Il secolo lungo della modernità [PDF]

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Zitiervorschau

Rizzoli

© Francis Bacon, Giacomo Balla, Hans Baluschek, Peter Behrens, Jean Béraud, Pierre Bonnard, Georges Braque, Carlo Carrà, Gustaf Cederstrom, Giorgio De Chirico, George de Feure, Darío de Regoyos, Marcel Duchamp, James Ensor, Paul César Helleu, Vasili Kandinskij, René Lalique, Max Lieberman, Henri Matisse, Alphonse Marie Mucha, the Munch Museum/The Munch-Ellingsen Group, Amedée Ozenfant, Succession Picasso, Gino Severini, Mario Sironi, Joaquin Sorolla, Philippe Wolfers by SIAE 2012.

Coordinamento del progetto: Nadia Dalpiaz Editor: Cristina Sartori Coordinamento editoriale: Giulia Dadà Redazione e ricerca iconografica: Daria Rescaldani, Carlamaria Colombo, Olimpia D’Accunto/Ultreya Coordinamento tecnico: Sergio Daniotti Art director: Davide Vincenti Disegni: Adriana Feo

© 2012 RCS Libri Spa, Milano Tutti i diritti riservati www.rizzoli.eu Prima edizione digitale 2013 da prima edizione novembre 2012 ISBN 978-88- 58 - 75766 - 6

Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore.

SOMMARIO APOLOGIA DELLA PITTURA GENESI GENIALE D’UNA POTENTE DISTORSIONE VEDERE PER GODERE. GUARDARE PER CAPIRE COME NASCE UN MUSEO PADIGLIONE DEI BINARI LA POLITICA IL SENTIMENTO LO STORICISMO

OFFICINA DELLE RIPARAZIONI IL VAPORE IL LAVORO LA BELLE ÉPOQUE LA FUGA DALLA REALTÀ

CAFFÈ MICHELANGELO I MACCHIAIOLI

CLOSERIE DES LILAS IMPRESSIONI E IMPRESSIONISMO

UFFICIO DEL CAPOSTAZIONE E OGGETTI SMARRITI LUXE, CALME ET VOLUPTÉ IL SIMBOLISMO L’ART NOUVEAU

PICCOLA POSTFRAZIONE INDICE DEGLI ARTISTI

9 20 24 29 46 49 139 177 216 219 239 283 353 422 425 438 441 468 471 487 523 536 537

RINGRAZIAMENTI

uesta bizzarra raccolta d’idee e immagini la vorrei dedicare in modo esoterico al Rouge, nome di battaglia del Rossi storico col quale ho sperimentato la sella da corsa nel sottobosco e lo sproloquio infinito come esercizio della ginnastica mentale, in modo assai analogo al dipinto di Jean Béraud che introduce la Closerie des Lilas, dove noi siamo già ben inoltrati nel pensiero e mia moglie Elena partecipa con la dovuta passione, e all’Ugo, quel Pastorino che mi ha permesso di scriverlo in quanto mi ha introdotto nei tempi supplementari dell’esistenza e al quale è dedicato l’altro dipinto curioso, quello di Gervex, ma non vi dico quale.

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E mi devo scusare ulteriormente col lettore per la mia mitomania: i testi non italiani li ho tradotti personalmente. Reputo che li si capisca meglio di quelli tradotti dai poeti o dai fini letterati. Non mi sono venuti benissimo ma sono comunque migliori dei miei disegni che sono serviti da indicazione di committenza agli architetti.

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APOLOGIA DELLA PITTURA che cosa serve la pittura? Ai commercianti d’arte serve innegabilmente a campare. Ai molti musei d’oggi serve ad avere materiali alle pareti in modo da giustificare il coffee shop e il bookshop, quindi gli stipendi degli addetti. A tanti collezionisti serve a stimolare la vanità e ad appagare il complesso di Alì Babà offrendo loro la più cara delle merci raccoglibili. La pittura è un tesoro. Da questo punto proprio occorre partire: la pittura è la più costosa delle cose raccoglibili, per due motivi. Da un lato è di tutti i manufatti noti quello più resistente alla morsa del tempo, almeno in epoca moderna, da quando ha garantito una durevolezza che l’antichità trovava solo nel bronzo. Dall’altro la sua maneggiabilità le garantisce una facile attitudine ai trasporti, il che sta alla radice delle centinaia di mostre che si fanno per il mondo ogni mese; e una merce, più la si rende facile al movimento, tanto più si allarga il suo mercato e aumenta il suo valore. Il mercato della pittura è potenzialmente esteso perché, a differenza della poesia, non richiede traduzioni. Rispetto ad altri linguaggi che comunicano epoche lontane, la pittura ha una immediatezza sua tutta particolare. Il giovanotto che si alza davanti alla tavola nello studio di Édouard Manet, visto dipinto, è identico a certi giovanotti un po’ pieni di sé che potrete trovare al ristorante oggi. Uguale non solo nei lineamenti; anche i ritratti dei morti sui sarcofagi etruschi sono identici alle facce degli avvocati del foro di Roma e a certi osti del centro Italia. Uguale il giovanotto nel suo modo di vestire: camicia dal collo ribattuto e morbido, cravatta, giacca di velluto nero e pantaloni chiari in un perfetto spezzato. Prima considerazione quindi: il mondo della moda è inalterato da centocinquant’anni. La questione è assai intrigante perché solo negli anni dell’apice dell’impero romano il vestire rimase così stabile. Nella nostra storia recente, tra la fine del Cinquecento e il XVIII secolo, quanto cambiarono le fogge è evi-

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ÉDOUARD MANET LE DEJEUNER - TRE PERSONE PRESSO UNA TAVOLA IMBANDITA particolare, 1868, olio su tela, cm 118,3x154, Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Neue Pinakothek

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PREFAZIONE

FÉLIX NADAR RITRATTO DI ÉDOUARD MANET 1874, fotografia, Collezione privata CAROLUS-DURAN RITRATTO DI ÉDOUARD MANET 1877, olio su tela, cm 63,5x45, Providence, RI, Museum of Art Pagina a fianco in alto: HONORÉ DAUMIER NADAR ELEVA LA FOTOGRAFIA AD ARTE 1862, litografia, cm 27,30x21,91, Los Angeles, County Museum of Art CAROLUS-DURAN RITRATTO DI FÉLIX NADAR 1886, olio su tela, cm 90x60, Le Bourget, Musée de l’Air et de l’Espace

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dente anche a un esame superficiale. L’epoca moderna recente è in alcuni suoi parametri cristallizzata. Il salotto del principe Myškin nell’Idiota di Dostoevskij o le ansie sociali dei Dambreuse nell’Educazione sentimentale di Flaubert, sono prototipi della nostra vita attuale. Quando furono inventate queste situazioni gli autori non sapevano che sarebbero durate fino a oggi. Loro creavano senza sapere che proiettavano. Noi rileggendo vediamo all’indietro come in un cannocchiale rovesciato situazioni che mentalmente rielaboriamo. Immaginiamo quei personaggi alterando la situazione oggettiva nella quale l’autore li ha collocati. La letteratura chiede una rielaborazione dell’immaginazione. Quando vediamo il giovanotto di Manet, possiamo anche guardarlo: non siamo costretti a immaginarlo perché lui attraversa con un salto un secolo e mezzo e si presenta al nostro cospetto vivo e fresco. Solo la pittura passa talvolta attraverso la porta del tempo. Seconda considerazione: lo stesso giovanotto, se lo vedessimo in una fotografia, sembrerebbe invece fortemente datato. Basta in questo senso paragonare i due ritratti di Manet, quello che gli fa Nadar in fotografia, eccellente ma lontano come se fosse una immagine funebre, e quello che gli fa Carolus-Duran in pittura, assolutamente olfattivo e percepibile. La fotografia spera allora, quando non ha ancora scoperto la sua strada vera

APOLOGIA DELLA PITTURA

e definitiva, di essere la risposta a ogni questione verista o naturalista, ed è già allora sorpresa nel suo errore. All’opposto è la pittura che scopre le lenti e le applica alla composizione come nel quadro della pioggia a Parigi di Caillebotte, dove il paesaggio va ben oltre il prisma ottico tanto utile a Canaletto e a Bellotto, e si lascia invece descrivere da un fisheye ante litteram con la capacità di restituire il senso del pavé scivoloso. È interessante in questo caso vedere anche l’effetto di controluce sul viso dei due personaggi in primo piano, come se fosse già esistita una illuminazione da flash fotografico per controbilanciare la luce naturale. La pittura impara molto dalla fotografia, impara a mutare il suo ragionamento, a tal punto che nel 1901 Giacomo Balla, artista curioso e sperimentale per eccellenza, dipinge la signora romana lasciando il contrasto, tipico della foto, fra primo piano oscuro e fondo “bruciato” dalla troppa esposizione; poi, già che c’è, dipinge anche il “mosso” dei piedi come se la signora avesse cambiato posizione durante lo scatto. In questo gioco della pittura che ingloba il linguaggio della fotografia sta una delle basi del successivo Futurismo. Certo la pittura barocca potrebbe sembrarci lontana: è quasi impossibile incontrare san Lorenzo su una graticola e se lo vedessimo in un film pulp d’oggi non avrebbe mai la faccia beata che si ritrova ad avere nel telero sopra l’altare. Ma appena la

LOUIS LEGRAND NATURALISME 1890, incisione, da “Le Courrier Français”, marzo 1890

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PREFAZIONE

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APOLOGIA DELLA PITTURA

pittura si fa realista, in Velázquez come in Rembrandt, i personaggi raffigurati entrano in un contatto immediato con la nostra sfera di comprensione. Il santo arrostito con la sfera affettiva, la vecchia di Rembrandt con quella effettiva. Sotto quest’ottica è di formidabile comunicazione il paragone fra due dipinti realizzati a Londra a oltre un secolo di distanza. Si tratta in ambo i casi di due ufficiali della reale armata di Sua Maestà, il capitano Frederick Gustavus Burnaby e il generale di brigata Andrew Parker Bowles, primo marito della nota Camilla, seconda moglie del principe Carlo d’Inghilterra. Il primo ritratto è dipinto da James Tissot nel 1870 e l’altro da Lucian Freud all’inizio del XXI secolo. Sembrano contemporanei e pronti a incontrarsi allo stesso club per un cocktail e una conversazione. Nessun romanzo sarà mai in grado di restituire con altrettanta vividezza la fisicità tangibile dei personaggi. Questa linea diretta fra l’opera e la sua percezione non è però legata solo al fatto che sia quest’opera perfettamente figurativa. Anche le Demoiselles d’Avignon restituiscono immediatamente, allo spirito avveduto, l’atmosfera della Parigi bohème dell’anteguerra; anche un ritratto di Francis Bacon può restituire, sempre allo spirito avveduto, l’atmosfera della Parigi esistenzialista successiva, con un personaggio disperato e disperso nei fumi dell’alcol. Allo spirito avveduto: chi impara il linguaggio della pittura ha in mano la chiave della macchina del tempo. Ma c’è di più ancora. L’arte visiva, a differenza degli archivi, ha una sua ambiguità tutta propria: l’ambiguità potenziale. Mentre lo storico consultando i documenti scritti deve tentare di entrare nel loro significato contingente per poi interpretarli, l’osservatore della pittura ha il diritto di lasciar correre la sua fantasia immediatamente e di tentare l’approfondimento storico documentale in un secondo momento. Il gruppo di soldati tedeschi che hanno invaso il castello francese durante la guerra franco-prussiana sono moralmente ributtanti: tengono gli stivali infangati nel salotto, cantano ubriachi pestando il nobile pianoforte. Uno di loro sembra palpare una donna di servizio, la quale, a dire il vero, non ne è affatto offesa. Solo la fanciulla più giovane sembra sconcertata. Una scena sostanzialmente orribile se si pensa che, dopo il 1870, si è ripetuta nel 1916 e poi ancora nel 1943. Il dipinto sembra, oggi, un documento critico assolutamente consapevole. Eppure non è

Doppia pagina precedente: GUSTAVE CAILLEBOTTE UNA STRADA PARIGINA SOTTO LA PIOGGIA 1877, olio su tela, cm 212x276, Chicago, The Art Institute of Chicago

GIACOMO BALLA LA SIGNORA PISANI AL BALCONE 1901, olio su tela, cm 203x133, Collezione privata

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JAMES TISSOT FREDERICK BURNABY 1870, olio su tavola, cm 50x61, Londra, National Portrait Gallery

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affatto così. Il pittore che lo realizzò nel 1894 non sapeva nulla dei crimini successivi che i tedeschi avrebbero compiuto in Europa. Anzi, dipinse il quadrone per una committenza pubblica berlinese di allora: era un quadro condiviso ed esaltato che doveva suscitare simpatia. Oggi lo si legge in modo totalmente diverso da come lo si voleva leggere quando fu dipinto. Straordinaria ambiguità della pittura. Potente capacità di restituire la situazione al di là d’una interpretazione univoca. Eppure con cronica regolarità si dichiara che la pittura è morta. Anche qui i motivi sono sostanzialmente due, uno filosofico e l’altro commerciale. Quello filosofico è ovviamente il più attraente, ed è legato al millenarismo che ossessiona gli occidentali da quando san Giovanni scrisse l’Apocalisse, da quando cioè si è delineata l’escatologia cri-

APOLOGIA DELLA PITTURA

stiana che vede la fine della Storia, oltre il Giudizio Universale, nell’approdo alla Gerusalemme celeste. Eppure san Giovanni dei Maya non sapeva nulla, che anche loro s’aspettavano la fine del tempo e alla fine di ogni quarto ciclo di tredici anni temevano che il sole non sarebbe più sorto. È nella voglia di razionalità di Hegel che sta la radice d’una escatologia laica che non può prescindere dall’ipotesi che la

LUCIAN FREUD IL GENERALE DI BRIGATA 2003-2004, olio su tela, cm 223,5x138,4, Collezione privata

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ANTON VON WERNER TRUPPE IN UN EDIFICIO REQUISITO A PARIGI 1894, olio su tela, cm 120x158, Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie

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storia finisca, per necessità del suo stesso motore dialettico, quella che per Karl Marx corrisponde al superamento definitivo della lotta fra le classi. Anzi, quella fine testa russa di Alexandre Kojève (Aleksandr Koževnikov), il nipote filosofo di Kandinskij, sostiene che la storia è già finita, da quando, dopo la battaglia di Jena, le truppe di Napoleone Bonaparte sfilarono sotto le finestre del severo Hegel, dando così la sanzione definitiva dello stato razionale moderno. Di questa faccenda della storia non da finire ma già finita rimasero impressionati in tanti, il filosofo Horkheimer

APOLOGIA DELLA PITTURA

quando il nazismo prese il potere, l’ottimo critico Giulio Carlo Argan quando non capì più niente delle arti che venivano praticate ai suoi tempi. E per un certo verso chi oserebbe dare loro torto. Basterebbe guardare un paio di belle scarpe di cuoio con i lacci, quelle che hanno sostituito la scarpa a fibbia del Settecento, per capire che ai piedi calziamo i medesimi manufatti da due secoli. Almeno per le scarpe è accertato che la storia si è conclusa in un coma, come in uno di quegli schermi che segnalano che la pulsione cardiaca del paziente, dopo feroci fibrillazioni, è caduta in una perenne linea piatta, quella della morte. Ma qui torna utile l’opera dell’antropologo, in quanto certifica che le scarpe a lacci, quelle analoghe alle famose desert shoes che tanto garbavano agli intellettuali anni ’60, le portavano già, assieme ai pantaloni, i barbari che sconfissero i romani, anche se poi la scarpa romana d’allora ha dato origine all’infradito che indossano tutti gli indiani d’oggi, versione plastica. E la versione scarpa di plastica ha appena generato delle bizzarrie gommose che portano con estrema soddisfazione tutti i giovani del mondo, se il loro bilancio familiare lo consente. La scarpa di cuoio a lacci non è un dato sufficiente a sostenere la morte delle arti.

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GENESI GENIALE D’UNA POTENTE DISTORSIONE l mercato dell’arte esiste da sempre. Nell’epoca moderna il suo vigore e la sua articolazione crescono in parallelo con lo sviluppo della diffusione della pittura stessa. Le gallerie d’arte vere e proprie con mercanti professionali nascono quando la committenza diretta viene sorpassata dalla crescita d’una clientela di consumatori talmente vasta da non entrare più in contatto diretto con l’artista, e ciò sia nella Amsterdam borghese seicentesca sia nella Parigi nobiliare del Settecento, quando a Londra esplode la mania del dilettantismo collezionista che trova nelle prime case d’asta il luogo privilegiato per la sua elegante golosità. Il mercato dell’arte sarà da allora in poi un commercio privilegiato delle grandi città. Tre casi analizzati saranno sufficienti a capirne le diverse articolazioni. La Galerie Goupil & Cie è una associazione fra vari mercanti che prende forma definitiva nel 1850, con sedi a Parigi, L’Aia, Londra, Bruxelles, Vienna, Berlino, New York e addirittura in Australia. Vende inizialmente stampe, anche di grande formato, che replicano le opere famose per un pubblico di classe sociale media. Negli anni ’60 vi entra come socio Vincent van Gogh, il padrino e zio del pittore, e si iniziano a vendere anche opere originali. È nata la prima galleria globale della storia. Paul Durand-Ruel (1831-1922), figlio di un mercante d’arte, avrà per tutto l’inizio della carriera un concorrente temibile in Georges Petit (1856-1920), anch’egli figlio di mercante d’arte. Vendono l’uno come l’altro tutto ciò che va di moda allora e che non vende direttamente nei salon ufficiali, dagli impressionisti ai simbolisti e ai rosacroce, tantissimi artisti allora noti che la storia successiva ha tolto dalla coscienza pubblica. Durand-Ruel si lega però in modo particolare al giovane Monet quando tutti e due, spaventati dalla guerra del 1870 e temendo l’arruolamento, si trovano a Londra. E lui lì apre la sua seconda galleria. La terza sarà a Bruxelles. Durand-Ruel

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FRANCESCO JACOVACCI LA GALERIE GOUPIL 1860 ca, Collezione privata

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GENESI GENIALE D ’ UNA POTENTE DISTORSIONE

oserà molto di più di Petit e sarà il primo mercante che si fa finanziare dalle banche. Ed è anche il primo che stabilisce con gli artisti contratti mensili per finanziarli, garantendo il loro prezzo anche quando le opere finiscono nelle aste dove le ricompera per sostenerli. È il primo ad avere un ufficio stampa. Ed è anche il primo a saltare in aria clamorosamente nel 1882 quando fallisce l’Union Générale, la banca cattolica conservatrice che lo supportava. Svende gli stock di dipinti che per un periodo non indifferente saranno sul mercato a prezzi vili. Poi scopre l’America e capisce che “il pubblico americano non ride, compera”. Vi porta gli artisti che nel suo stock erano a prezzo più basso, gli impressionisti, e la mostra a New York del 1886 sarà un tale successo commerciale che determinerà un rialzo di prezzi anche in Europa. Si rimette a comperare, alla grande. Nel 1905 organizza la super esposizione di Londra con trecento dipinti. Gli impressionisti, ormai storicizzati, vengono definitivamente consacrati. Saranno d’ora in poi, assieme ai gran-

HENRI GERVEX UNA SEDUTA DELLA GIURIA DI PITTURA AL SALON DEGLI ARTISTI FRANCESI 1883, olio su tela, cm 299x419, Parigi, Musée d’Orsay

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PREFAZIONE

GENESI GENIALE D ’ UNA POTENTE DISTORSIONE

di vini, l’immagine internazionale della Francia. Negli ultimi trent’anni della sua vita, acquista 12.000 dipinti (1000 Monet, 1500 Renoir, 400 Degas, 400 Sisley, 800 Pissarro, 200 Manet, 400 Mary Cassatt). Poco prima di morire annoterà: “Finalmente i maestri dell’Impressionismo trionfavano come avevano trionfato quelli del 1830. La mia follia era stata saggezza. E dire che se fossi morto a sessant’anni, sarei morto gonfio di debiti e insolvente, in mezzo a tesori misconosciuti…”. Lui aveva oggettivamente trionfato. La storia dell’arte era stata radicalmente alterata dall’abilità di gestire il mercato. Ambroise Vollard (1865-1939) appartiene a una generazione mercantile successiva ed è il prototipo del mercante intellettuale. Apre bottega nel 1893, mentre è ancora studente di Diritto all’università. Fortemente coinvolto nel mondo dell’avanguardia nascente, è un autentico entusiasta dell’iconoclastia goliardica di Alfred Jarry, l’autore di Ubu Roi, e sarà lui stesso scrittore, editore e sostenitore di grandi libri illustrati, fra i quali la nota Suite Vollard di Picasso. Non è più in quest’ottica Vollard un mercante, ma diventa un protagonista stesso della sua stagione artistica. A lui assomiglia assai la figura del promotore, pittore e critico italiano Vittore Grubicy de Dragon che assieme al fratello Alberto andrà a promuovere a Londra sul finire del secolo la pittura della Scapigliatura milanese e i maestri del Divisionismo. A questo mondo intellettuale appartiene Paul Guillaume, mercante di Modigliani come del primo De Chirico, che da semplice garagista era diventato protagonista quando fa scoprire a Guillaume Apollinaire l’arte “negra” di cui organizzerà la mostra fondamentale nel 1919. Alla medesima genìa appartiene anche Daniel-Henry Kahnweiler, tedesco approdato a Parigi e passato immediatamente dalla finanza all’arte, che fu il primo mercante dei Fauves e del Cubismo esordiente. Picasso diceva di dovere a lui la sua fortuna iniziale, a lui che era il suocero del più celebre etnologo africanista di Francia, Michel Leiris.

Pagina a fianco: PIERRE-AUGUSTE RENOIR RITRATTO DI PAUL DURAND-RUEL 1910, olio su tela, cm 65x55, Collezione privata PIERRE-AUGUSTE RENOIR RITRATTO DI AMBROISE VOLLARD 1908, olio su tela, cm 81,6x65,2, Londra, The Courtauld Gallery PABLO PICASSO DANIEL-HENRY KAHNWEILER 1910, olio su tela, cm 101x73, Chicago, The Art Institute of Chicago PABLO PICASSO RITRATTO DI AMBROISE VOLLARD 1909-1910, olio su tela, cm 93x65,6, Mosca, Museo Statale Puškin

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VEDERE PER GODERE GUARDARE PER CAPIRE

PABLO PICASSO RITRATTO DI AMBROISE VOLLARD 1909-1910, olio su tela, cm 93x65,6, Mosca, Museo Statale Puškin Pagina a fianco: GUSTAVE MOREAU LE FIGLIE DI TESPI 1853, olio su tela, cm 258x255, Parigi, Musée Moreau

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VEDERE PER GODERE . GUARDARE PER CAPIRE

l piacere quanto il capire sono due percorsi della conoscenza. Il piacere proviene dalla contemplazione d’una singola opera, il capire viene aiutato dal paragone fra le opere. Vi potrete stupire di ritrovare qui un dipinto riprodotto su una pagina appena passata. Vi stupirà ancor di più il fatto che sia riprodotto a testa in giù. Non è un errore di stampa. Serve a generare un paragone dall’aspetto impertinente. Che cosa hanno in comune

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PREFAZIONE

EUGÈNE DELACROIX LA MORTE DI SARDANAPALO 1827, olio su tela, cm 392x496, Parigi, Musée du Louvre

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due dipinti realizzati nella medesima città a sessant’anni di distanza? Apparentemente nulla (vedere), ma in realtà molto (guardare). Le tonalità cromatiche sono sostanzialmente identiche, la profondità visiva alla quale lo spettatore è stimolato dalla stesura della materia è analoga: nel caso di Moreau è centrale, in Picasso è laterale, ma è la medesima percezione che viene suggerita. Il rovesciamento dell’immagine rende possibile una lettura avulsa dal contenuto iconografico, una lettura della lingua base del dipinto, quella del segno, della materia e del colore. Se però ora rovesciate il libro in modo che il signor Vollard smetta d’avere il sangue al cervello e vi allontanate a sufficienza per ammirare il ritratto come se fosse in un salotto a vari metri dalla poltrona sulla quale siete comodamente

VEDERE PER GODERE . GUARDARE PER CAPIRE

seduti, farete una scoperta sorprendente: questo piccolo dipinto contiene una plasticità quasi scultorea che porta il soggetto nella medesima terza dimensione che potrete scorgere nella tela ben più vasta (oltre 6 metri quadrati) di Moreau. Eppure un quadro è simbolista (1853) e l’altro cubista (1910). Non li troverete mai vicini in un museo tradizionale dove le categorie sono state stabilite definitivamente un secolo fa.

PABLO PICASSO LES DEMOISELLES D’AVIGNON 1907, olio su tela, cm 243,9x233,7, New York, Museum of Modern Art

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PREFAZIONE

Seconda impertinenza. La morte di Sardanapalo è un dipinto di quasi 20 metri quadrati del 1827 di Delacroix non ancora trentenne: il primo potente manifesto del disordine psichico romantico, la storia del suicidio di Assurbanipal re degli assiri, coltissimo e pare affondato in una crapula senza limite. È il capostipite di quella scuola vincente del 1830 della quale parla Durand-Ruel. Les demoiselles d’Avignon è un altro dipinto colossale, ovviamente più ridotto perché i tempi sono cambiati, ma nondimeno misura oltre 5 metri quadrati. Picasso ha ventisei anni quando lo realizza nel 1907. E Picasso appartiene alla generazione artistica successiva a quella impressionista che Durand-Ruel ha fatto trionfare. Ma i due dipinti, questa volta riprodotti per il verso giusto, hanno una intrigante assonanza. Sono ambedue opere di rottura, e quella dello spagnolo a Parigi corrisponde in pieno alla sua notissima dichiarazione: “A los doce años sabía dibujar como Rafael, pero necesité toda una vida para aprender a pintar como un niño” – “A dodici anni sapevo disegnare come Raffaello, ma mi ci è voluta tutta una vita per imparare a dipingere come un bambino”. In questa dichiarazione sta la chiave del parallelismo. Picasso usava anche dire ai colleghi: “Je ne cherche pas, je trouve”. Anzi li avvertiva che, qualora lo avessero invitato nel loro studio ed egli vi avesse scoperto una loro buona idea, gliela avrebbe immediatamente rubata. Picasso ruba la storia dell’arte del secolo nel quale lo immette Parigi e la sovverte. Meglio ancora, la conclude. Gran parte del mondo che oggi, con una categoria disordinata come quella degli “impressionisti”, chiamiamo “avanguardia” altro non è che la conclusione d’un ciclo iniziato nel formalismo e terminato nella demolizione della forma. Erik Satie demolisce Debussy e Ravel, l’Ubu Roi di Alfred Jarry demolisce le eleganze simboliste di Mallarmé, il Cubismo demolisce la perfezione nata dal neoclassicismo di David, e Duchamp demolisce il concetto stesso del crederci. Questo lungo epos d’un secolo e mezzo è il tema del volume che spero abbiate voglia di affrontare in una analisi leggermente diversa da quella solitamente codificata.

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COME NASCE UN MUSEO

l concetto di arte moderna è oggi assai confuso. Ben più facile era la questione cent’anni fa quando era appena stata inventata una serie di categorie che agli storici fornivano utili paletti. Allora l’arte era suddivisa in quattro categorie: l’antichità, il Medioevo, l’epoca moderna, cioè ciò che era successo dal Rinascimento in avanti, e l’epoca che loro, i nostri nonni, chiamavano contemporanea e che andava sostanzialmente dalla Rivoluzione francese ai giorni che essi stessi, i nonni, vivevano. Ancora oggi questa suddivisione è applicata nell’accademia universitaria per quanto concerne la Storia, quella con la S maiuscola, e infatti per Storia Contemporanea si intendono gli avvenimenti degli ultimi due secoli. Ma nelle questioni dell’arte, dove tutto è sempre più incerto e fluido, la faccenda è mutata e non di poco. Se ancora agli inizi del XX secolo si denominava a Milano “museo d’arte contemporanea” il luogo dove si era collocato il Quarto stato di Pellizza da Volpedo, già trent’anni fa questa definizione piaceva solo a chi si era laureato in arte antica. Per il resto dell’umanità l’arte contemporanea era diventata quella del secondo dopoguerra e quella moderna aveva trovato un collocamento ben più mercantile in base alle definizioni delle case d’asta inglesi per le quali esisteva un arco temporale ed estetico che veniva chiamato “impressionisti e arte moderna”, proprio per distinguerlo da quello “contemporaneo” e da quello ottocentesco che nessuno riusciva a definire meglio. Al giorno d’oggi la faccenda si complica ulteriormente perché l’arte in corso d’avvenimento non appare più “contemporanea” ma sembra meritare il titolo di “attuale”. In quanto all’Ottocento, dopo avere rivalutato come corrente innovativa il Preraffaellismo, il Simbolismo e, perché no, una parte sostanziale di ciò che prima veniva con disprezzo chiamato accademismo, oggi la categoria britannica di “Impressionist

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PREFAZIONE

and Modern Painters” sembra essere in fase di ammuffimento quanto la contemporaneità di Jackson Pollock, il quale per i giovani studenti universitari attuali è, a loro e alla loro fantasia, lontano quanto Dante Gabriel Rossetti o Brenno, quello della spada s’intende. Eppure i concetti ci servono. Non ne possiamo fare a meno, e quello di moderno ci insegue da quando fu forgiato, probabilmente, dalla contrazione di modus parisiensis nell’XI secolo, parola che allora serviva a indicare la nuova calligrafia nata nella Cancelleria reale di Saint-Denis in conseguenza alla formidabile scoperta della penna d’oca come strumento per accelerare la scrittura rispetto al vecchio pennellino ch’era il calamo. Cambiava il mondo, per le oche da un lato, per gli uomini dall’altro, i quali potevano dare peso maggiore alle cancellerie e quindi al diritto e trasformare la piccola e fragile monarchia dei Capetingi in una potenza mondiale fondata sull’autorevolezza del sapere rispetto alla forza dello spadone. È facile capire che da allora ai francesi piaccia la modernità, talvolta anche troppo forse. È facile capire che lo scontro fra modernità e tradizione sia diventato nel cuore del Seicento la famosissima querelle fra “les Anciens et les Modernes” ed è comprensibile che in epoca romantica questa querelle sia rinata nella battaglia teatrale dell’Ernani che di poco precedette la rivoluzione borghese del 1830. Ma da qui a definire il secolo della modernità serve un passo in più che solo la distanza d’oggi ci permette di compiere facilmente. Molto dobbiamo al pensiero lucido di Eric Hobsbawm che traccia il XIX secolo partendo nella sostanza dalla rivoluzione del 1789, ma meglio ancora dalle sommosse del 1848, per concluderlo con l’implosione delle borghesie liberali nella catastrofe della prima guerra mondiale. È innegabile che se il nostro mondo si distingue così profondamente da quello nel quale viveva Giulio Cesare, lo dobbiamo alla macchina che ha sostituito lo schiavo, quella a vapore come quella mossa dal motore a scoppio, lo dobbiamo al telefono, lo dobbiamo alla scoperta dei microbi di Pasteur, lo dobbiamo al fatto che il sogno di volare di Leonardo si sia realizzato, lo dobbiamo alla scoperta delle comunicazioni via onde hertziane di Marconi, lo dobbiamo, perché no e per arrivare al computer, all’idea d’una matematica nuova binaria quanto lo dobbiamo a una

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COME NASCE UN MUSEO

nuova concezione della materia fondata sulla scoperta delle irradiazioni atomiche dei Curie, della relatività di Einstein e dell’ipotesi quantistica di Planck. Tutta roba di quel lungo secolo della modernità. A rigor di logica gli sviluppi successivi che ci hanno portato nell’attualità sembrano più che altro formidabili sviluppi tecnologici e quantitativi delle scoperte teoriche e scientifiche del Secolo Lungo. Il secolo breve dal quale siamo appena usciti è tutto da riguardare, e forse solo da quando ne siamo fuori, da quel bizzarro 1989 nel quale i valori che apparivano eterni si sono sciolti come un gelato dimenticato a fine pasto, stiamo tornando a quelle scoperte scientifiche che consentono il sogno successivo del procedere, dal DNA decifrato al recente bosone di Higgs che vuole farsi rivelare, e stiamo allargando le frontiere con la mutazione della quantità in qualità, cioè con l’intelligenza collettiva della rete informatica. Ci tocca quindi ripensare il Secolo Lungo. Lo scopo di questo libro è quello di contribuire a confondere le idee assodate per tentare di porre le basi d’una Storia che si rimette in marcia. Progetto intollerabilmente ambizioso che si trova costretto ad abolire categorie dello spirito oggi innegabilmente obsolete. Ristudiare la cronologia di centotrent’anni o forse più è materia che solo lo spirito acuto d’uno storico come Hobsbawm può affrontare, per giunta con l’assistenza dei migliori istituti universitari britannici. E si sa che gli inglesi in questa materia non sono secondi a nessuno. Noi tenteremo l’operazione attraverso la scorciatoia delle arti, quelle visive in particolare. Le arti hanno il pregio fondamentale di essere ben più facilmente decifrabili dei documenti e degli archivi, in quanto sono per essenza e forma pronte ai giochi delle interpretazioni semantiche e semiotiche. Il segno e il significato sono intrinseci ai linguaggi e a quelli artistici in particolare. La curiosità in questo campo è uno strumento agile e talvolta allegro. Le ipotesi appaiono spesso con una evidenza che gli archivi veri e propri s’impegnano a celare. E appena si inizia con la dovuta dose di sfrontatezza ad agitare il mestolo nella zuppa le vecchie categorie si sciolgono. Pensare che il Secolo Lungo possa essersi spezzato per consentire ai musei di mantenere ferma la categoria degli “Impressionist and Modern Painters”, di mantenere l’ordine antiquato delle

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loro sale, sarebbe oggi miope se non addirittura stolto. Ecco perché abbiamo ipotizzato un museo diverso, luogo della fantasia e dell’immaginazione. Qui ovviamente tutto è immaginato, il museo stesso in prima parte. Immaginatevi che una storica città d’Europa vi abbia affidato il riordino urbanistico del suo centro perché la vecchia stazione, di fronte al municipio, va dismessa in quanto l’alta velocità passa diretta e tangente nella periferia e la stazione Terminus, come la si chiamava perché lì i treni si fermavano e cambiavano senso di marcia per ripartire, perde ogni senso di esistere. Ma gli abitanti sono affezionati a quel prestigioso edificio e ne chiedono una nuova destinazione. Il Consiglio Comunale è stato informato del fatto che a Parigi una operazione del genere è stata brillantemente compiuta alla Gare d’Orsay, e siccome il borgomastro non si sente secondo a nessuno la scelta è stata immediata. Vogliono un museo. Ma più di tanto non sanno. La destra storica vorrebbe collocare nella stazione la vastissima collezione di armature che la famiglia del barone von Stangen raccoglie sin dal cuore del Medioevo, quando il casato era gradito all’imperatore. La sinistra moderata vorrebbe farne invece il centro di un museo sulla didattica, in quanto la città vanta una delle più serie tradizioni di asili infantili. I consiglieri di centro, affascinati da una recente tesi della facoltà di economia e commercio, sono convinti che un museo sull’alimentazione, in particolare sulla ricchissima produzione di insaccati che la città genera nelle varie stagioni della macellazione, avrebbe un successo di pubblico garantito e sarebbe un utile traino agli affari nonché un momento di forte coagulo dell’identità locale. Raggiungere un accordo è apparso impossibile. Si teme per la stabilità del governo che garantisce da anni una tranquilla vita alla comunità e non dispiace per nulla alle opposizioni, felici di criticare e preoccupate di dovere affrontare gli affanni di una crisi. Ecco perché siamo stati interpellati. E se fosse il Secolo Lungo il secolo dell’emancipazione? Certo che sento subito il parere opposto di chi sostiene che il vero secolo è quello dei Lumi. Ma ricordo troppo le bastonate che il principe di Rohan fece assestare sulla schiena di Voltaire per esserne del tutto convinto. Mi ricordo le difficoltà

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politiche del povero Rousseau, che da repubblicano ginevrino faceva ben fatica a ottenere un appoggio alle sue tesi dalla Francia di Luigi XV. Ma pure mi torna in mente la potente figura di Beccaria che per primo sostiene che i delitti debbano avere pene appropriate e apre la strada a una idea di diritto che lentamente conquisterà l’Occidente. Il secolo dei Lumi contiene i germi del Secolo Lungo che non si convertirà immediatamente e andrà avanti pensando che l’omosessualità maschile sia un crimine e metterà quindi in galera il cortese Oscar Wilde. La nazione innegabilmente più innovativa, la Francia, continuerà la sua rivoluzione permanente da quella grande della ghigliottina nel 1789, a quella borghese con le fucilate del 1830, a quella popolare del 1848 che contagia l’Europa fino a quella proletaria e fallita del 1870, quella che non piacerà per niente al Carlo Marx. Nel frattempo l’Italia e la Germania s’erano unite offrendo al panorama politico degli stati due nuovi attori coscienti e nazionali, mentre i grandi aggregati non nazionali, gli imperi d’Austria, di Russia e della Britannia, stavano sentendo, nella gioia delle loro celebrazioni, scricchiolare gli elementi che li componevano. Poi inizia, sempre partendo dalla Francia, il lungo quarantennio della Belle Époque, la quale così facendo, diventa il culmine del Secolo Lungo e finisce nel cataclisma di ferro e di fuoco della prima guerra mondiale, quando le borghesie liberali d’Europa misureranno le loro forze ideologiche e produttive nel fango delle trincee. La Belle Époque non muore in realtà lì: le capitali continueranno a celebrarla mentre si diffonde nella notte della morte il gas all’iprite e tuona il Kaiser Wilhelm Geschütz, il super cannone della super industria, che tenta con una gittata di 130 chilometri, di annullare Parigi. Parigi sopravvive e anche un certo sapore di Belle Époque. Per la Francia la Belle Époque è l’arco intero della terza République: inizia con la caduta di Napoleone III dopo la battaglia di Sedan e si conclude con la capitolazione dei suoi eserciti all’inizio della seconda guerra mondiale nel 1940. In fondo la Rivoluzione d’Ottobre è la massima follia della Belle Époque, il paradosso dell’avventura della libertà, e forse così pure si può immaginare l’esaltazione italiana che dopo una bizzarra vittoria della prima guerra affoga nel delirio festoso del fascismo e delle due uniformi, quella bianca per la parata e quella

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nera per il sudore. Il Secolo Lungo è talmente lungo da avere origini lontane nel primo viaggio di Winckelmann a Paestum nel 1764 e da morire definitivamente, dopo gli atroci fumi di Auschwitz nei quali scompaiono le parti attive della borghesia, solo nel fungo atomico di Hiroshima. Non fu facile convincere il Consiglio Comunale, ma un lungo dibattito aperto sulla stampa locale, alcuni incontri televisivi nella Biblioteca Civica senza troppe grida sovrapposte e due incontri nel fatiscente Teatro dell’Opera furono assai convincenti. L’argomento vincente fu il piano di sviluppo integrato dal quale si poteva ipotizzare anche il restauro della biblioteca e del teatro nonché la riqualificazione del vecchio albergo del Commercio che s’era fatto talmente cadente che neppure le passeggiatrici che di notte stazionavano sotto i lampioni della stazione lo usavano per i loro furtivi incontri. Questa era quindi ciò che i museologi chiamano la “mission” del museo: rilanciare una città addormentata e offrirle una ipotesi di nuova brillantezza che l’alta velocità contribuiva a stimolare. Con il nuovo sistema di comunicazione ferroviaria la città poteva affrontare un bacino di utenza che, calcolato non sulla distanza ma sul tempo di percorrenza inferiore all’ora, era diventato di dieci milioni di persone. Rimaneva aperto il secondo tema caro ai museologi, quello del “concept” del museo. Solo un tema forte, innovativo e attraente, poteva rispondere alla voglia di fierezza urbana che serpeggiava nell’opinione pubblica e al desiderio di diventare protagonisti nel bacino d’utenza e noti nel mondo. L’esempio del caotico e inutile Museo del Novecento di Milano fu da tutti preso come memento mori. Anzi, fu una nostra visita guidata nelle salette lombarde a convincere gli ultimi consiglieri comunali reticenti. Infine passò il progetto d’un museo “impertinente” che fosse in grado di attrarre la comunicazione e quindi il pubblico. Si mise al lavoro un comitato scientifico, che più che “scientifico” (parola carica d’ogni equivoco) fu poetico e si dedicò a lunghe libagioni nei ristoranti ai quali sarebbero stati affidati gli spazi integrativi della futura istituzione. L’operazione alimentare non era del tutto goliardica. Serviva a immaginare un museo nel quale gli spazi aggregativi potessero assumere una importanza sostanziale e “integrar-

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si” concretamente negli spazi espositivi, completandoli. La priorità del sistema progettato consisteva nell’attrarre il più vasto numero di pubblico, nel diventare centro della vita sociale e nell’usare questa forza motrice di umanità per generare una partecipazione anche ai temi culturali presentati. Il progetto urbanistico, dopo lunghe verifiche di fattibilità, di funzionamento e di consenso, fu un autentico successo. La città, per un vecchio accordo ottocentesco, quando fu posta in essere la prima linea ferroviaria, era rimasta proprietaria della vasta porzione di terreno sulla quale si articolavano le prime linee di rotaie e di scambi. Metà di quel terreno, circa duecento ettari, fu destinato al disegno d’un vasto giardino pubblico al quale si sarebbe potuto accedere da varie parti cittadine e dal museo ovviamente. L’altra metà, quella in fondo alla linea d’orizzonte, fu messa in vendita per costruire un nuovo quartiere misto per il quale furono sovvertite le vecchie regole urbanistiche. Si trattava di una porzione di 2 milioni di metri quadrati edificabili venduti a 100 talleri al metro quadro. Il che portò nella casse 200 milioni di talleri. Il conto del capitale iniziale fu completato con la vendita del vecchio edificio museale che si affaccia sulla piazza del municipio e che tre banche associate si papparono con avidità fornendo altri 100 milioni di talleri. Così furono investiti: 150 milioni per la riconversione della stazione, l’allestimento del parco e le aggiunte all’edificio museale 50 milioni per la costruzione dei 60 appartamenti di lusso (3000 talleri al metro quadrato) della spina lunga che si trova fra la strada principale nuova e i giardini 20 milioni per il restauro del Teatro dell’Opera 15 milioni per la nuova struttura biblioteconomica nelle cantine della Biblioteca Civica 10 milioni per l’adeguamento del Piccolo Teatro 25 milioni per la creazione della Sala delle Esposizioni nella parte retrostante il Municipio, laddove prima v’erano i servizi al cittadino, spostati nel nuovo quartiere per aggiungere funzioni alla sua vitalità 30 milioni per la trasformazione del vecchio albergo del Commercio nel nuovo albergo De la Gare et des Musées, luogo innegabilmente di lusso cortese.

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Padiglione dei binari Officina delle riparazioni Caffè Michelangelo Ufficio del capostazione e oggetti smarriti Dome Closerie des Lilas Hôtel de la gare et des musées Banca

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Biblioteca civica Teatro dell’Opera Municipio Sala delle esposizioni Piccolo teatro Grandi magazzini Albergo Appartamenti di lusso

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PREFAZIONE

Lo stimolo sulla città fu formidabile. Il garage per 500 automobili (la città ama l’auto ma non il suo ingombro) è stato realizzato sotto le fondamenta della vecchia sala delle macchine a vapore e in parte sotto l’ingresso dei giardini pubblici ed è stato affidato a un consorzio privato che risulta soddisfatto del proprio conto economico. I negozi vicino al Piccolo Teatro si sono dati un tono nuovo di tale qualità che la Rizzoli ha deciso di aprire lì una sua vasta e vivace libreria. Nelle strade vicine l’assessorato al Commercio ha favorito ogni tipo d’insediamento artigianale qualificato e alcuni noti corniciai di Londra vi hanno aperto bottega. Dal lato dell’ingresso alla Sala delle Esposizioni, la strada, già da tempo dedita al commercio degli indumenti, ha deciso di entrare in competizione con via Montenapoleone a Milano, Faubourg Saint-Honoré a Parigi e via Filangieri a Napoli. Alla piazza del municipio oggi si accede con un sistema tramviario alla strasburghese o alla bordelaise, con mezzi di media dimensione e di assoluto silenzio, mossi da energia elettrica nelle rotaie, quindi senza i deturpanti fili tesi fra i nobili edifici. Ci si accede anche in automobile, purché la si parcheggi immediatamente. Una comoda stazione di taxi è a disposizione di chi vuole spendere di più. Le biciclette e i motorini sono tollerati, ma solo tollerati. Un museo costa. Ed è meglio saperlo subito, prima di cominciare a progettarlo, altrimenti si rischia la mesta fine del MADRE di Napoli o la triste situazione delle ambizioni senza finanza del MAXXI di Roma. Gli introiti devono essere previsti sin dalla posa della prima pietra e a nulla vale l’illusione d’un futuro bigliettaggio, il quale semmai va considerato una risorsa fortunata ma non una certezza fondativa. Ecco come abbiamo proceduto. I 60 appartamenti di lusso appartengono al museo, sono di circa 250 metri quadrati ognuno, disposti su tre piani, con un garage che dà sulla via di scorrimento sotterraneo che porta alla piazza delle quattro chiese, in fondo fra Alta Velocità e Quartiere Nuovo. Si affacciano su un giardinetto privato, similarmente a quelli del Parc Monceau a Parigi, e dal giardino privato si può, oltre un garbato cancelletto, entrare nel parco pubblico e recarsi al museo. Sono affittabili singolarmente, ma è pure previsto che un eventuale nababbo

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ne prenda più di uno singolo per collegarlo a quello vicino. Vengono messi all’asta, su base 5000 talleri mensili, a favore del museo per periodi di sei anni. Hanno avuto un successo mondano insperato e rendono attualmente 4,5 milioni di talleri all’anno. Questo è il fondo di funzionamento del museo. Il nuovo albergo De la Gare et des Musées è in concessione a una compagnia elvetica la quale versa un comodo affitto di 1,5 milioni di talleri. I quattro ristoranti in gestione nel museo non pagano un affitto vero e proprio, ma una percentuale del 10% sul loro fatturato. Attualmente sono stati inaugurati due ristoranti che hanno contribuito a fare del museo il vero centro della vita cittadina e l’ambito punto di riferimento della vasta macroregione, ed erogano 700 pasti al giorno a una media di 25 talleri l’uno. All’anno il loro contributo è di 525 000 talleri. Il museo conta quindi su un introito annuo di 6,525 milioni ai quali si aggiunge un contributo cittadino di 2,9 milioni e uno regionale di 5 milioni di talleri. Non è infatti corretto che una importante istituzione culturale non sia anche sostenuta dal danaro del contribuente, il quale vedendone la trasparenza dei conti è più incline a pagare le tasse. L’evasione fiscale in città è fortemente calata da quando il centro museale l’ha riqualificata. Non solo, ma anche il fatturato dei commercianti ha visto un allegro incremento. Il museo ha 200 dipendenti fissi che costano, oneri compresi, in media 50 000 talleri all’anno. Il loro costo consuma quindi ben 10 milioni. I rimanenti 5 milioni sono destinati alla spesa corrente, agli allestimenti e alla manutenzione ordinaria, quella straordinaria essendo a carico della municipalità. Certo è che questo sistema non sarebbe sufficiente se mancassero le associazioni di sostegno, le quali svolgono la duplice funzione di saldare l’istituzione alla cittadinanza allargata e di servire all’incremento delle risorse umane ed economiche. L’associazione degli Amici del museo è attualmente composta da 3000 membri che versano un contributo di 500 talleri all’anno per il diritto di nominare i loro rappresentanti nel Consiglio d’Amministrazione, la gioia d’un distintivo e alcuni privilegi d’orario e di feste. La somma da loro raccolta serve a dare un contributo di circa 500 talleri al mese ai

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volontari che integrano il lavoro dei dipendenti e si occupano delle varie attività didattiche e di guardiania del museo. L’impegno dei volontari è assai leggero, non supera le quattro ore quotidiane, ed è quindi molto apprezzato da studenti, giovani mamme e anziani consapevoli di essere ancora in grado di contribuire alla vita della comunità. Il gruppo dei Patroni è invece ben più ristretto. E si capisce. A loro viene richiesto un contributo minimo di 200 000 talleri annui, detassabili. Alcuni di loro superano volentieri questa soglia e sono principalmente abitanti della spina di appartamenti del museo, banchieri della piazza e vari ottimati della regione, felici d’avere il diritto di partecipazione al club più esclusivo dell’area. I venti Patroni raccolgono in media 10 milioni all’anno, i quali servono agli acquisti e alla realizzazione d’una mostra annua nella Sala delle Esposizioni, quella sì gravata d’un biglietto d’ingresso. I Patroni hanno inoltre il privilegio d’una loro sala di riunione serale, che di giorno comunque è aperta al pubblico. Il museo è così quindi governato: da un Gran Consiglio di 15 membri con 5 rappresentanti dei Patroni, 2 degli Amici, 1 dei volontari, 1 sindacale dei dipendenti, 7 degli enti pubblici. La maggioranza è tendenzialmente privata, il settore pubblico ha la funzione prioritaria del controllo. Il Gran Consiglio nomina un “board” direttivo di quattro membri, il quale lavora tutti i giorni della settimana, sabato e domenica esclusi. L’accesso al museo è quindi gratuito.

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GIARDINO DEI BAMBINI

LUDOTECA

SERRA

IL SIMBOLISMO

Manet LUXE, CALME ET VOLUPTÉ

L’ART NOUVEAU

CLOSERIE DES LILAS

Boccioni

Il quarto stato

Malevicˇ

LA GUERRA

RISORGERE

LA CONFRATERNITA DEI PRERAFFAELLITI

Guernica

Carrà e Boccioni

LA FUGA DALLA REALTÀ

L’ITALIA UNITA

IL GIAPPONISMO

ESOTISMO — EROTISMO

IL SOGNO

Rosaspina

MORIRE PER LA CAUSA

LA BELLE DAME SANS MERCI

Repin

Mazeppa

IL SENTIMENTO

LA BELLE ÉPOQUE

Statua della libertà

IL MITO DI DANTE

NATURA E INFINITO

Courbet

IL LAVORO

I ROMANTICI

IL VAPORE

LA PRIMAVERA DEI POPOLI

La libertà guida il popolo

Gericault Turner Carroponte

Foyer

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LA CONFRATERNITA DEI PRERAFFAELLITI

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LA FUGA DALLA REALTÀ

Carrà e Boccioni

Rosaspina

L’ITALIA UNITA

IL GIAPPONISMO

ESOTISMO — EROTISMO

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Il quarto stato MORIRE PER LA CAUSA

LA BELLE DAME SANS MERCI

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IL SENTIMENTO

LA BELLE ÉPOQUE

Statua della libertà

IL LAVORO NATURA E INFINITO

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LA PRIMAVERA DEI POPOLI

I ROMANTICI

IL MITO DI DANTE

La libertà guida il popolo

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LA POLITICA

’accesso principale al museo è sulla facciata della stazione, laddove una serie di grandi porte vetrate si trova fra le due alte colonne che reggono i globi luminosi della modernità vantata. Si entra quindi in un atrio ricostruito con due scale laterali e un ascensore sopra i primi banchetti della libreria. Al piano superiore la libreria si articola in un vasto mezzanino che passa oltre la sala anche in quella parallela delle riparazioni. Lì, dall’alto del carroponte rimasto in posizione, si possono vedere i visitatori disperdersi fra le salette. Skira, che ha preso in gestione il tutto, ne è molto soddisfatto; si vendono bene, oltre i libri, anche alcuni taccuini e riproduzioni fedeli dei treni storici. Ma lasciamo alla voglia di spesa chi ne ha i mezzi e introduciamoci direttamente nel museo.

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ulla parete di fronte all’ingresso campeggia un enorme dipinto. È la Zattera della Medusa, 35 metri quadrati di pittura diventata scura con gli anni per via dell’uso troppo ambizioso del bitume di Giudea utilizzato come vernice finale. Questa piramide di carne umana, in parte marcia, in parte vibrante di speranza, fu dipinta in dimensione 491x716 centimetri da Théodore Géricault allora ventisettenne per stupire l’umanità parigina nel Salon del 1819. Ci mise otto mesi a realizzarlo, dal novembre ’18 al giugno ’19, durante i quali si recluse in silenziosa concentrazione facendosi portare i pasti dalla zia e i resti umani in decomposizione dall’ospedale. Ammise dinnanzi alla tela in evoluzione solo pochi intimi che usava come modelli vivi, fra i quali l’amico Delacroix, più giovane di lui, e che dipinse bello vecchio in primo piano, al doppio del vero,

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La zattera della Medusa

THÉODORE GÉRICAULT LA ZATTERA DELLA MEDUSA particolare, 1819, olio su tela, cm 491x716, Parigi, Musée du Louvre (pagina seguente, intero)

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PADIGLIONE DEI BINARI

PIERRE-NARCISSE GUÉRIN CLITENNESTRA CHE ESITA PRIMA DI COLPIRE AGAMENNONE 1817, olio su tela, cm 342x325, Parigi, Musée du Louvre

mentre regge un cadavere e siede sull’altro. Sull’ultima linea dell’orizzonte d’un mare in tempesta appare la nave della salvezza. Un mondo se ne va, un altro arriva. Il dipinto fece clamore a tal punto che l’anno successivo fu esposto a Londra. Certo a molti non piacque affatto. Perché lo abbiamo posto all’ingresso del museo? Non tanto per stupire il visitatore che è appena entrato, ma invece per una serie di motivi di alto valore informativo. È questo il primo dipinto manifesto della rivoluzione romantica nella pittura francese. Basta a questo proposito guardare la fotografia del dipinto coevo di Guérin riprodotto nella scheda grafica appesa accanto, quello che raffigura Clitennestra che esita prima di colpire Agamennone, per capire la questione: Guérin è ancora tutto neoclassico e il suo soggetto è la citazione letteraria d’una storia nota quanto lontana. Il quadrone di Géricault racconta all’opposto un fatto di cronaca che ha duramente colpito lo spirito di grandeur della Francia appena restaurata con l’ascesa al trono del fratello minore di Luigi XVI il ghigliottinato, Luigi XVIII. Negli accordi con l’Inghilterra dopo

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LA POLITICA

la fine dell’epopea napoleonica e in conseguenza del Congresso di Vienna era stata decisa la restituzione del Senegal alla Francia. In pompa magna era stata mandata una flottiglia con giglio a riprendere possesso dell’isola di Saint-Louis, tre navi in tutto con ambascerie, mogli e servi. Una delle tre navi, comandata da un nobile in disarmo tornato in auge, perde la rotta, si arena e succede la catastrofe: centocinquanta morti, fra i quali i poveri diavoli che non avevano trovato posto sulle scialuppe e s’erano quindi arrangiati con la costruzione d’una zattera rudimentale. Erano rimasti a morire di fame e sete per due settimane finché non furono avvistati da un’altra delle tre navi. Sopravvissero in tredici. Scandalo. Forse portava iella il nome della loro nave, la Medusa. Trattasi quindi anche di un quadro politico, e forse critico. Senza dubbio si trattò d’un lavoro dove il realismo riprende il sopravvento sulle estetiche d’Accademia. Secondo la tradizione l’Accademia in Francia svolge un ruolo centrale nei rapporti fra potere politico e creatività. Nasce su istigazione di Mazzarino nel cuore del Seicento quando l’astuto cardinale replica per una Francia ancora in divenire il modello barocco e papalino dell’Accademia romana di San Luca, in quel fatidico 1648 nel quale si colloca pure il Trattato di Westfalia che chiude la Guerra dei trent’anni, che traccia le nuove frontiere d’Europa, e nel quale l’Olanda puritana chiude la Guerra degli ottant’anni e diventa finalmente indipendente. La Francia inizia il percorso della sua assoluta grandeur che la porterà al Re Sole, e l’arte è parte integrante del progetto politico. L’Accademia si fa struttura come quella letteraria e quella delle scienze, ordina la gerarchia dei generi, con in cima la pittura storica, poi la ritrattistica, sotto ancora la pittura di genere, e all’ultimo scalino il paesaggio e la natura morta, secondo un parametro decrescente del talento necessario e della creatività. Solo i pittori di storia hanno il privilegio di diventare “ufficiali” dell’Accademia. La prima mostra avviene nel 1667 al Palais Royal, sotto l’occhio interessato e benevolo di Luigi XIV, il quale proteggeva le arti sia per vanagloria sia per interesse economico, in quanto stava la Francia d’allora vendendo arazzi dei Gobelins e mobili dei Boulle al mondo intero. Le mostre saranno biennali, con talune interruzioni, ma continueranno nei secoli successivi a sancire l’accettazione

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PADIGLIONE DEI BINARI

delle opere da parte di potere e pubblico. È facilmente comprensibile che un simile sistema di accorpamento delle arti potesse avvenire solo in un paese fortemente centralizzato, e in realtà quando Parigi diventa il motore unico della politica francese, cioè dopo la Rivoluzione, i salon diventano il centro della creatività, a parere dei loro protagonisti, mondiale. Il miracolo parigino del XIX secolo consiste nel fatto che attorno all’Accademia si coagulano gli interessi dei letterati e dei musicisti, facendone un ganglio d’una società che si riconosce quotidianamente nel dibattito artistico. Théophile Gautier e Charles Baudelaire ne saranno i critici massimi.

La libertà guida il popolo

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a rivoluzione del 1830 nasce dalla cocciutaggine di Carlo X, l’ultimo dei fratellini del decapitato Luigi XVI a salire sul trono di Francia, quando muore Luigi XVIII nel 1824. Sostenuto dal partito degli ultra (ultramonarchici assolutisti) si scontra con i liberali e con l’Assemblea dei deputati dove questi hanno conquistato la maggioranza. Il re scioglie le Camere e sospende la libertà di stampa, d’una stampa articolatissima che nella Parigi d’allora formava e guidava giorno per giorno l’opinione pubblica. La ribellione è immediata, prima fra i giornalisti, poi fra i deputati e dal 27 luglio in poi nel popolo che s’innalza in una vasta insurrezione capace in poco meno di due giorni di cacciare l’esercito lealista. Il 29 luglio trionfano e s’instaura la prima monarchia costituzionale di Francia, quella del cugino Luigi Filippo d’Orléans, che d’ora in poi non sarà più re di Francia ma dei francesi, i quali a loro volta godono del primo autentico governo borghese dove i beni pubblici non saranno più della corona ma del Patrimoine National. L’esercito non ce la fece allora a controllare la piazza perché era parzialmente impegnato a tenere sotto controllo una Normandia in rivolta di carestia, ma soprattutto perché si trovava in gran parte in Algeria, che era stata conquistata ai primi di luglio. La Francia era diventata borghese e coloniale. Il Patrimoine National segna il primo intervento pubblico d’Europa sui beni culturali; se ne occupano il rivoluzionario ministro Adolphe Thiers e il giovane scrittore Prosper Mérimée. Delacroix racconta l’evento con un dipinto di grandi dimensioni che diventa nei secoli successivi una icona mondiale

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LA POLITICA

della libertà dei popoli. Era più sua intenzione successiva ai fatti che autentico spirito rivoluzionario, in quanto era egli stesso assai tiepido d’intenti e, da protagonista dei salon, assai incline alla simpatia per ogni governo costituito. Sosteneva d’avere attraversato gli eventi da simple promeneur, da normale passeggiatore. Da sei anni Géricault è morto, trentaduenne e forse di sifilide, ed è diventato l’eroe romantico per eccellenza. Delacroix è allora considerato il capofila dei romantici e il dipinto ha tutti gli assunti dell’antiaccademismo. Recupera la tematica della Zattera con la piramide di esseri morti e vitalissimi in contrasto. Il gesto vigoroso e convinto delle pennellate è travolgente. I dettagli sono spesso resi con geniale realismo e con un solo colpo di colore, anche se questo realismo ha un non so che di improbabile, ancor più che nella Zattera, quando i morti sono nudi, ma con le

EUGÈNE DELACROIX IL 28 LUGLIO: LA LIBERTÀ GUIDA IL POPOLO 1831, olio su tela, cm 260x325, Parigi, Musée du Louvre (pagina seguente, particolare)

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LA POLITICA

calze, trucco forse necessario a evitare di mettere in primo piano le unghie dei piedi che tanto piacevano al Caravaggio. I colori dominanti sono ovviamente il rosso, il bianco e il blu. L’opera viene realizzata in due mesi sul finire dell’anno della rivoluzione e presentata al pubblico l’anno successivo. Non piace a tutti, soprattutto a chi preferisce alla versione popolare e proletaria quella borghese della rivolta. Il “Journal des artistes” dell’8 maggio 1831 scriveva: “Il signor Delacroix ha dipinto la nostra bella rivoluzione col fango”. Ha vinto però Delacroix: il re costituzionale gli acquistò il dipinto per la bella somma di 3000 franchi oro e fu esposto successivamente, sotto il Secondo impero di Napoleone III, alla Esposizione Universale parigina del 1855, che succedeva a quella inglese del Crystal Palace del 1851. Da questo dipinto tutti hanno tratto qualcosa: la Francia la sua identità repubblicana riprodotta in milioni di francobolli e di biglietti di banca, Victor Hugo l’immagine di Gavroche, il monello parigino dei Misérables che nasce nel 1820 e muore nella rivolta repubblicana fallita del 1832, a riprova che il secolo parigino è costantemente rivoluzionario, il cinema l’idea visiva della barricata, il femminismo la prima donna alla guida della rivolta, l’America il prototipo della Statua della Libertà.

Pagina 59: JEAN-JACQUES GRANDVILLE I ROMANI IMPAZZISCONO ALLA PRIMA DELL’ERNANI 1830, litografia, cm 25x18, Parigi, Casa Museo di Victor Hugo

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N.B. PER I PETTEGOLI DELLE LETTERE La rivoluzione del 1830 avviene per una vasta sommatoria di motivi che portano la Francia, ma soprattutto Parigi, a uscire dalla claudicante Restaurazione e a diventare finalmente quella nazione che il sogno napoleonico aveva preconizzato. Ma essendo soprattutto fenomeno parigino, il mondo degli intellettuali, degli scrittori, degli artisti e dei musicisti vi gioca un ruolo centrale. Nella prima rivoluzione del 1789 gli artisti e gli intellettuali ebbero un ruolo assai marginale. Ci provò quel poveretto di André Chénier, giornalista e poeta, ma fu ghigliottinato dopo il Terrore del 1793, il 7 Thermidor (25 luglio) del 1794, con l’altro poeta Jean-Antoine Roucher, sfortunato scrittore, in quanto tre giorni dopo la lama tagliava la testa anche a Robespierre e il Terrore si chiudeva. Più fortuna ebbe il grande David, che giaceva in galera in attesa del patibolo: la scomparsa di Robespierre salvò a lui la testa e a noi una delle pagine più gloriose della storia dell’arte. Sotto la Restaurazione la questione cambia radicalmente e per quanto il governo fosse forte e dispotico (a dir il vero ben più quello di Carlo X di quello di Luigi XVIII), la libertà di stampa e d’opinione era ormai valore acquisito. Le giovani generazioni, quelle che avevano nella loro infanzia vissuto l’epos imperiale, erano in costante subbuglio, politico e intellettuale. Erano nemici del passato, erano assoluti antagonisti dell’accademismo che in Francia è fratello imperituro dello spirito di grandeur. Ogni potere genera il suo; ben lo insegnò Luigi il Grande, ben lo capì Napoleone Bonaparte. E all’opposto l’immaginazione spinge sempre alla conquista del potere: particolarità gallica. Fatto sta che nel 1830 Victor Hugo aveva ventotto anni. Aveva da tre anni pubblicato una prefazione al suo dramma Cromwell, la quale aveva destato ben più attenzione della scena stessa. Sosteneva egli che la vecchia unità di tempo, luogo e azione, che pareva essere di discendenza greca ma aveva trovato il suo apice nel secolo grande di Corneille e Racine, era roba da rottamare, in quanto il dramma tale poteva essere solo se combinava il sublime e il grottesco. Seguiva le orme di quella bizzarra protomaoista in salotto svizzero che fu Mme de Staël, detestata da Napoleone che appena cinta la corona si sentì classico e accademico. Sosteneva la nobildonna letterata che il teatro di Francia era obsoleto, mentre quello di Germania aveva inteso il senso di modernità che avrebbe conquistato il mondo postrivoluzionario parlando al popolo e per il popolo. La nota Querelle des Anciens et des Modernes che infuocò il Seicento stava trovando nuova linfa, borghese. Il testo di

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Hugo “irritò gli anziani, fu amato dai suoi coetanei, adorato dai suoi cadetti”. Parigi aveva allora una quantità infinita di teatri, dovuta alla liberalizzazione dell’impresariato sin dal 1791, ma tre erano i teatri della sanzione, quelli ufficialmente sostenuti con danaro pubblico (se ne ricordino i nostri politici attuali quando pensano a tagliare i fondi), l’Opéra, l’Odéon e il Théâtre Français. Al giovane scrittore viene offerta l’opportunità di uscire dalla sperimentazione privata e di approdare al tempio del Théâtre Français, 1550 posti, dove si celebravano le glorie storiche da Corneille a Marivaux e talvolta pure Voltaire. Il teatro, noto per la noia che trasmetteva a una sala solitamente vuota, era condotto da un commissario governativo filoromantico, il barone Isidore Taylor, che vedeva Hugo di buon occhio e su di lui scommise per attirare un pubblico nuovo. Situazione non facile in quanto i produttori di drammi “alla classica” avevano addirittura spedito una petizione al re per impedire che nel loro tempio vuoto entrassero gli intollerabili blasfemi romantici. Il re non diede retta: la strada per Hugo era aperta. Hugo scrive immediatamente una prima pièce dove Luigi XIII appare meno intelligente del suo buffone, e ovviamente la censura lo blocca. Si rimette al lavoro con Ernani, che la commissione di censura ingoiò come un rospo, non potendo frustrare due volte uno stesso autore che allora competeva con Dumas e Vigny appena andati in scena. La stampa è già all’erta e vigila. E intanto era al governo il principe di Polignac, così di destra che Chateaubriand aveva dato le dimissioni di ambasciatore a Roma. Tutto pronto per il fermento. Hugo dà lettura del testo a sessanta amici, entusiasti. Quindi il testo viene affidato alla compagnia stabile del teatro. E nascono le prime questioni. Allora il teatro era senza regia e ogni attore interpretava il ruolo a suo piacimento. Per giunta, essendo la compagnia stabile, storica e al soldo della corona, ogni attore decideva il ruolo da interpretare, sicché la parte della diciassettenne Doña Sol fu affidata alla cinquantunenne Mademoiselle Mars e quella del ventenne protagonista Ernani al quarantaseienne Firmin. Al teatro tradizionale, dove si andava ad ascoltare lunghi monologhi, la faccenda importava poco. Era invece essenziale per lo spirito romantico realista di Hugo, il quale aveva pure la mania innovativa di seguire le prove e di condurre gli attori. Si ribellò l’anziana attrice quando si trovò costretta a dire a Ernani: “Voi siete il mio leone, superbo e generoso”, considerando più conveniente dirgli: “Voi siete, monsignore, valente e generoso”. Era intollerabile per lei la metafora giovanilista e ani-

malista vietata dal teatro classico. Il dibattito aveva subìto fughe di notizie sulla stampa come un’indagine processuale nell’Italia d’oggi. Tutti erano al corrente della tremenda mutazione di “venire a rapire con la forza una donna di notte” in “prendere d’assalto le donne da dietro”. Hugo, a sua volta, non era ben visto dal governo ma anche mal digerito dai liberali per via delle sue passioni napoleoniche. Adolphe Thiers, il padrino dell’opposizione liberale, lo maltrattava sul suo giornale “Le National”. I posti per la prima rappresentazione, il 25 febbraio 1830, furono subito esauriti. Si pensava che sarebbe stata l’unica rappresentazione e conveniva assistere al fiasco. La claque, ovviamente ostile, fu licenziata e sostituita. Fu invece mobilitato l’esercito dei romantici, negli studi degli artisti, fra gli studenti, i musicisti e i giovani scrittori, tutti capelluti, goliardici, eccentrici. C’è Théophile Gautier con un gilet rosso che passerà alla storia. Non ha ancora diciannove anni. Con lui Gérard de Nerval, il poeta futuro amico di Liszt e di Balzac, che ne ha ventidue. Hector Berlioz non ne ha neanche ventisette e alla fine dell’anno esegue la Sinfonia fantastica che il pubblico abbottonato considererà intollerabile, ma che Liszt (sempre lui, quello che legge con entusiasmo romantico i Promessi sposi di Manzoni) accoglie con passione. Per non parlare del non ancora ventunenne poeta Petrus Borel, detto il licantropo per la sua barba nera, teorico del naturismo in appartamenti urbani. Il diritto di voto si acquisiva allora per censo e solo a trent’anni: erano quindi tutti minorenni e, come tali, opposti a un governo gerontocratico che consideravano costituito da ex emigrati tornati dall’esilio “senza avere né imparato né dimenticato nulla”. Scriverà più tardi Gautier: “Nell’armata romantica come nell’armata d’Italia tutti erano giovani. I soldati nell’insieme non avevano raggiunto la maggior età e il più vecchio della banda aveva ventotto anni. Era l’età di Bonaparte e di Victor Hugo a questa data”. Prima della rappresentazione, come prima di una battaglia, Hugo arringò la claque: “La battaglia che sta per ingaggiarsi nell’Ernani è quella delle idee, quella del progresso. È una lotta in comune. Andremo a combattere contro questa letteratura merlata, inchiavardata. Questo assedio è quello del vecchio mondo dinnanzi a quello nuovo, e noi siamo tutti per il nuovo mondo”. Le truppe partigiane erano pronte davanti alle porte del teatro sin dalle ore 13. La polizia aveva posto il divieto d’apertura prima delle 15 nella speranza di tafferugli da disperdere per impedire lo spettacolo. Dai balconi i vecchi impiegati gettavano spazzatura sui giovanotti e Balzac, neanche trentunenne, si prese in faccia un torsolo di cavolo. Entrarono nel buio alle tre del po-

meriggio avendo ancora quattro ore da aspettare e si misero ad aprire bottiglie e a mangiare. I bagni erano chiusi e alcuni di loro andarono a defecare e orinare nelle logge del quarto ordine di palchi. Hugo li osservava dal foro del sipario. Quando il pubblico entrò per una prima che doveva essere l’ultima, rimase stupito nel vedere l’esercito caotico. Nondimeno la rappresentazione fu un enorme successo, l’autore fu portato via in trionfo, e l’incasso superò i 5000 franchi mentre quello della rappresentazione, la sera prima, della Phèdre di Racine ne aveva portato solo 450. Il caos continuò nelle sere successive. Il barone Taylor aveva chiesto a Hugo di smettere di distribuire biglietti agli studenti e nondimeno tutte le serate furono piene, e sempre contestate, talvolta con ben centocinquanta interruzioni, una ogni dodici versi. Nel frattempo i teatri dei boulevard cominciavano a dare le parodie dell’Ernani. Tutta Parigi ne parlava; si diceva ormai “assurdo come l’Ernani”. Le rappresentazioni andarono avanti fino all’estate, quando la battaglia dal teatro passò alla Rivoluzione di luglio. I nuovi intellettuali avevano trionfato e per la prima volta erano diventati protagonisti della politica. Heinrich Heine, il poeta romantico filosocialista tedesco, aveva seguito in prima persona, non ancora trentatreenne, gli eventi di luglio; nel 1831 manda alla stampa tedesca il suo resoconto del Salon e parla del dipinto di Delacroix. Nello stesso anno 1831 approda a Parigi il patriota polacco ventenne Fryderyk Chopin. Chopin morirà a Parigi nel 1849, Heine sempre a Parigi nel 1856.

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La Libertà illumina il mondo

A destra: FRÉDÉRIC-AUGUSTE BARTHOLDI STATUA DELLA LIBERTÀ 1886, rame, ghisa, acciaio inox, altezza cm 460, New York Pagina a fianco: MILANO, DUOMO, BALCONE DELLA FACCIATA CAMILLO PACETTI LA LEGGE NUOVA 1810, marmo, altezza cm 185 ca, Milano, duomo, balcone della facciata LUIGI ACQUISTI LA LEGGE VECCHIA O MOSAICA 1810, marmo, altezza cm 185 ca, Milano, duomo, balcone della facciata

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uesta è senza dubbio alcuno la più nota statua del secolo XIX, anche se non necessariamente la più bella. Fu offerta dalla Francia agli Stati Uniti per celebrare i cent’anni della loro indipendenza nel 1876 e inaugurata dieci anni dopo dal presidente americano Cleveland. L’idea era venuta al professor Édouard de Laboulaye nel 1865 e il progetto scultoreo fu affidato ufficialmente a New York allo scultore Auguste Bartholdi nel 1871 che già ci lavorava da anni. Per la sua realizzazione fu chiamato a consulta l’ar-

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chitetto Eugène Viollet-le-Duc che suggerì l’uso del rame ribattuto. Alla morte di questi lo strutturista incaricato divenne l’ingegnere Gustave Eiffel, quello della futura torre. Insomma la Francia mobilitata per un regalo complicato, che avveniva dopo la caduta del Secondo impero in seguito alla vittoria prussiana a Sedan nel 1870, e con una America popolata allora da molti tedeschi che s’era come tale dichiarata simpatizzante, nel conflitto, della Prussia che diventava impero dei tedeschi. La Francia era agli inizi della Terza repubblica, quella che avrebbe sancito la Belle Époque, e siccome non era del tutto certo che la République avrebbe resistito alla pressione dei monarchici e dei filoimperiali, l’amicizia fra le due democrazie repubblicane maggiori, se non uniche nel mondo civile, sembrava di ottimo auspicio.

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Lo statuone misura 46 metri lui medesimo e s’innalza dalla base dello zoccolo alla torcia per 93 metri. Roba da fare invidia ai grandi e mitici colossi dell’antichità, in particolare quello di Rodi, che Bartholdi aveva già proposto in riedizione al pascià d’Egitto come faro e monumento da porre all’ingresso del canale di Suez. Suez era stato aperto nel 1867 ma inaugurato ufficialmente dall’imperatrice Eugénie nel 1869. Per l’occasione Isma’il Pascià, Khedivè d’Egitto, aveva preferito la Marcia egizia di Johann Strauss jr alla costosa scultura. Ben più interessava al Khedivè l’inaugurazione del teatro del Cairo per il quale commissionò a Giuseppe Verdi la composizione dell’Aida. Poi avvenne purtroppo la guerra franco-prussiana e Bartholdi, alsaziano, si trovò senza patria d’origine, poiché l’Alsazia Lorena fu ceduta alla Prussia, la Francia si trovò senza l’imperatore Napoleone III che finì prigioniero a Kassel, e la nuova opera del Cairo senza composizione completata. Inaugurò con una replica del Rigoletto. L’Aida vi fu messa in scena con clamore e successo solo alla vigilia del Natale del 1871. Bartholdi stava già lavorando alla scultura, dopo avere anche lui, da buon patriota, combattuto i tedeschi facendo da aiutante di campo a Garibaldi nell’unica battaglia vinta, quella di Digione, dove l’antico eroe dei due mondi sbaragliò gli ulani seduto nella carrozza in cui lo costringeva il dolore alle gambe. Due furono quindi quasi certamente gli incontri fra l’alsaziano di Parigi e il mondo italiano. La questione interessa per un motivo stilistico ben preciso. Quando Bartholdi riceve l’incarico è già uno scultore assai noto per i monumenti pubblici che ha realizzato e che spesso sono ritratti dei grandi delle storie locali. Sono tutte sculture che oggi definiremmo realiste. La Libertas è ovviamente una citazione romana antica, ma ciò non è sufficiente a giustificare un tradimento stilistico dalla verosimiglianza realista al neoclassicismo evidente delle sue forme. C’è quindi un’altra ragione da ricercare, che si ritrova nei rapporti che Bartholdi ha con il mondo italiano postunitario. Le similitudini con il monumento al poeta ottocentesco fiorentino morto nel 1861, Gianbattista Niccolini, in Santa Croce, il luogo della sindrome di Stendhal, è assai evidente. Ma lo scultore Pio Fedi era allora al lavoro e la sua scultura

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Libertà della Poesia non era ancora completata. Ben più evidente allora sarebbe la citazione del balcone nuovo del Duomo di Milano, come già segnalai vent’anni orsono. Sulla sinistra vi è la scultura della Legge nuova di Camillo Pacetti realizzata nel 1810, sulla destra la Legge vecchia di Luigi Acquisti, sua contemporanea. La Legge nuova regge la fiaccola della Fede e la Croce, quella antica le Tavole mosaiche. Se si sommano le due statue ne viene fuori automaticamente come per incanto la Statua della Libertà. D’altronde era assai comprensibile che un patriota francese ritrovasse le sue origini nella Milano ancora francese e retta dal Beauharnais. E in fondo La Libertà illumina il mondo non è altro che la nuova e romantica versione della Legge nuova combinata con quella antica ebraica, a New York. Ebbe fortuna immediata la statua. C’era da aspettarselo. E infatti la ditta parigina Gaget, Gauthier & Cie ne fece una immediata edizione in dimensione piccola, di 20 centimetri d’altezza, per finanziare, si dice, l’impresa. Gli americani pronunciarono il marchio iscritto in base al loro accento e nacque la parola gadget.

Pagina 65: JOSEPH KARL STIELER JOHANN WOLFGANG VON GOETHE 1828, olio su tela, cm 78x63,8, Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Neue Pinakothek

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N.B. PER I GHIOTTI DEL PENSIERO Goethe, nel luglio del 1789, proprio mentre a Parigi i sanculotti stanno assaltando la Bastiglia e sta per cambiare il mondo, sta terminando la sua pièce teatrale intitolata Torquato Tasso. Non c’è ovviamente nessun rapporto fra un fatto e l’altro se non con il senno di poi che la fantasia interpretativa della storia ci consente. Tasso sta diventando matto o si ritaglia uno spazio di libertà dal potere del duca d’Este nei fumi della follia? La risposta non ci viene data, ma le indicazioni di programma sono ben chiare. Lui dichiara al duca: “Un signore, io riconosco solo un signore che mi nutre, a questo ubbidisco volentieri, altrimenti non voglio un padrone. Voglio essere libero nel pensiero e nel poetare. Il mondo ci rinchiude già abbastanza nelle trattative”. Dichiarazione di libertà, esistenziale e creativa. Più avanti precisa: “È permesso ciò che piace”. Dichiarazione d’indipendenza da ogni morale prestabilita. E poi ragiona il folle: “L’uomo si riconosce solo nell’uomo, solo la vita insegna a ognuno chi egli stesso è”. Dichiarazione d’indipendenza. È ovvio, Torquato Tasso per Goethe è tutt’altro che pazzo. È in realtà il prototipo del nuovo uomo romantico. Ci vogliono poi venti anni circa a Goethe per la prima edizione del Faust. Anche i geni sono lenti. È in realtà lì che l’uomo romantico, il Faust, prende coscienza e capisce che l’illusione illuminista scricchiola: “A questo punto ahimè! Ho studiato la filosofia, il diritto e la medicina, e purtroppo anche la teologia. Ho studiato a fondo, con caldo impegno. E qui sto, io povero cocciuto, che la so lunga come prima”. E allora rimane solo la possibilità del patto con quello che lui chiama il povero diavolo e che si metterà a “sua” disposizione. Finisce col promettergli l’anima se si verificasse l’impossibile situazione: “Il giorno che dirò per un istante ‘perdura dunque, che è così bello’, allora mi potrai legare nei tuoi lacci, allora sarò pronto a sprofondare. Allora potrà suonare la campana della morte, allora sarai tu libero dal tuo servizio, l’orologio potrà fermarsi, la lancetta cadere. Il tempo per me sarà passato”. Quindi l’unica soluzione all’inutilità del sapere sta nella scoperta della bellezza. Eppure Goethe passa per essere un illuminista, ma un illuminista tedesco è roba particolare e non riesce a esimersi d’essere metafisico, come ben aveva già indicato Leibniz con la sua tesi della monadologia, cioè della monade unica che costituisce l’identità dell’individuo e che talvolta si apre agli altri, attraverso ovviamente il sentimento. E anche il grande Kant va visto sotto un’ottica diversa se si legge quel bizzarro scambio di articoli che apparve fra il 1783 e l’84 sul mensile di Berlino “Berlinische Monatsschrift” a proposito d’un tema assolutamente insospettabile per la severa Prussia d’allora, anche se

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plausibile dopo il laicismo di Federico II. Nel dicembre dell’83 era apparso un articolo a firma del pastore protestante Johann Friedrich Zöllner dal titolo assai curioso È consigliabile che il legame matrimoniale non sia più d’ora in poi sancito dalla religione? Domanda d’avanguardia per quell’epoca. In una nota a piè di pagina, il pastore chiedeva: “Ma che cos’è l’illuminismo?”. Domanda provocatoria, in quanto di illuminismo da tempo si parlava senza mai averne dato una definizione, un po’ come nella commedia di Molière Il borghese gentiluomo quando il signor Jourdain chiede che cos’è la prosa e gli si risponde che è quella che lui usa parlando. Proveniva la questione posta dal pastore in seguito a un trafiletto già apparso prima e firmato misteriosamente E.v.K. dove il tema era il seguente: “Proposta per non disturbare più i sacerdoti con la celebrazione dei matrimoni”. E così si palesò nelle lontane terre del Brandeburgo il dibattito sull’illuminismo. Nel settembre dell’84 viene data una prima risposta dal filosofo Moses Mendelssohn, che essendo di religione ebraica, aveva la sua tesi sui matrimoni con il rabbi. E poi a dicembre risponde l’Emanuele Kant, testa fine, alla domanda precisa della nota: “L’illuminismo è l’uscita dell’uomo da una sua incapacità d’espressione, della quale è lui l’unico colpevole. L’incapacità d’espressione è la mancanza di mezzi nel servire la propria ragione senza la guida d’un altro. Questa incapacità d’espressione è colpa personale quando la sua origine non dipende da una mancanza di ragione, ma dalla decisione e dalla determinazione di non muoversi senza la guida d’un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servire la tua stessa ragione! Questa è la parola d’ordine dell’illuminismo”. In questo piccolo dibattito ecclesiale sta la sanzione dell’individualismo e la radice del romanticismo, quindi della modernità. E così, dopo il sottile dibattito ecclesiale, Leporello, nel Don Giovanni, pochi anni dopo potrà allegramente cantare: “No! Non voglio più servir, no, no, no, no!”. Questo è il motivo per il quale Faust nel patto fatale non si affiderà a Mefistofele, non si asservisce, ma prenderà il diavolo a suo servizio. Novalis, quel genio assoluto dell’anticipazione poetica, agli albori del secolo nuovo riflette: “Il mondo deve essere romanticizzato. Così si ritrova il senso originario. Romanticizzare non è altro che un potenziamento qualitativo. L’io profondo viene identificato in questa operazione con un io migliore. Così come siamo noi stessi un analogo schieramento potenziale. Questa operazione è ancora del tutto ignota. Nel dare al comune un senso elevato, all’abituale una visione misteriosa, al noto la forza dell’ignoto, al finito un bagliore d’infinito, in ciò

romanticizzo. E all’opposto avviene l’operazione del più alto, dell’ignoto, del mistico, dell’infinito – tutto ciò viene reso logaritmico da questo annodamento – che si fa lingua parlata. Filosofia romantica. Lingua romana. Innalzamento dello scambio e abbassamento”. Tutto avviene nella testa e nel sentimento del pensatore romantico. Per questo motivo il mio mentore Kiko Gerli

sostiene talvolta che il filosofo tedesco è particolarmente pericoloso in quanto cerca nella propria testa ciò che nella testa c’è già; rifiuta di guardare fuori dalla finestra, il che era la prassi vera del filosofo greco, suo predecessore. Ma il greco, si sa, non era ancora romantico.

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I romantici

WILLIAM TURNER AUTORITRATTO 1799 ca, olio su tela, cm 74,3x58,5, Londra, Tate Britain

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l romanticismo nasce teoricamente ed esistenzialmente in Germania. Aveva ragione la signora de Staël. Nasce visivamente forse in Inghilterra, sotto i colpetti di pennello del giovane Turner. Il suo ritratto, appeso sulla parete a sinistra entrando, è del 1799, quindi corrisponde agli anni del dramma di Goethe e dei pensieri di Novalis. Ritroveremo un suo paesaggio perfettamente romantico del 1796, appeso nella saletta dei paesaggi. Ma lui qui inaugura una galleria di ritratti che non necessita di molti commenti, se non quelli affidati al vostro occhio attento. Certo Goethe è già ben adulto e sa di essere il principe degli scrittori, e continua a credere di passare alla storia per le sue ricerche sull’estetica e i colori, quando nel 1810 stabilisce l’influenza dei vari toni cromatici sulla sensibilità poetica della mente, sostenendo che i colori non sono solo

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un fenomeno fisico. Lo abbiamo posto accanto a Beethoven, è evidente, a un Beethoven ancora giovane e anarchico. Li guarda da lontano, ancora settecentesco e sconsolato, Vittorio Alfieri, come guardò la presa della Bastiglia quando si trovava a Parigi e scrisse l’ode A Parigi sbastigliato, testo che rinnegò immediatamente come ogni ipotesi rivoluzionaria. Ma non fu privo di capacità rivoluzionaria nei suoi testi teatrali dove l’influenza del melodramma italiano stava già scardinando l’ordine costituito della classicità, e i temi che lo resero famoso sono spesso imperniati sull’affermazione dell’individuo sulla tirannide. Appesi a debita distanza, troverete i quattro protagonisti già citati del 1830: Berlioz, Heine, Chopin e Delacroix. Hugo e Gautier non sono appesi in questa galleria, per quanto il primo fosse ottimo acquarellista, misterioso e feroce oppositore della dittatura di Napoleone III, e il secondo il padre incontrastato della critica d’arte moderna, ma si fecero entrambi fare pochi ritratti, per pudore o forse per vanità. Preferivano le fotografie. A pelo corto in una situazione totalmente scozzese, Walter Scott scozzese ritratto serissimo dal migliore degli scozzesi, Henry Raeburn, con una qualità pittorica che già è totalmente antiaccademica nel 1822. Sono invece tutti con i capelli al vento, sotto a un cielo tormentato, Foscolo, il cosmopolita nato in Grecia veneziana, amante di contesse a Milano e morto a Londra, a differenza del suo parallelo Leopardi sempre di sabato nel villaggio a guardare oltre l’ermo colle; lo è Manzoni, l’aristocratico ironico, il meglio della Lombardia libertaria ed erede dello spirito, quello sì illuminista, del nonno Beccaria. Lo è quell’altro cosmopolita aristocratico di Chateaubriand. Poi i due nobili patiti di politica nuova, lord Byron che corre a liberare la Grecia dai turchi, e il nobiluomo Lamartine che abolirà i titoli di nobiltà quando andrà a guidare il governo della Seconda repubblica dopo i fatti del 1848. Infine, quasi a concludere il secolo, i due suoi maggiori musicisti: Richard Wagner ancora giovane, qualche anno prima che partecipasse anche lui ai moti del 1849 a fianco di Bakunin a Dresda e fuggisse in giro per l’Europa, e Giuseppe Verdi bello vecchio quand’è senatore del regno dell’Italia unita, alla quale ha contribuito con la passione della fede risorgimentale e con il vigore della bacchetta da direttore. Il Secolo Lungo è un secolo nel quale l’intellettuale e l’artista sono protagonisti della politica.

Doppia pagina seguente: 1. Joseph Karl Stieler, Johann Wolfgang von Goethe, 1828, olio su tela, cm 78x63,8, Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Neue Pinakothek 2. Joseph Karl Stieler, Ludwig van Beethoven, 1820, olio su tela, cm 72x58,5, Bonn, Beethoven Haus 3. François-Xavier Fabre, Vittorio Alfieri, 1797, olio su tela, cm 105x83, Asti, Fondazione Centro Studi Alfieriani 4. Anne-Louis Girodet de Roussy-Trioson, François-René de Chateaubriand, 1808, olio su tela, cm 130x96, Saint-Malo, Musée de Saint-Malo 5. Giuseppe Molteni, Alessandro Manzoni, 1835, olio su tela, cm 100x76, Milano, Pinacoteca di Brera 6. François-Xavier Fabre, Ugo Foscolo, 1813 ca, olio su tela, cm 71x55, Firenze, Biblioteca Nazionale 7. Sir Henry Raeburn, Sir Walter Scott, 1822, olio su tela, cm 76,2x63,5, Edimburgo, Scottish National Portrait Gallery 8. Émile Signol, Hector Berlioz, 1832, olio su tela, cm 47x37, Roma, Villa Medici, Accademia di Francia 9. Eugène Delacroix, Autoritratto, 1837, olio su tela, cm 65x54, Parigi, Musée du Louvre 10. Thomas Phillips, Ritratto di George Gordon Byron, 1813, olio su tela, cm 91x71, Collezione privata 11. Henri Decaisne, Alphonse de Lamartine e i suoi piccoli levrieri italiani, 1839, olio su tela, cm 220x145, Mâcon, Musée Lamartine 12. William Turner, Autoritratto, 1799 ca, olio su tela, cm 74,3x58,5, Londra, Tate Britain 13. Eugène Delacroix, Fryderyk Chopin, 1838 ca, olio su tela, cm 46x38, Parigi, Musée du Louvre 14. Moritz Daniel Oppenheim, Heinrich Heine, 1831, olio su carta applicata su tela, cm 43x34, Amburgo, Kunsthalle 15. Ernst August Becker, Richard Wagner, 1843, olio su tela, cm 75x63, Collezione privata 16. Giovanni Boldini, Giuseppe Verdi, 1886, pastello su carta, cm 65x45, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna

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Morire per la causa ra stato permesso poche volte, e solo in senso ironico, che l’artista prendesse la parte del perdente nella storia. I pittori del Seicento e del Settecento dipingevano talvolta dei poveri da mettere nelle cucine dei ricchi per aumentare il loro buonumore. Anche le Wunderkammer tedesche conservavano eleganti statuette di bosso e avorio che ricordavano i miserabili in cenci della Guerra dei trent’anni. Solo quel genio di Jacques Callot aveva illustrato i disastri della guerra prima della presa di coscienza dei romantici. Con Goya la questione cambia radicalmente: i fucilati del 3 maggio 1808, dipinti nel 1814, sono una testimonianza della crudeltà della guerra che egli riprende e declina in decine di incisioni. E formidabile, in senso etimologico, è lo sguardo del disperato in attesa delle fucilate, la disperazione di chi gli sta intorno, frate compreso. E crude sono le figure dei già giustiziati in prima linea con il senso realista tutto ispanico della pozza di sangue nella quale giacciono, uno di loro con addirittura il colpo di grazia in fronte e ovviamente in primo piano per lo spettatore. Si tratta della feroce repressione delle truppe napoleoniche contro il sollevamento popolare e contadino di Madrid. È interessante notare quanto il dipinto abbia poi ispirato gli stessi francesi. Manet, costantemente ispirato da una Spagna che all’inizio neppure conosce, lo replicherà quando raffigurerà la fucila-

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FRANCISCO GOYA 3 MAGGIO 1808 (LA FUCILAZIONE) 1814, olio su tela, cm 268x347, Madrid, Museo del Prado

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ÉDOUARD MANET L’ESECUZIONE DI MASSIMILIANO 1867, olio su tela, cm 252x305, Mannheim, Städtische Kunsthalle

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zione di quel povero disperato della politica internazionale che fu Massimiliano, fratello minore di Francesco Giuseppe imperatore d’Austria, mandato per conto della Francia a fare da imperatore in Messico. L’imperatore d’Austria era felice di togliersi il fratellino dai piedi in quanto lo reputava, come viceré del Lombardo-Veneto, corresponsabile della disfatta austriaca in Italia e probabile suo concorrente su un trono al quale molti sudditi lo avrebbero visto, per buona sua fama, volentieri ascendere. La faccenda ovviamente finì male: dal bel castello di Miramare, dove stava come un ragno, s’imbarcò a Trieste e fu mandato nelle Americhe nel 1864; mal visto dagli Stati Uniti che non gradivano il naso francese negli affari caraibici e la crescita d’una potenza vicina al loro Texas, fu fucilato dai rivoluzionari tre anni dopo. Victor Hugo e Garibaldi tentarono invano di salvargli

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la pelle, ma Juárez fece orecchio da mercante. Franz Liszt gli scrisse immediatamente una marcia funebre. Un eroe romantico che aveva sbagliato strada e che i milanesi avevano amato dopo la dipartita di quel boia di Radetzky. Abbiamo posto accanto a questi due quadri un’opera di Picasso che potrebbe sembrare fuori contesto. È un dipinto del 1951 che raffigura le fucilazioni in Corea. È invece qui a dimostrare che la sensibilità del Secolo Lungo ha continuato a vivere fin nel cuore del secolo delle catastrofi.

Courbet è l’altro, l’imprevisto. Nel 1830 Stendhal pubblica a Parigi il suo secondo romanzo, Il rosso e il nero, dove il protagonista, Julien Sorel, figlio del proprietario d’una piccola segheria, proviene da un minuscolo paesino del Doubs, recente dipartimento di ciò che una volta era il Giura, una regione agricola persa fra le colline prima della Svizzera. Si scopre per la prima volta la differenza fra Parigi e la vita delle lontane province. Il romanzo è considerato la prima vera opera realista della letteratura francese. Il primo testo realista è quindi contemporaneo alla rivoluzione romantica e da essa si discosta nella forma espressiva ma certamente non nella densità esistenziale. Nel 1840 viene dal Doubs anche il giovane figlio d’un piccolo proprietario agricolo, Gustave Courbet, che inizia una buona carriera pittorica e si fa notare ai salon dove riesce a esporre; frequenta la bohème che allora pulsa sotto la monarchia borghe-

PABLO PICASSO MASSACRO IN COREA 1951, olio su tavola, cm 110x210, Parigi, Musée Picasso

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se, si forma idee originali e crude, entra nel circolo fumoso dei realisti in fase di elaborazione alternativa al gruppo romantico dei Delacroix e dei Berlioz, che reputano che la dialettica sia solo fra romantici e accademici, ma già che c’è, questi eroi della scena parigina se li ritrae. Poi, durante la Rivoluzione del 1848, prende una posizione ancora più radicale, vicina al pensiero socialista di Proudhon, tenta di esporre al Salon del 1849, se ne va in viaggio e torna nel suo Doubs, a Ornans, dove si mette a dipingere nel solaio di casa dipinti più grandi della stessa soffitta. La tela qui esposta, tanto grande da dover essere piegata, allestita senza la distanza prospettica dei comodi studi parigini, viene presentata con scalpore al Salon del 1850-51. Ecco la genesi del Funerale a Ornans. La questione del 1848 europeo e

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parigino verrà spiegata nella stanzetta alla quale si accede dietro al dipinto. Qui ci preme parlare del dipinto stesso. Più brutti di così non potrebbero essere i personaggi: i buoni borghesi che li videro esposti sostenevano che se ne sentiva l’odore. Sono tutti personaggi che hanno posato per lui, a casa sua, in questa cittadina di quattromila abitanti. Separati gli uomini dalle donne, i laici dal clero locale, con i due sagrestani in rosso che sembrano tipi da Quattrocento italiano, e dove uno di loro ha un naso bitorzoluto come quello di certi anziani del Ghirlandaio. Una rappresentazione esatta del popolo di Francia, nella mestizia perenne della provincia profonda. Uno choc per lo chic dominante d’una Parigi che aveva già optato per passare dalla repubblica al Secondo impero. Una feroce dichiarazione politica. Questo

GUSTAVE COURBET FUNERALE A ORNANS 1849-1850, olio su tela, cm 315x668, Parigi, Musée d’Orsay (sopra, particolare)

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quadro merita una lunga meditazione e suggeriamo al pubblico di sedersi a uno dei tavolini e di chiedere in prestito da leggere (il bookshop preferisce ovviamente l’acquisto) l’ottimo lavoro di Timothy J. Clark Immagine del popolo. Gustave Courbet e la rivoluzione del ’48. La grande sala della stazione, dove una volta si fermavano i treni su dieci binari paralleli, è lunga ben 200 metri e larga 80. I grandi lucernari sono stati conservati perché si reputava che l’illuminazione naturale corrispondesse meglio alla esegesi storica. L’integrazione con un ottimo sistema elettrico consente di farne perdurare la sensazione anche di notte. Nel vasto spazio fra le pareti sono stati posti quaranta tavolini tondi ottocenteschi in ghisa e marmo, ognuno con tre sedie storiche di Thonet, quella semplice che è diventata icona. Il che consente al pubblico di sedersi, meditare e scambiare le opinioni con gli amici. I tavolini possono essere facilmente tolti in occasione delle feste. Che cosa potrebbe contrastare di più con il Funerale a Ornans e suscitare nel visitatore uno scatto di curiosità creativa, se non il grande dipinto di Repin, successivo di cinquant’anni, dove il realismo diventa lingua retorica? Dipinto con virtuosismo, rappresenta la Seduta cerimoniale del consiglio di Stato in una Russia zarista che inizia a misurare il peso politico d’una borghesia in crescita, quella che tenterà di affermare la sua supremazia nella rivoluzione del 1905, come si vedrà più avanti da un altro dipinto dello stesso autore (p. 135). Ben visto dal governo, ebbe egli l’incarico di eseguire l’enorme primo dipinto (4x9 metri IL’JA EFIMOVICˇ REPIN SEDUTA CERIMONIALE DEL CONSIGLIO DI STATO IL 7 MAGGIO 1901, NEL CENTENARIO DELLA SUA FONDAZIONE 1901, olio su tela, cm 405x885, San Pietroburgo, Museo Statale Russo

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circa) nel 1895, in vista del centenario del Consiglio che si celebrava nel 1901. Fu invece censurato il suo dipinto esaltante i fatti del 1905, nel quale appare una società urbana di San Pietroburgo già evoluta secondo parametri identici alle altre nazioni europee, il che spiega meglio sia gli acquisti d’arte che in quegli anni facevano i due collezionisti Morozov e Sˇˇcukin, sia la formazione a San Pietroburgo appunto di quella scuola di musica e teatro che avrebbe conquistato Parigi a partire dagli anni ’10 del XX secolo. Vicino al quadro di Repin abbiamo collocato un piccolo dipinto di Honoré Daumier, in versione chiaroscura alla Piazzetta, che raffigura due avvocati a colloquio. È fortemente ironico nella sua critica sociale, ma corrisponde pure all’altra strada già leggermente espressionista che il realismo parigino prende negli anni ’40 e ’50, e che andrà a influenzare i gusti del mondo. E in questo senso, espressionista e narrativo diventa emblematico il quadro che Hovenden dipinge nel 1884 per ricordare la brutta fine che fece l’abolizionista John Brown nel 1859. L’aveva fatta grossa il John Brown, avendo egli tentato di prendere d’assalto l’arsenale federale d’una cittadina in Virginia per rifornire d’armi gli schiavi che rimasero del tutto indifferenti. In cambio, nello scontro morirono due federali e dieci dei suoi insorti. Fu impiccato. Thoreau, lo scrittore romantico pacifista degli americani, ne prese pubblicamente la difesa in quell’anno e ne fece un eroe negli anni della riappacificazione di Lincoln. Gli Stati Uniti si stavano allora creando il proprio immaginario collettivo con i cowboy che Frederic Remington trasformava da luridi emigranti tedeschi in eroi del nuovo epos. Da Repin di-

HONORÉ DAUMIER DUE AVVOCATI 1848, olio su tavola, cm 34x26, Lione, Musée des Beaux-Arts

FREDERIC REMINGTON NELLE PIANURE DEL SUD 1907, olio su tela, cm 76,5x129,9, New York, The Metropolitan Museum of Art Pagina a fianco: THOMAS HOVENDEN GLI ULTIMI MOMENTI DI JOHN BROWN 1882-1884, olio su tela, cm 196,5x168,3, New York, The Metropolitan Museum of Art

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scende quasi tutto il realismo socialista tanto caro a Stalin, da Remington i western e i fumetti del secolo successivo. È Remington antiquato? Secondo i salotti newyorchesi d’oggi è addirittura disgustoso. Ma come non prendere sul serio un artista che ha già intuito tutta la forza della cinematografia successiva? E allora diventa curiosamente anticipatore, il che ci obbliga a rivedere alcuni luoghi comuni della storia dell’arte conformista, il dipinto di Cammarano, che torna a essere coevo ai fatti che rappresenta. Caso assolutamente italico quello di Michele Cammarano da Napoli. Altro che accademie, scuole o caffè letterari alla parisienne. Impara a dipingere dal nonno, impara la teatralità dal padre librettista di Verdi e Donizetti. Mescola pittura napoletana alla Morelli con teatralità melodrammatica e si trova anche lui a inventare il taglio cinematografico cinetico prima del cinema. Assai importante poi la sua formazione nel realismo parigino di Courbet e nel pensiero socialista di Proudhon. Il dipinto, che mette in scena la carica dei bersaglieri a Porta Pia, segue immediatamente l’evento e ne fa per un certo verso un elemento di cronaca giornalistica, anticipando le illustrazioni con le quali Achille Beltrame e Walter Molino racconteranno la storia nel XX secolo sulla “Domenica del Corriere”. In quanto a Cammarano, finì acquistato dal re d’Italia e quindi filogovernativo fino a dipingere l’insostenibile catastrofe della battaglia di Adua.

MICHELE CAMMARANO LA BRECCIA DI PORTA PIA 1871, olio su tela, cm 290x467, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte

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Risorgere

GEROLAMO INDUNO RITRATTO DI FRANCESCO DAVERIO foto da dipinto di Girolamo Induno, gelatina a sviluppo, cm 12,4x8, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano Pagina a fianco: GEROLAMO INDUNO SCIANCATO CHE SUONA IL MANDOLINO 1852, olio su tela, cm 60,2x49,4, Milano, Galleria d’Arte Moderna

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’opera di Cammarano invita il visitatore a passare nella sala adiacente dedicata tutta alla pittura risorgimentale, che inizia con la riproduzione fotografica d’un dipinto disperso al quale, come curatore, tengo moltissimo. Si tratta del ritrattino che Induno sotto il fuoco nemico fece del mio parente Francesco Daverio, allora colonnello e capo del gabinetto militare di Garibaldi. Daverio lì muore. Induno si salva da un colpo di baionetta grazie all’intervento di Guastalla, ebreo modenese di umili origini che farà successivamente una brillante carriera nell’Italia unita. Viene curato nell’ospedale diretto dall’americana Margaret Fuller, torna a Milano, ma deve fuggire. Dove? Ovviamente a Parigi. Quando torna, ha già imparato una nuova lezione di realismo, la quale, più che dai rigori truci di Courbet, sembra derivare da Chardin, visto nel museo del Louvre. Dipinge il Mandolinaio che contiene una natura morta che avrebbe garbato al grande francese del Settecento, con ironia bonaria nella descrizione del personaggio, ed espone il dipinto nelle mostre di Brera assieme ai quadri-documenti dal vivo che ha riportato da Roma, a riprova d’una censura nel campo delle arti visive leggermente più morbida da parte del governo austriaco di quella che venne applicata sempre nel 1851 a Giuseppe Verdi, quando presentò il progetto d’una versione melodrammatica del Le roi s’amuse di Victor Hugo. La forza di comunicazione del teatro spaventava di più: il re irresponsabile poteva sembrare l’imperatore e fu quindi sostituito in Rigoletto dal fellone Duca di Mantova. Poi non riesce a esimersi dal partecipare con il reame sardo-piemontese alla stolta avventura di Crimea, quando Vittorio Emanuele II spera d’entrare in una guerra già dichiarata fra le grandi potenze per portare a casa gli spiccioli. I suoi bersaglieri moriranno, più che di cannonate, banalmente di colera. E inaugura così una tradizione tutta nuova che l’Italia unita farà sua, quella d’entrare in guerre già dichiarate da altri per uscirne spennati. Se ne va poi, ancora coi fumi della polvere da sparo, a partecipare all’Expo Universale di Parigi del 1855, dove suscita, assieme al fratello Domenico pittore anch’esso, assoluto entusiasmo. E se ne può capire il perché.

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La scheda grafica appesa accanto è estremamente utile. Vi sono rappresentati alcuni dipinti coevi: il retorico dipinto di Chassériau, che raffigura Macbeth e Banquo quando incontrano le streghe; il potente dipinto che Courbet espone in una

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PARIGI 1855

1. John Everett Millais, Il salvataggio, 1855, olio su tela, cm 121,5x83,6, Melbourne, National Gallery of Victoria 2. António José Rodrigues, Il violinista cieco, 1855, olio su tela, cm 170x118, Lisbona, Museu do Chiado – Museu Nacional de Arte Contemporânea 3. Gustave Courbet, L’atelier del pittore, 1854-1855, olio su tela, cm 361x598, Parigi, Musée d’Orsay 4. Ford Madox Brown, Addio all’Inghilterra, 1852-1855, olio su tavola, cm 82,5x75, Birmingham, Birmingham Museums and Art Gallery 5. Théodore Chassériau, Macbeth e Banquo, 1855, olio su tavola, cm 72x90, Parigi, Musée d’Orsay

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6. Franz Xaver Winterhalter, Ritratto dell’imperatrice Eugenia con le sue dame d’onore, 1855, olio su tela, cm 300x420, Compiègne, Musée du Second-Empire 7. Rosa Bonheur, La fiera dei cavalli, 1853-1855, olio su tela, cm 244,5x506,7, New York, The Metropolitan Museum of Art 8. Paul Huet, L’inondazione di Saint-Cloud, 1855, olio su tela, cm 203x300, Parigi, Musée du Louvre 9. George Inness, La Lackawanna Valley, 1856 ca, olio su tela, cm 86x127,5, Washington, National Gallery of Art

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FORD MADOX BROWN ADDIO ALL’INGHILTERRA (particolare), 1852-1855, olio su tavola, cm 82,5x75, Birmingham, Birmingham Museums and Art Gallery

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mostra esterna all’Expo assieme ad altri quaranta suoi quadri, L’atelier del pittore, che fa da opposto a tutti gli studi d’artista perché è una sorta di salotto di famiglia; la Fiera dei cavalli della giovane ed elegante Rosa Bonheur, quello sì dipinto vivace e realista di questa curiosa pittrice che finirà anni dopo col ritrarre Buffalo Bill; un bizzarro dipinto di Ford Madox Brown (la partenza dall’Inghilterra per l’Australia del suo amico scultore, assieme ai trecentocinquantamila miserabili che ogni anno abbandonavano le isole britanniche) che sembra d’ambiente preraffaellita ma appare più romantico nella descrizione del tweed che in quella dei sentimenti; un bellissimo dipinto americano di George Inness; un miserabilista tardo ispanico di José Rodrigues; un quadro socialista di Millais, dove un pompiere salva dalle fiamme una bambina e la consegna alla mamma; un noiosissimo paesaggio di Paul Huet che racconta l’inondazione di Saint-Cloud, cittadina fuori Parigi sulla Senna; la pomposa celebrazione dell’imperatrice Eugenia, moglie di Napoleone III, con le sue dame di corte in un dipinto del tedesco pittore ufficiale della medesima corte, tale Xaver Winterhalter che, chiamandosi anche Franz, era sin dalla nascita destinato alla Francia, per ricordare che Ella era effettivamente María Eugenia Palafox Portocarrero y Kirkpatrick de Closbourn, marchesa d’Ardales, marchesa di Moya, contessa di Teba, contessa di Montijo, nata a Granada e morta in esilio a novantaquattro anni nel 1920 a Madrid; e infine l’ultima fatica di Ingres, un dipinto realizzato con l’attenzione paranoica d’una miniatura su avorio, quattro anni di lavoro per completare una Venere anadiomene (cioè in emersione) pensata nel 1808 e terminata nel 1848, che è il clou del dibattito, perché evolve dalla sua Odalisca raffaellesca del 1814 e precede di una decina d’anni il suo Bagno turco con tutte le nude ammassate che dipingerà da ultraottantenne. Forse la pulsione creativa gli veniva dalla Venere di Bronzino allora sul mercato e che la National Gallery avrebbe acquistato nel 1860, quel dipinto incredibile che contiene perversione, grida drammatiche alla Delacroix e le maschere di commedia e tragedia. Avrà tante discendenti immediate questa Venere, servirà a legittimare la pittura del suo allievo Chassériau che la Venere l’ha già fatta approdare in terraferma. Mentre Bouguereau le farà già ballare la danza della Belle Époque fra tri-

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Doppia pagina seguente: 1. Jean-Auguste-Dominique Ingres, Venere anadiomene, 1848, olio su tela, cm 163x92, Chantilly, Musée Condé 2. William-Adolphe Bouguereau, Nascita di Venere, 1879, olio su tela, cm 300x215, Parigi, Musée d’Orsay 3. Alexandre Cabanel, Nascita di Venere, 1863, olio su tela, cm 130x225, Parigi, Musée d’Orsay 4. Agnolo Bronzino, Allegoria con Venere e Cupido, 1540-1550 ca, olio su tavola, cm 146,1x116,2, Londra, National Gallery 5. Théodore Chassériau, Venere anadiomene o Venere marina, 1838, olio su tela, cm 65x55, Parigi, Musée du Louvre 6. Gustave Courbet, Il sonno, 1866, olio su tela, cm 135x200, Parigi, Petit Palais, Musée des Beaux-Arts de la Ville de Paris

JEAN-AUGUSTE-DOMINIQUE INGRES VENERE ANADIOMENE 1848, olio su tela, cm 163x92, Chantilly, Musée Condé

toni alla Böcklin e quindi alla De Chirico prima maniera. Ma già nel 1863 Cabanel aveva esposta la sua, emersa ma distesa a prendere il sole, ben lontana dalle due amiche, considerate sconce, che Courbet avrebbe dipinto nel tepore baudelairiano stile Fleurs du mal d’una stanza chiusa, raffigurando la sua amante irlandese in una compagnia più dolce di quella che egli stesso le poteva fornire. Al giovane alternativo Arthur Rimbaud, questo tripudio di carni bianche farà tale schifo che vi dedicherà un trucido sonetto:

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Come da una bara verde di latta, una testa / di donna dai capelli castani fortemente impomatati / da una vecchia vasca da bagno emerge, lenta e scema / con deficienze ben mal rammendate; // poi il collo grasso e grigio, le scapole larghe / che fuoriescono; la schiena corta che entra e esce; / poi le curve delle reni che sembrano scattare; / il grasso sottopelle appare in strati piatti; // il dorso è un po’ rosso, e il tutto emana un gusto / stranamente orribile; si notano soprattutto / particolari che vanno visti con la lente // le reni recano due parole incise: Clara Venus; / e tutto questo corpo si muove e tende la sua larga groppa / repellente e abbellita da un’ulcera all’ano.

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Vénus Anadyomène Comme d’un cercueil vert en ferblanc, une tête De femme à cheveux bruns fortement pommadés D’une vieille baignoire émerge, lente et bête, Avec des déficits assez mal ravaudés ; Puis le col gras et gris, les larges omoplates Qui saillent ; le dos court qui rentre et qui ressort ; Puis les rondeurs des reins semblent prendre l’essor ; La graisse sous la peau paraît en feuilles plates ; L’échine est un peu rouge, et le tout sent un goût Horrible étrangement ; on remarque surtout Des singularités qu’il faut voir à la loupe... Les reins portent deux mots gravés : Clara Venus ; – Et tout ce corps remue et tend sa large croupe Belle hideusement d’un ulcère à l’anus.

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Un caos delle arti che spiega tutto della complessità del Secolo Lungo, se si pensa che nello stesso anno 1863 Manet stava dipingendo la scandalosa Olympia e si preparava a presentare il nudo del Déjeuner sur l’herbe, che finisce al Salone dei Rifiutati nel 1863 perché raffigura sempre la sua amante professionale e professionista. Lo scandalo non stava nel nudo, ma nella prassi quotidiana delle modelle, le quali in studio stavano bene, ma a spasso coi giovanotti borghesi erano intollerabili. E il nostro Induno nel frattempo torna alla politica italiana: segue gli eventi che da Magenta portano alla battaglia di Solferino. Partecipa alla disavventura sardo-piemontese in Crimea e dipinge la Battaglia della Cernaia. Accompagna Garibaldi in Sicilia, lo raffigura ferito, e continua a narrare la storia del Risorgimento italiano, in un dipinto che è particolarmente commovente: Triste presentimento. Questa ragazza è al contempo casta e sexy, con la veste da notte che le si cala sulla spalla, mentre legge la lettera dal fronte. La sua posa è la versione perbene della Meditazione di Hayez, quel dipinto dove verrà aggiunta la scritta Italia per farne da un’opera del 1851 una anticipazione dell’unità e un pianto sulla rivolta veneziana repressa. Lei è una Mimì in versione lombarda che riprende assai le Scènes de la vie de Bohème

Pagina a fianco: ÉDOUARD MANET COLAZIONE SULL’ERBA particolare, 1863 ca, olio su tela, cm 208x264,5, Parigi, Musée d’Orsay Sopra: GEROLAMO INDUNO LA BATTAGLIA DELLA CERNAIA 1857, olio su tela, cm 292x494, Milano, Gallerie d’Italia, Fondazione Cariplo Pagine seguenti: GEROLAMO INDUNO LA BATTAGLIA DELLA CERNAIA particolare GEROLAMO INDUNO TRISTE PRESENTIMENTO 1862, olio su tela, cm 67x86, Milano, Pinacoteca di Brera GIOACCHINO TOMA I FIGLI DEL POPOLO 1862, olio su tela, cm 34x25, Bari, Pinacoteca provinciale

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che Henri Murger pubblica nel 1851 e che un giorno ispirerà Puccini. Ma non sta in un sottotetto parigino, bensì in ciò che rimane d’una casa nobile decaduta, dove il camino si è trasformato in toeletta, con specchio, asciugamano e catino di bella ceramica di Lodi, con una piccola natura morta che sarebbe piaciuta a Chardin, una coperta settecentesca sul letto che dimostra l’origine una volta prospera del casato, e quelle persiane corrotte che trovano simile capacità pittorica solo in Vermeer. Sulla parete in fondo, le icone di Brera e del Risorgimento, il Bacio di Hayez e un piccolo busto di Garibaldi. Induno non è un realista nel senso francese del termine. Una linea ideologica che viene spiegata meglio ancora da suo fratello Domenico nel Richiamo del garibaldino (quello che Gerolamo non poté esimersi d’ascoltare). La scena avviene in una casa ugualmente scalcagnata. Il letto è rotto, come era rotta la poltrona seicentesca del Mandolinaio sciancato, la compagna nel letto guarda sconsolata, il bimbo guarda altrove (sarà figlio di chi?), mentre l’amica (o forse

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DOMENICO INDUNO IL RICHIAMO DEL GARIBALDINO 1854, olio su tela, cm 75x93, Montecatini Terme, Galleria Bentivegna

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la serva?) guarda fuori dalla finestra (o spera che arrivino le truppe?). Una simile scena non può avvenire in simultaneità. Non sarebbe piaciuta a Courbet, anche se nel suo Atelier la simultaneità è altrettanto improbabile. Certo nulla ha a che fare con la visione precinematografica di Cammarano. Gerolamo Induno più che un realista in realtà è invero un verista, e precede così quella corrente letteraria che con il Verga, anche lui patriota e repubblicano, raggiungerà i sommi livelli. Ecco perché è uno dei massimi pittori bistrattati del XIX secolo italiano, ed ecco perché abbiamo deciso di dedicargli una intera sala. Risarcimento del XXI secolo.

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ltre il muretto continua l’esposizione degli artisti protagonisti del Risorgimento. La parte del leone la fanno ovviamente gli artisti legati al gruppo dei Macchiaioli. I Macchiaioli o i pittori dell’istante, dello stop fotografico. Loro stessi non sapevano di farlo, ma il rapporto che s’erano posti come necessario, e cioè quello con la luce, quello che portò alla macchia, altro non era che una meccanica fotografica portata nella narrazione pittorica. In questo senso si discostano totalmente dal verismo di Induno e scoprono una dimensione di assoluta modernità. Li ritroverete ovviamente appesi alle pareti del Caffè Michelangelo, quello nel seminterrato del Museo. Qui stanno a documentare il fatto che tutta la loro generazione, a partire da quegli anni libertari di Firenze sul finire della decade 1850, fu coinvolta nelle operazioni garibaldine e unitarie. Giuseppe Abbati perse un occhio nella battaglia del Volturno e va fiero della benda con la quale lo ritrae il giovane Boldini. È amico di Silvestro Lega in quella piccola scuola dove il plein air nasce ben prima che in Francia, nella periferia di Firenze, a Piagentina. Lega dipinge l’interno borghese dove al suono del pianoforte nasce una nuova sensibilità che è poi la stessa che Borrani, sempre del loro gruppo, propone nel dipinto delle signore che cuciono le camicie rosse: tenda elegante alla finestra, mobili imbottiti comodi, ninnoli sulla scrivania con lampada a petrolio e lumacona, immancabile la stampa con il ritratto di Garibaldi. Quella borghesia toscana che votò all’unanimità l’adesione alla nuova Italia dopo Solferino era ben più tranquilla e pasciuta sotto gli ultimi arciduchi di Lorena, i primi ad avere abolito la pena di morte in Italia da quasi un secolo, i tolleranti per eccellenza dopo i fatti del 1848, di quanto non lo fosse quella lombarda prosciugata dagli appetiti austriaci. E sempre Borrani ci restituisce la calma pomeridiana della signora che cuce le bandiere tricolori in quel 26 aprile 1859, il giorno fatale nel quale scadeva l’ultimatum che l’Austria emanò contro il Piemonte, non sapendo che Napoleone III era già lì a far da rinforzo, e che sarebbe scattata la campagna militare che in due mesi avrebbe portato alla vittoriosa madre di tutte le battaglie, quella di Solferino e San Martino con la quale il Milanese si libera e aderisce al Regno formando

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L’Italia unita

GIOVANNI BOLDINI RITRATTO DI GIUSEPPE ABBATI 1860 ca, olio su tavola, cm 87,5x22, Collezione privata

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ODOARDO BORRANI LE CUCITRICI DI CAMICIE ROSSE 1863, olio su tela, cm 66x54, Collezione privata ODOARDO BORRANI RICAMATRICE, 26 APRILE 1859 1861, olio su tela, cm 75x58, Collezione privata Pagina a fianco: SILVESTRO LEGA IL CANTO DELLO STORNELLO 1868, olio su tela, cm 158x98, Firenze, Galleria d’arte moderna, Palazzo Pitti

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il primo nucleo dell’Italia unita. E giù il Lega a farci vedere i bersaglieri che hanno catturato i giovani austriaci con quella divisa bianca così adatta alla macchia di sangue. Ne fa egli una prima versione col morto in primo piano e poi corregge mettendolo in piedi ferito. Buon gusto e garbo non mancano mai ai toscani. E il Telemaco Signorini racconta le disfatte austriache successive in terra veneta, ancora una volta con una precisione da istantanea fotografica priva d’ogni rischio retorico, e dove la macchia di luce è ben presente; quel Signorini che già nel 1856, davanti al fiasco di Chianti, sosteneva che lo scopo della pittura era dare l’impressione. Per la prima volta appariva la parola nuova. Vi è poi un dipinto che merita attenzione particolare: è la Battaglia di Varese di Faruffini, pittore romantico, storicista lombardo che, amico del pavese Ernesto Cairoli, abbandona qui il suo modo pittorico per diventare anche lui un rappresentante di quel gusto precinematografico che è la cifra pittorica di quegli anni. Il quadro è dovuto al curioso testamento che Ernesto Cairoli lascia scritto pochi giorni prima di morire nella battaglia di Biumo a Varese

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TELEMACO SIGNORINI L’ARTIGLIERIA TOSCANA A MONTECHIARO SALUTATA DAI FRANCESI FERITI A SOLFERINO 1860, olio su tela, cm 60x117, Collezione privata

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come cacciatore delle Alpi. Ed Ernesto richiama a tutti i fratelli Cairoli, quattro figli d’una eccellente famiglia del Pavese, che si sacrificheranno per l’ideale risorgimentale lasciando viva solo la madre, Adelaide Bono Cairoli, quella alla quale Garibaldi scrive sconsolato nel 1866 che se venisse richiamato a compiere la spedizione dei Mille in Sicilia non lo farebbe più, avendo paura di essere preso a sassate. Faruffini ovviamente dipinge una situazione che non ha visto, s’immagina il mito della prima battaglia che porterà da quella di Magenta a quella di Solferino e lo fa, sicuramente influenzato dal dipingere di Fattori, quando l’Italia unita è già in fase di proclamazione. E infine Fattori, il più noto di tutti, e a ragion veduta. La sua evoluzione dalla prima pittura di macchia a quella movimentata e pastosa della fine della sua carriera corre parallela alla sua partecipazione alla causa nazionale. Anche lui dipinge eventi che non ha visto in prima persona, ma per i quali i documenti narrati e talvolta le fotografie sono d’ispirazione precisa. Vi aggiunge però una sua visione scenica, ancora una volta fortemente precinematografica. La sua Presa di Palermo è di pochi mesi successiva agli eventi, come lo sono i quadri fantastici ma tutt’altro che fantasiosi che narrano con lo spirito d’un western le battaglie e

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gli accampamenti, da quel primo lavoro, lui collaboratore del Partito d’Azione, nel quale immagina la Battaglia di Magenta (4 giugno 1859), alla Battaglia di Montebello (20 maggio 1859) che la precede storicamente ma che lui realizza in grande formato nel 1862. Sicché diventa egli cantore della prima retorica sabauda che deve rimettere a posto la Storia a posteriori: dipinge la Battaglia della Sforzesca, l’ultimo istante di gloria prima della disfatta di Novara che segnò nel 1849 la fine ingloriosa della prima guerra d’indipendenza, così come racconterà con veridicità assolutamente plausibile il ferimento del principe Amedeo. E all’opposto invece coltiva il suo animo anarchico nello sguardo al contempo affettuoso e critico nei confronti dei soldati, con opere della fine del secolo, campi militari vasti o quel dipinto struggente del soldato caduto e rimasto staffato, trascinato verso il suo terribile destino dal cavallo al galoppo. Il

FEDERICO FARUFFINI MORTE DI ERNESTO CAIROLI NELLA BATTAGLIA DI VARESE 1862 ca, olio su tela, cm 145x290, Pavia, Musei Civici SILVESTRO LEGA BERSAGLIERI CHE CONDUCONO PRIGIONIERI 1861, olio su tela, cm 58x94, Firenze, Galleria d’arte moderna, Palazzo Pitti

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GIOVANNI FATTORI IL PRINCIPE AMEDEO FERITO A CUSTOZA 1868-1870, olio su tela, cm 100x265, Milano, Pinacoteca di Brera

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Fattori “macchiaiolo” lo ritroverete al ristorante del Caffè Michelangelo. A più tardi quindi il giudizio complessivo su un artista che è da un lato, come artista da atelier, concorrente di Meissonier, e dall’altro contrappunto alla pittura en plein air dei francesi. E infine, in una apposita area con l’illuminazione a bassi lumen che serve a conservare le opere su carta, una sorpresa, che tale fu anche per me. Nell’ambito della preparazione alla celebrazione dei 150 anni dell’unità d’Italia pervenne nei miei uffici milanesi una curiosa notizia da Desenzano sul lago di Garda: mi mandavano alcune fotocopie di acquarelli d’un ignoto Giuseppe Nodari che avrebbe raffigurato dal vero la spedizione dei Mille. L’opposto del caso Fattori. La curiosità era destata. E la sorpresa fu all’altezza delle aspettative. Giuseppe Nodari era uno dei tanti italiani “di buona famiglia” bor-

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ghese che si era da ragazzo formato nell’odio per l’Austria che, quando Brescia insorse durante la primavera del 1849, proprio mentre i sardo-piemontesi stavano per essere battuti a Novara, represse il popolo mandando il generale Julius Jacob von Haynau. Questo tedesco di Mannheim al servizio del cattolico impero si comportò esattamente come si sarebbero comportate cent’anni dopo le truppe naziste nell’Italia della Resistenza. Lui, nobile fi glio bastardo del principe elettore di Hessen-Kassel, nutriva per le plebi italiche un disprezzo profondo. La battaglia per riprendere la città dopo dieci giorni di ribellione fu sanguinosa e le perdite fortissime da ambo i lati. Quando i resistenti bresciani uccisero alcuni suoi soldati ricoverati in ospedale, le impiccagioni divennero una vendetta per lui giustificata, e così pure le fustigazioni pubbliche delle donne. Fu chiamato da allora la Iena di

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GIUSEPPE NODARI ENTRATA IN PALERMO. ASSALTO ALLA FIERAVECCHIA Acquarello, Collezione privata

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Brescia e mandato per premio il mese successivo all’Oberkommand d’Ungheria per reprimere Budapest dove fece fucilare ad Arad i tredici generali ribelli. La Storia talvolta si vendica: da pensionato tentò di girare l’Europa, ma a Bruxelles era stato preceduto dalla sua fama e dovette scappare a Londra dove lo presero a bastonate davanti a una birreria. Colpire un generale austriaco davanti alla mescita del sacro beveraggio fu la sua finale grottesca nemesi. Per questo abbiamo appeso qui il suo ritratto, eseguito nel 1853 da Giuseppe Bezzuoli che fu il primo maestro di Fattori all’Accademia di Firenze, e poi si pentì d’avere compiuto l’opera e scusandosi sostenne che anche a Nerone erano stati fatti i ritratti. Quando Haynau è a Brescia Giuseppe Nodari ha otto anni. Quando ne avrà diciotto seguirà dalle colline la battaglia di Solferino; la dipinge in un paio di acquarelli e si avvicina ai cac-

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ciatori delle Alpi di Garibaldi. L’anno successivo è fra i Mille e dipinge in un piccolo taccuino l’intero viaggio da Quarto alla presa di Palermo. Poi segue da colonnello l’avventura italiana fino alla definitiva vittoria veneta nel 1866. Se ne torna a casa, guarda i suoi appunti acquarellati e li mette in bella copia. Dopo non dipingerà mai più, ma applicherà il suo talento alla stesura della tavole anatomiche che realizza prima da studente di medicina e poi da ordinario di anatomopatologia all’università di Padova. Il documento ha quindi un duplice interesse. Da un lato è l’unica serie certa di immagini corrispondenti agli eventi. Dall’altro è la testimonianza della vita d’un uomo che dalla prassi politica e dall’ideale risorgimentale diventa un tipico borghese italiano. Il Risorgimento fu infatti per molti versi il tentativo di far nascere in Italia quella borghesia che nel resto d’Europa s’era fatta protagonista.

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GIOVANNI FATTORI LO STAFFATO 1880, olio su tela, cm 90x130, Firenze, Galleria d’arte moderna, Palazzo Pitti GIUSEPPE BEZZUOLI RITRATTO DI JULIUS VON HAYNAU 1853 ca, olio su tela, cm 352x265, Vienna, Heeresgeschichtliches Museum, Militärhistorische Institut

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e siete stati presi da un pizzico di passione per la Grande Storia del Secolo Lungo, a questo punto vi suggeriamo di ripassare nella sala grande sotto la Statua della Libertà e dirigervi dal lato opposto, quello dove avete già visto il grande Courbet e l’enorme Repin. Lì dalla porta si accede a una stanza di documentazione che merita un pomeriggio di svago e riflessione. È dedicata alla Primavera dei Popoli, cioè all’anno mirabile 1848. Vi troverete subito una bacheca nella quale riposa una serie di libri che il bookshop ripropone in anastatica. Il primo in ordine di data di pubblicazione è il Nuovo dizionario de’ sinonimi del Tommaseo dato alla stampa nel 1830. Tommaseo, amico di Manzoni, realizza questo inatteso percorso pochi anni dopo la pubblicazione dei Promessi sposi. Se il Manzoni sciacqua i panni in Arno per inventare la nuova lingua dei futuri italiani, il Tommaseo indaga una lingua e i suoi significati per ottenere lo stesso risultato fondendo le varie prassi linguistiche d’Italia. Il libro posato vicino è il primo volume del Deutsches Wörterbuch, quel lavoro ciclopico iniziato dai fratelli Grimm nel 1838 e concluso centoventitré anni dopo; lo scopo non è dissimile da quello di Tommaseo. Si trattava di documentare il comune patrimonio linguistico che possedeva un territorio vastissimo diviso in decine di stati diversi. La Germania, come l’Italia, si stava preparando all’unità. Seguono quattro libri fondamentali per l’analisi politica dell’epoca. L’extinction du paupérisme è il trattato politico del 1844 che scrive il futuro Napoleone III quand’è ancora Louis-Napoléon Bonaparte, condannato per i suoi intrighi antigovernativi alla prigione a vita nella comoda fortezza di Ham, dalla quale fugge due anni dopo; è il tentativo di criticare il pauperismo dilagante e fornire una tesi di sviluppo legato all’emancipazione del mondo operaio nel nuovo sistema industriale. È un testo che deriva dal pensiero protosocialista di Saint-Simon quando nei suoi corsi di filosofia auspicava il passaggio dall’epoca teologica e feudale alla nuova epoca positiva e industriale. Contiene una affermazione che sarà fondamentale per gli eventi futuri: “Oggi il regno delle caste è finito, si potrà governare solo con le masse”. Système des contradictions économiques ou Philosophie de la misère di Pierre-Joseph Proudhon è del 1846 e sarà la bibbia della sinistra estrema parigina nonché la raccolta delle tesi oppo-

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1848. La Primavera dei Popoli

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HENRI-FÉLIX-EMMANUEL PHILIPPOTEAUX LAMARTINE RESPINGE LA BANDIERA ROSSA DAVANTI ALL’HÔTEL DE VILLE, 25 FEBBRAIO 1848, olio su tela, cm 27,5x63, Parigi, Musée Carnavalet

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ste a quelle “troppo economiche” di Karl Marx, che il francese in una lettera dello stesso anno al tedesco, e pubblicata nell’ottobre 1848 in Toast à la Révolution sul giornale “Le Peuple”, indicherà come rischio di sostituire alla religione passata una religione nuova. Sempre del 1846 è Le peuple di Jules Michelet, il massimo storico francese di quegli anni, nel quale l’autore esalta le virtù del popolo, intendendolo come vasto, agricolo e onnicomprensivo e non ridotto solo al popolo

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o addirittura al proletariato urbano. Il quarto invece è un libretto che uscì quasi esoterico a Londra in tedesco il 21 febbraio 1848; si tratta del Manifest der kommunistischen Partei scritto a quattro mani da Karl Marx e Friedrich Engels, allora rifugiati in Inghilterra per il loro partito di appartenenza che di tutto faceva per distinguersi dai partiti socialisti già esistenti nelle nazioni industrializzate. E infine vi sono due libretti usciti immediatamente dopo i fatti del 1848: The Se-

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ven Lamps of Architecture (1849) di John Ruskin, nel quale stanno le basi d’una rinuncia ai dettami dell’industrializzazione e le prime indicazioni che porteranno i Preraffaelliti e William Morris a tornare alla sana vita del villaggio e alla produzione artigianale, e il testo di commento di Théophile Gautier al Salon del 1848, che conclude questo capitolo. Nella stanza troverete appesa una serie di incisioni che raccontano la storia degli eventi, oltre ad alcuni dipinti a olio appropriati. Mi piace ricordare la veduta nella quale il poeta romantico Alphonse de Lamartine (opera di Philippoteaux) arringa la folla sostenendo che la bandiera tricolore è ben più gloriosa della bandiera rossa che portano i socialisti. L’energia della scena è politica e pittorica al contempo. La stessa energia in Italia prende anche la scultura, tema in fondo ben più impegnativo. Ne sono esempi eccellenti i grandi marmi che animano, fra le vetrine, la sala intera. Il Masaniello di Puttinati fu esposto a Brera nel 1846 nell’esposizione annuale, ebbe forte successo negli animi e potente contrasto nella censura austriaca. Lo Spartaco di Vincenzo Vela è immediatamente successivo ai fatti e testimonia l’indurimento degli animi in una lotta che non cessa con il ritorno del truce Radetzky. In

VINCENZO VELA SPARTACO 1851, marmo, cm 206x72,5x90, Ligornetto, Museo Vincenzo Vela ALESSANDRO PUTTINATI MASANIELLO 1846, marmo, cm 212x50x105, Milano, Galleria d’Arte Moderna Pagina a fianco: CARLO STRAGLIATI EPISODIO DELLE CINQUE GIORNATE IN PIAZZA SANT’ALESSANDRO 1848, olio su tela, cm 243,3x155, Milano, Civico Museo del Risorgimento BALDASSARE VERAZZI LE CINQUE GIORNATE DI MILANO. COMBATTIMENTO A PALAZZO LITTA metà XIX secolo, olio su tela, cm 43x31,5, Milano, Civico Museo del Risorgimento

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confronto appaiono patetiche e un tantino retoriche nel loro apparente realismo le pitture sulle Cinque giornate milanesi, alcune realizzate a unità già avvenuta da tempo. Ma il centro della parete è occupato da due dipinti di due grandi artisti francesi che in quel fatidico 1848 sembrano doversi confrontare, nel contenuto e nello stile pittorico. A destra (e non per discrimine politico, o forse sì) il ritratto della giovane baronessa Rothschild, perfettamente curata lei, perfettamente curata la pittura di Ingres, perfetta in tutto anche come rappresentante di quella alta borghesia che ha deciso di prendere in mano le sorti dello Stato. Alla sua sinistra (stessi motivi ambigui nell’appenditura) un contadino al lavoro di Millet, dipinto quasi olfattivo nella sua evocazione del sudore e dell’odore del grano, dove la stesura della materia pittorica è l’opposto assoluto di quella di Ingres. Quello all’antica raffaellesca, questo alla moderna espressionista. Per gli italiani, ancora oggi, quando si parla d’un bel “rebelot”, cioè d’un disordine senza risultato, si dice “hai fatto un Quarantotto”. Ben diversa è la questione. Talvolta succede che la Storia decida d’accelerare il suo percorso, ben al di là della volontà politica dei singoli. Nello stesso anno 1848 si sollevano le popolazioni di Sicilia e di Polonia, di Parigi, di Milano, di Venezia, d’Ungheria, di Berlino, della Danimarca, poi nell’anno successivo di Dresda e di Roma. Quasi ovunque la rivolta fu sedata, se non immediatamente, entro l’anno 1849. Solo la Francia cambiò radicalmente regime e passò dalla monarchia costituzionale alla Seconda repubblica e poi al Secondo impero. Il Regno sardo-piemontese trasformò la sua Costituzione con gli Statuti Albertini e poté diventare l’embrione della futura Italia, così cambiò pure stabilmente la costituzione della Danimarca. Già nel 1847 s’erano visti i primi segnali. L’unico dato che univa effettivamente l’Europa era una forte crisi economica dovuta alla scarsità di due anni successivi di produzione agricola e alla conseguente caduta della spesa popolare sulla quale si basava la crescita del sistema industriale. Ovunque premeva la disoccupazione e per la prima volta quella operaia fu sentita come un dato di disorientamento sociale. Se le idee circolavano comunque assieme alle notizie, ben più europea fu la circolazione d’un vermetto, la peronospora, o Phytophthora infestans nelle sue

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JEAN-AUGUSTE-DOMINIQUE INGRES LA BARONESSA ROTHSCHILD 1848, olio su tela, cm 141,9x101, Collezione privata

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varie forme. Nel 1846 aveva fatto crollare di metà la produzione di crauti e i nordici erano entrati in una serissima crisi alimentare. Non fu nulla rispetto alla catastrofe che generò una sua mutazione quando decise di aggredire le patate. I mangiatori di patate berlinesi fecero la rivolta quando il tubero vide moltiplicare per cinque il suo prezzo. Esplose la Kartoffelrevolution. Quelli d’Irlanda morirono di fame e iniziò la grande emigrazione verso l’Inghilterra e gli Stati

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Uniti. L’Europa si stava unendo nella fame. I ricchi mangiatori di arrosti ne furono preoccupati. I primi a svegliarsi per motivi politici furono gli svizzeri. Anzi furono per un certo verso gli ultimi del vecchio continente (non del tutto gli ultimi perché ci riprovò l’IRA irlandese nel XX secolo) a inscenare una guerra di religione fra i cantoni conservatori cattolici del Sonderbund e quelli protestanti influenzati dal pensiero liberale e vogliosi d’una unità federale centrale più potente.

JEAN-FRANÇOIS MILLET CONTADINO AL LAVORO 1847-1848 ca, olio su tela, cm 100,5x71, Londra, National Gallery

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VINZENZ KATZLER TUMULTI DURANTE LA “RIVOLUZIONE DELLE PATATE” 1847, litografia

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Il conflitto durò ventisette giorni sul finire del 1847 e portò a un accordo che è nella sostanza quello della Costituzione elvetica del 1848 tuttora vigente. Da allora, come già sosteneva Jean Racine, “point d’argent, point de Suisse” (“niente danaro, nessun svizzero”), la moneta da cinque franchi è dello stesso medesimo conio. Tutto poi, esclusa la Sicilia che esplose già a gennaio, avvenne nella primavera 1848. Parigi scatenò la tempesta a febbraio e l’Europa raccolse il vento. Poche previsioni furono meno azzeccate di quella della coppia Marx-Engels che vedevano aggirarsi per l’Europa lo spettro del proletariato. Il vento che si mise a soffiare il mese successivo alla pubblicazione del Manifesto era invero un vento senza accordi fra le parti, che fu sollevato dalle ispirazioni parallele d’una borghesia forte che decise di superare per sempre il potere delle aristocrazie precedenti. Nulla vi poteva essere in comune fra i siciliani e i danesi, fra i sciuri milanesi e gli intellettuali di Dresda raccolti nel 1849 dalle pulsioni anarchiche del giovane Riccardo Wagner in combutta con l’anarchico russo Bakunin. In molti casi questa nuova classe politica chiedeva l’indipendenza e l’autonomia di ciò che reputavano essere le loro nazioni. In Germania nacquero, dagli incendi rivoluzionari che dal Baden passarono alla Baviera e poi in quasi tutti i principati, le premesse per un primo tentativo di Parlamento nazionale a Francoforte, poi fallito e represso dai prussiani; a Berlino il re fu costretto a mettersi sulla corazza il tricolore unitario nero, giallo e rosso per rendere omaggio ai popolani caduti durante la rivolta e poi rifiutò il primo tentativo d’una corona imperiale. I polacchi, desiderosi di ridare alla loro terra divisa fra Russia, Prussia e Austria quell’unità che nel passato ne fece una potenza, furono repressi nel sangue e nelle lacrime di Federico Chopin, il quale a Parigi tentò invano, assieme ad altri patrioti, di coinvolgere la nuova repubblica. La rivolta viennese dei primi di marzo diede lo spunto alle Cinque giornate milanesi. Tutto sempre in quel marzo del 1848. L’indipendenza siciliana, della quale portiamo tuttora le insospettate conseguenze, ebbe fortuna più lunga, durò quasi un anno e mezzo, fu ripristinata la Trinacria gloriosa dei Vespri del Duecento, ma non trovarono i siciliani un monarca da porre sul loro nuovo reame. I subbugli germanici durarono con intermittenze fino

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alle rivolte del maggio 1849. Poi tutto tornò a posto, o quasi, perché i monarchi locali talvolta si trovarono costretti a cedere concessioni liberali e a Vienna il vecchio Metternich, quello che aveva velleitariamente rimesso a posto l’Europa nel 1815 dopo la caduta di Napoleone I, venne cacciato, e l’imperatore abdicò a favore del nipote diciottenne Francesco Giuseppe, quello che poi regnò per quasi settant’anni fino al collasso dell’impero. La Danimarca divenne monarchia costituzionale. I milanesi sperarono, poi si trovarono fra i fuochi interni d’una nobiltà che con il conte Gabrio Casati accarezzava una unione col Piemonte e d’un mondo popolare più bellicoso guidato da Carlo Cattaneo, il quale predicava una futura Italia mazziniana repubblicana e federata; vinsero gli Austriaci. Qui mi trovo di nuovo coinvolto personalmente per motivi familiari. Il segretario del primo comitato di guerra costituito da Cattaneo e presieduto da Litta fu il già citato Francesco Daverio. Il comitato fu presto esautorato dal podestà Gabrio Casati. Intorno alla rivolta milanese ronzava Giuseppe Garibaldi appena tornato in Europa dalle sue avventure latino-americane ed era mal visto dai piemontesi che lo consideravano testa inutilmente calda. Quando il 5 agosto Milano firma la capitolazione per via del ritorno austriaco, Daverio viene mandato da Mazzini ad accompagnare Garibaldi nella piccola e rocambolesca avventura militare di Varese. Si ritrovano l’anno successivo a Roma per la proclamazione e la difesa della Repubblica romana. La più gloriosa di tutte fu la Repubblica romana, quella guidata da Garibaldi e da Mazzini, quella che sancisce una costituzione dove per la prima volta a Roma viene garantita la libertà di religione, abolita la pena di morte, sancito il suffragio universale e dato il voto alle donne. Verrà spazzata via dall’intervento francese nel 1849, quando LouisNapoléon, presidente della République, contravvenendo alla propria recente costituzione, decide di ripristinare l’autorità di papa Pio IX per mantener in casa il solido appoggio del mondo contadino. E non si può non ricordare con senso d’orgoglio la lunga rivoluzione veneziana. Per un certo verso la più intellettuale, quella che ci ha lasciato la canzone della disperazione d’una città affamata dall’assedio e sostenuta dalla grinta:

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Passa una gondola della città. “Ehi, dalla gondola, qual novità?” “Il morbo infuria, il pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca!”

La rivolta antiaustriaca di Venezia è del 17 marzo, un giorno prima di quella milanese. Ma non è questa l’unica anticipazione. Vengono liberati dalle carceri gli oppositori Daniele Manin e Nicolò Tommaseo. Il nonno di Manin era un israelita convertito che prese il cognome dal padrino, il quale era nientemeno che l’ultimo doge della Serenissima prima che Bonaparte la cancellasse. Daniele studia diritto, diventa brillante avvocato, entra col matrimonio nella nobiltà veneziana, diventa patriota e finisce in galera. Sarà la persona ideale per diventare presidente della nuova Repubblica che si proclama il 23 marzo. Quando torneranno gli austriaci finirà in esilio a Parigi; suo figlio sarà uno dei Mille di Garibaldi. Il Tommaseo è l’intellettuale uomo d’azione per eccellenza. Attorno a loro si forma un governo che resisterà per quasi un anno aprendo ogni dibattito sulle libertà, sia maschili sia femminili. Il 5 luglio del 1848 l’Assemblea dei deputati sarà il primo organo politico della penisola a votare l’adesione al Regno di Sardegna. Venezia anticipa così di dieci anni il nucleo della futura Italia unita. La Storia è capricciosa: il Piemonte ancora fragile ritira l’appoggio dopo poco e la flotta sarda abbandona la laguna, l’unico sostegno rimane quello del generale napoletano Guglielmo Pepe mandato dal re di Napoli (poveretto, non sapeva il Borbone che fra poco finiva la gloria anche per lui). Gli austriaci riconquistano la terraferma nell’estate del 1849, cade il forte di Marghera difeso con coraggio dal colonnello napoletano Girolamo Ulloa, e gli austriaci compiono su Venezia il primo bombardamento aereo della storia, con gli aerostati. Venezia fu difesa dai venti che rimandarono i palloni incendiari sulle linee nemiche. Ruggiva alle porte della città il Radetzky, suo alleato in laguna era il colera. Il 27 agosto la Repubblica s’arrendeva all’impero e i patrioti partivano per l’esilio. L’Austria terrà Venzia coi denti, la farà impoverire a favore del nuovo porto di Trieste e la lascerà all’Italia solo dopo la terza guerra d’indipendenza del 1866. Ma di tutte le rivoluzioni del 1848 la più complessa e la più incisiva per i destini della nazione è senz’altro quella francese. Scatta a fine febbraio. Le fasi furono ferocemente alterne, in

NAPOLEONE NANI DANIELE MANIN E NICOLÒ TOMMASEO LIBERATI DAL CARCERE E PORTATI IN TRIONFO IN PIAZZA SAN MARCO particolare, 1876, Venezia, Fondazione Querini Stampalia

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una sorta di replica della fenomenologia del 1789. Le prime tre giornate di rivolta portano all’allontanamento del capo di gabinetto, Guizot, un ultraconservatore ch’era tutt’altro che una bestia, perché era considerato uno degli storici più fini di Francia, ex professore alla Sorbona e maestro di pensiero di Michelet, al quale invece era stata tolta la cattedra per laicismo esagerato e del quale gli studenti arrabbiati furono i primi motori delle contestazioni. La rivolta si allarga alla città, ai deputati repubblicani, ai liberali, alle classi borghesi e il re Luigi Filippo scappa in Inghilterra. Raspail, dell’ultrasinistra d’allora, lascia un ultimatum di due ore per far dichiarare alla Camera la République. Ed è una vera repubblica, con finalmente l’abolizione del voto per censo che portava alle urne meno di duecentomila francesi e l’introduzione del suffragio universale che dà il diritto di voto a nove milioni di elettori. Dura poco l’incantesimo perché le elezioni, senza suffragio universale, vanno a costituire un Parlamento che in pochi mesi scivola verso una destra di alta borghesia bancaria e militare pronta a rimettere le cose a posto. La questione principale riguardava l’enorme disoccupazione, per la quale nelle prime ore di sogno, s’erano creati gli Ateliers Nationaux, le officine nazionali che dovevano dare lavoro a centinaia di migliaia di disperati, non solo cittadini ma provenienti dal vasto popolo delle campagne. Si iniziò a ripavimentare le strade con i famosi sampietrini. Si pensò di continuare l’opera benefica nazionalizzando le nascenti ferrovie e mettendo il nuovo proletariato a posare rotaie. Gli investitori si ribellarono. Gli operai si ribellarono. Gli studenti si ribellarono. Le migliaia di sartine povere della città del lusso si ribellarono. I sampietrini furono divelti per fare le barricate di giugno e il tutto finì in un bagno di sangue, con migliaia di morti da tutte le parti e migliaia di deportati in Algeria. La città s’era spaccata fra quartieri ricchi e poveri; la borghesia aveva represso con crudeltà inattesa il proletariato urbano. Marx ed Engels da Londra si grattavano la testa sostenendo che quella era stata la prima esplosione del conflitto di classe. Nel caos di un caleidoscopio di posizioni politiche, di arresti delle sinistre, di contestazioni all’interno delle stesse classi abbienti, torna in scena con ineguagliabile furbizia la difesa dell’ordine e il sostegno al popolo di Luigi Napoleone Bonaparte. Al finire dell’anno sarà eletto, col suffragio ristabilito, presidente della République sulla base del 74% dei voti. Tre

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anni dopo, per evitare la scadenza del quadriennio non rinnovabile, con il colpo di stato degli ultimi giorni del 1851, il primo della nostra storia moderna, diventa imperatore dei francesi. Piccolo aneddoto milanese che non posso evitare di raccontarvi. Quando ad agosto del 1848 tornò il cruento maresciallo Radetzky a Milano, quello del quale ascoltiamo tuttora con incosciente compiacimento la marcia che Johann Strauss gli compose per l’occasione, la repressione in tutto il Lombardo-Veneto fu una regolare carneficina, con la corda e con lo schioppo. A Milano avvennero varie fucilazioni sommarie sui luoghi delle barricate. Vittime, ovviamente, i poveretti abitanti dei quartieri. E il popolo gridava: “Sem minga sta nüm; in sta i sciuri”, “Non siamo stati noi a fare la rivoluzione, sono stati i signori”. A Milano la borghesia perse il conflitto e si preparò alla fase successiva del Risorgimento. A Parigi la borghesia trionfò fino alla rivoluzione successiva della Comune del 1870, quando a Sedan Napoleone III fu fatto prigioniero dai prussiani. Fu repressa anche la Comune e iniziò la Belle Époque, quella della borghesia alta alleata con quella piccola. E l’arte cosa ebbe a che fare con tutto ciò? Documentò gli eventi con incisioni e dipinti, ma continuò pure la sua prassi elaborativa, caleidoscopica quanto lo erano le posizioni contraddittorie del pensiero in corso. Un nuovo dato però si stava inserendo nelle coscienze. L’arte si stava separando dalla politica. Il grande romanticismo si concludeva, quello engagé, e ne nasceva un altro più intimista, più estetico. Ancora una volta, in modo estremamente significativo, queste correnti superavano i confini. E se Giuseppe Verdi in Italia aveva concluso il suo ciclo del Nabucco, de La battaglia di Legnano, dei Due Foscari, della Giovanna d’Arco, dei Lombardi alla prima crociata, e s’era comperato nel 1848, proprio come sostenitore d’una politica nuova, la splendida tenuta di Sant’Agata a pochi passi fuori dalle frontiere del Lombardo-Veneto da dove avrebbe composto la trilogia popolare del Rigoletto, del Trovatore e della Traviata, in Francia ci si dirigeva altrettanto, nelle arti visive, verso il bello da successo. E Théophile Gautier ne diventa il massimo critico. Anzi si fa padre della critica artistica moderna. Già nel 1835, scrivendo la prefazione di Mademoiselle de Maupin, e riprendendo alla radice l’idea romantica del bello di Goethe, aveva in verità tradito il gusto espressivo di Géricault e Delacroix per sublimarlo in un qualcosa di ben altro:

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“Nulla di ciò che è bello è indispensabile alla vita. Se si eliminassero i fiori, il mondo non ne soffrirebbe materialmente; chi sarebbe invece pronto a non avere più fiori? Preferirei dovere rinunciare alle patate piuttosto che alle rose, e credo che non ci sia un solo utilitarista al mondo pronto a strappare i tulipani da un’aiuola per piantarvi dei cavoli. A che cosa serve la bellezza delle donne? Se una donna è medicalmente ben formata, in grado di fare bambini, sarà sempre buona per gli economisti. A che serve la musica? A che serve la pittura? Chi sarebbe così pazzo da preferire Mozart al signor Carrel, e Michelangelo all’inventore della mostarda bianca? È veramente bello solo ciò che non serve a nulla; tutto ciò che è utile è laido, in quanto è l’espressione d’un qualche bisogno, e quelli dell’uomo sono ignobili e disgustosi, come la sua stessa natura povera e inferma”.

Da questa prima dichiarazione nascerà con gli anni la corrente di pensiero dell’Art pour l’Art, l’arte fine a se stessa, che pervaderà tutta la modernità in alternativa dialettica con l’arte invece impegnata, e ciò fino alla dichiarazione di Clement Greenberg, successiva alle seconda guerra mondiale, quando il critico newyorchese sosterrà che l’unico valore d’un dipinto è la sua flatness, la sua sola superficie. E così si ritrova il nostro Gautier a commentare il Salon che si apre a Parigi nell’autunno di quel 1848, quando non fumano già più gli incendi delle barricate, ma l’odore acre del fuoco e della morte sembra rimasto solo nella coscienza di pochi oppositori, quelli non deportati. “Una dinastia è stata rovesciata e la Repubblica è stata proclamata; nondimeno l’arte sussiste. L’arte è eterna perché l’arte è umana; le forme di governo si succedono ed essa si mantiene. Quante rivoluzioni, quanti imperi, quanti popoli hanno fatto il loro clamore e si sono spenti nell’oblio da quando le cavalcate di Fidia caracollano nel marmo dei fregi del Partenone! Quante sommosse hanno brontolato ai piedi di quest’Acropoli, tumulti che nessuno ricorda, neppure lo storico! Il fumo dei combattimenti riempie inizialmente le piazze e cancella le prospettive; ma presto s’alza la brezza, dissipa gli odori della polvere, spazza le nuvole opache, e il tempio dell’Arte ricompare nella sua bianca serenità, sopra l’azzurro inalterabile. L’arte è al di sopra delle agitazioni e degli eventi. Domina i fatti dalla grande altezza dell’idea, riassume in essa le civiltà e, d’un sovvertimento che sembra dovere cambiare il mondo, non resta spesso che la strofa d’un poeta e la statua

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dello scultore a ricordarlo e farne un simbolo. Che importano i tumulti di strada e il terrore dei borghesi! L’Arte s’appoggia al gomito e guarda sognante, e interrompe ogni tanto la sua meditazione per afferrare lo stiletto, il pennello o il cesello, perché sa che i secoli sono suoi e che la repubblica di Platone, per avere esiliato la Poesia, benché la coronasse di fiori, non ha esistito un solo minuto. […] In arte il detestabile è meglio del mediocre, il barbaro del borghese, lo stravagante del piatto, e noi preferiamo un pazzo a uno stolto. […] Che ognuno traduca il suo sogno, racconti il suo pensiero, esprima il suo sentimento, soddisfi il suo gusto anche se bizzarro, la sua fantasia anche se insensata, senza timore, senza falso pudore, nella sincerità dell’uomo libero, perché nessuno ha mai la coscienza completa della propria idea e occorre comunicarla ai fratelli così che questi la rettifichino se è cattiva, o la consacrino se è buona. Che l’artista s’abbandoni con franchezza all’ispirazione! Artisti, mai momento fu più bello. Nulla frena ormai la vostra ampiezza. L’universo vi appartiene, il mondo visibile, il mondo interiore, le religioni, le poesie e le storie, le civiltà del passato, tutto ciò che l’anima può sognare o concepire. O voi che avete la fortuna d’essere giovani, non temete la vostra giovinezza, lasciate che vi trasporti nella foga, nell’audacia, nell’entusiasmo, nell’amore! Non fermate la vita che nelle vostre vene feconde corre come un torrente porpora, non siate spaventati dai battiti del vostro cuore e dal tumulto della vostra anima che dà grandi colpi d’ala nella sua prigione d’argilla, l’unica prigione che d’ora in poi ci sarà: con la forza e la perseveranza dei vostri studi, con l’audacia e la libertà del vostro lavoro, meritate d’essere gli artisti di questo secolo colossale e accaldato, di questo grande diciannovesimo secolo, la più bella epoca che abbia visto il genere umano da quando la terra amorevole compie la ronda attorno al sole. Siate degni dei tempi dove il genio dell’uomo ha soppresso la durata, lo spazio e il dolore, e fa lavorare da schiavi vili il vapore, il ferro, la luce e l’elettricità. Se voi lo volete, cosa saranno accanto al nostro secolo quei secoli tanto decantati di Pericle, di Leone X e di Luigi XIV. Potrà mai meno per l’arte un grande popolo libero di quanto non abbia potuto una piccola città dell’Attica, un papa e un re? Non siamo noi a un istante prodigioso della vita dell’umanità? E non diventeremo noi come degli dèi, secondo l’espressione biblica? Prendiamo finalmente possesso del nostro pianeta. Le forze della natura ci appartengono: fra poco essa non avrà

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più segreti per noi. Una razza più forte dei Titani della fiaba o dei giganti biblici ricoprirà il mondo e noi costruiremo, non più delle Babele di confusione, ma delle torri d’armonia, la cui scalata infaticabile raggiungerà il cielo, questa volta senza provocare l’ira di Dio, e che andranno oltre tutti i diluvi e tutte le barbarie.”

Mai previsione fu più precisa. Noi pensiamo oggi d’avere abolito il tempo e lo spazio con l’aereo e internet. Loro già allora lo intuivano. Con una esaltazione che la storia del secolo terribile e breve successivo ha tinto di colori foschi, quelli della razza di Titani che sbagliarono strada sia ad Auschwitz, sia nel Gulag o in quel giorno messicano della piccozza affondata nella testa di Trockij. Ma nel Secolo Lungo l’entusiasmo era giustificato.

Il quarto stato e il sol dell’avvenir

UMBERTO BOCCIONI FORME UNICHE DELLA CONTINUITÀ NELLO SPAZIO 1913, bronzo, altezza cm 126,9, Milano, Museo del Novecento

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iete pronti a questo punto, dopo avere intuito le questioni del 1848 che portano l’arte in una direzione ulteriormente schizofrenica a separare “politica” ed “estetica pura”, dopo avere dato uno sguardo di commossa simpatia a quelli che nell’Italia unita credettero, a tornare nella sala grande per concluderne il giro. Altro saluto alla Statua della Libertà. Nella parte retrostante si forma una sala di buone dimensioni nella quale fa da centro la scultura di Umberto Boccioni Forme uniche della continuità nello spazio, un’opera potente realizzata in gesso nel 1913 e fusa postuma in vari esemplari dei quali questo sembra il più fresco. Il 1913 fu per il Futurismo l’anno della consacrazione internazionale, con mostre a Parigi, Londra e Mosca. Boccioni è in quel momento l’interprete dell’entusiasmo per un futuro in grado di troncare radicalmente col passato e d’una umanità che sogna un avvenire folgorante senza sapere che il crogiolo terribile ne saranno fra poco le trincee della prima guerra mondiale. La scultura fa da unione fra due grandi dipinti. Il primo è il Quarto stato di Pellizza da Volpedo, 1901, primo anno del secolo nuovo quando il cammino dei lavoratori sembra già avere intrapreso questa strada gloriosa. Gli equilibri dell’Italia postunitaria si sono già definitivamente rotti; il Partito socialista è attivo da quando il partito dei lavoratori italiani fondato a Genova nel 1892 s’è fatto PSI nel 1895. A Milano le fortis-

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GIUSEPPE PELLIZZA DA VOLPEDO IL QUARTO STATO 1901, olio su tela, cm 293x545, Milano, Museo del Novecento

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sime tensioni del 1898 si conclusero con le cannonate sparate sulle barricate da Bava Beccaris. La questione fu risolta con la mediazione del prefetto dell’Ambrosiana, monsignor Ratti, futuro papa Pio XI. Nel 1896 la disastrosa quanto stupida guerra d’Abissinia con la disfatta di Adua combinata con le critiche al presidente del Consiglio, il vecchio siciliano Crispi che da garibaldino della Spedizione dei Mille era diventato l’araldo d’una destra definita “autoritaria, megalomane e mi-

litarista”, portò al finto cambio politico col nuovo presidente del Consiglio, un siciliano altrettanto autoritario, Antonio di Rudinì. Nel ’97 il suo ministro delle Finanze annuncia una manovra di stretta economica e fiscale atta a ripianare il bilancio per chiuderlo in attivo. I soldi, siamo pur sempre in Italia, andranno ad alimentare la crescita della burocrazia. Il malcontento si diffonde e si prepara per un ’98 dove tutta la nazione s’incendia. In Sicilia sono già fondati i Fasci operai

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che corrono allo sciopero e alla repressione. In tutta l’Emilia, da Modena a Bologna, dalla Romagna fino alle Marche, avvengono sollevamenti popolari contro le tasse, repressi dalla fanteria. A febbraio Perugia è sotto assedio, il mese dopo Bassano. A Bari il 1° maggio cinque morti. Si spara a Bagnacavallo e a Sesto Fiorentino con quattro morti. Il 5 maggio a Pavia viene ucciso in una manifestazione contro il raddoppio del prezzo del pane il figlio del futuro sindaco milanese, il socialista Mussi. Il mattino del 6 maggio si doveva svolgere a Milano una simpatica sfilata operaia per la celebrazione dei venticinque anni della fondazione della Pirelli. La manifestazione rischia di degenerare ed è solo l’intervento congiunto di Giovan Battista Pirelli e del socialista Filippo Turati, quello che allora abitava con Anna Kuliscioff nella Galleria Vittorio Emanuele appena ultimata, che restituisce la calma. La polizia arresta sindacalisti e operai. Iniziano alcuni tafferugli notturni. Il giorno dopo viene proclamato lo sciopero generale e s’innalzano le barricate. Entra in gioco lo stolto piemontese generale Bava Beccaris, alla ricerca d’un poco di gloria e convinto che la sua conoscenza con la duchessa Litta, amante del re, potrà portargli fortuna. La duchessa gli fa intendere che a Roma Umberto I gradirebbe una prova di vigore. Il giorno successivo, una bella domenica di primavera, Bava Beccaris fa sparare coi cannoni sulle barricate. Oltre trecento morti. Turati e i politici di sinistra vengono arrestati. Il re decora Fiorenzo Bava Beccaris, di Rudinì si complimenta col boia di Milano che diventa senatore nello stesso mese di giugno. L’agiografia narra che nello stesso momento Gabriele D’Annunzio, già al massimo del successo ed eletto l’anno prima nelle liste della destra, abbia deciso di cambiare banchi in Parlamento spostandosi in quelli della sinistra con la famosa frase: “Vado verso la vita”. Poco più di due anni dopo l’anarchico Bresci uccide re Umberto I a Monza per vendicare i morti di Milano. Il dipinto di Pellizza è la risposta solida e matura alla situazione in corso. D’altronde l’Italia di quegli anni è passata oggettivamente all’avanguardia. Nel vasto girone dei postimpressionisti non v’è dubbio che il gruppo dei divisionisti occupi l’area più attraente e innovativa; per loro la luce ricercata nella contrapposizione dei colori non è una questione tecnico-scientifica come per Seurat e i suoi seguaci,

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ma è vettore necessario verso una visione ideale del mondo. Lo stesso ideale che in quegli anni porta Segantini nelle alture dell’aria pura dove medita sui miti d’India. Al contempo l’Italia s’è fatta patria di malcontenti e crogiolo d’anarchici. Era italiano il giovane panettiere di Motta Visconti che andò a uccidere nel 1894 il presidente della République Marie François Sadi Carnot, senza sapere neppure dove fosse Parigi, e solo perché in una riunione milanese aveva pescato la paglia più corta. Era di Foggia il Michele Angiolillo che se n’andò dopo lungo peregrinare in Europa a punire, uccidendolo nella stazione termale di Santa Águeda, il presidente del Consiglio spagnolo Antonio Cánovas del Castillo. Era figlio d’una bracciante di Parma il Luigi Lucheni, cresciuto negli orfanotrofi di Parigi, che andò alla ricerca della prima persona illustre da uccidere con una lima, sul lago Lemano. Toccò casualmente alla povera principessa Sissi, a Ginevra. Aveva ella già sessantun anni, sempre in quel truce 1898. Dal 1895 gli anarchici erano stati cacciati dalla Svizzera e cantavano “Addio Lugano bella”, e stavano componendo la canzone nuova:

GIUSEPPE PELLIZZA DA VOLPEDO IL SOLE 1904, olio su tela, cm 150,5x150,5, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna

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Nel fosco fin del secolo morente sull’orizzonte cupo e desolato già spunta l’alba minacciosamente del dì fatato! Urla l’odio la fame ed il dolore da mille e mille facce scheletrite ed urla col suo schianto redentore la dinamite! CARLO CARRÀ BOZZETTO PER I FUNERALI DELL’ANARCHICO GALLI 1910, pastello su cartoncino, cm 57x87, Collezione privata Pagina a fianco: CARLO CARRÀ I FUNERALI DELL’ANARCHICO GALLI 1911, olio su tela, cm 198,7x259,1, New York, Museum of Modern Art UMBERTO BOCCIONI RISSA IN GALLERIA 1910, olio su tela, cm 76x64, Milano, Pinacoteca di Brera

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Siam pronti e dal selciato d’ogni via spettri macabri del momento estremo sul labbro il nome santo d’Anarchia insorgeremo!

Pellizza da Volpedo si suicidò nel 1907. Nel 1904 Pellizza aveva dipinto la prima versione del Sole che sorge, tema per lui ricorrente e che sarà per i socialisti il sol dell’avvenir. Nel 1904, Carlo Carrà aveva assistito sempre a Milano ai funerali dell’anarchico Angelo Galli, ucciso nella notte dal custode d’una fabbrica. Il funerale si tra-

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sformò in manifestazione, la manifestazione in sommossa e la sommossa venne repressa. Fece prima Carrà un disegno ancora tutto influenzato dalle sfibrature del Divisionismo, lo trasferì in un quadro futurista nel 1911, dove il vento degli scontri diventa il motore del movimento. Le due opere sono appese vicine e sono d’estrema utilità al visitatore per percepire la velocità della mutazione linguistica. Boccioni lo aveva fortemente influenzato con La città che sale del 1910. Boccioni a sua volta veniva da esperienze analoghe di risse pubbliche, e quella che narra nel 1910 all’interno della Galleria, quando un gruppo di signore s’infuriano davanti al bar, corrisponde a quella mutazione dal Divisionismo al Futurismo che le due opere di Carrà ben rappresentano. Ora fermatevi un attimo, tirate un sospiro, anzi respirate a fondo, per affrontare la parete di fronte. È dedicata alla guerra che minaccia di distruggere tutto il sogno borghese. In mezzo vi è il dipinto di Meissonier, assolutamente retorico, ma proprio per questo coinvolgente, in quanto la retorica è qui carica di significato. Si tratta della catastrofe dell’esercito e della Garde

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nationale durante la guerra franco-prussiana del 1870, quella che avrà un ruolo centrale nella storia delle arti. I tedeschi conquistano Parigi. Gli intellettuali e gli artisti si comportano in modo molto diverso gli uni dagli altri e imprevedibilmente senza tenere conto delle loro appartenenze politiche. Napoleone III da vecchio avrà pur avuto cattivo carattere, ma conservava una buona memoria. Si ricordava d’avere sostenuto l’unità d’Italia dieci anni prima attraverso la successiva annessione al Regno di Sardegna-Piemonte dove si parlava francese, e non come voleva inizialmente addirittura Cavour attraverso una confederazione degli Stati preesistenti. L’unità della Germania, voluta nel 1848 come confederazione, stava crescendo con le annessioni che la Prussia faceva degli Stati tedeschi esistenti. L’imperatore dei francesi temeva la naturale fine della storia e non gli garbava affatto l’idea d’un imperatore concorrente tedesco sul territorio europeo. In fondo le due vere potenze erano allora l’Inghilterra vittoriana, sul mare, e la sua Francia. Le due uniche città d’Europa che superavano i due milioni d’abitanti erano Londra e Parigi. E i prussiani, guidati dal ferreo Bismarck, continuavano a crescere. Non solo, il re di Prussia Guglielmo I di Hohenzollern pensava di mettere in Spagna il cugino Hohenzollern-Sigmaringen come nuovo re dopo che era stata deposta Isabella II. E Napoleone III continuava ad avere buona memoria: nella sua smisurata ambizione gli tornavano in mente gli anni dello scontro fra Luigi XIV e gli Asburgo che comandavano sia in Spagna sia in Austria dagli anni del maxi potere dell’altro imperatore, Carlo V, che tanto piaceva allo zio Napoleone I. Il 19 luglio 1870 la Francia dichiara guerra alla Prussia. Errore fatale. Gli Stati a sud del Meno, compresi il re del Württemberg e della Baviera (quel Ludwig II decadentista di Wagner, ripreso da Luchino Visconti, e che poveretto si suiciderà come pazzo dichiarato) si proclamano alleati dei prussiani. Le cose girano bene per i francesi all’inizio, quando occupano Saarbrücken. Poi viene la disfatta clamorosa di Sedan. Il 2 settembre Napoleone III firma la resa, se ne va prigioniero e andrà a morire in Inghilterra. Due giorni dopo Parigi gode la sua nuova République e continua la guerra. A gennaio il re di Prussia si fa incoronare imperatore dei tedeschi a Versailles. Nasce il Deutsches Reich. Bismarck aveva già annotato con inquietante intuizione: “Se scoppierà una guerra

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dovremo aspettarcene un’intera catena; chi soccombe la prima volta non aspetta infatti che di aver ripreso fiato per ricominciare daccapo”. La questione si concluse nell’inferno del 1945. La guerra fu infatti assai breve, ma durissima. La parte estiva aveva toccato l’est della Francia, quella invernale, guidata dalla République, si svolse tutt’intorno alla capitale sotto bombardamento, nel fango e nel freddo. La Francia perse la somma formidabile di cinque milioni di franchi oro in danni di guerra. Perse l’Alsazia e la Lorena e mio nonno Anton Hauss, nato alsaziano, divenne prussiano. Intanto continua la guerra e scoppia la rivolta della Comune di Parigi. Ne parleremo più tardi. Fu quello lo scontro dal quale nacque la lacerazione del nostro caro vecchio continente, fu lo scontro d’una potenza arrogante, la Francia, che credeva d’essere la prima forza industriale con i suoi 15 544 chilometri di ferrovia senza sapere che la Germania ne aveva già 18 876.

ERNEST MEISSONIER L’ASSEDIO DI PARIGI (1870-1871) particolare, 1884, olio su tela, cm 53,5x70,5, Parigi, Musée d’Orsay

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ARNOLD BÖCKLIN LA PESTE 1898, tempera su tavola, cm 149,8x105,1, Basilea, Kunstmuseum ERNEST MEISSONIER L’ASSEDIO DI PARIGI (1870-1871) 1884, olio su tela, cm 53,5x70,5, Parigi, Musée d’Orsay

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Meissonier dipinge qui la catastrofe bellica in una sorta di riassunto onirico. E a ragione. Tra l’altro era lui stesso al comando d’uno dei battaglioni repubblicani, nel quale s’erano arruolati anche Manet e Degas, suoi nemici estetici, suoi compatrioti nella difesa di Parigi. Il che permette di riflettere ulteriormente sulla complessità di un’epoca che, nei

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musei diversi dal nostro, viene narrata nella banale semplificazione delle scuole pittoriche. La République in mezzo al sangue e al fango porta fiera in testa la leonté di Ercole. La bandiera sventola come nella Libertà di Delacroix oltre cinquant’anni prima. Nel cielo oscuro vola l’angelo (o la strega!) della morte.

ARNOLD BÖCKLIN LA GUERRA 1896, olio su tavola, cm 100x69,5, Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, Galerie Neue Meister

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PABLO PICASSO GUERNICA 1937, olio su tela, cm 349,3x776,6, Madrid, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia

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E per questo motivo abbiamo appeso ai lati del dipinto due opere che Arnold Böcklin dipinse prima di morire nel suo pacifico e comodo ritiro di Fiesole. A sinistra La peste, dove lo stesso mostro volante dissemina la morte, a destra La guerra, una sorta di ripresa dei cavalieri dell’Apocalisse di Dürer, solo che, pur rimanendo quattro i cavalieri, i cavalli diventano tre. 1896, circa, nel fosco dì del secolo morente, e con un drammatico senso di anticipazione per il secolo nuovo.

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Nel secolo nuovo le tracce del Secolo Lungo rimangono dure a morire. E talvolta anche l’arte, che si è nel frattempo convertita all’Art pour l’Art, torna alla coscienza della politica. Ecco perché abbiamo qui appeso il secondo quadro di Picasso, il notissimo memento Guernica, dipinto nel 1937, dopo che l’aviazione hitleriana aveva regalato all’amico Francisco Franco il bombardamento della città repubblicana libera di Guernica durante la Guerra civile. La Spagna era allora ancora indomita e l’omaggio del Führer al Caudillo divenne motivo per Picasso

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RAMÓN CASAS I CARBÓ GARROTE VIL 1894, olio su tela, cm 127x166,2, Madrid, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia

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per un quadro che fu centrale nel piccolo e moderno padiglione spagnolo dell’Expo parigina del 1937, quando i due massimi totalitarismi si fronteggiavano già nella loro colossale retorica sulle rive della Senna, il padiglione sovietico di fronte a quello nazista. Tre anni dopo le Panzerdivisionen erano di nuovo nella capitale francese. L’ambasciatore tedesco in Francia andò a trovare Picasso, e vedendo una riproduzione dell’enorme quadro, che nel frattempo s’era messo a girare il mondo, gli chiese, pare: “È lei che ha fatto ciò?”. Al che Picasso rispose (sempre pare): “Non sono stato io, siete voi che avete fatto ciò”. Sulla parete di fondo, dietro alla guerra, troverete un piccolo momento di utile riflessione. Si tratta d’un breve viaggio nell’Europa allargata, in Spagna e in Russia. La prima parte ce la indica il dipinto del pittore catalano Ramón Casas i Carbó dal titolo Garrote vil, l’esecuzione capitale tipica della Spagna. Il dipinto, con la sua scena di massa, è del 1894, praticamente contemporaneo ai due Böcklin appena visti, e anticipa l’altra sua opera del 1902, La carica, ribattezzato poi Barcellona 1902, questo pittoricamente ben più nervoso e maturo del precedente. L’anarchia era allora movimento in forte dissenso con il socialismo, preconizzava la distruzione dello Stato, non la sua rivoluzione. Nella politica attiva si muoveva principalmente con gesti clamorosi. Nella conflittualità sindacale otteneva risultati ben più vistosi, a tal pun-

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to che si parla d’un autentico movimento anarco-sindacalista. Svolse ruoli fondamentali nella nuova forma di mobilitazione che sostituiva le insurrezioni passate con gli scioperi generali. Nel 1902 ne esplose uno a Barcellona, forse unica parte allora industrializzata d’una Spagna resa poverissima dalle guerre civili carliste del secolo precedente e dalla perdita delle ultime sue colonie nella guerra con gli Stati Uniti del 1898, cioè Cuba, Portorico e le Filippine. Fu represso lo sciopero dall’esercito che lasciò dodici lavoratori sulla piazza. Ma fu

IL’JA EFIMOVICˇ REPIN MANIFESTAZIONE DEL 17 OTTOBRE 1905 1907-1911, olio su tela, cm 184x323, San Pietroburgo, Museo Statale Russo RAMÓN CASAS I CARBÓ LA CARICA (BARCELLONA 1902) 1899-1900, olio su tela, cm 298x470,5, Olot, Museu d’Art Modern

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KAZIMIR MALEVICˇ QUADRATO NERO 1923 ca, olio su tela, cm 106x106, San Pietroburgo, Museo Statale Russo KAZIMIR MALEVICˇ CERCHIO NERO 1923 ca, olio su tela, cm 105x105, San Pietroburgo, Museo Statale Russo KAZIMIR MALEVICˇ CROCE NERA 1923, olio su tela, cm 106x106, San Pietroburgo, Museo Statale Russo

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pure quello il momento a partire dal quale l’internazionalismo operaio prese vigore. I temi dibattuti erano i soliti, ovviamente, legati al pesantissimo orario di lavoro. Già a Parigi nel 1848 il passaggio dalle dodici alle dieci ore fu una conquista di brevissima durata nei primi mesi della rivoluzione. In Spagna si chiedeva la giornata di nove ore. In Russia si tentava di ottenere quella di otto. In Italia nel 1906 si cantava: “Se otto ore vi sembran poche, provate voi a lavorar, e sentirete la differenza, fra comandare e faticar”. E il nostro viaggio visivo continua in Russia nel passaggio fra lo zarismo duro, la prima rivoluzione e il tentativo della Duma, e poi il periodo sovietico. Il primo dipinto è ancora una volta di Repin, ma d’un Repin molto più libero e franco nella sua espressione. Narra la rivoluzione del 1905, quel fragile fiore semidemocratico che nacque dai mille poveri diavoli uccisi davanti al Palazzo d’Inverno nella Domenica di sangue del 22 gennaio 1905. Erano operai in protesta che speravano, per ridurre l’orario di lavoro a otto ore, nella buona volontà del loro zar, il quale stava altrove e seppe troppo tardi che le guardie di palazzo avevano sparato. Tutta la Russia era depressa per povertà e per la sconfitta nella guerra contro il Giappone. Tutta la Russia si incendiò. Tutta la Russia fu repressa. Ma nacquero i primi soviet e infine il 1906 portò a un inutile quanto breve Parlamento, la prima Duma. Il dipinto, commissionato e poi rifiutato dal governo, rappresenta invero una Russia assai diversa da quella che enuncia la retorica successiva. Una San Pietroburgo con 250 000 operai in sciopero era già avviata sulla strada della modernità, malgrado le miserie delle campagne che condivideva con altre

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nazioni del vecchio continente, la nostra compresa. Il popolo che appare nel quadro è un misto sociale di classi assai complesso, che permette di capire come mai nel conservatorio di quella città si fosse potuto formare il gruppo dei Cinque, che Stravinskij fosse già all’opera, che a Mosca Pavel Tret’jakov il filantropo, quello dell’attuale galleria omonima di Mosca, sostenesse gli artisti russi, mentre Morozov e Šcˇukin stavano collezionando opere dell’avanguardia parigina, quella oggi al Museo Puškin, ascoltando a casa loro il parente Skrjabin al pianoforte. I tre dipinti successivi, capolavori di anticipazione del pensiero suprematista di Malevicˇ, sono di pochi anni dopo Repin e testimoniano una vita creativa e intellettuale che precorreva addirittura quella occidentale. L’ultimo dipinto, ancora di Malevicˇ, è del 1932. Majakovskij, il cantore della rivoluzione, si è appena suicidato dopo avere scritto il suo ultimo poema A piena voce. Malevicˇ riesce genialmente a combinare la figurazione obbligatoria e la pulsione ai riassunti astratti.

KAZIMIR MALEVICˇ CAVALLERIA ROSSA 1928-1932, olio su tela, cm 91x140, San Pietroburgo, Museo Statale Russo

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iete ora pronti per passare ancora una volta sotto la Statua della Libertà per tornare a completare la visita alla parete con la quale avete iniziato questo lungo viaggio visivo e mentale. Vi ricorderete la prima serie di ritratti con la quale abbiamo iniziato il racconto sui romantici e sul romanticismo che pervade tutto il Secolo Lungo. Ora vi suggerisco di seguire con attenzione la parete che riprende dall’altro lato della porta. Il primo dipinto è piccolo ed è un autentico capolavoro di Caspar David Friedrich, dove il sole che tramonta sembra anticipare anche tutti i sol dell’avvenire successivi. Lei è misteriosa ed emancipata, con una acconciatura ibrida e inattesa, e guarda in avanti il futuro. Siamo nel 1818,

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Pagina a fianco: CASPAR DAVID FRIEDRICH DONNA AL TRAMONTO DEL SOLE particolare, 1818 ca, olio su tela, cm 22x30,5, Essen, Folkwang Museum In questa pagina: CASPAR DAVID FRIEDRICH ROCCE CALCAREE SOPRA RÜGEN 1818-1819, olio su tela, cm 90x70, Winterthur, Museum Oskar Reinhart am Stadtgarten CASPAR DAVID FRIEDRICH VIAGGIATORE SU UN MARE DI NEBBIA 1817 ca, olio su tela, cm 94,8x74,8, Amburgo, Kunsthalle

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appena finito il sogno napoleonico che si fece incubo. Anche il Viaggiatore guarda in avanti, dall’alto, oltre un mare di nebbia. E così guarda in avanti verso la linea d’orizzonte del Mare del Nord il personaggio sulla destra del terzo dipinto, che sembra quello del dipinto precedente che s’è messo in testa il cappello, mentre la signora in rosso (trattasi della moglie appena sposata e simbolicamente vestita col colore della passione) e il professore calvo (in realtà un amico dell’artista) esaminano le curiose pareti di gesso dell’isola di Rügen. Un curioso falso ghiaccio in una rara estate settentrionale. Tutti e tre i dipinti sono realizzati attorno al 1818, e forse sempre lei è la giovane moglie. Si apre la speranza romantica. Si guarda in là. E Friedrich lo fa in modo quasi ossessivo. Non guarda all’interno di se stesso, guarda sempre fuori dalla finestra, quella del suo studio a Dresda con le navi sull’Elba. I romantici della prima ora guardano sempre fuori dalla finestra. Già così viene ritratto Goethe da Tischbein negli anni ’80 del Settecento, in una Roma che diventa una delle fughe necessarie fuori dalla realtà. È lì che si trasferirà all’inizio del Secolo Lungo tutto un nucleo di tedeschi spinti come sempre dal “Drang nach Süden”, la spinta verso il meridione. Si tratta di Overbeck, Peter von Cornelius, Philipp Veit e Friedrich Wilhelm Schadow, che andranno a costituire il grup-

JOHANN HEINRICH WILHELM TISCHBEIN GOETHE ALLA FINESTRA DELLA SUA CASA ROMANA 1787, acquarello, gesso, penna e matita su carta, cm 41,6x26,6, Francoforte, Freies Deutsches Hochstift, Goethe-Museum FRIEDRICH OVERBECK ITALIA E GERMANIA 1828, olio su tela, cm 94,5x104,7, Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Neue Pinakothek

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po dei Nazareni, curiosi nuovi Cristi alla ricerca del mito perso. Sono gli anni immediatamente successivi alla pubblicazione del Génie du Christianisme di Chateaubriand, il quale troverà la sua identità profonda solo fra i pini di Roma. E così scrive il francese: “Di tutte le religioni che siano mai esistite quella cristiana è la più poetica, la più umana, la più favorevole alla cultura, alle arti e alle lettere. Il mondo moderno le deve tutto, dall’agricoltura fino alle scienze astratte, dagli ospizi costruiti per gli sfortunati fino ai templi elevati da Michelangelo e decorati da Raffaello. Non v’è nulla di più divino della sua morale, nulla di più amabile, di più pomposo dei suoi dogmi, della sua dottrina e del suo culto; favorisce il genio, raffina il gusto, sviluppa le passioni virtuose, dà vigore al pensiero, offre forme nobili allo scrittore e modelli perfetti all’artista”. Forse le vittime dell’Inquisizione sarebbero state di parere diverso. Certo è che così si muoveva una parte vigorosa del pensiero romantico a tal punto che il luterano Overbeck di Lubecca si fece battezzare. Il pittore bavarese Johann Martin von Wagner, così amante dell’Italia da morire anche lui a Roma mentre faceva da agente per gli acquisti del re di Baviera Ludwig I, li chiamava, in uno scambio di lettere con Goethe, i langhaarige Altkatholiken, i capelloni veterocattolici. Si pettinavano con cura e capigliatura lunga alla Nazaret secondo una retorica allora nascente che tro-

CASPAR DAVID FRIEDRICH VISTA DALLO STUDIO DELL’ARTISTA (FINESTRA DI SINISTRA) 1805-1806, matita e inchiostro seppia su carta, cm 31,4x23,5, Vienna, Österreichische Galerie Belvedere CASPAR DAVID FRIEDRICH DONNA ALLA FINESTRA 1822, olio su tela, cm 44x37, Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie CASPAR DAVID FRIEDRICH VISTA DALLO STUDIO DELL’ARTISTA (FINESTRA DI DESTRA) 1805-1806, matita e inchiostro seppia su carta, cm 31,2x23,7, Vienna, Österreichische Galerie Belvedere

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vava il motivo estetico in Raffaello. E furono loro i primi del Secolo Lungo a trovare nell’artista urbinate il modello della perfezione. Come loro allora fece Ingres. Come loro faranno i Preraffaelliti. L’alternativa romantica nell’ambito della Sehnsucht, quella definizione della passione così germanica e che comprende sia la radice sucht (ricerca) sia quella sehn (vedere), è la disperazione nichilista, quella che farà scrivere a von Kleist: “Noi non possiamo decidere se ciò che chiamiamo realtà è realmente realtà o se solo così ci appare”. E Kleist, poco dopo, porta la sua ragazza ammalata sulle sponde del lago Wannsee a Berlino, le spara e poi spara a se stesso. Meglio il viaggio in Italia. E in fondo questo dipinto con l’Italia e la Germania abbracciate non

MASSIMO D’AZEGLIO LO STUDIO DEL PITTORE A NAPOLI 1827, olio su tela, cm 46,5x35,5, Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea Pagina a fianco: FRANCESCO HAYEZ IL BACIO 1859, olio su tela, cm 112x88, Milano, Pinacoteca di Brera

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ANGELO MORBELLI S’AVANZA 1896, olio su tela, cm 85x85, Verona, Civica Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea Palazzo Forti

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è forse l’anticipazione della storia dei due comprensori uniti dalla lingua e divisi dalle politiche locali che si uniranno in nazioni nuove durante il Secolo Lungo? La mora e la bionda. Ognuna già condita con l’alloro. Dopo le ossessive finestre di Friedrich ve n’è una assai gustosa e imprevista di Massimo d’Azeglio. Altro personaggio tipico dell’epoca, nobile, scrittore, pittore, politico al punto da diventare primo ministro del Regno sardo-piemontese, nemico acerrimo di Cavour e grande disprezzatore di re Vittorio Emanuele II che egli reputava essere il bastardo scambiato nella culla. Che c’è di più garbatamente elegante e romantico di questa sua veduta, sempre fuori dalla finestra, durante un suo soggiorno napoletano del 1827, dinnanzi a Castel dell’Ovo, laddove oggi si trovano i più begli alberghi partenopei. Eccellente la pittura non ultimata dove il cavalletto è solo disegnato, con chitarra appesa. Interessantissimo il fatto che d’Azeglio viaggia già con la scatoletta di pittura, quella valigina che allora contiene i colori in vesciche di maiale e non ancora in tubetti. Ma è già iniziata per i romantici la mania del dipingere all’aperto. Manifesto d’un vero romanticismo casalingo, dove i valori sublimi di prima si vanno ad annegare nel dolciume, ma

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pittura encomiabile da studio è il Bacio di Hayez, la posizione più scomoda mai assunta da due amanti. La veste di lei è già ottima réclame per il made in Italy. L’immagine piacque tantissimo, in quanto conteneva tutta la genialità dell’equivoco: chi ci vedeva il tricolore, quello d’Italia e quello francese ovviamente e quindi dell’alleato, chi la partenza per la spedizione del 1859, chi l’ansia sostenuta allora da tutta la nazione. Ma forse la vera fortuna del dipinto, già documentata, ve lo ricordate, pochi anni dopo in Induno, sarà quella del XX secolo quando la penna nel copricapo di lui porterà emozioni profonde agli alpini impegnati a difendere “i sacri confini della Patria”. In Morbelli lo spleen diventa tubercolotico, il decadentismo anticipa il meglio ancora una volta d’un Luchino Visconti che deve moltissimo alla pittura italiana del secondo Ottocento. Lei è già, inconsapevolmente, un personaggio della Montagna incantata di Thomas Mann, anche se la scena si svolge in una villa della Lombardia. Davanti alla dolcezza del tramonto il libro è caduto ed ella sogna. Quanti libri caduti alla fine del XIX secolo! E Pellizza si riscatta dalla durezza del mondo con la dolcezza d’un amore dove la conversazione prelude a tutto il possibile. Due capolavori del Divisioni-

GIUSEPPE PELLIZZA DA VOLPEDO PASSEGGIATA AMOROSA 1901, olio su tela, ø cm 100, Ascoli Piceno, Pinacoteca Civica

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ROMOLO ROMANI L’URLO 1904-1905, gesso grasso su carta, cm 50x32, Rovereto, MART, VAF Stiftung ROMOLO ROMANI RITRATTO DI VITTORE GRUBICY DE DRAGON 1905, disegno, Collezione privata Pagina a fianco: UMBERTO BOCCIONI STATI D’ANIMO, QUELLI CHE VANNO 1911, olio su tela, cm 71x96, Milano, Museo del Novecento UMBERTO BOCCIONI STATI D’ANIMO, QUELLI CHE RESTANO 1911, olio su tela, cm 70x95,5, Milano, Museo del Novecento

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smo. Quel Divisionismo che sarà alla radice del passo successivo verso il Futurismo, al quale Boccioni accede attraverso il passaggio simbolista d’un artista lombardo poco noto che è Romolo Romani. Il ritratto di Vittore Grubicy de Dragon, pittore e mercante internazionale, patrono e protettore del gruppo, fu con successo esposto alla Biennale di Venezia del 1905, quando la Biennale era ancora in grado di promuovere l’avanguardia italiana. E molto spiega della contorsione compositiva di Romani quel disegno dall’aspetto astratto intitolato L’urlo, un po’ come se vi fosse già allora una versione italica delle ansie di Munch. Gli Stati d’animo di Boccioni, movimenti umani in forze della natura che appaiono come forze della psiche, piogge o venti nei quali procedono esseri indefiniti già mossi da velocità misteriose, ultime pulsioni romantiche prima delle nuove forme che assumerà il Futurismo, questi sono i due dipinti che concludono la parete. Non si guarda già più avanti, si è mossi e basta da forze oscure. Eppure Boccioni sicuramente non aveva letto Sigmund Freud.

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La natura e l’infinito

CLAUDE MONET IMPRESSIONE. LEVAR DEL SOLE particolare, 1872, olio su tela, cm 48×63, Parigi, Musée Marmottan Monet WILLIAM TURNER TRAMONTO SCARLATTO particolare, 1829 ca, acquarello e gouache su carta, cm 13,4x18,9, Londra, Tate Britain

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ui vi vorrei spiegare a che cosa serve il mestiere dell’antropologo culturale rispetto a quello dei critici. Questi ultimi dividono la storia delle arti in base a scuole e categorie che consentono loro di assumere una convinta importanza sulle pagine scritte, nei musei e nell’opinione. L’opinione pubblica ha un assoluto bisogno di questi criteri per non perdere il nord e la testa. Per questo motivo il critico, più è abile, più è incline a esprimere giudizi di merito che siano adatti a distinguere il bello dal brutto, il buono dal cattivo, l’utile dall’inutile. All’antropologo interessa invece tutto ciò che gli esseri umani e le loro curiose tribù hanno prodotto. Si pone domande di vasto raggio e cerca elementi di paragone che permettano di generare categorie ampie suscettibili di interpretazioni, ma non di giudizi di merito. E in questa sala dei paesaggi è proprio una domanda del genere che ci si pone. I tramonti in primo luogo. Esistono da quando esiste il nostro sistema solare. Gli uomini li guardano da quando hanno coscienza, e li ammirano. Gli animali non fanno così che raramente, per raccogliere gli ultimi tepori del giorno. Eppure nella storia lunghissima della pittura occidentale, dagli affreschi di Pompei in poi, dalle pitture vascolari alle decorazioni parietali del barocco, i tramonti non sono mai rappresentati. Inizia la loro raffigurazione solo con il romanticismo. Anzi, il tramonto diventa simbolo della meditazione e dell’introspezione romantica.

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E ora entrate nella stanza per mettere una totale confusione fra i parametri delle scuole estetiche, così come ve le hanno insegnate sui banchi e nei banchetti. La prima opera è un piccolo olio di Emil Nolde, nato nella Germania così nordica da confinare con la Danimarca. Entra nel 1906 a far parte del gruppo Die Brücke, quel piccolo nucleo d’avanguardia che forma l’architetto dello Jugendstil (il Liberty dei tedeschi) alla ricerca di estetiche più feroci. Nolde convince quattro studenti di architettura, Fritz Bleyl, Erich Heckel, Ernst Ludwig Kirchner e Karl Schmidt-Rottluff, ad abbandonare gli studi della statica e della composizione classica per darsi alle ricerche esoteriche, politiche, alternative della pittura. Fra sperimentazioni di sostegno alle lotte operaie, inventano quello che oggi definiamo grossolanamente l’espressionismo tedesco. Nolde entra affascinato nel gruppo e poi se ne torna a guardare il Mare del Nord, e le sue pulsioni romantiche. Il sole nell’acqua serale si diffonde in tre colpi rossi di pennello. Sono gli stessi segni che trovate in Monet molti anni prima, più giallo dorati, nel 1872, nel suo Impression, soleil levant, che verrà poi esposto dal noto fotografo Nadar nel 1874, e che servirà al critico Louis Leroy a definire tutta la mostra e la corrente “Exposition Impressioniste” sul giornale satirico “Le Charivari”, non senza un certo disprezzo, ma sicuramente senza sapere che la parola Impressionismo era già

EMIL NOLDE TRAMONTO particolare, 1948, olio su tela, cm 67x88, Seebüll, Nolde Stiftung Seebüll

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FÉLIX VALLOTTON TRAMONTO DEL SOLE 1911, olio su tela, cm 55x81, Collezione privata

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stata usata da Telemaco Signorini a Firenze quasi vent’anni prima. Il sorgere del sole di Monet potrebbe in tutti i sensi essere anche un calar di sole. Ma molto prima ancora Turner, con le reminiscenze della sua pittura veneziana, aveva dipinto un calar di sole inglese dove i raggi si svirgolano in acqua come in Nolde e in Monet. Talvolta Turner questi raggi riflessi li rappresenta perfettamente verticali (1829-1830) e sono corrispondenti al gioco d’un altro esperto di tramonti, lo svizzero Félix Vallotton, a cavallo fra XIX e XX secolo. Ovviamente Vallotton ha già imparato la lezione della pittura à plat che viene dal Giappone e dalla conseguente Art Nouveau. Eppure molto era iniziato, sempre sul Mare del Nord, dalle visioni di Caspar David Friedrich, uno dei padri fondatori del romanticismo all’inizio del secolo. E Monet poi farà il suo viaggio a Venezia, come Turner, per vedere un’altra luce e un’altra acqua. Poi sempre tornando a Turner maturo, un dipinto fortemente impegnato nella sensibilizzazione contro la schiavitù, La nave degli schiavi, e drammatico perché l’evento vero, il massacro dello Zong, successo nel 1781, serviva a salvare la nave e incassare l’assicurazione per la perdita del carico umano dinnanzi a una tormenta. La stessa tormenta è rappresentata in un mare freddo e nordico e in uno stile “re-

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alista” da Ivan Ajvazovskij pochi anni dopo, e sempre nel dramma del tramonto. A questo punto il visitatore dovrebbe avere raggiunto un giusto grado di disorientamento. Le sue categorie tradizionali di storia dell’arte dovrebbero essere saltate. È ormai entrato nella magica confusione dell’antropologia culturale dopo avere constatato che scuole diverse, tecniche diverse, temi talvolta quieti e altre volte angosciosi appartengono tutti alla stessa lettura romantica del Secolo Lungo.

WILLIAM TURNER LA NAVE DEGLI SCHIAVI 1840, olio su tela, cm 90,8×122,6, Boston, Museum of Fine Arts IVAN CONSTANTINOVICˇ AJVAZOVSKIJ LA NONA ONDA 1850, olio su tela, cm 221×332, San Pietroburgo, Museo Statale Russo

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Pagina a fianco: SAMUEL PALMER MATTINA PRESTO 1825, penna e pennello in inchiostro seppia su carta, cm 18,8x23,2, Oxford, Ashmolean Museum SAMUEL PALMER CAMPO DI GRANO SOTTO LA LUNA CON LA STELLA DELLA SERA 1830, acquarello e gouache con inchiostro marrone, cm 19,7x25,8, Londra, The British Museum A sinistra: WILLIAM BLAKE DIVINA COMMEDIA, INFERNO, CANTO V, FRANCESCA DA RIMINI

E così prosegue la riflessione nella sala dedicata ai paesaggi, tema fondamentale e rinnovato del culto romantico. La natura ne è un tema centrale sin dalle prime lezioni di Schlegel nel profondo della Germania, a Jena. Siete pronti ad ammirare due piccoli dipinti vicini nella sensazione, distanti di sessanta anni e lontanissimi l’uno dall’altro nella critica. Sono incredibilmente analoghi nella ritmica della stesura pittorica, nel sonno silente e angosciato al contempo. Il primo è di un pittore inglese, Samuel Palmer (1805-1881), che a diciannove

1824-1827, penna, inchiostro, acquarello e matita su carta, cm 37x52,3, Birmingham Museum and Art Gallery Sotto: VINCENT VAN GOGH CAMPO DI GRANO CON CORVI 1890, olio su tela, cm 50,5x103, Amsterdam, Museo Van Gogh

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CASPAR DAVID FRIEDRICH MONACO DAVANTI AL MARE 1809, olio su tela, cm 110x171,5, Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie CASPAR DAVID FRIEDRICH IL SORGERE DELLA LUNA SUL MARE 1822, olio su tela, cm 55x71, Berlino, Staatliche Museen, Alte Nationalgalerie WILLIAM TURNER PESCATORI IN MARE 1796, olio su tela, cm 91,4x122,2, Londra, Tate Britain

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anni ebbe la fortuna d’incontrare il grande William Blake e di rimanerne fortemente influenzato. Infatti sopra al dipinto in questione sono appesi due quadretti, una illustrazione di Blake per la Divina commedia dove tutto si contorce davanti a un bagliore nel quinto canto dell’Inferno, e poi un disegno fiabesco e inquietante, sempre di Palmer, con un coniglietto, le casette stile marzapane e tre misteriosi gnomi nascosti. Ma il quadro che si confronta con Van Gogh è ben più denso, sotto a una luna e alla stella di Venere, quella della sera e del pastore, che illuminano i campi di grano come due fari dell’angoscia. Gli stessi fari dell’angoscia li ritrovate nel campo di grano di Van Gogh, dove diventano due soli replicati dalla schizofrenia, come si dividono i due sentieri. Il piccolo e terribile capolavoro è del 1890, l’anno della morte dell’artista. Torniamo a parlar di luna, quella tempestosa d’un dipinto di Turner ventunenne nel 1796, ansiosa scena di mare

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IVAN CONSTANTINOVICˇ AJVAZOVSKIJ MARINA AL CHIARO DI LUNA CON RELITTO DI NAVE 1863, olio su tela, cm 76,2x59,1, Collezione privata

mosso, quella dolcemente misteriosa di Friedrich dove si guarda il sorgere della luna nel 1822, quella misticamente russa dove si osserva il disastro negli anni ’60 dello stesso secolo. La luna è fondamentale per il culto romantico. Nel 1816 Franz Schubert mette in musica il Lied An den Mond (Alla luna) su testo d’una poesia di Goethe. La luna viene inseguita per tutto il secolo, e sul finire di questo ancora a lei Verlaine dedica alcuni dei suoi versi più teneri: La lune blanche Luit dans les bois ; De chaque branche Part une voix Sous la ramée...

La bianca luna della sua luce i boschi inonda; da ogni ramo parte una voce sotto il fogliame...

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Goethe s’interessa talmente alla pittura di Friedrich che lo va a trovare in quegli anni 1810-1820 e ricava una grande impressione dalla vista del monaco sul mare. Goethe, come prima di lui Schelling, e come tutti i romantici, passa da una concezione teosofica del mondo a una sotterranea percezione panteista. Lì sta il motivo d’una passione profonda per la natura. E quindi gli oggetti, come dice il poeta Eichendorff, hanno un’anima: Schläft ein Lied in allen Dingen, die da träumen fort und fort, und die Welt hebt an zu singen, triffst du nur das Zauberwort.

Un canto dorme in tutte le cose che continuano a sognare e il mondo comincia a cantare se tu soltanto troverai la parola magica.

E lo stesso concetto lo esprime Lamartine: Montagnes que voilait le brouillard de l’automne, Vallons que tapissait le givre du matin, Saules dont l’émondeur effeuillait la couronne, Vieilles tours que le soir dorait dans le lointain, […] Objets inanimés, avez-vous donc une âme Qui s’attache à notre âme et la force d’aimer ?

E se pensate che lo stesso pensiero non possa esistere in Italia, vi invito a rileggere le prime pagine dei Promessi sposi, quando Manzoni descrive i monti brianzoli. Scoprirete che il piccolo cosmo italiano d’allora non era affatto esterno alla grande cultura europea. Friedrich questa natura immensa ce la fa vedere talvolta terribile, come quando narra il disastro della sfortunata spedizione al Polo Nord nel Mare Artico. Rotture di ghiaccio che per lui sono autobiografiche, perché da ragazzino stava per affogare mentre pattinava sul ghiaccio che si ruppe e fu salvato dal fratello Johann che annegò. Dura e triste la sua vita, orfano di madre a sette anni, gli muore la prima sorella Barbara quando questa ha appena venti mesi e l’altra già grande, quando ne ha lui diciassette. La morte è costantemente presente nello spirito dei romantici. E la natura. La natura con gli alberi morti e le architetture in rovina, i cimiteri. Quegli stessi alberi contorti che appaiono nei grandi paesaggi idealistici di Segantini (1896-1897) nelle prime incisioni di Paul Klee (1903) ma che ritrovo anche in Frie-

Montagne velate dalla nebbia d’autunno / Vallate coperte dalla brina del mattino, / Salici, la corona sfrondata dalla potatura, / Antiche torri indorate da lungi dalla sera… […] Oggetti inanimati, avete dunque un’anima / Che si avvinghia alla nostra e la costringe ad amare?

Pagina a fianco: CASPAR DAVID FRIEDRICH IL MARE ARTICO particolare, 1823-1824, olio su tela, cm 96,7x126,9, Amburgo, Kunsthalle

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CASPAR DAVID FRIEDRICH CIMITERO MONASTICO SULLA NEVE

GIOVANNI SEGANTINI LE CATTIVE MADRI

1818, olio su tela, cm 110×171, già Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie, scomparso nel 1945

1896-1897, graffito su cartone, cm 105×200, Vienna, Österreichische Galerie Belvedere

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FRIEDRICH AUGUST MATHIAS GAUERMANN UN AVVOLTOIO CALA SU UN CERVO MORENTE 1832, olio su tela, cm 147×115, Vienna, Österreichische Galerie Belvedere PAUL KLEE VERGINE SULL’ALBERO dalla serie “Invenzioni”, 1903, incisione in nero, tavola, cm 23,7x29,7, New York, Museum of Modern Art GIOVANNI SEGANTINI IL CASTIGO DELLE LUSSURIOSE 1891, pastello su cartone, cm 99x172,8, Liverpool, Walker Art Gallery

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GIOVANNI SEGANTINI TRITTICO DELLE ALPI, LA MORTE 1898 ca, olio su tela, cm 190x320, Sankt Moritz, Museo Segantini

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drich Gauermann, un oscuro pittore austriaco degli anni di Friedrich, che dipinge gli avvoltoi mentre vanno a divorare la carogna d’un cervo. La natura è feroce, forte e purificatrice. Segantini lo racconta con tutto il vigore della sua magistrale pittura in un altro suo capolavoro La morte e nell’altra versione delle Cattive madri, dove secondo la tradizione indiana la loro lussuria infanticida le condanna a navigare nella purezza dei monti. Pittura dove la materia sfibrata del Divisionismo ricorda quella altrettanto contorta ancora una volta di Palmer, sempre col volo inquietante degli uccelli con il quale è iniziato il nostro giro nel quadro di Van Gogh, e che Alfred Hitchcock porterà nella pellicola. Monti terribili che narra alla perfezione il pittore svizzero Alexandre Calame quando rappresenta drammatico le gole del lago dei Quattro Cantoni ma anche quando fa vedere in una situazione apparentemente più delicata il lago Lemano. Perché sullo sfondo di questa distesa agricola del 1830 perfettamente ordinata come un tessuto patchwork, si stagliano i monti dove Mary Shelley ha fatto correre l’avventura di Frankenstein, or, The Modern

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SAMUEL PALMER TINTAGEL CASTLE, CON LA PIOGGIA IN ARRIVO 1848, Oxford, Ashmolean Museum

Prometheus (1818), quell’eroe sfortunato inventato assieme a Byron in un loro soggiorno da quelle parti nel 1817. Anche lei, figlia d’un filosofo politico e d’una filosofa protofemminista, particolarmente sfortunata, con i figli che le muoiono, la fuga in Francia e la morte del compagno trentenne Percy Bysshe Shelley per annegamento in una tempesta al largo delle nostre coste liguri, come in un dipinto. Shelley fu cremato sulla spiaggia di Viareggio. Due anni dopo Byron muore trentaseienne in Grecia di meningite. Harriet, la moglie ufficiale di Shelley, si suiciderà pochi mesi dopo nel laghetto Serpentine, quello dello Hyde Park dove nei giochi olimpici recenti di Londra si sono svolte le gare di canottaggio. Si moriva giovani avendo scritto dei capolavori. Ci si suicidava spesso. Thomas Chatterton era stato antesignano togliendosi la vita a diciotto anni nel 1770 dopo avere stupito tutto il mondo letterario inglese. Erano tutti moderni Prometei. Ed era ancora una volta forse colpa di Goethe che aveva lanciato la moda con i suoi Dolori del giovane Werther, quello che s’innamora della bella nel villaggio dove lo manda la sua avventura esistenziale da adolescente, lui amante delle lettere e della pittura. Lei è già sposata, lui le strappa l’unico bacio, chiede le pistole al marito per andare a caccia e si spara, a mezzanotte. Tanti giovani tedeschi, in fondo ai loro villaggi o alle loro piccole città, lo imiteranno. Perché è ovviamente molto più facile finire nelle ansie romantiche da quelle parti

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ALEXANDRE CALAME PAESAGGIO SVIZZERO 1830 ca, olio su carta applicata su tela, cm 40x52, Washington, National Gallery of Art ALEXANDRE CALAME DER VIERWALDSTÄTTERSEE 1855, olio su tela, cm 179x244, Collezione privata Pagina a fianco: GIACINTO GIGANTE TEMPESTA SUL GOLFO DI AMALFI 1837 ca, olio su tela, cm 29x41, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte OSWALD ACHENBACH FESTA DI SANTA LUCIA A NAPOLI 1874, olio su tela, cm 141x197, Kassel, Museumslandschaft Hessen

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KARL FRIEDRICH SCHINKEL CITTÀ MEDIOEVALE SULLE RIVE DI UN FIUME 1815, olio su tela, cm 90x140, Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie Pagina a fianco: ARNOLD BÖCKLIN ATTACCO DEI PIRATI 1886, olio su tavola, cm 153x232, Colonia, Wallraf-Richartz Museum GIORGIO DE CHIRICO L’OTTOBRATA 1924, tempera su tela, cm 135,5x188,5, Santa Maria di Negrar, Collezione Dino Facchini

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piuttosto che nella Parigi super urbanizzata, dove al massimo si muore di tisi come nella Bohème. L’altra grande città esiste in Italia ed è Napoli, espansa lungo il golfo. Gigante ne dipinge con romantico fervore la costiera, Oswald Achenbach rimane affascinato dalle sue feste notturne. Per il resto i tedeschi la città la sognano, epica, come nei dipinti del grande architetto Schinkel, quando la processione sotto l’arcobaleno della cattedrale supergotica lascia intravvedere una città altrettanto gotica e inventata (1815) che anticipa nei dettagli del ponte il dipinto di Turner realizzato dopo il suo viaggio a Venezia del 1819. Questo stesso tema verrà ripreso da Arnold Böcklin, circa settant’anni dopo in una sorta di riassunto sincretico di onde, misteri e architetture di ponti e di classicità miste, fra le quali appare in cima la villa romana che De Chirico riprenderà nell’Ottobrata. Schinkel era già un mito, e l’Italia pure, se nella cattedrale in costruzione dipinto poco prima appare una città che è il riassunto di tutti i temi della classicità, compresi i templi romani sull’acqua (quelli che da Schinkel visto a Monaco riprenderà ancora

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AUGUST WILHELM JULIUS AHLBORN CATTEDRALE SULLA RIVA DI UN FIUME (copia dall’originale perduto di Schinkel), 1830 ca, olio su tela, cm 80x106,5, Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Neue Pinakothek

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una volta Giorgio De Chirico, a riprova del fatto che la Metafisica è l’ultima mutazione del romanticismo), quello tondo di Tivoli e il ponte di Gattapone a Spoleto. Si stava allora evolvendo l’architettura nell’abbandono dei modelli neoclassici e verso una direzione neomedioevale ch’era per necessità neogotica. L’afflato romantico del paesaggio potente, urbano o agreste, entra fino alle radici del XX secolo. Ne sono buona

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prova il cielo di tempesta e fulmini di Russolo nel 1910, quando dipige la città di Milano in crescita e il quadro di Franz Marc, nella corrente dell’altro espressionismo tedesco, quello che si sviluppa attorno al Blaue Reiter di Monaco e alle prime sperimentazioni astratte di Kandinskij. E se vi dovesse venire un dubbio basterebbero i titoli di questi dipinti, Composizione, a spiegare quanto lega questi lavori alla musica, allora ancora per tutto romantica e tardoro-

LUIGI RUSSOLO LAMPI 1910, olio su tela, cm 102x102, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna

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FRANZ MARC IL DESTINO DEGLI ANIMALI 1913, olio su tela, cm 194,7x263,5, Basilea, Kunstmuseum

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mantica, titoli che a noi oggi sembrano ovvi ma che allora erano del tutto inattesi e nuovi. Da questo breve percorso sarete usciti ancora più sconcertati, ma con la certezza che il forte vento del romanticismo ha attraversato tutto il Secolo Lungo. E allora siete pronti al gira e volta che avviene girandovi su voi stessi nella stanza. A che cosa s’interessava allora la borghesia minuta ch’era ben lontana dai sentieri aristocratici di Shelley, Byron o Goethe o dagli impegni politici di Lamartine? Si riempiva le case, in un secolo dove si dipinse come mai prima e come mai più, di ogni genere di pittura, detta appunto “di genere”, per alleviare le lunghe noie della vita casalinga. In sintonia con centinaia di colleghi, il fratello di Oswald Achenbach, Andreas, dipingeva scenette dove la luna è pronta a decorare la testata del letto o paesaggini dal sapore tardofiammingo che sono forse definitivamente da collocarsi nella cronaca degli stili attardati. Erano i padri di quel gusto popolare che il XX secolo

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VASILIJ KANDINSKIJ STUDIO PER COMPOSIZIONE II 1910, olio su tela, 97,5x130,5, New York, Solomon R. Guggenheim Museum VASILIJ KANDINSKIJ COMPOSIZIONE IV 1911, olio su tela, cm 159,5x250,5, Düsseldorf, Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen

chiamerà kitsch. Talvolta va riconosciuto a questa narrazione da elzeviro un certo stimolo a quella curiosità che anche il luogo comune può stimolare, come quando nel 1855 Heinrich Bürkel racconta l’arrivo d’una diligenza nelle regioni laziali e l’immediato precipitarsi dei mendicanti. Sicché torna utile il commento del più fine e ironico critico della cultura di quella piccola borghesia che passò alla storia col nome di Biedermeier. Attenzione, al mondo biedermeier si deve sia la fine melancolia delle musiche di Felix Mendelssohn sia una innovazione nel decoro delle case che sfociò in uno stile di mobilia di assoluta freschezza: si stava scoprendo la delicatezza del gemütlich, quel

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HEINRICH BÜRKEL UN GRUPPO DI MENDICANTI A UNA STAZIONE DI POSTA IN ITALIA 1855, olio su tela, Collezione privata ANDREAS ACHENBACH PAESAGGIO NOTTURNO CON PESCATORI 1890, olio su tavola, cm 35×45,5, Collezione privata

CARL SPITZWEG IL GEOLOGO 1860 ca, olio su cartone applicato su tela, cm 44x34,5, Wuppertal, Von-der-Heydt Museum CARL SPITZWEG L’AMICO DEI CACTUS 1856 ca, olio su tela, cm 54,3×32,2, Schweinfurt, Georg Schäfer Museum

Pagina a fianco: CARL SPITZWEG IL CACCIATORE DI FARFALLE 1840, olio su tavola, cm 31x25, Wiesbaden, Wiesbaden Museum

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concetto misto di confortevole e di domestico che sarà alla radice del rinnovamento estetico alla fine del secolo. Ma il fine critico appunto, Carl Spitzweg, il tirolese farmacista e autodidatta, quel mondo lo prendeva pittoricamente in giro. Capolavori ineguagliabili di ironia senza quella acidità da metropoli che fa la grandezza di Daumier e prima ancora l’elegante acidità di Hogarth. Per lui la natura diventa motivo di ricerca per il Geologo maniaco (1860), per il Cacciatore di farfalle (1840) o per L’amico dei cactus (1856). Questa piccola borghesia che già Karl Marx condanna nel 1848 perché sostiene che “sta oggi peggio di ieri e teme di stare domani peggio

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CARL SPITZWEG LA PASSEGGIATA DOMENICALE 1841, olio su tavola, cm 28x34, Salisburgo, Salzburg Museum

CLAUDE MONET PAPAVERI 1873 ca, olio su tela, cm 50x65, Parigi, Musée d’Orsay

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d’oggi” e quindi è fenomenologicamente reazionaria, ebbene, questa piccola borghesia avrà i suoi cantori d’una natura ben diversa, gradevole e pacifica, dove il contatto con la sua magia si riduce alla Passeggiata domenicale (1841). La signora con l’ombrellino la ritrovo in un quadro di Monet del 1875. Certo è cambiata la foggia del cappellino, è ben più raffinato il racconto dei papaveri in Les coquelicots, un dipinto fra i primi nella cronologia impressionista (1873). Ma la struttura sociale è la medesima. Anche forse la noia. E quando dipinge la moglie e il figlio che passeggiano nei campi due anni dopo, ne fa un vero capolavoro, della pittura e della vita casalinga. Qui il romanticismo è diventato romanzo rosa. E Richard Burchett, inglese che poi diventerà uno dei più pomposi fra i Preraffaelliti, precede a sua volta di vent’anni l’ombrellino di Monet in una scena di campi di grano dove le country ladies, quella classe sociale che sta a metà strada fra mondanità londinese e mestizia campagnola, vanno d’ombrellino o di garbata lettura all’ombra dei covoni. Monet oggi ci piace di più. Perché è in qualche modo più bello (categoria della critica) o perché l’abbiamo più sovente ricevuto in regalo sul coperchio della scatola dei cioccolatini? Monet in realtà corrisponde maggiormente proprio a questa mutazione degli utenti da coloro che appartenevano alla bor-

RICHARD BURCHETT VEDUTA SU SANDOWN BAY, ISOLA DI WIGHT 1855 ca, olio su tela, cm 34,3x51,7, Londra, Victoria and Albert Museum

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ghesia opulenta alla classe più ampia della piccola borghesia, quella che apprezza valori sostanzialmente meno epici dell’esistenza. Ecco perché appare così morbida e morbosa la flora di lusso, dove l’ombrellino di Arthur Hacker di carta giapponese vola e cola nel pond, l’immancabile stagnetto che per ogni giardino inglese è d’obbligo. Talvolta questi fiori vengono così ben descritti da essere già pronti alle inflorescenze del Liberty e dell’Art Nouveau. La scena è diventata intimamente sdolcinata. Ma vince prorompente, da parte d’un artista preraffaellita dell’ultima generazione, che si dedica ai temi d’obbligo fra Oriente e religione, una descrizione floreale che servirà a decorare le tappezzerie dei salottini vittoriani fine secolo. Ora rischiate d’avere respirato troppa aria fresca.

Pagina a fianco: CLAUDE MONET DONNA CON PARASOLE (MME MONET E SUO FIGLIO) 1875, olio su tela, cm 100x81, Washington, National Gallery of Art Sotto: ARTHUR HACKER PARASOLE PERDUTO 1902 ca, olio su tavola, Collezione privata

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LO STORICISMO

quindi vi si suggerisce un respiro profondo d’aria stantia, quella dell’altra declinazione romantica, lo storicismo. Se la pittura che già negli anni venti del Secolo Lungo veniva regolarmente chiamata accademica perché narrava all’infinito storie di glorie romane antiche e non riusciva a esimersi da posizioni compositive dove le facce erano di profilo per assomigliare ai bassorilievi e alle medaglie, quella romantica penetra mondi nuovi, quelli delle radici romanze e medioevali. Questione già sostenuta dai poeti tedeschi ma diventata di dominio popolare con i romanzi di Walter Scott (vi ricordate Ivanhoe…). Scott nella prima metà del secolo piace a tutti. E poi passa la moda. Baudelaire, già nel 1847 nel suo breve testo La Fanfarlo vede la faccenda in modo ben diverso:

E

– Che scrittore noioso ! – Un polveroso disseppellitore di cronache! Un tedioso cumulo di descrizioni futili e antiquate, un ingombro di cose vecchie e di anticaglie d’ogni genere: armature, vasellami, suppellettili, locande gotiche e castelli da melodrammi, dove passeggiano manichini a molle con giustacuore e con farsetti policromi; tipi comuni, che nessun plagiario di diciotto anni vorrà più riconoscere tra un decennio; castellane impossibili e innamorati assolutamente spogli d’attualità, nessuna verità di cuore, nessuna filosofia di sentimento! Come differenti i buoni nostri romanzieri francesi, nell’opera dei quali la passione e la morale prevalgono sempre sulla material descrizione degli oggetti! Che c’importa se la castellana vesta goletto o guardinfante, o gonna Oudinot, purché ella singhiozzi o tradisca con sapienza? Piace forse di più l’innamorato perché nasconde nel panciotto un pugnale invece d’un biglietto da visita, e un despota, in abito nero, minor terrore poetico cagiona d’un tiranno carico di corni e di ferro?

KARL PAVLOVICˇ BRJULLOV GLI ULTIMI GIORNI DI POMPEI particolare, 1830-1833, olio su tela, cm 456,5x651, San Pietroburgo, Museo Statale Russo

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KARL PAVLOVICˇ BRJULLOV GLI ULTIMI GIORNI DI POMPEI 1830-1833, olio su tela, cm 456,5x651, San Pietroburgo, Museo Statale Russo HIPPOLYTE FLANDRIN POLITE FIGLIO DI PRIAMO OSSERVA I MOVIMENTI DEI GRECI VERSO TROIA 1834, olio su tela, cm 205x148, Saint-Etienne, Musée d’Art et d’Industrie Pagina a fianco: PAUL DELAROCHE ESECUZIONE DI LADY JANE GREY 1834, olio su tela, cm 45,7x53,3, Londra, Guildhall Art Gallery

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Ma nella prima metà del secolo tutto è storicista, pittura compresa. Non potevamo esimerci dall’appendere all’inizio della parete un dipinto di Flandrin che rappresenta a fondo il meglio dell’accademia. Siamo nel 1834 e questo giovane operaio parigino, con folto pelo pubico, si trova costretto a fingere d’essere un greco che guarda il fondo d’orizzonte d’un mare del quale non ha mai percepito l’essenza, seduto su un cippo di cartone sbucciato. Un quadro che negli arredi chic di oggi potrebbe comunque avere successo. Irreale per irreale, molto meglio l’evocazione teatrale, dove tutto

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si muove e per causa, degli ultimi giorni di Pompei, dipinto da Brjullov a Roma e poi a San Pietroburgo negli stessi anni. E sempre nel 1834 Paul Delaroche ci racconta la triste storia di Lady Jane, quella che ancora nel 1966 ha commosso Mick Jagger e i Rolling Stones. La povera Jane Grey, designata diciassettenne come erede al trono d’Inghilterra da Edoardo VI morente. Doveva ella garantire il mantenimento del culto anglicano contro i cattolici. Rimase regina per nove giorni e poi, con un colpo di stato sua cugina Mary la cattolica prese il potere, la fece mettere ai ferri e sette mesi dopo decapitare. Correva l’anno 1554. Mary, quella così sanguinaria d’avere dato il nome a quell’ottimo cocktail che è il Bloody Mary. È nella storia delle nazioni che stanno le radici del vero romanticismo. Per Hayez, la vicenda dei due Foscari è un tema di tale importanza che

FRANCESCO HAYEZ FRANCESCO FOSCARI DESTITUITO 1844, olio su tela, cm 230x305, Milano, Pinacoteca di Brera

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replicherà varie volte il soggetto, anche se questa versione ci sembra innegabilmente la più teatrale, illuminazione compresa. I due Foscari, Giuseppe Verdi li mette in scena nel 1844. La fonte letteraria è inglese romantica, cioè viene da Byron nel suo omonimo romanzo. Perché gran parte di questa pulsione storica si ritrova anche nella televisione d’allora, che è il teatro. Si tratta sempre di fonti letterarie anche quando Ignacio Pinazo Camarlench e Tolín riprendono il Cid Campeador, che fu già il massimo successo di Corneille, e ce ne restituiscono le figlie prigioniere in versioni così sexy nel 1871 e nel 1889, che non abbiamo esitato ad appenderne addirittura le due versioni. James Tissot, che ritroveremo più avanti come autentico maestro, inizia la sua fortunata carriera trasportando il Faust di Goethe su tela: lo espone al Salon del 1861 e glielo acquista lo sta-

DIÓSCORO TEÓFILO PUEBLA TOLÍN LE FIGLIE DEL CID 1871, olio su tela, cm 232x308, Madrid, Museo del Prado, Cason del buon retiro IGNACIO PINAZO CAMARLENCH LE FIGLIE DEL CID post 1889, olio su tela, cm 206x153, Valencia, Banco Urquijo

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JAMES TISSOT L’INCONTRO DI FAUST E MARGHERITA 1860 ca, olio su tavola, cm 78x117, Parigi, Musée d’Orsay Pagina a fianco: ALEXANDRE CABANEL LA GLORIFICAZIONE DI SAN LUIGI 1853-1855, olio su tela, cm 442x432, Montpellier, Musée Fabre

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to. D’altronde Charles Gounod lo aveva messo in musica per il Théâtre Lyrique nel 1859. In Francia il cocktail fra musica, teatro e pittura funziona sempre. Giuseppe Verdi verrà chiamato alla grande per la più lunga delle sue opere, il Don Carlos al Théâtre Impérial di Parigi nel 1867, libretto di Joseph Méry e Camille du Locle. Serviva a esaltare la grande Expo Universale che doveva in quell’anno dare la birra al ricordo di quella londinese del Crystal Palace del 1851. La Francia esaltante che celebra il suo san Luigi glorificandolo con Cabanel nel 1855. Anche Gérôme decanta la monarchia, ma soprattutto fa l’orientalista e ripropone a Napoleone III l’antenato Napoleone I ancora capellone giacobino su dromedario nel 1868. L’Europa unita dalla medesima passione, forse tutta colpa del filosofo tedesco Fichte che s’era impegnato nella definizione dello spirito della nazione.

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Doppia pagina precedente: JEAN-LÉON GÉRÔME NAPOLEONE E IL SUO STATO MAGGIORE 1868, olio su tavola, cm 58,4x88,1, Collezione privata

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ERASTUS SALISBURY FIELD I MONUMENTI STORICI DELLA REPUBBLICA AMERICANA 1867-1888, olio su tela, cm 41x33, Springfield, MA, Museum of Fine Arts

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A tal punto che gli Stati Uniti, che fanno fatica a parlare di radici medioevali, si ritrovano un formidabile pittore naïf, Erastus Salisbury Field, il quale inventa The Historical Monument of the American Republic (1867-1888) in un accrocco di gusti e di stili che precede ogni postmodernismo e tutta la sequenza dei futuri grattacieli.

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i fronte alla grande parete storicista si aprono tre vani corrispondenti a tre temi che ebbero allora un successo assoluto. Il primo riguarda la riscoperta di Dante. Se Balzac decide di scrivere la Comédie humaine come sua opera centrale storpiando il titolo dantesco, vi sarà pure una ragione, la quale permette anche di capire che negli anni ’70 Cˇajkovskij compone Francesca da Rimini, quando Franz Liszt aveva già composto la sua Dante-Symphonie nel 1857. Dante, tenuto in seconda fila dall’epoca barocca a quella neoclassica, viene ristampato e commentato a Roma dal filosofo Baldassare Lombardi nel 1791; ma già a Parigi, nel 1785 Antoine de Rivarol, forse per via d’un suo nonno piemontese, ne dà una traduzione. Henry Francis Cary fornisce la sua traduzione inglese a partire dal 1814, ed è subito successo, a tal punto che a William Blake, patito e tante volte ispirato dal testo, verrà richiesta una illustrazione che non viene completata per la morte dell’artista. Era ovvio che i tedeschi fossero arrivati lì

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Il mito di Dante

Pagina a fianco: AUGUSTE RODIN PORTA DELL’INFERNO gesso 1880, fusione 1928, bronzo, cm 635x400x85, Parigi, Musée Rodin Sopra: EUGÈNE DELACROIX DANTE E VIRGILIO ALL’INFERNO O LA BARCA DI DANTE 1822, olio su tela, cm 189x241, Parigi, Musée du Louvre

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WILLIAM BLAKE DIVINA COMMEDIA, INFERNO, CANTO XII, MINOTAURO 1824-1827, acquarello, inchiostro nero, matita e gesso nero su carta, cm 37,1x52,3, Cambridge, MA, Harvard Art Museums, Fogg Museum

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WILLIAM BLAKE DIVINA COMMEDIA, DANTE E VIRGILIO ENTRANO NELLA SELVA 1824-1827, grafite, penna, inchiostro e acquarello su carta, cm 37,1x52,7, Londra, Tate Modern

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WILLIAM-ADOLPHE BOUGUEREAU DANTE E VIRGILIO ALL’INFERNO 1850, olio su tela, cm 281x225, Parigi, Musée d’Orsay

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GUSTAVE DORÉ DANTE E VIRGILIO NEL NONO CERCHIO DELL’INFERNO 1861, olio su tela, cm 315x450, Bourg-en-Bresse, Musée de Brou GUSTAVE DORÉ DIVINA COMMEDIA, INFERNO, CANTO XXIV, I LADRI 1861, incisione Pagina a fianco: GUSTAVE DORÉ DIVINA COMMEDIA, INFERNO, ARACNE 1885, incisione, Collezione privata

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per primi, infatti già nel 1767-69, Lebrecht Bachenschwanz ne aveva dato una traduzione in prosa, dedicata all’imperatrice di tutte le Russie, la tedesca Caterina II. Erano gli anni della grande riscoperta della penisola con la pubblicazione di Geschichte der Kunst des Alterthums di Winckelmann nel 1764, erano gli anni nei quali la Caterina s’era fatta mandare il testo appena pubblicato dal Beccaria Dei delitti e delle pene sempre del 1764. D’altronde sempre lei, la superdonna, allora si stava anche facendo mettere a posto la casuccia dal fiorentino Rastrelli, suo architetto di fiducia. Dante il fiorentino, ch’ebbe in Italia la sua ultima fortuna con il dipinto del Bronzino e si dovette nascondere dopo la Controriforma, tornò di moda, immediatamente europeo. Sul fondo della stanza si staglia la grande porta di bronzo che Auguste Rodin realizzò intorno al 1880 partendo da centinaia di piccole sculture e bozzetti. È questa nella sostanza l’opera che riassume quasi tutta la sua vita creativa. Ma è corretto iniziare con il primo freak di Dante, e qui la parola freak assume tutto il suo significato. William Blake reinventa il Guardiano del Cerchio dei Violenti in un Minotauro all’acquarello che precede in modo quasi imbarazzante le iconografie delle tauromachie di Pablo Picasso. E ci fa passare nella selva oscura dove gli alberi sono già quelli del Surrealismo del XX secolo, mentre i suoi serpenti, nella loro iconografia, sarebbero sicuramente piaciuti ad Aby Warburg quando studiava l’iconografia del serpente in Messico e il suo ritorno nell’immaginario dell’umanità. La plasticità dei corpi è quella che il neoclassicismo scultoreo di Maillol riprende a cavallo fra Otto e Novecento. Tutte visioni tremendamente profetiche. Delacroix, uomo sempre in anticipo sui tempi, dà nel 1822 una risposta alla Zattera della Medusa con la barca di Caronte, un’imbarcazione altrettanto tempestata alla quale tentano d’attaccarsi i dannati. Lui aveva posato quattro anni prima per Géricault e si ricordava bene sia la questione sia il successo conseguente. Il quadro è di soli 5 metri quadrati, rispetto all’enorme modello, ma la densità contorta e romantica è dello stesso sapore. E nel 1850 Bouguereau recupera il tema con Dante e Virgilio all’inferno dove i furenti si prendono alla gola: ha sicuramente guardato Delacroix, perché è riuscito a trovare il sosia del modello con i capelli rossi per raffigurare il mordace. Il tema dolce e

Pagina a fianco: ARY SCHEFFER APPARIZIONE DELLE OMBRE DI FRANCESCA DA RIMINI E DI PAOLO MALATESTA 1855, olio su tela, cm 171x239, Parigi, Musée du Louvre ALEXANDRE CABANEL MORTE DI FRANCESCA DA RIMINI E DI PAOLO MALATESTA 1870, olio su tela, cm 184x255, Parigi, Musée d’Orsay

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GAETANO PREVIATI MORTE DI PAOLO E FRANCESCA 1887 ca, olio su tela, cm 98x227, Bergamo, Galleria dell’Accademia Carrara

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drammatico è l’altro versante della lettura, quello di Paolo e Francesca. L’olandese Ary Scheffer, approdato a Parigi, già nel 1835, e in repliche successive, ne dà una versione che sembra ricordare certi nudi di Füssli. In Italia dove tutto si fa melodramma diventano essi ovviamente personaggi da palcoscenico e Arienti li raffigura giustamente col libro (“la bocca mi basciò tutto tremante, galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse”) e col marito di lei che avendo già ucciso il fratello e traditore amante adultero prende l’incarnato scuro di Otello: bella sommatoria di miti, paghi uno prendi due. Nel centinaio di dipinti di vari autori che provano il successo trasversale dell’argomento Cabanel li veste, anzi passa nel miglior negozio di vestiti d’epoca per farlo nel 1870, quando anche il decoro della stanza intera corrisponde all’eclettismo che va di moda con Napoleone III. Gaetano Previati riprende il tema nel 1887 da giovane trentacinquenne e s’identifica forse nell’assassinato: rende il dipinto con questi forti colpi di pennello che sono il meglio della Scapigliatura e che passeranno da lì a poco alla loro saturazione veloce nel Divisionismo, quando Paolo e Francesca verranno rieditati da lui in un volo che sembra portarli al perdono. Va ricordato che Gustave Doré nasce a Strasburgo e che si trova quindi permeato di quella curiosa follia surreale che contamina la riva sinistra del Reno

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Sopra: CARLO ARIENTI PAOLO E FRANCESCA 1845-1850 ca, olio su tela, cm 190x214, Collezione privata A fianco: GAETANO PREVIATI PAOLO E FRANCESCA 1901, olio su tela, cm 230x260, Ferrara, Civica Galleria d’Arte Moderna

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dagli anni di Hieronymus Bosch. E questa inclinazione agli incubi la porta al parossismo nell’illustrazione della Divina commedia che lo impegna per tutti gli anni ’60. La sua pittura del 1861 è tutta fumosa come se fosse già simbolista e segue un percorso opposto a quello dei Preraffaelliti inglesi: il suo modello è innegabilmente michelangiolesco, nella muscolatura come nell’ambizione. Le incisioni in quella sua insuperabile maestria della xilografia, ne hanno richiami perenni. Nell’acquarello di Blake che raffigura il diavolo tornano addirittura reminiscenze della pala di Isenheim di Grünewald. Negli stessi anni a Parma, Francesco Scaramuzza percorre una strada parallela degna di assoluta nota. E infine è il poeta che colpisce gli spiriti, lui l’Alighieri capace di descrivere nel suo epos tutte le contraddizioni del Medioevo. Cabanel è affascinato nel 1861 dal dolce far niente dei poeti fiorentini, e non

Pagina a fianco: WILLIAM BLAKE IL GRANDE DRAGO ROSSO E LA DONNA VESTITA DI SOLE 1805-1810, acquarello, cm 54,6x43,2, New York, Brooklyn Museum Sopra: FRANCESCO SCARAMUZZA INFERNO, CANTO XXXIV, LUCIFERO disegno a penna su carta, Collezione privata

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ALEXANDRE CABANEL IL POETA FIORENTINO 1861, olio su tavola, cm 30,5x50,5, New York, The Metropolitan Museum of Art VINCENZO CABIANCA I NOVELLIERI FIORENTINI 1860, olio su tela, cm 78x99, Firenze, Galleria d’arte moderna, Palazzo Pitti

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sa che Cabianca, proprio in quella Firenze che sta innovando la macchia di colore, già lo ha preceduto anni prima. Ma chi ne sarà il cantore assoluto è il movimento dei Preraffaelliti. Li ritroveremo più avanti nel nostro percorso. Qui basta ricordare che Rossetti, di discendenza italiana, era predestinato alla faccenda da quando fu battezzato Dante Gabriele. La Salutatio Beatricis celebra il 9 giugno 1290 e nella cornice cita La Vita nova: “Questa mirabile donna apparve a me vestita di colore bianco, in mezzo di due gentili donne di più lunga etade… Negli occhi porta la mia donna amore”. Più che un dipinto, questo è un manifesto e si replica con il Sogno di Dante che percepisce la morte di Beatrice.

DANTE GABRIEL ROSSETTI IL SALUTO DI BEATRICE 1859, olio su due tavole, cm 74,9x80 ciascuna, Ottawa, National Gallery of Canada DANTE GABRIEL ROSSETTI IL SOGNO DI DANTE 1871, olio su tela, cm 216x312,4, Liverpool, Walker Art Gallery

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Tema dolce per signorine pallide. La Belle dame sans merci

Una signora in quei prati incontrai, / lei, tutta la bellezza di figlia delle fate aveva, / chiome assai lunghe, e leggeri i suoi piedi, / ma selvaggi i suoi occhi.

ell’Erlkönig, Il Re degli Elfi che Goethe scrive nel 1782, il diavolo tentatore è lo spirito della natura. Chissà poi per quale curiosa storpiatura lo si chiama in italiano il re degli elfi, quei simpatici esseri umanoidi con le orecchie a punta che simboleggiano gli elementi leggeri della natura, come l’acqua e l’aria, nella mitologia nordica precristiana. Gli Erlen sono gli ontani, parenti vicini delle betulle, e il loro re rappresenta gli spiriti pericolosi degli alberi e dei boschi. Fatto sta che il re di Goethe insidia il fanciullo impallidito fra le braccia del padre che corre al galoppo, e che il bimbo verrà rapito nella morte. Dura roba da protoromantici. Goethe morì tranquillo a ottantadue anni nel 1832. John Keats muore poverino ben prima, nel 1821 e a venticinque anni di tubercolosi a Roma. Appartiene a quel grappolo di poeti inglesi finissimi che muoiono tutti giovani, come Byron e Shelley. E in pochi anni lascia una traccia romantica commovente ma ben più dolce. La sua poesia La Belle dame sans merci narra una storiella diversa assai, quella del cavaliere che viene infatuato, lo dice la parola stessa, dalla figlia d’una fata.

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I met a lady in the meads Full beautiful, a faery’s child; Her hair was long, her foot was light, And her eyes were wild.

Lui la posa sul suo cavallo, passeggiano, non corrono affatto nella notte di Goethe, poi lei lo porta nella grotta, si mette a piangere e lui le dà quattro baci. Lei scompare e lui è condannato dal suo incantesimo a vagare. Una storia da impiegato comunale, se gli impiegati comunali portassero l’armatura. La bella dama senza pietà non è poi tanto aggressiva, non uccide, incanta e fagocita. Non è poi così spietata; è solo molto bella. Si sa. La poesia ebbe un effetto di forte contaminazione su tutta la generazione postromantica dei Preraffaelliti, quelli per i quali la tensione si trasforma in melancolia simbolista. Vi lasceremo quindi girare la stanza, vagando come il cavaliere. Ma una considerazione va fatta. Come per Goethe, anche per Keats il tema centrale è la bellezza: “Beauty is truth, truth beauty, that is all Ye know on Earth, and all ye need to know.”

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– “La bellezza è verità, la verità bellezza, questo è tutto ciò che sapete in terra, ed è tutto ciò che vi serve di sapere”. La questione è evidentemente centrale per i romantici e per i loro discendenti. Viene ancora una volta portata al dibattito esatto a Parigi dove si annulla il dogma classico espresso da Boileau nel Seicento, quello secondo il quale “rien n’est beau que le vrai, seul le vrai est aimable” – “nulla è bello se non ciò che è vero, solo il vero è degno d’amore”, quando Alfred de Musset dichiara: “rien n’est vrai que le beau, rien n’est vrai sans beauté” – “nulla è vero se non ciò che è bello, nulla è vero senza bellezza”. La verità, la bellezza e l’onestà andrebbero per un verso o l’altro a braccetto? Per un verso opposto all’altro, per un romantico opposto a un accademico. Per Keats tutto si mescola, in quanto i simbolisti non hanno problemi d’ordine filosofico acuto. E forse anche perché si ricordano in As You Like It di Shakespeare il verso fondamentale “honesty coupled to beauty is to have honey a sauce to sugar” – “l’onestà accoppiata alla bellezza è usare il miele come salsa per lo zucchero”. Ecco perché la bellezza della Dama senza pietà non richiede onestà nel rapporto con il cavaliere. A buon intenditore…

MORITZ VON SCHWIND IL RE DEGLI ELFI 1860, olio su tavola, cm 32,2x45,3, Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Neue Pinakothek

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Sopra: ARTHUR HUGHES LA BELLE DAME SANS MERCI

Sotto: FRANK DICKSEE LA BELLE DAME SANS MERCI

1863, olio su tela, cm 153,7x123, Melbourne, National Gallery of Victoria

1901 ca, olio su tela, cm 137,1x187,9, Bristol, Bristol City Museum and Art Gallery

FRANK CADOGAN COWPER LA BELLE DAME SANS MERCI

WALTER CRANE LA BELLE DAME SANS MERCI

1926, olio su tela, cm 102x97, Collezione privata

1865 ca, olio su tela, cm 48x58, Collezione privata

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Pagina a fianco: JOHN WILLIAM WATERHOUSE LA BELLE DAME SANS MERCI 1896, olio su tela, cm 112x81, Darmstadt, Hessisches Landesmuseum

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Mazeppa l’eroe

GUSTAF CEDERSTRÖM CARLO XII DI SVEZIA E IVAN MAZEPPA DOPO LA BATTAGLIA DI POLTAVA 1880, olio su tela, cm 68x86, Collezione privata

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erza riflessione fra musica, letteratura e pittura: l’incredibile caso Mazeppa. Ovvero l’ucraino Ivan Mazeppa, quel bel ragazzo legato nudo sul cavallo, che ce la fa, diventa atamano dei cosacchi ucraini per lo zar, poi lo tradisce, va a combattere con il nemico Carlo XII di Svezia, perde ma diventa l’eroe dei cosacchi. In realtà si chiamava Ivan Stefanovicˇ Koledins’kij (1645-1709), cresciuto alla corte del re di Polonia, divenne atamano (il gran capo) dei cosacchi. Sognò la loro indipendenza in un regno ucraino autonomo. Dopo il voltagabbana combatte la battaglia di Poltava (1709) vinta da Pietro il Grande, mentre lui e il re svedese ferito se ne devono fuggire. Muore forse suicida il medesimo anno e fallisce il suo sogno: l’Ucraina diventa russa, i cosacchi passano definitivamente al servizio dello zar (almeno fino a ieri).

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E ora tenetevi forte, si parte per le montagne russe. Uno dei primi registi eroi del cinema americano di California è l’ormai dimenticato Francis Boggs, ucciso a rivoltellate dal suo giardiniere giapponese nel 1911. Aveva, poveretto, quarantuno anni e aveva appena finito di girare il mitico film muto Mazeppa, or the Wild Horse of Tartary. Pochi anni dopo Bertold Brecht in Germania scrive la Ballade von Mazeppa, un piccolo poema con forze onomatopeiche che solo la lingua tedesca combinata con il teatro di quegli anni riesce a proporre. Mit eigenem Strick verstrickt dem eigenen Pferde Sie schnürten ihn Rücken an Rücken dem Roß Das wild aufwiehernd über heimatliche Erde Gehetzt in den dunkelnden Abend hinschoß.

Il povero Mazeppa è quindi legato su un cavallo, schiena contro schiena, che viene lanciato al galoppo nella notte… In una lettera che negli anni ’30 Adorno manda a Benjamin, a proposito di Baudelaire, va a spropositare su un poema di Victor Hugo, il Mazeppa: Les six lunes d’Herschel, l’anneau du vieux Saturne, Le pôle, arrondissant une aurore nocturne Sur son front boréal, Il voit tout ; et pour lui ton vol, que rien ne lasse, De ce monde sans borne à chaque instant déplace L’horizon idéal.

Victor Hugo, con quella sua formidabile capacità di trombone-retore-super-poeta, ci fa veder ciò che vede Mazeppa mentre è legato sul dorso del cavallo. Poi tutto si conclude alla grande: Il crie épouvanté, tu poursuis implacable. Pâle, épuisé, béant, sous ton vol qui l’accable Il ploie avec effroi ; Chaque pas que tu fais semble creuser sa tombe. Enfin le terme arrive… il court, il vole, il tombe, Et se relève roi !

Il poema di Hugo è del 1829 e riprende un altro poema di Byron, pubblicato dieci anni prima, Mazeppa. Hugo ci rac-

Con la propria corda avviluppato al proprio cavallo / lo legarono schiena contro schiena al destriero / che nitrendo selvaggio sulla patria terra / aizzato nell’oscura sera si lanciò.

Le sei lune di Herschel, l’anello del vecchio Saturno, / il polo, che arrotonda un’aurora notturna / sul suo fronte boreale, / egli vede tutto; e per lui il tuo volo, che nulla stanca, / di questo mondo senza limite in ogni istante sposta / l’orizzonte ideale

Egli grida spaventato, tu lo persegui implacabile. / pallido, esausto, a bocca aperta, sotto il tuo volo che lo schianta / egli si piega con terrore; / Ogni passo che fai sembra cavare la sua tomba. / infine il fondo arriva… corre, vola, cade / e si rialza re!

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conta della terribile cavalcata notturna di Mazeppa, con lieto buon fine. La causa di questa cavalcata sta in Byron: “cherchez la femme”. Mazeppa s’innamora della bella, solo che il marito di lei non è affatto d’accordo, quindi lo fa legare nudo sul cavallo. A Byron interessa l’amore quanto a Mazeppa: […] e purtroppo non mi vengono le parole mai / per l’ombra di colei che tanto amai. / aveva ella l’occhio d’Asia / come quello che i nostri vicini turchi / hanno mescolato al nostro sangue polacco, / scuro come il cielo sopra di noi / a suo traverso fuggiva una luce tenera / come il primo sorgere della luna a mezzanotte, / grande, scuro, che nuotava nella corrente, / che sembrava sciogliersi nella propria lucentezza / tutto amore, metà languore, e metà fuoco / come santi che spirano al rogo / e alzano i loro sguardi rapiti in alto, / come se fosse un gioia morire. / Una fronte come un lago di mezz’estate.

And yet I find no words to tell The shape of her I loved so well: She had the Asiatic eye, Such as our Turkish neighbourhood Hath mingled with our Polish blood, Dark as above us is the sky; But through it stole a tender light, Like the first moonrise at midnight; Large, dark, and swimming in the stream, Which seem’d to melt to its own beam; All love, half languor, and half fire, Like saints that at the stake expire, And lift their raptured looks on high, As though it were a joy to die. A brow like a midsummer lake.

Eccoci qui in pieno romanticism… Ah! Ah! Ma la questione prende sapore maggiore se andate a vedere l’edizione originale di Byron, nella quale la prefazione è all’inglese denominata come una pubblicità: Advertisement. Ed è in francese perché cita con esattezza un passaggio di Histoire de Charles XII di Voltaire, uno di quei testi che fanno del filosofo francese un virtuoso assoluto della scrittura colta e facile al contempo. Il maestro Voltaire, orchestratore dell’illuminismo, quello francese questa volta, non quello di Kant, illuminismo che contiene però, come quello tedesco, i germi del romanticismo. Ed eccolo allora Mazeppa:

LOUIS BOULANGER IL SACRIFICIO DI MAZEPPA 1827, olio su tela, cm 525x392, Rouen, Musée des Beaux-Arts

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Era un gentiluomo polacco, chiamato Mazeppa, nato nel Palatinato di Podolia: egli era stato allevato paggio del re Giovanni Casimiro, ed aveva acquistata nella sua corte qualche tintura di belle lettere. Essendo stata scoperta una corrispondenza, ch’egli nella sua gioventù ebbe con la moglie di un gentiluomo polacco, il marito lo fece frustare, lo fece ignudo legare sopra un cavallo indomito e in questo stato lo lasciò andare. Il cavallo, ch’era d’Ucraina vi ritornò, e vi

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Pagine precedenti: THÉODORE GÉRICAULT MAZEPPA 1820, olio su tela, cm 28,5x21,5, Collezione privata ÉMILE JEAN-HORACE VERNET MAZEPPA 1820, olio su tela, Collezione privata EUGÈNE DELACROIX MAZEPPA 1824, penna, inchiostro e gouache su carta, cm 22,5x31, Helsinki, Finnish National Gallery ÉMILE JEAN-HORACE VERNET MAZEPPA E I LUPI 1826, olio su tela, cm 100x130, Avignone, Musée Calvet

IL’JA EFIMOVICˇ REPIN COSACCHI DI ZAPOROŽE 1880-1891, olio su tela, cm 203x358, San Pietroburgo, Museo Statale Russo

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portò Mazeppa mezzo morto dalla fatica e dalla fame. Alcuni contadini lo soccorsero: egli si fermò qualche tempo tra loro, e si segnalò in molte scorrerie fatte contro i Tartari. La superiorità della sua cognizione gli acquistò una grande stima tra i Cosacchi: e crescendo la sua reputazione di giorno in giorno indusse lo Zar a farlo principe dell’Ucraina. Voltaire, Histoire de Charles XII.

E allora, senza raccontarvi tutta la storia di Mazeppa, torniamo ai suoi effetti sulle arti, o meglio, agli effetti che il suo mito trasversale ed europeo ebbe su arti diverse, stili diversi, lingue diverse, collegandoli. Franz Liszt rimane molto impressionato da Hugo, comunque. Perché quando inizia a comporre nel 1826 i suoi Études d’exécution transcendante, ovvero tutto ciò che potete fare con le dita su un pianoforte se avete una velocità da ultravirtuoso che vi faccia penetrare nel cuore delle pulsioni romantiche, non esita a dedicare la quarta composizione al Mazeppa di Hugo, probabilmente appena fu fresco di stampa. Poi, quando passa a maggior potenza musicale mentre sta a Weimar e scrive per orchestra, ancora una volta il primo dei suoi Poemi sinfonici sarà dedicato a Hugo (Ce qu’on entend sur la montagne), il secondo a Byron (attenzione, al Tasso che Byron riprende da Goethe), il terzo, i famosissimi e strasuonati Préludes, a Lamartine, il sesto ancora una volta a Mazeppa. Siamo agli albori della seconda metà del secolo. Fra tutte le interpretazioni pianistiche, vi suggerisco quella di György Cziffra (la trovate su Youtube!) che, nato ungherese di origini zigane, Mazeppa ce l’ha nelle vene e nelle mani. Ci provò poi anche Cˇajkovskij, ad affrontare il Mazeppa, con un’opera forse ridondante del 1884 ma innegabilmente di grande respiro. E poi sempre per tornare alla letteratura, è ovvio che il dissidente polacco Juliusz Sl/owacki, finito a Parigi come Chopin, dopo il fallimento dell’insurrezione a Varsavia nel 1831, gli abbia dedicato un dramma nel 1840. In fondo Puškin, già nel 1828 aveva scritto Poltava. E la pittura romantica non si esime dal partecipare alla creazione del mito: che c’è di più esaltante d’un bel giovane polacco legato di notte nudo su un cavallo per punire la sua esuberanza sessuale? La versione di Horace Vernet viene realizzata in uno studio dove i giovani amici compiono un duel-

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lo e danno un colpo di sciabola al dipinto, a tal punto che il pittore ne farà una seconda versione da regalare alla città di Avignone prima di far restaurare quella originaria. Che c’è di più utile per collegare il romanticismo del poeta attivista politico Byron al poeta attivista politico Brecht attraverso tutto l’arco del Secolo Lungo? Poi avviene il passaggio alla pittura storica dove il mondo di due secoli prima viene raccontato in una sorta di set cinematografico da Repin, quando i cosacchi in festa inviano una lettera di scherno ai turchi, anzi direttamente a Maometto IV, quando nel 1676 lo zar alleato combatte il turco in espansione che non ce la farà neppure a papparsi Vienna nel 1683, difesa questa da un altro polacco il re Jan III Sobieski. I polacchi diventano la terza forza dello scacchiere e il nostro Ivan a sua volta prende il

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posto di atamano dei cosacchi nel 1687. Nel 1820 Rossini aveva messo in scena a Napoli una delle sue rare opere serie, sempre dove si combatte il turco, Maometto II, il conquistatore di Costantinopoli nel XV secolo. Mentre il pittore svedese Gustaf Cederström riprenderà più volte il tema tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX per celebrare il più eroico dei monarchi di casa sua. Lo ritrae ferito dopo la catastrofe della battaglia di Poltava, con una veste che appare già modernissima. La storia è per la cultura romantica non fonte d’insegnamento ma territorio infinito della fantasia.

THÉODORE CHASSÉRIAU MAZEPPA 1851 ca, olio su tela, cm 66x53, Strasburgo, Musées de la Ville de Strasbourg

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OFFICINA DELLE RIPARAZIONI

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osì come il Padiglione dei binari si apre con una parete fissa sulla quale è appeso il quadro-manifesto della Zattera della Medusa, anche l’Officina delle Riparazioni si apre con una parete fissa, sulla quale sono appesi quattro dipinti estremamente significativi. Il dipinto di Turner The fighting “Temeraire”, tugged to her last Berth to be broken up del 1839 è il manifesto che ben più dei manifesti futuristi del 1909 segna la mutazione radicale della storia dell’umanità. La grande nave Temeraire, veterana della battaglia di Trafalgar dove l’ammiraglio Nelson guadagna la vittoria e perde la vita nel 1805, oggi l’avremmo riposta in un museo navale o nel museo della guerra. In fondo fu quella la battaglia navale che cambiò i destini dei mari e dei rapporti fra vecchio continente, Inghilterra e terre d’oltre Atlantico. Ed è pure curioso che una delle navi britanniche che contribuirono alla vittoria contro le flotte combinate di Francia e Spagna avesse un nome francese. Fatto sta che il grande veliero, vessillo della gloria passata, viene rimorchiato dalla modernità a vapore per essere portato alla demolizione. Cambia il mondo. Cambia la pittura e tutta quella massa di gialli e ocra e azzurri d’un Turner già sessantaquattrenne è intimamente legata all’attenzione che il pittore portava allora al trattato sul colore che Goethe aveva scritto nel 1810. La modernità contro il passato; ma mentre Marinetti settant’anni dopo decide di condannare anche il romanticismo, essendo egli in fondo un postromantico inconsapevole, con la famosa dichiarazione di “Uccidiamo il chiaro di luna”, qui Turner è talmente romantico che la sua scena non può prescindere dal rappresentare un tramonto sul Tamigi, anche se in verità il trasporto per l’esecuzione capitale dell’antica eroina dei mari è sicuramente avvenuto al mattino. Ma qui si tratta del tramonto di un’epoca durata dal Paleolitico a ieri.

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CARL SPITZWEG GNOMO CHE GUARDA LA PRIMA FERROVIA 1860, olio su tavola, cm 24x14,7, Collezione privata Doppia pagina seguente: WILLIAM TURNER LA VALOROSA “TEMERAIRE” TRAINATA ALL’ULTIMO ANCORAGGIO PER ESSERE DEMOLITA 1839, olio su tela, cm 90,7x121,6, Londra, National Gallery

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THOMAS ROWLANDSON LA FERROVIA DI RICHARD TREVITHICK, EUSTON SQUARE NEL 1809 1809, acquarello su carta, Londra, Science Museum

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Il secondo dipinto è sempre di Turner e rappresenta la famosissima locomotiva “Firefly Class”, quella che nel 1843 fece per la prima volta il record dei 150 chilometri orari. Roba da fare accapponare la pelle e che avrebbe dovuto, secondo il parere di augusti specialisti della medicina, mettere a repentaglio la salute di chi vi avrebbe viaggiato. Eppure erano passati meno di quarant’anni da quando Richard Trevithick aveva fatto funzionare la sua prima locomotiva sperimentale e fallimentare in una miniera del Galles a 6 chilometri orari. La quarta e ultima fu chiamata “Catch Me Who Can” (mi acchiappi chi può) e presentata sempre da lui come un’attrazione circense. Poco dopo (1814) George Stephenson costruì la sua prima macchina a vapore su ruote e iniziò la grande avventura. Ciò che colpisce è che Turner, alla soglia dei suoi settant’anni, abbia per la locomotiva in questione una passione da adolescente, ben in contraddizione con gran parte degli artisti suoi contemporanei, da Ruskin a Delacroix a Rossini, il quale, in quelle squisite composizioni per pianoforte e voce che chiama Péchés de vieillesse, ne compone una commentata con parole dove si racconta di come la gita in treno finisca in un inevitabile e grottesco incidente per deragliamento. Turner muore nel 1851, l’anno nel quale l’Inghilterra celebra il trionfo della modernità con la prima Expo Universale, e cinque anni dopo la National Gallery acquista il suo dipinto: per gli inglesi era già un’icona. Il ponte è quello di Maidenhead. Attraversa il Tamigi e porta verso Bristol. Era appena stato costruito proprio per permettere le nuove alte velocità dell’ingegnere Isambard Kingdom Brunel, genio dell’innovazione che disegnò ponti d’avanguardia e progettò la meccanica della prima nave mossa a elica, la più grande mai costruita, la “Great Britain”. Era tutto grande allora, anche la passione. God save the Queen Victoria. Di questo dipinto vi sono comunque due dettagli che mi colpiscono, in quanto forti anticipatori dei tempi. Quella situazione di assoluta solitudine di chi guarda la scena, quella pancia in primo piano della locomotiva, che in realtà dovrebbe essere in fondo alla macchina, e rappresenta il fuoco spalancato, anticipano il testo futurista di Marinetti in “Le Figaro”, 1909: “Soli coi fuochisti che s’agitano davanti ai forni infernali delle grandi navi, soli coi neri fantasmi che frugano nelle pance arroventate delle locomotive”. L’altro dettaglio è

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per un certo verso quasi fumettistico: riguarda i due piccoli esseri umani sulla barchetta. Sembrano Caillebotte e Monet, o forse Sisley nel 1871, mentre dipingono i loro primi passi dell’Impressionismo. Grandi treni. Piccoli treni. Sempre però fumanti con caldaie arroventate. Il piccolo trenino era allora il vanto della Prussia che stava crescendo e non era ancora cosciente del ruolo industriale potentissimo che avrebbe svolto da lì a trent’anni. Sicché in quegli anni ’40 dove l’Inghilterra va a 150 all’ora, il re di Prussia Federico Guglielmo IV pensa a far partire il trenino da Berlino, centro amministrativo, per

WILLIAM TURNER PIOGGIA, VAPORE E VELOCITÀ. LA GRANDE FERROVIA OCCIDENTALE 1844, olio su tela, cm 91x121,8, Londra, National Gallery

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CARLO BOSSOLI STAZIONE FERROVIARIA DI NOVI LIGURE 1853, litografia a colori, Collezione privata ADOLPH VON MENZEL LA FERROVIA BERLINO-POTSDAM 1847, olio su tela, cm 42x52, Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie

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andare a casa sua a Potsdam, nei famosi castelli, distanti ben 30 chilometri. Ed è forse questo il motivo che rende così poetico il piccolo capolavoro di Menzel, al quale va riconosciuta una qualità pittorica rapida, snella e romantica, degna di assoluto rispetto. Con quella romantica Berlino dei racconti di Hoffmann sullo sfondo. Siamo ancora in pieno Biedermeier in quel 1847, l’anno della morte e della sepoltura a Kreuzberg del cantore musicale Felix Mendelssohn, quello del sogno d’una notte di mezz’estate, quello pieno di fate e di esseri magici. Se girate la testa a sinistra dei tre capolavori troverete di nuovo un commento ironico del nostro caro Spitzweg: Lo gnomo. Lui, l’essere della coscienza che tiene le sue radici fuori da ogni classicismo perché è figlio delle fiabe e della saga nordica, se ne infischia della rivoluzione che infiamma l’Europa nello stesso anno, e guarda poco convinto, da una

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grotta nella roccia che potrebbe essere piaciuta a Friedrich, la piccola locomotiva fumante che corre nella pianura. Erano arrivati già prima dei tedeschi i napoletani, con un intento similare, quello di permettere al re Borbone Ferdinando II d’andare dalla reggia di Napoli a quella di Portici, per ben 7 chilometri. Nasceva così la prima linea ferrata con locomotiva sulla penisola, quando i partenopei potevano vantarsi d’essere la più grande sua città. Il dipinto che raffigura

CARLO BOSSOLI INAUGURAZIONE DELLA TRATTA FERROVIARIA TRA LA ZONA DI PRINCIPE E SAMPIERDARENA 1853, litografia a colori, Collezione privata SALVATORE FERGOLA INAUGURAZIONE DELLA FERROVIA NAPOLI-PORTICI 1839, olio su tela, cm 124x216, Napoli, Museo di San Martino

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HONORÉ DAUMIER VAGONE DI TERZA CLASSE 1862-1864 ca, olio su tela, cm 65,4x90,2, New York, The Metropolitan Museum of Art AUGUSTUS LEOPOLD EGG COMPAGNE DI VIAGGIO 1862, olio su tela, cm 65,3x78,7, Birmingham, Birmingham Museums and Art Gallery

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l’evento è sostanzialmente più conservatore, tutt’altro che accademico, simpaticamente narrativo e leggermente ingenuo. La pittura napoletana di qualità si stava sviluppando in altre direzioni. E molto da invidiare avevano queste prime linee a quelle inglesi. In Inghilterra s’era formato alla passione per l’industria, e ovviamente per le ferrovie, il nostro Camillo Benso conte di Cavour. Lui, in realtà, non sognava affatto una Italia intera e unita. Avrebbe volentieri lasciato sopravvivere l’altro regno, quello borbonico, se il suo, quello sardo-piemontese, avesse avuto la possibilità di diventare un regno ferroviario: da Torino a Venezia, via Milano, da Torino ad Ancona, via Bologna. La prima linea fu quella interna allo Stato da lui governato, la linea di collegamento Torino-Genova, che permise la costruzione di ponti audaci e l’arrivo al mare. Carlo Bossoli ne documenta la realizzazione in un album pubbli-

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cato, la cosa va da sé e la dice lunga, a Londra nel 1853. Questa linea ferroviaria servì immediatamente alle ambizioni di politica internazionale. Dai suoi vagoni scesero nel 1855 i bersaglieri per imbarcarsi alla volta della Crimea. E come si viaggiava in questi treni, ce lo narrano i pittori d’allora. Dei poveri si occupa Daumier e ce li fa vedere in terza classe già nel 1862, quando la Francia di Napoleone III imperatore si copre di ferrovie. Le signorine romantiche inglesi nello stesso 1862 sono dipinte dal londinese Augustus Leopold Egg sognando il loro viaggio verso il meridione dove lo stesso artista andava a curare la sua fragile salute. Il ricco nelle sue pellicce invernali sempre in Inghilterra viaggia in primissima classe secondo i dettami di Tissot negli anni ’70, gli stessi nei quali Monet ci restituisce un misterioso treno invernale con gli occhi rossi. Ed eccoli, questi treni che entrano sbuffanti nella gare Saint-Lazare a Parigi. Le cit-

JAMES TISSOT GENTILUOMO IN UN VAGONE FERROVIARIO 1872, olio su tavola, cm 63,3x43, Worcester, Worcester Art Museum

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tà cambiano. Parigi in poco tempo si dota di stazioni, tutte di testa, dai vari punti cardinali, quella del Nord, quella di Lione, quella d’Orsay che porta le ostriche dalla Bretagna. Come la Londra vittoriana dei delitti di Sherlock Holmes. E Milano pure, laddove la principale è quella Centrale, qui ritratta da un Morbelli capace di animare le banchine con una

CLAUDE MONET TRENO SULLA NEVE 1875, olio su tela, cm 59×78, Parigi, Musée Marmottan Monet

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CLAUDE MONET LA GARE SAINT-LAZARE 1877, olio su tela, cm 80,3x98,1, Cambridge (MA), Fogg Art Museum

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bravura narrativa che pare precedere quella di Hopper. Oggi le stazioni di testa stanno per essere eliminate e la nostra è diventata il museo nel quale camminate. E il treno rimane sempre o trenino o mostro d’acciaio. 1909: per Kandinskij nel suo periodo fiabesco che prelude a Murnau al Cavaliere Azzurro, il treno è trenino come quello

Doppia pagina seguente: ANGELO MORBELLI LA STAZIONE CENTRALE DI MILANO NEL 1889 1889, olio su tela, cm 58x100, Milano, Civica Galleria d’Arte Moderna

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VASILIJ KANDINSKIJ FERROVIA PRESSO MURNAU 1909, olio su carta, cm 36x49, Monaco, Städtische Galerie im Lenbachhaus und Kunstbau Pagina a fianco: UMBERTO BOCCIONI STATI D’ANIMO I: GLI ADDII 1912, olio su tela, cm 70,5x96,2, New York, Museum of Modern Art ROBERTO MARCELLO BALDESSARI IL TRENO IN ARRIVO ALLA STAZIONE DI LUGO 1916, pastelli colorati su cartone, cm 70,3x100,5, Collezione privata, Courtesy Archivio R.M. Baldessari, Rovereto

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di Menzel. Cambiano i colori per rendere il racconto ancor più poetico. Per Boccioni, qualche anno dopo, il treno sbuffa da futurista fra vapori e numeri. Baldessari nel 1916 ha assimilato la lezione futurista e ne fa un treno dove i colori sono quelli dell’ansia che andrà a dominare tutti gli anni successivi, in mezzo a figure che corrono enigmatiche. Solo Severini riesce a guardare il treno terribile della guerra con quella sua inalterabile luminosità toscana. La bandiera della croce rossa sembra allegra quanto quella della Francia. Va detto che i due quadri vengono realizzati quando il conflitto ha già incendiato l’Europa, ma l’Italia non è ancora intervenuta a raccogliere i frutti d’una malaugurata adesione tardiva, quella desiderata dagli stati maggiori e da tutti gli artisti interventisti futuristi. Dalla guerra in poi il cromatismo allegro scompare in tutto l’Occidente e la stessa coscienza collettiva inizia a vedere il periodo come se provenisse da un film in bianco e nero, mescolando realtà

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GINO SEVERINI IL TRENO DELLA CROCE ROSSA ATTRAVERSA UN VILLAGGIO 1915, olio su tela, cm 88,9x116,2, New York, Solomon R. Guggenheim Museum Pagina a fianco: GINO SEVERINI TRENO BLINDATO IN AZIONE 1915, olio su tela, cm 115,8x88,5, New York, Museum of Modern Art

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e percezione d’un mondo di fumi e carbone che già buona parte della pittura sociale aveva anticipato. A questo proposito sono di particolare interesse i tre dipinti che concludono la sala e che testimoniano la grande ingegneria dei ponti nata sin dai primi esperimenti inglesi. Il ponte grandioso del Secolo Lungo è sempre un ponte ferroviario, a esclusione di quelli delle capitali gettati sui fiumi. Lo testimonia bene il dipinto di Monet dove l’opera d’ingegneria degli anni ’70 appare in tutta la sua evidenza. Lo prova il ponte di fine secolo raffigurato dal pittore spagnolo Darío de Regoyos che colpisce per la freschezza dei plinti di pietra e il colore blu del ferro appena verniciato. Siamo abituati a immaginare queste strutture sulla base delle loro immagini successive, quando erano già nere di fumo o arrugginite. Nel 1916 il ponte di Previati è epico nella sua ripresa alla Eizenštejn o alla Metropolis ed è avvolto in un’atmosfera pregna di sapori cromatici bellici. Il treno attraversa veloce il Secolo Lungo, ma il vapore che lo muove s’era già fatto protagonista ben prima. Il lavoro è sporco e non è mai esaltante.

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DARÍO DE REGOYOS Y VALDÉS IL VIADOTTO DI ORMÁIZTEGUI 1896, olio su tela, cm 70x98, Collezione privata CLAUDE MONET IL PONTE FERROVIARIO AD ARGENTEUIL 1873-1874, olio su tela, cm 55x72, Parigi, Musée d’Orsay Pagina a fianco: GAETANO PREVIATI LA FERROVIA DEL PACIFICO 1914, olio su tela, cm 199x125,5, Milano, Camera di Commercio

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opo la cacciata dal Paradiso, l’uomo fu condannato al lavoro, anche la donna s’intende. Ma mentre nell’iconografia medioevale a lui toccò la vanga e a lei il fuso, e la questione andò più o meno avanti così per parecchio tempo, quello nel quale essa passò ai fornelli e lui alla spada, quando la sorte non li mandava in schiavitù, col Secolo Lungo tutto cambia. Colpa ancora una volta del vapore. Il quale di primo acchito apparve come la liberazione dalla fatica fisica, quella liberazione alla quale avevano non del tutto inutilmente già contribuito l’asino, il cavallo e il bove. Il vapore rompe i limiti dell’operare. Oh sublime gioia! Il vapore inventa l’operaio. Oh drammatica questione! Attenzione, va comunque tenuto conto che il passaggio dalla vanga nei fanghi del nord per quattordici ore al giorno al rumore delle cinghie per dodici soltanto fu salutato da molti poveracci con corposo entusiasmo e corrispose a una presa di coscienza che trasformò il condannato agreste nell’ipotetico rivoluzionario di Karl Marx. Nacquero in quegli anni le masse, la classe, le grandi città con tutte le loro conseguenze. Tutto iniziò con James Watt. Era uno scozzese d’assai buona famiglia che preferì lo studio della matematica a quello del latino e del greco. Non si è scozzesi per niente. Passò all’università di Glasgow dove mise in piedi un laboratorio d’ingegneria nel quale si studiava con passione il vapore, ch’era allora di gran moda. Capì che le macchine a cilindro unico e chiuso, che richiedevano un lungo tempo di raffreddamento fra una escursione e quella successiva del pistone, non avrebbero mai avuto fortuna. Ne inventò una nuova, dalla quale il vapore scappava e andava a condensarsi in una camera parallela, sicché non si sprecavano più i tre quarti dell’energia nello scaldare il primo cilindro fra un

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LA MACCHINA A VAPORE DI WATT disegno, Oxford, Science Archive Pagina a fianco: ADOLPH VON MENZEL LA FORNACE COL LAMINATOIO particolare, 1875, olio su tela, cm 158x254, Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie

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JONATHAN PRATT L’OFFICINA DI WATT 1889, olio su tela, cm 41,6x51,4, Collezione privata GIOVANNI MIGLIARA LA FILATURA DELLA SETA 1828, olio su tela, Collezione privata

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movimento e l’altro. Al condensatore di vapore esterno aggiunse un volano d’inerzia, un regolatore rotante come quelli d’un carillon, un bilanciere a parallelogramma. Perfezionò il tutto nel 1788 e fece, col socio Boulton, una solida fortuna. La pompa di Newcomen ormai vecchia oltre cinquant’anni si era trasformata in un motore regolare. La rivoluzione industriale prese un’accelerata inattesa e di lì a breve il mondo si sarebbe coperto di carboni e fumi. In quanto a Watt, fu egli così cosciente dell’importanza della nuova energia che la chiamò cavallo a vapore per decretare il definitivo sorpasso del quadrupede. L’unico che non capì la faccenda, neanche un secolo dopo, fu quel crapone di Guglielmo II imperatore dei tedeschi, il quale, quando l’ingegnere Diesel gli presentò il modello funzionante del nuovo motore a idrocarburi, gli rispose: “È una moda passeggera, la vostra. Sono nato col cavallo e morirò col cavallo”. Rudolf Diesel lo aveva già brevettato nel 1893 e lo stesso anno aveva pubblicato un pamphlet fondamentale, Teoria e costruzione di un motore termico razionale, in sostituzione della macchina a vapore e de’ motori a combustione finora noti. L’energia cambiava ancora una volta destino e i motori leggeri ci avrebbero liberato dalle rotaie sulle strade normali e da lì a poco fatto volare. Ecco perché la prima opera appesa alla parete altro non è che una illustrazione enciclopedica della macchina. E il

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dipinto che le sta accanto, senza pretendere d’essere un capolavoro (ma che cos’è poi un capolavoro?), è una descrizione assai precisa dello studio di Watt realizzata da Jonathan Pratt nel 1889, quando ormai Watt era mito storico. L’arrivo del motore a vapore in realtà serve a dare un impulso a una industria che già si stava sviluppando con la forza motrice dell’acqua e che aveva fatto sorgere i primi opifici. Ne sono buona testimonianza due bei dipinti di sapore ancora neoclassico. Quello di Ronzoni raffigura bene la trasformazione degli antichi edifici agresti in raccoglitori di masse femminili al lavoro. Mentre in Inghilterra il primo proletariato è minerario e siderurgico, quindi maschile con una forte partecipazione di ragazzi se non addirittura di bambini, in Italia il primo proletariato è tessile e in predominanza femminile. Così dice la pittura. Nel dipinto di Migliara, come l’altro della fine degli anni ’20, ben si possono notare i pignoni

PIETRO RONZONI FILANDA NEL BERGAMASCO 1825-1830, olio su tela, cm 73x95, Milano, Gallerie d’Italia, Fondazione Cariplo

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JOSEPH WRIGHT OF DERBY LA FUCINA 1772, olio su tela, cm 121,3x132, Londra, Tate Britain FRANCISCO GOYA LA FORGIA 1815-1820, olio su tela, cm 181,6x121, New York, The Frick Collection

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di legno che muovono la meccanica della fabbrica Mylius a Boffalora, la prima dove la forza motrice era a vapore. L’industria parallela a quella tessile è quella legata al ferro, nel suo percorso complessivo dalla miniera al maglio. Roba da uomini. Wright of Derby dà della forgia già in mutazione verso l’industria una versione settecentesca con la sua solida efficacia. Il maglio viene rappresentato con precisione scientifica e altro non è che il martello, che Goya raffigura ancora tra il 1815 e il 1820 come uno strumento artigianale, trasformato in una dimensione che solo una forza motrice non umana può muovere. Étienne Bouhot lo spiega bene nei due quadretti del 1823 che descrivono l’esterno e l’interno d’una forgia a Châtillon-sur-Seine in Francia. Il maglio assomiglia sempre a un martello gigante che forma il ferro incandescente pestandolo sull’incudine; bene è spiegata la meccanica idrica esterna che muove sia il maglio sia il sistema di soffiatura per tenere alta la temperatura della fucina.

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Nel 1838 l’industria ha fatto progressi: la latta metallica non si ottiene più per semplice martellamento della massa di ferro; il metallo fuso passa già direttamente nel laminatoio: la forgia è diventata fabbrica. Il laminatoio che Menzel fa vedere nel 1875 è una fabbrica infernale d’una Germania unita e protagonista. Siamo ben lontani dal romantico tre-

ÉTIENNE JOSEPH BOUHOT VEDUTA INTERNA DI UNA FORGIA PRESSO CHÂTILLON-SUR-SEINE 1823, olio su tela, cm 38x46, Montbard, Musée Buffon ÉTIENNE JOSEPH BOUHOT VEDUTA ESTERNA DI UNA FORGIA PRESSO CHÂTILLON-SUR-SEINE 1823, olio su tela, cm 38x46,5, Montbard, Musée Buffon

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ALFRED SISLEY LA FORGIA A MARLY-LE-ROI 1875, olio su tela, cm 55x73, Parigi, Musée d’Orsay ADOLPH VON MENZEL LA FORNACE COL LAMINATOIO 1875, olio su tela, cm 158x254, Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie Pagina a fianco: CLAUDE MONET GLI SCARICATORI DI CARBONE 1875, olio su tela, cm 55x66, Parigi, Musée d’Orsay

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nino che lo stesso pittore raccontava nella sua gioventù berlinese. Il mondo della produzione è radicalmente mutato. Ci vuole Sisley, da buon impressionista, anzi l’anno successivo alla prima mostra degli impressionisti, per farci vedere nello stesso 1875 una forgia francese ancora artigianale dove l’assistente del fabbro muove il soffione col braccio destro. Innovativo lo stile pittorico, obsoleto il soggetto. Certo è che questo genere d’officina del fabbro rimarrà inalterata fino nel cuore del XX secolo. Monet, compagno d’avventura pittorica di Sisley, sempre in quell’anno, descrive – con inattesa attenzione per un artista che si dedicherà quasi sempre al “bello” – gli operai che scaricano come formichine il carbone. Perché l’Europa industriale è già l’Europa del carbone e delle miniere. Fra poco tutte le città diventeranno nere, di

ÉMILE ZOLA ALLA SCRIVANIA particolare, 1892, ritratto da “Illustrazione italiana”

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fuliggine e di polvere. L’Inghilterra è grande produttrice di carbone sin dalla prima rivoluzione industriale settecentesca. Il continente andrà alla ricerca di miniere ovunque, ma il bacino principale rimarrà sempre quello che dalla Ruhr si espande alla Lorena, al Belgio e al nord della Francia. Fra Belgio e nord della Francia si formerà il cosiddetto Pays noir, quello che Constantin Meunier descrive con ossessione. E nel Paese nero si colloca l’epos che per vent’anni andrà a narrare Émile Zola nella saga Les Rougon-Macquart, Histoire naturelle et sociale d’une famille sous le Second Empire, una sequenza di venti romanzi che dal 1871 in poi vorrà essere la versione moderna dell’altro compendio di storia umana e sociale che fu La Comédie humaine di Balzac. È in verità la storia di una famiglia rurale che diventa proletaria, s’inurba, evolve fra miseria e vizi fino alla presa di coscienza. Émile Zola è un personaggio fuori dall’ordinario. Nasce a Parigi nel 1840, figlio d’un ingegnere veneziano che tenta la fortuna ad Aix-en-Provence con la costruzione

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di canali vicino alla famosa Montagne Sainte-Victoire. Fallisce. Ma il giovane Émile ha la curiosa fortuna d’essere lì, compagno di scuola del figlio del cappellaio di Aix, il giovane Paul Cézanne. Torna l’Emilio a Parigi, squattrinato, protagonista della vita bohème; il che lo spinge a diventare giornalista e critico d’arte. Sarà amicissimo di Manet e del giro innovativo che difende contro il perbenismo d’allora. È di cultura politica critica sicuramente influenzata dalla prima Internazionale fondata a Londra nel 1864, quella nella quale, secondo lo statuto redatto da Marx, l’emancipazione dei lavoratori e l’abolizione del salario non potrà essere che opera dei lavoratori stessi. Ecco perché Zola, inserito in quella linea di scrittori e artisti impegnati, quelli che da Lamartine a Tommaseo, da Wagner a Hugo, s’impegnano in prima persona nelle istituzioni o sulle barricate, ne cambia il destino e sarà solo mentore morale degli eventi. Con lui nasce la figura moderna dell’intellettuale, che non si fa più definire scrittore, poeta o artista, ma coscienza pensante del-

TELEMACO SIGNORINI L’ALZAIA 1864, olio su tela, cm 54x173,2, Collezione privata

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IL’JA EFIMOVICˇ REPIN I BATTELLIERI DEL VOLGA 1872-1873, olio su tela, cm 131,5×281, San Pietroburgo, Museo Statale Russo Pagina a fianco: ROBERT HERMANN STERL I BATTELLIERI DEL VOLGA 1910, olio su tela, cm 82x122, Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, Galerie Neue Meister CONSTANTIN MEUNIER IL CROGIOLO ROTTO 1884, olio su tela, cm 130,5x238,5, Bruxelles, Musée Constantin Meunier

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la società. Lo dimostrerà, ormai scrittore ricco e di successo, a cinquantasette anni quando travolge l’affare Dreyfus con il famoso articolo J’accuse pubblicato su “L’Aurore” del 13 gennaio 1898. Zola, positivista e anticlericale, che si fa padre d’un naturalismo sociale antiromantico, è alla fine lui stesso romantico nella sua descrizione appassionata del mondo dei “miserabili” in versione industriale. Nel ciclo dei sui romanzi, L’Assomoir e Germinal, la forza fisica dell’uomo schiavo della macchina industriale appare in tutta la sua drammaticità, al pari della forza fisica che rappresenta in chiave eroica Constantin Meunier nel 1884 (impressionante anticipazione della pittura del realismo socialista durante i totalitarismi del XX secolo), quella forza che il macchiaiolo Signorini aveva già descritto nei trascinatori dell’alzaia vent’anni prima, un dipinto di tale effetto che fu ripreso da Repin, il quale sicuramente lo vide nel suo viaggio in Italia del 1873, influenzando a sua volta il pittore di Dresda Robert Sterl nel 1910. Certo che la densità poetica del contrasto, in Signorini, fra i maledetti al tiro e l’elegante signore

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sulla linea d’orizzonte, con cappello a cilindro e bambina vestita di bianco, dove solo il cagnetto sembra ringhiare contro il sudore dei lavoratori, la dice lunga sullo spirito sociale che animava i nostri avanguardisti. In Repin, i lavoratori essendo schiavi russi, diventano autentici straccioni, anche se uno di loro, quello che sembra faticare meno di tutti,

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CONSTANTIN MEUNIER NEL PAESE NERO 1893 ca, olio su tela, cm 81x94,5, Parigi, Musée d’Orsay PAUL DELVAUX I FEROVIERI DELLA STAZIONE DEL LUSSEMBURGO 1923, olio su tela, cm 142x171, Collezione privata

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fuma la pipa come in un racconto californiano del secondo dopoguerra. Modernissimo. Meunier è pittore belga, come è belga Delvaux, quello che diventerà protagonista del Surrealismo nel XX secolo ma che ancora negli anni ’20 dipinge la medesima realtà di fumi, di ruggini e fuliggini che è quella dell’Europa d’allora, come testimonia con eccellenza il dipinto di Walden sull’Inghilter-

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ra fine secolo. Lavoro del ferro e del fuoco, quello che muterà nel ferro e nel fuoco della prima guerra mondiale, quella che Ernst Jünger racconterà in letteratura negli stessi anni di Delvaux con In Stahlgewittern (Nelle tempeste d’acciaio) e Feuer und Blut (Fuoco e sangue). La sovrapproduzione da un lato porta al conflitto sociale, dall’altro a quello bellico e alla sepoltura del Secolo Lungo.

LIONEL WALDEN I DOCKS DI CARDIFF 1894, olio su tela, cm 127x193, Parigi, Musée d’Orsay

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Il terzo lavoro in espansione è quello legato all’edilizia. Courbet già nel 1849 ritrae con compassione sociale gli Spaccapietre, quelli che la rivolta parigina del 1848 aveva portato alla ribalta per pavimentare la città con i sampietrini così utili alle successive barricate. Commuove in lui il realismo nel dipingere la pentola e il pane della colazione degli operai, una capacità descrittiva che deve molto a Chardin e che influenzerà non poco il transfuga Gerolamo Induno. Ford Madox Brown è molto più bonario nell’Inghilterra della prima gloria vittoriana. Si è appena conclusa, con un successo formidabile di pubblico (6 milioni di visitatori) e d’incasso (il principe consorte Albert ne ricava il danaro per la costruzione del museo Victoria & Albert), la prima Expo Universale del Crystal Palace. Rule Britannia! Rule the waves. E in tutta la nazione, con buona pace per le critiche sociali di Dickens, si costruisce. Madox Brown è artista influenzato dal pensiero preraffaellita, e forse per questo motivo predilige il lavoro artigianale a quello della fabbrica. Sembrano tutti così felici di faticare e farsi guardare mentre sono alla bisogna. La gentry fa il suo mestiere, cioè nulla, la mamma tira le orecchie al figlio già ragazzino (David Copperfield in versione meno sfortunata?), la venditrice di violette (ce ne vuole sempre una nel film) è stracciona e a piedi nudi mentre il piccolo levriere ha diritto a un cappottino ben tagliato, anche se sembra estate (ma non si sa mai

GUSTAVE COURBET GLI SPACCAPIETRE 1849, olio su tela, cm 159x259, già Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, Galerie Neue Meister (distrutto)

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FORD MADOX BROWN IL LAVORO 1852, olio su tela, cm 137x197,3, Manchester, Manchester Art Gallery EDWARD GEOFFREY SMITH-STANLEY, XIV CONTE DI DERBY incisione a bulino, Londra, The Print Collector

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sa, signora, la corrente!). Armonia d’una società perfetta. D’altronde al governo, come primo ministro di Sua Maestà, the honorable Edward Smith-Stanley, quattordicesimo conte di Derby, che a ogni buon conto fu l’uomo politico che governò più a lungo il partito conservatore, e la sua immagine ufficiale permette d’intuirne il perché. (N.B.: il conte è così ben contato perché la sua immagine non è una fotografia ma un eccellente disegno realizzato al bulino.) Ma torniamo all’edilizia parigina. Nel 1860 Napoleone III ingloba nella vecchia città i comuni limitrofi e ne fa una vera metropoli. È egli ancora molto impressionato dalla modifica dei quartieri londinesi del West End, e affida al suo prefetto Georges Eugène Haussmann la trasformazione della capitale. Questo il primo motivo del piano urbanistico. Il secondo è più sociale e corrisponde alla necessità d’una città più salubre rispetto a quella dei vecchi quartieri medioevali delle rivolte. Il terzo motivo è compreso nel secondo: la creazione dei grandi boulevard consente un facile spostamento delle truppe in caso di sommosse. E

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nasce così la città nuova. Haussmann è di ottima famiglia, ha studiato al Collège Henri IV e al Lycée Condorcet (sono ancora oggi le migliori scuole della città), è in ottimi rapporti con il mondo della finanza, sua figlia è sposata con il banchiere israelita alsaziano Camille Dollfus. La sola banca Péreire investe 400 milioni di franchi oro in immobili. 18 000 case vengono demolite, 40 000 costruite e il 60% della città cambia. I nostalgici (ci sono sempre i misoneisti!) chiamarono Attila il prefetto. I modernisti, visto che la città tutta veniva illuminata per la prima volta, col gas, la chiamarono “la ville lumière”. Nei medesimi anni si trasformava Vienna con l’inglobamento dei vecchi giardini sotto le mura e la nascita del Ring. Nel 1875 Caillebotte descrive con formidabile dovizia i lavoratori dei parquet mentre lamano il legno posato. Curioso il caso Caillebotte. Suo padre fa fortuna con le forniture militari. Lui è appassionato di barche a vela, progettista navale di bellissime barche da competizione. Nomen omen in quanto quel parquet a stecche incrociate che lascia finestrelle vuote atte a fare scolare l’acqua lo si chiama ancora oggi e sin dal XVII secolo caillebotis e nella marineria italiana carabottino. Quando scoppia la guerra franco-prussiana del ’70, Claude Monet, a differenza dei suoi colleghi pittori che vanno volontari a combattere, teme il richiamo sotto le armi e, appena sposato, se ne va in Inghilterra. Ne torna l’anno successivo con Alfred Sisley. Ma a Parigi è in corso la rivolta della Comune. Se ne va quindi Monet con Sisley in una casa procuratagli da Manet ad Argenteuil sulla Senna, dove incontra Caillebotte, il quale ha fatto nove mesi di guerra e poi la famiglia gli ha acquistato un sostituto militare, il che gli permette di tornare agli studi e alle sue barche, e di consentire al gruppetto un’agiata sopravvivenza in attesa che passi la buriana. I tre si mettono a inventare l’Impressionismo. In questo senso è fantastica la mescolanza di atteggiamenti dell’epoca, perché Caillebotte non si fa affatto impressionare dall’Impressionismo e rimane (per nostra fortuna documentale) rigorosamente realista. Il che gli permette di farci vedere i ricchi borghesi in redingote e cilindro mentre ammirano il lavoro del ponte in ferro appena costruito. Mentre Edgar Degas ci presenta

Doppia pagina seguente: GUSTAVE CAILLEBOTTE OPERAI CHE LAMANO IL PARQUET 1875, olio su tela, cm 102x146,5, Parigi, Musée d’Orsay

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gli stessi padroni nella borsa del cotone. Chissà perché mai le categorie della storia dell’arte sono così rozze e si piazza Degas fra gli impressionisti. È a metà strada fra Monet e Caillebotte. In realtà sono tutti personaggi della medesima generazione: Monet come Zola sono del 1840, Cézanne è del ’39, Degas un poco più vecchio del ’34 e Caillebotte un pelo più giovane del ’48. Tutti accomunati non da uno stile ma dalla medesima inclinazione alla realtà. E il resto del mondo, quello non legato alla città e al suo formidabile inurbamento, il popolo tanto caro a Michelet, quello contadino? Rimane a grattare la terra e le sue superstizioni, religiose e popolari. Jules Breton è un artista, pittore e poeta, oggi assai dimenticato. Peccato. Nato figlio del sindaco d’una grossa città del nord, amico poi a Parigi, dove non può non approdare, di Eugène Fromentin, anche lui pittore e poeta, sarà legatissimo a Hugo e a quel curioso super snob che è il cubano poeta in francese e promotore dell’estetismo puro del Parnaso parigino, José-María de Heredia, ed entra nel giro della

Pagina a fianco: GUSTAVE CAILLEBOTTE IL PONTE EUROPA 1876, olio su tela, cm 64,8x81, Collezione privata EDGAR DEGAS BORSA DEL COTONE A NEW ORLEANS 1873, olio su tela, cm 73x92, Pau, Musée des Beaux-Arts

Sotto: JULES ADOLPHE AIMÉ LOUIS BRETON COLLOCAMENTO DI UN CALVARIO 1858, olio su tela, cm 135x250, Lille, Palais des Beaux-Arts

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JEAN-FRANÇOIS MILLET ANGELUS 1857-1859, olio su tela, cm 55,5x66, Parigi, Musée d’Orsay CONSTANTIN MEUNIER LA GUERRA DEI CONTADINI, 1798-1799 1875 ca, olio su tela, cm 114,5x176, Bruxelles, Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique

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Scuola di Barbizon. A Barbizon, un paesotto nella foresta di Fontainebleau, quindi in un mondo rurale più che bucolico a un tiro di schioppo dalla capitale, negli anni ’40 si ritira un gruppo d’artisti che preferiscono l’aria aperta a quella stantia dell’accademia. Questa faccenda del plein air sarà una ossessione regolare dell’arte durante tutto il secolo. La insegna Corot con i suoi viaggi italiani, la recupera d’Aubigny, la riprende Manet, la sposano gli impressionisti, la celebra Degas nei campi di corsa dei cavalli a Longchamp. Ci vorrà la convinta passione per i postriboli di Toulouse-Lautrec per fermarla. Però allora, negli anni ’40 appunto, genera cambiamenti potenti, nel dipingere, nella materia del colore, nella visione del mondo e della politica, nell’affezione al popolo dei campi.

JULES ADOLPHE AIMÉ LOUIS BRETON IL CANTO DELL’ALLODOLA 1884, olio su tela, cm 110,6x85,8, Chicago, The Art Institute of Chicago

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IL MUSEO IMMAGINATO

N.B. PER CHI PENSA ALLO STOMACO

Senza la patata l’Europa non avrebbe mai potuto sbranarsi nelle guerre dal XVIII secolo in avanti. Negli anni precedenti gli eserciti andavano di grano e i cavalli di fieno: la bella stagione era necessaria per sventrarsi. Con l’uso della patata anche l’inverno divenne periodo adatto ad alimentare i soldati e a spedirli al mattatoio. Eppure il prezioso tubero era già giunto in Europa nel XVI secolo dalle Americhe appena scoperte, assieme al tabacco, che fece subito adepti come ben documenta la pittura olandese, ai fagioli, ai tacchini e al mais che i lombardi, su istigazione di san Carlo Borromeo, trasformarono immediatamente in polenta. Della patata, coltivata nei giardini dei semplici da alcuni monaci, si parlava come d’una pianta diabolica dopo che alcuni sprovveduti ne avevano mangiato il gambo e i fiori confondendoli con un legume e morendo con terribili mal di pancia. Solo nelle corti raffinate del nord veniva cucinata. Il cuoco del principe vescovo di Liegi ne dava già nel Seicento alcune succulenti ricette: cotte in vari modi con la pelle ne suggeriva il consumo con buone quantità di burro. Ma è quel fenomeno della politica del Federico II di Prussia che ne individuò il valore vero. La faceva coltivare nei vasti campi del Brandeburgo dove da sempre il

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grano era reticente alla crescita. E ne capì il valore nutritivo e anche quello stupefacente, nel senso che la faceva distillare per ottenere un mediocre schnaps che dava gran vigore ai suoi soldati. Un prigioniero francese di questi suoi soldati la importò di frodo in Francia, dove una specie analoga veniva usata solo per alimentare il bestiame. Antoine Parmentier, prigioniero durante la guerra dei Sette anni (1756-1763), sopravvissuto grazie a quella sommaria alimentazione, ne diventa il propagandista più convinto. Questa seconda metà del Settecento è fondamentale per gli usi alimentari dell’Europa. Circolano le teorie della fisiocrazia che reputa che la vera ricchezza delle nazioni si formi nella produzione agricola, nella sua reinvenzione e nella ricerca di nuove specie in tutti i campi. I napoletani inventano il pomodoro di San Marzano e contemporaneamente il primo prodotto alimentare industriale che è lo spaghetto: la combinazione è tuttora vincente. Gli inglesi selezionano cani da caccia, maiali mai visti prima, cavalli da corsa. Il nord si dà alla patata. La patata riscatta le carestie di grano, affronta le crisi climatiche e verrà distrutta solo dalla peronospora. La patata consentirà la creazione del proletariato.

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Pagina a fianco: CONSTANTIN MEUNIER I RACCOGLITORI DI PATATE 1885, olio su tela, cm 70,5x89, Bruxelles, Musée Constantin Meunier A sinistra: MAX LIEBERMANN RACCOLTA DELLE PATATE A BARBIZON particolare, 1875, olio su tela, 154,3x207,8, Düsseldorf, Museum Kunst Palast

Sotto: JEAN-FRANÇOIS MILLET ANGELUS particolare, 1857-1859, olio su tela, cm 55,5x66, Parigi, Musée d’Orsay VINCENT VAN GOGH DONNE CHE RACCOLGONO PATATE particolare, 1885, olio su tela, cm 31,5x42,5, Otterlo, Rijksmuseum Kröller-Müller

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Ecco perché il borghese Breton ci narra un Calvario liturgico (1858) assai impressionante per il Cristo legato in croce, le candele e le contadinelle verginelle che seguono i fedeli dipinti dieci anni dopo il Funerale a Ornans con la medesima convinta mestizia. Protagonista indiscusso della Scuola di Barbizon è innegabilmente Jean-François Millet, noto per la sua assoluta mancanza di allegria e mondialmente icona dell’Angelus. Qui, pur rispettando la pietas della preghiera della sera e il compatito partecipare alla fatica della giornata nei campi, ci interessano particolar-

MAX LIEBERMANN RACCOLTA DELLE PATATE A BARBIZON 1875, olio su tela, 154,3x207,8, Düsseldorf, Museum Kunst Palast

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mente le patate. Tema dominante d’una seria cultura della denuncia, quella d’un mondo contadino che gli artisti sensibili speravano un giorno capace di rivolta. Ecco perché il socialista Meunier fa rivivere la rivolta contadina alla quale i belgi, trasformati durante la rivoluzione francese in dipartimento alle dipendenze di Parigi, diedero vita nel 1798 per evitare l’arruolamento obbligatorio nell’esercito (la medesima questione che si pose nella Sicilia immediatamente postunitaria). Ed ecco perché Breton dipinge Il

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canto dell’allodola (già in Shakespeare l’allodola è la messaggera del mattino) con la contadina, falce in mano (il martello è di Meunier) sotto il sole dell’avvenire che sorge. Ma torniamo alle patate. Max Liebermann, il giovane rampollo d’una agiata famiglia ebraica di Berlino, quello che diventerà il pittore chic della Prussia guglielmina, a ventisette anni è influenzato dall’aria di Barbizon e ci restituisce la miseria dei contadini alla raccolta di patate, la stessa atmosfera che ritroviamo in van Gogh. Siamo negli stessi anni nei quali Monet dipinge la signora tranquilla

che gira nei campi di papavero con l’ombrellino. Entra in scena Van Gogh. Lui Vincent, che la famiglia di predicatori e commercianti d’arte aveva destinato a una decorosa carriera mandandolo a lavorare nella nota Galleria Goupil & Cie con sedi a Parigi, Londra e Amsterdam, che lui percorre inutilmente tutte, si dà alla predicazione religiosa e politica. Finisce nel fondo del Pays noir belga, va a vivere in una capanna col minatore, scopre la città dei miserabili di Zola e anche la sua passione per la pittura. Nel 1885 ha

VINCENT VAN GOGH DONNE CHE RACCOLGONO PATATE 1885, olio su tela, cm 31,5x42,5, Otterlo, Rijksmuseum Kröller-Müller

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VINCENT VAN GOGH I MANGIATORI DI PATATE 1885, olio su tela, cm 82x114, Otterlo, Rijksmuseum Kröller-Müller MAX LIEBERMANN DONNE CHE SPENNANO LE OCHE 1872, olio su tela, cm 118x172, Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie

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trentadue anni, e prova una ammirazione sconfinata per Breton e Liebermann, che vorrebbe incontrare ma scopre troppo distanti, nella loro agiatezza, dai temi che raffigurano. Si dà alle patate, nei due piccoli dipinti struggenti qui esposti. Le donne con la vanga si trovano davanti alla medesima linea d’orizzonte dei raccoglitori di Liebermann. La misera famiglia sotto al lampione a petrolio si bagna nella medesima luce rembrandtiana nella quale Liebermann colloca le sue povere spennatrici di oche. Un Liebermann che continua la sua denuncia sociale nel 1887 quando dipinge le contadine filatrici, giovani assai, che lavorano in modo assolutamente arretrato rispetto all’industria su arcolai mossi dalle braccia dei bambini. Negli stessi anni,

HEINRICH STREHBLOW DONNE CHE RICAMANO IN UNA BOTTEGA 1892, olio su tela, cm 33,5x49,2, Collezione Bachofen von Echt Doppia pagina seguente: MAX LIEBERMANN LE FILATRICI DI LAREN 1887, olio su tela, cm 135x232, Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie

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SILVESTRO LEGA IL BINDOLO 1863, olio su tela, cm 51x78,7, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna TELEMACO SIGNORINI L’ANTICA VIA DEL FUOCO 1855-1901, olio su tela, cm 38,8x65, Bari, Pinacoteca Provinciale

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a Vienna, cioè in città, il lavoro femminile è meno crudele. L’Italia non è in realtà ancora entrata in una completa rivoluzione industriale e la città, lo fa ben vedere Signorini, rimane quella di sempre anche se le merci mutano. La campagna, secondo Silvestro Lega, rimane dura ma poetica, in Toscana. Mentre il lavoro delle mondine è massacrante nella piana del Po, come lo descrive Morbelli nel 1895, anno nel quale il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani diventa il Partito Socialista Italiano. La sensibilità per la questione sociale l’aveva già innescata con la sua solita e geniale anticipazione trent’anni prima Telemaco Signorini con la descrizione delle pazze nell’ospedale di Firenze. La medesima attenzione per la sorte dei lavoratori d’Italia la si ritrova nei capolavori di Morbelli, la sequenza delle mense dei poveri e degli anziani, gli stessi anziani lavoratori

ANGELO MORBELLI LE RISAIOLE 1895, olio su tela, cm 124,5x169, Vercelli, Museo F. Borgogna Alle pagine seguenti: MAX LIEBERMANN OSPIZIO PER ANZIANI AD AMSTERDAM particolare, 1882, olio su tela, cm 53,5x71,5, Christie’s Images Ltd TELEMACO SIGNORINI LA SALA DELLE AGITATE AL SAN BONIFACIO A FIRENZE 1865, olio su tela, cm 66x59, Venezia, Galleria internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro

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Doppia pagina precedente: ANGELO MORBELLI GIORNO DI FESTA ALL’OSPIZIO TRIVULZIO DI MILANO 1892, olio su tela, cm 78x123, Parigi, Musée d’Orsay Sotto: UMBERTO BOCCIONI LA CITTÀ CHE SALE 1910, olio su tela, cm 199,3x301, New York, Museum of Modern Art

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che già nel 1882 Liebermann aveva descritto con minore tristezza ma pari melanconia ad Amsterdam. Il welfare già allora separava il nord e il sud d’Europa. Bismarck aveva introdotto la previdenza sociale e la pensione in Germania in quegli stessi anni ’80. Gli Stati Uniti avevano concesso per la prima volta, in alcune aree di privilegio, in particolare a Chicago e New York, la giornata di otto ore lavorative, dopo lo sciopero del 1° maggio 1886, data che da lì in poi divenne simbolo d’una nuova era. E sempre in quegli anni esplodono i primi scioperi italiani, quello dipinto da Nomellini nel 1889 ne è buon esempio. Quello di Longoni, con comizio improvvisato, è del ’91 circa. Ed è uno sciopero cittadino, in una città, Milano, che inizia a crescere come le altre d’Europa e che Boccioni rappresenta magistralmente in La città che sale del 1910. Una città che per molti rimane il sogno da raggiungere, ma che pure è il luogo dove questo sogno diventa incubo, come lo intuisce con la sua profonda contorsione mentale Edvard Munch, il cantore dell’ansia. Una città con periferie che

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EMILIO LONGONI L’ORATORE DELLO SCIOPERO 1890-1892, olio su tela, cm 193x134, Barlassina, Banca di Credito Cooperativo “L’ASSIETTE AU BEURRE”, illustrazione, 1° maggio 1906 PLINIO NOMELLINI LO SCIOPERO 1889, olio su tela, cm 29,5x40,5, Collezione privata

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HANS BALUSCHEK STAZIONE DI UNA GRANDE CITTÀ 1904, olio su tela (distrutto)

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HANS BALUSCHEK LAVORATRICI DELLA MINIERA SU UN PONTE SOSPESO 1913, acquarello, cm 49,4x65, Bochum, Deutsches Bergbau-Museum

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DARÍO DE REGOYOS Y VALDÉS ALTIFORNI PRESSO BILBAO 1908, olio su tela, cm 26,5x35, Madrid, Collezione Fundación Banco Santander EDVARD MUNCH SERA NELLA VIA KARL JOHAN 1892, olio su tela, cm 85,5x121, Bergen, Kunstmuseene

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IL SECOLO LUNGO DELLA MODERNITÀ

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stimolano rosee ispirazioni a Darío de Regoyos, forse solo perché per uno spagnolo è tutta ancora da desiderare, e che per Sironi sarà un’epica scenografia. Grandi movimenti di massa che il pittore berlinese Hans Baluschek pone in relazione con il potente sistema di trasporti dalle parti sue, dove un proletariato che ha smesso di sorridere si aggira con le gamelle fra ciminiere e montagne di carbone. Una città principalmente notturna, perché si va al lavoro prima dell’alba e si torna dopo il tramonto, la città di Metropolis di Fritz Lang e degli assassini di Grosz e di Bertolt Brecht. Una città definitivamente senza sole, senza il sole dell’avvenire.

MARIO SIRONI PAESAGGIO URBANO CON CIMINIERE 1930-1945, olio su tela, cm 49x67, Milano, Pinacoteca di Brera Pagina seguente: AUGUSTE TOULMOUCHE RITRATTO STANTE DELLA CANTANTE ROSE CARON 1886, olio su tela, cm 82x58, Parigi, Musée Carnavalet

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LA BELLE ÉPOQUE

a Belle Époque è un luogo dell’anima e della coscienza, nel bene e nel male. Lo è in quanto loro, quelli della Belle Époque, non sapevano di esserci, nella Belle Époque. Il termine fu infatti coniato dopo la prima guerra mondiale come per dire che si stava meglio prima della deflagrazione. E siccome il segreto della felicità, così pare dicesse la grande Ingrid Bergman, consiste nella buona salute e nella cattiva memoria, si tentò, in quel periodo dove sopravvisse alla trincea e all’influenza spagnola solo chi aveva buona salute, d’avere anche cattiva memoria sperando in una felicità che portò l’America a ballare il Charleston, la Francia ai lussi dell’Art Déco e l’Italia a marciare su Roma. Così venne quindi chiamato Belle Époque il periodo che intercorreva fra la guerra franco-prussiana del 1870 e l’assassinio di Sarajevo che portò le borghesie liberali d’Europa nell’abisso. Un periodo di pace, politica e sociale, durato quarantaquattro anni. Non era ovviamente del tutto vero perché la forte crisi economica del 1873, quella che fece saltare le banche di Vienna prima e poi quelle di Berlino per finire alla bancarotta di quelle di New York, generò una depressione economica quasi trentennale. La sovrapproduzione industriale e agricola tenne i prezzi in deflazione per tutto il periodo. La potente crescita immobiliare degli anni fra il ’50 e il ’60 generò una speculazione che finì in bolla di sapone. La richiesta di danni di guerra che la Germania fece alla Francia (500 milioni di franchi oro pari a un quarto del prodotto interno

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AUGUSTE TOULMOUCHE ALLO SPECCHIO 1890, litografia a colori, Parigi, Bibliothéque des Arts Décoratifs

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JAMES ABBOTT MCNEILL WHISTLER SINFONIA IN BIANCO N. 1: LA FANCIULLA IN BIANCO 1862, olio su tela, cm 213x107,9, Washington, National Gallery of Art JAMES ABBOTT MCNEILL WHISTLER SINFONIA N. 2: LA RAGAZZA DAL VESTITO BIANCO 1864, olio su tela, cm 76,5x51,1, Londra, Tate Gallery Pagina a fianco: JAMES ABBOTT MCNEILL WHISTLER SINFONIA IN BIANCO N. 3 1865-1867, litografia a colori, Londra, Namur Archive

lordo) portò la Prussia ad abbandonare il tallero d’argento e a passare al marco d’oro e la quantità di moneta gonfiò le borse in modo fallace. Gli americani seguirono l’esempio dei tedeschi: anche loro passarono alla convertibilità aurea del dollaro e i minatori d’argento finirono disoccupati aprendo la strada a milioni di altri nella stessa situazione. Disoccupati però con inflazione nulla. I ricchi, quelli che vivevano di rendita soprattutto, se la spassavano benissimo, il che rese per loro l’Époque molto Belle. La radice della Belle Époque va ricercata quindi in quegli anni fra il 1850 e il 1860. Torna utile Théophile Gautier. De-

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luso, come molti artisti e poeti, dalla République diventata nuova monarchia, ormai convinto che l’impegno, una volta romantico, nelle cose pubbliche non possa portare da nessuna parte, si dà all’estetica pura. Dall’altro lato della Manica era già avvenuto un fenomeno analogo, che piacque molto a Baudelaire. Un gruppo di giovani artisti aveva deciso di fuggire dalla realtà e di rifugiarsi nella bellezza del sogno e del passato. Così era nato il movimento preraffaellita, forse la prima vera avanguardia nella storia delle arti. Ma loro li ritroveremo più avanti nel museo. Gautier nel 1852 pubblica una raccoltina di trentasette poemi brevi in ottosillabi intitolata Émaux et camées. Eccone l’introduzione: Pendant les guerres de l’Empire, Gœthe, au bruit du canon brutal, Fit Le Divan occidental, Fraîche oasis où l’art respire.

Torna alla ribalta il nostro Goethe con l’etica del bello intesa come balsamo vitale contro i disastri della vita pubblica.

Durante le guerre dell’impero / Goethe, al rumore del cannone brutale, / fece Il Divano occidentale, / fresca oasi dove l’arte respira.

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E Gautier la racconta bene, la questione (n. 1 Affinités secrètes), dalla bellezza delle donne (n. 2 Le poème de la femme), a quelle dell’arte e della letteratura, dalla passione per il mondo naturale, tra nuvole e merli, al gusto per l’agiatezza del vivere. Émaux et camées diventa il breviario delle generazioni successive. Che c’è di meglio per commentare il ritratto di Toulmouche del 1886 di questi suoi versi: Una donna misteriosa la cui bellezza mi turba i sensi sta in piedi, silenziosa, […]

Une femme mystérieuse, Dont la beauté trouble mes sens, Se tient debout, silencieuse, […]

E per quell’altra litografia, sempre di Toulmouche, un manifesto della coquetterie versione vanità, cioè il mito di Narciso in salotto: Il suo tessuto rosa e diafano della carne ha il vellutato; […]

Son tissu rose et diaphane De la chair a le velouté ; […]

La quinta delle sue poesie s’intitola Symphonie en Blanc Majeur. Mai titolo ebbe conseguenze pittoriche più germinali. Nel 1862 Whistler dipinge Symphony in White (Sinfonia in bianco). Dipinge una seconda Symphony in White nel 1864, ne dipinge un’altra ancora nel 1865. Tre capolavori. Nel primo dipinto è lei, in piedi sulla pelle d’orso, altro che diafana, sublime ed evaporata come i suoi capelli che si perdono nella materia pittorica. Nel secondo è sempre lei, romantica e innamorata con un ventaglio giapponese, prima della moda definitiva del Giappone, quindi anticipatrice, e i fiori che tanto propaganda Fantin-Latour e che Gautier racconta in Camélia et Pâquerette: Un colpo d’occhio gettato lì per caso / vi fa sorprendere sul suo ramo / il fiore nella sua semplicità. Pagina a fianco: GUSTAVE COURBET JO, LA BELLA IRLANDESE particolare, 1866, olio su tela, cm 55,9x66, New York, The Metropolitan Museum of Art

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Un coup d’oeil au hasard jeté, Vous fait surprendre sur sa tige La fleur dans sa simplicité.

E nel terzo, ovviamente ancora lei, ma non è più lei, perché lei lì è solo un ricordo. La stesura del dipinto è assolutamente britannica e influenzata dalle melancolie preraffaellite, tutto un sogno immerso nella materia disgregata

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HENRI FANTIN-LATOUR NEREIDE 1896 ca, olio su tela, cm 41,5x55, San Pietroburgo, Museo Statale dell’Ermitage GUSTAVE COURBET IL SONNO particolare, 1867, olio su tela, cm 135x200, Parigi, Petit Palais, Musée des Beaux-Arts de la Ville de Paris

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alla Turner. Chi è lei? La sua ragazza ovviamente, sua mistress, cioè sa maîtresse, l’amante che ogni artista doveva avere, e per giunta in questo caso irlandese, Joanna Hiffernan, detta La Belle Irlandaise da Courbet, suo amante in seconda, il quale la ritrae nello stesso anno ben più carnosa o addirittura nella posa ambiguissima delle due amiche presentate con il titolo leggermente ipocrita Le sommeil (altro che sonno tranquillo!). La stessa rossa che ossessiona Fantin-Latour anni dopo. Forse questo è il motivo per il quale i francesi tuttora prendono in giro gli inglesi sostenendo che appena sbarcano in Normandia dicono, con forte accento britannico: “Toutes le françaises sont rousses”. E così si apre il caso Whistler. James Abbott McNeill Whistler è un prototipo per la Belle Époque, con quel tanto che di mitomane è necessario, un cognome dove a quello del padre George Washington (nientemeno che) Whistler aggiunge quello della madre (la famosa Arrangement in Grey and Black n. 1 con quella anziana triste

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riscattata dalla bellezza totale dei fiori sulla tenda nera, geniale capacità di maestria pittorica della biacca liquida). Suo padre ingegnere va a costruire ferrovie a San Pietroburgo nel 1842, quando lui ha otto anni, e lui pretenderà più d’una volta d’avere il diritto di decidere dove è nato e che preferisce sicuramente la Russia al Massachusetts, perché in quel mondo esotico fu iscritto a undici anni all’Accademia imperiale di pittura. Da lì torna negli Stati Uniti e va a fare nientemeno che l’Accademia militare di West Point. Decide che il suo futuro non sta nel dipingere mappe per l’esercito e a ventun anni viene a Parigi a fare la bohème. Finisce nello studio-scuola di Marc-Charles-Gabriel Gleyre. Era il 1855. Tre anni dopo è già nel giro, amico di Fantin-Latour, che lo influenza enormemente con la sua passione per la pittura mossa, materica e opposta alla precisione di Ingres, gira con Baudelaire e Manet. Legge ovviamente Gautier. Fuma e beve moltissimo. Inizia a fare il pendolare fra Parigi e Londra. Ma a Parigi si àncora perché scopre Joanna, la modella perfetta, con la quale convive per sei anni, che poi abbandona per altre modelle e altre mogli. È Joanna che alleva il figlio che Whistler avrà con una cameriera. Joanna sarà al suo funerale inglese nel 1903. Certo gliene aveva combinate anche la Joanna, che gli fa gustare il fascino di Dante Gabriel Rossetti nello studio di Chelsea. È sempre lei, Joanna, che posa per Courbet e che molti pensano abbia posato anche per L’origine du monde. A difenderla sarebbe ovviamente il colore del pelo pubico. Chissà? Una storia alla Zola, versione lusso. Pittore eccellente Whistler, non catalogabile, fuori misura. Egli inventa, sotto l’influenza di Gautier i titoli dei quadri come sinfonie, arrangiamenti, notturni, titoli che mezzo secolo dopo riprenderà Kandinskij sotto l’influenza di Arnold Schönberg, quando intitolerà i propri quadri composizioni, improvvisazioni. È da considerarsi realista Whistler? Probabilmente no. È egli in sottile polemica con la lezione di Courbet, quella realtà cruda e popolare non gli piace per niente. Il vero sta per lui oggettivamente solo nel bello e le signore che dipinge, anche le modelle-amanti successive sono il pretesto per costanti titoli che sanno già di arte astratta. Così che la bella Maud Franklin diventerà

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JAMES ABBOTT MCNEILL WHISTLER ARRANGIAMENTO IN BIANCO E NERO 1876 ca, olio su tela, cm 191,4x90,9, Washington, Freer Gallery of Art, Smithsonian Institution

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nel 1876 Arrangement in white and black. Tutto è estetica pura. Come vuole Gautier. Tout passe. – L’art robuste Seul a l’éternité, Le buste Survit à la cité, Et la médaille austère Que trouve un laboureur Sous terre Révèle un empereur. Les dieux eux-mêmes meurent. Mais les vers souverains Demeurent Plus forts que les airains. Sculpte, lime, cisèle ; Que ton rêve flottant Se scelle Dans le bloc résistant!

Tutto passa – l’arte robusta sola ha l’eternità, il busto sopravvive alla città, e la medaglia austera che ritrova un aratore sotto terra rivela un imperatore. Gli stessi dèi muoiono. Ma i versi sovrani perdurano con più forza dei bronzi. Scolpisci, lima, cesella; che il tuo sogno fluttuante si sigilli nel blocco resistente!

Eppure la sua prima Sinfonia in bianco viene rifiutata al Salon e sarà esposta nel luogo dell’alternativa, il primo Salon des Refusés (i rifiutati dalla giuria) che Napoleone III, in questo assai illuminato, decide di aprire nel 1863. In quel salone doveva apparire anche Olympia di Manet, che verrà scandalosamente presentata su istigazione di Baudelaire solo due anni dopo. L’artista in contrappunto con Whistler è allora, a Parigi, il suo coetaneo Édouard Manet, anche lui piazzato dal lato opportuno della scala sociale. Nato nel 1832 in rue Bonaparte a Parigi, figlio d’un padre alto funzionario ministeriale e di una madre tenuta a battesimo dal Bernadotte, il maresciallo di Napoleone I che divenne capostipite della famiglia tuttora regnante in Svezia. Non vuole studiare legge e preferisce il disegno e la pittura. Si forma nel rigore accademico e lo contesta immediatamente girando i musei di mezz’Europa, Est profondo compreso. Diventa maniaco della pittura spagnola senza essere ancora stato in Spagna e si trova ad avere il sostegno talvolta benevolo, talvolta realmente amichevole di

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ÉDOUARD MANET RITRATTO DI JEANNE DUVAL, AMANTE DI BAUDELAIRE 1862, olio su tela, cm 90x113, Budapest, Szépmu˝vészeti Múzeum Pagina a fianco in alto: ÉDOUARD MANET GIOVANE DONNA DISTESA IN COSTUME SPAGNOLO 1862-1863, olio su tela, cm 94,7x113,7, New Haven, Yale University Art Gallery

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Delacroix e di Baudelaire, di Ingres e di Gautier. In realtà deve a Delacroix la liberazione romantica dalla pennellata precisa dell’accademismo italianizzante, a Courbet l’inclinazione al realismo, a Gautier e a Baudelaire la fuga dalla realtà sociale per un percorso ben più affascinante nell’estetica totale e quindi la contraddizione della lezione di Courbet. Sicché nel medesimo 1862 nel quale Whistler dipinge la sua amante nella prima sinfonia in bianco, lui dipinge sempre in bianco l’amante di Baudelaire, la creola haitiana Jeanne Duval, e poi, in versione spagnoleggiante, quella che è molto probabilmente l’amante del fotografo Nadar, in un quadro a lui dedicato. Mentre Manet sembra mettere la testa a posto, in quanto la sua amante, la pianista olandese Suzanne Leenhoff con la quale ha già un figlio, se la sposa nel 1863,

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ÉDOUARD MANET LA SIGNORA MANET E SUO FIGLIO LEON KOELLA INTENTO ALLA LETTURA 1863-1873, olio su tela, cm 60,5x73,5, Parigi, Musée d’Orsay ÉDOUARD MANET MAZZO DI PEONIE BIANCHE E CESOIE 1864, olio su tela, cm 31x46,5, Parigi, Musée d’Orsay

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e poi la ritrae, vaporosa e immersa nel bianco delle stoffe e delle tendine, morbida come le peonie dipinte contemporaneamente. Il che non gli impedisce di prendere la sifilide che lo uccide a cinquantuno anni. Perché anche per lui il giro delle modelle-amanti non si ferma. Sarà per lui essenziale Victorine Meurent, che oltre a modella è pure pittrice. È lei che appare nei primi anni ’60 dipinta da Manet vestita da cantante spagnola e poi addirittura da torero finché lui non la convince al passo successivo, quello di apparire nuda nel

ÉDOUARD MANET GIOVANE SIGNORA NEL 1866 1866, olio su tela, cm 185,1x128,6, New York, The Metropolitan Museum of Art Pagina a fianco: ÉDOUARD MANET LA FERROVIA 1873, olio su tela, cm 93,3x111,5, Washington, National Gallery of Art ALFRED STEVENS NOTIZIE DA LONTANO 1860 ca, olio su tela, cm 62,7x40,5, Baltimora, Walters Art Museum Doppia pagina seguente: ALFRED STEVENS IL BAGNO 1867 ca, olio su tela, cm 74x93, Parigi, Musée d’Orsay

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Déjeuner sur l’herbe e in Olympia. Le male lingue dicono che fosse di così facili costumi da essere riconoscibile da troppi suoi sostenitori quando fu pubblicamente esposta. Ma a sua difesa va ricordato che la buona borghesia d’allora confondeva volentieri le ragazze che posavano nude con autentiche prostitute e che la severa mamma di Whistler non volle incontrare Joanna quando venne a trovare il figlio nel 1864 a Londra. Joanna per tutto il periodo dovette andare a vivere in albergo. La Meurent si affeziona realmente a Manet che la ritrae nel 1866 col pappagallo e ancora nella Ferrovia del 1873 assieme alla figlia del pittore Alphonse Hirsch, vicino di casa di Manet. Nel frattempo era ella stata modella del pittore chic per eccellenza, Alfred Stevens, il belga esperto in alta società parigina.

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Pagina a fianco: ÉDOUARD MANET NANA 1877, olio su tela, cm 154x115, Amburgo, Hamburger Kunsthalle A sinistra: PIERRE FRANÇOIS EUGÈNE GIRAUD RITRATTO DI GUSTAVE FLAUBERT 1856 ca, olio su tela, cm 55,5x45,5, Versailles, Châteaux de Versailles et de Trianon

Tutti sono attratti dall’argomento, anche il mentore Gustave Flaubert, che forse è l’uomo ritratto mentre guarda la signorina che si riveste, quello che la storiografia immagina essere invece il prince d’Orange, nel quadro che in realtà fu curiosamente esposto nella vetrina di Giraud, pittore che fece di Flaubert un ritratto quasi identico a quello di Manet e che suscitò allora pubblico pettegolezzo. Che sia lei la riedizione viva o sognata di Mme Bovary? Fatto sta che in quella Parigi lì è d’obbligo chercher la femme. Baudelaire ci dà la vera chiave d’interpretazione, in quella raccolta finissima pubblicata dopo la sua morte, con il titolo Le spleen de Paris, poesie in prosa: Il desiderio di dipingere infelice forse l’uomo, ma felice l’artista che il desiderio lacera!

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Pagina a fianco: ÉDOUARD MANET IL BEVITORE D’ASSENZIO 1859, olio su tela, cm 180,5x105,6, Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek

Brucio dal desiderio di dipingere quella che m’è apparsa così raramente e fuggita così in fretta, come una bella cosa rimpianta dietro al viaggiatore portato via dalla notte. Da quanto tempo è già scomparsa! È bella, è più che bella; è sorprendente. In essa il nero abbonda: e tutto ciò che ispira è notturno e profondo. I suoi occhi sono due antri ove scintilla vagamente il mistero, e il suo sguardo illumina come il lampo: è una esplosione nelle tenebre. […] Nella sua fronte minuta abitano la volontà tenace e l’amore per la preda… Ci sono donne che ispirano la voglia di vincerle e di goderne; ma questa qui suscita il desiderio di morire lentamente per lei.

Quale migliore descrizione per il ritratto che Manet fa dell’amante di Baudelaire. Ma anche delle donne che ammira sul balcone nel 1868. Eccola quindi l’epoca della genesi della Belle Époque, epoca forte e faticosa, piena di vizi e di virtù, dove quasi tutti i protagonisti muoiono presto. Baudelaire a 46 anni, e la sua amante per vent’anni Jeanne Duval a 42 anche lei per sifilide, Gautier gonfio di sovralimentazione a 61, Manet a 51, Caillebotte a 46, Zola a 62, Flaubert a 58, Mallarmé a 57 anni e sembra un vecchiaccio, Georges Bizet, l’autore di Carmen, il melodramma francese più noto, a 36, come Mozart. Nessuno di loro s’era tirato indietro dinnanzi all’esagerazione. E ancora Baudelaire: Inebriatevi Occorre sempre essere ebbri. Tutto sta lì: è l’unica questione. Per non sentire l’orribile fardello del Tempo che vi spezza le spalle e v’inchina verso terra, dovete inebriarvi senza tregua.

Enivrez-vous Il faut être toujours ivre. Tout est là : c’est l’unique question. Pour ne pas sentir l’horrible fardeau du Temps qui brise vos épaules et vous penche vers la terre, il faut vous enivrer sans trêve.

Il primo quadro esposto di Manet giovanissimo fu proprio il Bevitore di assenzio.

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N.B PER GLI INTERESSATI AGLI AFFARI Tutta questa festa era stata resa possibile dagli accumuli precedenti. L’Inghilterra, che fu la prima a inventare la rivoluzione industriale, fu anche la prima a generare una crisi moderna in borsa nel 1825, con tanto di insolvenze bancarie e 3300 fallimenti di aziende. Le toccò ripetere il perfido esperimento nel 1836 quando si vide resi privi di valore i suoi finanziamenti alle imprese degli Stati Uniti, in quanto il governo federale aveva deciso di passare dall’uso cartaceo all’oro nelle vendite pubbliche e nelle concessioni spaccando così il mercato finanziario interno in due, una parte buona aurea e un’altra svalutata cartacea. E il 10 maggio 1837 esplode il primo crack bancario americano quando le banche sospendono i pagamenti in moneta. Però quell’anno sale pure sul trono Alexandrina Victoria, regina del Regno Unito di Gran Bretagna e d’Irlanda, quella che diventa nel 1876 imperatrice d’India. Da quel momento in poi l’epoca vittoriana vivrà un’era di costante crescita economica e riuscirà anche a superare il primo panico di borsa nel 1847, quello che in Francia sarà uno dei presupposti della rivoluzione del 1848. La Francia diventa allora République e poi Impero di Napoleone III. È potenza coloniale da quando occupa l’Algeria nel 1830 e tiene, dopo i massacri del 1849, le classi lavoratrici sotto un garbato pugno di ferro. E si accumula. Si accumula, si investe, si spende e talvolta si sperpera. La città di Parigi diventa la ville lumière. Quando verranno fatti i conti, l’opposizione a Haussmann riuscirà a dimostrare che la spesa di ammodernamento delle infrastrutture e degli interventi urbani in Francia fu di quasi 1,5 miliardi di franchi oro, pari a ¾ del PIL annuo. La Francia aveva inventato il primo debito pubblico di sapore moderno! L’Austria ebbe destino diverso, in quanto, dopo la perdita del Lombardo-Veneto, si vide dimezzato l’introito fiscale. Della catastrofe fu in gran parte ritenuta responsabile la nobiltà che aveva da sempre fornito i quadri dirigenti dello Stato e i gradi alti dell’esercito. Il giovane Franz Joseph decise a partire dal 1860 di dare via libera alla borghesia imprenditoriale e in modo particolare a quella ebraica che s’era emancipata dal ghetto già sotto Giuseppe II nel 1781. Nascono allora le grandi aree industriali della Boemia, si sviluppano Praga e Budapest, Vienna allarga la sua dimensione urbana trasformando le aree verdi esterne alle mura con un potente sviluppo immobiliare attorno ai boulevard del Ring. La speculazione immobiliare fa da motore a una allegra speculazione finanziaria in una borsa dove s’inventano i primi titoli assicurativi e di garanzia. Si formano società

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per azioni dal contenuto incerto, volte quasi esclusivamente alla speculazione. I titoli salgono costantemente e vengono sostenuti da prestiti bancari a breve termine, regolarmente rinnovati. Anche la media borghesia diventa attrice della movimentazione di capitali. Fino al crack del 1873. L’ampliamento della bolla speculativa in campo germanico ebbe una doppia origine però, dovuta d’altra parte non alla crescita dei prezzi immobiliari, ma all’arrivo di una massa monetaria inattesa, quella dei danni di guerra pagati dalla Francia alla Prussia dopo il disastro del 1870. L’arrivo dei 5 miliardi di franchi oro (un quarto appunto del prodotto lordo annuo francese) fu una iniezione di danaro che stordì Berlino. L’operosa Germania (quelli lì hanno sempre sgobbato) si trovò carica d’oro. L’istituto di emissione decise di cambiare moneta e passò dallo storico tallero d’argento (estratto in parte tradizionalmente questo metallo nelle miniere della Slesia e della Sassonia) al nuovo marco oro. Ma l’economia allora era già ben più globale di quanto non possa sembrare: la Germania era forte esportatrice verso gli Stati Uniti e si faceva pagare in gran parte con altro argento cavato nelle miniere del Nuovo Mondo. Gli Stati Uniti, dopo la guerra di secessione che s’era conclusa nel 1865, erano diventati veramente grandi e s’erano coperti di ferrovie, in pochi anni furono costruiti oltre 50 000 chilometri di binari impiegando la maggior parte del nuovo mondo operaio. Gli investimenti facevano accorrere flussi di danaro in borsa e i titoli lievitavano ben più velocemente di quanto non crescesse il pubblico pronto a comperare biglietti ferroviari. L’apparente solidità finanziaria riposava sulla costante crescita dei flussi di mercato. Il dollaro era ancorato a una garanzia mista di metalli preziosi, oro e argento. Il valore dei metalli era a sua volta garantito dagli acquisti di stato. La nuova moneta aurea tedesca prospettata nel 1871 influenzò il governo federale che emanò il Coinage Act del 1873 dove si rinunciava alla garanzia d’argento nel commercio interno (rimase solo nell’export per il trade dollar) e si passò anche lì di fatto alla garanzia aurea. Crollò il prezzo dell’argento. Si chiusero le miniere, iniziò una disoccupazione che in un attimo si propagò alle ferrovie. Il governo per frenare la speculazione decise di innalzare il costo del danaro sicché anche l’agricoltura entrò in crisi. A Vienna col venerdì nero del 9 maggio 1873 era già scoppiato il panico di borsa in seguito a una serie di insolvenze di Stephan Keglevich, l’inventore d’un fondo di derivati di allora, nati in Ungheria nel 1845 per garantire il rischio di chi investiva nel settore

finanziario. La terribile ironia della sorte è che quel 9 maggio si apriva a Vienna l’Expo Universale che ne doveva celebrare la potenza e la gloria. La crisi viennese si propagò a Berlino con il fallimento della maggiore compagnia di investimenti in reti ferroviarie fra Romania e Slovenia. Berlino reagì stabilendo definitivamente il marco oro il 9 luglio. La borsa si mise a scricchiolare anche a New York. A settembre la grande banca Jay Cooke & Company non riuscì a collocare sul mercato un prestito della Northern Pacific Railway. Il 18 settembre 1873 la banca dichiarò il fallimento. Ci fu il primo vero panico di borsa della storia con l’arresto per dieci giorni delle transazioni. Nel giro di pochi mesi l’economia mondiale era entrata in una recessione che sarebbe durata una trentina d’anni, con effetti ovviamente ben diversi da una nazione all’altra. I paesi alemannici si risollevarono

assai presto. L’Inghilterra, malgrado i vasti mercati di smercio orientali, perse la posizione di preminenza assoluta: con l’impossibilità di mandare i suoi velieri nel canale di Suez aperto nel 1869 stava perdendo la centralità dei suoi docks. La Francia non se la cavò troppo male, in gran parte grazie alle colonie. Gli Stati Uniti entrarono nella loro prima grande depressione. L’effetto sui mercati fu rimarchevole. Prezzi agricoli in calo, commerci atlantici indeboliti. Prezzi industriali fermi. Blocco automatico dei salari. Chi era impegnato in attività produttive si trovava in sostanziale difficoltà. Chi viveva di rendita, se aveva la fortuna di introitare a sufficienza per superare le spese di vita, s’arricchiva. Iniziò così la Belle Époque come pacchia per i rentier. Quella era stata la prima crisi dell’economia globale: la Belle Époque sarà altrettanto mondiale.

EDGAR DEGAS BORSA DEL COTONE A NEW ORLEANS particolare, 1873, olio su tela, cm 73x92, Pau, Musée des Beaux-Arts

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E ora il giro della Belle Époque può diventare una passeggiata fra le immagini dei dipinti. Perché sia Manet sia Degas vi porteranno a seguire le corse dei cavalli a Longchamp.

Pagina a fianco: ÉDOUARD MANET IL BALCONE 1868-1869 ca, olio su tela, cm 170x124,5, Parigi, Musée d’Orsay Sopra e a sinistra: ÉDOUARD MANET CORSE DI CAVALLI A LONGCHAMP 1864, olio su tela, cm 44x84, Chicago, The Art Institute of Chicago EDGAR DEGAS CORSE DI CAVALLI A LONGCHAMP 1871, olio su tela, cm 34x41,9, Boston, Museum of Fine Arts

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Potrete in una mattina d’inverno ammirare la misteriosa signora con cane mastino di De Nittis che fa preoccupare assai con quella frusta in mano.

GIUSEPPE DE NITTIS SIGNORA COL CANE (RITORNO DALLE CORSE) 1878, olio su tela, cm 150x90, Trieste, Museo Civico Revoltella

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La guarderete meglio dall’alto, come la guarda il signore sornione dal suo balcone, dietro una tenda che Caillebotte fa vedere col suo giusto grado di polvere in una giornata di primavera.

GUSTAVE CAILLEBOTTE UOMO AL BALCONE 1880, olio su tela, cm 114x86, Collezione privata

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JAMES TISSOT LE SIGNORE DELL’ARTISTA 1885, olio su tela, cm 146,1x101,6, Norfolk, VA, Chrysler Museum of Art

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Potrete nel 1885 seguire le belle di Parigi a colazione d’estate in un quadro di Tissot.

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Nel frattempo la qualità della salute diventa d’interesse generale. Nel 1886 Louis Pasteur presenta all’Accademia delle Scienze i risultati dei suoi lavori sulla rabbia e la scoperta dei microbi. La chirurgia scopre l’antisepsi e fa un salto da gigante come ben fa vedere Gervex, il quale morirà a settantasei anni. Belle Époque sul serio.

HENRI GERVEX PRIMA DELL’OPERAZIONE 1887, olio su tela, cm 242x188, Parigi, Musée d’Orsay

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JEAN BÉRAUD LA SERA, ATTORNO AL PIANO 1880 ca, olio su tavola, cm 35x27, Parigi, Musée Carnavalet

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La vecchia ricca Europa è in festa costante, i signori in frac e le signore in seta, a Parigi con Béraud, addirittura in Finlandia con Gunnar Berndtson dove in tavola c’è lo cham-

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pagne francese, e nella solida Inghilterra vittoriana dove lo champagne è bandito e sopravvive la tradizione dei vini dell’Atlantico, il Bordeaux e il Porto.

GUNNAR BERNDTSON IL CANTO DELLA SPOSA 1881, olio su tela, cm 66x82,50, Helsinki, Finnish National Gallery ALFRED EDWARD EMSLIE CENA A CASA HADDO 1884, olio su tela, cm 36,2x57,8, Londra, National Portrait Gallery

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Le fanciulle inglesi (Serata in casa) si ritirano poi in stanza a leggere. Quelle parigine son ben più svezzate, stanno ai tavolini dei locali pubblici in attesa dell’avventura dinanzi alla grappa di prugne di Manet e fumano sigarette. Nessuno ancora dice che il fumo fa male. Fumano tutte, anche le spagnole che Francisco Masriera y Manovens, un catalano in giro fra Ginevra, Parigi e Roma, rappresenta cosmopolite e lascive. Perché non sono più le fatali dal destino crudele degli anni di Baudelaire.

Pagina a fianco: ÉDOUARD MANET LA GRAPPA DI PRUGNE 1877 ca, olio su tela, cm 73x50, Washington, National Gallery of Art Sopra: FRANCISCO MASRIERA Y MANOVENS GIOVANE DONNA A RIPOSO 1894, olio su tela, cm 41x55, Madrid, Museo del Prado EDWARD JOHN POYNTER SERATA IN CASA 1888, acquarello su carta, cm 59,1x36,8, Collezione privata

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GIUSEPPE DE NITTIS NUDO CON LE CALZE ROSSE 1879, pastello su carta, cm 80x99, Collezione privata Pagina a fianco: ROGELIO DE EGUSQUIZA Y BARRENA LA FINE DEL BALLO olio su tavola, cm 105x70,5, Collezione privata

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Cambia tutto e la bella di De Nittis riposa nuda in calze rosse autorette e non ancora autoreggenti, in attesa d’andare al ballo di Tissot per intraprendere una conversazione col superbaffuto appoggiato relaxed alla colonna di marmo. Molto sciolto lui che la sa lunga, molto coquette lei che nasconde il sorriso dietro al ventaglio, lei che la sa altrettanto lunga. E si balla, si balla, si balla come nel quadro dello spagnolo Rogelio de Egusquiza y Barrena, il pittore melomane amico di Wagner e di Fortuny.

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Doppia pagina precedente: JAMES TISSOT “TROPPO PRESTO” 1873, olio su tela, Londra, Guildhall Library & Art Gallery Sotto: HENRI GERVEX ROLLA 1878, olio su tela, cm 175x220, Parigi, Musée d’Orsay

Rolla si girò per guardare Maria. / Lei si sentiva stanca e si rimise a dormire, / Così tutti e due fuggivano le crudeltà della sorte, / La bimba nel sonno, e l’uomo nella morte!

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Finiscono poi le serate. Nel bene e spesso nel male. Se si è squattrinati si fa la fine del quadro di Gervex, che riprende un poema di Musset di mezzo secolo prima: Rolla. Lui, il giovane Rolla dedito alla débauche, definitivamente squattrinato, innamorato della prostituta che gli ha pure offerto, per salvarlo, di vendere la sua collana d’oro, ha deciso di farla finita e buttarsi dalla finestra mentre lei dorme. Eccolo prima del momento fatale.

Rolla se détourna pour regarder Marie. Elle se trouvait lasse, et s’était rendormie, Ainsi tous deux fuyaient les cruautés du sort, L’enfant dans le sommeil, et l’homme dans la mort !

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Se si era ricchi la questione aveva tutt’altra conclusione: il marito aspettava tornati a casa, mentre si toglieva i guanti, una spiegazione che non poteva venire. Sempre in Gervex.

Per il pittore brasiliano sempre formato nei lussi parigini, Belmiro de Almeida, la vicenda si capovolge, ed è lui cinico ad averla fatta sporca.

HENRI GERVEX AL RITORNO DAL BALLO 1885, olio su tela, cm 66x81,2, Collezione privata

BELMIRO DE ALMEIDA ALLO STREMO 1887, olio su tela, cm 89x116, Rio de Janeiro, Museu Nacional de Belas Artes

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JAMES TISSOT HUSH! (IL CONCERTO) 1875 ca, olio su tela, cm 73,6x112,2, Manchester Art Gallery EDGAR DEGAS L’ORCHESTRA DELL’OPÉRA 1868-1869 ca, olio su tela, cm 56,5x46,2, Parigi, Musée d’Orsay

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E la festa continua però, con lei, beneducata e violinista, che a Londra si esibisce in un dipinto di Tissot intitolato Hush!, quell’avvertimento a sibilo che si lancia in sala per ottenere il silenzio prima dell’esecuzione musicale. Tutto è musica e teatro, ve lo fa vedere con profondo senso della verità Degas, con suonatori realisti in primo piano e ballerine che gli inavvertiti chiamerebbero impressioniste in secondo piano. E al teatro si osserva mentre si è osservati. A questo punto vi dovreste chiedere chi è Tissot, un gigante misconosciuto della pittura e del documento.

MARY CASSATT NEL PALCO 1878, olio su tela, cm 81,2x66, Boston, Museum of Fine Arts

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EDGAR DEGAS RITRATTO DI JAMES TISSOT 1867-1868 ca, olio su tela, cm 151,4x111,8, New York, The Metropolitan Museum of Art

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Eccolo ritratto giovane trentenne nel 1867 nientemeno che dal suo amico e quasi coetaneo Degas. Stesso giro e destini diversi. In quell’anno s’era aperta a Parigi la grande Expo Universale dove il Giappone si presenta finalmente ufficiale e il japonisme diventa moda. Nel suo studio la stampa giapponese infatti predomina e i dipinti che sta realizzando ne sembrano fortemente influenzati. Al centro della parete un inatteso quadro di Cranach il Vecchio, il ritratto di Federico il Saggio, elettore di Sassonia e protettore di Martin Lutero.

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Rigoroso quindi il Tissot, e giapponista come nell’anno successivo sarà ritratto da Manet lo scrittore Émile Zola. Un rigoroso che diventa il cantore dell’aristocrazia borghese. Ma pure sempre rigoroso se nel 1870, come Manet e Degas, entra a far parte dei volontari nella guerra contro la Prussia. Forse ben più rigoroso di loro, se finisce con il partecipare anche alla Comune come Courbet e deve poi scappare da Parigi perché accusato di comunismo. Continua la sua attività di pittore dei lussi sociali in Inghilterra, poi, dopo l’amnistia, torna in Francia. Abbandona infine il suo stile elegante e faceto, si converte, oppure torna all’antica fede, e se ne va in Palestina a illustrare i testi biblici, in un modo oleografico imbarazzante, che lo renderanno, una volta pubblicati, tranquillo e ricco.

ÉDOUARD MANET RITRATTO DI ÉMILE ZOLA 1868, olio su tela, cm 146,5x114, Parigi, Musée d’Orsay

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Ma quel giro di giovanotti venuti alla ribalta negli anni ’60 forma una squadra amichevole assai, sicché addirittura Bazille ritrae Renoir il quale ritrae Bazille.

PIERRE-AUGUSTE RENOIR RITRATTO DI FRÉDÉRIC BAZILLE 1867, olio su tela, cm 105x73,5, Montpellier, Musée Fabre, in deposito dal Musée d’Orsay di Parigi Pagina a fianco: JEAN-FRÉDÉRIC BAZILLE RITRATTO DI AUGUSTE RENOIR 1867, olio su tela, cm 61,2x51, Parigi, Musée d’Orsay

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ÉDOUARD DANTAN UN ANGOLO NEL SALON DEL 1880 1880, olio su tela, cm 97,2x130,2, Collezione privata

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La pittura è lo spettacolo vero di quell’epoca, quella dei fondali del teatro e dell’opera, quanto quella che fa da fondale costante a un’esistenza sociale eclettica e al contempo accentratrice. Nasce allora il concetto del tout-Paris, questa larga società che non è quella degli happy few della upper class britannica, ma quella di tutti coloro che partecipano agli eventi. Il Salon è uno degli eventi principali, sia quello ufficiale che quello dei Refusés, sia quello poi degli Indépendants, quelli veramente fuori rotta, nel 1884. E i critici vi esprimono i loro pareri, le signore i loro giudizi, i collezionisti i loro affetti, i mercanti i loro interessi.

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Gli studi sono i luoghi da frequentare, quello di FantinLatour alle Batignolles come quello di Bazille in rue La Condamine, quell’eroico Bazille che si arruola volontario nella guerra del 1870 e muore quasi subito in battaglia a ventotto anni. Non hanno più quell’aspetto da spelonca austera dello studio di Courbet solo dieci anni prima. Sono luoghi d’una mondanità sottile e costante.

HENRI FANTIN-LATOUR ATELIER A BATIGNOLLES 1870, olio su tela, cm 204x273,5, Parigi, Musée d’Orsay JEAN-FRÉDÉRIC BAZILLE L’ATELIER DI BAZILLE 1870, olio su tela, cm 98x128,5, Parigi, Musée d’Orsay

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E intorno vi gravitano collezionisti e raffinati come Algeron Moses Marsden a Londra, o intellettuali poeti come il nuovo astro della generazione, Stéphane Mallarmé, che qui nel ritratto, per quanto già sciupato, ha trentaquattro anni.

JAMES TISSOT ALGERON MOSES MARSDEN 1887, olio su tela, Collezione privata ÉDOUARD MANET RITRATTO DI STÉPHANE MALLARMÉ 1876, olio su tela, cm 27,5x36, Parigi, Musée d’Orsay

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La gente normale conduce in compenso una vita normale in città. Da chi prende a Londra l’Omnibus, dove già è presente nel 1859 la regolare pubblicità, al popolo di Parigi che Renoir ritrae in festa mentre balla al Moulin de la Galette nel 1876, l’anno precedente a quello nel quale Gervex ci fa vedere le stesse ragazze forse, le quali al café si stanno intrattenendo con signori che hanno un’idea sola in testa, e fanno di tutto per perseguirla.

GEORGE WILLIAM JOY THE BAYSWATER OMNIBUS particolare, 1895, olio su tela, cm 140x194, Londra, Museum of London

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PIERRE-AUGUSTE RENOIR BALLO AL MOULIN DE LA GALETTE 1876, olio su tela, cm 131,5x176,5, Parigi, Musée d’Orsay HENRI GERVEX UN CAFFÈ A PARIGI 1877, olio su tela, cm 100,5x136, Detroit, Detroit Institute of Arts Pagina a fianco: JEAN BÉRAUD LA PASTICCERIA GLOPPE, AVENUE DES CHAMPS-ELYSÉES 1889, olio su tavola, cm 38x53, Parigi, Musée Carnavalet JOHN HENRY HENSHALL AL BANCONE DEL BAR 1882, acquarello su carta, cm 41,2x73, Londra, Museum of London

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E così si giunge, verso la fine del secolo, a una società ben ordinata, dove la borghesia per bene parigina va in pasticceria e il popolo britannico al pub.

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Pagina a fianco: HENRI GERVEX UN CAFFÈ A PARIGI particolare, 1877, olio su tela, cm 100,5x136, Detroit, Detroit Institute of Arts A sinistra: JOHN HENRY HENSHALL AL BANCONE DEL BAR particolare, 1882, acquarello su carta, cm 41,2x73, Londra, Museum of London

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GEORGES-PIERRE SEURAT IL CIRCO 1891, olio su tela, cm 185,5x152,5, Parigi, Musée d’Orsay

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La gente si diverte al circo, quello che ci descrive ancora una volta Tissot con le sue belle di buona società, quello che Seurat fa brillare nel Pointillisme, quello che Mancini raffigura

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con napoletana melanconia in un dipinto magistrale che acquista Durand-Ruel e che tramite questo mercante stimolerà le visioni del Picasso rosa.

JAMES TISSOT DONNE DI PARIGI: L’AMANTE DEL CIRCO 1885, olio su tela, cm 147,3x101,6, Boston, Museum of Fine Arts (pagina seguente, particolare)

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ANTONIO MANCINI IL SALTIMBANCO particolare, 1879, olio su tela, cm 203x110,8, Filadelfia, Philadelphia Museum of Art

PABLO PICASSO ACROBATA E GIOVANE ARLECCHINO 1905, olio su tela, cm 191,1x108,6, Merion, The Barnes Foundation

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Mentre i signori un po’ più desiderosi girano attorno alla famosa Goulue che ritrae Toulouse-Lautrec, a sua volta ritratto da Boldini mentre, aristocratico di vecchia stirpe meridionale, s’infila goduto i guanti. Tutti insieme nel lusso porpora della casa chiusa. E fra gli italiani che sbarcano a Parigi sposandone i riti, c’è chi ne sposa solo in parte lo stile pittorico, come quel curioso genio di Telemaco Signorini che

HENRI DE TOULOUSE-LAUTREC AL BAR 1898, gouache su cartone, Zurigo, Kunsthaus GIOVANNI BOLDINI RITRATTO DI UN DANDY (GIÀ RITRATTO DI TOULOUSE-LAUTREC) 1880-1890, pastello su carta, cm 62,9x41, Pasadena, CA, Norton Simon Museum

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mantiene la sua toscanità, a differenza d’uno Zandomeneghi veneziano che si fa impressionista. Lo fa sia nel dipingere la luce del mattino quando le ragazze si rimettono in sesto, sia nello spirito di partecipazione umana alla loro sorte. Ma qui la persiana italiana lascia entrare l’aria nella casa chiusa. Gli equilibri estetici non reggono e stanno saltando. Da un lato alcuni si fanno chiamare impressionisti, il che piace molto

HENRI DE TOULOUSE-LAUTREC AL SALON DI RUE DES MOULINS 1894, olio su cartone, cm 111,5x132,5, Albi, Musée Toulouse-Lautrec

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TELEMACO SIGNORINI LA TOILETTE DEL MATTINO 1898, olio su tela, cm 120x176, Collezione privata

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al loro mercante Durand-Ruel (Manet ha sempre rifiutato quell’appellativo: gli faceva impressione essere impressionista, quasi quanto a Degas), dall’altro Mallarmé, prima di morire sostiene che un colpo di dadi non può fermare il caso delle cose e da buon simbolista deluso inventa la rottura della poesia stampata e il primo testo visivo della modernità. Debussy porta l’estetismo musicale ai suoi limiti ed Erik Satie lo rompe addirittura con la testimonianza d’una vita da disperato in frac consunto perenne. Nel 1896, Alfred Jarry inventa l’iconoclastia definitiva nel teatro della patafisica e dell’assurdo con Ubu Roi. In realtà, l’elegante vacuità della Belle Époque sembra non accontentare più nessuno. Ci si sta preparando alle avanguardie storiche. La

VITTORIO MATTEO CORCOS RITRATTO DI SIGNORA CON DUE ADOLESCENTI 1910, Collezione privata

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mobilia parigina che dal Secondo impero in poi altro non è che ripetizione stilistica d’ogni Luigi possibile, materiali che serviranno al culto dell’estetica d’una Cantù universale, lascerà il passo alle vere innovazioni. Eiffel ha dimostrato che le architetture di ferro della sua torre del 1889 sono ben più pregnanti della ripetizione infinita d’ogni genere di colonna e di lesena. Dalle tensioni metalliche da un lato, dalla passione per la natura e le piante dall’altro, nasceva l’Art Nouveau, il Liberty, lo Jugendstil e il Floreale italico. A Viareggio Corcos dipinge una gioventù decadente e pronta a decadere, a Nizza Helleu, il nuovo pittore dello chic parigino, sale sul suo yacht l’Etoile, e ritrae la moglie che gli ha consentito di comprarlo; in Spagna Joaquín Sorolla y

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PAUL CÉSAR HELLEU MADAME HELLEU SULLO YACHT ETOILE 1902 ca, olio su tela, cm 81x65, Londra, Collezione privata JOAQUÍN SOROLLA Y BASTIDA Passeggiata al mare 1909, olio su tela, cm 205x200, Madrid, Museo Sorolla JOAQUÍN SOROLLA Y BASTIDA IDILLIO AL MARE 1908, olio su tela, cm 151x193,3, New York, Hispanic Society of America

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Bastida insegue belle signore vestite di bianco pronte a mettersi nude per il bagno. Tutto sembrava sciogliersi in una agiatezza infinita e perenne, quella di John Singer Sargent come quella di Boldini. Solo la malata svizzera di Vallotton stava fuori dal giro, come la sospesa tristezza danese di Hammershøi. La Belle Époque si preparava a chiudere in bellezza prima di tramontare definitivamente con i gas dell’iprite a Verdun.

SIR WILLIAM ORPEN LETTURA CON GRAZIA A HOWTH BAY XX secolo, olio su tela, Collezione privata

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JOHN SINGER SARGENT LADY MAYER CON I DUE FIGLI 1896, olio su tela, cm 201,4x134, Collezione privata Pagina a fianco: GIOVANNI BOLDINI CONSUELO VANDERBILT DUCHESSA DI MARLBOROUGH E SUO FIGLIO LORD IVOR SPENCER CHURCHILL 1906, olio su tela, cm 221,6x170,2, New York, The Metropolitan Museum of Art

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FÉLIX VALLOTTON L’AMMALATA

Pagina a fianco: VILHELM HAMMERSHØI INTERNO CON DONNA SEDUTA SU UNA SEDIA BIANCA

1892, olio su tela, Losanna, Collezione Josefowitz

1900, olio su tela, cm 55,8x48,3, Collezione privata

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N.B PER I CURIOSI DI MONDANITÀ Nulla sarebbe più semplicistico, per capire il Secolo Lungo, che attenersi alla descrizione delle classi sociali che genialmente viene tracciata nel manifesto di Marx ed Engels. I due pensatori avevano elaborato assai alacremente una differenziazione di classi in borghesi (conservatori dei privilegi), piccolo-borghesi (reazionari, perché vogliosi di tornare ai tempi passati) e proletari (rivoluzionari con tutto da guadagnare e nulla da perdere). Certo, si erano posti anche la domanda circa la forza motrice della società e davano una risposta assai lucida: “La borghesia non esiste che alla condizione di rivoluzionare incessantemente gl’istrumenti di lavoro, per conseguenza il sistema di produzione, per conseguenza tutti i rapporti sociali. La conservazione del vecchio sistema di produzione era, al contrario, la prima condizione di tutte le classi industriali precedenti. Questa rivoluzione continua dei sistemi di produzione, questo movimento costante di tutto il sistema sociale, questa agitazione, questa poca sicurezza eterne, distinguono l’epoca borghese da tutte le precedenti”. Chiave interpretativa utile questa. Il Secolo Lungo vive in una costante mutazione sociale, e questa mutazione cambia da nazione a nazione. Il mondo germanico preunitario, compresa l’Austria felix, vede la nascita, dopo i trambusti napoleonici, d’una classe media nuova, cittadina, tranquilla e perbenista, disseminata nelle centinaia di piccole città che ne costituiscono il tessuto stabile. Nasce il mondo Biedermeier che determina l’etica sociale dal 1815 al 1848. L’influenza sulla vita quotidiana è trasversale e totalizzante, dalle pratiche musicali serali alla Schubert al mutare della moda nel vestire e nell’arredare. Il nome Biedermeier proviene dalla letteratura dell’epoca e come spesso accade fu coniato sul finire dell’epoca stessa. Ben lo testimonia la poesiola di Ludwig Pfau, il rivoluzionario del ’48: Schau, dort spaziert Herr Biedermeier und seine Frau, den Sohn am Arm; sein Tritt ist sachte wie auf Eier, sein Wahlspruch: Weder kalt noch warm. Guarda, lì passeggia il signor Biedermeier e sua moglie, col figlio al braccio; il suo passo è garbato come sulle uova, il suo motto: né freddo né caldo. Tutta la vita soffice germanica nasce da lì: il termine definitorio è gemütlich, intraducibile, ma che nella sostanza combina tranquillità casalinga, luci morbide, assenza di ansia. Il comfort come stile dell’anima.

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Quel mondo Biedermeier prenderà il sopravvento e si dividerà in grande borghesia e piccola borghesia con la mutazione della metà del secolo, quando la Germania inizierà a crescere oltre gli staterelli esistenti nello Zollverein, l’unione doganale che preluderà a quella politica, e quando l’Austria, dopo Solferino, darà peso alla sua borghesia contro la vecchia nobiltà. Ma nei due imperi dopo il 1871 forte sarà anche una classe sociale particolare, quella dei burocrati detti Beamte, in modo non dissimile da quelli dell’impero zarista tanto ben raccontati da Gogol’. Mondo poliedrico. Ben diversa l’Inghilterra, dove la scala sociale è complicata come quella d’un grande albergo. Una vera piramide che parte dalle parentele di sangue reale, passa ai pari, i peers della camera alta nel Parlamento, poi ai baronetti, poi ai knights o cavalieri, infine alla gentry, tutti coloro che campano senza lavorare. Sotto stanno, alla base più bassa, i contadini con la zappa sopra i quali già s’innalzano i traders, cioè i campagnoli con licenza di commercio, e sopra ancora gli yeomen, i piccoli proprietari come nei racconti russi di Turgenev. Le classi alte si danno al business, cioè all’occupazione, le classi basse al work o al trade, il volgare commercio. No trade for gentry! Certo questo sistema perfetto soffre di alcuni tratti di ipocrisia, in quanto alla Borsa di Londra e presso i Lloyd’s assicurativi ci vanno tutti, purché ne abbiano i mezzi. Perché la vita perfetta è in campagna e a Londra la confusione è d’obbligo. Si abita nella Hall di campagna con un lussuoso appartamento nella capitale. La rivoluzione industriale fa il resto: i contadini diventano proletari, i nobili padroni. La buona prassi che consente al mondo britannico una lunga crescita vittoriana ha radici già nella dinastia Hannover del Settecento quando chi fa i soldi sa che prima o poi, assieme a chi si è distinto sotto le armi o sotto le vele, gli toccherà un bel titolo nobiliare, ereditario se la fortuna lo permette. La società francese è quella che esce da un Ancien Régime totalmente sclerotizzato, passa dalla rivoluzione e dall’impero napoleonico dove tutto è possibile per tutti, ripiomba nella Restaurazione quando tornano i sopravvissuti alla ghigliottina e genera un mondo caleidoscopico che Balzac racconta alla perfezione. Nel suo piccolo testo Traité de l’élégance spiega cosa si deve fare, una volta diventati ricchi, per esser alla pari con chi ricco lo è già. Lascia uno spiraglio d’eleganza libera solo agli intellettuali e agli artisti che si fanno protagonisti della vita sociale. La Francia è Parigi. Chi è di provincia rimane provinciale o viene

a tentare fortuna sociale ed economica nella capitale. Qui il mondo si divide in grand monde, quello del tout-Paris dove i finanzieri frequentano la nobiltà, gli scrittori di successo e gli artisti conclamati in un ballo senza sosta, poi in quello che viene definito il demimonde al quale accede chi se la sente, dalla coquette al bohémien, come ben raccontano Zola e Maupassant. Gli altri, quelli che rimangono in campagna o nelle officine sono le petites gens. Ma la parte apicale della società rimane assai blindata e al Jockey Club si accede dietro presentazione di due padrini con una votazione dove cinque palline bianche di benvenuto vengono annullate da una sola pallina nera contraria. Il noto scrittore Paul Bourget, che fa di tutto per trasformarsi da provinciale in protagonista del grand monde, scrittore cattolico di centro-destra, partecipe del gruppo antisemita degli anti-Dreyfus, al Jockey Club non lo prendono. Il presidente del Club, Sosthène II de La Rochefoucauld, IV duca di Doudeauville, ambasciatore di Francia, deputato del dipartimento della Sarthe dichiara: “Si è descritto molto, esposto, spiegato i meriti conseguenti del Signor Paul Bourget, ma per

fortuna in Francia esistono ancora persone che non hanno bisogno d’alcun merito per essere ciò che sono”. Eppure chi fa soldi fa società. Papà Caillebotte ha fatto fortuna con le forniture militari e lascia in eredità ai figli e alla moglie la somma di 2 milioni di franchi (1/1000 del PIL nazionale), il che consente al figlio pittore Gustave la libertà delle barche, del collezionismo miliardario di filatelia e d’una raccolta di pittori a lui coevi ma da lui ben diversi, Cézanne, Degas, Monet, Manet, Pissarro, Renoir e Sisley, in tutto 67 capolavori che lascerà in eredità al Louvre, che ne accetta solo una parte. Curioso caso il suo quando scrive nel testamento: “È necessario che passi un po’ di tempo prima che il pubblico, non dico possa capire, ma ammettere questa pittura”. Amava egli il suo opposto, sia esteticamente sia socialmente. Nella descrizione delle classi sociali l’Italia è come sempre una eccezione, in quanto il subbuglio risorgimentale mescolava tutto e dava accesso a tutti nel calderone d’una gioventù che aveva come scopo esistenziale una nazione nuova oltre le strutture delle vecchie aristocrazie sclerotiche.

JEAN BÉRAUD UNE SOIRÉE 1878, olio su tela, cm 65x117, Parigi, Musée d’Orsay

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entre l’Europa tutta intera s’infiammava nel 1848 con le sue diverse rivoluzioni, mentre la Francia poneva negli stessi anni le basi per la sua futura Belle Époque fucilando gli operai ribelli sia nel 1848 sia nel 1871, in Inghilterra nasceva, silenziosa e inizialmente addirittura segreta, una rivolta assolutamente pacifica nel piccolo mondo delle arti. Se in Francia ci si era opposti già negli anni ’30 all’Accademia per fare i romantici, e l’Accademia decise di perdurare come luogo dove si imparava la qualità delle materie pittoriche e la precisione della pennellata, in Inghilterra la situazione era assai diversa. Il gusto per il gesto libero nel dipingere l’aveva già ben portato agli apici il mondo di Gainsborough e di Joshua Reynolds, fondatore e gran guru della Royal Academy. Contro che cosa si dovevano quindi rivoltare i giovani? Ovviamente contro i troppi bitumi dei fondi nella ritrattistica e contro l’attenzione scolastica per tutte le evoluzioni formali insegnate come bibbia di maniera post raffaellesca. Decisero quindi di chiamarsi, nel 1848, Preraffaelliti tre artisti che divennero immediatamente sette e formarono una confraternita. Era nata la prima avanguardia della storia del Secolo Lungo. Come tutti i gruppi alternativi si spaccò nel giro di due anni, ma lasciò un seme che mutò alla radice la coscienza che gli inglesi vittoriani avevano di loro stessi. Se fosse perdurata la linea Gainsborough le signore britanniche sarebbero diventate eleganti, misteriose e intimamente al-

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La confraternita dei Preraffaelliti

Pagina a fianco: JOHN COLLIER LADY GODIVA particolare, 1898 ca, olio su tela, cm 140x185, Coventry, Herbert Art Gallery and Museum

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legre. Con i Preraffaelliti divennero algide e fatali. Comunque pronte a tutto le une come le altre. La mente organizzativa fu sin dall’inizio quella del ventenne Dante Gabriel Rossetti, che abbiamo già incontrato nel museo. Era allievo di Ford Madox Brown, anche lui già incontrato. Iniziò convertendo ai suoi pensieri Millais, che si trovò a dipingere alcuni quadri estremamente enigmatici, fra i quali Gesù nella casa dei genitori che doveva testimoniare la sincerità del racconto realista e fu invece duramente criticato e, al suo opposto, Ofelia, romantica,

JOHN EVERETT MILLAIS GESÙ NELLA CASA DEI GENITORI 1863, olio su tela, cm 38,1x61, Collezione privata

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fortemente simbolista e irreale, che fece moda e fu dipinta dai seguaci decine di volte in ogni posa possibile, in piedi prima di annegare, in esitazione per non annegare, annegata. Il dipinto corrisponde, tra l’altro, ai nuovi dettami che i ribelli s’erano dati: abolire gli sfondi inutili riempiendo le tele con convinto horror vacui, guardare con partecipazione romantica la bellezza della natura e restituirla nelle immagini, evitare per sempre i temi storici retorici e inventare una retorica propria, basata sulla storia delle isole britanniche e dei suoi miti. Intanto l’interesse per il verosimile, visto come opposizione alle glorie della Royal Academy, s’era arenato nei confini della precisione pittorica, certamente non della scenografia. Ecco perché questo capitolo è introdotto da un quadro ben posteriore, che va a chiuder il secolo, la famosa Lady Godiva, moglie del conte di

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Coventry, che cavalcò nuda per la sua città in modo da convincere il marito ad abbassare le tasse. Era ancora l’Inghilterra dell’XI secolo, quella pura e anglosassone prima dell’invasione dei normanni che ne avrebbe alterata la genuinità. Il giovane Tom che guardò lady Godiva con troppo trasporto rimase cieco e divenne il prototipo di tutti i peepers (i voyeurs, o guardoni

JOHN EVERETT MILLAIS OFELIA 1852, olio su tela, cm 76,2x111,8, Londra, Tate Britain JOHN COLLIER LADY GODIVA 1898 ca, olio su tela, cm 140x185, Coventry, Herbert Art Gallery and Museum

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WILLIAM HOLMAN HUNT PASTORALE 1851 ca, olio su tela, cm 76,4x109,5, Londra, The Makins Collection

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che si voglia) successivi. Comunque agli albori dell’avventura preraffaellita Dante Gabriel si portò appresso, in un secondo tempo, il fratello critico e la sorellina Christina poetessa, che gli diedero una mano a far sopravvivere per un po’ la rivista del gruppo. La prima avanguardia aveva anche il primo organo di stampa autonomo. Millais e Hunt, i due cofondatori del ’48 se ne andarono assai in fretta, sostanzialmente spaventati dalle critiche che la buona società d’allora, compreso Charles Dickens, muoveva contro di loro e contro la semplicità ingenua di alcune loro opere religiose. “Nel primo piano di questa bottega da carpentiere si trova un ragazzo repellente, dal collo storto, piagnone e dal pelo rosso in camicia da notte, che sembra avere avuto una pestata sulla mano dal bastone d’un altro ragazzo con il quale giocava in un vicino rigagnolo, e la fa contemplare a una donna inginocchiata, così orribile nella sua bruttezza, da sembrare (supposto che sia possibile per qualsiasi creatura umana l’esistere per un solo momento con quella gola slogata) saltare fuori dal resto della compagnia come un Mostro del più vile cabaret di Francia, o dalla più bassa mescita di gin d’Inghilterra.” (Charles Dickens, “Household Words”, 1851)

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La regina Vittoria rimase così colpita dalla virulenza di Dickens, che chiese incuriosita d’incontrarne l’autore. Ed è anche vero che dietro questa critica si nascondeva il sospetto d’una adesione dei Preraffaelliti al cattolicesimo romano, mentre, per la verità, il successo della loro sigla va parzialmente ritrovato nella diffidenza britannica per ogni evoluzione estetica della perfida Babilonia vaticana e delle sue glorie rinascimentali. I Preraffaelliti sono infatti radicalmente contrari agli equilibri del Rinascimento cinquecentesco e attratti dalla cultura complessa del Quattrocento, quando ancora la pittura artigianalmente curata e le arti applicate si trovavano in sintonia. Forse qui sta invece il motivo per il quale John Ruskin s’interessò a loro. E arrivarono anche due personaggi nuovi di estrema importanza per il futuro delle arti, Edward Burne-Jones e William Morris. Rossetti era figlio di padre e madre letterati e italiani, Ruskin, di poco più vecchio, era il prodotto d’una fondamentale mutazione della società inglese. Dalla seconda metà del Settecento infatti, l’ingresso alle classi alte della società non avveniva più necessariamente con la cooptazione nella gentry, ma attraverso l’università, alla quale accedevano i figli di famiglie prosperose borghesi. Ruskin si forma a Oxford, dove, dato curioso quanto emblematico, incontra, ben più giovane di lui, il futuro reverendo Charles Lutwidge Dodgson, il quale con lo pseudonimo di Lewis Carroll pubblicherà trent’anni dopo Alice nel paese delle meraviglie. Il paese meraviglioso sarà per Ruskin l’Italia, che gira in lungo e in largo, ma principalmente Venezia, dove si convince che la risposta all’atmosfera stantia dell’architettura vigente sta nella riscoperta del Medioevo. E così questo Walter Scott in versione arti decorative e architettura diventerà il vate della mutazione del gusto. Lo è in tutti i sensi, anche politico, perché gli repelle la sua società vittoriana fatta da un popolaccio interessato solo a fare soldi. E sposerà quindi le prime tesi socialiste utopistiche colorate di quel neocristianesimo che tanto piace al primo nucleo dei Preraffaelliti, che difende con i suoi scritti e i suoi articoli. Con lui arrivano quindi a raggiungere il gruppo il giovane William Morris, anche lui oxfordiano, e il suo amico Burne-Jones, diplomato in teologia sempre all’Exeter College di Oxford. Questo nuovo

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DANTE GABRIEL ROSSETTI MONNA VANNA 1866, olio su tela, cm 88,9x86,4, Londra, Tate Britain Pagina a fianco: DANTE GABRIEL ROSSETTI VENERE VERTICORDIA 1864-1868, olio su tela, cm 96,52x68,58, Bournemouth, Russell-Cotes Art Gallery and Museum

nucleo che si viene a formare avanza tesi assai perspicaci. In piena seconda rivoluzione industriale, quando il prodotto delle fabbriche viene posto in concorrenza col mondo intero durante l’Expo del Crystal Palace nel 1851, loro ritengono che l’unica via di salvezza sia un ritorno ai valori della vita rurale delle splendide campagne inglesi e all’artigianato che vi è sempre fiorito. Il tutto ovviamente con il rinnovamento estetico che i Preraffaelliti hanno fatto scaturire. Da lì nascerà inizialmente una piccola ditta che li accomuna e infine il movimento degli Arts and Crafts che tanto daranno al rinnovamento delle arti decorative a cavallo fra XIX e XX secolo. Il ruolo di Morris non sarà indifferente nella storia del socialismo inglese, dove darà vita a un tentativo assai fallimentare di collaborazione con Carlo Marx. E intanto continua l’avventura pittorica con la conversione d’una schiera di artisti ai dettami della nuova visione. Negli anni ’60 Rossetti (pentito?) scopre il fascino delle labbra carnose e d’una ricchezza pittorica che richiama il meglio di Bronzino o del Parmigianino declinato con i capelli e la sensualità di Tiziano. Nella sua Venere verticordia, la Venere che apre i cuori, torna il seno nudo del miglior Rinascimento, e lei tiene in mano il frutto, che non è affatto il pomo proibito di Eva come ci racconta lo stesso autore:

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She hath the apple in her hand for thee, Yet almost in her heart would hold it back; […] “Alas! the apple for his lips, – the dart That follows its brief sweetness to his heart, –”

Tiene la mela in mano per te, / Anche se vorrebbe trattenerla in fondo al cuore […] / “Ahimè! Il pomo per le labbra di lui, – il dardo / Che dopo la sua breve dolcezza va al suo cuore, –”

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WILLIAM MORRIS LA BELLE ISEULT 1858, olio su tela, cm 71,8x50,2, Londra, Tate Britain

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Anche se più d’una mela domestica ricorda questo frutto con le farfalle e il tripudio di fiori l’arancia del Giardino delle Esperidi nella Primavera di Botticelli. E così si giunge alla formidabile confusione del pre e post Raffaello. BurneJones tra l’altro, a partire dagli anni ’70, seguendolo introduce una nuova tipologia di figura femminile che diventerà

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quella dell’arcana femme fatale, che irretisce (sotto il vestito nulla) il Mago Merlino, avendo già abbandonato il corsetto che costringeva la vita di vespa delle sue coetanee vittoriane e ci presenta addirittura una potente anticipazione del vestiario libero inglese che diventerà di moda negli anni hippy con il nude look di Joan Baez. Qui il re africano Cophetua, assolutamente privo di attrazione per il gentil sesso (e non è un militare britannico) s’innamora della bella mendicante, a dimostrazione che non vi sono limiti di classe all’amore a prima vista, e la riveste per farne la sua regina. Tutta colpa ovviamente della modella, Jane Burden. La Jane dalle labbra sensuali era anch’essa di Oxford, ma non dell’università. Nata povera figlia di stalliere fu notata a teatro, a prima vista, da Rossetti e divenne la fidanzata, a prima vista, e poi la moglie di William Morris. Fu educata al francese e all’italiano e divenne una buona pianista, mamma di due figlie. Morris la ritrae in versione La belle Iseult nel 1858 (è l’anno nel quale Riccardo Wagner sta iniziando a comporre

EDWARD BURNE-JONES L’ACCATTIVANTE MERLINO 1872-1877, olio su tela, cm 186x111, Liverpool, Lady Lever Art Gallery, National Museums EDWARD BURNE-JONES IL DESTINO È COMPIUTO (PERSEO UCCIDE IL MOSTRO MARINO) 1882, tecnica mista su carta, cm 153,8x138,4, Southampton, Southampton City Art Gallery

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JOHN WILLIAM WATERHOUSE ECO E NARCISO 1903, olio su tela, cm 109,2x189,2, Liverpool, Walker Art Gallery

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Tristano e Isotta). Il dipinto di Morris è una raffigurazione di tutto l’armamentario del nuovo gusto decorativo, dalle stoffe colorate a stencil ai tessuti in broccato e ai tappeti, compresi l’arazzo quattrocentesco e l’incunabulo miniato, e anche ovviamente i frutti arancio che mele non sono, lei avendo le farfalle in testa. E i seguaci dei Preraffaelliti, non facendo parte della cerchia diretta, si confondono e vanno a correre l’avventura delle signore evanescenti, sembrano aver letto Le lys dans la vallée di Balzac, quel giglio nella valle dove l’esperto dell’umanità intera dichiara: “Les femmes à taille plate sont dévouées, pleines de finesses, enclines à la mélancolie : elles sont mieux femmes que les autres.” (Le donne di forma piatta sono devote, piene di finezza, inclini alla malinconia: sono più donne delle altre)… finché non giunge la donna crudele finale di Aubrey Beardsley. Ma la strada è aperta per mezzo secolo a ogni fantasia di draghi, di Medioevi, di sogni erratici o erotici.

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EDWARD BURNE-JONES RE COPHETUA E LA MENDICANTE 1883, acquarello su carta, cm 295,9x39,4, Birmingham Museum and Art Gallery AUBREY BEARDSLEY GIOVANNI E SALOMÈ 1893, illustrazione per Salomè di Oscar Wilde

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Esotismo-erotismo

SCUOLA VENEZIANA RICEVIMENTO DEGLI AMBASCIATORI A DAMASCO 1511 ca, olio su tela, cm 175x201, Parigi, Musée du Louvre

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ome sostiene con acutezza Fernand Braudel, il Mediterraneo è sempre stato una sorta di autostrada della comunicazione fra le varie sue sponde. Lo è stato negli anni di fulgore dell’Impero romano quando le stesse colonne e gli stessi mosaici si diffondevano dal nord al sud. Lo è stato negli anni più duri dell’alto Medioevo, quando comunque per i carolingi che tentavano di reinventare l’Impero d’Occidente, quello ricco d’Oriente era l’esempio delle finezze estetiche possibili. Lo fu ovviamente, alla grande, per la Serenissima Repubblica di Venezia quando ancora svolgeva un ruolo marittimo preponderante, e cioè prima della scoperta delle nuove rotte per le Americhe. Forse è con la battaglia di Lepanto (1571) che l’autostrada s’interrompe. Torna in essere con l’evoluzione della marineria nel XVIII secolo, ma soprattutto con la trasformazione dell’Impero ottomano in un governo sostanzialmente tollerante e aperto a ogni commercio. Ma è innegabilmente all’avventura di Napoleone e del suo nemico Nelson che si deve una ripresa di coscienza tale che l’Egitto, quello dove Champollion traduce la stele di Rosetta, diventa talmente di moda da generare uno stile nuovo che si chiama appunto “Retour d’Égypte”, anche se la voglia di viaggio in Oriente era già ben stabilita dalle riprese di decorazione a Roma nell’ultimo trentennio del Settecento e Mozart aveva riportato alla moda Iside e Osiride con il Flauto magico. Torna di moda quindi pure il gusto per tutto il mondo islamico ottomano e Gioacchino Rossini mette in scena alla Scala Il turco in Italia nel 1814 e compone Maometto II nel 1820. L’ultimo melodramma di Rossini in Italia è ancora una volta orientalista ed è la Semira-

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mide messa in scena alla Fenice di Venezia nel 1823; poi lui se ne va in Francia dove dà l’ultimo suo exploit teatrale con il Guglielmo Tell del 1829. Fino alla sua morte trentanove anni dopo comporrà solo lo Stabat Mater e la Petite Messe solennelle oltre a una divertente collezione di giochi musicali da salotto per pianoforte e voce. Si dedica alla cucina e alla vita agiata. L’Europa continentale di quegli anni poco conosce il Mediterraneo meridionale e orientale. Quindi se lo immagina. L’esotismo diventa uno dei temi principali per la fuga dalla realtà concreta, nella quale la rivoluzione industriale la porta a vivere la sua formida-

JOHN FREDERICK LEWIS L’ACCOGLIENZA 1873, olio su tavola, cm 63,5x76,3, Yale Center for British Art, Paul Mellon Collection PAUL KLEE ST. GERMAIN PRESSO TUNISI 1914, acquarello, cm 218x315, Parigi, Musée national d’Art moderne - Centre Georges Pompidou

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HENRI MATISSE ODALISCA IN PANTALONI ROSSI 1921, olio su tela, cm 65x90, Parigi, Musée national d’Art moderne – Centre Georges Pompidou

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bile evoluzione. Ma il borghese continua a sognare, dopo avere deglutito quantitativi cospicui di foie gras e di Sauternes e avere invano tentato di scioglierli con lo champagne, diventato di moda e rivestito nella sua nuova bottiglia, continua a sognare l’altro, l’evasione. Fumare un sigaro e immaginare l’odalisca divenne aspirazione quotidiana. Ne dà un ottimo esempio Ingres, con il suo dipinto del 1814 nel quale riassume la sua passione per Raffaello e i cenci che l’artista italiano metteva in testa alle sue modelle, mescolando il pathos estetico con la pulsione per le carni nude che l’evocazione dell’odalisca immancabilmente provocava. L’immaginario urbano parigino era rimasto molto colpito dai racconti sul mondo ottomano, su quella che era la figura femminile allo scalino più basso della complessa gerarchia dell’harem. Le odalische erano giovani fanciulle vergini che facevano da cameriere ai gradini più alti, quelli delle concubine e infine delle mogli del sultano. Se erano brave a danzare, abili a far musica e graziose nei modi oltre che nelle fattezze fisiche, correvano il fortunato rischio d’essere notate dal sultano e da lui onorate nel talamo. Alcune salivano quindi la scala sociale

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fino a giungere al matrimonio. Per questo motivo genitori di poverelle circasse indirizzavano le più attraenti e dotate delle loro figlie verso la carriera. Cosa poteva far sognare il borghese europeo, abituato ai furtivi amori ancillari, più della figura elegante e svelta dell’odalisca? Sarà lei un tema stabile che attraversa tutto il secolo fino a giungere alle morbide agiatezze di Matisse. Colpisce tutti l’idea d’una nudità femminile morbida e docile, ben lontana dalle figure ieratiche o temibili della mitologia. Paul Flandrin (ve lo ricordate) lo dimostra bene abbandonando i temi storicisti e greco-romani per darsi alla libertà d’un corpo lascivo con assistente femminile a seno nudo, e immancabile narghilè. Il dipinto fu in realtà commissionato dal re del

JEAN-AUGUSTE-DOMINIQUE INGRES CON PAUL FLANDRIN ODALISCA CON LO SCHIAVO 1842, olio su tela, cm 76x105, Baltimora, Walters Art Gallery

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JEAN-AUGUSTE-DOMINIQUE INGRES LA GRANDE ODALISCA 1814, olio su tela, cm 91x162, Parigi, Musée du Louvre

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Württemberg Guglielmo I per i suoi sogni personali a Ingres, che lo fece ultimare da Flandrin, con quella pennellata diversa e quella mania del fondale da teatro architettonico, ma con la medesima attenzione al ventaglio di piume. Ingres era stato leg-

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germente più viziosetto fornendo alla sua una pipa da hashish con fornello nel quale i carboni sono accesi e fumanti pronti all’uso. Francesco Hayez mette la sua odalisca in versione ovviamente mediorientale, ma la riscatta con il titolo biblico di

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Pagina a fianco: FRANCESCO HAYEZ RUTH

Sopra: THÉODORE CHASSÉRIAU LA TOLETTA DI ESTHER

1835, olio su tela, cm 139x101, Bologna, Collezioni comunali d’Arte

1841, olio su tela, cm 45x35, Parigi, Musée du Louvre

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Ruth. Chassériau pone la sua Esther fra un moretto da pittura veneziana e una inserviente araba: la fanciulla parigina sembra il prototipo delle sciampiste. E l’odalisca era così uscita dall’harem per entrare nella fantasia quotidiana. Sicché quella di Courbet del 1866, cioè la solita irlandese pronta a tutto, e quella del pugliese Francesco Netti, successiva di pochi anni, si ritrovano in arredi che la società europea ricercava con spudorato affetto. Courbet pone la sua odalisca irlandese su un lettone di velluto dinanzi a tende sontuose. Netti, che era stato a Parigi nel 1867 come membro della commissione italiana per l’Expo, ne fu ovviamente impressionato positivamente e, dopo avere fatto un giro a Costantinopoli, abbandona i carretti e cavalli che dipinge di solito per rieditare l’immagine con dovizia di tappeti, dei quali diventa specialista. La presenza dell’uccello è così ga-

Pagina a fianco: GUSTAVE COURBET DONNA CON UN PAPPAGALLO 1866, olio su tela, cm 129,5x195,6, New York, The Metropolitan Museum of Art FRANCESCO NETTI ODALISCA 1873, olio su tela, cm 46,3x61,7, Collezione privata

EUGÈNE DELACROIX ODALISCA 1857, olio su tavola, cm 38,5x30, Collezione privata

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rantita senza scomodare il pensiero profondo del professor Sigmund Freud. Si diffondeva l’idea d’un Medioriente che Pierre Loti, il viaggiatore indefesso e attento, mezzo secolo dopo certificherà non essere mai esistito. La questione erotica è invece ben più profonda, e la rivela Delacroix, con una odalisca seduta addobbata nell’acconciatura con quella tipica gioielleria fatta di monete d’oro ch’era caratteristica delle ragazze appartenenti alla tribù Ouled Naïl. La Francia aveva messo piede definitivo in Algeria nel 1830. L’immigrazione dei futuri pieds noirs era immediatamente iniziata e per la prima volta le testimonianze erano autentiche. Le giovani ragazze della tribù berbera nomade degli Ouled Naïl venivano da sempre inviate presso le carovane come danzatrici e prostitute. I proventi, in monete d’oro, avevano esse il costume di trasformarli in collane e cerchi per i capelli. Quando la quantità di monete aveva raggiunto un valore sufficiente da essere considerato una degna dote, si sposavano. Le rappresenta con affetto all’inizio del XX secolo ancora Alphonse-Étienne Dinet, che passa la vita in Algeria, si converte in Nasreddine Dinet, si sposa con una di loro e la porta alla Mecca prima di morire con un funerale al quale assisteranno migliaia di algerini. E ben diverse sono queste ragazze che lui fa vedere in mezzo alla campagna o mentre si vanno a lavare nell’oasi, e per questo fanno sognare il parigino abi-

ÉTIENNE DINET SOTTO IL LAURO ROSA olio su tela, Collezione privata EUGENIO ZAMPIGHI SCENA ARABA 1882, olio su tela, cm 142,5x212,5, Modena, Museo Civico d’Arte

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tuato ai bordelli con bidet e borotalco, da quella raffigurata ingenuamente in un lusso satrapico dal modenese Eugenio Zampighi. L’orientalista per eccellenza, anzi l’esotico per eccellenza, è lo scultore e pittore Jean-Léon Gérôme, ossessionato dal nudo che scolpisce a tal punto da immaginare la situazione onirica nella quale la statua di marmo si gira e lo abbraccia. Lui il Mediterraneo lo ha girato praticamente tutto. E lo restituisce con una precisione che ovviamente è migliorata dalla fantasia. I suoi harem sono elenchi di nudità, come lo sono i suoi bagni turchi dalle dimensioni esagerate dove l’architettura si confonde con quella delle terme romane. Le odalische e le concubine vengono presentate come carne costantemente pronta all’uso, mentre fumano come nel dipinto dell’altro specialista Jean-Jules-An-

JEAN-LÉON GÉRÔME L’INCANTATORE DI SERPENTI particolare, 1870 ca, olio su tela, cm 83,8x122, Williamstown, Sterling & Francine Clark Art Institute JEAN-LÉON GÉRÔME PIGMALIONE E GALATEA 1890 ca, olio su tela, cm 88,9x68,6, New York, The Metropolitan Museum of Art

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Pagina a fianco: JEAN-JULES-ANTOINE LECOMTE DU NOÜY LA SCHIAVA BIANCA 1888, olio su tela, cm 146x118, Nantes, Musée des Beaux-Arts

JEAN-LÉON GÉRÔME PISCINA NELL’HAREM 1876 ca, olio su tela, cm 72,9x61,7, San Pietroburgo, Museo Statale dell’Ermitage

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toine Lecomte du Noüy, il quale della sua odalisca fa un riassunto pubblicitario dell’epoca, con incitazione al consumo di couscous, esaltazione dei sali da bagno e citazione del fumo da una stampa giapponese di Hokusai che troverete più avanti in questa stanza, a riprova dello spirito eclettico quasi obbligatorio. La libertà è così totale da consentire a Gérôme anche il fanciullo nudo, quello che il barone von Gloeden poco dopo andrà a fotografare in Sicilia, e che in Algeria diventerà motivo di viaggio per le disobbedienze sessuali di André Gide e del suo amico

ELEUTERIO PAGLIANO ZEUSI E LE DONZELLE DI CROTONE 1889, olio su tela, Milano, Civiche Raccolte d’Arte, Museo dell’Ottocento, Villa Belgiojoso Bonaparte EDWIN LONGSDEN LONG PENE D’AMORE PERDUTE 1885, olio su tela, cm 127x191,1, New York, Dashes Museum of Art

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Oscar Wilde. Intanto, legittimata la bizzarria, tutto si confonde, epoche e luoghi. Eleuterio Pagliano, di Casale Monferrato, patriota e cacciatore delle Alpi, partecipe delle Cinque Giornate del ’48 e riarruolato garibaldino nel ’59, pittore del Risorgimento poi forse deluso, si fa specialista di scenette settecentesche, e per andare oltre ancora s’immagina così il re dei pittori della Grecia antica, Zeusi, mentre sceglie le modelle migliori in un harem preislamico per comporre la donna ideale prendendo un pezzo di ciascuna. A Edwin Longsden Long è bastato annusare un po’ di Mediterraneo durante un viaggio in Spagna per mutare stile, poi se ne va in Egitto e in Siria nel 1874, dove rimane colpito dagli scavi britannici in corso e rievoca una antichità egizia piena di fanciulle nude o discinte. S’immagina infine il sogno più agognato: vedere un’asta battuta come quelle di Londra, con tanto di banditore al banco, dove invece dei dipinti si pongono in vendita le fanciulle e dove è pure presente lo specialista di gioielli che verifica la bontà della collana che serve al pagamento. Giulio Viotti probabilmente da quelle parti non è

EDWIN LONGSDEN LONG IL MERCATO DELLE SPOSE A BABILONIA 1875, olio su tela, cm 172,6x304,6, Surrey, Royal Holloway and Bedford New College

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A destra: GIULIO VIOTTI IDILLIO A TEBE 1872, olio su tela, cm 303x170,5, Trieste, Museo Revoltella, Galleria d’Arte Moderna Pagina a fianco MARIANO FORTUNY ODALISCA 1861, olio su cartone, cm 56,9x81, Barcellona, Museu Nacional d’Art de Catalunya RICCARDO PELLEGRINI dipinto con cornice di Ettore Bugatti, olio su tela, cm 46x69, cm 117x97 (con cornice), Collezione privata RICCARDO PELLEGRINI dipinto con cornice di Ettore Bugatti, olio su tela, cm 46x69, cm 117x97 (con cornice), Collezione privata

mai andato, ma l’Aida di Verdi lo ha colpito nel profondo della fantasia e lui la lascia cavalcare: infatti eccola di nuovo la schiava nuda, solo che qui è il giovane Radames vittorioso nel palazzo di Tebe mentre lei, Aida, sembra proprio una seria ragazzona di Borgosesia, luogo di provenienza dell’autore. A dir la verità, lì vicino, sul lago Maggiore, nella villa d’un ricco signore legato all’Egitto, villa detta tuttora del Pascià, Verdi, che non aveva grand’idea dell’Egitto, compose il melodramma nel 1869. Mariano Fortuny aveva già dato un bel esempio di odalisca versione pubblicità per le sue mirabili stoffe nel 1861. Verdi poi al Cairo ci va, a inaugurare ufficialmente il canale di Suez, ma mette in scena il Rigoletto perché le scenografie dell’Aida sono rimaste in fabbricazione a Parigi, presa d’assedio dai prussiani. E in Egit-

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to stanno anche andando Enrico Marinetti e la sua compagna non sposata Amalia Grolli. In quell’atmosfera di libertà nascerà nel 1876 Filippo Tommaso, il quale nell’introduzione al Manifesto del Futurismo, citerà le lampade d’ottone traforate e i tappeti. Lui si fa cacciare dal liceo dei gesuiti francesi perché introduce nei severi banchi i testi di Zola e poi andrà a fare il suo baccalauréat a Parigi. Il Mediterraneo orientalista era in costante movimento. La navigazione a vapore ne aveva fatto una autostrada veloce. E non affatto povero era il mondo ottomano, se la produzione di ferro nel momento in cui l’Italia si unisce è di nove volte superiore in Egitto che dalle parti nostre. E fra gli operai del canale v’era il lucchese Ungaretti che mise al

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mondo nel 1888 il futuro poeta Giuseppe Ungaretti, lo stesso anno nel quale a Volos in Grecia nasceva Giorgio de Chirico. E a Milano Carlo Bugatti proprio in quegli anni inventava la sua innovativa mobilia, quella che servì anche da cornice ai dipinti di Riccardo Pellegrini. Milano allora è orientalista senza scomodarsi ad andare in Oriente. Per ogni tipo di esotismo basta la letteratura, talvolta quella tradotta come quando tutti gli scapigliati si vanno a leggere Edgar Allan Poe nella traduzione di Baudelaire, quella che Previati illustra ammirevolmente. Lo stesso Previati che s’inventa il suo proprio Oriente con Le fumatrici di hashish, quelle che combinano Les Paradis artificiels di Baudelaire con l’evasione nell’altra sponda del Mediterraneo.

GAETANO PREVIATI LE FUMATRICI DI HASHISH 1887, olio su tela, cm 140x311, Collezione privata

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Il sogno

Pagina a fianco: JUSTINUS KERNER APPARIZIONE matita su carta, Collezione privata JUSTINUS KERNER FARFALLA kleksografia, 1879, inchiostro su carta, Collezione privata

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on la rivoluzione industriale si forma una nuova corrente di pensiero, figlia oggettiva dell’Illuminismo, ma pure contrappunto dialettico alle pulsioni romantiche. È il Positivismo, iniziato da Saint-Simon (1760-1825) e trasformato in teoria trasversale da Auguste Comte (17981857). Le scienze per loro fondamentali sono quelle che oggi chiamiamo esatte, la matematica e la fisica. Lo scopo è “eliminare le speculazioni metafisiche astratte, stabilire i criteri della razionalità del sapere, e capire le leggi dell’organizzazione sociale”. Le fasi della storia dell’umanità furono quella teologica e poi quella metafisica. Tocca ora alla terza fase, quella dell’età positiva. L’economista e filosofo John Stuart Mill sarà un prosecutore del pensiero, che articolerà meglio ancora sostenendo che l’unica cosa che possiamo comprendere sono i fenomeni, e la conoscenza che ne abbiamo è relativa, mai assoluta; ma dal paragone tra i fenomeni ripetuti possiamo individuare le leggi che li governano. Figli del pensiero di Cartesio e di Leibniz i positivisti affermano la superiorità della ragione, del ragionamento, dell’indagine, credono in una divinità che altro non è che la storia dell’umanità stessa. Il borghese ottocentesco ne è per un certo verso il risultato conseguente. Così è in Francia e in Inghilterra. Si sa che i tedeschi sono più sognatori e che la loro visione della scienza è al contempo più pragmatica e più bizzarra. Il tedesco indaga comunque, anche contro la logica. E così fece ancora sotto l’Ancien Régime il dottor Franz Anton Mesmer, ottimo musicista tra l’altro, inventando una terapia basata prima sul magnetismo dei metalli e poi su quello che emanava dal proprio corpo e accompagnando la terapia, nei diversi ospedali che si trovò a fondare, con cure musicali. Inventò addirittura una macchina con bagno magnetico che per un certo verso anticipava quella del dottor Frankenstein quando questi decise di creare il suo mostro umano. Mesmer ebbe gran successo alla corte di Vienna, dove si legò d’amicizia con la famiglia Mozart a tal punto che Wolfgang lo cita in Così fan tutte. Ancora oggi in inglese si usa in senso popolare mesmerized per significare affascinato dal magnetismo d’una persona. Lui poi andò a Parigi. Studiò con attenzione le possibilità terapeutiche dell’ipnosi, durante la quale conduceva il paziente alla re-

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miniscenza dell’infanzia. Fu innegabilmente, ciarlatano o no che lo si volesse definire, iniziatore delle ipotesi di scienze paranormali. Ebbe egli grande influenza su un medico ben più tranquillo della prima metà del XIX secolo, Justinus Kerner, che sin dalla tarda adolescenza s’era interessato ai malati mentali suonando loro lo scacciapensieri. Kerner, buon poeta e animatore della vita sociale del Württenberg, si dedicava come passatempo all’indagine parapsicologica. A lui si devono i primi esperimenti grafici che porteranno successivamente ai test di Rorschach e alcune intuizioni inattese sui fantasmi corporei, cioè sull’aura. Agli alemanni il rigore positivista stava stretto, agli inglesi amici di Byron pure.

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JOHANN HEINRICH FÜSSLI TITANIA SI RISVEGLIA CIRCONDATA DALLE FATE 1793-1794, olio su tela, cm 169x135, Zurigo, Kunsthaus (pagina a fianco, particolari)

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Negli anni di Mesmer, nato sul lago di Costanza, Johann Heinrich Füssli, nato lì vicino a Zurigo, si dava a dipingere gli incubi. Immagini improbabili d’un mondo nascosto in

fondo alla coscienza dove la declinazione dei temi letterari del Sogno d’una notte di mezz’estate perde la leggerezza del testo di Shakespeare e quella altrettanto fantasiosa resa in

FRANCISCO GOYA IL SABBA DELLE STREGHE 1797-1798, olio su tela, cm 43,3x30,5, Madrid, Museo Lázaro Galdiano

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musica da Mendelssohn, per assumere toni cupi e sentori di perversioni erotiche che solo la Regina della Notte nel Flauto magico di Mozart restituisce con il medesimo mistero. È questione effettivamente ancorata negli atavismi delle tribù barbariche, se anche Goya, da buon spagnolo e quindi fortemente visigoto (goto dell’ovest), di incubi diventa specialista nelle pitture nere. Incubi sonori i suoi, fatti di vecchiacce e di streghe che bisbigliano o gridano, dove il sabba ha un ruolo centrale, e sempre il quadrupede parlante. Per lui quello dell’ignoranza, quello della superstizione. Alla fine del secolo la questione si ammorbidisce, la Spagna è cambiata e Luis Ricardo Faléro, esperto di ogni tipo di nudo, ci restituisce una strega diventata streghetta sulla sua scopa. Nel 1830 Puškin aveva scritto Le novelle del compianto Ivan Petrovicˇ Belkin, e in una di queste un fabbricante di

LUIS RICARDO FALÉRO IL SABBA DELLE STREGHE 1880, olio su tela, cm 74,3x41,2, Collezione privata

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bare si trova a vivere un lunghissimo sogno da ubriaco dove invita a casa i suoi morti. Nello stesso anno Karl Pavlovicˇ Brjullov dipinge il sogno delle generazioni: lei dolcemente sogna i genitori che non ci sono più. Esperto di sogni il Brjullov, ne dipinge decine e decine, anche il sogno peccaminoso della giovane monaca che spera in amori carnosi che la consorella vecchia vigila e tiene lontani. Per i russi, più che per ogni altro popolo d’Europa, il sogno è un dato stabile della vita quotidiana e le vecchie di casa ne sono le regolari interpreti. Queste realizzazioni allucinatorie di desideri repressi sono la strada che Freud intraprenderà per entrare dalla via maestra nell’inconscio. E nel frattempo gli artisti affrontano la medesima questione in senso ironico. Lo scozzese John Faed, nella piccola incisione che accompagna la scheda grafica appesa sotto i quadri, la dice lunga, su un sabba dove le streghette ballano con estremo piacere una danza che potrebbe essere una di quelle popolari dei film etnici. Illustra egli il poeta Robert Burns nel suo testo Tam o’ Shanter, Burns specialista di witch stories, storie di streghe che allora, sul finire del Settecento, piacevano parecchio, scheletri, mummie e diavolaccio scozzese con cornamusa compresi. Gustave Doré è così ironico da essere presurrealista, sempre con quello spirito strasburghese che fa di lui un seguace naturale delle follie fiamminghe antiche.

KARL PAVLOVICˇ BRJULLOV INCUBO DI UNA SUORA 1831, acquarello su cartoncino, San Pietroburgo, Museo Statale Russo KARL PAVLOVICˇ BRJULLOV SOGNO DI UNA FANCIULLA 1833, acquarello su carta, Mosca, Museo Statale Puškin

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FRANCESCO HAYEZ MALINCONIA 1842, olio su tela, cm 138x101, Milano, Pinacoteca di Brera HANS BALUSCHEK LUNEDÌ MATTINA 1898, olio su tela, cm 120x150, Berlino, Staadtmuseum, Märkisches Museum

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JOHN FAED LA DANZA DI NANNIE 1842, incisione GUSTAVE DORÉ I GIGANTI BUONI (DA RABELAIS) Incisione

La sua cucina è in movimento come in un cartone animato di Walt Disney. I mostri sono ovviamente provocati dal sonno della ragione. Vi è un sonno terribile, quello dell’ubriaco russo. Ve n’è uno pericoloso, quello del demone del meriggio quando il monaco viene preso nel sonno postprandiale dalla tentazione dovuta alla secrezione di bile nera, quella della melanconia, la mélanos cholé. Dal monastero alla società civile il passaggio è automatico e per Victor Hugo, nei Travailleurs de la mer, romanzo drammatico sulla vita del mare

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EDWARD ROBERT HUGHES LA NOTTE CON IL SUO TRENO DI STELLE 1912, acquarello e gouache su carta, cm 75,5x124,5, Birmingham Museum and Art Gallery Pagina a fianco: LOUIS SUSSMANN-HELLBORN ROSASPINA 1878, marmo di Carrara, cm 205x101x116, Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie

freddo, scritto mentre nel 1866 era in esilio politico nell’isola inglese di Guernsey: “La mélancolie est un crépuscule. La souffrance s’y fond dans une sombre joie. La mélancolie, c’est le bonheur d’être triste” – “La melancolia è un crepuscolo. La sofferenza vi si fonde in una oscura gioia. La melancolia è la felicità d’essere tristi”. Quant’è vera questa affermazione se la si adatta al dipinto precedente di oltre vent’anni di Francesco Hayez, dove la fanciulla è vestita come se fosse pronta a tutto mentre lo stato d’animo la porta in una depressione che è quella dell’Italia in attesa d’un destino. Quant’è vera pure questa affermazione se si guarda con attenzione l’altro dipinto di Baluschek, Lunedì mattina che documenta una fredda giornata berlinese in un Dachlogis, quegli appartamenti negli abbaini che appaiono oggi così affascinanti solo perché vi è stato piazzato l’ascensore, ma che allora erano il nido dove le donne rifugiate in “casa” si davano alla melancolia assoluta dopo la notte di baldoria della domenica. Eppure v’è un sonno dolce, quello che la notte sparge con lo sciame di stelle e la sabbia dorata che porta i bimbi a sentire affaticati gli occhi. È quest’ultimo che narra con dolcezza Edward Robert Hughes agli inizi del Novecento. Qui la questione del sonno benevolo diventa essenziale al punto che abbiamo posto in centro alla parete l’unica scultura presente nel padiglione. È un grande ele-

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Pagina a fianco: EDWARD ROBERT HUGHES NOTTE DI MEZZA ESTATE 1908 ca, acquarello e gouache su carta, cm 114,3x76,2, Collezione privata

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mento di marmo scolpito da Louis Sussmann-Hellborn a Berlino sul finire del secolo ed è dedicato a Rosaspina, il personaggio centrale d’una fiaba dei fratelli Grimm scritta nel 1812 e intitolata Dornröschen, la quale fiaba riprende La bella addormentata nel bosco, scritta da Charles Perrault negli anni lontani di Luigi XIV. Un mito della fiaba europea quindi che tutti ricordano: la storia della figlia del re che per incantesimo viene condannata dalla fata cattiva (nei Grimm c’è sempre una dose di cattiveria in più!) a dormire per cent’anni assieme a tutto il castello e i suoi abitanti, comprese le mosche. Il sonno centenario si conclude e contemporaneamente arriva il principe a baciare la principessa, l’uomo giusto al momento giusto. Quanto aveva sognato la fanciulla in cent’anni! Aveva sognato fate e gnomi ovviamente, quelli che rappresenta incantato sempre Hughes in un sogno della notte di mezz’estate che ha perso tutta la virulenza di Füssli e si è fatto morbidamente carico di tepori notturni, di lucine, di “will-o’-the-wisp” (letteralmente in inglese “eredi della torcia”), quelli che nei Denham Tracts pubblicati fra il 1846 e il 1859, un parallelo inglese alle pubblicazioni di credenze popolari dei Grimm, vengono chiamati “hobby lanterns” e che noi definiamo “fuochi fatui” in senso apparentemente negativo, quello della vacuità e non quello delle fate. I francesi sono ancora più inclini alle fiabe, sarà colpa di Perrault: per loro sono “feux folets”, fuochi folletti. L’etimologia italiana e francese è però la medesima: l’“ignis fatuus” sarebbe il giullare del fuoco, cosicché la fatuità torna a essere folletto. E si sa che la fata è una giullarina che ne può combinare d’ogni. Solo per i tedeschi la questione è realmente negativa e il fuoco fatuo si chiama “Irrlicht”, la luce della follia. Che strano posto l’Europa! Il mondo sognato dei folletti diventa in Inghilterra un tema costante dell’immaginario pittorico vittoriano. Richard Dadd ne è uno specialista sin dagli anni ’40, con una attenzione da codice miniato. E lo è pure John Anster Fitzgerald negli anni ’60, quando nella Caccia al topolino bianco inventa, in un boschetto pieno di “fairies” il prototipo della fata Trilly e d’un Peter Pan che solo quarant’anni dopo lo scozzese James Matthew Barrie trasformerà in un racconto per i ragazzi del mondo intero. La creatività inglese passa

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JOHN ANSTER FITZGERALD LA CACCIA AL TOPOLINO BIANCO 1864 ca, olio su tela, cm 25,7x46, Collezione privata

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RICHARD DADD IL COLPO DA MAESTRO DELLO SPIRITELLO 1855-1864, olio su tela, cm 54x39,4, Londra, Tate Gallery

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necessariamente dal sogno. Non sono forse puppets, fantocci, i personaggi che inventa nel sogno Charles Dickens? Sono necessari i sogni per uscire dagli schemi stabiliti. Il sogno non è solo rivelatore del subconscio freudiano, è la chiave per entrare in un altro mondo, oltre lo specchio di Alice. L’altro mondo per Gauguin è Tahiti, con i suoi misteri arcani, le sue divinità a noi ignote, che equilibrano il senso di pace delle sue popolazioni libere dai vincoli della civiltà della Belle Époque. Eccolo, sul finire del secolo, in Te rerioa (Il sogno) del 1897, nell’ora magica nella quale il sole cala e la vita della casa entra nella tranquillità. Dipinto così enigmatico che lo stesso autore si chiedeva in una lettera chi fosse a sognare, la madre a occhi aperti o il bimbo che dorme. Vero è che le pareti non corrispondono alla decorazione indigena; sono la concrezione dei fantasmi, quello che appare in una sorta di nuvoletta nera in primo piano. Sicché Le rêve del Doganiere Rousseau circa dieci anni dopo non può rinunciare a un esotismo tropicale immaginato al Jardin des Plantes, dove la figura arcana è ancora una volta un inatteso indigeno che suona uno strumento onirico, quello dell’incantesimo.

ROBERT WILLIAM BUSS IL SOGNO DI DICKENS 1870, illustrazione

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Ed è l’incantesimo che muta la forma delle cose. Nel 1917 quando Piet Mondrian inizierà il suo itinerario dal mondo esistente verso l’astrazione che ne risulta, passerà necessariamente da una forma descrittiva onirica.

Alle pagine precedenti: PAUL GAUGUIN TE RERIOA (SOGNO A OCCHI APERTI) 1897, olio su tela, cm 95,1x130,2, Londra, Courtauld Gallery HENRI ROUSSEAU IL DOGANIERE IL SOGNO 1910, olio su tela, cm 204,5x298,5, New York, Museum of Modern Art (p. 401 particolare) A sinistra: PIET MONDRIAN FATTORIA DI DUIVENDRECHT 1917 ca, olio su tela, cm 85,5x108,5, L’Aia, Gemeentenmuseum © 2012 Mondrian/Holtzman Trust c/o HCR International USA

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HIROSHIGE FIUME GOKEI A BITCHU DURANTE UN TEMPORALE 1853 ca, xilografia a colori, cm 34,4x23,8, Vienna, Museum of Applied Arts HIROSHIGE PIOGGIA IMPROVVISA SUL PONTE SHIN-OHASHI AD ATAKE 1856, xilografia a colori, cm 35,7x 4,7, Tokyo, Fuji Art Museum HIROSHIGE YOKKAICHI, SAN CHO KWA, STAZIONE 44 1834, xilografia a colori, cm 23,9x37,9, New York, Brooklyn Museum of Art

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a cultura europea è da sempre stata permeabile. Lo è sin dalle sue antichissime radici greche quando le influenze d’Oriente furono necessarie alla genesi dei Kouroi quanto al pensiero di Pitagora. Lo fu in modo magistrale durante l’impero di Roma quando ogni contributo veniva macinato in un unico brodo di dèi, commerci e popoli.

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Il giapponismo

HIROSHIGE PICCOLO ASSIOLO SUL RAMO DI UN ACERO SOTTO LA LUNA PIENA xilografia a colori, cm 9,8x15,2, Boston, Museum of Fine Arts KITAGAWA UTAMARO CAMPANULA GRANDIFLORA CON INSETTI E FIORI 1788, xilografia a colori, Londra, British Museum

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KATSUSHIKA HOKUSAI IRIS 1814 ca, xilografia a colori, cm 22,3x34, Chicago, The Art Institute of Chicago KATSUSHIKA HOKUSAI IRIS CON CAVALLETTA 1833-1834 ca, xilografia a colori, Cambridge, Fitzwilliam Museum VINCENT VAN GOGH IRIS 1889, olio su tela, cm 71,1x91,4, Los Angeles, J. Paul Getty Museum

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Pagina a fianco: JAMES TISSOT GIAPPONESINA AL BAGNO 1864, olio su tela, cm 208x124, Digione, Musée des Beaux-Arts Sopra: HENRI STEINLEN LOCANDINA DEL BALLETTO LE RÈVE 1890, Collezione privata HENRI DE TOULOUSE-LAUTREC DIVANO GIAPPONESE 1893, litografia, cm 81,2x60,3, New York, Museum of Modern Art A destra: JAMES TISSOT IL VASO GIAPPONESE 1870 ca, olio su tela, cm 61x89, Collezione privata

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CLAUDE MONET LA GIAPPONESINA (CAMILLE MONET IN COSTUME GIAPPONESE) 1876, olio su tela, cm 231,8x142,3, Boston, Museum of Fine Arts GEORGE HENDRIK BREITNER IL KIMONO ROSSO 1893, olio su tela, cm 51,5x76, Amsterdam, Stedelijk Museum

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E, come sostengono alcuni spiriti illuminati, questa formidabile tradizione di Roma, passata a Bisanzio rimase tale anche quando Bisanzio diventò Costantinopoli, al punto che si può affermare che l’impero di Roma, inteso come mescolanza perenne, si concluse definitivamente solo nel 1922 con la fine di quello ottomano. Per l’Europa che rinasceva ai commerci e al pensiero dopo il Mille fu essenziale il dialogo col mondo arabo, da cui vengono lo zucchero, l’elisir e lo zero. Ma pure tramite gli arabi si rilesse Aristotele e l’antichità greca filtrata. E così nei secoli. Il Settecento scoprì i fascini della Cina: dai primi decori ancora seicenteschi della villa papalina degli Aldobrandini si passò alla moda vera e propria dei Kew Gardens a Londra. Con la Cina si commerciava tramite la Compagnia delle Indie, si tentò poi di rubarle il segreto della porcellana e ce la fece Böttger rendendo Meissen luogo di alta ricchezza. Ma mai la contaminazione divenne l’auspicabile contagio, come sostenne in una delle sue ultime omelie il cardinal Martini. I contagi sono una cosa recente. È solo dopo avere ascoltato i tamburi d’Africa, dopo avere recepito la loro mutazione nella cultura meridionale degli Stati Uniti, che ci si è messi ad ascoltare una ritmica più incisiva anche nella musica barocca. È solo dopo avere assaggiato il falafel del Maghreb che anche i te-

VINCENT VAN GOGH RAMO DI MANDORLO IN FIORE 1890, olio su tela, cm 73,5x92, Amsterdam, Van Gogh Museum KATSUSHIKA HOKUSAI CARDELLINO SU UN RAMO DI CILIEGIO PIANGENTE 1840 ca, xilografia a colori, cm 25,5x18,7, Boston, Museum of Fine Arts

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PETER BEHRENS FABBRICA DELL’AEG A BERLINO 1912, fotografia

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deschi hanno preso gusto ai cibi piccanti. Ed è solo il contatto con la cultura giapponese che ha radicalmente alterato la percezione degli spazi e posto le basi per una nuova loro distribuzione nelle abitazioni “moderne”, cambiato il rapporto illuminotecnico con le finestre e il sistema delle porte che da una stanza conducono all’altra. È solo il contatto con la cultura giapponese che ha stimolato i pittori a superare la questione della materia elaborata e mescolata, delle velature e del chiaroscuro per scoprire il fascino dell’à plat. È solo il contatto con la pittura giapponese che ha interrotto il lungo percorso che dalla pittura bizantina aveva portato la concezione visiva europea, attraverso le mille diavolerie della prospettiva, al tentativo di rappresentare il mondo in una mimesi che sarebbe piaciuta ad Aristotele. Per secoli un uccellino ha dovuto sempre di più assomigliare a un uccellino descritto secondo parametri scientifici. Il Giappone

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HIROSHIGE CILIEGI IN FIORE SOTTO LA LUNA PIENA 1831, xilografia a colori, cm 18x24,6, Manchester, Chatham Library HIROSHIGE VEDUTA DI UNA STRADA DI TOKYO xilografia a colori

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FÉLIX VALLOTTON SCENA DI STRADA A PARIGI 1895, gouache e olio montato su cartoncino, cm 35,9x29,5, New York, The Metropolitan Museum of Art

ci insegnò a partire da un punto completamente diverso: rappresentare l’uccellinità dell’uccellino. Ma non era affatto platonico il giapponese. Per lui un asino era un animaletto rappresentato con orecchie talvolta anche più lunghe delle gambe, ma chiunque vi riconosceva, non l’idea platonica dell’asino, bensì l’essenza intellettuale dell’“asinità”. Per un europeo una bella lama di spada era perfetta quando garantiva una eccellente penetrazione nel corpo dell’avversario, e quando, come quelle di Toledo, si scalfiva pochissimo dopo l’utile operazione. Dopodiché la lama poteva essere istoriata con putti, fiorellini o panoplie di cannoni. La lama d’una katana non è mai istoriata perché rappresenta il concetto puro della “spadità”. La sua forma sembra disegnata dalla precisione d’un computer moderno e il suo destino era vara-

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to quando una foglia di loto cadendoci sopra si tagliava da sola in due. Questa visione nipponica del mondo era così sostanzialmente opposta a quella europea materialista che la contagiò in modo definitivo. Per giunta l’arrivo d’un concetto totalmente nuovo del visivo cadde a pennello (qui è il caso di dirlo) nel momento della prima grande diffusione della fotografia, la quale si poneva come concorrente definitiva a ogni ipotesi realistica. La pittura reagì alla provocazione con tre vie diverse. Da un lato optò per una crescita della precisione (ne è ottimo esempio Tissot) dove si superava il

HIROSHIGE VEDUTA NOTTURNA DI SARAWAKAMACHI, N. 90 1856, xilografia a colori, cm 36,2x23,5, New York, Brooklyn Museum of Art HIROSHIGE LE RISAIE DI ASAKUSA DURANTE LA FESTA DEL GALLO 1857, xilografia a colori, cm 33,7x22,5, Cambridge, Fitzwilliam Museum

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Pagina a fianco: KATSUSHIKA HOKUSAI SPETTRO GIAPPONESE 1831, xilografia a colori, cm 25,4x18,3, Washington, Smithsonian’s Museum of Asian Art A sinistra: UKIYO-E (SCUOLA) BAMBINI CHE ESAMINANO UN ELEFANTE 1875 ca, xilografia a colori, cm 43,1x27,9, Washington, Library of Congress KUNIYOSHI KINTARO LOTTA CON UNA CARPA GIGANTE 1837 ca, xilografia a colori, cm 37,8x26, Oxford, Ashmolean Museum KUNIYOSHI KINTARO, L’INCONTRO DI SUMO 1840 ca, xilografia a colori, cm 36,3x24,3, Londra, British Museum

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limite di tempo della fotografia, la quale non può che rappresentare l’istante, facendo percepire una azione nel suo divenire (scendere dalla carrozza, aspettare la tempesta). Dall’altro si mise a competere nel campo che le era proprio, quello del colore, ma d’un colore che veniva stimolato a una realistica interpretazione della luce, dagli impressionisti ai pointillistes. Dall’altro ancora, uscendo dal realismo (vero) o finto (storico-esotico-preraffaellita) per affrontare una rappresentazione del concetto delle cose. Il Giappone dell’epoca Edo (1600-1868) era rimasto, a differenza della Cina e per determinazione politica, totalmente impermeabile alla cultura occidentale e ai suoi commerci. La questione si concluse come era evidente, e già allora per colpa degli appetiti americani. Per anni i pochi commerci nipponici erano relegati nel porto franco di Nagasaki, e il governo prediligeva il contatto con i morbidi olandesi. Il commodoro Perry nel 1853 piazzò le sue quattro navi dinanzi alla città di Edo che più tardi diventerà Tokyo. Sparò un unico colpo di cannone e le mura del protezionismo totale caddero. Tornò con le merci esotiche a New York nel 1855 e la vendita fu un immediato fallimento. Ci vollero i contatti successivi con il mondo britannico per iniziare una moda che da lì in poi non sarebbe più cessata. Gli inizi inglesi furono più commerciali che contagiosi. Arthur Lasenby Liberty comincia a vendere mobiletti in bambù, bronzetti e porcellane d’ogni foggia nei grandi magazzini di Regent Street finché non apre il suo negozio Liberty & Co. nel 1875, dando il nome a uno stile nuovo, il quale restituiva agli arredi una leggerezza che il buon gusto vittoriano aveva sempre con cautela evitato. Nel 1895 Siegfried Bing apre a Parigi un negozio analogo che intitola “Maison de l’Art Nouveau”, inventando così l’altro termine. Ma il commerciante di mobili leggeri operava su una sensibilità già formata. Nel 1856 Félix Bracquemond aveva già iniziato a copiare opere giapponesi per le arti decorative e alcuni artisti sensibili avevano dato i primi segnali d’una piccola follia nipponica. Ma la mutazione avviene quando la megalomania di Napoleone III, inventando la sua risposta al successo dell’Expo londinese del Crystal Palace del 1851, decreta la super Expo parigina del 1867, quella per la quale Giuseppe

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Verdi viene chiamato a comporre il Don Carlos. La Francia fa le cose sul serio e invita ufficialmente il nuovo governo giapponese. La dinastia Meiji, quella che l’anno dopo avrebbe ristabilito il potere imperiale contro lo shogunato portando la capitale a Tokyo, anzi inventando il nome di Tokyo, accettò di buon grado l’onore e mandò a Parigi gli stretti parenti dell’imperatore in un padiglione giapponese che ebbe un successo mondano infinito. Le signore parigine si misero in kimono, organizzarono soirées giapponesi, passarono dal vino di Madeira al tè. E nello stesso 1868 Manet ritrae Zola con una stampa giapponese e una piccola riproduzione della Maja desnuda in versione Olympia. Nel 1884 Edmond de Goncourt scrive: “Le japonisme était en train de révolutionner l’optique des peuples occidentaux” – “Il giapponismo sta rivoluzionando l’ottica dei popoli occidentali”. Ciò che colpisce gli arredatori sono i mobili leggeri che andranno a mischiarsi in Inghilterra con gli esperimenti della scuola di William Morris, in Francia con il gusto dell’Art Nouveau. Ciò che colpisce invece l’immaginario pittorico è il mondo magico dell’Ukiyo-e, il cosiddetto mondo fluttuante nipponico. Si tratta di piccoli capolavori di xilografia dove i passaggi successivi di colori a tonalità uniche vanno ad arricchire carte prelavorate in spessore con il famoso gaufrage. Le tematiche sono molteplici, vanno da una visione particolarmente attenta della natura, alla vita di città, fino ai singoli personaggi veri o grotteschi. È innegabilmente nella rappresentazione della concettualità della natura che la sorpresa è maggiore. Per la prima volta appare un modo possibile di percepire visivamente la pioggia, in tutte le sue declinazioni, e il vento, e quindi il temporale che nulla più ha a che vedere con la Tempesta di Giorgione. I fiori diventano un elemento del decoro cerebrale, pronti al broccato, alle sete, alla pittura. I decori, assieme alle sete, cambiano definitivamente il gusto nel vestire. E Tissot si può permettere, dopo avere dipinto per anni signore perfettamente vestite, di affrontare la sua modella chiedendole di tenere l’ampio kimono aperto. I fiori di Hokusai saranno fondamentali per le evanescenze dell’Art Nouveau. E la sorpresa non finisce qui. Sorge dal Giappone un nuovo modo di disegnare, che è alla radice del nostro fumetto moderno.

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VINCENT VAN GOGH PÈRE TANGUY 1887, olio su tela, cm 92x75, Parigi, Musée Rodin PAUL GAUGUIN FIORI E UNA STAMPA GIAPPONESE 1889, olio su tela, cm 85x115, Collezione privata Pagina a fianco: GUSTAV KLIMT DONNA CON VENTAGLIO 1917-1918, olio su tela, cm 100x100, Collezione privata

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orse a questo punto vi siete stancati d’un giro così lungo. Vi offriamo due opportunità. La prima è chiudere temporaneamente il libro catalogo e tornare un’altra volta. Il museo è gratuito e felice di rivedervi. Senza long-term relationship il museo stesso non vive. Se invece siete visitatori energici, vi invitiamo a un giro nel ristorante italiano, il Caffè Michelangelo. È collocato nel seminterrato per dargli quella tipica atmosfera da spelonca fiorentina che ricorda i migliori momenti passati nella città medicea. In rispetto alla moda attuale per la cucina italiana, è composto da tre reparti. Il primo, sull’ingresso, è assai angusto e fa da panineria; d’altronde la parola “panini” è ormai nota nel mondo intero. Il secondo lo troverete sulla destra con la dovuta pizzeria. Il terzo è il più vasto ed è quello che dà il nome al ristorante. Leggermente affumicato dal camino con cucina sulle braci per la fiorentina, è illuminato con lampade a luce bassa che ricordano quelle a petrolio, perché così era illuminato il vero Caffè Michelangelo nel quale si riunivano i pittori in via Larga, quella che oggi è via Cavour, al n. 21. Qui il fiasco di Chianti è d’obbligo, come la pappa al pomodoro, i maccheroni, le tagliatelle ai piselli e talvolta alla trifola, il fegatello di cinghiale, e tutte le carni rosse tanto care ai macellai. Le pareti raccontano l’avventura dei Macchiaioli, quel gruppo d’artisti che si trovò a Firenze ancora prima del-

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A pagina 423: ADRIANO CECIONI IL CAFFÈ MICHELANGIOLO 1862-1867 ca, acquarello su carta, cm 53,5x82, Collezione privata Pagina a fianco: TELEMACO SIGNORINI FIRENZE, MERCATO VECCHIO 1889 ca, olio su tavola, cm 40x27, Collezione privata

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GIOVANNI FATTORI LA MARCATURA DEI TORELLI 1889-1891, olio su tela, cm 88,5x175, Collezione privata

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l’unità d’Italia, quando il granducato era innegabilmente il luogo più tollerante della penisola. Dopo il 1848 nel Lombardo-Veneto non si scherzava affatto con la censura. Ecco perché il veronese Vincenzo Cabianca era venuto a Firenze già nel 1853. Anche a Roma la questione s’era indurita dopo il 1849 e papa Pio IX, che si era reputato essere quasi liberale prima, divenne autenticamente papare. Dagli Stati papalini era scappato quel caratteraccio di

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Sivestro Lega, romagnolo già volontario nella guerra contro l’Austria del 1848-49. A Firenze si respirava e il granduca Leopoldo II non era neanche più di tanto rivettato alla sua poltrona. Il Telemaco Signorini era di Firenze e tollerava assai l’Odoardo Borrani, benché fosse questo di Pisa, a tal punto che partirono assieme a far la guerra d’Indipendenza seconda del 1859. Giuseppe Abbati al Caffè Michelangelo ci approdò già a unità avvenuta, ma con un occhio mancante

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perché l’aveva perso nella battaglia del Volturno. A trovarli nel ’62 passò Federico Zandomeneghi veneziano, quello che diciannovenne seguì Garibaldi nel 1860, prima d’andare a Parigi a far l’impressionista. Mai vi fu un gruppo d’artisti così tosto nella storia d’Europa. Eroi col pennello. E come avviene da allora nella sinistra ingovernabile, coordinati da un mercante incapace di vendere, ma in attesa d’una bella eredità costituita dai migliori terreni di Castiglioncello prospicienti il mare. Giovanni Fattori, il livornese, che divenne il più famoso di tutti, non fece altro che il fattorino di corrispondenza: distribuiva volantini, ruolo a rischio autentico ma senza polvere da sparo, il che rassicurò non poco il babbo e la mamma. Il Caffè Michelangelo costituisce la seconda area d’avanguardia dopo quella dei Preraffaelliti e vi si riscontrano tutte le differenze fra l’essere nelle brume britanniche o sotto il sole cocente di Toscana. Il sole ebbe su di loro un effetto altrettanto importante nelle questioni pittoriche. Decisero di rincorrere le impressioni della luce, forse anche loro per fare un baffo ai fotografi. E nacque la macchia. Nello stesso modo dei rivoluzionari di tutti tempi, rimasero ovviamente delusi dalla rivoluzione e si diedero ai soggetti minimi, quelli che anche una sostanziale mancanza di mercato gli consentiva. Non s’era mica a Parigi, suvvia! Ecco il perché delle deliziose tavolette di legno, pronte all’uso all’aria aperta, tavolette che talvolta altro non sono che coperchi di scatole di sigari. I quadri più grandi li avete già visti nella parte del museo che concerne il Risorgimento e anche a proposito di Dante e del lavoro. Qui la scelta è legata all’amenità del luogo. Ecco perché sulla cappa del camino dove rosolano le bistecche è appeso l’unico dipinto grande, la Marcatura dei torelli di Fattori, quella che ancora oggi in Maremma si chiama la “merca” ed è operazione di abilità tale che pare ne rimase stupito Buffalo Bill quando fece il suo giro in Italia col circo sul finire del secolo. Fattori aveva già abbandonato allora la pittura a macchia per darsi a un operare dove la materia era tornata vibrante e mescolata. Sulla parete vedrete invece una di quelle preziose tavolette di 12 centimetri x 35, una autentica delizia di atmosfera, di luce e materia pittorica, del 1866, La

Pagina a fianco: GIOVANNI FATTORI LA ROTONDA DEI BAGNI PALMIERI 1866, olio su tavola, cm 12x35, Firenze, Galleria d’Arte Moderna GIOVANNI FATTORI LA VEDETTA O IL MURO BIANCO 1872, olio su tela, cm 37x56, Collezione privata

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FEDERICO ZANDOMENEGHI DIEGO MARTELLI NEL SUO STUDIO 1870, Firenze, Galleria d’Arte Moderna GIOVANNI FATTORI DIEGO MARTELLI A CASTIGLIONCELLO 1866-1870, olio su tavola, cm 13x20, Collezione privata

rotonda dei bagni Palmieri, sul lungomare di Livorno, la prima rotonda sul mare documentata. E a proposito di documenti storici, date pure uno sguardo alla tavoletta degli stessi anni che in 13 centimetri x 20 ritrae Diego Martelli nei suoi possedimenti. Il documento vero sta nella sedia a sdraio pieghevole, autentico prototipo, e nella modernità d’un signore alla Che Guevara che fuma il toscano e legge

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GIUSEPPE ABBATI IL PERGOLATO DELLA CASA DI DIEGO MARTELLI A CASTIGLIONCELLO 1866 ca, olio su cartone, cm 16x30,5, Collezione privata ODOARDO BORRANI BICHE A CASTIGLIONCELLO 1862, olio su tavola, cm 12x36, Collezione privata

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Pagina a fianco: SILVESTRO LEGA CURIOSITÀ 1866, olio su tela, cm 70x51,5, Collezione privata Sopra: SILVESTRO LEGA LA PERGOLA 1868, olio su tela, cm 74x94, Milano, Pinacoteca di Brera

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RAFFAELLO SERNESI TETTI AL SOLE 1861 ca, olio su cartone, cm 12,3x19, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea Pagina a fianco: GIUSEPPE ABBATI LA FINESTRA 1865, olio su tavola, cm 28x17, Firenze, Galleria d’Arte Moderna

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da un leggio antistress. Quella mancanza di stress che vivono i due cavalleggeri nel sole, e dove la pittura si sta già iniziando a disfare nel ’70. La luce è protagonista ancora nel dipinto di Silvestro Lega, un’altra tavoletta, il caffè che si sorbisce all’ombra del pergolato in una atmosfera tuttora inalterata. Torna regolarmente la figura di Diego Martelli, ora ritratto da Zandomeneghi in versione intellettuale. E tornano i luoghi di Diego Martelli, la pergola frugale con la botte di vino, dipinta da Abbati, il quale ci fa vedere anche un dipinto che è un piccolo capolavoro del minimalismo, la finestra della casa. Sembrerebbe che questo inatteso artista napoletano abbia già intuito la luce e la materia che Giorgio Morandi porterà al parossismo nel XX secolo. Sempre dalle parti di Castiglioncello Borrani rimane abbagliato dall’estate quando dipinge i covoni. Vita tutto sommato ritirata e tranquilla, borghese e moderna come lo è quel ritratto che Borrani fa d’un giovanotto che potrebbe benissimo essere già del XX secolo inoltrato. Luce come tema perenne, quella che contrasta con l’oscurità della stanza in Lega, quella che fa fatica a illuminare la più antica strada commerciale d’Europa, la Calimala di Firenze. Mondo pacato che non desidera affatto conquistare i mercati del resto del mondo. Buon appetito.

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All’uscita, in guardaroba troverete una simpatica sorpresa: l’opposto di quella sospensione toscana, un ritratto della Scapigliatura milanese, un ritratto che deve tutto il suo sapore tardoromantico al dandismo.

Pagina a fianco: ODOARDO BORRANI RITRATTO DI GIOVANE COL SIGARO 1860 ca, olio su tela, cm 90x70, Collezione privata Sopra: TRANQUILLO CREMONA RITRATTO DI NICOLA MASSA 1867, olio su tela, cm 92x114, Pavia, Musei Civici

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a Closerie des Lilas è una bella brasserie parigina inserita in un classico dehors da boulevard, con i suoi tipici tavolini stretti. Invece di collegarsi al solito immobile ottocentesco dai larghi marciapiedi, qui dà su una serra che ne amplia lo spazio di gestione e il numero dei tavoli. I cibi sono quelli altrettanto tipici delle brasserie, una mescolanza di alimenti rapidi francesi e di piatti che a Parigi arrivarono assieme agli emigrati alsaziani scappati dalle loro terre dopo che queste furono annesse alla Prussia in conseguenza alla disfatta di Sedan del 1870. Questa migrazione ebbe un effetto clamoroso: gran parte dei vignaioli andarono a lavorare come enologi e imprenditori nella vicina Champagne e il vino con le bolle più note del mondo ne ebbe beneficio al punto tale che tuttora molti dei marchi prestigiosi corrispondono ai tipici cognomi dalla sonorità germanica degli alsaziani. Le altre bollicine che conquistarono Parigi erano quelle della birra che divenne seria concorrente del Beaujolais nouveau. Ecco perché nacquero le brasserie, le mescite di birra che tentarono di integrarsi con gli altri locali storici, i bistrot, quelli che devono forse il loro nome alla parola russa “svelto” che suona all’incirca nello stesso modo e che erano nati come mescite rapide all’inizio del secolo. Il menu comprende quindi sia il foie gras con il suo bicchiere di Sauternes sia il Camembert con il Beaujolais, combinati con gli arrivi nuovi, il cervelas remoulade, l’aringa salmistrata, la quiche lorraine (la Lorena è l’altro territorio annesso alla Prussia) e ovviamente la

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Pagina a fianco: JEAN BÉRAUD AL BISTROT 1891, olio su tavola, cm 33x41, Collezione privata

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ÉDOUARD MANET COLAZIONE SULL’ERBA 1863 ca, olio su tela, cm 208x264,5, Parigi, Musée d’Orsay Pagina a fianco: CLAUDE MONET COLAZIONE SULL’ERBA 1865-1866, olio su tela, cm 248x217, Parigi, Musée d’Orsay

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choucroute in tutta la sua esaltazione suina e barocca. La Francia bretone vi ha aggiunto il plateau di ostriche selezionate. La grande serra è dedicata alla pittura en plein air. Questa innovazione delle pratiche artistiche proviene, secondo un detto ironico di Alberto Savinio, dal fatto che gli artisti dell’Ottocento scoprirono che per la salute era meglio dipingere all’aria aperta piuttosto che nell’atmosfera fumosa degli studi. Viene invece da una importante innovazione tecnologica, il tubetto. Già nel XVIII secolo si era iniziato a usare pittura preparata per il viaggio che si trasportava facilmente in piccole vesciche di maiale. La comperava già allora regolarmente Chardin dal suo mercante di colori. Aveva egli capito che la fatica di preparare i colori in casa non valeva sempre la pena. Lo avete visto poi, se ben vi ricordate, nel Padiglione dei Binari con il piccolo dipinto di Massimo d’Azeglio. La pittura romantica richiedeva, quando affrontava il tema del paesaggio, il coraggio dell’aria aperta. Ma la rivolu-

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PAUL CÉZANNE COLAZIONE SULL’ERBA 1876-1877, olio su tela, cm 21x27, Parigi, Musée de l’Orangerie

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zione vera e propria avviene negli anni ’50 quando gli inglesi e i francesi iniziano a produrre tubetti di stagno che, per pochi soldi in più, garantiscono la durevolezza delle paste e il trasporto facile. Sono, a quanto pare, gli americani ad avere pensato per primi a brevettare anche il tappo avvitabile. D’altronde si capisce: dovevano conquistare il West, essere pionieri in tutti i sensi, e una volta partiti non tornavano più indietro. Renoir racconta ironicamente che l’Impressionismo nacque il giorno in cui uno di loro dimenticò a casa il tubetto del nero e fu quindi costretto a dipingere solo le trasparenze cromatiche della luce. Ovviamente non è così. La mutazione del gusto pittorico avviene già nella Parigi degli anni ’60 quando Manet va a dipingere le scene della vita mondana, della quale lui è protagonista tutt’altro che inconsapevole, ai giardini della città durante i concerti. Manet, ragazzo di buona famiglia, andrà a fare ciò che di solito

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i ragazzi di buona famiglia fanno: provoca. E lo fa alla grande con il Déjeuner sur l’herbe, dove non è il nudo a colpire, ma il fatto che la “nuda” sia così a suo agio fra di loro en plein air da rivolgersi vezzosa a chi guarda il quadro, come invitandolo a partecipare. Dipinto nel ’62, fu rifiutato al Salon nel ’63 e fu esposto al primo Salon des Refusés. Monet, classe 1840, è allora ancora l’opposto di Manet, classe 1832, sia socialmente sia mondanamente. Nato a Parigi, ma trasferito con la famiglia nel cuore della provincia quando suo padre apre la mesticheria nei sobborghi di Le Havre, scopre sin dall’adolescenza un talento naturale per la pittura di paesaggio. In riposta a Manet dipinge nel ’65 il suo Déjeuner sur l’herbe, un quadrone enorme di cui quello qui esposto (comunque oltre 4 metri quadrati) è solo la rimanenza dopo il taglio avvenuto quando l’artista vent’anni dopo riuscì a recuperare la tela arrotolata lasciata marcire dal suo

PAUL CÉZANNE LA MONTAGNA SAINTE-VICTOIRE 1892-1895, olio su tela, cm 73x92, Merion, PA, The Barnes Foundation

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CLAUDE MONET GIARDINO A SAINTE-ADRESSE 1867, olio su tela, cm 98,1x129,9, New York, The Metropolitan Museum of Art CLAUDE MONET CAMILLE MONET SU UNA PANCHINA DI UN GIARDINO 1873, olio su tela, cm 60,6x80,3, New York, The Metropolitan Museum of Art

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creditore, il padrone di casa. Qui tutti i ragazzi sono perbene, immersi in una luce, che non è ancora quella degli Impressionisti ma assomiglia di parecchio alla macchia dei toscani. Il menu, essendo Monet piccolo-borghese, è meno concettuale e ben più attraente, col pollo arrosto freddo, un invitante pâté en croûte, il salame e le bottiglie di vino rosso. A riprova che la questione è ben più divertente del previsto. La questione delle colazioni en plein air non finisce con Monet. Diventerà assai di moda, se anche Cézanne, classe 1839, lo replica in piccolissimo formato ipersperimentale, una decina d’anni dopo. Cézanne, che questa sperimentazione la porta avanti per tutta la vita, si ritira nel plein air del meridione dove dedica tutta la sua passione da ricercatore alla forma che il plein air gli suggerisce, dinnanzi alla montagnetta di Sainte-Victoire. È forse la potenza della luce tagliente del sud che gli permette di evitare le illusioni impressioniste e lo spinge a scoprire le radici plastiche di ciò che nel giro di quindici anni diventerà il Cubismo. Ma torniamo al nostro Monet, quello che sarebbe l’inventore della nuova lingua impressionista. Merita attenzione il suo dipinto dell’estate del 1867 che ritrae la Manica dalle parti di Honfleur, la cittadina della villeggiatura di tutti i parigini che si rispettino, in quella porzione di Normandia che sarà fra poco culla delle fluttuazioni mentali di Marcel Proust. Pace domestica della piccola borghesia mentre se la gode rigorosamente in famiglia guardando una autostrada marina con l’Inghilterra vittoriana a un passo. La pittura è ancora una volta macchiaiola con un elemento ulteriore che porta la macchia anche nell’oscurità dei neri applicati con l’à plat del Giappone appena venuto di moda. È elegantemente evidente negli ombrellini e nelle giacche. Il dipinto appeso accanto è del 1873, a mutazione pittorica in teoria già avvenuta. Ma in fondo si distanzia assai poco da quello precedente se non per il fatto che l’à plat sembra abbandonato a favore d’un impasto più cremoso disteso da una pennellata più libera. Fra i due dipinti è stato realizzato Impression, soleil levant. Come già avete visto il paesaggio con i papaveri che gli è contemporaneo. Certo nel caso specifico non è vero ciò che afferma Renoir circa la scomparsa del nero. Uno sguardo attento alle evoluzioni di quegli anni dovrebbe portare a conclusioni meno superficiali. E ne è buona prova infatti quella bella veduta di Londra che sembra, lei sì, contenere i dettami

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JAMES TISSOT IL TAMIGI 1876, olio su tela, cm 72,5x118, Wakefield, Wakefield Museums and Galleries

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che la credenza popolare attribuisce alle evanescenze impressionistiche. Ma si tratta in realtà della nebbia tipica del Tamigi, con un contrasto assolutamente “cinematografico” fra i piani della visione, e quell’acqua inquietante del fiume. Un’acqua che Monet scopre quando scappa da Parigi spaventato dai disordini comunardi. Ed è proprio la medesima acqua, dipinta anche con colpi analoghi, che ritroviamo nel dipinto di Tissot (quello scappato da Parigi per avere partecipato ai disordini comunardi). Però Tissot riserva il linguaggio impressionista solo all’acqua mentre continua a declinare la sua precisione da romanziere alla Maupassant quando descrive la dolce vita dei personaggi, dei loro cani e delle bottiglie di champagne che aspettano di accompagnare i misteri del picnic nascosti nella cesta appena la barca sarà uscita dagli ingorghi del traffico. L’unico dettaglio che lega la definizione stilistica, e poi immediatamente la contraddice, è il carabottino della barca.

Vi preghiamo quindi di procedere nella visita per aumentare ulteriormente la vostra confusione mentale. Il quadro di Manet, En bateau del 1874, corrisponde anche per lui che si è sempre definito non-impressionista all’assunzione della medesima tecnica dello smontare la pittura in pennellate forti che danno alle vesti della signora la soffice leggerezza della stoffa estiva. La figura di lei diventa evanescente dietro alla veletta (anche sulla Senna pare ci fossero le zanzare). Lui invece, coi baffi da tricheco serio combina una faccia formidabile nella sua espressione, con pantaloni dove la struttura formale viene solo che accennata da colpi di grigio distratti. Mary Cassatt, la ricca americana allieva di Degas, fine pittrice lei stessa e propagandista dei parigini in America, definirà questo dipinto, quando convince Havemeyer ad acquistarlo, l’“ultima parola possibile in pittura”. Che bello andare in barca, ci vanno tutti in barca, laddove la Senna, appena dimenticati i meandri pa-

CLAUDE MONET IL TAMIGI SOTTO WESTMINSTER 1871 ca, olio su tela, cm 47x73, Londra, National Gallery

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rigini, diventa pigra e tranquilla. Ci va la Berthe Morisot che si autoritrae, lei modella innamorata di Manet, il disordinato dell’erotismo che la ritrae tante volte, ma forse solo la ritrae se lei, per stargli più vicino, sposa suo fratello. Questa volta siamo tornati nella buona borghesia cittadina che va a remare nel laghetto del Bois de Boulogne e sullo sfondo sguazzano gli immancabili anatroccoli, quelli che fra poco faranno sguaz-

ÉDOUARD MANET IN BARCA 1874, olio su tela, cm 97,2x130,2, New York, The Metropolitan Museum of Art (pagina seguente, particolare) JOHN SINGER SARGENT PAUL HELLEU MENTRE RITRAE SUA MOGLIE 1889, olio su tela, cm 66,3x81,5, New York, Brooklyn Museum of Art

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BERTHE MORISOT GIORNATA D’ESTATE 1879 ca, olio su tela, cm 45,7x75,2, Londra, National Gallery

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zare anche la pittura della Morisot in un deliquio di materia, la stessa che sul finire del secolo Mary Cassatt spiegherà ai suoi connazionali. Il caso Cassatt e il suo successo sono assai comprensibili perché lei viene a inserirsi in una America che aveva ben altri riferimenti. Quello interessantissimo di Heade, anche lui della Pennsylvania, lo rivela alla perfezione: le tonalità sono le medesime, e forse anche il ritmo, e meglio ancora la passione per le cose della natura. Certo è la bonarietà sdolcinata del tema che merita una riflessione. Ho sempre pensato che il vuoto etico totale di questi impasti eleganti fosse un collante internazionale adatto a una classe media che temeva ogni tipo di pensiero. Un mondo tranquillo di anatre. E per un certo verso anche di riunione di anatroccoli felici si tratta nel vedere il simpatico simposio di canottieri in canotta che racconta Renoir nel 1881, con lei, la bambolotta che dà un bacino al cagnetto davanti al vino rosso un po’ proletario, il noto gros rouge. Il dipinto parla, se lo si ascolta con attenzione, cinguetta. Caillebotte sembra qui ben più impegnato nella sua descrizione sportiva del 1877 e la sua pittura innegabilmente ha assunto in due anni i dettami nuovi. È anche vero che

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MARTIN JOHNSON HEADE ORCHIDEA CATTLEYA E TRE COLIBRÌ 1871, olio su tavola, cm 34,8x45,6, Washington, National Gallery of Art MARY CASSATT ESTATE 1894, olio su tela, cm 100,6x81,3, Chicago, Terra Foundation for American Art

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PIERRE-AUGUSTE RENOIR COLAZIONE IN BATTELLO 1880-1881, olio su tela, cm 130,2x175,6, Washington, The Phillips Collection

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GUSTAVE CAILLEBOTTE CANOTIERS RAMANT SUR L’YERRES 1877, olio su tela, cm 102x154, Milwaukee, Art Center

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nei Raboteurs de parquet rappresenta da realista fotografico i lavoratori urbani, mentre in Canotiers ramant sur l’Yerres, piccolo affluente della Senna nell’Île-de-France, descrive i passatempisti in versione impressionista. Lo stile corrisponde ai contenuti. Anni dopo lo chicchissimo Sargent dipingerà sempre vicino alle barche il nuovo sacerdote dello chic Helleu con la ricca moglie, e sempre ancora smontando le pennellate in maniera impressionista. Per un certo verso sembrerebbe che l’Impressionismo sia lo stile necessario per narrare il tempo libero, fuori dai rumori della città, lontano dai drammi della vita sociale. D’altronde è innegabile che nacque dalla fuga durante i tumulti del 1871 e forse lì sta il motivo che spinse Manet, il quale il fucile lo prese in mano, a non aderirvi malgrado l’amicizia che lo legava a Monet. Ed è forse crudele, ma necessariamente educativo, dare uno sguardo alle casse da morto dei fucilati che suggellarono il bagno di sangue quando la Comune fu schiacciata dalle truppe della République che riprendeva il controllo di Parigi dopo quel terribile inverno del 1871, quando si vendevano cani e topi nelle macellerie, e le macellerie stesse erano diventate macerie sotto i bombardamenti prima dei prussiani e poi dei regolari francesi. La repressione finale del governo Thiers portò a circa 10 000 morti e altrettanti deportati. Ma la borghesia non poteva tollerare il sollevamento del proletariato “imbecille” come venne definito an-

Pagina a fianco: PIERRE-AUGUSTE RENOIR COLAZIONE IN BATTELLO particolare, 1880-1881, olio su tela, cm 130,2x175,6, Washington, The Phillips Collection Sopra: ROVINE DEL MINISTERO DELLE FINANZE DOPO LA CADUTA DELLA COMUNE DI PARIGI 1871, fotografia ANDRÉ ADOLPHE-EUGÈNE DISDÉRI DUE FILE DI BARE APERTE DI COMUNARDI UCCISI maggio 1871, fotografia, Parigi, Musée Carnavalet ANDRÉ ADOLPHE-EUGÈNE DISDÉRI CADAVERI DI COMUNARDI NELLE BARE maggio 1871, fotografia, Parigi, Musée Carnavalet LA RUE DE RIVOLI DOPO LA CADUTA DELLA COMUNE DI PARIGI 1871, fotografia

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che dai più cortesi degli intellettuali, Gustave Flaubert in testa. E così la vita riprese alla grande, alle Folies Bergère, dove Manet, sul finire della sua breve vita e prima di farsi amputare la gamba, cloroformato sul tavolo della cucina, narra il lusso allegro del 1882 con una traccia desolante di tristezza negli occhi della barista, quella che ci lascia intravvedere nello specchio la folla allo spettacolo mentre lei custodisce le bottiglie. L’ultima, a sinistra, è firmata dall’artista; testamento borghese. Pablo Picasso affronta lo stesso tema una ventina d’anni dopo, agli albori del suo periodo blu, con analoga sensibilità nel suo Arlequin et sa compagne, persi nell’annullamento riflessivo e così pure la signora del beau monde che sembra guardarli distratta, inconsapevole di contenere nel tratto del naso e degli occhi tutto lo sviluppo della pittura successiva. Ma lì finisce ogni ipotesi di parametro etico, perché il bar, i tavolini, le bottiglie diventeranno la tematica nella quale la natura morta si offre come elemento perfetto per l’art pour l’art, l’arte fine a se stessa come già aveva decretato Gautier e come tutta la corrente dei poeti del Parnasse aveva sostenuto. L’arte per l’arte diventerà nel secolo XX una delle linee dominanti delle arti con una influenza fortissima negli Stati Uniti del secondo dopoguerra, quando la sua garantita estraneità a ogni ipotesi di contenuto sociale o politico la farà ben volere nella guerra fredda delle arti dichiarata dal senatore McCarthy, quello che temeva che Charlot fosse spia comunista e riuscì comun-

ÉDOUARD MANET IL BAR DELLE FOLIES-BERGÈRE A PARIGI 1882, olio su tela, cm 96x130, Londra, The Courtauld Gallery

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PABLO PICASSO GLI ACROBATI AMBULANTI 1901, olio su tela, cm 73x60, Mosca, Museo Statale Puškin

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que a portare sulla sedia elettrica i coniugi Rosenberg, spie di seconda mano. L’art pour l’art permise a Matisse di continuare in Provenza a dipingere boccali coi pesci rossi mentre i suoi compatrioti venivano portati ad Auschwitz. L’art pour

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l’art prendeva forma definitiva e internazionale sui tavolini dei bar. Ne è un bellissimo esempio la natura morta di Braque, il pittore nato proprio ad Argenteuil nel 1882 quando lì si dipingeva l’Impressionismo. È uno dei prototipi di quella breve

PABLO PICASSO CORTIGIANA CON COLLIER 1901, olio su tela, Torino, Collezione Pinacoteca Agnelli

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GEORGES BRAQUE BOTTIGLIA E PESCI 1910-1912, olio su tela, cm 61,9x74,89, Londra, Tate Modern

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stagione di Cubismo scompositore nel 1910-1912, cristallino e grigio, che lo vedrà compagno di studio di Picasso. E Picasso, ovviamente, gli ruba la buona idea. Anticipa Braque in modo attraente il Cubofuturismo di Boccioni quando due anni dopo la scomposizione si articola in una forma rigenerata, con piani costruttivi che in Juan Gris trovano stesura bidimensionale. Ma ancora una volta Picasso dribbla tutti con i suoi collage, dove la bottiglia di Suze è infatti già un ready made. Severini a Picasso deve moltissimo, anche il fatto d’avere incontrato assieme a lui, alla Closerie des Lilas, la giovane tredicenne Jeanne, figlia del poeta Paul Fort, che da buon toscano sposa immediatamente. E già che gli deve la moglie, gli deve anche il collage dove cita, a proposito della rivista “Nord Sud”, l’altro italiano protagonista della vita parigina, quel formidabile Wilhelm Albert Włodzimierz Apollinaris de Wa˛z·-Kostrowicky,

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figlio romano d’una nobildonna polacca e dell’ufficiale italiano Francesco Flugi d’Aspermont, che si farà chiamare Guillaume Apollinaire e sdoganerà, fra un poema e un calligramma, i fratelli De Chirico. Picasso nel 1912, Severini nel 1917 stanno rimettendo ordine nella scomposizione cubista, loro due torneranno con il retour à l’ordre a una pittura apparentemente realista, mentre la sublimazione della forma andrà verso il purismo di Le Corbusier e Ozenfant, sottile artista che ne porterà il valore formale a New York nel 1938 da dove verrà espulso nel 1955 perché indagato di comunismo pure lui. L’art pour l’art non era scusa sufficiente. Ma intanto il mondo aveva già preso una direzione diversa: l’ironia pungente e dissacratoria di Marcel Duchamp aveva dato nel 1914 un nuovo indirizzo alla questione dei bar esponendo il ready made del semplice scolabottiglie.

UMBERTO BOCCIONI SVILUPPO DI UNA BOTTIGLIA NELLO SPAZIO 1912, bronzo argentato, cm 38,1x60,3x32,7, New York, Museum of Modern Art

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Pagina a fianco: PABLO PICASSO LA BOTTIGLIA DI SUZE 1912, carta di giornale, gouache e gessetto, cm 65,4x50,2, St. Louis, Kemper Art Museum A fianco: JUAN GRIS IL GIORNALE 1915, olio su tavola, cm 42,5x28,5, Berna, Collezione E.W. Kornfeld Sotto: GINO SEVERINI NATURA MORTA CON LA RIVISTA LETTERARIA NORD-SUD (OMAGGIO A REVERDY) 1917 ca, papier collé, gouache, gesso e matita su carta, cm 56,3x78, Collezione privata

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AMÉDÉE OZENFANT NATURA MORTA CON BICCHIERE DI VINO 1921, olio su tela, cm 50x61,5, Basilea, Kunstmuseum Pagina a fianco: MARCEL DUCHAMP SCOLABOTTIGLIE originale 1912, riedizione del 1961, ferro galvanizzato, altezza cm 49,8, diametro cm 41, Philadelphia Museum of Art

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LUXE, CALME ET VOLUPTÉ

alla Closerie des Lilas si passa direttamente, dopo avere bevuto un buon caffè francese, di quelli falsi fatti con la chicorée tostata, e bevuto un calvados (fatto con mele autentiche distillate) dopo avervi intinto una zolletta di zucchero, nelle auliche sale del pian terreno, delle quali la prima è dedicata all’evoluzione apicale del tema appena trattato, l’estetica portata alla sua conclusione ultima, quando l’etica intesa in senso moderno viene messa definitivamente da parte, quando trionfa l’art pour l’art. Ma avrebbe mai potuto l’art pour l’art avere un contenuto etico? La risposta la dà il primo seguace convinto di Gautier, Baudelaire, nel 1857 in un suo piccolo poema incluso nella raccolta delle Fleurs du mal dove si colloca nella prima parte Spleen et idéal e intitolato L’invitation au voyage. È come se tutta l’estetica disincantata dell’Impressionismo fosse già prevista. Il miglior commento al sol levante di Monet:

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Les soleils mouillés De ces ciels brouillés Pour mon esprit ont les charmes Si mystérieux

Pagina a fianco: PIERRE BONNARD NUDO IN CONTROLUCE particolare, 1908-1909, olio su tela, cm 124x109, Bruxelles, Musée d’Art Moderne

I soli bagnati di questi cieli strapazzati per il mio spirito hanno fascini così misteriosi

e cosa si addice di più a tante vedute fluviali di questi versi: Vois sur ces canaux Dormir ces vaisseaux Dont l’humeur est vagabonde ;

Guarda su questi canali dormire questi vascelli dall’umore vagabondo;

e poi ancora per gli interni d’un Secondo impero talvolta intollerabile per le sue dorature eclettiche di paccottiglie intagliate, pensate invece alle atmosfere morbide di Bonnard:

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Mobili lucidi, patinati dagli anni, decorerebbero la nostra camera;

Des meubles luisants, Polis par les ans, Décoreraient notre chambre ;

Sempre in questa intuizione che anticipa il japonisme, declina l’orientalismo e s’addobba con le nature morte di FantinLatour: I fiori più rari mescolando i loro odori ai vaghi profumi delle ambre, i ricchi soffitti, gli specchi profondi, lo splendore orientale,

Les plus rares fleurs Mêlant leurs odeurs Aux vagues senteurs de l’ambre, Les riches plafonds, Les miroirs profonds, La splendeur orientale,

e qui ne viene ben tre volte in ritornello, per evitare che la si dimentichi, sancita la nuova etica: Lì tutto è solo ordine e bellezza, lusso, calma e voluttà.

Là, tout n’est qu’ordre et beauté, Luxe, calme et volupté. Ci vorrà mezzo secolo perché Matisse trasformi questo motto nel titolo d’un suo dipinto realizzato nel 1904, perché lui Henri Matisse, nato nel nord più settentrionale dell’esagono, recepisce il messaggio, accetta il viaggio e se ne va nel meridione dove mescola in un bizzarro cocktail il Fauvisme, l’eredità pointilliste di Signac e gli esperimenti di Cézanne. Storia questa che merita una stanza del museo, la quale inizia il percorso con un dipinto di Bazille, lo sfortunato ucciso nei primi scontri del 1870 ma che ebbe prima il tempo di segnalare la geniale sua visione. L’estate prima di morire aveva dipinto una scena di confortevolezze da bagno fra maschi in campagna, con braghette che sembrano per tutto moderne. Bazille è forse già impressionista ma muore troppo presto per accorgersene. Renoir, nel 1887, ha già smesso d’essere impressionista, o almeno così pretende dopo essere andato in crisi e avere scoperto la pittura storica durante un viaggio in Italia nel quale la visita alla collezione Borghese gli fece incontrare la Diana al bagno di Domenichino. Ne rimane scosso al punto tale da cambiare stile e svestire le sue bambole parigine. Ne nasce un curioso dipinto

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che non fu accolto con un entusiasmo condiviso. Imbambolate le bambole, ma oltre ogni naturalezza, figure ad alto grado di scomodità. Pittura però da un punto di vista tecnico assolutamente coinvolgente. Spirito di lusso che si declina con un pizzico di lussuria. Puvis de Chavannes, tre anni dopo, porta la medesima scena nel clima simbolista e la trasferisce in area onirica. Sono sospese nel tempo le signore nude guardate da lontano da un signore in mutande che sembra san Pietro mentre getta la rete. Citano innegabilmente Renoir le signore impegnate ad

JEAN-FRÉDÉRIC BAZILLE SCENA D’ESTATE 1869, olio su tela, cm 160x160,6, Cambridge, MA, Fogg Art Museum

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PIERRE-AUGUSTE RENOIR LE GRANDI BAGNANTI 1884-1887, olio su tela, cm 117,8x170,8, Filadelfia, Philadelphia Museum of Art

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asciugarsi. Gli asciugamani da bagno diventano un apparato imprescindibile per tutti i dipinti successivi che affronteranno il tema, e questo ovviamente non perché si tratta d’una propaganda dell’igiene nell’acqua naturale, ma perché consente un gioco delle posizioni del corpo necessario alla composizione. Infatti l’unica signora senza asciugamano, quella bionda del primo piano, sembra così sconcertata da tentare di affogare il preoccupatissimo fanciullo. Scena bucolica antica con personaggi moderni. Al tema si dedica, con la coazione a ripetere che è tipica di tutto il suo lavoro di pervicacia e di ricerca, Paul Cézanne nel suo rifugio provenzale. Solo negli anni ’70 aveva abbozzato a uso apparentemente personale alcuni piccoli e timidi eccellenti quadretti con dei nudi, un servo moro che porta a Napoli il caffè a una coppia nuda sdraiata sul letto, una Olympia rivista a modo suo e Tre bagnanti che anticipavano di trent’anni le evoluzioni della pittura successiva. Ma è da anziano artista ultrasessantenne, nei due anni che precedono la sua morte, che riprende il tema del nudo, sia maschile sia femminile, con una enfasi inattesa. I tre dipinti, appesi uno vicino all’altro, sono tele di grande di-

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mensione. Il primo dipinto è una interessante combinazione fra Déjeuner sur l’herbe, picnic con tanto di cesta, cocomero e cane, dove l’uso addirittura esagerato di asciugamani serve a fare da contrappunto con le nuvole del cielo che rompono la chiusura d’una scena nella quale gli alberi sono così ben descritti da far sentire il loro profumo di pini marittimi. I colori innaturali sui corpi servono da critica alla mania di luce del Pointillisme e annunciano la visione cromatica dei Fauves. Nel secondo gli elementi rimangono gli stessi, ma evaporano in una pennellata larga che è la vera scommessa della composizione e dà al tutto quel senso di volumetria che fra poco si chiamerà Cubismo. Gli stessi alberi sono ridotti a puro volume. Nel terzo gli alberi sono diventati pura linea di forza d’una architettura visiva, i corpi si fanno presenza formale, la pittura si fa così liquida che se non foste informati della dimensione della tela di 5 metri quadrati potreste pensare di vedere un piccolo acquarello. Così architettonica la composizione, così affascinata dalla scoperta d’una ipotesi alternativa nel renderne la luce da porre un punto di fuga nella chiesetta che chiude la vista. È quindi comprensibile

PIERRE PUVIS DE CHAVANNES L’ESTATE 1891, olio su tela, cm 149,6x232,4, Cleveland, Cleveland Museum of Art

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PAUL CÉZANNE LE GRANDI BAGNANTI

PAUL CÉZANNE LE GRANDI BAGNANTI

PAUL CÉZANNE LE GRANDI BAGNANTI

1895-1906, olio su tela, cm 132,4x219,1, Merion, PA, The Barnes Foundation

1900-1905, olio su tela, cm 130x193, Londra, National Gallery

1900-1906, olio su tela, cm 210,5x250,8, Filadelfia, Philadelphia Museum of Art

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HENRI MATISSE LUSSO, CALMA E VOLUTTÀ 1904, olio su tela, cm 98,5x118,5, Parigi, Musée d’Orsay

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che Matisse, giovane ma non giovanissimo, attratto dal mito del misterioso e misantropico Cézanne, finisca anche lui nel meridione e combini tutte le esperienze che lì si combinano. Il suo dipinto è una sorta di riassunto del Pointillisme di Signac, del picnic, dell’asciugarsi, del mare appena scoperto, delle diagonali di Cézanne, e ovviamente dell’invito al viaggio di Baudelaire. Non poteva intitolarsi, questo dipinto di medie dimensioni borghesi da salotto, che Luxe, calme et volupté. La questione era così conclusa e poté diventare una tematica da offrire a tutta l’Europa. Pablo Picasso, che come al solito è in grado di assumere tutto l’esistente, ne prende la staffetta nel 1907 quando riassume i suoi ricordi del bordello di Calle Avignon della Barcellona abbandonata a diciannove anni nel 1900. Le Demoiselles

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d’Avignon sono una sincresi potentissima di citazioni, di ricordi e di stili. Le fanciulle bianche hanno connotati da disegno classico, quelle more portano maschere africane. Gli alberi architettonici laterali permangono, così come gli asciugamani e il picnic. La stessa dimensione ambiziosa della tela riporta alla fatica di Cézanne. E così inizia l’eredità mista che porta all’affermazione del Cubismo. Ma anche nella Germania del Cavaliere Azzurro a Monaco (Franz Marc) e della Brücke a Dresda (Ludwig Kirchner) i fascini estivi della nuova tematica trovano seguaci che vi si applicano in decine e decine di repliche espressioniste. Baudelaire non avrebbe mai pensato che i suoi versi sarebbero serviti alla pubblicità dei bagni meridionali nella bella stagione. Il suo invito alla bella era sicuramente rivolto a una gita prolungata dalle parti dell’allora frequentatissima Normandia, laddove i mobili sono patinati e il bagno si fa in vasca. Il piccolo olio di Degas, dipinto di getto a mo’ quasi di pastello, questa atmosfera la rende con garbo. Degas è un esperto di sale da bagno, le dipinge con appli-

PABLO PICASSO LES DEMOISELLES D’AVIGNON 1907, olio su tela, cm 243,9x233,7, New York, Museum of Modern Art

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FRANZ MARC LE BAGNANTI 1910, olio su tela, cm 110x143, Pasadena, CA, Norton Simon Museum

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ERNST LUDWIG KIRCHNER NUDI CHE GIOCANO SOTTO L’ALBERO 1910, olio su tela, cm 77x89, Collezione privata

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THÉOPHILE ALEXANDRE STEINLEN HOTEL LA BAIGNOIRE ROUGE litografia a colori

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cata regolarità, loro e i corpi che contengono. D’altronde la vasca di fine secolo non è più quella dell’assassinio di Marat. La ditta tedesca Mannesmann ha da poco inventato il tubo traforato in una produzione industriale su vasta scala, e il gas, come l’acqua calda, arriva in ogni casa. Trattasi di una vera rivoluzione nel modo di abitare. E Steinlen, il grafico popolare e politico per eccellenza, non esita a produrre una bella pubblicità per l’albergo che offre questa gustosa innovazione. Sicché il cultore massimo delle delicatezze borghesi, Pierre Bonnard, diventerà specialista di signore in vasche

IL SECOLO DELLA MODERNITÀ

— P ADIGLIONE

DEI BINARI

da bagno e di mobili patinati. Anche Casas, nel suo morbido realismo, presenta una signora mentre si sta preparando il bagno. E Kirchner, in piena prima guerra mondiale, si dà allo stesso tema, con quel tocco perverso che spesso accompagna le narrazioni tedesche. Le signore in vasca smaltata di blu al centro sono tre. Ma lo si può capire; col freddo che fa in quell’inverno bellico dalle parti sue, nessuno pensa più alle bagnanti in gruppo nel tepore della Costa Azzurra. Lusso, calma e ansia espressionista.

EDGAR DEGAS DONNA CHE SI LAVA SEDUTA SUL BORDO DI UNA VASCA 1880-1895, olio su tela, cm 51,1x66,2, Parigi, Musée d’Orsay

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RAMÓN CASAS I CARBÓ IN BAGNO olio su tela, cm 95,5x75,5, Collezione privata

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PIERRE BONNARD NUDO IN CONTROLUCE 1908-1909, olio su tela, cm 124x109, Bruxelles, Musée d’Art Moderne

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ERNST LUDWIG KIRCHNER DONNE IN BAGNO 1915, olio su tela, Davos, Kirchner Museum

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IL SIMBOLISMO

a questa piccola sala, comoda e accogliente, si passa in un vasto e lungo salone, di quelli che ricordano l’Ermitage e dove la sequenza dei dipinti sulle pareti potrebbe addirittura incutere timore: in mezzo una di quelle panche severe pronte ad accogliere le meditazioni del visitatore e una serie di bacheche contenenti oscuri libri di poesia. Si passa anche da un pavimento in parquet di rovere che lasciava risuonare i passi mentre si ammiravano le bagnanti a un tapis cloué, quell’antenato della moquette che assorbe ogni suono, talvolta anche il respiro. È il salone dedicato al Simbolismo, nemico giurato dell’Impressionismo. In tanti mi hanno chiesto di definire il Simbolismo. Vi è una spiegazione complessa e storica che daremo per seconda. Vi è una prima invece semplice, propedeutica a questa seconda. Il Simbolismo è una forma espressiva delle varie arti che trova nella pittura il suo fulcro più naturale, in quanto concerne una rappresentazione formale e figurativa che non trova elementi di riferimento né nella realtà e neppure nella fuga dalla contingenza col rifugio nello storicismo. Il Simbolismo trova i suoi motivi e i suoi racconti nella apparente irrealtà della psiche. La psiche ha una realtà che non è necessariamente oggettiva, perché è costituita da oggetti creati dalla fantasia. La chiave d’accesso a questa realtà altra è talvolta il simbolo, altre volte una reinvenzione del mito, al-

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Pagina a fianco: IL’JA EFIMOVICˇ REPIN SADKO NEL REGNO SOTTOMARINO particolare, 1876, olio su tela, cm 323x230, San Pietroburgo, Museo Statale Russo Sopra: PAUL GAUGUIN COMPOSIZIONE CON IL RITRATTO DI JEAN MORÉAS 1891, dalla rivista “La plume”

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tre ancora la pura realtà onirica. Un dipinto cinquecentesco che raffiguri Giove in versione nuvola mentre abbraccia la ninfa Io non è simbolista: narra la mitologia così come essa ci viene tramandata. Se lo stesso Giove appare a un tranviere, il dipinto è simbolista. Il Simbolismo diventa corrente letteraria, musicale, pittorica e addirittura architettonica attraverso tutto il XIX secolo, forse già dalle evocazioni della natura che sono comprese nella Sinfonia pastorale di Beethoven del 1808 (primo movimento: Risveglio dei sentimenti all’arrivo in campagna; quinto movimento: Canto pastorale: sentimenti di gioia e di riconoscenza dopo il temporale) mentre, per buona precisione, non si possono definire simboliste le Quattro stagioni di Vivaldi, le quali replicano l’umore o il rumore del tempo, del vento e della pioggia. Il Simbolismo si rivolge ai sentimenti. È quindi comprensibile che vada a concludere il secolo romantico. E a questa conclusione giunge utile, se non addirittura necessario, quando le motivazioni altre si sono esaurite, quella dell’impegno politico, quella della scelta dell’art pour l’art come fuga dalla politica. Ma mantiene, di tutte le sue radici, getti vivi. Sicché userà le citazioni dello storicismo d’invenzione combinate con quelle dell’orientalismo sognato, le aree della coscienza obnubilata, non sapendo ancora che sta affrontando la chiave onirica per il subcosciente, gli oggetti notoriamente simbolici della tradizione con le invenzioni poetiche, quelle che dal “fiore blu” di Novalis andranno ad arricchirsi con un armamentario infinito di oggetti talvolta commoventi e altre volte di pura paccottiglia. Il Simbolismo andrà a sopravvivere nel XX secolo oppure si muterà in Metafisica e in Surrealismo. Oggi, nel XXI secolo, ha un successo folgorante nell’area nuova che sembrava da sempre per esso delineata, quella delle immagini che il mondo numerico consente di inventare all’infinito nella altrettanto infinita rete dell’internet. Ecco forse il motivo principale per il quale, condannato a una parziale estinzione nell’epoca del decadentismo fin de siècle, si trova oggi, che ancora una volta le certezze oggettive sembrano naufragare in ogni tipo di dubbio, rigenerato e di sommo interesse. A dire la verità storica il ragionamento si restringe leggermente. Padre del movimento è un agiato rampollo di Atene

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IL SIMBOLISMO

trasferitosi a Parigi nel 1875, Ioánnis Papadiamandópoulos che prenderà il nom de plume di Jean Moréas e lascerà alcuni poemi di raffinata anticipazione. Essendo egli greco gli vien naturale ridare alla parola simbolo il suo significato etimologico del “gettar insieme” cose diverse che nel loro incontro formino una realtà nuova dove la razionalità scompare a favore dei misteri delle corrispondenze. Nelle dichiarazioni programmatiche i primi poeti simbolisti si distaccano dal naturalismo, il che sembra ovvio, ma anche dall’estetismo puro del Parnasse, il che merita una spiegazione: loro intendono affermare in primis l’idea, darle una veste che sia sintetica e perciò simbolica. Ma in realtà essi camminano su una strada che era da vent’anni già aperta da Baudelaire (ancora e sempre lui) nel quarto poema delle Fleurs du mal e che s’intitola appunto Correspondances: La natura è un tempio

La Nature est un temple où de vivants piliers Laissent parfois sortir de confuses paroles ; L’homme y passe à travers des forêts de symboles Qui l’observent avec des regards familiers. Comme de longs échos qui de loin se confondent Dans une ténébreuse et profonde unité, Vaste comme la nuit et comme la clarté, Les parfums, les couleurs et les sons se répondent.

dove pilastri vivi / lasciano talvolta uscire confuse parole; / l’uomo vi passa attraverso foreste di simboli / che lo osservano con sguardi familiari. / Come echi lunghissimi che nel lontano si confondono / in una tenebrosa e profonda unità, /

Seguendo questo pensiero stretto il simbolo iconologico sarebbe nemico del Simbolismo, in quanto cita ma non coagula. La melagrana in mano alla bella di Dante Gabriel Rossetti per i simbolisti di Moréas non fa del quadro un’opera simbolista, ma solo simbolica. Mancano le assonanze e le corrispondenze. Nondimeno si fa fatica oggi a rifiutare al Rossetti il ruolo di geniale anticipatore, ma l’anticipazione sta ben più nell’enigmatica carnalità delle labbra, nell’esagerata fluenza dei capelli, nella posa ambigua. Il Simbolismo adora l’ambiguità, il tono enigmatico. Tre fanciulle in riva al mare che non hanno nulla da dirsi. L’opposto di tutte le situazioni di socializzazione di Luxe, calme et volupté. Ognuna guarda nel proprio vuoto, nella propria sospensione. Non dissimile da loro il Budda di Odilon Redon che appare da chissà dove e guarda anche lui la

vasta come la notte e come la chiarezza, / i profumi, i colori e i suoni si rispondono.

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nostra sospensione. Tutto ruota non nel sogno ma attorno a un mondo di sogni. Il Simbolismo è la trasformazione del mondo onirico in una realtà tangibile, apparentemente possibile. E in questo senso l’Inghilterra ha un ruolo di apripista. L’irlandese Daniel Maclise ne dà un bel esempio già nel 1834 quando fa roteare attorno al dio Pan tutta la fantasia erotica che la Londra pudica reprime. Pan è Pan e non lo è. Pan, quello greco, sarebbe il dio del meriggio, quello che appare quando il sole non fa ombra e le truppe non sanno quindi più dove orientarsi cadendo in quel panico che lui, Pan, porta al parossismo con il suo grido, il grido di Pan. Poi se ne va, Pan, tranquillo a suonare fra le pecore con le quali ama congiungersi in coito, il flauto di Pan. In Inghilterra Pan si trova a operare di notte sotto i gufi, addobbato con i pam-

Pagina a fianco: PIERRE PUVIS DE CHAVANNES FANCIULLE SULLA SPIAGGIA 1879 ca, olio su tela, cm 61,5x47,3, Parigi, Musée d’Orsay Sopra: ODILON REDON IL BUDDA 1905 ca, disegno, cm 90x73, Parigi, Musée d’Orsay

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IL SECOLO DELLA MODERNITÀ

— P ADIGLIONE

DEI BINARI

pini e grappoli che sarebbero di competenza del suo collega Dioniso, quello che manda non in panico ma nello sballo. E lo sballo porta agli erotismi sognati. È in questa fantasiosa mescolanza sincretica di mezzodì e notte, Pan e Dioniso, mostriciattoli e inglesine eccitate, che sorge la koiné simbolista. Capolavoro ignorato. Ma fondamentale per capire come mai un pittore come Arthur Wardle, il famosissimo ritrattista di cani per la nobiltà inglese, si diverte a immaginare la ninfa che gioca con i leopardi; altra situazione impossibile che diventa semanticamente enigmatica e perversa. Il leopardo da sempre, ora per fortuna non più, è pelliccia erotica.

Pagina a fianco: DANIEL MACLISE IL FAUNO E LE FATE 1834 ca, olio su tela, cm 43,2x37,5, Collezione privata ARTHUR WARDLE LA MALIARDA 1901 ca, olio su tela, cm 158x109, Londra, Mallett Gallery

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Il Belgio della fine del secolo diventa brodo di coltura del Simbolismo. Le cause sono evidenti e radicate nella tradizione della follia fiamminga. Fernand Khnopff usa sua sorella come modella stabile, una sorta di mutazione genetica in capelli rossi della musa di Rossetti, ben più fatale. Eccola in versione Sfinge che accarezza l’impossibile reso reale in lus-

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Pagina a fianco: FERNAND KHNOPFF GUARDO LA MIA PORTA SOPRA DI ME 1891, olio su tela, cm 72x140, Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Neue Pinakothek A sinistra: FERNAND KHNOPFF GLI ABBRACCI 1896, olio su tela, cm 50,5x151, Bruxelles, Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique Sotto: JAMES ENSOR MUSICISTI SPAVENTOSI 1891, olio su tavola, cm 16x21, Bruxelles, Patrick Derom Gallery

suosa pelliccia da leopardo. Eccola che sogna… sogna forse gli esseri terribili, riedizioni moderne delle fantasticherie di Bosch, che inventa Ensor. Immaginano cosmogonie impossibili le nordiche di Alma-Tadema sdraiate sulla pelle dell’orso. Sulla pelle dell’orso vaga la morfinomane di Corcos che sta invece a Viareggio o forse a Firenze. Immaginano la linea

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sottile che le porta verso il male, quello che von Stuck rappresenta come peccato, un Peccato attraente assai, con questa virago dai capelli così lunghi da giungere al pube e dove la serpe del male appare fatale quanto lei stessa. Occhi brillanti e penetranti, rialzati dalle squame che appaiono come pietre preziose. La morte blu. La morte verde la dipinge, sempre con la serpe della tentazione, Odilon Redon con un invidiabile impasto di colori. Ben più virginale La morte del becchino che Carlos Schwabe dipinge mentre angelica porta lo stesso becchino nella tomba che ha scavato. Lo ha avvolto in una rete che avvinghia con la punta delle sue ali nere mentre tiene in mano la fiammella verde del fuoco fatuo dei ci-

Pagina a fianco: VITTORIO MATTEO CORCOS LA MORFINOMANE 1899, olio su tela, cm 166x128, Collezione privata Sopra: LAWRENCE ALMA-TADEMA UN’ASCOLTATRICE: IL TAPPETO D’ORSO 1899, olio su tavola, cm 34,8x27,2, Collezione privata FRANZ VON STUCK IL PECCATO 1893, olio su tela, cm 95x60, Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie

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ODILON REDON LA MORTE VERDE 1905 ca, olio su tela, cm 54,9x46, New York, Museum of Modern Art

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Pagina a fianco: CARLOS SCHWABE LA MORTE DEL BECCHINO 1900, tempera, acquarello e matita, cm 76x56, Parigi, Musée du Louvre

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Sopra: ODILON REDON IL RAGNO SORRIDE, GLI OCCHI ALZATI 1881, carboncino sfumato, tracce di cancellatura, di graffiatura (rigature) su carta, cm 49,5x39, Parigi, Musée d’Orsay

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miteri. Unica nota di speranza nel gelo è lo spuntare vivo dei fiori di bucaneve. Il fascino del male è quello che contempla la signora di de Feure, in un incrocio di estetiche Art Nouveau e di pannelli in gusto Gauguin sullo sfondo dove appare la diavoletta in tentazione saffica. Pochi anni prima, nel 1894, Pierre Louÿs, il poeta simbolista anche lui belga, aveva con gran successo pubblicato le Chansons de Bilitis, una curiosa mistificazione letteraria nella quale fingeva d’avere tradotto i versi d’una poetessa contemporanea di Saffo. Vi preghiamo di non pensare che i curatori del museo siano erotomani travestiti da storici dell’arte: negli stessi anni nei quali venivano realizzate queste opere Sigmund Freud indagava i medesimi misteri reconditi e si preparava a ipotizzare il conflitto fra eros e thanatos. Il male esiste e persiste, dialoga

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con le energie della vita e ne conforma i destini. Lo aveva già scritto nel suo folle romanzo Les chants de Maldoror il giovane Isidore Ducasse, originario di Montevideo, nel 1868. Il romanzo rimase sconosciuto. Fu ristampato in Belgio (sempre il Belgio) vent’anni dopo e si diffuse sotterraneo fino a diventare più tardi la bibbia di Modigliani, di Breton e di Dalì. Sono gli anni nei quali Redon dipinge in un quadretto monocromo fatto di sovrapposizioni e di graffi il ragno che ride. Sono gli anni nei quali giunge a Parigi dalla sua lontana Norvegia Edvard Munch. Siamo abituati a pensare che le sue ansie siano puro prodotto degli arcani scandinavi, come se fosse egli una mutazione visiva delle tensioni teatrali di Henrik Ibsen. Da Parigi, benché frequenti le eleganze pa-

GEORGES DE FEURE LA VOCE DEL MALE 1895, olio su tela, cm 65x59, Collezione privata

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EDVARD MUNCH LA SEPARAZIONE 1896 ca, olio su tela, cm 96,5x127, Oslo, Munch Museet Pagina a fianco: JAN TOOROP FATALISMO particolare, 1893, gesso, matita e pittura su carta, cm 60x75, Otterlo, Rijksmuseum Kröller-Muller

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stellose del Degas convertito alle ballerine, trae una fonte simbolista che ricorderà a casa sua poi quando, per sedimentare l’angoscia, tratterà i quadri lasciandoli fuori al gelo d’inverno con il calore delle linee a colpo di frusta dell’Art Nouveau. E l’olandese Jan Toorop, artista eclettico che spazia dal realismo al Pointillisme, dalla realtà sociale alle arti decorative, troverà il suo stile definitivo in una esaltazione della linea in colpo di frusta, con una visione dove il Simbolismo ne è l’anima. Il suo dipinto Fatalismo riassume non la fatalità intesa in senso greco, ma tutte le femmes fatales che ossessionano l’immaginario simbolista e che verranno sublimate nel romanzo di Pierre Benoît, sul finire del Secolo Lungo nel 1919, L’Atlantide, il continente misterioso scomparso e ritrovato dove la regina Antinea consuma i suoi amanti l’uno dopo l’altro. Il mito può esistere se vien travolto dalla fantasia per comporlo in una dimensione del sentimento, come nel Sogno di Ossian di Ingres. Troverete appesi alle pareti altri

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Pagina a fianco: JEAN-AUGUSTE-DOMINIQUE INGRES IL SOGNO DI OSSIAN 1813, olio su tela, cm 348x275, Montauban, Musée Ingres A sinistra: GUSTAVE MOREAU LE FIGLIE DI TESPI 1853, olio su tela, cm 258x255, Parigi, Musée Moreau Sotto: EUGÈNE DELACROIX LA MORTE DI SARDANAPALO 1827, olio su tela, cm 392x496, Parigi, Musée du Louvre

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due capolavori, quello di Delacroix e quello di Moreau, che sono pubblicati all’inizio del libro e che testimoniano quanto il mito possa essere plasmato per generare una sensazione profondamente onirica. Dalle due opere appese accanto la lezione che proviene è ancora più curiosa. Siamo attorno al 1875. Da un lato Gustave Moreau a Parigi raffigura un Ercole che incontra l’Idra assassina e grondante sangue per ucciderla, sotto un cielo ovviamente torbido e infinito. L’Idra, così si chiama perché è un mostro che sorge dalle acque, è l’anticipazione mitologica del mostro di Loch Ness. Sotto un cielo torbido e infinito negli stessi anni

Arnold Böcklin a Firenze dipinge Tritone e nereide. L’opera, realizzata con cieli di memoria germanica in una Firenze dal cielo azzurro, è totalmente germanico-elvetica nell’evocazione bavarese dei due personaggi felici e rubicondi. L’animale acquatico è tutt’altro che minaccioso: gronda acque tiepide ed è accarezzato bonariamente dalla nereide. Paese che vai, Simbolismo che trovi. E negli stessi anni, ancora, in Russia, Repin dipinge un mondo subacqueo altrettanto simbolista, ma dove tutto il mistero si risolve nella fiaba slava. Passano otto anni e Böcklin diventa ancora più ironico nel suo simbo-

Pagina a fianco: GUSTAVE MOREAU ERCOLE E L’IDRA DI LERNA 1875-1876, olio su tela, cm 179,3x154, Chicago, The Art Institute of Chicago Sopra: ARNOLD BÖCKLIN TRITONE E NEREIDE 1874, olio su tela, cm 105,3x194, Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Schack-Galerie

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Pagina a fianco: IL’JA EFIMOVICˇ REPIN SADKO NEL REGNO SOTTOMARINO 1876, olio su tela, cm 323x230, San Pietroburgo, Museo Statale Russo A sinistra: ARNOLD BÖCKLIN GIOCHI TRA LE ONDE 1883, olio su tela, cm 180x238, Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Neue Pinakothek Sotto: GIORGIO DE CHIRICO TRITONE E SIRENA 1909, olio su tela, cm 86,5x141, Collezione privata

lismo. In Im Spiel der Wellen (Nel gioco delle onde), anticipa ciò che succede ogni estate a Rimini quando i tedeschi fanno il bagno in una giornata di scirocco, solo che qui godono d’una libertà ben più esplicita, quella agognata. E il quadro avrà un fortissimo impatto su Giorgio De Chirico, l’italiano nato in Grecia e formatosi a Monaco, che ne restituisce tutto

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LAWRENCE ALMA-TADEMA TRA LE ROVINE 1904, olio su tela, cm 24x39, Collezione privata

il sapore pochi anni prima di inventare la mutazione del Simbolismo in Metafisica. Certo è che De Chirico per compiere il passo successivo andrà a sondare sia il suo passato personale sia tutta la grecità nella sua fase di rovina vivente. È in quel fondo lontano del pensiero, quello che tocca i miti d’Oriente per Nietzsche, la filosofia presocratica e la visione filosofica di Empedocle, che affondano le radici sia del Simbolismo, come ben si

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ARNOLD BÖCKLIN VILLA AL MARE (SECONDA VERSIONE) 1865, olio su tela, cm 123,4x173,2, Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Neue Pinakothek

vede dal dipinto di Alma-Tadema, sia della successiva Metafisica. In fondo la dolce signorina inglese, ton sur ton con gli iris che raccoglie fra le rovine, non è altro che la riedizione di Winckelmann quando un secolo e mezzo prima risvegliò la coscienza della modernità andando a cercare la rosa dell’antichità fra le rovine di Paestum. Ed è in questa iconografia sempre presente l’acqua, nelle sue varie declinazioni. Per Sigmund Freud questa

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tematica sarebbe stata d’estremo interesse, se solo si fosse lui dedicato anche a uno sguardo alle arti visive. Ma si sa che la sua unica commozione fu per il Mosè di Michelangelo. Va in realtà capito e scusato il grande viennese: l’analisi del significato recondito delle iconografie stava allora solo iniziando con Aby Warburg, il quale si trovava a oltre mille chilometri ad Amburgo. E il terzo inventore dei significati semantici, Ferdinand de Saussure, se ne stava contemporaneamente fra Ginevra e Parigi. Solo ora abbiamo la fortuna di poter combinare le ricerche di questi tre pionieri e usare le loro somme indicazioni per inventare la nuova ludica disciplina alla quale questo museo è dedicato. Quindi sempre l’acqua, quella amniotica nella quale nuotano tritoni, quella marina dell’infinito, quella mossa in una umida giornata di scirocco attorno alla villa romana della fantasia di Böcklin. Quell’acqua che Giulio Aristide Sartorio, il decoratore del fregio del Parlamento di Montecitorio, usa verde per una composizione che ha tutte le caratteristiche d’un sogno presentato per la decifrazione al prof. Freud, con il suo inquietante senso di vertigine e di impotenza nell’afferrare il bene che sfugge. Qui l’arte non è mai fine a se stessa, neppure quando serve a eccitare pensieri carnosi in menti vittoriane come nel dipinto di sir Edward Poynter, esperto di nudi in grotta e acqua

Pagina a fianco: GIULIO ARISTIDE SARTORIO SIRENA O ABISSO VERDE 1900 ca, olio su tela, cm 59x135, Piacenza, Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi EDWARD JOHN POYNTER LA GROTTA DELLE NINFE DELLA TEMPESTA 1903, olio su tela, cm 148x112, Collezione privata A sinistra: HANS MAKART LE FANCIULLE DEL RENO 1883, olio su tela, Collezione privata

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(W Freud!), che qui ripropone il tema delle sirene ninfette in versione camera da letto con gioielli, ma con sfondo terrificante di nave affondata. E pensare che lo dipingeva mentre a duemila chilometri di distanza Matisse stava preparando tela e colori per Luxe, calme et volupté. Per il pittore inglese, talmente affermato da avere meritato il titolo nobiliare, il lusso e la voluttà vanno senza la calma. Anzi, è fondamentale la tempesta, quella dei sensi. Medesimo groviglio di sensi è quello esaltato dal pittore ufficiale dell’Impero asburgico, Hans Makart. Dipinge lui il mito germanico della Lorelei, versione renana delle sirene esaltata da Heine e da von Eichendorff, in quella gola di rocce che il fiume pacifico attraversa nel Palatinato. Per Makart la Lorelei ha chiamato le amichette e fanno festa

Pagina a fianco: JOHN MARTIN IL BARDO 1817, olio su tela, cm 215,5x157, Newcastle-upon-Tyne, Laing Art Gallery Sopra: EMILIO LONGONI ARMONIE DEL RUSCELLO 1900-1903, olio su tela, cm 68x49, Collezione privata

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fra le cascatelle. E ancora una volta il Simbolismo si congiunge naturalmente alla sua fonte romantica. Ne è buona prova il bellissimo dipinto di John Martin, il pittore visionario contemporaneo di Friedrich e di Füssli. C’è dentro tutto l’armamentario del sincretismo, il bardo, il castello misterioso, l’esercito inquietante, gli alberi contorti, e ovviamente la grande gola con i flutti, ma soprattutto, lì in alto fra montagne blu e rocce scure, il nido della coppia di aquile. Oppure la montagna può diventare sedativa e tranquilla per lo spirito alla ricerca d’un equilibrio perso, come nel dipinto di Longoni. E vi lascio pensare che squisita pagina avrebbe potuto scrivere il nostro prof. Freud su paesaggio con rigagnolo che esce dal bel mezzo del lago quieto. I nostri simbolisti italiani, Segantini in testa, hanno scoperto il rifugio dell’Engadina e della val Bregaglia per uscire da una modernità che non condividono. E lì si danno al Simbolismo come porta d’accesso ai voli dell’idealismo. Il Maloja accoglie tutti, fra i pochi contadini che vivono allora nelle montagne dove gli inglesi hanno già scoperto il fascino degli sport invernali di Sankt Moritz. Vi arrivano Nietzsche e Hermann Hesse, crescono da quelle parti in baita le generazioni dei Giacometti, Segantini vi porta in moglie la sorella di Carlo Bugatti, mobili compresi. E giungono anche gli svizzeri alemannici fra i quali

FERDINAND HODLER LA PRIMAVERA 1907-1910, olio su tela, cm 102,5x129,5, Collezione privata

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il vate della loro nuova pittura, il Ferdinand Hodler. Si stanno ovunque formando comunità di alternativi alla modernità. In Francia il paesotto bretone di Pont-Aven aspira dall’Atlantico gli artisti americani che cercano atmosfere inattese dialogando con i fuggiaschi da Parigi. Lì, in quel dipartimento che si chiama Finistère non a caso, Gauguin dipinge il famoso mulino, frequentando Émile Bernard e Pierre-Eugène Clairin, protagonisti indiscussi del Simbolismo. In Scozia, dalla parti di Glasgow, l’eredità di William Morris ha generato la scuola dei Mackintosh che stanno rinnovando radicalmente le arti decorative. Nello stesso periodo, a Nancy, a un passo ormai dai territori una volta francesi e ora germanici, Emile Gallé sviluppa la sua visione del rinnovamento delle arti decorative inventando i più bei vetri che l’Europa vede dagli anni della caduta dell’Impero romano. Le sue forme sono invero citazioni arabe e giapponesi, ma queste forme evolvono rapidamente verso libertà assolute, ceselli alla Cellini, e si combinano costantemente con la letteratura in ciò che egli definisce i “vasi parlanti”. Tutto torna in questo vasetto “soliflore” dove il decoro minimo a smalto va a scoprire le bolle rimaste dalla soffiatura. I versi che lo accompagnano ne rivelano il segreto. Sono, manco a dirlo di Théophile Gautier: La pluie au bassin fait des bulles ; Les hirondelles sur le toit Tiennent des conciliabules : Voici l’hiver, voice le froid !

La pioggia nella vasca fa bolle; le rondini sul tetto sono in conciliabolo: ecco l’inverno, ecco il freddo!

E torna la stessa assonanza fra vetro, questa volta a strati e inciso all’acido, nella citazione di Baudelaire: Le genièvre Parfois on trouve un vieux flacon qui se souvient, d’où jaillit toute vive une âme qui revient.

Il ginepro Talvolta si trova un vecchio flacone che si ricorda, dal quale sorge tutta viva un’anima che ritorna.

Il vetro diventa opera di maestria con mescolanze d’impasto, parte incisa e colate iridescenti nel vaso Le figuier dove, ovviamente

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ÉMILE GALLÉ VASO A COLLO LUNGO. LE RONDINI 1889, vetro, altezza cm 28, diametro sfera cm 10 (a fianco, particolare) ÉMILE GALLÉ BOTTIGLIA “IL GINEPRO” 1890, vetro ÉMILE GALLÉ ANFORA DI RE SALOMONE 1900, vetro, perle metalliche, incisione, patinatura con decorazione in bronzo e treppiede in ferro battuto, cm 117x47, Musée de l’École de Nancy (a fianco, particolare) ÉMILE GALLÉ VASO A CALICE “LE FIGUIER” 1898-1900, vetro intarsiato in due parti, altezza cm 60

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le colate di vetro sono le colate di zucchero che secreta il fico. Dice Victor Hugo: “Car tous les hommes sont les fils d’un même père, ils sont la même larme et sortent du même oeil.” – “Perché tutti gli uomini sono figli d’un medesimo padre, sono la medesima lacrima ed escono dal medesimo occhio”. Ecco spiegato tutto il meccanismo delle associazioni oniriche, laddove la connessione logica è abbandonata e sostituita con quelle che evocano le corrispondenze fra parole e immagini. E si giunge così al capolavoro insuperabile dell’arte vetraria: soffiato, decorato con applicazioni che richiedono nel raffreddamento, per non screpolare, il medesimo tasso di contrazione malgrado la differenza degli impasti e dei colori, poi inciso a ruota e inserito in una struttura di bronzo cesellato. È l’Anfora di re Salomone, corredata da una iscrizione di Marcel Schwob, il simbolista per eccellenza che usa associazioni fra le più inattese in versi liberati da ogni regola:

KARL WILHELM DIEFENBACH CON LA SUA FAMIGLIA IN UNA SOSTA DURANTE LE PASSEGGIATE SULLE ALPI 1895, fotografia, Seewalchen, Spaun Foundation

Questa brocca abitava / una

Cette cruche habitait autrefois l’océan. Elle contenait un génie qui était prince. Fille sage saurait briser l’enchantement par permission du roi Salomon qui a donné la voix aux mandragores.

volta l’oceano. / Conteneva un genio che era principe. / Figlia saggia saprebbe rompere l’incantesimo / per permesso di re Salomone / che ha dato voce alle mandragole.

La mandragola è quella curiosa pianta solanacea con proprietà anestetiche che nelle tradizioni medioevali era ingrediente d’obbligo di tutte le pozioni magiche. Si apre in questo modo una strada maestra, fra Simbolismo, poesia libera, evocazioni lontane d’Oriente e percorsi del sogno, a un movimento vero e proprio di fuga dalle regole borghesi che governano gli Stati liberali del Secolo Lungo. Si trovano qui, sul finire del XIX secolo, tutte le radici aristocratiche di ciò che diventerà il movimento ben più popolare della new age alla fine del secolo XX. Dalla Russia Elena Blavatskaja, esaltando improbabili viaggi tibetani e militanze forse più autentiche a fianco di Garibaldi, impartisce lezioni di vita che saranno alla base della sua società di teosofia e poi radici dell’antroposofia di Rudolf Steiner. Negli stessi anni in Iran nasce la religione Bahai che riassume tutte le fedi monoteiste in un sincretismo carico di simbologie e avrà templi diffusi in tutto l’Occidente,

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JEAN-AUGUSTE-DOMINIQUE INGRES EDIPO SPIEGA L’ENIGMA DELLA SFINGE 1808, olio su tela, cm 189x144, Parigi, Musée du Louvre GUSTAVE MOREAU EDIPO E LA SFINGE 1864, olio su tela, cm 206,4x104,8, New York, The Metropolitan Museum of Art

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nuovo mondo compreso oltre Atlantico. Sono gli anni nei quali si stabilisce sopra ad Ascona, in un’area appositamente scelta per la sua potente forza magnetica, la comunità del Monte Verità dove si zappa nudi d’estate per coltivare il tè e si danza mentre viene in visita Bakunin. Sono gli anni nei quali approda a Capri il pittore simbolista bavarese Diefenbach, ribelle, pacifista, nudista, adoratore del sole, vegetariano (non uccidere) e favorevole alla poligamia (la bibbia su questo argomento è vaga assai) e fonda la sua micro-comune. Si cercano ovunque vie iniziatiche nuove per la scoperta dei misteri della coscienza, per la liberazione dai vincoli sociali e culturali imperanti. Ed è proprio a questo che tende il comportamento poetico e visivo simbolista. Se il sogno come l’esotismo sono percorsi di fuga, il Simbolismo che spesso li riassume corrisponde invece a un dietrofront dove nella realtà si vuole tornare, ma per vie traverse e in direzioni ignote. Il Simbolismo è esoterico sin dalla sua prima dichiarazione. E allora qual mito più centrale di quello antico di Edipo che entra vit-

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torioso a fare il re nella Tebe di suo padre dopo avere superato l’esame impossibile della sfinge? La sfinge detiene il diritto di mangiare chi non sa rispondere, ed Edipo sa rispondere. Il poeta simbolista sa rispondere all’enigma. E il pittore del XIX secolo ne riscopre facilmente l’iconografia con tutti i vasi attici che le ricerche archeologiche napoletane e vaticane hanno riportato alla luce. Ecco quindi Ingres che già nel 1808 raffigura un Edipo che non si fa porre indovinelli; sembra lui a interrogare la sfinge dalla testa seminascosta nel buio, guardando i suoi seni turgidi. Interroga la femminilità. L’Edipo di Gustave Moreau la tiene addirittura sollevata, la povera sfinge, e la sfida, lui conquistatore e lei vittima. Torna la sfinge in Francis Bacon, citata direttamente da quella di Ingres, ma il dialogo sembra interrotto: per Bacon non c’è risposta se non nella sofferenza della ferita bendata, nel male dell’anima. La risposta la dà De Chirico ormai ottantenne, ed è come sempre enigmatica e ironica. Lei sembra una scolaretta interrogata al banco. Siamo nel ’68, del XX secolo ovviamente. Il Simbolismo s’è fatto Metafisica.

FRANCIS BACON EDIPO E LA SFINGE (DA INGRES) 1984, litografia a colori, cm 117x86, Christie’s Images Ltd GIORGIO DE CHIRICO EDIPO E LA SFINGE 1968, olio su tela, cm 90x70, Roma, Fondazione Giorgio e Isa De Chirico

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L’ART NOUVEAU

alla lunga sala dei simbolisti si passa direttamente in un salottino grazioso e propenso agli svaghi della mente, delicato come una musica di Claude Debussy e altrettanto foriero di innovazioni e future mutazioni del gusto. È la stanza dell’Art Nouveau. Il rinnovamento francese. In effetti la prima parete a sinistra che potrete scorgere dovrebbe generare in voi una curiosa contraddizione fra le idee ricevute. Solitamente si pensa che sia percorso artistico isolato il passaggio di Monet, anziano e con la barba lunga, custode delle memorie d’una propria famiglia ormai disciolta dai lutti, al ritiro quasi definitivo nella casa di Giverny che lo porta alla realizzazione delle oltre duecento tele nelle quali ossessivamente dipinge il suo giardino, lo stagno e le ninfee. Alcuni di questi quadri sono di dimensioni enormi, altri da consumo privato. Sono in realtà il riassunto delle eleganze della sua epoca, che si spandono sugli ultimi trent’anni della sua vita dal 1895 al 1926. E hanno inattese corrispondenze in tutta Europa: lo testimonia assai bene il dipinto ben più vitale del catalano Ignacio Pinazo Camarlench, il quale vede nello stagno ciò che Monet non volle mai vedere. È fortissima l’analogia con le ninfee della lampada di Tiffany. Ed è intrigante l’uso della medesima foglia di ninfea per decorare in bronzo patinato le sedie di Majorelle. Sono gli anni nei quali Guimard usa le citazioni fitomorfe per delineare gli archi d’accesso alla metropolitana di Parigi.

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Pagina a fianco: HECTOR GUIMARD L’INSEGNA DELLA METROPOLITANA DI PARIGI 1899-1904, ferro e ghisa, Parigi Sopra: LOCANDINA PUBBLICITARIA DELLA GALLERIA “L’ART NOUVEAU” DI SAMUEL BING 1895, stampa

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CLAUDE MONET NINFEE 1906, olio su tela, cm 87,6x92,7, Chicago, The Art Institute of Chicago IGNACIO PINAZO CAMARLENCH NUDO 1883, olio su tela, cm 35x45, Madrid, Esperanza Pinazo

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L ’ ART NOUVEAU

“Les âmes, libellules de l’ombre, mouches crépusculaires, frissonnent dans tous ces roseaux noirs que nous appelons passions et événements” – “Le anime, libellulle dell’ombra, mosche crepuscolari, fremono fra tutti questi canneti neri che chiamiamo passioni ed eventi”. Così scrive Victor Hugo nel suo saggio su Shakespeare. La libellula per gli inglesi è dragonfly, la mosca drago, e forse per questo motivo Hugo la vede così minacciosa pensando al drammaturgo massimo. La libellula per Tiffany diventa un elegante motivo decorativo che disegna il bordo della lampada inserita fra vetri colorati a forma di cabochon come in gioielli antichi. La libellula per Gallé è l’insetto misterioso del mondo ridotto dello stagno domestico, in una concezione delle calme serali assai vicina a quella di Monet. Il vaso, di forma giapponese e di altissima bravura tecnica, la raffigura mentre vola verso le acque, qui realizzate dando piccoli colpi di mola su una materia che contiene tutto il suo cromatismo. La stessa libellula diventa ieratica come un drago o una sfinge da decoro rinascimentale per formare le gambe del tavolino decorato a intarsi di legni preziosi. Sul tavolino viene talvolta posata la lampada dei funghi che Gallé realizzò in blocchi di vetro colato, soffiato e cesellato. Altra citazione dei misteri della natura quotidiana. Questa serie di mobili e oggetti è installata sulla parete opposta a quella che avete appena visto e si conclude con un piccolo mobile a cassetti

Sopra, ai lati: LOUIS MAJORELLE SEDIA “LILLY” 1900-1925, mogano, bronzo dorato, giunco, altezza cm 94 Al centro ATELIER TIFFANY LAMPADA DA TAVOLO “POND LILY” 1910 ca, vetro piombato e bronzo, altezza cm 55,8, diametro cm 51,4

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Pagina a fianco: ÉMILE GALLÉ LAMPADA TRIPLA “LES COPRINS” 1904, legno e ferro, Collezione privata A sinistra: ÉMILE GALLÉ VASO CON LIBELLULA 1900 ca, vetro, altezza cm 37, Collezione privata ÉMILE GALLÉ TAVOLINO A TRE GAMBE “DRAGONFLY” 1898, legno intarsiato

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ATELIER TIFFANY LAMPADA DA TAVOLO “DRAGONFLY” vetro piombato e bronzo, Collezione privata Pagina a fianco: HENRY VAN DE VELDE SEDIA “BLOEMENWERF” legno e paglia, New York, The Metropolitan Museum LOUIS MAJORELLE TAVOLINO “ELEGANTE” RENÉ LALIQUE SPILLA A FORMA DI LIBELLULA 1897-1898, oro, smalto, crisopazio, calcedonia, pietre di luna e diamanti, cm 23x26,5, Lisbona, Museo Gulbenkian, Fondazione Calouste Gulbenkian PHILIPPE WOLFERS CIONDOLO A FORMA DI LIBELLULA 1902

di Majorelle, sempre a intarsi in legno, dove la linea del colpo di frusta si è già stilizzata in una declinazione delle leggerezze del disegno. Ancor più stilizzate sono le due seggiole di van de Velde, nelle quali sono presenti quegli elementi di purezza che diventeranno insegnamento vero e proprio fra Berlino e Weimar. Uno dei cassetti è apribile e consente alle guide di fare ammirare due capolavori della gioielleria dell’epoca, un pendaglio di Philippe Wolfers, l’orafo più noto di Bruxelles, e una sublime broche di René Lalique. Sempre di libellule si tratta. Sulla terza parete sono appese, ben incorniciate in bacchette di mogano sagomato, sei affiche. Due di queste sono dedicate al vino con le bollicine che fa da simbolo alla Francia ben più della Marianne della République. Sono di Alphonse Mucha, il pittore e disegnatore praghese che ebbe gran for-

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ALPHONSE MUCHA POSTER PUBBLICITARIO PER LO CHAMPAGNE MOET & CHANDON WHITE STAR 1896, litografia a colori, cm 173x59, Mucha Trust ALPHONSE MUCHA POSTER PUBBLICITARIO PER LO CHAMPAGNE RUINART 1899, litografia a colori, cm 60x20, Mucha Trust Pagina a fianco: CARLOS SCHWABE LOCANDINA PER LA GALLERIA PAUL DURAND-RUEL 1892, litografia a due colori, cm 199x80, Collezione privata MAURICE REALIER-DUMAS POSTER PUBBLICITARIO PER LA GALLERIA GEORGES PETIT 1897, litografia a colori, cm 130x94, Collezione privata HECTOR GUIMARD PROGETTO DI COPERTINA PER LA “RÉVUE D’ART” 1899, disegno, cm 40x26,5, Parigi, Musée d’Orsay

tuna come illustratore e ben maggiore ancora come artefice dello stile grafico di quegli anni. Le altre due sono pubblicità per mostre nelle due maggiori gallerie d’arte della Parigi Belle Époque, quella di Durand-Ruel e quella del suo concorrente Georges Petit. Loro sono passati alla storiografia del XX secolo come promotori dell’Impressionismo. Nulla di più inesatto. Nella loro epoca contingente promuovevano i pittori simbolisti assieme agli impressionisti. Anzi, Durand-Ruel organizza una mostra del gruppo esoterico dei Rosacroce con un manifesto firmato dal simbolista Carlos Schwabe, mentre Petit presenta una collettiva nella quale si mescola di tutto, dallo scultore neosettecentesco Carrier-Belleuse all’impressionista della seconda generazione, Le Sidaner, abituato agli ozi di Pont-Aven,

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passando dal simbolista Rochegrosse e dal geniale anticipatore Whistler. E gli altri? Dimenticati nelle loro case borghesi da un mercato d’arte internazionale che deve semplificare i dati per far crescere i prezzi. Vi sono infine da ammirare, per qualità grafica e stampa, due manifesti della “Revue blanche”, l’uno di Bonnard il post-impressionista e l’altro di ToulouseLautrec, il pre-espressionista. Che simpatica confusione! Questa prestigiosa rivista riassume assai la questione. Nasce in Belgio, a Liegi, e si trasferisce a Parigi nel 1891; assieme a lei arriva il giovane Henry van de Velde, che disegnerà i mobili degli uffici facendone il primo capolavoro completo dell’arredo Art Nouveau, quello a colpo di frusta che andrà a influenzare tutti i suoi contemporanei. E alla rivista mensile collaborano

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tutti gli emergenti, da Proust a Gide, da Debussy ad Apollinaire giovanissimo e a Verlaine già anziano. Vi aderisce il provocatore Alfred Jarry e il critico teatrale Léon Blum che governerà la Francia, alla fine esausta della Belle Époque, nel 1936 come capo del Fronte Popolare e poi presidente socialista del governo provvisorio dopo gli orrori della seconda guerra mondiale. Forse questa mescolanza di idee, di forme e di vite ha spinto la storiografia dei musei diversi dal nostro a una banalizzazione che il vostro spirito curioso d’ora in poi rifiuterà.

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Pagina a fianco: PIERRE BONNARD LOCANDINA PER “LA REVUE BLANCHE” 1894, litografia a colori, cm 80x62, Bedford, The Higgins Art Gallery and Museum

Sopra: HENRI DE TOULOUSE-LAUTREC COPERTINA DE “LA REVUE BLANCHE” 1895, litografia a colori, cm 128x93, Collezione privata

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N.B PER MANIACI DELL’ARREDO La borghesia è onnivora, non vuole uno stile, li ingloba tutti. Ecco perché, nella sostanza, il cuore del Secolo Lungo appare talvolta esteticamente indigesto. Anzi, quell’epoca che viene definita come Napoleone III corrisponde a un eclettismo da paccottiglia che sembra provenire dai più modesti fra i mobilieri di Cantù: arredi appariscenti in legno scolpito e dorato alla bell’e meglio per palazzi costruiti in fretta e furia pronti alla esibizione della ricchezza rapidamente accumulata. Stile misto e poco rigore come la società che lo consuma. Per dovere di verità quest’eclettismo aveva avuto alcuni pensatori progettisti di altissima qualità come Schinkel nella sua fase ultima e come Gottfried Semper, il rivoluzionario di Dresda nel 1848 (le sue barricate erano le più solide della rivolta), che se ne dovette andare a lavorare a Zurigo dopo avere progettato il Burg-

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theater di casa sua. Ben diverso era stato l’inizio del secolo quando la restaurazione francese aveva tentato di mediare il neoclassicismo napoleonico con il gusto sottile degli anni di Carlo X. Era l’epoca nella quale dall’altra parte d’Europa il Biedermeier inventava una mobilia per la nuova classe borghese, fresca e fantasiosa al punto da diventare stilema stabile del mondo germanico, in grado di coniugare le sperimentazioni industriali del primo Thonet con il gusto per le impiallacciature chiare che sarebbero durate fino agli albori del XX secolo. L’Inghilterra esita inizialmente a uscire dalle eleganze di Robert Adam, il quale somma Palladio e Piranesi in una perfezione formale che tuttora è vigente negli immobili pubblici. Era stato preceduto da James “Athenian” Stuart, che aveva portato in Albione il rigore dorico arredandolo con eleganze belle e cariche, disegnate

in ogni dettaglio. Lo seguì Robert Smirke, quello del British Museum in versione ionica. L’Inghilterra, essendo isola, arriva, attraverso un percorso di eclettizzazione autoreferenziale, a formare il gusto del perfetto horror vacui vittoriano dove per la prima volta appare la poltrona veramente comoda e tappezzata a fioroni e lo studio di Sherlock Holmes si colorerà in scarlatto. E la reazione contro le troppo auguste colonne non si farà aspettare perché Morris torna alle qualità del profondo Medioevo fatto non da stucchi bianchi ma dallo storico rovere della foresta di Sherwood. Il villaggio è la patria delle nuove arti decorative che avranno con i Mackintosh effetti lontani fino a contaminare le arti decorative viennesi quando Klimt e Hoffmann si mettono alla testa della Secessione. Ma nel mentre Morris e i Preraffaelliti si danno alla vita rurale, a Londra i fautori del campo avverso, quello industriale esaltato dalla grande Expo del 1851, iniziano a diffondere la parola design con Christopher Dresser che ne diventa il vate. In Francia la reazione all’eclettismo parigino nasce nel profondo della provincia di Lorena quando Emile Gallé, socialista pro-Dreyfus, difensore dei diritti dell’uomo, prende in mano la fabbrica di terraglie decorate del padre e ne fa il primo grande laboratorio di produzione di ceramica, vetro e mobilia. Sulla porta dei laboratori sta scritto: “la mia radice è in fondo ai boschi” a riprova d’un rinnovamento totale dei decori basati esclusivamente sull’osservazione delle piante e della natura delle acque. Torna all’attenzione l’altrettanto provinciale estetica silvestre dei boschi di colonne nelle cattedrali gotiche. Muta la sensibilità architettonica. Il vero colpo verrà dato con l’apparire della struttura matematica della torre Eiffel durante l’Expo del 1889: per la prima volta nella storia dell’umanità la statica non si basa più su colonne, travi e timpani oppure su archi a sesto pieno o acuto ma su linee di forza assimi-

labili a quelle delle asintoti. La linea curva trionfa; si allea con quella fitomorfa del gambo delle piante. La loro combinazione sconvolge la generazione degli architetti nati negli anni ’50, Hector Guimard, Victor Horta, Henry van de Velde. Tutto si svolge inizialmente fra Parigi e Bruxelles, dove Horta costruisce il primo edificio Art Nouveau nel 1893, casa Tassel. È il prototipo d’una architettura civile nella quale, proprio come nella torre parigina, non vi è più alcuna traccia di citazioni dell’architettura passata. E nella decorazione dello scalone appare per la prima volta quella stilizzazione dal mondo delle piante che prenderà successivamente il nome di “colpo di frusta”. È nata una nuova cifra dell’este tica. Nel ’97 Joseph Maria Olbrich costruisce a Vienna il palazzo della Secessione dove la decorazione di foglie della cupola sarà autoportante. Cambia l’architettura, cambiano gli arredi e gli oggetti. Nel ’99 Antoni Gaudí, da oltre quindici anni già impegnato a erigere la Sagrada Família, costruisce il suo primo capolavoro a Barcellona, casa Calvet. Nel 1900 la super Expo di Parigi sancisce lo stile nuovo come lingua del secolo incipiente. Nel 1902 a Torino si apre la grande Esposizione Internazionale d’Arte Decorativa Moderna che porterà il gusto a una sanzione italiana, quella che verrà così abilmente ripresa da Ernesto Basile. Nel 1905 Josef Hoffmann viene da Vienna a Bruxelles e vi realizza il suo capolavoro, palazzo Stoclet, dove ogni singolo decoro è da lui disegnato. Nel 1907 Guimard a Parigi riprende i principi dell’ornamento strutturale di Viollet-le-Duc e inventa gli ingressi della metropolitana. Nel 1908 il boemo Adolf Loos, avendo guardato e preso come esempio le architetture industriali americane, pone le basi del razionalismo dichiarando che ogni decorazione è un crimine. L’Europa unita dall’eclettismo borghese si divide nei suoi nuovi stili. È pronta alla prima guerra mondiale.

VEDUTA GENERALE DELLA ESPOSIZIONE UNIVERSALE DI PARIGI 1889, litografia a colori, Parigi, Musée Carnavalet

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PICCOLA POSTFRAZIONE

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questo punto il lettore si potrebbe chiedere, se è stato particolarmente attento allo svolgimento del racconto, che fine abbiano fatto i due ristoranti non descritti, le Train Bleu e il Dom, e che cosa verrà allestito al piano alto degli edifici amministrativi. Sono finiti i soldi e il Consiglio Comunale ha rinviato a tempi successivi l’apertura dei due ristoranti mancanti e l’allestimento delle sale superiori dedicate alle raccolte delle opere su carta. Mentre una parte del pubblico cittadino è rimasta frustrata rispetto alle sue aspettative, l’editore invece ha espresso un sorriso sornione, felice di potere concludere questo volume in poco più di cinquecento pagine. Considerava egli che la messa in vendita d’un catalogo di oltre mille pagine avrebbe affaticato troppo il lettore, sia per la dimensione dell’opera sia per il peso della carta. Ha quindi accolto la decisione del Consiglio Comunale con malcelato entusiasmo. Ma ha ovviamente partecipato con attenzione ai confronti d’idee in seno all’assemblea, felicissimo di ipotizzare la pubblicazione del volume successivo. Anzi, si è addirittura commosso quando ha ascoltato le tematiche poste sui tavoli delle commissioni urbanistiche, culturali e finanziarie. È già iniziato il dibattito sulla stampa locale circa l’opportunità di edificare nei giardini un padiglione dedicato alle avanguardie del Secolo Breve XX. Questo ambizioso nuovo progetto troverebbe quindi le sue radici nel completamento del museo esistente attraverso, da un lato, l’esposizione delle opere che testimoniano quel raffinato decadentismo che portò alla rottura degli schemi avanzata dalle avanguardie, e dall’altro raccogliendo i materiali cartacei del XIX secolo che permettano di narrare in modo articolato l’evoluzione della comunicazione di massa che fu fondamentale per il cataclisma del XX secolo. Appena il bilancio della fondazione lo consentirà, questi interventi verranno probabilmente completati. Le vendite delle porzioni immobiliari e le affittanze degli appartamenti promettono bene. All’anno prossimo.

A

INDICE DEGLI ARTISTI Abbati Giuseppe La finestra, Firenze, Galleria d’Arte Moderna, 435 Il pergolato della casa di Diego Martelli a Castiglioncello, Collezione privata, 431

Achenbach Oswald Festa di santa Lucia a Napoli, Kassel, Museumslandschaft Hessen, 163

Achenbach Andreas Paesaggio notturno con pescatori, Collezione privata, 170

Acquisti Luigi La Legge vecchia o mosaica, Milano, duomo, balcone della facciata, 61

Ahlborn August Wilhelm Julius Cattedrale sulla riva di un fiume, Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Neue Pinakothek, 166

Ajvazovskij Ivan Constantinovic ˇ La nona onda, San Pietroburgo, Museo Statale Russo, 151 Marina al chiaro di luna con relitto di nave, Collezione privata, 155

Alma-Tadema Lawrence Tra le rovine, Collezione privata, 510 Un’ascoltatrice: il tappeto d’orso, Collezione privata, 497

Almeida Belmiro de Allo stremo, Rio de Janeiro, Museu Nacional de Belas Artes, 319

Arienti Carlo Paolo e Francesca, Collezione privata, 197

Bacon Francis Edipo e la sfinge (da Ingres), Christie’s Images Ltd, 521

Baldessari Roberto Il treno in arrivo alla stazione di Lugo, Collezione privata, 233

Balla Giacomo La signora Pisani al balcone, Collezione privata, 14

Baluschek Hans Lavoratrici della miniera su un ponte sospeso, Bochum, Deutsches Bergbau-Museum, 278 Lunedì mattina, Berlino, Stadtmuseum, Märkisches Museum, 390 Stazione di una grande città, distrutto, 278

Bartholdi Frédéric-Auguste Statua della libertà, New York, 60

Bazille Jean-Frédéric L’atelier di Bazille, Parigi, Musée d’Orsay, 327 Ritratto di Auguste Renoir, Parigi, Musée d’Orsay, 325 Scena d’estate, Cambridge, MA, Fogg Art Museum, 473

Beardsley Aubrey Giovanni e Salomè, 363

Becker Ernst August Richard Wagner, Collezione privata, 69

Behrens Peter Fabbrica dell’AEG a Berlino, 412

Béraud Jean Al bistrot, Collezione privata, 440 La pasticceria Gloppe, avenue des ChampsElysées, Parigi, Musée Carnavalet, 331 La sera, attorno al piano, Parigi, Musée Carnavalet, 310 Une soirée, Parigi, Musée d’Orsay, 351

Berndtson Gunnar Il canto della sposa, Helsinki,

Finnish National Gallery, 311

Bezzuoli Giuseppe Ritratto di Julius von Haynau, Vienna, Heeresgeschichtliches Museum, Militärhistorische Institut, 104

Blake William Divina Commedia, Dante e Virgilio entrano nella selva, Londra, Tate Modern, 190 Divina Commedia, Inferno, Canto V, Francesca da Rimini, Birmingham, Birmingham Museum and Art Gallery, 153 Divina Commedia, Inferno, Canto XII, Minotauro, Cambridge, MA, Harvard Art Museums, Fogg Museum, 190 Il grande drago rosso e la donna vestita di sole, New York, Brooklyn Museum, 198

Boccioni Umberto Forme uniche della continuità nello spazio, Milano, Museo del Novecento, 121 La città che sale, New York, Museum of Modern Art, 276 Rissa in Galleria, Milano, Pinacoteca di Brera, 127 Stati d’animo I. Gli addii, New York, Museum of Modern Art, 233 Stati d’animo, quelli che restano, Milano, Museo del Novecento, 147 Stati d’animo, quelli che vanno, Milano, Museo del Novecento, 147 Sviluppo di una bottiglia nello spazio, New York, Museum of Modern Art, 463

Böcklin Arnold Attacco dei pirati, Colonia, WallrafRichartz Museum, 165 Giochi tra le onde, Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Neue Pinakothek, 509 La guerra, Dresda, Staatliche Kunstsammlunger, Galerie Neue Meister, 131 La peste, Basilea, Kunstmuseum, 130 Tritone e Nereide, Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Schack-Galerie, 507 Villa al mare (seconda versione), Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Neue Pinakothek, 510-511

Boldini Giovanni Consuelo Vanderbilt duchessa di Marlborough e suo figlio lord Ivor Spencer Churchill, New York, The Metropolitan Museum of Art, 347 Giuseppe Verdi, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 69 Ritratto di Giuseppe Abbati, Collezione privata, 95 Ritratto di un Dandy (già Ritratto di Toulouse-Lautrec), Pasadena, CA, Norton Simon Museum, 338

Bonheur Rosa La fiera dei cavalli, New York, The Metropolitan Museum of Art, 85

Bonnard Pierre Locandina per “La revue blanche”, Bedford, The Higgins Art Gallery and Museum, 532 Nudo in controluce, Bruxelles, Musée d’Art Moderne, 470, 484

Stazione ferroviaria di Novi Ligure, Collezione privata, 224

Bouguereau William-Adolphe Dante e Virgilio all’inferno, Parigi, Musée d’Orsay, 191 Nascita di Venere, Parigi, Musée d’Orsay, 88

Bouhot Étienne Joseph Veduta esterna di una forgia presso Châtillonsur-Seine, Montbard, Musée Buffon, 243 Veduta interna di una forgia presso Châtillonsur-Seine, Montbard, Musée Buffon, 243

Boulanger Louis Il sacrificio di Mazeppa, Rouen, Musée des Beaux-Arts, 209

Braque Georges Bottiglia e pesci, Londra, Tate Modern, 462

Breitner George Hendrik Il kimono rosso, Amsterdam, Stedelijk Museum, 410

Breton Jules Adolphe Aimé Louis Collocamento di un Calvario, Lille, Palais des Beaux-Arts, 259 Il canto dell’allodola, Chicago, The Art Institute of Chicago, 261

Brjullov Karl Pavlovic ˇ Gli ultimi giorni di Pompei, San Pietroburgo, Museo Statale Russo, 176, 178 Incubo di una suora, San Pietroburgo, Museo Statale Russo, 389 Sogno di una fanciulla, Mosca, Museo Statale Puškin, 389

Bronzino Agnolo Allegoria con Venere e Cupido, Londra, National Gallery, 88

Burchett Richard Veduta su Sandown Bay, Isola di Wight, Londra, Victoria and Albert Museum, 173

Bürkel Heinrich Un gruppo di mendicati a una stazione di posta in Italia, Collezione privata, 170

Burne-Jones Edward Il destino è compiuto (Perseo uccide il mostro marino), Southampton, Southampton City Art Gallery, 361 L’accattivante Merlino, Liverpool, Lady Lever Art Gallery, National Museums, 361 Re Cophetua e la mendicante, Birmingham, Birmingham Museums and Art Gallery, 363

Buss Robert William Il sogno di Dickens, 398-399

Cabanel Alexandre Il poeta fiorentino, New York, The Metropolitan Museum of Art, 200 La glorificazione di san Luigi, Montpellier, Musée Fabre, 183 Morte di Francesca da Rimini e di Paolo Malatesta, Parigi, Musée d’Orsay, 194 Nascita di Venere, Parigi, Musée d’Orsay, 89

Cabianca Vincenzo I novellieri fiorentini, Firenze, Galleria d’arte moderna, Palazzo Pitti, 200

Borrani Odoardo

Cadogan Cowper Frank

Biche a Castiglioncello, Collezione privata, 431 Le cucitrici di camicie rosse, Collezione privata, 96 Ricamatrice, 26 aprile 1859, Collezione privata, 96 Ritratto di giovane col sigaro, Collezione privata, 436

La Belle Dame sans Merci, Collezione privata, 204

Bossoli Carlo Inaugurazione della tratta ferroviaria tra la zona di Principe e Sampierdarena, Collezione privata, 225

Caillebotte Gustave Canotiers ramant sur l’Yerres, Milwaukee, Art Center, 455 Il ponte Europa, Collezione privata, 258 Operai che lamano il parquet, Parigi, Musée d’Orsay, 256-257 Una strada parigina sotto la pioggia, Chicago, The Art Institute of Chicago, copertina, 12-13 Uomo al balcone, Collezione privata, 307

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Calame Alexandre

Cremona Tranquillo

Der Vierwaldstättersee, Collezione privata, 162 Paesaggio svizzero, Washington, National Gallery of Art, 162

Ritratto di Nicola Massa, Pavia, Musei Civici, 437

Cammarano Michele

Lo studio del pittore a Napoli, Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 142

La breccia di Porta Pia, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte, 81

Carolus-Duran Ritratto di Édouard Manet, Providence, RI, Museum of Art, 10 Ritratto di Félix Nadar, Le Bourget, Musée de l’Air et de l’Espace, 11

D’Azeglio Massimo

Dadd Richard Il colpo da maestro dello spiritello, Londra, Tate Gallery, 397

Dantan Édouard Un angolo nel Salon del 1880, Collezione privata, 326

Collezione privata, 193 Divina Commedia, Inferno, Canto XXIV, I ladri, 192 I giganti buoni (da Rabelais), 391

Duchamp Marcel Scolabottiglie, Philadelphia, Museum of Art, 467

Egg Augustus Leopold Compagne di viaggio, Birmingham, Birmingham Museums and Art Gallery, 227

Egusquiza y Barrera Rogelio de La fine del ballo, Collezione privata, 315

Carrà Carlo

Daumier Honoré

Emslie Alfred Edward

Bozzetto per i funerali dell’anarchico Galli, Collezione privata, 126 I funerali dell’anarchico Galli, New York, Museum of Modern Art, 127

Due avvocati, Lione, Musée des Beaux-Arts, 79 Nadar eleva la Fotografia ad arte, Los Angeles, County Museum of Art, 11 Vagone di terza classe, New York, The Metropolitan Museum of Art, 226

Cena a casa Haddo, Londra, National Portrait Gallery, 311

Casas i Carbo Ramón Garrote vil, Madrid, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia, 134 In bagno, Collezione privata, 484 La carica (Barcellona 1902), Olot, Museu d’Art Modern, 134

Cassatt Mary Estate, Chicago, Terra Foundation for American Art, 453 Nel palco, Boston, Museum of Fine Arts, 321

Cecioni Adriano

De Chirico Giorgio Edipo e la sfinge, Roma, Fondazione Giorgio e Isa De Chirico, 521 L’ottobrata, Santa Maria di Negrar, Collezione Dino Facchini, 165 Tritone e Sirena, Collezione privata, 509 De Nittis Giuseppe Nudo con le calze rosse, Collezione privata, 314 Signora col cane (Ritorno dalle corse), Trieste, Museo Civico Revoltella, 306

Il Caffè Michelangiolo, Collezione privata, 423

Decaisne Henri

Cederström Gustaf

Alphonse de Lamartine e i suoi piccoli levrieri italiani, Mâcon, Musée Lamartine, 69

Carlo XII di Svezia e Ivan Mazeppa dopo la battaglia di Poltava, Collezione privata, 206

Cézanne Paul Colazione sull’erba, Parigi, Musée de l’Orangerie, 444 La montagna Sainte-Victoire, Merion, PA, The Barnes Foundation, 445 Le grandi bagnanti, Filadelfia, Philadelphia Museum of Art, 477 Le grandi bagnanti, Londra, National Gallery, 476 Le grandi bagnanti, Merion, The Barnes Foundation, 476

Chassériau Théodore La toletta di Esther, Parigi, Musée du Louvre, 371 Macbeth e Banquo, Parigi, Musée d’Orsay, 85 Mazeppa, Strasburgo, Musées de la Ville de Strasbourg, 215 Venere anadiomene o Venere marina, Parigi, Musée du Louvre, 88

Collier John Lady Godiva, Coventry, Herbert Art Gallery and Museum, 352, 355

Corcos Vittorio Matteo La morfinomane, Collezione privata, 496 Ritratto di signora con due adolescenti, Collezione privata, 342-343

Courbet Gustave Donna con un pappagallo, New York, The Metropolitan Museum of Art, 372 Funerale a Ornans, Parigi, Musée d’Orsay, 74-75 Gli spaccapietre, Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, Galerie Neue Meister (distrutto), 252-253 Il sonno, Parigi, Petit Palais, Musée des Beaux-Arts de la Ville de Paris, 89, 288 Jo, la bella irlandese, New York, The Metropolitan Museum of Art, 287 L’atelier del pittore, Parigi, Musée d’Orsay, 84

Crane Walter La Belle Dame sans Merci, Collezione privata, 204

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Ensor James Musicisti spaventosi, Bruxelles, Patrick Derom Gallery, 495

Fabre François-Xavier Ugo Foscolo, Firenze, Biblioteca Nazionale, 69 Vittorio Alfieri, Asti, Fondazione Centro Studi Alfieriani, 68

Faed John La danza di Nannie, 391

Faléro Luis Ricardo Il Sabba delle streghe, Collezione privata, 388

Fantin-Latour Henri Atelier a Batignolles, Parigi, Musée d’Orsay, 327 Nereide, San Pietroburgo, Museo Statale dell’Ermitage, 288

Degas Edgar

Faruffini Federico

Borsa del cotone a New Orleans, Pau, Musée des Beaux-Arts, 258, 303 Corse di cavalli a Longchamp, Boston, Museum of Fine Arts, 305 Donna che si lava seduta sul bordo di una vasca, Parigi, Musée d’Orsay, 482-483 L’orchestra dell’Opera, Parigi, Musée d’Orsay, 320 Ritratto di James Tissot, New York, The Metropolitan Museum of Art, 322

Morte di Ernesto Cairoli nella battaglia di Varese, Pavia, Musei Civici, 99

Delacroix Eugène Autoritratto, Parigi, Musée du Louvre, 68 Dante e Virgilio all’inferno o La barca di Dante, Parigi, Musée du Louvre, 189 Fryderyk Chopin, Parigi, Musée du Louvre, 68 Il 28 luglio: la Libertà guida il popolo, Parigi, Musée du Louvre, 55, 56 La morte di Sardanapalo, Parigi, Musée du Louvre, 26, 505 Mazeppa, Helsinki, Finnish National Gallery, 211 Odalisca, Collezione privata, 373

Delaroche Paul Esecuzione di Lady Jane Grey, Londra, Guildhall Art Gallery, 179

Delvaux Paul I ferrovieri della stazione del Lussemburgo, Collezione privata, 250

Dicksee Frank La Belle Dame sans Merci, Bristol, Bristol City Museum and Art Gallery, 204

Dinet Etienne Sotto il lauro rosa, Collezione privata, 374

Disdéri André Adolphe-Eugène Cadaveri di comunardi nelle bare, Parigi, Musée Carnavalet, 457 Due file di bare aperte di comunardi uccisi, Parigi, Musée Carnavalet, 457

Doré Gustave Dante e Virgilio nel nono cerchio dell’inferno, Bourg-en-Bresse, Musée de Brou, 192 Divina Commedia, Inferno, Aracne,

Fattori Giovanni Diego Martelli a Castiglioncello, Collezione privata, 430 Il principe Amedeo ferito a Custoza, Milano, Pinacoteca di Brera, 100-101 La marcatura dei torelli, Collezione privata, 426-427 La rotonda dei Bagni Palmieri, Firenze, Galleria d’Arte Moderna, 428 La vedetta o Il muro bianco, Collezione privata, 428 Lo staffato, Firenze, Galleria d’arte moderna, Palazzo Pitti, 104

Fergola Salvatore Inaugurazione della ferrovia Napoli-Portici, Napoli, Museo di San Martino, 225

Feure Georges de La voce del Male, Collezione privata, 501

Fitzgerald John Anster La caccia al topolino bianco, Collezione privata, 396-397

Flandrin Hippolyte Polite figlio di Priamo osserva i movimenti dei greci verso Troia, Saint-Etienne, Musée d’Art et d’Industrie, 178 Fortuny Mariano Odalisca, Barcellona, Museu Nacional d’Art de Catalunya, 381

Freud Lucian Il generale di brigata, Collezione privata, 17

Friedrich Caspar David Cimitero monastico sulla neve, già Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie, scomparso nel 1945, 158 Donna al tramonto del sole, Essen, Folkwang Museum, 138 Donna alla finestra, Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie, 141 Il mare Artico, Amburgo, Kunsthalle, 156 Il sorgere della luna sul mare, Berlino,

Staatliche Museen, Alte Nationalgalerie, 154 Monaco davanti al mare, Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie, 154 Rocce calcaree sopra Rügen, Winterthur, Museum Oskar Reinhart am Stadtgarten, 139 Viaggiatore su un mare di nebbia, Amburgo, Kunsthalle, 139 Vista dallo studio dell’artista (finestra di destra), Vienna, Österreichische Galerie Belvedere, 141 Vista dallo studio dell’artista (finestra di sinistra), Vienna, Österreichische Galerie Belvedere, 141

Füssli Johann Heinrich Titania si risveglia circondata dalle fate, Zurigo, Kunsthaus, 386, 387

Gallé Émile Anfora di re Salomone, Nancy, Musée de l’École de Nancy, 518 Bottiglia “Il ginepro”, 518 Lampada tripla “Les coprins”, Collezione privata, 526 Tavolino a tre gambe “Dragonfly”, 527 Vaso a calice “Le Figuier”, 518 Vaso a collo lungo. Le rondini, 518 Vaso con libellula, Collezione privata, 527

Gauermann Friedrich August Mathias Un avvoltoio cala su un cervo morente, Vienna, Österreichische Galerie Belvedere, 159

Gauguin Paul Composizione con il ritratto di Jean Moréas, Rivista “La plume”, 487 Fiori e una stampa giapponese, Collezione privata, 420 Te Rerioa (sogno a occhi aperti), Londra, Courtauld Gallery, 400

Géricault Théodore La zattera della Medusa, Parigi, Musée du Louvre, 48, 50-51 Mazeppa, Collezione privata, 210

Gérôme Jean-Léon L’incantatore di serpenti, Williamstown, Sterling & Francine Clark Art Institute, 375 Napoleone e il suo stato maggiore, Collezione privata, 184-185 Pigmalione e Galatea, New York, The Metropolitan Museum of Art, 375 Piscina nell’harem, San Pietroburgo, Museo Statale dell’Ermitage, 377

Gervex Henri Al ritorno dal ballo, Collezione privata, 319 Prima dell’operazione, Parigi, Musée d’Orsay, 309 Rolla, Parigi, Musée d’Orsay, 318 Un caffè a Parigi, Detroit, Detroit Institute of Arts, 330, 332 Una seduta della giuria di pittura al Salon degli artisti francesi, Parigi, Musée d’Orsay, 21

Gigante Giacinto Tempesta sul golfo di Amalfi, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte, 163

Giraud Pierre François Eugène Ritratto di Gustave Flaubert, Versailles, Châteaux de Versailles et de Trianon, 299

Goya Francisco 3 maggio 1808 (La fucilazione), Madrid, Museo del Prado, 70-71 Il Sabba delle streghe, Madrid, Museo Lázaro Galdiano, 387 La forgia, New York, The Frick Collection, 242 Grandville Jean-Jacques I romani impazziscono alla prima dell’Ernani, Parigi, Casa Museo di Victor Hugo, 59

Gris Juan Il giornale, Berna, Collezione E.W. Kornfeld, 465

Guérin Pierre-Narcisse Clitennestra che esita prima di colpire Agamennone, Parigi, Musée du Louvre, 52

Guimard Hector L’insegna della metropolitana di Parigi, Parigi, 522 Progetto di copertina per la “Révue d’Art”, Parigi, Musée d’Orsay, 531

Hacker Arthur Parasole perduto, Collezione privata, 175

Hammershøi Vilhelm Interno con donna seduta su una sedia bianca, Collezione privata, 349

Hayez Francesco Francesco Foscari destituito, Milano, Pinacoteca di Brera, 180 Il bacio, Milano, Piancoteca di Brera, 143 Malinconia, Milano, Pinacoteca di Brera, 390 Ruth, Bologna, Collezioni comunali d’Arte, 370

Heade Martin Johnson Orchidea Cattleya e tre colibrì, Washington, National Gallery of Art, 453

Helleu Paul César Madame Helleu sullo yacht Etoile, Londra, Collezione privata, 344

Henshall John Henry Al bancone del bar, Londra, Museum of London, 331, 333

Hiroshige Ciliegi in fiore sotto la luna piena, Manchester, Chatham Library, 413 Fiume Gokei a Bitchu durante un temporale, Vienna, Museum of Applied Arts, 404 Le risaie di Asakusa durante la festa del gallo, Cambridge, Fitzwilliam Museum, 415 Piccolo assiolo sul ramo di un acero sotto la luna piena, Boston, Museum of Fine Arts, 405 Pioggia improvvisa sul ponte Shin-Ohashi ad Atake, Tokyo, Fuji Art Museum, 404 Veduta di una strada di Tokyo, 413 Veduta notturna di Sarawaka-machi, N. 90, New York, Brooklyn Museum of Art, 415 Yokkaichi, San Cho Kwa, Stazione 44, New York, Brooklyn Museum of Art, 404

Hodler Ferdinand La primavera, Collezione privata, 516

Hokusai Katsushika Cardellino su un ramo di ciliegio piangente, Boston, Museum of Fine Arts, 411 Iris con cavalletta, Cambridge, Fitzwilliam Museum, 406 Iris, Chicago, The Art Institute of Chicago, 406 Spettro giapponese, Washington, Smithsonian’s Museum of Asian Art, 416

Hovenden Thomas Gli ultimi momenti di John Brown, New York, The Metropolitan Museum of Art, 78

Huet Paul L’inondazione di Saint-Cloud, Parigi, Musée du Louvre, 85

Hughes Arthur

d’Italia, Fondazione Cariplo, 91, 92 Ritratto di Francesco Daverio, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, 82 Sciancato che suona il mandolino, Milano, Galleria d’Arte Moderna, 83 Triste presentimento, Milano, Pinacoteca di Brera, 93

Ingres Jean-Auguste-Dominique Edipo spiega l’enigma della sfinge, Parigi, Musée du Louvre, 520 Il sogno di Ossian, Montauban, Musée Ingres, 504 La baronessa Rothschild, Collezione privata, 110 La grande odalisca, Parigi, Musée du Louvre, 368-369 Venere anadiomene, Chantilly, Musée Condé, 87, 88

Ingres Jean-Auguste-Dominique (con Flandrin Paul) Odalisca con lo schiavo, Baltimora, Walters Art Gallery, 367

Inness George La Lackawanna Valley, Washington, National Gallery of Art, 85

Jacovacci Francesco La Galerie Goupil, Collezione privata, 20

Joy George William The Bayswater Omnibus, Londra, Museum of London, 329

Kandinskij Vasilij Composizione IV, Düsseldorf, Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen, 169 Ferrovia presso Murnau, Monaco, Städtische Galerie im Lenbachhaus und Kunstbau, 232 Studio per composizione II, New York, Solomon R. Guggenheim Museum, 169

Katzler Vinzenz Tumulti durante la “rivoluzione delle patate”, 112

Kerner Justinus Apparizione, Collezione privata, 385 Farfalla, Collezione privata, 385

Khnopff Fernand Gli abbracci, Bruxelles, Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, 494-495 Guardo la mia porta sopra di me, Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Neue Pinakothek, 494

Kirchner Ernst Ludwig Donne in bagno, Davos, Kirchner Museum, 484-485 Nudi che giocano sotto l’albero, Collezione privata, 481

Klee Paul St. Germain presso Tunisi, Parigi, Musée national d’Art moderne - Centre Georges Pompidou, 365 Vergine sull’albero, New York, Museum of Modern Art, 159

Klimt Gustav

La Belle Dame sans merci, Melbourne, National Gallery of Victoria, 204

Donna con ventaglio, Collezione privata, 421

Hughes Edward Robert

Kintaro, l’incontro di sumo, Londra, British Museum, 417 Kintaro lotta con una carpa gigante, Oxford, Ashmolean Museum, 417

La notte con il suo treno di stelle, Birmingham, Birmingham Museum and Art Gallery, 392 Notte di mezza estate, Collezione privata, 395

Hunt William Holman Pastorale, Londra, The Makins Collection, 356

Induno Domenico Il richiamo del garibaldino, Montecatini Terme, Galleria Bentivegna, 94

Induno Gerolamo La battaglia della Cernaia, Milano, Gallerie

Kuniyoshi

Lalique René Spilla a forma di libellula, Lisbona, Museo Gulbenkian, Fondazione Calouste Gulbenkian, 529

Lecomte du Noüy Jean-Jules-Antoine La schiava bianca, Nantes, Musée des Beaux-Arts, 376

539

Lega Silvestro Bersaglieri che conducono prigionieri, Firenze, Galleria d’arte moderna, Palazzo Pitti, 99 Curiosità, Collezione privata, 432 Il bindolo, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 270 Il canto dello stornello, Firenze, Galleria d’arte moderna, Palazzo Pitti, 97 La pergola, Milano, Pinacoteca di Brera, 433

Legrand Louis Naturalisme, da “Le courrier Français”, marzo 1890, 11

Lewis John Frederick L’accoglienza, Yale Center for British Art, Paul Mellon Collection, 365

Liebermann Max Donne che spennano le oche, Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie, 266 Le filatrici di Laren, Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie, 268-269 Ospizio per anziani ad Amsterdam, Christie’s Images Ltd, 272 Raccolta delle patate a Barbizon, Düsseldorf, Museum Kunst Palast, 263, 264

Gallery of Art, 295 La grappa di prugne, Washington, National Gallery of Art, 312 La signora Manet e suo figlio Leon Koella intento alla lettura, Parigi, Musée d’Orsay, 293 Le Dejeuner - Tre persone presso una tavola imbandita, Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Neue Pinakothek, 8 Mazzo di peonie bianche e cesoie, Parigi, Musée d’Orsay, 293 Nana, Amburgo, Hamburger Kunsthalle, 298 Ritratto di Émile Zola, Parigi, Musée d’Orsay, 323 Ritratto di Jeanne Duval, amante di Baudelaire, Budapest, Szépm´uvészeti ´ Múzeum, 292 Ritratto di Stéphane Mallarmé, Parigi, Musée d’Orsay, 328

Marc Franz Il destino degli animali, Basilea, Kunstmuseum, 168 Le bagnanti, Pasadena, CA, Norton Simon Museum, 480

Martin John

Longoni Emilio

Il bardo, Newcastle-upon-Tyne, Laing Art Gallery, 514

Armonie del ruscello, Collezione privata, 515 L’oratore dello sciopero, Barlassina, Banca di Credito Cooperativo, 277

Giovane donna a riposo, Madrid, Museo del Prado, 312-313

Longsden Long Edwin

Matisse Heri

Il mercato delle spose a Babilonia, Surrey, Royal Holloway and Bedford New College, 379 Pene d’amore perdute, New York, Dashes Museum of Art, 378

Maclise Daniel

Masriera y Manovens Francisco

Lusso, calma e voluttà, Parigi, Musée d’Orsay, 478 Odalisca in pantaloni rossi, Parigi, Musée national d’Art moderne Centre Georges Pompidou, 366

Il Fauno e le Fate, Collezione privata, 492

Meissonier Ernest

Madox Brown Ford

L’assedio di Parigi (1870-1871), Parigi, Musée d’Orsay, 129, 130-131

Addio all’Inghilterra, Birmingham, Birmingham Museums and Art Gallery, 85, 86 Il lavoro, Manchester, Manchester Art Gallery, 254

Majorelle Louis Sedia “Lilly”, 525 Tavolino “elegante”, 529

Makart Hans Le fanciulle del Reno, Collezione privata, 513

Malevicˇ Kazimir Cavalleria rossa, San Pietroburgo, Museo Statale Russo, 137 Cerchio nero, San Pietroburgo, Museo Statale Russo, 136 Croce nera, San Pietroburgo, Museo Statale Russo, 136 Quadrato nero, San Pietroburgo, Museo Statale Russo, 136

Mancini Antonio Il saltimbanco, Filadelfia, Philadelphia Museum of Art, 337

Manet Édouard Colazione sull’erba, Parigi, Musée d’Orsay, 90, 442 Corse di cavalli a Longchamp, Chicago, The Art Institute of Chicago, 305 Giovane donna distesa in costume spagnolo, New Haven, Yale University Art Gallery, 293 Giovane signora nel 1866, New York, The Metropolitan Museum of Art, 294 Il balcone, Parigi, Musée d’Orsay, 304 Il bar delle Folies-Bergère a Parigi, Londra, The Courtauld Gallery, 458 Il bevitore d’assenzio, Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek, 301 In barca, New York, The Metropolitan Museum of Art, 450, 451 L’esecuzione di Massimiliano, Mannheim, Städtische Kunsthalle, 72 La ferrovia, Washington, National

540

Menzel Adolph von La ferrovia Berlino-Potsdam, Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie, 224 La fornace col laminatoio, Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie, 238, 244

Meunier Constantin I raccoglitori di patate, Bruxelles, Musée Constantin Meunier, 262 Il crogiolo rotto, Bruxelles, Musée Constantin Meunier, 249 La guerra dei contadini, Bruxelles, Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, 260 Nel paese nero, Parigi, Musée d’Orsay, 250

Migliara Giovanni La filatura della seta, Collezione privata, 240

Millais John Everett Gesù nella casa dei genitori, Collezione privata, 354 Il salvataggio, Melbourne, National Gallery of Victoria, 84 Ofelia, Londra, Tate Britain, 355

Giardino a Sainte-Adresse, New York, The Metropolitan Museum of Art, 446 Gli scaricatori di carbone, Parigi, Musée d’Orsay, 245 Il ponte ferroviario ad Argenteuil, Parigi, Musée d’Orsay, 236 Il Tamigi sotto Westminster, Londra, National Gallery, 449 Impressione. Levar del sole, Parigi, Musée Marmottan Monet, 148 La Gare Saint-Lazare, Cambridge, MA, Fogg Art Museum, 229 La giapponesina (Camille Monet in costume giapponese), Boston, Museum of Fine Arts, 410 Ninfee, Chicago, The Art Institute of Chicago, 524 Papaveri, Parigi, Musée d’Orsay, 172 Treno sulla neve, Parigi, Musée Marmottan Monet, 228

Morbelli Angelo Giorno di festa all’ospizio Trivulzio di Milano, Parigi, Musée d’Orsay, 274-275 La stazione centrale di Milano nel 1889, Milano, Civica Galleria d’Arte Moderna, 230-231 Le risaiole, Vercelli, Museo F. Borgogna, 271 S’avanza, Verona, Civica Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea Palazzo Forti, 144

Moreau Gustave Edipo e la sfinge, New York, The Metropolitan Museum of Art, 520 Ercole e l’Idra di Lerna, Chicago, The Art Institute of Chicago, 506 Le figlie di Tespi, Parigi, Musée Moreau, 25, 505

Morisot Berthe Giornata d’estate, Londra, National Gallery, 452

Morris William La Belle Iseult, Londra, Tate Britain, 360

Mucha Alphonse Poster pubblicitario per lo champagne Moet & Chandon White Star, Mucha Trust, 530 Poster pubblicitario per lo champagne Ruinart, Mucha Trust, 530

Munch Edvard La separazione, Oslo, Munch Museet, 502 Sera nella via Karl Johan, Bergen, Kunstmuseene, 279

Nadar Félix Ritratto di Édouard Manet, Collezione privata, 10

Nani Napoleone Daniele Manin e Nicolò Tommaseo liberati dal carcere e portati in trionfo in piazza San Marco, Venezia, Fondazione Querini Stampalia, 114

Netti Francesco Odalisca, Collezione privata, 272

Millet Jean-François

Nodari Giuseppe

Angelus, Parigi, Musée d’Orsay, 260, 263 Contadino al lavoro, Londra, National Gallery, 111

Entrata in Palermo. Assalto alla Fieravecchia, Collezione privata, 102-103

Molteni Giuseppe

Tramonto, Seebüll, Nolde Stiftung Seebüll, 149

Alessandro Manzoni, Milano, Pinacoteca di Brera, 69

Mondrian Piet Fattoria di Duivendrecht, L’Aia, Gemeentenmuseum, 402-403

Monet Claude Camille Monet su una panchina di un giardino, New York, The Metropolitan Museum of Art, 446 Colazione sull’erba, Parigi, Musée d’Orsay, 443 Donna con parasole (Mme Monet e suo figlio), Washington, National Gallery of Art, 174

Nolde Emil Nomellini Plinio Lo sciopero, Collezione privata, 277

Oppenheim Moritz Daniel Heinrich Heine, Amburgo, Kunsthalle, 68

Orpen Sir William Lettura con grazia a Howth Bay, Collezione privata, 345

Overbeck Friedrich Italia e Germania, Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Neue Pinakothek, 140

Ozenfant Amédée

Puttinati Alessandro

Rousseau il doganiere Henri

Natura morta con bicchiere di vino, Basilea, Kunstmuseum, 466

Masaniello, Milano, Galleria d’Arte Moderna, 108

Il sogno, New York, Museum of Modern Art, 400, 401

Pacetti Camillo

Puvis de Chavannes Pierre

Roussy-Trioson Anne-Louis Girodet de

La Legge nuova, Milano, duomo, balcone della facciata, 61

Fanciulle sulla spiaggia, Parigi, Musée d’Orsay, 490 L’estate, Cleveland, Cleveland Museum of Art, 475

François-René de Chateaubriand, Saint-Malo, Musée de Saint-Malo, 69

Pagliano Eleuterio Zeusi e le donzelle di Crotone, Milano, Civiche Raccolte d’Arte, Museo dell’Ottocento, Villa Belgiojoso Bonaparte, 378

Palmer Samuel Campo di grano sotto la luna con la stella della sera, Londra, The British Museum, 152 Mattina presto, Oxford, Ashmolean Museum, 152 Tintagel Castle, con la pioggia in arrivo, Oxford, Ashmolean Museum, 161

Pellegrini Riccardo Dipinto con cornice di Ettore Bugatti, Collezione privata, 381 Dipinto con cornice di Ettore Bugatti, Collezione privata, 381

Pellizza da Volpedo Giuseppe Il Quarto stato, Milano, Museo del Novecento, 122-123 Il sole, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 125 Passeggiata amorosa, Ascoli Piceno, Pinacoteca Civica, 145

Philippoteaux Henri-Félix-Emmanuel Lamartine respinge la bandiera rossa davanti all’Hôtel de Ville, 25 febbraio, Parigi, Musée Carnavalet, 106-107

Phillips Thomas Ritratto di George Gordon Byron, Collezione privata, 69

Picasso Pablo Acrobata e giovane arlecchino, Merion, The Barnes Foundation, 337 Cortigiana con collier, Torino, Collezione Pinacoteca Agnelli, 461 Daniel-Henry Kahnweiler, Chicago, The Art Institute of Chicago, 22 Gli acrobati ambulanti, Mosca, Museo Statale Puškin, 460 Guernica, Madrid, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia, 132-133 La bottiglia di Suze, St. Louis, Kemper Art Museum, 464 Les demoiselles d’Avignon, New York, Museum of Modern Art, 27, 479 Massacro in Corea, Parigi, Musée Picasso, 73 Ritratto di Ambroise Vollard, Mosca, Museo Statale Puškin, 22, 24

Raeburn Sir Henry Sir Walter Scott, Edimburgo, Scottish National Portrait Gallery, 68

Realier-Dumas Maurice Poster pubblicitario per la Galleria Georges Petit, Collezione privata, 531

Redon Odilon Il Budda, Parigi, Musée d’Orsay, 491 Il ragno sorride, gli occhi alzati, Parigi, Musée d’Orsay, 500 La morte verde, New York, Museum of Modern Art, 498

Regoyos y Valdés Darío de Altiforni presso Bilbao, Madrid, Collezione Fundación Banco Santander, 279 Il viadotto di Ormáiztegui, Collezione privata, 236

Remington Frederic Nelle pianure del sud, New York, The Metropolitan Museum of Art, 79

Renoir Pierre-Auguste Ballo al Moulin de la Galette, Parigi, Musée d’Orsay, 330 Colazione in battello, Washington, The Phillips Collection, 454, 456 Le grandi bagnanti, Filadelfia, Philadelphia Museum of Art, 474 Ritratto di Ambroise Vollard, Londra, The Courtauld Gallery, 22 Ritratto di Frédéric Bazille, Montpellier, Musée Fabre, in deposito dal Musée d’Orsay di Parigi, 324 Ritratto di Paul Durand-Ruel, Collezione privata, 22

Repin Il’ja Efimovic ˇ

Rowlandson Thomas La ferrovia di Richard Trevithick, Euston Square nel 1809, Londra, Science Museum, 222

Russolo Luigi Lampi, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 167

Salisbury Field Erastus I monumenti storici della Repubblica americana, Springfield, MA, Museum of Fine Arts, 186

Sargent John Singer Lady Mayer con i due figli, Collezione privata, 346 Paul Helleu mentre ritrae sua moglie, New York, Brooklyn Museum of Art, 450

Sartorio Giulio Aristide Sirena o abisso verde, Piacenza, Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi, 512

Scaramuzza Francesco Inferno, Canto XXXIV, Lucifero, Collezione privata, 199

Scheffer Ary Apparizione delle ombre di Francesca da Rimini e di Paolo Malatesta, Parigi, Musée du Louvre, 194

Schinkel Karl Friedrich Città medioevale sulle rive di un fiume, Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie, 164

Schwabe Carlos La morte del becchino, Parigi, Musée du Louvre, 499 Locandina per la Galleria Paul DurandRuel, Collezione privata, 531

Schwind Moritz von Il re degli elfi, Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Neue Pinakothek, 203

Pinazo Camarlench Ignacio

Cosacchi di Zaporože, San Pietroburgo, Museo Statale Russo, 213 I battellieri del Volga, San Pietroburgo, Museo Statale Russo, 248 Sadko nel regno sottomarino, San Pietroburgo, Museo Statale Russo, 486, 508 Seduta cerimoniale del consiglio di Stato il 7 maggio 1901, nel centenario della sua fondazione, San Pietroburgo, Museo Statale Russo, 77 Manifestazione del 17 ottobre 1905, San Pietroburgo, Museo Statale Russo, 135

Le figlie del Cid, Valencia, Banco Urquijo, 181 Nudo, Madrid, Esperanza Pinazo, 524

Rodin Auguste

Sernesi Raffaello

Porta dell’inferno, Parigi, Musée Rodin, 188

Tetti al sole, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, 434

Scuola veneziana Ricevimento degli ambasciatori a Damasco, Parigi, Musée du Louvre, 364

Segantini Giovanni Il castigo delle lussuriose, Liverpool, Walker Art Gallery, 159 Le cattive madri, Vienna, Österreichische Galerie Belvedere, 158 Trittico delle Alpi, la morte, Sankt Moritz, Museo Segantini, 160

Poynter Edward John

Rodrigues António José

La grotta delle ninfe della tempesta, Collezione privata, 512 Serata in casa, Collezione privata, 313

Il violinista cieco, Lisbona, Museu do Chiado Museu Nacional de Arte Contemporânea, 84

Seurat Georges-Pierre

Romani Romolo

Severini Gino

Pratt Jonathan

L’urlo, Rovereto, MART, VAF Stiftung, 146 Ritratto di Vittore Grubicy de Dragon, Collezione privata, 146

Il treno della Croce rossa attraversa un villaggio, New York, Solomon R. Guggenheim Museum, 234 Natura morta con la rivista letteraria Nord-Sud (Omaggio a Reverdy), Collezione privata, 465 Treno blindato in azione, New York, Museum of Modern Art, 235

L’officina di Watt, Collezione privata, 240

Previati Gaetano La ferrovia del Pacifico, Milano, Camera di Commercio, 237 Le fumatrici di hashish, Collezione privata, 382-383 Morte di Paolo e Francesca, Bergamo, Galleria dell’Accademia Carrara, 196 Paolo e Francesca, Ferrara, Civica Galleria d’Arte Moderna, 197

Puebla Tolín Dióscoro Teófilo Le figlie del Cid, Madrid, Museo del Prado, Cason del buon retiro, 181

Ronzoni Pietro Filanda nel bergamasco, Milano, Gallerie d’Italia, Fondazione Cariplo, 241

Rossetti Dante Gabriel Il saluto di Beatrice, Ottawa, National Gallery of Canada, 201 Il sogno di Dante, Liverpool, Walker Art Gallery, 201 Monna Vanna, Londra, Tate Britain, 358 Venere Verticordia, Bournemouth, RussellCotes Art Gallery and Museum, 359

Il circo, Parigi, Musée d’Orsay, 334

Signol Émile Hector Berlioz, Roma, Villa Medici, Accademia di Francia, 68

Signorini Telemaco Firenze, Mercato Vecchio, Collezione privata, 424 L’alzaia, Collezione privata, 246-247

541

L’antica via del Fuoco, Bari, Pinacoteca Provinciale, 270 L’artiglieria toscana a Montechiaro salutata dai francesi feriti a Solferino, Collezione privata, 98 La Sala delle Agitate al San Bonifacio a Firenze, Venezia, Galleria internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro, 273 La toilette del mattino, Collezione privata, 340-341

Sironi Mario Paesaggio urbano con ciminiere, Milano, Pinacoteca di Brera, 280-281

Sisley Alfred La forgia a Marly-le-Roi, Parigi, Musée d’Orsay, 244

Sorolla y Bastida Joaquín Idillio al mare, New York, Hispanic Society of America, 344 Passeggiata al mare, Madrid, Museo Sorolla, 344

Spitzweg Carl Gnomo che guarda la prima ferrovia, Collezione privata, 218 Il cacciatore di farfalle, Wiesbaden, Wiesbaden Museum, 171 Il geologo, Wuppertal, Von-derHeydt Museum, 170 L’amico dei cactus, Schweinfurt, Georg Schäfer Museum, 170 La passeggiata domenicale, Salisburgo, Salzburg Museum, 172

Steinlen Henri Locandina del balletto Le Rève, Collezione privata, 409

Steinlen Théophile Alexandre Hotel La Baignoire Rouge, 482

Sterl Robert Hermann I battellieri del Volga, Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, Gemäldegalerie Neue Meister, 249

Stevens Alfred Il bagno, Parigi, Musée d’Orsay, 296-297 Notizie da lontano, Baltimora, Walters Art Museum, 295

Stieler Joseph Karl Johann Wolfgang von Goethe, Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Neue Pinakothek, 65, 68 Ludwig van Beethoven, Bonn, Beethoven Haus, 68

Stragliati Carlo Episodio delle Cinque giornate in piazza Sant’Alessandro, Milano, Civico Museo del Risorgimento, 109

Strehblow Heinrich Donne che ricamano in una bottega, Collezione Bachofen von Echt, 267

Stuck Franz von Il peccato, Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie, 497

Sussmann-Hellborn Louis Rosaspina, Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie, 393

Tiffany Atelier Lampada da tavolo “Pond lily”, Collezione privata, 525

542

Lampada da tavolo “Dragonfly”, Collezione privata, 528

Metropolitan Museum of Art, 414 Tramonto del sole, Collezione privata, 150

Tischbein Johann Heinrich Wilhelm

Van Gogh Vincent

Goethe alla finestra della sua casa romana, Francoforte, Freies Deutsches Hochstift, Goethe-Museum, 140

Campo di grano con corvi, Amsterdam, Museo Van Gogh, 153 Donne che raccolgono patate, Otterlo, Rijksmuseum Kröller-Müller, 263, 265 I mangiatori di patate, Otterlo, Rijksmuseum Kröller-Müller, 266 Iris, Los Angeles, J. Paul Getty Museum, 406-407 Père Tanguy, Parigi, Musée Rodin, 420 Ramo di mandorlo in fiore, Amsterdam, Van Gogh Museum, 411

Tissot James “Troppo presto”, Londra, Guildhall Library & Art Gallery, 316-317 Algeron Moses Marsden, Collezione privata, 328 Donne di Parigi: l’amante del circo, Boston, Museum of Fine Arts, 335, 336 Frederick Burnaby, Londra, National Portrait Gallery, 16 Gentiluomo in un vagone ferroviario, Worcester, Worcester Art Museum, 227 Giapponesina al bagno, Digione, Musée des Beaux-Arts, 408 Hush! (Il concerto), Manchester, Manchester Art Gallery, 320 Il Tamigi, Wakefield, Wakefield Museums and Galleries, 448 Il vaso giapponese, Collezione privata, 409 L’incontro di Faust e Margherita, Parigi, Musée d’Orsay, 182 Le signore dell’artista, Norfolk, VA, Chrysler Museum of Art, 308

Vela Vincenzo Spartaco, Ligornetto, Museo Vincenzo Vela, 108

Velde Henry van de Sedia “Bloemenwerf”, New York, The Metropolitan Museum of Art, 529

Verazzi Baldassare Le Cinque giornate di Milano. Combattimento a Palazzo Litta, Milano, Civico Museo del Risorgimento, 109

Vernet Émile Jean-Horace Mazeppa, Collezione privata, 211 Mazeppa e i lupi, Avignone, Musée Calvet, 211

Toma Gioacchino

Viotti Giulio

I figli del popolo, Bari, Pinacoteca provinciale, 93

Idillio a Tebe, Trieste, Museo Revoltella, Galleria d’Arte Moderna, 380

Toorop Jan

Walden Lionel

Fatalismo, Otterlo, Rijksmuseum Kröller-Muller, 503

I docks di Cardiff, Parigi, Musée d’Orsay, 251

Wardle Arthur

Toulmouche Auguste

La maliarda, Londra, Mallett Gallery, 493

Allo specchio, Parigi, Bibliothéque des Arts Décoratifs, 283 Ritratto stante della cantante Rose Caron, Parigi, Musée Carnavalet, 282

Waterhouse John William

Toulouse-Lautrec Henri de Al bar, Zurigo, Kunsthaus, 338 Al Salon di Rue des Moulins, Albi, Musée Toulouse-Lautrec, 339 Copertina de “La revue blanche”, Collezione privata, 533 Divano giapponese, New York, Museum of Modern Art, 409

Turner William Autoritratto, Londra, Tate Britain, 66, 69 La nave degli schiavi, Boston, Museum of Fine Arts, 151 La valorosa “Temeraire” trainata all’ultimo ancoraggio per essere demolita, Londra, National Gallery, 220-221 Pescatori in mare, Londra, Tate Britain, 154 Pioggia, vapore e velocità. La grande ferrovia occidentale, Londra, National Gallery, 223 Tramonto scarlatto, Londra, Tate Britain, 148

Eco e Narciso, Liverpool, Walker Art Gallery, 362 La Belle Dame sans Merci, Darmstadt, Hessisches Landesmuseum, 205

Werner Anton von Truppe in un edificio requisito a Parigi, Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie, 18

Whistler James Abbott McNeill Arrangiamento in bianco e nero, Washington, Freer Gallery of Art, Smithsonian Institution, 290 Sinfonia in bianco n. 1: La fanciulla in bianco, Washington, National Gallery of Art, 284 Sinfonia in bianco n. 2: La ragazza dal vestito bianco, Londra, Tate Gallery, 284 Sinfonia in bianco n. 3, Londra, Namur Archive, 285

Winterhalter Franz Xaver Ritratto dell’imperatrice Eugenia con le sue dame d’onore, Compiègne, Musée du Second-Empire, 84

Ukiyo-e (scuola)

Wolfers Philippe

Bambini che esaminano un elefante, Washington, Library of Congress, 417

Wright of Derby Joseph

Ciondolo a forma di libellula, 529

Utamaro Kitagawa

La fucina, Londra, Tate Britain, 242

Campanula grandiflora con insetti e fiori, Londra, British Museum, 405

Zampighi Eugenio

Vallotton Félix L’ammalata, Losanna, Collezione Josefowitz, 348 Scena di strada a Parigi, New York, The

Scena araba, Modena, Museo Civico d’Arte, 374

Zandomeneghi Federico Diego Martelli nel suo studio, Firenze, Galleria d’Arte Moderna, 430

CREDITI FOTOGRAFICI © 2011. Copyright The National Gallery, © 2012. Copyright The National Gallery, London/ Scala, Firenze, 88, 111, 220-221, 449, 452

© Bristol City Museum and Art Gallery/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 204 © British Library Board. All Rights Reserved/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 405, 411

© 2012. DeAgostini Picture Library/ Scala, Firenze, 109, 382-383, 430

© Centre Pompidou, MNAM-CCI, Dist. RMN-Grand Palais/Droits réservés-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 365

© 2012. Digital Image Museum Associates/ LACMA/Art Resource NY/Scala, Firenze, 11

© Christie’s Images Ltd-Artothek/ Archivi Alinari, 521

© 2012. Digital image, The Museum of Modern Art, New York/Scala, Firenze, 27, 127, 159, 233, 235, 276, 409, 463, 479, 498

© Christie’s Images/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 258

© 2012. Foto Art Media/Heritage Images/Scala, Firenze, 66, 69 © 2012. Foto Art Resource/ Scala, Firenze, 153, 168, 411 © 2012. Foto Art Resource/Scala, Firenze/John Bigelow Taylor, 132-133 © 2012. Foto Austrian Archives/ Scala, Firenze, 301, 421 © 2012. Foto Scala Firenze/ Heritage Images, 239, 316-317 © 2012. Foto Scala, Firenze – conc. MIBAC, 69, 81, 93, 97, 99, 125, 127, 143, 163, 225, 428, 430, 433, 435 © 2012. Foto Scala, Firenze, 22, 24, 68, 68, 74-75, 83, 89, 98, 121, 136, 136, 136, 137, 148, 251, 256-257, 271, 274-275, 279, 288, 323, 366, 381, 460, 478, 490, 504, 520 © 2012. Foto Scala, Firenze/BPK, Bildagentur für Kunst, Kultur und Geschichte, Berlin, 8, 18, 68, 72, 130, 131, 139, 139, 140, 141, 154, 154, 156, 158, 163, 164, 166, 203, 224, 238, 244, 268-269, 298, 355, 393, 412, 497, 507, 509 © 2012. Foto The Philadelphia Museum of Art/Art Resource/Scala, Firenze, 467 © 2012. Foto The Print Collector/ Heritage-Images/Scala, Firenze, 254 © 2012. Gaspart/Scala, Firenze, 244 © 2012. Image copyright The Metropolitan Museum of Art/Art Resource/Scala, Firenze, 200 © 2012. Image copyright The Metropolitan Museum of Art/Art Resource/Scala, Firenze, 78, 79, 85, 287, 294, 322, 347, 372, 414, 446, 446, 450, 451, 520, 529 © 2012. Museum of Fine Arts, Boston. Tutti i diritti riservati/Scala, Firenze, 305, 335, 336, 410 © 2012. Namur Archive/Scala, Firenze, 285 © 2012. Private Collections Images, London/Scala, Firenze, 344 © 2012. The Calouste Gulbenkian Foundation/Scala, Firenze, 529 © 2012. White Images/Scala, Firenze, copertina, 12-13, 68, 96, 96, 110, 209, 228, 282, 292, 305, 307, 420, 455, 458, 491 © 2012. Yale University Art Gallery/Art Resource, NY/Scala, Firenze, 293 © Agnew’s, London, UK The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 345 © Archivio Fotografico Mart, 146 © Archivio Luca Carrà, 126 © Artmedia/HIP/TopFoto/Archivi Alinari, 462 © Belvedere, Wien, 159 © BHVP/Roger-Viollet/Archivi Alinari, 457 © Bourne Gallery, Reigate, Surrey, UK/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 313

© Christopher Wood Gallery, London/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 204 © Collection Kröller-Müller Museum, Otterlo, 263, 265 © Dahesh Museum of Art, New York, USA The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 378 © Digital image, The Museum of Modern Art, New York/Scala, Firenze, 400, 401 © GNAM/Foto Alessandro Vasari, 167 © Guildhall Art Gallery, City of London/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 179 © Heeresgeschichtliches Museum Wien/ Militärhistorisches Institut, 104 © Herbert Art Gallery & Museum, Coventry, UK/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 352, 355 © Hippolyte-Auguste Collard/BHVP/ Roger-Viollet/Archivi Alinari, 457 © Lucian Freud Archive, 17

© RMN-Grand Palais (Musée d’Orsay)/ Adrien Didierjean-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 182, 194 © RMN-Grand Palais (Musée d’Orsay)/ Droits réservés-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 236 © RMN-Grand Palais (Musée d’Orsay)/ Gérard Blot/Hervé Lewandowski-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 309 © RMN-Grand Palais (Musée d’Orsay)/ Hervé Lewandowski-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 84, 85, 88, 89, 90, 129, 130-131, 172, 293, 293, 296-297, 304, 320, 324, 325, 327, 327, 328, 351, 442 © RMN-Grand Palais (Musée d’Orsay)/ Jean-Gilles Berizzi-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 245, 499 © RMN-Grand Palais (Musée d’Orsay)/ René-Gabriel Ojéda-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 250 © RMN-Grand Palais (Musée de l’Orangerie)/Daniel Arnaudet-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 444 © RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/Droits réservés-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 189 © RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/Gérard Blot-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 88 © RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/ Hervé Lewandowski-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 26, 55, 56, 85, 505

© Mallett Gallery, London, UK/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 493

© RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/Jean-Gilles Berizzi-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 194

© Musée d’Orsay, Dist. RMN-Grand Palais/ Patrice Schmidt-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 191, 330, 334, 443

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© Museum of London, UK/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 329 © National Portrait Gallery, London, 16

© RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/ Thierry Le Mage-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 106-107, 364, 368-369 © RMN-Grand Palais/Agence Bulloz-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 310, 331

© Philadelphia Museum of Art, 337

© RMN-Grand Palais/Droits réservésRéunion des Musées Nationaux/ distr. Alinari, 25, 84, 505

© Photo RMN Ð Bulloz Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 534

© RMN-Grand Palais/Gérard Blot-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 376

© RMN (Musée d’Orsay)/Droits réservés Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 482-483

© RMN-Grand Palais/Jean Schormans-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 178

© RMN (Musée d’Orsay)/Hervé Lewandowski-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 260, 263

© RMN-Grand Palais/Michèle Bellot/ Madeleine Coursaget-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 258, 303

© RMN (Musée d’Orsay)/JeanGilles Berizzi Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 500

© RMN-Grand Palais/Philipp Bernard-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 243, 243

© RMN-Grand Palais (Château de Versailles)/Gérard Blot-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 69, 183

© RMN-Grand Palais/RenéGabriel Ojéda-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 259

© RMN-Grand Palais (Château de Versailles)/Hervé Lewandowski-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 299

© Royal Holloway and Bedford New College, Surrey, UK/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 379

© RMN-Grand Palais (Domaine de Chantilly)/Harry Bréjat-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 87, 88

© Royal Museums of Fine Arts of Belgium, Brussels, 249, 262

© Nolde Stiftung Seebuell, 149

© RMN-Grand Palais (Musée d’Orsay)/A. Danvers-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 318

© Russell-Cotes Art Gallery and Museum, Bournemouth, UK/Supported by the National Art Collections Fund/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 359

543

© Solomon R. Guggenheim Museum, New York Solomon R. Guggenheim Founding Collection, 234

Courtesy Galleria Pananti, Firenze, 430-431

Mondadori Portfolio – conc. MIBAC, 200

Courtesy National Gallery of Art, Washington, 85, 162, 174, 284, 295, 312, 453

© Staatliche Kunstsammlungen Dresden/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 252-253

Culture-images, 457

Mondadori Portfolio/AKG Images, 22, 112, 141, 141, 142, 151, 155, 165, 165, 170, 170, 171, 172, 176, 178, 232, 242, 249, 312-313, 319, 326, 338, 339, 344, 363, 367, 373, 408, 440, 461, 464, 465, 466, 484-485, 494, 496, 502, 510-511, 516, 527, 531

© Tate, London, 190, 397 © The Art Institute of Chicago, 524 © The Cleveland Museum of Art, 475 © The Makins Collection/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 356 © The Trustees of the British Museum, 417 © Tokyo Fuji Art Museum, Tokyo, Japan/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 404 © Tyne & Wear Archives & Museums/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 514 © Walker Art Gallery, National Museums Liverpool/The Bridgeman Art Library/ Archivi Alinari, 159, 201, 362 © Worcester Art Museum, Worcester, Massachusetts, 227

Culture-images/GP, 279 DeA Picture Library, concesso in licenza ad Alinari, Firenze, 60, 65, 68, 68, 68, 69, 69, 79, 95, 99, 100-101, 158, 160, 226, 245, 270, 273, 284, 311, 358, 378, 380, 426-427, 431, 432, 436, 512 Dépôt du Louvre au Musée des Beaux-Arts de Strasbourg, photo N. Fussler, 214 Droits d’auteur: © Guimard HectorCrédit photographique: © RMN-Grand Palais (Musée d’Orsay)/Hervé Lewandowski-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 531 Droits d’auteur: © Succession Picasso SIAE-Gestion droits d’auteur Crédit photographique: © RMN-Grand Palais/ Jean-Gilles Berizzi-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 73

Acquired 1923 The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 454, 456

Fine Art Images, 389, 389

Archives Charmet/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 10, 11, 283

Fine Art Photographic Library/ SuperStock, 201

Archivi Alinari – conc. MIBAC, 69, 104, 280-281, 390, 434

Fondation Félix Vallotton, Lausanne, 150

Archivi Alinari, Firenze, 122-123, 144, 147, 147, 270, 342-343, 515 Archivio Daverio. Si ringrazia la Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano per la collaborazione e la disponibilità, 61, 61, 61 Archivio Philippe Daverio, 82, 381, 381 Archivio RCS, 11, 14, 20, 22, 102-103, 146, 162, 170, 170, 192, 197, 199, 224, 236, 250, 272, 277, 277, 278, 314, 315, 328, 340-341, 344, 374, 374, 385, 388, 391, 391, 413, 413, 417, 482, 484, 487, 495, 510, 513, 518, 518, 518, 518, 519, 523, 524, 525, 527, 529, 529 Archivio Seat/Archivi Alinari, 93 Artothek/Archivi Alinari, 218, 272 Bequest from the Collection of Maurice Wertheim, Class 1906/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 229

Fine Art Images/SuperStock, 206, 288, 375

Fondazione Gottfried Keller; foto: Mauro Zeni, 108 Foto Cameraphoto/Scala, Firenze © 2012 Mondrian/Holtzman Trust c/o HCR International USA, 402-403 Foto Peter Barritt/SuperStock, 188 Foto Saporetti © Comune di Milano – tutti i diritti riservati – Milano, Museo del Risorgimento, 109 Foto Saporetti © Galleria d’Arte Moderna, Milano, 108 Foto: Christel Lehmann, Berlin © Stiftung Stadtmuseum Berlin, 390 Founders Society Purchase, R.H. Tannahill Foundation fund/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 330, 332

Bologna, Collezioni comunali d’Arte, 370

Freer Gallery of Art, Smithsonian Institution, Washington, D.C.: Gift of Charles Lang Freer (F1904.78), 290

By courtesy of Julian Hartnoll/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 175

Gift of Anna Ferris/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 415

Cameraphoto Arte, Venezia, 114, 509

Gift of Marion Cutter/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 404

Mondadori Portfolio/Album, 181, 181 Mondadori Portfolio/Electa, 180, 197, 230-231, 237, 246-247, 423, 424, 437 Mondadori Portfolio/Leemage, 59, 135, 192, 211, 248, 263, 264, 277, 486, 508 Mondadori Portfolio/Picture Desk/Art Archive, 94, 145, 306, 331, 333, 409, 417 Montanhistorisches Dokumentationszentrum beim Deutschen Bergbau-Museum Bochum (033303908000), 278 Norton Simon Art Foundation, 338 Paul Mellon Collection/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 365 Photo © Bonhams, London, UK/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 528 Photo © Christie’s Images/The Bridgeman Art Library, 260, 396-397, 465 Photo © Christie’s Images/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 395, 525, 526 Photo © Peter Nahum at The Leicester Galleries, London/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 409 Photo: Imaging Department © President and Fellows of Harvard College, 190 Photograph © 2012 Culture-images/Museum of Fine Arts, Boston. All rights reserved, 405 Photography © The Art Institute of Chicago, 261, 406 Picture-Alliance/dpa, 385, 410 Reproduced by courtesy of the Charles Dickens Museum, London, 398-399 SuperStock, 506 Terra Foundation for American Art, Chicago/Art Resource, NY, 453 The Barnes Foundation, Merion, Pennsylvania, USA/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 445

Chrysler Museum of Art, Norfolk, Virginia, Gift of Walter P. Chrysler, Jr., and The Grandy Fund, Landmark Communications Fund, and “An Affair to Remember” (1982, 81.153), 308

Gift of Mr. and Mrs. F. Meynier de Salinelles/ The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 473

The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 10, 68, 69, 69, 77, 84, 85, 86, 138, 152, 152, 153, 161, 184-185, 193, 196, 204, 204, 205, 222, 223, 225, 227, 240, 242, 254, 295, 311, 320, 346, 354, 361, 361, 363, 375, 377, 386, 387, 387, 392, 406, 415, 416, 428, 448, 450, 476, 476, 477, 480, 481, 492, 497, 501, 503, 512, 530, 530, 532, 533

Gift of William Augustus White/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 198

The Granger Collection/ Archivi Alinari, 494-495

Colecão Museu Nacional de Belas Artes/IBRAM/MinC., 319

Giraudon/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 211, 211, 213, 420, 457, 470, 484

Collezione Cariplo, Gallerie d’ItaliaPiazza Scala, Milano, 91, 92, 241

Henry Lillie Pierce Fund/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 151

The Hayden Collection – Charles Henry Hayden Fund/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 321

Contrasto/AgeFotostock, 404

Iberfoto/Archivi Alinari, 70-71, 134, 134

Contrasto/Lessing, 21, 140, 148, 154, 169, 169, 210, 266, 266, 348, 360

Image © 2012 The Barnes Foundation, 337

Christie’s Images Ltd./SuperStock, 349

Courtauld Institute of Art/Archivi Alinari, Firenze, 22, 400

J. Paul Getty Museum, Los Angeles/ The Bridgeman Art Library/ Archivi Alinari, 406-407

Courtesy Archivio R.M. Baldessari, 233

Leemage/Photoaisa, 240

Courtesy Collezione Bachofen von Echt, 267

Luisa Ricciarini Photoagency, 521

L’editore è a disposizione degli aventi diritto per eventuali fonti iconografiche non identificate

544

The Morgan Wesson Memorial Collection, Michele and Donald D’Amour Museum of Fine Arts, Springfield, Massachusetts/ Photograph by David Stansbury, 186 The Mr and Mrs Carroll S. Tyson, Jr Collection, 1963/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 474 The Stapleton Collection/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 173, 531