Il riso di Talete. Matematica e umorismo
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Risvolti di copertina Il riso è uno scoppio di energia incontrollata, un rivolgimento umorale, insomma una catastrofe fisiologica (e anche sociale, se si ride a sproposito). Ma le catastrofi sono quelle strane discontinuità studiate dai matematici. È possibile affidare a loro una teoria del riso? Nell’opinione comune i matematici sono incapaci di emozioni, sono robot, macchine, magari geni, ma vorreste davvero essere come loro? Non meno degli italici carabinieri oggetto di riso, personaggi di barzellette, fin da quando Talete fece ridere la serva tracia cadendo in una buca perché camminava guardando le stelle. Ma il nostro agente all’Avana, infiltrato nell’isolata e ben munita torre d’avorio dei matematici, ci fa pervenire rapporti che rivelano come siano loro, i matematici, tra i più prolifici autori e inventori di umorismo, storie, barzellette, aneddoti, prese in giro di colleghi e di se stessi, delle proprie manie e del gergo scientifico e accademico. Forse perché il loro lavoro consiste soltanto nel pensare, senza vincoli espliciti posti dalla durezza della natura, dagli obblighi del laboratorio, hanno un mucchio di tempo per liberare la fantasia, anche al di là delle loro costruzioni, come se non gli bastasse già inventare catastrofi, spazi a infinite dimensioni, fogli con una sola faccia. Così dedicano molto tempo a creare poesie, storielle, giochi, soprattutto giochi, che fanno passare anche come cose serie. Persino uno dei più importanti matematici del Novecento, Bourbaki, è frutto di fantasia: la sua vita fu un fuoco d’artificio di umorismo. Quando sono in vena di cattiveria, poi, i matematici si divertono a costruire paradossi, mettendo in crisi con una risata i filosofi e tutti coloro che si spingono improvvidi ai limiti del pensiero, inclusi se stessi.

Gabriele Lolli è professore di Logica matematica presso l’Università di Torino.

Variantine

Gabriele Lolli

Il riso di Talete Matematica e umorismo

Bollati Boringhieri

Prima edizione 1998 Ristampa aprile 2002 © 1998 Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86 I diritti di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati. Stampato in Italia dalla Stampatre di Torino isbn 88-339-1069-5 Schema grafico della copertina di Pierluigi Cerri Stampato su carta Palatina delle Cartiere Miliani Fabriano

Il riso di Talete

«Matematica e umorismo» prende lo spunto da un intervento svolto al Convegno Matematica e Cultura, organizzato dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Venezia, 21-22 marzo 1997. «Paradossi, paradossi, paradossi» è il testo di una conversazione tenuta al Cenacolo dell’ultimo venerdì, Torino, 24 novembre 1995.

Matematica e umorismo

Un sorriso incredulo e ironico è la reazione più comune all’accostamento tra matematica e umorismo. Questo impulso tuttavia rivela che l’argomento non è vuoto: fa ridere l’idea che la matematica possa far ridere; ma allora l’intersezione non è vuota, e non c’è niente da ridere, possiamo andare avanti. Intendiamo dimostrare che l’intersezione non si esaurisce in questo paradosso, altrimenti non ci sarebbe nulla da aggiungere. L’immagine diffusa del matematico è in verità piuttosto deprimente, mentre quella degli scienziati in genere è già più varia ed eroica, caratterizzata da elementi ricorrenti come megalomania, volontà di potenza o pazzia furiosa. Per il matematico e le sue creazioni sembra che l’unica descrizione popolare sia quella dei robot. Una conferma autorevole deriva dagli elementi che filtrano dall’interno stesso del loro mondo; si goda il seguente ritratto di Alonzo Church1 nella Princeton degli anni cin1 A. Church è stato uno dei più importanti logici del secolo, il primo con A. Turing a dimostrare nel 1936 l’esistenza di problemi ricorsivamente indecidibili, e in particolare l’indecidibilità della logica. Il suo testo Introduction to Mathematical Logic I (Princeton University Press, Princeton 1956), di cui si parla nel seguito, non ha confronti per completezza e profondità di visione.

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quanta, ritratto impietoso ma fatto probabilmente in tutta onestà, fors’anche con affetto, e delineato con pathos manzoniano:2 Parlava lentamente in capoversi conchiusi che sembravano tratti da un libro e che venivano uniformemente scanditi, come da una macchina parlante. Se interrotto, avrebbe indugiato per un intervallo penosamente lungo prima di riprendere il filo del ragionamento. Non faceva mai osservazioni casuali: non facevano parte del bagaglio della logica formale… Ogni lezione aveva inizio con una cerimonia di dieci minuti per cancellare la lavagna fino a che non fosse perfettamente pulita. Cercammo, cancellando la lavagna prima del suo arrivo, di sollevarlo dallo sforzo, ma senza alcun profitto: non ci si poteva sbarazzare di quel rituale che spesso richiedeva anche acqua, sapone e spazzola ed era seguito da altri dieci minuti di totale silenzio mentre la lavagna si asciugava. Forse, mentre cancellava, preparava la lezione; ma io non credo che fosse così. Le sue lezioni non avevano alcun bisogno di preparazione: erano una ripetizione letterale del testo dattiloscritto che aveva elaborato nel corso di venti anni, una copia del quale si poteva trovare al piano di sopra nella biblioteca di Fine Hall… Per maggior precisione, qualunque cosa dicesse (fatta eccezione per alcune affascinanti divagazioni che inevitabilmente faceva precedere da una frase del tipo: «Ora mi interromperò e farò un’osservazione metamatematica») veniva scritta con cura sulla lavagna, completa di segni di interpunzione e di capoversi.

L’unica caratterizzazione naturale per questi robot sembra dunque proprio la mancanza di humour, perfino quando giocano: I «giocatori» di von Neumann, e la sua teoria dei giochi, differiscono profondamente dalle persone e da tutti i mammife2 Gian-Carlo Rota, Fine Hall nell’età dell’oro, in Pensieri discreti, Garzanti, Milano 1993, pp. 68-86.



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ri, in quanto questi robot mancano totalmente di humour e sono del tutto incapaci di «giocare» (nel senso in cui la parola è applicata a cuccioli e gattini).3

I pettegolezzi si alimentano delle notizie relative ai frequenti, nella storia, casi di ricoveri in manicomio, da Cantor a Gödel a Nash. Se non è matto, è triste: il Master Mathematician del Principe Felice di Oscar Wilde si rabbuiava, perché «disapprovava che i bambini sognassero». È vero che non mancano voci contrarie: Weierstrass dichiarava che nessun matematico poteva essere perfetto se non era anche un po’ poeta; Novalis affermava che il vero matematico è un entusiasta. Goethe ha indicato due esempi di umanità che arriva ad assomigliare a Dio, quella di chi difende una giusta causa e quella del matematico che indaga i cieli stellati. Ma si tratta di voci isolate, o tenute nascoste, e non molto condivise. Anch’esse fanno ridere, in accordo con la teoria del riso che ne vede la causa nell’incongruità, negli accostamenti di aspetti incompatibili o male assortiti.4 Peraltro secondo un’altra teoria del riso, dovuta a Henri Bergson, è proprio «il meccanico incrostato su un essere vivente» a provocare il sorriso; si ride quando una persona dà l’impressione di essere una cosa, e ha un comportamento rigido, ripetitivo, meccanico. Da questo punto di vista, i matematici e la matematica dell’immagine stereotipata corrente, proprio perché incapaci di riso, possono essere oggetto di riso. La matematica come oggetto di umorismo si manifesta innanzi tutto, come è ovvio, nelle barzellette. 3 Gregory Bateson, citato da W. Poundstone, Prisoner’s Dilemma: Von Neumann and the Theory of Games, Doubleday, New York 1902 4 Teoria dovuta a James Beattie (1776), che notò anche come, riso e ghigno nervoso dovuto a paura o disagio siano spesso associati.

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La matematica come oggetto di umorismo: barzellette e aneddoti Le barzellette si distribuiscono in una varia casistica; ci sono ad esempio quelle che mettono a confronto gli atteggiamenti mentali dei matematici rispetto ai colleghi e rivali, fisici e ingegneri. Eccone alcuni esempi:5 Una prova attitudinale rivolta a un fisico e a un matematico chiede la sequenza di azioni necessarie per far bollire una pentola d’acqua, in una cucina in cui c’è una pentola vuota, un rubinetto, un fornello a gas, fiammiferi. Entrambi rispondono con l’ovvia sequenza: «Riempio la pentola d’acqua, la metto sul fornello, accendo il fuoco». Segue una nuova prova, in cui le condizioni sono le stesse, salvo che ora la pentola è piena d’acqua. Il fisico risponde: «Metto la pentola sul fornello e accendo il fuoco». Il matematico invece inizia dicendo: «Butto via l’acqua dalla pentola», ma poi si ferma. Perché? «Perché così mi riporto alle condizioni iniziali di un problema che conosco come risolvibile». Un matematico, un fisico e un ingegnere sono sottoposti a una prova di sopravvivenza, chiusi ciascuno in una stanza spoglia di tutto fuorché di un materasso, con una scatola di sardine sigillata e una forchetta. Dopo un mese di clausura, quando vengono riaperte le stanze, il fisico è morto appoggiato al muro su cui ha inciso, con la punta della forchetta, complicati calcoli sull’energia dei possibili impatti della scatoletta sulle diverse regioni dei muri, secondo diversi angoli di incidenza. L’ingegnere è morto con i muscoli contorti dallo sforzo e con la forchetta deformata dal tentativo di trasformarla in leva per forzare la scatoletta. Il matematico è disteso immobile sul materasso, ma sembra respirare debolmente e muovere le labbra. Avvicinandosi, lo si 5

Tradizione orale.



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sente sussurrare con fatica: «Supponiamo… per assurdo… che la scatoletta… sia aperta…»

Circola anche, vergognosamente, una versione al contrario in cui il fisico e l’ingegnere sono sopravvissuti risolvendo ciascuno a suo modo, ma non si sa come, il problema di aprire la scatoletta, mentre il matematico è morto dopo aver riempito tutti i muri con una lunga dimostrazione, incisa con la forchetta, che inizia con: «Supponiamo per assurdo che la scatoletta sia aperta…»6 Questa versione spuria è da rifiutare non tanto per motivi ideologici, quanto perché manca completamente di realismo e non si può chiudere con una punch line decente. Talvolta i matematici recitano soli, facendo la figura dei perfetti deficienti: Un matematico non prendeva mai l’aereo perché aveva calcolato la probabilità che su un volo ci fosse una bomba e l’aveva trovata alta in modo preoccupante, finché un giorno un collega, con grande sorpresa, se lo trova accanto su un aereo, e gli ricorda quei calcoli. Il matematico rivela di aver proseguito la sua ricerca, calcolando anche la probabilità che su uno stesso volo ci siano due bombe, e questa è davvero trascurabile – confida con un ghigno al collega, mentre ammiccando indica il proprio bagaglio a mano sospettosamente rigonfio.

Oppure dimostrano di non essere adatti alla vita quotidiana, quando emergono dalle fantasticherie che inseguono nei loro pensieri: Il figlio di un logico torna a casa e racconta che è arrivato a scuola un nuovo compagno, ma è difficile parlargli, perché non sa 6 E forse termina con «Non ho tempo», oppure «Non ho abbastanza spazio», come Galois e Fermat.

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una parola di italiano. «Ah sì?», chiede il padre sovrapensiero, «Quale?»

Solo loro si divertono alle loro freddure, non certo quello studente che all’esame di logica vede il professore incerto sul giudizio. – Sono promosso o bocciato? – chiede. – Sì. Oltre alle barzellette i matematici si dilettano (e dilettano, come protagonisti) di aneddoti, inventati ma più spesso veri, anche se è difficile distinguerli; la caratteristica più frequentemente messa in risalto è quella della distrazione, che negli atteggiamenti benevoli è vista come il complemento di una concentrazione eccezionale. Si ricorda la proverbiale distrazione di Newton che, alzatosi da tavola per andare a prendere una bottiglia di vino da offrire agli invitati, lungo la strada per la cantina si dimenticava di cosa doveva fare e si rintanava in camera a lavorare. Una variante della stessa storia è riferita a Hilbert, che si sarebbe messo a letto dopo essere stato mandato dalla moglie in camera a cambiarsi la camicia per cena e aver iniziato la usuale catena di gesti serotini. Di Paul Lévy si racconta che una sera fu invitato a un ricevimento in suo onore; incontrandolo il giorno dopo, l’ospite gli assicurò di aver molto apprezzato la serata precedente e Lévy di rimando: «Ah sì? E cosa ha fatto ieri sera?» La distrazione arriva ad applicarsi ai propri prodotti, come in J.J. Sylvester, che una volta rimproverò uno studente per aver usato in un lavoro una proposizione «insensata e indimostrabile», che risultò invece essere proprio un teorema di Sylvester. Lo stesso incidente capitò a Norbert Wiener, di solito molto litigioso nel pretendere



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e puntualizzare di aver anticipato diversi risultati che si pensavano dovuti ad altri, il quale nel suo libro sull’integrale di Fourier attribuì uno dei propri risultati più importanti a Denjoy e Lusin.7 Il mio aneddoto preferito, sulla distrazione, riguarda proprio Wiener: In previsione di dover cambiare casa, e quindi le abitudini di percorso per andare e tornare dal lavoro, sia pure rimanendo nello stesso quartiere, la famiglia preoccupata lo prepara facendogli provare più volte nei giorni precedenti il nuovo tragitto con la nuova fermata dell’autobus. Il giorno fatidico, naturalmente, Wiener scende alla solita fermata, poi in vista della sua vecchia casa si ricorda del trasloco, prova a ritrovare la strada, si perde, gira per il quartiere. A un certo punto vede una ragazzina che gli viene incontro: – Scusa fanciulla, non sai mica se oggi da queste parti c’è stato il trasloco di un professore del mit? – Sì papà, mamma mi ha mandato a cercarti, vieni che ti accompagno a casa.

La distrazione si accompagna spesso alla fissazione monomaniacale, di cui ci offre un esempio recente Kurt Gödel. Egli riteneva di aver individuato un baco nella Costituzione degli Stati Uniti, che a suo parere permetteva l’avvento di uno Stato totalitario; ne voleva parlare all’esame per ottenere la cittadinanza, quando il funzionario cominciò a esaltare la democrazia americana rispetto al suo paese di provenienza, e fu trattenuto a fatica da Einstein che lo aveva accompagnato. 7 Molti e altri di questi aneddoti si trovano in R. E. Moritz, Memorabilia Mathematica, The Mathematical Association of America, Washington 1914 e in R. Schmalz, Out of the Mouths of Mathematicians, The Mathematical Association of America, Washington 1993.

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Tra gli aneddoti che registrano gaffe ce ne è uno sempre su Wiener, che quando andò a lavorare in Inghilterra e fu presentato a Littlewood, collaboratore di Hardy, non seppe trattenersi dall’esclamare: «Ma allora esiste davvero! Credevo fosse uno pseudonimo di Hardy per i suoi lavori minori». Peraltro non era l’unico a pensarla così; dicono che Landau fece apposta un viaggio in Inghilterra per verificare se Littlewood esisteva davvero. Il riso della donna di Tracia Gli aneddoti sono raccontati per far ridere, a spese dei matematici. Quando sono raccontati (o inventati?) dai colleghi, hanno un tono di simpatia,8 ma quando sono raccontati da estranei, le motivazioni sono meno nobili, e molto più importanti e contorte. Proprio all’inizio del pensiero occidentale esplode una sonora, cristallina risata di scherno nei confronti della scienza, quella della servetta tracia che vide Talete camminare a testa alta guardando le stelle e cadere in una buca. Talete fu il primo filosofo a rifiutare la proliferazione degli dei (indicando nell’acqua l’unico principio di tutte le cose), il primo scienziato capace di prevedere (l’eclisse del 585 a. C.) e controllare con profitto la natura (il raccolto delle olive), il primo intellettuale a dare suggerimenti sag8 Si conoscono anche aneddoti lusinghieri, volti a mettere in luce la potenza, come quello su Paul Cohen che un giorno chiese a un gruppo di colleghi se secondo loro sarebbe diventato più famoso risolvendo un certo problema di Hilbert o l’ipotesi del continuo. Confortato dal sondaggio, si mise a studiare logica e dopo un anno portò a Gödel la soluzione (Gödel, in uno dei suoi periodi ipocondriaci, non gli aprì, prendendo il manoscritto da una fessura e sbattendo subito la porta).



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gi e non ascoltati per l’organizzazione politica delle città, il primo matematico a capire la necessità delle dimostrazioni. Non è da meravigliarsi se è diventato l’archetipo dello scienziato, e se è ricordato in continuazione nella storia del pensiero occidentale con quell’aneddoto, che nelle sue varianti esprime i diversi atteggiamenti che si sono alternati o ripetuti nei confronti della ricerca del sapere.9 Si trova nelle favole di Esopo per la prima volta la storia di un astronomo che cade in una buca, con il seguente commento: «Tu cerchi di sapere quello che è in cielo e intanto non vedi quello che c’è sulla Terra». Platone nel Teeteto attribuisce l’avventura a Talete e alla serva tracia che ne ride, ma suggerisce una lettura relativa alla filosofia: il filosofo socratico è estraniato dagli uomini perché si occupa dell’essenza dell’uomo. Bisogna dire che Aristotele, invece, di Talete riporta con ammirazione i successi economici. Nel racconto di Diogene Laerzio, Talete è vecchio e cieco e cade per questo in una buca mentre è accompagnato da una vecchia che lo assiste. In questa versione l’aneddoto richiama l’incompatibilità dell’aspirazione al sapere con la finitezza della vita. I Padri della Chiesa disprezzano il tentativo di indagare i caelestia, e coloro che volgono l’attenzione alle cose create invece che al loro creatore. Giovanni Crisostomo afferma che Gesù non ha mai riso. La caduta di Talete diventa una metafora, la fossa dell’ignoranza del sapiente. Nel secolo xi ritorna l’astronomo che cade nel pozzo con Pier Damiani, a difesa dell’onnipotenza divina, contro l’ars verborum che riguarda ciò che è limitato dalla sfera della contemporaneità e del tempo (da cui la signifi9 D’obbligo è il rinvio al più (o all’unico) bel libro di H. Blumenberg, Il riso della donna di Tracia, il Mulino, Bologna 1988.

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catività dell’essere astronomo, che però è uguale a essere matematico). Se qualcuno lo avvicina a Icaro, più frequentemente Talete è svilito, durante il Medioevo, e paragonato a quelli che si ubriacano facendo bisboccia la notte; in Chaucer, che accosta astrologia e vana curiosità, la storia si fa piccante, storia di corna, come anche in Sadi, dove l’astrologo torna a casa e trova la moglie che lo tradisce. Guicciardini prende lo spunto dall’aneddoto per lamentare che gli indagatori del futuro quasi mai capiscono qualcosa del presente. Nel Cinquecento la storia viene usata contro le astrusità astronomiche, più precisamente astrologiche, dei matematici. Anche La Fontaine la rivolgerà contro gli astrologi che fiorivano e facevano affari intorno al passaggio della cometa di Halley; Voltaire protesta indignato, per lui l’astrologia è una ciarlataneria non perché vuole leggere il cielo, ma perché vuole far credere vi sia scritto quello che non vi si può leggere. Bacone lo aveva citato per invitare a guardare nell’acqua il riflesso delle stelle: le cose piccole e vicine spesso contribuiscono alla conoscenza più di quelle grandi e lontane. Kant adatta l’episodio a Tycho Brahe e al suo cocchiere, rivolgendolo contro i filosofi, che «puntano con scrupolo e impegno i loro binocoli metafisici verso quelle zone remote e di esse sanno raccontare cose meravigliose». Le osservazioni e i calcoli degli astronomi ci hanno rivelato l’abisso d’ignoranza, che la ragione umana non avrebbe mai potuto immaginare senza queste conoscenze. Il terremoto di Lisbona sostituisce in Kant la servetta nella sua funzione di coro. Samuel Richardson riprende la versione morale, con l’invito a non immischiarsi nelle faccende altrui trascurando le proprie. Montaigne modifica l’aneddoto con una



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donna che fa inciampare lo scienziato per poi consigliarlo di guardare piuttosto a sé che al cielo; il suo invito non è di tono socratico, ma mosso da uno scetticismo radicale sulla possibilità di conoscere: è ridicolo per Montaigne insegnare ai bambini l’ottava sfera prima che siano pratici della prima. Bisogna arrivare a Feuerbach per trovare finalmente qualcuno che difende Talete. Quando all’inizio di una vicenda storica chi ne rappresenta la forza propulsiva viene deriso, queste risate si rivoltano contro chi le emette, se si deve presumere che è la specie stessa che lo spinge verso i propri fini e lo determina con la propria precognizione. Un realismo come quello della servetta è solo questione di insufficiente contemporaneità. Il vero realista è chi opera al non riconosciuto servizio della storia. L’uomo, considerato come genere, non vuole sapere ciò che non si può sapere, contrariamente al senso che si dà spesso al riso della donna. Egli vuole sapere ciò che adesso di fatto non si sa ancora ma che si può sapere. Nietzsche ammira in Talete il realista, che ha incominciato a guardare la natura nelle sue profondità, senza ricorrere a invenzioni fantastiche, e questo realismo è condizione per la sopravvivenza della polis. Il senso dell’unità e della necessità di semplificazione lo ha portato alla liberazione dagli dei. Quello che hanno compiuto Talete e i suoi successori merita invero una considerazione diversa dall’autodifesa per mezzo del riso, ma Feuerbach sapeva bene che «nell’ignoranza l’uomo è a casa propria, nella propria patria; nella scienza, è in un paese straniero». Le barzellette sui matematici possono essere accostate a quelle sugli stranieri, sconosciuti e inquietanti.

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I matematici produttori di umorismo: i discendenti di Lewis Carroll Contro la teoria di Bergson, bisogna osservare che le barzellette sono di solito inventate dai matematici stessi e circolano soprattutto tra di essi, perché nessuno conosce i particolari tecnici, o i modi di dire, i vezzi tipici della professione, che si prestano al sorriso e all’autoironia. Spesso chi non è matematico non le capisce, non le può capire, e deve ridere a denti stretti, con «quelle risate che accompagnano le cose incomprensibili».10 Solo chi abbia provato a studiare l’Analisi matematica può apprezzare la battuta che il professor Francesco G. Tricomi amava ripetere una volta all’anno a lezione, per la gioia forzata degli studenti, mentre a voce enunciava «preso un ε piccolo a piacere» e sulla lavagna scriveva un ε minuscolo e quasi invisibile. Inoltre è da osservare che gli aneddoti nascono naturalmente e si alimentano negli ambienti matematici, nelle pause per il caffè o durante le feste di dipartimento. Dunque i matematici non sono solo oggetto di riso, ma soggetti, creatori di humour. Oltre alle barzellette e agli aneddoti, si deve registrare infatti un’attività spiritosa di vario genere che viene presa molto sul serio nella comunità: non solo barzellette anonime ma per così dire opere d’arte firmate, poesie, limerick, giochi di parole, storie, da parte di sempre nuovi discendenti di Lewis Carroll.11 10 T. Mann, Considerazioni di un impolitico, Adelphi, Milano 1997; ed. orig. 1918. 11 Sulle inesauribili invenzioni di L. Carroll si veda The Magic of Lewis Carroll, a cura di J. Fisher, Penguin Books, Middlesex 1973.



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Si consideri ad esempio la seguente piccola antologia di Spoon River in miniatura su soggetti matematici:12 Qui giace la parte principale di Mittag-Leffler Dirichlet riposa entro questo contorno A queste coordinate giace Cartesio Eulero costante Pascal giace qui, probabilmente (Pascal giace qui, potete scommetterci) Riemann riposa sotto la superficie Sotto questa pietra è una rappresentazione di Marshall In questo spazio giace David Hilbert Qui riposa il povero Fourier, fattorizzato nelle sue componenti pure Qui riposa Joseph Louis Liouville, intero, ma limitato e costante (Qui ha scelto di stare Gödel, incompleto)

Le poesie sono di generi diversi, spaziano dall’ironico al polemico, al serio, al didattico; quando un matematico vuole intervenire su problemi curricolari, scrive una poesia, ma lo fa anche magari perché ama la matematica: C’è un delta per ogni epsilon (calipso)13 Sì, c’è un delta per ogni epsilon, puoi sempre contarci su. C’è un delta per ogni epsilon, e qualche volta c’è anche un N. 12 Dovuta a M. Machover, in «The Mathematical Intelligencer», XVIII (1996), n. 4, p. 6. Le parentesi sono interpolazioni. Diamo anche la versione inglese, perché alcuni necrologi perdono nella traduzione, o sono intraducibili: «Here lies the principal part of Mittag-Leffler – Dirichlet lies within this boundary – At these coordinate lies René Descartes – Euler’s Constant – Pascal lies here, probably – Riemann lies under the surface – Under this stone lies a representation of Marshall – In this space lies David Hilbert – Here lies poor Joseph Fourier, factored into his pure components – Here lies Joseph Louis Liouville, entire, but bounded and Constant». 13 T. Lehrer, in «American Mathematical Monthly», LXXXI (1974), p. 612.

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Una condizione devo dar: l’epsìlon positivo sarà. Vita triste per tutti gli altri, Mai in un teorema un delta per loro.

Algoritmi14 Anni fa, a scuola, il prof diceva: «Ogni problema ha la sua regola, fate solo così». Ma all’università mi han detto che devo applicare le conoscenze, diffidare delle regole. La New Math voleva che ogni bimbo ci provasse. Non importa cosa, ma dire almeno il perché. Poi vennero i computer, e gli algoritmi, sì, non puoi più sbagliare, anche se vuoi. Un algoritmo? Ma è una regola, una ricetta, indietro si torna a scuola! 14 R. P. Boas, Lion Hunting & Other Mathematical Pursuits, The Mathematical Association of America, Washington 1995.



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Il Tricheco e il Mandelbrot15 «È venuto il tempo», disse il Tricheco, «di parlare di molte cose. Di insiemi di Julia e di polvere di Fatou, orecchie di futuri re, e farfalle e leprotti e se le curve dei draghi hanno le ali. Ho sentito parlare molto di queste forme le ho guardate sugli schermi ma ancora non capisco cosa significano. Dimmi per favore gentile Mandelbrot, spiegami le cose che ho visto». «Esempi», grida il Tricheco, «ecco cosa hai bisogno di vedere. Ti mostrerò come farti i tuoi. È facile, parti con uno semplice come questo: una retta spezzata in tre».

Alcune hanno un valore poetico, come il seguente brano tratto da una poesia sulle donne e la matematica: Se le chiedi «Perché matematica?» risponderà «Come la fantascienza». Stessa confusione, stessa furia. Stessa espansione sull’universo. E non solo l’infinito. Ma ogni singolo conto. Specialmente le singole cifre. Ciascuna, separata, una perla.

15 P. R. Cromwell, The Walrus and the Mandelbrot, in «The Mathematical Intelligencer», XVII (1995), n. 2, p. 40.

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Ciascuna, separata, un volto. Un naso. Un bocciolo. Un insetto, una cellula. Anche, ciascuna, un punto interrogativo. In qualche linguaggio.16

La si può confrontare con poesie sulla matematica scritte da non matematici, e non sfigura: Matematica applicata17 «0,0133333. Che significa?» protesta mio zio, il macellaio, stravaccato nella poltrona sfilacciata. Gli dico di provare ancora. Batte la calcolatrice col grosso dito su Cancel. Ha letto che l’attricetta francese Tabatha Cash ha girato 150 film pornografici in 2 anni e 1/2. Quanti sono, si meraviglia, alla settimana? Il primo ostacolo è trovare il bottone 1/2, che non c’è. Era scarso a scuola e in queste occasioni si vede. Spiegatogli l’equivalente decimale, gli dico di convertire gli anni in mesi, per cominciare. Alla fine esclama «Trenta», e si illumina come colpito da una luce. «Bene», gli dico, «ora trasforma in settimane»…

Tra le varie altre produzioni, un posto importante è occupato dalla presa in giro del gergo professionale, come il seguente breve dizionario di frasi ricorrenti negli scritti matematici: analogo.

blicarlo.

Questo è un a. di: devo avere qualche scusa per pub-

applicazioni. Questo è

interessante per le a.: devo avere qualche scusa per pubblicarlo. banale. Questo problema è b.: conosco la risposta, (vedi difficile)

16 Marion Cohen, The Woman Mathematician, in «The Mathematical Intelligencer», XIX (1997), n. 1, p. 57. 17 P. Groves, in «The London Review of Books», XIX (1997), n. 2, p. 30.



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ben noto. Il risultato è bn.: non riesco a trovare il riferimento bibliografico. completa. La dimostrazione è ora c: non riesco a finirla. dettagli. Non riesco a seguire i d. della dimostrazione di X: è sbagliata. Omettiamo i d.: non riesco a farla. difficile. Questo problema è d.: non conosco la risposta, (vedi banale) generalità. Senza scapito di g.: ho trattato solo un caso molto speciale. ingegnosa. La dimostrazione di X è i.: la capisco. interessante. L’articolo di X è i.: non lo capisco. … Esercizi per gli studenti. Interpretare le seguenti locuzioni. Sono debitore al Professor X per molte stimolanti discussioni. Tuttavia, come abbiamo già visto. In generale. Si mostra facilmente.18

Anche le frasi dei dialoghi tra matematici (o accademici) sono da interpretare in modo trasparente: Mandami i tuoi estratti: adesso lasciami in pace. Ti manderò un mio lavoro: ti distruggo. Scriviamo un lavoro in collaborazione: siamo ugualmente famosi, ma io sono pigro. Interessante la tua conferenza: non mi viene in mente nulla da dire sulla tua conferenza. Non ha fatto qualcosa del genere Jones qualche anno fa?: lo so da dove hai copiato.19

Tratto da R. P. Boas, Lion Hunting & Other Mathematical Pursuits cit. Diamo solo una scelta, da S. G. Krantz, Glossary of Common Math Terms, in «The Mathematical Intelligencer», XVI (1994), n. 1, p. 36. 18

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Queste creazioni non sono esclusive dei matematici, sono un genere letterario, non diffusissimo ma ben frequentato.20 Più tipicamente matematiche sono invece spiritosaggini come i seguenti suggerimenti per dire qualcosa quando si ascolta un seminario in cui non si è capito nulla (capita): Può citare qualche controesempio che mostri che se le condizioni del teorema principale sono indebolite il teorema non vale più? [Il conferenziere lo può sempre fare ed è contento]. I suoi risultati possono essere unificati e generalizzati esprimendoli nel linguaggio delle categorie? [La risposta è sempre «No»]. Non c’è un’anticipazione del Teorema 3 in uno scritto di Gauss? [La risposta è sempre «Sì»]. Non sono sicuro di aver capito la dimostrazione del Lemma 3, potrebbe ripeterla per sommi capi? [Il Lemma 3 dovrebbe essere non banale, ma non troppo lungo]. Conosce un lavoro di Besovik e Bombialdi che potrebbe spiegare perché l’inverso del Teorema 3 non vale senza ulteriori assunzioni? [Pericolosa domanda, la risposta è sempre «No», a meno che il conferenziere non giochi al vostro stesso gioco, perché Besovik e Bombialdi non esistono, e se per caso esistessero, è improbabile che abbiano mai scritto un lavoro in comune. Se il gioco viene visto, ed è richiesto un riferimento, dite che è disponibile solo in albanese e promettete di mandargliene una copia].

20 Si pensi al Dizionario dei luoghi comuni di G. Flaubert (Adelphi, Milano 1980), o ad A. Bierce, The Enlarged Devil’s Dictionary, Penguin, London 1971; ed. orig. 1911.



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Perché pensa che dopo il fiorire di interessi sull’argomento all’inizio del secolo, non c’è stato più niente fino al suo lavoro del 1979? [La risposta è che la gente aveva più buon senso].

In ogni caso, non chiedete mai: Quali sono le applicazioni di questi risultati?21

Anche i criteri concorsuali sono importanti; se Dio è matematico, PERCHÉ DIO NON HA AVUTO LA CATTEDRA?22

1. Aveva solo una pubblicazione importante. 2. Per di più scritta in ebraico. 3. Non pubblicata su rivista soggetta a referee. 4. Qualcuno dubita che l’abbia scritta lui. 5. Dopo aver creato il mondo, che cosa ha fatto? 6. La comunità scientifica ha avuto molte difficoltà a replicare i suoi risultati. 7. Non ha mai fatto domanda ai comitati di etica per l’uso di cavie umane. 8. Quando un esperimento gli andò male, cercò di nasconderlo con un diluvio. 9. Quando i suoi soggetti non si comportavano come previsto, li cancellava dal campione. 10. Ha cacciato i suoi primi studenti che dimostravano amore per il sapere. 11. Benché ci fossero solo dieci requisiti, la maggior parte dei suoi studenti ha sempre fallito le prove. 12. Veniva raramente a far lezione e diceva di studiare il testo. 13. Teneva strane ore di ricevimento, sui monti. 21 Una scelta da D. MacHale, Any Questions?, in «American Mathematical Monthly», XC (1983), pp. 42 sg. 22 Si può trovare su Internet.

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Più esoteriche sono le casistiche delle dimostrazioni e delle loro caratteristiche e meriti, come la seguente: Dimostrazioni per appello all’intuizione: disegni tipo nuvole o patate possono servire. Dimostrazioni per esempi: l’autore tratta solo il caso n = 2 e suggerisce che esso contiene tutte le idee della dimostrazione generale. Dimostrazioni per intimidazione:23 «banale». Dimostrazioni gestuali (alla napoletana): funzionano bene in classe o nei seminari. Dimostrazioni per esaurimento: non bastano due fascicoli di una rivista. Dimostrazioni per importanza: dalla proposizione seguono un mucchio di utili conseguenze. Dimostrazioni per riferimento incrociato: in A si dice che il Teorema 5 segue dal Teorema 3 di B, che si mostra seguire dal Corollario 6.2 di C, che a sua volta è una facile conseguenza del Teorema 5 in A. Dimostrazioni per omissione: il lettore può facilmente completare i dettagli. Dimostrazioni per autorità: ho incontrato Karp nell’ascensore e mi ha detto che probabilmente il problema è np-completo.

23 Locuzione inventata da Marc Kac come reazione alle conferenze di William Feller.



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Dimostrazioni per disegno: una forma più convincente di quella gestuale; si combina bene con quelle per omissione.24

Oltre al gergo tuttavia, anche la serietà e la scelta degli argomenti di ricerca è oggetto talvolta di critica spietata in forme attenuate dall’umorismo. Si può ricordare l’annuncio di una rivista intitolata «Trivia Mathematica», fondata da Norbert Wiener e Aurel Wintner, il cui motto era la frase di D. V. Widder: «Tutto diventa banale quando se ne conosce la dimostrazione». Il progetto del primo numero contemplava articoli dai seguenti titoli: Sul buon ordinamento degli insiemi finiti Sul teorema di Fermat, parte 1: il caso dei primi pari Alcune caratterizzazioni invarianti dell’insieme vuoto L’indipendenza statistica degli zeri della funzione esponenziale Sulla distribuzione normale dei matematici anormali Pseudoproblemi per operatori pseudodifferenziali L’impossibilità di una dimostrazione della impossibilità di una dimostrazione

e altri dello stesso tenore. La mia preferita tra questo genere di creazioni è la caccia al leone, inventata da Ralph P. Boas con lo pseudonimo di H. Pétard,25 e poi arricchita da tanti contributi; si tratta di adattare qualche metodo caratteristico o qualche risultato tipico di una teoria per inventare surreali metodi di cattura di un leone nel Sahara; l’obiettivo è una paro24 Fatto circolare dal Dipartimento di Computer Science di Yale; diamo solo una scelta. 25 H. Pétard, A Contribution to the Mathematical Theory of Big Game Hunting, in «American Mathematical Monthly», XLV (1938), pp. 446 sg. Insieme a una raccolta della letteratura seguente sull’argomento, si trova in R. P. Boas, Lion Hunting & Other Mathematical Pursuits cit.

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dia o presa in giro di alcuni princìpi matematici, oppure di una terminologia idiosincratica, o di risultati paradossali. Eccone alcuni esempi: Il metodo di Peano. Esiste una curva che riempie lo spazio che passa per ogni punto del deserto. Una tale curva può essere percorsa in un tempo breve quanto si vuole. Armato di una lancia in resta, percorrila in un tempo minore di quello che il leone impiega a spostarsi della propria lunghezza. Il metodo di Bolzano-Weierstrass. Biseca il deserto con una linea in direzione nord-sud. Il leone giace in una delle due metà. Biseca questa metà con una linea in direzione est-ovest. Il leone giace in una di queste due metà. Continua il processo indefinitamente, ogni volta costruendo una recinzione. Il leone viene rinchiuso entro una recinzione di perimetro arbitrariamente piccolo. Il metodo di Schrödinger. In ogni istante, c’è una probabilità non nulla che il leone sia nella gabbia. Aspetta. Un metodo topologico. Dai al deserto la topologia leonina, in cui un sottoinsieme è chiuso se e solo se è l’intero deserto, oppure non contiene leoni. L’insieme dei leoni è denso in questa topologia. Metti nel deserto una gabbia aperta. Per la densità, contiene un leone. Chiudila in fretta! Un metodo geometrico. Colloca una gabbia sferica nel deserto, entra e chiudila bene. Esegui un’inversione rispetto alla gabbia, il leone è allora all’interno della gabbia, e tu fuori. Induzione. Dimostriamo per induzione inversa l’enunciato L(n): «È possibile catturare n leoni». Esso è vero per n sufficientemente grande, perché allora i leoni saranno numerosi e schiacciati come sardine e non avranno la possibilità di muoversi e scappare. Ma banalmente L(n + 1) implica L(n), perché, se ab-



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biamo catturato n + 1 leoni, possiamo liberarne uno. Quindi L(1) è vero. Il metodo di Bourbaki. La cattura di un leone nel deserto è un caso particolare di un problema molto più generale. Formulate questo problema e trovate condizioni necessarie e sufficienti per la sua soluzione. La cattura di un leone è ora un corollario banale della teoria generale, che non è assolutamente il caso di scrivere nei dettagli. Il metodo di Thom-Zeeman. Un leone libero nel deserto è certamente una catastrofe. Ha tre dimensioni di controllo (due per la posizione e una per il tempo) e una dimensione di comportamento (essendo parametrizzata da un leone). Quindi per il Teorema di classificazione di Thom è del tipo «mangia la coda» (swallowtail). Un leone che si è mangiata la coda non è certo nelle condizioni di evitare la cattura. Il metodo di Hilbert. Si metta una gabbia chiusa nel deserto. Si imposti il seguente sistema assiomatico: (1) l’insieme dei leoni non è vuoto; (11) se c’è un leone nel deserto allora c’è un leone nella gabbia. Teorema 1: c’è un leone nella gabbia. Il metodo di Banach-Tarski. Assumete l’assioma di scelta. Eseguite una partizione e ricomposizione del deserto secondo il Teorema di Banach-Tarski, in modo da dimezzare le dimensioni del leone. Ripetete finché il leone non è abbastanza piccolo da essere catturato facilmente. Il metodo di Mittag-Leffler. Il numero dei leoni nel Sahara è finito, perciò l’insieme dei leoni non ha punti di accumulazione. Si usi il teorema di Mittag-Leffler per costruire una funzione meromorfa che ha un polo in ogni leone. Poiché è un animale tropicale, un leone congelerà se messo in un polo, e potrà essere facilmente catturato.

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Un metodo linguistico. Sia Q l’operatore che racchiude una parola tra virgolette. Il suo quadrato Q 2 racchiude una parola in virgolette doppie. L’operatore chiaramente soddisfa la legge degli indici, Qm Q” = Q m+n, quindi si può definire Q – 1. Scrivete la parola «leone» senza virgolette su di un foglio. Applicate ad essa Q – 1. Un leone apparirà sulla pagina. Si raccomanda di deporre il foglio entro una gabbia prima di applicare l’operatore Q.

Se ne possono facilmente inventare altre, ognuno ha il suo soggetto preferito, dal crivello di Eratostene alla convergenza di Moore-Smith. Se mettete insieme due o tre matematici e incominciate a farli giocare sul tema, non la smetteranno più. I metodi più riusciti sono quelli che si riferiscono a risultati o forme di ragionamento che suscitano un certo disagio nei matematici stessi, per il loro carattere non intuitivo o per l’enormità imprevedibile delle loro conseguenze; è come se si volesse esorcizzarli, ridendoci sopra. L’esempio più clamoroso, non ancora sfruttato per la caccia al leone, è la prova ontologica dell’esistenza di Dio; nell’elaborazione (molto seria) di Gödel, questa diventa equivalente al teorema dell’ideale massimale.26 Non è difficile adattare il teorema dell’ideale massimale alla caccia al leone: Si considerino i recinti (sottoinsiemi del Sahara) che non contengono leoni; si vede facilmente che formano un ideale; lo si estenda a un ideale massimale; sia L l’insieme dei leoni; o L o il complemento di L appartengono all’ideale; se è L, siamo a posto; se è il complemento, esiste comunque una recinzione da una parte della quale stanno tutti e soli i leoni; si cambi il cancello di ingresso in modo che si apra dalla parte opposta; in ogni caso in 26 K. Gödel, Ontological Proof, in Collected Works, vol. 3, Oxford University Press, Oxford 1955, pp. 403 sg.; si veda anche P. G. Odifreddi, La prova di Dio, e Ultrafiltri, dittatori e dei, manoscritti.



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un colpo solo, grazie alla potenza della matematica non costruttiva, si sono catturati tutti i leoni.

A proposito di Pétard, si dovrebbe parlare anche di questa mania degli pseudonimi, e del più famoso di tutti, Bourbaki, su cui ora faremo una digressione, e con cui peraltro Pétard era imparentato. Non contenti di creare opere, i matematici inventano matematici. Nicolas Bourbaki Nicolas Bourbaki è l’autore di un Éléments de mathématique che ha segnato culturalmente la parte centrale del nostro secolo, a iniziare dal 1935;27 un’esposizione delle parti mature (ma soprattutto nuove) della matematica, articolata in teoria degli insiemi, algebra, topologia generale, funzioni di variabile reale, spazi vettoriali topologici e teoria generale dell’integrazione. L’esposizione è organizzata per strutture madri (ordinate, algebriche e topologiche), dalla cui integrazione derivano tutte le altre strutture. L’impostazione rivoluziona le abitudini antilogiche francesi, confortate da Poincaré, riportando logica, astrazione, struttura e generalità in primo piano. Utilità futura e bellezza interna sono le parole d’ordine, secondo l’analisi fatta da Raymond Queneau.28 Non c’è stato un fenomeno più serio del bourbakismo, che ha influenzato generazioni di matematici, nonché la filosofia e la psicologia attraverso lo strutturalismo e la Dal 1939 al 1967 trentatré fascicoli. R. Queneau, Bourbaki et les Mathématiques de demain, in Bords, Hermann, Paris 1963. 27 28

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linguistica, e soprattutto ha sconvolto la visione ricevuta della matematica (rappresentando una frattura insuperabile per chi aveva concluso i suoi studi negli anni trenta, e dopo…) e l’insegnamento secondario.29 Basti pensare al declassamento della geometria euclidea a sottoprodotto della teoria delle forme sesquilineari e quadratiche. E non c’è stato fenomeno che abbia dato più occasioni di umorismo, dall’esterno e dall’interno. I nostri storici della scienza, per dirne una, hanno visto il bourbakismo come espressione del gaullismo. La new math di per sé è stata una manna per i disegnatori di strisce, incluso Charles M. Schultz. Sono state scritte biografie di Bourbaki,30 che paradossalmente ne mettevano in dubbio l’esistenza; offeso, Bourbaki fece domanda di ammissione all’American Mathematical Society; la sofferta risposta negativa diede come motivazione che solo individui o istituzioni potevano essere membri dell’associazione, esprimendo insieme il dubbio che il postulante rientrasse in una di queste due categorie. Le notizie sulla vita di Bourbaki sono frammentarie ma coerenti e verificabili, ancorché inquinate da falsi indizi e leggende diffuse dai nemici invidiosi.31 29 Morris Kline ha scritto a suo tempo un feroce attacco contro la New Math, la nuova matematica, Why Johnny Can’t Add, Vintage Books, New York 1973, deplorando e irridendo all’insiemistica e all’impostazione deduttiva (inizia con Johnny che risponde che 3 + 2 = 2 + 3 perché entrambi hanno lo stesso valore, ma è rimproverato perché deve menzionare la proprietà commutativa); nel libro non cita una sola volta Bourbaki, forse perché credeva che non esistesse. 30 P. R. Halmos, Nicolas Bourbaki, in «Scientific American», CXCVI (1957), n. 5, pp. 88-99. 31 Un contributo al ristabilimento della verità si trova in M. Chouchan, Nicolas Bourbaki, Faits et légendes, Editions du Choix, Argenteuil 1995 (distribuito da Blanchard, Paris).



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Famiglia di antiche origini cretesi, in tempi recenti un Denis Bourbaki servì nell’esercito francese ai confini del Piemonte durante i Cento giorni; forse è a lui che gli anti-bourbakisti come Tricomi attribuiscono un comportamento poco dignitoso in Svizzera. Un Sôter Bourbaki rese servigi a Napoleone durante la campagna d’Egitto, e i figli furono ammessi nell’esercito. Uno di essi è il famoso generale Charles-Denis-Sauter Bourbaki (1816-97), la cui statua campeggia a Nancy, che per farsi prestare ascolto dai superiori durante la guerra del 1870 si sparò una pallottola in testa. Una figlia invece emigrò in Russia e da questo ramo nacque, in Moldavia, Nicolas, che incominciò la carriera accademica nell’ex regno di Poldavia, e si trasferì poi a Parigi dove tra il 1934 e il 1935 fu abituale frequentatore del café alvergnate Capoulade, al 63 di Boulevard Saint-Michel. Al di là del lavoro, vita avventurosa, secondo le tradizioni di famiglia; risulta dagli archivi del controspionaggio finlandese che fu arrestato nel 1939 in Finlandia con l’accusa di appartenere a una rete spionistica sovietica, nome in codice Bourbaki.32 Il punto più commovente della vita di Bourbaki fu senza dubbio il matrimonio della figlia con Pétard, i cui primi contatti con la famiglia Bourbaki erano stati piuttosto spigolosi. Come responsabile delle «Mathematical Reviews», presentando i primi volumi del trattato Boas aveva suggerito che si trattasse di un’opera collettiva; ricevette una lettera di fuoco che iniziava con «Verme miserabile, come osi sostenere che non esisto?»

32 A. Weil, Souvenirs d’apprentissage, Birkhäuser, Basel 1991 [trad. it. Ricordi di apprendistato, Einaudi, Torino 1994].

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Monsieur Nicolas Bourbaki, Membre Canonique de l’Academie Royale de Poldévie, Grand Maitre de l’Ordre des Compacts, Conservateur des Uniformes, Lord Protecteur des Filtres, et Madame, née Biunivoque, ont l’honneur de vous faire part du mariage de leur fille Betti avec Monsieur Hector Pétard, Administrateur-Délégué de la Société des Structures Induites, Membre Diplômé de l’Institute of Classfield Archaeologists, Secrétaire de l’Oeuvre de Sou du Lion. Monsieur Ersatz Pondiczery, Complexe de Recouvrement de Première Classe en retriare, Président du Home de Rééducation des Faiblement Convergents, Chevalier des Quatres U, Grand Opérateur du Groupe Hyperbolique, Knight of the Total Order of the Golden Mean, L.U.B., C.C., H.L.C., et Madame, née Compactensoi, ont l’honneur de vous faire part du mariage de leur pupille Hector Pétard avec Mademoiselle Betti Bourbaki, ancienne élève des Bienordonnées de Besse. L’isomorphisme trivial leur sera donne par le P. Adique, de l’Ordre des Diophantiens, en la Cohomologie principale de la Variété Universelle, le 3 Cartembre, an VI, à l’heure habituelle. L’orgue sera tenue par Monsieur Modulo, Assistant Simplexe de la Grassmannienne (lemmes chantés par la Scholia Cartanorum). Le produit de la quéte sera verse intégralement à la maison de retraite des Pauvres Abstraites. La convergere sera assurée. Après la congruence, Monsieur et Madame Bourbaki recevront dans leurs domaines fondamentaux. Sauterie avec le concours de la fanfare du 7e Corps Quotient. Tenue canonique. (idéaux a gauche a la boutonnière). C.Q.F.D.



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Nelle riunioni di Bourbaki si svolgevano le solite attività dei matematici, come l’invenzione di poesie, di cui il seguente è un esempio dovuto ad A. Weil, Dieudonné e Cartan: Una molteplicità vettoriale Un corpo opera solo, astratto, commutativo Il duale resta lontano, solitario, lamentoso Cercando l’isomorfia, e trovandola ribelle. … Ed è la fine. Vettori, operatori fottuti Una matrice immonda esala l’ultimo respiro. Il corpo nudo fugge in se stesso, nel seno delle leggi che si è dato.

Ma il vero umorismo di Bourbaki si ritrova nel corso e nell’impostazione del trattato. In un quadro di scarsa creatività lessicale del francese, Bourbaki ha scelto di valorizzare le parole della lingua comune; a parte «morfismo», di origine greca, e le varie «–iezioni», di origine latina, si trovano introdotti nel vocabolario matematico termini come tonneaux, socles, germes, clans, boules, pavés, filtre, carapace, e altri. Solo treillis non piaceva a Bourbaki, a cui sapeva troppo di caserma, e al suo posto utilizzò ensembles réticulés. Ai vari tomi erano allegati fogli di mode d’emploi, come per normali apparecchiature, prima che questa dizione entrasse nella letteratura. Ricordiamo la Z grande a margine per indicare un passaggio pericoloso; i richiami peaniani di mnemotecnica, come nell’osservazione che il segno U ricorda la parola «unione». Queneau segnalò una volta a Bourbaki un apparente refuso, che invece era stato lasciato volutamente: invece di «filtrant à gauche et à droite» era scritto «flirtant à gauche et à droite». E per quel che riguarda il contenuto, uno degli aspetti più sconvolgenti per chi prendeva in mano il trat-

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tato venendo da un’impostazione tradizionale era il relegamento negli esercizi di teoremi fondamentali (l’esercizio 1, par. 3, cap. V del libro Algebre chiede di dimostrare che l’insieme dei numeri trascendenti su Q ha la potenza del continuo). Ma, come dice Queneau, «une réforme n’est pas faite par les mollassons». La matematica dilettevole e curiosa Le produzioni umoristiche letterarie sono marginali, da tempo libero, e non di tipo professionale. Tuttavia incominciamo a vedere che in un senso molto preciso e documentabile i matematici sono spiritosi, o amano esserlo, o apparire tali. Un campo più connesso al lavoro in cui si sbizzarrisce l’umorismo dei matematici è quello delle recensioni perfide: In questo lavoro sono presentate soluzioni sbagliate di problemi banali. L’errore di fondo, tuttavia, non è nuovo. Questo lavoro contiene alcuni risultati che sono nuovi e alcuni che sono giusti. Sfortunatamente, quelli nuovi non sono giusti e quelli giusti non sono nuovi.

Epico è diventato anche l’umorismo involontario di una autorecensione: L’autore dimostra che non ogni insieme ordinato ha un primo elemento, ma ne ha certamente un secondo.

Un’altra occasione è offerta dai commenti alle conferenze: Un logico filosofico si dilungava a spiegare diffusamente, con molti esempi, che la doppia negazione talvolta nel parlato non equivale all’affermazione, quindi non è pleonastica, mentre lo



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stesso non si può dire per la doppia affermazione. Voce dalla sala: «Sììì… sììì…»

Ci si può chiedere allora se i matematici abbiano una particolare sensibilità, ad esempio linguistica, che li spinge a queste espressioni, e se non ci sia qualcosa nel loro lavoro che favorisce tale atteggiamento, e per questo li inseguiamo ora proprio nella matematica. E naturalmente esiste un settore di attività matematica, in senso proprio, che è connesso all’umorismo; si tratta di tutto quello che rientra sotto il nome di intrattenimenti, rompicapi, enigmistica, alfametica33 e così via con titoli vari – noi diremo, in una parola, giochi. Spazio per i giochi si trova sia su alcune riviste di matematica o di divulgazione («Mathematical Diversions», «Mathematical Entertainments»), sia nelle rubriche dei giornali. In Spagna è venduta nelle edicole una rivista dal titolo «Logica», simile alla «Settimana Enigmistica», tutta dedicata a esercizi di logica (indovinare classificazioni o attribuzioni di qualifiche a personaggi). Il settore è così noto che non è il caso di soffermarsi su di esso con esempi, se non per ribadire che si tratta sempre proprio di genuini argomenti matematici. La precisazione va fatta perché, mentre le barzellette le capiscono solo i matematici, i giochi sono principalmente rivolti a fruitori non matematici, che però non si accorgono di fare matematica, sotto la veste di fiammiferi, colori, parole e palline. Ricordate il cubo di Rubik?34 Come la matematica, anche 33 Nome per l’aritmetica con lettere inventato da J. A. H. Hunter, uno dei più famosi curatori di rubriche di giochi sui giornali americani; si veda il suo Mathematical Brain Teasers, Dover, New York 1976; ed. orig. 1965. 34 Per la teoria matematica connessa al cubo di Rubik, si veda ad esempio D. Singmaster, Notes on Rubik’s Magic Cube, Penguin Books, Middle-sex 1981.

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i giochi rischiano di ischeletrirsi in esercizi ripetitivi con le loro regole automatiche di soluzione. I giochi sono sempre stati considerati nell’età moderna un capitolo della matematica. Si può risalire al Liber Abaci scritto da Leonardo Pisano nel 1202, che nel capitolo 12 raccoglie questioni erratiche. La tradizione proseguì per alleggerire, nelle intenzioni, dalla noia della trattazione continua di questioni mercantili. Nel Cinquecento comparvero raccolte di giochi dedicate alle corti (Luca Pacioli, e il Libro dicto giuochi mathematici del Filicaia),35 ma se ne trovano anche nel trattato di Nicolò Tartaglia:36 lì è descritto il rompicapo dell’attraversamento del fiume da parte di un lupo, una pecora e un cavolo (o una delle tante varianti). Poi fiorì nel Seicento una letteratura chiamata Amphitheatrum, o Bibliothèque curieuse. L’amico e consulente matematico di Cartesio, Claude Mydorge pubblicò nel 1620 una voluminosa raccolta di Récréations mathématiques, dove comparivano anche curiosità di tipo fisicomatematico, a quel tempo non ancora ben dominate.37 La tradizione continua tuttora, come testimoniano i successi editoriali di Matematica dilettevole e curiosa di Italo Ghersi, un manuale Hoepli che risale all’inizio del secolo, e oggi i libri di Martin Gardner e quelli logici di Raymond Smullyan.38 35 Si vedano alcune notizie nel dossier Le matematiche dell’abaco, in «Lettera Pristem», XXI, settembre-ottobre 1996. 36 General trattato di numeri, et misure di Nicolo Tartaglia, Venezia 1556. 37 Nel Seicento si sprecano, si vedano ad esempio Bachet, Problèmes plaisant et delectables qui se font par le nombres, Lyon 1613; Oughthread, Mathematical Recreations, London 1653; entrambi citati da G. Peano, Giochi di aritmetica e problemi interessanti, Paravia, Torino 1924 (Sansoni, Firenze 1985). 38 Da non dimenticare anche la tradizione russa; si veda ad esempio B.A. Kordemski, The Moscow Puzzles, Penguin Books, Middlesex 1972.



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Questo tipo di matematica è seria e di piena legittimità, tanto è vero che su di essa si può basare una proposta didattica, e una delle più sensate, che ha tanti sostenitori nei più diversi tempi e contesti. Citiamo solo, per fare un esempio, la proposta e l’attività della scuola polacca, animata da Hugo Steinhaus.39 I giochi non sembrano diversi dai tradizionali esercizi, se non forse perché sono di tipo più logico e linguistico e meno numerico, in generale, e questo argomento gioca tutto a loro favore. La differenza rispetto agli esercizi è che divertono, e non è cosa da poco.40 Ricordiamo che già Agostino si lamentava dell’imparare a memoria: «Unum et unum duo, duo et duo quatuor, odiosa cantio mihi erat». Vi sono due motivi principali di divertimento e di soddisfazione per quanto riguarda i giochi: in primo luogo rappresentano una sfida, e secondariamente la soluzione di solito presenta un elemento di sorpresa. La sorpresa consiste o nel fatto che una risposta proprio ci sia, o nel fatto che la risposta è contraria a quello che ci si attende. Questi aspetti avvicinano i giochi a un altro fenomeno 39 H. Steinhaus, Cento problemi di matematica elementare, Boringhieri, Torino 1987. Ma già Peano (Giochi di aritmetica cit.) riportava con favore dichiarazioni di pedagoghi e docenti di matematica del suo periodo, che raccomandavano di interessare e divertire i ragazzi. La produzione di questo genere è sempre più abbondante; per fare un esempio, nel n. 5 dell’«American Mathematical Monthly», XCIV (1977), la rubrica di segnalazioni Telegraphic Reviews elenca otto nuovi libri di «Recreational Mathematics», due di storia e uno di fondamenti. 40 O allungano la vita. Uno dei primi casi reali registrati di un problema aritmetico curioso riguarda il modo in cui Giuseppe Flavio riuscì a sfuggire alla morte per mano dei romani, prima di passare dalla loro parte: un gruppo di ribelli, tra cui Giuseppe, fu disposto in cerchio con l’intenzione di compiere le esecuzioni uno ogni sette condannati, continuando nello stesso modo anche dopo il primo giro sui restanti. Giuseppe, che conosceva l’aritmetica, scelse un posto che non fu raggiunto dal conteggio.

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importante, collegato all’umorismo, che è quello dei paradossi, il quale per la sua ampiezza merita un discorso a parte. Nei paradossi la reazione psicologica è complessa, e porta all’estremo gli ingredienti dei giochi: si ride, ma anche ci si blocca, e si prova l’angoscia di sentirsi in trappola. Basta pensare alle scale di Escher che tornano al livello di partenza. Tuttavia la risata stimolata dai paradossi non è solo quella iniziale, nervosa, che accompagna l’angoscia: si ride anche quando li si capisce e li si domina, se li si capisce e li si domina. L’umorismo nell’insegnamento e nell’esposizione I caratteri dei giochi che abbiamo messo in luce si possono riassumere in una parola: creatività. Questo aspetto invero li differenzia, in modo positivo, dagli esercizi ripetitivi; la soluzione di solito richiede infatti che si introducano elementi sottaciuti, e proprio in tale mossa iniziale consiste la difficoltà, superata la quale la strada si presenta poi in discesa. Nell’esposizione di qualsiasi problema, le condizioni non dette sono preponderanti, forse infinite, perché non si può parlare di tutto e dire cosa è rilevante e cosa no, cosa è stabile e cosa può variare; questo drammatico problema è noto nell’Intelligenza Artificiale come il dilemma del robot, o il problema del frame, e dà origine alle varie logiche di default (si assume che i fattori non menzionati non varino salvo poi doversi correggere: da questa impostazione derivano le logiche non monotone). Ma nei giochi gli elementi sottaciuti non sono dati mancanti, sono volutamente non detti sia per non fornire il suggerimento decisivo, sia per invischiare il soggetto nella fallacia



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dell’assunzione implicita (e immotivata). Quando poi si svicola dalla fallacia, il riso è una rivalsa su chi ha teso la trappola. La fallacia dell’assunzione implicita si verifica perché, essendo taciuta una condizione, l’ascoltatore tende ad assumerne la negazione, o la versione più restrittiva; è un fenomeno che gli psicologi chiamano «fissità funzionale», e si manifesta spesso nell’assumere limitazioni non menzionate nelle ipotesi relativamente al fatto che i dati delimitano completamente il dominio di lavoro (assunzione formalizzata in alcune logiche non monotone). La soluzione invece dipende dall’uscirne, o dall’allargare il dominio, dall’arricchirlo. Un esempio classico in cui si manifesta la fissità funzionale è quello dei nove punti























da unire con quattro segmenti senza staccare la matita dal foglio. Dopo aver provato in tutti i modi all’interno del quadrato individuato dai punti, il soggetto si blocca o incomincia a ripetere prove già fatte, dimenticando la regola di Sherlock Holmes: quando il probabile viene escluso, l’improbabile è certo. Gli esempi di fissità funzionale si ritrovano tali e quali tanto negli studi di psicologia, come nei trattati di euristica matematica. E un’esperienza comune nell’insegnamento della matematica la necessità di insistere sulla regola logica negativa per cui la negazione di quello che non è asserito è consistente. Siccome questa regola richiede di essere formulata come una considerazione metateorica, essa è innaturale e sorprendente.

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Ma lo studio della logica non ha tanto la funzione di assecondare e potenziare la logica naturale, quanto di correggerla e contrastarla (lo stesso dicasi di tutta l’educazione scientifica in generale), e questa funzione è fonte di umorismo in opposte direzioni. La logica naturale induce deformazioni dovute probabilmente (se hanno una motivazione evolutiva) a ragioni di sicurezza. Si veda il campo controverso della fisica ingenua, ricollegabile alla fisica curiosa del Seicento. Un elemento comune a tutte le manifestazioni della logica naturale è una fretta di concludere per la via diritta, che porta alle varie divertenti fallacie (ad esempio quelle dell’implicazione nella logica naturale, in cui si assume che l’antecedente sia vero). Nel libro di giochi di Peano, sono chiamati «problemi capziosi» quelli in cui «la risposta vera non è quella che prima si presenta alla mente». Una tendenza chiara della mente è verso la completezza, e si esprime nel fatto che se A non è derivabile, la si assume (invece di osservare che si può assumere not-A). Il carattere non logico di questa tendenza è rivelato dalla sua asimmetria: se not-A non è derivabile, in generale non si assume notA. Privilegiando in maniera alogica l’una forma sull’altra, entrano in gioco fattori di trascinamento linguistico e altri bias individuati dalla psicologia.41 Esempi classici di deformazione del buon senso sono l’alta percentuale di risposte errate a domande riguardanti la probabilità. Si ponga ad esempio il seguente problema: Un test per diagnosticare una malattia, la cui incidenza sulla popolazione è di 1/1000, ha un tasso di risposte false positive pari al 5 per cento (e nessuna risposta falsa negativa); qual è 41 Si veda ad esempio R. Nisbett e L. Ross, L’inferenza umana, il Mulino, Bologna 1989; ed. orig. 1980.



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la probabilità che una persona, che è risultata positiva a tale test, abbia effettivamente la malattia diagnosticata, assumendo di non avere nessuna informazione su eventuali sintomi e segni manifestati da questa persona?

Pare che circa la metà dei soggetti risponda 0,95, e solo il 18 per cento dia la risposta giusta. Le sottigliezze della probabilità sono notorie, il teorema di Bayes non è per nulla naturale, ma è facile dare esempi anche più semplici in cui la risposta è quasi certamente, e platealmente, sbagliata: Si chiede qual è la più probabile sequenza di maschi (m) e femmine (f) che nasceranno nei prossimi minuti tra (i) mmmmmm, (ii) ffffff e (iii) fmmffm

e la risposta negli esperimenti è generalmente (iii), che sembra più casuale; (i) e (ii) non sembrano casuali, sembrano regolari (di fatto (i) è leggermente più probabile).42 Il divertimento di chi propone un gioco è anche quello di godersi la figura barbina di chi replica con una risposta scentrata. La ragione della figuraccia non è l’ignoranza, che in sé non fa ridere, ma l’evidente ammissione di non aver digerito a sufficienza un concetto preciso; il concetto è diventato preciso, ma una volta apparteneva al senso comune, e i suoi effetti si fanno ancora sentire, rispetto alle correzioni e ai raffinamenti introdotti. La matematica mette in ridicolo il senso comune, ma a sua volta, rispetto alla semplicità di questo, si mette essa stessa nel ridicolo con complicazioni esorbitanti. Nella didattica, le difficoltà di contrasto con la logica naturale sono all’ordine del giorno. Nell’enunciare pro42 Data la leggera maggior percentuale di maschi nella popolazione del paese dove sono fatte le prove.

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posizioni, i matematici sono (diventati) molto pignoli, dettagliando e articolando le ipotesi al limite dell’esasperazione (e la pignoleria è un tratto essenziale dell’immagine ridicola del matematico, e di quella noiosa della matematica). Diamo un esempio tratto dalla logica, per chi lo può seguire (ognuno può richiamarne altri dalla sua esperienza): le sostituzioni in una formula dipendono da delicate condizioni sul carattere libero e vincolato delle variabili. Dopo aver definito queste nozioni, si introduce una condizione che si esprime con la locuzione «y libera per x in A», e poi tutte le proprietà della sostituzione di y a x in A sono precedute dalle condizioni ripetute che y non sia libera in A e y sia libera per x in A. Quest’ultima condizione non significa che y non occorre vincolata in A, ma che non vincola la x (se y occorre vincolata, allora x non deve cadere nei raggi d’azione dei suoi quantificatori). Lo studente, trascinato dall’espressione «non vincola», o interpretando l’implicazione come controfattuale, tende a semplificare assumendo che la seconda condizione richieda che y non sia neanche vincolata e non capisce perché non si debba dire più semplicemente che y non occorre per niente in A. In effetti la locuzione «non vincola» non è stata definita, ma è un modo abbreviato di dire che se y occorre vincolata, allora x non deve cadere nei raggi d’azione dei suoi quantificatori. Una condizione ipotetica è difficile da dominare, e lo studente è portato a chiedersi se esista una y vincolata. Al docente potrà magari sembrare meglio dire «x non cade in nessun raggio d’azione di quantificatori sulla y», sostituendo l’implicazione con il quantificatore universale,43 dove si deve però giocare sul 43

Pare strano, ma connettivo e quantificatore sono interdefinibili.



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fatto che questo risulta vero anche sul vuoto. «Se ci sono occorrenze vincolate di y, x non cade nel raggio d’azione del loro quantificatore» è equivalente a «x non cade in nessun raggio d’azione di quantificatori sulla y», ma la prima frase contiene in «loro» un riferimento incrociato che non è immediatamente disponibile nei linguaggi formali; essa inoltre sembra esistenziale, per il «ci sono», e invece è universale. La morale di tutto ciò, come si vede, è che per capire e spiegare il trattamento formale delle variabili quantificate occorre dominarle molto bene e con raffinatezza nel linguaggio naturale (e per dominarle nel linguaggio naturale serve un allenamento formale, che è uno dei paradossi della didattica, ma un po’ di circolarità non stona). Alla fine, esasperati, per far capire la necessità delle ipotesi così baroccamente e faticosamente formulate ci si affida naturalmente a un esempio, cioè si esibisce un modello in cui entrambe le condizioni sono soddisfatte ma con y presente e vincolata. È per catturare anche quel modello – che lo studente da solo non riesce a immaginare, che se riesce a immaginare non sa descrivere, e che il professore stesso deve ricordarsi di ricostruire prima della lezione – che bisogna dire le cose nel modo complicato. Un trucco utile, qui e in situazioni analoghe, per superare le difficoltà e indorare la pillola, è quello di introdurre un nuovo nome semplice e allusivo che, riassumendole, nasconda le complicazioni create in precedenza. Si può dare un nome al modello, o alla situazione da esso rappresentata, e si cerca di sceglierlo in modo spiritoso per favorire comprensione e memoria; nel caso in esame, si potrebbe dire ad esempio che y non vede x (o qualcosa del genere, più forte, nel linguaggio giovanilistico di Enrico Brizzi). Così l’esposizione si anima con le locuzioni antropomorfe: se y non vede x, allora…

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Questo è uno dei motivi per cui i matematici sono tra i più prolifici inventori di nuovi nomi e termini, spesso antropomorfi. Cade qui a proposito richiamare quanto detto prima di Bourbaki. Veniva considerato un segno dell’eccentricità di Bourbaki, e della sua gratuita ricerca della generalità, il fatto che unione e intersezione fossero definite prima per famiglie di insiemi che per due insiemi. La generalità era invece perlopiù giustificata, e ora appare naturale dopo averne verificato i vantaggi, anche nell’insegnamento (superiore). Ad esempio, se si introduce la disgiunzione di due proposizioni, si può poi generalizzare a più di due, ma è difficile, ed è necessario aggiungere una convenzione, degenerarla a una o nessuna proposizione. I casi estremi, o fuori dai limiti, sono invece importanti per trattare le clausole vuote nel calcolo automatico della risoluzione, e vengono naturali se la definizione di disgiunzione è data per insiemi di proposizioni. Per quel che riguarda il linguaggio, la situazione è molto complessa: quasi tutti i termini matematici sono presi dalla lingua, e ricordano le operazioni concrete da cui derivano, ma tutti vengono ad avere un significato diverso, e questo è fonte di drammatici disorientamenti psicologici per i bambini che non hanno buoni insegnanti, e anche di situazioni umoristiche. Addizionare, ad esempio, significa aggiungere, mentre in matematica può significare sottrarre, se si addiziona un numero negativo. Moltiplicare fa crescere, a meno che non si moltiplichi per un numero minore di uno. È nota la battuta che le amebe (si) moltiplicano dividendo(si).44 Disegnate uno sgorbio complicatissimo, senza sovrapporre il tratto, e avrete una curva semplice!45 In inglese, amoebas multiply by dividing. Altri esempi si trovano in R. Hersh, Math Lingo vs. Plain English: Doublé Entendre, in «American Mathematical Monthly», CIV (1997), n. 1, pp. 48-51. 44 45



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Anche le cruciali parole della logica hanno significati diversi in matematica. A proposito, è da ricordare l’aneddoto che riguarda il logico Abraham Fraenkel, israeliano di origine tedesca: Un giorno, in Israele, Fraenkel sale su un autobus la cui partenza è fissata alle 9. Alle 9.05 l’autista non ha ancora messo in moto il mezzo, e Fraenkel gli fa rilevare il ritardo. Quello, infastidito, come un personaggio di Ephraim Kishon, gli domanda: «Ma lei chi è, un tedesco o un professore?» E Fraenkel di rimando: «Usa la disgiunzione inclusiva o quella esclusiva?»

Termini che nel parlato sono sinonimi vengono accuratamente distinti, ad esempio «insiemi» e «gruppi». Alcuni termini matematici si ritrovano in altri campi: in inglese, manifold è il collettore del motore a scoppio. Grazie a queste ambiguità, o anche solo a pure assonanze, con i termini matematici si possono costruire storielle divertenti, come la seguente confessione: A scuola non ne facevo proprio, ve l’assicuro; giusto qualche addizione, come capita a tutti; poi a una festa un amico insistette: «Ma prova la trigonometria», e vergognandomi non seppi dire di no. Presto passai ai trascendenti, e fu la dipendenza. Ora ne consumo a fasci, mi faccio tutte le iniezioni. I p-adici mi ricoprono, e devo continuamente integrare. La mia topologia è del tutto sconnessa…

Dello stesso genere, dei divertimenti da party, è la seguente storiella un po’ spinta, che circola con una data del 1877 e vuole probabilmente essere una parodia di Lewis Carroll:46 46

Invece è dovuta a Richard Macintosh.

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Un giorno, la piccola Polly Nomial stava passeggiando per un campo di vettori quando si trovò sul bordo di una grande matrice singolare. Polly era ormai convergente e la madre le aveva fatto promettere come valore assoluto che non sarebbe entrata in un array senza aver su le sue parentesi. Polly tuttavia, che quel giorno si era cambiata le variabili e si sentiva spinta a un comportamento irregolare, ignorò quelle condizioni considerandole non necessarie e si inoltrò negli elementi complessi. Righe e colonne la avvolgevano da tutti i lati. Tangenti sfioravano le sue superfici; ella divenne sempre più tesa. Improvvisamente, due rami di un’iperbole la toccarono in un punto unico. Ella oscillò violentemente, perse ogni senso di direttrice e andò completamente a divergere. Nel girare un angolo, inciampò in una radice quadrata che sporgeva dal terreno e finì a capofitto lungo un ripido gradiente. Quando si differenziò di nuovo, si trovò sola, apparentemente in uno spazio non euclideo. C’era qualcuno che la guardava. Quel fine operatore, Curly Pi, spiava il suo prodotto interno. Mentre i suoi occhi divoravano le sue coordinate curvilinee, un’espressione singolare attraversava il suo volto. (…) Non ci fu pietà, perché Curly era un operatore di Heaviside. Egli integrava per frazioni parziali. La bestia complessa fece tutto il circuito e un’integrazione al contorno. Che indegnità. Essere multiconnessa alla sua prima integrazione. Curly continuò a operare finché non si sentì completamente e assolutamente ortogonale… Quando Polly tornò a casa, quella sera, la madre notò che era troncata in diverse parti… Man mano che i mesi passavano, Polly cresceva monotonicamente. Alla fine generò una piccola funzione patologica, che spargeva surdi dappertutto.

Le nuove parole, o le vecchie con senso modificato, sono essenziali sia per la didattica che per la comunicazione. Per comunicare tra loro, i matematici devono in-



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trodurre abbreviazioni che siano maneggevoli, che permettano di parlare senza perdersi nei meandri dei sentieri incrociati, e che conservino il contenuto logico. La lunga familiarità con i concetti è di grande aiuto, ma favorisce cortocircuiti che al di fuori appaiono ridicoli, sull’orlo della contraddizione se non della pazzia. Si pensi a come gli antichi (cioè i primi moderni) giocavano – si dice così – con gli infinitesimi. Gli ε trascurabili sono molto più comodi dell’articolata definizione di limite. Nel fare la derivata di x2 con il rapporto incrementale, ad esempio, osservavano che in



(x + ε)2 – x2 = x2 + 2εx + ε2 – x2 ε ε

si poteva dividere per ε , perché diverso da zero, e l’espressione si riduceva a 2x + ε = 2x perché e era trascurabile e dunque pressoché nullo. Si noti che sono gli stessi passaggi con cui si dimostra che 1 = 2: da 1 + ε = 1, elevando al quadrato e trascurando gli infinitesimi di ordine superiore, 1 + ε = 1 + 2ε, quindi ε = 2ε e dividendo per ε che non è zero, 1 = 2. Berkeley si divertiva un mondo a rilevare questi ragionamenti, come anche quelli sulle somme delle serie. I matematici considerano legittimi questi paralogismi quando sono loro a utilizzarli; quando li introducono altri manipolatori di matematica, ad esempio i fisici, li trovano invece ridicoli. Oltre che per ragioni didattiche, la pratica di spezzare il capello in quattro è importante perché dà origine a sviluppi alternativi, come lo studio dei modelli utilizzati per mostrare l’indipendenza reciproca di alcune condi-

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zioni: in matematica è ormai abitudine perseguire sistematicamente le possibilità che ne emergono. In questo modo si genera però anche una teratologia (capitolo a suo tempo proposto come aggiunta al trattato di Bourbaki) non priva di elementi di ridicolo. Si veda la presa in giro del matematico che studia gli (inesistenti) iperquadrati non-Riemanniani da parte di Davis e Hersh47 (che forse hanno rischiato nella scelta della voce, e avrebbero rischiato comunque: chi può escludere che gli iperquadrati non-Riemanniani non abbiano mandato in cattedra qualcuno?). L’umorismo nella matematica Si potrebbe ancora sostenere contro l’evidenza che la produzione di giochi è una matematica speciale, non elevata. Non è vero, perché gli argomenti riguardano spesso la teoria dei numeri, e diversi temi tipici dei giochi sono stati rivalutati oggi dalla combinatoria. Inoltre, nei giochi intervengono anche, e possono così essere illustrati e introdotti, concetti avanzati come quello di strategia: si pensi al semplice gioco di coppia in cui si deve arrivare a un numero sommando alternativamente numeri di grandezza limitata fissata, oppure a un analogo con i fiammiferi. Ma prendiamo ora in esame la ricerca impegnata e impegnativa, dove si dimostrano teoremi. In quale altro settore di ricerca si può trovare uno studio serio (e non si tratta di un episodio isolato, con tanto di bibliografia), dedicato a dimostrare quale sia il sistema più efficiente 47 Ph. J. Davis e R. Hersh, The Mathetnatical Experience, Birkhauser, Basel 1981.



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di legarsi i lacci delle scarpe, corredato di grafici e anche di una fotografia di una vera scarpa?48 O l’importante indagine su come e perché si ingarbuglia sempre il filo del telefono?49 O ancora un articolo su come afferrare al volo una palla da baseball?50 Ma si può andare ancora più avanti, e considerare la matematica usuale, quella che anche come scelta di problemi non evoca all’esterno nessun aspetto umoristico, e che però nel matematico che la fa si accompagna sempre a un profondo divertimento. Plutarco riferisce che Archimede aveva inventato e costruito le sue macchine da guerra non perché gli interessassero, ma per mero divertimento geometrico. Perché è possibile divertirsi nel fare matematica? Stiamo parlando ora di chi la fa, non di chi la guarda fare, come il vescovo Berkeley. Uno dei motivi di divertimento è connesso, come già rilevato per i giochi, con un senso di potenza creativa. Il matematico si diverte perché trova le ragioni profonde che stanno al di sotto della varietà dei fenomeni apparentemente confusi, trova gli schemi, le «riposte armonie»; trova per così dire le perle nel fango (e magari proprio una teoria matematica del fango). Gli sembra di essere Dio, o di aver preso Dio in castagna. Tale motivazione etica non sarebbe sufficiente a controbilanciare la fatica della concentrazione e del ragionamento se non si trovasse piacere nei singoli passi; ci deve 48 M. Misiurewicz, Lacing Irregular Shoes, in «The Mathematical Intelligencer», XVIII (1996), n. 4, pp. 32-35. 49 A. Jurisic, The Mercedes Knot Problem, in «American Mathematical Monthly», CIII (1996), n. 9, pp. 756-70. 50 E. Aboufadel, A Mathematician Catches a Baseball, in «American Mathematical Monthly», CIII (1996), n. 10, pp. 870-78. Si veda anche L. E. Sadovskii e A. L. Sadovskii, Mathematics and Sports, American Mathematical Society, Providence, R. I., 1993.

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essere qualcosa nel modo di pensare tipico del ragionamento matematico che provoca allegria. Alcuni aspetti li abbiamo già segnalati strada facendo, perché non sono diversi da quelli che si manifestano nei giochi. Molte dimostrazioni hanno un lato umoristico in quanto percorrono una via che non sembrerebbe matematica, secondo l’immagine stereotipata. Sono quelle in cui si dimostra una formula numerica senza fare calcoli, come quella di Gauss (infatti i novizi insorgono: «Ma questa non è una dimostrazione!»); lo stesso dicasi per dimostrazioni come quella del teorema di Pitagora, basate su un incastro di vari pezzi, che vanno miracolosamente a posto. Si ricordi che la dimostrazione, in sé, fin dai tempi di Talete, sostituisce misure penosamente e inevitabilmente incerte con risposte nette, del tipo sì-no. In generale, in una dimostrazione calcoli complicati, reali o presunti, sono sostituiti da un ragionamento veloce; la rapidità, la battuta fulminante, è una condizione importante nell’umorismo, e una caratteristica della buona dimostrazione. Una strategia di pensiero tipicamente matematica comporta la rottura della fissità funzionale, soprattutto quando si scopre che un elemento non menzionato è utile (a differenza di quando è proprio necessario) a evitare calcoli di complessità insuperabile, come nel famoso problema di ricoprire con i pezzi del domino una scacchiera a cui sono stati tolti i due vertici opposti. «Ragiona, non perderti nei calcoli!» è la regola aurea matematica, ed è paradossale perché i calcoli sono matematica, non solo nella saggezza popolare (e, hobbesianamente, i ragionamenti sono calcoli). Il significato dell’imperativo è molteplice, anche se essenzialmente sempre lo stesso: non lasciarsi confondere o distrarre dai dettagli ma



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cercare le ragioni, gli schemi; non lasciarsi invischiare dai particolari, ma staccarsi dal problema; non lasciarsi legare dai dati, ma allargare lo sguardo; volare sopra piuttosto che percorrere il labirinto; cercare una strategia invece di applicare ciecamente le regole, e così via «euristicando», in un crescendo di autonegazione e autosuperamento, dal momento che quello che bisogna evitare con la matematica è proprio matematica. Nell’indovinello dei due bicchieri, uno pieno d’acqua e uno di vino, allo stesso livello, si toglie un cucchiaino di vino dal secondo bicchiere e lo si mette nel primo, si mescola, si rimette un cucchiaino della mistura nel bicchiere di vino: si chiede se alla fine c’è più acqua nel bicchiere di vino o più vino nel bicchiere di acqua. Una risposta frequente è che c’è più acqua nel bicchiere di vino. Chi dà questa risposta spiega che un cucchiaino di vino è stato messo nell’acqua, mentre nel vino è tornata una mistura; se si cerca di approfondire, si scopre che su questa strada ci si deve imbarcare in complicati ragionamenti, non impossibili ma non alla portata di tutti, concernenti la diluizione delle varie misture. I calcoli relativi sono spesso inconcludenti perché, incapaci di svilupparli fino in fondo, ci si ferma e si propone come conclusione uno dei dati intermedi. La risposta corretta è che le due quantità sono uguali (anche nella versione in cui il bicchiere d’acqua è sostituito dal mare) ed è immediata, per ragioni di simmetria, e matematicamente corretta e soddisfacente. La risposta, col senno di poi, è quella del buon senso; è divertente vedere che il senso comune aveva ragione, ma che, deviato dalla matematica, dimentica se stesso, e diffida di se stesso, mentre la matematica se lo incorpora. Il matematico si diverte anche al pensiero di fare cose che si distanziano molto dall’idea radicata nella gente.

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Per essere più precisi, si pensi al campo molto vasto di applicazioni della dimostrazione per assurdo, che è un trucco di magia, e come tutti i trucchi di magia per quanto la si veda resta sempre un po’ ostica, anche se si è capito come funziona: A implica not-A, implica not-A; la consequentia mirabilis sembra pericolosamente vicina alla fallacia dell’affermazione del conseguente. Chi la ascolta non riesce a togliersi l’impressione di essere stato gabbato. D’altra parte, è la regola principale per derivare una conclusione da nessuna assunzione.31 Lo stesso senso di esaltazione creativa si esprime nelle dimostrazioni e definizioni per induzione, veri e propri giochi di prestigio, tanto è vero che l’induzione è una delle tecniche preferite per costruire dimostrazioni di risultati paradossali, a partire dal paradosso del sorite che ne è stato la prima applicazione, o dimostrazioni sbagliate offerte come sfide e rompicapi.52 L’argomento delle dimostrazioni sbagliate, collegato a vari tipi di paradossi, è un ricco campo di divertimenti per i matematici, e ha anche un alto valore didattico.53

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Salvo un precedente euclideo, è stata usata infatti solo da Saccheri

in poi. 52 Ad esempio, la dimostrazione che tutte le mele hanno lo stesso colore: si prenda una mela, che avrà un certo colore, ad esempio rosso. Supponiamo ora per ipotesi induttiva che tutti i gruppi di n mele abbiano lo stesso colore rosso; prese n + 1 mele, se ne togliamo una abbiamo un gruppo di n mele che per ipotesi induttiva saranno rosse; quindi almeno una mela di quelle date è rossa. Togliamo quella mela, e abbiamo di nuovo un gruppo di n mele, che per ipotesi induttiva sono tutte rosse; quindi tutte le n + 1 mele sono rosse. 55 Si veda ad esempio Ya. S. Dubnov, Errori nelle dimostrazioni in geometria, Progresso Tecnico Editoriale, Milano 1965.



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La matematica nell’umorismo Se dunque è così, questi passaggi di pensiero che provocano umorismo mentre si fa matematica lo possono provocare anche al di fuori, in ogni situazione in cui localmente si applichino; infatti John Alien Paulos54 ha sviluppato una teoria matematica dell’umorismo. Questo livello di coinvolgimento supremo rappresenta la vendetta più completa della matematica su chi la ritiene estranea all’umorismo (è la risata di rivalsa di Talete sul dileggio della serva). Paulos ha perfezionato una intuizione di Arthur Koestler55 secondo cui «lo schema logico del processo creativo è lo stesso in tutti e tre i casi di scienza, humour e poesia: consiste nella scoperta di similarità nascoste», distinguendosi solo per il clima emozionale in cui sono inserite, ora staccato, ora aggressivo, ora simpatetico. Una teoria matematica dello humour consiste nell’indicare come metodi e mosse tipiche o caratterizzanti del pensiero matematico siano all’origine del riso nei più vari contesti. Tra i temi scelti da Paulos il più importante è il metodo assiomatico, con il suo corredo di una pluralità di modelli di una stessa teoria: uno naturale, spontaneo, gli altri no, non familiari, forse ignoti. Il metodo assiomatico dà una base comune a diverse teorie del riso, quella della sorpresa come quella degli accostamenti incongrui, con i suoi modelli standard e non standard. Situazioni ridicole sono create dalla variazione del senso dei termini (incluse 54 J. A. Paulos, Mathematica and Humor, The University of Chicago Press, Chicago 1980. 55 A. Koestler, The Act of Creation, Hutchinson, London 1964.

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quelle viste sopra in cui si confrontano un significato tecnico e uno del parlato). Si pensi ai modelli non euclidei in cui si disegnano certe curve e si dice che sono rette (anche solo nella geometria del taxista, di Karl Menger, per cui la via più breve è, se va bene, una spezzata). La pluralità di modelli si manifesta proprio nell’impostazione di tanti giochi, in particolare gli indovinelli scherzosi. Lo schema comune è il seguente: Domanda: Che cosa è che ha le proprietà A, B, C…? Risposta: X, o non so. No, Y.

Un esempio un po’ sboccato (fig. 1): Un vecchio barbone laido si avvicina con fare circospetto, con le mani sui risvolti dell’impermeabile, a una verginale fanciulla seduta su una panchina del parco. – Che cosa è che entra duro e asciutto ed esce molle e umido? – Mah, veramente, io… – Il chewing-gum.

Collegata, ma più sottile, è l’impostazione dei giochi del tipo: qual è la differenza tra… e… ? L’ascoltatore viene sfidato a trovare una somiglianza tra due situazioni o enti che sembrano non averne alcuna; la risposta di solito si basa su un termine di significato ambiguo, cioè un termine che nelle due situazioni viene interpretato in modo diverso, coerente ai due contesti. Più che alla scoperta di similarità nascoste (un luogo comune sull’utilità delle analogie nella scienza) sembra importante guardare al fenomeno in questa ottica opposta complementare, e mettere in rilievo le dissimilarità che convivono o sono compatibili con le stesse assunzioni. Riconoscere le similarità nascoste richiede o implica che si



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Figura 1

formuli una teoria unificante che ha entrambe le situazioni dissimili come modelli. Quando una scoperta è dovuta a una tale mossa, la soddisfazione è intrisa di piacere e di compiacimento, come quando si inventa un bel joke. «Uno dei piaceri delle scienze è quello di assistere all’improvviso ricongiungimento di due informazioni distanti e

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apparentemente prive di relazioni tra loro. In un lampo, le dimensioni della nostra conoscenza raddoppiano o triplicano, come quando si lavora su due parti distanti di un puzzle che alla fine combaciano».56 Si confronti con quello che diceva Federigo Enriques, che a proposito delle molteplici interpretazioni, regolate dal metodo assiomatico, esclamava con entusiasmo: «Nulla è più fecondo che la moltiplicazione dei nostri poteri intuitivi recata da questo principio: pare quasi che agli occhi mortali, con cui ci è dato esaminare una figura sotto un certo rapporto, si aggiungano mille occhi spirituali per contemplarne tante diverse trasfigurazioni, mentre l’unità dell’oggetto splende alla ragione così arricchita».57 Un secondo tema collegato è indicato da Paulos nella distinzione tra livello e metalivello, a cui occorre ascendere per confrontare le diverse interpretazioni. La comprensione di una situazione umoristica richiede spesso che ci si stacchi, che si faccia un passo indietro per una diversa prospettiva. Questo, secondo Paulos, spiega perché fanatici e dogmatici manchino generalmente di umorismo: «Le persone le cui vite sono dominate da un sistema o un insieme di regole sono bloccate, per così dire, al livello oggetto del loro sistema». Sull’importanza del metalivello insiste anche Bateson nella sua teoria del riso.58 Un gioco richiede che si comunichi prima, o nel corso delle azioni che si compiono, che 56 J. T. Bonner, Hormones in Social Amoebae and Mammals, in «Scientific American», CCXXI (1969), n. 5. 57 F. Enriques, Per la storia della logica, Zanichelli, Bologna 1922, rist. an. 1987, p. 140. 58 G. Bateson, The Message «This Is Play», in B. Schaffer (a cura di), Group Processes, Josiah Macy Foundation, New York 1958, e in Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976.



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quello che si sta facendo è un gioco. La comunicazione di un gioco richiede metacomunicazione. D’altra parte è vero anche il contrario, che la metacomunicazione è essenziale per la vita seria: la capacità di cogliere i metalivelli della comunicazione è essenziale per la vita normale. L’incapacità di distinguere livello e metalivello è alla base (o una forma di espressione) di malattie mentali, secondo analisi suggerite da Bateson; purtroppo queste malattie fanno ridere; nell’ebefrenia si riconosce solo il livello linguistico, nella paranoia solo quello metalinguistico. Cavarsela a gestire implicitamente i livelli mescolati, senza virgolette, funziona bene normalmente (come la logica naturale) salvo che in condizioni critiche dove un indicatore linguistico abbia ambiguamente riferimento in entrambi i livelli. L’umorismo si genera con l’identificazione o lo scambio dei due riferimenti (di cosa Roma ne ha sette, di cosa Roma ne ha quattro?). La creazione dei paradossi è dovuta soprattutto all’autoriferimento (il nevrotico preoccupato di non avere preoccupazioni, il cartello pubblicitario con su scritto «Volete imparare a leggere? Rivolgetevi a…»). Il metalivello è inoltre essenziale per lo scioglimento dei paradossi, quando è possibile. Sul più bello di una raccolta di problemi aritmetici e logici si può trovare, tra i problemi pratici, il quesito: «Data l’altezza dell’albero maestro di una nave, trovare l’età del capitano» – un gioco nel gioco, un gioco sul gioco. Secondo Peano, il problema è risolubile sapendo che la nave appartiene alla capitaneria di Genova, perché allora si possono andare a controllare gli elenchi con le caratteristiche delle navi… Tale soluzione peraltro è matematica, e non pratica: ne è la prova il fatto che la consul-

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tazione e scrittura di registri da parte di impiegati è presa da Richard Feynman come modello per l’introduzione dei concetti della calcolabilità, invece delle solite operazioni aritmetiche.59 Secondo Paulos è importante anche l’iterazione, frequente nelle situazioni comiche delle commedie e nelle vignette mute dove c’è un carro attrezzi che arriva sulla scena di un incidente, poi un secondo carro attrezzi che trascina il primo, poi un terzo… Con le ambulanze è un po’ macabro, ma qualche volta succede anche nella realtà. Con iterazione e metalivello si costruiscono ad esempio le barzellette sulle barzellette.60 Un modello matematico dell’umorismo Infine, una teoria matematica di un qualunque soggetto non è tale se non presenta un modello formale. Il modello più consono al fenomeno del riso è ovviamente quello delle catastrofi. Paulos ha considerato il modello di E.C. Zeeman (1976) sul comportamento aggressivo (positivo o negativo, attacco o fuga) degli animali sotto l’azione di due fattori, rabbia e paura. La forma qualitativa del modello è quella della catastrofe a cuspide (fig. 2). Esiste una zona critica, in cui una piccola variazione di un fattore 59 R. P. Feynman, Feynman’s Lectures on Computation, Addison Wesley, Reading, Mass., 1996. 60 Come quella del carcerato che sentiva ridere i compagni quando uno di loro pronunciava un numero, e non capiva, finché non gli spiegarono che i numeri erano usati per denotare barzellette, e far più in fretta a raccontarle. Un giorno anche il nuovo arrivato volle partecipare, e disse un numero, ma nessuno rise. «Come mai?» chiese deluso. «Sai, con le barzellette, dipende da come le racconti».



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Figura 2

può provocare un salto tra i due livelli. Una caratteristica importante del modello di Zeeman è la divergenza, che dipende dal cammino seguito: per alti valori di entrambi i fattori, il comportamento attuale dipende da come è iniziato il fenomeno e non è modificabile (un po’ di paura iniziale e quindi un aumento di entrambi, oppure una rabbia iniziale e poi un aumento: ci si trova su uno o l’altro livello). Un’altra caratteristica significativa del modello è l’isteresi, ovvero l’impossibilità di tornare indietro sullo stesso percorso diminuendo uno dei fattori, dopo che aumentandolo di poco si è avuto il salto. Paulos ha adattato il modello allo studio delle ambiguità delle storie, che dipendono dalla presenza di due

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significati: lo sviluppo di una storia è un cammino in cui i nuovi elementi narrativi possono spingere più verso l’uno o più verso l’altro, finché la battuta cruciale (la punch line) provoca la catastrofe dello scambio delle interpretazioni. Raccontare male la storia significa che il cammino si svolge tutto in una zona che non attraversa la linea critica, e non si arriva al riso. L’isteresi significa che quando il secondo significato è rivelato troppo presto, non si riesce più a ricuperare la storia. Il fatto che il riso sia un rilascio di energia per una caduta di eccitazione fisiologica giustifica ulteriormente l’assunzione che il modello dell’umorismo sia lo stesso di quello di Zeeman. Paulos considera anche l’umorismo prodotto da un solo fattore, come nei casi di autoriferimento, e l’oscillazione indecisa nella comprensione dell’argomento (è vero, è falso) che si ha tra il seguire alternativamente la storia prendendola alla lettera e il cogliere i metasuggerimenti ricordando come lo scopo sia quello di far ridere. C’è un solo tipo di catastrofe unidimensionale; una combinazione di questo e del modello precedente rende conto dell’umorismo prodotto da ambiguità e con una oscillazione piacevole. Per il Teorema di classificazione di Thom, l’unica catastrofe dipendente da tre fattori è del tipo «mangia la coda» (si veda sopra, la caccia al leone). Il fatto che il modello dell’umorismo sia la catastrofe «mangia la coda» è un adeguato coronamento della trattazione. Preoccupato che si rida del suo modello, Paulos mette le mani avanti per negare che il suo intento sia quello di «ridurre l’umorismo a formule ed equazioni. L’umorismo, anche se spesso utilizza artifici formali, dipende in ultima istanza da significati che non possono essere ridotti in questo modo». Ma non si rende conto che lo stesso è vero della matematica. Un sistema formale è muto se non



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ha una semantica; una semantica non è altro che una interpretazione in un altro sistema formale (o più di uno), che a sua volta… La catena sfuma nel linguaggio naturale intuitivo, nella cui zona di vaghezza si inseriscono sempre nuovi precisi livelli intermedi. Questo è il motivo per cui è per lo meno affrettata la tesi che i calcolatori non sarebbero capaci di riso perché sono bloccati in un unico sistema di regole. Il paradosso del significato è che i tentativi di esprimerlo lasciano in mano solo sistemi formali.



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Paradossi, paradossi, paradossi

Le opinioni su quale sia il ruolo dei paradossi divergono. Secondo alcuni hanno una funzione importante e drammatica, annunciando e innescando rivoluzioni del pensiero.1 Borges pensava che potessero essere le prove, inevitabilmente irreali, del carattere allucinatorio del mondo sostenuto dagli idealisti. Quine ha osservato che il tratto forse più curioso dei paradossi è quello di risultare, a volte, meno frivoli di quello che sembrano. Il paradosso dei paradossi è che il vero paradosso non può esistere: il vero paradosso, true to its nature, dovrebbe essere come l’ordigno fine-del-mondo, il sogno dello scienziato pazzo che vuole inventare l’acido universale che corrode tutto, ogni recipiente, anche la terra, ma anche, in definitiva, se stesso e quindi non può esistere se non come ombra di un fantasma svanito, come gli infinitesimi di buona memoria; un luccichio, poi scompare e non siamo sicuri di averlo visto. Il paradosso dell’acido universale è ovviamente una variante di quello antico di Re Mida. Ad esempio A. Rapoport, Escape from Paradox, in «Scientific American», CCXVII (1967), n. 1. 1

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Ma tutte le generalizzazioni sono sbagliate, e forse non c’è un tipo unico di paradossi. D’altra parte, se tutte le generalizzazioni sono sbagliate, lo è anche questa appena enunciata, che quindi è falsa, ed esiste qualche generalizzazione non sbagliata (non questa), e si può continuare a cercarla. Tra l’altro, abbiamo appena provato, contro chi sostiene che la logica pura non crea conoscenza, che (i) esistono leggi generali e (ii) gli esseri umani sono in grado di conoscerne almeno alcune con il pensiero, così fondando la posizione razionalista (che più o meno si appoggiava allo stesso tipo di argomentazioni). In questo paradosso si vedono gli ingredienti costanti ed essenziali dei paradossi, l’autoriferimento e la negazione. Il nostro intento è solo quello di fare una rassegna, largamente incompleta, di paradossi veri o presunti.2 Nella storia ci sono stati diversi periodi in cui l’attenzione per i paradossi è stata molto viva: nel periodo greco, poi nel Medioevo con la discussione degli insolubilia, di nuovo nel Rinascimento, a cui risalgono numerose raccolte di paradossi, e quindi all’inizio del Novecento. Ai nostri giorni conosciamo i paradossi della teoria delle decisioni. Incominciamo dal principio, e quindi dall’etimologia; la parola greca vuol dire «contro l’opinione corrente», o «contro l’apparenza», o al di là della stessa. In greco esistevano altre parole, per alcuni di quelli che consideriamo

2 Raccolte di paradossi di vario genere si trovano in N. Falletta, The Paradoxicon, Wiley, New York 1983, e in W. Poundstone, Labyrinths of Reason, Anchor Book, Doubleday, New York 1988, oltre che nei libri di Martin Gardner e in quelli di Raymond Smullyan. Per i paradossi matematici, si veda I. Kleiner e N. Movshovitz-Hadar, The Role of Paradoxes in the Evolution of Mathematics, in «American Mathematical Monthly», CI (1994), n. 10, pp. 963-74.



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paradossi, ad esempio «aporia». Con «paradosso» si intende in genere un argomento che appare contraddittorio ma che deve essere accettato,

oppure un argomento che appare corretto ma porta a una contraddizione.

La contraddizione può essere interna, logica, oppure può minare qualche credenza già accettata o diffusa. Paradossi del senso comune Un’ampia classe di paradossi è costituita da quelli che contraddicono il senso comune. Si pone dunque il problema di definire il senso comune. Einstein ha detto che il senso comune è l’insieme dei pregiudizi che ognuno ha assorbito fino all’età di diciotto anni. Forse è l’insieme delle credenze efficaci che l’essere umano adotta per sopravvivere nell’ambiente (e quindi, ad esempio, per non morire dallo spavento ogni volta che il sole tramonta). Non bisogna essere troppo facilmente disposti a considerare paradossi le verità che contraddicono il senso comune, anche inteso come visione del mondo ereditata dalla ricerca scientifica precedente: non si vede perché non debba cambiare, visto che è cambiata tante volte. Se portato all’estremo, questo uso farebbe dire che la terra rotonda è un paradosso. Si pensi ad esempio alla visione copernicana: nel Seicento si parlava del moto della terra come del paradosso di Copernico. Non affronteremo i paradossi della fisica, per incom-

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petenza; d’altra parte per dire che non ne vogliamo parlare, ne abbiamo parlato (questa è una specie di paradosso di Wittgenstein, che consiste nello sviluppare una lunga e incomprensibile argomentazione su un soggetto per dimostrare che non bisogna parlarne; in forma schematica si presenta nel pronunciare le parole «Non parlo»). Alcune conseguenze delle moderne teorie fisiche sono considerate paradossi. Un caso classico è quello della dilatazione del tempo, con la storia dei due gemelli uno dei quali parte per un viaggio spaziale e al ritorno ha un’età diversa dal fratello. Tutto ha origine dall’esperimento di Michelson e Morley che provava come la velocità della luce fosse la stessa rispetto a osservatori in moto uniforme: così si dice che se due automobili procedono l’una verso l’altra alla stessa velocità, la velocità con cui ognuno dei due conducenti vede avvicinarsi l’altro è il doppio della sua, ma la velocità dei fari è sempre la stessa. Forse l’esito di un esperimento è considerato paradossale finché non c’è una nuova teoria che lo spieghi. Ad ogni modo la dilatazione del tempo pare sia un fatto provato sperimentalmente, intorno al 1970. Alcuni paradossi sono stati inventati relativamente ai tachioni, le ipotetiche particelle che viaggiano più veloci della luce. Sono stati inventati gli antitelefoni tachionici, con cui si può telefonare nel passato (perché se esistono i tachioni pare che sia possibile viaggiare nel tempo) con situazioni che si possono facilmente immaginare, riguardo alla possibilità di influenzare il presente dal passato: ammesso che un antitelefono tachionico suoni tre ore prima, si può immaginare John che promette di telefonare alla sera alle sei al suo agente bancario Tom se e solo se non riceve un messaggio a mezzogiorno, e Tom appena riceve il messaggio alle tre telefona per conferma a John, che



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Figura 1 Il paradosso della clessidra. Se si rovescia il cilindro, la clessidra rimane al fondo per un po’, mentre la sabbia scende dentro alla clessidra, finché non ne è passata nella parte inferiore una certa quantità; allora la clessidra comincia lentamente a salire, finché si porta di nuovo nella parte alta del tubo. Il fenomeno sembra inspiegabile, dal momento che la clessidra è isolata e il suo peso non cambia.

dovrebbe ricevere il messaggio a mezzogiorno; quindi lo scambio telefonico avviene se e solo se non avviene. Il fatto che si possa costruire un paradosso non è una falsificazione dei tachioni, perché riguarda una frase che viene costruita dall’utente riguardo al proprio comportamento, non a quello dei tachioni.3 3 Questo non significa che non esistano paradossi pratici: cosa succederà ad esempio [scritto alla fine del 1995] se l’Italia non entrerà in Europa e in base al decreto Dini tutti gli italiani dovranno essere espulsi come extracomunitari?

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Abbondano i paradossi nella meccanica quantistica, e dunque sarebbe troppo lungo dilungarsi su questo punto. Tuttavia si può ricordare che se i tachioni non sono ancora stati osservati, invece eventi che vanno indietro nel tempo sono considerati «osservati» dalla teoria quantistica: un’antiparticella è una particella che viaggia all’indietro nel tempo, secondo Feynman, o secondo una delle letture dei diagrammi di Feynman. Paradossi della fisica di altro tipo sono quelli su cui sono basati apparecchi che sembrano contraddire le normali leggi macroscopiche (in generale sono giocattoli, perché sono inutili); un esempio è quello di un cilindro sigillato pieno d’acqua in cima al quale galleggia una clessidra (fig. 1).4 Paradossi della percezione Un’altra classe di paradossi a proposito dei quali è sufficiente un accenno sono quelli della percezione, soprattutto della visione.5 In questo caso c’è solo l’imbarazzo della scelta, anche perché intervengono gli artisti con la loro fantasia; pare che nel Seicento fossero molto apprezzati. Esistono diversi tipi di paradossi della percezione: si pensi ai disegni ambigui nel gioco sfondo-figura oppure a quelli che consentono di passare insensibilmente da una figura all’altra: il cubo di Necker, la scala di Schröder, il libro di Mach (molti degli inventori come si vede sono matematici). Osservando queste figure, dopo alcuni istanti 4 La spiegazione sta nello sfruttamento astuto dell’attrito contro la parete e della leggera inclinazione della clessidra quando la sabbia è nella parte superiore (giocattolo segnalato da Martin Gardner, in vendita a Parigi). 5 G. Kanizsa, Grammatica del vedere, il Mulino, Bologna 1980.



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Figura 2 Il cubo reversibile di Necker.

Figura 3 La scala reversibile di Schröder.

Figura 4 Il libro reversibile di Mach.

sembra di scorgere altre immagini (figg. 2, 3, 4). Su questo stesso fenomeno sono basati anche elementi decorativi, ad esempio la tappezzeria di alcune carrozze delle nostre Ferrovie. Ci sono invece casi in cui bisogna spostare lievemente il fuoco su un’altra parte della figura perché i pezzi si combinino in altro modo, come avviene ad esempio per

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Figura 5

Figura 6



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Figura 7

il volto della vecchia e della giovane, o per l’indiano e l’eschimese (figg. 5 e 6). Una categoria a parte, ma si tratta piuttosto di un gioco di abilità, sono le teste reversibili, per cui girando la figura si vede un’altra immagine (fig. 7); anch’esse andavano molto di moda nel Seicento. Ci sono poi i casi di figure impossibili, come le varie scale di Escher, il triangolo (fig. 8) e la scala di Penrose. Queste figure rispettano la prospettiva localmente, ma non globalmente. Ancora diverse sono le illusioni ottiche, basate su elementi grafici che sembrano (falsamente) diversi, o incurvati, o inclinati, per il disturbo percettivo causato dalla presenza di altri elementi grafici (fig. 9). Tra

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Figura 8 Il triangolo impossibile di Penrose.

Figura 9 L’illusione di Zöllner.

le illusioni ottiche, ricordiamo la stanza di Ames, guardando dentro la quale attraverso uno spioncino si vede un bambino molto più grande di un adulto; il fatto è che la parete di fondo è in realtà messa per sbieco, per cui le distanze sono diverse. Altri paradossi che riguardano figure hanno una base o un riferimento matematico; tra questi le linee che scompaiono (fig. 10) ma soprattutto le aree che scompaiono



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Figura 10 Linea che scompare.

(fig. 11). Una figura è divisa in un numero finito di parti che vengono poi ricomposte con spostamenti rigidi a formare una nuova figura con area minore o maggiore di quella originaria. Per i rettangoli del tipo mostrato in figura si usano di solito terne di numeri consecutivi della successione di Fibonacci, per i quali vale la proprietà che

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Figura 11 Area che scompare.

il quadrato di uno di essi è uguale al prodotto di quelli adiacenti più o meno uno. Questa creazione di aree sembra la realizzazione nel piano del paradosso di Banach-Tarski (una sfera congruente per partizione finita a due sfere dello stesso raggio: la sfera è divisa in un numero finito di parti che sono riarrangiate con traslazioni e rotazioni a formare due sfere). Veramente il paradosso risale a Gesù di Nazareth e alla moltiplicazione dei pani e dei pesci: allora si chiamava miracolo. Banach e Tarski hanno dimostrato che è una banale conseguenza degli assiomi della teoria degli insie-



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mi (incluso il principio di scelta); ma il paradosso, o vero miracolo, prova come sia ancora insufficiente la nostra intuizione geometrica. La possibilità illustrata da Banach e Tarski, o meglio la proprietà delle rotazioni che si usa per la dimostrazione, vale però solo nello spazio, non nel piano; si può dunque fare la moltiplicazione dei pani e dei pesci, ma non la duplicazione delle banconote. Nel piano si possono usare trasformazioni affini, per dimostrare che ogni figura è equivalente per decomposizione finita a qualsiasi altra. Quello che si può fare, e questo è un bel paradosso, è quadrare il cerchio, come è riuscito recentemente a Miklos Laczkovich, addirittura usando solo traslazioni.6 Quindi i paradossi dell’area sono in realtà trucchi, e trucchi della percezione (la diagonale non passa esattamente per tutti i vertici dei quadratini). Si possono usare per giochi di prestigio, come si vede nel caso del coniglio (fig. 12), oppure in quello del filosofo che scompare (fig. 13),7 e sarebbe un bel modo per liberarsi dei filosofi (se non che, fatto al contrario, li può moltiplicare). Una variante numerica, invece che grafica, è nell’indovinello dei cammelli: un arabo morendo lasciò ai tre figli i suoi 17 cammelli in eredità, e ordinò che la metà di essi fosse data al primo, la terza parte al secondo e la nona al terzo figlio. I figli, incapaci di eseguire le volontà del padre, si rivolsero al cadì. Questi venne col proprio cammello, che unì agli altri, quindi diede la metà dei 18 cammelli, 6 Si veda R.J. Gardner e S. Wagon, At Long Last, the Circle has been Squared, in «Notices of the American Mathematical Society», XXXVI (1989), n. 10, pp. 1338-43. Per una dimostrazione del paradosso di Banach e Tarski si veda G. Lolli, Dagli insiemi ai numeri, Bollati Boringhieri, Torino 1994. 7 Bisogna tagliare in due, orizzontalmente, la figura, quindi tagliare in due verticalmente la parte superiore, e scambiare i due pezzi. Se lo fate con la figura 13, comprate poi un’altra copia del libro!

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Figura 12 Il coniglio che scompare.

cioè 9, al primo figlio, un terzo, cioè 6 al secondo e un nono, cioè 2 al terzo. Infine, ripreso il proprio cammello, se ne andò, ringraziato calorosamente dai tre figli, ognuno dei quali aveva avuto più di quello che si aspettava. Un paradosso psicologico d’altro tipo potrebbe nascondersi nel fatto che per farsi venire in mente qualcosa che si ritiene di avere sulla punta della lingua è meglio non pensarci. Tuttavia, quello che si intende normalmente con paradosso ha a che fare più direttamente con il pensiero puro, a cui ora ci rivolgiamo.



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Figura 13 Il filosofo che scompare.

Paradosso di Parmenide Il primo paradosso, quello che forse è alla base di ogni altro, è il paradosso del non essere di Parmenide. Nel Sofista, 237-38, lo straniero si chiede a che cosa vada riferita la denominazione «ciò che non è», ricordando Parmenide che invitava a evitare questa via. La conclusione dello straniero è che «non bisogna invece affermare che nemmeno dice chi vuol usare l’espressione “ciò che non è”?». Ma poi osserva che rimane ora «l’aporia principale, la più grande», vale a dire «ciò che non è mette in difficoltà anche chi ne confuta la nozione e la denominazione, cosicché quando uno si prova a farne la confutazione è costretto a dire di esso cose che nel suo discorso stanno in reciproca opposizione». In particolare «nel dire che ciò

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che non è è ciò di cui non si può fare discorso (…) dirigevo su di esso il discorso come su di una unità». In termini più semplici, chi dice ex nihilo nihil afferma che dal nulla viene qualcosa, il soggetto nihil. Si dice che Parmenide insistesse sull’impossibilità di pensare il non essere, perché pensare è sempre pensare ciò che è. Ma non si può neanche pensare ciò che è: gli uomini, quando usano i nomi, indicano oggetti di pensiero a cui attribuiscono un essere ma anche lo distinguono dagli altri, spezzando per così dire l’essere. La pura negazione non può essere pensata, negare è pensare e dire qualcosa e nello stesso tempo pensare e dire che non è. Il paradosso di Parmenide va inquadrato nell’evoluzione della lingua greca, e in due fenomeni concomitanti che sono l’estensione e la generalizzazione dell’uso del verbo ἐστί (è) – in greco antico c’erano le frasi nominali come «Achille valoroso», mentre ἐστί era riservato ad altri usi, ad esempio locativi – e l’unificazione delle negazioni οὺ e μή, prima separate per aggettivi e verbi. Oggi dovremmo essere più scafati, ma non pare. Paradossi dell’autoriferimento Il paradosso del non essere può essere considerato un caso particolare di quelli in cui si propone un’affermazione del tipo «ogni cosa è X», per qualche predicato X, aggiungendovi poi «incluso non-X». Ad esempio «tutto è possibile, incluso l’impossibile». Il paradosso del non essere può ottenersi lasciando cadere X, cioè considerando «esistente» un predicato: «ogni cosa è (esistente), incluso il non-essere». Se si ammette che «… è X» implichi «… è», e si lascia



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cadere solo una parte della caratterizzazione di X, ad esempio un aggettivo, si ottengono paradossi come quello del gatto morto, che i linguisti non riescono a decidere se sia un gatto. La negazione è sempre essenziale anche dove sembra di avere solo paradossi dell’essere (o del verbo «essere») più che del non essere. Tra i paradossi dell’essere si può includere quello dei dodici apostoli («Pietro è apostolo, gli apostoli sono dodici, Pietro è dodici»). La negazione è nel passaggio dall’uno alla molteplicità, come paventava Parmenide. L’autoriferimento si può rendere esplicito nella forma vista sopra per le generalizzazioni, se le si applica a frasi: «ogni… è X», dove i puntini stanno più propriamente per «affermazione», o «frase» di un certo tipo, aggiungendo poi «incluso “ogni… è X”» o «incluso non“ogni… è X”». Ricordiamo come Saccheri utilizzava positivamente l’autoriferimento nella sua Logica demonstrativa. Per dimostrare che nessun sillogismo della prima figura con premessa minore negativa era valido, si consideri ogni M è P nessun S è M nessun S è P. Si sostituiscano i termini M, P e S rispettivamente con «sillogismo della prima figura con maggiore universale e minore affermativa», «valido» e «sillogismo della prima figura con maggiore universale e minore affermativa». Se si ammette che il sillogismo di sopra sia valido, essendo le premesse già dimostrate vere senza ricorso a questa assunzione, la conclusione dice proprio il contrario di quello che si è assunto. Ma il paradosso della consequentia mi-

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rabilis è che non è un paradosso, e stabilisce la negazione dell’assunzione. L’autoriferimento è alla base del genuino paradosso dell’ermeneutica, il cui principio fondamentale e unico è condensato nella tesi: Nessun testo ha in sé un significato, ma riceve i suoi significati a seconda del contesto storico, sociale e di genere, e degli interessi interpretativi di chi… bla… bla…

Applicato al testo ora scritto, ne segue che esso non ha in sé un significato. Paradossi dell’autoriferimento sono anche quelli medici, come il paradosso dell’ipocondriaco, la cui malattia consiste nell’aver paura di essere ipocondriaco. Anche le leggi morali, che pretendono di dare indicazioni valide per «tutti», sono fonte di paradossi dell’autoriferimento. Paradossi di Zenone Per tornare allo sviluppo storico, bisogna ricordare Zenone, a cui sono attribuiti diversi paradossi. Zenone era sceso in campo, nella ricostruzione di Platone, per difendere il suo maestro Parmenide, mostrando che la molteplicità produce effetti contraddittori, facendo apparire «le stesse cose simili e dissimili, una sola e molte, immobili e in movimento». Pare che Zenone, oltre ai paradossi del movimento, come quello della freccia o quello di Achille e la tartaruga, inventasse i paradossi delle grandezze. Uno di questi rileva che se una cosa ha grandezza non può essere identica a se stessa perché è divisibile, un altro che le cose diventano con la suddivisione tanto piccole da non avere grandezza, ma anche tanto grandi da essere infinite, se si



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sommano le varie parti ciascuna con la sua dimensione. Ancora, se i molti sono, dovrebbero essere tanti quanti sono, cioè un numero limitato; e nello stesso tempo ce ne sono infiniti, perché tra due cose ce ne è sempre un’altra. Paradosso del sorite A Eubulide di Mileto (e non a Zenone come nelle solite attribuzioni) è dovuto il paradosso del sorite, secondo cui un granello di sabbia dovrebbe fare rumore cadendo, perché il mucchio (sorite) fa rumore. Di qui derivano le versioni moderne, in cui si chiede quanti granelli di sabbia facciano un mucchio; sono di solito impostate come paradossi dell’induzione: ad esempio il fatto che tutti i numeri sono piccoli (pare dovuto a Hao Wang), perché 0 è piccolo e se x è piccolo anche x + 1 è piccolo. Si dice che i paradossi del sorite dipendono dalla vaghezza del predicato «piccolo», ma non c’è una trattazione della vaghezza che li eviti. Un’altra versione è quella dell’anfibio, in cui si chiede qual è il momento in cui il girino diventa rana; analogamente potremmo considerare il paradosso dell’aborto, su cui battagliano nella commissione per la bioetica: chiaramente non è una cellula in più che dà la vita, quindi o l’embrione non ha mai la vita oppure ce l’ha sin dal primo momento. Siccome sembra evidente che abbiamo la vita, la conclusione non può che essere che c’è fin dal primo momento. Questo argomento però i clericali me lo devono pagare, se lo usano. Facciano attenzione che per l’anima le cose sono un po’ più complicate, visto che è difficile sostenere che una cellula abbia un’anima; quindi sembra che l’unica posizione possibile per chi crede che

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in un essere umano ci sia un’anima sia quella che sosteneva Leibniz (e che è teologicamente controversa) per cui ogni creatura umana comporta, per quel che riguarda la sua anima, un nuovo intervento creativo di Dio nel mondo (ed Egli può metterlo in atto nel momento che crede, come nel paradosso dell’impiccato che vedremo oltre). In questo caso il paradosso del sorite è un argomento che sostiene, per esclusione delle altre, una posizione teologica. Lo stesso paradosso del sorite si presenta a chi, nell’ambito della filosofia della mente, sostiene che l’intelligenza è prodotta dalla complessità dei meccanismi fisiologici algoritmici del cervello, o di una macchina: quanti bit? Più in generale tutti coloro che in qualsiasi ambito parlano di proprietà emergenti si scontrano con il paradosso del sorite. Il paradosso della complessità sorge perché se si afferma che una proprietà è emergente, nello stesso tempo si deve riconoscere che non è misurabile la complessità che produce l’emergenza della proprietà in questione. Se una proprietà è dichiarata emergente dalla complessità, con ciò stesso si rinuncia a spiegare come emerga (e in parte lo stesso vale per l’emergenza dall’organizzazione, come nel pensiero di alcuni biologi che vogliono così evitare il riduzionismo). Non è una soluzione indicare una fascia, o un intervallo, e stabilire così un estremo inferiore, al di sotto del quale la proprietà non esiste, e un estremo superiore, al di sopra del quale la proprietà vale. Il problema si ripropone proprio per gli estremi dell’intervallo; la logica fuzzy non elimina la fuzziness, anche se si chiama logica.



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Paradosso del mentitore Quello del mentitore è il paradosso per antonomasia: vale la pena di segnalare che deve essere espresso con attenzione. Nella versione di Paolo non è un paradosso: se un cretese dice che tutti i cretesi mentono sempre, certo non può dire la verità, ma la conseguenza è che lui sta mentendo mentre lo enuncia, e l’enunciato è quindi falso. Comunque non ne segue altro, ovvero segue che i cretesi alle volte mentono, mentre magari altre volte non mentono. Per avere il paradosso occorre un indicale per isolare una frase singolare (pronunciata il tal giorno nel tale momento, oppure scritta a pagina tale, riga tale). Fin dall’antichità il paradosso era noto nella versione dello pseudomenos, che afferma: «Io sto mentendo». Quasi tutti i filosofi nell’antichità si sono cimentati con commenti al paradosso, quasi sempre seguendo Aristotele; questi considera anche il paradosso dello spergiuro, accostandolo a quello del mentitore e sostenendo una spiegazione simile. Una persona giura che romperà il suo giuramento; in seguito, giura di fare qualcosa ma non la fa, e sostiene di aver così rispettato il giuramento di rompere il giuramento. Secondo Aristotele, chi giura di rompere il proprio giuramento è fedele al giuramento soltanto nel rompere quel giuramento solo, ma nel secondo caso non mantiene il proprio giuramento. Sembra che Aristotele voglia dire che di giuramenti ce ne sono due da tenere distinti. Tuttavia egli non nota che per il primo nasce un paradosso. Nel Medioevo anche il mentitore viene analizzato nello stesso modo, come se fosse lo stesso paradosso dello spergiuro. Sono state proposte diverse varianti del paradosso del

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mentitore, come la carta da visita inventata dal matematico P. B. E. Jourdain su un lato della quale è scritto che la frase sull’altro lato è vera, e sull’altro lato che la prima frase è falsa.8 Questa versione con sdoppiamento risale a Buridano, nel Trecento, con le frasi «Socrate dice che quello che dice Platone è falso», e «Platone dice che quello che dice Socrate è vero». Con lo sdoppiamento si poteva forse applicare l’analisi dello spergiuro, basata su una sfasatura temporale. L’esempio di Buridano è ovviamente l’antesignano di tutti quelli relativi a furfanti e cavalieri esposti nei libri di Raymond Smullyan, che però spesso sono solo esercizi di logica: A dice che B mente; B dice che C mente; C dice che A e B mentono entrambi.

Lo sdoppiamento sostiene anche il paradosso del Comma 22? così come il paradosso della prefazione (di D. C. Makinson, 1960): scritto un libro in cui non ci sono errori, l’autore premette la frase «Questo libro contiene almeno un errore». Se non ci sono errori nel testo, l’errore è nella prefazione, e quindi almeno un errore c’è, ma non può essere che nella prefazione. La frase della prefazione è dunque falsa, e di errori non ce ne sono. Uno sdoppiamento si può anche vedere nell’affermazione (di G. Lolli, 1995, collegata anche al paradosso di Berry) «Questa frase non ha sei parole», che è falsa, ma allora «Questa frase ha sei 8 In un’edizione del Budget of Paradoxes, di A. De Morgan (Open Court, La Salle 1970), è invece scritto in copertina che «la frase scritta sul retro è falsa» e in quarta che «la frase scritta in copertina è falsa», ma così non si ha paradosso. 9 Secondo il regolamento militare americano, l’unico motivo valido per chiedere il congedo dal fronte è la pazzia, ma il Comma 22 precisa che se uno chiede di essere mandato a casa non è matto (J. Heller).



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parole» dovrebbe essere vera, mentre è falsa. Tra l’altro, ricordiamo che anche l’asino di Buridano era considerato un paradosso, forse avvicinabile a quelli odierni delle decisioni. Per spiegare il paradosso, ha avuto lunga fortuna la dottrina della cassatio, secondo la quale il mentitore non sta dicendo nulla; e quindi forse dovrebbe tacere, ma se non tace parla. Si potrebbe costruire un altro paradosso, quello del silenzio, con la frase «Sto zitto», o «Sono silente». Tra i vari tentativi di spiegazione più interessanti, avanzati nel Medioevo, c’era la distinzione di d’Ailly tra frasi scritte e frasi pensate, che nel paradosso verrebbero a essere confuse. Occam aveva una sorta di teoria di vari livelli linguistici, per cui le parti con «vero» non dovevano essere sostituite; e aveva ragione naturalmente; di più, quello che il mentitore ci ha insegnato è che «vero» non è un aggettivo accettabile della lingua naturale. Mentre si può dire «Questa frase è decasillaba»,10 non si può dire «Questa frase è vera», anche se è vera (altrimenti si dovrebbe poter dire anche «Questa frase è falsa»). Nell’analisi contemporanea relativa ai linguaggi logici, seguendo Tarski, invece degli indicali spazio-temporali si sono usati i punti fissi. Per ottenere una frase che dica di sé di essere falsa, supponendo di avere gli aggettivi «vero» e «falso», o di poter definire i predicati corrispondenti, e di avere un meccanismo di assegnazione di termini come nomi di formule, si è costruita una frase a tale che «α» sia il nome di «“α” è falsa», ovvero 10 O «questa frase ha dieci sillabe», perché «avere dieci sillabe» ed «essere decasillaba» sono equivalenti, ma solo per uno scherzo del linguaggio. Non sono equivalenti a «contenere dieci sillabe», perché «questa frase contiene dieci sillabe» è falsa.

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tale che la frase di cui «α» è il nome sia «“α” è falsa».11 Quindi con l’ipotizzata equivalenza «“α” è vera se e solo se α» della nozione correspondentista di verità si ha una contraddizione. Ne segue che «vero» non fa parte del linguaggio, e non è definibile; può essere aggiunto come predicato metalinguistico, ma lo si può usare solo in modo pleonastico nelle equivalenze «“x” è vera se e solo se x», e in nessun altro caso. Se il linguaggio contiene il metalinguaggio, come è il caso delle lingue naturali, e non si vuole rinunciare a «vero», si ha una confutazione della concezione correspondentista della verità da cui si era partiti. O più semplicemente si ha che il sistema mentale globale è contraddittorio. Paradosso di Cartesio Il paradosso di Cartesio è interessante, anche perché di solito non è presentato come un paradosso. Quando è espresso come cogito ergo sum, sembra un sillogismo, per quell’ergo, che peraltro in alcune altre formulazioni di Cartesio in effetti non c’è, e l’affermazione suona preferibilmente come je pense, je suis. Cartesio escludeva esplicitamente di fare un sillogismo; non intendeva sfruttare una premessa affermante che tutti quelli che pensano esistono. Per Cartesio la logica non dava conoscenza. L’argomento è basato invece su una caratteristica unica del pensare: non si dice «Io sento quindi sono», «Io voglio dunque 11 Questo è un punto fisso della funzione «“x” è falsa», e tali punti fissi esistono per ogni f(x): sostituendo in f (subst (x, x)) a x il numerale di n, dove» è il nome (gödeliano) di f (subst (x, x)), si ha che subst (n, n) è il nome di f (subst (n, n)), cioè si ha un t che è il nome di f(t).



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sono», perché ci si potrebbe ingannare, si potrebbe stare sognando, e non è possibile distinguere il sonno dalla veglia, o si potrebbe essere ingannati dal diavoletto. Per questo occorre dubitare. Ma non si può dubitare di pensare: «Dubito di stare pensando» è una contraddizione, perché è come dire «Sto pensando di non stare pensando». Dunque, consequentia mirabilis, non è possibile dubitare di stare pensando e così si esce dal dubbio sistematico, e si può confidare sulla certezza soggettiva di esistere. Paradossi dell’epistemica Paradossi lontanamente imparentati con quello di Cartesio sono quelli legati ai concetti di conoscenza e di credenza. Nella filosofia, con conoscenza si intende una credenza vera e giustificata. Così, con mossa tipicamente filosofica, il problema di definire la conoscenza è ridotto alla definizione di due altre nozioni che sono indefinibili (per la verità è un teorema, per la giustificazione quasi). Con «giustificazione» si conviene che si possano intendere varie cose; in generale, ma non solo, i procedimenti scientifici: certo qualcosa ci va per caratterizzare la conoscenza, oltre alla credenza vera, altrimenti io potrei dire che credo che Dio non esista, e sarebbe una credenza vera, ma non potrei dire che so che Dio non esiste. Tuttavia si consideri ora l’enunciato Nessuno crede questo enunciato.

Se è vero, nessuno lo crede e quindi nessuno lo conosce; se è falso, uno almeno lo crede, ma nessuno lo conosce, perché è falso. Quindi questo è un enunciato che nessuno può dire di conoscere. Non si può neanche dire

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però se è vero o falso. Vediamo invece Nessuno conosce questo enunciato.

Se è vero, nessuno lo conosce; se è falso, ci dovrebbe essere uno che lo conosce, ma non può perché è falso; quindi l’enunciato non è falso, ed è vero. È un enunciato vero che nessuno conosce. Se prima avevamo dimostrato che la conoscenza è possibile, ora abbiamo dimostrato che tuttavia esistono verità inconoscibili. Il paradosso ulteriore ovviamente è che questa verità inconoscibile è scritta davanti ai nostri occhi. Consideriamo ora Io non credo questo enunciato,

per cui succede questo: se uno lo crede, allora non lo crede, e quindi non lo crede; ma se non lo crede, allora l’enunciato è vero, e l’averlo testé dimostrato vero sarebbe un buon motivo sufficiente per crederlo. In ogni caso si ha una contraddizione, infatti non è possibile avere alcuna opinione senza essere in contraddizione, e questo prova che gli esseri umani sono contraddittori. Se si considera invece Io credo questo enunciato,

si ha che se uno lo crede allora lo rende vero e giustifica la sua credenza; ma se uno non lo crede, allora lo rende falso e giustifica la sua non credenza. Tutti hanno ragione, ma non solo chi lo crede e chi non lo crede, ma anche chi reputa di conoscerlo e chi lo rifiuta come falso. Quindi può essere sia vero che falso (ma è un fatto empirico, dipende da quello che le persone credono). Si sta ancora cercando di aggiungere altre condizioni alla definizione di «conoscenza» in modo da evitare questi paradossi, ma per ora non c’è una proposta che sia stata



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accolta all’unanimità.12 Probabilmente nessuna aggiunta evita che si possano ricostruire i relativi paradossi. Paradossi della decisione Il coccodrillo dice che mangerà il bambino se e solo se la madre non indovina che cosa il coccodrillo farà. La madre piange: «Crudele, mangerai il mio bambino!» Il coccodrillo osserva dunque che ora non può restituirlo, altrimenti la madre non avrà indovinato, per cui lo deve mangiare; ma la madre ha un sussulto di logica, e obietta che il coccodrillo non può mangiare il bambino, altrimenti fa sì che lei abbia indovinato, e in tal caso non deve mangiarlo. Se analizziamo formalmente quello che succede, vediamo che non ci sono grandi misteri; il coccodrillo stabilisce una premessa, per la quale esso mangerà il bambino se e solo se la madre non indovina quello che farà l’animale. Ora «la madre non indovina» diventa una frase di questa forma «madre dice che coccodrillo non mangia e coccodrillo mangia, oppure madre dice che coccodrillo mangia e coccodrillo non mangia» ovvero (¬ q p) (q ¬ p), tenendo conto che la madre può dire solo una di due cose. Quindi abbiamo come premessa posta dal coccodrillo p ↔ (¬ q p) (q ¬ p). Ora, questa è ovviamente incompatibile con q, mentre è compatibile con ¬ q e soddisfatta, in tal caso, se anche p è vero; se la madre speranzosa avesse detto che il coc12 La critica della definizione di «conoscenza» come «credenza vera giustificata» è stata svolta, con altri argomenti, da E. Gettier, Is justified True Belief Knowledge?, in «Analysis», XXIII (1963).

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codrillo non avrebbe mangiato il bambino, cercando di fare appello ai suoi buoni sentimenti, lui l’avrebbe potuto mangiare. L’origine del paradosso sembra risalire a Protagora che, dopo aver insegnato l’arte oratoria forense a Euatlo, gli concesse di rimandare il pagamento delle lezioni fino a che non avesse vinto la sua prima causa. Euatlo però non si era dedicato alla professione, e non lo aveva pagato, per cui Protagora dopo un po’ si era rivolto al tribunale. Ora se Euatlo, che si difende da solo, vince questa sua prima causa, non deve pagare Protagora, ma per l’accordo fatto è tenuto a pagarlo; se perde, dovrebbe pagarlo come conseguenza di questa lite, ma non in conseguenza del loro accordo.13 Un diverso tipo di paradosso della decisione è quello della cooperazione, o non cooperazione, che coinvolge due soggetti. A due sospetti di un crimine viene detto che se nessuno parla saranno entrambi liberi, essendo gli indizi insufficienti; se uno solo dei due confessa, guadagna la libertà mentre l’altro viene condannato a dieci anni di reclusione; se entrambi parlano, la pena è per entrambi di cinque anni. Pare che negli esperimenti compiuti in situazioni analoghe prevalga l’ultima soluzione, che non è quella più conveniente, ma che è dettata dalla sfiducia nel comportamento altrui (nella lealtà altrui o nell’intelligenza altrui?). Questo paradosso, detto dilemma del prigioniero, è stato individuato nel 1951 da Merrill Flood e nella formulazione attuale da Albert W. Tucker, un matematico interessato alla teoria dei giochi, nel cui ambito si possono trovare altri esempi. Si costruiscono matrici dei guadagni 13

Altri attribuiscono l’episodio a Corace siracusano e Tizia.



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e si cerca di vedere se esistono situazioni di equilibrio. Se nella matrice si mettono anche le considerazioni sul comportamento altrui si hanno i metagiochi di cooperazione, dove le situazioni di equilibrio sono diverse (e però si suppone qualche forma di comunicazione tra i soggetti). Paradossi della previsione Quello della previsione è più noto come paradosso dell’impiccato, o dell’interrogazione, o con altre varianti, e risale a quanto pare a un vero episodio di esercitazione antiaerea durante l’ultima guerra in Svezia. Qualcosa avverrà entro un certo numero di giorni, ma a sorpresa, in modo che al mattino di quel giorno il soggetto non possa sapere con certezza che quello è il giorno fatale. Dunque – il condannato ragiona – non può essere l’ultimo giorno, altrimenti all’alba di quel giorno saprei con certezza; ma essendo razionalmente escluso l’ultimo giorno, non può essere il penultimo, altrimenti all’alba di quel giorno saprei con certezza… Uno scherzo di Smullyan, a proposito di prigionieri e condannati, è di facile soluzione da parte del lettore: due uomini sono processati per un delitto, ma uno è assolto mentre l’altro viene ritenuto colpevole. Il giudice dice al colpevole: «Non mi è mai successa una cosa del genere; Lei è stato trovato colpevole oltre ogni ragionevole dubbio, ma la legge mi impone di lasciarla libero».

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Paradossi della probabilità Tra i paradossi delle decisioni si possono includere quelli della probabilità, connessi ai giochi d’azzardo. Il più noto è il paradosso di S. Pietroburgo, individuato da Nicola Bernoulli nel 1713 e pubblicato poi dal nipote Daniele nell’Accademia di S. Pietroburgo. In questo esempio un giocatore A lancia una moneta finché non ottiene testa; se accade al primo lancio, paga 1 (immagino un franco svizzero) a B, se accade al secondo 2, al terzo 4 e così via raddoppiando. Si chiede qual è la somma equa che B deve pagare ad A per partecipare al gioco. La somma è calcolata come in tutti i giochi sommando il valore atteso di ogni lancio, che è sempre di 1/2, per cui si ottiene una somma infinita. In un altro paradosso inventato dal matematico francese J. Bertrand nel 1889 ci sono tre scatole uguali ognuna delle quali contiene due monete. In una ve ne sono due d’oro, in un’altra due d’argento e nella terza una d’oro e una d’argento. Il giocatore sceglie una scatola e da questa viene tolta una moneta. Ora il banco scommette alla pari contro il giocatore che l’altra moneta nella scatola è dello stesso metallo. È da accettare, sulla base del fatto che ogni moneta è d’oro o d’argento, e quindi la probabilità è 1/2? Sembrerebbe di sì, e invece la probabilità è solo 1/3. Questo rientra nei problemi in cui semplicemente non siamo abbastanza bravi a calcolare la probabilità, e ce ne sono moltissimi. Ad esempio si chiama paradosso del compleanno il fatto che se a un party ci sono 24 persone, la probabilità che due almeno abbiano lo stesso compleanno è maggiore di 1/2. Si può scommettere. Questi paradossi si dovreb-



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bero far rientrare fra quelli del senso comune, come prova che il senso comune non ha niente a che vedere con la probabilità, anzi sono quasi sempre in opposizione. Se non si studia a scuola, il pensare probabilistico non è innato. Ci sono invece casi strani, in cui la probabilità di certi fatti cambia a seconda di quello che dico, o di come lo dico. Si consideri un gioco con quattro carte: asso di cuori e asso di picche, due di fiori e fante di quadri. Dopo aver mescolato le carte, il giocatore A ne prende due e annuncia di avere un asso. Qual è la probabilità che abbia anche un secondo asso? Ovviamente questo calcolo è importante se si vuole impostare poi un gioco equo. È 1/5. Ma se tra i due assi viene privilegiato, in anticipo, quello di picche, e A dopo aver preso due carte dice di avere l’asso di picche, allora la probabilità di avere anche l’altro asso è di 1/3. Paradossi matematici Con i paradossi matematici in generale c’è qualcosa da fare, a differenza dei precedenti, per neutralizzarli. Aveva torto Malcom X a sostenere che se la matematica non gli piaceva era perché in essa non c’era discussione, perché un errore è un errore e basta. Alcuni paradossi matematici sono detti fallacie, quando alla base c’è un errore mascherato; ma in verità non sono tutti fallacie, prima che si corregga l’errore? In generale si portano come esempi quelli della divisione per 0, con cui si può dimostrare che 1=2. Da qui poi Russell derivava che lui e il Papa erano una cosa sola (o qualcosa del genere). Una

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possibilità tra le tante è x2 – x2 = x2 – x2 x (x – x) = (x + x) (x – x) x = x + x. Ma cose ben peggiori sono state fatte da grandi matematici, ad esempio con i numeri negativi: Wallis sosteneva che erano più grandi di infinito, perché dividendo un numero positivo per 0 si aveva infinito, e se lo si divideva per un numero negativo, più piccolo di 0, ottenendo un numero negativo, il risultato doveva essere un numero maggiore di infinito. Arnaud poneva a Leibniz – che la riteneva difficile e insolubile, anche se chiedeva clemenza per i negativi, comunque utili – l’osservazione che non poteva valere la proporzione 1/ – 1 = – 1/1 perché il rapporto di una quantità a una più piccola non poteva essere uguale al rapporto tra una più piccola e una più grande. Ricordiamo il caso dei complessi, la formula in cui apparivano, ma poi sparivano, le radici dei numeri negativi e Bombelli che riteneva legittima la mossa, contro Cardano. Altri grattacapi hanno dato i logaritmi, in particolare quelli dei numeri negativi. Per Bernoulli log (– 1) era reale, perché dx/x = d(– x)/– x, per cui log (– x) = logx. Per Leibniz era immaginario, perché l’immagine di log, per argomenti reali, riempiva tutta la retta e non c’era più posto per altri valori. D’altra parte se log(– 1) fosse reale, allora anche log i lo sarebbe, perché uguale a (1/2) log(– 1), ma questo non sembra accettabile. Quando nel 1749 Eulero diede la sua formula, osservò che sulla questione del logaritmo, qualsiasi posizione si



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prendesse, apparivano contraddizioni impossibili da risolversi, ma che se la verità ha da essere universale allora queste contraddizioni, per quanto sembrassero insolubili dovevano essere solo apparenti. Questo forse è un altro paradosso dei paradossi, che se le contraddizioni appaiono insolubili devono essere apparenti. Oppure è solo una caratteristica di quelle matematiche? Sulle serie e la loro storia c’è solo da sbizzarrirsi; con diversi raggruppamenti dei termini e artifici legittimi si ottenevano le somme più diverse, incluso ∞. Con gli infinitesimi si sarebbe potuto dimostrare ogni cosa, come paventava Berkeley; ma è un fatto che con spericolati equilibrismi non si è caduti, con gli infinitesimi, negli assurdi delle serie; le leggi base di riferimento erano quelle familiari dei numeri reali. Invece sembrava strano dover rinunciare a commutatività e associatività per la somma (delle serie), anche di fronte a plateali controesempi; non era affatto ovvia la condizione dell’assoluta convergenza, finché Riemann non dimostrò che la somma di una serie non assolutamente convergente poteva assumere ogni valore. Tra i paradossi si potrebbero considerare anche alcune dimostrazioni sbagliate, soprattutto relative alle funzioni, ad esempio quella di Cauchy per cui una serie convergente di funzioni continue è continua. Ma paradossali non sono gli errori in sé, quanto l’atteggiamento del pubblico (inclusi noi, spettatori della storia). Si consideri il gran dileggio che viene oggi riversato su chi come Eulero (e gli altri del suo tempo) riteneva che ogni funzione continua fosse derivabile; sbandieriamo il controesempio di Weierstrass, come se lo avessimo trovato noi, e ignoriamo che nel 1940 è stato dimostrato (da Schwartz e Sobolev) che invero ogni funzione continua (o anche con un numero

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isolato di discontinuità) ha la derivata, che è una distribuzione. Ma il paradosso dell’ignoranza è che quanto più si è ignoranti tanto più si è superbi (o quanto più si sa tanto più si è modesti). Ne è una prova l’insoluto paradosso della curva. Il paradosso della curva è che non abbiamo una definizione di curva; la storia incomincia da Euclide che definisce le curve come entità con lunghezza ma senza larghezza. Poi la storia si mescola a quella delle funzioni (che sono curve o formule, ma arriva Dirichlet con la sua funzione che non è né una curva né una formula, e così almeno per tutto l’Ottocento, finché Baire dà la formula, con un doppio limite); si arriva alla definizione di Jordan, secondo cui una curva è il cammino di un punto che si muove con continuità. La curva di Peano che riempie un quadrato (al cui proposito Poincaré si chiede come sia possibile che l’intuizione ci possa ingannare in questo modo) dimostra che la definizione è troppo ampia – ma è anche troppo ristretta, perché y = sin(1/x), con i punti di accumulazione per x = 0, non è una curva nel senso di Jordan. La soluzione sembra trovata con il ritorno a Euclide, perché nient’altro è la definizione di curva di Menger e Uryson: continuo a una dimensione. Solo che nel 1970 arrivano i frattali di Mandelbrot (o di Weierstrass?), continui la cui dimensione è frazionaria. Cos’è una curva? Come paradossi della matematica qualcuno classificherebbe quei risultati che sembrano dire qualche cosa sul mondo, in base a puri calcoli; ad esempio il fatto che se 6 persone salgono su un ascensore ce se sono o almeno 3 che si conoscono tra di loro o almeno 3 che sono tra di loro completi sconosciuti (a due a due); oppure il fatto che in una città come Torino ci sono senz’altro almeno due persone che hanno lo stesso numero di capelli.



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Questi risultati dimostrano come sia ingiustificato l’uso, invalso a partire dal teorema di Calogero, di chiamare «teorema» una tesi non sostenuta da prove empiriche, per suggerire che in quanto teorema non può avere riferimento alla realtà. Paradossi dei fondamenti Mettiamo insieme sotto questa dicitura i paradossi che sono venuti fuori all’inizio del secolo nel contesto della riflessione sui fondamenti della matematica. Notiamo che sarebbero da ricordare anche, tra quelli matematici, i paradossi dell’infinito; basta citare quello dell’albergo infinito in cui c’è sempre posto, anche se è pieno. Questi potrebbero rientrare nei paradossi del senso comune, in quanto con essi si contraddice quello che succede con gli insiemi finiti. Prima di essere matematici, i paradossi dell’infinito sono stati teologici, ad esempio con Nicola Cusano (Dio è tutto e anche dentro a ciascuno di noi, così come un segmento contiene tanti punti quanti la retta). Invece i paradossi della teoria assiomatica, come il paradosso di Skolem, riguardano solo insiemi infiniti. A proposito di infinito, forse si dovrebbe osservare che il primo vero paradosso matematico, e serio, è l’irrazionalità di . Infatti è la prima dimostrazione dell’esistenza dell’infinito, e non si capisce perché non sia accettata come tale. Si ha una situazione concreta, addirittura materiale, molto semplice, come quella di un quadrato e della sua diagonale, e un procedimento di misurazione con righelli, e righelli di sottomultipli; ebbene, la dimostrazione dell’irrazionalità prova che questo procedimento non ha termine.

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Certo si potrebbe obiettare che non ha termine solo perché ci sono a disposizione infiniti istanti di tempo, ma gli infiniti istanti di tempo sono una cosa astratta, una semplice possibilità. Qui si ha l’infinito nel finito del segmento; non è vero che lo si aveva già con il procedimento delle divisioni successive, perché appunto non si poteva dimostrare se il procedimento fosse infinito o no. L’irrazionalità di prova anche la falsità dell’atomismo (per atomi di dimensione finita): infatti se un quadrato ha come lato un segmento fatto di un numero finito di atomi allora la diagonale non è fatta di un numero finito di atomi (ricordiamo che il numero greco, lo gnomone, era proprio una lista di sassolini). Il teorema di Ippaso dunque di nuovo dà informazioni concrete sulla realtà (ma cos’altro fanno le formule della fisica?). Una generalizzazione del paradosso della diagonale è quello della diagonalizzazione di Cantor, con cui, manipolando il numerabile, si prova che esistono infiniti di ordine superiore (e altri paradossi logici). Chissà cosa ha di strano la diagonale. Tornando ai paradossi emersi nella discussione moderna sui fondamenti, ancorché ben noti, li ricordiamo brevemente. Sono chiamati anche, dopo Frank P. Ramsey, paradossi epistemologici. La differenza apparente, rispetto a quelli matematici, è la seguente: i paradossi matematici in genere non sono veri paradossi, ma pasticci; i paradossi sulle serie sono dovuti al fatto che si applicano a un nuovo dominio tutte le leggi di un vecchio dominio, ad esempio proprietà associativa e commutativa delle somme finite. I paradossi sono correggibili; anche quelli della teoria degli insiemi (del massimo cardinale, di Cantor, e del massimo ordinale, di Cantor e BuraliForti) sono stati neutralizzati con l’opportuna modifica



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di un concetto, cioè rinunciando solo a qualche caratteristica naïve del concetto. Per i paradossi epistemologici sembra che non sia possibile un simile rattoppo, che si debba buttare via un intero concetto o un’intera problematica (ad esempio quella della definibilità). È stato merito di Gödel aver mostrato invece come anche essi possano essere trasformati, come , in tecniche ammissibili nell’arsenale matematico. Paradosso di Russell: data una relazione binaria R, si definisce la classe A di tutti gli x tali che not-(xRx), quindi si osserva che non può esistere un b tale che bRx per tutti e soli gli elementi di A; si avrebbe infatti bRx ↔ not-(xRx) che per x = b dà una contraddizione. In questa formulazione, sembrerebbe esserci una via di fuga dal paradosso, attraverso la conclusione che b non esiste, senza drammi; ma non è sempre possibile, e qui soccorre la versione popolare e volgare nella forma di paradosso del barbiere. Infatti il problema del barbiere b è che lui esiste (o si può fare in modo che esista creando le condizioni appropriate), ma non può appartenere né alla classe A né al complemento. Quindi è A che non esiste. Questo prova che non esistono in generale le classi (neanche quelle finite), e dunque viene confutato il platonismo. La versione del barbiere è anche utile perché mostra chiaramente come il paradosso non abbia niente a che vedere con l’infinito; naturalmente lo si può capire direttamente ponendo attenzione alla sua formulazione: A è la classe di tutte le classi che non appartengono a se stesse, e A non può appartenere né non appartenere ad A.

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Paradosso di Richard: si considera una enumerazione di tutti i reali definibili, che dà origine a una matrice infinita il cui termine generale a (n, m) è 0 oppure 1; quindi si definisce l’antidiagonale 1 – a(n, n) che non può coincidere con nessuna riga e non è quindi definibile nonostante sia appena stata chiaramente definita. Il paradosso di Richard è la versione definibile del teorema di Cantor. Paradosso di Grelling: un aggettivo si dice autologico se si applica a se stesso, altrimenti si dice eterologico; si porta come esempio «polisillabo» che è autologico, mentre «monosillabo» è eterologico. In verità polisillabo non è l’aggettivo, ma la parola. Si chiede ora se l’aggettivo «eterologico» sia eterologico o autologico, e in ogni caso si ha una contraddizione. Paradosso di Berry: «il minimo numero che non è definibile con meno di ventisei sillabe» è per l’appunto appena stato definito con meno di ventisei sillabe. Mentre Zermelo sosteneva che i paradossi della definibilità non erano matematica, e con lui Peano (antinomia de Richard non pertine ad mathematica, sed ad linguistica), Gödel ha notato che tutti questi paradossi epistemologici possono essere usati per una dimostrazione del teorema di incompletezza, quello di Richard come quello di Berry e quello del mentitore.14 Ad esempio, si consideri la matrice infinita di 0 e 1 data da 1 se la proposizione che si ottiene sostituendo m nell’n-sima formula è dimostrabile

a(n, m) =

0 se la negazione della proposizione che si ottiene… è dimostrabile altrimenti

14 Si veda G. Lolli, Incompletezza: Saggio su Kurt Gödel, il Mulino, Bologna 1991.



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(dove significa «indefinita»). L’antidiagonale 1 – a(n, n) è perfettamente definibile da una formula, diciamo la qesima del linguaggio, quindi a(q,n) = 1 — a(n, n) e per n = q si ha che a(q,q) = 1 — a(q, q). Questa però non è una contraddizione, ma implica che a(q,q) deve essere indefinita, quindi si ottiene una proposizione tale che né lei né la sua negazione sono dimostrabili. In quanto dovuti ad autoriferimento, i paradossi si possono mettere nella forma del punto fisso, come abbiamo già visto a proposito del paradosso di Tarski. Ma i punti fissi giustificano la ricorsione, cioè il fatto che una funzione viene definita applicandola a se stessa, e quindi in un certo senso si crea dal nulla (come l’infinito con la diagonale e il più che numerabile con la diagonalizzazione). Il paradosso della ricorsione si verifica perché si entra in un circolo virtuoso (o un circolo che diventa spirale). Visto in altro modo, i punti fissi X = FX sono limite di successioni Fn = FFn–1 in cui Fn Fn–1; molti paradossi, come le antinomie kantiane, sono paradossi del limite. Paradossi dell’induzione e della statistica Il paradosso della conferma è quello per cui una generalizzazione come «tutti i corvi sono neri», corroborata o confermata ogni volta che si vede un nuovo corvo nero, dovrebbe essere confermata anche ogni volta che si vede una cosa non nera che non è un corvo, ad esempio uno smeraldo verde.

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Un altro paradosso spesso citato a questo proposito è quello di Nelson Goodman (1946) del grue-bleen: si immagina che esista un popolo presso cui sono chiamati grue gli oggetti che prima di una certa data futura sono verdi e poi diventano blu, e sono chiamati bleen gli oggetti che prima di quella data sono blu e poi diventano verdi. Su questa base si instaurano strane discussioni su come debbano essere considerati gli smeraldi, e se oggi uno smeraldo confermi l’affermazione che gli smeraldi sono verdi oppure quella che gli smeraldi sono grue. Siccome non sono mai riuscito a capire il succo, né dove stia il paradosso, non andrò avanti. Sono invece importanti i paradossi statistici, perché la statistica è usata per imporci molte decisioni e credenze. Un paradosso famoso e preoccupante è quello di E.H. Simpson (1951), che mostra come sia possibile che i dati di due casi diversi considerati separatamente confermino la stessa ipotesi, ma considerati congiuntamente la falsifichino. Supponiamo che in due urne, una bianca e una nera, ci siano caramelle di liquirizia e menta nelle proporzioni, rispettivamente B 50 liquirizia 60 menta N 30 liquirizia 40 menta. Ora supponiamo che in un’altra coppia di urne, poste in un’altra stanza, ci sia la seguente distribuzione:

B N

60 liquirizia 90 liquirizia

30 menta 50 menta.

In entrambi i casi la probabilità di prendere una caramella di liquirizia è maggiore nell’urna bianca; ma supponiamo



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ora che le urne siano travasate in una nuova coppia di urne più grandi, le B nella nuova bianca e le N nella nuova nera. Abbiamo dunque:

B N

110 liquirizia 120 liquirizia

90 menta 90 menta.

La persona abituata a prendere una caramella dalle urne bianche, perché preferisce la liquirizia, chiede dove sono le urne e gli viene detto che sono state travasate nelle nuove, senza cambiamenti; è probabile che senza pensarci quella persona vada a prendere una caramella dall’urna B, e invece ora la probabilità per la liquirizia è più favorevole per la N. Si potrebbero fare esempi diversi e più realistici, pensando agli esperimenti su un farmaco e ai suoi effetti su diversi campioni in diverse città; non lo facciamo per non deprimere, ma è facile immaginare quali ambigue situazioni di interpretazione dei dati si possano creare. Sono facili da costruire anche paradossi analoghi, dove i dati confermano due ipotesi ma falsificano la congiunzione. Conclusioni In conclusione, come previsto, non sembra possibile individuare un tipo e un ruolo unici dei paradossi, anche se alcuni ingredienti sono costanti. I paradossi del senso comune comprendono anche, oltre a quelli della fisica, molti paradossi della matematica, della probabilità e della statistica. Anzi in un certo senso sono tutti paradossi del senso comune. In quanto dipendono da nuove scoperte o dall’invenzione di nuo-

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ve tecniche e concetti, i paradossi sono benvenuti se con la maraviglia inducono a prestare maggiore attenzione e studio alle nuove problematiche. Sono fattori di crescita. I paradossi della percezione suggeriscono che i dati sensoriali sottodeterminino (almeno a volte) l’immagine mentale, e quindi il contributo dell’elaborazione dell’informazione non è trascurabile. La capacità di vedere diverse figure sotto l’azione degli stessi stimoli sensoriali è alla base della capacità di vedere diverse strutture, ed è quindi una componente importante del ragionare in termini di conseguenza logica, dunque del fare matematica. I paradossi di tipo logico sono difficoltà o scoperte che si incontrano in vari tempi e a vari livelli nel corso dell’apprendimento, mai terminato, dell’uso del linguaggio. Se il linguaggio fosse puramente descrittivo, di cose e azioni svolte, probabilmente non esisterebbero paradossi; ma non si dimostrerebbe neanche l’incommensurabilità della diagonale – si descriverebbero solo le approssimazioni realizzate. Non appena ci si stacca dalla descrizione dei fatti per parlare di cose immaginate, nel futuro o controfattuali, si possono fare previsioni, e dimostrazioni, ma anche descrivere l’irrealtà. Si apre così la strada alla negazione (dell’esistente), e viceversa la negazione apre la strada all’astratto: si dice che qualcosa non avviene, con la stessa grammatica utilizzata per i fatti che avvengono; si dice che avviene il contrario di una cosa, quando il contrario di una cosa esistente non è affatto determinata (gli insiemi non sono chiusi rispetto al complemento). La grammatica suggerisce però che esista non-X alla stessa stregua di X; si tratta la falsità in modo simmetrico alla verità, che non è sempre ammissibile, perché se la verità può essere corrispondenza ai fatti, la falsità è piuttosto come una funzione a più valori (infiniti). Sarebbe interessante analizzare



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come vengono considerati i paradossi, e quali sono, fuori dall’Occidente.15 Quello che accomuna tutti i paradossi è comunque l’aspetto divertente, perché si tratta di sorprese, e all’inaspettato, come anche alla paura, si reagisce col riso. Sembra in definitiva che si debba rovesciare l’osservazione di Quine e confessare che, anche quando sembrano seri, i paradossi hanno un che di frivolo. Oppure, in modo meno frivolo, come diceva Eulero, se le contraddizioni sembrano insolubili allora devono essere apparenti (come l’acido universale).

15 Alla fine del Rāmāyana, poema di Vālmīki, il maestro Vālmīki insegna a leggere ai figli usando come testo il Rāmāyana. Nelle Mille e una notte, nella notte dcii la regina racconta una storia che inizia come le Mille e una notte. Il filosofo taoista Chuang Tzu propone gli stessi paradossi di Zenone. Mettiamo tutto assieme perché per noi l’Oriente è come la Cina per Hegel, secondo Russell; chiedendosi perché mai Hegel dovesse considerare la Cina come l’essere, Russell si rispondeva che probabilmente era perché l’unica cosa che Hegel sapesse della Cina era che c’era.

Indice

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Paradossi, paradossi, paradossi