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Italian Pages 240 [242] Year 2000
FURIO SEMERARI
IL PREDONE, IL BARBARO, IL GIARDINIERE IL TEMA DELL'ALTRO IN NIETZSCHE Nuova Biblioteca Dedalo
EDIZIONI DEDALO
Serie «Nuovi saggi.
Furio Semerari (Bari 1952), ricercatore, insegna Storia della filosofia morale nell'Università di Bari. Ha pubblicato i volumi: Potenza come diritto. Hobbes Locke P ascal (Bari 1992), La fine della virtù. Gracida La Rochefoucauld La Bruyère (Bari 1993), Il gioco dei limiti. L ’idea di esistenza in Nietzsche (Bari 1993). Ha curato il volume collettivo Amore. Itinerari di un’idea (Fasano 1996). Ha redatto numerose voci dedicate a filosofi italiani del Novecento per il Dictionnaire des philosophes (Paris 1984). Ha tradotto e introdotto Retorica e filosofia di Ch. Perelman e L. Olbrechts-Tyteca (Bari 1979).
“Predone”, “barbaro” , “giardiniere” . Con queste immagini Nietzsche rap presenta tre distinte modalità di relazione con l'alterità: la relazione di appropriazione, per la quale l’uomo si appropria deH’alterità, nutrendose ne, la relazione di crudeltà, per la quale l’uomo persegue, in forma varia e spesso mimetizzata, il male dell’altro; la relazione di cura, per la quale l’uomo assume come fine della propria azione e del proprio sentimento il bene dell’altro. La prima relazione non è altro che la stessa condizione di possibilità dell’esistenza: non si può vivere (ai vari livelli, elementari o complessi, in cui l’esistenza può svolgersi) se non “prendendo” dal “tutto” di cui si è parte. Come tale, questa relazione costituisce qualcosa di insu perabile per 1’esistenza. La seconda relazione riguarda, essenzialmente, il passato della storia dell’uomo, segnato, per aspetti fondamentali, dal dispiegarsi di una volontà di male (legata a una volontà di dominio) del l’uomo nei confronti dell’altro uomo. La terza relazione riguarda, invece, soprattutto, il futuro della storia dell’uomo: un futuro da costruire, in alter nativa al passato barbarico di questa medesima storia.
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Serie «Nuovi saggi»
FURIO SEMERARI
IL PREDONE, IL BARBARO, IL GIARDINIERE IL TEMA DELL’ALTRO IN NIETZSCHE
EDIZIONI DEDALO
In copertina: Jusepe de Ribera, D ioniso-Bacco, 1635, olio su tela. Museo del Prado, Madrid.
Volume pubblicato con il contributo della Fondazione Caripuglia Università degli Studi di Bari.
(D 2000 Udizioni Dedalo srl, Bari www.cdizionidedalo.it
Introduzione
“Predone” e “giardiniere” sono due immagini, alle quali, in un frammento del 1881, Nietzsche ricorre per rappresentare due diverse modalità del rapporto con gli altri. Con l’immagine del “barbaro” , cui fa riferimento in un aforisma dell’opera dello stes so anno Aurora, egli individua un’ulteriore modalità di relazione con l’altro. Quelle indicate dalle immagini del predone, del giardiniere e del barbaro costituiscono, nell’analisi nietzscheana, tre moda lità fondamentali di relazione con l’altro: o perché costituisco no una condizione generale dell’esistenza dell’uomo (è il caso della relazione con l’altro nella modalità del predone) o perché caratterizzano, in maniera decisiva, la storia passata dell’uorpo (è il caso della relazione con l’altro nella modalità del barbaro) o perché esprimono il progetto di un uomo diverso da quello del passato (è il caso della relazione con l’altro nella modalità del giardiniere). Ma che cosa significano le immagini del predone, del giardi niere e del barbaro ovvero quali sono e che cosa sono le moda lità di relazione con l’altro che esse, rispettivamente, stanno a sim boleggiare? Per rispondere a questa domanda, prendiamo innan zitutto in esame le immagini del predone e del giardiniere che compaiono nel frammento del 1881. Il predone è colui il quale, in vista di qualche fine che riguar da lui soltanto, si rapporta agli altri appropriandosi di quel che gli 5
altri hanno o sono. Il giardiniere è, invece, colui il quale si rap porta agli altri prendendosi cura di loro e vivendo nella gioia di questo prendersi cura1. Così definiti, i due termini sembrerebbero indicare due moda lità di rapporto con l’altro, rispettivamente, per l’altro, negativa e positiva: nel primo caso, l’altro è espropriato di qualcosa, nel secondo, l’altro è fatto oggetto di cura. Ma, per quanto riguarda, in particolare, il rapportarsi agli altri nel modo della appropriazione, si può subito osservare che le cose, per Nietzsche, non stanno proprio o solo nei termini indicati. Si tratta di capire, qui, che cosa Nietzsche intende, in questo caso, per ‘appropriazione’ . Può anche darsi che, per lui, vi sia la possi bilità di una appropriazione, che non significa contemporanea mente espropriazione e che non si traduce, dunque, in un danno per colui o per ciò da cui qualcosa si prende. L’idea, che la immagine del predone esprime, è che l’uomo non costruisce autonomamente e autarchicamente la propria esi stenza e la propria identità, che sono, invece, il risultato di una serie di appropriazioni o «furti», che egli realizza nei confronti del «tutto», di cui è parte. L’uomo costruisce la propria esistenza e la propria identità, prendendo dal mondo quel che il mondo offre in termini non solo di beni materiali, ma anche di possibilità di cono scenza, di esperienza. Appropriazione del mondo è, infatti, in Nietzsche, anche la conoscenza e, in generale, la esperienza che del mondo si riesce a realizzare. Da questo punto di vista, ogni uomo è ‘predone’ in quanto, per esistere (anche ai livelli più elementari), non può fare a meno di ‘prendere’ da ciò che è ‘fuori’ di lui, da ciò che non è egli stes so. Il termine non ha una connotazione di valore negativa, ma esprime semplicemente la condizione di possibilità dell’esistenza e della costruzione di identità di ciascuno. E in senso figurato che qui Nietzsche parla dell’uomo come «predone» o come «ladro» e delle sue appropriazioni come «furti»2.
1 N achgelassene Fragm ente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11[2]. 2 N achgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[174].
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La definizione dell’uomo come predone esprime, così, il rico noscimento della natura finita dell’uomo, che non è un essere autosufficiente e che, nella sua possibilità d’essere e per l’appagamento delle proprie esigenze, dipende dall’ altro (dagli altri uomini, dalla natura), da cui deve prendere ciò che gli serve per esistere e definirsi nella propria identità individuale. Viene così affermato, con riferimento al mondo dell’uomo, il principio di relazione, per il quale la relazione dell’io con la alte rità rappresenta la condizione della esistenza e della identità di ciascun io. È la affermazione di una concezione antiatomistica e antiindividualistica dell’individuo umano, visto come punto di convergenza di una serie di relazioni (di appropriazione) con la totalità (tutto ciò che è altro da sé), nella quale egli è compreso. 2. Ma vi sono modalità e finalità diverse, con le quali l’io può prendere dal «tutto», prendere da tutto ciò che è altro da sé. a) Vi è, innanzitutto, un prendere che mira a soddisfare un bisogno, mai appagato e sempre risorgente e crescente, di arric chimento della propria conoscenza ed esperienza personali. E, questo, il prendere proprio di un io essenzialmente interessato ad ampliare e rinnovare il proprio rapporto con la alterità, di un io che non accetta di rimanere chiuso in se stesso nella forma una volta raggiunta (e definitasi, in ogni caso, nel rapporto con la alte rità, perché, fuori della relazione, non c’è esistenza: ciascun ente non è che una «somma di relazioni» 3 non solo al proprio interno, ma anche con il proprio esterno), ma mette in discussione la pro pria già definita identità, è disposto ad alterare, nel rapporto con la alterità, il proprio essere, vuole, nel e dal rapporto con la alte rità, una crescita, un potenziamento del proprio essere. b) Vi è, poi, un prendere che è proprio di chi, più che altro, mira a perpetuare se stesso nella forma già raggiunta del proprio essere, al livello di esistenza già conseguito. E, questo, il bisogno di un io sostanzialmente chiuso al rapporto con la alterità, indif ferente verso di essa o timoroso e in cerca di protezione nei suoi confronti. 3 Nachgelassene Fragm ente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 13[11].
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Vi è, quindi, da un lato, a ) un prendere che mira ad alterare/ incrementare l’essere di chi prende, dall’ altro, b) un prendere che mira a conservare l’essere di chi prende in quel che esso già è. Vi è, così, un prendere, che rende ricco colui che prende, e vi è un prendere, che lascia povero (ossia al livello e alla forma di esistenza già raggiunti) colui che prende. Ma, nel prendere, ricco diventa, poi, chi, in un altro senso, ricco già è\ ricco di forza capace di sostenere un rapporto auten tico con la alterità, un rapporto che, se è autentico, si presenta come problematico, difficile, perché implica una messa in discus sione delle proprie convinzioni, del proprio costume di vita, delle proprie abitudini mentali. Ricco perché dotato della capacità di lasciarsi alterare e di arricchirsi. Nel prendere, povero (ovvero, come si è detto, al livello e alla forma di esistenza già raggiunti) rimane, invece, colui che, in un altro senso, povero già è: povero perché privo della volontà e della forza di rapportarsi in maniera autentica alla alterità, ossia non disposto a lasciarsi eventualmente alterare dal rapporto con essa, povero perché sprovvisto della capacità di arricchirsi grazie al rap porto con la alterità. La relazione di alterità, nella quale l’io è autenticamente aper to nei confronti di quel che l’alterità è e non tenta di nasconder la, nella sua realtà, a se stesso evitando semplicemente di veder la o ad essa sovrapponendo propri schemi interpretativi che ne annullano o svalutano la particolarità - la relazione di alterità, che, come si è detto, mira all’arricchimento dell’io - , implica che l’io sia disposto a conoscere la alterità in se stessa, in questo senso a ospitarla, come Nietzsche scrive, per quel che essa è, dentro se stesso, a farle posto nella propria coscienza. Ma, per conoscere l’alterità in quanto e nella misura in cui l’ alterità rappresenta qual cosa di sconosciuto, di mai visto, per riuscire, come Nietzsche scrive a proposito di una musica che non abbiamo mai ascoltato, a sopportarla e, infine, anche ad am arla, a ad averne l’abitudine, ad avere «il presentimento che ne sentiremmo la mancanza, se non ci fosse più», occorre l’esercizio di una serie di qualità: pazienza, umiltà, benevolenza, buona volontà, equità, mitezza d’a nimo. Alla fine, la musica estranea - come qualsiasi altra cosa 8
estranea - «lentamente [...] depone il suo velo e si manifesta come una nuova inenarrabile bellezza: è questo il suo ringra ziamento per la nostra ospitalità » 4. Se non si vuole essere esclu si dalle «più belle eventualità dell’ anima», se queste eventua lità si vuole conoscere, apprezzare, amare, occorre «perderci per qualche tempo», occorre smettere di essere i guardiani della nostra «rocca»5, occorre mettere da parte i nostri sistemi di dife sa, occorre che, per qualche tempo, il soggetto si perda e lasci avanzare verso di sé l’oggetto, occorre che perda 1’ «autocon trollo» come «forma di timore per tutte le intromissioni estra nee»6.7 Alla relazione di alterità, in quanto e nella misura in cui è rela zione con qualcosa di sconosciuto, ignoto, si addice il termine «esperimento», che è il termine che Nietzsche adopera per rap presentare la vita nella condizione della «grande salute», alla quale perviene l’uomo nel suo processo di liberazione: a questo stadio, si vive ormai «per esperimento»1. Esperimento, infatti, è relazio ne con Vignoto. Non si fanno esperimenti su ciò che è noto (o si pensa che sia noto). Lo sperimentare riguarda ciò che non si cono sce, il nuovo (nuovo per colui che sperimenta), l’altro nel senso di sconosciuto. Ma è da notare che - ciò è stato sottolineato da Nietzsche - un tale altro, cioè l’ignoto, risiede, per ciascuno, anche in se stesso: vi sono parti dell’essere dell’uomo, e sono pro babilmente le più profonde e decisive, che rimangono a lui, alme no generalmente, sconosciute. 3. È possibile identificare un’altra differenza, in Nietzsche, riguardo alle modalità e alle finalità del prendere. a ) Vi è un prendere, che prende dominando/distruggendo la varie figure della alterità, dalle quali, di volta in volta, si prende: è il prendere, di cui sono oggetto, vittime, coloro che sono stati
4 D ie fröhliche W issenschaft, 334. 5 Ivi, 305. 6 N achgelassene Fragm ente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11[182], 7 Menschliches, Allzumenschliches, I, «Vorrede», 4.
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educati ad «essere quotidianamente usati» e che sono, in effetti, «quotidianamente utilizzati» e alienati da se stessi, come accade ai «poveri animali da tiro» dei lavoratori di «un secolo stremato dal troppo lavoro» (il secolo di Nietzsche)8, o coloro che, in gene rale, sono variamente asserviti nell’esercizio di funzioni da parte e per conto di altri (comunità, sovrani, capi di partito, fondatori di religione, ecc.)9. b) Vi è un prendere, che prende rispettando/conservando l’es sere proprio di ciò da cui si prende. Siamo, in fondo, in questo caso, di nuovo nella situazione precedentemente delineata a pro posito del prendere proprio di colui il quale mira a un personale arricchimento in termini di conoscenza e di esperienza della alte rità: è la situazione di colui il quale si rapporta alla alterità non chiudendosi nella propria «rocca», ma ‘perdendosi’ a se stesso nel l’oggetto (nella alterità), lasciando essere e ospitando dentro di sé l’oggetto. In generale, quale che sia la forma che assume, la relazione di alterità orientata verso il prendere è la relazione nutrizionale di alterità nel senso che, attraverso di essa, l’io nutre se stesso: la alterità è, qui, fonte e mezzo di nutrimento d eir io. La alterità non è, qui, necessariamente il o un fine dell’io e Nietzsche può dire che, nella relazione appropriativa, grazie alla quale noi nutriamo noi stessi, noi «non pensiamo agli altri»10, di cui ci nutriamo: non pensiamo agli altri, ovvero non assumiamo necessariamente gli altri come il fine o un fine (né in senso positivo né in senso nega tivo) delle nostre azioni. 4. È nella relazione di alterità, simboleggiata dalla immagine del giardiniere, che l’altro è assunto, invece, come fine della azio ne dell’io. Più precisamente, l’altro diventa, qui, oggetto di una cura da parte dell’ io: l’io si prende cura dell’altro e del suo bene. È il caso di colui che ama, ossia comprende l’altro in quello che
* Morgenröthe, 178. “ Nachgelassene Fragm ente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11[303]. 1(1 Nachgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[166].
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è e gioisce perché l’altro è quello che è; di colui che gioisce per la gioia dell’altro; di colui che, pur vicinissimo nel cuore all’ amico, per il bene dell’amico gli si oppone, nel caso, con tutte le sue forze; di colui che nasconde la propria sofferenza dinanzi all’ amico, per il quale essa potrebbe risultare dannosa; di colui che, avendo scoperto verità, il cui peso potrebbe non essere sopportato dall’altro, all’ altro le verità scoperte non rive la; di colui che fraternizza e non diventa il rivale dei grandi spi riti; di colui che, senza nulla chiedere in cambio, dona se stes so al prossimo facendosi ascolto e rifugio per le sue sofferen ze; di colui che, in generale, dona, senza nulla volere in cam bio; di colui, ancora, che dona, nel suo donare rimanendo nascosto. Giardiniere vuol dire cura dell’altro, assunzione dell’ altro come oggetto della propria cura, ma vuol dire anche, appunto, cura. E cura vuol dire esercizio di determinate qualità in rappor to a un determinato oggetto (l’oggetto della cura): attenzione, pazienza, costanza, perseveranza, misura, metodo, in definitiva, disciplina. Si ha a cuore l’altro e l’avere a cuore l’altro prende la forma della cura. Questo modo di occuparsi dell’altro può essere visto come segno della intensità del sentimento con cui all’altro si tiene. Nietzsche parla di cura non solo in rapporto all’ altro, ma anche in rapporto a se stessi. Se predoni si è nei confronti degli altri, giardinieri si può essere nei confronti non solo degli altri, ma anche di se stessi. Non a caso la immagine del giardiniere ricompare, in Nietzsche, anche con riferimento al rapporto di cura con se stessi. In un frammento del 1880, parlando proprio di se stesso, Nietzsche scrive di poter trattare se stesso «come un giardiniere tratta le sue piante», ossia favorendo o lascian do inaridire, a seconda dei casi, questa o quella tendenza del proprio essere11. L’io ha da assumere se stesso come oggetto di cura, come oggetto, dunque, non di un interesse superficiale, occasionale, casuale - che è forse l’ atteggiamento di chi, in
11 Ivi, 7[30],
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accordo inconsapevole e involontario con una certa tradizione morale, pensa di doversi occupare, rigorosamente, solo dell’altro da sé e non anche di se stesso - ma di un interesse metodico, costante, che è l’atteggiamento di chi pensa che il proprio io ha diritto a una esistenza il più possibile felice. Nietzsche indica pro prio nella felicità lo scopo e l’effetto della cura di sé. Contro una certa tradizione, che ha considerato colpevole l’occuparsi di se stessi, egli stabilisce la legittimità del dare spazio a se stessi, ai propri bisogni, alle proprie inclinazioni e questo dare spazio deve per lui assumere il carattere della cura. L’uomo deve saper esse re giardiniere di se stesso, considerare se stesso, anche se stesso, come un giardino da curare. Cura di sé è, d’altra parte, cura delle cose a noi più vicine: una cura, questa, che presuppone la rivalutazione, contro una deter minata tradizione, delle cose a noi più vicine, che costituiscono anche il campo di «ciò che è più piccolo e ordinario»'2. Si tratta di sapere «che cosa ci fa bene e che cosa ci fa male nell’impian to della condotta di vita, nella ripartizione del giorno e del tempo e nella scelta dei rapporti sociali, nella professione e nel tempo libero, nel comandare e nell’obbedire, nel sentire la natura e l’ar te, nel mangiare e nel dormire e nel pensare»1213. Si tratta di sape re tutto questo e di agire di conseguenza su se stessi: in questo sapere e nella azione ad esso ispirata è la cura dell’uomo verso se stesso. La cura, sia quella rivolta a se stessi sia quella rivolta all’al tro, ha a che fare con il tempo, con il tempo come durata. Per essere efficace, qualsiasi intervento, con cui si provvede a se stes si o all’altro, deve potersi svolgere nella continuità di un certo tempo, lungo il quale sia possibile determinare, poco alla volta, quei cambiamenti, quegli aggiustamenti, quel disciplinamento che, alla fine, producono risultati di qualche significato e rilevan za. Il problema della cura di sé o dell’altro è il problema delle
12 M en sch lich es, A llzu m en sch lich es, II, «D e r W anderer und sein Schatten», 6. 11 Ibidem.
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«terapie lente»14 o della terapia delle «piccole dosi»15. Nietzsche non crede a risultati improvvisi significativi: il risultato significa tivo - può trattarsi, al limite, di un cambiamento radicale della propria personalità - è il risultato finale di una serie di piccoli interventi che si succedono e sommano l’un l’altro nel tempo e nel tempo si consolidano. Per quel che sinora si è visto, la relazione di alterità in Nietzsche si muove tra i poli che il Nietzsche più legato al lin guaggio della fisiologia esprime, rispettivamente, come «istinti di nutrizione (avidità)» e «istinti di espulsione (amore)»16 o «assi milazione» e «secrezione ed escrezione»17. 5. Ma, oltre la relazione di alterità nel modo del predone, oltre la relazione di alterità nel modo del giardiniere, il testo nietzscheano identifica e prende in esame un terzo tipo della relazione di alterità: la relazione di alterità ispirata alla volontà del male. Per rappresentare questo tipo di relazione di alterità Nietzsche si serve della immagine del “barbaro” come imma gine di colui che fa soffrire l’altro, che vuole il male dell’al tro18. Predone, giardiniere e barbaro identificano, così, tre tipi differenti di relazione dell’io con la alterità: la relazione di nutrimento (o nutrizionale), la relazione di cura, la relazione di crudeltà. La relazione di alterità nel modo del barbaro è opposta, per un aspetto, alla relazione di alterità nel modo del giardiniere: nel primo caso si persegue il fine del male dell’altro, nel secondo si persegue il fine del bene dell’altro. Ma i due tipi di relazioni sono, per un altro aspetto, vicini in quanto in entrambi, sia pure in maniera opposta, l’altro diventa un fine della azione dell’io, a dif ferenza di quel che accade nella relazione nutrizionale di alterità,
14 Morgenröthe, 462. 15 Ivi, 534. 16 N achgelassene Fragm ente Frühjahr bis H erbst 1884, 25[179]. 17 N achgelassene Fragm ente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11 [182], 18 Morgenröthe, 113.
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nella quale l’io, che dell’altro si nutre, è indifferente all’altro di cui si nutre o all’altro in generale (nella relazione nutrizionale di alterità, «noi non pensiamo agli altri», né nel bene né nel male, non perseguiamo né il fine del bene né il fine del male dell’al tro). D ’altra parte, la relazione di alterità ispirata alla volontà del male, se lontana dalla relazione nutrizionale di alterità, la prima assumendo, a differenza della seconda, l’altro come fine della pro pria azione (sia pure per fargli del male), è ad essa vicina per il fatto che essa mostra di avere a cuore, come la relazione nutri zionale di alterità, solo il bene dell’io che all’altro si rapporta. Secondo Nietzsche, la relazione di alterità è stata spesso il luogo di esercizio di una volontà del male da parte dell’uomo: di più, la volontà del male ha rappresentato un (se non il) fonda mento della storia dell’uomo dai primordi sino ad oggi. La volontà del male è la chiave di spiegazione di molti comportamenti pro dotti dall’uomo sino ad oggi, anche, molto spesso, di comporta menti apparentemente opposti o molto distanti dalla volontà del male: la volontà del male si è spesso mimetizzata dietro forme ad essa opposte. La volontà del male, quale si è storicamente mani festata, risulta, inoltre, legata, nella analisi nietzscheana, alla volontà di dominio : essa è stata una forma particolare della volontà di dominio (la volontà del male appare, così, in realtà a sua volta fondata nella volontà di dominio). La volontà del male risulta, dunque, legatala quella volontà che, lo si è detto, ispira anche un certo modo del «prendere», un modo particolare attra verso il quale l’io prende dalla alterità per le proprie finalità nutri tive. Uno dei capitoli del presente volume prende in esame la ana lisi nietzscheana della volontà del male in quanto fondamento della storia dell’uomo nella molteplicità delle forme che tale volontà ha storicamente assunto e nella connessione che essa pre senta con la volontà di dominio. 7. Le pagine di questo libro ricostruiscono e analizzano le tre modalità di rapporto con l’altro indicate, in Nietzsche, rispettiva mente, dalle immagini del predone, del barbaro e del giardiniere. Qual è l’atteggiamento del filosofo verso ciascuna di queste moda lità di rapporto con l’altro? 14
Per quanto riguarda la modalità di rapporto espressa dalla immagine del predone, Nietzsche, innanzitutto, ne prende atto come di una condizione generale di possibilità di esistenza per l’uomo, ma, in secondo luogo, propone ima certa versione, ima certa interpretazione di tale modalità di rapporto con l’altro: la versione per la quale a) si prende dall’altro al fine di un arricchi mento personale e non della semplice perpetuazione del proprio essere nella forma da esso una volta già raggiunta, e, inoltre, b) si prende dall’ altro senza alienare l’altro rispetto al suo essere e alla sua libertà. Per quanto riguarda la modalità di rapporto espressa dalla immagine del barbaro, l’atteggiamento di Nietzsche è quello della critica e del progetto di superamento di tale modalità e, da que sto punto di vista, il discorso nietzscheano concerne, qui, il futu ro dell’uomo. Tale modalità, infatti, è quella che risulta dalla rico struzione genealogica della storia dell’uomo dai primordi sino ai nostri giorni: lungo questa storia, l’uomo si è rapportato all’altro guidato da una fondamentale volontà di male. Il persistere, ancor oggi, di tale modalità di rapporto fra gli uomini è il segno di una «arretratezza» dell’uomo. Non si tratta di eliminare ogni soffe renza dal mondo, perché la sofferenza è condizione, passaggio necessario di ogni lavoro significativo dell’uomo su se stesso, ma di eliminare dal mondo - dalla relazione con l’altro - la volontà del male fine a se stessa. Per quanto riguarda la modalità di rapporto espressa dalla immagine del giardiniere, Nietzsche non tanto ne prende atto come di un dato (o di un dato comune o frequente) della realtà quanto la propone in alternativa a quel che (o a quel che comu nemente o frequentemente) la realtà presenta. Ciò che la realtà (passata e presente) dell’uomo mostra è, infatti, semmai, l’oppo sto di quel che si avanza attraverso la idea del giardiniere, ossia l’opposto dell’atteggiamento di cura verso l’altro: è il rapportarsi all’altro ispirato alla volontà del male o, in generale, alla volontà di dominio. La modalità di rapporto con l’altro, rappresentata dalla immagine del giardiniere, è una modalità che concerne ciò che non c’è ancora più che ciò che c’è stato e c ’è tuttora, concerne il futuro da costruire dell’uomo più che il suo passato o il suo pre15
sente. Il richiamo alla presenzi!, in Nietzsche, della modalità di rapporto, indicata dalla immuginc del giardiniere, vuole avere anche e soprattutto il senso di un tentativo di problematizzazione della idea, che a volte se non generalmente si è sostenuta, della filosofia di Nietzsche come filosofia di un assoluto individuali smo. Si è voluto qui vedere e verificare se il testo nietzscheano non offra anche qualcosa di diverso e di contrastante rispetto a tale idea. 8. Un cenno, infine, sulla articolazione dei capitoli, di cui si compone il libro. Il primo capitolo cerca di chiarire, da un lato, il problema della cura di sé in Nietzsche sotto il riguardo e della sua legittimità e finalità e della sua interna articolazione, e, dall’altro, la questione della relazione di alterità, che viene considerata, qui, sia nel suo significato di relazione nutrizionale di alterità sia nel suo signifi cato di relazione di cura nei confronti dell’altro. Cura di sé e cura dell’altro sono atteggiamenti e pratiche esistenziali distinti, ma non necessariamente l’un l’altro escludentisi, perché, anzi, una cura efficace dell’altro ha, come sua condizione, una cura effica ce di sé. D ’altra parte, la cura di sé ha in ogni caso bisogno del nutrimento che solo l’altro può dare: anche vedendo la questione da un lato puramente egoistico, la cura di sé implica sempre qual che forma di cura dell’altro, di quell’altro del quale ci si deve nutrire. I capitoli secondo, terzo e quarto riprendono e approfondisco no il problema della relazione di alterità nei due sensi in cui se ne occupa il capitolo primo: relazione nutrizionale (capitolo secondo) e relazione di cura (capitoli terzo e quarto). II secondo capitolo sviluppa il tema della relazione nutrizio nale di alterità attraverso la analisi della metafora del «viaggio» (come rapporto dell’uomo con la alterità) nella sua connessione dialettica con la metafora della «dimora» (come rapporto dell’uo mo con l’identico). Il capitolo terzo prende in esame la posizione nietzscheana sull’amore-passione. Anche attraverso la critica, che Nietzsche rivolge a questa forma di amore (l’amore-passione è legato, per 16
un verso, alla volontà di dominio, per l’ altro, alla negazione e alla perdita della propria identità e libertà), emerge il concetto nietzscheano di amore come rispetto, comprensione e gioia per la differenza che l’altro (l’oggetto di amore) è rispetto a se stessi. Il capitolo quarto illustra la relazione di amicizia, alla quale Nietzsche attribuisce il significato di una relazione di alterità spe ciale, in cui l’uomo realizza le proprie migliori possibilità, come la capacità di donare, il rispetto della propria libertà e identità nel rispetto della libertà e della identità dell’altro, la volontà di per seguire un progetto riguardante l’altro e il suo bene al di là dei cedimenti tanto del proprio egoismo quanto della propria com passione. Il capitolo quinto affronta il problema della volontà del male relativamente al significato e al ruolo, fondamentali, che, secon do Nietzsche, tale volontà ha avuto all’interno delle comunità umane e dell’esistenza individuale, e alla fenomenologia estre mamente varia che, per Nietzsche, essa ha storicamente manife stato. Il capitolo sesto, nel quadro di un esame relativo ai motivi di attualità della riflessione nietzschena, sottolinea il concetto nietz scheano della vita come esperienza (la cui possibilità è entrata in crisi nella età moderna per il velocizzarsi della vita dell’uomo per il quale l’uomo vive in una condizione di essenziale impressio nabilità e superficialità), anzi come esperimento, ossia il concetto della vita come rapporto particolare (fondato su un disciplinamento dell’azione e delle pulsioni) con l’alterità (l’esperimento è rapporto con la alterità, con ciò che non si è e/o non si conosce); la osservazione nietzschena relativa alla sofferenza come passag gio necessario per la costruzione, per sé e per gli altri, di qualco sa di significativo; la necessità, che Nietzsche sostiene, che cia scuno possa affermare, pur nel rapporto dialettico con l’altro, la propria particolare individualità, nel rispetto della quale soltanto è, in ogni caso, la possibilità della propria felicità.
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Avvertenza. Alcune parti del presente volume sono già apparse in preceden ti pubblicazioni. Il capitolo secondo è stato pubblicato in «Paradigmi», 1995, 38, pp. 211-38. Il capitolo terzo riproduce parte della Prem essa e del paragrafo 2. 1 e i para grafi 2.2 e 2.3 del saggio Amore e alienzazione. L ’am ore-passione in Nietzsche e Proust, in F. S emerari (a cura di), Amore. Itinerari di un’idea, Fasano 1996, Schena. Il capitolo sesto è stato pubblicato in «Atti e Relazioni» della Accademia Pugliese delle Scienze (Anni 1992/1993/1994), voi. XLIX. A parte rari e limitati interventi a carattere integrativo o di natura formale, Pinserimento di richiami interni agli altri scritti (editi e inediti) che compongo no il volume e il cambiamento del sistema formale delle citazioni, le parti già pubblicate sono qui riprodotte nella versione in cui originariamente apparvero.
Capitolo primo Cura di sé e alterità
1. Il problem a Nei confronti di una certa tradizione morale, che ha consi derato come colpevole la cura che l’uomo rivolge a se stesso, giudicando, invece, degna di lode solo la cura che l’uomo si prende dell’ altro uomo (ovvero giudicando degna di lode la cura rivolta a se stessi solo se intrapresa in vista della cura degli altri, nella quale risiederebbe, così, il senso della cura di sé), nei confronti, cioè, della tradizione morale cristiana (anche nelle sue versioni apparentemente non cristiane o anticristiane1), che dell’altruismo e del sacrificio di sé ha fatto un principio fondamentale per il sentimento, il pensiero e la azione dell’uomo2, Nietzsche afferma la legittimità e il dovere, per ciascun uomo, 1 Per la critica di Nietzsche a posizioni (politiche, artistiche, ecc.), sostan zialmente, anche se non formalmente, inscrivibili nel solco della tradizione cri stiana, cff. K. L owith, Von H egel bis Nietzsche, p. 397 (tr. it., p. 579). Cfr., inol tre, N.M. De F eo, A nalitica e dialettica in Nietzsche, p. 74: «Nietzsche non con siderò mai il socialismo e la democrazia nel loro aspetto rivoluzionario ed ever sivo dei valori della tradizione teologica del cristianesimo, ma anzi la loro mas sima incarnazione». 2 Tra gli innumerevoli luoghi che si potrebbero riportare a questo riguardo, ricordiamo solo un aforisma della G aia scienza, in cui si parla della «supersti ziosa credenza popolare dell’Europa cristiana, ancor sempre così candidamente riecheggiata, per cui la caratteristica dell’azione morale sarebbe posta nel disin-
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di provvedere a se stesso, la legittimità e il dovere, per ciascun uomo, della cura di sé (senza nulla togliere alla legittimità e allo stesso dovere, per ciascun uomo, della cura dell’ altro da sé, sebbene questo dovere e questa cura siano da Nietzsche intesi in un senso diverso da quello cristiano). Quella di Nietzsche è una precisa e ferma presa di posizione nei confronti della mora le tradizionale nel suo insieme, giacché che cosa è stata la mora le sino ad oggi? La risposta di Nietzsche a questa domanda è nelle seguenti parole: L a m oralità è stata finora l ’ im perativo a non o c cu p a rsi d i se ste ssi in quanto si sp ostav a la propria riflessione e ci si priv ava del tem po e del l ’ energia a ciò n ecessari3.
La legittimità e il dovere della cura di sé ha un presupposto. II presupposto è il principio del rispetto per se stessi : «Vorrei che si cominciasse col rispettare se stessi: ogni altra cosa segue da questo»4 . All’interno della tradizione, cui si è accennato, il rispet to di se stessi è qualcosa di così inusuale e mal visto che, nel momento in cui si mostra di avere rispetto per se stessi, si è persi per gli altri: rispettando se stessi, si c e ssa di esistere p er g li altri: giacch é proprio ciò e ssi perdonano m eno di tutto. C om e, un u om o che rispetta se ste sso ?5
È nella prospettiva del rispetto per se stessi che si spiega la osservazione nietzscheana secondo la quale non pensare agli altri, e fare tutto con estrem o rigore p er se stessi, anche questa è u n ’ alta m oralità6.
teresse, nell’autoabnegazione, nelTautosacrificio o nel sentimento simpatetico, nella compassione» {D ie fröhliche Wissenschaft, 345). 3 N achgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[104], 4 N achgelassene Fragm ente Anfang 1888 bis Anfang Jan u ar 1889, 14[205], 5 Ibidem. 6 N achgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 3[139].
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La proposizione non nega che il pensare e l’agire per gli altri sia morale (o altamente morale): solo sostiene che anche il pen sare e l’agire per se stessi lo è. Il fatto che la cura di sé sia legittima non significa, d’altra parte, in Nietzsche, né che l’uomo possa realizzare la cura di sé attingendo solo a ‘se stesso’ senza riferirsi, in modi e sensi che possono essere in ogni caso diversi, a ciò che è altro da sé (lo stesso ‘sé’ è, in realtà, il risultato di una serie di relazioni con ciò che è fuori di esso), né che l’uomo debba chiudersi egoisticamente in se stesso e nella cura del proprio sé (cura di sé come cura di un proprio sé egoisticamente concepito) e non debba disporsi a una relazione con l’altro da sé che persegua, anche qui in modi e sensi diversi, la cura, questa volta, dell’al tro da sé (a questo riguardo si fa osservare che una efficace cura di sé è anche la condizione per una efficace cura dell’ altro da parte dell’io). Si pone, dunque, anche, in Nietzsche, il proble ma della relazione con la alterità, da un lato, come problema di una relazione necessaria e ineludibile per se stessi, per la pro pria esistenza, per la cura di sé, e, dall’ altro, come problema della assunzione dell’ altro e del bene dell’ altro come fine della propria stessa azione.
2. U nicità d e ll’ego. M ancanza di egoism o e individualizza zione d ell’ego Che cosa è cura di sé e perché, alla fine, è legittimo e dove roso, per l’uomo, avere cura di se stesso? Cura di sé è cura del l’essere particolare che si è, cura dell’elemento personale del pro prio essere. Ciascun uomo, infatti, è o ha un essere particolare, diverso dall’essere di ciascun altro uomo. Cura di sé, dunque, significa - non può che significare - cura del proprio sé partico lare (ogni sé è un sé particolare: il sé di ciascuno non può essere che particolare, cioè unico, diverso, distinto da quello di ciascu no altro sé). Dire ego significa dire ego particolare, ego unico. Secondo Nietzsche, «ciò di cui l’umanità soffre è la mancanza di egoismo 21
(.der M angel an Selb stsu ch t ) » 1. Con il termine ‘ego ism o ’ Nietzsche vuole qui intendere non tanto un atteggiamento di chiusura in se stessi, di interesse esclusivo per se stessi, di privilegiamento assoluto di se stessi, di cecità sostanziale nei con fronti degli altri e delle loro esigenze, quanto un atteggiamen to di attenzione e cura per il proprio io effettivo, ossia per il proprio io particolare e determinato. La mancanza, di cui l’u manità soffre, è la mancanza di una attenzione e di una cura, da parte di ciascun uomo, nei confronti del proprio io effettivo, cioè particolare e determinato. Gli uomini non hanno sinora fatto realmente e coerentemente attenzione al proprio ego (par ticolare) disponendo il proprio comportamento e le proprie valutazioni sotto il metro di regole «universali». È un punto centrale della rilessione nietzscheana, sul quale egli insistente mente ritorna: « I ’ E g o i s m o è ancora infinitamente debole (.unendlich schw ach)\»s. Nietzsche sottolinea l’errore, che a suo giudizio comunemente si commette e consistente nel conside rare egoismo qualcosa che egoismo propriamente non è. È il caso dell’ «egoism o» di chi è «avido e accumula un patrimonio (istinto della famiglia, della tribù)», o del «vanitoso», il quale «valuta se stesso secondo il metro del gregge», o dell’«uomo di Stato»: «costoro pensano soltanto a sé, ma a “ sé” nella misu ra in cui l’ego è sviluppato dall’affetto che forma il gregge. Egoismo delle madri, dei maestri»789. In realtà accade molto rara mente che ciascuno pensi veramente a sé, faccia veramente attenzione a sé - al proprio sé reale, cioè particolare:
Ma si domandi una buona volta quanto pochi sono quelli che indagano a fondo: perché tu vivi qui? Perché hai relazioni con quello? Come sei giunto a questa religione? Quale influenza esercita su di te questa o quel la dieta? Questa casa è stata costruita per tei e così via. Niente è più raro di una definizione dell'Ecx» per noi stessi. Domina il pregiudizio che
7 Ivi, 2[15], 8 N achgelassene Fragm ente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11 [226]. 9 Ibidem.
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si co n o sca / ’EGO, che e sso non m anchi di farsi sentire continuam ente; m a a c iò non si applica né lavoro né intelligenza, - co m e se, per l’ au toconoscenza, un’ intuizione ci av e sse dispen sato dalla rice rca!10
Che si pensi e faccia attenzione a sé - ciò è, dunque, sol tanto, alla fine, un pregiudizio: la verità è che mancano una attenzione e una cura specifiche del proprio specifico sé. Il pro prio sé reale non è affatto oggetto del lavoro e della intelligen za deH’uomo. In effetti, «non trattiamo noi stessi come individui»11. Scrive Nietzsche: «Ricchezza di individui è ricchezza di gente che non si vergogna più delle sue peculiarità ( Eigenen ) e anormalità (.Abweichenden)» 1213. In realtà, l’ «egoismo» - la affermazione e la difesa delle proprie particolarità e anormalità - «è stato diffama to come eresia da coloro che lo esercitavano (comunità, sovrani, capi di partito, fondatori di religioni, filosofi come Platone): essi avevano bisogno del sentimento contrario negli uomini che dove vano esplicare per loro una funzione»11,. L’egoismo - ripetiamo: la affermazione e la difesa del pro prio io particolare - viene visto da Nietzsche come fattore di pro gresso, di crescita per l’uomo. Ma, dal punto di vista di Nietzsche, affinché ciò sia riconosciuto occorre fare i conti con una situa zione, storicamente ben consolidata, nella quale si è affermato un «falso concetto di armonia e di pace, come la condizione più utile» per l’uomo, concetto al quale è stata legata l’idea di ugua glianza: l’armonia e la pace sono state viste, cioè, come l’effetto di una situazione di uguaglianza, di una situazione in cui gli uomi ni non si affermano e reciprocamente riconoscono nelle loro reci proche e reali differenze, ma in una loro presunta e astratta iden tità. In questa prospettiva, nella prospettiva di una malintesa con dizione di armonia e di pace, «L ’uguaglianza passa come qual-
10 Ibidem. 11 N achgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 2[61]. 12 N achgelassene Fragm ente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11[303]. 13 Ibidem.
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cosa di vincolante e di desiderabile!»14. In realtà, «qualcosa di buono» si ottiene solo con 1’«antagonismo», anzi con un «forte antagonismo»: «L’opposizione è la forma della forza (dìe Form der K r a f t ) - in pace come in guerra, conseguentemente debbo no esistere forze diverse e non uguali, altrimenti queste ultime si manterrebbero in equilibrio!»15. Che l’opposizione sia la forma della forza, ciò significa - può significare - due cose distinte e, in Nietzsche, in effetti, le signi fica entrambe. 1) Significa, in primo luogo, che la forza si mani festa come opposizione, in form a di opposizione. Forza è capacità di opporsi a qualcosa. La capacità di opporsi a qualcosa, a sua volta, viene intesa in due sensi diversi: a) come capacità di resi stenza, di difesa nei confronti di qualcosa. Nietzsche parla di un particolare «istinto di autoconservazione, che si esprime nel modo più inequivocabile come istinto di autodifesa»16. L’istinto di auto difesa «non ci comanda solamente di dire no, quando il sì sareb be un segno di “altruismo” , ma anche di dire no il meno possibi le » , allontanandoci - per evitare uno spreco abituale di forze che si tradurrebbe, alla fine, in un «depauperamento straordinario e del tutto superfluo» - «da ciò che ci costringerebbe continuamente al no»17, così come, d’altra parte, prescrive di «reagire il più rara mente p o s s ib ile , di sottrarsi a situazioni e condizioni in cui si sarebbe in certo modo condannati a mettere in mostra la nostra “libertà”, la nostra iniziativa, diventando così un semplice rea gente»18; b) come capacità di obiezione, di critica, di attacco, di aggressione, di «guerra» nei confronti di qualcosa: « P o te r essere nemico, essere nemico: già questo, forse, presuppone una natura forte, e in ogni caso è proprio di ogni natura forte. Questa ha biso gno di resistenza, perciò c e r c a la resistenza; il p a th o s a g g r e s s iv o fa parte necessariamente della forza, così come il sentimento di vendetta e rancore fa parte della debolezza»19. 2) Che la opposi14 Ibidem. 15 Ibidem. 16 Ecce homo, «Warum ich so klug bin», 8, p. 289 (tr. it., p. 300). 17 Ivi, p. 290 (tr. it., pp. 300-1) 18 Ibidem (tr. it., p. 301) 19 Ivi, «Warum ich so weise bin», 7, p. 272 (tr. it., p. 282).
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zione sia la forma della forza può, in secondo luogo, significare che la forza si crea o, almeno, si consolida attraverso la opposi zione, per esempio, nella capacità di fare fronte al dolore: la «disciplina formativa» del «grande dolore» attraverso cui «si educa» la «forza» dell’«anima»20. M a l’ antagonismo presuppone l’ esistenza di forze tra loro differenti e opposte, di forze che possono affermarsi nella loro reciproca differenza e opposizione. In Nietzsche, tale antagoni smo non è necessariamente in contraddizione con armonia e pace. Come si è visto, l’opposizione riguarda sia la condizione di guerra che la condizione di pace. Antagonismo ha da esser vi «nel matrimonio, nell’amicizia, nello Stato, nella confedera zione di Stati, nella corporazione, nelle associazioni di studio si, nella religione»21, ossia in istituzioni la cui vita interna si basa non sulla semplice e pura opposizione reciproca di coloro che ne fanno parte, ma su forme di varia colleganza e solida rietà. Abbiamo visto che, per Nietzsche, «ricchezza di individui è ricchezza di gente che non si vergogna della propria particola rità e anormalità». Non esiste « l’uomo», nota il filosofo, esi stono solo gli «individui» (al plurale)22. N ella realtà, noi non abbiamo a che fare con l’uomo, ma solo con individui. L’uomo è solo un «concetto»23, che, come ogni concetto, è qualcosa da cui sono stati espunti gli elementi individuali (gli elementi per sonali, irripetibili, legati alla particolarità di ciascun individuo). E poiché, realmente, non esiste l’uomo, ma esistono solo indi vidui - poiché, realmente, non esiste qualcosa di generale o
20 Jen seits von Gut und Böse, 225. Sul tema del dolore in Nietzsche, cfr. U.
Regina, L ’uomo complementare. Potenzia e valore nella filo so fia di Nietzsche, pp. 165-71; M. F ortunato, Il soggetto e la necessità. Akronos, Leopardi, Nietzsche e il problem a del dolore, pp. 136-48. Il problema del dolore in Nietzsche è ben presente nell’analisi di S. Natoli, L ’esperienza del dolore. 21 Nachgelassene Fragm ente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11 [303]. 22 Nachgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[158]. 23 Ibidem.
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universale, ma solo qualcosa di particolare e determinato - , non esiste, non può esistere uno «scopo dell’uomo»24 (non può esistere lo scopo di qualcosa che non esiste, qualcosa che non esi ste non può avere uno scopo), esistono, possono esistere solo scopi individuali, tanti scopi quanti sono gli individui esistenti. Pensare diversamente e operare secondo un diverso pensiero significa negare gli individui ossia i soli esseri che realmente esi stono. Sul punto della unicità o, al contrario, pluralità degli scopi o degli «ideali» si decide la differenza tra morale del passato e nuova morale: Tutte le m orali p assate partono dal presupposto di sapere p e r q u a l fin e l ’ u om o esista: dunque dal pregiudizio che il su o ideale sia noto. O ggi si sa che esiston o m olti ideali: la consegu en za ne è l ’ individuali sm o d e ll’ ideale, la n egazione di u na m orale universale25.
24 Ibidem. 25 Ivi, 4[79]. Ha osservato Olivier Reboul: «Nietzsche non rinuncia a ogni morale: ciò sarebbe rinunciare a vivere. Se il suo metodo consiste nel risalire “dall’ideale a colui che lo sentì necessario ” , egli non rifiuta l’ideale, ma solo la pretesa di imporlo a tutti: egli chiede che l’ideale sia quello di ognuno, “per distinguersi, non per divenire simile agli altri” ; egli stesso oppone il suo ideale all’ideale cristiano, egli non l ’impone. Se egli constata che l’obbligazione mora le è irrazionale, egli non ne conclude “per la non obbligatorietà di ogni mora le”» (O. Reboul, Nietzsche critique de Kant, p. 71). Sul fatto che la critica alla morale tradizionale non significhi, in Nietzsche, il rifiuto in generale di ogni morale, la avversione al porsi stesso di qualsiasi problema morale, alcune indi cazioni erano già in K. J aspers, Nietzsche. Einführung in das Verständnis sei nes Philosophierens. Osserva Jaspers che, per Nietzsche, se, da un lato, «la stes sa moralità scaturisce dall’immoralità» (il riferimento è alla moralità tradiziona le), dall’ altro, «la stessa critica alla morale scaturisce dalla morale più avanza ta» (il riferimento è alla stessa critica nietzscheana alla morale, critica che nasce da una morale superiore rispetto a quella tradizionale), sì che, per quanto riguar da il secondo aspetto, si può sostenere che «H radicale rigetto nietzscheano della morale avviene mantenendo pur sempre un legam e con la morale; di ciò Nietzsche è consapevole, e lo esprime nel seguente circolo: il risultato finale del l’evoluzione morale è che la veridicità, richiesta moralmente, alla fine mette in discussione la morale, in cui essa si radica; alla morale viene tolta la fiducia “per moralità” » (tr. it., pp. 141-2. Ma, su questo punto, cfr. il testo jaspersiano a par tire dalla p. 136).
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Scrive, inoltre, Nietzsche: A p p e n a v o g lia m o d e te rm in a re lo sc o p o d e ll’ u o m o , m e ttia m o innanzi un concetto d e ll’ u om o. M a non vi so n o se non ind iv id ui; d a c iò ch e si co n o sce fin o r a , il concetto p u ò e sse re ottenuto so lo c a n ce llan d o l ’ elem en to in d iv id uale - dunque, erigere lo sc o p o d e ll’ u om o sign ifich erebbe o stac o lare g li individui nel loro diven ire in d ivid uale, e ordinar lo ro di diventare g e n e ra li. E , in vece, non d o vreb b e ciascu n in d iv id u o e s se r e il ten tativ o d i ra g g iu n g e re u n a sp e c ie su p e rio re a l l ’uom o, m ediante le su e c o se p iù in d iv id u ali? L a m ia m o rale sareb be: to g lie re a ll’ u om o sem p re p iù il su o carattere g en erale e sp e c ia liz zarlo fin o a l punto di renderlo in com p ren sib ile p er g li altri (e con ciò ogg etto d elle loro esperien ze, d el loro stupore, del loro am m aestra m ento26.
La moralità è essenzialmente consistita, sinora, nel confor marsi a tipi di valutazione e modelli di comportamento eguali per tutti. L a propria «unicità» (Einzigkeit) - e ciascun uomo è unico rispetto a ogni altro uomo - è stata vissuta come qual cosa di improprio, di negativo, qualcosa da rimuovere o tenere nascosto: qualcosa di cui davvero, dice Nietzsche, non andare «fieri»27. L’uomo sinora non ha preso sul serio se stesso28, cioè, sempre, il proprio se stesso particolare. Scrive Nietzsche: Quanto più il senso dell’ unità con il p rossim o prende il sopravven to, tanto più gli uom ini vengono uniform ati, tanto più rigorosam ente essi sentiranno im m orale q u alsiasi diversità29.
Il tema della individualizzazione degli scopi o ideali è ripreso 26 N aehgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Friih jah r 1881, 6(158). K.
J aspers, Nietzsche: «L a morale combattuta da Nietzsche era fondata su una sostanza comune a tutti gli uomini, su Dio o sulla ragione» (tr. it., p. 144). Al contrario, Nietzsche «vuole la preminenza dell’ individuo rispetto a ciò che è moralmente e razionalmente generale» (ibidem ). Ma, con ciò, aggiunge Jaspers, Nietzsche «non vuol dar via libera al singolo individuo come tale per qualsivoglia suo capriccio» (ibidem ). 27 Naehgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Friihjahr 1881, 3[59]. 28 Ivi, 3[60], 29 Ivi, 3[98].
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e approfondito in un frammento dedicato al problema della costru zione di «modelli» nostri di vita e del significato e delle condi zioni di possibilità di tale costruzione: I nostri m o delli so n o costruiti se co n d o ciò che ci p rocu rerebbe il m a ssim o diletto di noi ste ssi se lo ra g g iu n g e ssim o , e che, d ’ altra parte, riten iam o p o ssib ile raggiu n ge re (nel do m in io delle nostre fo rze e d e lla n ostra situazion e). C iò p resu p pon e l'e s se r e o rie n ta ti sui nostri sen ti m enti di p iacere, e su lle n ostre fo rze e su l p ro ce sso oltre che su lle co n d izion i - u n ’ alta p restazion e d e ll’ intelletto: p er lo più d o vrà e s se re un in v e n ta rio !30
Costruire modelli nostri di vita significa costruire modelli che ci consentano di realizzare il «massimo diletto» tenendo conto delle nostre particolari forze e capacità in rapporto alla situazione effettiva nella quale ci muoviamo. Ciò richiede, come condizione necessaria, la conoscenza, da parte nostra, di ciò che procura il nostro diletto (la conoscenza dei nostri «sen timenti di piacere») e, insieme, delle nostre soggettive possibi lità e della situazione oggettiva in cui operiamo. M a a questa duplice operazione, che presuppone una «prestazione dell’in telletto», non molti sono disponibili. Per questo «i più si lascia no dare un modello e anche la coercizione a imitarlo (“dove re” , una specie di forza creduta invece che conosciuta)»31. Lo sforzo, al quale Nietzsche invita l’uomo, verso una più accentuata individualizzazione del proprio essere (dei propri scopi, ideali, modelli) non è altro che sforzo verso una più coe rente e radicale realizzazione del proprio essere, che è sempre, in ogni caso, un essere determinato, particolare, individuale. Come si vede dalPaforisma citato, quanto più si procede sulla strada della individualizzazione del proprio essere tanto meno comprensibili si diventa per gli altri: quanto più si radicalizza la differenza del proprio essere rispetto agli altri tanto meno
30 Ivi, 6[139]. 31 Ibidem.
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facilmente e immediatamente si è comprensibili da parte loro. Ma la possibilità della comprensione rimane, Nietzsche la lascia intravvedere nel momento in cui osserva che, approfondendo la individualità del proprio essere, si diventa oggetto delle espe rienze altrui, oggetto di ammaestramento per gli altri: se si rimanesse totalmente incomprensibili, per gli altri si sarebbe soltanto motivo e occasione di «stupore»32. Un frammento dell’ autunno 1880 chiarisce ulteriormente il senso dell’ «egoism o» nietzscheanamente interpretato. Si tratta di un frammento, nel quale Nietzsche contrappone l’egoismo, il suo egoismo, all’ altruismo e vede il «progresso della mora le» non già nello sviluppo dell’ altruismo, degli «istinti altrui stici» (che egli intende in un certo modo), ma nello sviluppo dell’egoismo ( Egoism ), degli istinti «egoistici» (che egualmen te egli intende in un certo modo, specularmente opposto all’ al truismo quale è da lui inteso)33. Il fine dell’ altruismo - viene detto - è l’eguaglianza: 1’ «istinto altruistico», anche nelle forme istituzionalizzate che assume (per esempio nella forma dello Stato), «è un ostacolo a riconoscere l’ individuo, esso vuole avere e rendere gli altri soltanto eguali». Dice ancora Nietzsche: «Io vedo nella tendenza statale e sociale un ostacolo per l’in dividuazione, una elaborazione dell 'homo communis». D ’altra parte, - e con ciò Nietzsche illustra quella che a suo giudizio è la genesi (o uno degli elementi che costituiscono la genesi) del l’altruismo e della tendenza, ad esso propria, alla eguaglianza -, « l’uomo comune ed eguale viene desiderato solo perché gli uomini deboli temono il forte individuo e preferiscono, in luogo dello sviluppo verso l ’individuo, Vindebolimento generale. Nella morale odierna vedo la giustificazione dell’indebolimen to generale: allo stesso modo che il cristianesimo voleva inde bolire e rendere eguali gli uomini forti e spirituali». L’altruismo come tendenza verso l’eguaglianza è, dunque, espressione degli interessi di un tipo particolare di uomo: è espressione degli inte-
32 Ivi, 6[158]. 33 Ivi, 6[163].
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ressi degli uomini deboli nel loro rapporto verso gli uomini forti e tende a riequilibrare, a loro vantaggio, il rapporto con gli uomini forti. L’egoismo, che Nietzsche contrappone all’altrui smo, è - in quanto contrapposizione alla tendenza, propria all’altruismo, alla eguaglianza - affermazione e difesa delle dif ferenze dei singoli individui, affermazione e difesa dell’essere proprio di ciascun individuo di fronte all’essere proprio di cia scun altro individuo. Si tratta di far «crescere l’individuo, che rappresenta i suoi interessi benintesi contro altri individui». E viceversa, si dovrebbe aggiungere. Perché, nella prospettiva di questo egoismo, che Nietzsche sostiene, l’individuo «riconosce e promuove l’altro individuo come tale», cioè nella sua indivi dualità, nella sua particolarità, nella sua differenza rispetto a lui: in questo senso si può anche parlare di una «giustizia tra egua li». La individualizzazione, che tale egoismo promuove, riguar da sia se stessi che l’ altro da sé: si vuole affermare il proprio sé e, nel contempo, si vuole che l’altro affermi il proprio. La nuova morale deve muoversi nel senso della crescente indivi dualizzazione degli individui e contrastare la morale altruistica, la cui tendenza è «la pappa molle, la sabbia m alleabile d ell’u manità. L a tendenza dei giudizi universali è la comunanza dei sentimenti, cioè la loro povertà e fiacchezza. È la tendenza verso la fine d ell’umanità. Le “verità assolute” sono strumento di livellamento, esse corrodono e distruggono le forme caratte ristiche»34. Uhomo communis, l’uomo uguale all’altro uomo, i giudizi e i sentimenti eguali e comuni: si tratta di pure astra zioni. Essi non esistono nella realtà o, se esistono, esistono solo come forzatura della realtà, come costrizione degli individui particolari e tra loro differenti - le uniche realtà esistenti - alla adozione di criteri di giudizio, di sentimenti, di comportamen ti presentati come universali ma, in effetti, essi stessi prodotto della volontà e degli interessi di uomini o gruppi umani parti colari. In quanto eguali, comuni, e, perciò, astratti, irreali, non
34 Le citazioni successive a quella della nota 33 sono tutte relative al fram mento di cui alla nota stessa.
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espressivi dell’unica realtà che esiste - gli individui particolari e distinti e non l’uomo eguale, l’uomo comune - , i sentimenti (e i pensieri, i comportamenti, ecc.) perdono forza e, con essi, perdo no forza e diventano astratti coloro stessi che li fanno propri, ossia coloro che fanno proprio qualcosa che è loro estraneo: in questo senso l’umanità - non solo l’umanità come insieme di individui e la cui esistenza dipende dalla possibilità degli individui di esse re tali, ma, al limite, la stessa umanità ridotta a «sabbia malleabi le» - finisce: finisce per l’irrealtà e, perciò, per la povertà e fiac chezza, dei sentimenti, dei pensieri, dei comportamenti degli uomini. Dice ancora Nietzsche a questo proposito: «Se tutti gli uomini opinassero di essere una cosa sola o anche soltanto di esse re uguali, ne deriverebbe la più fiacca e più snervante sensazione che si potesse immaginare. Il sentimento che ha più slancio, quel lo dell’amore ingenuo, consiste proprio nel sentire la massima diversità»35. L’ego individuale non è qualcosa di unitario, solido, com patto, pacificato, armonioso. L’ego individuale è dualità o plu ralità: è tensione di forze diverse, delle quali prevale ora l’una ora l’ altra: L ’ io non è la p osizione di un essere rispetto a più esseri (istinti, pen sieri, e co sì via); bensì, l’ eg o è una pluralità di forze di tipo personale, delle quali ora l ’una ora l ’ altra vengono alla ribalta, com e eg o , e guar dano alle altre com e un soggetto gu arda a un m ondo esterno ricco di influssi e di determ inazioni. Il soggetto è ora in un punto ora nell’ altro36.
Come esiste una pluralità di individui fra loro irriducibilmen te distinti (e non «l’uomo»), così lo stesso ego individuale è inti mamente plurale. L’ego, si è appena detto, è una pluralità di forze, delle quali prevale ora l’una ora l’altra: «Un istinto è più forte del l’altro e lo sacrifica a sé, per esempio una madre soffre fame e affanni per il figlio»37. Un aforisma di Aurora dà una rappresen tazione della vita conflittuale degli istinti e del condizionamento, 35 Nachgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 1[25]. 36 Ivi, 6[70]. 37 Ivi, 6[137].
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positivo o negativo, che essi subiscono da parte del mondo ester no. Premesso che, «Per quanto uno faccia progredire la sua cono scenza di sé, nessuna cosa potrà mai essere più incompleta del quadro di tutti quanti gli istinti che costituiscono la sua natura», sì che «il loro nutrimento e la loro forza, il loro flusso e riflusso, il giuoco alterno dell’uno con l’altro e soprattutto le leggi del loro nutrimento [...] resteranno del tutto sconosciuti», Nietzsche osser va che la vita degli istinti e le leggi del loro nutrimento sono, in ogni caso, tali che si determina «sempre un duplice fenomeno, l’essere affamati e languire degli uni, il rimpinzarsi, invece, degli altri»38. Infatti, i nostri inumi eventi d’ogni giorno gettano ora a questo, ora a quell’i stinto, una preda che viene subito avidamente afferrata, ma l’intero andi rivieni di queste vicende sta al di fuori di ogni nesso razionale con le esigenze nutritive di tutti quanti gli istinti [...] Ogni momento della nostra vita fa crescere alcuni tentacoli del nostro essere ed altri invece li atrofizza, secondo appunto il nutrimento che quel determinato momen to porta o no in se stesso. Le nostre esperienze, come si è detto, sono tutte, in questo senso, mezzi d’alimentazione (Nahrungsmittel), ma spar si con mano cieca, senza sapere chi è che ha fame e chi è già sazio [...] Per parlare più chiaramente: posto che un istinto si trovi al punto in cui brama appagarsi - o esercitare la sua forza, o sgravarsi di essa, o col mare un vuoto (questo è tutto un discorso metaforico) - esso conside rerà ogni avvenimento della giornata in vista del modo con cui potrà ser virsene ai suoi fini; sia che l’uomo cammini o riposi, sia che vada in collera, o legga, o parli, o combatta o tripudi, l’istinto, nella sua sete, palpa, per così dire, ogni condizione in cui l’uomo si venga a trova re, e nella media dei casi non trova nulla per sé, deve aspettare e aver sete ancora. Ancora un po’ e illanguidisce, ancora un paio di giorni o di mesi d’inappagamento, ed esso allora inaridisce come una pianta senza pioggia39. L’ego, però, si è anche visto, non è solo una pluralità di forze, tra loro in tensione, delle quali di volta in volta prevale questa o quella, ma è una pluralità di forze, tra loro in tensione, delle quali 38 Morgenröthe, 119. 39 Ibidem.
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quella, che di volta in volta prevale, viene «alla ribalta come ego»: una forza particolare, che vive in tensione con altre forze egual mente particolari, finisce, momentaneamente prevalendo sulle altre, per considerare se stessa V«ego totale»40, che rimane, inve ce, una pluralità di forze antagonisticamente l’un l’altra disposte (la pluralità composta dalla forza che momentaneamente prevale e dalle forze momentaneamente soccombenti): la forza momenta neamente prevalente finisce per risolvere e ridurre l’ego, cioè la complessità di forze che l’ego è, a se stessa, cioè a un elemento particolare di tale complessità. In questo modo, l’ego appare quel che non è, cioè qualcosa di unitario, solido, compatto, non inte riormente scisso e scindibile. Scrive Nietzsche: «quando gli istin ti sono in lotta, il sentimento dell’io è sempre più forte lì dove uno di essi prevale»41: il sentimento del proprio io coincide con l’istinto (in generale: la forza), che, di volta in volta, prevale nella lotta contro altre forze. Di volta in volta, noi facciamo consistere il nostro io in qualcosa di univoco (la forza momentaneamente prevalente) senza avere consapevolezza del fatto che quel che di univoco noi indichiamo come io è solo una delle forze nella cui pluralità antagonistica l’ego, invece, consiste. Osserva Nietzsche: «Per noi il prossimo si chiama “io” più di ciò che è più lontano, e, abituati alla inesatta denominazione “io e tutti gli altri” (tu), istintivamente trasformiamo ciò che momentaneamente predomi na nell’ego totale e poniamo lungo una prospettiva più lontana tutti gli istinti più deboli, e di ciò facciamo tutto un “tu” o “esso”»42. Ciò che è «prossimo», in questo caso, è la forza che, in un certo momento, risulta prevalente sulle altre che, insieme ad essa, costituiscono l’ego. E poiché noi definiamo «io» più le cose prossime che le cose più lontane, definiamo «io» la forza di volta in volta prevalente sulle altre, che per noi è appunto quella di volta in volta più vicina: «le altre forze, le forze soccombenti, si sono allontanate da noi e noi le releghiamo al ruolo di “ altro” da noi, di “tu” o di “esso”». 40 Nachgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Fruhjahr 1881, 6[70], 41 Ibidem. 42 Ibidem.
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L’ego, dunque, non è uno. Esso è una pluralità di forze in ten sione fra loro. Questa, però, è solo una parte (anche se importan te, forse la fondamentale) della verità dell’ego. La verità dell’ego non è solo nell’«egoismo» delle singole forze interne all’ego: «M a che cosa vuol dire egoismo ! A ll’interno di noi stessi, possiamo di nuovo essere egoisti o altruisti, duri di cuore, magnanimi, giusti, miti, bugiardi, voler far del male e procurare gioia»43. All’interno dell’ego non c ’è solo tensione tra forze diverse e in alterna reci proca prevalenza (con conseguente, come si è visto, autopromo zione della forza di volta in volta prevalente a «ego totale»), c’è anche collaborazione e armonia: vi sono forze che assecondano altre forze, che fanno il bene di altre forze, sia pure, probabil mente, con l’unico intento di assicurare a se stesse o alle forze con cui collaborano la possibilità della prevalenza su altre forze ancora. Nietzsche mostra la natura relazionale (relazione di opposi zione o di armonizzazione) della struttura interna dell’ego. Ma la relazionalità interna dell’ego, in particolare la relazionalità di tipo antagonistico, è un riflesso della relazionalità dell’ego con l’e sterno: L ’eg o ism o ingenuo d ell’ anim ale è com pletam ente alterato dal nostro
esercizio sociale; non riusciam o più affatto a sentire una unicità dell’ e go, siamo sempre sotto una pluralità. C i siam o sc issi e continuiam o a scinderci. G li istinti sociali (com e inimicizia, odio, invidia) (che presup p ongono una pluralità) ci hanno trasform ato: abbiam o trasferito, rim pic ciolendola, « la so cietà» dentro di noi, e il ritrarsi in se stessi non è una fu g a dalla società, bensì, sp esso , è un pen oso continuare a sognare e interpretare i nostri eventi secon do lo sch em a di esperienze anteriori44.
Anteriorità del sociale sull’individuale e costituzione dell’in dividuale sul modello del sociale, dunque. In questo stesso senso Nietzsche, inoltre, scrive:
43 Ibidem. 44 Ivi, 6[80].
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Ci trattiamo come una pluralità, e in questi «rapporti sociali» por tiamo tutte le abitudini sociali che abbiamo verso uomini, animali, paesi, cose [...] Quali istinti avremmo che non ci porterebbero fin da princi pio in una determinata posizione rispetto ad altri esseri, per esempio il nutrimento, l’istinto sessuale? Ciò che gli altri ci insegnano, vogliono da noi, ci ordinano di temere o di perseguire, è il materiale originario del nostro spirito: giudizi di altri sulle cose. Quelli ci dànno la nostra imma gine di noi stessi, secondo la quale ci misuriamo, siamo o non siamo soddisfatti di noi! Il nostro giudizio non è altro che la riproduzione di giudizi estranei combinati! I nostri stessi istinti ci appaiono nell’inter pretazione degli altri45. Alla origine della delegittimazione deH’individuale vi è, per Nietzsche, la paura, variamente motivata, dell’individuale. In ter mini molto generali, la paura dell’individuale è - se è vero che l’individualità è sinonimo di particolarità, dunque di diversità - la paura di ciò che è diverso da sé e, almeno inizialmente, non si conosce e non si può, perciò, nemmeno prevedere e controllare. Nietzsche scrive: «la paura e l’antipatia per ciò che è estraneo, diverso, è la cosa naturale»46. Ma si potrebbe dire che, se questa paura e questa antipatia sono natura, la storia, l’umano come lavo ro sulla natura andranno, per Nietzsche, nel senso di una valuta zione differente dell’estraneo, del diverso, per la quale l’estraneo, il diverso non siano o non siano solo o fondamentalmente causa di paura e di antipatia per l’io. Si è già detto della paura dell’individuale propria dei deboli: è la paura degli individui forti che porta i deboli a volere l’egua glianza e l’altruismo come via per realizzarla. Vi è inoltre la preoc cupazione, come si è visto, di soggetti, individuali o collettivi, ‘egoisti’ , che hanno interesse a neutralizzare la individualità di altri soggetti, che per loro devono svolgere solo determinate fun zioni, annullandosi nella loro individualità ovvero piegando la propria individualità allo svolgimento di tali funzioni47. E vi è poi
45 Ivi, 6[70]. 46 Ivi, 4[I23]. 47 Nachgelassene Fragm ente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11[303].
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«la paura di ciò che è individuale, e il sospetto nei suoi riguardi», propria della società nel suo insieme, che, di fronte all’individua le (all’individuale che non si conforma alle norme universali, all’individuale che è, cioè, propriamente individuale), «non è più sicura di se stessa»48. Nella paura, che la società o la «m assa» ha dell’individuo, si riflette la sua preoccupazione per il «bene comu ne», che può essere messo a repentaglio dai singoli individui: S e la m orale prescrive coraggio, fedeltà, astinenza al di fuori del m atrim onio, e ssa non pen sa, co m e scopo, alla felicità dell’ individuo, alla su a salute spirituale e fisica: piuttosto la sacrifica al bene com une. Per la m orale l ’um anità inferiore di una m a ssa ha un valore che e ssa non esita a p agare con l ’um anità superiore d egli individui: co sì pure p er la salute e la felicità49.
A proposito, in particolare, della paura che la società ha degli individui - degli uomini che sono semplicemente se stessi, cioè individui - Nietzsche sottolinea la funzione di controllo e repres sione degli individui svolta nella sua epoca dal lavoro, del lavo ro come «quella faticosa operosità che dura dal mattino alla sera», del lavoro come ciò che «logora straordinariamente una gran quantità d’energia nervosa e la sottrae al riflettere, allo scervel larsi, al sognare, al preoccuparsi, all’amare, all’odiare», del lavo ro come quella attività che «si pone sott’occhio un piccolo obiet tivo e procura lievi e regolari appagamenti»: oggi un tale lavoro «costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidità, del desiderio d’indipendenza»50. Sì che nella attuale «esaltazione del lavoro» è da vedere la «stessa riposta intenzione che si nascon de nella lode delle azioni impersonali di comune utilità: la paura, cioè, di ogni realtà individuale». Per Nietzsche, dunque, una società in cui dì continuo si lavora duramente, avrà maggior sicu-
48 N achgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 3[131]. 49 Ivi, 4[78], Inoltre, ivi, 4[77]. 50 Morgenröthe, 173.
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rezza: e si adora oggi la sicurezza come la divinità somma. E ora! «Orribile!», egli aggiunge con evidente, anche se implicito, rife rimento alle lotte operaie che in quei decenni in Europa già erano esplose, «Proprio il “lavoratore” s ’è fatto pericoloso ! Gli “individui pericolosi” brulicano! E dietro ad essi, il pericolo dei pericoli - Vindividuami»51. Secondo Nietzsche, l’istinto sessuale rappresenta qualcosa di molto significativo per quanto riguarda il processo di individua lizzazione del proprio essere, perché esprime una scelta indivi duale a favore di determinati individui, una preferenza personale per determinati esseri: L ’ istinto sessu ale com pie i grandi p assi d ell’ individuazione: im por tante per la m ia m orale, giacch é e sso è antisociale e n ega l ’eguaglian za universale, e lo stesso valore d a persona a persona. E il tipo d e lla p a s sion e in d ivid u ale : la decaden za di un popolo avviene n ella ste ssa m isu ra in cui la passion e individuale s i a lle n ta e nel m atrim onio p rev algo n o le ragioni sociali52.
Su un altro piano, espressione e sintomo di un avviato pro cesso di individualizzazione sarebbe la situazione per cui il «pros simo» è definito da ciascun individuo: la situazione per cui, cioè, ciascun individuo decide per proprio conto chi sono quelli che saranno oggetto del suo aiuto, quelli cui, con la propria azione, egli si renderà utile. Se «Il cristianesimo definì il prossimo come la meta delle nostre azioni, e lasciò a Dio il compito di definire chi dovessero essere i nostri prossimi», al contrario, C olui che non h a qu esta v ia di u scita religiosa, dovrebbe dire: quan to alle azioni che com pio, non v o glio lasciarm i im porre un p rossim o qu alsiasi com e oggetto, ben sì cercare coloro ai qu ali le m ie azioni m eglio si adattano, ai quali e sse veram ente p o sso n o essere utili53.
51 Ibidem. Sul problema del lavoro in Nietzsche, cfr. K. L öwith, Von H egel bis Nietzsche, pp. 311-4 (tr. it., pp. 459-62). 52 Nachgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[155]. 53 Ivi, 3[100],
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Guardando alla propria epoca, tuttavia, Nietzsche, nonostante, per un verso, rilevi il predominio, in ambiti differenti (morale, politico, scientifico), di posizioni egualitarie, osserva anche, per l’altro, come il processo di individualizzazione risulti ben più svi luppato che nelle epoche precedenti, per quanto, come vedremo poco più avanti, l’individualizzazione venga ancora sentita come «qualcosa di penoso »: Vi sono tante morali, oggi: il singolo sceglie spontaneamente quella che gli è più utile [...] Oggi, gli uomini sono molto diseguali tra loro! Vi sono più individui che mai, non illudiamoci! Solo, non sono pittore schi e grossolanamente visibili, come prima54. Dal punto di vista di Nietzsche, si tratta, da parte di ciascun individuo, di approfondire il processo di individualizzazione del proprio essere di contro a un «movimento», che è «continuo», di segno opposto, cioè il movimento a «formare specie, uomini, con tratti comuni: in questo senso lavorano le città, gli Stati, le civiltà»55. Si tratta di approfondire tale processo di individualiz zazione, nella consapevolezza, tuttavia, che «potrebbe esservi un limite per il grado dell’individuazione», giacché, oltre un certo limite, «Chi pensa e sente in modo anormale va in rovina, non può riprodursi»56. N ietzsche così illustra il punto relativo all’ «istinto» di individualizzazione: In epoche in cui si sente l’individuazione come qualcosa di peno so, come nella nostra (e come in tutta la storia morale passata del l’umanità), un tale istinto è difficilmente ereditabile. In epoche nelle quali invece essa è sentita con piacere, facilmente eccede e determi na l’isolamento estremo (e così impedisce la fecondità generale del l’umanità). Quanto più vi è somiglianza, tanto più aumenta la fecon dità, ognuno incontra la femmina adatta: dunque sovrappopolazione al seguito della morale57.
54 Ivi, 4[100], 55 Ivi, 6[176], 56 Ivi, 6[138], 57 Ibidem.
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3. Condizioni e articolazione della cura di sé. C ura di sé e felicità Posto che «anche» la cura di sé può essere moralmente vali da, anzi rappresentare una «alta moralità», posto, inoltre, che cura di sé è cura di sé nella sua propria particolarità, diventa necessa rio, per l’uomo che di sé intenda prendersi cura, conoscere il pro prio particolare sé. Questa può essere indicata come una prima condizione della cura di sé. Conoscere il proprio sé particolare significa, poi, conoscere i bisogni particolari di cui esso è fatto. Occorre che ciascuno sia «conoscitore» dei propri bisogni, «per esempio riguardo ai cibi, agli abiti, all’abitazione, al riscaldamen to, al clima, ecc.»58. Il principio, che ispira questa conoscenza, è quello secondo cui è bene Impostare la propria vita esattamente in base a ciò che possiamo giudicare - in questo si prom uove la m oralità di tutti, cioè si costringe ogni artigiano a trattarci onestamente, perché siam o conoscitori. U n b iso gno nel quale non vo gliam o diventare conoscitori, dobbiam o proibirlo a noi stessi: questa è la nuova m oralità59.
Occorre, da parte dell’uomo, «comprendere il ritmo abituale del suo pensiero e del suo sentire, i suoi bisogni di nutrimento intellettuale»60, senza tralasciare - e in ciò si vede in maniera evi dente che il problema della cura di sé non è affatto dissociabile dal problema del rapporto con la alterità (ma di ciò più avanti) di «modellarsi sui suoi avversari», di «tentare di mangiare il loro nutrimento», più in generale, di «viaggiare in ogni senso»61. Occorre, d’altra parte, che gli uomini imparino «il nuovo desi-
58 Nachgelassene Fragm ente Frühling 1878 bis November 1879, 40[3], 55 Ibidem. 60 Nachgelassene Fragm ente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11[258] (tr. it„ 11[207]). 61 Ibidem.
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derio - e a questo fine bisogna che vi sia qualcuno che lo stimo li per loro, un maestro: ho fiducia che poi saranno abbastanza fini e pieni di inventiva per trovare da sé le vie per soddisfare il desi derio - passo passo e tentoni, come son soliti fare»62. Della cura di sé fa, quindi, anche parte la elaborazione, da parte del singolo individuo, dei modi in cui soddisfare i propri desideri. Altra condizione, che all’uomo che vuol prendersi cura di sé si impone, è quella di sviluppare o aprirsi a bisogni e desideri per il cui soddisfacimento vi siano possibilità soggettive (forza, capa cità di chi ha un certo bisogno o un certo desiderio). Come si è visto, i «nostri modelli», a differenza dei modelli che ci vengono imposti dall’esterno o che, in ogni caso, noi dall’esterno assu miamo, sono elaborati a partire da ciò che «riteniamo possibile raggiungere» sulla base della «nostra forza»63. Ciò non soltanto per evitare di muoversi a vuoto, per evitare la frustrazione di una mancata realizzazione, ma anche, come risulta dal seguente fram mento, per educare se stessi alla indipendenza della propria per sona:
Soddisfare per quanto è possibile da sé, anche se imperfettamente, i propri bisogni necessari, è questa la direzione che porta alla libertà dello spirito e della persona. Il farsi soddisfare, e il più perfettamen te possibile, molti bisogni, anche superflui, - educa alla dipendenza. Il sofista Ippia, che aveva acquistato da sé, fatto da sé tutto ciò che portava di dentro e di fuori, corrisponde, appunto in ciò, alla direzio ne che porta alla più alta libertà della persona. Non importa che tutto sia lavorato in modo ugualmente buono e perfetto; già la fierezza rat toppa i punti logori64. Ai fini della cura del proprio sé necessarie sono, poi, la criti ca e la lotta contro tutto ciò che (si può trattare di doveri o auto-
62 Ivi, 11 [240]. 63 N achgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[139]. 64 M enschliches, Allzumenschliches, II, «Der Wanderer und sein Schatten», 318.
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rità o regole sociali o di altro ancora, per esempio, per quel che si è visto Nietzsche osserva su di esso, il lavoro quale è svi luppato nella società moderna), in ogni caso, rappresenti una negazione dell’essere proprio di ciascuno. E quanto emerge, fra l’altro, dalla Prefazione del 1886 a Umano, troppo umano, lì dove si illustra il processo di formazione dello spirito libero, per il quale l’uomo da una posizione di subalternità nei con fronti di determinati doveri e autorità perviene, attraverso il pas saggio di una libertà selvaggia e anche crudele - una libertà ancora immatura -, alla «matura libertà dello spirito, che è tanto padronanza di sé quanto disciplina del cuore»65: coloro che in questo processo sono coinvolti si allontanano da «tutto ciò che è degno e venerato dall’ antichità», da «quella riconoscenza per il suolo sul quale crebbero, per la mano che li guidò, per il san tuario dove impararono a pregare»66. O è quanto emerge da un frammento del 1884 dove una via alla propria liberazione è indicata nel «rovesciare ciò che è più venerato, affermare ciò che è più proibito, la gioia maligna in grande stile, invece delle riverenza»67. Della cura di sé fa parte anche il diventare «padroni di se stes si»: è il problema del governo della sfera dei propri istinti, dei propri umori dei propri stati d’animo: Per la m an canza di dom inio di sé nelle piccole c o se si frantum a la capacità p er quelle grandi. È m ale utilizzato, ed è un pericolo p er qu el lo prossim o, ogni giorno in cui non ci si sia ricu sata alm eno una volta qualche piccola co sa: qu esta ginnastica è indispensabile se ci si vuole conservare la g io ia di essere padroni di se stessi68.
È il grande problema nietzscheano (sul quale più avanti ci sof fermiamo) della autodisciplina dell’uomo, della disciplina, da parte dell’uomo, delle proprie forze e delle proprie pulsioni, un 65 Ivi, I, «Vorrede», 4. 66 Ivi, 3. 67 N achgelassene Fragm ente Frühjahr bis H erbst 1884, 25[484]. 68 Menschliches, Allzumenschliches, II, «Der Wanderer und sein Schatten», 305.
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problema che, in un frammento, Nietzsche illustra, con riferimento a se stesso, attraverso la immagine del giardiniere che cura il pro prio giardino: 10 p o sso trattarmi proprio com e un giardiniere tratta le sue piante: p o sso allontanarm i d a un lu o go e d a una com pagn ia, p o sso avvicinar m ene altri. P o sso anche favorire artificialm ente o far inaridire qu esta ten denza a procedere con m e ste sso co m e un giardiniere69.
Nella cura di sé quel che è in gioco è la stessa felicità del l’uomo. A questo proposito ricordiamo, innanzitutto, la osser vazione di Nietzsche secondo la quale occorre avere rispetto per la propria felicità. Come, si è visto70, occorre avere rispetto per se stessi così occorre avere rispetto per la propria felicità o, meglio, il rispetto della propria felicità non è che un aspetto del rispetto di se stessi. Scrive Nietzsche: N o, io non son fatto p er aggrav are ancora la co scien za degli uom i ni! V oglio che abbiano più considerazione (m ehr A cht) della loro feli cità, «d i tutte le cento sorgenti» anche nel deserto, com e dice un poeta tedesco, e pensino m eglio che in p assato della loro infelicità e incapa cità, delle loro non virtù - e s se sono altrettanto utili, e probabilm ente proprio q u i risied on o le loro condizion i p ecu liari di p iacere, felicità, forza, virtù71.
11 riferimento alla interpretazione, che della infelicità in pas sato gli uomini hanno data, è probabilmente riferimento alle interpretazione, che a lungo ha avuto corso, della infelicità come espiazione di una colpa commessa dall’uomo. Il proble ma della felicità è legato, dunque, al problema del rispetto per se stessi e, perciò, al problema della cura di sé nella quale il rispetto di sé prende forma concreta.
69 N achgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 7[30]. 70 Cff. il paragrafo 1. 71 N achgelassene Fragm ente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 15[32].
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È nello sviluppo del proprio essere particolare, infatti, che risiede la felicità dell’individuo. Ciascun uomo ha tendenze, bisogni, attitudini particolari, la cui attuazione fa la sua felicità. La felicità è un fatto individuale, qualcosa che varia da indivi duo a individuo, perché è realizzazione della particolarità (come tendenze, bisogni, attitudini, ecc.) che ciascun individuo è. In questo senso può essere letta la affermazione che «L a felicità risiede nell’ incremento dell’originalità»: perciò, «se la tradizio ne e il così fan tutti costituiscono la moralità, questo sarebbe un ostacolo alla felicità»72. Il principio della originalità come fonte della felicità non riguarda, del resto, solo il rapporto del l’uomo con se stesso, ma anche il rapporto del’uomo con gli altri uomini. Prefigurando una condizione del rapporto inter personale diversa da quella tradizionale, Nietzsche, infatti, scri ve che «Provare gioia dell’originalità altrui senza diventarne la scimmia, forse sarà un tempo il segno di una nuova cultura»73. M a provare gio ia per la diversità altrui non è altro, per Nietzsche, che la esperienza stessa dell’ amore74. È perché si è felici solo assecondando e realizzando se stessi nella particola rità del proprio essere - diversamente, cioè se viene fatta vio lenza a tale particolarità, l’uomo trova la propria infelicità -, che Nietzsche può scrivere che « l’eguaglianza fa diminuire la felicità dell’individuo»75. Per la stessa ragione, ancora, nell’uo mo «la capacità di gioire si atrofizza a causa della volontà di essere uguali»76.
72 Nachgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 3[151]. 73 Ibidem. 74 M enschliches, A llzum enschliches, II, «Vermischte M einungen und Sprüche», 75. Abbiamo già incontrato la notazione nietzscheana secondo la quale «Il sentimento che ha più slancio, quello dell’amore ingenuo, consiste proprio nel sentire la massima diversità»: N achgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 1[25]). 75 N achgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 3[144]. 76 Ivi, 1[16],
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4. L a costruzione d ell'ego: il problema d ell’autodisciplina. Una filo so fia del piccolo, del lento, del vicino Sviluppo del proprio sé e realizzazione della propria felicità vanno, di conseguenza, di pari passo. In un frammento del 1880 si trovano illustrati, da un lato, il carattere sia del sé sia della feli cità del sé come risultato di una costruzione dell’uomo (di una cura, da parte dell’uomo, di se stesso, una cura che è anche costru zione, e non semplice assistenza o custodia di qualcosa da sem pre e per sempre definito nel proprio essere e che sarebbe solo da conservare così com’è), e, dall’altro, la connessione esistente tra costruzione del sé e costruzione della felicità: O gni azione, ogn i pensiero, ogn i stim olo ed ifica la felicità o l ’infe licità d ell’ avvenire; e ssi costruiscono il tuo anim o, le tue abitudini; non c ’ è n ulla di indifferente77.
Se è vero che Nietzsche ha sottolineato l’ importanza del dimenticare78, del «chiudere i conti» con il passato79, con certe proprie esperienze passate, l’importanza, dunque, della rottura con la storia, della discontinuità storica - nella capacità di dimenticare, vista come un segno di forza dell’uomo8081, un sin tomo dell’ «essere benriuscito » u , identificando la condizione per non farsi schiacciare da determinate proprie passate espe rienze82 o «affinché vi sia ancora posto per il nuovo»83 - , è anche vero che egli ha sottolineato l’importanza del passato, della storia, della continuità, della tradizione. Egii scrive: «Ogni bene è eredità: quel che non è ereditato, è incompiuto, è comin-
77 Ivi, 2[66]. 78 Zur Genealogie der M oral, n , 1, p. 307 (tr. it., p. 255). 79 Ecce homo, «Warum ich so weise bin», 2, p. 265 (tr. it., p. 274). 80 Zur G enealogie der M oral, II, 1,1, p. 307 (tr. it., p. 255). 81 Ecce homo, «Warum ich so weise bin», 2, p. 265 (tr. it., p. 274). 82 Ibidem (tr. it., p. 274). 83 Zur Genealogie der M oral, II, 1, p. 307 (tr. it., p. 255).
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ciamento...»84*: ogni cosa bella, riuscita, è il risultato di una sto ria, di una continuità d’azione e d’intenti, di una costanza nel l’impegno personale, nella adozione di un metodo di lavoro, di uno stile di vita. È q u alcosa che si acquista anche la b ellezza di u n a razza o di una fam iglia, la su a grazia e bontà in ogn i atteggiam ento: al pari del genio, e ssa è il risultato conclusivo del lavoro accum ulato di generazioni. S i deve aver fatto grandi sacrifici per il buon gusto, per am or suo si deve aver fatto m olte co se e m olte tralasciate - il X V II secolo in F rancia è am m irevole sotto entrambi questi aspetti - , si deve aver avuto nel buon gusto un principio di scelta per la società, l ’ am biente, l ’ abbigliam ento, l’ appagam ento sessuale, si deve aver preferito la b ellezza all’ utile, all’ a bitudin e, a ll’ op in ion e, a ll’ in d olen za. R e g o la su p rem a: o c co rre non «lasciarsi andare» neppure dinanzi a se stessi. L e c o se buone sono co sto se oltre m isura: ed è sem pre valida la le g g e che chi le p o ssie d e è diver so d a chi le acq u ista*5.
Anche il «bene» particolare della felicità è «eredità» nel senso da Nietzsche precisato nel brano appena citato. L a feli cità e la infelicità - così come 1’ «animo» - dell’uomo sono il risultato di una storia fatta delle azioni compiute, dei pensieri sviluppati, delle reazioni (positive o negative) prodotte nei con fronti degli stimoli cui si è stati sottoposti. Occorre, perciò, fare attenzione alle proprie azioni, ai propri pensieri, alle proprie reazioni sì da orientare azioni, pensieri, reazioni nel senso della costruzione della propria felicità e della lotta contro la propria infelicità. Già da quanto si è appena detto si vede che la cura di sé, dalla quale dipende la propria stessa felicità personale, è disci plina di sé, disciplina delle proprie pulsioni, delle proprie forze, delle proprie possibilità. È questo un punto sicuramente molto importante della riflessione nietzscheana più impegnata nella
84 Gòtzen-Dàmmerung, «Streifzuge eines Unzeitgemassen», 47, pp. 142-3 (tr. , p. 148). 85 Ibidem (tr. it., p. 148).
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costruzione del futuro, di un futuro diverso rispetto al passato e al presente della storia dell’ uomo. Cura di sé è attenzione, impegno, applicazione, costanza, metodo nell’esercizio delle pro prie possibilità, in una parola: disciplina, che, a seconda di come viene praticata dai singoli individui, dà il risultato vario degli «stili» individuali particolari. « “Dare uno stile” al proprio carattere - è un’arte grande e rara!»86. Dare uno stile è quella arte per la quale è «la costrizio ne imposta da uno stesso gusto a dominare e a plasmare nel gran de come nel piccolo: se il gusto era buono o cattivo, ha meno importanza di quel che si pensi - è sufficiente che esso sia un gusto unitario!»87. Dare uno stile è l’arte con la quale si lavora se stessi - si costruisce se stessi piegando se stessi, organizzando la propria «natura» in rapporto a un progetto determinato e alle rego le che esso impone: Qui si è aggiunta una gran quantità di natura secondaria, là si è eli minato un frammento di natura primaria: in tutti e due i casi, con un lungo esercizio e un quotidiano lavoro. Ora sottoporre se stessi a disciplina, a una lunga, quotidia na e severa disciplina, da se stessi definita, è segno di un pote re dell’uomo su se stesso: «Saranno le nature forti e domina trici a godere la loro gioia più sottile in tale costrizione, in tale vincolata disciplina e compiutezza sotto una propria legge». Essi non soffrono, ma anzi trovano motivo di gioia di fronte allo «spettacolo di ogni natura stilizzata, di ogni natura vinta e ridotta in servitù»: «ripugna loro abbandonare la natura alla sua libertà». Che cosa accade, invece, nel caso degli spiriti deboli? Inversamente si comportano i caratteri deboli, impotenti su se stes si, i quali odiano la disciplina vincolante dello stile; sentono che se questa dannata costrizione fosse loro imposta, dovrebbero sotto di essa diventare gente dappoco: essi diventano degli schiavi non appena ren86 D ìe fröhliche W issenschaft, 290. 87 Ibidem.
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dono un servizio, così odiano il servire. Tali spiriti - possono essere spiriti di prim’ordine - mirano sempre a plasmare o interpretare - sel vaggiamente, arbitrariamente, fantasticamente, disordinatamente, sor prendentemente - se stessi e quanto li circonda come libera natura8889. Solo apparentemente è libero colui che lascia vivere senza restrizione la propria natura e servo colui il quale la sottopone a disciplina. In realtà, servo è il primo perché non sa che dire di sì ai propri istinti e impulsi naturali nel momento e nella forma in cui si presentano (e ciò può avere per lui conseguen ze anche disastrose), libero è il secondo perché agli stessi istin ti e pulsioni sa, nel caso, dire di no (con conseguenze positive per il proprio stesso bene). È in rapporto alla necessità della autodisciplina che va visto il recupero, del quale Nietzsche sostiene egualmente la necessità, di alcune nozioni e pratiche, che vanno salvate dalla «rovina» cui le ha condannate « l’abuso fattone dalla Chiesa»: la nozione e la pratica della «ascesi» in quanto strumento della « educazio ne della volontà» (Nietzsche critica il «nostro assurdo mondo di educatori», che «crede di cavarsela con 1’“istruzione” , con l’am maestramento del cervello»); la nozione e la pratica del « digiu no», «anche come mezzo per mantenere la sottile capacità di godere di tutte le buone cose (per esempio ogni tanto non leg gere, non sentir più musica, non essere più amabile; bisogna avere anche giorni di digiuno per la propria virtù)»; la nozione e la pratica del « chiostro»: «un uscire dal girotondo del milieu, un uscire dalla tirannia delle rovinose piccole abitudini e regole; una lotta contro lo sciupio delle nostre forze in mere reazioni; un tentativo di dar tempo alle nostre forze di accumularsi, di ridi venire spontanee»*9. Il problema della autodisciplina - la cura di sé è questa autodisciplina - è del tutto centrale in Nietzsche: non si potrebbe essere, qui, più lontani da qualsiasi idea di abbandono alla natu-
88 Ibidem. 89 N achgelassene Fragm ente H erbst 1887 bis M ärz 1888, 10[165].
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ra, alla propria natura, alla immediatezza della propria natura, dei propri istinti, impulsi naturali, sia che si tratti della natura natura, per così dire, ammesso che nell’uomo si presenti mai qual cosa come una tale natura, sia che si tratti di quella «seconda natu ra» che la storia, l’educazione cuciono addosso all’uomo come una seconda pelle: D ato il m o do in cui o g g i veniam o educati, noi riceviam o in prim o luogo im a se co n d a n atu ra: e quando il m ondo ci dice m aturi, m aggiori d ’ età, utilizzabili, noi la p ossed iam o . Pochi so n o abbastanza serpenti da staccarsi un bel giorno qu esta pelle di do sso, allorquando, sotto il suo gu scio, è m aturata la loro p rim a n atu ra. N ei più, avvizzisce il sem e di e ssa 90.
Ove l’uomo non abbia avuto la possibilità di praticare una rigorosa autodisciplina, ove l’uomo non abbia cioè avuto la pos sibilità di «mettersi a una buona scuola» — il problema della disciplina è il problema stesso di una tale scuola - , un destino decisamente negativo lo attende: il non aver avuto una buona scuola produce conseguenze irreparabili: U n a p erson a siffatta non co n osce se stessa; e ssa attraversa la vita sen za aver im parato a cam m inare; la m o llezza dei m uscoli si tradisce a ogn i p asso 91.
In questo caso l’uomo può essere salvato solo, paradossal mente, da una situazione drammatica che per lui si verifichi, come «un’infermità di anni forse, che lanci una sfida per una estrema tensione della forza di volontà e al saper bastare a se stessi», o da una situazione straordinaria, come «una situazio ne di emergenza che si produce bruscamente, contemporanea mente anche per moglie e figli, e che costringe a un’attività che restituisce energia alle fibre fiaccate e ridà tenacia alla volontà di vivere». Ma «la cosa più desiderabile resta in tutte le le cir-
90 Morgenröthe, 455. 91 N achgelassene Fragm ente Artfang 1888 bis Anfang Jan u ar 1889 , 14[161].
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costanze una dura disciplina al tempo giusto, cioè in quell’età ancora in cui si è fieri di vedersi chiedere molto». Può essere interessante vedere quali sono, per Nietzsche, i caratteri di una «buona scuola» ovvero i caratteri di una «dura disciplina»: nella buona scuola «si chiede molto» e «con severità», «si chiede il buono e anche l’eccellente come cosa normale», «la lode è rara», « l’ indulgenza manca», «il biasimo viene espresso con forza, oggettivamente, senza riguardi per il talento e l’origine». Dice Nietzsche: D i una tale scu o la si h a b isogn o sotto ogn i aspetto: c iò v a le delle co se più m ateriali co m e di quelle più spirituali. S areb b e disastroso star qui a distinguere! L a ste ssa disciplin a rende valenti il m ihtare e lo stu dioso; e visto d a vicino, non c ’ è studioso di valore che non ab b ia in sé gli istinti di un m ilitare di valore92.
Attenzione, impegno, applicazione, costanza, metodo, eser cizio: abbiamo visto Nietzsche rivendicare la fondamentalità dell’esercizio, da parte dell’ uomo, di tali qualità. Tali qualità vanno coltivate ed esercitate se si vuol ottenere qualcosa di buono e importante non solo per sé ma anche per gli altri, per sé e, quindi, anche per gli altri: «Far di sé una persona com pleta e tener presente in ogni cosa che si faccia il più alto bene di essa», ciò rappresenta la condizione perché gli altri possano trarre, essi stessi, il massimo vantaggio da colui che in questo modo si prende cura di sé93. Il problema della cura di sé non è, così, solo il problema della determinazione delle condizioni della propria felicità personale, ma anche il problema della determinazione delle condizioni di una propria cura valida, effi cace nei confronti degli altri. Attenzione, impegno, applicazione, ecc.: sono tutte cose che si svolgono nel tempo, o richiedono tempo, o significano tempo. Nietzsche crede nel tempo e nei benefici che il tempo - il tempo impiegato a costruire, a curare sé e la propria opera 92 Ibidem. 93 Menschliches, Allzumenschliches, I, 95.
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- può portare. Riprendendo l’idea nietzscheana che ogni bene è eredità, si può notare che, dal punto di vista del filosofo, il problema della possibilità del bene è il problema non solo di quel che si eredita da altri, ma anche di quel che si eredita da se stessi, ovvero dalla propria attenzione, dal proprio impegno, dalla propria applicazione, ecc. dispiegati nella continuità del tempo (anche se il saper essere eredi di se stessi può essere con siderato, a sua volta, una eredità acquisita da altri). Si tratta di raccogliere i frutti che si sono seminati, i frutti che, per quan tità e qualità, corrispondono a quel che si è seminato, a quel che si è saputo seminare: ma i frutti si raccolgono se prima si è, appunto, seminato. E, per seminare, occorre tempo: occorre tempo per seminare attenzione, impegno, applicazione, ecc. Si semina nel tempo e poi, nel tempo e con il tempo, quel che si è seminato si raccoglie. Questo ‘principio’ ha, per Nietzsche, validità generale, nel senso che riguarda qualsiasi attività l’uomo intraprenda e svol ga. Vale anche, in particolare, per la attività artistica. Il riferi mento alla attività artistica appare, da questo punto di vista, tanto più significativamente rivelativo della validità del princi pio quanto più una certa estetica ha considerato, invece, la atti vità artistica e l’opera d’arte come il risultato, principalmente, di «improvvise intuizioni, le cosiddette ispirazioni», «come se» - dice Nietzsche in un luogo che agli artisti accomuna gli stes si filosofi - « l’idea dell’opera d’ arte, del poema, il pensiero base di una filosofia scendessero a illuminarli dal cielo come un raggio di grazia», cioè come se quella idea e quel pensiero venissero fuori dal nulla, da nessun lavoro precedente, da nes suna ricerca, da nessuna applicazione: la verità è che, nel campo d ell’ arte, «Tutti i grandi furono grandi lavoratori ( grosse Arbeiter), instancabili non solo nell’inventare, ma anche nel respingere, vagliare, trasformare, ordinare»94. Né, d’altra parte, attività artistica e opera d’arte possono spiegarsi solo in base a (presunti) «talenti innati ( angeborenen Talenten)»95: alle teorie, 94 Ivi, 155. 95 Ivi, 163.
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che spiegano l’arte con il riferimento a «talenti innati», così come alle teorie che spiegano l’arte con improvvise e, in realtà, miste riose e inspiegabili ispirazioni, si tratta di opporre la «solida serietà di mestiere (tüchtigen Handwerker-Ernst)». I «grandi uomini di ogni specie», rileva Nietzsche, acquistarono grandezza, divennero «geni» (come si dice), con qualità della cui mancanza non parla volentieri nessuno che ne sia consapevo le: essi avevano tutti quella solida serietà di mestiere, che impara a for mare perfettamente le parti prima di osar comporre un gran tutto; a tal fine essi prendevano tempo, perché provavano un piacere maggiore nel far bene il piccolo, il secondario, che nel mirare all’effetto di un insie me abbagliante96.
Così, per esempio, per chi voglia «diventare un buon novel liere», v’ è una «ricetta» da seguire, la cui esecuzione, però, «presuppone qualità su cui si suol passare sopra quando si dice: “Io non ho abbastanza talento” ». Quali sono queste qualità? Sono le qualità che fanno la «serietà del mestiere». Scrive Nietzsche: Si provi a fare cento e più abbozzi di novelle, ciascuno non più lungo di due pagine, ma di tale chiarezza, che ogni parola sia in esso necessaria; si scrivano ogni giorno aneddoti, finché non si impari a trovare la loro forma più pregnante, più efficace; si sia instancabili nel raccogliere e dipingere tipi e caratteri umani; si racconti soprat tutto il più spesso possibile e si ascolti raccontare, con occhio e orec chio attenti all’effetto prodotto sugli altri presenti, si viaggi come un pittore paesaggista e disegnatore di costumi, si estragga dalle singole scienze tutto ciò che produce effetti artistici quando è ben presentato, si rifletta infine sui motivi delle azioni umane, non si disdegni alcu na indicazione per istruirsi in questo campo e si faccia giorno e notte collezione di cose siffatte. In questa molteplice esercitazione si lasci no passare una decina d’anni: ciò che poi viene creato in laboratorio, può uscire anche alla luce del sole. Ma come fanno i più? Non comin ciano con la parte, bensì col tutto. Hanno magari una volta la mano
96 Ibidem. 51
felice, destano attenzione e fanno da allora in poi cose sempre peggio ri, per buoni, naturali motivi97. Il talento non è nulla di semplicemente naturale. Anche il talen to è frutto della storia, del tempo, è frutto, in particolare Nietzsche insiste - , di un processo di apprendimento che, nel tempo, con il tempo, si realizza: Che altro è il talento se non un nome per una p arte p iù an tica d’ap prendimento, d’esperienza, di tirocinio, di appropriazione, di assimila zione, sia pure all’epoca dei nostri padri e ancor prima? E d’altro canto, colui che apprende, d o ta se ste sso salvo il fatto che non è così facile appren d ere e non è soltanto questione di buona volontà; si deve sa p e r apprendere (m an m u ss lernen k ö n n e n ) 9*. Nietzsche nota che all’apprendimento, in un artista, spesso si oppone l’invidia, o quella superbia che, non appena avverte qualche cosa di estraneo, mette in mostra gli aculei e si pone macchi nalmente in un atteggiamento di difesa anziché in quello dell’apprendi mento. Entrambi questi sentimenti erano assenti in Raffaello, come in Goethe, e hi per questo che essi furono g ra n d i ap p ren d isti ( g r o s s e L e r n e r ) , e non soltanto gli sfruttatori di quei filoni .minerari, cavati dai sedimenti terrosi e dalla storia dei loro antenati99. Nietzsche può così criticare l’idea che Michelangelo aveva rispettivamente di se stesso e di Raffaello: in se stesso vedeva il talento, nell’ altro l ’ apprendimento100. Come si è visto, per Nietzsche talento e apprendimento non sono realtà diverse che non hanno niente a che fare l’una con l’altra ed espressive di due tipi differenti di personalità, ma il talento è il portato di un pro cesso, a volte anche molto lungo, che attraversa più generazioni successive, di apprendimento. 97 Ibidem. 98 Morgenröthe, 540. 99 Ibidem. 100 Ibidem.
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Nietzsche crede nel tempo, nell’effetto cumulativo di quel che nel tempo, in un senso o nell’altro, si viene producendo. D isgraziati coloro che voglion o raggiungere d ’ un b a lz o so lo la virtù con una m etam orfosi! E si disperano p er ogni ricaduta! M entre l'e s e r cizio fa il m aestro ( Ü b u n g den M eister m ach t)m .
Poiché crede nel tempo, negli effetti di una azione (positiva o negativa) continuata nel tempo, egli mette in guardia contro le «innumerevoli piccole inavvertite negligenze», a causa delle quali insorgono le «malattie croniche dell’ anima, come quelle del corpo»: nelle proprie piccole e quotidiane, ripetute, continue man canze, più che in «saltuari, grossolani trascorsi contro la struttura razionale del corpo e dell’anima», è l’origine della cronicità delle malattie sia dell’anima che del corpo: C h i, p er esem p io , ogn i gio rn o di p iù resp ira, s ia p ure in m isu ra in sign ifican te, in m an iera troppo d eb o le, e a c c o g lie nei p olm on i u n a troppo sc a rsa quantità d ’ aria, c o sì ch e qu esti non v en go n o totalm en te a ffatica ti ed esercita ti a su ffic ie n z a , fin isc e p e r in correre in un disturbo p olm on are cronico: in un c a so del gen ere non p u ò ottenersi la g u arig io n e in alcu n altro m o d o se non intrapren dendo, a n o stra volta, inn um erevoli p icc o li esercizi in se n so o p p o sto , e contraen do inavvertitam ente altre abitudini, p er esem p io , co l p o rsi la re g o la di trarre, ogn i quarto d ’ ora, un forte e p rofon do resp iro (p ossib ilm en te stan do sd raiati sul p avim en to; un o ro lo g io che suoni i tre quarti, d eve esse re, inoltre, scelto a co m p agn o d e lla vita). L en te e m inute sono tutte q u este terapie: anche chi v u ol risan are la su a an im a d eve riflet tere su lla trasform azio n e d e lle p iù p ic c o le abitu dini101102.
Come la malattia dell’anima o del corpo è l’effetto cumula tivo di una serie di comportamenti, atteggiamenti o pensieri negativi prodotti nel corso del tempo così la guarigione dell’a nima o del corpo non sarà il risultato di un isolato e particola re comportamento, atteggiamento o pensiero, per quanto di 101 Nachgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Friihjahr 1881, 7[31]. 102 Morgenròthe, 462.
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segno opposto a quelli che hanno portato alla malattia, ma sarà, anche qui, l’effetto cumulativo di una serie di comportamenti, atteggiamenti o pensieri positivi prodotti nel tempo dall’uomo. È il problema delle «Terapie lente», come dice il titolo del l’aforisma di Aurora, dal quale sono tratti i brani appena cita ti, o, detto diversamente, della terapia delle «piccole dosi», come dice il titolo di un altro aforisma della stessa opera: Se una trasformazione deve andare più a fondo possibile, si sommi nistri il farmaco in dosi minime, ma ininterrottamente, per lunghi periodi di tempo. Che cosa c’è di grande che possa essere creato in un baleno? Così dobbiamo guardarci dall’alterare precipitosamente e a viva forza, con una nuova valutazione delle cose, lo stato della morale al quale siamo abi tuati: no, vogliamo continuare a viverci ancora tanto a lungo, finché, pre sumibilmente molto tardi, ci accorgeremo che il nuovo apprezzamento di valore ha acquistato in noi un potere preponderante e che le piccole dosi di questo apprezzamento, al quale a partire da oggi ci dobbiamo abitua re, hanno posto in noi una nuova natura. Si comincia anzi a capire che anche l’ultimo tentativo di un grande mutamento di valutazione, e preci samente riguardo alle questioni politiche, - la «grande Rivoluzione» -, non è stato nulla di più di una ciarlataneria patetica e sanguinosa, che attraverso improvvise crisi è riuscita a infondere nell’Europa dei credenti la speranza di un'improvvisa guarigione (pl öt zl i che Genesung) - e con ciò ha reso fino a questo momento impazienti e pericolosi tutti i mala ti politici103. A proposito della cautela da esercitare nell’allontanarsi da consolidate tradizioni quando non si sia costruito ancora qual cosa di nuovo su cui edificare la propria esistenza, e a propo sito della lentezza con cui ogni crescita procede (proprio que sta lentezza consiglia quella cautela), ecco un’altra osservazio ne nietzscheana: Non lasciar perire qualcosa che sussiste da lungo tempo - una pras si cauta, perché ogni crescita è talmente lenta e anche il terreno è così
103 Ivi, 534.
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raram ente favorevole alla sem inagione. D ev iare le forze esistenti verso altri effetti!104.
Terapie lente e minute, piccole dosi, passaggi graduali: ciò è necessario perché qualcosa di buono e di grande, qualcosa di significativo si produca per il singolo e per la società. Sono i piccoli ma continui interventi dell’uomo in una direzione pre cisa che determinano, nei differenti ambiti (artistico, morale, politico), grandi effetti. L e grandi conversioni dell’anima, i grandi cambiamenti della struttura sociale sono solo l’ultimo atto di una serie di piccole e continue azioni costantemente pro dotte da singoli o da gruppi in un senso determinato. Il grande è preparato dal piccolo e poiché il piccolo è, in realtà, una serie di piccole, minute azioni coerentemente svolte nella continuità del tempo, il grande è preparato non solo dal piccolo, ma anche dal «lento». La filosofia della cura di sé è una filosofia di «tutte le cose prossime (a l l e r n ä c h s t e n D i n g e ) » 105. Emerge così una caratterizzazione della filosofia nietzscheana come filosofia del piccolo, del lento e del vicino. Verso le cose prossime, «a cui, in realtà, gli uomini attribuiscono la massima importanza», gli uomini sogliono mostrare un «simulato disprezzo», mostrando, invece, di apprezzare - un apprezzamento che «non è quasi mai del tutto genuino» - le cosiddette «cose più importanti» indi cate dalla religione e dalla metafisica. Poiché le cose prossime, «come per esempio il mangiare, l’abitare, il vestirsi, l’aver rap porti sociali», sono disprezzate, esse non diventano «oggetto di riflessione e di riforma costante, serena e generale, e invece, poiché esse sono reputate degradanti, si distoglie da esse la pro pria serietà intellettuale e artistica»: il risultato è che le n ostre continue tra sg ressio n i delle p iù se m p lici le g g i d el co rp o e d e llo sp irito crean o in n oi tutti, gio v a n i e v e cch i, u n a v e rg o g n o sa
104 N achgelassene Fragm ente Anfang 1880 b is Früh jah r 1881, 4(64). 105 M en sch lich es, Allzumenschliches, II, «D e r W anderer und sein Schatten», 5.
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dip en den za e m an can za di libertà - v o g lio dire q u ella dipen den za, in fon d o non n ece ssaria, d a m edici, insegn anti e curatori d ’ anim e, la cui p ressio n e g ra v a an cor o g g i su ll’ intera so c ie tà 106.
Il fatto è - Nietzsche ribadisce - che le co se p iù vicine d i tutte vengono dai più m olto m alam ente viste e m olto raram ente tenute in conto. E questo è indifferente? - M a si consideri che d a questa m an canza derivano q u a si tutte le inferm ità fisic h e e sp iritu a li dei singoli: il non sapere che c o sa ci fa bene e che c o sa ci fa m ale nell’ im pianto della condotta di vita, nella ripartizione del giorno e del tem po e nella scelta dei rapporti sociali, nella p rofession e e nel tem po libero, nel com andare e nell’obbedire, nel sentire la natura e l ’ arte, nel m angiare, nel dorm ire e nel pen sare; l ’ essere ign o ran ti e il non aver occhi acuti in ciò che è p iù p icc o lo e o rd in ario - ecco ciò che fa della terra per tanti una «prateria della sv en tu ra»107.
Nietzsche indica dei responsabili della situazione, che per l’uo mo è negativa e per la quale la sua attenzione è stornata dalle «cose piccole», «vicinissime». Responsabili sono «Preti e maestri, e la sublime ambizione di dominio degli idealisti di ogni specie, di quella grossolana e di quella fine»: essi insegnano all’uomo, sin dall’infanzia, che ciò che conta è tutt’ altro: è la salv e zza dell’ anim a, il servizio dello Stato, il p rogresso d ella scienza, o la considerazione e la ricchezza, co m e m ezzi p er rendere servigi a ll’intera um anità, m entre il bisogn o del singolo, le su e n ecessità grandi e p iccole entro le ventiquattro ore del giorno sareb bero q u alcosa di sp regevole o di indifferente108.
Dalla sua parte Nietzsche convoca, qui, Socrate, il quale «si difendeva con tutte le forze contro questa altezzosa trascuratezza dell’umano a favore dell’uomo, e con un detto di Omero soleva
106 Ibidem. 107 Ivi, 6. 108 Ibidem.
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richiamare al vero àmbito e all’essenza di tutte le cure e i pen sieri: “è ciò e solo ciò” diceva “che mi accade a casa di bene e di male”» 109.
5. L a relazione di alterità 5A. La relazione nutrizionale
Un primo aspetto del rapporto dell’uomo con la alterità riguar da la possibilità, per lui, di soddisfare, grazie alla alterità, il pro prio bisogno (differente da uomo a uomo) di «nutrimento». Nella varia molteplicità delle sue espressioni, la alterità rappresenta, per ciascun uomo, una fonte di nutrimento a diversi livelli. Al riguar do Nietzsche rappresenta il rapporto io-altro come un rapporto di «furto» continuo del primo nei confronti del secondo, situazione, questa, che rende problematico definire il concetto stesso di pro prietà, il concetto di ciò che è proprio di un qualsiasi individuo, di ciò che, in un qualsiasi individuo, è, quanto alla origine, dovu to solo a lui. Ad essere messa in discussione e, di fatto, respinta è, qui, ogni concezione atom istica d ell’ individuo. Scrive Nietzsche: «N o n ru b a re !». M a d o ve fin isce la p rop rietà? [ ...] noi continu ia m o a rubare tutto. R u b iam o e a sso rb ia m o dentro di noi tutte le c o se e tutti i so li, p e r n o i ste ss i p ortiam o avan ti tutto c iò ch e e siste, anzi, ciò ch e un tem po è accad uto. N e l fa r qu esto non p en siam o a g li altri. O gn i u om o in d iv id u ale co n sid era qu anto rie sce a m etter d a p arte p er s é 110.
È un riconoscimento esplicito della importanza, per chiun que, della alterità: occorre sottolineare, forse, il significato se non altro di fatto antiindividualistico (relazionale) di tale rico-
109 Ibidem. 110 N achgelassene Fragm ente Anfang 1880 b is Frühjahr 1881, 6[174],
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noscimento. L a logica, rappresentata nel brano appena citato, è quella del nutrimento individuale per mezzo della alterità: logi ca per la quale ci si rivolge alla alterità senza pensare alla alte rità, ci si nutre della alterità ma non in vista della alterità, bensì in vista solo di se stessi. Il non pensare agli altri, del quale Nietzsche parla con riferimento a una situazione in cui è pro prio degli altri che ci si nutre, sta forse a dire che, in questo caso, non si pensa agli altri come a fini, ma si pensa agli altri solo come a strumenti: strumenti, appunto, del proprio indivi duale nutrimento. Il non pensare agli altri, di cui Nietzsche parla, non può essere preso alla lettera perché, invece, è proprio agli altri, in un certo senso, che si sta pensando: si sta pen sando agli altri proprio perché ci si sta nutrendo degli altri (si sta pensando per lo meno a quegli altri di cui ci si sta nutren do). Il senso del non pensare agli altri dovrebbe essere, perciò, qui, che non si pensa agli altri come a propri fini (vi si pensa, invece, nel caso di quei particolari altri di cui ci si sta nutren do, come a propri mezzi, a mezzi del proprio nutrimento). Quello rappresentato nel brano è il movimento, con il quale si ‘cattura’ la alterità per crescere individualmente, per appagare proprie personali esigenze e bisogni di nutrimento. L a identità individuale si viene definendo proprio attraverso la relazione ‘nutrizionale’ , che l’individuo stabilisce con la alterità. Con queste premesse, che cosa è proprietà individuale? Dove fini sce la proprietà - ciò che è proprio - dell’uno e dove inizia la proprietà - ciò che è proprio - dell’altro? Diventa difficile e, anzi, impossibile rispondere a questa domanda nel momento in cui si riconosce che ciascun uomo ‘viene’ dall’altro, dagli altri, in generale dalla realtà ‘fuori’ di lui, nel momento in cui si rico nosce che ciascun uomo è quello che è e diventa quello che diventa in virtù del suo nutrirsi dell’apporto che proviene dagli altri uomini e dalla realtà in genere (presente e passata). Nietzsche riafferma, per questa via, il principio di relazione. Per quanto riguarda il principio della relazione in Nietzsche, ricordiamo quel che una volta, riguardo, in particolare, al pro blema della determinazione del valore della moralità - egli ha scritto: «sempre relazioni (immer Relationen): il valore assolu58
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to è un’assurdità ( Unsinn) » m. E ricordiamo anche la seguente annotazione: P o sto ch e il m io libro e siste sse an co ra so ltan to n elle teste d egli uom ini, in un certo se n so sareb b e fatto tutto di lo r o p en sieri e del lo r o e sse re - sa re b b e u n a « so m m a d i re la z io n i » (S u m m e von R e l a t i o n e n ) . E p erciò non è niente di p iù ? Sim ilitu d in e p er tutte le co se. Parim enti il n ostro «p ro ssim o » . Il fatto che un ogg etto si d is so lv a in u na so m m a di relazion i, non d im o stra n ulla con tro la su a realtà11112.
Ogni oggetto, dunque, è una «somma di relazioni». Filosofia del piccolo, del vicino, del lento, come si è visto, quella nietz scheana appare anche, ora, come una filosofia della relazione. Potremmo dire, in maniera più particolare, che nella idea che la identità di ciascuno si definisce grazie al nutrimento, da parte di ciascuno, della alterità è racchiuso un principio che, nel nostro secolo, John Dewey formulerà come principio di transa zione, ossia il principio per il quale la relazione, che tra gli uomini e tra gli enti in genere sussiste, è una relazione costitu tiva della identità degli uomini o degli enti tra i quali la rela zione sussiste: ogni uomo e in genere ogni ente non è definito in se stesso prima e fuori della relazione con altri uomini o altri enti, ma in se stesso si definisce attraverso il processo relazio nale113. Il riferimento, contenuto nella parte finale del brano poco fa riportato, all’ «uomo individuale» che, degli altri nutrendosi, agli altri non pensa allude a una dimensione dell’essere indivi duale caratterizzata dal rapporto dell’uomo con se stesso più che con gli altri o, più esattamente, dal rapporto con se stesso
111 Ivi, 4[27]. Sulla critica nietzscheana al concetto di assoluto, cfr. N. M. D e F eo, A nalitica e dialettica in Nietzsche, pp. 69-112. 112 Nachgelassene Fragm ente Friihjahr 1881 bis Sommer 1882, 13[11], 113J. D ewey, Krwwing and thè Known. Sulla prospettiva relazionale in filo sofia, cfr. G. S emerari, L a filo so fia come relazione; Id ., Epistem ologia delle relazioni.
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come fine e con gli altri come strumenti di tale fine. Se pen siam o alla sottolineatura di questa dimensione dell’ essere umano, ma se, d’altra parte, teniamo conto di affermazioni di segno diverso presenti in Nietzsche, affermazioni che alludono a una relazione con l’altro nella quale l’altro 'non appare come semplice strumento (è il caso, come vedremo, della relazione di amicizia o della relazione di amore), dovremmo dire che, in Nietzsche, vi è la indicazione di due dimensioni dell’essere individuale, una, la dimensione «nutrizionale», nella quale «non pensiamo agli altri», caratterizzata dal rapporto dell’individuo con se stesso (con la crescita o la semplice difesa di sé) come unico suo fine, l’altra caratterizzata dal rapporto dell’individuo con gli altri assunti essi stessi come (un) suo proprio fine. M a riprendiamo la questione della identità o «proprietà» individuale come frutto di una «som m a» di relazioni di alterità. Osserva, ancora, Nietzsche: L’onestà riguardo alla proprietà ci impone di dire che noi siamo il risultato di furti (wir ganz zusammengestohlen sind), e che in ciò la nostra sensibilità è troppo ottusa e grossolana. L’individuo ha un falso orgoglio quanto alla materia e ai colori: ma può dipingere un nuovo quadro, che entusiasmerà i conoscitori - in tal modo egli compensa le sue usurpazioni dei beni del mondo. Concepire la nostra esistenza in modo da fare qualcosa in cambio di ciò - non come «colpa» ma come anticipo e debito! Noi ci nutriamo di tutto, è giusto che resti tuiamo qualcosa per il nutrimento di tutti. (Cristo non ebbe finezza in questo sentimento, egli comunicò come cosa sua propria ciò che altri prima di lui avevano pensato)"4. Teniamo presente il richiamo alla onestà come invito al rico noscimento del fatto che noi dobbiamo il nostro essere a ciò che è altro da noi: onestà è, qui, riconoscere la presenza del l’altro in noi. Altrove, con riferimento sempre alla questione generale della relazione io-altro, Nietzsche ricorrerà (come più avanti vedremo) alla stessa parola, ‘onestà’ , per dire che l’one-
1,4 N achgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[166],
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stà vuole che noi riconosciamo gli altri nella loro effettiva realtà, cioè nella loro particolarità (la realtà degli altri è di esse re sempre e solo particolari altri)115. Nel brano riportato, dun que, si ribadisce l’idea antiatomistica che noi, ciascuno nella sua individualità, siamo il risultato di una serie continua di rela zioni di appropriazione, da parte nostra, di tutto ciò che è ‘fuori’ di noi (ma diventa qui problematico fare riferimento a concet ti come ‘dentro’ e ‘fuori’ ovvero a coppie del tipo ‘dentro-fuori’ , perché il ‘dentro’ si costruisce grazie al ‘fuori’ , il ‘dentro’ è già ‘fuori’). Nel brano inoltre - e con ciò si allude a un piano che non è più solo quello dell’essere o del fatto, ma quello del dover essere o dell’ideale - , si accenna al movimento opposto a quel lo della appropriazione, del furto, del nutrimento, cioè al movi mento della restituzione, anche anticipata, al «tutto» di quel che dal «tutto» si è ricevuto: la nostra esistenza andrebbe concepi ta anche proprio come questo movimento di restituzione. Questa restituzione è indicata come giustizia. L’interesse per la alterità, che si realizza «uscendo da noi», ovvero sentendo come l’ altro sente, vedendo la realtà secondo la prospettiva d ell’ altro (leggendo un libro, ad esem pio, «Dobbiamo sentire come l’autore - è ciò morale? - tutta la costa con i monti, il mare e gli olivi e con incantevoli pini soli tari, tutto dobbiamo scoprire»), tale interesse, ovvero «il piace re per le cose straniere (die Lust am Fremeteti)», è ciò per cui noi «possiamo crescere e diventare più ricchi!»115. L’interesse per la alterità, che, come si è detto, si attua nei termini di una uscita dell’uomo da se stesso e di una assunzione della pro spettiva dell’altro, è anche ciò per cui, rispetto agli altri, noi diventiamo «come i loro viaggiatori e scopritori», il che ci con sente di « arrecare loro bene e male, affinché essi mostrino la bellezza loro propria, sia questa solare o tempestosa»116. L ’ arricchimento di sé, ottenuto nutrendosi della alterità, nutrendosi di «tutto» ciò che è fuori di noi, è una meta che, in
115 Ivi, 6[450], 116 Ibidem.
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generale, Nietzsche indica come valida per l’uomo, fatti salvi ciò che è richiesto dalla necessità, da Nietzsche riconosciuta, della affermazione, da parte di ciascuno, della propria individualità in rapporto alle individualità altrui - i modi individuali, diversi tra loro, in cui nutrirsi della alterità. Secondo Nietzsche, occorre, come egli scrive in un frammento del 1881, «allargare il concet to di nutrimento (Den Begriff der Ernährung erweitern)»111. Il punto da tenere presente è, per Nietzsche, quello di «non impo stare male la propria vita, come fanno coloro che mirano alla mera conservazione di sé»117118. Nutrimento non è, non deve essere solo quello che ci consente di conservare la nostra vita, ma tutto ciò che ci consente di promuoverla, di arricchirla: N oi v o gliam o tendere verso g li altri, verso tutto ciò che è fuori di noi, com e verso il nostro nutrim ento119.
Nietzsche insiste sulla necessità, per l’uomo, di uscire da se stesso, da ciò che già è, sulla necessità che l’uomo si perda a se stesso: «occorre saper perderci per qualche tempo, se vogliamo imparare qualche cosa da ciò che non siamo noi»120. Insiste sulla necessità, per l’uomo, di uscire dal contesto già definito della pro pria esistenza. Questo contesto può essere qualcosa di molto par ticolare, molto ‘locale’, come il contesto delle «tradizioni popola ri». Egli scrive: N o n si d e v e dare p iù asc o lto a lle p erson e ch e lam en tano la fin e delle tradizioni p o p o lari (n ei co stu m i, n ella m orale, nei concetti g iu ridici, nei dialetti, n elle fo rm e di p o e sia , e c o sì v ia). P roprio a qu esto p rezzo ci si in n alza a l so p ran azio n ale, a g li sc o p i gen erali d e ll’ um anità, al sap ere rad ic ale , a lla co m pren sion e e al god im en to d i c iò che è p a ssa to e non è fa m ilia re ; in som m a, p rop rio c o sì si sm ette di e s se re b a rb a ri121.
117N achgelassene Fragm ente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11[2]. 118 Ibidem. 119 Ibidem. 120 D ie fröhliche W issenschaft, 305. 121 N achgelassene Fragm ente 1876 bis Winter 1877-1878, 23[63],
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La condizione per diventare ricchi nutrendosi di alterità è in ciò che, si è visto, il filosofo definisce «piacere per le cose stra niere». Se cerchiamo di immaginare come il mondo appare a colui, che è capace di tale piacere, dovremmo dire che il mondo gli appare come una molteplicità di enti individuali differenti, la conoscenza di ciascuno dei quali gli arreca, in linea di prin cipio, pur nella eventuale o inevitabile difficoltà, piccola o gran de, motivi di gioia. L’altro non è causa di timore o fastidio, o non è solo o tanto questa causa, quanto occasione per lo stabi lirsi di un rapporto comunque, alla fine, positivo per se stessi. Nel brano precedentemente riportato, si accenna, d’altra parte, a un altro motivo della relazione di alterità, cioè al motivo per il quale, aprendoci all’altro, diventando suoi «viaggiatori e sco pritori», noi possiamo aiutarlo a mostrare la sua bellezza pro pria: aprendoci all’ altro, conoscendolo, possiamo rendergli un servizio. Ma proprio sulla possibilità di una relazione nutrizionale con la alterità si constata una differenza fra gli uomini. Vi è chi è aperto alla alterità, chi la alterità ricerca e con la alterità riesce a stabilire rapporti estesi e intensi, e vi è chi - pur essendosi definito, inevitabilmente, sulla base di un rapporto, forse più subito che voluto, con la alterità, con il ‘fuori’ - si chiude (rela tivamente) al rapporto con la alterità, bloccandolo al livello rag giunto o variamente riducendolo sino, eventualmente, al mini mo possibile (fino a quel punto, al di qua del quale egli stesso non potrebbe più vivere, o vivere nel modo in cui egli in ogni caso vuol vivere o si accontenta di vivere): chiusura nei con fronti degli altri, della conoscenza in generale della realtà, ecc. Se un certo tipo di rapporto con la alterità porta all’ arricchi mento individuale, un altro tipo di rapporto con la alterità porta all’impoverimento individuale. Vi sono, così, esseri ricchi e esseri poveri, a seconda del grado di alterità che riescono ad assorbire. In un caso avremo un uomo ricco, nell’altro un uomo povero. Ma ricchezza e povertà non misurano solo la condi zione dell’uomo che, rispettivamente, ha accolto molto e ha accolto poco, in se stesso, della alterità, ma anche la attitudine dell’uomo ad accogliere, in se stesso, la alterità. Ricco è l’uo63
mo aperto nei confronti della alterità, povero è l’uomo chiuso nei confronti di essa. Chi è, in particolare, da questo secondo punto di vista, l’«uomo povero»? Scrive Nietzsche: un uomo che non prova alcun amore e interesse per gli altri è ai miei occhi uno che non vuole guadagnare, che si nega un piacere o manca di intelligenza, è privo di distrazioni, è un uomo povero122.
L’alterità, con la quale si ha relazione, può essere oggetto di una scelta precisa da parte dell’uomo: l’uomo, la cui identità è il risultato di una «somma di relazioni», può scegliere colui o colo ro o ciò con cui avere relazione e, quindi, decidere di orientare in un senso preciso, attraverso la relazione o le relazioni così stabi lite, il proprio essere individuale. Nietzsche descrive questa situa zione nei termini del passaggio da un tipo di relazione legato alla casualità a un tipo di relazione legato alla propria libertà e possibilità di scelta: la relazione, in un caso, è qualcosa in cui ci si trova coinvolti, nell’altro, qualcosa da consapevolmente costruire. Egli scrive: Nello stadio della superiore liberazione dello spirito si deve sostitui re tutto quanto nella vita è legato alla casualità naturale con cose neces sarie e scelte da noi stessi. Chi si è trovato ad avere amici non degni di lui deve distaccarsene; in certi casi bisogna scegliersi anche un nuovo padre, nuovi figli123.
Ma, nella valutazione nietzscheana, di tale scelta non sem pre e non tutti gli uomini sono capaci: si ripropone, anche su questo piano, la questione di una differenza fra gli uomini. È il problema della capacità dell’uomo di prendere congedo da ciò che la casualità naturale, o storica, ha per lui determinato e di riorientare la propria esistenza sulla base di proprie decisioni.
122 N achgelassene Fragm ente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 12[182], 123 N achgelassene Fragm ente 1876 bis Winter 1877-1878, 23[69] (tr. it.,
23[46]).
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Non tutti gli uomini sono «spiriti liberi», vi sono anche uomi ni che sono «spiriti vincolati»: Lo spirito vincolato accetta la sua posizione non per ragionamento, bensì per abitudine; è per esempio cristiano, non per aver esaminato le varie religioni e per aver scelto fra esse; è inglese, non per essersi deci so per l ’ Inghilterra; egli sem plicem ente si è trovato davanti il Cristianesimo e la qualità di inglese, e ha accettato le due cose senza ragionarci sopra, come uno che, nato in un paese vinicolo, diventa bevi tore di vino124.
Lo spirito vincolato è un uomo di fede, perché «L’abitudine a princìpi intellettuali non ragionati si chiama fede»125. Lo spirito libero è, invece, l’uomo che ragiona e, ragionando, effettua deter minate scelte che possono portarlo ad allontanarsi da condizioni che la natura o la storia ha determinato per lui. Nella relazione di alterità, in cui la alterità è nutrimento del l’io, la alterità appare come strumento dell’io. È l’ io che si nutre della alterità e grazie alla alterità - non necessariamente, in ogni caso, a spese della alterità. Nella relazione nutrizionale di alte rità, la alterità non appare come un fíne: come si è visto, in que sta relazione, l’io, che degli altri si nutre, non pensa agli altri come a un fine (possiamo forse dire: non pensa, come a un fine, né a quelli stessi di cui si nutre né ad altri), o, almeno, questo pensiero non è immanente a una relazione di questo tipo. Si può notare, tuttavia, che già il guardare alla alterità come fonte del proprio nutrimento è un riconoscimento di fatto della impor tanza, varia a seconda della intensità del bisogno di nutrimen to, della alterità di cui ci si nutre. Riprendiamo un frammento al quale ci siamo già riferiti: «Per nutrirci ci è necessario, più di ogni altro cibo, il piacere per le cose straniere. Il gusto del l’uomo è necessario per il nostro nutrimento (N a h r u n g ) » 126. Ma il piacere per le cose straniere - un piacere, questo, che 124 Menschliches, Allzumenschliches, I, 226. 125 Ibidem. 126 N achgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[450].
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dovrebbe essere inconciliabile con qualsiasi volontà di dominio o distruzione nei confronti della alterità così come con qualsia si atteggiamento di risentimento e vendetta verso di essa - il piacere per le cose straniere non dovrebbe portare chi tale pia cere prova al rispetto, alla tutela, alla cura delle cose per cui egli prova piacere? Il piacere per le cose straniere, sia pure per scopi autonutrizionali, non s ’incontra, in qualche modo, in Nietzsche, con la definizione stessa dell’ amore? L’amore, infat ti, come si è visto, non è che gioia e comprensione di ciò che è diverso da noi. Si può, d’altra parte, ricordare che, illustran do gli effetti positivi per l’io (arricchimento individuale) della relazione nutrizionale, Nietzsche non manca di notare che, nutrendoci degli altri e diventando, in vista di ciò, loro «viag giatori e scopritori», creiamo le condizioni perché, da parte nostra, si determini anche per gli altri qualcosa di positivo: la relazione nutrizionale di alterità può avere effetti positivi non solo sull’io, ma anche sull’altro di cui ci si nutre. Si persegua, attraverso la relazione di alterità, l’ arricchimento del proprio ego (logica nutrizionale) o, al contrario, un fine che riguarda la alterità (o anche la alterità, oltre se stessi), occorre che la alterità sia conosciuta in se stessa, nella sua effettiva realtà, da chi ad essa si rapporta. Occorre, perciò, considerare prima di tutto l’ altro uomo come una cosa, come un o g g e t to d e lla con oscen za, al quale si deve rendere g iu stiz ia : V on està proibi sce di misconoscerlo, anzi di trattarlo partendo da un qualsiasi presup posto inventato o superficiale. F a r d e l bene è la stessa cosa che portare alla luce una pianta per vederla meglio - anche f a r d e l m ale può esse re un mezzo necessario perché la natura si disveli. Non trattare tutti come persone, ma come persone fatte in qu esto o qu el modo (a ls s o und s o besch affenen M enschen)-, primo criterio! Come qualcosa che deve esse re co n osciu to, prima di poter essere trattato in questo o quel modo. Una morale con prescrizioni u n iv ersali fa torto a ogn i individuo127.
127 N achgelassene Fragm ente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11 [63].
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Se, come qui accade, Nietzsche sostiene la necessità di cono scere gli altri con i quali si ha a che farei per sapere come trat tarli senza far loro torto, e questa conoscenza egli indica come una questione di onestà, è anche vero che, altrove, egli indica la conoscenza degli altri come qualcosa di impossibile da rea lizzare. In un frammento si legge: «L ’altruismo non riguarda altri individui, bensì essere immaginari eguali. Aiutare l’indivi duo è im p o ssib ile , perché non lo si può co n o sce re . L’inconoscibile - questo è il prossimo»128. In maniera analoga Nietzsche si esprime in quest’ altro frammento: «L ’amore del prossimo è amore per la nostra rappresentazione del prossimo. Noi possiamo amare soltanto noi stessi, perché ci conosciamo. La morale dell’altruismo è impossibile»129. In un altro luogo Nietzsche ribadisce la impossibilità di aiutare l’ individuo in quanto individuo e afferma, invece, la possibilità di aiutarlo solo in quanto appartenente a una categoria determinata e gene rale di individui: «Possiamo aiutare il prossimo soltanto classi ficandolo in una specie (malati, carcerati, mendicanti, artisti, bambini), e così abbassandolo : l’ individuo non può essere aiu tato»130. Ma se l’altro è inconoscibile nella sua individualità, cioè nella sua realtà, come sono possibili, quale senso possono avere, in particolare, relazioni, pure affermate da Nietzsche, come quelle di amore o di amicizia, ossia relazioni nelle quali è in gioco il bene dell’altro, un bene che deve essere pur cono sciuto per poter essere perseguito? Ma, d’altra parte, la stessa relazione strumentale di alterità come può aver luogo? Per rap portarsi all’altro sia pure come strumento, occorre pure sapere chi l’ altro è, quali sono le sue caratteristiche. Nietzsche qui introduce un assoluto, quell’assoluto cui, pure, altrove, ha nega to titoli di legittimità (l’ assoluto come patologia): l’assoluto, in questo caso, non di qualcosa di positivo (la verità assoluta, per esempio), ma di qualcosa di negativo: la assoluta inconoscibi-
128 Nachgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 2[52], 129 Ivi, 2[6], 130 Ivi, 3[14].
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lità, per ciascuno, dell’altro. Perché qui Nietzsche non ammet te la possibilità di una conoscenza relativa, parziale? Quanto alla conoscenza di se stessi, di cui in uno dei brani citati, come in altri luoghi, si afferma la possibilità, va, viceversa, ricorda to che, altrove, Nietzsche ha sottolineato come l’uomo conosca se stesso solo fino a un certo punto: vi sono elementi, e sono tanti e forse i più importanti dell’essere dell’uomo, che sfug gono alla sua coscienza: «tutto ciò che entra nella coscienza costituisce l’ultimo anello di una catena, una chiusura [...]. I veri avvenimenti concatenati si svolgono al di sotto della nostra coscienza: le serie e successione di sentimenti, pensieri, ecce tera, che si producono, sono solo sintomi del vero accadere!»131. L a conoscenza di sé è qualcosa di relativo e parziale: si è già visto come Nietzsche sottolinei l’assoluta incompletezza, per l’uomo, del «quadro di tutti quanti gli istinti che costituiscono la sua natura»132. I motivi, che determinano le nostre decisioni e le nostre azioni, sono motivi che «in parte non conosciamo affatto, in parte conosciamo assai male e che non possiamo mai in precedenza calcolare nel loro rapporto»133. E se, come è «pro babile», c’ è un «conflitto» reciproco fra tali motivi, si deve dire che si tratta di «qualcosa d ’assolutamente invisibile e inco sciente per noi»: «è bensì vero», Nietzsche osserva, «che io conosco quel che in conclusione faccio, ma quale sia il motivo che con tutto ciò è propriamente riuscito vincitore, non lo vengo a sapere. Ci siamo però ben abituati a non valutare questi pro cessi incoscienti e a pensare la preparazione di un atto solo in quanto è cosciente»134. Per Nietzsche, oltre un certo limite, lo stesso occuparsi degli altri, lo stesso prendersi cura degli altri rappresenta un vero e pro prio atto di prepotenza o di prevaricazione nei loro confronti. Oltre un certo limite, il prendersi cura degli altri mette in discussione
131 N achgelassene Fragm ente H erbst 1885 bis H erbst 1887, 1[61], 132 M orgenröthe, 119. 133 Ivi, 129. 134 Ibidem.
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la loro libertà (a parte il fatto che rimane molto difficile occuparsi dell’altro: si tratta, per Nietzsche, come vedremo più avanti, di interventi che rimangono alla superficie dei problemi dell’altro). Nietzsche ha sottolineato esplicitamente la necessità che, nella cura degli altri, si sappia osservare una misura, non si superi un certo limite, superando il quale si creerebbe, invece, una situa zione difficilmente sopportabile da parte di colui che della cura è l'atto oggetto e che vedrebbe la propria sfera vitale invasa da chi di lui si prende cura: Se si ammettesse che l’istinto dell’affetto e della premura per gli altri (1’«affezione simpatetica») diventasse due volte più forte di quel che già è, esso non potrebbe più essere sopportato su questa terra. Ci si limiti a considerare le pazzie cui ognuno va incontro, ogni giorno e ogni ora, per l’affetto e la premura che porta a se stesso, e come egli in tutto questo sia insopportabile a vedersi: che succederebbe se noi diventassimo per altri l’oggetto di queste follie e di questa fastidiosa invadenza? Non ci si darebbe subito alla fuga, appena si avvicinasse a noi un «prossimo»? E non copriremmo l’ affezione simpatetica degli stessi epiteti ingiuriosi che abbiamo oggi in serbo per l’egoismo?135
Oltretutto, si potrebbe dire che, superato un certo limite, la cura dell’altro finirebbe per rendere l’uomo, oggetto della cura, dipen dente, per quanto riguarda il soddisfacimento dei propri bisogni, da coloro che di lui si prendono cura, cosa che, come si è visto, è, per Nietzsche, assolutamente da evitare: è vero, infatti, che, per Nietzsche, ci si nutre e ci si deve nutrire di alterità, - in questo senso si dipende sempre da altri o da altro che da se stessi -, ma è anche vero che, per Nietzsche, è lo stesso soggetto, che avver te il bisogno di un certo nutrimento, che, per salvaguardare la pro pria indipendenza, deve cercare di soddisfare il più possibile da sé i propri bisogni per i quali - in ciò non sbagliando - si rivol ge alla alterità di essa nutrendosi. L’altro è necessario perché l’io sia: ciò tanto se l’io mira a con servare semplicemente il proprio essere quanto se esso mira, inve-
135 Ivi, 143.
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ce, ad arricchirlo. Nietzsche sottolinea la funzione di condiziona mento e di stimolo, positivo o al contrario negativo, che su quel che avviene in noi esercita lo sguardo degli altri: Quel che si può osservare in noi cresce o appassisce sotto l’influen za della luce che si irradia su di noi dagli altri uomini: è quasi come se gli occhi degli uomini fossero per noi indispensabili sorgenti di calore e di luce. Come si può osservare, ed è stato osservato, la crescita si rego la sugli altri, per esempio il nostro atteggiamento, il nostro aspetto. E poi ciò che noi notiamo, ma altri non possono sapere! E infine ciò che anche noi non notiamo!136
Quel che in noi avviene, nella direzione della crescita o del l’appassimento, è condizionato dagli altri, dalle attese loro nei nostri confronti o da quel che per gli altri noi vogliamo realiz zare. Quanto più è solo, isolato rispetto allo «sguardo» degli altri, sottratto a tale sguardo, tanto più l’uomo appassisce fino al limite della consunzione. Detto questo, tuttavia, si deve anche dire che, per Nietzsche, come si è avuto modo di vedere con il riferimento al pericolo contenuto nell’essere fatti oggetto, oltre un certo limite, di cure da parte dell’ altro, l’ altro rappresenta pure un potenziale pericolo, un potenziale limite alla propria libertà e alla propria indipendenza. A parte la situazione, che si è appena richiamata, un rischio di finire «alla mercé degli altri» si determina allorquando si diventa «fam osi»: «diventare famo si ci trasforma e ci mette alla mercé degli altri e delle loro pre tese verso di noi. Bisogna gettare in mare la propria fam a»137. Analogamente, rischi per la propria libertà e indipendenza vi sono nell’ «ascoltare ogni giorno quel che si dice di noi, o per fino scervellarsi su quel che di noi si pensa - son cose che distruggono anche l’uomo più forte. È per questo, anzi, che gli altri ci lasciano vivere, per affermare ogni giorno la loro ragio ne su di noi! Non ci sopporterebbero se avessimo forse, o anche volessimo avere, ragione contro di loro!», di qui la seguente 136 N achgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[424], 137 Ivi, 7[2].
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esortazione:«non porgiamo l’orecchio quando si parla di noi, quando siamo fatti segno alla lode, al biasimo, al desiderio, alla speranza; non pensiamoci neppure»138139.
5.2. L a relazione di cu ra
Per quanto riguarda la relazione di alterità, dalle pagine nietz scheane emerge, tuttavia, non solo la indicazione di una relazio ne «nutrizionale» con la alterità - relazione non necessariamente distruttiva della alterità, ma nella quale, in ogni caso, la alterità funge, più che altro, come fonte e mezzo di nutrimento dell’io - , emerge anche la indicazione di un atteggiamento di attenzione, di ascolto, di cura nei confronti delle ragioni e dell’essere altrui, atteggiamento finalizzato alla realizzazione dell’essere altrui e del suo bene: emerge la indicazione di un atteggiamento - fatto di delicatezze, premure e pudori nei confronti dell’essere e del bene dell’altro - per il quale l’altro e il suo bene appaiono come un fine della attività dell’io. Nello stesso frammento, nel quale Nietzsche ricorre alla immagine del predone e del furto per carat terizzare la relazione nutrizionale di alterità, egli presenta anche un’altra immagine per caratterizzare un’altra relazione di alterità, la relazione di cura: l’immagine del giardiniere e del giardino, una immagine che, se non soppianta, almeno affianca quella del pre done e del furto. Perché avere sempre soltanto l’egoismo del predone o del ladro? Perché non quello del giardiniere? Gioia di coltivare gli altri come un giardino (Freude an der Pflege derAndem , wie der eines G artens)\m
Vogliamo ora soffermarci a considerare alcuni degli aspetti con cui questo altro tipo di atteggiamento si presenta in Nietzsche. Ma, prima di fare ciò, occorre ricordare che Nietzsche ha individuato e denunciato un modo solo apparente di occuparsi dell’altro, un 138 Morgenröthe, 522. 139 Nachgelassene Fragm ente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11 [2].
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altruismo che è, in realtà, solo lo strumento di cui l’uomo, o un certo tipo di uomo, ha bisogno nella propria esistenza e che, p er questo , viene praticato e indicato come valore morale da perseguire e difendere140. L’altruismo, o questo altruismo, è l’at teggiamento che viene esaltato da parte di coloro che dell’aiu to degli altri mostrano di avere particolare bisogno: tali sono, poi, soprattutto i deboli di contro ai forti, che, rispetto a loro, si caratterizzano per una maggiore indipendenza e autonomia. Occorre, d ’ altra parte, ricordare anche un’ altra critica che Nietzsche rivolge all’altruismo, che è da respingere nella misu ra in cui rappresenta una fuga dell’uomo da se stesso. Il pensa re solo agli altri, l’occuparsi solo di loro, il prendersi cura solo degli altri: ciò dipende, secondo Nietzsche, da una percezione e da un sentimento negativi che si ha verso se stessi. Come nella relazione nutrizionale di alterità alla alterità ci si rapporta per una finalità che riguarda non l’alterità ma se stessi, così nell’ altrui smo (nell’atteggiamento per cui si dà valore e si pratica solo la cura dell’altro) è, in realtà, una finalità che riguarda non l’altro ma se stessi quella che si persegue. Non ci si sopporta, non ci si piace - il pensare agli altri, il prendersi cura degli altri è un modo per non pensare a sé perché pensare a sé è doloroso, non dà sod disfazione ma, al contrario, fa soffrire. Nell’altruismo, con l’al truismo, ci si distrae dal pensiero doloroso di sé. L’altruismo è una forma della distrazione, della rimozione, della dimenticanza. L ’idea di Nietzsche è che l’uomo, che vuole e fa il bene dell’al tro, può, sì, essere definito «buono», ma alla condizione che il volere e il fare il bene dell’ altro non rappresenti, per l’ uomo, il modo per sfuggire a se stesso in quanto egli «odia» se stesso: in questo caso l’uomo non trova scampo da se stesso se non negli altri: è affar loro trovare in questo il proprio tornaconto, a parte ciò che apparentemente egli sente 140 Cfr., per esempio, N achgelassene Fragm ente Frühjahr bis H erbst 1884, 25[99]: Nietzsche sottolinea il significato della tolleranza, dell’adattamento, della bontà come strumenti ai quali, nel rapporto con l ’altro, si ricorre «attendendo silenziosamente di essere ripagati».
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per essi! Ma appunto questo: fuggire l’ego e odiarlo e vivere nell’altro, per l’altro - lo si è fino ad oggi, con tanta irriflessione quanta sicurez za, chiamato «altruistico» e conseguentemente «buono»141.
Osserva, ancora, Nietzsche: se voi siete per voi stessi un oggetto così brutto o noioso, pensate pure agli altri! L’altruismo in tal caso è molto piacevole. - Dedizione, libe razione dall’«io». Sembra che gli uomini abbiano poca gioia di sé, se distolgono in tal modo lo sguardo da se stessi verso l’esterno, e stima no che ciò sia la cosa migliore142.
Da qui il determinarsi di una alternativa, che Nietzsche dice di non saper risolvere. Ammesso che il problema sia quello di rendersi utili agli altri, ci si può chiedere «se si è più utili, aiu tando gli altri (d’altra parte sempre molto superficialmente o con prepotenza tirannica) oppure facendo di se stessi qualcosa che gli altri vedano volentieri, un bel giardino tranquillo e con cluso in sé - io non so »143. Nietzsche ha, del resto, mostrato la intrinseca e duplice contraddittorietà di una posizione assolutamente altruistica: in primo luogo, se l’uomo volesse «tutto per gli altri, niente per sé, ciò sarebbe impossibile se non altro per ché egli dovrebbe fare moltissimo per sé, per poter fare in gene re qualcosa per amore degli altri»; in secondo luogo, una posi zione assolutamente altruistica «presuppone che l’ altro sia tanto egoista da accettare continuamente quei sacrifici e quel vivere per lui: sicché gli uomini dell’amore e dell’ abnegazione hanno interesse al persistere degli egoisti senza amore e incapaci di sacrificio, e la somma moralità dovrebbe addirittura, per poter sussistere, conseguire a forza 1’esistenza dell’immoralità (con cui però sopprimerebbe se stessa)»144. Ma vediamo come si definisce, in Nietzsche, l’atteggiamento
141 Morgenröthe, 516. 142 N achgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 7[96]. 143 Ibidem. 144 Menschliches, Allzumenschliches, I, 133.
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di cura che l’uomo può sviluppare nei confronti dell’altro uomo. A tal fine possiamo partire da una pagina di Aurora, in cui Nietzsche così esclama: Ah! Quanto mi ripugna imporre ad altri i miei propri pensieri! Come mi rallegro in cuor mio di ogni stato d’animo e di ogni intima trasfor mazione con cui i pensieri di altri giungono ad affermarsi contro i miei propri!145
È una dichiarazione di apertura e di accoglimento nei confronti dei pensieri di altri, pensieri dei quali si è disposti a riconoscere la eventuale superiorità rispetto ai propri. Nietzsche continua: M a di tanto in tanto c’è una festa ancor più alta, allorquando per una volta è perm esso fa r dono della propria casa e del proprio patrimonio spirituale, come fa il confessore, che se ne sta in un angolo, attendendo avidamente che venga un indigente a narrargli le angustie dei suoi pen sieri, per colmargli ancora una volta le mani e il cuore e alleggerirgli l’anima tormentata146.
È una dichiarazione di apertura e di accoglimento, questa volta, non semplicemente di pensieri di altri, ma dell’altrui tormento e inquietudine esistenziale, dell’altrui dolore, dai quali tormento, inquietudine, dolore ci si assume il compito di sollevare chi ne è afflitto. Se prima si accoglieva soltanto (i pensieri altrui), ora si è disposti ad aiutare gli altri, a donare loro. Per colui, che accoglie gli «indigenti dello spirito», vale quel che vale per il «confesso re» al quale egli è qui paragonato, cioè che Non soltanto è lontano dal desiderare una lode, ma vorrebbe anche sottrarsi alla gratitudine, poiché essa è molesta e priva di rispetto per la solitudine e il silenzio. Vivere vorrebbe invece nell’oscurità, e facil mente esposto alle beffe, troppo in basso per destare invidia o inimi cizia, senza nessuna febbre in testa, con un pugno di sapere per prov vista e una borsa ricolma di esperienze, essere, per così dire, uno spi-
145 M orgenróthe, 449. 146 Ibidem.
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rituale medico dei poveri e aiutare questo e quello, tra quanti hanno la testa confusa da opinioni, senza che costui possa individuare chi lo ha aiutato. Non volere, dinanzi a lui, aver ragione e celebrare vittoria, ma parlargli in modo che, dopo un piccolo impercettibile avvertimento o una contraddizione, egli dica a se stesso il giusto, e fiero di ciò se ne vada. Essere come un piccolo ostello che non respinge nessuno che abbia biso gno, anche se dopo viene dimenticato oppure schernito. Non proporsi nulla, né un miglior nutrimento, né un’aria più sottile, né lo spirito più gioioso - ma rinunciare, restituire, partecipare, divenire più povero. Poter stare in basso per essere alla portata di molti e non umiliante per nes suno (...) Sempre con una sola maniera di amare e con una sola di egoi smo e di autocompiacimento! Essere in possesso di un’autorità e al tempo stesso tenersi nascosto e nella rinuncia [...] Questo sarebbe vive re! Un motivo per lungamente vivere!147
Ritorna, nell’ aforisma di Aurora, ma per essere ora rifiuta to, il motivo del nutrimento (il fine qui non è procurarsi un «miglior nutrimento»). Ritorna, anche, il motivo della restitu zione (abbiamo visto prima il riferimento di Nietzsche alla necessità della restituzione, da parte di ciascuno, al «tutto» di quel che dal «tutto» ha avuto e ha, e la indicazione di tale resti tuzione come giustizia). Compare, inoltre, qui, il motivo del dono, e un altro motivo ancora: il rimanere nascosto di colui che dona. È il dono che realizza la «festa ancora più alta» dello spirito rispetto a quella rappresentata dalla propria disponibilità ad accogliere i pensieri altrui. Il dono allude a una relazione con l’altro che non è quella dello scambio o, appunto, della «restituzione»: qui si dona - si è visto - senza «proporsi nulla, né un miglior nutrimento, né un’aria più sottile, né lo spirito più gioioso»148. Si dona senza chiedere niente in cambio, anche se, per Nietzsche, ciò non esclude 1’ «egoism o» e 1’ «autocom piacimento» di colui che dona e per il fatto di donare. È il pro blema, che altrove Nietzsche ha posto, della impossibilità per l’io di prescindere da se stesso: come a volte ha osservato a 147 Ibidem. 148 Nietzsche definisce, in particolare, l’amicizia in relazione alla volontà di donare: l’amico è colui che dona. Cfr., in questo volume, il capitolo quinto sul l’amicizia.
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proposito del sacrificio, anche chi si sacrifica, e apparentemen te non pensa al proprio io ma pensa solo all’altro da sé per il quale si sacrifica, lo fa pur sempre per qualcosa, per qualche ragione in cui il suo io crede149. Da questo punto di vista, chi si sacrifica riceve, ottiene qualcosa. Ma la figura, che Nietzsche indica, non è semplicemente quella di colui che dona, ma quel la di colui che dona rimanendo nascosto in quanto colui che dona. Altrove Nietzsche riprende questa figura e parla di colui che dona «senza rilevare il proprio nome e il proprio beneficio»150. È in questo il «pudore di colui che dona», perché «è così ingenero so far sempre la parte di colui che dà e che dona, e mostrare in tutto questo il proprio viso»151. C ’è, in Aurora, un aforisma inti tolato «I nascosti», nel quale Nietzsche parla di coloro che «non vogliono essere riconosciuti e tornano sempre a cancellare le loro orme nella sabbia, che diventano anzi gli ingannatori di se stessi e degli altri, per restar nascosti»152. A proposito di nascondimento, vi sono cose che, per il bene dell’altro, si deve avere, a volte, la delicatezza di tenere all’altro nascoste. È il caso di quelle verità che il «pensatore profondo» scopre e che, per motivi di «cuore» e di «simpatia» nei confron ti dell’altro, egli decide di non rivelargli, perché l’altro non avreb be la forza di sopportarle153. Per Nietzsche, ancora, è «spesso un non trascurabile segno di umanità non voler giudicare un altro e rifiutarsi di pensare qual cosa sul suo conto»154. M a si potrebbe ricordare, poi, quel che Nietzsche osserva sulla relazione di amicizia. Amicizia vuole che, anche nella opposizione al proprio amico, si rimanga a lui vicini: «Col tuo cuore deve essergli massimamente vicino, proprio quando ti 149 Jen seits von Gut und Böse, 220. 150 Morgenröthe, 464 151 Ibidem. 152 Ivi, 527. 153 Jen seits von Gut und Böse, 290. 154 Morgenröthe, 528.
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opponi a lui»155, così come vuole che «L a compassione verso l’amico si celi sotto un guscio duro, che rompa un dente al tuo morso»156157: occorre avere la forza di nascondere all’ amico la nostra sofferenza per lui, perché ciò potrebbe per lui risultare dannoso. Amicizia vuole anche che, per il bene dell’amico, che sentiamo a volte appartenere «più ad un altro che a noi» e vediamo tormentarsi nella incapacità di una scelta, noi interve niamo in modo da «alleggerirgli tutto questo»: dovremo, «con un'offesa, allontanarlo da noi»151. Amicizia vuole, ancora, più in generale, che lasciamo andare l’ amico per la sua strada, anche se è una strada diversa dalla nostra, al di là di qualsiasi nostro egoismo proprietario nei suoi confronti158. È sempre, del resto, per la preoccupazione per l’ altro, per il bene dell’altro, che, «quando non si sente l’impulso a ricam biare l’amore», occorre «impedire l’ amore dell’ altro e, se fosse necessario, prenderlo in giro, anzi abbassarci davanti a lui»159. È ancora la stessa preoccupazione che spiega il comporta mento di Nietzsche quale appare da questo frammento autobiografico: «Per mezz’ora ho parlato in modo vanitoso, e alla fine ero un po’ vergognoso e stanco - ma avevo voluto abbas sarmi, per dare a qualcuno modo di pensa meno miserabilmen te di sé, esclamando: ah questo mondo miserabile! - infatti egli in quel momento pensava così di me; non doversene più ver gognare davanti a me lo aveva visibilmente sollevato»160. È nella logica di una relazione di alterità in cui l’altro non è, semplicemente, una fonte e un mezzo, sia pure molto apprezzati dall’io, del nutrimento dell’io, che ci si spiega l’appello alla fra ternità con gli «spiriti grandi» contenuto nel seguente breve fram-
155 Also sprach Zarathustra , I, «Vom Freunde», pp. 67-8 (tr. it., p. 64). 156 Ibidem, p. 68 (tr. it., p. 65). 157 Morgenröthe, 489. 158 M enschliches, A llzum enschliches, II, «Vermischte Meinungen und Sprüche», 231. 159 Nachgelassene Fragm ente Anfang 1879 bis Frühjahr 1881 , 6[191], 160 Ivi, 6[351].
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mento: «NB. Accogliere il sentimento di fraternità con gli spiriti grandi e respingere la rivalità! Non isolarsi!»161. I riferimenti al testo nietzscheano si potrebbero, al riguardo, moltiplicare. Quelli già fatti (e quelli che si potrebbero fare) testi moniano (o testimonierebbero) una cosa fondamentale: che in Nietzsche vi è la indicazione e la proposizione di una relazione di alterità nella quale la alterità non è o non è solo strumento di nutrimento dell’io, ma anche fine per l’io: una relazione di alte rità che viene indicata e proposta proprio in quanto, attraverso di essa, l’io persegue un fine che coincide con lo stesso bene del l’altro.
161 Ivi, 6[452],
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Capitolo secondo Il viaggio e la dimora Momenti di una dialettica dell’esistenza
1. F r a identità e alterità, assoluto e relativo Il modo nietzscheano di concepire resistenza, ossia il conce pirla come una successione di esperienze, anzi di esperimenti esi stenziali diversi1, configura 1’esistenza stessa - per esprimerci subito con le metafore che danno il titolo alle presenti pagine come una particolare dialettica di viaggio e dimora. Sono metafo re, queste, alle quali Nietzsche stesso si richiama, sebbene succe da di vederle riferite, in lui, a volte o addirittura tendenzialmen te, non a due momenti distinti di una stessa dialettica esistenzia le, ma a due differenti concezioni della esistenza: egli tende a rap presentare la propria concezione dell’esistenza attraverso la sola metafora del viaggio, mentre con la metafora della dimora, alme no qualche volta, rappresenta la concezione dell’esistenza che egli critica e respinge. In realtà, sulla base, da un lato, di quel che Nietzsche osserva illustrando la propria idea di esistenza, dall’al tro, della individuazione della presenza di fatto o anche esplicita, nella sua riflessione, del concetto di dimora in un significato anche positivo del termine, si può sostenere (come cercheremo di mostrare) che l’idea nietzscheana di esistenza propone l’esistenza 1 Menschliches, Allzumenschliches, «Vorrede», 4. Sulla vita come succes sione di esperimenti in Nietzsche, cfr. F. S emerari, Il gioco dei limiti. L ’idea di esistenza in Nietzsche, pp. 55-79.
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Capitolo secondo Il viaggio e la dim ora Momenti di una dialettica d ell’esistenza
1. F ra identità e alterità, asso lu to e relativo Il modo nietzscheano di concepire resistenza, ossia il conce pirla come una successione di esperienze, anzi di esperimenti esi stenziali diversi1, configura l’esistenza stessa - per esprimerci subito con le metafore che danno il titolo alle presenti pagine come una particolare dialettica di viaggio e dimora. Sono metafo re, queste, alle quali Nietzsche stesso si richiama, sebbene succe da di vederle riferite, in lui, a volte o addirittura tendenzialmen te, non a due momenti distinti di una stessa dialettica esistenzia le, ma a due differenti concezioni della esistenza: egli tende a rap presentare la propria concezione dell’esistenza attraverso la sola metafora del viaggio, mentre con la metafora della dimora, alme no qualche volta, rappresenta la concezione dell’esistenza che egli critica e respinge. In realtà, sulla base, da un lato, di quel che Nietzsche osserva illustrando la propria idea di esistenza, dall’al tro, della individuazione della presenza di fatto o anche esplicita, nella sua riflessione, del concetto di dimora in un significato anche positivo del termine, si può sostenere (come cercheremo di mostrare) che l’idea nietzscheana di esistenza propone resistenza 1 M enschliches, Allzumenschliches, «Vorrede», 4. Sulla vita come succes sione di esperimenti in Nietzsche, cfr. F. S emerari, Il gioco dei limiti. L ’idea di esistenza in Nietzsche, pp. 55-79.
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stessa come dialettica di viaggio e dimora. Nelle pagine che seguono, d’altra parte, non faremo riferimento solo ai luoghi in cui Nietzsche esplicitamente richiama le metafore in questione. Il problema non è, qui, la ricostruzione filologicamente puntuale dei luoghi in cui Nietzsche parla di viaggio e dimora in senso metafo rico, ma la verifica della possibilità di rappresentare la dialettica nietzscheana della esistenza come dialettica di viaggio e dimora e il senso di tale rappresentazione. Quando qui - con riferimento a Nietzsche - diciamo viaggio, intendiamo il movimento che porta il soggetto umano dalla iden tità alla alterità: da ciò, sempre lo stesso, presso cui, per un certo tempo, egli è stato, verso qualcosa di diverso - da ciò, sempre lo stesso, che per un certo tempo egli ha conosciuto e vissuto verso ciò che non ha ancora conosciuto e vissuto. Ciò presso cui il stato e ciò verso cui il soggetto si muove sono rappresentati da deter minati, anche se differenti, pensieri, giudizi, sentimenti, rapporti personali, ecc. Quando - sempre con riferimento a Nietzsche diciamo dimora o, più esattamente, dimorare, intendiamo, invece, appunto lo stare, per qualche tempo, presso qualcosa - presso la stessa o identica cosa: lo stare, per qualche tempo, presso gli stes si pensieri, giudizi, sentimenti, relazioni personali, ecc. Secondo l’etimologia del termine, dimorare viene dal latino demorari, che vuol dire indugiare, trattenersi in maniera insistita presso un deter minato luogo. Una volta raggiunta - e quindi vissuta, esperita - , la alterità diventa, a sua volta, identità: diventa ciò, sempre lo stes so, presso cui, per un certo tempo, il soggetto si trattiene. In Nietzsche, si è detto, a definire 1’esistenza, la sua specifica dialettica, c ’è il concetto di viaggio, ma c’è pure il concetto di dimora. Il concetto di dimora, tuttavia, si spiega, in Nietzsche, esso stesso, con riferimento al concetto di viaggio. E ciò non solo nel senso che il dimorare si colloca tra un viaggio e l’altro, non solo dunque nel senso che il dimorare presso un determinato luogo non è uno star-lì-da sempre o uno star-lì-per sempre, bensì un fer marsi in un luogo determinato provenendo da un altro luogo e un fermarsi per ripartire verso un altro luogo ancora, ma anche nel senso che lo stesso dimorare è un viaggio: dimorare è, in Nietzsche, viaggiare all’interno dell’identico (all’interno di ciò, 80
sempre lo stesso, presso cui, per un certo tempo, ci si ferma). Anche l’identico ha, per chi successivamente lo vive, i suoi ele menti di alterità. Chi dimora, cioè si ferma per un certo tempo presso una stessa realtà, lò fa - apparente paradosso - spostan dosi lungo di essa, facendo esperienza dei diversi aspetti e delle diverse potenzialità che essa offre. Per un certo tempo, la realtà, con cui si è in rapporto e più o meno ben circoscrivibile rispetto ad altre realtà, è la stessa, solo che cambia, lungo questo tempo, il rapporto che con essa si intrattiene, perché se ne vivono suc cessivamente i diversi aspetti e le diverse potenzialità (o anche gli stessi aspetti e le stesse potenzialità in modi diversi). In questo senso ogni giorno porta all’abitante della dimora qualcosa di nuovo: ogni giorno egli scopre qualcosa di diverso nello stesso, presso cui, per un certo tempo, si è fermato. È qui la differenza tra il modo, che possiamo considerare proprio di Nietzsche, e il modo, che egli invece critica, di concepire il dimorare. Il dimo rare, che egli critica, è quello stare, per qualche tempo o anche per sempre, presso qualcosa che si caratterizza non come movi mento lungo o attraverso ciò presso cui si sta, ma come pura e semplice ripetizione, come puro e semplice ribadimento di ciò presso cui si sta. Eppure - riprendendo l’apparente paradosso del dimorare nietzscheano - si viaggia, in questo caso, lungo ciò presso cui ci si è fermati. Ci si fermati, infatti, presso qualcosa o - possiamo anche dire - si è fermato qualcosa dentro di sé: un pensiero, un giudizio, un sentimento, una relazione, che ora però vengono approfonditi, lungo i quali ora si viaggia. Ma l’approfondimento è relativo, appunto, a qualcosa che rimane fermo, che si è fissato (sia pure solo per qualche tempo): relativo a qualcosa che, per chi ad esso si rapporta, è diventato abitudine, e sia pure una breve abitudine2. Finché ci si ferma presso di essi, determinati pensieri, giudizi, sentimenti, relazioni, diventano essenziali punti di riferi mento e di ancoraggio - e, in questo senso, anche di sicurezza della propria esistenza.
2 D ie fröhliche W issenschaft, 295. 81
Nietzsche parla della sazietà da lui provata nei confronti delle esperienze, delle «brevi abitudini» da lui volta per volta vissute. Finché una certa esperienza era in corso, egli ha ogni volta pen sato che non ne sarebbe mai stato sazio, che sarebbe continuata, con sua soddisfazione, per sempre. Ha osservato anche, però, che, una volta preso dalla sazietà per l’esperienza fatta, egli si è rivol to ad altre esperienze3. Possiamo dire: è uscito dalla dimora nella quale per un certo tempo si era rinchiuso e ha ripreso il viaggio o - poiché anche dimorando viaggiava - ha intrapreso un viag gio diverso da quello appena concluso e svoltosi aU’intemo di una stessa realtà: ha intrapreso il viaggio da una realtà a un’altra diver sa. Questo dice l’aforisma della G aia scienza sulle «brevi abitu dini», pur se in esso non si ricorra, o si ricorra solo indirettamente, alle metafore del viaggio e della dimora: vi si parla del «nuovo» che «già (...) aspetta alla porta» quando un determinata abitudine è conclusa4. La porta allude a una dimora nella quale essa con sente di entrare o dalla quale essa consente di uscire: di entrare si potrebbe anche aggiungere - di ritorno da un viaggio e di usci re per un nuovo viaggio intraprendere. Il «viandante» nietzschea no, infatti, è qualcuno il cui cammino ha, sì, una meta, ma non una meta definitiva: il viandante ha delle mete, che via via rag giunge, in ciascuna delle quali si ferma, ma che poi supera verso altre mete5. Ogni meta raggiunta diventa, a un certo momento, punto di partenza verso altre mete: diventa ciò da cui ci si allon tana verso altre mete. La meta definitiva significherebbe la fine del viaggio: l’uomo che avesse raggiunto una meta definitiva (una meta da lui giudicata definitiva) avrebbe concluso il suo viaggio e raggiunto una dimora particolare, perché definitiva: non una dimora in cui soggiornare per qualche tempo, come nel caso di una meta provvisoria, ma una dimora in cui chiudersi per sempre e da cui non più uscire. Un passo del genere significherebbe la fine dell’esistenza come tensione verso l’alterità: 1’esistenza si chiuderebbe su se stessa, si chiuderebbe, da se stessa, a ulteriori 3 Ibidem. 4 Ibidem. 5 Menschliches, Allzumenschliches, I , 638.
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possibilità di autorealizzazione, che verrebbero escluse in quanto giudicate non valide o impossibili. L’esistenza chiuderebbe il suo movimento di trascendimento dell’identico verso l’alterità e si irri gidirebbe nell’identico (in un determinato identico). In quanto diventano la propria dimora definitiva, determinati pensieri, giu dizi, sentimenti, relazioni diventano -però anche il proprio limite, il limite che si dà alla propria esistenza, diventano la propria pri gione (è da vedere, in Nietzsche, in questo senso, il motivo del l’uomo incatenato67), per quanto possa trattarsi anche di una pri gione dorata e comunque comoda - una comodità che deriva se non altro dalla circostanza che, in tale dimora, nulla è più messo in discussione, problematizzato, ma tutto finisce per essere ripe tuto in maniera più o meno meccanica e inconsapevole. Il fatto che la prigione, in cui si trasforma la propria dimora, sia una pri gione dorata o comunque comoda non toglie che di prigione si trat ta. E non toghe, anche, che possa accadere che tale prigione (una prigione di pensieri, giudizi, valori, emozioni, relazioni) non sia nemmeno percepita come tale da chi dentro di essa vive. Chi, per scontare la pena inflittagli per un reato commesso, passa del tempo - a volte anche molto tempo - in quegli edifici che si chiamano prigioni, sa bene dove è stato rinchiuso, sa bene, perciò, che la sua libertà - la libertà della sua esistenza - è stata con ciò negata in una maniera fondamentale. Chi pensa di aver raggiunto la dimora definitiva nella propria esistenza, invece, non sa, può non sapere, di essersi chiuso in una prigione, di avere compromesso la propria libertà. Il viaggio nietzscheano prevede, dunque, delle soste - soste in luoghi nei quali il viaggiatore elegge, per qualche tempo, la propria dimora. Ma, in un frammento del 1879, in cui si parla di viaggio in senso letterale (vi si parla dell’ «inquieto viaggia re delle persone colte» come «prova che esse devono cercarsi e che in un sol luogo vivono poche persone colte», o del fatto che «quando regolarmente tutte le estati si lascia il posto dove si abita, non si fugge tanto se stessi quanto il proprio ambien6 Ivi, «Vorrede», 3. 7 Nachgelassene Fragm ente Frühling 1878 bis November 1879, 40[20].
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te»), si legge la seguente osservazione: «S i diventa viaggiato re, “viandante” , quando non si è di casa (heimisch ) in nessun luogo»7. Nella misura in cui tale osservazione è riferibile (anche) al viaggio e al viandante intesi in senso metaforico (nella osserva zione citata compare il termine ‘viandante’, che in Nietzsche ha un significato non semplicemente letterale, ma metaforico: per questo, è proprio al significato metaforico di viaggio e viandante che, forse, la osservazione citata essenzialmente si riferisce), dire mo che essa può essere assunta come espressiva della specifica dialettica nietzscheana della esistenza, con la avvertenza, però, che il non essere di casa in nessun luogo del viandante deve inten dersi riferito a una dimora (presunta) definitiva, in cui si pensas se di poter condurre l’intera propria esistenza: una dimora del genere, per Nietzsche, non esiste: è se ci si riferisce a questa casa che il viandante non è «di casa» in nessun luogo. Ma nei luoghi nei quali, nel corso del suo viaggiare, successivamente e per qual che tempo, si ferma, non per riposarsi del cammino, ma per fame esperienza, il viandante è «di casa»: il rapporto con il luogo, qui, non è di estraneità o di spaesamento, ma di autoriconoscimento e di familiarità, nel senso, precisamente, che i luoghi presso cui ci si ferma sono tali da intellettualmente ed emotivamente interes sare, coinvolgere - nei modi da Nietzsche descritti a proposito delle brevi abitudini («Ho sempre la convinzione che una deter minata cosa m’appagherà durevolmente [...] e che io sia da invi diare per averla trovata e conosciuta: ed ecco che essa mi nutre a mezzogiorno e a sera, e diffonde intorno a sé e dentro di me un profondo senso di appagamento, cosicché, senza aver bisogno di confrontare o di disprezzare o di odiare, non desidero altro»8) l’essere di chi in quei luoghi si ferma. Da questo punto di vista che è quello da cui fondamentalmente si pone il problema del dimorare in Nietzsche - il concetto di dimora si specifica in rela zione non tanto a un senso di sicurezza e protezione quanto a un senso di coinvolgimento personale di tipo intellettuale ed emoti
D ie fröhliche W issenschaft, 295.
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vo in una determinata situazione. È a questo senso del sentirsi a casa propria che, per esempio, Nietzsche allude allorquando, in un frammento del 1881, così tratteggia il proprio rapporto con il pensiero, da lui molto apprezzato, di Emerson: «Emerson. Non mi sono mai sentito così a casa e a casa mia in un libro, come - non devo lodarlo, mi è troppo vicino»9. H sentirsi a casa propria cor risponde al sentirsi - come si suole anche dire - nel proprio ele mento - un elemento, il proprio, che, d’altra parte, può non rima nere, nel tempo, sempre lo stesso. L a dimensione del viaggio - dimensione che, come si è già visto, caratterizza lo stesso dimorare - è la dimensione del relati vo. Muoversi da un’esperienza all’altra significa, infatti, non assolutizzare nessuna esperienza in particolare di quelle che si com piono: nessuna esperienza particolare che si vive appaga, in maniera definitiva, le esigenze sempre rinnovantisi dell’uomo. A Nietzsche accade, per la verità, di assolutizzare l’esperienza che vive nel momento in cui la vive: egli parla a questo proposito di una sua «fede nell’etemità»10, di fede nella eternità delle espe rienze che volta per volta vive. Ma l’esperienza finisce e, allor ché finisce, egli non può che rilevarne il carattere relativo. Non c’è una esperienza che possa essere assolutizzata, come accade, invece, generalmente, a colui che non viaggia, a colui la cui esi stenza si identifica con un dimorare inteso come ripetizione più o meno eguale dell’identico. Se il viaggiare e il dimorare in quan to anch’esso caratterizzato dal viaggiare si collocano sotto il segno del relativo, il dimorare come ripetizione più o meno eguale del l’identico si colloca sotto il segno dell’assoluto. Un particolare modo d’essere al mondo - relativo a un ben determinato ambien te familiare, sociale, nazionale, religioso, ecc. - viene portato (da sempre o per sempre) sul piano dell’assoluto. Ma dell’assoluto Nietzsche ha scritto: «tutto ciò che è assoluto appartiene alla pato logia»11. Se così è, le connessioni che si possono a questo punto individuare sono quelle tra viaggio, relatività e salute, da un lato, 9 Nachgelassene Fragm ente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 12[68], 10 D ie fröhliche W issenschaft, 295. 11 Jen seits von Gut und Böse, 154.
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e tra non viaggio, assoluto e malattia, dall’altro. Chi è sano? Sano è colui che viaggia e che viaggia perché non ha assolutizzato nes sun particolare modo d’essere al mondo ed è perciò aperto alla sperimentazione di ulteriori possibili modi d’essere. Chi è mala to? Malato è colui che non viaggia e che non viaggia perché ha assolutizzato un particolare modo di essere al mondo che diven ta la sua dimora-prigione.
2. Il viaggio m odifica il viaggiatore. L a solitudine del v iag giatore E ravam o am ici e ci siam o diventati estranei [...] i diversi m ari e i soli ci hanno mutati!
Così, degli amici, paragonati a due vascelli che si reincontra no dopo essersi precedentemente fermati nello stesso porto ed essersi quindi separati riprendendo ognuno o uno dei due il viag gio, scrive Nietzsche in un aforisma (sul quale torneremo più avanti) della G aia scienza12. Il rapporto (particolare per ognuno) con l’alterità modifica, altera in qualche modo o in qualche misu ra (un modo e una misura che dipendono dal particolare rappor to che con la alterità, volta per volta, si stabilisce) il soggetto che il rapporto istituisce. Il viaggio, con il quale resistenza nietzscheanamente intesa si identifica, modifica colui che il viaggio compie. Si è detto: il viaggio con il quale l’esistenza nietzscheanamente intesa si identifica. Il viaggio nietzscheanamente inteso è quello che modifica, altera il viaggiatore. Infatti, si può viag giare anche solo formalmente, apparentemente, ci si può aprire solo formalmente, apparentemente, alla alterità, senza stabilire con essa nessun reale rapporto, un rapporto, cioè, tale da determinare un qualche cambiamento in chi il rapporto stesso stabilisce: ciò vale sia per il viaggio in senso letterale, cioè come movimento nello spazio da un luogo a un altro, sia per il viaggio in senso metaforico, come movimento da una determinata esperienza di 12D ie fröhliche W issenschaft, 279. 86
pensiero, giudizio, sentimento, relazione, a un’altra13. Nel proprio apparente viaggiare da un pensiero, da un sentimento, da un rap porto, ecc., a un altro pensiero, a un altro sentimento, a un altro rapporto, ecc. - nella apparenza di una tale mobilità - si può, in realtà, rimanere sostanzialmente fermi a un proprio ben determi nato pensiero, sentimento, rapporto, ecc., si può, in realtà, rima nere sostanzialmente inattaccabili e indifferenti a ciò attraverso cui si passa, così come, al contrario, si può aggiungere, nel proprio apparente rimanere chiusi nella dimora di uno stesso pensiero, di uno stesso sentimento, di uno stesso rapporto, ecc. - nella appa renza di una tale immobilità - ci si può, in realtà, stare muoven do: è il caso appunto del viaggiatore nietzscheano allorché si ferma in un luogo determinato14. L’identità diveniente del viaggiatore nietzscheano rappresenta, per lo stesso viaggiatore, un mistero. Ciò dipende dal carattere misterioso della stessa alterità con la quale il viaggiatore entra in rapporto. Infatti, la alterità - ciò che non si è ancora vissuto, cono sciuto - è mistero per chi con essa intende entrare in rapporto: mistero che sarà più o meno risolto allorché con essa il rappor to sarà sviluppato. Ma se viaggio è movimento verso la alterità, e la alterità è mistero, allora è l’uomo stesso, in quanto viag giatore, che diventa mistero a se stesso. L a misteriosità del l’oggetto si trasferisce ed estende al soggetto che ad esso si rap
13 Sulle trasformazioni che in particolare il viaggio in senso geografico può determinare n ell’uomo, cfr. E .J. L e e d , The M ind o f thè Traveler. Front Gilgam esch to G lobal Tourism (tr. it., in particolare pp. 251-75). 14 In generale, sul carattere diveniente dell’uomo nietzscheano, cfr. F. M asini, Lo scriba del caos. Interpretazione di Nietzsche, pp. 223-50. L a presenza, in Nietzsche, per quel che riguarda il modo di rapportarsi alla realtà, di una posi zione invece anche diversa da quella caratterizzata dal divenire, di una posizio ne non necessariamente preoccupata o assillata dal problema del divenire, è stu diata, attraverso la analisi del motivo metaforico della «barca», da Vivetta Vivarelli: con la metafora della barca, Nietzsche indicherebbe non solo «il pas saggio dell’ anima nelle pause del flusso del divenire e del tendere verso qual cosa», ma anche - in certi testi - «il sein contrapposto al werden, non più però come riposo dallo streben , ma come suo rifiuto, o incapacità ad adattarvisi» (V. V ivarelli, L a barca di Nietzsche, rispettivamente pp. 570 e 574-5).
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porta. In un frammento del 1878, Nietzsche spiega lo «stato d’ a nimo» del viandante con le seguenti parole di Emerson: «il valore della vita risiede nelle sue insondabili capacità: nel fatto che io non so mai, se sto diventando un individuo nuovo, che cosa mi può capitare»15. Proprio perché si muove verso la alte rità, il viandante non sa cosa potrà capitargli, che cosa sarà di lui nel momento in cui con l’alterità entrerà in rapporto. Che cosa domani sarà di me? A questa domanda può forse dare una rispo sta abbastanza precisa chi ha deciso di dimorare in maniera defi nitiva presso un determinato luogo nel quale sempre sostanzial mente ripetere quel che tale luogo caratterizza. Ma, per chi fa del viaggio - cioè del rapporto con la alterità, dunque con qualcosa che, per se stessi, è misterioso nella sua natura e nei suoi effetti - la dimensione fondamentale della propria esistenza, una rispo sta precisa a quella domanda non è possibile dare. Viaggiare è, così, affrontare la possibilità - e il rischio - della ridefinizione del proprio essere, la possibilità della sua scomposi zione e riorganizzazione. Viaggiare è rimettersi in gioco. Ci può essere chi, riguardo a se stesso, dica: perché rimettermi in gioco? Sto bene come sto. Sto ben come sto : quanto dire, è fissato in maniera definitiva il modo in cui la mia esistenza può, con mia soddisfazione, svolgersi. Ma è difficile pensare che un tal modo di vivere consista senz’altro in imo star bene: qui, se non c ’è da fare i conti con il nuovo, l’incerto, il problematico, il mistero, c ’è da fare i conti con la noia come effetto della ripetizione dell’i dentico. Forse qualcuno può comunque preferire la noia alla con dizione problematica rappresentata dall’abbandono di certe abitu dini di vita e di pensiero e dalla apertura al nuovo. Rimane allo ra da comprendere le ragioni di tale preferenza. Per Nietzsche, che si opti per l’una o l’altra situazione - per la ripetizione dell’iden tico o per l’uscita da esso - è una questione - come vedremo che riguarda la forza dell’uomo. Si possono qui richiamare alcu ne osservazioni che, nel capitolo intitolato «Invasioni nomadi» del
15 N achgelassene Fragm ente Frühling 1878 bis November 1879, 32[15] (tr. it„ 32[13]).
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suo libro Che ci faccio qui?, lo scrittore americano Bruce Chatwin fa sulla fondamentalità, per l’uomo - oltre che per gli animali del movimento: Forse dovremmo [...] concedere alla natura umana una istintiva voglia di spostarsi, un impulso al movimento nel senso più ampio. L’atto stesso del viaggiare contribuisce a creare una sensazione di benessere fisico e mentale, mentre la monotonia della stasi prolungata o del lavo ro fisso tesse nel cervello delle trame che generano prostrazione e un senso di inadeguatezza personale. In molti casi quella che gli etologi hanno designato come “aggressività” è semplicemente una risposta stiz zosa alle frustrazioni derivanti dall’essere confinati in un certo ambien te. Che esista un’esigenza primaria di movimento è confermato da studi recenti sull’evoluzione umana16. Le osservazioni qui riportate di Chatwin si riferiscono alla fon damentalità per l’uomo del movimento nello spazio fisico. Esse sottolineano la condizione insieme di costrizione e di monotonia che un prolungato stare fermi nello stesso luogo determina. Ma ci si può legittimamente chiedere se le pertinenti osservazioni del l’autore non siano da estendere ai movimenti che riguardano lo spazio mentale, emotivo, sociale dell’azione dell’uomo. Anche il rimanere a lungo fermi presso gli stessi pensieri, sensazioni, rap porti, o determinati modi di viverli, può indurre o senz’altro indu ce nell’uomo effetti di costrizione, inadeguatezza, monotonia uguali o simili a quelli che Chatwin denuncia per quel che riguar da la permanenza prolungata in uno stesso luogo fisico. È Nietzsche stesso, del resto, a mostrare come la noia sia collegata - essendone l’effetto - alla condizione della stabilità, della per manenza, dell’essere, e come, a sua volta, la condizione dell’es sere sia collegata - essendo l’effetto di una sua volontà - a una determinata «specie d’uomo», ossia alla specie «non creativa, sof ferente, [...] stanca di vivere», a quella specie che altrove Nietzsche definisce debole: in particolare, tale specie di uomo sof fre del divenire, vede, per se stessa, una incompatibilità fra muta 16 B. C hatwin, WhatAm I D oing H ere? (tr. it., p. 271).
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mento e felicità17. Per questa specie di uomo la salvezza è nel l’essere: «L’“essere” come invenzione di colui che soffre del dive nire»18. La tensione verso l’essere diventa il misuratore della debo lezza dell’uomo. Al contrario, Nietzsche osserva, «se pensassimo la specie d’uomo opposta, essa non avrebbe bisogno di credere nell’essere; anzi, lo disprezzerebbe, come morto, noioso, indiffe rente»19. È, quella cui qui Nietzsche allude, la specie «creativa» di uomo: la specie d’uomo che del mutamento non soffre, dal mutamento non rifugge, ma che al nuovo si apre, il nuovo vuole, anzi egli stesso determina. La noia, come effetto dell’essere, è il prezzo che l’uomo debole paga, è disposto a pagare, pur di evi tare la problematicità, la rischiosità e l’impegno connessi alla dimensione, alla quale egli cerca il più possibile di sottrarsi, del divenire. La noia è invece un prezzo che l’uomo creativo non è disposto, non è interessato a pagare, perché ciò che lo interessa è proprio l’opposto dell’essere, di ciò che permane, appunto la crea zione, la produzione del nuovo, il mutamento. Si può aver raggiunto una meta, che si pensa sia quella defi nitiva: si può cioè stare nella dimora, che si vuole definitiva, aven do fatto un viaggio per arrivarvi (la dimora come meta). Ma può succedere anche che questa meta non sia mai stata posta e perciò raggiunta, che non si sia cioè in nessun modo viaggiato, e che si sia invece da sempre stati in ima dimora che da sempre si è con siderata come una dimora che mai si sarebbe abbandonata. L’uomo educato sin dall’infanzia a considerare validi i valori, le regole, i comportamenti in vigore nell’ambito sociale e familiare di appartenenza, è l’uomo che da sempre vive in una dimora che considera definitiva. Egli non ha compiuto alcun tragitto per arri vare alla dimora nella quale vive: la ha già trovata venendo al mondo ed è stato abituato a considerarla la sua unica dimora pos sibile. Qui non c’è punto di partenza e punto di arrivo: c’è lo stare in un luogo che non è né punto di partenza né punto di arrivo di
17 N achgelassene Fragm ente H erbst 1887 bis M ärz 1888, 9[60]. 18N achgelassene Fragm ente H erbst 1885 bis H erbst 1887, 2[110]. 19N achgelassene Fragm ente H erbst 1887 bis M ärz 1888, 9[60].
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possibili tragitti. C ’è qui un permanere da sempre nell’identico, permanere che ad ogni viaggio si oppone. Ha osservato Nietzsche che, attraverso l’educazione, l’ambiente sociale tende a fare di ogni individuo - che rappresenta sempre qualcosa di unico e irri petibile - una «ripetizione», la ripetizione dei valori, dei senti menti, dei comportamenti vigenti nell’ambiente sociale stesso20. Ciascuno si abitua a rimanere per sempre presso gli stessi valori, gli stessi sentimenti, gli stessi comportamenti. Ciascuno si abitua a ripetere per sempre, a rimanere per sempre fedele all’identico presso il quale da sempre egli sta. Ciascuno si abitua a non usci re più dalla propria dimora, anzi a pensare che da essa non si possa in alcun modo uscire. Più in generale, una lunghissima tradizione, all’interno delle società umane, ha riconosciuto valore, di essa facendo il criterio della «buona reputazione», solo alla fedeltà a se stessi come per manere nell’identico, come dimorare presso gli stessi valori, gli stessi pensieri, gli stessi giudizi, gli stessi sentimenti, le stesse «virtù» o anche presso le stesse «non virtù»21. Importante è stato, per le società tradizionali, sapere che cosa da ciascuno ci si pote va aspettare o non aspettare per sapere su chi si poteva fare affi damento (o fino a qual punto) e ciò in funzione delle esigenze di autoconservazione e di autocontrollo delle società medesime. La cattiva reputazione, il «discredito», invece, sono stati riservati da questa tradizione alla infedeltà a se stessi, alla «autotrasformazione», al viaggiare dell’uomo, al suo andare dalla identità alla alte rità22. Infatti, che altro è la autotrasformazione dell’uomo se non l’andare, più o meno accentuato, dell’uomo da un modo di esse re a un altro non ancora sperimentato, dall’identico presso il quale è stato (da sempre o per qualche tempo) verso l’alterità ossia verso ciò presso cui non è mai stato? Allorché, in un frammento del 1877, tratteggia la figura del saggio, Nietzsche la presenta come quella di qualcuno che si con trappone, in una maniera particolare, ai costumi vigenti: 20Menschliches, Allzumenschliches, 228. 21 D ie fröhliche W issenschaft, 296. 22 Ibidem.
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Il saggio non conosce una moralità oltre quella che trae le sue leggi da se stesso, bensì già la parola «moralità» non gli si adatta. Egli infat ti è diventato assolutamente scostumato, in quanto non riconosce costu mi, tradizioni, bensì soltanto nuove domande della vita e nuove rispo ste. Va avanti per sentieri non mai percorsi, la sua forza aumenta quan to più egli peregrina. È simile a un grande incendio che porti dentro di sé il proprio vento e ne sia intensificato23. Chi rifiuta i costumi della propria comunità o del proprio grup po di appartenenza per adottare quelli di altre comunità o di altri gruppi, o chi rifiuta i costumi vigenti rimanendo però, fondamen talmente, in una condizione di confusione, ambiguità, irresolutez za sul da farsi, non è un saggio. Saggio è, innanzitutto, colui il quale, discostandosi dai costumi vigenti, riconosce, muovendo da se stesso, «nuove domande della vita e nuove risposte». Saggio è colui il quale si discosta dai costumi vigenti perché alla vita ha da porre nuove domande - le sue domande - per le quali ha da elaborare nuove risposte - le sue risposte. Saggio, d’altra parte, non è colui che solo pone tali domande ed elabora tali risposte, ma colui che sempre più rafforza se stesso attraverso lo sviluppo di questo domandare e di questo rispondere. La forza, qui, viene non dalla continua ripetizione dell’identico, ma dalla continua apertura alla alterità. Il saggio, in ogni caso, non si caratterizza per un atto solo negativo, per un venir meno, un sottrarsi: per il sottrarsi ai costumi vigenti della propria comunità o del proprio gruppo di appartenenza. Egli vuol dare anche una nuova deter minazione - la sua - alla esistenza. Le nuove domande alla vita e le nuove risposte del saggio sono i sentieri mai da nessuno per corsi che, per primo, il saggio percorre. Il saggio è (come) il filo sofo che Nietzsche distingue dagli «operai della filosofia», essen do l’uno il creatore di nuovi valori, gli altri coloro che invece si limitano ad «accertare e ridurre in forinole qualsiasi ampia fatti specie di valutazioni - vale a dire di antiche determinazioni di valori, creazioni di valori, che sono diventate dominanti e che per un certo tratto di tempo hanno assunto il nome di “verità” »24. 23 N achgelassene Fragm ente 1876 bis Winter 1877-1878, 23(4) (tr. it., 24[8]). 24 Jen seits von Gut und Böse, 211.
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Può anche succedere, d’altra parte, che la propria dimora non sia né la meta di un viaggio liberamente e consapevolmente intra preso né ciò presso cui da sempre si è stati (senza aver mai intra preso un viaggio per arrivarvi), bensì il luogo cui elementi da lui non criticamente vagliati, oppure circostanze del tutto esterne o casuali rispetto al suo essere, possono condurre l’uomo. In un afo risma di Al di là del bene e del male, Nietzsche scrive: In molte contrade dello spirito noi siamo stati di casa, o per lo meno degli ospiti; sempre di bel nuovo siamo sgattaiolati dai gradevoli muffi ti cantucci in cui parevano confinarci predilezioni e odii preconcetti, gio vinezza, lignaggio, semplice caso di uomini e libri, o persino la stan chezza del vagabondaggio25. Che cosa sono le predilezioni e gli odii preconcetti, la giovi nezza, il lignaggio, il caso o la stessa stanchezza del vagabonda re? Sono quelle condizioni, esteriori o accidentali, in generale involontarie e non fondate sul proprio essere, che però possono indurre l’uomo a fermarsi in «contrade dello spirito», nelle quali non può veramente riconoscersi, e a scambiare tali contrade per la propria stessa casa. Nietzsche si è fermato in tali contrade in esse sentendosi «ospite» più che «di casa»: la distinzione sottoli nea non solo e non tanto la transitorietà della sosta (perché anche dove poi è stato «di casa», Nietzsche vi è stato transitoriamente) quanto la estrinsecità e accidentalità del rapporto con ciò presso cui si è fermato, il non riconoscimento di sé in tale luogo. L’uomo-vascello dell’aforisma della G aia scienza viene segna to, trasformato - si è visto - dai mari e dai soli che attraversa. Poniamo qui il seguente problema: c ’è un nucleo dell’uomovascello che rimane inalterato ad ogni traversata che compie, ad ogni sole che raggiunge, un nucleo che rimane non toccato da nes suna alterità con la quale, pure, viene in rapporto, una dimora di pensieri, sentimenti, valori, da lui mai messi in discussione? Poniamo questa domanda perché, in Al di là del bene e del male, Nietzsche ha scritto: 25 Ivi, 44.
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Uimparare ci trasforma [...] Ma nel fondo di noi stessi, proprio nell’«imo», c’è indubbiamente qualcosa che non può essere insegnato, un granito di spirituale Fatum, di predeterminata decisione e risposta a una predeterminata scelta di domande. In ogni questione cardinale parla un immutabile «questo sono io»26. Nietzsche, d’altra parte, ha anche affermato il principio del divenire delle cose e osservato che quel che sembra immobile non è immobile, quel che sembra essere non è essere, ma che quel che sembra immobilità e quel che sembra essere sono solo una mobi lità e un divenire più lenti della mobilità e del divenire che, con gli organi e gli strumenti di osservazione, dei quali dispone ed essi stessi storicamente determinati, essi stessi divenuti e divenienti, l ’ uomo è in grado di percepire. In un frammento del 1881 Nietzsche scrive: Se la tua vista fosse più acuta, vedresti tutto in movimento: come la carta che brucia si curva, così tutto di continuo perisce e intanto si curva27. E, in un altro frammento dello stesso anno, in cui discute in particolare del fatto che «Anche le qualità chimiche scorrono e si trasformano», egli parla dell’«eterno flusso di tutte le cose»: in un composto chimico che vede nove particelle di ossigeno e undici di idrogeno - Nietzsche esemplifica - «in nessun momento l’os sigeno è esattamente lo stesso che nel momento precedente, bensì è sempre qualcosa di nuovo»: ma «questa novità è troppo sottile per qualsiasi misura»28. Un nucleo inalterabile dell’uomo non esi ste. Vi può essere solo, di fatto, un nucleo di pensieri, sentimen ti, valori, che si muove, si trasforma più lentamente di quel che non accade per altri pensieri, sentimenti, valori, tanto lentamente che l’uomo stesso non se ne accorge. Se avesse organi e strumenti più raffinati di rilevazione, l’uomo arriverebbe ad accorgersi che il suddetto nucleo si viene nel tempo trasformando e, al limite, 26 Ivi, 231. 27 N achgelassene Fragm ente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 15[48]. 28 Ivi, 11 [149].
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dissolvendo. Su tale questione è però opportuno leggere anche un aforisma di Umano, troppo umano, nel quale, discutendo in par ticolare della presunta immutabilità del «carattere» dell’uomo, Nietzsche, per spiegare la propria posizione, fa l’ipotesi (fantasti ca) di una esistenza umana che si prolunga ben oltre i limiti tem porali entro i quali essa generalmente si consuma: C he il carattere sia im m utabile non è vero nel senso stretto; piutto sto questo detto p opolare sta a sign ificare so lo che, durante il breve tem po della vita di un uom o, i m otivi che influiscono su di lui non rie scono a incidere abbastanza profondam ente d a distruggere i tratti im pres si da m olti millenni. M a se ci si im m agin asse un uom o di ottantam ila anni, si finirebbe con l ’ avere in lui un carattere assolutam ente m utevo le: sicché si svilupperebbero d a lui l ’uno dopo l ’ altro una moltitudine di individui diversi. L a brevità della vita um ana induce a m olte afferm a zioni errate circa le qualità dell’ uom o29.
Stando a questo aforisma, si dovrebbe dire che vi sono, nel l’uomo, elementi (daH’aforisma ricondotti al passato filogenetico dell’umanità), non toccati o sostanzialmente non toccati da cam biamenti: elementi che sarebbero non toccati o sostanzialmente non toccati da cambiamenti non perché di per sé a ogni cambia mento si sottraggano, ma perché la limitatezza del tempo della esistenza umana individuale farebbe sì che essi possano subire, nel corso di tale tempo, trasformazioni solo marginalmente apprezzabili. Il brano, precedentemente citato, di Al di là del bene e del male, fa riferimento, d’altra parte, come si è visto, a qual cosa di immutabile nell’uomo (e sia pure, si può ora aggiungere specificando, a qualcosa che non muta, o sostanzialmente non muta, nel tempo della esistenza individuale) e che nell’uomo si fa valere «in ogni questione cardinale». Ogni questione fondamen tale dell’uomo, per l’uomo, sarebbe così decisa da elementi poco soggetti ad alterazione. Ci si trova, con queste affermazioni, di fronte a un punto problematico e delicato della riflessione nietz scheana, un punto che solleva, forse, legittimi interrogativi sulla effettiva portata del divenire, al quale, pure, Nietzsche auspica 29 Menschliches, Allzumenschliches, 1 , 4 1 .
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l’uomo sempre più si apra, sulla reale dimensione dei cambia menti che - torniamo aH’aforisma sulla amicizia della G aia scien za - i mari e i soli, attraverso i quali gli uomini-vascello passa no, su di essi producono. Che cosa dell’uomo, e fino a qual punto, può cambiare nel corso della sua esistenza? Ad essere interessati dal cambiamento sono aspetti più superficiali e meno importanti di quelli che costituiscono r«immutabile» dell’uomo e che affio rano ogni volta che si pongono, per l’uomo, questioni cardinali? E quale rapporto c’è - se c ’è - tra gli aspetti più profondi e impor tanti e quelli più superficiali e meno importanti dell’ essere umano? Interminabilità del viaggio, problematicità e, a volte, anche, dolorosità del viaggio, alterazione di sé nel rapporto con la alte rità verso la quale il viaggio conduce: questi i tratti che sin qui abbiamo visto del viaggiare nietzscheano. Ma c’è un altro tratto del viaggiare nietzscheanamente inteso che ora vogliamo ricordare: il carattere solitario del viaggio, delle strade che nel proprio viaggio si percorrono. Questo tratto si può ricavare - fra l’altro - dalla stesso aforisma della G aia scienza dedicato all’amicizia e nel quale Nietzsche si rifa esplicitamente al viaggio come metafora dell’esistenza. Gli amici, dunque, sono i vascelli che, nel loro andare per i mari, una volta si incontrano nello stesso porto e, insieme, qui sostano. È il momento del rico noscimento reciproco e della amicizia come riconoscimento reci proco: «...allora i due bravi vascelli se ne stavano così placida mente all’àncora in uno stesso porto e sotto uno stesso sole, che avevano tutta l’aria di essere già alla meta, una meta che era stata la stessa per tutti e due»30. M a gli amici diventano l’un l’altro reci procamente «estranei» perché ciascun vascello o anche uno solo di essi riprende il cammino, un cammino che è diverso da quel lo dell’altro: gli amici si separano. Qui, oltre il motivo già visto della non definitività delle mete che si raggiungono nella naviga zione che la propria esistenza è (i vascelli che si fermano nello
30 D ie fröhliche W issenschaft, 279.
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stesso porto, ma che poi riprendono il cammino), c ’è la indica zione del viaggio come qualcosa che, a un certo momento, si svol ge, per l’uomo, in una condizione di solitudine. L’esistenza è viag gio, ma il viaggio, che 1’esistenza è (o dovrebbe essere), si svol ge su strade che diventano a un certo punto solitarie o che addi rittura sono fondamentalmente tali, perché sono le strade alle quali portano il compito, la meta di ciascuno: compito, meta, che sono, per ciascuno, assolutamente particolari e diversi da quelli di cia scun altro. I riconoscimenti reciproci, le reciproche identificazio ni (il fermarsi nello stesso porto e sotto lo stesso sole) sono sem pre provvisori: anche sviluppando il motivo del viaggio come metafora dell’esistenza, si trova, così, un tema ben presente a Nietzsche: il tema della solitudine dell’uomo31. Per Nietzsche, del resto, anche quando avvengono, le reciproche identificazioni sono parziali32. A proposito della reciproca irriducibilità delle mete che gli uomini perseguono si possono ricordare le seguenti parole di Zarathustra: «P er vie di m olte sp ecie e in m olti m odi, so n o giunto alla m ia verità
[...] E so lo m alvolentieri ho sem pre ch iesto le strade, - ciò è sem pre stato contrario al m io gu sto! Preferivo interrogare e tentare le strade d a so lo [...] 31 Cfr., per es., Menschliches, Allzumenschliches, I, 376. Sulla solitudine vis suta in prima persona dallo stesso Nietzsche, cfr. C.P. J anz, Friedrich Nietzsche. Biographie. Zweiter Band: D ie zehn Jahre des freien Philosophen (Frühjahr 1879 bis Dezember 1888). 32 È quanto si ricava - come sua implicazione - da quel che Nietzsche osser va sulle condizioni della reciproca comprensione degli uomini, che è sempre relativa perché le stesse parole, attraverso le quali la comunicazione ha luogo, hanno, però, per ciascuno, significati particolari, definiti sulla base della sua esperienza personale che, per quante somiglianze possa presentare con essa, è pur sempre diversa dall’esperienza altrui, se non altro perché l’identità di cia scuno - di ciascun soggetto della esperienza - è diversa da quella di chiunque altro. Sul problema della comunicazione e della comprensione in questo senso, cfr. ancora Menschliches, Allzumenschliches, I, 376 e, inoltre, Jen seits von Gut und Böse, 268. Sulla singolarità assoluta e irripetibile che ciascun uomo è, cfr. Menschliches, Allzumenschliches, I, 286.
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“Questa, insomma, è la mia strada - dov’è la vostra?”, così rispondo a quelli che da me vogliono sapere “la strada”. Questa strada, infatti, non esiste!33 Non esiste una verità universale, esistono, invece, tante verità quanti sono i singoli esseri umani. Non solo: la propria verità cia scuno non può che, alla fine, determinare da se stesso, anche andando, magari, nel perseguimento di tale determinazione, su strade sbagliate. Come non esiste la verità (una verità uguale per tutti e verso la quale tutti si muovono o dovrebbero muoversi) così non esiste la strada (una strada uguale per tutti e che tutti per corrono o dovrebbero percorrere). Che ciascuno abbia una sua verità e una sua strada per arrivarvi, e che tale strada egli solo possa stabilire - ciò pone il problema dell’individuo in Nietzsche come problema della rivendicazione a ciascun uomo della possi bilità di essere se stesso cioè di definire, nei modi che sono suoi propri e diversi da quelli di chiunque altro, la propria esistenza.
3. Congedi dolci, congedi dolorosi, congedi im possibili (fra N ietzsche e Jankélévitch) Chi viaggia si dirige verso un luogo, ma ciò fa a partire da un altro luogo, abbandonando un altro luogo. Per usare i termini nietzscheani, chi viaggia dimentica34 il luogo presso il quale, per un certo tempo, egli è stato. Ma, a volte, il ricordo del luogo, pres so il quale per qualche tempo è stato, è qualcosa di difficile o doloroso da superare per l’uomo. Infatti l’abbandono di una abi tudine (come lo stare per un certo tempo presso l’identico) signi fica rinuncia a quel poco o tanto di comodità, tranquillità, sicu rezza, consumo relativo di forza, che il seguire una abitudine fini sce, generalmente, ai vari livelli, per portare con sé. L’abbandono
33 Also sprach Zarathustra, IH, «Vom Geist der Schwere», p. 241 (tr. it., pp. 238-9). 34 Zur G enealogie der M oral, II, 1.
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dell’identico può essere, in particolare, abbandono di situazioni e rapporti affettivi che nel tempo si sono venuti stabilendo e dai quali può essere comunque particolarmente doloroso distaccarsi. È forse pensando a situazioni e rapporti di questo tipo che Nietzsche fa dire a Zarathustra: M olte volte ho g ià preso congedo: io con osco gli ultim i istanti che sp ez zano il cuore35.
Viene qui rappresentato un modo doloroso, traumatico di pren dere congedo da qualcosa, ben diverso da quello indicato nell’aforisma della G aia scienza sulle brevi abitudini, nel quale del proprio stesso successivo congedarsi dalle diverse brevi abitudini da lui via via vissute nel corso della propria esistenza Nietzsche dice essere avvenuto «con dolcezza». Dopo la sofferenza della separazione - in ogni caso - può accadere si determini una situa zione più serena: ci si dedica alla nuova esperienza, senza più pen sare alla esperienza dalla quale ci si è congedati o almeno senza che il pensiero di essa sia, per se stessi, fonte di sofferenza. Può darsi che ci si lasci coinvolgere in maniera piena sul piano emo tivo e intellettuale dalla nuova realtà. È questo il caso stesso di Nietzsche che - nella misura in cui le parole di Zarathustra, prima riferite, esprimono lo stesso pensiero di Nietzsche - può anche aver conosciuto, al momento del congedo, le «mille ferite che tra figgono il cuore», ma poi, come si è visto, ha saputo vivere la nuova realtà in modo da rimanerne - finché la viveva - totalmente appagato. Può darsi, dunque, che si determini questa situazione. Ma può anche darsi che si rimanga legati a ciò da cui pure - per i più diversi motivi - si prende congedo. Può darsi che la ferita della separazione non si rimargini, e che non si rimargini perché si continua a rimanere legati a ciò da cui ci si separati. In casi del genere non si prende veramente congedo. Ci si allontana da qual cosa solo formalmente: spiritualmente si continua a rimanervi 35 Also sprach Zarathustra, II, «A uf den glückseligen Inseln», p. 107 (tr. it., p. 102).
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legati. È questo il caso della nostalgia, della sofferenza per il ritor no, per il mancato ritorno, per il mancato e desiderato ritorno a ciò da cui un giorno si è partiti. Ha scritto Jankélévitch: Il nostalgico è contemporaneamente qui e là, né qui né là, presente e assente, due volte presente e due volte assente; si può quindi dire indif ferentemente che è multipresente o che non è da nessuna parte: proprio qui è fisicamente presente, ma si sente assente in ispirito da questo luogo in cui è presente nella came; là, invece, si sente presente moralmente, ma in realtà e attualmente è assente da quei luoghi cari che ha un tempo lasciato. L’esule ha così una doppia vita, e la sua seconda vita, che fu un giorno la prima e forse tornerà a esserlo un giorno, è come inscritta in sovrimpressione sulla vita banale e tumultuosa dell’azione quotidia na; l’esiliato tende l’orecchio per percepire il pianissimo delle voci inte riori attraverso il chiasso tumultuoso della strada, della Borsa e del mer cato36. E anche Jankélévitch - come il Nietzsche dello Zarathustra parla della sofferenza della separazione, del «crudele e tenero dolore con cui si apre il lungo periodo dell’assenza», della «lace rante tragedia che patetizza l’esistenza e in cui tutto si dice, si fa, avviene per l’ultima volta - un’ ultima volta, e poi mai più. Amare, dolci lacrime dell’Addio!», del «partente, che a volte è un po’ masochista» e «fa del male a se stesso lasciando i luoghi e le persone care»37. Jankélévitch spiega il «carattere lacerante delle separazioni» con «la finitezza e l ’insufficienza dell’ essere umano», che, proprio perché essere finito, non ha il «dono del l’ubiquità»38, non può stare che o qui o lì e non qui e lì contem poraneamente. D ’altra parte viene anche osservato che la nostal gia si definisce in rapporto non tanto alla dimensione spaziale quanto alla dimensione temporale. Oggetto della nostalgia non è un luogo particolare del nostro passato, ma il nostro passato in quanto tale, il nostro esser stati: oggetto della nostalgia la è «pas36 V. J ankélévitch , L ’Irréversible et la N ostalgie, p. 281 (tr. it. parziale in A. Prete [a cura di], L a nostalgia. Storia di un sentimento, p. 126). 37 Ivi, pp. 296-7 (tr. it., p. 150). 38 Ivi, p. 282 (tr. it„ p. 128).
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.rarità»39. La nostalgia vuol tornare indietro nel tempo. Ma così essa si scontra con la «irreversibilità del tempo»: in quanto desi derio impossibile di tornare indietro nel tempo, la nostalgia è destinata a rimanere inappagata, la malattia, che essa è, è «incu rabile», della sua «inquietudine» - «irrimediabile» - non si gua risce «col ritorno al paese natio»40. Se, per quel che riguarda lo spazio, «l’onnipresenza è impossibile, ma tutti i movimenti sono reversibili», per quel che riguarda il tempo le cose stanno diver samente: «come non si può essere insieme qui e altrove, così non si può essere insieme essere ed esser stato, essere adulto e giova ne, accaparrarsi tutto e non mollare niente, come un avaro; ma oltre a ciò (e non era questo il caso degli spostamenti nello spa zio) la reversione cronologica è inconcepibile»41. D ’altra parte, che gli stessi movimenti nello spazio siano reversibili, ciò, per Jankélévitch, è da intendersi solo in senso approssimativo perché si dà una «interferenza del tempo e dello spazio» e «la tempora lità inglobante pervade il movimento stesso»: «Firreversibilità temporale impedisce al ritorno spaziale di ripiegare esattamente sul suo punto di partenza»42. A rigore, il punto di partenza, dal quale una volta ci si è allontanati e al quale dopo un certo tempo si ritorna, in questo stesso tempo è cambiato: non si toma mai nello stesso luogo da cui si è partiti. Del resto, anche chi toma non è più esattamente lo stesso di chi è partito. Due vite sono compresenti, dunque, nel nostalgico, e sia pure in un rapporto di reciproca opposizione ed esclusione, e per quan to l’una sia una vita solo sognata, rappresentata, l’altra la vita real mente vissuta. A fronte della esistenza doppia del nostalgico, della compresenza, in lui, di due esistenze diverse c’è - si potrebbe qui osservare - F esistenza nietzscheanamente intesa che si presenta, invece, come successione nel tempo (rimandiamo alla immagine di Jankélévitch della pluralità delle vite) di esistenze diverse, cia-
39 Ivi, p. 290 (tr. it., pp. 139-40). 40 Ivi, p. 290 (tr. it., p. 153). 41 Ivi, p. 300 (tr. it., p. 155). 42 Ibidem (tr. it., pp. 155-6).
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scuna delle quali prende successivamente il posto dell’altra, viven do per se stessa senza nostalgia per quella che l’ha preceduta. A questo punto, però, si potrebbe porre, per quel che riguarda Nietzsche, la seguente domanda: il progetto di vivere i diversi momenti della propria esistenza in modo tale - come si legge nel l’aforisma 341 della G aia scienza - da volerne l’eterna ripetizio ne43, l’eterno ritorno, non potrebbe essere un progetto nostalgico? La teoria dell’«eterno ritorno» (intesa come tale progetto, e non nell’altro significato, che pure ha in Nietzsche, cioè come teoria che, partendo dalla ipotesi che «la misura della forza del cosmo» sia «determinata» e il tempo invece infinito, afferma che le stes se configurazioni di tale forza, che una volta sono state, non pos sono - in un tempo infinito - che infinitamente ripetersi44), che l’aforisma della G aia scienza di fatto preannuncia e tematizza, è una teoria della nostalgia? Si direbbe che, in realtà, le cose stan' no, per Nietzsche, esattamente all’opposto. Quando dice che i diversi momenti della propria esistenza vanno vissuti in modo tale da volerne l’eterno ritorno, Nietzsche sta indicando soltanto, appunto, il modo in cui i diversi momenti della propria esistenza andrebbero vissuti. Se si arriva a volere il ritorno, anzi l’eterno ritorno, di ciò che si vissuto, ciò è il segno che la propria esistenza è stata vissuta, nella sua attualità, in un modo, per se stessi, del tutto positivo. Con il riferimento al desiderio dell’eterno ritorno del passato, Nietzsche vuol dire proprio solo questo: che il pre sente va vissuto in modo tale da restarne pienamente soddisfatti. Ma ciò significa che il presente - ciascun momento della propria esistenza - va vissuto non guardando, nostalgicamente, al passa to (poiché nel passato soltanto starebbe la propria verità) né, d’al tra parte, utopisticamente proiettandosi nel futuro (poiché nel futu ro soltanto starebbe la propria verità)45. 43 D ie fröhliche W issenschaft, 341. 44 N achgelassene Fragm ente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11 [202]. 45 Sull’eterno ritorno, cfr. K. L owith, Nietzsches Philosophie der ewigen Wiederkehr des Gleichen J. G ranier , Le problème de la Vérité dans la philo sophie de N ietzsche, pp. 557-602; e, nella prospettiva di un confronto fra Nietzsche e Leopardi, A. N egri, Interminati spazi ed eterno ritorno. Nietzsche e Leopardi.
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Può essere doloroso - si è detto - allontanarsi da ciò presso cui, per qualche tempo, si è stati. D’altra parte, si può rimanere fissati a una sofferenza subita: vi sono ferite - Nietzsche osserva - dalle quali alcuni non riescono più a riprendersi46. Qui la soffe renza non è più (necessariamente) l’effetto dell’abbandono (maga ri obbligato) di una abitudine, ma è abitudine essa stessa: è la sof ferenza che qui diventa quell’identico, presso il quale si sta e che non si riesce a dimenticare. Cercare di dimenticare la sofferenza aggiungerebbe solo altra sofferenza a quella che già c’è. In que sto caso, così come in quello delle abitudini legate al valore della comodità o della sicurezza, o in quello delle abitudini affettive, il dimenticare è, per Nietzsche, una questione di forza, riguarda la capacità di sopportare e superare la problematicità o la sofferen za di determinate situazioni o degli effetti di determinate situa zioni. Ciò vale - si potrebbe osservare - non solo o non tanto allorché si dimentica per un desiderio di nulla, per il desiderio di non sentire, non sapere più nulla riguardo a una certa realtà, per il desiderio di sospendersi nel vuoto che dentro di sé così si deter mina (in questo caso può essere in gioco la debolezza più che la forza dell’uomo o, in ogni caso, la forza ma anche la debolezza) quanto allorché si dimentica per - come dice Nietzsche - fare posto al nuovo, cioè per riorganizzare il proprio essere su nuove basi, quelle che rincontro con la alterità determina. Ma il vian dante nietzscheano ha un atteggiamento particolare nei confronti del mutamento della propria esistenza, della propria identità: c ’è, nel viandante, «qualcosa di errante», che trova «la sua gioia nel mutamento e nella transitorietà»47. È la presenza di questo ele mento che consente al viandante di superare gli aspetti di proble maticità o di sofferenza che al mutamento sono o possono essere comunque collegati. Del dimenticare Nietzsche ha scritto che non è una semplice qualità negativa, un difetto, un limite della coscien-
46 Unzeitgemäße Betrachtungen. Zweites Stück: Vom Nutzten und Nachtheil der Histoire ß r das Leben, 1, p. 247 (tr. it., p. 265). 47 Menschliches, Allzumenschliches, I, 638.
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za che non riesce a un certo momento ad avere più presenti a se stessa certi elementi che, nel passato, le sono stati presenti: non indica, il dimenticare, solo quel fenomeno che si suole conside rare naturale e involontario e per il quale certi elementi scom paiono (almeno provvisoriamente) dal campo della coscienza. Il dimenticare viene visto, invece, positivamente, come capacità di chiudere con il passato per aprirsi al nuovo: di uscire dalla dimo ra in cui ci si è chiusi e di muoversi in ciò che sta fuori di essa48. Dimenticare non è ancora necessariamente viaggiare, cioè muo versi verso un luogo - diverso da quello presso il quale per un certo tempo si è stati - con il quale stabilire un rapporto positivo di sperimentazione: come si è detto, si può dimenticare una realtà per una motivazione solo negativa, solo per il desiderio di non avere più con essa nessun rapporto. Se dimenticare non è ancora viaggiare, chi viaggia, tuttavia, dimentica. L a stessa idea, che esprime con il concetto del dimenticare, Nietzsche illustra con il concetto di infedeltà o tradimento: «noi dobbiamo diventare tra ditori, commettere infedeltà, abbandonare sempre di nuovo i nostri ideali»49, dobbiamo diventare i «nobili traditori di tutte le cose che in genere si possono tradire e tuttavia senza un sentimento di colpa»50. Dimenticare il passato aprendosi al nuovo - dunque al diveni re - è, per tutti, una operazione che - si è visto - implica forza. Forza implica, d ’ altra parte, anche la operazione con la quale ci si tiene fermi a una stessa realtà di cui si vuole approfondire l’e sperienza: si tratta di saper non reagire a stimoli che possono pro dursi nel corso della esperienza e rispondendo ai quali ci si disto glierebbe dallo svolgimento della esperienza stessa51. L’esistenza come dialettica di viaggio e dimora - il dimenticare aprendosi al nuovo e il rimanere presso un oggetto approfondendone la espe-
48 Z ur G en ealo gie der M oral, n , 1. 49 M enschliches, Allzumenschliches, I, 629. 50 Ivi, 637. 51 N ach gelassen e Fragm ente Anfang 1888 bis Anfang Jan u ar 1889, 14[102], 15[39].
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rienza definiscono nel loro insieme appunto l’esistenza come dia lettica di viaggio e dimora - è così una manifestazione di forza dell’ uom o. Il giudizio m orale di condanna, che, secondo Nietzsche, l’uomo debole generalmente esprime sulle manifesta zioni di forza e su coloro che di tali manifestazioni si rendono protagonisti, non può che intendersi esteso, allora, alla stessa esi stenza come dialettica di viaggio e dimora. Si possono a questo punto ricordare alcune osservazioni che Hans Blumenbetg svolge nella sua indagine intorno alla navigazione e in particolare al nau fragio come metafore della esistenza. Tali osservazioni si riferi scono al modo in cui, nella storia della cultura occidentale, a par tire dalla Grecia antica, è stato spesso valutato l’andar per mare possiamo qui dire: il viaggiare - ossia come è stato valutato uno dei due elementi che costituiscono quella che qui si è indicata come la dialettica nietzscheana dell’esistenza, appunto il viaggio (ma abbiamo visto come questo elemento sia fondamentale, in Nietzsche, anche per comprendere l’altro elemento di tale dialet tica, cioè la dimora). Blumenbeig nota come, nella storia della cul tura occidentale, siano registrabili prese di posizione critiche nei confronti dell’andar per mare, nel quale si è visto un gesto di immodestia dell’uomo, il segno di una «avida visione di gua dagni ottenuti con colpi di mano, di un di più di quanto è ragio nevolmente necessario (per il quale cervelli filosofici hanno facilmente una formula in bocca), dell’opulenza e del lusso»52, una presuntuosa volontà di superamento dei propri limiti (che lo legherebbero e confinerebbero alla terraferma), un atto di «empietà»53. In altri termini, nella storia della cultura sono stati formulati giudizi morali di condanna nei confronti dell’ andar per mare - nei confronti del viaggiare, del movimento dalla identità alla alterità. Ci si potrebbe chiedere chi, quale tipo
52 H. B l u m e n b e r g , S ch iffb ru ch m it Z u sch au er. P a ra d ig m a ein e r Daseinsm etapher (tr. it., p. 28). Sulla analisi, che Blumenbeig conduce, della navigazione come metafora dell’esistenza, cfr. R. B odei, «Introduzione» all’ed. it. appena citata del libro di Blumenbeig e, inoltre, dello stesso Bodei, il saggio N avigatio vitae: la m etafora della esistenza come viaggio, pp. 37-49. 53 H. B lumenberg , Schiffbruch mit Zuschaue (tr. iL, pp. 31-2).
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umano abbia potuto formulare un giudizio del genere. A questa domanda si potrebbe rispondere che a formulare un tale giudi zio è stato l’uomo debole di cui parla Nietzsche, l’uomo - come si è visto - che soffre del mutamento, che considera reciproca mente incompatibili felicità e mutamento, che tende all’essere, che non sa controllare le proprie reazioni agli stimoli (che non sa non reagire), che pone, infine, il proprio livello di potenza come criterio universale di valutazione delle azioni umane54, ad aver potuto esprimere sull’andar per mare un giudizio del gene re indicato da Blumenberg. Quella domanda è suscettibile, d’al tra parte, anche di un’ altra risposta, non in contrasto con quel la appena indicata. L’altra risposta fa riferimento alle esigenze di autoconservazione e autoprotezione - da Nietzsche, come si è visto, richiamate - delle comunità umane, le quali contano, in funzione di tali esigenze, sulla prevedibilità dei comportamen ti individuali che devono, a tal fine, rimanere nel tempo autoi dentici.
4. Quando, stando a c a sa propria, si è fu o ri d i sé Rappresentando, nella Prefazione del 1886 a Umano, trop po umano, il processo che porta alla formazione dello «spirito libero», Nietzsche ricorre alla metafora del viaggio e della dimora. Il momento iniziale è l’uscita dell’uomo dalla propria casa, dalla casa costituita dai doveri, dai valori, dalle autorità, dalle persone nei quali egli da sempre ha creduto in maniera assoluta: a spingere l’uomo fuori della propria casa è un impul so irrefrenabile per il quale importante non è tanto andare in un luogo determinato (raggiungere una meta) quanto non rimane re più nel luogo in cui finora è stato. L a casa, in cui aveva sin qui abitato e che aveva sin qui venerato, diventa ciò da cui fug gire.
54 Sulla universalizzazione, da parte dell’uomo debole, del proprio partico lare criterio di valutazione, cfr. Zur G enealogie der M oral, I, 13-14; HI, 14.
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«Piuttosto morire che vivere qui», così parla la voce imperiosa della seduzione: e questo «qui», questo «a casa» è tutto ciò che fino ad allo ra la giovane anima aveva amato!55 Era stata, quella da cui ora l’uomo fugge, una casa che altri avevano costruito, nella quale egli era nato ed era sempre vissu to, in se stesso di essa accogliendo, come qualcosa di assoluto, i valori che altri, magari in un lontano passato tramandato fino all’oggi, avevano determinato. Ma in realtà l’uomo, in questa con dizione, era «fuori di sé (ausser sich)»56: i valori, in cui egli aveva creduto, erano stati appunto altri, non egli stesso, a determinare. La casa era stato il luogo del suo autoestraneamento: egli era appartenuto ad altri, non a se stesso. Nietzsche ha sottolineato la importanza, ai fini del ritrovamento dell’uomo da parte di se stes so, dell’essere uscito di casa, cioè di essersi sottratto alla sottomissione e alla venerazione nei confronti dei valori già costituiti, per quanto la libertà così conquistata egli eserciti all’inizio in modo selvaggio e solo negativo: egli la esercita, selvaggiamente, contro ciò che finora aveva amato e venerato. Si potrebbe osser vare che proprio questo modo di esercitare la libertà attesta che, in questa fase, l’uomo non è ancora veramente uscito dalla pro pria casa, dall’identico presso il quale da sempre stato: solo che, mentre prima aveva un rapporto positivo con l’identico, ora ha un rapporto negativo con esso. Nella misura in cui, in questa fase, l’uomo determina se stesso solo nella e con la distruzione di ciò in cui prima aveva creduto, egli mostra che alla vecchia dimora - cioè alla sua vecchia identità - è ancora, sia pure in forma nega tiva, rimasto legato. L’uomo che non vuole che allontanarsi dalla propria casa - dalla casa che sin qui ha amato e venerato - , fin ché è dominato da questo proposito, è dunque ancora legato, sia pure negativamente, alla propria casa. Si potrebbe dire che, per uscire veramente dalla propria dimora, egli dovrebbe compiere uno sforzo analogo a quello nel quale, secondo Nietzsche, si deve impegnare chi voglia comprendere la «nostra moralità europea»: 55 Menschliches, Allzumenschliches, I, «Vorrede», 3. 56 Ivi, 5.
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chi vuole comprendere tale moralità deve superare non solo il pro prio tempo, «ma anche la ripugnanza e la contraddizione in cui si è sentito fino a oggi contro questo tempo, il suo soffrire di que sto tempo, il suo non conformarsi al tempo, il suo romantici sm o...»51. In questa fase del processo di liberazione, l’uomo viene descritto come «sempre in cammino, inquieto e senza meta come in un deserto»58. L’uomo non si è ancora precisamente rivolto a qualcosa di diverso dalla propria precedente dimora e con cui sta bilire un rapporto positivo. L’esistenza dell’uomo non si è anco ra definita, positivamente, in rapporto alla alterità (a ciò che non ha ancora vissuto), ma solo, negativamente, in rapporto all’iden tico (a ciò che sinora ha vissuto). Ma il processo di formazione dello spirito libero continua e si conclude con il passaggio dalla immatura libertà della fase selvaggia e negativa alla «matura libertà dello spirito, che è tanto padronanza di sé quanto discipli na del cuore» e che consente all’uomo di «vivere [...] per esperi mento»59, consente cioè all’uomo di realizzare la propria esisten za come dialettica di viaggio e dimora, andando dalla sperimen tazione di una certa realtà alla sperimentazione di un’altra realtà. Può darsi, d’altra parte, il caso (possibilità, questa, che Nietzsche, pure, considera) che l’uomo costruisca egli stesso la propria dimo ra e la consideri, però, assoluta, definitiva. In questo caso si deter mina comunque una forma di autolimitazione delle possibilità del l’uomo, la cui esistenza (come si è visto) si chiude alla possibi lità di ulteriori sue forme di realizzazione.
5. M odernità: il viaggio senza dim ora Nel giudizio dello stesso Nietzsche, l’epoca moderna si con trappone e rende impossibile il suo modo di intendere l’esistenza5789
57D ie fröhliche W issenschaft, 380. 58 M enschliches, Allzumenschliches, I, «Vorrede», 3. 59 Ivi, 4.
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ossia - come e nel senso che si è visto - resistenza come dialet tica di viaggio e dimora. L’epoca moderna un’epoca è una epoca di almeno apparente grande mobilità, caratterizzata da un grande viaggiare (in ogni senso)60. M a qual è, propriamente, il muoversi moderno, il moderno viaggiare? Quando ci si pone questa doman da e nello stesso tempo si pensa a un confronto con quel che Nietzsche osserva sul viaggio, si deve ricordare che il viaggiare nietzscheano è un viaggiare che prevede delle soste - e che, per Nietzsche, anche quando si sosta si continua a viaggiare. Il viag gio nietzscheano prevede il dimorare. Si dimora (nel senso nietz scheano) nell’età moderna? Nietzsche paragona il modo moderno di fare esperienza al modo in cui il viaggiatore di un treno guarda e conosce pae saggi e popoli61: paesaggi e popoli il viaggiatore del treno cono sce guardandoli dal finestrino, cioè in lontananza e velocemen te. Il modo moderno di fare esperienza dell’uomo è caratteriz zato dalla velocità: la velocità della esperienza determina, poi, un mezzo o falso giudicare e sentire62, dunque - poiché giudi care e sentire sono condizioni dell’esperienza - una mezza o falsa esperienza della realtà. Nella età moderna, dunque, si corre e, se si vuole riprendere il termine del viaggio, si dirà che, nella modernità, viaggiare è correre63. Il modo moderno, caratteriz zato dalla velocità, di fare esperienza non è solo, d’ altra parte, l’effetto della organizzazione moderna della vita individuale e sociale basata su ritmi più veloci di quelli delle epoche prece denti, ma anche l’effetto di un fenomeno, pure sottolineato da Nietzsche (e con tale organizzazione della vita forse in qualche modo sostanziale collegato), della estrema impressionabilità e reattività dell’uomo moderno, della sua incapacità di non rea60 Cfr. R. B odei, Navigatici vitae: la m etafora della esistenza come viaggio, p. 44. 61 Menschliches, Allzumenschliches, I, 282. 62 Ibidem. 63 Sugli aspetti di velocizzazione dell’esistenza nel mondo contemporaneo, cfr. la rappresentazione che ne dà Heidegger all’inizio del saggio su L a cosa (M. Heidegger , Vorträge und Aufsätze [tr. it , pp. 109-10]). Cfr., inoltre, P. V irilio, L ’orizon négatif. E ssai de dromoscopie.
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gire agli stimoli64, che sappiamo già essere caratteristica del l’uomo debole in generale. L’esperienza dell’uomo ha acquisito sempre più i tratti di un correre involontario e incontrollato da una esperienza all’altra, di un velocissimo sfiorare o piuttosto lasciar si sfiorare dalle cose, di un prodursi e dileguare rapidi e incessanti di eventi, parole, rapporti, ricordi, desideri, immagini. Si potreb be allora dire - per esprimere questa situazione nei termini metaforici del viaggio e della dimora quali momenti della dialet tica nietzscheana della esistenza - che è la dimensione del dimo rare che, nella età moderna, entrata in crisi: l’elemento per il quale, in tale dialettica, il viaggio porta, di volta in volta, a un luogo par ticolare, presso il quale ci si ferma per scoprirne e viverne suc cessivamente i diversi aspetti e potenzialità, per realizzarne un approfondimento multidirezionale, in questo senso per continuare a viaggiare (per continuare a viaggiare nello stesso luogo in cui ci si fermati), ciò che nella modernità è entrato in crisi. Nella modernità si viaggia, si va verso e attraverso la alterità: ma il fatto - negativo - è che si viaggia velocemente, si va velocemente verso e attraverso la alterità. Il limite del viaggiare moderno è il rapporto veloce che esso determina con la alterità. La velocità del rapporto consente una moltiplicazione inverosimile di esperienze. M a proprio qui è la «malattia moderna»: essa consiste in un «eccesso di esperienze»65. Dice ancora Nietzsche al riguardo: «I giovani si lamentano spesso di non aver fatto esperienze, mentre soffrono proprio per averne fatte troppe: è questo il culmine della moderna inconsistenza intellettuale»66. Nella modernità si viaggia troppo, ovvero si fanno troppe esperienze, ovvero ancora dell’al terità verso la quale di volta in volta si va non si fa mai nessuna vera esperienza: l’«eccesso di esperienze» significa appunto che si fanno tante esperienze senza approfondirne nessuna. Nella modernità si viaggia soltanto, si viaggia senza fermarsi, senza veramente fermarsi, cioè senza fare nessuna esperienza radicale o radicata di nessun luogo che si incontra nel proprio cammino: ma 64 N achgelassene Fragm ente H erbst 1887 bis M ärz 1888, 10[18]. 65 N achgelassene Fragm ente 1876 bis Winter 1877-1878, 17[51], 66 Ivi, 18 [22],
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non è appunto questo il viaggio in senso nietzscheano. Viaggiare senza fermarsi è, propriamente, correre: è il correre proprio del l’uomo moderno. Questa situazione non toglie, d’altra parte, che, al di sotto del livello del moderno viaggiare senza soste, operino tuttavia strutture e meccanismi concettuali, psicologici, affettivi più stabili, sia pure storicamente determinati (strutture e mecca nismi che non rimandano solo o necessariamente ai «tratti impres si da molti millenni» nell’uomo, dei quali, si è visto, parla Nietzsche, ma che - come, del resto, Nietzsche ha ben dimostra to, in tutta la sua opera, di sapere - possono essere il frutto di tra dizioni culturali più circoscritte, o di operazioni organizzate di creazione del consenso a fini di conservazione dei sistemi socia li), che non vengono raggiunti da nessuna forma di consapevo lezza e di critica, strutture e meccanismi che rappresentano un dimorare come semplice immobilità, un dimorare diverso da quel lo, collegato al viaggio, di Nietzsche, cioè diverso dal dimorare come viaggio nell’identico. È anzi forse proprio questa la condi zione dell’uomo moderno (e, potremmo aggiungere, e a maggior ragione, contemporaneo): la condizione di un essere caratterizza to da un massimo di rigidità e da un massimo di evanescenza: da un lato, da strutture e meccanismi concettuali, psicologici, affetti vi, mai messi in discussione, dall’altro, da rapporti fuggevoli e impressionistici con la realtà.
Ili
i
Capitolo terzo Amore-passione e amore
Prem essa
Nell’opera di Nietzsche il problema dell’amore ha un posto ben preciso che non può essere ignorato o sottovalutato. Dicendo questo, non ci riferiamo solo alle analisi che, in termini genealo gici e critici, Nietzsche conduce dell’amore cristianamente inteso (è forse l’aspetto più noto della sua riflessione sul concetto di amore). Ci riferiamo anche alla sua analisi di ciò che si dice (e Nietzsche stesso definisce) amore-passione1. Ci riferiamo, ancora, al concetto di amore che, prendendo le distanze, insieme, dall’a more cristiano e dall’amore-passione, positivamente egli prospet ta. Non è esagerato affermare che, attorno al motivo dell’amore nella molteplicità degli aspetti che in Nietzsche esso presenta, sarebbe possibile ricostruire alcune delle posizioni più tipiche e caratterizzanti della riflessione nietzscheana in ordine ai problemi della libertà e della identità personali e dei rapporti interpersona li di potenza, quanto dire su alcuni dei temi fondamentali del pen 1 Sull’ amore-passione, cfr. G. S immel, Fragmente und Aufsssssätze. Aus dem N ach lass und Veröffentlichungen d er letzten Ja h re ( S u ll'am o re ); D. de Rougemont, U amour et l ’Occident (L ’amore e l'Occidente. Eros morte abban dono nella letteratura europea)', R. B arthes, Fragments d ’un discours amoreux (Frammenti di un discorso amoroso); M. L uhmann, Liebe als Passion. Zur Codierung von Infinität (Amore come passione); O. Paz , U am a doble (La dupli ce fiamma. Amore e erotismo).
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siero nietzscheano: nello stesso tempo, l’indagine di Nietzsche sull’amore offre utili e interessanti chiarimenti e determinazioni su quei temi, che essa mostra all’opera nel contesto particolare o nei contesti particolari rappresentati dalla situazione del rapporto d’amore. Nelle pagine che seguono prendiamo in esame, in par ticolare, la analisi nietzscheana dell’amore-passione nelle due forme fondamentali che di esso Nietzsche individua: l’amore come volontà di identificazione con l’altro, l’ amore come volontà di possesso nei confronti dell’altro. Entrambe le forme dell’amore-passione configurano, per Nietzsche, una condizione di aliena zione per l’uno o per l’altro o per entrambi i soggetti coinvolti nella relazione d’amore. In altri termini, Nietzsche mostra il deter minarsi della possibilità della alienazione nella stessa situazione d’amore, ove l’amore sia inteso in un certo modo, ossia (per esem pio) nel modo dell’amore-passione. Nelle pagine che seguono si accenna, però, anche, all’idea di amore che, in alternativa all’a more cristiano e all’amore-passione, Nietzsche propone. L’idea nietzscheana di amore si può anche ricavare, del resto, indiretta mente, almeno per qualche suo tratto, dalla stessa critica di Nietzsche all’amore cristiano e alTamore-passione. Dal punto di vista di Nietzsche, amare l’altro significa com prendere e gioire per la differenza che l’altro è, ossia per il fatto che l’altro è quello che è nel suo essere particolare, diverso dal l’essere di tutti gli altri: C he altro è l ’ am ore se non com prendere e gioire che un altro viva, a g isc a e senta in m aniera diversa e op po sta alla n ostra? Per poter su pe rare i contrasti con la gioia, l ’ am ore non li deve sopprim ere né negare2. 2 M enschliches, A llzum enschliches, II, «V erm ischte M einungen und Sprüche», 75. Ha osservato Deleuze che quel che Nietzsche afferma è il «dive nire» e il «molteplice» come affermazione della «Terra», della «vita»: il diveni re e il molteplice sono proprio ciò che il nichilismo nega: «Ciò che il nichili smo condanna e si sforza di negare non è tanto l’Essere, poiché l’Essere, come è ormai noto, assomiglia come un fratello al Nulla. È piuttosto il molteplice, il divenire. Il nichilismo considera il divenire come qualcosa che deve espiare e che deve essere riassorbito nell’Essere; il molteplice come qualcosa d’ingiusto, che deve essere giudicato e riassorbito nell’Uno. H divenire e il molteplice sono
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Amare è comprendere e gioire per la differenza che l’altro è senza cercare, tuttavia, di essere come l’altro, ma mantenendo la propria identità e stabilendo semmai una dialettica tra la propria identità e la identità dell’altro. Amare è gioire per la differenza dell’altro, ma senza ridurre sé alla differenza che l’altro è. Ridurre sé all’altro sarebbe forse solo il segno di un mancato amore per se stessi. Se amare è comprendere e gioire per la differenza che F altro è, si può allora dire che amare è comprendere e gioire per il bene dell’altro, che si può ammettere consiste nella realizza zione del suo essere proprio, ossia della sua differenza, alterità particolare rispetto a tutti. Chi ama vuole che l’altro sia se stesso ossia sia la differenza che, rispetto a tutti gli altri esseri, esso è. Chi ama - potrebbe essere questa una implicazione dell’amore nel senso di Nietzsche - ha cura di garantire e preservare l’altro nella differenza che, rispetto a lui e a tutti, esso rappresenta. Dal punto di vista di Nietzsche, né l’amore come identifica zione con l’amato né l’amore come possesso dell’amato (forme diverse dell’amore-passione) né, per altro verso, l’amore cristiano corrisponde alla definizione, appena richiamata, dell’amore, per la quale chi ama comprende, gioendo, l’altro nella sua differenza, senza rinunciare alla propria differenza nei suoi confronti. Per quel che riguarda l’amore cristiano, esso viene respinto da Nietzsche nella misura in cui è legato ed è parte di una strategia che - ori ginata dal risentimento di chi vive una condizione di inferiorità rispetto alla condizione di superiorità o grandezza di altri, e dalla conseguente volontà di eguaglianza di chi tale risentimento prova colpevoli, questa è la prima e l’ultima parola del nichilismo. Così sotto il domi nio del nichilismo la filosofia ha come impulsi dei sentimenti tetri: uno “scon tento” , non si sa di quale angoscia, quale inquietudine del vivere - un oscuro sentimento di colpevolezza. A l contrario, la prima figura della transvalutazione eleva il molteplice e il divenire alla più alta potenza: essi ne fanno l’oggetto di una affermazione. E nella affermazione del molteplice c’ è la gioia pratica del diverso» (G. D eleuze, Nietzsche, pp. 29-30 [tr. it., pp. 36-7]). Se teniamo pre sente la definizione riportata che Nietzsche dà dell’amore, possiamo dire, sulla base della osservazione con cui si conclude il brano di Deleuze appena citato («E nella affermazione del molteplice c ’è la gioia pratica del diverso»), che l’ a more è il contrario del nichilismo: è ciò che è negato dal nichilismo così come il nichilismo è ciò che è negato dall’amore.
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- mira non ad apprezzare ed esaltare la differenza che ciascuna potenza individuale rappresenta - le potenze individuali in quel che ciascuna di esse ha di proprio e di specifico - ma ad unifor mare tutte sul metro della potenza dei deboli, assunta come crite rio di valore universale e assoluto. Contrariamente a quel che appare, l’amore cristiano, per Nietzsche, è ben lontano dall’esse re realmente amore di tutti se amore di tutti vuol dire amore di ciascuno nella sua differenza, ma è, per un essenziale aspetto, negazione delle differenze che gli altri sono: una negazione che, nata dall’odio del più debole per la superiore potenza altrui e dal l’odio di sé in quanto più debole di fronte a tale superiore poten za - arriva ad esprimersi come condanna definitiva di alcune par ticolari espressioni individuali di potenza, ossia di quelle espres sioni di potenza che rappresentano altrettante condizioni di supe riorità o di grandezza di altri nei suoi confronti.
1. Identificazione Nietzsche individua la possibilità della alienazione nella stes sa situazione dell’amore. Tale possibilità dipende dall’idea che dell’ amore si ha, dal senso in cui il rapporto d’amore è interpre tato e vissuto: L ’ am ore v u ole risparm iare a ll’ altro, al qu ale si co n sacra, ogn i senso di estraneità ( F r e m d s e i n ) , conseguentem ente è tutto un fin gere ed un assim ilarsi, un continuo ingannare e recitare la co m m edia di un’ e gu ag lia n za ch e in realtà non e siste [...] Q u esto p ro ce sso è sem plice, quando uno d ei du e s i la sc ia am a re e non trova n ecessario fingere, piut tosto lo la sc ia fare a ll’altro, a colui che am a: m a quando entram bi sono com pletam ente invaghiti l ’uno d ell’ altro, e quindi ognuno rinuncia a se ste sso e vu ole farsi eg u ale a ll’ altro e a lui so lo , non c ’ è co m m edia più ingarbugliata e im penetrabile; e alla fin e nessun o sa più che c o sa deve imitare, a ch e sc o p o deve fin gere, p er chi deve sp acciarsi. L a b ella assur dità di questo spettacolo è troppo perfetta p er qu esto m ondo e troppo sottile p er occh i um ani3. 3 Morgenröthe, 532.
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Riferendosi a una certa idea dell’amore, Nietzsche osserva, dunque, che chi ama cerca di essere come l’altro - l’amato - non volendo egli per l ’ altro rappresentare qualcosa di estraneo. L’amante pensa di andare incontro all’amato, rendendogli la vita semplice, comoda, per lui togliendo le difficoltà, le asperità, gli ostacoli costituiti o implicati dall’impatto con la diversità, con la differenza ed estraneità che, per l’amato, egli, l’amante, comun que rappresenta. Ciò è forse già il segno di un certo modo gene rale di intendere e impostare il rapporto con l’altro - sviluppato appunto nel segno della reciproca comodità. L ’io dell’amante cerca di farsi eguale aH’io dell’amato, di diventare il suo doppio, il suo specchio, la sua conferma - un doppio, uno specchio, una conferma che valgono a rassicurare, o a esaltare e lusingare, l’a mato. Nietzsche parla di finzione a proposito della eguaglianza che l’ amante cerca di stabilire tra sé e l’ amato: si tratta di una fin zione di eguaglianza perché ognuno dei soggetti della relazione amorosa è, alla fine, diverso dall’altro. E, tuttavia, nella misura in cui si impegna nel cercare di essere come l’altro - e per quanto parziale o artificiosa possa essere l’eguaglianza che con l’amato realizza - l’amante si allontana o distrae da se stesso, rinuncia a se stesso, alla coltivazione di quelle che sono le sue più proprie tendenze e aspirazioni. Sarà pure più o meno artificioso il risul tato - l’eguaglianza con l’altro - di tale impegno, reale sarà però la volontà di rendersi all’altro eguale, ossia di rinunciare al pro prio io particolare. Reale sarà la volontà di dipendenza e la dipen denza stessa dell’amante dall’amato: in tale volontà di rendersi eguale, di identificarsi con l’altro, è da vedere, infatti, una forma di dipendenza nei suoi confronti. Nietzsche osserva anche - si è visto - che, finché a volersi fare eguale all’altro è solo uno dei soggetti della relazione d’amore, la situazione (per quanto alienante, spersonalizzante) è semplice. La situazione si complica e diventa paradossale e forse anche comi ca quando a Volersi fare uguale all’altro è ciascuno dei soggetti della relazione. In questo caso l’uno cerca di essere come l’altro che cerca di essere come l’uno: l’uno si sposta in un luogo - quel lo del modo d’essere, delle idee, dei valori, ecc. dell’altro - che l’altro contemporaneamente abbandona per spostarsi in un altro 117
luogo - quello del modo d’essere, delle idee, dei valori, ecc. del l’uno. L’uno e l’altro si scambiano semplicemente le parti (sia pure solo formalmente), ma, proprio per questo, non si incontra no mai. Forse, allora, essi si incontrano, si riconoscono, si identi ficano l’un l’ altro proprio riconoscendo e apprezzando, ciascuno di loro, nell’altro, la volontà di essere come lui (ma quando tale riconoscimento avvenga, come si sviluppa poi il rapporto? ognu no cercherà ancora di essere come l’altro?) In un aforisma di Umano, troppo umano, Nietzsche dà anche un’altra spiegazione della volontà di identificazione dell’amante con l’amato: Si dimenticano molte cose del proprio passato e le si scaccia di pro posito dalla mente: cioè si vuole che la nostra immagine, che irraggia dal passato verso di noi, ci inganni, lusinghi la nostra presunzione - noi lavoriamo continuamente a questo inganno di noi stessi. E ora credete voi, che tanto parlate e decantate 1’«obliar se stessi nell’amore», lo «scio gliersi dell’io nell’altra persona», che ci sarebbe qualcosa di sostanzial mente diverso? Dunque si infrange lo specchio, ci si immagina in un’al tra persona che si ammira, e si gode poi la nuova immagine del proprio io, anche se la si chiama col nome dell’altra persona - e tutto questo procedimento non sarebbe inganno di sé, non sarebbe egoismo, gente strana!4 Come rimuoviamo il nostro passato o quella parte di esso il cui ricordo darebbe, a noi o agli altri, una immagine di noi nega tiva, così la nostra identificazione nell’essere amato ha lo stesso significato di rimozione di una immagine di noi negativa e di pro posizione di una nostra immagine diversa e positiva. L ’amante identifica sé nell’essere amato, ma l’essere amato è un essere in realtà da lui diverso, in particolare un essere che, per le sue carat teristiche, diverse da quelle dell’amante, viene fatto dall’amante oggetto di ammirazione, e nel quale l’amante gode immaginare di potersi identificare. L’amante gode nell’immaginare (e cercare) di essere come l’amato appunto perché tale identificazione - l’iden4 M enschliches, A llzum enschliches, II, «V erm ischte M einungen und Sprüche», 37.
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lil'icazione con un essere ammirevole - gli offre una immagine positiva, alla quale aspira, di sé. L’amore per l’altro nasce qui in fondo da una non sufficiente considerazione di sé o addirittura da un disprezzo di sé e dalla volontà di una propria nuova apprez zabile identità: identità che si ritrova in un altro - nell’essere amato -, in un altro nel quale, per questo, ci si identifica, nel quale, per questo, si annulla la propria identità, un essere che anche per questo, o forse solo per questo, si ama. La identifica zione, che ha qui luogo nella relazione d’amore, non indica un processo di reciproca convergenza dei soggetti della relazione in qualcosa, ma quello della riduzione di un soggetto (l’amante) all’altro (l’amato): di un soggetto, che non apprezza, o disprezza, se stesso, la propria identità, a un altro, la cui identità è da lui ammirata e con la quale egli vuole coincidere. Chi ama l’altro qui in realtà è ancora di sé che si sta occupando: l’identificazione con l’altro - nella quale fa consistere il suo amore o almeno una signi ficativa espressione di esso - gli offre la possibilità di una cura della sua propria immagine, la possibilità del rinvenimento di ragioni per essere soddisfatto di sé. Nell’amore, la reale immagi ne, la reale conoscenza (o quel che si pensa sia la reale immagi ne o conoscenza) di sé sono rimosse: ci si costruisce e ci si pre senta come l’altro che si ammira e rispetto al quale si è in realtà diversi. Rinuncia reale al proprio io reale (lo specchio infranto) e identificazione immaginaria con l’essere che si ammira: ciò si verifica in questo modo di intendere la relazione d’amore. È forse alla luce di quel che emerge dall’aforisma di Umano, troppo umano che va perciò interpretato il seguente frammento: A utodistruzione, autodivinizzazione, autodisprezzo - in ciò consiste tutto il nostro giudicare, am are, disprezzare5.
L’amore è posto in corrispondenza della autodivinizzazione: l’amore per l’altro consiste in una autodivinizzazione, il fine del l’amore per l’altro è la propria autodivinizzazione.
5 Nachgelassene Fragmente Frühling 1878 bis November 1879, 27[81].
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Il fatto che nell’altro si cerchi l’essere a sé superiore, nel quale identificarsi, può spiegare (o almeno contribuire a spiegare) anche la idealizzazione dell’altro che si riscontra nella relazione d’amo re (in una certa specie o interpretazione della relazione d’amore), 10 sforzo con cui la immaginazione dell’amante cerca di rendere l’«altra persona«, la persona oggetto d’amore, «la più bella pos sibile»6. Si cerca una nuova e positiva immagine di sé e si vuole essere sicuri di ciò con cui ci si deve identificare: al suo limite estremo, questa ricerca e questa esigenza si caratterizzano come ricerca ed esigenza di un sé immaginario assolutamente superio re al sé reale, di un sé che rasenta la perfezione o è senz’altro per fetto. Questa ricerca e questa esigenza portano a idealizzare l’al tro. L’altro, nel quale ci identifichiamo per avere una immagine positiva di noi, deve essere tanto più perfetto quanto più, agli altri e a noi stessi, vogliamo dare una immagine positiva di noi. Si è detto della tendenza idealizzante, su cui Nietzsche si sofferma, dell’amore (di una certa specie o interpretazione dell’amore). Tendenza idealizzante dell’amore: quanto dire tendenza dell’amo re contraria alla esigenza di una conoscenza vera dell’amato. Aggiungiamo a questo punto che, per Nietzsche, Più d ell’ am ore è stato il tim ore a prom uovere l ’ universale approfon dim ento co n oscitivo d ell’ esse re um ano; il tim ore, infatti, v u ole divinare chi è l ’ altro, che c o sa p uò, che c o sa h a in anim o: ingannarsi su questo punto costituirebbe un pericolo e un danno. L ’ am ore, viceversa, h a un im pu lso segreto a vedere n ell’ altro co m e p ossib ili le più belle co se del m ondo, o ad innalzarlo più in alto p ossib ile: ingannarsi a questo riguar do sarebbe p er e s so un piacere e un van taggio - e co sì fa 7.
Per quel che riguarda l’amore come identificazione quale risul ta dalla analisi di Nietzsche, si possono forse distinguere due casi: 11 caso dell’amante che si identifica in quel che l’altro realmente è (un essere che realmente possiede le qualità ammirate dall’a6 Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 4[281], 7 Morgenröthe, 309. Cfr. anche Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 4[280] e 4[281], Sulla genesi della conoscenza dalla paura, cfr. Morgenröthe, 142.
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mante) e il caso dell’amante che si identifica nell’altro idealizza to, idealizzato dall’amante stesso (e per quanto ammirevole per le sue reali qualità l’altro possa già essere). L’idealizzazione è una l'orma particolare di immaginazione, che, nella situazione partico lare del rapporto d’amore analizzata da Nietzsche, consiste nella costruzione dell’altro (l’essere amato) come un essere più o meno perfetto o in ogni caso dotato delle migliori qualità possibili. Nei due casi che si sono appena indicati, c’è, comunque, qualcuno che rinuncia a se stesso, nell’altro trovando il fondamento del proprio essere, il modello cui conformarsi, in cui identificarsi: nel primo caso, in quel che l’altro (l’amato) è, nel secondo, in quel che l’uno (l’amante) immagina che l’altro (l’ amato) sia. A proposito di immaginazione o idealizzazione e di identifi cazione nella relazione d’amore, ricordiamo una situazione parti colare rilevata da Nietzsche. Egli scrive: «per amore le donne diventano veramente tali, quali esse vivono nell’immaginazione degli uomini da cui sono amate»8. Non sappiamo se gli uomini, di cui Nietzsche qui parla, si siano identificati nelle donne che amano o, meglio, con la immagine che delle donne che amano essi si sono costruita. Sappiamo, invece, che le donne, di cui Nietzsche qui parla, si identificano, per amore, con la immagine che di loro gli uomini, che le amano, hanno costruito. La donna che, oltre ad essere amata, a sua volta ama, si identifica, in quan to amante («per amore»), non con il suo amato, ma con la costru zione che di lei l’amante si è fatta. Quella dell’amore come identificazione con l’amato è una idea di amore che Nietzsche mostra di non condividere perché scrive: D obbiam o proibirci di diventare l ’ ideale di un altro: in tal m odo, costui sperpera l ’ energia p er p lasm are a se stesso il su o ideale p ecu lia re (sich se lb e r sein gan z eigen es Id e a l zu bilden), lo induciam o in erro re e lo allontaniam o d a se ste sso - dobbiam o fare di tutto p er illum i narlo o cacciarlo via. U n m atrim onio, una am icizia dovrebbe essere il m ezzo (raro!!) di fortificare il nostro proprio ideale con un altro ideale: dovrem m o vedere anche l ’ ideale d ell’ altro e alla su a luce il n ostro!9 8 Menschliches, Allzumenschliches, I, 400. 9 Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[191].
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Identificarsi nell’ amato significa negare a se stessi la possi bilità - che invece va assicurata - di «plasm are» il proprio «ideale peculiare», definibile sulla base del proprio essere par ticolare, delle aspirazioni, dei bisogni, delle tendenze particola ri del proprio essere particolare. Dal punto di vista di Nietzsche, non si tratta di chiudersi all'«ideale peculiare» che altri posso no rappresentare, ma non si tratta nemmeno di ostacolare e cen surare in ogni modo il proprio «ideale peculiare»: si tratta di confrontare il proprio ideale con l’ideale altrui, proprio in que sto modo arricchendolo e consolidandolo nella sua individuale peculiarità. L ’ amore in senso nietzscheano è proprio qui. L’amore nel senso di Nietzsche non rappresenta e non implica né una negazione dello specifico essere altrui (come accade nel l’amore come volontà di possesso: cfr. paragrafo successivo) né una negazione del proprio specifico essere (come accade nella volontà di identificazione di sé con l’ altro). Se Nietzsche definisce l’amore una gioia per la differenza altrui, tale gioia - cioè l’ amore stesso - non è legata alla aspirazione ad e sse re come gli altri, ma a quella (come si è visto) a rafforzare la propria identità nel confronto con la diversa identità altrui. Mantenere la differenza altrui e la propria e accendere una dia lettica tra queste due realtà: questo vuole l’amore nel senso di Nietzsche.
2. P o sse sso L’ osservazione di Nietzsche sulla identificazione dell’ aman te con l’amato - identificazione finalizzata alla autogratifica zione e autocelebrazione dell’amante - mostra una delle espres sioni o degli aspetti del rapporto, che Nietzsche ritiene di indi viduare, fra egoismo e amore, rapporto alla luce del quale - nel suo giudizio - è interpretabile l’amore o, meglio, una certa idea o certe idee diverse dell’ amore (dall’ amore-passione all’ amore cristiano). Oltre che nell’ amore come volontà di identificazio ne con un essere ammirevole, l’ egoismo si presenta, e insieme si nasconde, sotto altre forme, in altre situazioni. C ’è l’egoism o 122
racchiuso nell’amore di chi ama per superare l’invidia10, ama l’altro per non soffrire a motivo della superiorità dell’altro: la superiorità dell’altro lo offende nella sua aspirazione egoistica ad essere lui superiore agli altri o, almeno, a non essere loro infe riore. C ’è l’egoismo di chi ama per vanità, perché l’essere amato, per le sue particolari qualità, consente all’ amante di soddisfare la sua vanità, brillando per così dire di luce riflessa, ai propri occhi o agli occhi del mondo. Così in due aforismi Nietzsche successi vamente osserva: L e don n e am an o p er lo più un uom o im portante in m o do d a voler lo avere tutto p er sé. Volentieri lo m etterebbero in clau su ra se la loro vanità non le d issu ad esse : qu esta vu ole che egli app aia im portante anche di fronte a g li altri11. In un u o m o le donne notano facilm ente se la su a an im a è g ià occu pata; e s se v o g lio n o essere am ate sen za rivali e gli rim proverano gli scop i della su a am bizio n e, i suoi com piti politici, le su e scienze ed arti, se egli ha una p a ssio n e per tali cose. A m eno che per e sse egli non brilli - allo ra speran o, nel c a so di un legam e am oroso con lui, di brillare, anche loro, di p iù ; qu ando le co se stanno così, favoriscon o l ’ am ante12.
C ’ è l’ egoismo dei componenti di una coppia, ciascuno dei quali pretende di essere lui quello che dev’essere amato13. C ’è, ancora, l’egoismo di chi predica l’amore - l’amore come dedi zione all’altro - perché dell’aiuto dell’altro ha bisogno14. C ’è, infi ne, l’ egoismo di chi vuole possedere l’essere amato a lui impe dendo il godimento di altri esseri che non siano l’amante e ad altri esseri che non siano l’amante stesso il godimento dell’amato.
10 M en sch lich es, Allzum enschliches , II, «Vermischte M einungen und Sprüche», 351. 11 Ivi, I, 401. 12 Ivi, 410. 13 Ivi, 418. 14 Cfr., p er esempio, Nachgelassene Fragmente Anfang 1888 bis Anfang Jan u ar 1889, 15[110],
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Nietzsche si sofferma sull’egoismo dell’amore-possesso, che è un modo d’essere, poi, dell’amore-passione. Egli scrive: L 'am o re co m e p assion e è il d esid erio d i p oten za a sso lu ta su di una p erso n a (Verlangen n ach a b s o l u t e r M a c h t ü b e r e i n e P e r s o n ) : p er esem pio voler essere l ’oggetto unico d ei pensieri e dei sentimenti. L ’ am ante non vede il resto del m ondo e sacrifica tutti gli altri interessi a qu esta sete di potenza. C redere di essere am ati porta con sé un sen so di profon do appagam ento: «V eniam o sentiti com e una poten za a sso lu ta !»15.
Chi ama secondo l’amore passione riduce le possibilità di rela zione e di significato della esistenza per l’essere amato: per l’a mante, l’amato non può orientarsi, nella propria esistenza, in dire zioni che non siano quelle lungo le quali si trova l’amante stes so. Chi ama secondo l’amore-passione vuole diventare l’oggetto esclusivo dei pensieri e dei sentimenti dell’amato. Si può parlare di un sacrificio dell’amato - del sacrificio di sue possibilità di vita - cui l’amante vuol costringere l’esistenza dell’amato. Si può par lare di sacrificio dell’amato, dunque, sebbene - si può aggiunge re - l’amato stesso possa non esserne consapevole. Del resto, Nietzsche parla, nel brano citato, di sacrificio anche dell’amante, il quale sacrifica ogni suo altro interesse al desiderio di possesso nei confronti dell’amato. L’amante, per questo aspetto, riduce le possibilità di relazione e di significato della propria stessa esi stenza (oltre che dell’esistenza dell’amato). Tutti gli altri che non siano l’amato sono, a loro volta, sacrificati dall’amante che non beneficherà che l’amato soltanto: L ’ am ore, che riserva a uno so lo ciò che spetta a molti, è ciò nono stante esaltato com e una poten za contraria a ll’egoism o: co sì co m e e sso a p p a re a prim a v ista e perché vu ole beneficare. Tuttavia: e sso so ttrae a tutti gli altri uom ini e oggetti qu asi tutto l ’interesse e lo concentra su di uno solo; la su a con segu en za dunque, considerata com plessivam ente, è un non fare il b en e16.
15 Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[54]. 16 Ivi, 6[446],
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Possiamo qui ricordare anche la seguente osservazione di Nietzsche: l’am ore verso un so lo essere è una barbarie: e sso infatti si esercita a detrimento di tutti g li altri17.
Nietzsche parla della «infinita bramosia di possesso dell’amo re» e, sulla base di essa, spiega la durata dell’amore. La brama di possesso non trova facilmente, nella situazione dell’amore, piena soddisfazione perché il suo oggetto - l’essere amato - offre sem pre aspetti di sé sconosciuti sui quali, vorace, essa si protende: Il lu n go am ore è p o ssib ile — anche s e è fe lic e - p erch é n on è fa c i le p o ssed ere fin o in fon d o, co n q u istare fin o in fo n d o , u n a p e rso n a si aprono sem p re n uovi a b issi e sp a z i n asc o sti non a n c o ra sc o p erti, d ell’ anim a, e anche v e rso q u esti s i proten de l ’ in fin ita b ra m o sia di p o s se sso d e ll’ am ore. - M a l ’ am ore fin isc e non a p p en a se n tiam o un e s s e re co m e lim itato. Il conflitto tra p a ssio n e lu n g a e p a ssio n e b re v e n a sc e quando l ’ uno crede d i p o sse d e re fin o in fo n d o l ’ altro, e l ’ altro non ancora - allo ra q u ello si allon tan a, si so ttrae e co n la lo n ta n a n z a e c c i ta ancor più l ’ altro a cercare n u ov i valo ri, d a u ltim o, sp e s so , co n la decision e di u cciderlo p iu ttosto ch e la sc ia rlo diven tare p o s s e s s o d i u n altro18.
La durata di un amore dipende dal darsi di aspetti sconosciu ti, per l’amante, dell’essere amato, aspetti che la brama di pos sesso dell’amante mira a far propri. Si pensa di possedere com pletamente l’essere amato, ma si scopre poi che, per qualche aspetto, a tale possesso l’essere amato sfugge. Ricomincia il pro cesso della conquista, dell’impossessamento. L’amante tende a chiudere da tutti i lati l’amato, sì che esso rimanga, di fronte a lui, ben circoscritto nel suo essere completamente e definitivamente da lui posseduto. Nel momento in cui l’essere amato appare all’a mante «limitato», cioè raggiungibile e raggiunto, esauribile e esau-
17 Jenseits von Gut und Böse, 67. 18 Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 12[194].
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rito, nella varietà dei suoi aspetti, l’amore - in quanto deside rio di possesso - finisce: il desiderio di possesso è stato soddi sfatto. Le parole citate di Nietzsche sottolineano non solo la natura dell’ amore come brama di possesso e il particolare rap porto che, per questa natura dell’ amore, si stabilisce fra amore e tempo, ma anche la forza della brama di possesso che l ’amore è. L a forza di tale brama è mostrata, per un verso, dal fatto che, finché non è appagata completamente, essa non si allontana dal suo oggetto, e, per l’altro, da ciò che, pur di evitare il proprio scacco, essa è disposta a compiere: la brama di possesso nei confronti dell’essere amato è tale che per essa si arriva ad ucci dere l’essere amato «piuttosto che lasciarlo diventare possesso di un altro». È il desiderio di possesso che distingue l’amore (o una certa interpretazione dell’amore) dall’amicizia e pone l’amore in una posizione di inferiorità rispetto all’amicizia: L a pretesa del p o sse sso esclu sivo (aussch liesslich en Besitz ) pone l ’ a m ore m olto al di sotto d ell’ am icizia, che invece perm ette di aver più am ici e a questi, a loro volta, di diventare am ici tra loro19.
L’amore si richiude su se stesso, l’amante isola l’amato, e l’u nità che con esso forma, dal mondo e tiene lontano il mondo dal l’amato e da tale unità. Il mondo è visto dall’amante come cari co di tentazioni per l’amato e, quindi, come fonte di pericoli per la sua unione con l’amato stesso. L’amante procede ad allontana menti ed esclusioni, fa dell’allontanamento e dell’esclusione il suo principio: allontana ed esclude l’amato dal rapporto con il mondo - da un rapporto libero con il mondo - e il mondo dal rapporto con l’amato - da un rapporto libero con l’amato. L’amicizia si caratterizza, invece, per un’apertura. Se l’amante non tollera che l’amato abbia altri amanti (chiude 1’esistenza dell’amato nel rap porto con lui), Lamico accetta che l’amico abbia altri amici. Egli stesso può diventare amico degli amici dell’amico. Se l’amato ha un rapporto esclusivo con l’amante, che lo considera suo posses19 Nachgelassene Fragmente 1876 bis Winter 1877-1878, 18[44].
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so esclusivo, gli amici, invece, si condividono. L’ amore appartie ne all’ordine della esclusione, l’amicizia all’ordine della condivi sione, l’amore appartiene all’ ordine della illibertà, l’amicizia all’ordine della libertà. In un aforisma della G aia scienza, rapporti diversi, a propo sito dei quali comunemente si parla, in maniera indifferenziata, di amore, vengono visti, invece, come forme ed espressioni di una brama di possesso, riferita ad oggetti di volta in volta differenti. Così l’ amore per il prossimo, l’ amore per il sapere e per la verità, l’amore per il sofferente sono forme ed espressioni di una volontà di possesso, attraverso la quale noi trasformiamo «sempre ogni volta in noi stessi qualcosa di nuovo: questo significa appunto pos sedere». Del resto, Poco per volta proviamo fastidio per ciò che è vecchio, posseduto in tutta sicurezza, e ritorniamo a tendere le mani; perfino il più bel pae saggio, dove abbiamo vissuto per tre mesi, non è più certo del nostro amore, e un qualche lido lontano attira la nostra cupidigia; il possesso viene per lo più diminuito dal possedere. In particolare, per quel che riguarda l’amore per il sofferente, Nietzsche osserva; Quando vediamo soffrire qualcuno, utilizziamo volentieri l’occasio ne offerta in quel momento per impossessarci di lui: così fa, per esem pio, il benefattore e il compassionevole; anch’egli chiama «amore» la bramosia suscitata in lui di un nuovo possesso, e vi attinge il suo pia cere, come dall’arridere di una nuova conquista20. La questione verrà ripresa e precisata in un aforisma di Al di là del bene e del male: Tra uomini soccorrevoli e benefici si incontra quasi di regola quella goffa astuzia, che sa soprattutto adattare ai loro fini colui che deve esse re soccorso: come se costui, per esempio, «meriti» aiuto, o desideri pre cisamente il «loro» aiuto, e come se si dimostri per tutti i loro aiuti 20Die fröhliche Wissenschaft, 14.
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profondamente riconoscente, affezionato, sottomesso - immaginandosi queste cose, essi dispongono di chi ha bisogno come di una loro pro prietà, essendo essi soltanto per brama di proprietà gente generalmente disposta a beneficare e a soccorrere21. Si offre il proprio aiuto all’altro solo perché si aspira a otte nerne il sottomesso riconoscimento. Ma, secondo Nietzsche, - tor niamo all’ aforisma della G aia scienza - è soprattutto nell’ «amore dei sessi» che si rivela 1’«impulso alla proprietà». Egli scrive: l’amante vuole l’incondizionato, esclusivo possesso (den unbedingten Alleinbesitz) della persona da lui ardentemente desiderata; vuole un potere assoluto tanto sulla sua anima che sul suo corpo, vuole essere amato lui solo e insediarsi nell’anima dell’altro e signoreggiarvi come il bene più alto e più desiderabile. Se si pone mente al fatto che ciò non è altro se non escludere tutto il mondo da un bene prezioso, da una sorgente di felicità e di piacere; se si considera che l’amante mira ad impoverire e spogliare ogni altro concorrente e che vorrebbe diven tare il drago del suo prezioso tesoro, essendo il più spietato ed egoi sta di tutti i «conquistatori» e i predatori: se si tiene finalmente pre sente che allo stesso amante tutto il resto del mondo appare indiffe rente, pallido, senza valore, e che egli è pronto a fare ogni sacrificio, a sconvolgere ogni ordinamento, a mettere in secondo piano ogni suo interesse; ci si meraviglierà effettivamente che questa selvaggia avi dità di possesso e questa ingiustizia dell’amore sessuale sia stata a tal punto esaltata e divinizzata, come è accaduto in tutti i tempi, e che anzi da questo amore si sia ricavato il concetto di amore come con trapposto all’egoismo, mentre questo è forse proprio l’espressione più spregiudicata dell’egoismo stesso22. Amore - qui come nelle altre forme ed espressioni dell’amore-possesso - è il nome che si dà alla bramosia di possesso, un nome che vale a far passare tale bramosia per qualcosa che essa non è, anzi come il proprio opposto: la bramosia di possesso si nasconde come tale e, nella interpretazione che se ne dà, appare
21 Jenseits von Gut und Böse, 194. 22 Die fröhliche Wissenschaft, 14.
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come amore. Come è possibile, tuttavia, che qualcosa di fonda mentalmente egoistico possa essere scam biato per amore? I .'equivoco è reso possibile dal fatto che, da parte di colui che 'ama’, qualcosa effettivamente viene dato, offerto all’altro in ter mini di cura, affetto, ecc. Solo che qualcosa - e può essere anche moltissimo - viene dato alla condizione, più o meno tacita, di prendere possesso di colui cui si dà, di diventare - come Nietzsche osserva in un frammento precedentemente citato23 e come viene ribadito nell’aforisma della G aia scienza - l’oggetto esclusivo dei pensieri e sentimenti dell’altro. L a bramosia di possesso nei con fronti dell’amato (così come nei confronti di altri oggetti) presen ta, del resto, a seconda degli individui, gradi diversi di intensità. Così della brama di possesso dell’uomo nei confronti della donna Nietzsche scrive: Relativam ente alla donna, per esem pio, per chi è più m odesto g ià il l'atto di disporre del suo corpo e di goderne sessualm ente v ale co m e segno sufficiente e soddisfacente dell’ avere, del p ossedere; altri invece, nella su a sete più diffidente e più esigente di p o sse sso , vedrà il «punto interrogativo», l ’ aspetto so lo apparente di un tale p o sse sso , e vorrà prove più sottili, soprattutto, p er sapere se la donna non soltanto si d à a lui, ma anche è d isposta a lasciare per lui quel che h a o che vorrebbe avere; soltanto co sì e ssa sarà p er lui «p o ssed u ta». U n terzo, p oi, non sarà nep pure in questo m odo al term ine d ella su a diffiden za e d ella su a volontà di p o ssesso , e dom anderà a se stesso se abbandonando ogni co sa p er lui la donna non a g isca forse p er una rappresentazione fantastica che si è l'atta d i lui: e g li vorrà soprattutto essere ben conosciuto nel profondo, anzi nelle su e ste sse a b issali profondità, p er potere in generale essere amato, e o serà lasciarsi indovinare. A vvertirà di p ossed ere interamente la donna am ata soltanto quando ella non si ingannerà più su di lui, quan do lo am erà per il suo satan ism o e la su a occulta insaziabilità tanto quan to per la su a bontà, p azien za e spiritualità24.
Riguardo alla brama di possesso Nietzsche ha sottolineato le difficoltà che si oppongono, in generale, al raggiungimento di un possesso - completo - degli altri: 23 Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6 [54]. 24 Jenseits von Gut und Böse, 194.
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noi com prendiam o sem pre m eglio quanto è d ifficile aver una c o sa e co m e ciò che apparentem ente p ossed iam o riesca sem pre a sfu ggirci sic ché sp ingiam o il nostro avere in form e sem pre più raffinate: alla fin e la conoscenza piena di una c o sa diventa il presupposto p er ottenerla; sp e s so ci b asta g ià la piena con oscen za com e p o sse sso , la c o sa non h a più un angolino dove rim piattarsi, e non può più sfu ggirci25.
Poiché un reale e completo possesso dell’altro è spesso, se non sempre, impossibile, l’uomo fa intervenire la fantasia, con la quale si costruisce qualcosa in modo tale da avere la sensazione di pos sederlo in modo pieno: così fa « l’amante con l’amata, il padre con il figlio»26. La fantasia, d’altra parte, interviene anche a un altro livello e in un altro senso. L a volontà di possesso inizialmente procede a un calcolo approssimativo di quel che essa può effetti vamente ottenere. Possiamo vedere in ciò il realismo della volontà di possesso. In un secondo momento, a favore di tale volontà, interviene la fantasia, questa volta p er renderci estrem am ente p reziosi questi futuri p o sse ssi (anche im pie ghi, onori, relazioni, e co sì via). N o i cerchiam o la filo so fia che s i a d a t ta a l nostro p o sse sso , che cio è lo indora27.
È tenendo conto di questo quadro di considerazioni che Nietzsche svolge sulla volontà di possesso dell’amore che ci si può spiegare l’osservazione secondo la quale «una donna è la creatura che deve amare - e ama - il suo nemico e rapitore»28. D ’altra parte quel che dice dell’uomo nei confronti della donna Nietzsche dice anche, a volte, della donna nei confronti dell’uo mo. Anche alla donna, a volte, Nietzsche finisce cioè per attri buire l’idea dell’amore come volontà di possesso. Si è già visto, infatti, in un aforisma di Umano, troppo umano, Nietzsche rile vare come le donne vogliono loro costituire l’oggetto esclusivo o
25Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, lt[19]. 26 Ibidem. 27 Ibidem. 28 Ivi, 12[55],
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fondamentale della passione amorosa dell’uomo e negli even tuali suoi interessi - scientifici, artistici, politici - vedano altretlanti loro personali rivali, che possono occupare, prendendo il loro posto, i pensieri e i sentimenti delfuom o. Ciò le donne vogliono, a meno che, grazie agli altri interessi dell’uomo - gli interessi che non hanno loro, le donne, come oggetto - esse non abbiano la possibilità di farsi notare, di acquisire una centralità per gli altri, per la società di cui sono parte o l’ ambiente che frequentano. C ’è qui una considerazione strumentale che la donna attua nei confronti dell’uomo, del quale si serve per bril lare agli occhi del mondo. Tornano, nell’ afprisma della G aia scienza precedentemente citato, alcuni temi già visti. Nell’amore-possesso, l’amante isola l’amato dal mondo, privando in tal modo il mondo della possibi lità del libero godimento di «un bene prezioso» e l’amato della possibilità di un libero godimento del mondo. Ma è poi lo stesso amante che finisce per non avere occhi che per l’essere amato e per non avere più interesse per «tutto il resto del mondo». Non solo, dunque, l’amante isola l’amato dal mondo: dal mondo egli finisce per isolare se stesso. In un altro aforisma sempre della G aia scienza, la concezione possessiva dell’amore viene però riferita solo all’uomo, non anche alle donne. Nietzsche parla qui di un «contrasto di natura» tra il modo dell’uomo e quello della donna di intendere l’amore, con trasto che, a suo avviso, non si potrà superare con «nessun con tratto sociale». Quel che la donna intende per am ore, è abbastanza evidente: un per fetto abbandono (non soltanto dedizione) di anim a e corpo, sen za alcun riguardo, sen za alcuna riserva, m a piuttosto con vergogn a e tim ore di fronte al pensiero di un abbandono vincolato a clau sole, legato a condi zioni29.
L’amore della donna si caratterizza per la sua «assoluta rinun cia ai propri diritti», per una «volontà - di rinuncia» al riguardo, rinuncia e volontà di rinuncia che mancano, invece, nell’uomo: 29 Die fröhliche Wissenschaft, 363.
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L a donna vuole essere presa, intesa co m e un p o sse sso , vuole risol versi nel concetto di « p o sse sso » , di «p o sse d u ta »; di consegu en za vuole colui che p ren de , che non si d à e non si dona lui stesso, m a che v ice v ersa deve farsi precisam ente più ricco di « s é » - attraverso un incre m ento di forza, di felicità, di fede, qu ale gli d à la donna donando se stes sa. L a donna si dà, l ’uom o s ’ accresce30.
Se ricordiamo la distinzione che, ne Gli atti d ell’amore, Kierkegaard pone tra l’amore pagano o l’amore del poeta e l’amore cristiano, possiamo notare che l’amore pagano è amore delle qualità dell’amato. Chi ama secondo l’amore pagano non ama tutti, il suo è un amore selettivo: egli ama o amerebbe solo un essere che abbia determinate qualità, delle quali va in cerca31. Kierkegaard osserva che chi ama secondo questo amore può anche arrivare in realtà a non amare nessuno: egli può anche non trovare l’essere con le qualità di cui va in cerca32. Possiamo dire che l’amore-passione, che Nietzsche analizza, corrisponde all’ amore pagano di cui parla Kierkegaard e al quale Kierkegaard contrappone l’amore cristiano come amore indifferenziato per tutti gli uomini, al di là delle differenze delle loro rispettive qualità. In Nietzsche, che è stato un critico del l’idea cristiana d’amore, non si trova, tuttavia, nemmeno una difesa dell’amore-passione, almeno per come esso appare carat terizzato nella illustrazione e nella analisi che egli ne fa. Anzi, per diversi aspetti, esso è fatto oggetto di una forte critica, in quanto presuppone e rappresenta una forma alienata e violenta di rapporto personale. L’amore-passione analizzato da Nietzsche corrisponde, si è detto, all’amore pagano di cui si occupa Kierkegaard. L’amorepassione ha, cioè, anch’esso a che fare con le qualità dell’amato. In realtà, esso ha a che fare pure con le qualità dell’amante. L’amante cerca l’essere ammirevole - ammirevole per le sue qua-
30 Ibidem. 31 S. K ierkegaard , Kjerlighedens Gjeminger (tr. it., pp. 195 e sgg.). 32 Ivi (tr. it., p. 204).
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lilà - che egli si incaricherà poi, anche, eventualmente, di ulte riormente abbellire, assolutizzandolo o idealizzandolo, vedendolo dotato di ogni perfezione o di tutte le cose più belle e desidera bili. D’altra parte, l’amore-passione riguarda anche le qualità dell'amante, sia nel caso che l’amante voglia identificarsi con ra mato le cui qualità egli ammira e determinare, attraverso tale iden tificazione, una immagine positiva di sé che le sue proprie reali qualità non gli consentono di avere, sia nel caso che, come avvie ne nella situazione dell’amore-possesso, l’amante voglia ‘signo reggiare’ nell’anima dell’amato come la cosa di tutte più deside rabile.
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Capitolo quarto La relazione d ’amicizia
1. A m icizia e sto ria Vi è una relazione di alterità sulla quale, con una certa fre quenza, Nietzsche, nella sua opera, ritorna: la relazione di amici zia. Nella riflessione del filosofo essa ha, tra le relazioni di alte rità, un posto speciale: rappresenta una sorta di relazione ideale di alterità, una relazione in cui l’uomo manifesta, in rapporto all’al tro uomo, le sue possibilità più elevate. Si tratta, però, anche, di una relazione di alterità, il cui destino storico è stato, sinora, assai negativo. N ella storia dell’uomo, nella vicenda molteplice e com plessa delle relazioni, che fra loro gli uomini hanno instaurato e tuttora instaurano, è difficile o raro, per Nietzsche, trovare amici zia o, almeno, quello che egli intende per amicizia. Ciò perché la relazione di amicizia nel senso di Nietzsche richiede ed esprime certe condizioni e certe qualità che, secondo il filosofo, è diffici le o raro trovare nell’uomo quale sinora è stato nel suo rapporto verso gli altri uomini. Se si pensa al concetto nietzscheano di ami cizia, ci si accorge, in effetti, che esso è fondato su elementi che rappresentano l’esatto opposto di quello che, per Nietzsche, è stato e continua ad essere il carattere, il segno comune e profondo o più comune e profondo nelle relazioni interpersonali. D a questo punto di vista, l’amicizia si presenta come qualcosa di antistori co, qualcosa di contrario a ciò che la storia ha sinora essenzial mente mostrato essere l’uomo nel suo rapporto con l’altro. 135
L a relazione di amicizia fuoriesce, in primo luogo, dalla logi ca della volontà di dominio nelle forme in cui tale volontà può manifestarsi nelle relazioni di alterità e che vengono effettiva mente prese in esame da Nietzsche: come assimilazione deH’altro a sé (attraverso la imposizione all’ altro di propri modi di vedere e di comportarsi, comunque tale imposizione abbia luogo), come asservimento dell’altro a sé e sua riduzione a strumento di propri fini. L a relazione di amicizia fuoriesce, in secondo luogo, dalla logica della volontà del male (almeno in parte riconducibile, in Nietzsche, alla volontà di dominio). L a relazione di amicizia fuoriesce, in terzo luogo, dalla logica del «sentimento di scambio, contratto, debito, diritto, dovere, com pensazione», dalla logica della ricerca di equivalenti da scambia re tra soggetti diversi, una logica, questa, che «ha preoccupato il primissimo pensiero dell’uomo in una tale misura, che in un certo senso pensare è tutto questo», una logica alla quale risale il «più antico e ingenuo canone morale della giustìzia», il «principio di ogni “bontà d ’animo” , di ogni “equità” , di ogni “buona volontà” , di ogni “obiettività” sulla terra»1. L a relazione di amicizia fuoriesce, in quarto luogo, dalla logi ca della ricerca di una reciproca e assoluta convergenza di pen sieri, sentimenti, comportamenti fra gli uomini, dalla logica della ricerca di una eguaglianza in questo senso tra gli uomini (la rela zione di amicizia fuoriesce anche, quindi, da qualsiasi logica di tipo fusionale, in cui si perdono le caratteristiche proprie di cia scuno dei soggetti della relazione). L a relazione di amicizia fuorisce, in quinto luogo, dalla logi ca della compassione o, almeno, dalla logica di una compassione subito pronta a togliere la sofferenza dal mondo senza fermarsi a vedere se la sofferenza, a volte, non sia necessario mantenere o addirittura determinare in vista di qualche fine, che riguarda il bene di colui stesso che si lascia o si fa soffrire. Alla logica del dominio amicizia oppone parità e libertà dei soggetti della relazione, alla logica della volontà del male oppo 1 Zur G enealogie der M oral, H, 8, p. 322 (tr. it., p. 269).
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ne impegno e cura del bene dell’altro, alla logica dello scambio, del dare per avere, oppone il dare senza chiedere nulla in cambio, il dono, alla logica della ricerca di una assoluta reciproca conver genza e eguaglianza oppone differenza e critica e lotta, alla debo lezza compiacentemente compassionevole per la sofferenza del l’altro oppone fermezza e durezza di fronte all’ altro che e in quan to vuole liberarsi della propria sofferenza (e dunque oppone, anco ra, critica e lotta). Ora, proprio i comportamenti e gli atteggiamenti, rispondenti alla logica del dominio o a quella della crudeltà o a quella dello scambio o a quella della eguaglianza o a quella della facile com passione, e opponendosi ai quali l’amicizia nel senso nietzschea no definisce se stessa, sono stati i comportamenti e gli atteggia menti di gran lunga prevalenti (nella loro diversità e, anche, nel loro vario reciproco intrecciarsi), secondo Nietzsche, nella storia dell’ uomo sino ad oggi. Parlare in difesa di altri comportamenti e di altri atteggiamenti, come accade quando si parla in difesa della amicizia, equivale a parlare contro la storia dell’uomo quale sino ra generalmente si è svolta. L a affermazione nietzscheana relativa alla eccezionalità della relazione di amicizia può sembrare in contrasto con l’uso estre mamente frequente, che gli uomini fanno del termine ‘amicizia’ per qualificare determinate relazioni che essi reciprocamente sta biliscono. Nietzsche forse direbbe che si tratta di un uso sbaglia to del termine, così come egli ha detto circa l’uso del termine ‘amore’ , in genere del tutto impropriamente impiegato a proposi to di relazioni che con l’ amore non hanno molto da spartire. Così, l’ amicizia nietzscheanamente intesa si definisce non solo in oppo sizione alla logica del dominio, della crudeltà, della eguaglianza, della compassione, ma anche in opposizione a un certo concetto comune o tradizionale di amicizia. Se così è, se cioè l’amicizia non ha avuto, è il caso di dire, storia perché la storia, sinora, è andata in un senso diverso e oppo sto rispetto alla amicizia, non è forse senza significato che la sto ria della filosofia abbia, come Nietzsche osserva, generalmente trascurato e in ogni caso non approfondito il problema dell’ ami cizia: la dimenticanza del problema dell’amicizia è stata solo il 137
riflesso della assenza della amicizia dalla realtà delle relazioni umane. Nietzsche individua, nella storia della filosofia, una impor tante eccezione alla tendenza fondamentale: i Greci. I G reci, che sapevan o co sì bene che c o sa sia un am ico - e ssi soli, di tutti i popoli, p o sseggo n o una trattazione profon da, m olteplice e filo so fic a d e ll’ am icizia: sicch é a e ssi p er prim i, e finora p er ultimi, l ’ am ico è app arso un problem a degno di essere risolto2.
Gli antichi credevano tanto nella relazione di amicizia che è propria della antichità « l’obiezione alla vita filosofica, che con e ssa si diventa inutili ai propri am ici». Q uesta obiezione N ietzsche osserva - «non sarebbe mai venuta in mente a un moderno»: segno, questo, che, per l’uomo moderno, la relazione di amicizia non ha quella rilevanza che aveva per l’uomo del l’ antichità: L ’ antichità h a vissuto l ’ am icizia fin o in fon do e con energia, l ’ha com piutam ente pen sata e l ’ h a portata qu asi con sé nella tom ba. È qu e sto il suo van taggio su di noi: al quale abbiam o d a contrapporre l ’ am o re idealizzato dei se ssi3.
Per testimoniare l ’importanza che l ’am icizia ebbe presso gli antichi, per testimoniare, anzi, come, presso di essi, « l ’am icizia fosse ritenuta il sentimento più elevato, superiore perfino alla celebratissim a superbia dei paghi di sé e dei saggi, quasi costi tuisse addirittura l ’unica e ancor più sacra consorella di essa», Nietzsche, in un aforism a di Aurora intitolato «In onore dell ’ am cizia», riporta la storia di quel re m acedone che fece dono di un talento a un filo so fo ate niese spregiator del m ondo e se lo vide restituire. «C o m e ? d isse il re «n on h a costui un a m ico ?». C on la qual c o sa v o le v a dire: «Io rendo onore alla superbia di qu est’ u om o sa g g io e indipendente, m a onorerei m olto di più la su a um anità se in lui l ’ am ico a v e sse riportato vittoria sul 2 M enschliches, Allzumenschliches, I, 354. 3 M orgenröthe, 503.
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superbo. A i m iei occhi il filo so fo si è dim inuito m ostrando ch e ignora uno dei due più elevati sentim enti - e in verità qu ello su p eriore»4.
2. A m icizia e g io ia Per Nietzsche, il prendere parte alla gioia altrui rappresenta un «raro humanum»5. Ora proprio «D prender parte alla gioia, non il prender parte al dolore, fa l’ am ico»6. C oloro che sanno rallegrarsi con noi sono m igliori e ci so n o p iù v ici ni che non coloro che soffron o co n noi. L a com unione n ella g io ia fa l ’a mico (che è colui che si rallegra con noi). L a co m p assion e fa il co m pa gno di sventura. - U n ’etica d e lla co m p assio n e h a b iso gn o di essere inte grata d a una superiore etica d e ll’ am icizia7.
G ià qui emerge la rarità o eccezionalità della relazione di amicizia, che è rara o eccezionale perché rara o eccezionale è, fra gli uomini, la qualità che dalla am icizia è richiesta e in essa si esprime, o ssia la partecipazione alla gioia altrui8. S i può forse notare che della scarsa attitudine dell’ uomo a partecipare alla gioia del prossim o si dovrebbe considerare responsabile, a par tire da un certo momento, anche il cristianesimo, se si tiene conto della osservazione nietzscheana che «L ’ altra faccia della pietà cristiana per i dolori del prossim o è il profondo sospetto per ogni gioia del prossim o, per la sua gioia in tutto ciò che vuole e può»9. D al punto di vista di Nietzsche, l ’ «o dio» cri stiano10 per la gioia del prossim o è l ’odio del sofferente verso chi è contento di sé e che è invitato a guardare egli stesso con sospetto la propria gioia, giacché la vita deve essere per tutti -
4 D ie fröhliche W issenschaft, 61. 5 Menschliches, Allzum enschliches, I, 62. 6 Ivi, 1 ,4 9 9 . 7 Nachgelassene Fragm ente 1876 bis Winter 1877-1878, 19[9]. 191 9 Morgenröthe, 80. 10 D er Antichrist, 21, p. 186 (tr. i t , p. 189).
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non solo per alcuni - sofferenza in quanto espiazione di una colpa che ognuno ha in qualche modo com m esso. Partecipare alla gioia del prossim o è partecipare a qualcosa di improprio, a qualcosa (la gioia) che non deve essere giacché è più giusto che vi sia il suo contrario (la sofferenza). Occorre, d ’ altra parte, sot tolineare il fatto che, per Nietzsche, anche indipendentemente dal cristianesimo, la gioia è stata, sinora, una dimensione fondamentalmene estranea, in generale, all’uomo: l ’uomo non solo non ha partecipato e non partecipa alle gioie dell’ altro - non è am ico dell’ altro - , ma anche è vissuto e vive tenendo se stes so fuori della dimensione della gioia: «D a quando vi son uomi ni, l’ uomo ha gioito troppo p o co »11. Il sapere è stato sinora svi luppato per combattere la sofferenza, non per produrre gio ia12. Promuovere lo sviluppo delle relazioni fra gli uomini nel senso della am icizia significa promuovere lo sviluppo di tali relazio ni nel senso della reciproca partecipazione della gioia, inver tendo il senso che le relazioni interpersonali hanno sinora gene ralmente avuto. S e si im m agina una comunità politica ispirata alla reciproca partecipazione della gioia dei suoi componenti, essa sarebbe, almeno per questo aspetto, una comunità di amici, o ssia il contrario di quel che è stata la comunità politica tradi zionale, fondata o sulla indifferenza ed esteriorità reciproche dei suoi componenti o sulla volontà di dominio e di male o degli uni sugli altri o di tutti su tutti.
3. A m icizia e differenze L ’ amicizia ha a che fare, in Nietzsche, con il rispetto delle dif ferenze, con il rispetto delle differenti identità di coloro tra i quali l’ amicizia ha luogo. «Tu va’ verso oriente: io andrò verso occidente», sentire così è segno di alta umanità nei rapporti più stretti: senza questo sentimento ogni ami
11 A lso sprach Zarathustra, II, «Von den Mileidigen», p. 110 (tr. it., p. 104). 12 N achgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 3[82],
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cizia, ogni rapporto fra m aestro e allievo, fra m aestro e discepolo, diven ta un giorno, quando che sia, ipocrisia13.
L ’ andare dell’uno verso oriente, dell’altro verso occidente è metafora del fatto delle rispettive differenze degli uomini: ma, allorquando non c ’ è solo l ’ andare dell’uno in una direzione (quella sua propria) e dell’ altro in una direzione diversa (quel la sua propria), m a l’uno invita, sollecita, spinge l ’ altro ad anda re nella sua propria direzione, e lavora perché l ’altro vada nella sua propria direzione, e viceversa, anche se ciò dovesse signi ficare il loro reciproco congedo, allora c ’è amicizia. Se l ’uno cerca, invece, di indurre l’ altro a seguirlo sulla sua propria stra da, o viceversa, amicizia, allora, non c ’è: c ’è solo egoism o, pre varicazione, volontà di ridurre l’ identità dell’ altro alla propria identità. Senza la disponibilità, dice Nietzsche, a lasciare che l’ altro segu a il suo proprio cam m ino, ogni rapporto um ano diventa ipocrisia: l’ uno fingerà, con l’altro, di andare nella stes sa direzione dell’ altro, così com e gli amanti fingono tra loro di essere l ’uno com e l’ altro14. E perché am icizia è disponibilità a che l’ altro vada per la sua strada che, per am icizia, possiam o arrivare ad allontanare con uno stratagemma - per il suo stes so bene - l’ altro da noi: O sserviam o talvolta che qualcuno dei nostri am ici appartiene più ad un altro che a noi, che il suo delicato sentire si torm enta in questa deci sione e che il suo egoism o non è all’ altezza di qu esta scelta: dobbiam o allora alleggerirgli tutto questo e, con u n ’o ffesa, a llo n tan arlo d a n oi. C iò è egualm ente necessario, allorché trapassiam o ad un m odo di pensare che p er lui sarebbe rovinoso: m ediante un torto che prendiam o su noi, il nostro am ore p er lui deve spingerci a procurargli u n a buona co scien z a riguardo alla su a rottura con n oi15.
Emerge, fra l’ altro, con chiarezza, dall’ aforisma citato l’idea dell’ amicizia come amore e come cura per il bene dell’altro. 13 M enschliches, A llzum enschliches, II, «Vermischte M einungen und Sprüche», 231. 14 Morgenröthe, 532. 15 Ivi, 489.
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4. A m icizia e inim icizia Amicizia non è assecondam elo, accondiscendenza al punto di vista dell’altro. Amicizia è amore dell’altro, ma, per amore del l’ altro, all’ altro ci si può anche opporre, opporre per il suo stes so bene, si può diventare il nemico dell’altro, il suo «m iglior nemico» e, come tale, essere dall’altro onorato: S e si vu ole avere un am ico, b iso gn a anche vo ler far guerra p er lui: e per fare guerra b iso gn a p o te r essere nem ico. N el proprio am ico si deve onorare anche il nem ico. S e i cap ace di avvicinarti m assim am ente al tuo am ico, sen za p assare dalla su a parte? N e l proprio am ico b iso g n a avere anche il proprio m iglior nem ico. C o l tuo cu ore devi essergli m assim am en te vicin o , proprio qu ando ti opponi a lui16.
Vi è un pericolo nell’ essere vicino con il cuore all’amico: che si assecondi sempre il suo punto di vista, che si sia sempre accondiscendenti verso di lui. Vi è un pericolo, d ’altra parte, nell’opporsi - sia pure per il suo stesso bene - all’amico: che ci si allontani, con il cuore, da lui. L a qualità dell’ am ico sarà, perciò, duplice: da un lato, saprà essere vicino con il cuore aU’amico «senza passare dalla sua parte», cioè senza necessa riamente consentire con lui, assecondarlo, dall’ altro, saprà rim a nere vicino nel cuore all’amico, pur a lui, nel caso, opponen dosi. L a vicinanza nel cuore non porterà alla rinuncia alla cri tica, la critica non significherà la rinuncia alla vicinanza nel cuore: tanto chiede am icizia. Se, pur essendo vicino nel cuore all’ amico, non se ne condivide o asseconda pregiudizialmente il punto di vista e si diventa, eventualmente, il suo nemico, pro prio ciò è segno di am icizia, segno dell’ amore che a lui si porta e che, volendo il suo bene, può richiedere che a lui, nel suo interesse, per il suo bene, ci si opponga: Tesser nemico è il segno e la prova dell’ amicizia. Se, viceversa, opponendosi all’a mico, gli si rimane vicini nel cuore, ciò è segno, ancora, del
16 A lso sprach Zarathustra, I, «Vom Freunde», pp. 67-8 (tr. it., p. 64).
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l’ amore che si ha per lui e per il quale, pur all’am ico oppo nendosi, pur diventandogli nemico, a lui si rimane legati nel cuore: il rimanere legati all’ altro, del quale si diventa nemico, è il segno e la prova della amicizia. Il senso generale della guer ra che, per amicizia, l’uomo può muovere all’ altro uomo è dato dal cam mino verso l ’oltreuomo. L ’ amico sarà per l’altro «una treccia che anela verso il superuom o»17. Scrive Nietzsche: L ’ am ico com e colui che sa m eglio disprezzare e essere nem ico. Q uanto pochi sono degn i! E sse re la co scien za dell’ am ico. N otare ogni um iliazione. [ ...] L ’am ico com e dem one e angelo. C iascu n o di loro h a p er l’ altro la serratura della catena. N e lla loro vicinanza una catena si spezza. S i ele vano l ’ un l ’ altro. E si avvicinano, com e un io fatto di due persone, al superuom o, e gioiscon o di avere un am ico che d à loro la secon da ala senza di cui l ’ altra non g io v a 18.
L ’ am ico è un «presentimento» dell’ oltreuomo19. Per questo l’ am ico viene collegato all’ «am ore del remoto e futuro»20, ossia all’ amore di ciò che ancora non c ’è ed è da costruire, com e è il caso dell’ oltreuomo (se si pensa alla caratterizzazione nietz scheana dell’ amico, in particolare al rapporto tra am icizia e dif ferenza che Nietzsche stabilisce, l’ amore del remoto può, però, avere anche il senso dell’ amore del diverso da sé, il senso del l’ amore della differenza rispetto a sé). M a, se l ’ amico è una «freccia» in direzione dell’oltreuomo, un «presentimento» delPoltreuomo, alcuni tratti, almeno, dell’oltreuomo nietzscheano dovrebbero potersi ricavare dai tratti che caratterizzano l’ ami co secondo Nietzsche. È da sottolineare la osservazione nietzscheana che «per far guerra bisogna poter essere nemico». L ’ essere nemico, che nella relazione di am icizia è a volte la prova dell’amicizia, richiede
17 Ivi, p. 68 (tr. it., p. 65). 18 Nachgelassene Fragm ente Ju li 1882 bis Winter 1882-1884, 4[211]. 19 Ivi, I, «Von der Nächstenliebe» p. 74 (tr. it., p. 71). 20 Ilvi, p. 73 (tr. it., p. 70).
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potere : si deve avere la potenza di essere nemici. Diventare nemici non è facile: si può essere frenati, nel diventarlo, dalla paura di ferire l’amico, di farlo o di lasciarlo soffrire. Per esse re nemico, occorre, qui, potere sulla propria compassione. Se, per esem pio, l ’ altro soffre e chiede di essere liberato dalla so f ferenza, può rivelarsi necessario, invece, per lui, mantenere que sta sofferenza, che può rappresentare la condizione, il m ezzo di realizzazione della sua strada. Comprendendone la necessità, l’ amico, che vuole il bene dell’altro, può voler mantenere l’al tro in questa sofferenza e si opporrà a lui che ne vorrà essere liberato. Non si tratta tanto, per l ’ amico, di non soffrire per l ’al tro che soffre quanto, innanzitutto, di non lasciar vincere in se stesso la com passione, che lo porterebbe a cercare di liberare l ’ altro dalla sua sofferenza, e, in ogni caso, si tratta di nascon dere all’ altro la propria com passione verso di lui: « L a com pas sione verso l ’ amico si celi sotto un guscio duro, che rompa un dente al tuo m orso»21, « S e però hai un amico che soffre, sii un asilo di pace al suo affanno, m a sim ile a un letto duro, un Iet tino da cam po; così gli gioverai al m assim o»22. Il fatto è che «ogni grande amore è superiore a tutta la propria com passio ne: infatti esso vuol ancora - creare ciò che am a!» e, per crea re, occorre formare, trasformare, piegare una materia e questo produce, in ciò che viene formato, trasformato, piegato, so ffe renza. L ’ am ico, che lascia il proprio am ico nella sofferenza, e che si oppone alla sua richiesta di aiuto, così agisce perché vede la sofferenza com e condizione o effetto di una form azio ne o trasform azione che può portare il proprio am ico verso obiettivi che meritano di essere dall’ am ico stesso perseguiti. D ice Nietzsche: B iso g n a tener ferm o il proprio cuore; infatti, a lasciarlo andare, se ne v a v ia ben presto anche la ragion e!
21 A lso sprach Zarathustra, I, «Vom Freunde» (tr. it, p. 65). 22 Ivi, H, «Von den Mileidigen», p. I l i (tr. it., p. 106).
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A him è, dove al m ondo sono state co m m esse stoltezze peggiori che presso i co m passion evoli? E che c o sa al m ondo h a provocato più dolo re delle stoltezze dei com passion evoli? G u ai a coloro che am ano, se non hanno un’ elevatezza che sia su pe riore alla loro co m passion e!23.
Se, poi, l’ altro non soffre, può essere l’amico ad assumersi la responsabilità di provocarne la sofferenza con una critica, con un atto di “guerra” nei suoi confronti: anche in questo caso occorre la potenza di essere nemico, la potenza sulla propria sofferenza come compassione verso la sofferenza, che, nell’altro, egli stesso sta deliberatamente provocando. Si potrebbe anche osservare che potenza occorre per diventare nemico, perché si deve credere nel proprio punto di vista, che si contrappone a quello dell’amico, e perché, ancora, una possibilità della inimicizia è la perdita, che si deve avere la forza di fronteggiare, dell’amico.
5. Colui che dona Chi è l’amico? L’ amico è colui che dona. Ma, per donare, biso gna avere qualcosa da donare, oltreché la volontà di donare. Per avere qualcosa da donare, bisogna prima in qualche modo esser selo procurato, averlo fatto proprio, essersene appropriati. Come si è visto nel capitolo primo, l’io di ciascuno si costituisce attra verso processi di appropriazione delle cose del mondo. Vi sono, però, per Nietzsche, due modi, due sensi diversi, in cui ci si appro pria delle cose (materiali o ideali) del mondo, due modi o sensi diversi della appropriazione, nei quali si riflettono due diverse spe cie di «egoism o» dell’uomo. In un primo senso ci si appropria delle cose solo per nutrire se stessi. Può cambiare, a seconda degli uomini e delle situazioni, la qualità e la quantità delle cose di cui ci si appropria, ma, in questo caso, delle cose ci si appropria per nutrire se stessi senza che si dia vita al movimento inverso della restituzione varia di quel che dal mondo, per costituire se stessi, 23 Ibidem (tr. it., p. 106).
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si è preso, senza che si dia vita al movimento del dono. Ciò che qui si realizza è l’accumulo, in virtù di un gesto appropriativo, dei beni del mondo in determinati soggetti che sono in relazione con altri soggetti solo per prendere da essi, non anche per donare loro o ad altri qualcosa. In questo modo o senso della appropriazione delle cose si esprime un determinato tipo di egoismo, un egoismo troppo povero, affamato, che vuol sempre rubare, l’egoismo dei malati, l’egoismo malato. Con occhio di ladro esso guarda a tutto quanto luccica, con l’avidità della fame conta i bocconi a chi ha da mangiare in abbondanza: e sem pre si insinua alla tavola di coloro che donano. Malattia (Krankheit) parla da tale bramosia, e degenerazione (Entartung) invisibile; l’attività ladresca di questo egoismo parla di un corpo infermo. Ditemi, fratelli: che cosa è per noi cattivo, anzi più cattivo di tutto il resto? Non è forse la degenerazione? - E, dove manca l’anima che dona (die schenkende Seele), noi indoviniamo sempre la degenera zione24. Degenerazione è: non donare, accumulare soltanto, nutrirsi sol tan to , p ren d ere, a p p r o p r ia r si se n z a d are , se n z a d o n are. Degenerazione è, dunque, si può dire, V in tro v e rsio n e dell’uomo. A volte Nietzsche parla dell’uomo come caratterizzato essenzial mente da questo modo di appropriazione: « S i direbbe che l’uomo agisca per possedere»25 o «Il desiderio di appropriazione del sen timento dell’io non ha limiti»26. M a si deve dire che si tratta, in realtà, per Nietzsche, dell’ uomo della tradizione, di un uomo che deve essere superato. In quale direzione? L a direzione si ricava, per contrapposizione, dal concetto stesso di degenerazione. Se degenerazione è non donare, cioè solo appropriarsi e nutrir si delle cose senza, a propria volta, donarle, la salute o il valore consisteranno, al contrario, nel donare al mondo le cose che dal 24 Also sprach Zarathustra, I, «Von der schenkenden Tugend», 1, p. 94 (tr. it-, p. 89). 25 Morgenröthe, 281. 26 Ivi, 285.
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mondo si sono prese, e, più radicalm ente, nel prendere dal mondo per donare al mondo, prendere dal mondo per restitui re al mondo in forma di dono ciò che da esso si è preso. Si allude, con ciò, al secondo modo o senso della appropriazione delle cose del mondo: è il modo, il senso proprio di colui che delle cose del mondo si appropria per restituirle al mondo, per donarle al mondo. N on volgare è la virtù più nobile e non utile, e ssa luccica di mite splendore: una virtù che dona è la virtù più nobile. In verità io indovino voi, m iei discepoli: v o i anelate, co m e m e, alla virtù che dona. C he potreste avere voi in com une con i felini e i lup i? Q uesta è la vostra sete, diventare voi stessi vittim e e doni: e p er qu e sto avete la sete di accum ulare tutte le ricchezze nella v o stra anim a. In saziabile, l ’anim a vostra anela a tesori e gem m e, perché la vostra virtù è insaziabile nella volontà di donare. V oi costringete tutte le co se a venire a vo i e dentro di vo i, perché riscaturiscano dalla vostra sorgente co m e doni del vostro am ore (a ls d ie G aben eu rer L ieb e)21.
Anche qui è all’ opera un egoism o, m a è un egoism o «sacro santo»: «In verità, un predone di tutti i valori deve diventare questo amore che dona; m a io dico sacrosanto questo egoi sm o »28. D i sé Zarathustra dice: «Io [ ...] sono un donatore: volentieri io dono, come un am ico agli am ici»29. Chi è ram ico? L ’ amico è colui che dona. A m ico è colui che dona, l ’uom o dal «cuore traboccante (;überwallendes H erz)»ì0. Nietzsche qui aggiunge: «M a bisogna essere spugna, se si vuol essere amati da cuori riboccanti». M a, per essere spugna, bisogna avere la capacità e la volontà di accogliere, in se stessi, ciò che viene donato dal «cuore tra boccante». Donare non serve se colui cui si dona non è capace 278930 27 Also sprach Zarathustra, I, «Von der schekenden Tugend», 1, pp. 93-4 (tr. it., pp. 88-9). 28 Ivi, p. 94 (tr. it. , p. 89). 29 Ivi, H, «Von den Mitleidigen», p. 110 (tr. it., p. 105). 30 Ivi, I, «Von der Nächstenliebe», p. 73 (tr. it., p. 70).
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di ricevere. Si può non essere capaci di ricevere perché ciò che viene offerto non è giusto, non è adatto a colui che dovrebbe riceverlo. Infatti, si dona sempre qualcosa di particolare, anche quando quel che si dona è un «mondo com piuto»31, che è però sempre un mondo particolare, il mondo proprio di colui che dona. Il cuore dell’amico è un «cuore traboccante» di doni, ma ogni «cuore traboccante» trabocca di certi doni e non di altri, trabocca di doni che potranno andare bene per alcuni e non per altri, non per tutti, non per il «prossim o» in genere. In un fram mento, Nietzsche scrive che ognuno deve crearsi il suo prossi mo, quello al quale egli può risultare effettivamente di qualche utilità32. Per essere amico, l ’uomo deve individuare quelli per i quali i doni del proprio «cuore traboccante» potranno essere giusti, adatti, sul presupposto che, per tanti, essi non signifi cheranno nulla, a tanti essi risulteranno incomprensibili. D ’ altra parte, in quanto si veda come oggetto di una possibile am ici zia, in quanto voglia essere amato da un cuore traboccante, l’uo mo cercherà egli stesso quelli i cui doni si confanno al suo esse re, i cui doni egli voglia e possa accogliere perché già ne va, in qualche modo, alla ricerca: Io vorrei che non sopportaste ogn i tipo di prossim o e di suoi vicini: c o sì sareste costretti a creare, traendolo d a voi stessi, il vostro am ico e il su o cuore traboccante33.
6. A m icizia e libertà L a relazione di am icizia presuppone e vuole la libertà reci proca degli amici. L a relazione di am icizia sfugge, si è detto, alla logica del dominio e della appropriazione che è propria, invece, della relazione di am ore - di una certa relazione di am ore, della relazione d ell’ am ore-passione, che a Nietzsche
31 Ibidem (tr. it., p. 71). 32 N achgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 3[100]. 33 A lso sprach Zarathustra, I, «Von der Nächstenliebe», p. 73 (tr. it., p. 70).
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appare com e una espressione particolarmente acuta di ciò che è e di ciò cui può arrivare la logica del dominio e della appro priazione in una relazione interpersonale. S i è già vista la osser vazione nietzscheana secondo la quale « L 'am ore com e passio ne è il desiderio di potenza assoluta su di una persona: per esem pio voler essere l’ oggetto unico dei pensieri e dei senti menti. L ’ amante non vede il resto del mondo e sacrifica tutti gli altri interessi a questa sete di potenza. Credere di essere amati porta con sé un senso di profondo appagamento. “Veniamo sen titi come una potenza assoluta!” » 34. Amicizia si contrappone, così, ad amore: l’amicizia nel senso nietzscheano si contrappone all’ amore-passione come libertà a dominio-appropriazione. Am icizia si contrappone ad amore-dominio, ad am ore-appropriazione. Amicizia vuole libertà degli amici: libertà dell’uno da qualsiasi dominio dell’ altro nei suoi confronti, e viceversa, libertà, in par ticolare, di critica, di opposizione, di inimicizia dell’uno nei con fronti dell’altro, e viceversa. Proprio per questo di nessuno si potrà essere amici se all’ altro ci si rapporta da schiavo o, al contrario, da tiranno: «Sei uno schiavo? Allora sei incapace di essere amico. Sei un tiranno? Allora sei incapace di avere amici»35. Se si è schia vi non si può essere amici perché l’amico è critico, si oppone, è nemico del proprio amico, mentre lo schiavo non si oppone al proprio tiranno (se gli si oppone, smette di essere schiavo). Se si è tiranni, non si possono avere amici perché il tiranno non sop porta che altri critichino, si oppongano al suo modo di vedere le cose e di agire. Poiché amicizia presuppone e vuole la libertà reci proca degli amici, Nietzsche giudica che, sinora, la donna sia stata estranea alla amicizia: infatti, sinora, la donna si è definita o nel senso della schiavitù o nel senso della tirannia: «Per troppo tempo nella donna si è celato uno schiavo e un tiranno. Perciò la donna non è ancora capace di amicizia: essa conosce solo l ’amore»36. È da sottolineare il fatto che Nietzsche osserva che la donna «non
34 Nachgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[54], 35 A lso sprach Zarathustra, I, «Vom Freunde», p. 68 (tr. it., p. 65). 36 Ivi, p. 69 (tr. it., p. 65).
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è ancora capace di am icizia». Quanto dire che la estraneità della donna a ll’am icizia non è un fatto naturale e inevitabile, ma qualcosa di storico e che, per la donna, c ’ è la possibilità che la sua situazione, sotto questo aspetto, non continui e si m odifi chi. Proprio perché si è definita o nel senso della schiavitù o nel senso della tirannia, la donna ha conosciuto solo l’ amore quella form a particolare di amore, che per Nietzsche non è pro priamente amore, perché ruota attorno al «desiderio di potenza assoluta» degli amanti o, al contrario, intorno al desiderio della «schiavitù assoluta»: «M ediante l’ amore l’ uomo cerca la schia va assoluta, la donna la schiavitù assoluta - l ’ amore è deside rio nostalgico di una fase passata della civiltà e della società»37. D ’ altra parte, osservato che la donna, sinora, è stata estranea alla dimensione della am icizia, Nietzsche ha un pensiero ana logo per quel che riguarda l’uomo: La donna non è ancora capace di amicizia. Ma ditemi, voi uomini, chi di voi è capace di amicizia? Quanta povertà, quanta avarizia è nelle vostre anime, voi uomini! Nella stessa misura con cui voi date all’ami co, voglio dare anche al mio nemico, e non per questo sarò diventato più povero38. N el discorso di Zarathustra, dal quale sono tratte queste parole, si sottolinea la tesi, com e si è visto, che l ’amico è (deve essere) anche nemico: am ico è non chi pregiudizialmente e solo asseconda, acconsente a colui del quale si considera amico, ma chi eventualmente anche si oppone, muove guerra a colui del quale am ico si considera e per il suo stesso bene. Tenendo pre sente ciò, si deve dire che la affermazione che l’uomo, sinora, ha dato solo all’ am ico e non anche al nemico significa che l’uo m o (l’uomo in quanto si è considerato am ico) ha donato solo a colui dal quale sapeva che avrebbe ricevuto un consenso - al quale egli m irava - a se stesso, al proprio comportamento, al proprio pensiero, al proprio sentimento, ossia ha donato solo a 37 N achgelassene Fragm ente Ju li 1882 bis Winter 1883-1884, 2[14], 38 A lso sprach Zarathustra, I, «Vom Freunde», p. 69 (tr. it., p. 66).
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colui dal quale sapeva che sarebbe stato perfettamente ribadito, confermato, consolidato, legittimato nella propria identità - e non ha donato, invece, a colui dal quale sapeva che avrebbe ricevuto dissenso, critica, ostilità, guerra, ossia non ha donato a colui dal quale sapeva che sarebbe stato variamente negato e delegittimato nella propria identità. L ’uomo ha sinora donato, considerandosi per questo suo amico, solo a colui dal quale poteva essere confermato e legittimato nella propria identità e che, proprio per questo, era facile che fosse come lui, suo sim i le, suo «prossim o» nel senso in cui, probabilmente, di ‘prossi mo’ si parla, in contrapposizione a «rem oto», nel discorso di Zarathustra precedentemente citato. In questo senso, l ’uomo ha, sinora, donato all’ amico inteso come simile a sé, come «p ros sim o». L ’uomo, che ha donato solo all’ amico e non anche al nemico, ha concepito la relazione di am icizia secondo una logi ca di scambio. E gli ha donato all’ altro solo nella prospettiva di ottenere, a propria volta, qualcosa in cam bio dall’ altro, qualco sa che, però, doveva in ogni caso andare nel senso della con ferm a, del consolidam ento, della legittim azione del proprio essere e della propria volontà. L ’uomo sinora ha donato, consi derandosi per questo suo amico, solo a colui dal quale avrebbe ricevuto, a propria volta, un dono, il dono che egli stesso vole va com e conferma e consolidamento di sé. L ’ am icizia ha fun zionato, sino ad oggi, secondo una logica di reciprocità nel dono e, in particolare, di questo tipo di dono. L ’am ico nel senso di Nietzsche è, invece, colui che dona anche al nemico, è colui che dona anche a colui che non dona o, almeno, non dona quel lo che si vorrebbe avere, è colui che dona a colui dal quale non solo non c ’ è aspettarsi un dono o il dono che si vorrebbe avere, m a dal quale arriva, anzi, proprio il contrario di un dono o del dono che si vorrebbe avere. L ’ amico nel senso di Nietzsche è colui che dona “ a perdere” . Nietzsche fa valere i concetti di pro digalità e di dissipazione. In due frammenti egli scrive: «Io amo le anime prodighe: esse non danno qualcosa in cambio e non vogliono essere ringraziate, perché sempre donano»39, «Io amo 39 Nachgelassene Fragm ente Ju li 1882 bis Winter 1883-1884, 4[210].
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coloro che dissipano la propria anima, che non ringraziano e m ai danno qualcosa in cam bio, perché sem pre donano»40, e, negli stessi termini, nello Z arathustra: «Io am o colui l’ anima del quale si dissipa e non vuol essere ringraziato, né dà qual co sa in cam bio: giacché egli dona sempre e non vuol conser vare se stesso »41 (nella formulazione dello Zarathustra è sot tolineata la volontà di colui che dissipa la propria anim a come volontà di un essere che non vuole conservare se stesso, che non è arroccato nella difesa di se stesso). S i può ricordare, qui, una o sse rv a z io n e di N ietzsch e re lativ a a l l ’ am ore (m a in N ietzsche definizione dell’ am icizia e definizione dell’ amore sono molto vicine e, al limite, coincidono42): «N on si deve voler restituire e contraccambiare ciò che l’ am ore dà: nel mare dell’ amore deve essere annegato ogni im pulso a ripagare»43. N ella situazione dell’amore, chi dà non dà p e r ricevere in cam bio qualcosa, chi riceve non riceve a condizione di restituire ciò che ha ricevuto: nel «m are dell’ am ore» non opera in alcun modo la logica dello scam bio, m a solo la lo g ic a del dono e della accettazione di ciò che l’ altrui amore dona. N ella situa zione dell’amore, chi dona lo fa, certo, in generale restituendo quel che dal mondo ha preso o dal mondo (da qualcuno nel m ondo) gli è stato donato (perché quel che si dona comunque dal mondo lo si è prim a preso o dal mondo è stato donato), ma non restituisce perché ha preso o perché gli è stato donato, non restituisce per contraccam bio: egli dona non com e restituzio ne, anche se, da un altro punto di vista, il dono è sempre, in ogni caso, una form a di restituzione. L ’intenzione non è resti tuire, ma, semplicemente, dare. Il donare solo a colui dal quale
40 Ibidem. 41 Also sprach Zarathustra, «Zarathustra’s Vorrede», 4, p. 11 (tr. it., p. 9). 42 L a definizione dell’amicizia è molto vicina alla definizione deH’amore nel senso in cui Nietzsche definisce l’ amore, non alla definizione dell’amore come amore-passione criticato da Nietzsche in quanto legato alla volontà di possesso e alla perdita della propria identità e libertà. 43 N achgelassene Fragm ente Ju li 1882 bis Winter 1883-1884, 3[1(266)].
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si riceve è segno di povertà, di avarizia. Il donare anche a colui dal quale non si riceve nulla (il nemico) è segno di ricchezza e di generosità44.
44 Jacques Derrida contrappone l’idea nietzscheana deH’amico come colui che dona al nemico alla idea cristiana secondo cui si deve amare il proprio nemi co. Secondo Derrida, al fondo della idea cristiana opera «un’economia sublime, un’ economia di là dall’ economia, un salario che si scambia in oro di non-salario»: l’amore per il proprio nemico sarebbe il «salario» in cambio del quale si ottiene l’ «oro» di diventare «degni del padre eterno» (J. Derrida, Politique de l ’amitié, p. 317 [tr. it., p. 335]). E cita il Vangelo secondo M atteo, nel quale si dice di amare i propri «nemici» e i propri «persecutori», «perché siate figli del Padre vostro celeste che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il salu to soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (ibi dem, [tr. it., p. 335]). A ll’opposto stanno le cose, secondo Derrida, nella pro spettiva nietzscheana, che propone l’amico come colui il cui dono è un dono «senza ritorno e senza salario»: l’ amico nel senso di Nietzsche, in quanto figu ra di colui che dà, non si colloca «in una qualsivoglia economia (dove i virtuo si vorrebbero ancora che li si paghi)» (ivi, pp. 318-9 [tr. it., pp. 336-7]).
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I
Capitolo quinto La volontà del male
1. L a crudeltà com e fondam ento d ella sto ria p a ssa ta d el
l ’uomo Uno dei temi più importanti, anzi decisivi, della ricostruzione, che nella sua opera Nietzsche compie, della realtà dell’uomo e dei rapporti umani quale, sino ad oggi, si è venuta determinando a partire sin dalle più lontane fasi della storia umana, è sicuramen te la crudeltà. Due elementi fanno emergere, in maniera immediata e inequi vocabile, la importanza e la decisività, che, in Nietzsche, il tema della crudeltà assume. Il primo elemento è dato dal fatto che, dal punto di vista di Nietzsche, il piacere di far soffrire o (secondo una distinzione che, come vedremo, egli effettua) di veder soffrire (non solo gli altri ma anche se stessi) è un piacere che, rivestendo nel tempo forme diverse, ha però rappresentato una costante della storia dell’uomo sino alla sua epoca, una epoca che, si potrebbe anche dire, per molti aspetti, è - e non sappiamo per quanto ancora - la nostra stessa epoca. Il secondo elemento, che spiega la crucialità della questione della volontà del male nella riflessione nietzscheana, è che la cru deltà, lungi dal rappresentare un aspetto secondario o marginale o anche un fenomeno esteso e intenso ma tutto sommato ben cir coscritto e limitato della storia dell’uomo, si presenta, nel testo 155
nietzscheano, con il carattere, addirittura, di fondamento di que sta storia. Scrive Nietzsche che la crudeltà, nella forma sempre più spiritualizzata che a un certo momento della storia dell’uomo essa ha cominciato ad assumere, allontanandosi dalle sue espres sioni più fisiche, che avevano avuto come proprio bersaglio il corpo (altrui o proprio), «p assa attraverso l’intera storia della civiltà superiore (e, assunta in una accezione significante (in einem bedeutenden Sinn), addirittura la costituisce (sie sogar ausm a cht))»1. In queste parole non viene indicata solo la continuità del fenomeno - la crudeltà - , che si svolge lungo, appunto, l’intero corso della «civiltà superiore», viene indicata anche la qualità del fenomeno: esso è fondamento di costituzione della «intera storia della civiltà superiore». In un aforisma di Al di là del bene e del male, rilevato che le «epoche tarde» della storia dell’uomo trova no la «superbia della loro umanità» nell’ «aver signoreggiato» la «selvaggia fiera cm dele» che l’uomo stesso è, Nietzsche osserva che noi «dobbiamo modificare le nostre opinioni sulla crudeltà e aprire gli occhi»: dell’aprire gli occhi sulla crudeltà fa parte il rico noscimento che Quasi tutto ciò che noi chiamiamo «civiltà superiore» trova nell’in tellettualizzazione (V ergeistigu n g) e nell’approfondimento (V ertiefim g) della crudeltà le sue basi - è questa la mia tesi: quella «fiera selvaggia» non è stata affatto uccisa, essa vive e prospera, soltanto che si è - divi nizzata2. A i fini della comprensione del m olo e del peso, da Nietzsche riconosciuti alla crudeltà nel quadro della civiltà superiore, è importante l’espressione ‘quasi tutto’, che compare nella proposi zione poco fa citata. L ’espressione toglie ogni dubbio riguardo alla fondamentalità della crudeltà (nella forma spiritualizzata) per quel che riguarda la costituzione stessa della civiltà superiore. Con le parole precedentemente riportate, Nietzsche si riferisce a una particolare forma di crudeltà, ossia alla forma spiritualizza1 Tur G enealogie der M oral, II, 6, p. 317 (tr. it., p. 264). 2 Jen seits von Gute und B öse, 229.
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ta di crudeltà. Tale forma di crudeltà egli indica come fondamen to non dell’ intera storia dell’uomo, ma della sola civiltà superio re. M a se una sempre crescente spiritualizzazione della crudeltà è, in una «accezione significante», fondamento della «civiltà supe riore», ciò significa che la crudeltà, nella fasi precedenti o nelle prime fasi della civiltà superiore, già, sia pure in altra forma, esi steva. L a crudeltà esisteva in una dimensione esclusivamente o essenzialmente fisica, materiale: essa aveva come proprio ogget to (lo si è accennato) il corpo dell’uomo. In quella epoca, non diversamente da quel che accadrà nell’epoca della civiltà supe riore, la crudeltà aveva, stando a quel che Nietzsche scrive, un peso notevole nei rapporti fra gli uomini. Se, nella civiltà supe riore, la crudeltà, nella forma spiritualizzata, ha ruolo di fonda mento dei comportamenti e dei pensieri dell’uomo, nelle fasi che precedono o con cui inizia la civiltà superiore non diverso deve essere stato il suo molo, se è vero che - come Nietzsche osserva con riferimento a tali prime fasi della storia dell’uomo nel loro rapporto con la sua stessa propria epoca - «per uno sguardo più profondo ci sarebbe forse ancor oggi da cogliere abbastanza di que sta antichissima e profondissima gioia festiva dell’uomo»3. Oggi è possibile cogliere nel comportamento dell’uomo soltanto qualcosa di ciò che (la crudeltà) un tempo aveva una ancora più radicata pre senza e libera manifestazione, rispetto ad oggi, all’interno dei rap porti umani. Complessivamente si deve riconoscere che ... L ’ uom o [ ...] è il più crudele degli anim ali. Fin ora eg li si è sentito bene su lla terra soprattutto assisten do a tra gedie, corride e crocifission i; e quando si inventò l ’infem o, ecco che ciò divenne il su o parad iso in terra4.
Nietzsche avrebbe così, probabilmente, condiviso il giudizio che, ne I fratelli Karamazov, il protagonista Ivan esprime sul l’uomo. Per Ivan Karamazov, che si autodefinisce «un appassio nato collezionista di certi fatterelli» («dai giornali, dai racconti che sento, da dove capita, prendo nota e colleziono aneddoti di un 3 Zur Genealogie der M oral, II, 6, p. 317 (tr. it., p. 264). 4 Also sprach Zarathustra, DI, «Der Genesende», 2, p. 269 (tr. it., p. 266).
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certo tipo, ho già messo insieme una discreta collezione»), cioè dei «fatterelli» che testimoniano la profonda crudeltà dell’uomo5, per Ivan Karamazov, dunque, «se il diavolo non esiste e se, quin di, è stato l’uomo a inventarlo, questi l’ha creato a sua immagine e som iglianza»6. Ivan Karamazov si sofferma a narrare alcuni di questi fatterelli. Risulta così, per esempio, che vi sono persone che, mentre «Con tutti gli altri membri del genere umano [...] si comportano con benevolenza e mitezza, da europei illuminati e umani», si comportano, invece, da «aguzzini» con i bambini, mostrando un «gusto per la tortura dei bambini, solo dei bambi ni [...] È proprio la mancanza di difesa di quelle creature che sedu ce il torturatore»7. E vi sono poi - altro esempio - coloro che eser citano la crudeltà contro gli animali: Nekrasov ha scritto dei versi in cui si parla di un contadino che fru sta il suo cavallo con lo knut sugli occhi, «gli occhi suoi miti», e chi non ha mai visto cose del genere? È un russismo vero e proprio. Il poeta descrive una cavallina stremata sulla quale hanno posto un carico trop po pesante; essa è crollata sotto il carico e non riesce a tirarlo. Il conta dino la batte, la batte selvaggiamente, la batte senza sapere che cosa sta facendo, annebbiato dalla crudeltà, la frusta senza pietà, ripetutamente: «Anche se non ne hai la forza, devi tirare il carico, a rischio di crepare, lo devi tirare!». La cavallina cerca di districarsi e quello comincia a pic chiarla, indifesa com’è, sui «niti occhi» pieni di lacrime. Fuori di sé, la cavalla con uno strattone comincia a trascinare il carico, procede tre mante, senza respirare, come di sbieco, sobbalzando in maniera natura le, vergognosa - la descrizione di Nekrasov è terribile8. Per Ivan Karamazov, la crudeltà è qualcosa che riguarda l ’uo mo, nient’affatto gli animali: La gente spesso parla di crudeltà «bestiale» dell’uomo, ma questo è terribilmente ingiusto e offensivo per le bestie: un animale non potrebbe mai essere crudele quanto un uomo, crudele in maniera così artistica e 5 F. D ostoevskij, I fra te lli K aram azov, Parte seconda, Libro quinto, «Ribellione», p. 331. 6 Ivi, p. 330 7 Ivi, p. 334-5. 8 Ivi, p. 333.
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creativa. L a tigre azzanna e dilania, m a sa fare so lo quello. N on le ver rebbe m ai in m ente di prendere le persone e farle restare inchiodate per le orecchie p er un’ intera nottata, nem m eno se fo sse in grad o di fare una co sa sim ile9.
Per questo Ivan Karamazov conclude alla impossibilità dell’a more dell’uomo per l’altro uomo, per lo meno se l’uno guarda l’altro in volto: nel volto si legge, infatti, la crudeltà dell’animo umano. Egli osserva: non ho m ai potuto capire co m e si p o ssa am are il p rossim o. S econ d o m e, è im possibile am are proprio quelli che ti stanno vicino, mentre si potreb be am are chi ci sta lontano [...] Perché si p o ssa am are una persona, è necessario che si celi alla vista, perché non appen a e s sa m ostrerà il suo viso, l ’ am ore verrà m eno10.
E riferisce quel che lo starec Zosim a dice, cioè che «spesso il viso di un uomo, per chi è inesperto in amore, diventa un osta colo per l’am ore»11. E aggiunge: «Secondo me, l’amore di Cristo per gli uomini è una specie di miracolo impossibile sulla terra. Vero è che egli era Dio. M a noi non siamo dèi»12. 9 Ivi, p. 330. 10 Ivi, p. 327. 11 Ibidem. 12 Ivi, p. 328. H problema della cmdeltà dell’uomo, che con tanta forza emer ge dalle pagine di Nietzsche e di Dostoevskj, viene riproposto oggi, tra gli altri, da Paul Ricoeur, allorquando si interroga sulla «m alvagità dell’ uomo» (P. Ricoeur, Le mal. Un défi à la philosophie et à la théologie (tr. it., p. 13). Ricoeur in particolare osserva che la sofferenza, che la malvagità dell’uomo provoca nel l’uomo (quando è contro l’uomo che la malvagità viene diretta), è quella che, nell’uomo che la subisce, rende massimamente acuto il sentimento di «vittima». L a sofferenza, di cui l’uomo può essere vittima, ha cause differenti: «avversità della natura fisica, malattie ed infermità del corpo e dello spirito, afflizione pro dotta dalla morte di persone care, la prospettiva spaventosa della propria morta lità, il sentimento di indegnità personale ecc.» {ivi, p. 12). In tutti questi casi l’uomo si sente vittima. M a ciò che rende «più acuto» il «grido della lamenta zione», che è il grido dell’uomo che si sente vittima contro ciò che lo rende vit tima, è la sofferenza provocata dalla «malvagità dell’uomo» (ivi, p. 13). L a mal vagità dell’uomo (e «Fare il male è fare soffrire altri»), la «violenza» dell’uomo è tra le cause principali della sofferenza dell’uomo: «S i sottragga la sofferenza
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Per quel che già si è visto, la crudeltà, per Nietzsche, non è stata, semplicemente, un atteggiamento con il quale, qualche volta o per caso, come vittime o come protagonisti o, insieme (è il caso della crudeltà rivolta contro se stessi), come vittime e protagoni sti, si sia avuto a che fare. L a crudeltà non è stata, semplicemen te, qualcosa con cui solo ogni tanto si sia intrattenuta, come vit time e/o come protagonisti, una relazione, svolgendosi, invece, la m aggior parte o la sostanza della propria esistenza fuori di quel la relazione. Se si considera la storia dell’uomo quale effettiva mente si è svolta, la crudeltà rappresenta, dal punto di vista di Nietzsche, alla fine, l’ambiente (o, almeno, uno degli ambienti inflitta agli uomini dagli uomini e si vedrà ciò che resterà di sofferenza nel mondo: a dire il vero, noi non lo sappiamo, tanto la violenza impregna la sof ferenza» (ivi, p. 49) o «una tra le cause principali di sofferenza è la violenza esercitata dall’uomo sull’uomo» (ivi, p. 13). (La osservazione di Ricoeur secon do cui ciò che rende particolarmente insopportabile per l ’uomo la propria con dizione di vittima e particolarmente acuto in lui il «grido della lamentazione» è il subire una sofferenza da parte della malvagità dell’uomo, e non, per esempio, da una «avversità della natura fisica» presenta qualche analogia con la osserva zione di Nietzsche secondo cui «è l’impotenza verso gli uomini e non l’impo tenza verso la natura, che genera l’asprezza più disperata contro l’esistenza»: ciò che gli uomini soprattutto non sopportano è essere «violentati ed oppressi da altri uomini»: N achgelassene Fragm ente H erbst 1885 bis H erbst 1887, 5(71], 9). Nel quadro di un’analisi del tema della crudeltà su Nietzsche e Artaud, Camille Dumoulié svolge alcune osservazioni sull’attenzione al problema della crudeltà nella filosofia e nella letteratura moderno-contemporanee: «L ’ insistenza della tematica della crudeltà attraverso le opere di Dostoevskij o Kafka, Bataille o Genet, M ichaux o M ishim a, l ’ interesse di noi contemporanei per Sade o Lautréamont dimostrerebbero che essa appartiene certo a questa epoca del pen siero e della storia che si è aperta con l’evento della morte di Dio, se essa non fosse la rinascita di un tema che accompagnò un’ altra apertura: quella della sto ria stessa, come le teogonie, le epopee, i pensatori presocratici ne raccontano gli inizi crudeli» (C. D umoulié, Nietzsche et Artaud. Pour une éthique de la cruauté, P -14). Sul problema del male, anche al di là del tema particolare, del quale qui in rapporto a Nietzsche ci stiamo occupando, della volontà del male, cfr. H. A rendt, Eichm ann in Jeru salem . A R ap ort on thè B an ality o f E v il; K. J aspers, D ie Schuldfrage ; V. Jankélévitch, L ’innocence et la m échancheté; H. J onas, D er G ottesbegriff nach Auschwitz. Ein e jü disch e Stim me; Form e e figure del m ale. «D opo» la teodicea; G. Z arone (a cura di), Labirinti del m ale.
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fondamentali) di coltura, formazione e ispirazione delle azioni, delle intenzioni e delle valutazioni umane - dell’uomo quale, sino ra, noi conosciamo. Così prospettata, ovvero vista come ispirata, in una misura fon damentale, dalla volontà del male, la storia dell’ uomo appare immersa, in maniera varia m a determinante, in un’atmosfera ter ribile, angosciosa, tremenda, impietosa, nonostante il piacere con nesso a quella volontà: piacere da parte di chi, di volta in volta, è l’autore volontario del male, di chi, di volta in volta, vuole il male. Ma, nell’ analisi nietzscheana, l’esercizio della crudeltà non appare legato sempre solo all’elemento del piacere. Vi sono casi in cui il piacere connesso all’esercizio della crudeltà è vissuto uni tamente a una sensazione e condizione di sofferenza. Un primo caso si determina «allorquando amiamo colui che torturiamo»: «S e un altro infliggesse sofferenza a colui che amiamo, allora diventeremmo pazzi di rabbia, la compassione sarebbe tutta dolo rosa. M a noi lo amiamo: e siamo noi che gli facciamo del m ale»13. Al piacere di fare del male si accompagna, inestricabilmente, il dolore per la circostanza che il male viene fatto a colui che si ama. La compassione, che qui abbiamo per colui che torturiamo, «è la contraddizione di due forti istinti opposti», l’istinto dell’ amore e l’istinto della crudeltà: tale contraddizione «qui agisce come sti molo supremo»14. Un secondo caso si determina quando « Vamo re supremo per l ’io [...] si esprime come eroismo»: allora esso «è vicino al desiderio di perire, dunque alla crudeltà, alla violen za su se stessi»15. L a violenza, che l’uomo esercita su se stesso, è da Nietzsche definita la «suprema violenza»16: ciò probabilmente proprio perché l’ amore per l’io costituisce, si è appena visto, 1’ «amore supremo». Un terzo caso si determina, infine, per «colui che è oggetto d ’amore e tormenta chi l’am a»: egli «gode del pro prio sentimento di potenza, e tanto più in quanto, così, tiranneg-
13 Nachgelassene Fragm ente Ju li 1882 bis Winter 1883-1884, 1(72] (tr. it., 23(64]). 14 Ibidem. 15 Ivi, 1(73] (tr. it., 23[66]). 16 Ivi, 1(70] (tr. it., 23[62]).
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già se stesso: è un doppio esercizio di potenza. L a volontà di potenza diventa qui sfida a se stessa»17. Colui che tormenta chi l’ ama tiranneggia se stesso perché sarebbe portato a perlomeno rispettare colui che lo fa oggetto di amore: egli va contro una ten denza che avverte presente in se stesso. L ’atmosfera, alla quale poco fa si accennava, variamente terri bile e angosciosa determinata dalla presenza della volontà del male nei rapporti reciproci degli uomini e nel rapporto dell’uomo con se stesso, risulta tanto più significativa e inquietante quanto più si tiene conto della osservazione nietzscheana che la crudeltà non è solo lì dove essa esplicitamente appare ossia dove appare per quel che effettivamente è, m a è anche lì dove essa esplicita mente non appare perché variamente mimetizzata nel suo oppo sto. A proposito della mimetizzazione della crudeltà ricordiamo, ad esempio, un aforisma di Aurora, nel quale, parlando del «desi derio istintivo di distinguersi», Nietzsche osserva che, con esso, «si vuol fare in modo che la nostra vista faccia male all’altro e desti la sua invidia, il senso dell’impotenza e del suo decadimen to»: ciò si può ottenere anche proprio con una «buona azione», anche, per esempio, con un comportamento umile, per il quale l’uomo può anche diventare «umile e perfetto nella sua umiltà», ma, dice Nietzsche, «cercate quelli ai quali, da lungo tempo, ha voluto infliggere una tortura per mezzo di essa! L i troverete subi to »18. In ogni caso, nella caratterizzazione nietzscheana della sto ria umana quale storia della crudeltà (e quella della crudeltà è una «grande storia»19), il piacere dell’uomo appare, dunque, legato, in una maniera fondamentale, alla sofferenza: nel suo contenuto, il piacere (o almeno una parte cospicua del piacere) è legato alla produzione di qualche forma di sofferenza. L a crudeltà è la «grande gioia festiva (die grosse Festfreude) della più antica umanità»20. E ssa caratterizza già Yinizio della sto-
17 Ivi, 1[73] (tr. it„ 23[68]). 18 Morgenröthe, 30. 19 N achgelassene Fragm ente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11[89]. 20 Zur G enealogie der M oral, II, 6, p. 317 (tr. it., p. 264).
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ria umana. L a crudeltà ha a che fare con la storia più antica del l’uomo, ha a che fare con Voriginario. M a, per Nietzsche l’origi nario, la storia più antica dell’uomo è stata anche la storia suc cessiva dell’uomo, è stata anche la storia recente, è anche la sto ria attuale dell’uomo: l’originario si è ripetuto in tutto il corso della storia dell’uomo. L a crudeltà, poi, si è visto, caratterizza l’ i nizio della storia dell’uomo come ciò che all’uomo della più anti ca età arreca una «grande gioia». L a crudeltà appaga in maniera significativa l’uomo: in essa l’uomo trova una adeguata soddisfa zione. L ’ esperienza è quella di un intenso piacere. Veder soffrire (Leiden -seh n ) fa bene, cagionare la sofferenza (L eid en m achen ) ancor meglio - è questa una dura sentenza, eppure un’antica, possente, umana-troppo umana sentenza fondamentale, che del resto forse anche le scimmie già sottoscriverebbero: si racconta, infatti, che nell’escogitare bizzarre crudeltà esse già preannunziano largamente l’uo mo e ne sono, per così dire, un «preludio». Senza crudeltà non v’è festa: così insegna la più antica, la più lunga storia dell’uomo - e anche nella pena v’è tanta a r ia d i fe s ta ]21 L e scimmie sarebbero, dunque, un preludio dell’uomo non tanto (come in genere si pensa) dal punto di vista fisico e intel lettuale quanto dal punto di vista «m orale», per la «crudeltà», cioè, di certi loro comportamenti che anticipano, in qualche modo, un tipo di comportamento che sarà particolarmente sviluppato ed esaltato dall’uomo. Scrive ancora Nietzsche: non è poi passato molto tempo da quando non si sapeva immaginare nozze principesche e feste popolari in grandissimo stile senza esecuzio ni capitali, supplizi e autodafé e neppure un aristocratico governo di casa senza individui sui quali si potesse senza alcuno scrupolo scatenare la propria malvagità e le proprie beffe crudeli22. Nelle più antiche comunità umane, d ’altra parte, il «bisogno di crudeltà» appariva come qualcosa di «ingenuo» e di «innocente»:
21 Ivi, p. 318 (tr. it, p. 265) 22 Ivi, p. 317 (tr. it., pp. 264-5)
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la crudeltà appariva «un qualcosa [...] al quale la coscienza dice sì di tutto cuore!»23. Proprio perché il procurare sofferenza fa piacere, nelle prime comunità umane accadeva che, qualora si fosse stati danneg giati da altri in qualcosa, per esem pio sul piano economico, dei beni materiali, si potesse ottenere una form a di risarcimento o com pensazione anche non sullo stesso piano sul quale era stato prodotto il danno, o ssia anche proprio attraverso la possibilità di far soffrire qualcuno - e non necessariamente colui che effet tivamente il danno aveva provocato, giacché in quella lontana età non si era ancora pervenuti all’idea, che si affermerà molto più tardi, di ima responsabilità personale dell’uomo24. S i chie de Nietzsche: «in che senso può essere la sofferenza una com pensazione di “debiti?” » 25 (egli si riferisce, qui, al fondamenta le rapporto che vigeva tra gli uomini all’interno delle più anti che comunità, il «rapporto contrattuale tra creditore e debitore, che è tanto antico quanto 1’esistenza di “ soggetti di diritto” , e rimanda [ ...] alle form e fondamentali della compera, della ven dita, dello scam bio, del com m ercio»2627: chi danneggiava qual cuno si metteva nella posizione del debitore nei confronti del l’ altro, del danneggiato, che diventava, così, suo creditore). L a risposta di Nietzsche a quella domanda è che la sofferenza era com pensazione di debiti In quanto far soffrire arrecava soddisfazione in sommo grado, in quanto il danneggiato barattava il danno, con l’aggiunta dello scontento per il danno, per uno straordinario contro-godimento: il far soffrire - una vera e propria festa (ein eigentliches F e sif’. L a concezione degli dèi e quella degli antenati, proprie delle comunità più antiche, risentono in maniera significativa del peso
23 Ibidem (tr. it., p. 264). 24 Ivi, H, 4, p. 314 (tr. it , p. 261). 25 Ivi, II, 6, p. 316 (tr. it., p. 264). 26 Ivi, II, 4, p. 314 (tr. it., pp. 261-2). 27 Ivi, h, p. 316 (tr. it., p. 264).
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che la crudeltà ha nell’esistenza dell’uomo di quella età (come, del resto, delle età successive). Nelle prime comunità umane si arrivò a concepire gli dèi come esseri che godono di fronte allo «spetta colo della crudeltà»: uno spettacolo - ed è qui che Nietzsche vede anche l’origine della morale dell’autosacrifìcio - che gli uomini si adoperavano ad offrire agli dei perché immaginavano che essa fosse loro gradita28. L a « g io ia n e l v e d e re ch i s o ffr e » è «presuppo sta nei culti sanguinosi degli D è i (l’automutilazione)»29. L a crudeltà - propria o altrui - offerta agli dèi era il modo per ingraziarsi il loro aiuto. M a gli dèi erano immaginati come esseri che traggono piacere dalla visione della sofferenza umana, dunque come esseri crudeli, come esseri dominati da una volontà di male, proprio per ché nell’uomo appartenente alle più antiche comunità la volontà del male già svolgeva un molo fondamentale: la crudeltà degli dèi era una proiezione della crudeltà degli umani. L a c m d e lt à a p p a rtie n e a l la p iù a n tic a g i o i a f e s t iv a ( ä lte ste n F estfreu d e) dell’ umanità. S i p en sa di conseguen za che anche gli dèi si sentano rallegrati e in una festo sa d isposizion e d ’ anim o quando si offre loro lo spettacolo della crudeltà, - e co sì si insin ua nel m ondo l ’ idea che la sofferenza volontaria, il m artirio liberam ente scelto abbiano un senso e un valore30.
Scrive ancora Nietzsche: è certo che ancora i G reci non sapevan o offrire ai loro dèi nessun altro più gradevole com panatico alla loro beatuitudine, se non le gio ie della crudeltà {d ie F reu den d e r G rau sam k eit). C on quali occhi credete che O m ero fa ccia guardare d all’ alto sui destini degli uom ini i su oi d è i? Q uale ultim o senso ebbero in fondo la guerra troiana, e sim ili tragiche atrocità? N on si può, al riguardo, avere il m inim o dubbio: erano concepite com e sp ettaco li d i fe s ta ( F e s t s p i e l e ) p er g li dèi: e in quanto il p oeta è, in questo, più degli altri uom ini, di natura «d iv in a», erano altresì spettaco li di festa p er i poeti31.
28 Morgenröthe, 18. 29 N achgelassene Fragm ente Frühjahr bis H erbst 1884, 25[410]. 30 Morgenröthe, 18. 31 Zur Genealogie der M oral, H, 7, pp. 320-1 (tr. it., pp. 267-8).
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Per Nietzsche, d ’altra parte, la concezione degli dèi come esse ri, che godono di fronte allo spettacolo della sofferenza che l’uo mo offre loro, non riguarda solo le prime comunità umane. L a «primordiale logica del sentimento», che giustifica la sofferenza come spettacolo gradito agli dèi, è - Nietzsche si chiede - solo una logica primordiale? L a risposta, che egli dà a questa doman da, è negativa: quella logica emerge «ancora all’intemo della nostra umanizzazione europea! C i si può eventualmente consi gliare, al riguardo, con Calvino e Lutero»32. È sempre, infine, nella presupposizione, negli uomini, del piacere di fare o vedere soffrire che, per Nietzsche, gli uomini appartenenti alle prime comunità, convinti che «la specie uni camente sussiste grazie ai sacrifici e alle opere degli antentati», m a convinti, d ’altra parte, che gli antenati, per questo, «devo no essere ripagati», ripagano i propri antenati offrendo loro, fra l’ altro, «sacrifici» e, ogni tanto, nel dubbio che il «contrac cam bio» non sia adeguato, «un grande riscatto in blocco, un qualche m ostruoso indennizzo al “ creditore” (il fam igerato sacrificio del primogenito, per esempio, sangue, sangue umano in ogni c aso )»33.
2. L e form e storiche d ella crudeltà. L a m orale d ella colpe-
volizzazione Si è accennato alla osservazione nietzscheana che, storica mente, la crudeltà ha assunto forme diverse. È quel cui il filo sofo si riferisce allorché rileva che, a un certo momento, si è determinato ciò che egli definisce «spiritualizzazione» della crudeltà. D a avere il proprio oggetto nel corpo (altrui o anche proprio), la crudeltà finisce per identificare il proprio oggetto nell’ «an im a» - per dirla con Foucault analista delle trasforma zioni del diritto penale tra fine ’ 700 e inizio ’ 800, epoca che vede il passaggio da punizioni, che avevano il proprio oggetto 32 Ivi, p. 320 (tr. it„ p. 267). 33 Ivi, n, 19.
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nel corpo del condannato, a punizioni, che avevano il proprio oggetto nella sua anima34. Si potrebbe qui anche osservare, ana logamente a quel che Foucault osserva in particolare a proposito del diritto penale, che, come le punizioni, anche quando hanno avuto a proprio oggetto l’ anima del condannato, non hanno mai del tutto negato la presa sul corpo (il «fondo suppliziante» del diritto penale anche dopo la sua riforma nell’epoca indicata35), allo stesso modo, più in generale, la crudeltà, per l’uomo nel suo rap porto con gli altri e con se stesso, non ha mai del tutto perso il riferimento al corpo come proprio possibile oggetto anche quan do, come dice Nietzsche, con l’avvento della civiltà superiore, ha sempre più allentato la propria presa sul corpo. Rimane, in ogni caso, che, per Nietzsche, si è andati incontro, nel corso dello svol gimento della storia umana, a un processo di crescente spiritua lizzazione della crudeltà. Tutta la morale o, meglio, una certa morale, la morale fondata sui giudizi di colpevolezza e sull’ eser cizio della colpevolizzazione, ha rappresentato un modo - un modo spirituale - in cui la crudeltà si è venuta storicamente affer mando, allentando via via il proprio rapporto con la dimensione della fisicità, della corporeità. Vedere la morale come crudeltà: questa l’idea che con forza Nietzsche afferma nel suo tentativo di spiegare la genesi della morale. L a morale - una certa morale c stata un modo di esercizio della crudeltà dell’uomo. L a morale appare a Nietsche come il prodotto di quelle epoche nelle quali far del male all’altro con fazio ne e col giudizio procurava una soddisfazione molto maggiore che far gli del bene con gli stessi mezzi36. Oggi, anzi, i giudizi hanno preso il sopravvento sulle azioni come strumento attraverso il quale fare del male all’altro, se è vero che
34 M. F oucault, Surveiller et punir. N aissance de la prison (tr. iL, pp. 5-34, in particolare p. 22). 35 Ivi (tr. it., p. 19). 36 Nachgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 3[132],
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L ’ in fliggere sofferenza m ediante giudizi è la m a ssim a ferinità ancor o g g i esistente37.
L a risoluzione, oggi verificabile, degli strumenti, attraverso i quali fare del male agli altri, in quello dei giudizi, è un aspetto del processo di spiritualizzazione della crudeltà con il quale si iden tifica, per una parte essenziale, lo svolgimento della storia del l ’uomo sino ai nostri giorni. Nella proposizione appena riportata, Nietzsche non parla di giudizi specificamente morali: e il far male agli altri si può, in effetti, perseguire anche attraverso giudizi diversi da quelli morali. Sulla base di quanto Nietzsche osserva a proposito della importanza che i giudizi morali hanno nella oiganizzazione della vita degli uomini (nella loro autopercezione e nella percezione che essi hanno del modo in cui gli altri li vedo no), si deve dire che una parte consistente dei giudizi, mediante i quali oggi si infligge sofferenza agli altri, sono giudizi morali (giu dizi di colpa). A proposito del cambiamento, che storicamente si è verifi cato, dell 'oggetto della crudeltà (dal corpo all’anima), si può ricordare anche l ’osservazione nietzscheana che, oggi, mentre si reagisce immediatamente e facilmente di fronte alla crudeltà che colpisce il corpo, lo stesso non accade di fronte alle «tor ture d ell’ anim a» quali sono state, per esem pio, quelle nelle quali, lasciando intravvedere prospettive terrificanti dopo la morte (l’inferno), il cristianesimo ha lasciato vivere o lascia tut tora vivere tanti uomini: Per q u alsiasi tortura che qualcuno in flig ga ad un corpo altrui, ognu no o g g i prorom pe in alte grida; l ’ indignazione contro chi è cap ace di ciò si scatena subito; sì, noi trem iam o g ià a ll’id ea di una tortura che p o ssa essere inflitta a un u om o o a un anim ale, e soffriam o in m odo del tutto intollerabile a sentir raccontare un fatto sicuram ente provato di questo genere. M a si è ancora ben lontani dal sentire in m aniera egualm ente universale e determ inata, riguardo alle torture d e ll’ anim a e a ll’ orrore della loro effettuazione. Il cristianesim o le ha portate ad applicazione in una m isu ra inaudita e p red ica ancora continuam ente questo genere di tormenti, anzi, con aria del tutto innocente, lam enta decaden za e intiepidim ento se si im batte in una condizione dove tali torture non esisto-
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no; tutto ciò ha com e risultato che l ’ um anità si com porta ancor o gg i verso il rogo m ortale dello spirito, verso le spirituali torture e strum en ti di tortura, con la stessa pazien za e irresolutezza con cui si com porta va una volta verso la crudeltà u sata sul corpo di uom ini e di anim ali. L ’inferno non è stato, in verità, una m era p arola3738.
Secondo Nietzsche, peraltro, sono stati i coscien ziosi e non i senza co scien za a soffrire co sì terribilmente sotto l’ oppressione delle prediche di penitenza e delle paure infernali, soprat tutto se erano al tem po ste sso uom ini dotati di fantasia. D unque la vita è stata m aggiorm ente offu scata proprio per coloro che avevan o bisogn o di chiarità e di im m agini leggiad re - non soltanto p er riposare e risan a re se stessi, m a affinché l ’um anità p otesse gioire di loro e acco glie sse in sé un raggio della loro bellezza. Oh, quanta superflua crudeltà e b estia le torm ento sono scaturiti d a quelle religioni che hanno inventato il p ec cato! E d agli uom ini che p er m ezzo di e sse volevano avere il m assim o godim ento d ella loro poten za!39
Tenendo presenti altri momenti della riflessione nietzschea na, si può, d ’ altra parte, dire che tortura dell’anima non è solo il pensiero della eventuale punizione che, per il cristianesimo, attende l’ uomo dopo la morte, m a anche lo stesso pensiero della propria colpevolezza per la quale si attende, dopo la morte, la punizione divina. È sofferenza, infatti, il sentirsi - come acca de proprio nel sentimento di colpa - «moralmente riprovevole e riprovato»40. Che la crudeltà rappresenti un fondamentale continuum nella storia dell’uomo, ciò, per Nietzsche, non è, del resto, contraddet to, per esempio, da quel profondo cambiamento intervenuto nel campo del diritto per quanto riguarda le forme punitive, al quale si è prima, attraverso il riferimento a Foucault, fatto cenno e che è stato anche interpretato (o si è anche autointerpretato) come 37 Ivi, 4[101], 38 Morgenröthe, 77. 39 Ivi, 53. 40 Ivi, 78.
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umanizzazione delle pene e che Nietzsche stesso aveva preso in esame41: tale cambiamento delle forme punitive è, per Nietzsche, dovuto non a una crescita della sensibilità morale, ma al «raffi narsi dei nervi», alla più accentuata debolezza dell’uomo di fron te allo «spettacolo della sofferenza»: S e , co l p ro g re ssiv o raffin arsi d e i nervi, certe pun izion i dure e cru deli non v en go n o più inflitte o addirittura so n o ab olite, c iò a cc ad e p er ché la rap p resen tazio n e d i q u e sta p u n izion i f a sem p re p iù m a le ai nervi d e lla so cietà: non u na m a g g io re in d u lgen za p er il delinquente, non un p iù inten so am ore fraterno, b en sì u n a m a g g io re d e b o le z z a allo sp ettaco lo d e lle so fferen ze determ in a q u esta m itig azio n e del co d ice p en ale42.
Sul diverso grado di tolleranza al dolore, che l’uomo della civiltà superiore presenta rispetto all’uomo della età precedente, Nietzsche ha scritto che L a curva d ella tolleranza um ana al dolore sem bra scendere in realtà straordinariam ente e q u asi all’im provviso, non appena si ab b ia dietro di sé i prim i diecim ila o dieci m ilioni di individui di u na civiltà superiore; e quanto a m e non ho alcun dubbio che, a paragon e di una notte di d o lo re di una so la isterica donnetta letterata, le sofferenze di tutti gli anim a li insiem e, i quali so n o stati fin o a o g g i interrogati co l coltello ai fini di scientifiche risposte, non vanno sem plicem ente p rese in considerazione43.
L a m orale d ella colpevo lizzazion e è legata, n ell’an alisi nietzscheana, al rapporto dell’uomo «debole» o «m alato» verso l ’uomo «forte» o «san o »44. Troviam o, a questo proposito, in Nietzsche, l’im m agine degli uomini «m orali» che si aggirano
41 Cfr. ancora M. F oucault, Sorvegliare e punire. Per quanto riguarda Nietzsche relativamente alla questione della umanizzazione o, come egli dice, mitigazione delle pene, cfr. Zur G enealogie der M oral, II, 10. 42 N achgelassene Fragm ente Frühjahr bis H erbst 1884, 26[189J. 43 Zur Genealogie der M oral, II, 7, p. 319 (tr. it., p. 266). 44 Una rapida sintesi dei caratteri del debole e del forte in Nietzsche è in K. J aspers, Nietzsche (tr. it., pp. 281-2).
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fra i «forti» o i «san i» come «rimproveri viventi»45. E ssi voglio no «rappresentare la giustizia, l’amore, la saggezza, la superio rità», m a la loro è solo volontà di «vendetta {Rache)», volontà di «far espiare, amaramente espiare»46 ai forti il loro essere forti, il loro essere più forti: in realtà, per Nietzsche, si tratta semplicemente di uomini bramosi di vendetta {Rachsüchtigen) travestiti da giudici, che hanno sempre in bocca la parola «giustizia» come bava avvelenata, sempre con una smorfia sulle labbra, sempre pronti a sputare su tutto quanto non ha l’aria scontenta e va di buon animo per la sua strada4748. L ’ «esser cattivo» del debole è qualcosa di diverso da quel lo di colui nel quale vi è un «eccesso di energia» che «cerca la lotta e in ciò diventa cattivo»: infatti, T esser cattivo, la volontà del male, in questo caso, «non è che un m ezzo (allo scopo della scarica)», laddove il debole «è cattivo per infliggere sofferenze
{um weh zu thurì)»4S. Sulla morale come vendetta Nietzsche ancora scrive: D giudizio e la condanna morale è la vendetta preferita degli spiri tualmente limitati su coloro che lo sono meno di loro, nonché una spe cie di rivalsa per essere stati dimenticati dalla natura49. L ’operazione dei deboli nei confronti dei forti è consistita nel colpevolizzarli per la loro forza sì da indurli a sentirsi in colpa (dunque a soffrire) per la loro forza superiore e costringerli, con seguentemente, a rinunciare all’esercizio e alla manifestazione di tale forza, a livellarsi sul piano dei deboli. Della aspirazione dei deboli alla «uguaglianza» con i forti è espressione, oltre il pro getto e la azioni miranti a piegare la potenza dei forti attraverso la loro colpevolizzazione, il fatto che gli 45 Zur Genealogie der M oral, HI, 14, p. 387 (tr. it., p. 327). 46 Ibidem (tr. it., p. 327). 47 Ibidem (tr. it., p. 327). 48 N achgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 3[114]. 49 Jen seits von Gut und Böse, 219.
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spiritualm ente lim itati sentono con piacere, in fon do al cuore, che esiste una m isu ra dinanzi alla quale anche quelli che sovrabbondano dei beni e dei privilegi dello spirito sono uguali a loro - e ssi com battono per F «u gu ag lian za di tutti di fronte a D io » ed è q u asi a questo fine che hanno b iso gn o di credere in D io 50.
In un aforisma di Umano, troppo umano, Nietzsche distingue due specie di vendetta. L a prima specie è la vendetta «com e colpo difensivo di risposta, che si vibra quasi involontariamente anche contro oggetti inanimati che ci hanno danneggiato (come contro una macchina in movimento): il senso del nostro movimento di reazione è di por fine al danno facendo fermare la macchina»: è, questa vendetta, una «risposta» che si dà «nell’immediata sensa zione del danno»51. Se si vuole - dice Nietzsche - definire «ven detta» questa risposta, «lo si faccia pure»: ma, se l’uomo agisce così, si consideri che so lo la con servazion e di sé h a m e sso qui in m oto le m ote della su a ragione, e che in tal c a so in fondo non pen sa a colui che arreca il danno, m a so lo a sé: noi agiam o co sì sen za voler ricam biare il danno, m a so lo p er u scirn e sani e salvi52.
L a seconda specie di vendetta, invece, ha di mira non se stes si, m a l ’altro, del quale si persegue consapevolmente il male: si ha b isogn o di tem po, quando coi propri pensieri si p a ssa d a sé a ll’ av versario e ci si chiede in quale m aniera lo si p o ssa colpire nel m odo più doloroso: suo presupposto è un riflettere su lla vulnerabilità e sulla cap a cità di soffrire d e ll’ altro: si vuole far il m ale53. 50 Ibidem. 51 M enschliches, Allzum enschliches, II, «D er Wanderer und sein Schat ten», 33. 52 Ibidem. 53 Ibidem. Nell’ambito di una indagine sull’ «uso politico della crudeltà», di recente è stato osservato: «L a scelta della crudeltà si iscrive sempre nella logi ca di un insieme di credenze condivise dal carnefice e dalla vittima. Voler far del male presuppone una certa perspicacia da parte del carnefice verso il suo oggetto ed il suo programma riflette, come in uno specchio, la definizione che
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È in questa specie di vendetta che entra propriamente in gioco la volontà del male ed è, in realtà, a questa specie di vendetta che appartiene la morale della colpevolizzazione analizzata e denun ciata da Nietzsche. È forse da notare il fatto che tutta la certamente violenta polemica di Nietzsche nei confronti della figura del debole o del malato nasce non da un disprezzo verso chi si caratterizza, rispetto ad altri, per una qualche forma di minorità, m a dalla volontà di vendetta, dalla disposizione crudele che il debole o il malato, a causa della propria debolezza o malattia, ha stori camente manifestato - anche nella forma della morale della col pevolizzazione - verso chi si trova in una posizione di forza o salute, cioè in una posizione, rispetto a lui, di superiorità54. Egli critica i deboli non per la loro debolezza, m a per non aver accet tato la propria condizione di debolezza (relativa: debolezza rispetto ad altri più forti), per aver costruito tutto un sistem a di «verità» teoriche (l’ uomo com e essere assolutamente libero55) egli ha della propria vittima. Il gesto violento è meno preciso, rompe e distrug ge la cosa o l’essere nemico come ostacoli. L a spirale della crudeltà vuole otte nere qualcosa in più della semplice sconfitta dell’altro: la crudeltà vuole rovi nare la vittima dinanzi ai suoi stessi occhi, vuole fa rle rimpiangere di essere nata, la vuole distruggere fin nel ventre materno: la vittima deve vivere abba stanza per seguire con tutta coscienza il cammino della propria deturpazione. Un insulto in Francia dice: “Porta tua madre che ti cambio i connotati” (amène ta mère que je te refasse), ponendo così in prospettiva il luogo ove questo percor so si conclude, il ventre della madre, che il carnefice raggiunge attraverso la sof ferenza del suo frutto: il carnefice “rifà” (refait) la sua vittima, è il creatore in essa nel dolore, cosa che viene ben espressa nell’insulto di prima» (V. N ahoumGrappe, L ’ u s o politico della crudeltà: l ’epurazione etnica in ex-Jugoslavia [1991-1995], p. 197). 54 A proposito della morale dei deboli come espressione di crudeltà è stato osservato: « l’impotente ha bisogno di veder soffrire l’altro; egli vuole far male; umiliare i forti è ciò che giustifica la sua esistenza; la morale egualitaria è il suo veleno per eccellenza; e se essa condanna la crudeltà, è perché non ha coscien za della sua propria» (O. R eboul, Nietzsche critique de Kant, p. 91). 55 Per la critica della teoria dell’uomo come essere assolutamente libero, cfr., fra gli altri, Menschliches, Allzumenschliches, I, 102, 106, 107; Morgenröthe, 120, 124, 128; Götzen-Dämmerung oder wie man mit dem Hammer philo sophiert, «Die vier grossen Irrthummer», 8.
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e m orali (l’ uomo che, in quanto assolutamente libero, è anche assolutamente responsabile, nel bene e nel male, delle proprie azioni o delle proprie intenzioni56), il cui scopo fondamentale è stato quello di neutralizzare il «potere» dei forti, di ridurre i forti alla condizione della debolezza attraverso l’ arma della colpevolizzazione. Nietzsche critica i deboli, in altri termini, per questa speciale forza, che, non accettando la propria debolez za, essi hanno saputo esprimere: una forza intrisa di volontà di vendetta, di crudeltà verso coloro che vedevano come esseri, rispetto a loro, superiori57. Per Nietzsche, l’operazione perse guita dai deboli attraverso la morale della colpevolizzazione è, sul piano storico, fondamentalmente riuscita, ossia sul piano storico ha avuto successo la logica del «risentim ento», della
56 Per la critica della teoria dell’uomo come essere assolutamente respon sabile, cfr., fra gli altri, M enschliches, Allzum enschlisches, I, 105 e ancora il 107; M orgenröthe, 128; G ötzen-D äm m erung, ancora «D ie vier grossen Irrthummer», 8. 57 Sottolineando il fatto che, per Nietzsche, i deboli esprimono un tipo “reat tivo” di forza (in generale bisogna distinguere tra «forze attive primarie, di con quista, di soggiogamento», e «forze reattive secondarie, d ’adattamento e di rego lazione»), Deleuze osserva che, se «la volontà di potenza fa in modo che le forze attive affermino, e affermino la propria differenza: in esse l’affermazione è pri maria e la negazione non è mai altro che una conseguenza, come un sovrappiù di godimento», «la proprietà delle forze reattive, al contrario, è quella di oppor si in prima istanza a ciò che esse non sono, di limitare l ’altro: in esse la nega zione è primaria, è attraverso la negazione che esse giungono ad una parvenza di affermazione» (G. D eleuze, Nietzsche, pp. 20-1 [tr. it., pp. 28-9]). Anziché affermare se stesso nella propria particolarità, nel proprio particolare grado di forza, e a ciò limitarsi, il debole essenzialmente nega l’altro da sé (il forte) nella sua particolarità, nel suo particolare grado di forza. Il senso di questa negazio ne è così chiarito da Deleuze: «i deboli, gli schiavi non trionfano sommando le proprie forze, ma sottraendo quelle dell’altro: separano il forte da ciò che può. Trionfano non per la composizione della loro potenza, ma per la potenza del loro contagio. Esse provocano un divenire-reattivo di tutte le forze. È questa la “dege nerazione”» (ivi, p. 22 [tr. it., p. 30]). Il forte viene separato da ciò che può e finisce per considerare colpevole fare ciò che può fare in quanto forte: è questo l ’effetto del «contagio» di cui egli è vittima da parte del deboli. Il contagio può essere identificato nel far proprio, da parte del forte, il sistema di valutazione (colpevolizzazione) costruito dal debole per neutralizzare il forte.
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vendetta, della crudeltà, della volontà di distruzione di ciò che si pensa sia superiore a se stessi (caso particolare di una logi ca della negazione delle differenze individuali)58. In quella ope razione la m orale cristiana - ogni m orale «cristian a», ogni morale «egu alitaria», ogni m orale d ell’ «altru ism o» - trova, secondo Nietzsche, la propria genesi. Per i deboli, la vera vendetta sarebbe che gli esseri a loro superiori (o tali da loro ritenuti) non ci fossero mai stati (cosa manifestamente im possibile) o, almeno (cosa del pari im possi bile), che non ci fossero più o smettessero di essere superiori, cioè, appunto, che egli non fosse «il debole» in rapporto ad esseri a lui superiori. Proprio perché la vera vendetta non gli è possibile, al debole non rimane che, da un lato, colpevolizzare l’essere forte, dall’ altro, presentare, invece, se stesso, almeno di fatto, com e figu ra m orale p o sitiva contrapposta alla figu ra morale negativa dell’ essere forte. Per quanto riguarda, in parti colare, il secondo aspetto dell’ operazione (presentazione di sé com e figura moralmente positiva), accade così che 1’ «impoten za che non si prende la rivalsa» si presenti com e «bontà»: il debole fa credere che è per bontà che ha scelto la debolezza; che la «tim orosa abiezione» si camuffi da «um iltà» e «la sot tomissione dinanzi a coloro che odiam o» da «obbedienza»; che il debole che sta «alla finestra», perché non può che stare alla finestra, dia al suo stare alla finestra «un buon nome»: il non poter non stare alla finestra diventa «pazienza»; che lo stesso «non-potersi-vendicare» venga presentato com e «non-volersivendicare»59. D a un lato, presentazione, da parte del debole, di se stesso non com e debole di fatto, m a com e buono, umile, obbediente, paziente, non vendicativo: come colui che ha scel to di essere debole (di contenere entro certi limiti l’ esercizio della propria potenza) e, p er questo, è buono, umile, ecc.: egli avrebbe potuto scegliere di essere forte ma, per ragioni morali,
58 Sulla morale del risentimento, cfr. G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie, pp. 127-68 (tr. it., pp. 139-74). 59 Zur Genealogie der M oral, 1 ,14 (tr. it., p. 246).
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ha scelto di non esserlo; dall’ altro, presentazione, da parte del debole, del forte non com e forte di fatto, ma, innanzitutto, come colui che ha scelto di essere forte (di estrinsecare la propria poten za oltre certi limiti, cioè, in realtà, oltre i limiti della potenza dei deboli) e, per questo, non è buono, non è umile, non è paziente, in breve, è colpevole: egli avrebbe potuto essere debole, ma, per difetto di moralità, ha scelto di essere forte: in questi due momen ti si articola la strategia vendicativa m essa in atto dai deboli per cercare di ridimensionare, nella misura possibile, la superiorità degli esseri forti, oggetto del loro «odio». L a colpevolizzazione, m essa in atto dai deboli, di coloro che rispetto a loro sono diver si, cioè dei forti, si accompagna, d ’altra parte, a volte, contrad dittoriamente, a una disponibilità al perdono «giacché costoro non sanno quel che fanno - noi soltanto sappiam o quel che essi fanno»60. L a colpevolizzazione, infine, non esclude l ’«am ore» verso gli stessi esseri colpevolizzati: «S i parla anche dell’“amore verso i propri nemici” », ma, Nietzsche aggiunge, «intanto si suda»61. Egli scrive: O d o so ltan to o ra qu el ch e e s s i g ià tanto sp e s so d icev an o : «N o i bu on i» - «noi siamo i giusti» - a quel che pretendono non dànno il nom e di rivalsa, b en sì di «trion fo d ella giustizia»; quel che e ssi odian o non è il loro nem ico, no! E ssi odiano 1’ «in g iu stizia», l ’ «em p ie tà»; quel che cre dono e sperano, non è la speranza della vendetta, l ’ebbrezza della dolce vendetta («più dolce del m iele» - g ià la ch iam av a O m ero), ben sì la vit toria di D io, del D io giusto su gli em pi; quel che resta loro d a am are sulla terra non sono i fratelli n ell’ odio, m a i loro «fratelli nell’ am ore», com e e ssi dicono, tutti i buoni e i giusti d e lla terra62.
Proprio perché, per i deboli, «bestie del sottosuolo sature di vendetta e d ’ odio», la vera vendetta non è su questa terra pos sibile, essi fanno appello e vivono nell’ attesa del «giudizio fina le » divino che sancirà eternamente il loro merito e condannerà 60 Ibidem (tr. it., p. 246). È una citazione dal Vangelo secondo Luca. 61 Ibidem, p. 296 (tr. it., p. 246) 62 Ibidem, pp. 296-7 (tr. it., p. 247).
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alla punizione eterna i forti: «m i dicono che la loro m iseria sarebbe un’elezione e un segno di distinzione da parte di Dio, che si battono i cani che più ci son cari; forse questa miseria sarebbe altresì una preparazione, una prova, un am m aestra mento, e forse ancora di più - qualcosa che un giorno verrà compensato e pagato con enormi interessi in oro, m a che dico! In felicità. E d essi chiamano tutto ciò “beatitudine” » 63. L ’idea dei deboli (idea alla quale essi vogliono convincere se stessi e gli altri) è che «non soltanto sono migliori, ma che “ stan no meglio” , o che comunque un giorno “ staranno meglio” ». Il fatto è che questi deboli [ ...] , a un certo m om ento, anch’ e ssi voglion o essere forti, non v ’ è dubbio, a un certo m om ento deve venire anche il loro «reg n o » - p resso di loro si ch iam a né più né m eno che «regn o d ’ id d io »64.
Essi hanno bisogno della beatitudine eterna, stabilita dal giudi zio divino, per poter «rifarsi eternamente» della loro «miseria» ter rena65. Come Nietzsche scrive con riferimento evidente alla mora le cristiana, «i concetti di “ al di là” , di “ giudizio finale” , d’“immor talità dell’ anima” , quello stesso di “anima” sono strumenti di tor tura, sono sistemi di crudeltà»66. Una morale e una religione, che si sono presentate come morale e religione dell’amore, sono state, invece, una morale e una religione della crudeltà? L’ amore cristia no nasconde qualche forma di crudeltà? Un frammento chiarisce quale sia il punto di vista di Nietzsche al riguardo: D a che dipende che il cristianesim o ab b ia d iffu so in E u ro pa la cru deltà verso gli anim ali, nonostante la su a religione d ella co m p assion e? F o rse perché e s so è, piuttosto, una religion e d e lla crudeltà v e rso gli uom ini67.
63 Ivi, p. 296 (tr. it., pp. 246-7). 64 Ivi, 1 ,15, p. 297 (tr. it., p. 248). 65 Ibidem (tr. it., p. 248) 66 D er Antichrist, 38, p. 208 (tr. it., p. 213). 67 N achegelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 7 [26].
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Se così è, se, cioè, è il debole che, insoddisfatto e frustrato per la propria condizione di debolezza in rapporto alla condi zione di forza di altri, «inventa» la morale della colpevolizzazione per cercare di uscire in qualche modo dalla propria nega tiva condizione, al debole - a questo tipo di debole - si addi ce la seguente osservazione di Nietzsche contenuta in un fram mento del 1877: L a crudeltà è sp esso il segn o di una insoddisfazion e interiore che desidera di essere n arcotizzata; co sì pure u n a certa crudele brutalità nel pen siero68.
Per Nietzsche, del resto, anche movimenti e soggetti politi ci che, di fatto o in maniera esplicita, si sono definiti alternati vamente rispetto, tra l ’altro, al cristianesimo, al quale soprat tutto N ietzsche vede collegato lo sviluppo della m orale del «giu dizio», della morale della colpevolizzazione e della puni zione, non sono estranei alla volontà del male nella forma pro prio della logica della colpevolizzazione. Il riferimento è, qui, a quanto Nietzsche scrive, in un pagina del Crepuscolo degli idoli, sugli anarchici e sui socialisti. L ’ anarchico che, «com e portavoce di strati sociali in declino, rivendica, con bella indi gnazione, “ diritto” , “ giustizia” , “uguaglianza di diritti” , agisce sotto il peso della sua «incultura, la quale non sa comprendere, perché mai effettivamente egli soffra, di che cosa sia povero, cioè di vita». In lui è all’ opera un «istinto di causalità» per il quale «ognuno deve essere responsabile del fatto che lui si trova m ale». N e ll’ anarchico che si lam enta, che brontola, che si abbandona alla «bella indignazione», agisce «una sottile dose di vendetta» onde «si rimprovera come un torto, com e un inde bito privilegio, il proprio trovarsi male, talora persino la pro pria m alvagità, a coloro che sono diversi. “ S e io sono una cana glia, dovresti esserlo anche tu” : su questa logica si fanno le rivoluzioni». L ’anarchico, com e anche il socialista, attribuisce la causa del proprio «trovarsi m ale» ad altri, a differenza del 68 Nachgelassene Fragm ente 1876 bis Winter 1877-1888,18[6].
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cristiano che - dice qui Nietzsche - la attribuisce a se stesso. Ma ciò che di «com une» vi è tra l’anarchico e il socialista, da un lato, e il cristiano, dall’ altro - e si tratta di qualcosa di «inde coroso» - è che, per gli uni e per l’altro, «qualcuno deve esse re colpevole della sofferenza - sta insomma nel fatto che il so f ferente prescrive a se stesso, contro il suo dolore, il miele della vendetta»69. Qui, com e in molti altri luoghi, Nietzsche rappre senta il cristiano come un uomo che colpevolizza se stesso per la propria sofferenza: il cristiano ha interpretato la propria so f ferenza come effetto di una propria colpa, com e punizione per una propria colpa - come espiazione. L ’ autocolpevolizzazione ha portato il cristiano a conciliarsi con la sofferenza della pro pria esistenza, ad accettarla, anzi a volte a cercarla, a cercare di procurarsela, - così com e la colpevolizzazione dell’ altro (degli esseri «forti» o «san i»), della quale, pure, il cristianesimo (o anche il cristianesimo) è stato promotore, è servita a riequili brare il rapporto di potenza sbilanciato con i «forti» o i «san i», che, per il debole, risulta fonte di sofferenza e frustrazione. In realtà, colpevolizzazion e d e ll’altro e autocolpe volizzazion e assolvono, nel cristiano, il com pito di risolvere, in qualche modo, il problema della sua sofferenza: o attraverso la sua giu stificazione (perché N ietzsche ha anche scritto che l ’uom o accetta pure la sofferenza purché essa sia giustificata, provvista di un «sen so »: quel che non accetta è la sofferenza ingiustifi cata, sprovvista di senso, assurda70) o attraverso un tentativo di rimozione della sua causa (rapporto sbilanciato con gli esseri giudicati superiori). L a convergenza, in particolare, tra cristia ni e socialisti è espressa anche in un brano come il seguente: anche qu ando il cristian o condan n a, calu n n ia, in so z z a il « m o n d o » , lo fa su lla b a se d e llo ste sso istin to d a cui p ren de le m o sse l ’ op eraio so c ialista p er condannare, calunn iare, in so zzare la so c ie tà : p erfin o il
69 Per i brani appena riportati relativi all’anarchico, al socialista e al cristia no, cfr. Götzen-Dämmerung, «Streifzüge eines Unzeitgemässen», 34. 70 Zur Genealogie der M oral, II, 7, p. 320 (tr. it., p. 267).
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«g iu d iz io fin ale» è ancora il dolce conforto della vendetta (d e r sü sse T rost d e r R ach e) - è la rivoluzione, co m e se l ’ aspetta anche l ’operaio socialista, soltanto pen sata un p o ’ lo n tan a... L o stesso «a l di là » - a che scop o un al di là, se non fo sse un m ezzo p er insozzare l ’ al di q u a ?71
Si è poco fa richiamato il collegamento, sul quale Nietzsche molto insiste nella sua riflessione, tra cristianesimo e morale della colpevolizzazione. In effetti, Nietzsche fa risalire il cristianesimo in quanto morale della colpevolizzazione e della punizione non a Gesù, ma ai suoi discepoli e seguaci, prima di tutto a Paolo72, e alle «prime comunità cristiane»73. Gesù era stato, come Nietzsche ripetutamente sottolinea nell ’Anticristo, del tutto estraneo alla logica del «giudizio», alla logica della colpevolizzazione e della punizione. L a «fede», che con Gesù si afferma (in ogni caso «Non è una “fede” a distinguere il cristiano: il cristiano agisce, si distin gue mediante un agire diverso»74), «non si sdegna, non rimpro vera, non contrasta: non porta la “ spada” - non presagisce affat to fino a che punto potrebbe un giorno arrivare a dividere»75. Il cristiano (ma per Nietzsche «in fondo è esistito un solo cristiano e questi morì sulla croce»76). non oppone alcu na resisten za né a p arole e neppure nel su o cuore a colui che è m alvagio verso di lui. N on fa differenza tra gli stranieri e la sua gente, tra E b rei e non E brei [ ...] N on v a in collera contro nessuno, non tiene in dispregio nessuno. N on si fa vedere nei tribunali, né si lascia chiam are a giudizio («n on giurare»). In nessun m odo, neppure nel caso di una p rovata infedeltà d ella su a donna, si sep ara dalla su a donna77. \
Gesù «ha chiuso i conti con l’intera dottrina ebraica della penitenza e della conciliazione [...] C iò che fu liquidato con 71 Götzen-Dämmerung, «Streifzüge eines Unzeitgemässen», 34, p. 127 (tr. it., p. 131). 72 D er Antichrist, 41,42, 44, 46, 58. 73 Ivi, 31, 44. 74 Ivi, 33, p. 203 (tr. it., p. 207). 75 Ivi, 32, p. 201 (tr. it., p. 205). 76 Ivi, 39, p. 209 (tr. it., p. 214). 77 Ivi, 33, p. 203 (tr. it., p. 208).
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l’Evangelo, fu l’ebraismo delle nozioni di “peccato” , “remissione dei peccati” , “fede” , “redenzione mediante la fede” - l’intera dot trina ebraica era negata nella “buona novella” » 78. Dopo la sua morte, avvenuta sulla croce, «in generale [...] riserbata esclusivamente alla canaglia», i discepoli si interrogaro no sul suo significato: «In lui tutto doveva essere necessario, tutto doveva avere un senso, una ragione, una suprema ragione: l’a more di un discepolo non conosce il caso»79. Per comprendere il significato di quella morte, si cercò di capire chi avesse ucciso Gesù. Si arrivò alla conclusione che ad uccidere Gesù era stato « l’ebraismo dominante, la sua classe più elevata»: D a qu esto m om en to ci si sentì in rivolta contro l ’ ordine, più tardi si v id e in G e sù un rib e lle co n tro l ’o rd in e. F in o a d allo ra era m an ca to alla su a im m agin e qu esto tratto b e llico so , qu esto tratto n egatore n ella p aro la e n e ll’ azio n e; d i p iù an cora, e s so ne e ra la su a ste ssa co n traddizione. L a p icco la com unità non ha evidentem ente com preso pro prio la c o sa principale, quel che v ’ era di esem plare in qu esta m aniera di morire, la libertà, la superiorità su ogni sentim ento di ressen tim ent: un indice, questo, di quanto p o co e s sa com prese di lui! In sé, con la su a morte, G esù non potè volere nuli’ altro, se non dare pubblicam ente la prova più forte, la dim ostrazion e d ella su a dottrina .. .M a i su oi d isce poli erano lontani dal p erd o n are questa m orte - il che sarebbe stato evan gelico nel sen so più alto; o d a ll’o ffrirsi a una sim ile m orte addirittura con una m ite e so ave placidità nel cuore .. .Tornò nuovam ente a galla proprio il sentim ento m eno evangelico, la vendetta. Im po ssib ile che la faccend a potesse concludersi con qu esta m orte: si a v e v a b iso g n o di u na
78 Ibidem. M a in Nietzsche è dato leggere, relativamente alla figura di Gesù, anche giudizi di ben altro tenore, come, per esempio, il seguente: «Gesù: vuole che si creda a lui, e spedisce all’inferno tutti coloro che si oppongono [...] La bontà con il suo massimo contrasto nella stessa anima: egli fu il più malvagio di tutti gli uomini. Senza l’ombra di una giustizia psicologica. Il folle orgoglio che trova il piacere più sottile nell’ umiltà» (Nachgelassene Fragm ente Frühjahr bis H erbst 1884, 25[156]). Sul rapporto Nietzsche-cristianesimo, cfr. K. J aspers, Nietzsche und d as Christentum', K. L owith, Von H egel bis Nietzsche, pp. 396401 (tr. it., pp. 577-84); E. FINK, Nietzsches Philosophie, pp. 134-8 (tr. it., pp.
169-73). 78 D er Antichrist, 40, p. 211 (tr. it., p. 216).
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«rip a ra z io n e » , di un « g iu d iz io » ( - ep pu re ch e altro p u ò e sse re m eno e v a n g e lic o d e lla «rito rsio n e », del « c a s t ig o » , del «so tto p o rre a g iu d i z io ?). A n co ra u na v o lta venn e in p rim o p ian o l ’ atte sa p o p o lare di un m e ssia ; si p rese di m ira un m om en to storico: il «re g n o di D io » vien e p er g iu d ic a re i su o i n em ici80.
Ci si chiese anche, infine, come Dio avesse potuto permettere tutto ciò. A questo la turbata ragione della p icco la com unità trovò una risp o sta di un’ assurdità addirittura spaven tosa: D io dette suo fig lio p er la rem ission e dei peccati, com e vittim a. F u di punto in bianco la fine del V angelo! Il sa c rific io esp iato rio , e proprio nella su a form a più ripugnante e più barbara, il sacrificio d e ll’ innocente per i peccati dei rei! Q uale rac capricciante p agan esim o! - G e sù av ev a abolito precisam ente la nozione di « c o lp a » - egli ha negato ogn i frattura tra D io e uom o, h a v issu to que sta unità di D io e uom o co m e la su a «lieta n ovella» .. .E non co m e pri v ile g io !81.
6. L a m orale a l d i là d ella colpa In alcune pagine di Genealogia della morale dedicate al signi ficato, anzi ai significati, che storicamente sono stati attribuiti alla pena, Nietzsche si sofferma sul «rimorso», sul «sentimento della colpa», sulla «cattiva coscienza», che, secondo la «coscienza popolare», sarebbero indotti dall’azione penale in coloro che di tale azione sono oggetto e nei quali consisterebbe il significato più rilevante della azione penale82. Ma, nota Nietzsche, L ’ autentico rim orso è q u a lc o sa di estrem am en te raro p rop rio tra delinquenti e galeotti [ ...] Secon do una considerazione di m assim a, la pen a indurisce e ragge la; concentra; acu isce il sen so di estraneità; rin sald a la forza di resisten za83.
80 Ivi, pp. 211-2 (tr. it„ pp. 216-7). 81 Ivi, 41, pp. 212-3 (tr. it„ p. 218). 82 Zur Genealogie der M oral, II, 14, p. 234 (tr. it, p. 280). 83 Ivi, p. 335 (tr. it., pp. 280-81).
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Il rimorso, d ’altra parte, per Nietzsche, è solo un nome che indica qualcosa di diverso da ciò che è realmente in gioco: colui che «prova rimorso», in realtà, non disapprova affatto in se stes sa l’azione commessa, non la disapprova in quanto in sé ingiusta, ma rimprovera se stesso in quanto non è stato capace di condur la in porto senza incappare nella rete del sistema punitivo. Egli si rimprovera di non essere stato in questo senso sufficientemente abile, accorto, attento. Nietzsche spiega il concetto di rimorso rifa cendosi a Spinoza, il filosofo che «aveva confinato bene e male tra le immaginazioni umane», restituendo il mondo a «quella inno cenza, in cui si trovava prima che fosse escogitata la cattiva coscienza»84. Egli cita la definizione spinoziana del «morsus conscientiae» come «tristezza accompagnata dalla rappresentazione di un fatto trascorso che ha avuto un esito contrario a ogni aspet tativa»85. Nietzsche commenta: I rei di m alefatte, raggiu n ti d a lla pen a, hanno p er m illen ni av v e r tito il loro « fa llo » in m an iera d iv e rsa d a S p in o za: «In aspettatam en te, a q u esto punto, q u a lc o sa è andato sto rto », non g ià : «Q u e sto non avrei dovuto fa rlo » [ ...] S e m ai vi fu allo ra u n a critica d e ll’ azio n e, fu l ’ a c co rtezza a esercitare una critica su ll’ azio n e; indubbiam en te, d o b b ia m o cercare il caratteristico effetto d e lla p en a soprattutto in un a g u z zarsi d e ll’ accortezza, in un p rolu n garsi d e lla m em oria, in una vo lo n tà di m ettersi d ’ ora innanzi a ll’ o p era co n p iù cau tela, co n più d iffid en za, con più segretezza, visto che p e r m o lte c o se si è decisam en te trop po deboli, in una sp ec ie di rettifica d e l p rop rio g iu d iz io su se ste ssi. C iò che con la p en a p u ò co m p le ssiv am en te e sse re raggiu n to n ell’ u o m o e n ell’ an im ale è l ’ aum ento d e lla p au ra, l ’ ag u zz a rsi d e ll’ acco rtez za, il dom inio dei desideri: in tal m o d o la p en a a m m an sisc e l ’ u om o, sen za farlo tuttavia «m ig lio re » - si p otrebbe, a m a g g io r diritto, a ffer m are il contrario86.
Dunque: 1) la pena non induce il reo al rimorso e 2) il rimor so, il cosiddetto rimorso, è solo disappunto verso se stessi per non
84 Ivi, 15, p. 336 (tr. it., p. 282). 85 Ibidem (tr. it., p. 282). 86 Ivi, p. 337 (tr. it., pp. 282-3)
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essere stati sufficientemente validi sul piano tecnico, operativo, nello svolgimento di una determinata azione. In particolare, l ’i dea che il rimorso sia solo questo disappunto vale come con statazione empirica di reazioni comunemente manifestate dagli uomini di fronte al fallimento di una loro azione, di fronte, per la precisione, al fallimento della loro azione rappresentato da qualche form a di punizione cui vanno incontro per la azione da essi compiuta (per il «m ale» che hanno fatto). Nietzsche, infat ti, abbiam o visto, in queste pagine di G enealogia della morale accenna alla possibilità di un «autentico rim orso»: «tra delin quenti e galeotti», ad essere «estremamente raro» è Inautenti co rim orso». Quanto dire che c ’ è un rim orso falso e c ’è un rim orso vero: almeno «tra delinquenti e galeotti», il rimorso vero è molto raro. Quando cita Spinoza a proposito del rimor so, tuttavia, Nietzsche mostra di credere che il rimorso è sem pre qualcos’ altro da ciò che apparentemente è: esso è qualcosa di diverso da un sentim ento m orale, il rim orso è solo una m aschera m orale : il rimorso è sempre falso. L a critica al rimor so, cioè al sentimento di colpa, alla cattiva coscienza, è, qui, critica alla m aschera che rimorso, sentimento di colpa, cattiva coscien za sono. M a la critica al sentimento di colpa ha, in Nietzsche, anche altre ragioni. L a colpevolizzazione di sé o degli altri è, sappiam o, per Nietzsche, esercizio di crudeltà. È qui un’altra ragione della cri tica nietzscheana al concetto di colpa. A parte ciò, la colpevoliz zazione è, per Nietzsche, in ogni caso, frutto di un errore, di una illusione-, l’illusione della libertà dell’uomo. D a questo lato, la cri tica della colpevolizzazione è la critica della illusione della libertà dell’uomo. Vedendo la questione sotto questo aspetto, si deve dire che, per Nietzsche, l ’esercizio della colpevolizzazione non ha alcun fondamento teorico di legittimità. Non si può colpevolizza re altri o se stessi perché si fa quello che non si può non fare: se si è agito in un certo modo, è perché non si poteva agire che nel modo in cui si è agito. Nietzsche fa qui valere una concezione dell’ uomo fondata sulla categoria della necessità. L ’uomo non è quell’ agente assolutamente libero (non necessitato), che ha rap presentato, aU’intemo di una certa tradizione morale, il presuppo184
sto del sentimento di colpa e della pratica della colpevolizzazio ne. A ll’interno di tale tradizione, la coscienza del male commes so ha preso la form a del sentimento di colpa, del sentimento di una propria colpa individuale: il peso del male commesso ricade interamente sulle spalle di chi lo commette ovvero si ritiene che a commettere il male sia, ogni volta, un individuo ben determi nato nella sua assoluta libertà. Ci si può chiedere se la critica e il rifiuto del concetto di colpa significhi, in Nietzsche, rigetto di ogni criterio morale, rigetto in assoluto di una coscienza morale, liquidazione della idea che esi stono modi d ’essere morale e modi d ’essere immorali. Per rispon dere a questa domanda, ne poniam o un’altra. Vi può essere coscienza morale senza il sentimento di una propria colpa indivi duale per il male eventualmente commesso? Per quel che riguar da il problema della coscienza morale, la posizione nietzscheana si definisce, forse, nello spazio aperto da questa domanda. Una concezione come quella nietzscheana respinge l’idea del l’uomo colpevole in quanto respinge, come si è detto, l’ idea del l’uomo come agente libero, che, nella sua libertà, sceglie di fare il male. Si potrebbe, tuttavia, pensare che una concezione di que sto tipo, che nega la fondatezza teorica dei concetti di colpa e di colpevole, possa coabitare con la affermazione di una coscienza morale come coscienza del bene e del male, come coscienza che c ’è il bene e c ’è il male, come coscienza che riconosce che si è (eventualmente) fatto il male (perché costretti da qualche forma di necessità) e per la quale ci si impegna, conseguentemente, a intervenire su se stessi per non più ripetere il male. Si tratterebbe di una concezione per la quale, in breve, vi sarebbe il male senza che vi sia un colpevole del male. Che cosa farebbe l’uomo con sapevole del male da lui commesso e che, tuttavia, non conside ra se stesso, per questo, individualmente colpevole? Possiam o anche pensare che l’uomo, che ha fatto il male ed è consapevole di averlo fatto, soffra per il male commesso Ma, se soffre, ciò accade per il semplice fatto che del male è stato commesso: egli non soffre anche perché si senta soggettivamente coinvolto come colpevole per il male prodotto (il male, in questa prospettiva, è, in realtà, stato prodotto dalla necessità, da una serie di elementi 185
fra loro legati da rapporti causali necessari). Egli soffrirebbe per il m ale da ‘lui’ commesso e si impegnerebbe, per quello che può, su di sé agendo, affinché quel male non si determini più (affin ché si determini una differente serie di rapporti causali necessari che impedisca il prodursi di quel male). È , quella nietzscheana, una visione di questo tipo? Forse sì. In ogni caso c ’è, in Nietzsche, in effetti, la indicazione di una morale, Nietzsche parla di una sua morale87, diversa da quella tradizionale, parla di una giustizia diversa da ciò che tradizionalmente si è inteso con questo termi ne. Egli critica e respinge una certa morale o certe morali ed ela bora e propone un’altra morale. Egli afferma una morale, m a punto decisivo - libera la coscienza morale da qualcosa che è stato fondamentale nella morale tradizionale e senza di cui era diffici le che potesse pensarsi qualcosa come la morale: il sentimento di colpa, il sentimento di una propria colpa individuale. L a differen za tra morale tradizionale e morale nietzschena consiste, a parte i differenti presupposti e contenuti dell’una e dell’altra, nel fatto che, nella morale tradizionale, tra coscienza morale e sentimento di colpa c ’è un legame che, nella morale nietzscheana, non c ’è più perché la coscienza morale, in Nietzsche, viene liberata dal concetto di colpa.
4. D iffusione e fenom enologìa d ella crudeltà Numerosissimi sono i luoghi, in cui Nietzsche si occupa del tema della volontà del male. A l di là dei singoli luoghi che affron tano, secondo prospettive differenti o in rapporto ad aspetti diffe renti, il tema, vi è, in particolare, un’ opera come Genealogia della morale, che può essere considerata una specie di ‘trattato’ sulla crudeltà - sulla crudeltà in quanto fondamento della storia del l’uomo sino ad oggi. A l di là dei singoli luoghi tematizzati sulla crudeltà disseminati lungo l’intera opera nietzscheana - e come
87 Cfr., per esempio, N achgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[155].
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elemento che spiega l’assai frequente richiamarsi di Nietzsche al tema - vi è appunto la valutazione nietzscheana della crudeltà in quanto è tale fondamento. Molteplici sono, si è appena detto, gli aspetti secondo i quali Nietzsche analizza il fenomeno della volontà del male, molteplici le circostanze nella quali il suo esame vede all’ opera tale volontà nel comportamento e nel pensiero del’ uomo. Egli scrive: gli uom ini traggono m olto godim ento dalla crudeltà, che è il più com u ne di tutti i diletti, per quanto si d ica tutto il m ale p o ssib ile di u n a per son a «c ru d e le »!88
L a crudeltà è atteggiamento così radicato nell’ uomo che la stessa critica della crudeltà è esercizio di crudeltà. D alla analisi nietzscheana della crudeltà emerge, da un lato, la estrema diffu sione della disposizione crudele dell’uomo della civiltà superiore, dall’altro, la assai articolata fenomenologia che tale disposizione presenta: S i getti uno sg u ard o nel retroscen a di ogn i fa m ig lia , di ogn i co r p orazion e, di ogn i com un ità: ovun qu e la b a tta g lia dei m alati contro i san i - u na b a tta g lia silen z io sa , p er lo p iù con p icc o le p o lv eri a v v e le nate, con punture d ’ agh i, con in sid io sa m im ica-da-m artiri-rassegn ati, e talo ra anche con qu el fariseism o -d a-m alati d a ll ’ acc en tu ato gestire, che a m a m o ltissim o la co m m e d ia d e lla «n o b ile in d ig n a z io n e »89.
In un frammento del 1881, nel quale parla della «storia della crudeltà» come di una «grande storia», Nietzsche annota, a titolo di esemplificazione: I cristiani nel loro com portam ento verso i p agan i; i p opoli verso i loro vicini e avversari; i filo so fi verso persone di altra opinione; tutti i Uberi pensatori; i giornalisti; tutti coloro che vivono in disparte, com e i santi. Q u asi tutti gli scrittori. Perfino nelle opere d ’ arte vi sono certi trat-
88 Nachgelassene Fragm ente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 14[20]. 89 Zur Genealogie der M oral, III, 14, p. 388 (tr. it., p. 328).
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ü dovuti al fatto che si prendono di m ira i concorrenti [ ...] C o sì pure tutte le volte che si ride, co sì la com m edia . . . 90.
Ancora un frammento del 1881, in cui c ’è il riferimento anche alle forme dissimulate della crudeltà: Storia della crudeltà; della dissim ulazione; del p ia c e re d i u ccidere (quest’ ultim o nella distruzione di opinioni, nel giudizio su opere, p erso ne, popoli, p assato - il giudice è un carnefice sublim ato)91.
Una delle forme, in cui la volontà del male può comune mente manifestarsi, è la richiesta di com passione da parte di coloro che si trovino a vivere qualche condizione di debolezza, sofferenza, infelicità e che dalla sofferenza, da loro negli altri provocata (in form a di com passione), ricevono il segno di avere ancora una forza, la forza di far male. Nietzsche critica l’idea di L a Rochefoucauld che «g li infelici sono così sciocchi, che l ’ attestazione della com passione costituisce per loro il più gran bene del m ondo» e ritiene si debba essere più severi di quanto non lo sia stato il moralista francese nella critica del «bisogn o» di com passione che gli infelici mostrano: quel bisogno va visto non «com e stupidità e carenza intellettuale, com e una form a di turbamento», m a «com e qualcosa di totalmente diverso e più sospetto»: S i o sse rv in o p iu tto sto i b a m b in i, ch e p ia n g o n o e strilla n o a llo sc o p o di esse re co m p a ssio n ati, e ch e p erc iò asp ettan o il m om en to in cu i il loro stato p u ò e sse re n otato; si v iv a a contatto con m alati e p er so n e spiritualm en te o p p resse - e ci si do m an d i se l ’ eloquente lam en tarsi e gem ere, il m ettere in m o stra l ’ in felicità non p e rse g u a in fon d o lo sc o p o di f a r m ale ai presen ti: la co m p a ssio n e ch e p o i questi atte stan o, in tanto è u n a co n so laz io n e p er i d eb oli e i so fferenti, in quan to qu esti rico n o sco n o d a e s s a d i avere p er lo m en o an cora u na forza,
90 N achgelassene Fragm ente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11 [89]. 91 Ivi, 11[100],
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nonostante tutta la loro deb olezza: la fo rz a d i f a r m ale (d ie M a c h t , w e h e z u t h u n)92.
In generale, la volontà di rendere altri partecipi delle nostre sofferenze non è che crudeltà e, più precisamente, una forma di vendetta (vendetta di chi soffre nei confronti di chi non soffre e per il fatto che non soffre): F ar partecipare alle nostre pene e preoccupazioni più gravi altri che non le hanno e che ne traggono so lo sofferenza: non è crud ele? C iò non è forse derivato d a quel sentimento che, ogni qual volta siam o colpiti d a una disgrazia, vuol vedere qualcuno so ffrire, ed è una sottile em an azio ne della vendetta?93
« E dunque», prosegue Nietzsche nel frammento dal quale è tratto il brano appena riportato, «il matrimonio e l ’am icizia non sono pieni di pericoli, perché facilitano questa crudeltà della tra slazione del dolore? È difficile non comunicare un dolore - dun que dovremmo negarcene l’occasione, e vivere in solitudine»94. D ’ altra parte, com e si è visto, la crudeltà era atteggiamento diffuso anche nelle prime comunità umane o, almeno, lo era quasi quanto lo erano le sue gioie, se è vero che, per la «più antica umanità», la crudeltà era «com m ista com e ingrediente quasi a ognuna delle sue gioie»95. A proposito delle più antiche comunità umane si è anche visto com e esse costruissero gli stes si dei com e esseri crudeli. M a, al di là delle divinità delle prime comunità umane, crudele è anche un dio concepito - è il caso, per esem pio, secondo N ietzsch e, del dio cristiano - com e «onnisciente e onnipotente, e che non provvede neppure a che la sua intenzione venga com presa dalle sue creature», un dio che «lascia persistere innumerevoli dubbi e scrupoli per interi millenni, com e se essi non fossero pericolosi per la salvezza 92 Menschliches, Allzumenschliches, I, 50. 93 Nachgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[380] (tr. it., 6[379]). 94 Ibidem. 95 Zur Genealogie der M oral, ü , 6, p. 317 (tr. it., p. 264).
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dell’ umanità, e che tuttavia mette ancora in evidenza le spa ven tose co n seg u en ze di un cadere in errore rigu ardo a lla verità», un dio che possiede la verità e osserva «com e l’ uma nità si tormenta disperatamente per e ssa »96. Crudele è un tale dio, a meno che non si pensi che egli non possa esprimersi più chiaramente, più comprensibilmente per l’ uomo (ciò che, però, inficierebbe il principio della sua onnipotenza): se così fosse, se fosse caratterizzato da questo limite, il dio sarebbe un dio di sofferenza (soffrirebbe per la sofferenza dell’ uomo), non un dio di crudeltà97. Secondo Nietzsche, Pascal “ aveva subodorato una immoralità nel «D eus absconditus e nutriva la più grande ver gogna e timore di confessarselo»: per questo egli fu assai «elo quente» «Intorno al “nascosto Iddio” e alle ragioni di tenersi nascosto e di rivelarsi sempre soltanto a metà con la parola»: Pascal, «com e uno che ha paura, parlava più forte che pote v a »98. Ed è sempre nel segno della crudeltà che, per Nietzsche, si definisce «il carattere degli europei», com e si può ricavare dal loro «rapporto con l’ estero, nell’ attività colonizzatrice: estre mamente crudele»99. Infatti «g li europei si tradiscono per il m odo com e hanno colonizzato » 10°: «il modo come l’ europeo ha fondato colonie dim ostra la sua natura di animale da preda»101. In un luogo, Nietzsche rappresenta, in rapida successione, una serie di situazioni differenti, per molti aspetti assai distan ti tra loro e che sembra, anzi, non abbiano niente a che fare l ’una con l ’altra, tuttavia accom unate appunto d all’elemento della crudeltà com e elemento che le caratterizza in maniera fon damentale. L e situazioni rappresentate, relative a vari momen ti della storia della «civiltà superiore» (segnata, com e si è visto,
96 Morgenröthe, 91. 97 Ibidem. 98 Ibidem. 99 N achgelassene Fragm ente Frühjahr bis H erbst 1884, 25[177]. 100 Ivi, 25[152], 101 Ivi, 25[163].
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da una sempre crescente spiritualizzazione della crudeltà, ma che non ha preso assoluto congedo da forme di crudeltà fisica), sono situazioni di crudeltà fìsica e di crudeltà «spiritualizzata», di crudeltà (fisica o spirituale) rivolta contro gli altri e di cru deltà (fisica o spirituale) rivolta contro se stessi, giacché, per Nietzsche, - e anche questo fa parte dell’ «aprire gli occhi» sulla crudeltà, al quale, come si è visto, Nietzsche sollecita - , «occor re sbarazzarsi senz’ altro della balorda psicologia di una volta, che intorno alla crudeltà nuli’altro sapeva insegnare se non che essa nasce alla vista delle sofferenze altru i»'02. Osserva, dun que, Nietzsche: Quel che costituisce la tormentosa voluttà della tragedia è la crudeltà; quel che nella cosiddetta compassione tragica, e persino, in ultima ana lisi, in ogni moto sublime, sino ai più alti e delicati brividi della meta fisica, determina un’impressione gradevole, riceve la sua dolcezza (Siissigkeit) soltanto dall’ingrediente della crudeltà che vi è commisto. Quel che il romano assapora nell’arena, il cristiano nelle estasi della croce, lo spagnuolo alla vista dei roghi e delle corride, il giapponese di oggi, quando fa ressa per assistere alla tragedia, l’operaio dei sobborghi parigini, con la sua nostalgia di sanguinose rivoluzioni, la wagneriana, che nella sospensione della sua volontà «soggiace» al Tristano e Isotta - ciò che tutti costoro assaporano e cercano sono i filtri aromatici della grande Circe «crudeltà»102103. D ’altra parte, esiste un copioso, esorbitante piacere anche dei propri dolori, del pro prio farsi-soffrire - e tutte le volte che l’uomo si lascia persuadere all’autonegazione in senso religioso o all’automutilazione, come acca de tra i Fenici e gli asceti, o in generale a fuggire i sensi, a disincar narsi, alla contrizione, alle convulsioni penitenziali dei puritani, alla vivisezione della coscienza e al pascaliano sacrifizio dell’intelletto, è la sua crudeltà ad attirarlo e incalzarvelo segretamente, è quel peri coloso brivido di una crudeltà rivolta contro se stesso. Si consideri,
102 Jen seits von Gut und B öse, 229. 103 Ibidem.
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infin e, ch e anche l ’ u om o d e lla co n o sce n z a , allorch é co strin ge la su a m ente a co n o sce re in co n trasto con l ’inclinazione d ella m ente e ab b a stan za di frequente anche contro i desideri del suo cuore - cioè a pro nunciare un no, laddove vorrebbe afferm are, am are, adorare - , esercita il su o potere co m e artista e co m e trasfigu ratole d ella crudeltà; g ià ogni prendere le c o se in profondità e alle radici è un atto di violenza, una volontà di far soffrire diretti contro quel fondam entale volere dello sp i rito ch e m ira incessantem ente all’ apparenza e alla superficie - g ià in ogni volontà di con oscen za c ’è una g o c cia di crudeltà104.
In un frammento della primavera del 1884, Nietzsche elenca alcuni princìpi (precisamente sette), che rappresentano i punti o alcuni dei punti fondamentali della sua concezione filosofica. Uno di questi principi (il terzo) è il seguente: Il c o ra g g io n ella m ente e nel cuore è ciò che co n trad d istin gu e noi uom ini europei: conquistato n ella lotta tra m olte opinioni. M a ssim a dut tilità, n ella lotta contro religioni diventate cavillose, e un duro rigore, anzi crudeltà. L a vivisezion e è u n a p ro v a : ch i non la sopporta non è dei nostri105.
Proprio perché esiste un rapporto tra conoscenza e crudeltà, Nietzsche scrive che uom ini m alv agi e m alfam ati p o sso n o rendere segnalati servigi alla cono scen za m orale, a condizione che, in generale, abbiano abbastanza spiri to e intelletto per trovar piacere nella co n oscen za106.
Infatti, per realizzare delle effettive conoscenze in campo morale occorre il po ssesso di determinate qualità, che più facil mente posseggono gli uomini m alvagi e malfamati che non gli uomini «buoni»: la «debolezza» e «arrendevolezza» dell’uomo «buono», «la sua m ancanza di diffidenza, il suo voler disto gliere lo sguardo, il suo non voler veder chiaro, il suo timore di far soffrire, necessaria conseguenza di ogni dissezione della 104 Ibidem. 105 N achgelassene Fragm ente Frühjahr bis H erbst 1884 , 25[307], 106 Ivi, 26[190].
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cam e e dello spirito, sono altrettanti pericoli per la conoscenza m orale»107. In particolare notiamo del brano l ’osservazione che la conoscenza in campo morale determina anche effetti di so f ferenza, che l’uomo «buono» non riesce a sostenere. Proprio per gli effetti di sofferenza prodotti dalla conoscenza morale, l’uomo m alvagio, l’ uomo che trova il proprio piacere nel pro curare sofferenza agli altri o anche a se stesso, può trovare, al contrario, nella conoscenza dei fatti morali, o nella diffusione di tale conoscenza, motivi o occasioni per soddisfare il proprio gusto crudele. D el resto, «una persona, per il fatto di essere m al famata e m essa al bando dal gregge» (come accade all’uomo m alvagio), «è anche esonerata da quell’ ipocrisia che fa parte dei doveri prim i della coscien za g re g a ria »108, ip o crisia che im pedisce di vedere le cose della sfera morale secondo verità. È da notare, d ’ altra parte, che, per Nietzsche, non solo l ’uomo m alvagio, purché trovi piacere nella conoscenza, può arrecare servigi alla conoscenza morale, m a la scienza in generale non può procedere se in essa non siano «continuamente» operanti, «in dosi delicate», elementi com e «ostilità, diffidenza, vendet ta, spirito di contraddizione, astuzia, sospettosità; questo ele mento di cattiveria si riscontra sempre nel coraggio, n ell’ e quità, n ella à x a Q a |i a d ella sc ie n z a » 109. In un fram m ento N ietzsch e rileva la sublim azion e d ella crudeltà in volontà conoscitiva: «In che senso noi oggi, com e uomini della cono scenza, ci serviam o di tutti i nostri istinti m alvagi e siam o ben lungi dal desiderio di stringere un patto tra virtù e conoscen za. Tutti gli istinti m alvagi sono diventati intelligenti e curio si, scien tifici»110. Il rapporto tra «intelletto» e crudeltà presenta, in Nietzsche, anche un altro aspetto - oltre quello degli effetti di conoscenza
107 Ibidem. 108 Ivi, 26[185], 109 N achgelassene Fragm ente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 15[1]. 110 Nachgelassene Fragm ente H erbst 1887 bis M ärz 1888, 10[97]. Sul problema della conoscenza in Nietzsche, cfr. B. E. B abich, Nietzsche’s Philosophy o f Science', A. N egri, Nietzsche. L a scienza sul Vesuvio.
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che una disposizione crudele può produrre, per esempio nell’am bito della conoscenza morale. È l’ aspetto consistente nella reci proca relazione tra «raffinam ento» dell’ «intelletto» e «raffina m ento» della «cattiveria»: «Il raffinam ento d ell’ intelligenza affina anche la nostra cattiveria, e il piacere dell’ intelletto fini sce per procurarci anche il piacere per la cattiveria raffinata degli altri. Vi è progresso nel grado in cui l’uom o può soppor tare la cattiveria senza soffrire » 1U. Quanto più il nostro intel letto si raffina tanto più raffinate sono le nostre cattiverie, tanto più, inoltre, siamo in grado di provare piacere per la cattiveria raffinata degli altri. Il frammento citato suscita alcune doman de e problemi, che ci limitiamo a formulare. Che c o s’ è il «p ia cere dell’intelletto»? Vi entra com e suo elemento costitutivo qualche form a di crudeltà o è qualcosa di distinto da e ssa? N ella parte finale del frammento, relativa al «progresso» rappresen tato dalla capacità di sopportare la cattiveria senza soffrire, Nietzsche si riferisce a qualche causa particolare del supera mento di tale sofferenza? S i può pensare, infatti, che si arrivi a soffrire sempre meno della cattiveria per una accresciuta indif ferenza nei suoi confronti o per un raggiunto sentimento di superiorità verso di essa o perché si perviene alla considera zione che coloro, che mettono in atto qualche cattiveria, non sono responsabili di quel che fanno o per qualche altra ragione ancora. E il progresso, di cui Nietzsche qui parla, è semplicemente nella crescente capacità, comunque conseguita, di soffri re sempre meno della cattiveria o nella crescente capacità di soffrire sempre meno della cattiveria sulla base di motivi deter minati (per esem pio qualcuno di quelli appena accennati)? Un aspetto del fenom eno d ella crudeltà sottolin eato da Nietzsche è il rapporto fra crudeltà e orgoglio. L a crudeltà è un m odo in cui a volte l ’uomo esprime il proprio orgoglio o in cui riafferm a il proprio orgoglio quando esso sia stato in qualche modo ferito. Infatti, « L a crudeltà è la medicina dell’orgoglio 1
111 N achgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[142].
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ferito»112. È il caso di chi, tremando per qualcosa, «si vendica su chi la fa tremare. Avere davanti a sé l’ oggetto del passato timore e ora infliggergli perfino le umiliazioni peggiori e le m aggiori sofferenze è per l ’orgoglioso motivo di m assim o pia cere»; è il caso di «Tutti i forti che spezzano se stessi e si sot tomettono a una legge»; è il caso di «Tutte le persone m isco nosciute, umiliate, annoiate», le quali «sono crudeli», perché «il loro orgoglio è continuamente ferito»; è il caso dei «deboli», i quali “ sono crudeli, proprio perché pretendono la com passione altrui. Cioè: esigono che anche gli altri soffrano quando loro soffrono e sono «deboli»; è il caso degli artisti, che «vogliono con tutti i mezzi che le loro esperienze vissute abbiano ed eser citino il loro violento potere, che le loro sofferenze diventino le nostre!»; è il caso dei «predicatori di penitenza, i quali assa porano tutta la seduzione demoniaca e assillante delle loro pre diche proprio quando disprezzano pubblicam ente la grande potenza, quando vogliono costringere i potenti e i nobili alla stessa costrizione e astinenza degli infimi: questa crudeltà del l’orgoglio è senza confronti!»113. M a vi sono altri aspetti ancora del fenomeno della crudeltà messi in luce da Nietzsche. Egli sottolinea il carattere «propulsivo» nei confronti dell’atti vità dell’ uomo che, in ogni caso, una «azione cattiva» riveste: «S i sottovaluta il valore di un’azione cattiva, se non si calcola anche quante lingue essa fa muovere, quanta energia scatena, e quanti uomini induce alla riflessione o all’esaltazione»114. Egli nota, inoltre, la consustanzialità, per così dire, del senti mento della vendetta ad ogni atto di accusa che l’uomo muova sia contro gli altri che contro se stesso: N essu n o accu sa sen za avere il pensiero recondito d ella punizione e d ella vendetta - anche quando si acc u sa la propria sorte, anzi se stessi.
1,2 Nachgelassene Fragm ente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 12(217]. 113 Ivi, 14(20], 114 Nachgelassene Fragm ente 1876 bis Winter 1877-1878, 19(34],
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O gn i lam entarsi è accusare, ogni allietarsi è lodare: che facciam o l ’una o l ’ altra co sa, ne rendiam o sem pre responsabile qu alcu no115.
Così, ancora, l’indagine anche psicologica, che sul fenomeno conduce, porta Nietzsche alla osservazione che un riflesso del sen timento della vendetta si può cogliere nello «sguardo» di un deter minato tipo di persone in determinate circostanze: L e stesse persone che p o sseggo n o il giu o co naturale dello sguardo in cerca di favore e di protezione, di solito hanno anche, in conseguen z a delle loro frequenti um iliazioni e dei loro sentimenti di vendetta, lo sguard o im pudente116.
Ancora: Nietzsche rileva come l ’esercizio della crudeltà si basi sulla credenza erronea nella responsabilità dell’uomo (ciò, almeno, a partire da un certo momento della storia umana: come si è accennato, quella della responsabilità è un’ idea che com pare tardi nel corso di questa storia): «L e azioni m alvagie si fondano su errori, per esem pio la vendetta, sulla credenza nella responsabilità; così pure la crudeltà, in quanto trionfo della potenza»117.
5. Il fondam ento d el fondam ento: la volontà d i dom inio Per quanto Nietzsche - come si è visto - presenti, in manie ra esplicita, la crudeltà, nella sua forma spiritualizzata, come ciò che, in una «accezione significante», «costituisce» la civiltà superiore - com e il fondamento di tale civiltà - e presenti, se non altro di fatto, la crudeltà com e fondamento anche della sto ria che precede l ’ avvento della civiltà superiore, è anche vero 115 M enschliches, A llzum enschliches, II, «Vermischte Meinungen und Sprüche», 78. 116 Ivi, 243. 117 N achgelassene Fragm ente 1876 bis Winter 1877-1878, 21 [72] (tr. it., 21 [71]).
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che, in diversi luoghi e momenti della sua riflessione, egli mostra come tale fondamento (la crudeltà) abbia, in realtà, a sua volta, un fondamento, come vi sia un fondamento del fondamento, un fondamento di ciò che era stato indicato come fondamento: un fondamento della crudeltà. Qual è il fondamento del fondamento, il fondamento della volontà del m ale? Il fondamento della volontà del male è la volontà di dominio, una volontà di dominio variamente intesa e dispiegata118. Possiamo fissare, a questo proposito, alcuni punti.
118 Per Nietzsche la storia dei rapporti umani è stata sinora una storia fon damentalmente caratterizzata dal dispiegarsi di una volontà e di una logica di dominio. Per aspetti essenziali, quella nietzscheana rappresenta una riflessio ne, tanto estesa quanto radicale, sul carattere di dominio dei rapporti umani quali si sono generalmente manifestati nel corso della storia fino ad oggi. Insieme, è innegabile che tale riflessione esprime un impegno fondamentale in direzione della liberazione dell’uomo dalla logica del dominio. Tra gli interpreti si è posta la questione in quale senso vada interpretata la nietzscheana nozione di volontà di potenza, se nel senso, ancora (in linea con la storia passata dell’uomo) della volontà di dominio o in un senso radi calmente diverso e, anzi, opposto. Per Deleuze, dalle pagine di Nietzsche risulta che è nei deboli, in quanto forze solo «reattive», in quanto forze nichilisticamente atteggiate, che mirano a negare i forti separandoli dalla loro potenza, che la volontà di potenza diventa volontà di dominio: la loro rivol ta contro i forti in quanto forti è il segno o si traduce in una volontà di domi nio su di essi. Se Nietzsche stabilisce una connessione tra volontà di poten za e volontà di dominio, lo fa con riferimento al caso particolare dei deboli e senza l ’intenzione di dare alla connessione un carattere necessario e uni versale. Secondo Deleuze, la volontà di potenza trova, invece, il suo fondamentale collegam ento, in N ietzsche, con il concetto di creazione. M a, «Quando il nichilismo trionfa, allora, e soltanto allora, la volontà di potenza cessa di voler dire “creare” , ma significa: volere la potenza, desiderio di domi nio (dunque attribuirsi, o farsi attribuire, i valori stabiliti: soldi, onore, pote re ...). Ora proprio questa volontà di potenza, è precisamente quella dello schiavo, è il modo in cui lo schiavo o l ’impotente concepisce la potenza, l ’i dea che egli se ne fa, e che egli app lica quando trionfa » (Nietzsche , tr. it., p.
31). Sulla interpretazione della volontà di potenza in un senso diverso e oppo sto rispetto alla volontà di dominio, cfr. anche G. V attimo, Il soggetto e la
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1) Sempre con riferimento alle comunità primitive, Nietzsche osserva che il piacere della crudeltà era tanto più apprezzato quan to più colui che tale piacere perseguiva si trovava, all’interno della organizzazione gerarchizzata dei rapporti sociali, in una condizio-
m aschera. Nietzsche e il problem a della liberazione, che, tuttavia, pur sotto lineando come la nozione di volontà di potenza venga elaborata nella pro spettiva della liberazione dell’uomo e della critica del dominio suH’uomo, scorge, soprattutto a partire da una certa fase della produzione nietzscheana, contraddizioni nello svolgimento della nozione: la volontà di potenza finisce per perdere il suo significato di liberazione dell’uomo dal dominio e per carat terizzarsi proprio, invece, come volontà di dominio (ivi, pp. 350-75). Una lettura dell’ opera nietzscheana decisamente orientata nel senso della liberazione viene da N.M. De F eo, Nietzsche il comuniSmo, che sottolinea lo sviluppo, in Germania, «dall’ età bismarkiana al nazismo», del « “socialismo nietzscheano” di Kurt Eisner, Gustav Landauer, Bruno Wille, Ernst Bloch, Erich Mühsam, Otto Gross e Wilhelm Reich, alcuni principali e diversi espo nenti del comuniSmo anarchico tedesco»: un socialismo, quello nietzscheano, che «orienta decisamente l’ opposizione proletaria antisocialdemocratica e antistalinista» ed «è una componente essenziale - , anche se a lungo defor mata e misconosciuta non solo della propaganda nazista e stalinista, ma anche delle stesse ideologie anarchiche che pure l ’hanno assunta in termini di uto pismo umanistico e di individualismo aristocratico - di quel complesso e mul tiforme processo di “ destatualizzazione” , per usare un termine di Gustav Landauer, del moderno proletariato sociale, contro la nascita e l ’integrazione socialriformista della progressiva statualizzazione dei rapporti di produzione capitalistici [...] N ell’epoca in cui le leggi antisocialiste di Bism ark riducono il materialismo storico da teoria della rivoluzione proletaria a marxismo lega le ed il C apitale di Marx diventa, secondo l ’espressione di Gramsci, “il libro dei borghesi” , per questo movimento, Nietzsche e Bakunin, più di Marx ed Engels, aprono la strada alla propria liberazione» (ivi, pp. 29 e 31). Nietzsche diviene il punto di riferimento di quella parte di classe operaia che rifiuta la «riduzione economicista della coscienza di classe» e che in Nietzsche trova «un forte stimolo soggettivista ed umanista» (ivi, p. 32). Secondo De Feo, « “arte di rovesciare le prospettive” e “inversione di tutti i valori” definisco no, per Nietzsche, la spirale antinomica della liberazione antagonista, che emerge come soggettivazione dell’oggettività reificata (il “dionisiaco” ), un movimento pratico-teorico di negazione delle negazioni istituzionalizzate, che distrugge ogni pianificata o tendenziale organizzazione di fini, scopi o valo ri “in sé” (1’ "apollineo” ), di cui mostra l ’ intrinseca distruttività repressiva e annientatrice (il “nichilismo” ) - non per inventare “nuovi valori” , più “giusti” ,
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ne di inferiorità rispetto alla condizione di colui che egli face va oggetto di crudeltà: l’ esercizio della crudeltà, in altri termi ni, è stato, in quella epoca storica, il modo in cui uomini o grup pi umani, che vivevano una condizione di subalternità nei con fronti di altri uomini o gruppi umani, potevano, magari solo per una volta, solo per un attimo, ribaltare la propria posizione subalterna e realizzare una posizione di dominio. Il «piacere di fare violenza» è un piacere che come tale risulta apprezzato in misura tanto più alta quanto più bassa e umile è la condizione del creditore nell’ordinamento della società, e che può facilmente apparirgli come un boccone prelibato, anzi come pregustazione di un rango più alto. Mediante la «pena» del debi tore, il creditore partecipa di un diritto signorile (H e r r e n R e c h t e ): raggiunge altresì facilmente il sentimento esaltante di poter disprezzare e maltrattare un individuo come un «suo inferiore» - o quan to meno, nel caso che la vera e propria potestà punitiva, l’applicazione
più “umani” , più “ veri” , ecc., ma per distruggere l’ intrinseca validità dei valo ri e della valorizzazione, cioè di quel movimento del dover-essere, della piani ficazione, della strategia - dalla “ pietà cristiana” al “lavoro socialista” - che è la controtendenza fondamentale di repressione-oppressione-falsificazione all’e mergenza della “tendenza” e della “liberazione dei bisogni” » (ivi, pp. 32-3). Venendo ai nostri anni si può dire che «Autonomia dei bisogni e riappropria zione della corporeità», che esprimono il senso stesso delle lotte sociali anti capitalistiche, sono posizioni già affermate dallo stesso pensiero di Nietzsche. Il problema della liberazione dell’uomo si pone oggi nei termini di un recupe ro, insieme, di Marx e Nietzsche: «la misura in cui qui Nietzsche può contri buire oggi, dopo cent’anni di radicalizzazione dell’ operaio sociale dentro e con tro lo sviluppo-crisi del capitale sociale, all’ insorgenza à&Windividuo sociale, sul piano della “destatualizzazione” e della “riappropriazione” - il terreno pro prio della nuova teoria dei bisogni - , condiziona ed è a sua volta condiziona ta da un recupero del problema di M arx e Nietzsche dentro il “ movimento reale” » (ivi, p. 33). Una lettura radicalmente diversa di Nietzsche è in D. L osurdo, Nietzsche e la critica della modernità, che sottolinea gli aspetti «reazionari» (il riferimento è, in particolare, alle osservazioni sulla gerarchia) della riflessione di Nietzsche, che viene, anzi, vista come riflessione essenzialmente reazionaria (Nietzsche viene accomunato a pensatori reazionari del suo tempo: Francis Galton, Ludwig Gumplowicz, ecc. (ivi, pp. 67).
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di u na pen a sia g ià trapassata all’ «au torità», di vederlo disprezzato e m al trattato. L a com pensazion e co n siste quindi in un m andato e in un dirit to alla crudeltà119.
2) L a m orale della colpevolizzazione è spiegata da Nietzsche con la volontà dei deboli di ribaltare la propria condizione di inferiorità nei confronti dei forti. N ei deboli affetti da risenti mento nei confronti dei forti agisce la volontà di limitare e fon damentalmente reprimere la potenza dei forti: la crudeltà della colpevolizzazione dei forti gioca in vista di questa limitazione e repressione. A proposito del rapporto deboli-volontà di domi nio, può essere utile tenere presente una osservazion e che N ietzsche svolge in un frammento del 1880. Vi si legge: « l ’in clinazione a dominare mi si è presentata spesso come un inti m o contrassegno di debolezza»: se, da un lato, i deboli «v oglio no obbedire e per ogni dove si affrettano verso la schiavitù», dall’ altro, però, essi «tem ono la loro anima da schiavi e r a v volgono in un manto da re (alla fine diventano schiavi dei loro seguaci, della loro fam a, e così v ia )»120. Mentre i deboli perse guono il fine del dominio (e in vista di esso si adoperano) per superare la loro opposta tendenza alla obbedienza, al contrario, «le nature potenti dominano, questa è una necessità, e non muoveranno un dito. Anche se durante la vita si seppelliscono in un giardin o!»121. 3) In un luogo, Nietzsche parla della volontà di sopraffa zione, espressa nella «aspirazione ad eccellere», che può rea lizzarsi proprio come e attraverso la volontà, perseguita da chi vuol eccellere, di produrre negli altri, attraverso la propria eccellenza, attraverso la esibizione della propria eccellenza, una sofferenza: egli vuole che gli altri soffrano a causa sua, soffra no della loro inferiorità di fronte alla sua eccellenza 122 (tale m odalità di realizzazione della «aspirazione ad eccellere» è 119 Tur G enealogie der M oral, II, 5, p. 316 (tr. it., p. 263). 120 N achgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[206]. 121 Ibidem. 122 Morgenröthe, 113.
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quella, com e ora vedremo, propria del «barbaro»). A proposito di tale volontà di sopraffazione Nietzsche osserva: Esiste una lunga serie di gradi di questa sopraffazione segretamente bramata, ed un completo elenco di essi sarebbe quasi simile a una sto ria della cultura, dalla prima barbarie, ancora tutte smorfie, su su fino alla smorfia dell’estrema raffinatezza e della morbosa idealità123. L a storia dell’ uomo in quanto «storia della cultura» è qui risolta quasi completamente nella storia della volontà di sopraf fazione (volontà di dominio). L a storia della volontà di sopraf fazione è, a sua volta, risolta in una storia di crudeltà, se è vero che, per sim bolizzare la storia della volontà di sopraffazione, Nietzsche si serve di due figure: la figura del «barbaro» e la figura dell’ «asceta», le quali sono accomunate dalla volontà di sopraffazione, dalla «aspirazione ad eccellere», rispettivamente dinanzi agli altri e dinanzi a se stessi, che si realizza, alla fine, cercando di far soffrire qualcuno: in un caso (nel caso del bar baro), l’ altro da sé, nell’ altro (nel caso dell’ asceta), se stessi. Scrive Nietzsche: qui, all’estremità della scala, sta l’asceta e il martire: costui prova il supremo godimento nel procacciarsi egli stesso, come conseguenza del suo istinto ad eccellere, proprio quel che la sua immagine contraria, sul primo gradino della scala, il barbaro, fa soffrire ad un altro, sul quale e dinanzi al quale egli vuole eccellere. Il trionfo dell’asceta su se stesso, il suo occhio che, vólto in tal modo all’interiorità, vede l’uomo scisso in un essere che soffre e in un essere che fa da spettatore, e soltanto a partire da quel momento s’affisa nel mondo esteriore per raccogliere da esso il legno, per così dire, del proprio rogo, quest’ultima tragedia del l’istinto dell’eccellere, in cui continua ancora ad esistere soltanto una persona che si carbonizza in se stessa, - è questa la degna conclusione che corrisponde all’inizio: in entrambi i casi, un’indicibile beatitudine alla vista delle torture!124
123 Ibidem. 124 Ibidem.
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Riguardo alla volontà del male esercitata nei confronti di se stessi e al rapporto tra volontà del male verso se stessi e volontà di dominio, ricordiamo che, in un aforisma di Umano, troppo umano, Nietzsche analizza 1’ «atteggiamento di sfida verso se stes si, alle cui più sublimate manifestazioni appartengono varie forme di ascesi». Egli scrive: Certi uomini hanno [...] un bisogno così grande di esercitare la loro forza ( Gewalt) e la loro sete di dominio (Herrschsucht), che, in man canza di altri oggetti o perché in altro modo la cosa non è loro mai riu scita, essi finiscono col tiranneggiare certe parti del proprio essere, per così dire sezioni o gradi di se stessi125. Il violentare se stessi - l’esercizio di una crudeltà verso se stes si - appare, qui, come il mezzo per attingere il senso di un domi nio altrimenti, per se stessi, irraggiungibile. Per Nietzsche, in ogni caso, l ’uomo che violenta se stesso non è stato solo l’ asceta o il martire della tradizione religiosa. In realtà è con la fondazione dello Stato, quando gli uomini, «sem ianim ali felicemente adattati allo stato selvaggio, alla guer ra, al vagabondaggio, all’avventura», furono organizzati nella form a dello Stato, che com incia la violenza dell’uomo contro se stesso: non potendo esercitare più, nella condizione dello Stato, la crudeltà contro gli altri uomini, l’uom o com incia a esercitarla contro se stesso nella forma di un’autotortura, di un autorimprovero, di una autocolpevolizzazione126. L a autocolpevolizzazione, qui, altro non è, ancora, che esercizio di crudeltà nella sola forma in cui ora essa è possibile ossia come crudeltà verso se stessi: Tutti gli istinti che non si scaricano all’esterno, si rivolgono all’in terno - questo è quello che io chiamo interiorizzazione dell’uomo: in 125 M enschliches, Allzumenschliches, I, 137. Ha scritto Jean Granier: «Prima di Freud, Nietzsche ha visto che il masochismo è un sadismo rivolto contro se stessi» (J. G ramer , Le problèm e de la Vérité dans la philosophie de Nietzsche, p. 176). 126 Zur G enealogie der M oral, U, 16.
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tal modo soltanto si sviluppa nell’uomo quella che più tardi verrà chia mata la sua «anima» [...] L’inimicizia, la crudeltà, il piacere della per secuzione, dell’aggressione, del mutamento, della distruzione - tutto quanto si volge contro i possessori di tali istinti: ecco l’origine della «cat tiva coscienza». L’uomo che in mancanza di nemici esterni e di resi stenza, rinserrato in una opprimente angustia e normalità di costumi, faceva impazientemente a brani se stesso, si perseguitava, si rodeva, si aizzava, si svillaneggiava, quest’animale che si vuole «ammansire» e dà di cozzo alle sbarre della sua cella fino a coprirsi di piaghe, questo esse re che manca di qualcosa, che si strugge nella nostalgia del deserto e che deve far di stesso un’avventura, una camera di supplizi, una selva insicura e perigliosa - questo giullare, questo desioso e disperato pri gioniero divenne l’inventore della «cattiva coscienza»127. 4) In un frammento del 1881, a proposito della volontà di dominio, della tirannia consistente nell’ «assim ilare» l’altro a se stessi, Nietzsche annota la parola «crudeltà». Nel frammento si dice così: «G ià l’assimilare è: rendere uguale a se stesso, tiran neggiare, qualcosa di estraneo - C r u d e l t à » 128. 5) In un frammento del 1880 viene stabilita una identità tra «senso di potenza» e crudeltà: «Il senso di potenza che solleva le persone dalla polvere, fa di trovatelli gli eredi di una famiglia, e così via, è in tutto e per tutto equivalente alla crudeltà; e io posso fare ciò che voglio, in particolare riguardo a coloro che se ne adi
rano»129.
7. L a volontà del m ale e il futuro d e ll’uomo Se il passato della storia dell’uomo appare caratterizzato, in una maniera essenziale, dalla crudeltà, come si pongono le cose per il futuro? Come si pone, per Nietzschd, la questione della cru-
n i Ivi, pp. 338-9 (tr. it., p. 284). Cfr. C. Dumoulié, Nietzsche et Artaud, pp. 20-4. 128 N achgelassene Fragm ente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11[134]. 129 Nachgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 7[300],
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deità relativamente all’ avvenire? Non si può dire che, nel futuro così come viene prospettato da Nietzsche, nel futuro per il cui avvento Nietzsche con la sua riflessione si muove, alla crudeltà sia riservato il posto che il passato della storia dell’ uomo ha ad essa assegnato. A parte ogni considerazione di merito, vedendo ora il problema da un punto di vista semplicemente logico, quale senso avrebbe il contrapporsi radicale di Nietzsche al passato del l’uomo, la sua «guerra» contro questo passato, se egli si limitas se a prospettare, anche per il futuro, per il suo futuro, una condi zione, per l’uomo, ancora essenzialmente caratterizzata - come lo è stata la condizione passata dell’ uomo fino a oggi - dalla volontà del male quale motore ispiratore delle azioni, delle intenzioni e delle valutazioni umane? Se il futuro prospettato da Nietzsche fosse così caratterizzato, esso sarebbe in una continuità fondamentale con il passato, con quel passato che, per altro verso, Nietzsche dice di voler contrastare ed effettivamente contrasta nelle sue determinazioni essenziali. Qualcuno potrebbe pensare che Nietzsche propone solo di rendere esplicita, di non più dissi mulare ciò che - la volontà del male - in passato si è molto spes so presentato in forme mimetizzate. M a forse le cose non stanno propriamente così. A l di là d e lla argo m en tazio n e lo g ic a , c ’ è il fa tto che N ietzsche m ostra di far consistere il carattere superiore del l ’uomo o il carattere di una umanità superiore in qualcosa di diverso e, anzi, di opposto rispetto alla volontà del male. Al riguardo possiam o osservare che il problema nietzscheano non è quello della eliminazione dalla esistenza individuale e dai rap porti sociali del male in quanto semplice sofferenza: né il futu ro dell’uomo, quale si delinea nella riflessione nietzscheana, né il passaggio, la transizione verso questo futuro possono essere, per Nietzsche, senza sofferenza propria o altrui, senza che si produca, da parte di qualcuno, sofferenza in se stesso o in altri. Pensare diversamente sarebbe far prevalere, in maniera assolu ta, - e non è certo questo il caso di Nietzsche - , il principio o il valore della com passione, che porta a fermarsi di fronte a certi sviluppi della storia individuale e collettiva, di fronte a quegli sviluppi che appunto implicano sofferenza per se stessi o per 204
gli altri130. M a senza sofferenza, per Nietzsche, è difficile pen sare di realizzare qualcosa di significativo da parte delfu om o. Si tratta, piuttosto, per Nietzsche, di eliminare non tanto la so f ferenza quanto la volontà di far soffrire o di veder soffrire: si tratta di eliminare la sofferenza come fine del pensiero e del l’ azione dell’ uomo nel proprio rapporto con gli altri o con se stesso, ‘ salvan do la’ com e eventuale e, in realtà, n ecessario mezzo non, ancora, della propria volontà di dominio, m a della propria esistenza individuale e sociale in quanto ispirata a ‘valo ri’ alquanto diversi, anzi opposti, rispetto al valore della volontà di dominio, costante o supercostante della storia dell’ uomo sino ad oggi. Nonostante Nietzsche abbia, per esem pio, elogiato l’o pera m usicale di B izet fra l ’altro perché in essa «finalm ente» viene rappresentato « l ’ amore, l ’ amore ritradotto nella naturai Non l ’ amore di una “vergine superiore” ! N essun sentimentali sm o tipo Senta! Sibbene l ’amore come fatum , com e fa talità, cinico, innocente, crudele e appunto in ciò naturai L ’ amore che nei suoi strumenti è guerra, nel suo fondo è V odio m ortale dei s e s s i!» 131; nonostante, ancora, su un piano più generale, in un frammento in cui si parla di «volontà di crudeltà ( Willen zur G rausam keit )» verso se stessi e verso gli altri, abbia afferm a to che « l ’ elemento diabolico appartiene, allo stesso titolo di quello divino, a l vivente e alla sua esisten za», e annotato: « I m p a r a r e a godere la sofferenza . . . » 132; nonostante, infine, rappresenti - con ciò volendo indicare una qualità positiva «noi uomini europei» (lo si è visto) com e uomini che sanno essere crudeli; nonostante ciò, per quanto riguarda il problem a della volontà del m ale in rapporto al futuro dell’uom o nella prospettiva nietzscheana, non si possono dimenticare o sotto valutare alcuni elementi che, pure, dalle pagine nietzscheane, con forza, emergono. 1) Un frammento dell’inverno 1879-80 dice così: «L ’uomo cat-
130 Cfr., per esempio, Morgenröthe, 134 e 146. 131 Nietzsche contra Wagner, 2, p. 9 (tr. ìt., p. 9). 130 N achgelassene Fragm ente Frühjahr bis H erbst 1884, 26[290].
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tivo, malato, non educato è un risultato al quale bisogna preclu dere sopravvivenza ed azione»133. 2) Nietzsche sostiene che occorre farla finita con la «m eta fisica del boia», ossia con la morale cristiana della colpevolizzazione e della punizione dal filosofo interpretata come forma di crudeltà, alla quale si deve opporre il concetto di «innocen za del divenire»134 e una pratica a tale concetto ispirata. Questa la esortazione che, al riguardo, Nietzsche esprime: «torniamo a cavar dal mondo il concetto di colpa e quello di pena, e cer chiamo di purificare da essi psicologia, storia, natura, istituzio ni e sanzioni so ciali»135. Spingendo fino alle estreme conseguenze, anche per quel che riguarda il piano dei comportamenti pratici (individuali e sociali) da tenere, il rifiuto, in particolare, della morale della punizione, Nietzsche arriva a rigettare il principio «omeopatico» per il quale al male subito si risponde con male agito, a un male si risponde con altro male: Posto che qualcuno abbia avuto a soffrire per una maligna lettera anonima: la cura abituale è quella di liberarsi della propria sofferen za arrecando dolore a qualcun altro. Noi dobbiamo smettere questa sciocca specie di antichissima omeopatia: è chiaro che, nel caso sup posto, se uno scrive subito una lettera anonima, con la quale procura un benefìcio o una gentilezza a un altro, potrà anche guarire della sua sofferenza136. L a risposta al male non è il male (risposta omeopatica), ma il bene. Un esem pio particolarmente significativo del rifiuto del prin cipio om eopatico della risposta al m ale con il m ale viene da alcune considerazioni che Nietzsche svolge intorno al modo in 133 N achgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 188], 1[7], 134 Götzen-Dämmerung, «D ie vier grossen Irrthümer», 7, p. 90 (tr. it., p. 92). Sull’«innocenza del divenire», cfr. A. N egri, Nietzsche e/o l ’innocenza del dive nire ; U. R egina, L ’uomo complementare, pp. 108-14. 135 Götzen-Dämmerung, 7, p. 90 (tr. it., p. 92). 136 N achgelassene Fragm ente Frühling 1878 bis November 1879, 44[4].
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cui ci si dovrebbe comportare con il «delinquente», in queste considerazioni assim ilato al «m alato di mente»: egli v a riguar dato con «saggezza di medico, con buona volontà di m edico», tenendolo anche in custodia nel suo stesso interesse, per pro teggerlo «d a se stesso e da un pesante istinto tirannico», o pro spettandogli la «possibilità» e i «m ezzi della guarigione (...), anche, nel peggiore dei casi, l’ improbabilità di quest’ ultima», o, ancora, cancellandogli « d a ll’anim a i rim orsi di coscienza come qualcosa d ’ im mondo» e dandogli «indicazioni sul modo di poter compensare e superare il danno che egli forse ha pro curato a qualcuno, mediante un beneficio reso ad un altro, anzi, forse alla collettività. E tutto questo sia fatto con delicatezza estrem a!»137. Nietzsche nota che, invece, colui cui è arrecato un danno vuole pur sempre, prescindendo del tutto dal modo con cui può essere, semmai, reintegrato questo damo, pren dersi la sua vendetta, e per essa si rivolge al tribunale - e intanto tutto questo mantiene ancora in piedi i nostri orribili ordinamenti punitivi, uni tamente alla loro bilancia da bottegai e al voler controbilanciare la colpa con la pena: ma che non sia possibile tirarsene fuori? Come sarebbe reso leggero l’universale sentimento della vita, se ci si affrancasse, con la cre denza nella colpa, anche dall’antico istinto della vendetta, e si conside rasse una sottile accortezza dei felici anche il fatto di impartire, col cri stianesimo, benedizioni ai propri nemici e di far del bene a quelli che hanno offeso! Eliminiamo dal mondo il concetto del peccato - e spe diamogli subito appresso il concetto della pena! Questi mostri messi al bando possano vivere d’ora innanzi in un qualsiasi altro luogo invece che in mezzo agli uomini, se vogliono vivere a tutti i costi e se non vanno in malora per il loro proprio schifo!138 L a risposta al male non è il male (risposta omeopatica), m a il bene. 3) Allorquando, nella Prefazione del 1886 a Umano, troppo umano, rappresenta il processo di liberazione dell’uomo da tutto
137 Morgenröthe, 202. 138 Ibidem.
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ciò che lo opprime e cui è incatenato («per gli uomini di spe cie più alta saranno i doveri») - processo che culmina con la trasformazione dell’uomo in «spirito libero» - , Nietzsche indi ca solo come una fase transitoria e segno ancora di immaturità dello spirito quella in cui l ’uomo, che si libera e nel tentativo di affermare, qui ancora maldestramente e selvaggiam ente, la propria libertà, «v a girovagando con animo crudele» e «con una risata cattiva capovolge le cose che trova velate, risparmiate da un qualche pudore»139: a questo stadio, «ancora lunga è la via per giungere [...] fino a quella matura libertà dello spirito, che è tanto padronanza di sé quanto disciplina del cuore, e che apre la via a molti e opposti modi di pensare .. . » I40. In un frammento del 1884, dedicato alla «vie della libertà» e dal contenuto ana logo a quello della parte della Prefazione del 1886 a Umano, troppo umano dedicata alla illustrazione del processo di libera zione dello spirito, una via della libertà è indicata nella seguen te: «rovesciare ciò che è più venerato, affermare ciò che è più probito, la gioia m aligna in grande stile, invece della riveren z a » 141, M a, analogamente a quel che Nietzsche osserva nella Prefazione del 1886 circa il carattere preparatorio, di tappa intermedia verso la compiuta libertà dello spirito degli atti e degli atteggiamenti crudeli dell’uom o che si rivolta contro ciò che tradizionalmente è venerato, si può dire che anche la via della libertà indicata nel frammento del 1884, unitamente alle altre vie della libertà qui segnalate (« Tagliarsi fuori dal proprio passato (patria, fede, genitori, com pagni); avere rapporti con i reprobi di tutti i tipi (nella storia e nella società) [...] commet tere tutti i delitti; tentativo di nuove valu tazion i»142), sia un modo necessario m a ancora immaturo di affermare la propria libertà: l’ uomo, che con gioia m aligna si rivolta contro tutto ciò che è stato tradizionalmente venerato, in fondo - e a parte la determinazione solo negativa della sua libertà - assum e su di 139 M enschliches, Allzumenschliches, I, «Vorrede», 3. 140 Ivi, 4. 141 N achgelassene Fragm ente Frühjahr bis H erbst 1884, 25[484], 142 Ibidem.
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sé un carattere che proprio nella tradizione, nella storia passa ta in generale dell’uomo, ha avuto, di fatto, un ruolo fondamen tale: appunto la crudeltà. 4) In un aforism a di Umano, troppo umano intitolato «G li uomini crudeli come arretrati», la crudeltà è presentata come qual cosa che, oggi, costituisce solo un residuo, una sopravvivenza di epoche passa dalla storia dell’uomo: l’uomo crudele è l’uomo del passato più che l’uomo del presente e del futuro. Gli uomini che ora sono crudeli devono essere da noi considerati come gradi residui di civiltà precedenti: la giogaia deH’umanità mostra qui per una volta apertamente le formazioni più profonde che rimangono di solito celate. Sono uomini arretrati il cervello, per tutti i possibili casi nel decorso del processo ereditario, non ha continuato a svilupparsi così delicatamente e molteplicemente. Essi ci mostrano ciò che eravamo tutti, e ci fanno spaventare: ma essi stessi sono così poco responsabili, quanto un pezzo di granito lo è per il fatto di esse re granito. Nel nostro cervello devono trovarsi anche solchi e piega ture che corrispondono a quel modo di sentire, così come si dice che nella forma di alcuni organi umani si trovino ricordi del nostro stato di pesci. Ma questi solchi e piegature non sono più il letto in cui scor re attualmente il fiume del nostro sentimento14314. 5) In alcuni luoghi Nietzsche si sofferm a sulla gioia per la gioia dell’ altro. Di essa (e non della gioia per la sofferenza del l ’ altro!) egli scrive che « è il più alto privilegio degli animali superiori e, anche fra questi, è accessibile solo agli esem plari più eletti - cioè un raro humanum»w . L a gioia per la gioia del l’ altro, del resto, fa l ’am ico e la gioia per la differenza che l’al tro é rispetto a noi è la definizione stessa dell’ am icizia e del l ’ amore per Nietzsche. M a, con ciò, si accenna a temi che sono stati oggetto dei capitoli precedenti (terzo e quarto), ai quali, quindi, rinviamo.
143 M enschliches, Allzumenschliches, I, 43. 144 Ivi, H, «Vermischte Meinungen und Sprüche», 62.
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7. C rudeltà com e sto ria, cru deltà com e n atura, cru deltà
com e m aieutica Per quanto riguarda il tema della crudeltà, in Nietzsche è pos sibile individuare, come si è cercato di mostrare, proposizioni che prospettano una situazione del rapporto interpersonale nella quale la crudeltà non trova posto. Nella prospettiva, che Nietzsche pre senta, di un rapporto interpersonale in cui l’uomo gioisce della gioia delFaltro uomo (il «raro humanum» di cui Nietzsche parla), nella prospettiva di un rapporto interpersonale inteso a valorizza re le rispettive identità di coloro tra i quali il rapporto sussiste, non si vede com e p o ssa entrarvi qualcosa com e la crudeltà. Eppure, in Nietzsche, si leggono anche proposizioni che alludono o sembra alludano a una funzione positiva che la crudeltà può esercitare, o anche proposizioni che alla crudeltà si riferiscono o sembra si riferiscano come a qualcosa di connaturato all’essere umano sì che sarebbe velleitario orientare la propria azione e il proprio pensiero verso il superamento di quello che è solo un dato naturale che si tratta di riconoscere nella sua insuperabile fattua lità. Riguardo a tale questione - riguardo alla questione del rap porto che, alla fine, Nietzsche stabilisce con il tema e la realtà della crudeltà - sono da fare alcune considerazioni e specifica zioni, che qui di seguito presentiamo. Relativamente al tema della crudeltà, possiam o individuare, in Nietzsche, tre tipi di proposizioni: 1) proposizioni che registrano, prendono atto della crudeltà come dato della realtà ; 2) proposizioni che apparentemente affer mano la positività della crudeltà, che sarebbe, dunque, non solo un fatto da registrare, m a anche qualcosa da conservare e proporre per il futuro in virtù di una sua utilità o efficacia o necessità in rapporto all’esistenza dell’uomo e alle esigenze che essa manife sta (ma ciò sarebbe in contrasto con l’idea, che in Nietzsche pure è presente, del superamento della crudeltà); 3) proposizioni che (appunto) alludono a una situazione di superamento, da parte del l’uomo, della crudeltà. Delle proposizioni di cui al punto 3) già si è detto. Soffermiamoci, perciò, sulle proposizioni di cui ai puntil) e 2). 210
Per quanto riguarda le proposizioni di cui al punto 1), va fatta una ulteriore distinzione. Vi sono a) proposizioni che registrano la crudeltà come un dato storico e b) proposizioni che registrano la crudeltà come un dato naturale . Nel caso a), la crudeltà appare come un dato della storia del l’uomo, un dato offerto dalla ricostruzione della storia passata e presente dell’uomo e dei rapporti umani. Si tratta qui di prende re atto di quel che la storia ci mostra per quanto riguarda l’uomo. D a questo punto di vista, si tratta, per un verso, di indicare la pre senza della crudeltà nella esistenza storica dell’uomo nella varietà delle forme che la crudeltà assume e ai vari livelli in cui la esi stenza umana si articola: «Indicare dappertutto dove si trova la crudeltà, l’ avidità, la prepotenza, ecc.»145, e, per l’ altro, di spiega re che cosa è la crudeltà, che cosa nella crudeltà è effettivamen te in gioco (problema del fondamento della volontà del male). Nella prospettiva storica, la crudeltà appare oggi come il retaggio di stadi ormai per altri aspetti superati della storia dell’uomo, nella prospettiva storica si sottolinea che l’uomo, fino ad oggi, è stato crudele (lasciando intendere o senz’altro dicendo che, per quanto riguarda la crudeltà, il domani potrà o dovrà riservare una situa zione diversa da quella del passato). Nel caso b), la crudeltà appare come un dato della natura del l’uomo, come il dato di una natura umana intesa naturalmente, cioè astoricamente. Pensieri e azioni crudeli sono la manifesta zione di tale natura. M a qui ci si imbatte in quello che è un pro blem a del pensiero nietzscheano, sospeso tra riconoscimento pieno della storicità dell’essere umano e riferimento (a volte) a presunte dimensioni naturali, astoriche dell’uomo (un problema che forse in Nietzsche non appare sempre e con chiarezza risolto a favore dell’uno o dell’altro elemento, nonostante in lui sia molto forte il senso della storicità dell’uomo). D a questo punto di vista, sono da ricordare alcune osservazioni nietzscheane: ad esempio, l ’ o sserv azio n e che « la vita è un 'o p p o siz io n e a “ v erità” e “bontà” » 146 o l’osservazione, contenuta in un frammento in cui si 145 Nachgelassene Fragm ente Frühjahr bis H erbst 1884, 25[111]. 146 Ivi, 25[101],
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parla della «volontà di crudeltà», «verso di noi o verso altri», che « l ’elemento diabolico appartiene, allo stesso titolo di quello divi no, a l vivente e alla sua esistenza » 147 (stando a questa afferma zione, l’ uomo sarebbe un essere per natura intimamente contrad dittorio: per metà buono, per metà cattivo) o la definizione della crudeltà com e istin to148 (m a qui occorre ricordare che, per Nietzsche, gli istinti sono anch’essi, in ogni caso, prodotto di un divenire) o la definizione dell’uomo senz’altro come «m alvagio», come «la belva più terribile per dissimulazione e crudeltà»149150(ma qui Nietzsche potrebbe anche volersi riferire all’uomo quale fino ra è stato). Per quanto riguarda le proposizioni di cui al punto 2), notia mo che c ’è un Nietzsche, che si augura il permanere dell’uomo com e essere «m alvagio» e per il quale la «speranza», di fronte alla « ipocrisia » della bontà (la nostra è « l’epoca dell 'ipocrisia»), è « che l ’uomo sia ancora m alvagio»™ . M a di quale malvagità, qui, si tratta? Vi è, in effetti, in Nietzsche, il riferimento a una uti lità o efficacia o opportunità q necessità del far male, agli altri o a se stessi, o deH’accettare una condizione di sofferenza per se stessi o del lasciare altri in una tale condizione, in rapporto alle esigenze della propria o dell’altrui esistenza: m a quel che a que sto proposito è da osservare è che qui non è in gioco, in realtà, la crudeltà nel senso stretto del termine, cioè la volontà di far male fine a se stessa. In generale, non si tratta, in questo tipo di situa zioni, di godere della sofferenza altrui o propria e di eventual mente anche provocarla a tal fine, si tratta, invece, di non lasciar si frenare dalla sofferenza, altrui o propria, nel perseguimento di obiettivi che si ritiene siano validi e importanti per se stessi o per gli altri. L a propria fermezza, la fermezza, con la quale si perse gue il proprio obiettivo, pur nella condizione di sofferenza indot ta negli altri o in se stessi come conseguenza del perseguimento di tale obiettivo, può apparire a taluno come crudeltà. E Nietzsche 147 Ivi, 26[290J. 148 Cfr., per esempio, Zur G enealogie der M oral, H, 16. 149 N achgelassene Fragm ente Frühjahr bis H erbst 1884, 25[84], 150 Ibidem.
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stesso, con riferimento anche a situazioni di questo tipo, parla a volte di crudeltà. M a si tratta, qui, di qualcosa di diverso da quel che la crudeltà propriamente detta rappresenta, si tratta di qual cosa di diverso dalla crudeltà che Nietzsche identifica come fon damento e come costante della storia dell’uomo sino ad oggi. È, per esempio, il caso dei «filosofi dell’ avvenire», nella cui opera a favore dell’uomo Nietzsche ripone la sua fiducia e tra le cui «severe e non innocue caratteristiche» vi è un piacere nel dire di no e nello smembrare, nonché una certa accorta crudeltà che sa usare il coltello con sicurezza ed eleganza, anche quan do il cuore sanguini. Saranno duri (e forse non sempre unicamente con tro se stessi) più di quanto uomini umanitari potrebbero augurarsi, non praticheranno la «verità» perché essa «piaccia» loro o li «innalzi» e li «entusiasmi» - sarà invece scarsa la loro persuasione che proprio la verità comporti tali piacevolezze per il sentimento151. È il caso - altro esempio - della fermezza dell’uomo di fron te alla sofferenza del proprio amico, dalla quale non si fa devia re nel proprio compito di aiutare l’amico in qualcosa che per l’a mico stesso è bene anche se si determina, può determinarsi, a volte, solo attraverso il passaggio della sofferenza152. È il caso ancora un esempio - della fermezza per la quale, nel perseguire determinati obiettivi, che potrebbero risultare positivi per l’uma nità futura, non ci si ferma dinanzi alle «prossime e più imme diate conseguenze» della propria azione o della propria cono scenza, conseguenze che possono essere rappresentate dalla sof ferenza indotta, negli altri oltre che in se stessi, dall’azione che si dispiega, dalle conoscenze che si producono153. L a «crudeltà», qui, è, per così dire, maieutica: essa è ciò che consente l’ apparizione di un «bene» (del bene di qualcuno o di tutti, degli uomini di oggi o degli uomini di domani)154. 151 Jen seits von Gut und Böse, 210. 152 Cfr. in questo volume il capitolo quarto. 153 Morgenröthe, 146. 154 Sul senso positivo, in cui Nietzsche si riferisce alla «crudeltà», sono da vedere le osservazioni di Jean Granier in Le problème de la Vérité dans la phi-
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Ove si potesse accertare che Nietzsche crede effettivamente alla esistenza di una natura umana malvagia, si dovrebbe dire, tenendo contemporaneamente conto di quel che egli, invece, scri ve sulla gioia dell’uomo per la gioia dell’altro e sul rispetto, da parte di ciascuno, della differente identità dell’ altro, si dovrebbe dire, dunque, che per Nietzsche l’uomo è un essere in se stesso contraddittorio: un essere insieme buono e cattivo, «divino» e «diabolico», per metà l’una cosa, per metà l’altra. Se si dovesse,
losophie de Nietzsche. Granier sottolinea il rapporto, in Nietzsche, tra sofferen za, «crudeltà», da un lato, e «creazione», dall’ altro, nel senso che, affinché vi sia creazione è necessario che vi sia sofferenza, che vi sia «crudeltà»: «ciò che l’uomo morale si rifiuta di comprendere è che il negativo è l’aiuto insostituibi le di ogni volontà di creazione [...]. Senza la negatività del male, la trascen denza sarebbe abolita. Impossibile, infatti, concepire un superamento dell’uomo se si rifiuta di collocare la contraddizione al centro stesso dell’individuo, nella forma di una lotta tra l’essere-là dato e l’io superiore che lavora per elevare que sta natura all’altezza delle sue proprie esigenze [...] l ’uomo buono vuole esse re ciò che è, egli vuole sopprimere la tensione che lo costringe a “superare il ponte” , egli vuole installarsi nell’esistenza. L’uomo della Morale è l’uomo del l’avere, non l’uomo del divenire» (ivi, p. 180). Per Nietzsche, «non si tratta affat to [...] di fare l’ avvocato della violenza anarchica e della brutalità senza fieni; l’apologià della “bestia bionda” non ha che un valore strettamente polemico [...] Non è dunque questione, per Nietzsche, di glorificare il negativo in quanto nega tivo e di sostituire una “ morale nera” , divinizzando il male, alla “morale bian ca” del bene - la crudeltà furiosa di un Sade gli sembrerebbe, a questo riguar do, il colmo della dismisura sterile - si tratta di pensare il negativo come fun zione m ediatrice nella produzione dell’uomo da parte di se stesso. Il m ale è il dolore del parto, la crudeltà delle metamorfosi, l ’angoscia delle trasfigurazioni. Alla compassione, che è sempre, in definitiva, un travestimento della vana com piacenza di sé, Nietzsche oppone dunque il “grande disprezzo” attraverso il quale l’ uomo si supera senza fine e rifiuta così il narcisismo della cattiva finitudine. Il disprezzo è la coscienza dell’uomo che si vuole sempre avanti a sé e che con suma la passione della vittoria su se stesso, il cui prezzo è giustamente la cru deltà verso se stesso» (ivi, pp. 181-2). Analogamente Olivier Reboul: «L a cru deltà del creatore è la aggressività inerente a ogni opera; occorre distruggere per innovare; la sua durezza è quella del diamante, scintillante e tagliente; crudeltà sana, senza odio né risentimento, ma cosciente, e perciò dolorosa, perché il crea tore deve vincere la sua propria compassione; crudeltà innocente, non per la sua gioiosa spensieratezza, ma perché al servizio di una fecondità» (O. Reboul, Nietzsche critique de Kant, p. 91).
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poi, in qualche modo accertare che, in Nietzsche, è legittimato non semplicemente il fare il male, agli altri o a se stessi (o il lasciare che il male altrui o proprio sussista) come condizioni o effetti necessari della attuazione di qualcosa cui si annette valore, ma è legittimata la crudeltà in quanto tale, la volontà del male propria mente intesa, si dovrebbe allora dire, tenendo contemporanea mente conto di quel che si è appena ricordato sulla gioia per la gioia dell’ altro e il rispetto delle identità individuali, che è in Nietzsche che c ’ è contraddizione perché appare difficile concilia re l’affermazione della legittimità della volontà del male con la indicazione del rapporto interpersonale improntato alla gioia per la gioia dell’altro e al rispetto per l’altro come condizione valida e da perseguire. M a non sembra questa la tendenza profonda del pensiero nietzscheano. È difficilmente sostenibile l’immagine di un Nietzsche impegnato nell’esaltazione e nella promozione di comportamenti ispirati alla crudeltà, l’immagine di un Nietzsche impegnato nell’esaltazione e nella promozione di comportamenti che nella volontà del male hanno ü loro proprio fine essenziale, se non unico. In Nietzsche, si trova, piuttosto, la sottolineatura del valore, come si è detto, maieutico dell’ atteggiamento di chi pro voca o accetta, sopporta la sofferenza propria o altrui come stru mento, condizione, effetto dello svolgimento di azioni, della affer mazioni di pensieri che non nella produzione della sofferenza hanno il loro essenziale fine.
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Capitolo sesto Nietzsche e la nostra epoca*
In genere, allorquando si affronta il problema della attualità o non attualità di un pensatore del passato, accade che della sua riflessione si salvino, eventualmente, alcuni aspetti, magari impor tanti o fondamentali, in rapporto ai quali viene affermata l’attua lità del pensatore in esame. Nel caso di Nietzsche, le cose stanno in termini rovesciati: sembra diffìcile trovare aspetti della sua riflessione che non siano attuali. E che non siano attuali non nel senso che i diversi aspetti della sua riflessione abbiano trovato nella nostra epoca attuazione e nemmeno nel senso, più limita to, che la nostra epoca presti ad essi un particolare ascolto. Perché, anzi, da questo duplice punto di vista si dovrebbe regi strare una distanza fra Nietzsche e la nostra epoca, distanza che continua, e forse accentua, quella che già c ’ era tra Nietzsche e la sua epoca. L ’ attualità della riflessione nietzscheana è invece nel fatto che essa ha posto dei problemi con i quali non ci si può oggi non confrontare sebbene la nostra epoca faccia, in genere, esattamente il contrario. E siste, in altri termini, una
* Questo capitolo riproduce il testo dal mio intervento alla Tavola Rotonda sul tema «Nietzsche e la nostra epoca», organizzata, in occasione del 150° anniver sario della nascita del filosofo, dall’Accademia Pugliese delle Scienze e svoltasi a Bari il 1° dicembre 1994. Alla Tavola Rotonda, introdotta da Giuseppe Semerari, che ne era stato l’ispiratore, parteciparono Franco Bianco (moderatore), Leonardo Casini, Sergio Moravia, Giampiero Moretti e Antimo Negri.
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attualità di principio e una inattualità di fatto del pensiero di Nietzsche. Prenderò qui di seguito in esam e alcune questioni della riflessione nietzscheana tentando, su di esse, un confron to tra Nietzsche e la nostra epoca. L a prim a questione riguarda il concetto nietzscheano di esperienza. In un frammento del 1876, Nietzsche parla della «m alattia m oderna» consistente - egli osserva - in un «ecces so di esperienze»1. Tale eccesso di esperienze è da mettere in rapporto, com e a sua causa, con ciò che in un aforism a di Umano, troppo umano Nietzsche definisce il «m ostruoso acce leramento della vita m oderna», per il quale, per l’uomo, le espe rienze si succedono l’un l ’ altra così velocemente, così vortico samente, che nessuna di esse costituisce, per lui, in realtà, una vera esperienza: Nietzsche osserva, infatti, che, per via di tale acceleramento della vita, «spirito e occhio vengono avvezzati a un m ezzo o a un falso vedere e giudicare»2. Per via dell’ acce leramento della vita, il giudicare e il vedere, dunque le condi zioni stesse della esperienza, e, in particolare, di un’ esperienza autentica, si sono ridotti, così, nell’età moderna, a un m ezzo o a un falso giudicare e vedere. L ’epoca moderna appare, per questo aspetto, come l’ epoca della fine o della crisi dell’esperienza in quanto epoca della fine o della crisi delle condizioni di possibilità dell’esperienza. M a q u al è, in p articolare, l ’ esp erien za in sen so n ietzscheano? L ’esperienza in senso nietzscheano è l ’esperienza in quanto espe rimento. Che cos’è l’esperienza in quanto esperimento? Nietzsche parla di esperimento e non di semplice esperienza, di Versuch e non di semplice Erfahrung o Erlebnis. Si possono vivere espe rienze anche passivamente, anche non volendole vivere: si pos sono viv ere esp erien ze che m ai si sareb b e volu to vivere. L ’esperimento, invece, fa riferimento a un soggetto che ha deci so, ha voluto fare una determinata esperienza. L ’esperimento ha altre caratteristiche differenziali rispetto all’esperienza, ma una
1 N achgelassene Fragm ente 1876 bis Winter 1877-1878, 17[51], 2 M enschliches, Allzumenschliches, I, 282.
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caratteristica che lo differenzia dall’ esperienza è quella della deci sione e volontà di fare un’esperienza. Nietzsche parla di vita «per esperimento» come segno della condizione della «grande salute»3. Vivere per esperimento signi fica, per Nietzsche, sperimentare, nel tempo, forme diverse di esi stenza, di relazione, di pensiero, di sensibilità. Ciascun esperi mento è, poi, approfondimento dei diversi aspetti di una stessa realtà. Si può osservare che esperimento è rapporto con Yaltro, con ciò che non si è ancora vissuto, ancora conosciuto. Per definizio ne, esperimento è rapporto con l ’altro ossia con il nuovo: si spe rimenta ciò che non si è ancora vissuto e conosciuto. Porre il pro blema dell’esistenza, come Nietzsche fa, in termini di esperimen to o serie di esperimenti significa, dunque, porre il problema del l’ esistenza in termini di rapporto con l’ altro, con il nuovo. In que sto senso, porre il problema dell’esistenza in termini di esperi mento o serie di esperimenti significa porre il problema dell’esi stenza in termini di rapporto con il mistero - mistero che sarà risolto nel momento e nella misura in cui dell’altro, del nuovo, del mistero appunto, si sarà fatta esperienza. Esperimento è, infat ti, rapporto con il mistero. M a non è su questo aspetto dell’esperimento in generale, e nietzscheano in particolare, che intendo soffermarmi. Intendo sof fermarmi, invece, su un altro elemento che caratterizza l’esperi mento, non solo l’esperimento scientifico, ma anche quello, esi stenziale, di cui parla Nietzsche. Questo elemento è il disciplinamento dell’azione. Esperimento non è un’ azione o un complesso di azioni comunque condotte, m a un’azione o un complesso di azioni condotte nel rispetto di determinate regole - un’azione o un complesso di azioni per le quali si prevedono certe possibilità e non altre. Del disciplinamento dell’ azione fa parte la capacità selettiva nei confronti degli stimoli cui si è soggetti, capacità per la quale gli stimoli vengono selezionati in rapporto e in vista dell’obietti
3 Ivi, «Vorrede», 4.
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vo della sperimentazione stessa: capacità per la quale si è in grado di non rispondere, non reagire o di rinviare la risposta, la reazio ne agli stimoli ove ciò serva alla realizzazione dell’esperimento di vita che si sta compiendo4. È la capacità selettiva, esercitata in vista dell’obiettivo rappresentato dalla sperimentazione di un certo oggetto, che consente all’uomo di fermarsi, di dimorare, sia pure provvisoriamente (per il tempo di quelle che Nietzsche chiama «brevi abitudini»5), presso di esso, al fine di realizzarne una approfondita esperienza6. M a del disciplinamento dell’ azione fanno poi parte altri elementi (almeno in parte collegabili all’e sercizio della capacità selettiva): la calm a7, la contemplazione (F «elemento contemplativo»)8, la meditazione9, il raccoglimento, la concentrazione10. Ora sono proprio questi elementi, che rendo no possibile la vita per esperimento, ad essere venuti meno nella modernità, e sono questi elementi che Nietzsche puntualmente contrappone a quegli altri elementi che caratterizzano invece il modo moderno di fare esperienza. E così gli elementi, che ren dono possibile la vita per esperimento, vengono contrapposti alla straordinaria impressionabilità dell’uomo moderno11, alla «fretta m oderna»12, alla «irrequietezza moderna»13, al moderno vagare impressionistico da una esperienza all’altra, alla discontinuità e disorganicità dell’esperienza moderna, elementi, questi, che fanno della «nostra civiltà» una «nuova barbarie»14, sì che la lotta con
4 N achgelassene Fragm ente Anfang 1888 bis Anfang Jan u ar 1889, 15[39]. 5 D ie fröhliche W issenschaft, 295. 6 Su ciò, cfr., in questo volume, il capitolo secondo. 7 N ach gelassen e Fragm en te 1876 b is W inter 1877-1878, 17[22] (tr. it.,17[23]). 8 M enschliches, Allzumenschliches, I, 285; N achgelassene Fragm ente 1876 bis Winter 1877-78, 17[53]. 9 M enschliches, Allzumenschliches, I, 282; N achgelassene Fragm ente 1876 bis Winter 1877-1878, 17[55], 10 N achgelassene Fragm ente 1876 bis Winter 1877-1878, 17[46], 11 N achgelassene Fragm ente H erbst 1887 bis M ärz 1888, 10[18]. 12 N achgelassene Fragm ente 1876 bis Winter 1877- Ì878,\1[A6\. 13 Menschliches, Allzumenschliches, I, 285. 14 Ibidem.
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tro la modernità appare, per questo aspetto, come lotta per la civiltà e contro la barbarie. Se ci riferiamo alla nostra contemporaneità, dovremo dire che gli aspetti, che abbiamo visto denunciati da Nietzsche analista della modernità, si sono ulteriormente accentuati e aggravati. Da questo lato, l ’età contemporanea non presenta una situazione diversa da quella esaminata da Nietzsche se non per la radicalizzazione ulteriore che, nella nostra epoca, hanno subito quegli aspetti sui quali, nel secolo scorso, Nietzsche già aveva criticamente attirato l’ attenzione. D a questo lato si può, perciò, ben estendere alla nostra epoca (in rapporto alla quale va, anzi, accen tuato) il giudizio, da Nietzsche di fatto espresso riguardo, più in generale, alla modernità, e relativo alla fine o alla crisi delle con dizioni dell’ esperienza. C ’è oggi, tuttavia, anche qualcosa di diverso rispetto alla situazione, quale è rappresentata da Nietzsche, della modernità in generale. Oggi - questa la novità - il mondo viene servito « a domicilio» all’uomo: non è più l’uomo ad anda re verso il mondo, m a è il mondo ad andare verso l’uomo. Questa osservazione è di Günther Anders15. E ssa spiega la nuova situa zione come l’effetto dello sviluppo straordinario che i mezzi di comunicazione di m assa hanno avuto nel nostro secolo: Anders si riferisce, segnatamente, alla radio e alla televisione. Ora, però, il mondo che va verso l’uomo, il mondo servito « a domicilio», è un mondo «in effigie»16 (se ci si riferisce in particolare al caso della televisione): l’uomo non ha più rapporto con il mondo nella sua realtà, ma con il mondo in immagini. L a seconda questione che voglio qui affrontare riguarda la posizione nietzscheana sulla gioia e la sofferenza nell’esistenza dell’uomo. Per illustrare questo punto possiamo prendere le m osse da una proposizione che si legge nello Zarathustra. L a proposi zione è la seguente: «D a quando vi son uomini, l’uomo ha gioi
15 G. A nders , D ie Antiquiertheit des Menschen (tr. it., pp. 105-30). 16 Ivi (tr. it., p. 118).
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to troppo poco»17. Come spesso succede in Nietzsche, qui si pro cede per grandi sintesi: passato e futuro dell’uomo in questa pro posizione vengono m essi a confronto. Il passato è caratterizzato dal fatto che l’uomo ha troppo poco gioito, per il futuro si lascia intrawedere la possibilità e il valore della gioia. È da notare, a proposito della gioia (Freude), la frequenza con cui questa nozio ne ricorre in Nietzsche, particolarmente negli scritti e frammenti della seconda metà degli anni ’70 e dei primi anni ’ 80. Si potreb be, anzi, a questo proposito anche osservare come una direzione di ricerca su Nietzsche potrebbe essere rappresentata proprio dalla individuazione e dall’approfondimento di temi diversi da quelli sui quali, tradizionalmente, classicamente, la critica si è esercita ta (volontà di potenza, nichilismo, genealogia, ecc.). Uno dei ter mini o temi, sui quali la ricerca si potrebbe indirizzare, è proprio quello della gioia. Può darsi che ricerche orientate in questo senso contribuiscano a dare l ’immagine di un altro Nietzsche, di un Nietzsche un po’ diverso da quello - prettamente critico, polemi co, dissacratore - che una certa tradizione interpretativa ha pre sentato. Il contesto immediato, in cui è inserita la proposizione citata dello Zarathustra, fa riferimento all’opposizione gioia/sofferenza. Che l’uomo abbia sinora troppo poco gioito, ciò va inteso nel senso che l’uomo ha sinora troppo sofferto o - come si può dire sulla base di certi elementi della riflessione nietzscheana - che ha fondamentalmente legato la propria esistenza alla dimensione della sofferenza. Che 1’esistenza dell’uomo sia sinora stata fonda mentalmente legata alla dimensione della sofferenza, ciò non va inteso, d ’altra parte, nel senso che l’uomo abbia necessariamente e sempre sofferto, sebbene, spesso, proprio questo sia accaduto, ma nel senso che l’uomo si è impegnato, sinora, fondamental mente nella lotta contro la sofferenza e non anche nella produ zione della gioia. Anche quando e nella misura in cui non ha inter pretato la sofferenza (solo) come effetto ed espiazione di una colpa originaria di cui si sarebbe macchiato (così la sofferenza è
17A lso sprach Zarathustra, II, «Von der Mitleidegen», p. 110 (tr. it., p. 104).
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stata intesa all’interno di certe religioni), e si è dunque impegna to nella rimozione delle cause riconoscibili della propria soffe renza, l’ uomo ha profuso appunto un impegno di segno negativo: lotta contro la sofferenza, non anche lotta per la gioia. L a scien za, il sapere sono stati m essi al servizio di questa lotta solo nega tiva18 e la prospettiva, sotto la quale resistenza dell’uomo si è sinora svolta, è stata così una prospettiva essenzialmente negati va, di negazione di qualcosa (negazione della sofferenza), e non anche positiva, di produzione di qualcosa (produzione della gioia). Secondo Nietzsche, sinora la paura della sofferenza ha prevalso sul desiderio della gioia: in tale condizione dell’uomo Nietzsche ha visto un segno della sua arretratezza19. Chi è l’uomo arretrato, l’uomo che, anche nell’età moderna, è rimasto, nel suo compor tamento, a stadi precedenti della sua storia? È , nel caso che stia m o esaminando, l’uomo che combatte contro la sofferenza e non si impegna nella invenzione della gioia. L ’ età moderna ha continuato e anzi approfondito la tendenza fondamentale, che ha caratterizzato in generale le epoche che l’hanno preceduta, ad eliminare la sofferenza dall’ esistenza del l’uomo. Con un impegno sempre più profondo e sistematico, la modernità ha cercato di neutralizzare, esorcizzare, allontanare da sé ogni forma di dolore. Nietzsche ha criticato la modernità anche per questo aspetto. Il fatto è che, per Nietzsche, la possibilità/ necessità, cui l’uomo sin qui si è sottratto, di inventare per sé la gioia, di costruire la propria esistenza in una prospettiva di gioia, non ha, come sua implicazione, la eliminazione di ogni sofferen za dall’esistenza umana. Se la tradizione anche moderna ha lotta to in ogni modo contro la sofferenza mostrando con ciò di consi derarla qualcosa di solo negativo, Nietzsche ha affermato la neces sità del passaggio attraverso la sofferenza al fine di raggiungere condizioni di esiste n za più elevate e degne d e ll’ uom o. In Nietzsche, la sofferenza non è solo un negativo, la sofferenza è anche un positivo. Nietzsche critica le moderne morali edonisti
18 N achgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 3[82], 19 Ivi, 1[50].
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che, utilitaristiche, eudemonistiche nella misura in cui esse pon gono come obiettivo da realizzare una condizione individuale o collettiva da cui sia eliminata (o eliminata il più possibile) la sof ferenza. N el quadro di questa critica, egli prende posizione parti colarmente contro le morali inglese del comfort e della fashion, le morali della «felicità inglese»20. D el «benessere», inteso come negazione di ogni sofferenza e indicato da alcune morali come l’obiettivo da realizzare per l’uomo, Nietzsche scrive: «non costi tuisce una meta, a noi sembra piuttosto una fin e»21. Si potrebbe ricordare Hobbes che, agli inizi dell’età moderna, osservava che tra i desideri fondamentali dell’uomo vi è quello di ottenere (gra zie al lavoro) le comodità che la vita può offrire22. Se ci riferiamo alla nostra epoca, ai nostri anni, dovremo dire che la tendenza denunciata da Nietzsche come propria della sto ria dell’uomo fino al suo tempo in generale e della modernità in particolare, ossia la tendenza a esorcizzare la sofferenza, si è man tenuta e ulteriormente accentuata. Vi sono, e si sono moltiplicati, e sempre più specializzati, i luoghi deputati ad accogliere la sof ferenza, i luoghi istituzionali della sofferenza, gli ospedali di ogni tipo destinati ad accogliere ogni tipo di sofferenza (fisica e men tale): luoghi lontani - fisicamente e moralmente - dai luoghi in cui si svolge la vita «normale», quella che corre lungo i binari del benessere come esclusione della sofferenza, la vita come comfort. Vi sono anche luoghi non istituzionali in cui la sofferenza si rac coglie: le varie situazioni, all’interno dei paesi del benessere, di emarginazione e ghettizzazione sociale. Vi sono, infine, intere parti del mondo, lontane da quelle dove si svolge la vita del benes sere, dove la sofferenza è di casa. L a sofferenza è comunque lon tana, in senso fisico e mentale, dai luoghi dove si svolge la vita contemporanea improntata al benessere. Se poi proprio si vuol avere rapporto con la sofferenza, essa si ridurrà a spettacolo, a
20 Jen seits von Gut und Böse, 228. 21 Ivi, 225. 22 T h . Ho b b e s , L eviath an , o r thè M atter, Form e, an d P ow er o f a Commonwealth, E cclesiastical an d C ivili, p. 116 (tr. it., p. 123).
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fenomeno estetico: siamo all’estetica del dolore, della quale esem pi vengono quotidianamente e abbondantemente propinati dai mezzi di comunicazione di m assa. Ma, appunto, lo spettacolo mantiene pur sempre la distanza fra spettatore e spettacolo stesso (nonostante tutte le identificazioni che possono determinarsi), ossia, qui, fra l’uomo come spettatore del dolore e il dolore in quanto spettacolo: proprio quella distanza che, secondo Nietzsche, l’uomo da sempre, e l’uomo moderno in particolare, ha cercato in ogni modo di determinare e assicurare23. L a terza questione riguarda il concetto di quel che all’uomo è ancora possibile. Sicuramente per Nietzsche le epoche passate del l’umanità sono state - in generale - epoche che hanno variamen te limitato e anche impedito la affermazione e lo sviluppo delle possibilità dell’uomo. Tale limitazione e tale impedimento sono stati perseguiti in forme e con mezzi diversi: nelle forme e con i mezzi della religione, della morale, della politica. L a svalutazio ne, operata dalla religione, della Terra e del corpo; la condanna, da parte della morale cristiana in tutte le sue forme, di livelli di potenza superiori a quella fissata come valore dai deboli con la loro debolezza; l’ affermazione di modelli gregari di comporta mento aU’intemo delle comunità umane e nel quadro di un’atti tudine, storicamente perseguita, dell’uomo all’obbedienza nei con fronti di autorità varie (Stato, Chiesa, Partito, Famiglia, Scuola, ecc.): tutto ciò ha sinora fatto sì che le possibilità dell’uomo non si siano sviluppate e potenziate come avrebbero potuto. Il punto di vista di Nietzsche riguardo al futuro è espresso, per esempio, in queste parole: «Quante cose sono ancora possibili!»24. Si trat ta, per Nietzsche, di possibilità che l’uomo può effettivamente per
23 Sia pure in maniera contraddittoria: se c’è stata lotta alla sofferenza, c’è stata anche, da un lato, la sofferenza che l’uomo ha inflitto a se stesso come forma di una volontà di male impossibilita a rivolgersi all’ esterno, e, dall’altiD, come in questo capitolo si è precedentemente ricordato, l ’accettazione degli aspetti di sofferenza della propria esistenza come espiazione di una colpa. 24 A lso sprach Zarathustra, IV, «Vom höheren Menschen», 20, p. 363 (tr. it, p. 358).
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seguire e che vengono preparate e dischiuse dall’evento della «morte di D io»25, ma la cui realizzazione - poiché la morte di Dio è un evento ancora lontano dalla consapevolezza della maggior parte degli uomini - si colloca, per l ’uomo, in un tempo che non è quello dell’immediato presente. L a storia dell’uomo non è fini ta, l’uomo non ha ancora esaurito le proprie possibilità d ’essere: questo dice l’ ‘ancora’ del brano citato. D ’ altra parte, l’ aggettivo che accompagna le cose ancora possibili («Quante c o se ...») dice la ricchezza delle possibilità che ancora attendono l ’uomo. Non è qui in questione un dato solo quantitativo, numerico. Il dato è qui, invece, innanzitutto qualitativo. In gioco sono le po ssibilità migliori dell’uomo. È in questo senso che Nietzsche scrive: Mille sentieri vi sono non ancora percorsi; mille salvezze e isole della vita. Inesaurito e non scoperto è ancor sempre l’uomo e la terra del l’uomo [...] Dal futuro giungono eventi segretamente alitanti: la buona novella si rivela alle orecchie fini [...] In verità, la terra deve ancora diventare un luogo di salute! E già intorno a essa alita un profumo nuovo, che reca salute, - e una nuova speranza!26. Nietzsche pone così l ’uomo di fronte a due ritratti: uno è il ritratto già disegnato dell’uomo del passato e delle possibilità già realizzate dell’uomo (e, per Nietzsche, non si trattato affatto sem pre, anzi quasi mai, di un bel ritratto), l’altro è il ritratto da dise gnare delle possibilità ulteriori - e sono tante - che l ’uomo di sé ha ancora da realizzare. L ’ invito, potente, che viene qui da Nietzsche è a distogliere lo sguardo dal primo ritratto, nel quale ancora l’uomo del suo tempo si riconosce, e a volgerlo al secon do, ossia a disegnare il nuovo ritratto possibile del proprio esse re. Il nuovo ritratto possibile dell’uomo sono poi, in realtà, i nuovi ritratti possibili dell’uomo - tanti quanti sono i singoli uomini: 25 D ie fröhliche W issenschaft, 343. 26 Also sprach Zarathustra, I, «Von der schenkend Tungend», 2, pp. 96-7 (tr. it., pp. 91-2).
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ognuno deve disegnare il proprio ritratto. Ognuno deve disegna re il proprio ritratto con la propria matita e colorarlo con i propri colori. In una situazione storica - come l’attuale - che per molti e sostanziali aspetti si pone in continuità con la situazione storica in cui Nietzsche è vissuto, l’osservazione nietzscheana sulle pos sibilità ancora aperte all’uomo conserva tutto il suo valore. E ssa vale, in particolare, nei confronti di un atteggiamento, sempre più diffuso, per il quale - in modi, a seconda dei casi, trionfalistici o rassegnati - si decreta che l’umanità avrebbe sostanzialmente già conseguito (a livello politico, sociale, economico, morale) quelle che, piacciano o no, sono le sue migliori possibilità, sì che ogni allontanamento dai livelli raggiunti equivarrebbe solo a far fare all’uomo un passo indietro nella storia del suo ‘progresso’ : ulte riori progressi sarebbero da attendersi, ormai, solo dal perfezio namento di ciò che si è acquisito (a livello politico, sociale, eco nomico, morale) - o anche, eventualmente, dall’uomo manipola to dalla scienza, dalla scienza dei laboratori scientifici (ingegne ria genetica, ecc.). Il tema del ritratto da disegnare delle possibilità ancora inedi te dell’uomo introduce alla ulteriore questione, che voglio con clusivamente affrontare, dell’individuo in Nietzsche. Infatti, come si è detto, il nuovo ritratto che di sé l’uomo può disegnare sono, in realtà, i diversi ritratti che i diversi individui di sé possono dise gnare ciascuno secondo le sue specifiche possibilità, diverse dalle possibilità degli altri - possibilità che in ogni caso vanno qualita tivamente oltre quelle dall’uomo sin qui già attuate. Guardando alla storia dell’uomo quale sin qui si è svolta, una delle situazio ni più importanti che Nietzsche ritiene di scorgere è la dimenti canza dell’individuo, la dimenticanza dell’ io. Salvo rare eccezio ni, l’io - l’io di ciascun singolo individuo, con la sua specifica differenza rispetto all’io di ciascun altro individuo —non ha avuto la possibilità di autenticamente affermarsi. E stata l’in-differenza il carattere delle epoche passate, nel senso che il singolo indivi duo ha dovuto mettere da parte la sua differenza per essere secon do modelli di comportamento e di giudizio impersonali, uniformi, diretti a tutti indistintamente (sebbene tali modelli, originaria227
mente, siano stati elaborati in funzione delle esigenze di individui o di gruppi particolari). Nel determinarsi di tale conformismo ha giocato la paura della diversità: il diverso rappresenta l’ignoto, qualcosa che, come tale ‘dà pensiero’ , qualcosa di non rassicu rante, che richiede, da parte di chi ad esso si rapporta, un’atten zione, una vigilanza, un continuo riassestamento della propria identità, una forza che non tutti o non sempre si è in grado di esi bire. In Nietzsche, l’uomo - ciascun singolo uomo - è chiamato a invertire la direzione che, sin qui, la storia ha generalmente preso e mantenuto, dando finalmente spazio alla propria singolarità rispetto a quella di ciascun altro: È necessaria una grande meditazione: forse l’umanità deve tirare un frego sul suo passato, forse deve rivolgere a tutti gli individui il nuovo canone: sii diverso da tutti gli altri, e rallégrati se ognuno è diverso dal l’altro [...] Per tanto tempo, per troppo tempo, è stato detto: uno come tutti, uno per tutti27. Esiste, per Nietzsche, come si è visto nel capitolo primo, una moralità (e si tratta di un’ «alta moralità») anche del prendersi cura di sé28. Perché prendersi cura di sé? Il problema è quello della possibilità della felicità, della gioia dell’esistenza umana nel senso che non nell’ adeguazione a un modello esterno e impersonale di comportamento e di giudizio, m a nell’affermazione delle proprie più personali, singolari qualità è la possibilità della felicità di cia scuno29. Ciascuno deve poter affermare e sviluppare la propria diversità rispetto agli altri: ciascuno deve poter essere se stesso ossia - poiché ciascuno è diverso dagli altri30 - ciascuno deve poter essere nella propria differenza rispetto agli altri. D ’altra parte, si tratta anche, per ciascuno, di assumere un atteggiamento di fondamentale e costante apertura - in ciò trovando motivo di gioia e di nutrimento e ammaestramento per se stesso - alle dif 27 N achgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 3[98]. 28 Ivi, 31139]. 29 Ivi, 3[151]. 30 M enschliches, Allzumenschliches, I, 286.
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ferenze che gli altri - l’essere, le azioni, le opere altrui - rappre sentano. In questo senso Nietzsche scrive: «provare gioia dell’originalità altrui senza diventarne la scimmia, forse sarà un tempo il segno di una nuova cultura»31 o «Attenzione: piacere per le dif ferenze individuali. Il piacere per ciò che è diverso nelle nazioni e nelle civiltà è un passo in questo senso»32. Quanto dire che l’i dentità di ciascuno, differente dalla identità altrui, non deve (è un rischio che l’ identità di ciascuno corre) arrivare a irrigidirsi e bloc carsi in una sua particolare configurazione, pur determinatasi nel rapporto con le differenti identità altrui, e a chiudersi a ulteriori reali rapporti con gli altri. L’identità differente di ciascuno deve essere disposta a mai smettere il rapporto con le identità altrui, riarticolandolo su oggetti sempre diversi - quelli che le situazio ni di volta in volta gli offrono - in tale rapporto trovando, come si diceva, motivi e occasioni di gioia e di crescita per se stessa. L a felicità dell’uomo nietzscheano appare così dipendere non dalla semplice affermazione della propria differenza rispetto alle differenze altrui, m a dallo sviluppo della propria identità differente attraverso il rapporto - da mantenere sempre aperto e vivo - con le differenti identità altrui. L ’apertura nei confronti dell’alterità ha pure le sue condizioni e le sue regole: per attuarla, occorre che, da parte nostra, vi sia la capacità di «perderci per qualche tem po»33, «buona volontà», «pazienza, equità, mitezza d ’animo verso una realtà a noi estra nea»34. M a il nostro impegno e il nostro sforzo vengono ripagati e, alla fine, dell’ alterità - come Nietzsche scrive a proposito di una m elodia che ci sia stata sinora estranea - diventiamo gli «umili ed estasiati amanti, per cui non v ’è più niente di meglio da chiedere al mondo se non la melodia e ancora la melodia»35. L ’ apertura nei confronti della alterità è, qui, qualcosa di ben diver so rispetto alla semplice tolleranza, se con ‘tolleranza’ si indica 31 Nachgelassene Fragm ente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 3[151]. 32 Ivi, 2[17], 33 D ie fröhliche W issenschaft, 305. 34 Ivi, 334. 35 Ibidem.
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un rapporto per il quale si lascia, sì, all’altro libertà di essere come vuole essere, m a verso di lui si mantiene un atteggiamento di estraneità e indifferenza, quando non - come pure accade - di sopportazione, di accettazione infastidita. L ’apertura, nel senso nietzscheano, nei confronti della alterità indica un rapporto che, per Nietzsche - come si vede già dal brano riportato sull’ascolto di una melodia a noi estranea - vale come definizione stessa del l’amore. Infatti, scrive ancora Nietzsche, come già si è visto (capi tolo terzo), «che altro è l’amore se non comprendere e gioire che un altro viva, agisca e senta in maniera diversa e opposta alla nostra?»36. Nella prospettiva nietzscheana, così come appare dalle consi derazioni appena riferite che Nietzsche svolge, il mondo umano si presenta come un mondo plurale, popolato di tante differenze, ciascuna delle quali non ripiegata (egoisticamente o narcisisticamente, si potrebbe dire) su se stessa, m a aperta alle differenze altrui. In un’epoca - la nostra - in cui si sono da tempo avviati e largamente attuati sistematici e capillari processi di omologazio ne dei comportamenti e delle coscienze individuali, processi di m assificazione perseguiti attraverso l ’im piego scientifico dei mezzi di comunicazione sociale, in un’epoca di forti conformismi sociali di ogni tipo - pur nella apparenza di una liberazione indi viduale - , in un’epoca del genere ha ancora e sempre più senso l ’ appello di Nietzsche all’individuo, la necessità, da Nietzsche avvertita e rivendicata, che le qualità proprie, specifiche di cia scun individuo vengano affermate e sviluppate. Epoca di forti conformismi, la nostra, si è detto, ma anche, proprio per questo, di forti - anche se spesso mimetizzate - intolleranze: intolleranza per chi non si adegua ai modelli imperanti di comportamento e di giudizio. Anche nei confronti di tale intolleranza mantiene, intat ta, la sua validità l’indicazione nietzscheana circa la necessità del l’apertura nei confronti delle differenze che, rispetto a se stessi, gli altri - ciascuno con la sua particolarità - rappresentano.
36 M enschliches, Allzum enschliches, II, «Verm ischte M einungen und Sprüche», 75.
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Indice
Introduzione
5
Capitolo primo
Cura di sé e alterità 1. Il problema 2. Unicità dell’ego. Mancanza di egoismo e individualizzazione dell’ego 3. Condizioni e articolazione della cura di sé. Cura di sé e felicità 4. La costruzione dell’ego: il problema dell’autodisciplina. Una filosofia del piccolo, del lento, del vicino 5. La relazione di alterità 5.1 La relazione nutrizionale 5.2 La relazione di cura Capitolo secondo Il viaggio e la dimora Momenti di una dialettica dell’esistenza 1. Fra identità e alterità, assoluto e relativo 2. Il viaggio modifica il viaggiatore. La solitudine del viaggiatore 3. Congedi dolci, congedi dolorosi, congedi impossibili (fra Nietzsche e Jankélévitch)
19 19 21 39 44 57 57 71
79 79 86 98
4. Quando, stando a casa propria, si èfuori di sé 5. Modernità: il viaggio senza dimora Capitolo terzo Amore-passione e amore
106 108
113
Premessa 1. Identificazione 2. Possesso
113 116 122
Capitolo quarto La relazione d ’amicizia
135
1. 2. 3. 4. 5. 6.
Amicizia e storia Amicizia e gioia Amicizia e differenze Amicizia e inimicizia Colui che dona Amicizia e libertà
Capitolo quinto La volontà del male 1. La crudeltà come fondamento della storia passata dell’uomo 2. Le forme storiche della cmdeltà. La morale della colpevolizzazione 3. La morale al di là della colpa 4. Diffusione e fenomenologia della cmdeltà 5. Il fondamento del fondamento: la volontà di dominio 6. La volontà del male e il futuro dell’uomo 7. Cmdeltà come storia, creudeltà come natura, cmdeltà come maieutica
135 139 140 142 145 148
155 155 166 182 186 196 203 210
Capitolo sesto Nietzsche e la nostra epoca
217
Bibliografia
231