato, per­ ché ad un solo ingegno non si scrive, e vari saranno i genii di colo­ ro che li leggeranno», il secondo, di aver voluto «im itar molti, per attalentare a m olti»22. La necessità di una piena com unicazione d o ­ veva essere ancora più evidente a chi per decenni si era trovato ad ammaestrare e ammonire i più diversi tipi di pubblico, dagli specia­ listi dell’oratoria, quando si era trovato a predicare nei Collegi ge­

21 Cfr. Franco C roce, Tre lirici, cit., p. 228. 22 Cfr. rispettivamente: B. G raciàn, A gu d eza y arte de ingenio, ed. de E. C orrea C alderón , M adrid, C astalia, 2001, t. I, p. 45; F. Meninni, Il ritratto del sonetto e della canzone, Venezia, Bcrtani, 1678, p. 173; P. C asabu ri, Lettera «A m onsignor C aratim ele», in G . G etto (a cura di), Lirici m arinisti [1962], M ilano, T E A , 1990, p. 152.

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suitici di m ezza Italia, alla superba nobiltà vicereale o alla tum ul­ tuante plebe urbana, quando aveva allestito i suoi quaresimali nella C appella di Palazzo o recitato appassionati discorsi sacri sull’orro­ re delPinferno per le strade della capitale spagnola. Se, insom ma, la molteplice fungibilità dell’immagine rientrava in una precisa tradizione oratoria risalente alle prove di Francesco Panigarola nella seconda metà del Cinquecento, essa era anche co­ erente con l’intento pedagogico ed em otivo di Lubrano, che, arti­ colando i trenta sonetti su altrettanti “ accidenti” della sostanza ver­ m inosa, allestiva un cam pionario di situazioni tale da poter incro­ ciare i diversi “ gu sti” e “ ingegni” dei suoi destinatari: tale, cioè, da poter impattare ciascun individuo per m ezzo di un discorso collet­ tivo. O gni lettore, in questo m odo, avrebbe potuto ricreare nella propria mente almeno uno dei tanti svolgimenti cui l’immagine principe è sottoposta. Più che la pluralità, conta però il processo che viene qui attiva­ to, in quanto esso assom iglia da presso al m etodo di meditazione basato sull’allestimento mentale di uno spazio dentro cui va collo­ cato l’evento m emorabile (sistemare le varie qualità del G olgota per poi orchestrarvi la crocifissione del C risto, per esempio), quale lo aveva presentato Ignacio de L oyola nei suoi Esercizi spirituali. A quello stesso m odo, infatti, in ognuno dei trenta sonetti viene iso­ lato e accennato per brevi tratti un momento o una qualità della vi­ cenda del bruco, che viene sviluppato nel suo movimento narrati­ vo, e poi concluso in un’illustrazione morale o anagogica. Si tratta dunque di un processo allegorico, in questo senso non distante dal m odo medioevale, nel quale la serie di equivalenze tra figurante e figurato, tra evento storico e suo significato superiore venivano còl­ te per analogia. Solo che nelle Scintille poetiche lubraniane lo sche­ ma spaziale fissato all’inizio e poi dram m atizzato torna a chiudersi in uno schema, questa volta di carattere precettistico, o al più teo­ logico. U n ’articolazione argomentativa triadica anch’essa basata sul m odello retorico dell’antitesi, che assume così valore strutturale ol­ tre che concettuale nel discorso del gesuita. Chiusa tra i due poli antitetici, l’immagine si muove da un estremo all’altro, svelando al­ 36

la fine del percorso quanto la polarità conclusiva fosse già presente in quella iniziale, non a caso per lo più rivelata per m ezzo di una clausola epigrammatica o sentenziosa23. Il breve giro dei quattordi­ ci endecasillabi fissa così l’istantanea di un movimento solo appa­ rente, che altro non è che l ’illustrazione di quanto era già implicito nel tema prescelto. Si può forse così intendere cosa dovette divide­ re nel profondo G iacom o Lubrano dai sostenitori della nuova scienza c della nuova poetica cartesiana: se per questi, infatti, è la centralità del soggetto ad assicurare il progresso della conoscenza; se, cioè, il m ondo vi è costruito a partire dall’io, che, una volta autolimitatosi e quasi ridottosi alla scom parsa in quanto ente razio­ nale, ricomincia la sua opera di allestimento della realtà esterna; se, pertanto, nel m etodo cartesiano la centralità dell’occhio com e stru­ mento principe della conoscenza è dovuta alla convinzione che s o ­ lo la segmentazione del reale, l’osservazione anatom ica delle parti di cui esso è com posto, ne consenta il dom inio24, all’inverso, la p o ­ sizione del gesuita napoletano sembra insistere sulla inconoscibili­ tà del m ondo, o meglio sulla sua evanescenza, sulla sua natura di semplice trasparenza. Su questa si deve meditare, ci si può rispec­ chiare (ma «n'iun riflette in tante trasparenze»), per riconoscervi in­ fine la propria fralezza e vacuità. Q uel che interessa è che il passaggio da uno schema statico (d o ­

23 Per la tendenza epigram m atica della sonettistica cinque-secentesca, in specie m eridionale, cfr. E. R aim ondi, Il petrarchism o n ell’Italia m eridionale [1973], in Rinascim ento inquieto, nuova edizione, Torino, E inaudi, 1994, non­ ché G . Ferroni-A . Q u ondam , L a locuzione artificiosa, R om a, Bulzoni, 1974. La fulminea chiusura sul, diciam o così, ferm o-im m agine, tipica dell’epigram m a, sollecitò i teorici barocchi a un parallelo tra questa form a poetica e la struttura concettuale della m etafora. O ltre al saggio di R aim ondi appena citato, dove si posson o ritrovare utili suggerim enti, cfr., ancora E Meninni, I l ritratto, cit., e P. N icole, D issertano de vera pulchritudine et ad u m b rata, éd. critique de B. G uion, Paris, C ham pion , 1996. 24 Per un’analisi delle im plicazioni letterarie della diffusione della cultura cartesiana a N apo li, ancora utile M . Rak, L a fin e dei gram m atici. Teorie e criti­ ca della letteratura nella storia delle idee del tardo Seicento italiano, R om a, B u l­ zoni, 1974, specialm ente pp. 83-124.

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ve si trovano le coordinate narrative) alla dram matizzazione, con­ clusa da un nuovo schema statico (in cui sono sistemate le coordi­ nate concettuali), non può non passare per lo stadio intermedio: in altri termini, la fissità iniziale, per giungere alla fissità terminale, de­ v ’essere sollecitata a un movimento. E questa la “ predicabilità” del “ concetto predicabile” , se è vero che nella grammatica barocca «il predicato è prim a di ogni altra cosa relazione e avvenimento, non certo attributo», per cui le caratteristiche del soggetto ne sono sem ­ pre un risultato, non un accidente, un dato prefissato25. Se dunque l’antitesi è la figura cardinale del Barocco26, essa lo è in quanto pre­ vede lo spostam ento da un polo all’altro dei due punti com plem en­ tari: sicché la trasform azione delle essenze, l’instabilità dei rappor­ ti, nel suo produrre di continuo nuove qualità, animando in manie­ ra frenetica il paesaggio della N atura e della Storia, non manca di ri­ velare il vuoto che.si nasconde sotto il ricco panneggio. Basta che il m ovim ento si blocchi per un solo istante perché se ne legga la strut­ tura profondam ente statica, ghiacciata. Si conciliano così le interpretazioni classiche di Getto e Rousset27, che nel Barocco individuavano appunto una cultura del meta­ m orfism o, del movimento incessante e della continua trasform a­ zione delle essenze, con la tendenza astrattiva e profondamente sta­

25 C fr. G . D eleuze, L a piega. I .e ih ri r/. e il Barocco [1988], Torino, Einaudi, 1990, p. 80. L a lettura “ espressionista” del Barocco realizzata da D eleuze in questo e nei saggi su Spinoza, m eriterebbe una discussione assai più approfon ­ dita. Q u i ci si lim ita a osservare com e l’asserto deleuziano abbia un im portante risvolto gram m aticale, giacché propone che le qualità (gli aggettivi) divengano verbi (l’esem pio è il passaggio da « l’albero è verde» a « l’albero verdeggia», su l­ lo schem a di «die Welt weitet» di H eidegger). N e vediamo subito più avanti un’applicazione p ossibile nella scrittura lubraniana. 26 O ltre ai citati studi di Frare, occorre riandare a G . Genette, L ’oro cade sotto il ferro , in Figure [1963], Torino, Einaudi, 1969. Interessanti riflessioni a tal p ropo sito si trovano nella prim a parte del saggio di S. Sarduy, Barroco [1975], M ilano, Il Saggiatore, 1980, specialm ente alle pp. 21-68. 271 riferimenti son o a G . G etto, Introduzione a / lirici marmisti, cit. (poi in Barocco in prosa e in poesia, M ilano, Rizzoli, 1969) e a J. R ousset, L a letteratu­ ra d e ll’età barocca in Francia. Circe e il Pavone [1954], Bologna, Il M ulino, 1985.

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tica riconoscibile nella produzione lubraniana. A ncora una volta, infatti, da un lato emerge la maculazione del reale, la sua natura im ­ perfetta, caduca, mondana e in quanto tale irredenta, dall’altro il depotenziam ento del soggetto, la scom parsa di un «io generatore», responsabile della tenuta stagna dell’universo. Il che significa che alla molteplice trasform azione della natura il soggetto non può contrapporre alcuna form a di controllo o conoscenza: egli può semmai solo contemplarne lo svolgimento, e riconoscere, al di so t­ to della ridda fenomenica, la presenza di una com une matrice, di un destino eguale per ogni ente o sua manifestazione: la morte. «R i­ fletti - dunque - in tante trasparenze», e insom m a l’invito di Lubrano al suo lettore, che viene così sollecitato a meditare sulle m e­ tam orfosi del verme perché ne scorga quanto vi è stam pato al fon ­ do: quella caducità che è la causa del senso di-intimità che il lettore dovrà avvertire alla fine del suo percorso contem plativo, intimità già svolta a tutte lettere fin dal terzo sonetto: «L a mia mortalità quindi com prendo / senza gire a le tombe. In noi si vede / la m or­ ta polve inverminir vivendo». Ed è proprio in questi versi la conci­ liazione tra quel Barocco che avrebbe come emblemi Circe (la me­ tam orfosi) e il Pavone (il fasto), secondo la ricostruzione di Jean Roussct, e quell’altro Barocco, dalla vocazione glaciale, irrim edia­ bilmente statica, che è la sigla del lavoro di Benjamin28, perché nel­ la frase oggettiva dal sapore sapienziale che funge da chiusa per il sonetto29 non solo l’ ultimo soggetto è polve, ma i suoi predicati s o ­ no un participio perfetto (voce passiva c statica) in funzione agget­ tivale (morta), un gerundio (voce attiva e dinamica) con valore stru­ mentale (vivendo), un infinito di derivazione nominale (invermi­ nir) che illustra l’azione del soggetto. In altri termini, gli “ acciden­ ti” che caratterizzano il sostantivo con valore di soggetto sono vo-

-s Cfr. W. Benjam in, Il dram m a barocco, tedesco [1938], Torino, Einaudi, 1971. Per questa tendenza nell’ universo linguistico lubraniano, cfr. 42 12: «E d io v o ’ dir, e non fia vano il d etto», che appunto funge da introduttore form ulaico per un detto o apoftegm a.

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ci verbali che occupano i poli opposti di un’opposizione semantica di grande evidenza {m orta/vivendo), mentre il verbo, la scarica m o­ toria che tale soggetto realizza, è l’anim azione di un sostantivo. N e viene fuori uno schema concettuale che vede il passaggio della pol­ vere da m orte a vita, passando per il verme, il quale si realizza per m ezzo di uno schema grammaticale che articola la mutazione di un sostantivo in verbo passando per un verbo che ha la medesima fun­ zione di un sostantivo. Al centro di questo mirabile gioco di trasfi­ gurazioni e perm utazioni resta, tuttavia, la polvere. Si tratta pertanto di un ben strano movimento, questo della poetica lubraniana, se il risultato è la vuota struttura, un m ovimen­ to la cui più vera sostanza sem bra essere la stasi, l’im m obilità30. Tuttavia, le “ considerazioni sopra il Verme Setaiuolo”, pur fissando il movimento in immagine statica, proprio perché apparentabili a quella m edesima costituzione del «cam po dell’immagine in sistema linguistico»31 attiva negli Esercizi spirituali loyolani, svolgono un eloquente discorso sul m ondo: un discorso che con le sue trenta stazioni invita a una meditazione sulla finitezza umana e insieme (come insegnava il mirabile libretto del fondatore dell’ordine) a un più concreto discernimento nelle occasioni della vita. In altre p aro­ le, le considerazioni lubraniane sollecitano il lettore a un movimen­ to intellettuale e psicologico, all’articolazione nella propria chiusa mente di un percorso, suggellato infine dal blocco, dalla m ineraliz­ zazione. Al pari di un film che si concludesse sul fermo immagine di un fotogram m a ricorsivamente apparso nello svolgimento della pellicola, il discorso di padre Lubrano mira a fissare l’attimo nel flusso, e dunque a pietrificare il tempo: anche se l’attimo è quello della m etam orfosi {inverminir, del sonetto appena ricordato, per esem pio), il fatto stesso che esso venga congelato in un’immagine,

10 A tal proposito si rileggano le considerazioni di C . O ssola, Apoteosi ed ossimoro. Retorica della “ traslazion e ” e retorica dell'unione nel viaggio mistico a D io: testi italiani dei secoli X V I- X V U , in «R ivista di storia e letteratura reli­ g io sa», XIII (1977), pp. 47-103, il quale parla, tra l’altro, dei principi di «equiva­ lenza» e «n on -p rogression e» che caratterizzerebbero la figura dell’antitesi. 31 C fr. R oland Barthes, L oyola, cit., p. 56

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lo cristallizza. È questa la potenza folgorante dell’immagine, che ri­ fissa lo svolgersi dinamico del sistema in quadro, emblema, m e­ mento. Si è detto del rapporto tra scrittura poetica e discorso predicatorio, e proviam o allora a leggere un fram mento di una predica quaresimale, L ’inventario dei beni temporali scritto nella polvere, cui tbem a è il versetto biblico «M em ento hom o quia pulvis es». Così comincia, così finisce l’inventario de’ beni temporali, compilato in breve dalla Chiesa curatrice de’ Cristiani e publicato da’ singhiozzi del Sacerdozio a tutti noi, come a primoge­ niti del loto, eredi ab intestato della putredine. Sembra incredi­ bile, che interessatissimi quanti vivono a tenerlo sempre a me­ moria, sempre su gli occhi, per saper la qualità de’ patrimonii che posseggono, delle giurisdizioni che esercitano, delle robe che acquistano, de’ debiti che contraggono... pur sì fattamente si dimenticano del proprio essere, che bisogna ad alta voce ri­ petere nella prima feria della Quaresima la formula del “ Me­ mento”. Ingannata vanità de’ mondani: non vuoi riconoscerti per orfana della fralezza! E benché si veggano in ogni giorno ombre di vespro, in ogni ciclo malinconia di eclissi, in ogni an­ no scalare di climaterici, in ogni mare secche di naufragii, in ogni terra fosse di sepolcri, in ogni strada processioni di ese­ quie, in ogni casa stracci di lutti, in ogni corpo sintomi di m or­ bi, in ogni vita sequestri di morte, quasi non toccasse a te ti scuoti di testa con abituata inavvertenza le denunzie d ’Incenerita. Ma sbattetevi, concupiscenze deluse, che per quanto vi ag­ grandite ne’ possessorii del Mondo, non potete far un passo ol­ tre la tomba. Le ceneri vi composero, le ceneri vi distruggono. Le carni che v’impolpano, gli sfoggi che vi adornano, le delizie che vi ricreano, le fortune che vi favoriscono, le glorie che vi corteggiano, son ipoteche di ceneri. Per quanto le politiche vi riempiano il capo, non sapran mai declinare l’indeclinabile ver­ bo “ Morior” [...] Io alzo la portiera al Salone del Tempo, dove egli chiama a con­ sulta gli anni parlamcntarii e coll’oriuolo ripieno d’arene avan­ z a tile a’ desolamenti, con la falce incanutita a’ punti instantanei, non pensa, infedelissimo tiranno, che a rapire quanto pro­ mette, a disfare quanto mostra di fare. Mi raccapriccio a legge­ re l’indice sol, del nostro Inventario: navilii sommersi ad una foga di turbini, eserciti mietuti a fascio nelle campagne, nazioni divorate da pestilenze, città seppellite da’ tremuoti, teatri di 41

grandezza finiti in scene mute di scheletri, mondi plausibili di tesori, di delizie, di glorie rimasti in un mappamondo di ceneri. «Quorum finis in cinere», parla Agostino, stupito dell’umana insaziabilità, che, non gustando piena contentezza nelle frutta maturate del tempo, ne rode stoltamente a leccature di desidern la scorza.32 L o spettacolo che si apre innanzi agli occhi del predicatore e degli astanti è quello di un teatro delle vanità, secondo lo schema classico del Trionfo della morte 33. L’accesso a questo theatron, a questo spazio della rappresentazione, è garantito dall’eloquenza dell’immagine, che attiva la sollecitazione psichica dell’ascoltatore, trasform andolo appunto in spettatore. La retorica, la cui qualità fondamentale è Vevidentia, la capacità di «ponere ante oculos», “ mettere innanzi agli occhi” , giunge qui al suo culmine, consenten­ do la com prensione intellettuale del versetto biblico, e delle verità teologiche e morali in esso contenute, a partire da una rappresenta­ zione mentale che ha la stessa potenza icastica di un dipinto. Col gesto dell’im bonitore da strada, Lubrano alza «la portiera al Salone del Tem po», introducendoci nel paesaggio malinconico che risiede in trasparenza sotto gli scenari della vita quotidiana, m ostrandoci il rovescio di quegli addobbi, di quelle ricchezze, di quegli sfoggi che sono le polpe illusorie di cui ci rivestiamo nel vivere mondano. Ci si apre così innanzi un am pio affresco, nel quale sono riprodotti tutti i casi, le sventure, gli accidenti che siglano in un punto la vi­ cenda degli uom ini34, riprendendo il m odo del catalogo proprio di quello specifico genere letterario cinque-secentesco, sorta di onni­ vore enciclopedie, che furono appunto i Teatri ( Teatro di tutte le

G . Lubrano, L ’inventario d e ’ beni temporali scritto nella polvere, in Pre­ 11 diche qu aresim ali postum e, cit., pp. 15-16, 18. 33 Per una ricostruzione in prospettiva storica del tema iconografico e let­ terario, cfr. P. Scaram ella, L 'Italia dei Trionfi e dei C ontrasti, in H um an a fragilitas. I Temi della morte in Europa tra Duecento e Settecento, a cura di A. 'le ­ nenti, C irco lo C ulturale Baradello, Ferrari Editrice, e lu so n e (B G ), 2000, pp. 25-98. ■H D. Bartoli, L ’huom o a l punto, cioè l ’huomo a ! punto di morte, Roma, G h ezzi, 1667. 42

professioni del mondo, Teatro d egl’inventori di tutte le cose del mondo, etc., o anche P iazza universale di tutte le p azzie, etc.). L o scenario che viene qui allestito è il m edesimo che duecentocinquanta anni dopo Walter Benjamin avrebbe fissato nell’immagine Ae\YAngelus novus, ancora una volta un “ trionfo della m orte” : C ’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il vi­ so rivolto al passato. Dove ci appare un catena di eventi, egli ve­ de una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su ro­ vine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, de­ stare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed c così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibil­ mente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progres­ so è questa tempesta.35 L’accumulo di macerie, l’am m asso di rovine sviluppato per p o ­ tenza fantastica dal quadretto di Klee è strettamente imparentato ai «teatri di grandezza finiti in scene mute di scheletri» di cui parla Lubrano. Anche qui una scena istantanea, puntuale, fissa il m ovi­ mento, lo sviluppo, il progresso della catena degli eventi; e anche qui il progresso, che null’altro è se non la natura del m ondo, viene còl­ to, non attraverso l’investigazione della sua ipotetica sostanza, ma per analogia di relazioni, per sovraim pressione di trasparenze, in virtù di quella strutturale staticità - propria della figura dell’antite­ si e della sua applicazione al sistema dell’immagine quale lo ritro­ viamo nella corona del «Verme Setaiuolo» - che implica un’im m e­ diata riconduzione dell’evento, come per corto-circuito, alla sua lettura paradigmatica. O gni discorso sulla storia, lo si vede bene nell’aforism a benjaminiano, è un discorso sul tempo umano. N on e un caso, allora, che

■’5 W. Benjam in, Tesi di filosofia della storia [ 1940], in A ngelus Novus. S a g ­ gi e fram m en ti , a cura di R. Solini, Tonno, Einaudi, 1995, p. 80.

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nel materiale son ettisti«} delle Scintille poetiche il tema degli oro lo­ gi (peraltro ampiamente diffuso nella letteratura e nell’arte baroc­ che)36 abbia un suo spazio non irrilevante, con ben tre individui a esso dedicati (il X X X I I e il X X X l l l per Yoriuolo di cere intrecciate, il X X X I V per Yoriuolo ad acqua)', né sarà un caso che alla caducità del­ le azioni e delle cose degli uom ini si contrapponga l’istantaneità di D io, la form a singolativa della sua eternità. E quanto Lubrano illu­ stra in uno dei cinque stupendi sonetti centrali della raccolta (Lxxm-Lxxvn), tutti dedicati al tema dell’£go sum qui sum, in cui è proprio D io a parlare, e ad affermare che «Per Teatro di glorie ho la mia mente; / ad ogni istante Eternità misuro: / il Passato, il Possibi­ le e ’l Futuro / senza tempi per me sem pr’è presente»37. Ai tempi misti della storia, alla flussione temporale in cui l’uom o è stato sbandito, e in cui è costretto a muoversi come innanzi a uno scena­ rio illusorio, vano, infestato di ombre, si contrappone non lo spazio ordinato delle gerarchie celesti, la disposizione armonica delle di­ verse essenze (cui semmai il gesuita attenderà nell’allestire II Cielo domenicano )3S, ma il raptus fulminante dentro quell’attimo in cui è raccolto ogni evento: accaduto, o possibile, o futuro. A llo stesso m odo si era peraltro già spiegato in una diversa oc­ casione il predicatore Lubrano, quando aveva illustrato l’apparente paradosso della form ula «Ricordati che sei polvere, e sarai polve­ re», spiegando che i giorni presenti, i giorni futuri si misurano a piccioli istanti; e perché velocissimamente trapassano, possono notarsi in libri di memoria, e mettersi a conto di polveri. Ne iperboleggia Tertul­ liano, chiamando la vita emulatrice della morte («Proinde et vi-

Cfr. V. Bonito, L ’occhio d el tempo. L ’orologio barocco tra scienza, lette­ ratu ra ed em blem atica, B ologna, C lueb, 1995. ' 7 Salvo il XXXI I I , tutti i sonetti citati si posson o leggere in questa antologia (coi numeri 32, 34, 43-47) 38 La sistem azione arm onica risulta chiara dal titolo com pleto: Il ciclo do­ menicano col prim o m obile della predicazione, con più pianeti di santità, N a p o ­ li, Raillard, 1691-1693. Si veda anche qu est’altro titolo: Il solstizio della Gloria divina nel nom e santissim o di Giesh predicato in due m ondi di santi e b e a ti[ .../ Panegirici, N apoli, Parrino e M uzii, 1692.

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ta, mortis scilicet æmula»): perché tanto è morta quanto è vivuta. Sì, polvere siamo, e ombre. E chi ha netto l’occhio della Fe­ de, confessa che polveri tessute sono le tappezzerie de’ brocca­ ti e degli arazzi, polvere spendibili le monete, polveri luminose le gioie, polvere viva la sanità, polvere spirante la vita. Sbattasi il capo la vanità: voglialo o no, che in polveri sfondano le pre­ minenze de’ posti; in polvere si sfilano le sciamberghe, le toghe, le porpore; da polveri si scancellano le cedole de’ privilegi!; in polveri si sfasciano i cocchi della fortuna; nelle polveri si sfari­ nano i cavalloni della grandezza; nelle polveri scoppiano le san­ guisughe degli interessi.39 C om e nei sonetti, dunque, anche nell’oratoria sacra Lubrano organizza ùn percorso mentale che, sviluppando il dato iniziale in un movimento di trasform azioni, si com pie nella fissazione di uno schema concettuale, ma derivato dall’immagine e dalle sue m odula­ zioni. In questo caso, l’ascoltatore, partendo dalla sottintesa im m a­ gine dcIPorologio, che misura il tem po suddividendolo in istanti, la manipola incrociandola con l’idea di velocità: l’accelerazione cine­ tica del passare del tem po giunge a un paradossale rovesciam ento, giacché quello scorrere si cristallizza nel granello di polvere40. D a questa form a, diciamo minerale, della caducità scaturisce il lento sfarinarsi degli oggetti, il loro frantumarsi c venir via, rivelando la sgranata facies, Benjamin avrebbe detto «ippocratica», del reale. L o sviluppo dell'immagine va dunque dalla suddivisione concettuale allo sgretolam ento materiale, per poi im porre una nuova spira alla mente dell’ascoltatore, costringendolo a seguire l’andamento cir­ colare del tessuto argomentativo, che infine si chiude con la rap­ presentazione dello strum ento che per eccellenza misura il tem po suddividendolo in atomi di polvere: Tutto, o mondani, e polvere, rivela il monitorio del “ Memen­ to”, anche il tempo. Non si vede forse la clessidra, rigirata di ora

39 G . Lubrano, L’inventario de’ beni temporali, cit., p. 25. 40 Sul sistem a im m aginario barocco, e sul ruolo che in esso assum e il con­ cetto di velocità, utili le sintetiche osservazioni di J.A . M aravall nel capitolo VII (Concetti fondamentali della struttura mondana della vita) del citato La cultu­

ra del Barocco. 45

in ora, rivelare il tempo null’altro che sabbia e polvere? L’ora di Cristo illumina, l’ora del mondo acceca, l’ora di Cristo intima grazie, l’ora del mondo rovine: e pur l’ora del mondo si appun­ ta negli oriuoli di ogni casa. Il carattere emblematico rivestito dalla clessidra, che vivifica in­ nanzi agli occhi degli spettatori lo sfarinarsi di quell’insieme che ciascuno si figura per solito fluido, indistinto e pertanto non segmentabile; il suo trasform arsi in una successione di atomi isolabili, e di conseguenza fissabili in un punto solo (che, per allegoria, var­ rà per tutti i punti) è l’apoteosi del discorso sin qui fatto sulla p o ­ tenza concettuale dell’antitesi: il movimento si rovescia nel suo o p ­ posto, lo scorrere si stam pa nella silografia del memento, che non è futuro, ma presente già dato. Ecco allora qual e il senso della coro­ na incipitaria, la ragione di quella figura intessuta nella sequenza dei prim i trenta sonetti, ciascuno diverso e ciascuno identico agli altri, tutti com unque fissati nella ripresa e variazione del fermo-immagine del baco quando è sul punto di trasform arsi in farfalla. Rispetto al tem po senza-tem po dell’£go sum qui sum, lì dove è fissato l’a­ pogeo delle Scintille poetiche, il tempo dom estico (che «si appunta negli oriuoli di casa») è quello in cui «non è certo il Dom ani, e vo­ la l’O g g i», in cui l’uom o, la cui dimensione è «un atom o brevissi­ mo del transitorio»41, scopre di non avere altro «di suo che ’l tem­ po d ’ieri« (36 1-2). Mentre si affida alla speranza che la p rop ria/ralezza ritrovi altrove un’altra consistenza, innanzi all’evidenza che «lim osina d ’istanti è un U om che vive» (37 14)42, il soggetto, im­ m erso in una luttuosa meditazione tanto simile allo sguardo di Fcr-

41 Cfr. ancora L'inventario d e 3beni tem porali , cit., p. 19. 42 Per l’antitesi costituita dalle due form e del tem po, si legga anche questo breve passaggio di B revità d i nostra v ita , una delle Com posizioni per musica che chiudono le Scintille : «A pprendete o fedeli / a vivere m orendo / per m orir poi vivendo, / se bram ate goder lassù nei C ieli / in un giorno im m ortai vita di D ei». Il testo che apre l’ultim a sezione della raccolta, R osa caduca , recuperando l’a­ bu sato tem a um anistico della rosa, lo volge da godim ento del presente in m edi­ tazione sulla vanità: «Q u an to folle è chi mai spera / nel piacer, che sul mattino / ride in fasce da bam bino / e cadavere è la sera» (questi testi si leggono nella ci­ tata edizione di Pieri, rispettivam ente a p. 155 e alle pp. 158-160).

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dinando ehe scruta mourning le onde del mare nella Tempesta di Shakespeare, riconosce nelle pieghe che la Storia e la N atura fo r­ mano nel loro costante fluttuare le trasparenze dentro cui rifletter­ si. L’incessante movimento del tempo, l’interminabile metam orfosi delle realtà esterna si rivelano così solo lo svolgersi di un velo eva­ nescente, dietro cui null’altro si cela se non la consueta maschera funebre di Yorik, il proprio riflesso. Eppure, sebbene còlto nello sgranato spazio simultaneo che si dipinge dei colori del trauma, sebbene stretto tra le coordinate annichilenti dell’angoscia, il so g ­ getto si affida alla benevola eloquenza dell’immagine per inscenare la sua fastosa trasfigurazione. Vestitosi dei panni del verm e , im ­ bracciati i vanni che gli perm ettono di impennarsi nel suprem o ge­ sto del «m orir» (13 13), articola così l’ultim o gioco che gli resta, il da-for dell’antitesi: qui, lì, nella trasparenza dell’attimo.

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Moralità tratte dalla considerazione del Verme Setaiuolo

1 (I). Proem io Trom ba non ho sì am biziosa in mano che svegli Erato in Pindo al suon de l’armi. D elitto trionfai, non G loria parmi, lodar naufrago un M ondo in sangue umano. N o n m ’infiamma i fantasmi Estro sì insano che d ’Idalie menzogne osi imbrattarmi. Saggia M oralità mi detta i carmi, A quila al Vero, e non Farfalla al Vano. C on inchiostri Febei a l’ore inferme d ’ozio senil im balsam o gl’istanti, destando Uranii spirti al Plettro inerme. Già vicino al morir vo’ che a’ miei canti fili le prime corde industre un Verme che da la tom ba sua trae i suoi vanti.

1. Tromba’, a ttrib u to d ella p o esia epica, m entre al v. 2 Erato e al v. 5 «Id alìe m en z o g n e » (“ b u gie di V en ere” ) in dican o la p o esia ero tica; en tram b i i g en e­ ri poetici so n o rifiu tati d a ll’au tore, che vuole can tare u n a p o e sia m orale. Erato, m u sa d ella p o esia a m o ro sa (e d u n q u e p ro le ssi dei vv. 5-6), rim an d a però in q u e sto co n testo alla p o esia in gen erale (e m agari a q u ella e p ic o -c a ­ valleresca, ove se m p re s ’ in treccian o armi e “ a m o r i” ). 2. Pindo: catena m o n ­ tu o sa in G recia, cara ad A p o llo , d io d ella p o e sia e della verità (il F e b o d a cui p rovien e l’a g gettivo del v. 9). 4. A B r in a c io /L u b r a n o non se m b ra vera g lo ria p a rlare dei “ bagni di sa n g u e ” di so lito o g g e tto dei p oem i epici. 5-6. N é la su a fan tasia è so lita lasciarsi sp o rc a re dalle lu sin gh e della lu ssu ria. 78. E gli invece vu ole che la su a sia una p o e sia m orale, cap ace co m e VAquila di fissare gli occhi nel so le d ella c o n o sce n z a, e non u n o sfo g g io m o n d an o di raffinata tecnica (la Farfalla di una lirica “ m era v ig lio sa ” e lasciva, la cui b ellezza d u ra so lo un g io rn o ). 9-11. C o n gli inchiostri, cioè co n l’attività scrittoria, l’au to re ferm a lo sc o rrere dei su o i g io rn i estrem i, e su l su o str u ­ m ento inerme, non b e llico so , su o n a accordi ispirati dal C ie lo (Uranii). 1214. O ra m a i vecch io (B rin a cio , ap p u n to ) e p r o ssim o alla m orte, q u asi per p rep ararsi a « fo rm a r l’ angelica farfalla» (D an te, Purg. X 125), il p o eta v u o ­ le che un Verme, il b a c o d a seta, fa m o so p e r il su o b o z z o lo , che è la to m b a in cui si se p p ellisce p e r rinascere, sia l’a rg o m e n to dei su o i prim i c o m p o n i­ m enti. 51

2 (II). N asce d a sparute sem enze Rinovan gli anni in sul fiorir d ’Aprilc reliquie polverose, atomi morti; e con l’inverminir spiran risorti al tiepido fiatar d ’aura gentile. O miracoli strani! U n Verme umile sa del Fato cangiar gli O ccasi in Orti. O del vivere uman cari conforti! N ascon o Anim e d ’or da polve vile. Chim iche frenesie che, i vivi argenti fissando al soffio di mendica arsura, pagate il fum o in lagrime correnti, ecco fabra del ver scuopre N atura, nel ricco sen di Rettili innocenti, agli Erm eti delusi un’aurea usura.

1-3. In P rim av era term in a il p e rio d o d i letargo dei bachi e si realizza co sì il p a r a d o sso che delle «reliq u ie p o lv e ro se » (si riferisce a una teo ria m o lto in vo g a fra gli scien ziati g esu iti: la n ascita ex putrì, cioè sen za feco n d az io n e e d ire ttam en te d alla p u trefaz io n e, d e g l’in setti), d egli «ato m i m o rti» r iso rg a ­ n o e si tra sfo rm in o in verm i. 4. A llo sp irare d ei prim i venticelli tiepidi d e l­ la bella sta g io n e . 5-6. U n a tra le più um ili creature è artefice del m iracolo che tr a sfo rm a i tram on ti (Occasi) in albe (Orti); si riferisce al fatto che, c o n ­ trariam en te al b a c o , tu tti gli altri anim ali si “ trasfo rm an o in v e rm i” co n la morte. 8. Anime d ’or, il b ac o ha riflessi dorati. Anime sta qui p e r “ esseri a n im a ti” (m a l’in tero v erso , “ tra sp o rta to al m o rale ” , si legge con eguale sem p lic ità ). 9-10. In vettiv a co n tro qu ei folli alch im isti («ch im ich e fren esie» qu i è v o c a tiv o ), che si affan n an o a so ffiare nel fo rn o alch em ico, Xathanor che o c c o rre v a ravvivare co stan tem en te con un a p p o sito so ffie tto («m e n d i­ ca a r su ra » ), p er lav o rare il m ercu rio («ì vivi arge n ti»), con il so lo risu ltato di irritare p e r il tr o p p o fu m o gli occh i (L u b r a n o ritorn a suH’argo m c n to , con u n ’ im m agin e sim ile, nel so n etto L I I, in cui «ch im ica l’A rte a fochi len­ ti» so g n a di d ar vita a ciò che è m o rto «n é cieca al fu m o ravved er si v u o le», vv; 2 e 5; nella p re d ica L ’Alchimia sacramentale della Chiesa, co m p resa n el­ le Prediche quaresimali, stig m a tiz z a invece la «m atta sav ie zz a d elgli A lc h i­ m isti, i q u a li, d im en ticati v o lon tariam en te del g io rn o , passan la vita all’o m ­ bra d i so z z e esa la zio n i, c co n d an n an d o si alle vam pe di erm etici fo co lari, sp ira n m e z z o m orti en tro un ricco P u rg a to rio di fallite sp e ran z e ». 12-14. Il risu lta to d e ll’ az io n e d ella N a tu ra (che è o p eratrice verace, fabra del ver) sui

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bachi (Rettili, definiti tali in quanto strisciano) è il ricco bozzolo dorato (aurea usura), che ella mostra agli alchimisti (Ermeti, da Ermete Trismegisto), la cui arte si è rivelata fallimentare.

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3 (III). Tali semenze, talvolta, in petto alle Donne riscaldate, si ravvivano Si slaccia Filli il petto, e le native poppe son d ’un vii verme Albe di vita. Fra palpiti d ’argento il latte invita ad animarsi in oro un che non vive. N o n sì vaghi del Gange entro le rive sm alta i natali al Sol l’onda fiorita; né più m orbida culla o più gradita le Veneri sortir ne Tacque Argive. Pria che il serico stuol l’ambite prede stenda col labro, in biondo fil scrpendo, par che del core uman vagisca erede. La mia mortalità quindi com prendo senza gire a le tombe. In noi si vede la m orta polve inverminir vivendo.

1-4. M a r z io P ier! rico rd a che su q u e sto b iz z a r ro p ro ced im en to per far u sc i­ re il b ó m b ice dal letarg o si so ffe rm a anche C ir o di P ers (P oesie, ed. R ak , 191). 1. Filli: n om e co n v en zio n ale di ninfa, cioè di d on n a; q u i il riferim en ­ to “ a r c a d ic o ” risp etta il co n te sto am bien tale, trattan d o si di allevatrice, o v ­ v ero d o n n a ru stica. 2. L a tte : sen o. 3-4. il tep o re tra i seni dell’ allevatrice ri­ sv eglia il b a c o dal letarg o (un che non v iv e). 5-6. N e m m e n o le acque del G a n g e (p erifra si p er ind icare I’ O rie n te) d an n o una n ascita così bella (sm al­ ta i n a ta li c o sì v a g h i) al Sole. X. A rg iv e : di A r g o , in G recia, d ove ap p u n to nacqu e V enere (e d u n q u e : neanche le acq u e del m are greco o ffriro n o una cu lla tan to m o rb id a e g ra d ita a V enere). 9 - 1 1. P rim a che inizi il p ro c e sso di fa b b ric a z io n e del b o z z o lo (le a m b ite p r e d e d egli allevatori) d a p arte dei b a ­ chi (il serico stu ol), essi, co sì accolti in g re m b o , se m b ran o dei p o p p an ti (ere­ di in so m m a del core u m an o ). 12-14. L a scena so lle cita un parallelo tra l’ u om o e il verm e, co n giu n ti, ben prim a che nel p ro c e sso di p u trefazio n e (sic ­ ché n o n è n ecessario g ire a le tom b e per co n tem p lare la m orte e la n ostra fra le z z a ), già n ell’im m agin e della n ascita (su cch iare il latte d à sì vita a la m o rta p o lv e d el n o stro c o rp o m a, se c o n d o u n ’ im m agin e di “ c o n te m p o ra ­ n eità” m o lto sfru tta ta d a L u b ra n o nelle pred ich e, avvian d ola d i già verso la m o rte e la p u tred in e).

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4 (IV). Si assonna per poco tempo, e muta le prime spoglie Breve sonno, meccanico ristoro al Baco industrioso i sensi toglie; e nel vegeto sen d ’apriche foglie hanno i Vermini ancor gli estasi loro. Siede sognando, e medita il lavoro, quasi de Parti sue fabro s ’invoglie; poscia, a vestirsi in più lucide spoglie, apre languidi lumi a veglie d’oro. L’ozio stesso è virtù. C o sì N atura a’ miracoli suoi form a la culla, che interrotto operar manca, e non dura. Solo chi suda in vano e si trastulla di adulati capricci a l’om bra impura con più reti di ragno abbraccia un nulla.

1-2. Meccanico-, nel Seicen to equ ivale a ‘ fis io lo g ic o ’: c d u n q u e n atu rale il so n n o che il b ac o , g ran lav o rato re ( industrioso), si co n ced e. 3-4. I bachi hanno le lo r o estasi (p er lo p iù m aschile in L u b r a n o ), cioè so g n a n o , a d d o r ­ m entati nelle verdi fo g lie irrorate dal sole (apriche). 6. S ’invoglie: co m e un artigian o che si fa isp irare dalla su a arte p e r realizzare un b u o n lavoro. 7-8. U n a vo lta risvegliato si (apre languidi lumi), il b ac o in trap ren d e sù b ito a realizzare u n a nu ova c più bella veste (a vestirsi: c o stru z io n e im plicita d e l­ la p r o p o siz io n e fin ale); si noti il sin tagm a Veglie d ’oro, che realiz z a una fi­ g ura d o p p iam en te m eto n im ica, giacché le “ v e g lie ” stan n o p er il lav o ro , e q u esto p e r il su o risu ltato (i b o z z o li d o rati). 9. L’ozio che è virtù è n atu ral­ m ente q u ello re lig io so (in se n so lato). 11. R e g o la m orale: non b iso g n a mai in terro m p ere l’o p era, p e r non p erd ere il risu ltato dei p r o p ri sfo rz i. 12-14. C h i si trastulla di adulati capricci, si d iletta cioè di co se di p o c o co n to e che tu ttavia allcttan o il d esid erio ( adulati: p articip io p erfe tto co n v alo re attivo , co m e nei verbi d ep o n en ti latini), fin isce, n o n o stan te il tan to im p eg n o (con più reti di ragno), co n l’affaticarsi invano (e non strin g ere nulla).

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5. M etamorfosi di N atura Q uai di N atura inusitati incanti fan d ’un Verme villan Tessalo M ago, che, a lente linee circolando vago, tesse col labro orientali ammanti? I serici tesor’ sono i suoi vanti, onde di Frigia insuperbisce l’ago. Vive in sé chiuso, e del morir presago spezza la tom ba e vola infra i volanti. M etam orfosi bella! Io godo e miro; né più del fango uman vili i natali con palpebre d ’orror piango e sospiro. N o n vi tem o, o degli Astri ire fatali. Ecco brilla ne l’O r chi nacque un Irò, chi serpeggiò bambin morendo ha Tali.

1. Incanti: formule magiche. 2. Tessalo Mago: la Tessaglia, regione della Grecia, era famosa nelTÀntichità (si veda ad esempio L’asino d ’oro di Apu­ leio) per essere terra di maghi. 3. Il cerchio è la figura base di ogni proce­ dura magica. 4. Si ricordi che il verme produce il suo bozzolo secernendo dalle ghiandole salivali un filo di bava che poi viene solidificandosi: i movi­ menti dell’orifizio buccale e la traiettoria circolare tracciata dal baco lo fan­ no assomigliare a un mago che canti i suoi sortilegi. Quanto poi tutta l’im­ magine si debba al gioco fonico fra TESSalo e TESSe (raddoppiato nei SERici TESoR’ del v. 5) appare evidente. Orientali ammanti, i tessuti orienta­ li sono ancor oggi apprezzati per la loro ricchezza. 5-6. Il baco si fa vanto della seta, che poi viene lavorata riccamente in Frigia (qui per Oriente in ge­ nerale). 7-8. L’insetto vive chiuso in sé, e quando si appressa alla morte (quando cioè morirebbe se restasse ancora ravvolto nel suo bozzolo; si trat­ ta del “ bozzolo negrone”, che si mostra macchiato di nero per la putrefa­ zione della crisalide), si libera della sua tomba e vola in cielo. 9-11. Lo spet­ tacolo della trasformazione in farfalla è fonte di consolazione, a chi rimedi­ ti l’umile nascita degli uomini. 11. Palpebre d ’orror. «palpebre» sta per ‘oc­ chi’ (che a ogni lacrima per l’appunto si chiudono), mentre il sintagma «d’orror» rende l’emozione attraverso il più concreto sostantivo. 13. Irò-, mendicante di Itaca. E il povero per antonomasia. 14: Chi da piccolo ser­

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peggio (fu insomma umile come un verme) nel momento in cui muore ac­ quista le ali (si assicura la vita eterna). Una simile argomentazione si ritro­ va nel sonetto CII (In lode dell’Umiltà), concluso da Lubrano con una (per lui abbastanza tipica) immagine “ acquatica”: «Si specchi a Tacque la Poten­ za e impari: / queste su l’Alpi son piccoli rivi, / umiliate al suol crcscon in mari», vv. 12-14).

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6 (VI). Ambizione infelice di chi vuol f a r salti nel crescere Mentre su verde culla umil vagisce ospite il Baco in rustiche foreste, lieto va susurrando e scherza a strisce: lo guarda un’om bra, un pam pino lo veste. Ma se gonfio salire in alto ambisce, stam pa nel pensil trono orm e funeste. C on le viscere sue la tom ba ordisce per vanità di poche bave inteste. O stolta sem pre am bizion d ’impero! Sogna cime d ’onor l’infima plebe, e fila Toghe ed O stri entro il pensiero. Spera d ’alzare anche un tugurio in Tebe; e, cercando fortune a Ciel straniero, spesso a la tom ba sua mancan le glebe.

1-2. Verde culla, rustiche foreste', il b aco, ap p en a nato, su lle fo glie tra gli al­ beri d i g elso . 3. Scherza a strisce: si m u o v e strisc ian d o (c lascian d o i segni d elle su e m u co se ). Il v erso vuol essere tu tto un sib ilo (com e del resto l’in­ tero se c o n d o q u a rtetto ). 5-8. L’ im m agin e d ella p o v e rtà arcad ica del b aco che si acco n te n ta d ella su a n u d ità si rovescia nella p retesa di chi vuole sali­ re nella scala so c ia le (e d u n q u e “ g o n fia r si” ), v o lg en d o nei su o i pro ge tti la fo g lia su cui vive d a verde culla in pensil trono', si prep ara co sì da se ste sso la to m b a , tro n fio p er q u el p o ’ di seta che è stato capace di p ro d u rre. 11. To­ ghe ed Ostri: en d iad i p e r la to g a b o rd a ta di r o sso p o rp o ra dei sen atori r o ­ m ani. 12. Tebe', g ran d e città p e r an to n o m asia, cui però è a sso ciato il gran de ciclo trag ic o di E d ip o e dei su o i figli, d u n q u e anche il tem a della peste e del m an cato risp e tto d elle leggi (e, co m e si evince d a ll’u ltim o v erso , della c o n ­ d an n a a giacere in sep o lti). 12-14. L a plebe che s ’in u rb a per am b iz io n e (e che p u r d i vivere in città è d isp o sta ad abitare in un tugurio) risch ia, in un lu o ­ g o che non è il su o , d i fallire m iseram en te e di restare sen za d egn a se p o ltu ­ ra (p er il fa llim e n to ec o n o m ico , d iciam o co sì, e per l’asse n za di parenti che p o ss a n o p ren d ersi cu ra d egli o ffici funebri).

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7 (VII). L a voglia di sfoggiare negli abiti impoverisce le case Intumidito ii sen d ’umide foglie, schivo di serpeggiar più verme in cuna, si smunge e svena, e le sue bave aduna per farne gale in preziose spoglie. O di vano sudore incaute voglie! M endico si pascea, ricco digiuna; ed Istrion di apocrifa fortuna, sotto le pom pe sue vive a le doglie. Tali del M ondo insan veggo I’usanze: fenomeni di luce, om bre d ’essenze, grandi accidenti in minime sostanze. N'iun riflette in tante trasparenze che al Bello de le Vesti e de le Stanze, sbadiglian l’Arche e fallan le Credenze.

1-2. Gonfio per essersi nutrito di foglie a sazietà, sdegnoso di continuare a strisciare. 3-4. Il baco si smunge e svena, cioè si dà parossisticamente da fa­ re, e raccoglie il muco che seeerne per realizzare lo sfarzoso (gale) bozzolo che lo ospiti. 5, Da povero mangiava, ora che è ricco (o almeno così osten­ ta) è costretto a digiunare. 6-8. E un attore (istrione) da strapazzo nelle ma­ ni della fortuna, che recita una ricchezza falsa (apocrifa), perché solo este­ riore: sotto le ricche vesti patisce la povertà. 9-11. Sono queste le usanze del nostro mondo: esaltare le apparenze, ricoprire le realtà vane O illusorie (mi­ nime sostanze) con ricchi orpelli (grandi accidenti). 12-14. Nessuno riflette però sul fatto che per la ricchezza degli addobbi e delle residenze, per la vo­ lontà insomma di apparire, sbadiglian l’Arche (cioè le casseforti si svuota­ no, e dunque sbadigliano, metaforicamente, per la fame) e fallan le creden­ ze (ovvero gli armadi in cui si immagazzinano le scorte ingannano perché in realtà sono vuoti). 59

8 (V ili). Quanto tram a la Finzione è orditura di supplici A rguto Vermicel fra Pesche erbose pensa tessersi un vel d ’om bra sicura. Più reti ordisce e sim ulando oscura con nobil lustro le vilezze ascose. C o sì passa prigion l’ore noiose, e i labirinti suoi filando indura. Pria che s ’impenni un Icaro a l’arsura, cade naufraga preda in fiamme ondose. O voi che, fabri d ’arbitrarie M ode, a colorir le finzioni ordite trame d ’infamia in porpore di lode; breve è la sorte de lTnganno, udite: quante fila d ’astuzie usa la Frode vi saran lacci a strangolar le Vite.

1. Il baco e arguto in quanto, per le sue metamorfosi, appartiene, come spie­ ga Emanuele Tesauro in un capitoletto del Cannocchiale aristotelico, alle Argutezze della natura, dovute all’«intelletto divino in quanto si adatta al­ la materia da lui fabbricata a principio e disposita alla manutenzione del­ l’universo». Del resto, è detto esplicitamente in 35 12: «Negl’Insetti anco è Dio» (e anche per Tesauro «il grande Iddio godé talora di fare il poeta e l’ar­ guto favellatore»). 2. Progetta di costruirsi un rifugio (per quanto sottilis­ simo) sicuro. 3. Simulando: la simulazione, e il suo correlativo della dissi­ mulazione, è lemma centrale della cultura seicentesca: qui si tratta del ma­ scheramento del baco, che copre le sue spregevoli fattezze con una ricca ve­ ste. 5-6. Chiuso nel bozzolo rinforza dal di dentro la sua stessa prigione, che diventa come un labirinto da cui non può più uscire; l’immagine dei la­ birinti suoi rimanda ai bozzolo, che ha la forma di un’ogiva composta da anelli concentrici. 7-8. Per ricavare la seta occorre immergere i bozzoli in acqua bollente, la cosiddetta “stufatura”, uccidendo così la crisalide che vi è contenuta: il baco è quindi come Icaro (figlio dell’architetto Dedalo che progettò e realizzò il labirinto di Minosse a Creta) che diresse le ali di cera verso il sole (e morì nelle acque del mare). 9-11. Invettiva contro i sarti che inventano nuove fogge per gli abiti, cucendo trame d ’infamia (perche gli abiti inducono al lusso) e porpore di lode (allettamenti esteriori) cne copro­ no la vile realtà del corpo. 13-14. I fili della seta secreta dal baco, reali, di­ ventano i metaforici canapi cui si finisce coll’essere impiccati per la gola. 60

9 (IX). Chi lascia lusingarsi da Donne rinuova la tragedia di Oloferne decapitato da Giuditta Stanca le mani industriosa Clori, Balia de’ Vermi in tenerezze amanti, e fa che, nel vagir orfani erranti, godano in culla di molli erbe e fiori. Sparge in latte vital l’esche d e’ M ori recise in pezzi; e poi si strugge in pianti, se fosco il Ciel contra gli alunni infanti introna l’aria e fulmina terrori. Ah di avara pietà perfida brama! C on benefici traffica rapine; vezzeggia chi più rende, odia chi l’ama. N utrisce i Vermi, e poi gli spoglia al fine. M isero chi di Donne il senso affama! Mastica frondi, e vomita ruine.

1-2. Clori: altro nom o co n ven zion alo di n in fa, e d u n q u e d o n n a, qui l’alle­ vatrice, che è balia in q u a n to ha cura della crescita dei bachi. 3-4. L e atte n ­ zion i di chi cu ra l’allevam en to fan n o si che i bachi crescan o ben nutriti (per il tem a dei bach i orfani, vedi anch e il so n e tto 18). 5-8. L ’allevatrice n u tre il b aco facen d o lo crescere su g li alberi di g elso (i Mori... che so n o n atu ral­ m ente già esche di m o rte), le cu i fo g lie sp e z z e tta am o rev o lm en te, d isp e ra n ­ d o si se un tem p o rale m ette a rep en taglio la vita dei su o i alumni, cioè dei giovan i bachi alla cu i cu ra ella e p rep o sta. 10-12. D ie tro l’ap p aren te b e n e­ v o le n za si m acch ina in realtà il fu rto , che l’allevatrice alla fine rapin a ( spo­ glia) chi ha nu trito. 13. Chi di Donne il senso affama: chi stim o la in sé il d e ­ sid ero lu ssu rio so p er le d on n e. 13-14. C h iu su ra ep ig ram m atic a m o ra le g ­ giante con sententia m etafo rica in clau so la: chi ha p raticato l’ am o re se n su a ­ le per le d on n e non ha m an g iato altro che frondi (un cib o d a anim ali, e s o ­ p rattu tto in con sisten te e non nu tritivo), e p rim a o poi v o m iterà le su e ruine.

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10 (X). L ’Industria ingegnosa è una Fortuna domestica D a qual E u clid e apprese, in quale scola, un V erm icciuol G eo m etrie m aestre, che d ’auree linee in seriche palestre eru d ito In ven tor l ’arti co n so la? Q u al P allade gli diede e su b b io e sp ola d a p in g er n ova scena a Frigie O rch estre? C o m e , fab ro al garrir d ’o m b ra silvestre, tesse le tom be sue e p o i se ’n vola? Si co n fo n d a in m irarlo il F asto um ano, che a p o m p e g g ia r im poverisce un R egn o e sp o g lia d ’ostri e gem m e il M are insano. D i gran gloria in un V erm e ecco il disegn o: fo rm a un O rb e in se ste sso e m ente e m ano; che far m o lto col p o co op ra e d ’ingegno.

I. Euclide : il matem atico greco cui dobbiam o gli Elem enti di geom etria (dunque: da quale m aestro eccelso apprese l’arte geom etrica il baco?). 3. Palestre', etim ologicam ente, le palestre, o ginnasi, erano le scuole ginniche per i greci giovinetti; qui seriche perché l’esercizio geom etrico è realizzato con la seta. 5. P allad e : Atena era la dea delle arti; subbio e spola: gli stru­ menti della tessitura (il subbio nel telaio è un cilindro di legno o di metallo sui cui son o avvolti i fili dell’ordito). 6. Il baco gareggia con i frigi (cfr. so ­ netto 5), maestri nell’arte tessile, producendo apparati degni di un son tu o­ so teatro (l’orchestra era la zona che nei teatri dell’antica Grecia era prepo­ sta alle danze del coro). 7. Come', in che m odo. A l garrir d ’om bra silvestre: allo storm ire delle foglie (ma con effetto visivo, ennesima “ trasparenza” , in­ cluso). 9-11. Invito agli uom ini affinché si vergognino delle proprie pom pe, che squilibrano l’econom ia pubblica e im poveriscono le risorse naturali, sottraendo al tem pestoso mare i suoi tesori (Pieri indica che l’attributo in­ sano di mare è «di repertorio» e significa semplicemente ‘furioso’, ‘in tem­ p esta’). 13. Form a un O rbe in se stesso : il baco com pone da sé solo tutto un m ondo (il b ozzolo), di cui è sia architetto (mente) sia realizzatore materia­ le (m ano). 14. Il vero ingegno si m ostra dunque nell’ottcnere motto con p o ­ chi mezzi. 62

11 (XI). Chi vive per morire, muore per vivere Settizon ii eccelsissim i a Severo p er adularlo estinto erse già R o m a, c d ’im m ense Piram idi la so m a a’ cadaveri Scettri il N il guerriero. Sosp ese a' M au solei del G reco Im pero le sue bende F o rtu n a e l’aurea ch iom a; m a il T em p o alfin, che le su perbie d om a, sepelll Purne stesse al F asto altero. D el Verm e serican segu a le scorte chi a le ceneri sue, oltre del F ato , aprir si vuol d ’E tern ità le porte. Q u esti sep o lto vive, e so rge alato. E perché in vita m uor, p o i vive in m orte, e fa vo lo pel C iel l’ultim o fiato.

1-8. Settimio Severo fece costruire un im ponente edificio sul Palatino (il Settizonio); Lubrano parrebbe identificarlo con un m onum ento funebre, e lo assimila pertanto nella funzione alle piramidi egizie, sepolcri dei faraoni (cadaveri Scettri), nonché al M ausoleo di A licarnassia. Tutte queste costru ­ zioni, per quanto grandiose, son o umane, dunque soggette al mutare della Fortuna, e al trascorrere del Tem po, che infine seppellisce quegli stessi fa­ stosi sepolcri. 9-11. Invito a seguire le orme (le scorte) del baco da seta per aprirsi, attraverso la cenere, e dop o la m orte (oltre del Fato), le porte del Paradiso. 13. Le form ule ossim oriche in vita m uor e vive in morte, dalla poesia d ’amore erano passate alla poesia mistica (cfr. per esem pio «vivo sin vivir en mi» di S. Juan de la C ru z) e religiosa in genere. 13-14. L a chiusa, con il sotteso elogio dell’um iltà cautelosa (e perché in vita muor) che con ­ sente nell’ora estrem a di innalzarsi in volo fino al ciclo con l ’ultimo fiato , va raffrontata a quella del sonetto 5. 63

12 (XII). Simbolo degli Avari, che multiplicano l ’usure per impinguare il Fisco delle disgrazie Q u a n to d ’affanni e di su d o ri im piega Verm e che, là su le Trinacrie rive, sen za istanti di p o sa e sen za tregua si svena esan gu e e stem p era in salive! Si d ivin cola e storce, intriga e piega d en tro un aurato g lo b o om b re furtive. O r le fila asso ttiglia, ora l’adegua, per p o m p eg g ia r se p o lto app en a vive. M a le ricch ezze sue lacere e sparte, oltre l’A lp i d ’ Italia ed oltre i M ari, e co n o m a del lu sso invola l’A rtc. Q u e ste sven ture il C ie l serb a agli A vari. C h iu d o n o , vivi, l’o ro in arche e carte, p er aprir, m orti, al F isc o i ch iusi E rari.

1-8. Rappresentazione icastica del faticoso lavoro del baco, che, pur di pom peggiar sepolto (allusione alle pom pe dei sepolcri?), si smunge, perde peso (si svena esangue e stempera in salive... anzi, dato l’acceso fonosim bo­ lism o, si sgonfia, quasi si sfiata; cfr. la stessa immagine al sonetto 7), seccrnendo il filo di seta e producendo così il prezioso b o zzo lo dalla form a af­ fusolata (Yaurato globo), dentro il quale si richiude. 9-11. Il b ozzolo, che costituisce la ricchezza del baco, sia pure m alridotto a causa del trattam en­ to cui viene so tto p o sto per ucciderne l’ospite (il cosiddetto “ b ozzolo sec­ c o ” ), viene portato all’estero (in O landa e in Oriente) per produrre tessuti di lusso. Il soggetto è l ’A rte (che, economa del lusso, ruba le loro ricchezze ai bachi). 12-14. Q u esta vicenda è immagine morale su cui devono m edita­ re gli avari, clic seppelliscono le loro ricchezze nelle casseforti (i chiusi E ra­ ri), destinate, d o p o la loro morte, a passare nelle mani del Fisco vicereale (e anche di quello divino).

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13 (XIII). Chi mortifica la sua carne, glorifica lo spirito C ifra anim ata di p ro d ig i, un Verm e a le viscere sue la guerra indice, ro rario invitto e venturiero inerm e, p er cangiarsi in tro feo l’urna felice. G li stam i di su a età su d an d o elice, vivendo a l’o m b ra di fun ereo germ e; poi riso rge se p o lto , e l’ali ferm e add estra al voi do m estica Fenice. Q u in d i im para, m ortai, o r che ti affanni, com e degen erar la tua fralezza p u ò n obilm ente ed eternarsi gli anni. C h i vincitor di sé la vita sp re zza, s ’im penn a nel m o rir m istici vanni da p o rsi in C ie lo un A n g io lo in bellezza.

1. Il baco da seta è dunque un enigma, un emblema, un ’allegoria, la cifra vi­ vente dietro cui si nascondono profonde verità. 2. Fa guerra a se stesso (estraendo da le viscere sue il filò con cui farà il b ozzolo). 3. R orario: so l­ dato di fanteria armato alla leggera. Venturiero: chi opera alla giornata, chi esercita liberamente la propria professione. 4. M ortificando il suo corpo trasform a il sepolcro (il b ozzolo) in m onum ento trionfale. 5. Recide (elice) il filo (starno) della sua vita (per un’immagine analoga, cfr. sonetto 16). 6. Germ e : germ oglio del gelso. Funereo perché chi vi si nutre verrà infine u c­ ciso (Pieri). 8. C om e la mitica Fenice, anche il baco è destinato a risorgere dalle sue ceneri (si noti com e le ali debbano restare ferm e per addestrarsi al volo: è la cautela gesuitica). 9. Q u in di : da ciò. O r che ti affan n i: “ che tanto sem pre ti affanni” . 10. L a tua fralezza-, soggetto; fragilità del corpo peritu­ ro (e disposizione al peccato). 10-11. Le nostre fragilità non vanno dunque rafforzate (perché ciò sconfina nell’orgoglio) ma “ degenerate” nobilmente. O ccorre dunque accettare le proprie miserie, e m ortificarle, metterle in­ som m a al servizio di quell’um iltà che lavora per l’ultima muta, quella dell’«angelica farfalla». 12-14. C hi sa vincere le proprie pulsioni si veste (s’impenna) di quelle mistiche ali (vanni) in virtù delle quali sarà un nuovo angelo del Paradiso.

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14 (XIV). Il Baco è un Enimma di naturali prodigi U n esser di più specie in uno unite p o v ero nasce, ed a go n iza aurato. L ascia, estin to, di rai più linee ordite, da punti di p utredine anim ato. G ia n o di form e, A n fib io di du e vite, p o lv ero so E m b rio n , p o stu m o alato; né Palingenesie tanto inudite so n di favola greca E stro so gn ato. H a per su a libertà la su a p rigion e, ha p er E rario su o il p ro p rio avello, ha le reliquie su e per sue coron e. D im m i, E d ip o , chi sia? Q u e llo e non quello: n aviga M o n d i oltre l’A u so n ie Z on e, A rg o insiem e e G iaso n e, ed aureo Vello.

1-4. L a vicenda del baco viene presentata come un indovinello (enimma). Il Verme Setaiuolo è dunque uno, ma com posto di molte specie differenti; una volta m orto, lascia un m anufatto geometricamente costruito (rai, cioè rag­ gi, perpendicolari e linee parallele), lui che era nato dai processi di decom ­ posizion e degli altri corpi (si veda 2 2). 5-8. C om e il dio rom ano G iano ha due volti, com e gli animali anfibi due nature: è un embrione, un germe, già m orto, e un m orto che vive con le ali; le sue m etam orfosi son o reali (le «ar­ gutezze di natura» di cui parla Tesauro) non favole mitologiche. 9-11. Se­ quen za di proposizion i paradossali: il suo carcere è la sua libertà; la tomba gli è cassarono; le sue reliquie (i suoi resti funebri) ne sono.il monumento trionfale (com e nel sonetto 13). 12. Per rispondere all’indovinello viene convocato E dipo, che seppe risolvere l’enigma presentatogli dalla Sfinge (e magari la sua risposta sta nel secondo emistichio di questo verso; Quello e non quello). 13-14. N u o v a form ulazione dell’enigma: il baco è insieme G ia­ sone, che sulla nave A rgo diresse verso la Colchide alla ricerca del vello d ’o ­ ro, c al contem po io stesso carico prezioso conquistato dall’ eroe greco... c persino la stessa nave (A rgo ); il baco infatti, o quanto ne resta, viene im ­ barcato, oltre l ’Ausonie 2one (cfr. 12 9-11), per raggiungere i luoghi dove la seta viene lavorata. 66

15 (XV). Metamorfosi del Verme C h e veggio? In Verme si trasfo rm a un G io v e che, di serica luce il sen fecon d o, entro un O rb e di rai, sferico p o n d o , arbitro d e ’ su oi Fati agita e m ove. C o n invidia dei C ign i in form e nove serpe brun, bian co vola e sp len de b io n d o ; che, se D an ae del lu sso è fatto il M o n d o , esten uato in fila, o ro gli piove. Se fascia G io v e in E p icicli erranti di satellite Stelle il cerchio am bito, un Verme orna di p o m p e anco i R egnanti. Sol di G io v e non ha, che al lam po ard ito di fu lm in oso C ie l perde i sem bianti; e se rapì l ’E u ro p a, ora è rapito.

1-4. Giove, sem pre libero di trasform arsi com e vuole (arbitro d e ’ suoi F a ­ ti), ha preso le fattezze di un Verme che, m uovendosi operosam ente (agita e move), si veste del geom etrico b ozzolo di seta (O rbe di rai , cfr. il sonetto precedente). 5-8. C on questa m etam orfosi il dio ha superato se stesso, giac­ ché adesso, quando striscia assum e una veste bruna, quando vola è bianco e quando si ricopre di muco ha il colore dell’oro (serpe brun, vola bianco, splende biondo), facendo invidia ai cigni, che pure volle imitare per con­ quistare Leda. Il b ozzolo dorato, anzi, può disfarsi in una pioggia d ’oro, così da sedurre il m ondo intero assum endo la stessa form a utilizzata dal dio per conquistare Danae. 9-11. Similitudine astronom ica: com e intorno al­ l’orbita (cerchio am bito) di G iove (ambita, l’orbita, perché nella angeologia cristiana è quella la posizione dei Principi) circolano dei satelliti, così anche i potenti (i “ d ei” terreni) sono fasciati dall’opera di un verme (la seta). 1214. L’unica differenza che corre tra G iove e il baco è che quest’ultim o teme i fulmini, cioè proprio il più potente strum ento della divinità. Per il resto, se G iove rapì E uropa (assum endo le sem bianze di un toro), adesso è l’E u ­ ropa che rapisce il baco suo em ulo (Pieri svolge Y agudcza, suggerendo: «va a ruba»). 67

16 (XVI). Prosopopea A rte è la vita mia: tesso c ritcsso le viscere sp rem u te in bave d ’oro, né p u r del ch iu so b occio ove d im o ro m ’è di v o lar alfin sem pre co n cesso. Salen do in su di vii ginestra, ap p resso le rovin e al m io serico lavoro. C o sì, filan d o i giorn i, arso mi m o ro, P arca, P refica insiem , tom b a a m e stesso. P o v ero già, serp en d o in verdi prati gu stai d ’e rb o so su o l dolci le brine, sen za l’ ira tem er d ’ incendi ingrati. R icco , crebbi a l’insidie, a le rapine. A p p re n d a l’U o m da m e che avari i Fati più co rro n o a sp o g lia r chi ha d ’o ro il crine.

1. In quanto p rosopop ea, qui c il verme stesso a prendere la parola (ed ec­ colo protestare sùbito la sua natura d ’instancabile “ artefice” ). 3. boccio : b ozzolo. 3-4. D al m om ento che, com ’è già stato ricordato, per impedirne lo sfarfallam ento viene in realtà il più delle volte ucciso con la “ stufatura” . 5-6. N ascen d o da un’umile pianta (v ii ginestra), proprio col suo stesso la­ vorare la seta, il baco (vedi vv. 3-4, nonché i versi immediatamente succes­ sivi) si apparecchia la morte. 7. U na vita vissuta all’insegna della produtti­ vità (e una fine miserrim a). 8. Il verme è Parca a se stesso, giacché fila e re­ cide il filo della sua stessa vita (in quanto, producendo la seta, si destina al­ la m orte); è Prefica perché piange (in questi stessi versi) il proprio decesso; è tom ba perché si costruisce il b ozzolo nel quale si rinchiuderà, e per il q u a­ le verrà ucciso. 9 - 1 1. D a verm e “ im produttivo” poteva difatti vivere senz ’alcun tim ore. Si noti l’opposizione fra le dolci... brine che il baco assapo­ ra nella sua “ infan zia” e g l’ incendi ingrati che neanche sospetta chiuderan­ no la sua vita. 12. D ivenuto ricco, insom m a prezioso per la sua seta, il baco diviene oggetto di insidie e rapine. 13-14. E la morale def sonetto: il desti­ no, sem pre rapace (“ avaro” ), incrudelisce con chi ha più fortune e beni (ha d'oro il crine). 68

17 (XVII). Si arricchisce del suo per industria, non per rapina C h e bel genio d ’un Verm e! In grem b o ascon d e vivi i balen ’ de le Peruvie vene, e stam p a bran colan d o a secche avene di rettile Pattòl seriche l’onde. Sveglia c o ’ labbri su o i, saz io di fron de, a l’E sp e rio giardin invidie amene. P ò n n o em ular sulle stellate scene di Berenice il crin l’om b re sue bionde. Tu tto e cen so di lui l’o ro che sp an d e; ne con leggi tiranniche d ’o rgo glio vo ta Province a co m p arir da G ran de. O g g i il rap ir p ar gloria a più d ’un Soglio. Son trionfi le prede; arm e am m irande chiam ansi del v alor l’unghie d ’un V oglio.

1. C he verme... arguto! 2. G li splendori delle vene aurifere del Perù. 3-4. Mentre incerto si muove alla ricerca di umile cibo ( secche avene), lascia un’im pronta dorata di seta com e un corso di fiume serpeggiante (il Pattolo è il fiume della Lidia da cui si estraeva l’oro). 5-6. C on l’opera delle sue lab­ bra (e per quanto si sazi solo di umili fronde), suscita l’invidia dell’O rto delle Esperidi (fam oso per i suoi frutti d ’oro, da contrapporre dunque alle misere fronde). 7-8. L a seta che produce può essere paragonata alle chiom e di Berenice (regina d ’E gitto trasform ata in costellazione). Il soggetto è il quasi ossim orico l'om bre sue bionde (le om bre, qui nel senso di “ lievi par­ venze” , sono i fili delia seta). 9-11. L a sua ricchezza, insom m a, la produce in proprio, non è il frutto di tasse con cui, pur di apparire G rande, s ’im po­ veriscono le Province (una sottile polem ica antispagnola? M a no, un tic da predicatore). 12. M olti re e potenti considerano gloria il furto (quello in cui, secondo M arzio Pieri, «si risolve la guerra»; o sem plicem ente la riscossio­ ne dei tributi). 13-14. E vengono considerate am m irevoli im prese militari azioni dettate soltanto dal più meschino desiderio di rapina ( l ’unghie d ’un Voglio). 69

18 (XVIII). Gli abbigliamenti del corpo sono nudezze dell’anima B io n d a gram aglia d ’orfani B o m b ici a ’ capricci d e ll’arte in varie gale si tesse in T oghe, in C lam id i a ’ Felici che il bel de l’A lm e p o n g o n o in non cale. Beve in bagn i d ’E ritra O stri fenici, che sen za vezzi a lu sin gar n on vale; e l ’O r filato d ’in d ich e pendici le sm alta il vile, e le ravviva il frale. T an to a fregiar d ’estinti verm i un velo a d o p ra il L u ss o adulator, né cura abiti di V irtù, stole di C ielo . M a sfo g g i pur, che neU’E tern a arsura sentirà ign u d o fra le vam pe e ’l gelo V erm e che sem p re ro d e e sem pre dura.

1-4. Vesti a lutto dorate (l’ossim oro verrà m otivato nel corso del sonetto) di bachi orfani (perché nati, a detta degli scienziati gesuiti, dalla putredine e senza fecondazione, cfr. ì sonetti 2 e 9) vengono intessuti secondo i ca­ pricci d ell’arte in varie fogge, per gli abiti sfarzosi (il clàm ide,.originaria­ mente mantello militare, vale qui “ manto regale”) dei ricchi che non nutro­ no alcun interesse per la vera bellezza, quella spirituale. 5-8. Tali vesti sono poi im bevute di porpora (Eritra è la regione che si affaccia sul M ar R osso, e rafforza dunque la notazione di colore della porpora “ fenicia” ), perché non si utilizzano senza ulteriori abbellimenti; e i tessuti preziosi orientali “ sm altan o” e “ ravvivano” il grezzo (il vile.., il frale) della :seta. 10. Il Lusso ad ulator. soggetto (di entrambi i terzetti). L a contrapposizione, è dunque fra l’inconsistente velo derivato da estinti verm i che il Lusso non si stanca di “ fregiare” e i negletti ab iti di Virtù (si noti come il senso proprio si d o p ­ pi im m ediatam ente in quello figurato) che posson o invece condurre al C ie­ lo. 12-14. C on trap passo dantesco: il Lusso ad ulator non solo verrà arso co ­ me il baco, ina resterà ignudo a sentire l’eterno rovello della pena infernale (la cui ciclicità senza scam po si riverbera nello specchio di R oD e e D uR a). C h i insom m a si è rivestito con quanto “ vom itato” dai bachi, sarà solo un b o zz o lo per il fam elico verme del rim orso. 70

19 (XIX). Noli timere vermis Jacob (Isaia c. 4) O go lo rio so E n im m a! U n m o rto sem e schiude a tiepido C iel alm a che sente, e, serp eggian d o in ato m o vivente, a’ Belgici telai nutre la spem e. T rasform a il cibo in stam e, e torce e sprem e da le viscere su e g lo b o lucente; fatto su b b io del sen, sp o la del dente, ordisce in tram e le salive estrem e. Sep o lto alfin in funeral volum e rifa la vita e, D ed a lo novello, su per l’ aeree vie batte le pium e. N e g a or, se p u o i, che so rgerà più bello del fango u m an o incenerito il lum e, se a ’ Verm i ancora è F o sfo r o l’A vello?

1-2. Ennesim o riferimento alla nascita ex nibtlo del baco da seta (enim m a di naturali prodigi, come recitava il titolo di 14). Tiepido Ciel: cfr. 2 4. A l­ ma che sente: animale senziente (cfr. 2 8). 3-4. Promette, con l’industre “ ser­ peggiare” del suo corpo minuto (atomo vivente), ricchezza alle botteghe tessili fiamminghe (cfr. sonetto 12 9-11). 5. Stam e: nel consueto senso estensivo di “ filo” . 6. Globo lucente : il b ozzolo dorato. 7. Il corpo del ba­ co è il suo subbio, così com a la bocca è la sua spola (cfr. 10 5). 8. Salive estre­ me: gli ultimi fili di seta (prim a della sua “ morte apparente” ). Si noti l’insi-. stita orchestrazione form ale del verso e dell’intero quartetto. 9. Funeral v o ­ lume: il b ozzolo (altre volte esplicitamente definito tom ba). 10-11. Rinasce farfalla (quasi un nuovo D edalo, in fuga dal labirinto, vale a dire dal b o z ­ zolo da lui stesso costruito). Pium e: ali. 12-14. Se, dunque, addirittura per un “ verm e” la tom ba c piuttosto un fosforo («p aro la», notava M arzio Pie­ ri, «di fresco reimpiego nel Seicento»), nel senso etim ologico di “ apporta­ tore di luce”, c o m e si può negare che il nostro lume (l’anima) non sorgerà più bello dopo che verrà incenerito il nostro corpo ( fango utnano )? 71

20 (XX). Ipocondriaco simile al Verme A T c p ari so n Io, Verm e affan n oso: am b i filiam o in aria i p ro p ri um ori; m i p a sc o d ’o m b re vane, e tu di M ori; tu se m p re affaticato, io m ai non p o so . Tu langui al lam po , al tu o n d ’A u stro n em boso; 10 de l ’o p p r e sso C o r sv en go ai trem ori. Tu co n tuoi lacci il carcere t ’indori; d e le caten e mie l ’arb itrio è sp o so . So n le divise tue tra !1 b io n d o e ’ l nero; 11 fla v o de la bile in m e stem p rato di fu ligini accese è fum o vero. In ciò svaria fra noi le leggi il F ato : ch ’ i o d a le m orti m ie vita n on sp ero, T u da la to m b a tua riso rgi alato.

1. A ffannoso: che s ’affatica senza sosta. 2. G li um ori del baco sono ovvia­ mente le sue bave, quelli dell’ipocondriaco si riferiscono alle teorie m edi­ che um orali (vedi vv. 10-11). 3-4. S e l ’ipocondriaco non trova mai riposo al­ le sue ansie e alle sue paure (innanzi tutto di am malarsi e di morire), il ba­ co s ’affatica a nutrirsi di M ori (in cui, in equivoco, s’intenda, con le piante, anche l’infinito di morior... verbo che nelle sue prediche Lubrano definisce sp e sso , con u n ’acuta sottigliezza logica, «indeclinabile»). 5-6. Il baco teme i fulm ini (cfr. 9 7-8 e 15 12-13), così com e l’ipocondriaco i tremori del cuo­ re (a su a volta oppresso com e un cielo nuvoloso). 8. Anche l’ipocondriaco si costruisce da sé (col proprio arbitrio) la propria prigione-bozzolo... di fobie. 9. D ivise: vesti i cui colori rim andano a una famiglia, a una confra­ ternita ecc. 10-11. La bile fla v a , la bile cioè propriam ente detta, congiungcn dosi con l’atra (quella della malinconia, la “ bile nera” ), diviene, per dir­ la con D an te (Inf. V II 123), «accidioso fum m o». 12. l i Fato: soggetto. S v a­ ria: distin gue, diversifica. 13. Dalle continue m orti che l’ipocondriaco “ pre­ sen te” , contrariam ente a quanto avviene al baco, non c’è alcuna speranza di risorgere alla vita. 72

21 (XXI). La Virtù sconosciuta invilisce Sem i di viva polve, A lunni ignoti, n acquero a l’om bre già di b o sco A ssiro questi che, pregn i d ’or in b ion d o giro, a le p o m p e E u ro p ee filan o i voti. L ’A rte gli trasse ad E rem i rem oti p er bere in ricche conch e ostri di T iro. N e più Verm i negletti o ggi gli am m iro fregiar T ron i reai’, Tem pli devoti. Tal d ’incogniti E ro i V irtù negletta, se di F am a la scu o p re occh io sagace, ad op erar p ro d igi il v o lo affretta. O gn i V alor cad avero si giace, se non v ’ha chi lo stim i, e ’l p la u so aspetta p er farsi un M arte in guerra, un G io v e in pace.

1 Viva polve, consueto riferimento (ossim orico) alla generazione ex nibilo. Alunni, allevati. Ignoti: sconosciuti, oscuri (il Verme e ignòto per la sua “ um iltà” ). 2. Assiro: orientale (si riferisce all’origine dell’arte della setà). 4. Voti: desideri (i bachi filano la seta e, al contem po, ordiscon o le trame pec­ caminose del lusso degli europei). 5. L ’Arte: s ’intcnde quella tessile, ed è dunque sinonim o di “ m od a”, “ fa sto ”, “ lu sso ”. 6. Per immergerli (cfr. 18 5) nella porpora (ostri di Tiro-, Tiro era il più attivo porto fenicio, fam oso na­ turalmente per la porpora) 8. O g gi si può ammirare il p rodotto di tali ver­ mi apparentemente vili ( negletti) abbellire corti e altari. 9-11. Se l’occhio at­ tento della Fam a scorge eroi “ discreti” che sarebbero senza di lei rimasti in­ cogniti, allora in ogni dove si diffonde notizia della loro Virtù altrimenti ne­ gletta. 12-14. Se non v’è chi ne dia contezza, ogni valore giace com e m or­ to; cd è solo se la virtù viene riconosciuta (riceve insom m a il plauso) che si diventa (e si è disposti a diventare) M arte in guerra o G iove in pace (che si viene ritenuti grandi cioè nelParte militare com e in quella politica). Insom ma: le grandi imprese, non opportunam ente “ pubblicizzate” , son o presso­ ché inutili. 73

22 (XXII). Il contentarsi del suo 'epolitica di pace B ac o gentil, che in p rez io si stam i fili la V ita G io rn alier sepo lto, e, non v ago di app lausi, in go m b ri il volto a far de le tue vene aurei ricam i; ricco erede di te nulla tu bram i, che a chi vive del su o il p o c o è m olto. B a sta a tòrti la fam e un M o ro incolto, e p er la R e ggia tua b astan o i ram i. T u rbi la Terra, l’A ria, il M are, i Fiu m i in g o rd o l’U o m o , e nel Peruvio fo n d o fin gli E rari del Sol rubi e consum i. C h e p ro se mai non p o sa il co r gio co n d o ? Q u an ti regnan fra p o m p e e fan da N u m i, com e Tantali su oi deride il M o n d o .

2. G iornalier sepolto-, come un bracciante assunto a giornata ma “ n ascosto” (nel suo b ozzo lo ) il baco “ fila” la sua vita. 3. In una perfetta palinodia del sonetto precedente, qui il verme non attende applausi (anzi quasi si scher­ misce coi suoi au rei ricam i il volto). 4-8. Spiega perfettamente il titolo di questa “ predica” raccorciata: chi vive dei propri mezzi, per quanto m ode­ sti siano, non prova desideri sm odati. 9-11, Turbi pure l’uom o per la sua in­ gordigia tutu gli elementi, e consum i pure tutte le risorse aurifere del Perù. 12-14. M a niente mai gli concederà riposo o gli darà la felicità (“ a che ser­ ve bram are tante ricchezze, da esaurire le stesse risorse del m ondo, se il cuore, afflitto dall’insaziabile riproporsi del desiderio, non riposa mai so d ­ d isfa tto ?” ). Q uanti hanno più potere al m ondo, e persino quelli che si m o­ strano com e divinità (fan da N um i), posson o essere derisi come Tantalo (cui, per punizione infernale, non è dato raggiungere i frutti e l’acqua che ardentem ente desidera, e che pure gli appaiono a portata di mano), per l’in­ sensato rinnovarsi di quel desiderio che niente potrà mai appagare (ecco perché L ub rano consigliava, in 13 9-11, di imparare a degenerar la propria fralezza).

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23 (XXIII). Vanità del colorito vario delle sete N o n sazio di rapir lane agli arm enti, a le T igri, a Pantere orrid i velli, B arbare pium e a M essicani augelli, sviscera il L u sso ancor Verm ini spenti. M o stran filate l’arie, orditi i venti, le sete in sottilissim i capelli; che, qu an to velan men, tanto più belli stim a il gu ard o p ro fan su oi ornam enti. Tiranna Vanità di che ti pregi? L e p o m p e al fragil co rp o offri in tributo e lasci l’ alm c ignude in m e z z o a fregi. C o n fo n d e rti ben p u o i, ché un vii rifiuto di escrem entizio Verm e am m anta i R egi, e p iù C esari veste un p icciol bruto.

1-4, Il soggetto (come in 18 9-14) è il Lusso che, non sazio di predare tutti gli animali, dom estici ed esotici (“ barbari” ), ai quali per l’appunto “ rapisce” lana, pellicce e piume, sottrae persino.il prodotto delle “ viscere” (il vii ri­ fiu to / di escrementizio Verme dei vv. 12-13) ai bachi uccisi dalla “ stufatu­ ra” . 5-8. La seta è l’elemento proprio delle «trasparenze»: sem bra aria fila­ ta, ordito di vento, sottilissimi capelli, ed è tanto più ritenuta pregiata dal guardo prof an (gli occhi della m ondanità) quanto più scopre e meno vela. 10-11. Il corpo fra g il, m ortale, può essere ricoperto dalla Vanità delle p om ­ pe, ma l’anima però fra tanti lussi resta ignuda (il riferim ento parrebbe a 2 C or 5,4, dove Paolo ricorda come sia proprio dei credenti desiderare di «supervestiri», di essere insom m a rivestiti dall’im m ortalità, per non ritrovarsi «nudi» nella morte). 12-14. C om e nei versi precedenti, il soggetto (dell’a­ postrofe). è la Vanità, che fa sì che i re si am mantino degli escrementi di un verme, al punto che un piccolo animale (bruto...) occorre a vestire tanti re e potenti (Cesari; per il tema efr: il sonetto 15 11). U n ’agudeza da an tolo­ gia, non solo., perché, nel consueto (in L ubrano) im piego a tutto cam po (cioè nell’intersezione con altre spinte tròpiche) dell’antonom asia, C esare (l’unico, il princeps) si moltiplica e si lascia rivestire da un unico miserabile “ B ru to ” , ma anche perçhé chi lo riveste, lo si sa, lo condurrà ben presto a morte. 75 .

24 (XXIV). Stravaganze del lusso nel dar varie tinte di colori alle sete P er d a r più volti a un v o m ito filato di so z z i Verm i, adu ltera colori cam aleon te l’A rte, e al m onte, al p rato , ru b a m acchie di m arm i, arie di fiori. R u b a riflessi d ’on d e al M are irato, ru ba d a so lfi e b ro n zi anco gli orrori, ru ba le vam p e al fo c o e ruba al F ato di b arb aro velen flebili um ori. T an ta è la sim p atia o ggi col finto, che un fil di verità n on hanno i nastri, e sfo g g ia p iù chi di m en zogn e è cinto. M a sc o p riran n o alfin, vindici gli A stri, fra le ceneri so rd e, al F asto estin to, ch e son d ’un c o lo r so lo e Scettri e R astri.

1-4. Il soggetto, di questo e del successivo quartetto (c dunque dell’insistita anafora), è l ’Arte (nella sua depravazione che la rende Fasto ; per cui si ve­ da 21 5). P er d a r più volti a: per rendere variopinto. C am aleonte : apposi­ zione di A rte (cioè: “così come fa il camaleonte che muta costantemente co­ lore”). Macchie d i m arm i: le marezzature del marmo (colori, striature, pie­ ghe). A riè di fiori: profumi, essenze («m a», nota Marzio Pieri, «è ardita si­ nestesia, per “ colore di fiori” »). 6. Persino gli spaventosi bagliori (orrori ) dello zolfo e del bronzo (che richiamano alla mente scenari bellici). 7-8. E s­ senze tossiche e urticanti (flebili equivale qui, come già notava Pieri, se­ condo etimo a “ lacrimogeni”) estratte da sostanze velenose provenienti da angoli remoti (barbari) della terra. 9. Tanto si propende oramai per ciò che è solo finzione. 10. Un f i l di verità non hanno i nastri: arguzia. 11. Sfoggia più: maggiormente si fa notare. C hi di m enzogne è cinto: chi si avvolge in abiti lussuosi (che simulano, mentendo, una dignità che non gli appartiene). 12-14. Ma il destino che sa attendere le sue vendette (vindici gli Astri: sog­ gètto), una volta dissolto il Fasto, quando i corpi altro non saranno che ce­ neri sorde , renderà chiaro (scopriranno) quanto un unico colore (il nero del­ la morte) attende re (Scettri) e contadini (R astri = rastrelli). 76

25 (XXV). Addobbi di tappezzerie svariate in più figure di eserciti combattenti D iv isa l’ago le sue tele a parte, e tra i serici fil’ form e anim ate, selve e battaglie in gu isa tal co m parte che p aion d a ricam i allo r rinate. Q u an to d ’arm i e d ’E ro i narran le carte, B o m b ard e fulm in ose, A ste schierate, a punti d ’una m an o, a un cenno d ’arte tuon an o agli occhi orribilm ente om brate. Q u i vedi un Serse, e là P o m p e o che vinto bagn a col san gu e su o l’E g iz ie arene: né si discerne il naturai dal finto. O r chi creder p o tria di tante scene attor Polì'orcete un Verme estin to? C o sì p er nulla al du ellar si viene.

1. D ivisa: descrive m inuziosamente. L ’ago: soggetto. A parte: figura per fi­ gura. 2. Form e anim ate: potrem m o dire: immagini in m ovim ento (per l’ef­ fetto cangiante della seta). 3. Com parte: distribuisce ordinatam ente. 4. Che sem brano per l’appunto, una volta ricamate, tornare in vita. 5-8. G razie al paziente ricam o (a punti d ’una mano) che segue i movim enti propri del­ l’arte tessile (a un cenno d ’arte), si raffigurano con estrem a vivezza ( tuona­ no... om brate) le scene di battaglia (armi, eroi, schiere, artiglierie) narrate da storici e poeti ( quanto... narran le carte). 9-10. L e im prese di Serse e la m or­ te di Pom peo dop o la battaglia di Farsalo. 11. U n verso che, com e l’undi­ cesim o del sonetto precedente che espone la stessa parola-rim a («tanta è la sim patia oggi col finto»), com pendia l’estetica barocca, e quella di ogni u l­ teriore “ società dello spettacolo” . 12-13. Chi potrebbe mai credere che l’A ttor che recita la parte di un grande condottiero (il re macedone D em e­ trio “ Poliorcete” , colui che espugna le città) non sia altro che un verme m orto (che sia cioè la seta ad “ anim are” scene "fin te” )? 14. C o n tro la pra­ tica dei duelli, Lubrano dedica, oltre alla “ stoccata” conclusiva del sonetto X L II1 che descrive la caccia del pesce spada («N o b ili a voi: un tal destino aspetta / chi m orde acciari, e sanguinario a Tonte / stim a gloria del brando ogni vendetta», w . 12-14), un’intera ode, la II (C ontra l ’abuso d e ’ duelli). Q u esto verso finale, dunque, dona un nuovo significato all'indistinzione fra naturai e fin to su cui ruota l’intero sonetto: le grandi im prese belliche 77

son o oram ai solo proprie della fiction (anzi: àe\\& fictio), e della sua ricadu­ ta su ll’im maginario. I nobili, per cui «un ’anim osità senza consigli / ha fac­ cia di F ortezza» (O d e li 38-39), piuttosto che impegnare le proprie armi per la cristianità («A ssalite, espugnate Arabi e Traci», 111), indulgono nei duelli per nulla, com e attori sì ma di un’immagine morta («R od om on ti di giostra» li definisce al v. 102 dell’ode). Anche nei duelli, insensati c sangui­ nari, si assiste al trionfo delle «trasparenze».

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26 (XXVI). Tormentato per acque e per fuoco si sviscera in seta A la R o ta si stru gge, avvolto in giri, Verm e che circolò per farsi d ’oro. A hi, che Pesche brevissim e d ’un M o ro p resagivan o in om b ra i su oi m artiri! Interesse crudel, qu an to deliri! A sso lv i chi rapisce, e nel tuo F o ro p ar delitto di m orte ogn i tesoro: c chi ricco si fa, fo r z ’è che spiri. Sb u ffan o di velen sputi funesti sen za tim or le V ipere serp cn do, vivi strali del b o sco e vive Pesti. U n R ettile, che fabrica tessen d o con le viscere sue seriche vesti, in eculei di vam pe arde m oren do.

1-2. A la R ota: si riferisce al supplizio della ruota (alla quale veniva legato il condannato) e al contem po alle ruote del telaio (il sonetto c un autentico défilé giudiziario di colpe, pene, torm enti e strum enti di tortura). Tale du n ­ que è il destino riservato a chi circolò (ancora una rotazione), a chi in som ­ ma si affaticò strisciando per produrre beni (e migliorare se stesso). 3. f e ­ sche brevissime di un Moro\ le minute foglie di gelso di cui si nutriva (ma anche: le esche fugaci di una vita che si riduce a un brevissim o sospiro; si ve­ da 9 5). 4. In om b ra: in immagine, in minima parte (la circolarità delle fo ­ glie om breggia quella della ruota). 5-7. I ladri (m a qui s ’intendono i poten ­ ti senza scrupoli, pericolosi, a quanto dirà il prim o terzetto, com e Vipere), in nome àe\\’interesse crudel, vengono assolti; non così chi arricchisce con la propria industriosità, che rischia addirittura la pena capitale (delitto di morte). 9-11. Le Vipere, velenose e m ortali, che m ordono (vivi strali) c av­ velenano (vive Pesti), conducono la loro esistenza senza alcun timore. 12. Rettile : verme, è estensione semantica tipica della corona. 14. In eculei di vampe', in torture con il fuoco (Yeculeo è il “ cavalletto” su cui si disartico­ lavano le membra degl’inquisiti). 79

27 (XXVII). Il medesimo G o rg o g lia alta la fiam m a, ard o n o Tonde, p er far m artiri ancor Verm i innocenti; e l’A rte incrudelita in un co n fon de du e fieri in com p ossrb ili Elem enti. P ro d igh e nel m orir, l’anim e b ionde filan in m o rb id ’O r gli aliti spenti; né curan di restar reliquie im m onde, p u r che fian ricche sp o glie i lor torm enti. Sv o lge in gegn o Ission argani e rote, a stren ü ar dei glo b i arsi le vene, fin che b o llan o a galla aride e vote. O voi, m isere voi p o m p e terrene! Per fare al v o stro B el serica dote altro il lu sso non ha che verm i e pene.

1-4. L a fiam m a gorgoglia com e acqua, le onde invece ardono... sono gli o s­ sim ori del m artirio del verme, che \'Arte tessile destina a m orire nell’acqua bollente (dove si congiungono acqua e fuoco, antitetici, incompossibili, ele­ menti). 5. L ’anìm e bionde: i vermi (animali gialli; cfr. 2 8 e 19 2). 6. M orbi­ d ’O r : seta. G li aliti spenti: le loro ultime bave. 7-8. Generosi nel morire, i bachi antepongono la loro industriosità alla morte dolorosa che li attende, e che li lascerà “ b ozzoli secchi” ( reliquie immonde). 9-11. ingegno (qui si­ nonim o deWArte del v. 3), com e un nuovo Issione (condannato a spingere nell’Averno la ruota alla quale è legato), fa ruotare il telaio per estrarre fino all’ultim o filo di seta (strenuar... le vene) dai bozzoli, prim a di lasciarli gal­ leggiare vuoti. 12-14. Il lusso delle miserabili pom pe terrene , per adornare di seta il proprio concetto di bellezza, non può che utilizzare verm i e pene (endiadi, nel senso della “ sofferenza dei verm i” ; «m a», com e notava M ar­ zio Pieri, «con allusione m orale ai tormenti e alla morte dell’uom o»). 80

28 (XXVIII). Le viscere strappate da Vermi vivi si lavorano in vari vezzi Vermi svenati in glutini di gelo, cui do tta m an effigian do avviva, ad ado rar la N a z a ren a D iv a m o stran o in globi d ’o r R o se di C ielo . G ià tem pro il p ian to m io, né mi qu erelo ch ’orn in o il vo lto a la beltà lasciva, m entre in trofeo di Pietà festiva intrecciano C o ro n e in m ano al zelo. Ben si p o sso n p regiar di eterni vanti, v ezzi a le preci ed estasi a ’ pensieri, beate cifre di V irginei canti. A m e scu o p ro n di Fé gli arcani veri: ché, co n tra i verm i di co scien ze erranti, di M aria so n antidoti i m isteri.

Vezzi, collane (qui esplicitamente rosari). 1. Vermi svenati', le viscere strap­ pate del titolo. Glutini di gelo', paste glutinate da condensare (nei grani del rosario). 2. A i quali la mano dell’artigiano dona form a e brillantezza. 3. L a N azaren a D iv a : la M adonna. 4. G lobi d'or: i grani, le “ perline” . Rose dì Cielo: rosari. 5-8. “ Freno il mio pianto (di sdegno?) né mi ram m arico che adornino la bellezza di donne lascive, ora che com e trofeo delle feste reli­ giose sono piuttosto corone stropicciate per fede” (M arzio Pieri: «in con ­ creto, s ’intende qui una figura, ben barocca, di bella donna in preghiera»). 9-11. I grani del rosario posson o dunque ben vantarsi di essere vezzi (nel doppio senso di collane e “ atti grazio si” ... ma anche, con antitesi etim olo­ gica, antidoto ai “ vizi” ) per le contrizioni, estasi per i pensieri e cifre (sin­ gole notazioni) per le preghiere da intonare alla Vergine. 12-14. Al poeta “ considerante” si scoprono così le profonde verità della fede: i misteri con ­ templati nel rosario sono, per intercessione mariana, gli unici antidoti ai peccati (vermi) che posson o corrodere l’anima (si noti la progressiva annominazione: V E zzI : V E R I : VERm I). 81

29 (X XIX ). In tantum a lorica gerenda discessere mores, ut oneri sint etiam vestes (Plin. lib II, c. 23) M o stro di L u ssi indegnam ente altieri, il p rim o E lio g a b alo fra Regi volle da un Verm e m endicare fregi, e so sp en d ere al T ron l ’o m b re d e ’ Seri. Q u in d i p ian se il V alor d e ’ L a z i Im peri arru gin irsi il ferro a’ D u ci egregi: to lse r p iu m e di N astri al L a u ro i pregi, fatti trecce di Frini E lm i guerrieri. L’o rrid e z z a e la p o m p a in C am p i arm ati, c sp len de più chi, p o lv e ro so in vo lto, sa con Io N om i M arte

la destra su a d ar legge ai Fati. ne l’Italia m ia più non ascolto d ’ E rö i di bell’ ira ornati: in seriche reti oggi è ravvolto.

« C i si disabituò tanto a indossare k lorica (corazza leggera romana), che persino le vesti parvero pesanti» (Plin X I 23). 1. Riferito a Eliogabalo. 2. I l primo... f r a Regi: per prim o fra g l’imperatori. Eliogabalo: l’imperatore Va­ rio Avito B assiano (204-222), passato alla storia per la sua dissolutezza. 34. Principiò a fare sfoggio (“ m endicando” l’elem osina di un verme) della se­ ta (om bra, perché finissim a, cfr. 17 8, im portata dai Seri; cfr. 9 9). 5-8. Per tale infiacchirsi nel lusso i Latini (il soggetto è: I l Valor d e ’ L a z i imperi) com piansero poi le oram ai arrugginite spade dei condottieri, dal m omento che la seta (piume di N astri) era più am bita dell’alloro (con cui si corona­ vano i vincitori) e il cimiero degli elmi era sem pre più simile alla treccia di una cortigiana (frine). 9. L ’orridezza: l’abbigliam ento disadorno, sgradevo­ le alla vista. 10. Polveroso in volto: col viso ricoperto dalla polvere della bat­ taglia. 11. C o n il valore del proprio braccio sa piegare il destino alla sua vo­ lontà. 13: B ell’Ira: collera giusta. 14. Persino M arte (che nella rete di Vul­ cano, si sa, ci finì sul serio, con Venere) si avvolge oggi di vesti finissime di seta (e non di maglie di metallo e, per l’appunto, loriche). 82

30 (XXX). Ne vestis serica viros foedaret (Tacit. lib. / Ann.). Parver le F rigie sp oglie ignobil vanto, al Sen ato Latin, d ’im belle sesso. N é fu da le su e leggi u n q ua p erm esso a ’ T ogati, agli A tleti un m olle am m anto. O r di seriche p om p e il lu sso è tanto, che del più vano ardir tocca l’eccesso. E, sem pre vario, invidia esso e non esso le C lë o p atre al N il, l’E len e al X an to. C iò che inventano l’E ve usan gli A dam i: discerner non si pón sp o si da sp o se a le foggio d e ’ nastri e d e ’ ricam i. C h e m eraviglia è p o i se cadon róse piante d ’alti L egn aggi, orbe di ram i, se tutte verm i son gale fro n d o se?

«... Che le vesti di seta non disonorassero gli uom ini» (Tacito, Ann., I). 1-2. Frigie spoglie : le vesti ricamate in seta (in quanto i Frigi eccellevano nell’ar­ te del ricamo, cfr. sonetti 5 e 10). Il senato latino giudicò insom m a tali ve­ sti un ’effìmera vanità propria delle donne (imbelle sesso). 4. Togati : i cives romani. Un molle ammanto-, la tunica di seta (molle non solo perché m or­ bida ma anche in quanto, secondo l’abusata falsa etim ologia che voleva muher derivare da mollis , propria delle donne). 5-6. Tanto è oramai diffusa la m oda della seta, che ogni “stravaganza” è concessa. 7-8. Il lusso maschile che ama adornarsi di seta variegata e cangiante (esso e non esso) com pete con l’eleganza lasciva delle più seducenti donne dell’antico E gitto (N il) e di Troia (X anto), fam ose per la loro avvenenza (C leopatra e Elena). 9. L a m o­ da femminile diviene quella maschile. 10-11. Un evergreen del m oralism o. 12-14. In tale clima di generalizzata effem inatezza, non c’è dunque da m e­ ravigliarsi se, prive di prole (orbe di ram i), le più illustri famiglie rovinano, dal m om ento che i lussi (le gale frondose) non sono altro che verm i (che d i­ vorano, per l’appunto, un corpo già morto). 83

Altre Scintille poetiche

31 (XXXI). L ’Occhialino

C o n qual m agia di cristallin a lente p icciolo ord ign o , Ip erb ole degli occhi, fa che in punti di arene un Perù fiocchi e p om p eggi da grande un sc h iz zo d ’E n te? T an to piacevol più q u an to più mente, m inaccia in p och e gocce un m ar che sb occh i, da un fil striscia di fulm ine chc scocchi; e giuri m e z z o tu tto un m e z z o niente. C o sì se stesso adula il F asto u m ano e per diletto am plifica g l’inganni, stim an do un M o n d o ogn i ato m o di vano. O O ttica fatale a ’ nostri danni! U n Istante è la vita: e ’l sen so insano so gn a e travede Eternità negli anni.

2-4. La lente, per quanto picciolo ordigno (piccola “ m acchina”, insom m a, e protesi dei nostri sensi), dism isura iperbolicamente le capacità ottiche, cosi chc lo stesso pulviscolo {punti di arene) possa apparire grande c lucente quanto una cascata di pepite d ’oro ( un Perù che fiocchi ), e le cose più m i­ nute (un schizzo d ’Ente) risultino m eravigliosam ente grandi (pom peggi da grande). 5. Tanto piacevol più quanto più mente. «Q u asi una divisa dell’il­ lusionism o barocco» (M arzio Pieri); e difatti le «optich e»„com e aveva scrit­ to Emanuele Tesauro, son o «argutissim e», dal m om ento che «per certe p ro ­ porzioni di prospettiva con istrane e ingegnose apparenze ti fan vedere ciò che non vedi». 6-8. Altre illusioni “ iperboliche” della m icroscopia (poche gocce appaiono un mare minaccioso, e un FiL , con i buoni auspici della p a­ ronom asia, può essere scam biato per la saetta di un FuLm ine). 9-11. Ecco: Vocchialino è allora allegoria del Fasto che piace ai “ m ondani” , perche tra­ sform a in un M ondo di desideri ogni vanità per quanto piccola (atom o di van o , da raffrontare a schizzo d ’Ente... siam o sem pre, appena usciti dalla corona del Verme Setaiuolo, nell’infimo m icrocosm o caro a L ubrano). 1314. E proprio come se indossasse un occhialino atto però a dism isuare il tempo (e non lo spazio), il senso am malato di Fasto delira, scorgendo (anzi, “ travedendo” ) nel breve Istante che è la vita un’im possibile Eternità. 87

32 (X X X II). Orinolo di cere intrecciate Prede innocenti, in d u strio se brine, cui bevon l ’A p i da Sicanie Flo re, mi ad d itan o in più giri il m o to c l ’ore con del T em p o l’istabili rapine. In esse io sc o rg o le vicende e ’ l fine d ’ogn i p o m p a m ortai, d ’ogn i sp len dore: chi vive sp en to, illum inato m ore, lu cign olo di M o rte è il b ian co crine. C ere e del F a sto so n lT carie piu m e, C erei so n d e ’ piaceri e l’o z io e ’l gioco , C e re o è di M id a l’O ro , e C e re o il lum e. Q u in d i app ren d i, o m ortai, che an cora il P oco de l’E tà, che si p erd a o si consum e, p ian ger si deve a lagrim e di foco.

1-4. Le brine , saccheggiate per quanto innocenti, son o il polline dei fiori si­ ciliani ( Sicanie) succhiato dalle A pi e reso dunque cera ( industriose , oltre a riferirsi alle Cere intrecciate, è pertanto un aggettivo prolettico). Si ricordi che brine (qui soggetto: son o loro, m odellate in orologio, ad additare le istabili rapine del Tempo), propriam ente “ rugiada congelata”, rimanda alla cera per il colore bianco e per il processo di solidificazione, ma richiama già, per un frequente uso figurato, la canizie del v. 8. 5-6. La consueta atti­ tudine del poeta m orale a “ trarre considerazioni” dalle “ im m agini” appena form ate (da rileggere dunque sùbito in senso allegorico). 7. Solo chi rifug­ ge il Fasto (chi vive spento) m uore nella luce divina (si veda I I 13-14). 8. I capelli bianchi della vecchiaia posson o fungere (per chi si è sottratto alla fal­ sa brillantezza delle cose m ondane) da stoppino che la Morte accenderà (fa­ cendovi brillare la luce eterna). 9-11. C iò che fa nostri i “ piacevoli” beni m ondani, insiste il predicatore n d l’incalzare dell’anafora, è un’attaccatura di cera, com e quella che saldava al corpo di Icaro le sue ali (Icarie piume), ed è pertanto destinata a sciogliersi quanto più questi brillano (come l ’Oro che tanta infelicità addusse a re M ida), al pari di una candela. 12-14. D a ciò (dall’o rologio fatto di cera) l’uom o impari che ogni cosa nella sua breve vi­ ta si consum a (“ lagrim ando” com e una candela risciolta dal fuoco). In Lubrano può considerarsi “ ossessiva” l’immagine del colliquarsi della materia.

33 (XXXIV). Orinolo ad acqua A che so gn ar con tem erari vanti secoli ne l ’E tà m ezzo sparita, se bastan sole ad ann egar la vita m in utissim e gocciole d ’istanti? Voi talpe di R agion , delusi A m anti, a ravvedervi in p icciole urne invita m eccanico C ristal, e in sé vi addita quasi stille del T em p o i giorn i erranti. Q u an to è, q u an to sarà s ’ im prim e in acque cifra di fughe, e in flu id o feretro nau fraga sepellito il F u che piacque. Se no ’l credi, o M o rtai, volgiti a dietro, e m ira Tesser tu o , che al p ian to nacque, stru ggersi a stille in agon ie di vetro.

1-2. Si veda 31 13-14. L’E tà destinata agli uom ini, il tem po concesso per cia­ scuna vita, è tanto breve da essere di già mezzo sparita. 3-4. In pochissim i istanti, nell’inarrestabile fluire del tem po, la nostra vita si consum a (anzi, si “ annega” ). 5. “ Voi che amate sensualm ente i deludenti beni tem porali, e sie­ te dunque ciechi com e talpe” . 6. Picciole urne: sono i piccoli recipienti di vetro sovrapposti della clessidra, strozzati al centro di m odo che il passag­ gio dell’acqua segni il tem po. M a la scelta del vocabolo rim anda già al flu i­ do feretro del v. 10 e alle agonie di vetro con cui chiude il sonetto. 7. M ec­ canico Cristal: l’orologio ad acqua. 8. Sono le minutissime gocciole d ’istan­ ti del v. 4 (tanto per insistere su quanto la materia st risciolga; né può stu ­ pire che la rima C degl’incipienti terzetti rimartelli in A C Q U E ). 9-11. Tut­ to ciò che esiste ed esisterà in questa vita s ’imprime in acque (cioè non s ’imprim e per nulla) com e sim bolo ed enigma di ciò che passa ( cifra di f u ­ ghe), mentre tutti gli am ati giorni perduti (il Fu che piacque), “ naufragano” nel flusso m ortale del tem po. Si noti, quasi a far frusciare le FU gh e degl’i­ stanti (chc già di per loro contengono il FU ), l’insistito gioco sul nesso “ fricativa+liquida” . 12-14. Anche l’uom o è un oriuolo a d acqua: nasce pian­ gendo e goccia a goccia si distrugge com e distillandosi. 89

34 (X X X IX ). Alla Zanzara, che disturbava VAutore negli studi litterari Istrice m in u tissim o che irriti sveglie d ’ im p a z ien z a a l’ore oscu re, p u n to so l divisibile in pun tu re p er tu rb ar b isb iglian d o o zi eruditi; de la tua trom ba a strep ito si inviti d à il T edio a l’arm i, e fum an o l ’arsure; e se mai cerca il so n n o om b re sicure, gli occhi chiusi ad un voi pian gon feriti. D ’im portun i su su rri ato m o vivo, fo rm i u n ’E c o di piagh e a chi più tace, can gian d o in strale il sib ilo furtivo. Q u a n to m iseri siam ! U n su on m ordace c ’ insan guin a i su d o ri al caldo estivo: ci ru b a un sc h iz zo d ’E sse rc la Pace.

1-2. La zanzara con il suo pungiglione urticante (paragonabile agli aculei òe\Y istrice) tiene nervosam ente desti durante la notte. 3. A rguzia etim olo­ gica (è piccola com e un punto, ma è a sua volta divisibile in punture). 4. B i­ sbigliando: ronzando (ulteriore m otivo d ’“ irritazione” , da cui l’insetto, coi suoi im portuni susurri, trae il suo nome onom atopeico). O zi eruditi: sono quelli cui si dedica il poeta (naturalmente insonne, come l’archetipo-Petrarca). 5-6. Tromba: è l’apparato boccale della femmina di zanzara, qui nel­ la dop pia accezione di strum ento militare, che suona l’allarme col fastidio da lei stessa suscitato (Tedio), e di pungiglione che provoca bruciori (arsu­ re). 7-8. In parole sem plici: se in camera vola anche una sola zanzara, è inu­ tile tentare di dorm ire. 9. Atom o vivo: minutissim o essere (tanto piccolo da sem brare “ indivisibile” ... se non in punture). 10-11. Furtivamente aggre­ dendo, la zanzara torm enta con punture continuamente replicate (Eco di piaghe) chi più ha bisogn o di sifenzio (chi dorm e, chi studia). Si noti la com plessa sinestesia tatto-udito che congiunge perfettamente le due “ irri­ tazion i” .causate dalla zanzara. 12-14. L a miseria umana è tale che per infa­ stidirci, e “ insanguinarci” , e sufficiente persino un animale tanto piccolo (schizzo d ’Essere, da confrontare, ma qui in orchestrazione volutamente onom atopeica, con 31 4). 90

35 (XLI). Le Lucciole Punti di luce in linee di loto volan le lucciolette, atom i ameni di putredini vive, e fan sereni brillar novi occhi a cieco C iel col m oto. O de l’aria gentil genio divo to , che accende in grem bo a l’om b re astri terreni e, sp argen d o le lagrim e in baleni, pian ge l’estin to giorn o e ’ 1 Sol rem oto. L e sue m iserie P U o m quindi consoli: che, se fragile nasce e fragil m ore, le p u ò cangiare in m eritori voli. N e g l’Insetti anco è D io . C o lm e d ’o rrore so rgan le N o tti pur, m anchino i Soli: basta a far giorn o a sé L u cc io la un C ore.

1-3. N e ll’insistere sulla generazione ex putrì degl’insetti (al solito punti, atom i), qui Lubrano gioca a contrapporre la luce alla materia più impura, la melma (loto). Le lucciolette son o punti lum inosi ma i loro voli tracciano li­ nee di fango, perché son o atom i graziosi di una “ putredine” che vive. 3-4. C on il loro volo (moto) sostituiscono le stelle (fan sereni / brillar novi oc­ chi) anche nel cielo più cupo (cieco). 5-8. L a lucciola, com e uno spirito del­ l’aria, accende nel buio punti di luce che assom igliano a stelle terrestri, e sem bra col suo volo un pianto lum inoso (per lamentare l’assenza del Sol e il giorno finito). 9. quindi : dall’esem pio della lucciola. 11. le: si riferisce a le sue miserie (con opportuni, meritevoli voli l’uom o può vincere le sue stes­ se miserie). 12-14. La Lucciola del cuore può illuminare a giorno anche le condizioni più avverse e oscure (e le epoche più buie). Si noti nell’ultim o terzetto l’im piego costante dell’inversione di battuta, secondo una form a endccasillabica chc, per essere in qualche m odo “ anfibia” (il raddop pia­ mento consente i consueti giochi di “ riflessione” , ed è il germe dell’antite­ si), ha una vasta incidenza in Lubrano (si veda ad esem pio, in questo stes­ so sonetto, il v. 5). 91

36 (XLVIII). Nella vita non esser nulla di nostro N o n è certo il D o m a n i, e vola l’O g g i, né l’U o m altro ha di su o che ’l tem po d ’ieri; a la p iù ferm a età servon d ’ap p o ggi m om en ti indivisibili leggieri. Sp e n d a tesori il lu sso e ricco sfo ggi, che so n p o i nel m o rir atom i neri; alzi fabrich e im m ense, ed al C iel p o ggi, ch ’u na goccia d isfar p u ò Sogli interi. Son di delirio am b izio si inganni n e’ natalizi D ì p o m p e festive, m entre ogn i gio rn o è un funeral degli A nni. C h i mai le su e ruine a lucro ascrive? C h i di T rionfi un A rc o erge a ’ su oi danni? A h i, so l p erd en d o l’E sse re si vive.

2. L ’unico tem po posseduto dall’uom o è il «F u che piacque» (cfr. 33 11). 34. Anche l’età più sicura, la maturità piena (o magari quella meno funesta­ ta da malattie), si com pone di istanti minimi (indivisibili com e atom i) e fu g­ gevole 5-6. Il lusso faccia pure sfoggio dei suoi tesori: nel m om ento del tra­ p asso questi saranno insignificanti (atom i) e brutti, perché peccaminosi (ne­ ri). 7-8: Il soggetto è sem pre il lusso, questa volta “ architettonico”, che co ­ struisce case gentilizie capaci, com e la torre di Babele, di giungere fino al cielo, ma che un solo istante (goccia ; com e in 33 4) può distruggere (si veda oltre J 9 1-2). 9-11. Le sfarzose feste di com pleanno sono inutili pom pe de­ liranti, dal m om ento che non v ’è giorno che non corroda gli Anni. 12-13. Sem pre contro l’uso di festeggiare fastosam ente gli anniversari: “ chi sareb­ be così folle da considerare un guadagno le proprie perdite? C hi per fe­ steggiare le proprie sconfitte erigerebbe un Arco di trion fo” ? 14. L a vita è solo in perdita (anzi, vivere è già “ perdere” ). 92

37 (LI). I beni della Terra mescolati con m ali N o n ogn i fio r è p ro n u b o del fru tto , n ascon o i più sin onim i de! Frale; sp esso Icari d ’A pril m ettendo l’ale hanno in gocce di gel n au frago il flutto. Tal di n ostre sp eran ze il verde, e ’ l T u tto, sfron d asi a un so ffio so l d ’aura fatale; e se pun ta di febri il B ello assale, l’am enità degli anni o m b ra è di lutto. R u p i diserte son d ’A lcin o o gli O rti; ne le Tem pe di M id a in C arte A rgive il bene e ’l mal già sp u n tan o co n sorti. Pochi d e ’ lor desii toccan le rive; e p er qu an to p ro m ettan o le Sorti, lim osin a d ’istanti è un U o m che vive.

1. È pronubo dei. favorisce il, prom ette. 2. La m aggior parte dei fiori fini­ sce col non dare frutti (e diventa “ sinonim o” di fragilità). 3-4. Il soggetto è sempre il sottinteso “ fiori” : in aprile si schiudono com e se avessero le ali ma, se giunge inattesa una gelata (gocce di gel), allora posson o essere para­ gonati a Icaro, che mise sì le ali ma sprofondò nel mare (anche ai fiori, dun­ que, poche “ gocciole” bastano per “ naufragare” , com e in 33). 5-6. “ C o sì a un soffio del destino (aura fa ta le ) crolla ciò che è rigoglioso (si ‘sfron d a’ il verde) nelle nostre speranze, e le speranze stesse” . 7-8. “ C o sì come, se un accesso febbrile assale una persona giovane e bella, Vamenità del su o asp et­ to si muta in un’om bra di m orte” . 9. Gli splendidi giardini di A lcin oo (il re dei Feaci che aiutò U lisse, e che pertanto venne col suo p op olo punito) di­ vennero presto terreni incolti. 10. Tempe : tempie (figurato per “ m ente” ). In C arte Argive'. secondo gli scrittori greci. 11. Il bene e il male in M ida so r­ sero congiunti, cioè mescolati (il desiderio esaudito di trasform are al sem ­ plice contatto tutto in oro divenne immediatamente la sua disgrazia). 12-14. I desideri, come i fiori morti prim a di diventare frutti, raramente restano appagati. E per quanto benessere possa prom ettere la condizione sociale (Sorti), ogni uom o, finché vive, si limita a mendicare gl ’istanti della sua stes­ sa esistenza. 93

38 (LIV). Il Sonno A n tip o d e del senn o, o p p io d e ’ sensi, benché di m e z z o l’essere ci privi ed a dazi di m orte astrin ga i vivi, esigge il so n n o volon tari censi. R en d e C im m eria l’A lm a, e ciò che pensi, sp o sa n d o a L a z ie M u se i Plettri A rgivi, larva è di so gn i, o r m esti ed o r festivi, delirio di vapori, o r radi o r densi. D i piacevole ob lio vesta l’ orrore, di Sibarite ro se il letto im pium i: se p o lc ro è p u r de l’u om che a tem po m ore. T o rb id o il viso e ’ l sen d ’um idi fum i, per non farsi veder che ru b a l’ore ad u lato L a d ro n ci ch iu de i lumi.

1-4 . I l sonno (soggetto), che è l’op p osto del senno e narcosi dei sensi (si no­ ti il perseguito gioco della paronom asia), chiede all’uom o un volontario tri­ butò (cioè che sia l’uom o stesso a “ consegnarsi” a lui), sebbene lo privi di m ezzo essere (la parte cosciente) e gli faccia pagare il “ d a zio ” della morte (perché, som igliando a quest’utima, è come se fosse un suo emissario). 5. C im m eria : ottenebrata (dal mitico p op olo dei C im m eri che abitava le estre­ me terre occidentali non illuminate dal sole). 5-8. E, dando credito a ciò che hanno scritto i poeti latini e quelli greci, trasform a il pensiero in fantasmi di sogni, ora spiacevoli ora gioiosi, e in nebbie più o meno dense di illusio­ ni. 9-11. M a per quanto faccia dimenticare gli affanni e le paure, o trasfor­ mi nel sogn o ogni giaciglio in un m orbido e lussuoso letto (degno degii abi­ tanti di Sibari, noti per le loro m ollezze), resta com unque un sepolcro per l’uom o che, nel tem po che gli dedica, anticipa la m orte (e ad essa si avvici­ na). 12. A ccusativo di relazione, che ci regala un quadretto allegorico o un em blem a. 14. A dulato Ladron: il sonno è invocato dagli uom ini, per quan­ to rubi loro le ore. 94

39 (LVII). Confessione da farsi da un Amator sensuale T alpa di senno e di deliri un A rgo , devo ad un finto Sol gli E cclissi miei; bevo per m anne tossich i Letci, e vegghio in p ro fo n d issim o letargo. Più mi si strin ge il co r se più l’allargo, se più scu so i p cn sier’ gli fo più rei; i p recip izi an cora ho per trofei, p ian go le stesse lagrim e che io sp argo . D ïa lo g iz o so lo , e non m ’ intendo; nel cercar libertà, più la rifiuto; m artire d e ’ capricci, aggh iaccio arden do. G o d o in perd er m e ste sso , e p er trib uto ad un re p ro b o A m o r l’A n im a sp en do , m ezzo vivo, m e z z o u om o, e tutto un B ru to.

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1-2. “ C ieco (come una talpa; cfr. 33 5) al senno ma pronto a schiudere cen­ to occhi (come A rgo) al “ delirio” am oroso, devo il mio obnubilam ento al­ l’oggetto am ato (un fin to S o l)”. 3-4. “ Bevo come rimedi salutari (manne) veleni chc mi ottundono, sem pre vigile (e pronto) nel sonno del p eccato” . 5-11. C onsueto défilé ossim orico caro già ai petrarchisti (si veda V agghiac-. ciò ardendo , che è divisa petrarchesca prim ’ancora che della scuola, del v. 11), qui risem antizzato, ben al di là della maniera (non c ’è poeta lascivo che non ostenti prim a o poi pentim ento), nel contrasto fra am ore sensuale (che “ allarga il cuore” , “ scusa i pensieri” ecc.) e peccato (sicché i trofei am orosi diventano precipizi), che finirà col far “ rim piangere” il tem po sprecato a spargere lagrim e am orose. Il v. 9, da questo punto di vista, è proprio l’em ­ blema del poeta sensuale (da Petrarca in poi, si potrebbe dire), sem pre pronto a mettere in versi i propri contrastanti pensieri. N el v. 10 M arzio Pieri vede «quasi una palinodia paradossale del dantesco» celeberrim o Purg. I 71-72. 12-14. Il paradosso è com pleto: il godim ento delì’A m atór sensuale risiede giusto nel “ perdersi” , disposto corìi’è a pagare con la p ro­ pria anima il tributo a un am ore peccam inoso, che gli sottrae appunto la parte im mortale e lo trasform a in ù n a “ macchina” animale. Per questa sua attività “ dim idiante” , l’amore sensuale può dunque essere paragonato al sonno del precedente sonetto. 95

40 (LXVIII). La Tarma A rpi'uccia d e’ L ib ri, em pia T ign u o la, ro d en d o il sen di p agin e erudite, ru b a con so rd o ard ir d ’avida gola a Saggi estinti p o stu m e le vite. D el su o m in uto dente a noi s ’invola lo sp irto d e g l’ingegni, e p on si in lite ciò che in eredità lascia la scola co n fu so e gu a sto a lettere sparite. M o rd e chi la p ro d u sse e la nutrisce; nata ab orre la luce, e sem p re ascosa a pp esta i fogli in atom i di bisce. D el fallo originai om b ra od io sa: stru gge il cen so de l’alm e, e le sue strisce so n su p p lic i di p olve ove si p osa.

]. A rpiuccia : piccola Arpia, capace di guastare ciò che tocca. Tignuola : tar­ ma. 2-4. Pieri fa giustam ente notare « l’allitterazione im itativa» fra R oD enD O : eR uD IT e : [Ruba] : so R D O : aR D IR . Insom m a la tarma distrugge i libri e cancella le vite postum e dei sapienti. 5-8. Le parole scritte dei saggi ci vengono sottratte dalle sue fauci (dente), e la tradizione culturale (v. 7), re­ sa guasta in virtù delle lacune (lettere sparite) provocate nel testo dall’ope­ ra della tignuola, diventa m otivo di dispute (ponsi in lite) fra i dotti. L a tar­ ma, insom m a, assicura il lavoro ai filologi. 9. N ata dal deteriorarsi della car­ ta, si nutre proprio di chi l’ha generata. 11. A ppesta : distrugge; guasta. In atom i di bisce', «serpeggiando m inutissima in essi» (M arzio Pieri). 12. La tarma, serpeggiante, è odiosa allegoria (om bra) del peccato originale (per­ ché mangia... frutti della conoscenza). 13-14. D istrugge quanto ha prod ot­ to lo spirito (il censo de l ’alm e), e lì dove “ striscia” condanna al supplizio della polvere (riduce in polvere). Si ricordi che anche il Verme Setaiuolo strisciava ma per costruire (la tarm a in definitiva è l’anti-baco). 96

41 (LXIX). Alla stessa Q u esta piccio la Sirte in m ar d ’ inchiostri, rem ora so z z a d ’E ssc re m al vivo, fa nau fragar con astio furtivo e l ’ancore a ’ Licei, le vele a ’ R ostri. C an gia in alghe di Lete agli occhi nostri qu an to sudan g l’ingegni in aureo rivo. E so ffro n i G ia so n ’ dan no più schivo se i C o d ici e le Stam pe han tinta d ’O stri. Invan spirate a ’ m orti aura im m ortale, penne di Fam a: u n ’anim uccia vile può sfiatarvi le trom be e tarpar l ’ale. N avigh i p u r in A rg o alto lo stile, e di P alladi lum i orni il fanale, che a so m m ergerlo b asta un V erm e ostile.

1. Sirte: Secca pericolosa per la navigazione (lo sguardo di chi naviga per m ar d ’inchiostri, di chi legge e studia, tro.va nel lavoro della tarm a le seccne, le lacune, a causa delle quali “ naufragherà” la com prensione del testo). Vi è in tutto il sonetto un inedito impiego dell’altrimenti scontata (nel caso si ri­ ferisca all’esistenza umana) “ allegoria della nave” 2. R em ora: D i questo p e ­ sce osseo marino, che ha sul capo una sorta di disco a ventosa con cui si at­ tacca agli altri pesci (e anche alle navi) per farsi trasportare, gli antichi dice­ vano fosse in grado di arrestare in m ezzo al mare anche le navi più grandi. M al vivo: perché distrugge i libri. 4. Preciso esem pio di concisione tropica. Le due sineddochi, diciam o pure “ triviali” (àncore e vele, per “ nave” ), si ri­ lanciano in ulteriori slittamenti figurali, atti a com pendiare il tipico cursus studiorum di un gesuita (Licei, dalla nota scuola di A ristotele, si riferisce agli studi filosofici; Rostri, che era la tribuna riservata agli oratori nel Foro dell’antica Rom a, sta invece per gli studi di retorica). 5-7. Q u an to faticosa­ mente prodotto dagli ingegni nel fiume della cultura, la tarma fa a brandel­ li (alghe), e ricaccia nell'oblio (Lete). 7-8. Gli studiosi (G iaso n ’, perché “ na­ vigano”) lamentano un minor danno se ad essere attaccati dalla tarm a son o libri o m anoscritti particolarm ente im preziositi (perché in genere conten­ gono opere di poco conto, o meglio ancora m olto diffuse e dunque facili da ritrovare). Si noti che la congiunzione è congetturale (nell’edizione del 1690 si legge: «se i C odici a le Stampe han tinta d ’O stri»). 9-14. La Fam a (quan­ to meno quella letteraria) può essere interdetta dunque da un insettino (si veda 34 14). Argo: la nave di G iasone. P alladi lumi: luce della scienza. A n ­ che un’opera di grande eloquenza e di som m a cultura filosofica potrà esse­ re distrutta dalla tarma, l’anti-baco (Verme ostile). 97

42 (LXX). Mosca di ferro lavorata dal Regiomontano, e svolazzante intorno a commensali di Carlo V D i m eccan ica m an D ed a lo ingegno d an d o a M o sca di ferro ale di vita tolse il p regio p iù grande al vecchio A rchita, che sp in se a voi C o lo m b e incise in legno. F o rse volle m o strar che a giu sto sdegn o gli A u to m ati più vili il C ie lo irrita, se mai d e ’ F ara o n ’ l’invidia ardita tenta tu rb ar de l’A u stria il T ron o e ’ l R egn o. R ise e god é la m ilitar licenza che tro m b a fo sse di reai diletto quel ferrign o ro n zar di m orta essenza. E d io v o ’ dir, e non fia vano il detto, che d ar p u ò a l’ arm i co n tro ogni P o ten za p er C atto lici scettri anche un Insetto.

Se, com e ricordava M arzio Pieri, di C arlo V si conosce la passione per gli autom i, appare quanto meno dubbio che un tale congegno meccanico sia slato costruito proprio da Johannes M üller (conosciuto con il nome um a­ nistico di Regiom ontano), dal m omento che questi risulta già m orto nel 1476. A detta dello stesso Pieri, che riconosce di dovere la notizia «alla cor­ tesia di quello schedario vivente che è G iorgio Fulco», Lubrano sem bre­ rebbe qui dipendere da Bernardino Baldi, D i H erone Alessandrino , degli au tom ati ovvero machine sem oventi (Venezia 1589 e 1601), in cui si fa rife­ rimento a un non meglio identificato «A rtefice» che «all’entrata dell’im pe­ ratore» in N orim berga avrebbe fabbricato «una m osca di ferro, la quale co ­ me uscitagli dalle mani se ne volava intorno a’ convitati, e finalmente come stanca gli rivolava in m ano». 1. Per dirla alla moderna: “ l’ammirevole e industre (D ed alo è aggettivo) m ano di un ingegnere m eccanico” . 3-4. L’arte­ fice m oderno ha superato A rchita di Taranto (IV sec. a. C .), di cui si favo­ leggiava che avesse costruito una colom ba di legno in grado di volare. 5-8. C on cettosissim o: “ l’artefice di tale meraviglia, insom m a, volle dim ostrare che il Cielo suscita giusto sdegno persino negli automi, quando i potenti av­ versi a D io (F arao n ’) osan o invidiosi competere con la monarchia (il Trono e ’l Regno) cattolica per eccellenza, quella degli A sb u rgo ” . 9-11. C o sì spie­ ga Pieri: «R isero sfrenatam ente i soldati, a vedere che il segnale del ban­ 98

chetto regale (real diletto [si ricordi la variante del v. 11 : «quel ferrigno-ron­ zare a lauta M cnza»]) era dato, non eia una trom ba, com e al solito, ma dal ronzio meccanico {ferrigno ) di una cosa inanim ata». 12. E non f ia vano il detto: una zeppa, ma da predicatore. 13-14. Insom m a, se si tratta di dare una mano alle monarchie cattoliche contro le avverse Potenze, anche un In ­ setto, con il suo m eccanico ronzio, può suonare l’allarme. [I concetto p er­ seguito in questo sonetto è più “ m eccanico” e farraginoso della stessa m o­ sca che vi ronza dentro.

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43 (LXXIII). Ego sum qui sum Io so n P E sser d ’ogn i E n te, il R e del Fato, che d en tro e fu o r di m e me so l rim iro. Io d o le fughe al T em p o, ai C ieli il giro, la vita al N ien te, ed a la vita il fiato. U so sem pre p ietà, né mai co m p ato , fulm in o più vendette, e non mi adiro; col V erbo inten do, ed im m ortale io sp iro, ineffabile A m or, A m an te am ato. Son di tutti i p o ssib ili il volum e, p o sse g g o sem p re il S o m m o , e sem p re do n o , p alese ed invisibile nel lum e. Serva la G lo ria m ’è, l’E m p ire o è Tron o. B eato di m e ste sso , eterno N u m e , so lo non so litario, Io son chi sono.

M arzio Pieri rimanda a un sonetto così intitolato che si può leggere nell’e­ dizione curata da M. R ak delle Poesie di C iro di Pers (p. 347). E im portan­ te notare che tale sonetto attribuito all’autore furiano, a sua volta una p ro ­ sopop ea tutta giocata sulle antitesi, si leggeva in realtà soltanto nella non del tutto attendibile stam pa napoletana del 1669. L’emistichio conclusivo del­ l’ultim o endecasillabo, anche in questo caso, ripropone tradotta la tautolo­ gia di Iahvé: «io son chi son o». N el caso dei cinque sonetti di Lubrano, co ­ m unque, di gran lunga più riusciti di quello attribuito a C iro, ci troviam o di fronte a una m ovimentata suite per diffrazioni di antitesi e paradossi. 2. In D io , contrariam ente che fra le nostre «trasparenze», coincidono essere e riflesso, soggetto e oggetto. 3-4. D io in quanto principio di ogni m ovim en­ to. Le fugh e: il corso veloce. 5. N é m ai com pato : esente da passione. 7-8. Le tre persone della Trinità nel loro reciproco relazionarsi. 9. “ Racchiudo in M e (com e in un volum e; cfr. Par. X X X I II 85-88) ogni possibile” . 10. Tut­ to possiede som m am ente Dio, eppure continua a donare alle sue creature (senza mai perdere nulla). 14. Solo non solitario', in quanto U n o e Trino, lo son chi sono : la stam pa napoletana legge in realtà «Io son che son o» (che sa­ rà un singolarissim o refuso).

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44 (LXXIV). Ego sum qui sum U n p oter sem pre in atto, un centro im m enso, che fu o r de l’E sse r m io linee non stendo. L u m in o so O ceàn che, da m e u scendo, in me rin gorgo ove tem pesta il senso. F o rm o Idee di più M o n d i e non ripen so, del p ro p rio Bel co n tem p lato r go d en d o ; ingenito sp len d or che, pur nascendo, P aradisi di glorie a ’ miei dispen so. F u lm in o i Rei sen za scoccare un d ard o , di nulla mi rico rd o e nulla oblio, so n ge lo so e sicu ro, am o e non ardo. L a Terra, il F ato , il C ie lo , il T em p o è m io, p ien issim o di m e vivo d ’un guardo; F a tto r non fatto, U n ico in Tre, son Io.

1-2. D io c puro atto, l’infinito centro che non possiede esterno, tutto cioè in Sé ma senza limiti conchiuso. 3-4. E un oceano di luce, che trascorre nel m ondo sensibile {ove tempesta il senso) e torna a scorrere nuovamente in se stesso. 5. È attività costante che regge il tutto “ senza ripensam enti” (si può “ ripensare” solo se si è immersi nella divisibilità del tem po), per quanto molteplici siano le Idee di M ondi che “ fo rm a” contem poraneam ente “ p o s ­ sibili” . 7. D io è ingenerato; ma accettò di farsi generare (di incarnarsi) per riaprire le strade del Paradiso ai suoi fedeli. 10. E ssen do al di fuori del tem ­ po, pensiero e atto puro, non può né ricordare né dimenticare. 11. Geloso : il D io dell’A ntico Testam ento lo è, si dichiara apertamente tale, e ne dà in­ numerevoli esempi. Vivo d ’un gu ard o : l’occhio di D io, appunto. 101

45 (LXXV). Allo stesso P ad re che, co n tem plan d om i fecon d o, ad un pen sier vital genero il V erbo. V erbo che dove n asco en tro mi serb o ed erede di m e non so n secon do. S p irto im m o rtai che, C re a to r d ’un M o n d o, sveglio A u ro re al F ed el, N o tti al Su perb o, v o lgo il C iel m ite a’ G iu sti, agli E m p i acerbo, p o n g o in tron la V irtù, la co lp a a fon do. U n Sole di tre Soli e di tre ard ori, fo c o sem p re spiran te e sem pre acceso, im m u tabil n e’ sdegn i e negli am ori. Son sap er tu tto luce e nulla inteso, M assim o dentro me sen za M aggio ri, so l d a m e in com p ren sibile co m preso.

1-8. L a Trinità in opera. C om e Padre, contem plandosi, genera in un pen­ siero che c già vita (atto puro) il Verbo. C om e Figlio è erede di se stesso sen­ za essere secondo al Padre (le Persone della Trinità coesistono contem pora­ nee). C om e Spirito Santo ricade nella sua stessa creazione, infondendo spe­ ranze di sopravvivenza (Aurore) ai credenti e disperazioni (Notti) ai m i­ scredenti, dando ai giusti ricom pense e castighi ai malvagi, prem iando i vir­ tuosi col Paradiso (in tron) e relegando nell’inferno (a fondo) i colpevoli. 12. D io risplcnde inconoscibile. 14. Solo D io è provvisto della scienza ne­ cessaria per com prendersi (perché solo la sapienza divina può “ contenere” un sim ile oggetto di conoscenza).

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46 (LXXVI). Ego sum qui sum Son so pracssen zial fo rm a d ’ogn i Ente, A tto d ’ogni p oten za, aggiro al torn o d e ’ miei cenni il D estin o , e fo so g g io rn o a ’ P ossibili M o n d i anco il presente. Se no ’l so sten go l’U n iv e rso è un N ien te, libro im m ota la Terra, i C icli ado rn o , sveglio Stelle a la notte e Soli al giorn o; tutto Esser, tutto Vita e tu tto M ente. Idea più che bellissim a del B ello, p iù che infinita infinità del B u o n o , con un V erbo ineffabile favello. So trar glorie da R o vi, ard en do io do n o Z od iaci a sterpi, e l’U n ico m ’appello: che non fui né sarò, ma sem pre Io so n o.

1-2. Secondo Tom m aso d ’A quino, unica auctoritas accettata (quasi) piena­ mente dai gesuiti, in D io, diversamente che nelle creature, non c’è alcuna distinzione tra l’essenza e l’esistenza, dal m om ento che D io è l’unico Ente che esiste per necessità (la cui esistenza è dunque implicita nella sua essen­ za, dal m omento che non potrebbe riceverla da altri). O gni altro Ente, al contrario, riceve da D io la “ perfezione” dell’esistenza effettiva. 2-3. L a ru o­ ta (torno = “ tornio” ) del Destino gira secondo la volontà (cenni) divina, che nel m ondo attuale rende “ possib ili” anche i M ondi non messi in atto (si ve­ da 44 5). 7. La terra resta saldamente im m ota al centro dell’universo, se­ condo l’ortodossia difesa (più a fini “ strategici” e morali che per intima convinzione scientifica) dai gesuiti 9-11. D io al... “ piucchepperfetto” . 12. 11 roveto che brucia senza consum arsi di O reb, attraverso cui D io si m anife­ sta a M osè e, per l’appunto, si presenta («E g o sum qui sum », E x 3,11), o f­ frendogli in più una serie di segni profetici (dono / Z odiaci a sterpi). 14. L’unico tem po divino è l’eterno presente.

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47 (LXXV II). Allo stesso U n E sse r sen za n om e, un O rien te p re sso cui non ha raggi il Sole oscu ro. U n T u tto sen za p arti, un A tto p uro, e del m io B ello origin e im m anente. Per T eatro di glorie h o la m ia m ente; ad ogn i istante E tern ità m isuro: il P assato , il P o ssib ile e ’ l F u tu ro se n za tem pi per m e se m p r’è presente. N o n antico, non n u o v o ; Im m en so, im m oto. T o lg o le fughe al tem p o , e il cenno m io raffren a il C a so ed incatena il m oto. Sen za num eri T rin o ed U n so n Io. P rim o sen za prin cipi, a tutti ignoto: se bram i di sap er chi so n , son D io.

1. Sen za nome', ineffabile (cfr. 46 11). 2. C onfrontato con lo splendore divi­ ne') persino il Sole appare oscuro. 5. Se per l’uom o barocco, spettatore a tem po e trasognato, e sem pre com unque disorientata com parsa, il m ondo c un teatro, D io ne è al contem po autore, regista, protagonista e unico eter­ no spettatore. 7-8. L’atem poralità di D io non fonde in com presenza soltan­ to il Passato e il Futuro ma anche tutto ciò che il tem po non realizza (il Pos­ sibile). 10. Tolgo le fu gh e a l tempo: è il rovesciam ento di 43 3 («Io do le fu ­ ghe al Tem po»). In un caso o nell’altro, è D io che dà la corda all’orologio m ondano. 10-11 . E il cenno mio...: cfr. 46 2-3. 14. U na chiusa, involontaria­ mente irriverente, da indovinello.

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48 (LXXXV I). Nel votarsi alle bandiere di Cristo Sant’Ignazio, si scosse la stanza ove giaceva Balli di gioia o p alpiti di pena m o stra con l’on deggiar m obile il tetto ove Ign azio, can gian do in C a m p o il letto, di p en tito G u erriero apre la scena? Scorre da le sue piaghe in nobil vena a le glorie d ’un D io il san gu e eletto. N e ride il C ielo , e l ’infernale A letto sm ania p er d o glia e l’È reb o scatena. Sì, sì, traballi tro p p o an g u sto il su olo a chi d ’em piree m ine ha il co r fecon d o da sbalzar sù tutta la Terra a volo. A l fulm ine d ’un b ro n z o fu rib o n d o cad de e risorse; e sepp e a un co lp o so lo , resa una R occa, edificare un M o n d o.

1-4. “ Se la camera (il tetto) del castello di L o y o la in cui Ignazio era stato trasportato gravemente ferito (dopo la capitolazione di Pam plona del 1521), e da cui rinacque pentito Guerriero dop o un travagliato processo di conversione (che gli aveva trasform ato il letto in cui trascorreva la convale­ scenza in un autentico Cam po di battaglia interiore); se questa camera dun ­ que al termine di tale processo improvvisamente tremò, fu per manifestare la soddisfazione divina (ballt di gioia) o il dispetto diabolico (palpiti di p e­ na) per le future battaglie del san to-guerriero?” Il riferimento è ovviam en­ te all’intenso processo di riflessione, conseguito alla lettura delle vite dei santi (in luogo degli amati libri di caballerias che era solito leggere) che p o r­ tò Ignazio di L oyola ad abbandonare la carriera militare intrapresa al sé­ guito del viceré di N avarra (in cui pure si era distinto) per dare inizio al suo prim o lungo pellegrinaggio (febbraio 1522), che lo condusse infine a M an­ resa, dove ricevette P«esinua illustrazione» (una sorta di illum inazione d i­ vina) e intraprese a scrivere quelli che sarebbero poi divenuti, nel 1535, gli Exercicios spirituales. 5-6. Il sangue delle sue ferite è ora dunque offerto a D io. 7-8. D i nuovo le due “ incom possibili” cause del terrem oto: soddisfa­ zione divina o rabbia diabolica (Aletto è una delle Furie) che scatena l’inte­ ro inferno (Èrebo)? 9-11. D ecisam ente più materica, “ um ana” e al contem ­ po sovrannaturale (ma del sovrannaturale nell’uom o e nella materia), e dunque figurale (insom m a gesuitica) la spiegazione scelta da Lubrano: il 105

suolo “ tra b a lla ” perché non riesce a contenere chi ha nel cuore un arsenale di b o m b e spirituali (em piree mine) capaci di lare esplodere il mondo. 12-14. Ignazio, d u n q u e, ferito d a u n ’arma da fuoco, seppe risorgere e, a un colpo solo , p u r p erd en d o una R occa (quella di Pamplona), conquistare il Mondo.

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(CVI). Al Talento incomparabile [di Padre Giuseppe Edero primario Predicatore nel Giesù di Napoli 1681] 49

C h e soave m agia? V eggio gli accenti, o d o i gesti in un estasi erudito, e gareggian fra sé l’occh io e l’u dito , so sp esi da incantesim i eloquenti. L o stu p o r mi ravviva in più contenti intellettive specie al sen so ardito. C o sì là sù nel B el d ’un D io infinito fisse go d o n , dico io, l’alate M enti. Sento rapirm i m ezza l’alm a a vo lo m entre le grazie tue E d ero am m iro, e concentro i pensieri a un pen sier so lo . Taccio, né m cn m i v o lgo ; appen a io spiro. E mi si fa parentesi di d u olo se l ’udir mi distrae da quel che m iro.

1-4. N e ll’insistita sinestesia antitetica (veggio gli accenti / odo i gesti) che conduce l ’ascoltatore (in cui in questo sonetto vuole incarnarsi il n ostro grande perform atore) fino alla contraddittoria, ma non per un gesuita, esta­ si (maschile com e in 4 4) “ erudita” (l’estasi è un’esperienza mistica, e come tale non potrebbe essere indotta, tanto meno da uno sfoggio di erudizione), si può scorgere in azione l’elaborata psicotecnica che corrobora l’eloquen­ za (asiana) gesuitica. G l’incantesimi eloquenti, insom m a, coinvolgevano in vario m odo i sensi, innanzi tutto per quanto sollecitavano (grazie all’im ­ piego a tutto cam po dcll’ipotiposi) il cosiddetto “ occhio interiore” (quello che per l'appunto i gesuiti sviluppavano con le «com posizion i visive» degli Esercizi spirituali), e poi per quanta im portanza assum eva per il predicato­ re nellWfzo la gestione del proprio corpo. Si trattava di mettere su, con un’opportuna perform ance mimica (non a caso i giovani dei C ollegi veni­ vano “ esercitati” a interpretare tragedie), un’autentica oratio visiva (sulla quale particolarmente insistono le Vacationes autum nales di Louis de C ressolles), che alcuni predicatori eseguivano addirittura con l’aiuto di m acchi­ ne teatrali (fondali, immagini in m ovim ento ecc.). 5-11. Che tali prediche si proponessero di condurre l’ascoltatore, esaltandone i sensi (dell’udito e della vista), allo stupor, alla perdita insom m a di contatto con la realtà circo­ stante, di m odo da consentirgli la “ percezione” delle intellettive specie, del­ 107

le intangibili (ma figurabili) verità spirituali, si può evincere con facilità da questi versi. A lla fin fine, in una tale concezione spettacolare dell’eloquenza, il predicatore doveva divenire oggetto di una completa “ percezione sen­ soriale” da parte degli ascoltatori, addirittura ipnotica (... am m iro / e con­ centro i pensieri a un pensier solo ; ma si pensi anche al grave, “ estatico” giam bo del v. 7), in una sorta di messa in scena di quanto soltanto le alate M enti (le anime dei beati) posson o contem plare in D io. 12-14. L’ascoltato­ re, in silenzio e com e incantato, non osa quasi più nemmeno respirare. Si rinnova allora la lotta fra l’udito e la vista, al punto che quando l’uno di­ strae l’altro è com e una parentesi dolorosa in tanto godimento.

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50 (CVII) Al medesimo per la Predica del Purgatorio, su VEvangelio di Lazzaro D are a L azeri m arci e sp irto e m o to con un «Vien fu o r» d ’O n n ip o ten te im pero op ra del V erbo fu, che infuse al loto tutto P U o m , ed al N u lla un M o n d o intero. E d ero , e Tu ripien d ’E stro divo to sì le fiam m e p u rgan ti esprim i al vero che a ’ prieghi tuoi tem è di restar v ó to d ’A lm e sepo lte il B aratro più fiero. E lem osin e pie, pianti votivi ciascun o fferse a m iseri co n sorti, on de co m prar l’eternità d e ’ D ivi. Par che in b occa di D io tenghi le sorti: fai di sp aven to agon izare i vivi, e p u oi cangiare in C ie l l’A b isso a ’ M orti.

1-4. Riportare in vita un m orto che già puzzava (L az eri m arci) con un co ­ mando («L azare, veni foras») fu opera di quella parte della Trinità che è il Verbo, cioè la parola, la quale in principio diede vita al fango (im pastan do­ lo e soffiandovi lo spirito), e trasform ò il N ulla nella sua m irabile creazio­ ne (ma l’interpretazione è program m aticam ente duplice, poiché, in quanto C risto, il Verbo diede al N u lla che era l’uom o nel peccato originale un Mondo intero, cioè la possibilità di giungere alla vera vita del Paradiso). 58. A llo stesso m odo il predicatore sa rendere così a l vero gli orrori della p u ­ nizione oltrem ondana, la sua perform ance ha cioè un tale potere illusioni­ stico, che la gente riesce a vedere le fiam m e del Purgatorio c dunque a pen­ tirsi (è per questo che l’inferno, «il Baratro più fiero», può temere di resta­ re vuoto: perché nessuno avrà più il coraggio di peccare d op o aver assisti­ to a una predica di Edero). 9-11. L’effetto della predica: elem osine (per i bisognosi) e contrizioni. 12-14. Il sonetto chiude com piendo definitiva­ mente il parallelo tra il Verbo divino e la parola del predicatore: anche quest’ultima - attraverso il suo potenziale psicotropo - concede al N u lla che è l’uom o «un M ondo intero», sottraendolo all 'Abisso e destinandolo al Ciel. Il pubblico che assiste alle prediche si deve dunque intendere un pubblico di morti (nel peccato), così come quel L azzaro che fu salvato dal N azareno (Io, 11, 1-44). 109

51 (CXXV III). Al Signor Federico Meninni, insigne nella Filosofia, nella Medicina e nella Poesia D i Stagira e di C o o i du e gran N u m i, nati ad in vigorir spirti di vita, go d o n m irare in Tc la gloria unita, vivo L ice o d e ’ fisici volum i. N e l pen siero mille ali c mille lumi di F e b o an cor ti die L ira erudita, e col P lettro far p u o i che l’on d a ardita de l’ ita lo Ip p o cren go rgogli in fium i. D a l’om b re d e ’ tuoi inchiostri oggi s ’indora il secol n o stro , sì che q u an to insegni qual cifra di p ro d ig i il p la u so adora. E m entre del sap er god i tre R egn i, di tre lauri la F am a il crin t’infiora co n tro a le Parche un G erio n d ’ ingegni.

D i Federico Meninni (1636-1712), medico c poeta di origine pugliese ma vissuto per lo più nella Capitale, si ricorda, oltre al volum e di Poesie (1669), l’im portante scritto teorico intitolato 11 ritratto del sonetto e della canzone (N ap oli, 1677). 1-3. I due grandi uomini quasi divini (N um i) sono A risto ­ tele ed E sculapio, che incarnano i due saperi della filosofia e della medici­ na. N e l X V II secolo valeva ancora la dizione “ filosofo naturale” per ‘esper­ to di scienze naturali’: ecco perché il filosofo e il medico per antonom asia, entrambi studiosi di fisiologia (spirti di vita), posson o “ godere” a mirare le loro rispettive arti congiunte nel Meninni. 4. Il dedicatario incarna l’idea stessa di cultura m edica (L iceo era chiamata la scuola di A ristotele ad A te­ ne), facendosene per così dire specchio vivente. 5-6. "A p o llo (Febo) t’ispi­ rò anche un grande talento poetico (Lira erudita)” . 7-8. “ Tale è il tuo inge­ gno che la fonte italiana della poesia potrebbe trasform arsi in un fiume in piena, cioè ne è meravigliosam ente ingrandita” . 9-10. O m bra d e ’ tuoi in­ chiostri'. “ i tuoi scritti son o sì scritti in inchiostro nero, ma essi indorano, cioè abbelliscono i nostri tem pi” . 10-11. Il pubblico (il soggetto è il plauso) am m ira gl’insegnamenti di questo poeta com e se fossero enigmatici prodi­ gi. 1 2 .1 «tre R egn i»: filosofia, m edicina e poesia. 14. G erione aveva tre cor­ pi; le Parche son o sconfitte perché la Fam a renderà immortale il “ triplice” ingegno del Meninni. 110

52 (C X X X ) Terremoto orribile accaduto in Napoli nel 1688 M o rtalità che so gn i? O v e ti ascondi se p u oi perire a un alito di F ato ? D ei m iracoli tuoi il fasto andato o r né men scop re inceneriti i fon di. S o z z o vap o r da baratri p ro fo n d i basta ad u rtar con p recip izio alato A lp i di bro n zo , e in p o lv ero so fiato stru ggere tu tto il T u tto a R egn i, a M on d i. D i ciechi spirti u n ’ invisibil guerra ne assed ia sem pre, e cova un vacu o ign o to a subitan ee m ine in ogn i terra. A Troni ancora, a Tem pli è base il loto; su le tom be si vive, e sp e sso atterra le n ostre E ternità breve T rem oto.

Si ricordi che tra il 1680 e il 1698, cioè in diciannove anni, vi furono a N a ­ poli ben sedici eruzioni accom pagnate da scosse di terrem oto: l’occasione della m editazione a partire dalla catastrofe era dunque fatto assolutam ente ordinario in città. 1-2. “ O uom o destinato alla morte, che cosa sogni di p o ­ ter fare, dove credi di poterti nascondere se anche la più piccola casualità può ucciderti?” Si tenga presente che le cause dei terremoti erano allora in­ dividuate nei vapori sotterranei (alito ; ma si veda anche l 'aura fatale , al­ trettanto distruttiva, di 3 7 6). 3-4. “ Il fasto perduto delle tue costruzioni, che tu credi prodigiose, si è ridotto alle sole fondam enta (fondi) divenute cenere” . 5-8. I vapori che si m uovono nelle profondità della terra fanno crollare repentinamente (precipizio alato) anche le più solide fra le costru­ zioni (Alpi di bronzo), e in una nuvola di polvere (polveroso fiato ), p o sso ­ no scom parire anche regioni vastissim e (Regni, M ondi). 9-11. I ciechi spirti sono i vapori sotterranei, che, al pari degli “ spiriti” dem oniaci, ci (né) asse­ diano sempre; noi ci m uoviam o pertanto su un terreno, alla lettera, minato, che può farci saltare in aria da un m om ento all’altro (subitanee). 12-13. Le regge fastose (Troni), le chiese m aestose (Templi) poggiano le loro fondamenta sul fango; quanto l’uom o crede destinato a perdurare nella m on u­ m e n t a li è costruito sul vuoto (su le tombe... passate e future), così che b a­ sta una breve scossa di terrem oto per abbattere anche le più solide struttu­ re. Ili

53 (C X X X I). L ’istesso accaduto nella vigilia di Pentecoste Se in furie di vap o r la Terra avvam pa e su on a a l ’arm e en tro le vene im pure, ove si pen sa m en la vita inciam pa, e so n le fughe a ’ p iè nuove paure. D el R ep en tin o ai colpi in van ci scam pa o lid o o colle o ’l sen di am pie pian ure; né m ai di sicu re z za orm a si stam p a p er le vie d e’ T rem oti am bigue, oscure. N a p o li co n tro il C iel sì add en sa i torti che un D io sp irto d ’A m o r n em b o farassi, sp arge n d o in faccia a ’ vivi arie di m orti. G ià p o sso n l ’agon ie d ’infranti sassi con b occh e di terror renderci accorti che tante to m b e ha ’l su ol quanti so n passi.

1-4. D urante un terrem oto, quando “ avvam pano” i venti sotterranei nelle cavità del suolo con un cupo brontolio (che sem bra suonare Va l ’arm e), nessuna via di scam po è sicura: lo stesso scappare induce nuove ragioni di paura. 5-6. Invano si tenta di sfuggire a quanto accade all’im provviso (i col­ p i del Repentino), cercando rifugio sulla riva del mare, o sulle colline (qui, concretam ente le colline a O vest del centro di N apoli: l’attuale Vomero e la collina di Posillipo), o nelle pianure. 9-11. Le colpe della città sono tali che quello stesso D io che è D io di amore (quello stesso Spirito Santo che di­ scese sugli A postoli, com e ci insegna la ricorrenza della Pentecoste) diver­ rà oscura nuvola da cui sprigioneranno arie mefitiche (l’associazione tra pe­ ste e terrem oto era frequente nella cultura napoletana di secondo Seicento). 12-14. L’evento catastrofico diventa rappresentazione emblematica, p r o ­ prio com e il baco da seta della corona iniziale: la distruzione dei pafazzi (l’agonie d ’infranti sassi), che col loro crollo spalancano voragini (bocche) nel suolo, ci m ostra (ci dice... con quelle bocche) come ogni passo umano poggi in realtà sulle tom be (cfr. 52 12-13). Si noti, nell’inversione di battu­ ta dell’ultim o verso (nel consueto endecasillabo “ anfibio” caro a Lubrano), l’orchestrazione fonica decisamente imitativa ( che T A N T E T O M B E ha l S u Ò l q u A N T l S O N SÀ SSI).

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54 (C X X X II). A ll’istesso L a Terra anco è m ortai: trem a e si scote di p arlctico u m or turgid a il seno, e se le pesti sue sm altir non puote trasu da in zolfi e bollica in veleno. D i astrolagh i p resagi al gu ard o ign o te le vertigini occulta, e a C iel sereno, q u an d o Tacque del m ar d o rm o n o im m ote, tanto im perversa più q u an to vien m eno. E p ur d elu so l’U o m p en sa sicu ro vivere ad anni lunghi un bel so ggio rn o ove si celan tom be entro ogn i m uro. N a p o li, a Te: le tue gran d ezze un giorn o né men la F am a sap rà dir che furo, p resso il Sebeto a pian gern e lo scorn o.

1-4. Anche la Terra è atto della Creazione divina e, per l’analogia che esiste tra m acrocosm o (m ondo) e m icrocosm o (uom o), anch’essa, quando è so ­ vraccarica per un ccccsso di um ore, soffre di parietico, cioè di tremori: co ­ sì, se non riesce a smaltire le sostanze maligne, essa le espelle eruttando. 57. A differenza del malato, tuttavia, essa occulta i segni dello squilibrio umorale, ovvero cela le proprie profondità (vertigine ignote) per cui il m a­ le scoppia all’im provviso (a C iel sereno, come il fulmine dell’espressione proverbiale), im previsto (senza possibile astrologico vaticinio). E da ricor­ dare che i terremoti sono spesso preannunciati da giornate particolarm ente calde (a G e l sereno) e da un mare decisamente in bonaccia. 8. Il soggetto è sempre la Terra', più viene meno, si crepa, crolla, e più fa danni. 9-11. N a ­ poli, a Te: «con m ossa di predicatore, quasi additando col braccio teso la città: “ dico a te” » (M arzio Pieri). Deluso: “ ingannato”, latinism o, giacché l’ Uom erede di vivere in dim ore sicure, mentre esse in realtà posson o tra­ sform arsi, venendo meno, in tom be (m otivo analogo a 52 12-13 e 53 12-14). 12-14. U n giorno, altro che vedersi, i ricchi palazzi di N ap oli non saranno nemmeno più ricordati: e nessuno si recherà a piangere sul luogo ove un tem po sorse una tanto splendida città. Il Sebeto era il piccolo fiume che b a­ gnava N apoli (attualmente scom parso). 113

55 (C X X X III). Per le Colonne davanti al Tempio di San Paolo dedicate da ’ Gentili a Castore e Polluce, fatte in pezzi D iru p ate C o lo n n e, in m esti sgu ard i vi veggio a piè l’A n tich ità piangente. A ud acie già de l’A rte, ora a la gente scheletri d ’id o latria, m arm i codardi. V endicativo il C a s o o p resto o tardi ogn i altezza m ortai con d uce a niente, e co n tro a falsi N u m i il su ol frem ente sb u ffa n ebbia di p olve, avventa dardi. Più non so ffrì che i C asto ri im petriti P ao lo del su o gran T em pio in su le p orte rap issero a la F é p lau si eruditi. Se si fin sero al M ar lucide scorte, giaccian da stolta F am a astri m entiti in n au fragio terren Sirti di m orte.

L a C h iesa di San Paolo M aggiore sorge su di un leggero rilievo (l’A gora di Partenopc, il F o ro di N eapohs, attualmente piazza san Gaetano), sulla fac­ ciata sono ancor oggi visibili le uniche colonne rimaste dclPantico tempio rom an o in onore dei D ioscuri (oggetto di studio da parte di G iuliano da Sangallo, Leon Battista Alberti e dello stesso Palladio, di questo tempio, ab b attu to progressivam ente dalla grande attività sism ica del X V II secolo, e da qualche “ abuso edilizio” da parte dei teatini durante la costruzione del­ la C h iesa di San Paolo M aggiore, si conserva un disegno del 1540 del p o r­ toghese Francisco de H ollanda). Il sonetto orchestra il facile emblema del paganesim o atterrato insieme ai suoi fasti. 4. scheletri d ’id o latria : “ ruderi” dedicati agli dei pagani; m arm i codardi : “ messi in fu g a”. 5-8. Si riprendono diversi m otivi dissem inati nei precedenti sonetti: il C aso vendica (cfr. alito d i Fato di 52 2) la presunzione umana; il suolo, assum endo talune caratte­ ristiche del C ielo giusto fulm inatore, scaglia fulmini contro le false divini­ tà pagane ed erutta polveri c lapilli (cfr. il polveroso fiato di 52 7). 9-10. S. P aolo non sopp ortò più che C astore e Polluce, bloccati nella pietra delle colonne sulla soglia della chiesa a lui dedicata, sottraessero alla religione cattolica l’am m irazione degli um anisti {plausi eruditi). Si noti qui che il di­ sc o rso di L ubrano è sì un m onito agli intellettuali affinché si occupino di questioni di fede, senza atteggiarsi a continuatori del m ondo pagano, ma

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non è per nulla un attacco alla cultura classica. 12-14. L a chiusa è u n ’agudeza articolata su ll’antitesi tra la supposta im m o b ilità del su olo e il con ti­ nuo m ovim ento del mare: proprio i D ioscuri, che eran o considerati scorte , guide sicure alla navigazione, giacché la co ste lla zio n e dei Gem elli (i D io ­ scuri, appunto, e com e tali «astri mentiti», p e r c h é naturalm ente si tratta delle credenze dei pagani) si riteneva fosse fav o re v o le ai naviganti, si tra­ sform ano con una scossa di terrem oto (in n a u fr a g io terren ) in pericolose “ im m obili” secche (Sirti di morte).

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56 (C X X X IV ). Per le rovine della Cupola nella Chiesa del Giesù, rim asti solo n e’ quattro angoli gli Evangelisti dipinti dal Lanfranchi O Parclia del C ie lo a u g u s ta m o le , ricca di p iù m iraco li ch e sa ssi, n o n più di tue p ittu r e il b el v e d ra ssi che a m aestri P en n elli e ra n o sco le. Per tuo Z o d ia c o d ’ o r o in v id o il S o le b ra m ò stam p ar re lig io si i p a ssi. O r in un m o n te vii d ’ o r rid i m assi la Terra che ti sfe ce a n c o s e ’ n d o le . P u r F en ice im p e trita a le m e m o rie viva riso rgerai; l’età fu tu r a l’o m b ra ne a d o re rà p in ta in Isto rie . Se ne T esser m a n c a sti, il n o m e d u ra ; e p er far certa fé d e le tu e g lo rie E v an gelich e P en n e o r n a n le m u ra.

G iovan ni Lanfranco (1582-1647), im portan te pittore parm ense, v isse a N a ­ poli fra il 1634 e il 1646, lav o ran d o sp e sso p e r i gesuiti. 1-4. L ’im ponente cupola (augusta mole) della C h ie sa del G esù è detta per m etafora “ p arelio ”, che è il nome del fenom eno di rifrazion e cre a to dal disco solare. L a form a della cupola diventa così fig u ra celeste, d u n q u e non più co stru zio n e di sas­ si , ma dim ora di m iracoli , qu ali gli affreschi che eran o modelli (scole) di per­ fezione per i m igliori p itto ri (m aestri Pen nelli). 5-6. L o stesso S o le deside­ rava di poter percorrere con re lig io so risp etto il giro della cu pola, che qui è detta Zodiaco (per i suoi affresch i). 7-8. Q u el cielo artificiale a d e sso è tutto raccolto in un am m asso d i ro vin e, e anche la T erra, che pure col s u o m ovi­ m ento fu causa del crollo, se ne ram m arica (anch e qu i son o presenti alcune p rofon de figure della cu ltu ra secen tesca n ap oletan a: si pensi all’a sso c ia z io ­ ne tra i G iganti che o saro n o sfid a re il potere d i G io v e e il terrem o to , che al­ cuni credevano dov u to al d iv a m p are dei fu o ch i infernali). 9-14. L a cupola risorgerà dalle sue rovine com e la m itica Fen ice dal suo rogo, o alm en o ne resterà la m em oria (l’om b ra... p in ta ) nelle cron ach e. D a qui 1’a g u d e z a fina­ le: la certezza della fam a fu tu ra, d o v u ta al la v o ro degli scrittori, è data dal fatto che sui quattro sp igo li d e lla cu p o la, rim asti intatti, son o raffigu rati gli evangelisti, cioè coloro che sc risse ro la sto ria di G esù (com e gli sto rici scri­ veranno la storia del G esù ). 116

57 (CXXXV ). Su l ’istessa Sacrilegi del C a s o o di N atu ra, sd egn o fatale o tem erario esem pio, sacre a G icsù p recip itò le m ura d ’un pensil P arad iso in cim a al T em p io ? N o n no. D e l ’U o m l’irriveren za im pu ra fe ’ di m ole sì eccelsa o rrid o scem pio, che a m o ver Terra e C iel, se al m al s ’indura, b asta ogn i colp a, è A rch im ede ogn i em pio. N a p o li, gu arda ben tra sassi infranto un P anteon di glorie; e p o n g a fine a le licenze tue perenne il pianto. Se segui ad irritar l’ire divine, m o rto per sem pre a le Sirene il canto, nom e so rd o sarai sol di rovine.

1-4. “ Fu un atto sacrilego del C aso (si ricordi 52 2 e 55 5) o della natura? E fu lo sdegno divino o la temerarietà umana punita esem plarm ente a fare precipitare il Paradiso raffigurato sulla cupola (e pertanto “ pensile” ) della chiesa dedicata a G e sù ? ” Si ricordi chc la congiunzione avversativa del se ­ condo verso è congetturale (per Ve che com pare nell’edizione del 1690). 58. “ N ulla di tutto ciò: furono i peccati dei cittadini a distruggere una c o ­ struzione così im ponente e degna (i due significati di eccelsa), giacché quan­ do si diventa tutti recidivi al male (al m al s ’indura ), per muovere il C ielo e la Terra alle giuste vendette è sufficiente una qualsiasi delle tante colpe, an­ zi ogni singolo peccatore può fungere da leva per dare origine a tali som movimenti (è Archim ede ogni em pio)’’. 9. G uarda: imperativo. 10. Panteon: ovviamente la C u po la del Gesù. 11 . I l pianto: soggetto del congiuntivo esortativo. 12-14. Stesso schem a di 54 12-14; anche qui il terzetto finale è un’apostrofe alla città perché smetta di peccare, se non vuole essere ridotta a un cum ulo di macerie di cui si perderà anche il nome (si noti l’insistito gioco fonico: «SE SEgui ad IR R IT A R P IR E d iV IN E / m O R T O per SEm PR E a le S iR E N E il c A N T O / nO m e S O R D O SaRA i S O L D i R o V IN E »), 117

58 (CXXXV I). A ll’istcssa O cch i miei che m irate? O v e rilusse co lo rito un E m p ire o in bei lavori, sp arta di p recip izi o m b ra è di fu o ri, e ’ l pen sier pena a raccord ar che fusse. L u cifero cred ’io le F u rie indusse a v o m itar d ’A b isso em pi vapori, né so ffren d o che in terra un C iel s ’ado ri, co m e che fatto ad arte un C iel d istru sse. M a sco p p i p u r l’invidia! U n cor sin cero che viva in D io , benché tem pesti il su o lo , se perd e un fin to C iel non perde il vero. V eggio là su il Tabor, e mi co n so lo , nel divin v o lto il P arad iso intero: che vai p er cento glorie un G iesù so lo .

1-4. Si fatica a ricordare \’Empireo abilmente affrescato (bei lavori) della cu­ pola del G esù, che adesso, vista dall’esterno, dop o il crollo delle strutture in pietra, risulta solo un vuoto (om bra). 5-8. Lucifero, non tollerando che gli uom ini adorassero il Paradiso in terra (v. 7), sebbene esso fosse solo un’opera d ’arte (v. 8), gli scatenò contro i vapori infernali (cfr. 56 7-8 e n o­ ta). 9-11. U n animo sinceramente religioso, anche se la terra si scuote (ben­ ché tempesti il suolo) distruggendone le raffigurazioni umane, non per que­ sto perde il vero Paradiso. 12-13. Vi c qui una precisa rappresentazione del­ la tecnica degli Esercizi spirituali di Loyola: dalla com posizione di uno sp a­ zio mentale baluginano progressivam ente le verità di fede (c questo del re­ sto l’ intento scintillante d ell’ intera raccolta lubraniana). Il fedele, contem plando il volto di C risto nel m omento della sua Trasfigurazione (av­ venuta sul m onte Tabor, che viene qui richiam ato alla memoria) vi vede al suo interno racchiuso tutto il Paradiso. 14. A gu d eza: lo splendore di un so ­ lo G esù, quello vero, vale cento volte (num ero qui puramente elativo) le bellezze artistiche (della chiesa) del Giesù. 118

59 (CXXXV II). Per i Palagi puntellati e incatenati dopo le scosse del Terremoto Ite, o L u ssi, ad alzar tetti giganti, spingete i m arm i a lapidar le Stelle; v ’apran le colpe, A rm ide in o z io im belle, E lisi m aestosi, op re d ’ incanti. A b b atte irato il C iel tra poch i istanti in baratri di p olve ogn i Babelle, e sb o ccan d o Vesuvi il su ol rubelle fa confini a P A b isso i vostri vanti. A h Patria m ia, qual sei! L a tua Sirena rivolga in N en ie Parm onie soavi con cad en ze di du ol, fughe di pena. Sì, giusto è ben chc gli edifici gravi di più falli che sassi, altri in catena, altri in d u b io trem or p en dan da travi.

1-4. “ C ostruite pure, o voi adoratori del lusso, anzi L ussi per antonom asia, palazzi giganteschi e altissim i (tanto da toccare con le loro pietre di costru ­ zione le stelle, e dunque da “ lapidarle” ; si veda 36 7); illudetevi pure con piaceri illusori degni della maga A rm ida, che così trattenne in ozio imbelle il guerriero crociato R inaldo (cfr. Gerusalem m e liberata, X IV l.XX-LXXI e X V I I, sgg .)” . 5. Tra pochi istanti', in un attimo. 6. B aratri di polve: si veda la ricca costellazione m etaforica legata alla polvere in tutta la raccolta, d al­ la m orta polve del Verme Setaiuolo in i 14 al polveroso fia to di 52 7. 6. O gni Babelle: qualsiasi fastosa costruzione che, come la torre di Babele, voglia “ raggiungere” il cielo. Sarà il caso di ricordare che la città di N ap o li, co ­ stretta a rimanere chiusa nelle,proprie mura (l’ultim o am pliam ento urbano concesso risaliva al viccrcame di don Pedro di Toledo), presentava di con ­ seguenza all’epoca i palazzi più alti dell’intera Europa. 7-8. Il suol (sogget­ to), facendo esplodere i vulcani, rende le meraviglie architettoniche (vanti) confinanti con PAbisso (come già in 55 5). 9-10. “ L a Sirena chiam ata Partenopc cambi in litanie di lutto i suoi dolci canti, e v’im provvisi anche accen­ ti di dolore (cadenze), e v’innesti in contrappunto (fughe) la sua pena” . 11 14. I palazzi forniscono l’immagine, si direbbe per scivolam ento m etoni­ mico, dei peccatori che li abitano; gli edifici, puntellati perché pericolanti dop o il terrem oto, appaiono in realtà com e quei condannati che scontano le loro colpe (sono infatti appesantiti dai falli) per l’appunto in “ catene” (v. 13), se non addirittura con l ’im piccagione (pendendo m som m a da una tra­ ve in dubio trem or , ovvero osculando). 119

60. Su le pedate del Salvatore, impresse nel Monte Oliveto R u stico P arad iso , ove si estolle il M o n te degli O livi e sp an d e a ’ cam pi le belle o m b re di pace, an cora i lam pi serb a dei p iè divini entro le zolle. Il m u tò C risto in C am p id o g lio , e volle che fisse l’orm e sue divoti inciam pi o ffra n o a ’ Pellegrini, e vi si accam pi g au d io sa la F é ferm a in un colle. Io degli affetti miei il co r p ro fo n d o vi m an d o ad ad o rarlo , e non mai lassi v ’ im p rim o baci in estasi gioco n d o. V iva l’E tern ità p arla in quei sassi: a chi si gitta a piè, schernito il m on d o, p er ascen dere al C ie l bastan du e p assi.

Il sonetto, che chiude la Parte terza delle Scintille poetiche (e dunque l’in­ tera raccolta), è pubblicato com e terzo nella Appendice dell’edizione Pieri. 1. Rustico Paradiso è il M onte O liveto, “ ru stico” perché vi si trova l’orto dove G esù si ferm ò ad invocare il Padre poco prim a dell’arresto (l’aggetti­ vo sem bra peraltro designare il tono del com ponim ento, “ sentim entale” se­ con do Pieri). S i estolle: s ’innalza. 3-4. I “ lam pi” dei piedi divini sono le o r­ me, le pedate del titolo, di G esù (che in quell’occasione sudò sangue), ri­ maste im presse sul monte. 5. Il colle si può paragonare al C am pidoglio dei R om ani, perché è la rocca della Respublica christianorum, il luogo in cui co­ m inciò la Passione del Figlio e dunque la salvezza dell’uom o. 6-7. Le orme di G esù son o inciam pi per il pellegrino (il “ palm iere” , che si recava fino in Terra Santa), perché questi si abbassa a baciarle in segno di reverenza. L’in­ tero monte diventa allora un accam pam ento per la fede. 9-11. “ Giocondo, cioè rapito nel godim ento dell’estasi seguita alla m editazione del M onte O liveto, riem pio di baci quelle impronte che io nella profondità del mio cuore mi raffigu ro” . Anche qui estasi è maschile come in 4 4 e 49 2. 12-14. Q u ell’eternità che si può solo immaginare o cogliere nella m editazione p a r­ la dunque v iv a in quelle pietre, perché le impronte, per quanto solo lam pi “ im pressi”, son o una traccia della possibile incidenza del sovrannaturale 120

sulla materia: chi dunque si prostra in adorazione, m ostrando così di di­ sprezzare il m ondo materiale (quello che per essere per davvero “ v ivo” ne­ cessita di continue “ im pressioni” ), potrà raggiungere il C ielo con appena due passi (dove la sovrapposizione tra i passi del C risto rimasti im pressi sul colle e quelli del fedele, che li ripete “ pedissequam ente” , è agu deza, com e al solito dalla forte im pressione visiva, per significare la via gesuitica all’imitatio Christi).

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G a b rie le F ra sc a

L’angelica farfalla fra i riflessi C o n i su oi trenta individui ingranati a co m m u o v ere (fra le ru o ­ te dentate del delectare e docere) l’ord ign o m agari più m acch in o so del co n cettism o “ n ap o litan o ” , la co ro n a lub ran ian a del Verme Se­ taiuolo p arreb b e palpitare p er u n o sc o p o “ m e ra v ig lio so ” q u an to al­ trim enti di rad o p ersegu ito n ell’apparen tem en te infinita p red icab ilità delle sfacciate argu tezze barocche: ch iudere, in som m a, lo sp a ­ zio ste sso della p red icazion e, esaurirlo del tu tto 1, o ssificarlo in «glu tin i di gelo » (28 1 ) da rendere co m p u lsab ili e stro p icciab ili, c o ­ me i globi dorati di quei vezzi o collari della «b eltà lasciva» c o n ­ vertiti dalla pietas del giorn o di festa in ro sari, p er un intero m ese di m editazion e, se non di p alestra psichica. E se p er il pred icatore, avvezzo a estenuare concetti dai p ulpiti, a ch iu dere in som m a an co ­ ra una volta, m a nel qu i e ora della “ p erfo rm an c e” , lo sp a z io tutto dei p o ssib ili (fra accum u lazion i, antitesi e insistite ip o tip o si) perché ne em erga infine un “ rifle sso ” di reale (che è sem p re, gesu iticam en ­ te, un bilanciam ento, una so sp en sio n e in attesa di un assen so d ivi­ no), se du n qu e p er il n o stro fluente affab u lato re si ann idano nei «glu tin i» dei versi (in quel loro p roced ere p er scorci di gh iaccio, se non p er scorciatoie d ell’ingegn o) com e nelle gioie lascive i «verm i di co scien ze erranti» (v. 13), n ondim en o la m irabile m etam orfosi p ieto sa che trasform a un orn am en to caro al fasto in u n o stru m en to

1 Per quanto riguarda il concetto di «esaurimento», o meglio «spossatezza» come perseguimento di tutti i possibili fino all’abolizione stessa del possibile, concetto-chiave di quello che si definirà nel corso di queste pagine “ barocco estremo”, il testo di riferimento è Gilles Deleuze, L'esausto [1992], [rad. it. di G. Bompiani, Napoli, Cronopio, 1999. 123

di co n trizio n e e pregh iera non p o trà che riguardare la natura stessa di q u este «scin tille p o etich e», crepitate si dalle ben più voraci fiam ­ m e delle p red ich e, m a capaci di divenire, per l’app un to, «C o ro n e in m ano al z elo » (v. 8 ), ingran aggi p red isp o sti ad accogliere docili il to cco dei devoti: e ad accoglierlo co sì, in form a ripetibile, nel cicli­ co rip ro p o rsi delle settim ane, per un m ese intero (quello di M aria)2, e un gio rn o d o p o l ’altro, e pagin a su pagin a. Perché se è vero che la cu ltu ra barocca, p rim a autentica tip o lo gia culturale pervasivam ente tip o grafica e d u n qu e visiva e infine «d i m a ssa »3, trasform a i ver­ si, tutti i versi, in «glu tin i di gelo » tratti su da «verm i sven ati», è al­ trettan to vero che p er un atletism o che si era co n segn ato all’esau ri­ m en to del p o ssib ile, p er uno sp irito op po rtu n am en te “ esercitato ” , tale so lid ificazio n e del d ettato non poteva che p rop ag gin are sulla p ag in a il p rim o tip o di ripetizion e o fferto da Ign azio di L o y o la ai su oi “ sp o s sa ti” esercitanti: la ruminatici, insom m a, o m agari la g ra ­ z io sa agudeza nominai. Q u ei «glutin i di g e lo », quei «g lo b i d ’o r» (v. 4), quei grani di ro sario si o ffro n o p ertan to a una continua d igita­ zion e, co m e p er fare «assap o ra re col gu sto cose am are, com e lacri­ m e, tristez z e e il verm e della co scie n z a » 4 nel co n su eto bilan ciam en ­ to (e sem p re co m e in Ig n azio ) dei term ini dell’antitesi (nel nom e di u na disp eratam en te um ana du plicità), qui m eticolosam ente eq uili­ brati non so lo dai buoni offici della rim a m a (com e sp esso in Lub ran o) da una so stan ziale p ersecu zio n e om o fo n ica (che parreb b e sem p re sul p u n to di diventare om on im ica), daH’an n om in azion e al­ l’anagram m a, fin o m agari a u n ’om b ra di falsa etim ologia, nel nom e d c ll’eq u iv o co , da riso lv ere in un gu iz z o : gelo-zelo.

2 Per un gesuita, avvezzo sin dalla frequentazione del Collegio, a parteci­ pare ai lavori e alle devozioni della Divae Mariae congregano, cosi come pre­ scriveva la Ratio studiorum, non poteva esservi corona (di sonetti) se non ma­ riana. 3 II riferimento è naturalmente a José Antonio Maravall, La cultura del Ba­ rocco. Analisi di una struttura storica [1975], trad. il. di Oh. Paez, Bologna, U Mulino, 1999, pp. 139-178. 4 Ignacio de Loyola, Esercizi spirituali [trad. it. di Giovanni Giudici], Mi­ lano, Mondadori, 1994, p.25. 124

N c , sia detto sù b ito , altra im m agine più pertinente di quella co n co rd an za fra «giov iale» c «gio v ev o le» che si era soliti rim p ro v e­ rare 5 agli strum enti presun ti “ ap ro b lem atici” di E m an u ele T esau ro, gesuita trasco rso a m aggiori m ondan ità, p arreb b e offrirsi allo Sguardo di noi lon tan issim i lettori, in specie co n sid eran d o di c o n ­ verso la “ p ro b lem aticissim a” e accesa m ilitan za di p ad re L u b ran o , tutta intesa, nello schierarsi co m u n qu e d a b ravo rappresentante della «cu ltu ra d iretta » 6 coi p oten ti, a torm en tare in lo ro le p o m p e fastose («T iran n a Vanità di che ti p regi? / L e p o m p e al fragil co rp o offri in tributo / e lasci Palm e ignu de in m ezzo a fre g i», 23 9 - 1 1) nel nom e di una m editazion e sulla m orte che è già, ed im m ed iatam en ­ te, una m editazion e sulla vita, sul m istero cioè d e ll’ «in d u stre» m ac­ china m aterica cui è n ecessità (ecco fin o a che p u n to si slan cia in lui, com e nella più eccelsa p oesia b arocca, l’esaurirsi dei p o ssib ili) l’ «inverm inir vivendo» (3 14)7. A n zi, se tale “ m o n d an a” co n tem p o ra ­ neità fra l’utile e il dilettevole si gioca nel Cannocchiale aristotelico in virtù della p aro n o m asia che collega i du e lessem i «gio v iale» e «gio v ev o le», sicché «la quasi identità fon ica p revarica sulla d iv e rsi­ tà del sign ificato e co stitu isce insiem e avvio e tragu ard o alla (falla­ ce) riso lu zio n e del d ilem m a»8, in L u b ra n o qu esta stessa p rio rità d e ll’antitesi 9 viene, com e si diceva, add irittura giocata con i bu on i

3 Come avviene nel classico saggio di Guido Morpurgo Tagliabile, Aristo­ telismo e barocco, in AA.VV., Retorica e barocco, a cura di E. Castelli, Roma, Bocca, 1955, p. 193. 6 Si veda José Antonio Maravall, op. cit., pp. 10) -137. 7 E se il secolo successivo per le nostre scorciatoie tipologico-culturali dovrà essere per molto ancora quello dei “ lumi” (sebbene tale aspetto concerni solo un'élite, a fronte di un “ popolo” rimasto, allora come ora, inguaribilmente “ ba­ rocco”), sia allora una volta per tutte il Seicento il secolo non del metodo, o del­ l’enciclopedia “ pansofista” (che è un annaspare nell’ipertrofia tipografica, e il pri­ mo sensibile collasso della cultura occidentale al sovraccarico di informazioni), ma della materia (e del suo conseguenziale angosciato sfinimento nell’immagine). s Pierantonio Frare, Il «Cannocchiale a r isto te lic o d a retorica della lette­ ratura a letteratura della retorica, “ Studi secenteschi”, X X X II, 1991, p. 50. «fin Lubrano] la vita è un’eterna antitesi; si presenta sotto un aspetto, ma basta guardare meglio e quell’aspetto svanisce e ne compare l’opposto. La deco­ zione e il gioco illusionistico, che nel Marino erano soprattutto un espediente 125

offici d e ll’o m on im ia (dal concepto al concento, per parafrasare Vagudeza con cui G racian lodava G ó n g o ra ), q u an d o non addirittura con una rara altrim enti vis anagrammatica , o p iu tto sto con il m o ­ vim ento co stan te e ribadito che d all’u so p ro p rio rim b alza al tro p i­ co, o infine nelPim piego a tu tto cam po d e ll’aequivocum ^ , quasi in ogni parola rim an esse so p ita, e p ron ta a ridestarsi, una latente p re­

spiritoso per presentare argutamente le cose, sono in kn —come in altri baroc­ chi moralisti - la vera legge del mondo» (Franco Croce, Tre Urici dclVultimo ba­ rocco. l ì - Giacomo Lubrano , “ La rassegna della letteratura italiana”, 2, 1962, p. 236). Anzi, per Lubrano, come per Quevedo secondo Maurice Molho, «il con­ cetto [...] sancisce l’unione di due clementi “ incompossibili” che si reggono esclusivamente sulla loro “ incompossibilità”» (Maurice Molho, Semantica e poetica [1977], trad. it. di P. Picamus, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 195. Se già la paronomasia (fino al serpe acquattato dell’anagramma) è una parziale equivocità, c la metafora con la sua simultaneità lo è pienamente, tutto in Lubrano volge all’equivoco (o, meglio ancora, ecco le antitesi, alla compre­ senza degli opposti nelTequivoco), a partire da questi stessi «vermi», nei quali parrebbe riverberarsi, grazie anche alle perseguite annominazioni, uno dei più noti scandalosi omonimi francesi (vers —“ vermi” e “ versi”). Basterà, d ’altra par­ te, scorrere anche solo rapidamente questi sonetti per ritrovare un dispiegamen­ to dc\Yacquivocum addirittura madornale (fino allo stesso strisciante fonosim­ bolismo, per cui, tanto per intenderci, il baco «lieto va sussurrando e scherza a strisce», 6 3); si pensi, per fare solo qualche esempio, al «M oro/i» = “ gelso/i”, ma già soffiato neH’ultimo respiro, di 9 5, 20 2 e 26 3; o alla tecnica a sbalzo del primo quartetto di 27, dove i vermi, «semi di viva polve» (v. 1), «pregni d’or in biondo giro / a le pompe Europee filano i voti» (vv. 3-4), cioè impregnati daU’ «òr» (della seta) filano i desideri («vóti») di fasto degli europei con le loro fulve tele rattorte... o, magari, invertendo la sequenza di chiuse e aperte, gravidi dcH’«ór», del vano e fragilissimo nunc (si veda la nota 47), con fili dorati avvol­ gono le inconsistenze (i «voti») dei lussi continentali (e si aggiunga anche la stre­ pitosa agndeza che chiude il sonetto 23: «e più Cesari veste un picciol bruto»). Dal momento che per Lubrano (come per molti poeti barocchi) il senso equi­ voco va considerato comunque sempre m opera accanto a quello “ proprio” di una parola, si spiega perfettamente il suo schifiltoso rifuggire le rime equivoche propriamente dette (insomma, se avesse mai messo a rimare il “ moro” = “ gelso” con la voce verbale, avrebbe finito col disambiguare la prima occorrenza). Da questo punto di vista, Lubrano è come se tendesse a trasformare ogni nome co­ mune in un nome proprio (il nome equivoco per eccellenza), dal momento che è proprio dell’“ essere” (da contrapporre a tutti i “ riflessi”, o apparenze, fra i quali, qui, ciascuno di noi è costretto a dibattersi) risolvere una volta per tutte la catena degli equivoci in un tuono tautologico (Ego sum qui sum... come oppor­ tunamente recita l’«Esser senza nome» divino incardato nella cinquina di sonet­ ti 43-47).

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freudian a sim ultan ea antinom ia (m agari con an n essa inversion e f o ­ n etica)11, il «q u ello e non q u ello » (14 12) del p ro d ig io so «en im m a» della vita. C h i altri m ai, allora, si n ascon derà nella «d o tta m an o » dell’artigiano che «e ffigian d o avviva» (28 2) qu esti «glu tin i di ge lo » che so n o i versi, questi concetti gh iacciati 12 che non c o n o sco n o più l’incendio che era so lito avvam pare fra le lab b ra di un «A rg o di bocche e B riareo di lin gu e» (così com e il san gu ign o A rtale ci d i­ pin ge il «m o lto PP G ia co m o L u b ra n o o rato r sa c ro », non già il p o e ­ ta, che ebbe fam a di «n u o v o m a sagro A n fion e del n ostro se c o lo » 15, prim a della tarda p u b b licazio n e delle Scintille poetiche, al più fra i confratelli), se non il n o stro pred icatore, diven u to p er l’a p p u n to il gelido P aolo B rin acio, affetto oram ai da «trem olam en to di lin gu a» («n é i m edici sepp er co n oscere il p rim o sin to m a d ’una specie di p aralisia » ) 14 e quasi co stretto a “ intrecciare c o ro n e ” con la m ateria

11 II riferimento, naturalmente, è a Significato opposto delle parole primor­ diali [1910], traci it. di E. Luserna, in Sigmund Freud, Opere, 6, Torino, Boringhieri, 1974, pp. 185-191. 12 Sentenzia argutamente Marzio Pieri, raffrontando queste poesie al «cal­ do odore di umanità» reperito da Damaso Alonso nei versi di Quevedo: «In queste morali e poetiche scintille non v’ha odore che turbi o ne arresti. [...] Un sospetto: sia l’odor di quei santi di cera sotto vetro, nelle chiese gelide? Non un odore, allora; un freddo» (Marzio Pieri, Introduzione a Giacomo Lubrano, Scintille poetiche, cit., p. 12). 13 Con tale impegnativa dizione viene presentato il Lubrano autore dell’o­ de (poi non confluita nelle Scintille) Naufragio dì Emanuel Sosa circa il Capo di Buona Speranza nel manoscritto (a più mani, e con aggiunte che arrivano fino alle soglie del XV III secolo) conservato nella Biblioteca Governativa di Lucca e contrassegnato 2203; cfr. Piero E, Pieretti, Testi inediti di Giacomo Lubrano, “ Studi secenteschi”, X, 1969, p. 290. 14 Lettera inviata all’amico veneziano Ivanovich, datata «Napoli, ultimo dì del 1680», e contenuta in Cristoforo Ivanovich, Minerva al tavolino, Venezia, Niccolò Pezzana, 1681, pp. 321-323. Parrà quanto meno singolare ritrovare nel­ le fasi estreme della vita di questo grande predicatore il sopraggiungere di tale «paralisia» della lingua, in specie se comparato con quel senso incipitario deH’«afasia umana» che Roland Barthes poneva «alla base della retorica e della meditazione ignaziana», e per cui l’oratore e l’esercitante, durante il tirocinio de­ gli Esercizi spirituali, «si dibattono all’origine in una carenza profonda della pa­ rola, come se non avessero niente da dire e occorresse uno sforzo accanito per aiutarli a trovare un linguaggio» (Roland Barthes, Sade, Fourier, Loyola. La scrit­ tura come eccesso [1971], trad. it. di L. Lonzi, Torino, Einaudi, 1977, pp. 34-35). 127

residu ale tratta da «verm i sv en ati»? O p p u re, e più p ropriam en te, con qu ali altrim enti im palp ab ili (com e le p arole del p u lp ito) e a rio ­ si (e asiani) eloquenti fili di seta vom itati da un lab b ro « in d u stre » 15, m a resi oram ai incisivi e duri col m arm o della pagin a (schegge in ­ so m m a di un inatteso atticism o scn e ch ian o )16, si è fasciato il sepol-

Ma questo riproporsi dell’afasia, che lega il giovane novizio entrato nella Com ­ pagnia il 30 aprile del 1635 al vecchio predicatore affermato, se segna due vigilie (quella della predicazione e quella della poesia finalmente data alle stampe, dal momento che nel ‘90 Lubrano non pubblica le sole Scintille poetiche ma anche la raccolta di epigrammi latini Suaviludia Musarum ad Sebethi ripam ) lo fa proprio nel senso di quella straordinaria metamorfosi mortuaria di cui si fa emblema, ed «enimma», il «Verme Setaiuolo», quasi che solo morendo alla parola si potesse rinascere alla Parola. Del resto, in un’altra lettera inviata all’Ivanovich, l’ultima (datata 11 marzo 1681), dopo aver lamentato i suoi «balbettamenti di lingua» e i «discorsi di specie sparutissime senza un lampo di spirito», così, sospeso fra due vite, come il Verme con cui avrebbe dato inizio al suo libro, si descriveva Lu­ brano: «Vivo da anfibio, mezzo di qua, mezzo di là, sempre affogato tra flussio­ ni, sempre fuliginoso ne’ fantasmi, e appena posso studiare a quarti d ’ore nel rac­ conciamento degli scrittacci confusi» (Cristoforo Ivanovich, op. cit., p. 328). 15 Che anche il procedimento “concettoso” sia allegorizzato dal lavoro del baco da seta, ulteriore motivazione per principiare le Scintille con questa coro­ na, sembrerebbe essere riconfermato da alcuni versi delYOde V (Ilgran Rio delVliloquenza concettosa scoperto daWistesso Sig. Fra Giovanni Caravita), dove si ripropongono quelle stesse «strisce» (Deleuze direbbe «pieghe») che sono l’em­ blema dell’arguzia industriosa del baco («Favolosi non sono / i pregi del con­ cetto. Egli sublima / in meraviglia ogni viltà di Temi. / Da mendiei Problemi / strisce d ’arguti rai spicca sua lima: / e fa regnare il Ver monarca in trono», vv. 64-69). Si veda Paolo Brinacio [Giacomo Lubrano], Scintille poetiche o poesie sacre e morali, Domenico Antonio Parrino e Michele Luigi Muzii, 1690, p 173. 16 Confrontati con il febbricitante asianesimo delle sue prediche (con le lo­ ro scoppiettanti interrogazioni, lo sfavillare delle ipotiposi, le perseguite proso­ popee e le iperboli pirotecniche), i versi di Lubrano (la sua oratio stricta da con­ trapporre alle volute della soluto) non possono che apparire decisamente meno “ agitati”. Anzi, in loro, e proprio in quanto è esattamente Yacumen (o arguzia) il semen dicendi grazie al quale al lettore sarà dato di “ assaporare” la parola (scritta), parrebbe trovare la sua giusta collocazione un’eloquenza sicuramente più tipografica (Poralità per Lubrano risiede solo nel pulpito), vicina se mai al­ l’atticismo senechiano di Giusto Lipsio e al “ laconismo” di Hrycius Puteanus, non a caso grandi frequentatori di paradossi, acutiora dieta e ossimori (si veda Marc Fumaroli, L'età dclVeloquenm.a [1980], trad. it. di E. Bas, M. Botto, G. Cillario, Milano, Adelphi, 2002, pp. 168-172; sul confine poi «tutt’altro che in­ valicabile» fra atticismo e asianesimo nel «virtuosismo oratorio» dei giovani «educati dai gesuiti», si rimanda alle pp. 243-247 dello stesso testo). 128

ero il n ostro gesu ita? E du n qu e qu ale vena di versi inerm i n asco n ­ de la sottile tela anagram m atica che tutta in una trattiene la m u lti­ pla co n cettosità di qu esta co ron a di giorn i “ svenata ai v e rm i” , di q u esto m ese in som m a di intensi esercizi sp iritu ali su ll'im m agin e più m isera e m irabile, «q u ello e non q u e llo », della m e tam o rfo si? Il p rim o gran o di qu esta co ron a, il Proemio, contiene già n atu ­ ralm ente tutte le risp oste: non d ’arm i si canterà, dice B rin acio (c o ­ m e in sede incipitaria già il M arin o nella LiraY7, né di im brattanti «m en zo gn e » am o ro se (e du n qu e al diavolo lo ste sso cavalier M a ri­ n o )18, ma ad “ im balsam are g l’istan ti” de « l ’ore inferm e» (ecco c o ­ me so lid ifican o il tem po, ecco com e lo re n d on o “ p erform ativam en te” ripetibile, i «glu tin i» di versi), acché co m e «A q u ila » si p o s ­ sa volare fino al «V ero» (e non sv o lazzare «F a rfa lla al V an o »), sarà d ato a un «V erm e» tessere le «p rim e co rd e » di quel «P le ttro in er­ m e» da anteporre alla «tro m b a » della vanità p oetica; a qu ello ste s­ so «V erm e» in som m a che, capace di vivere della su a p ro p ria m orte, «d a la tom b a su a trae i su oi van ti» (non già una TROM BA che «sv eg li», du n qu e, m a una TOMBA che TRae). Il b aco che tesse in­ torn o al su o ste sso co rp o il b o z z o lo co m pie con i su o i giri (« si d i­ vincola e storce, intriga e piega / den tro un au rato g lo b o o m b re fu r­ tive» 12 5-6), p refigurati dal lento m o rtu ario “ circ o lare ” 11'1 lun go lo

17 Si veda l’acuto commento di Marzio Pieri in Giacomo Lubrano, Scintil­ le poetiche, cit., p. 165. 18 Non aveva del resto il confratello Daniello Bartoli, nel giovanile Del­ l'uomo di lettere difeso ed emendato (che è del 1645, ma la cui redazione defini­ tiva era apparsa nel 1684), condannato P«indegna professione del poetar lasci­ vo», pur riconoscendo la necessità, come dire, “ tecnica” di fare «preda e botti­ no» anche dalle opere dei «mali scrittori»? Per la questione, si veda Bruno Basi­ le, D ell’uomo di lettere difeso cd emendato, in Letteratura italiana, diretta da Alberto Asor Rosa, Le opere. II. D al Cinquecento al Settecento, Torino, Einau­ di, 1993, p. 1005. 19 Tutto, dal “ serpirc” il filo della seta (J 10) al “ circolare” «lente linee» (5 3), dall’“ ordirc” «reti» e “ filare” «labirinti» (8 3 e 6) al “ divincolarsi”, “ storcer­ si”, "intrigare” e “ piegare” (12 5), dal “ serpire” «brun» del verme (15 6) al “ tes­ sere e ritessere” la tela del baco (16 1), dallo “ stampare” «seriche l’onde» (17 34) al “serpeggiare” «in atomo vivente» (19 3), dall’impregnarsi «d ’or in biondo giro» (21 3) a quel “ sussurrare” e “ scherzare” «a strisce» (6 3), tutto, lungo la 129

sp a z io co n clìiu so di una fo glia di gelso («A h i che Pesche b revissi­ m e d ’un M o ro / p resagiv an o in om b ra i suoi m artiri!» 26 3-4... ma il « M o r o » qui, si diceva, è già un «indeclin abile» so sp iro ), il rito tu tto ge su itico 20, e anche (e fo rse quindi) barocco, di esaurire lo sp a z io . E quel «V erm e S etaiu o lo » che fa cap olin o du n qu e nel p ri­ m o in d iv id u o della co ron a, e d ell’intero libro, e allora colu i che ha p rin cip iato la su a m o rtificazio n e, che è p er l’app u n to quel p ro c e s­ so d eleu zian o dello sp o ssa re il p o ssib ile, quel m acch in oso «so g n o d e ll’in so n n ia » 21 con cui s ’im b alsam an o le «o re inferm e». Solo a q u esto p atto quel «v erm e», etico industre, sap rà tessere le fila di

complessa parabola della metamorfosi, o rinascita nella morte, del «Verme Se­ taiuolo», parrebbe rimandare a un rimbalzo continuo, si dica pure a una reci­ proca interdizione, tra l’attraversamento dello spazio implicito nella forma del «gomitolo» e lo schiacciarsi senza profondità nella «silhouette» di uno “stri­ sciare” che si chiude progressivamente in un cerchio. Nel baco da seta che nasce da «sparute semenze», e “ lavora” la sua stessa materia genetica per farsi “ pupa” e rinascere a se stesso, si nasconde forse anche in Lubrano una larvale ossessio­ ne dei «vincoli» (si veda Sergio Pinzi, La scienza dei vincoli. Opus reticolatum: reti e vincoli in psicoanalisi, Bergamo, Moretti & Vitali, 2000, in specie alle pp. 47-59). 20 Si pensi alla meticolosa «arte combinatoria» (il sintagma, si sa, è leibniziano), per un complessivo spossamento dello spazio, racchiusa in una delle «addizioni» consigliata da Ignazio «per fare meglio gli esercizi e per meglio tro­ vare ciò che si desidera»: «Entrare in contemplazione un po’ stando in ginoc­ chio, un p o ’ prostrato a terra, un po’ supino a faccia in su, un po’ stando sedu­ to, un po’ in piedi, sempre con l’intento di cercare ciò che voglio» (Ignacio de Loyola, op. cit., p. 27). Che, in definitiva, altro non e che il trionfo di quelle combinazioni di comportamento che non a caso Igrazio definisce binarios, per­ ché solo la compresenza antitetica, il «quello e non quello», sfinisce lo spazio. «L a combinatoria è Parte o la scienza di esaurire il possibile, includendo le di­ sgiunzioni. [...] La combinatoria esaurisce il suo oggetto, perché anche il suo soggetto è esausto. [...] Bisogna essere esausti per darsi all’arte combinatoria, a meno che sia l’arte combinatoria a sfinirci, a portarci all’esaurimento, o che sia­ no addirittura entrambe, combinatoria ed esaurimento? Anche qui, disgiunzio­ ni incluse» (Gilles Deleuze, L'esausto , cit., p. 13). Che poi tale tecnica, per così dire postleibniziana, Deleuze la scorga in opera nell’ultima produzione (televi­ siva) di Samuel Beckett, potrà aiutare a comprendere la tesi conclusiva di questo saggio. 21 «Il sogno dell’esausto, dell’insonne, dell’abulico, non è come ü sogno del sonno che si fa da solo nella profondità del corpo e dei desiderio. E un sogno della mente e deve essere fatto, fabbricato», Ivi , p. 50. 130

una «saggia m o ralità»; perche a “ circo lare” per sp o ssa re lo sp a z io , p er esaurire tutte le m etam orfosi p o ssib ili, è p iu tto sto il p o e ta 22, e ogni so n etto , m acchina ro m an za p iegata d a ll’estetica b arocca a d e n ­ tellate l’ep igram m a (o a ingem m are, com e in q u esto caso, il senech ism o lipsiano), è b o z z o lo e tom b a, da cui la stessa «m o ra lità » che ne ha ord ito le tram e d o vrà con un gesto di lib erazio n e v o lar via («vive in sé ch iu so e del m o rir p resag o / sp e z z a la to m b a e vola in­ fra i vo lan ti» 5 7-8), sp iegan d o le ali “ a rg u te” del concetto. A volare alto, a contem plare l’im m agine che si è lab oriosam en ­ te racchiusa nel b o z z o lo del son etto (composición viendo el lugar, com e prescriveva ai su oi ginnasti spirituali Ign azio, ai quali andava m etodicam ente interdetta ogn i folgo razio n e che non fo sse innanzi tutto faticosa “ arch itettura” e poi rap id o rip o p olam en to d e ll’im m a­ gine, dove infine trovare un cantuccio per gli occhi adoranti), c ’invi­ ta difatti L u b ran o sin dalla titolatu ra dell’intero con gegn o, che se denuncia in p rim a battuta il su o essere con testo di «m o ra lità », lo fa so lo a patto che dette m oralità risultino «tratte» non già direttam en ­ te dall’esaltante m etam orfosi del «V erm e Setaiu o lo » (e dal fin tro p ­ p o scon tato richiam o alla rinascita dalle ceneri di G io b b e ) ma dalla sua «con sid erazion e». L o sp alto sidereo, l’accelerazion e esplicita­ mente richiesta p er forare l’im m obilità figurativa23, il vo lo insom m a

11 Come aveva del resto già notato Cosimo O nesta, «l’attività del baco è simbolo dell’operazione letteraria» (Cosim o Ortesta, Giacomo Lubrano: il tem­ po del verme , “ Paragone”, 326, 1977, p. 20). Questa stessa identificazione, por­ tata con acuta sensibilità alle sue conseguenze estreme («L ’animale viene inte­ riorizzato come una facies psichica dell’io. Gli animali sono la nostra immagine riflessa, ma il verme è più che un bagliore di specchio. E origine dell’anima. Il poeta entra nel verme, nel suo microcosmo; it verme incorpora il cielo nero del poeta, le salive del suo inchiostro»), si ritrova in un volume di Vitaniello Boni­ to sulle «vite larvali» in Pascoli e Lubrano (e non solo) che contiene un’attenta analisi della corona del «Verme Setaiuolo» (Vitaniello Bonito, Il canto della cri­ salide. Poesia e orfanità, Bologna, C L U E B , 1999; l’identificazione poeta-baco, con tutto quanto nc consegue, si legge soprattutto alle pp. 78-88; la citazione posta in parentesi si trova invece alle pp. 76-77). ’3 Per cui si veda, sempre su Lubrano (ma sulla “ coroncina” di sonetti “ ter­ remotati”, 52-59), Gabriele Frasca, Il paesaggio del mondo dipinto nella polve­ re, “ Il piccolo H ans”, 83-84, 1994, pp. 9-39. 131

d ell’ «A q u ila al V ero», rim an da fin tro p p o esplicitam ente al discerni­ mento caldeggiato da Ign azio di L o y o la nei suoi Esercizi («il p rim o p ream b o lo co n siste nella co m p o sizio n e visiva del lu o go...», «il p ri­ m o p u n to è vedere le p erson e...», «vedere e considerare le tre p e rso ­ ne divin e...», «p o i guardare quel che fan n o...», «osservare, notare e co n tem plare...», «o sservare e considerare ciò che fan n o ...»)24, e sta tu tto n ell'im m agine creata da cui con un salto (che nei sonetti lubraniani, erm eticam ente qu adripartiti, si com pie solitam ente con l’ intero u ltim o terzetto) o ccorre trarsi fuori e “ co n sid erare” , ap p u n ­ to, così, in scorcio, quella che R o lan d B arth es definiva, p er Ignazio, la veduta , cioè l’articolazion e stessa dell’im m agine25. Si tratta, in­ so m m a, non già di disegn are un qu adretto allegorico (o un p iccolo ro m p ica p o p er la “ m eraviglia” del lettore... che non è un p arab o la­ no il n o stro gesuita, e di tali effetti ne infiorava a grappoli nelle p re­ diche, d o ve era gioco tessere e ritorcere so stan ze fatte d ’aria) m a di tracciare le fasi (perentorie, da A a B in som m a) di u n ’im m agine in m ovim en to, di una vera e p ro p ria “ television e” che rappresenti l’e­ sau rirsi dell’im m agine stessa; perché per L u b ran o (attenzione: è un caso ab b astan za raro nella schiera dei p u r argutissim i p oeti del m o ­ m ento) l’allegoria e nei fatti stessi, l’em blem a è già tutto nella n atu ­ ra che p arla “ arid am en te” rebus, e il m ovim ento dell’im m agine da A a B (dalla statica da “ arred are” alla visione in m ovim ento) scop re un verm icolan te so stra to trop ico (lo scorcio della veduta), ovun qu e26.

24 Tutti precetti sul «fare l’immagine» tratti a volo d ’uccello dalla Seconda Settimana di «esercizi» (Ignacio de Loyola, op. it., pp. 30-35). 25 Cfr. Roland Barthes, op. cit., pp. 38-41 e 54-57. 26 «N el campo dell’intuizione allegorica l’immagine è frammento, runa. La sua bellezza simbolica si vanifica perche la colpisce la luce della scienza divina. La falsa apparenza della totalità si spegne. Perché l’eidos si oscura, la similitudi­ ne vien meno, e il cosmo, in ciò, s’inaridisce. Nelle aride rebus che ancora ri­ mangono c depositata una conoscenza che resta accessibile a colui che, confuso, medita. Al classicismo non era dato [né sarà dato più a ! razionalismo settecente­ sco e alTilluminismo borghese ] di cogliere l’illibertà, l’imperfezione e la fragilità della bella physis sensoriale. Ma proprio queste propone l'allegoria del barocco, nascoste sotto la sua pompa sfarzosa, e con un’intensità prima sconosciuta» (Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco [1925], trad. it. di E. Filippini, To­ rino, Einaudi, 1980, p. 182). 132

L a m ateria p utrida, in som m a, m ateria p rim a e u ltim a (v om ito, seta e polvere, in u no), ed è questa in definitiva l’intim a co n sid erazion e che do vrà forare il su o b o z z o lo e scap p ar via, insegn i all’anim a (in ­ trappolata, se c’è, «in tante trasp aren ze») i m o vim en ti chc le so n o p rop ri (gli esercizi, in som m a, necessari p er intravedere, sia p ure a m alapena, l’eterno in tutto qu esto deteriorarsi). Si pren da, a in o ’ d ’esem pio di q u e st’a rtico la z io n e b loccata d e l­ l’im m agine (da A a B , si diceva, e rito rn o )27 fin o al “ riavvolgim en ­ to ra p id o ” dell’u ltim o terzetto, il terzo gran o della co ro n a (Tali se­ menze talvolta, in petto alle Donne riscaldate, si ravvivano): la p ri­ m a fase dell’ im m agine (A ) sta tutta in quel p ro ro m p e n te “ slacciar­ si” il co rsetto con cui l’im m an cabile Filli d en u da «le native / p o p ­ p e» (care, d o p o lo “ sd o g a n a m e n to ” tassian o, alle fig u rin e fem m inili m ariniane e m arin iste) per accogliere in seno il b o m b ic e (seco n d o una pratica di “ riscald am en to ” del b aco an cora “ d o rm ie n te ” , rico r­ data anche in un so n etto d u b b io di C iro di P ers28, che torn erà in

17 L’immagine (in movimento, nel movimento del suo farsi) di cui si s parlando, si sarà capito, non è una compressione metaforica ne un entimema che tace le sue premesse, al punto tale chc se «il significato per metafora ci ’nsegna in un tempo due oggetti, l’ un dentro l’altro» (Emanuele Tesauro, Cannocchiale aristotelico, Tonno, Bartolomeo Zavatta, 1670, p. 636), il fine di quest’immagi­ ne sarà piuttosto quello di offrire alle nostre «considerazioni» un oggetto “ in­ quadrato” in due diversi tempi (non necessariamente secondo la vettorializzazione presente-futuro, perché il suo scorrere nel tempo, ammettendo il ritorno, può essere in prima battuta retrogrado quanto antigrado). L’immagine è dunque una figura del tempo perché è l’oggetto, anzi 1’objectile, che non si rapporta più a una «mole spaziale» ma a una «modulazione temporale» che implica «una messa in variazione continua della materia» e «uno sviluppo continuo delle for­ me» (si veda Gilles Deleuze, Le pii. Leibniz et le baroque, Paris, Les Editions de Minuit, 1988, p. 26 [traduzione di chi scrive]). In quanto figura del tempo, l’“ immagine” può beneficiare di una strutturazione pienamente sintattica (ornatus in verbis coniunctis), magari di dilatazione semantica, a partire dalla stessa antitesi dunque. Quanto poi l’antitesi sia la vera protagonista del secolo, e s’in­ traveda pure in quella che si potrebbe definire l’“ arcimetafora” tesauriana, lo ha brillantemente dimostrato Pierantonio Frare in un saggio di notevole importan­ za (e si rimanda dunque a Pierantonio Frare, Contro la metafora. Antitesi e me­ tafora nella prassi e nella teoria letteraria del Seicento, “ Studi secenteschi”, X X X III, 1992, in specie alle pp. 16-20). 28 Che si può leggere in Ciro di Pers, Poesie, a cura di Michele Rak, Tori­ no, Einaudi, 1978, p. 220. 133

“ rilettu ra” m iso gen a nel n on o ind ivid uo). L’im m agine è qui, d e p u ­ rata di ogn i lascivia, un luccichio di colori che lascia rifulgere, ma con uno degli clem enti so tte so , qu ello sp ettro alchem ico sp e sso sa ­ gacem ente pen nellato da L u b ra n o lun go il tem po d ell’im m agine (si veda, in q u esta ste ssa co ro n a, 15 6 : «serp e brun, bian co vola, e sp len d e b io n d o »): l’argento delle «p o p p e » nutrici, l’o ro che sarà dei fili di seta del verm e rianim ato e il nero (sottaciu to) della “ sparu ta se m e n z a” che raccoglie la m um m ia di «un che non vive» (m a, n a­ turalm en te, e g iu sto all’ o p p o sto àeW’ars magna, sarà dato p ro p rio a tale “ sile n z io so ” fun ebre am m an to di farsi m etastasi, e m onito m i­ m etizzato, d e ll’ intero so n etto ). Il tutto all’ insegna nel qu artetto di un u nico m ovim en to (“ p ro c e ssu a le ” )29, vitalistico e procace («si slaccia Filli il p e tto », così su on a il p eren torio incipit), che ghiaccia p erò la scen a in un m iraco lo so m am m ario rianim arsi alla vita (b a ­ sta dare u n ’occh iata alle p arole im m ediatam en te esp o ste in rim a:

native, vita, invita, vive, sebben e q u est’u ltim a nella locu zio n e «un che non v iv e», lì d o ve invita in glob a in rim a ricca vita, e quasi an a­ gram m a native, e vita e vive so n o in evidente co n giun zion e etim o­ logica, se co n d o un alternarsi di giunture paron o m astich e che co n ­ tradd ice esplicitam en te lo schem a rim ico). N e l riform ulare in so m ­ m a l’im m aginetta sensuale p ro p ria della più trita m aniera degli «a m o ri», nel far trascorrere il q u arto di nudità m esso p ro v o cato ria­ m ente allo sc o p erto dal «p e tto » della ninfa alle «p o p p e » della fem ­ m ina fin o al «latte» della nutrice (non già il «n ettare» m ariniano « c h ’A m o r allatta», o p iu tto sto le «leggiad re m am m e» “ fab ricate” «d i la tte »30, che è latte sì m a p er così dire cagliato nel tro p o , ma la m ateria che si liquefa), L u b ra n o non so lo em enda ( deformata re-

-9 «A definire l’immagine non è il suo contenuto sublime, ma la forma, cioè la “ tensione interna” , la forza mobilitata per fare il vuoto, o aprire fori [...]. L’immagine non è un oggetto, ma un “processo” » (Gilles Deleuze, L ’esausto, cit., p. 23). 30 Ci si riferisce a due sonetti e un madrigale degli Amori di Marino, che si possono ora leggere in Giovan Battista Marmo, Amori, introduzione e note di Alessandro Martini, Milano, Rizzoli, 1995 (rispettivamente, seguendo la nume­ razione del testo citato, 16 v. 14, 15 v. 2 c 23 vv. 2-4). 134

formare) u n o degli elem enti più m o rb o si della to p ica erotica b a ­ ro cca (alla m aniera di qu an to con sigliava il B arto li) m a indica di già la fo rza, il m oto in som m a, chc farà “ telev isio n e” dell'im m agin e: quel petto, quelle p o p p e “ p alp ita n o ” , dan d o alla sem p re un p o ’ m arm orea (fra i m arinisti, e non so lo , e p ersin o q u an d o n uota, o salta, o si lascia fru stare) figura fem m inile un p icc o lo m a in e q u iv o ­ cabile m ovim en to, un trem ito che fa so b b a lz a re il sen o e che v o r­ rebbe diffon dersi m agari a rianim are «u n che non vive». E c co , d u n ­ que, ci dice il n ostro p red icatore, che c o s’è p er davvero quel «se n o » tanto lascivam ente can tato dai poeti: è m ateria che si so ttrae alla vi­ ta di un co rp o p er nutrirne un altro, ed è il ferm en tare fra vivi e m orti di tutta qu esta “ m eccan ica” (nel sen so secentista di fisio lo g i­ ca) natura. E d ecco perché (cesella, com e di co n su e to in L u b ra n o , il secon d o qu artetto) il verm e, così felicem ente allo gato, non p u ò in ­ vidiare le «albe di vita» del so le nel G an ge d o rato , o quelle di V e­ nere nelle acque di C ip ro ; nascite liquide p er l’ ap p u n to , p er l’astro com e p er la m itologica divinità, perché è con le «a lb e» nel «latte» che si andran no a co m parare, giacché p ro p rio q u e sto «latte» (in qu anto liquido, alba e tram o n to della m ateria) è il quid del seno, non già il conten uto p er il contenente ma esattam en te la su a auten ­ tica realtà, che è sem pre u n ’instabilità, un venir m eno (la retorica, p er il n ostro gesuita, sco p re i veli del vero)31, un co lliqu are c o n ti­ nuo della m ateria (reformata conformare). L’articolarsi secon d o d e ll’im m agine (di p rassi nel p rim o terze t­ to), il pun to B dal quale o ccorrerà poi, per bilanciare l’andata col ri-

11 Vi è nell’ intera opera lubraniana, ivi compresa la grande attività predica­ toria irrigidita dalla pressa della stampa, una sorta di ossessione per liquidi e li­ quami, quasi a ogni minimo tocco dei nostri sensi la materia tutta diluisse. «L’ac­ qua», insomma, «diventa simbolo della vita inafferrabile, tanto più desiderata quanto più effimera. Il flusso dell’acqua è analogo a quello del tempo. [...] La possibilità di conquista e fruizione, che può balenare quando il tempo per così dire si materializza nell’acqua, si rivela illusorio miraggio. Perché l’acqua, nella sua indeterminata onnipresenza, è una tomba («fluido leretro») in cui il naufra. gio è sepoltura, definitivo cancellarsi, totale svanire» (Claudio Sensi, Gli emble­ mi dell’inconsistenza e l ’“aram ondo ” delLi fantasia , “ Lettere italiane”, XXXIV, 2, 1982, p. 185.

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torn o, con un salto trarsi fu o ri a “ co n sid erare” lo scorcio d e lla ve­ duta, arresta con segu en zialm en te quel p alp ito « d ’argen to» ch e è tu tto il seno, p o p p e e petto, nelPattim o che precede l’in izio della m etam o rfo si del «V erm e S etaiu o lo »: p rim ’ancora che il b aco p r o c e ­ da alla su a q u arta e u ltim a m uta e pren da a tessere se rp e g g ia n d o il su o p regiato b o z z o lo , il tran sito di quel vivificante m o to del sen o p arreb b e o ffrire l’ illusione non già che il verm e (attenzione: lo g ic a ­ m ente è an cora «u n che non vive» il so ggetto so ttin teso del te r z e t­ to) sia co m e un b im b o attaccato al petto, qu an to p iu tto sto ch e sia l’erede del «c o re u m an », che si rianim i insom m a attraverso q u e llo ste sso m o vim en to interno che ci tiene in vita (unico elem ento v e ra ­ m ente vivo, d o p o H arvey, dentro l’intera m assa m orta della m a te ­ ria co rp o rale , com e un b aco nel b o z z o lo app u n to), e m agari che so ffra e si d ib atta nel su o destin o di artefice vano com e quel cu o re d ’u o m o che accoglie, secerne e tesse i p ro p ri labirinti di p assio n i (« A te pari so n Io, Verm e affan n o so », così inizia il so n etto 20 in cui si p red ica sim ilitu dine e un unico con clu sivo distin guo, c o m ’c p r a s ­ si nella p o esia barocca, fra il b aco e P «Ip o co n d ria c o »). L’im m agin e, nel su o p ro ce sso , s ’era a ben vedere fatta di già un verso d o p o l ’al­ tro: o ccorreva d u n qu e p iu tto sto ferm arla, trovare il p u n to B , e c o n ­ ferm arlo (conformata confirmare). E d è esattam ente d a q u esto p u n ­ to ferm o, nel m o m en to ste sso in cui il m eccan ism o s ’arresta, che L u b ra n o , sicu ro di essere riuscito orm ai a fare quadrato in to rn o al­ la su a im m agin e32, invita il lettore a “ volare infra i vo lan ti” . L o s c o r ­ cio della veduta o fferto nell’ultim o terzetto è un invito a ric o n sid e ­ rare l’im m agine, e d u n qu e in qualche m o do a rip o sizion are i sensi (perché il co n cettism o, com e ha ben visto Jo sé A n ton io M arav all, n on era il gio co di una so cietà in attesa di stu p o re e m eraviglia m a u na vera p recettistica di «tecnici p sicologi di m o rale»)33, e p er fare

32 Com e per Ignazio, secondo Barthes, «a fondarfe l’immagine] è il fatto stesso che la si possa racchiudere in un campo omogeneo o, meglio ancora, qu a­ drarla » (Roland Barthes, op. cit., p. 43). 33 José Antonio Maravall, op. cit., p. 103. E dunque proprio il barocco, con il suo «mondo a due piani» (Gilles Deleuze, Le pli, cit., p. 41), la prima autenti­ ca “ società dello spettacolo”, soprattutto se si considera il concetto una visione 136

ciò, com e Ign azio negli Esercizi (sem pre in b ilico fra la terza p e rso ­ na del direttore, o allenatore, che do vrà gu id are l’intera p alestra sp i­ rituale, e un im provviso “ io ” da tim ido e ign aro pratican te), ria ssu ­ me la p rim a p erso n a dell’“ esercitan te” e innalza, co sì, il vessillo d e l­ l’intero p rocedim ento: «c o m p ren d o » ( “ da q u e st’ im m agine c o m ­ p ren do il sen so p ro p rio della m ia natura u m ana, sen za ridurm i a frequentare le tom be p er contem plare la m o rte ...” ). Se d u n qu e la “ sp aru ta se m e n za” (o «m o rto sem e», c o m ’è detto csplicitam en tc al prim o verso del son etto 19) del verm e irrigidito nel su o to rp o re di m uta parrebbe, fra le p o p p e di Filli, “ v a g ire” «ered e» del cu ore d el­ l’u om o, allora (per una so rta di p rop rietà transitiva d ell’intera fig u ­ razione allegorica... ecco com e diventa “ telev isio n e” l’“ arcim etafora ” barocca) anche il «co re um an» è fatto della so sta n z a dei «sem i di viva p o lv e» (21 1 ), è cioè m ateria m o rta che, com e quegli esseri viventi che p adre F ilip p o B u on ann i (gesuita, naturalm ente) aveva stu diato in p olem ica con F ran cesco R edi (m i riferisco alle Observationes circa viventia quae in rebus non viventibus reperiuntur, app arse in R o m a nel 1691, m a le cui tesi erano già state prefigurate nella Ricreatione dell’occhio e della mente nell’osservazion delle chiocciole, di dieci anni p rim a), nasce exputrP4. Il «c o re u m an » è in­

di scorcio (una «piega») di entrambi i piani (quello interno e quello esterno). Ve­ dere, per il barocco, è sempre vedersi visti. 14 Sebbene, a onor del vero, la posizione di Lubrano (per quanto comp messa in figuralità polverose o putrescenti, come i «semi di viva polve» di 21 1 o, meglio ancora, come l’esplicita immagine del verme che fila la sua tela «da punti di putredine animato» di 14 4) appare più sfumata, in quanto le «sparute semenze» su cui tanto insiste potrebbero anche essere i «cacchioni», o uova di mosche, che il Redi, nelle Esperienze sulla generazione degl’insetti del 1668, po­ neva come conditio sine qua non dell’«inverminare», ad esempio, della carne pu­ trida («In tutte le generazioni da me fatte nascere, sempre avea io veduto sulle carni, avanti che inverminassero, posarsi mosche della stessa spezie di quella che poscia ne nacquero»; Francesco Redi, Esperienze sulla generazione degl'insetti, in Scienziati del Seicento, a cura di Maria Luisa Altieri Biagi e Bruno Basile, Milano-Napoli, Ricciardi, 1980, p. 598). Né, d ’altra parte, parrebbe che Lubrano (malgrado la sua predilezione per l’equivoco «M oro») prenda per buona la tesi esposta dal suo enciclopedico correligionario Athanasius Kircher nel Mundus subterraneus del 1665, e beffeggiata con deferenza dallo stesso Redi, secondo la 137

so m m a «m o rta p o lv e», e il su o palp itare non è altro che un «in v er­ m in ir», u n ferm entare della m ateria: chi nasce dalla putredine vive nella putredine, si nutre della putredine, secon d o quel p asso tratto dal libro di G io b b e che o ccorre fin tro p p o scopertam ente a thema di q u esto so n etto : «P u tredin i dixi: Pater m eus es; / M ater m ea, et so ro r mea, v erm ib u s» {lob 17,14). E cco la du n qu e la grande m eta­ m o rfo si che si o ffre allo sco rcio (alla “ co n sid eraz io n e” ) una volta fatta l’im m agine; perché se l’im m agine è un procedere da A a B , lo sc o p o dello sco rcio è esattam en te qu ello di com pren dere che ogni m o vim en to è già il su o o p p o sto (da B ad A , dun que), ogni andata è già un ritorn o. E d e qu esta oscillazion e, «fo rm a esasperata del bin a rism o »35, m ovim en to surplace, antitesi sì, m a non reperita chissà q u an to lon tan o bensì tratta scopertam en te dal «p ian o del sensibile», in som m a dal «m o n d o delP esp erien za»36, è du n qu e qu esto (gesuiti-

quale «l’albero del moro genera i bachi da seta impregnato dalla semenza di qualsivoglia animaletto penetrato nella sustanza e tra’ sughi interni di quell’albero» (ivi, p. 691). D ’altra parte, ed è circostanza da tenere in massima conside­ razione per l’ambivalente (e gesuiticamente “probabilista”) atteggiamento mo­ strato da Lubrano nei confronti della scienza sperimentale a lui coeva (difesa, fra l’altro, spavaldamente in uno degli epigrammi latini, III 19), non potrà apparire un caso che uno dei destinatari degli epigrammi dei Suaviludia sia proprio il Re­ di (IX 77), esaltato come l’augure studioso delle viscere della materia e dell 'infi­ nitamente piccolo (con una sentenza che potrebbe tranquillamente essere espo­ sta a epigrafe della corona del «Verme Setaiuolo»: «Maximus in minimis labor est»), e addirittura accreditato di indagare «atomos atque ovula vitae prodroma» (corsivo mio; per i Suaviludia si veda Claudio Sensi, Cultura barocca tra con­ senso e polemica: gli epigrammi latini di Giacomo Lubrano, “ Esperienze lettera­ rie”, III, 2, 1978, pp. 31-54). Ciò non potrà che ribadire che la putredine, cui fa costantemente riferimento il nostro predicatore, è allora non già quella delle car­ ni morte e della loro propensione a generare (ex nihilo) ma piuttosto la materia tutta, liquame dilimato dall’essere nelle cataratte del tempo. 35 Ld ancora con Ignazio, secondo Barthes: «Ignazio pratica instancabil­ mente quella forma esasperata del binarismo che è l’antitesi» (Roland Barthes, cit., p. 45). 36 «Si fa strada [nella cultura del Barocco] un’interessante novità: persino le relazioni col piano della trascendenza si organizzano e si sviluppano facendo ri­ corso a mezzi, a conoscenze e meccanismi che procedono e sono propri del mondo dell’esperienza. I gesuiti diffondono alcune forme di vita religiosa in cui, come è noto, svolge un ruolo decisivo l’uso dell’esperienza derivante dal piano del sensibile» (José Antonio Maravall, op. cit., p. 289). 138

co) dispietato bilan ciam en to la vera m etam o rfo si, q u ella che ro m pe il b o z z o lo dell'im m agin e e vola via com e «m o ralità» (confirmata

tran sformar e). N é qu esta quadrettatu ra, con cui si so n o p iegate a fare cu b o le stro fe del son etto, e che si è tratta da qu ella fo rm u la q u ad ru p lice (nel su o caleid o sco p io di p refissi e p aro n o m asie) che si è soliti rite­ nere riassum ere le q u attro settim ane in cui si co n ch iu d o n o gli Eser­ cizi spirituali di Ign azio di L o y o la , o ccorre qui so lo co m e gab b ia interpretativa, dal m om en to che p er L u b ra n o , com e p er il fo n d a to ­ re del su o ordine, si tratta p iu tto sto della «n ecessità di occu p are la totalità del territorio m en tale»37, e p er di più non una ma trenta v o l­ te, stro piccian d o per bene ciascun gran o di q u esta co ro n a («B en ch é gli esercizi seguenti co p ran o q u attro settim an e [...], tam en non s ’ in ­ tenda che ogni settim an a sia n ecessariam ente di sette o otto giorni. Infatti, poiché succede che nella p rim a settim an a alcuni sian o più tardi nel trovare quel chc cercan o [...]; e, analogam en te, che alcuni siano più diligenti di altri [...], b isogn erà in certi casi accorciare la settim ana, e in altri casi allungarla, e lo ste sso per tutte le altre se t­ tim ane su ccessive [...]; co m u n q u e gli esercizi si co n clu deran n o più o m eno in trenta g io rn i»)38. Perché, a ben vedere, saran n o state p r o ­ p rio le qu attro m ute del b aco da seta riverberate nei q u attro p r o ­ cessi delle spirituali settim ane ignaziane (o p iu tto sto l’in verso), c o ­ sì tanto scru p olosam en te riflesse n ell’an d am en to q u a d rip a rtito del so n etto lubran ian o, a ingenerare nel fan tom atico Silv estro di F u sco , p rob ab ile ennesim a m aschera con cui il n o stro gesu ita firm a la d e ­

37 Roland Barthes, op. cit., p. 43. A questo occorre, a ben vedere, C ap p e l­ lo all’immaginazione» costante negli scritti dei gesuiti: si tratta di esaltare «il mondo sensibile soltanto per meglio dissolverlo», per rendere insomma «imma­ ginabile l’inimmaginabile e verosimile l’inverosimile», anche a costo di rischia­ re di «corrompere il senso del reale e insieme il senso dello spirituale in un’uni­ ca fluttuante fantasmagoria» (Marc Fumaroli, op. cit., p. 786). Da questo punto di vista la grande produzione tipografica dei gesuiti finisce col contribuire in maniera sostanziosa alla trivializzazione del sovrannaturale, c alla conseguente nascita dell’immaginario di tipo moderno. 38 Ignacio de Loyola, op. cit., p. 4. 139

dicato ria delle Scintille e alla quale rivendica il inerito e la pena di aver raccolto e d ato alle stam p e questi versi39, il gu sto (p o co avver­ tito a ll’ep oca su a) della “ co stru z io n e ” stessa del libro. U n libro, le Scintille poetiche, che non p u ò che apparire chiaram ente “ p e n sa to ” nel su o “ m o n ta g g io ” , e giu sto a partire dalla co ron a che lo m ette in m o to , in torn o al cui «b o z z o lo iniziale» p arreb b e com e disp o rsi «a rag g ie ra » 40 (che fra l’altro s ’illustra n ell’ipercon n otato n um ero dei sonetti della raccolta che, esclu d en d o i tre “ fu o ri p o s to ” della Par­ te terza, m agifican o l’ intero m eccan ism o m etrico alla decim a p o ­ tenza, arrestan d osi al cen toq u aran tesim o individuo). U n libro, in­ so m m a, che st stru ttu rav a nei su oi congegni seriali p rop aggin ati nella Parte prima d a ll’iniziale “ b o z z o lo ” , e m agari p er disegnare, a scen d en d o e discen d en d o, la «p iram ide o c o n o » slan ciato a co n ­ giun gere i «d u e p ian i» del m o n d o 41 (così si p o treb b e sun teggiare, u san d o la n u m erazio n e di M a rzio Pieri, d o p o la co ron a del verm e, l’an d am en to con cettuale degli altri 113 individui della Parte prima: “ vanità d ell’arte e degli artifici di natura, e conseguenti m oralità e re p rim e n d e” , d a X X X I a L X X ; “ com e si perd e du n qu e, L X X I , e co m e invece si acq u ista, L X X I I , il C ie lo ”; “ infinità e co n sisten za di D io , L X X I I I - L X X V I I , e della sua incarnazione, L X X V II I, e gesta m irabili di alcuni san ti, del fo n d ato re d ell’ordine, dei beati e dei m artiri gesu iti e dei p re d ic ato ri” , da L X X I X a C V II; “ lode dei si­ gn ori e dei luoghi com battenti della repu b b lica cristian a” , da C V III a C X X I X ; “ sciagu re n aturali ovvero i rim edi della p o lv ere” , da C X X X a C X L , più lo sg o cc io la to io , anzi l’essu d ato 42, dei tre c o n ­

39 «Spero di averne merito dello stento, che mi è costato il recuperarne par­ te da moltissimi [altri componimenti poetici]; e ’l disseppellirne non pochi da un cimitero di confuse cartucce, per porli in concio di stampa, e collegarli in que­ sto volumetto» (Giacomo Lubrano, Scintille poetiche, cit., p. 37; corsivo mio). 40 Alessandro Duranti, D a un dizionario seicentesco. Lubrano, Accetto, Pallavicino, “ Paragone”, 414, 1984, p. 19. 41 Gilles Deleuze, Le pli, cit., pp. 169-170. 4- I tre madrigali conclusivi (segnati tutt’e tre C X L I da Marzio Pieri) oc­ corrono, con le loro fluide e sublimanti reliquie (il sangue aggrumato e risciol­ to di San Gennaro, il cuore fumante «in un reliquario di cristallo» di Santa Te­ resa, i «sudori di Cristo in Getsemani»), a liquidare, alla lettera, la materia che

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elusivi m adrigali); p er poi rispecchiarsi nelle ordin ate ventidue odi della Parte seconda (e nei tredici adden da, m usicali e non, della Par­ te terza). U n libro, dun que, che si consegn ava al p ro to p er essere li­ bro, nel sen so più afon o e tip o grafico del term ine, perché la voce, per un p red icatore del calibro e della fo rtu n a di p ad re L u b ra n o , è so lo voce di p u lp ito 43, !a voce tesse i su oi fili di seta in torn o al b o z ­ z o lo d d l ’atto perform ativo . Per P ao lo B rin acio, invece, algid o p o e ­ ta, i versi so n o sì «glu tin i di g e lo », bave rasciu gate nel silen zio d e l­ la pagina, m a p o sso n o p ro p rio p er q u esto o ffrirsi non già alla senso sità sim patetica (e all’artificio abbaglian te che se ne va via p erò così, in una «can n uccia di fu m o ») m a alla “ co n sid e ra z io n e ” , e d u n ­ que al con tin u o ritorn o, e alla con tab ilità o sse ssiv a del lettore-esercitante, esattam ente com e quel testo così sfacciatam ente tip o g rafi­ co (con i su oi m eticolosi richiam i e rim andi) alla b ase della nascita dell’ordine in cui d all’ado lescen za il n o stro p red icato re m ilitò: gli

Esercizi spirituali, a p p u n to 44.

già i precedenti “ terremoti” (ß2 [C X X X ]-59 [C X X X V II]) avevano franto e sfa­ rinato. Varrà la pena di riportarne almeno l’ultimo: «A sincopi di sangue, / reo de’ falli nostri, / l’Onnipotente langue, / e ne bevono gli Ostri / de le pietose bri­ ne / nel suolo e sassi e spine./ E noi a un Dio che suda / diamo in cambio d ’amor baci di Giuda». Ma questi «baci» sudaticci e traditori, fortunatamente, ver­ ranno ribaltati in devoti nei sonetto conclusivo dell’intera raccolta (quello che nella nostra scelta è numerato 60), quando per l’appunto “ s’imprimeranno” «in estasi giocondo» «su le pedate del Salvatore, impresse nel Monte Oliveto». Insomma la materia, anche quella divina, tradisce e fa tradire... anche per ravve­ dersi, allora, necessitano ulteriori «trasparenze». 43 Come ha ben notato Vitaniello Bonito, in un’epoca alfabetizzata e lette­ raria come il Seicento, la predicazione non poteva chc avere «un aspetto di ora­ litàpotenziale». Pure, per un personaggio come Lubrano, «il gesto e la voce, in­ sieme all’arte della memoria, anche come repertorio formulare, e all’improvvi­ sazione mettono in campo l’aspetto dell’oralità [...]. La sua parola agonistica è carica dell’interazione concreta con l’uditorio, lo confermano oltre tutto le va­ riazioni che subiscono numerosi luoghi dei suoi testi. La qualità performativa del suo stile deve rendere socialmente manifesti, apprensibili, visibili i concetti, soprattutto attraverso il suono della parola, l’energia ipostatica della visione» (Vitaniello Bonito, L'occhio del tempo. L'orologio barocco fra scienza, letteratu­ ra ed emblematica , Bologna, C L U E B , 2995, p. 268). 44 «Il carattere ossessivo degli Esercizi esplode nella rabbia di contabilità

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M a, allora, perché scegliere com e prin cipio di tu tto il m eccani­ sm o , com e co ro n a “ sp iritu ale” dalla qu ale p rocedere, qu este « m o ­ ralità tratte dalla co n sid erazion e del Verm e S eta iu o lo »? Perché, ad esem pio, nel m om en to della selezione dei testi da “ m o n tare” nel li­ b ro , L u b ra n o (cioè B rin acio, p ard on D i F u sco ) si è gu ardato bene dal riabilitare e riadattare 45 una serie parallela, sulla “ carta” altret­ tan to p rom etten te di “ esau rim en ti” trop ici, quella in som m a dei «ra z z i m atti in o ccasion e di feste»46, che p ure avrebbe p o tu to o f­ frirsi co m e ep itom e pregn ante (com e sp esso nelle prediche lubraniane tu tto ciò che ha a che fare con la p irotecn ica) dcIPabbagliante m a in fo n d o fu m o sa e p u zzo len te van ità del m on d o, e di qu ello ste sso incon sisten te nunc che il tito lo del libro sem b rereb b e richia­ m are47? L a risp o sta p arreb b e relativam ente sem plice, dal m om en to

trasmessa all’esercitante; dal momento in cui appare, un oggetto, intellettuale o immaginario, è rotto, diviso, computato» (Roland Barthes, op. cit., p. 58). Che gli Esercizi spirituali, con il loro «metodo di persuasione», si siano “interposti” tra «il predicatore e i modelli classici» dell’arte oratoria, determinando insomma nella cultura gesuitica il trionfo della «declamazione sofistica» e dell*asianesimo (Marc Fumaroli, op. cit., p. 418), è senz’altro vero. Meno appropriato sembre­ rebbe definire l’opera ignaziana, come fa lo stesso Fumaroli, l’«estremo fiore della spiritualità medioevale», se mai da contrapporre (e bilanciare) alla « Ratio studiorum , estremo fiore della Renovatio litterarum del XV I secolo» (ivi, p. 488). Nella contabilità, replicabilità e “ intensificazione della vigilanza” (alertness) richieste dagli Esercizi si scorge in verità conclamato il trionfo della gran­ de cultura tipografica. Fra Ignazio di Loyola e don Chisciotte, e proprio i ge­ suiti furono i primi a notarlo, i confini sono solo “immaginari”. 45 Si ricorderà che dei 15 sonetti «in lode del verme setarolo» contenuti nel ms 1053 della Biblioteca Governativa di Lucca (posteriore al 1666) Lubrano ac­ coglie, sia pur modificandoli, 12 individui; cfr. Piero Pieretti, op. cit., p. 293. 4(ì O tto sonetti e un madrigale contenuti nel ms 1816 (3394) Caps. IC. del­ la Biblioteca Universitaria di Bologna (tardosettecentesco); cfr. Piero Pieretti, op. cit., p. 295. 47 «Del tempo eziandio lunghissimo non possediamo che un momento, un nunc, inesplicabile nella lingua volgare, che l’esprime “ora”, “adesso”, e pur l’o­ ra si misura da due centurie di momenti. Un nunc è nostro, hoc nunc sumus. Un minuzzolo di durazione velocissima, un atomo brevissimo del transitorio, un zero dell’efemeridi, un cencio dell’oggi, un crepuscolo del domani, simile alle scintilluzze, che a spegnerle non vi vuol più che accenderle» (Giacomo Lubra­ no, Prediche quaresimali postume , tomo I, Napoli, Raillard e Muzii, 1702, p. 19; l’ultimo corsivo è mio). 142

chc l’im m agine (quella da “ sp o ssa re ” , per intenderei) dei «raz z i m atti» non poteva che p rocedere secon d o un p erc o rso b lo ccato (d all'artificio alla vacuità del fasto , fin o al filiform e n au se ab o n d o sparire nel nulla delle «scin tillu z z e»), lì dove le continue m e tam o r­ fosi del b aco d a seta (q u attro m ute e altrettanti memento mori , il b o z z o lo “ p sic h ic o ” infinitam ente rip ieg ato 48 del verm e in d ustre o m agari la tom b a faraon ica di un servo del fasto, la crisalide chc vi­ ve gesuiticam ente “ cau ta” attenden do il “ v o lo ” , la farfalla che ir­ rom pe dal su o sepo lcro... o p p u re la m orte fra i torm en ti d e ll’acqua ribollente, la fabbrica tessile della grande vanità del m o n d o , la “ fem m in ilizzazio n e” della vita co rtigian a m o rm o rata in « “ M o n ­ d o ” , “ M o d a ” , “ M o d e rn o ” » 49 ecc.) non so lo avevano il p regio di c o ­ niugare p ro d igi di natura agli artifici del seco lo (an zi, ad d irittu ra al­ la grande in d ustria e tecn ologia del se co lo )50, m a p otevan o anche consen tire qu ell’ingn azian a «risalita alla m ateria » 51 ehe è un p o ’ il fine, neanche tro p p o n ascosto, e tu tto m irabilm en te m o n d an o, di uno sp irito acutam ente esercitato (« Q u in d i im para, m o rtai, o r che t’affanni, / com e degenerar la tua fralezza / p u ò n ob ilm en te ed eter­ narsi gli an n i», 13 9-11 : o ccorre in som m a far riem ergere la m ateria, se la si vuole «n ob ilm en te» “ d egen erare” nell’eternità dello spirito ).

48 «L’anima nel Barocco intrattiene con il corpo un rapporto complesso: sempre inseparabile dal corpo, trova in quest’ultimo un’animalità che la stordi­ sce, che la impegola nei ripiegamenti della materia, ma anche un’umanità orga­ nica o cerebrale (il grado di sviluppo) che le permette di innalzarsi, fino a farla salire su tutt'altre pieghe» (Gilles Deleuze, Le pli, cit., p. 17). Partendo da que­ sto stesso testo deleuziano, e procedendo nell’identificazione poeta-baco, sottolinea Vitaniello Bonito; «L’universo del verme è simultaneamente fuori e dentro lo spazio e il tempo. È piega che si svolge e riavvolge sul proprio farsi scrittura e realtà. È parola agente, azione scritta; voce materiale, materia evanescente. Me­ tamorfosi in re, incessante - che si apre alfe forme, racchiusa com ’è in una mo­ nade pulsante» (Vitaniello Bonito, Il canto della crisalide, cit., p. 66). w Si veda Marc Fumaroli, op. cit., p. 781. 50 «Se, come si c detto, la cultura barocca si lega a una società aristocratica restaurata e di base agraria, ciò non toglie che sia una manifestazione diretta del­ l’epoca della manifattura, o per meglio dire, dello sviluppo del consumo di pro­ dotti manufatti» (José Antonio Maravall, op. cit., p. 151). Sul «modèle textile» del barocco, «pli à l’infini», si veda Gilles Deleuze, Le pli, cit., pp. 164-166. 51 Roland Barthes, op. cit., p. 52. 143

Si tratta allora, se co n d o il co n gegn o che dà l’avvio alle Scintille poe­ tiche, di esperire la m ateria, in u na so rta di d egu stazion e scientifica e sociale, e da essa distillare (“ degen erare” ) l’ im m agine, p er “ sp o s ­ sa r la ” p o i in scorci di p rosp ettive m olteplici52, finché, esaurito il tu tto p e r un intero m ese di «c o n sid eraz io n i», baleni anche so lo p er u n istante queU’in con sisten te, qu el p u n to im percettibile se non at­ traverso i su oi m oti, binari, «a n fib i», antitetici, da A a B e ritorno: l” «an gelica fa rfa lla », alla b u o n ’ora. E che ciascu n o si eserciti a sen ­ tirla già in q u esta n ostra m uta m u m m ia (e se la cavi su dai sen si)53:

52 «[...] più curiosa e piacevol cosa è mirar molti obbietti per un istraforo di perspettiva, che se gli originali medesimi successivamente ti venisser passando dinanzi agli occhi»; che è forse la “ considerazione” più pertinente sulla potenza dei media e sull’avvenenza dei simulacri (Emanuele Tesauro, op. cit., p. 301). 53 Se il verme occorre a formare la dantesca «angelica farfalla» (Purg. X 125, da cui s’è tratto il primo emistichio del titolo di questo saggio), e svolge pertan­ to funzione di macrometafora deH’«anima immortale», la memoria non può che andare al quinto sonetto (Anima immortale, appunto) della Scelta di poesie filo­ sofiche di Tommaso Campanella (che si può leggere ora in Tommaso Cam pa­ nella, Le poesie, testo criticamente riveduto e commento a cura di Francesco Giancotti, Torino, Einaudi, 1998, alle pp. 39-40). Racchiusa in un “ bozzolo” ce­ rebrale, l’anima campanelliana si comporta difatti un po’ come il «Verme Se­ taiuolo», mangiando “ fogli” (non foglie) e “ circolando”, come dice l’esposizio­ ne, «per non saziarsi mai di sapere e volere»... e con tanto di «moro» in espo­ nente («D i ccrvel dentro un pugno io sto, e divoro / tanto, che quanti libri tie­ ne il mondo / non saziar l’appetito mio profondo: / quant’ho mangiato! e del digiun pur m oro.// [...] / l-..] / disiando e sentendo, giro in tondo...», vv. 1-4 e 7). Quanto Lubrano conoscesse l’opera poetica del filosofo calabrese non è dato sa­ pere (magari è da escludere). Può essere però un interessante indizio (in negati­ vo?) la circostanza che uno dei rari esemplari della quasi clandestina editioprinceps del 1622 delle poesie campanelliane, anzi addirittura il più importante dei sei attualmente conosciuti (essendo appartenuto al Campanella stesso, e presen­ tando cifre e correzioni di suo pugno), mi riferisco all’esemplare della Bibliote­ ca Oratoriana dei Padri Gerolamini di Napoli segnato C E 3. 18 (si vedano le Note di Francesco Giancotti, in Tommaso Campanella, cit., pp. CII-CI1I), fu acquistato dai Girolamini agl’inizi del Settecento dagli eredi dell’erudito napo­ letano Giuseppe Vailetta, spirito libero e grande propugnatore dell’atomismo nella sua Istoria filosofica, contro le cui teorie Lubrano s’impegnò non solo nel­ la stesura di un lungo epigramma (IV 45) ma in un autentico tour de force pre­ dicatorio, ricordato fra l’altro e canzonato in una lettera di Francesco D ’Andrea al Redi (per l’intera questione, si veda Claudio Sensi, Cultura barocca tra con­ senso e polemica, cit., pp. 42-47). 144

a ciò infine d o vrebbe con d urci, com e ogn i gesu itica indagine sul sensibile, qu esta (per dirla col B u on an n i) “ ricreazio n e d e ll’occh io e della m ente nell’osserv azio n del verm e se ta iu o lo ” . M a perché tale «ricreazio n e» (atten zione: le elezion i lessicali non so n o m ai neutre, m en che m eno fra i gesu iti) p o ssa , com e d e­ ve, trasvolare d all’occh io alla m ente, si faccia cioè salu tare esercizio p er lo sp irito , l’ im m agine in m ovim en to (con la su a stru ttu razio n e triadica, da A a B e ritorn o, tipica delle “ vision i a c o m a n d o ” di Ign azio, com e si evince dai «m isteri» delle vedute evangeliche che affollan o, p rim a delle «reg o le », le p agin e con clu sive degli Esercizi), in so m m a qu ell’ im m agine che ha ten tato di esaurire l’ im m agine d e­ ve esplod ere in u n ’arb oresccn za di effetti che p arreb b e già m ettere in crisi l’ordine lineare della cau sa efficien te54, e co sì facen d o s o t ­ trarsi a ogn i p o ssib ile percezio n e erratica, fo lgo ran te e illum inata (deve cioè esaurire, com e so gn av an o i tanti “ p a n so fisti” dell’ep oca, e a N a p o li giu sto in quegli anni G iacin to G im m a 55, tu tto il p o s s i­ bile, che è esattam ente l’o p p o sto del n u m in oso u n o -a-u n o della via mystica)i(’, e p restarsi p ertan to a una so rta di co m p lessiv a “ declin a­ z io n e ” che sap p ia estenuare, sp o ssa re una volta p er tutte, ogn i sua fu n zio n e logica, oltre che trop ica, all’interno della sin tassi stessa del sensibile. Solo a p atto di qu esta p erentoria o ccu p azio n e di tutti i

54 «Ma il principio della varietà, il cui dominio, molto più ampio del mon­ do degli uomini, si estende a tutta la natura, deriva proprio da una legge di na­ tura: all’unità di causa corrisponde una diversità di effetti (per cui la rimozione del principio tradizionale chc non può aversi neU’effetto ciò che non è nella cau­ sa, a cui si giungerà nel pensiero contcmporanco, non si può dire che sia stata at­ tuata dal Barocco, ma perlomeno, sì, annunziata di lontano)» (José Antonio Maravall, op. cit., p. 307). 55 Si veda Cesare Vasoli, L ’enciclopedismo del Seicento, Napoli, Bibliopolis, 1978, p p . 53-54.

5(’ «Ma l’immagine non è riconosciuta, promossa, se non al prezzo di un trattamento sistematico di cui Ignazio si è fatto primo praticante e chc non si ri­ trova affatto nelle condiscendenti forme di accostamento alle visioni da parte dei mistici, che se ne sarebbero poi liberati a vantaggio della sola tenebra divina. C ’è infatti un modo per “ sdoganare” teologicamente l’immagine: quello di farne non più la scala di una via unitiva, bensì l’unità di un linguaggio» (Roland Bar­ thes, op. cit., pp. 5 5-56). 145

p o ssib ili esaurirsi d e ll’im m agine p o trà allora farsi VImmagine, q u ella di cui tutte qu este altre “ telev isio n i” non so n o che riflessi («fen o m en i di luce, om bre d ’ essen ze», alle cui «tan te trasp aren ze», ap p u n to , «n ïu n riflette», 7 10-12). L a se qu en za di im m agini “ m o s­ s e ” in caston ata in qu esta co ron a, allora, sarà un su ssegu irsi di «c o n ­ sid era z io n i» d isp arate (ciascun a app u n tata da L u b ran o a una delle tante fasi della m etam orfosi del b aco, sia essa naturale o indotta d a ll’ «A rte in cru d elita», 27 3, e du n qu e dalle «arb itrarie M o d e », 8 9), alla fin fine co m u n q u e sem p re antitetiche (ogni “ co n sid era z io ­ n e” , già di su o “ an fib ia” e «d iffratta» n ell’u so sistem atico di quella che B a lta sa r G raciàn avrebbe defin ito «a g u d e z a de im propo rción y d iso n a n c ia »57, trova p rim a o p o i, in qu esta serie, il su o p un tu ale cap o v o lgim en to ). M a si tratta, a ben vedere, di un su ssegu irsi di se ­ qu en ze che non ap p aio n o mai collegate a caso (caratteristica questa che rende an cora p iù sin golare, nell’epoca sua, la già di p er sé ecce­ zion ale co stru z io n e del lib ro, a partire dalla co ron a), giacché L u ­ b ran o fa trascorrere le im m agini le une nelle altre con una so rta di sp ettacolare “ m o n taggio delle attra zio n i” 58, sq u ad ern an d o così (e anche q u esta è p ratica ignaziana) u n ’autentica articolazio n e “ n arra­ tiv a ” (il p rim o so n etto si chiude con la «to m b a », il secon d o fa “ sp i­

57 La cui «laconica concisione» Maurice Molho accosta, con buona intelli­ genza, al quid del freudiano motto di spirito: «Sia nel concetto diffratto che nel motto di spirito, l’elaborazione - cioè i procedimenti di pensiero cheportano al­ la manifestazione dell’operazione concettuale - rimane occulta e lascia traspari­ re solo il risultato finale che, quando viene emesso, produce un disorientamen­ to abbastanza forte da procurare all’intelletto un piacere confuso e indubbio al tempo stesso. [...] Naturalmente, se il concetto “ disorienta”, è perché la ragione, senza mai dimettersi, si esercita, per tensione ludica, a trionfare sulla propria censura, creando un caso limitativo di se stessa, che non potrebbe superare sen­ za distruggersi» (Maurice Molho, op. cit., p. 161). Magari comparabile, in sede di creazione della serie (insomma sul tavo­ lo sul quale, messo a tacere il predicatore, avranno lavorato gomito a gomito il poeta Brinacio, che alla vigilia della pubblicazione avrà composto alla bisogna per lo meno, se non altri, il sonetto proemiale, e il fantomatico addetto al mon­ taggio Silvestro di Fusco) con quella tecnica degl’«innesti» che padre Pozzi, nei suoi Preliìììinari a Marino , ha minuziosamente reperito nell’ipertrofia inturgi­ dita delP/4done (si veda Giovanni Pozzi, Alternatim, Milano, Adelphi, 1996, p. 205). 146

ra re” «riso rti» gli «atom i m o rti» c irride infine il van o affaticarsi d e ­ gli alchim isti a fron te della grande m agia naturale; il terzo si apre col “ m istero di n atu ra” del latte e i co lo ri alchem ici e si chiude con la «m o rta p o lv e» che vive “ in verm in en do”, così che il q u arto p o ssa aprirsi con le «e stasi» m ortuarie, m agari esercizi sp iritu ali, del baco che «m ed ita il lav o ro » e deprecare in ch iu sa «chi su d a in van o» c o ­ me colui che «con p iù reti di ragn o ab b raccia un n ulla»; il q u in to a l­ lora prin cipia con la tessile in d u strio sità del verm e e giun ge a esal­ tare «chi serp eggiò bam bin » in q u an to «m o re n d o ha Tali», e d u n ­ qu e il sesto in q uadra im m ediatam en te il b aco «m en tre su verde c u l­ la um il v agisce», e via così). Pertanto il verm e p o trà essere a volte encom iabile figu razion e della vita «in d u stre» (10) e di chi «si arric­ chisce del su o p er in d ustria, non p e r rap in a» (17), o m eglio an cora di chi so lito conten tarsi di ciò che d a sé p ro d u ce (22), se n on p refi­ gurare add irittura l’unica “ m e tam o rfo si” in cui si co n su stan zian o m ateria e sp irito (quella della V erg'ne, naturalm ente, del so n etto

28); a volte m irabile em blem a d ell’o z io religioso (4) o triste a lle g o ­ ria di chi op era negletto e ign o to ai più (21); a volte esem pio ese­ crabile di chi so gn a di m utare il p ro p rio stato sociale (e m agari s ’i­ nurba, 6) e di chi per apparire dilapida la p ro p ria fo rtu n a (7); e a volte invece im m agine d ell’ip ocon d ria (20), d ell’avarizia (12), del­ l’inutile fasto (17, 23, 24) e della con scgu en ziale effem in atezza (29,

30). E così, parim enti, le sue m etam orfosi p otran n o essere belle (« io g o d o e m iro », 5 11) e ricordare a tutti che «n a sco n o A n im e d ’o r da polve vile» (2 8 ), e che «so rg e alato » (11 12 ) colui il quale vive nel­ la co n tem plazio n e della m orte, e che « s ’im penn a nel m o rir m istici van ni» (13 12) chi è so lito m ortificare la p ro p ria carne, assicu ran d o per di più ciascun o di noi m ortali, su ll’esem pio di G io b b e , «che so rgerà più bello / del fan go um ano incenerito il lum e» (19 12-13; ma, del resto, non aveva già D an te, una volta p er tutte sulle orm e di A go stin o , fatto risu on are p er b occa di V irgilio la più salu tare delle reprim ende en tom o lo gich e co n tro i «su p erb i cristian »: «n o n v ’ac­ corgete voi che noi siam verm i / nati a fo rm ar l’angelica farfalla?»,

Purg. X 124-125); o p p u re, interdette dalla “ cru d eltà ” d ell’arte (sic ­ ché p rim a di sfarfallare il bom b ice m u ore «to rm en tato p er acque e 147

p er fu o c o » ), rap presen tare la giu sta p u n izio n e com m inata ai fra u ­ dolen ti o rd ito ri di «tram e d ’in fam ia» (