Il potere
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HILLMAN

Come usarlo con in

C

he co s’ è il potere? Ecco l’ “ im m enso in­ terrogativo” (di importanza pari alle altre eterne domande sulla natura della bellezza, della verità, dell’ anima, dell’amore) a cui vuole ri­ spondere Jam es Hillm an in questo libro. H ill­ man ricorre alla sua duplice com petenza di filosofo e di psicanalista per analizzare le varie forme che assume il potere nella società e nella nostra vita e per portare alla luce le sue manife­ stazioni inconsce. E l’inconscio oggi è fuori di noi: si nasconde in ciò che è più usuale, nel ciclo delle attività più quotidiane, quelle economiche. Ecco perché l’indagine di H illm an si incentra sulla vera religione universale del nostro tempo: l’Economia, “ il D io della civiltà mondiale”, che ha imposto i suoi principi fondamentali (il com­ mercio, la proprietà, il prodotto, il valore, il profitto, il denaro). L’Economia detiene il potere assoluto, governa la nostra esistenza non grazie a un esercito regolare o a una polizia segreta, ma attraverso idee che guidano i nostri pensieri, da quando ci alziamo a quando andiamo a dor­ mire (e anche quando sogniam o). Sono queste idee - “ le forze divine e demoniache delle idee” - l’oggetto del libro di H illm an, che diviene dunque una “fenomenologia del potere”, un’ana­ lisi di tutte le sue incarnazioni: il prestigio e l’esibizionism o, l’am bizione e l’ascendente, il carism a e il veto... A m pliare lo spettro delle nostre idee significa aumentare la nostra capacità di governare il m ondo e noi stessi. Per questo le riflessioni che sgorgano da queste pagine ci insegneranno anche a utilizzare al m eglio il potere di cui disponiamo sul lavoro, negli affari, nella vita aziendale. L o scopo di questo libro, infatti, è “ conferire po tere” , scrive H illm an: “ altrimenti, perché fare la fatica di leggerlo?” .

JAMES HILLMAN

IL P O T E R E Come usarlo con intelligenza

Razzoli

Proprietà letteraria riservata © 1995 byJames Hillman © 2002 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 88 - 17 - 87004-8

Titolo originale dell’opera: K in d s o f P o w er

Prima edizione Rizzoli: settembre 2002 Traduzione di Paola Donfrancesco

Agli incantevoli amici italiani Cecilia e Roberto, persone che sanno scegliere.

Non lo stato di necessità, né la bramosia — ma l’amore della potenza è il dèmone degli uomini. Si dia loro tutto, salute, nutrimen­ to, abitazione, svago - essi sono e resteran­ no infelici e balzani: poiché il dèmone at­ tende e attende e vuol essere soddisfatto. Si prenda loro tutto e si soddisfi quest’ultimo: saranno quasi felici - tanto felici come pro­ prio uomini e dèmoni possono essere. Friedrich Nietzsche, Aurora

POTERE

Aprendo il libro

Questo libro si occupa della psicologia del business. Come scrittore di psicologia mi rivolgo al mondo del business perché proprio qui, io credo, sono all’opera le menti più vitali, più disponibili a farsi stimolare dalle sfide, e perché è qui che le questioni di potere sono davvero centrali. La psicologia del business non ri­ guarda soltanto gli uomini d’affari, soltanto coloro che sono concretamente impegnati nell’industria, nel commercio, nell’economia. Il business rappresenta la ragione principale per cui tutti noi ci alziamo la matti­ na e il principio organizzatore di ogni nostra giornata. Occuparsi della propria giornata significa occuparsi del proprio business. Il business fornisce le idee che danno forma alla nostra vita, al suo successo, ai suoi valori, alle sue ambizioni. Il dramma rappresentato dal business, con le sue lotte, le sue sfide, le sue vittorie e le sue sconfitte, dà forma al mito basilare della nostra civiltà, alla storia che spiega il punto essenziale, la «bottom line» che è alla base dei riti del nostro com­ portamento. A orientarci nella vita di tutti i giorni, so­

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no concetti guida del business - guadagnare, spendere, risparmiare, scambiare, valutare, possedere, vendere... Ci piacerebbe credere che sia l’amore a determinare il nostro destino, o che i veri fattori formativi che diri­ gono la nostra vita siano i grandi sogni e le passioni dell’anima o i progressi delle scienze tecnologiche. In realtà, nella vita concreta, sono le idee del business le sole da cui non ci distogliamo mai, dalla soglia di casa alla scrivania in ufficio, dall’alba al crepuscolo. Fra le idee del business è quella di «potere» a domi­ nare. E questo il dèmone invisibile che determina le nostre motivazioni e le nostre scelte. Dietro alla nostra paura della perdita, dietro al nostro desiderio di con­ trollo c’è il potere, che sembra costituire la remunera­ zione fondamentale. E così sarà questo il tema che nei capitoli successivi riceverà il più ampio spazio e sarà affrontato secondo molte e diverse prospettive. Il potere non si palesa in quanto tale, ma indossa i panni dell’autorità, del controllo, del prestigio, dell’a­ scendente, della fama, ecc. Per poterne comprendere la natura è quindi necessario studiare in profondità e guardare in trasparenza i suoi molti stili, così da cono­ scere il modo unico e specifico in cui questi fattori operano nella nostra psicologia quotidiana. E, sebbene siano le idee del potere a costituire il contenuto mani­ festo delle pagine che seguono, l’oggetto latente del li­ bro, nel suo complesso, è il potere delle idee. Infatti, nel momento in cui voi e io ci mettiamo a riflettere insieme sulla questione ciò con cui abbiamo a che fare 12

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non è una cosa o un fatto chiamato «potere», ma sono idee. Questa introduzione cercherà di chiarire il moti­ vo per cui credo che questa distinzione sia così assolu­ tamente cruciale. Il calendario alla parete, con il suo potere minaccio­ so, dichiara a tutti indistintamente che da poco abbia­ mo vissuto la fine di un secolo, di un millennio, di un eone, e le riviste scientifiche registrano l’estinzione di molte forme biologiche, la cui entità è paragonabile a quella dell’era glaciale. Migrazioni, pestilenze, distru­ zioni di rapaci, dispersione di sostanze tossiche, modi­ ficazioni geografiche, genetiche e biochimiche scuoto­ no in profondità la fede nel progresso della storia. Le vecchie speranze sono scombinate: il futuro è incerto - l’idea stessa di «passato» e di «futuro» si disgrega, perché non possiamo più trarre pronostici a partire dalle fantasie, né memorie e ricordi dalle interpretazio­ ni. Su cosa, allora, possiamo puntare? Quali sono i be­ ni veramente durevoli? Il mondo del business, come parte del mondo nella sua totalità, percepisce questi movimenti tettonici nella propria anima e cerca quin­ di di corroborare le proprie idee di fondo. Quali sono le idee che garantiscono al business il potere necessario a mantenere la posizione che ancora occupa nella no­ stra vita, via via che scorrono le pagine del calendario? Le idee del business - beni, scambio, costo, merca­ to, domanda, profitto, proprietà - è probabile che sia­ no originariamente derivate dalle semplici regole del baratto e del commercio: adesso, però, hanno messo

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radici come entità indipendenti e sono diventate un organismo estremamente complicato, l’Economia, che abbraccia il mondo intero, sviluppato e sottosviluppa­ to, a libero mercato e a mercato diretto, industrializza­ to e arcaico. L’Economia, il Dio della civiltà mondiale, è stata anche sostituita da un takeover merger, da una fusione fra nazionalismo e sicurezza nazionale. Le aziende multinazionali dispongono di un potere mag­ giore di quello di molti governi nazionali, e il loro po­ tere dipende dallo stato della loro economia. Il busi­ ness, così come è definito dalle idee del capitalismo occidentale, è diventato la forza fondamentale della società umana e, alla stregua di ogni monoteismo, professa una fede fondamentalista nei propri principi basilari. Il business ha sconfitto tutto quello che era sulla sua strada. I suoi ultimi nemici sono i più vecchi; e infatti ancora oggi continua a essere sconfitto dagli antichi Dei della vendetta cruenta, dal tribalismo ter­ ritoriale, dalle lotte fra i sessi, stranamente ricorrenti e mortali, così come dalle indomabili divinità della na­ tura - gli oceani, le foreste, il magma nel cuore della terra, la forza degli uragani e della pioggia. Solo loro restano ad affrontare e a infrangere il potere del busi­ ness. Le battaglie ambientali sono gli scenari in cui si combattono oggi le guerre di religione, segno che gli antichi Dei pagani della natura non sono stati del tut­ to sottomessi dai piani di globalizzazione voluti dal Dio Economia. L’impero dell’Economia è differente da tutti gli altri 14

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imperi della storia del mondo, dato che non dipende né dalle legioni romane, né dalle navi da guerra ingle­ si, dalla polizia segreta o dalle riserve di armi nucleari. Il suo potere, come quello delle religioni, è stato inte­ riorizzato. Governa con mezzi psicologici. È l’Econo­ mia a determinare chi è incluso e chi è marginalizzato, distribuendo premi e punizioni quali ricchezza e po­ vertà, vantaggi e svantaggi. Proprio perché questa in­ teriorizzazione delle sue idee è così indiscutibilmente e universalmente accettata, è l’Economia il luogo dove oggi risiede l’inconscio e dove il bisogno di analisi psi­ cologica è maggiore. Non è più la nostra vita persona­ le il luogo dell’inconscio - tutte le sedute terapeuti­ che, i gruppi di recupero e i consultori familiari, tutti i talk-show pomeridiani e le soap-opera hanno spalan­ cato i ripostigli delle passioni e delle sofferenze priva­ te. L’inconscio è esattamente quello che la parola dice: ciò che è meno conscio perché è più usuale, più fami­ liare, più quotidiano. E questo il ciclo quotidiano del business. Proprio perché governano il mondo, le idee del busi­ ness, specialmente l’idea che sostiene il suo potere l’idea stessa del potere - deve diventare uno dei punti centrali per ogni psicologia che voglia tentare di capire i membri della società attuale. Il business non è sem­ plicemente un fattore, una componente fra le molte che influiscono sulla nostra vita. Le sue idee costitui­ scono la trama e l’ordito fondamentali e imprescindi­ bili su cui sono tessuti i modelli dei nostri comporta­ 15

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menti. Non si può sfuggire all’Economia. Affrontare separatamente il tema del profitto, il desiderio di pos­ sesso, gli ideali dell’equa retribuzione e della giustizia economica, il risentimento nei confronti del fisco, le fantasie di inflazione e di depressione, l’interesse per il risparmio, così come ignorare le psicopatologie del commerciare, del collezionare, del consumare, del vendere e del lavorare, e tuttavia pretendere di com­ prendere la vita interiore delle persone nella nostra so­ cietà, sarebbe come analizzare i contadini, gli artigiani, le dame e i nobili del mondo medievale ignorando la teologia cristiana, come se fosse un fatto irrilevante. Oggi la nostra teologia è l’Economia, indipendente­ mente da come impieghiamo la domenica. Oggi l’E­ conomia è l’unico effettivo culto sincretistico supersti­ te, la nostra unica fede ecumenica. È alla base del ri­ tuale quotidiano che unisce cristiani, induisti, mor­ moni, atei, buddhisti, sikh, avventisti, animisti, evan­ gelici, musulmani, ebrei, fondamentalisti e new ager, in quel tempio comune che accoglie tutti allo stesso modo e dal quale i mercanti non sono stati scacciati: la banca svizzera. Niente dimostra in modo più evidente il potere del business quanto le ansie, da parte sia di Hong Kong sia della Repubblica Popolare Cinese, sull’unificazione che hanno concordato. Mentre i timori di Hong Kong na­ scono da una antica proiezione della geo-politica —una piccola enclave portuale inghiottita da una gigantesca nazione continentale con il suo miliardo di abitanti — 16

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quelli di Pechino riconoscono l’immenso potere delle idee del business incarnate da Hong Kong, capace di modificare definitivamente la filosofia politica e la con­ dotta di vita di quello stesso miliardo di persone. M a se il business esercita un tale dominio su ciascu­ no di noi, allora è necessario sapere come agisce questo potere. Qual è la sua natura. Che cosa costituisce il po­ tere del business, che gli consente di avere una tale in­ fluenza. Il business non dispone di un esercito regolare, non è governato da un re al quale bisogna obbedire; non ci sono squadre speciali o una polizia segreta, leggi codificate o dogmi pedagogici per indottrinare la gio­ ventù; non esiste un programma politico concertato o un partito nazionale; niente chiese, niente credo, preti o sacre scritture. Dove sta, allora, il suo potere? La risposta possiamo trovarla soltanto nella pervasività delle sue idee. La civiltà odierna è tenuta insie­ me non dall’idea di bellezza, di verità, di giustizia o di destino, non da una forza basata sulle armi come la pax romana, non da leggi, divinità e lingua comu­ ni, o dalle fedi condivise. Soltanto le idee del busi­ ness sono realmente universali. Se le idee del busi­ ness, come il commercio, la proprietà, il prodotto, lo scambio, il valore, il profitto, il danaro, sono quelle che, in modo cosciente o inconscio, governano la vita umana del pianeta, allora sono queste le idee che concorrono a dare al business il suo potere, stabilen­ do il suo impero mondiale al di là di ogni confine geografico e di ogni barriera di costume. Queste idee 17

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penetrano in ogni atto da noi compiuto: creare, pre­ stare un servizio, scegliere e conservare. Siamo tutti, ciascuno di noi, nel business. E così, adesso abbiamo una risposta alla domanda: «Che cosa costituisce il potere del business?». Questa risposta pone, però, un interrogativo ancora più vasto: «Cos’è il potere?». A questo immenso inter­ rogativo (pari a quello di: «Cosa sono la natura, la bel­ lezza, l’anima, la verità, l’amore, la vita, o l’essere uma­ no?») cercheremo di dare una risposta in questo libro. Dunque, il nostro compito principale è quello di esaminare le principali idee che il termine «potere» in­ clude in sé. Un compito non certo facile, data la gene­ rale riluttanza a studiare il potere in quanto tale. La fi­ sica preferisce le parole «energia» e «forza»; la logica parla di «causa» e di «necessità», e la psicologia di «di­ namica». Dove, invece, le idee del potere sono palesi è nel campo della politica e della religione, due campi notoriamente controversi a causa della violenza che rie­ scono a scatenare. Dato che politica e religione sono gli ambiti di riferimento delle idee del potere che preval­ gono nella comunicazione discorsiva e fondamentali per quella stessa comunicazione, questo libro ricorrerà a esempi tratti dalla politica e farà paralleli con la reli­ gione. Altrove mi soffermerò anche sul linguaggio di chi non ha a che fare con la politica e con la religione, sul modo in cui immagina il potere, se ne impossessa, lo usa, lo brama e lo teme. Tutto questo lavoro di ana­ 18

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lisi dovrebbe far germogliare nella mente del business i semi di nuovi pensieri. Del business, poi, questo libro affronterà anche le idee tangenziali al suo potere, come l’idea di «crescita» e di «efficienza», e infine i miti che, in modo inconscio, sono alla base degli atteggiamenti e delle attività che del business sono propri. Questo lavoro si prefigge di toccare la mente dei let­ tori in tre modi. Primo: vuole smuovere sedimentazio­ ni di pensiero relative al potere, specialmente quelle idee facili che ci fanno credere di conoscerne la natura e di saperlo gestire; idee espresse in formule come «il danaro è potere», o nel detto di Francis Bacon «la co­ noscenza è potere», che si è trasformato in «l’informa­ zione è potere», una massima che sembrò mantenere per anni Edgard Hoover alla guida dell’FBI, dopo che il mito dell’onesto G-man era stato ridotto a brandelli dai venti del cambiamento. Altre idee facili sostengo­ no che il potere è forza: «il potere politico nasce dalla canna di un fucile» (Mao Tse-tung) e «i fucili ci fanno potenti, il burro ci fa soltanto grassi» (Hermann G o­ ring). Ci sono poi affermazioni piuttosto comuni co­ me «il potere si misura dalla quantità di lavoro fatto», «il potere corrompe», e ammonimenti del tipo «un amico al potere è un amico perso» (Henry Adams), oppure queste due generalizzazioni di Emerson: «la vi­ ta è inseguire il potere...» e «ogni potere è di un unico tipo, un condividere la natura del mondo». Un altro diffuso luogo comune è che il potere possa essere ap­ preso a una scuola di business, con una guida «fai da 19

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te», oppure facendo pratica con un alto dirigente. Troppo facile. Troppo semplice. Alla semplicità dei concetti si contrappone la diffi­ coltà delle definizioni proposte dai filosofi; per esem­ pio: il potere «è la compulsione alla composizione» (A.N. Whitehead), «è la produzione degli effetti volu­ ti» (B. Russell), «è la differenza di probabilità di un evento, date certe azioni da parte di A, e la probabilità di quell’evento una volta che non si diano tali azioni da parte di A» (R.A. Dahl); «inerente al potere, dun­ que, come opposto alla forza, è una certa estensione nello spazio e nel tempo» (E. Canetti); «per virtù e per potere io intendo la stessa cosa; cioè, la virtù, per quanto si riferisce all’uomo, è la natura o essenza di un uomo» (Spinoza). D opo queste esaltanti delucidazioni, torniamo a de­ siderare ardentemente il pronto soccorso dei rimedi semplici. Ma, come diceva Einstein: «Tutto dovrebbe essere semplice come può esserlo, ma non di più». Il potere seduttivo della semplicità cresce via via che le questioni si fanno più complesse, e infatti le voci della semplicità, come Ronald Reagan o Ross Perot, offrono pace mentale senza fatica mentale. Le idee semplici appaiono comode: non danno problemi. Accantonan­ do tensioni e complicazioni sembrano far sì che le questioni si depositino tranquillamente nella fanghi­ glia in fondo alla mente. Un’idea semplice del potere, ogni idea che lo definisca in modo semplice, ci culla in una quiescente passività, e così fiacca davvero il pote20

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re. La mente ha bisogno di un nutrimento più ricco e ama muoversi con acutezza, come un serpente o una volpe: un restringimento eccessivo dell’obiettivo ne ri­ durrà il campo visivo, rendendo difficile acquisire po­ tere e goderselo. Se prima non «disturbiamo» i concet­ ti di potere che sono familiari alla nostra mente, non possiamo essere acuti, pronti, quando lo usiamo. Se, per esempio, definisco il potere semplicemente come «controllo», non riuscirò mai ad allentare il controllo senza avere paura di perdere potere. Intrappolato da questo concetto in una vigilanza paranoide, in sforzi competitivi e in una leadership dimostrativa, non sco­ prirò mai il potere sottile della persuasione, dell’auto­ rità, della generosità o della resistenza paziente. Le idee bisogna discuterle prima che si chiarifichino. In questo senso io sto sollecitando a «disturbare», a met­ tere sottosopra. Meditare su un’idea aiuta a studiare le sue manife­ stazioni. Il potere spunta da ogni parte: mediatori di potere e colazioni di potere; libri di potere, manovre di potere, strumenti del potere; viaggi di potere e ca­ pricci del potere; perfino canzoni di potere e animali di potere dello sciamanesimo New Age. L’idea genera­ le di «potere» richiede una differenziazione, e questa è proprio la seconda intenzione di questo libro: differen­ ziare i fasci di idee che compongono la parola «potere» e che costituiscono il suo bagaglio. Per esempio, se di­ te che «volete più potere», state chiedendo maggiore energia vitale, maggiore capacità di dominare situazio­ 21

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ni imbarazzanti, oppure maggiore riconoscimento o maggior resistenza nel sopportare i vostri fardelli? Vo­ lete un ufficio e un titolo più prestigiosi, o la possibi­ lità di entrare con più autorità nelle decisioni? Volete guidare o comandare? Volete essere amati per l’appog­ gio che date o rispettati perché siete terribili? Tutte queste idee rientrano in una differenziazione del pote­ re. In filosofia, la differenziazione di un fenomeno at­ tuata lasciando che questo si riveli senza pregiudizi — senza moralismo, senza consigli, senza far pressione a favore di una posizione rispetto alle altre - si chiama metodo fenomenologico. Questo libro illustra quindi una fenomenologia delle idee di potere. La differenziazione delle forme del potere porta a una generale estensione del potere personale stesso. Questa è la terza intenzione di questo libro: estendere l’idea del potere alle regioni del sentimento, dell’intelletto e dello spirito, quelle che vanno al di là dell’esercizio del potere a opera dell’umana volontà. Questa estensione ad aspetti del potere che di solito non vengono consi­ derati quando lo si studia mira a offrire un potenziale maggiore a chi legge questo libro. Che, infatti, vuole «conferire potere» - altrimenti, perché fare la fatica di leggerlo? L’aumento del potere deriva dall’allargarsi della nostra comprensione delle forme di potere che si presentano intorno a noi, e dallo scoprire un più am­ pio spettro di possibilità di abbracciare il potere. Tutto questo si impara semplicemente rimuovendo l’incon­ sapevolezza che avvolge l’idea di potere, più che con 22

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istruzioni ed esercizi pratici. Prima si sviluppano idee, poi segue una pratica allargata. Per esempio, se l’idea del cibo include soltanto car­ ne e patate, la mia dieta risulterà gravemente limitata. Invece, una volta che l’idea di cibo si sia differenziata, la mia pratica alimentare si estenderà, non soltanto al­ la frutta, alle uova e al formaggio, ma anche alla capa­ cità di mangiare in ristoranti etnici, di viaggiare in paesi stranieri, e in generale di rendere più acuti i miei sensi. Quindi, quando avrete finito il libro, la vostra idea di potere dovrebbe essere stata disturbata, differenziata e ampliata. Il modo in cui affronterò il tema sarà quello di uno psicoanalista perché, dopo tutto, questo io sono: uno che da lungo tempo insegna e pratica la psicoanalisi. Proprio come in una seduta psicoanalitica, cercheremo di capire qual è il significato sotteso alle nostre parole e lo faremo attraverso intuizioni capaci di chiarificare (ma anche di disturbare, differenziare e ampliare). Co­ me in una psicoanalisi, seduti su due poltrone, voi a leggere e io a scrivere, saremo alle prese con le parole, con le idee e con i sentimenti inconsci che esse espri­ mono. Mentre converseremo, nella nostra mente na­ sceranno, inaspettati, altre idee e altri sentimenti che modificheranno il nostro mobilio, e ci consentiranno di intuire e riconoscere cose che, una volta posato il li­ bro o terminata la seduta, si ripercuoteranno sul nostro agire in modi nuovi e imprevisti. 23

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La chiarificazione della mente attraverso l’attenzio­ ne al linguaggio è un metodo che risale a Confucio e a Socrate. Entrambi ritenevano che la risoluzione di ogni problema inizia con l’esame attento del nostro linguaggio. Freud ha ripreso questo approccio. È stato lui, infatti, il primo a chiamare la sua psicoanalisi «cu­ ra con le parole». Per diventare consapevoli di qualun­ que cosa bisogna, in primo luogo, usare le parole in modo appropriato, perché le parole sono cariche di implicazioni. Voi e io possiamo anche stare seduti uno di fronte all’altro, come durante una seduta o una co­ lazione d’affari, e usare le stesse parole, come «potere», ma è probabile che ciascuno di noi attingerà a idee ra­ dicalmente diverse sepolte in quella parola. Se non facciamo attenzione alle parole, siamo come muti - incapaci di parlare, ma anche ebeti, stupidi. Questo mutismo (e naturalmente non mi riferisco a un’effettiva menomazione della laringe) si traduce in quell’uso grezzo e ottuso del potere che sono la bruta­ lità della polizia, le sparatorie da auto in corsa, gli stu­ pri, le violenze domestiche, le aggressioni gratuite, la forza non controllata, la guida in stato di ebbrezza, le gare a chi urla di più, il suono amplificato, il compor­ tamento rude, duro, e i bambini piccoli con pistole da grandi. Il linguaggio può esprimere ogni sfumatu­ ra emotiva, ed è proprio questa la sua bellezza — e il suo potere. Private del senso delle parole, le nostre espressioni emotive diventano primitive, fisiche e grossolane. 24

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I Cinesi hanno detto da secoli che la gente ricorre alla violenza fisica perché le parole hanno fallito. Forse per guarire la violenza occorre cominciare a guarire le parole, una cura che inizia con il prestare attenzione alla potenza delle parole. L’incapacità di parlare e la stupidità non appaiono soltanto all’estremità violenta dello spettro del muti­ smo. All’altro capo troviamo quel demoralizzante sen­ so di perdita di potere che nel nostro paese prova tanta gente: persone che non riescono a esprimere la loro cieca disperazione se non con vaghi borbottii sull’«ave­ re potere». L’avere potere è diventato il principale slo­ gan da strombazzare alla gente per attirarla verso i ba­ racconi del «fai da te» e del recupero, del luna-park te­ rapeutico. È tanta la gente che oggi si sente «priva di potere». M a cos’è che loro, e noi, chiediamo? Dove e perché se n’è andato quel potere che un tempo anima­ va il sogno di tempi migliori in un paese migliore? La psicologia può aiutarci a riacquistare potere? Possono i singoli cittadini, con i loro gruppi di sostegno, con se­ dute che si tengono a centinaia di migliaia, ogni gior­ no della settimana, «trovare potere»? Prima di ogni al­ tra cosa dobbiamo lavorare sull’idea stessa di potere. Come terapeuta, sono convinto che, perché la so­ cietà recuperi un senso di potere, sia necessario ben al­ tro che una terapia volta ad accrescere il potere perso­ nale. Oggi c’è qualcosa di profondo che affligge lo spi­ rito della società. Qualcosa che ha a che fare, forse, con lo scorrere dei giorni del calendario, con le estin­ *5

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zioni e l’inquinamento, con il tributo da pagare ai po­ teri pagani radicati nell’anima del mondo, che pene­ trano la psiche dell’individuo nella forma del suo per­ sonale malessere. M a anche quando il nostro sentire e il nostro corpo si fossero resi più sensibili, e quando gli strumenti della comunicazione interpersonale fos­ sero migliorati grazie alla terapia, il nucleo centrale del malessere non sarebbe ancora stato affrontato. Questo nucleo è collettivo e soltanto secondaria­ mente individuale. Cioè, i sentimenti di fallimento, d’impotenza, d’intrappolamento che assalgono una singola persona possono benissimo essere le angosce dell’anima collettiva che si riflettono sull’individuo. Il pensiero antico non poteva nemmeno immaginare l’a­ nima dell’individuo separata dall’anima del mondo. Il nucleo del nostro personale malessere possiede una di­ mensione spirituale, non soltanto psicologica, per cui i tentativi di recupero psicologici sono sempre solo delle soluzioni parziali. Inoltre, il malessere che oggi affligge la politica del corpo - o dell’anima - della nazione è anche ideativo. Anche le idee disfunzionali richiedono una terapia, e non soltanto i portatori e le vittime di queste idee. N é ci si può aspettare che idee misere, da quattro soldi, possano essere curate con la terapia delle emozioni. Non si può lasciare fuori la testa o il lobo sinistro del cervello, e aspettarsi un discernimento cri­ tico delle distorsioni dei media e un innalzamento di livello dei nostri dibattiti nazionali. Non importa quanto io lavori con sincerità sui miei sentimenti ri­ 26

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guardo al potere: se la mia mente è ancora incantata da ardenti fantasie di crescita e di efficienza o da idee semplicistiche di controllo, di autorità, di supremazia e di prestigio, resterò bloccato nel mio quotidiano confronto con la gestione concreta del potere. La tera­ pia deve scuotere e modificare le idee e i miti che go­ vernano la mia mente, altrimenti per quanto armoni­ co sia il mio corpo emozionale, accresciuta l’autostima e positivo il campo delle relazioni umane, potrò anche essere capace di comunicare meglio, di percorrere trat­ ti più lunghi a jogging, di mantenermi un lavoro, ma nel privato continuerò a desiderare ardentemente di accrescere il potere, perché sarò ancora inconsapevole di tutte le complessità in esso implicate e, quindi, in­ capace di esprimere quanto veramente desidero. I nostri problemi sono dentro la nostra vita; ma la nostra vita è vissuta entro campi di potere, sotto l’in­ fluenza degli altri, in accordo con l’autorità, soggetta alle tirannie. Inoltre, la nostra vita è vissuta entro quei campi di potere che sono le nostre città, con i loro uf­ fici e le loro auto, i loro sistemi di lavoro e le loro montagne di rifiuti. Anche questi sono poteri che si ri­ percuotono sulle nostre anime. Quando il mondo che ci sta intorno crolla e ha la morte nel cuore, anche l’individuo soffre di conseguenza. E poiché non è lui, l’individuo, la causa di quella sofferenza, non potrà nemmeno esserne la cura. Il fallimento del potere col­ lettivo nella burocrazia, nell’educazione, nelle istitu­ zioni e nelle aziende, nella inefficace trasmissione del 2-7

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potere verso il basso, richiede che coloro che hanno perduto i diritti civili, gli oppressi e i poveri, e i crepi­ tanti generatori di acre calore sotto le strade delle città d’America prestino attenzione ai trasformatori e alle dinamo oltre che alla scatola dei fusibili del nostro scantinato privato. Bisogna fare attenzione alle linee elettriche aeree, a quelle idee basilari che disegnano la rete dei fili che riforniscono di energia ciascuna delle nostre individualità. Il recupero individuale non può sostituire il recupero collettivo. Al massimo possono andare di pari passo. Diversamente da un tempo, ad avere maggiore bisogno della nostra cura psicologica oggi sono le idee disfunzionali e non le ferite del bam­ bino interiore. Per recuperare il potere personale dob­ biamo, come prima cosa, tener conto del fatto che es­ so ha la sua fonte nei concetti collettivi di potere. Per andare alla fonte, soprattutto in America, è ne­ cessaria una nuova comprensione delle idee in sé e per sé: una comprensione con il cuore. Forse le idee sono l’unico, preziosissimo miracolo dell’esistenza umana. Sono le idee, infatti, a determinare la meta del nostro agire, lo stile della nostra arte, i valori del nostro carat­ tere, le nostre pratiche religiose, e perfino il nostro modo di amare. E a tale prezioso potere delle idee che è dedicato questo libro. Ora come sempre, l’attenzione è rivolta all’autono­ mia delle idee, alla loro capacità di invadere la mente dell’uomo, di impadronirsene, e di farla diventare ideologica. M a noi conosciamo davvero quello che è 28

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entrato nella nostra mente —quelle idee che, come il nostro mobilio, se ne stanno silenziose per decenni nello stesso posto, determinando tutte le dinamiche sottese ai nostri pensieri e alle nostre azioni? Le idee che possediamo senza sapere di averle, possiedono noi. Per esempio, l’idea del potere come forza ha cattu­ rato l’immaginazione americana in ambito di relazioni personali, organizzazione aziendale e affari esteri. Questa semplice equazione, «potere = forza», produce conseguenze incommensurabili su tutta la nostra cul­ tura, dal peso esorbitante del bilancio militare per fare degli Stati Uniti una potenza mondiale alle percosse allç mogli e agli stupri per affermare il potere maschi­ le, al portare addosso un’arma per rivendicare il potere della libertà personale. Quando, invece, il potere ri­ manda piuttosto a forme di influenza (legami, nepoti­ smo, reti di collegamenti), come nei gruppi di potere in Italia e in Giappone, o quando coincide con la no­ mina e la permanenza in una carica, come nell’Impero asburgico, allora il ruolo della forza nella società è mi­ tigato da altri stili di potere. È il caso, questo, anche della società inglese tradizionale, dove il potere era de­ finito soprattutto dalla subordinazione all’interno di un sistema classista oppressivo. Allora i poliziotti lon­ dinesi, i « bobbies», non portavano armi: erano l’atteg­ giamento e il modo di fare, erano la forza che gestiva i comportamenti pericolosi per l’ordine pubblico e che teneva «al loro posto» i sudditi britannici. Ancora: quando nella definizione del potere entrano in gioco il

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rapporto con gli antenati, con gli spiriti, e le forze al di là dell’umano, iniziazioni e tabù alterano il signifi­ cato stesso di «forza» e tengono sotto controllo una violenza altrimenti indiscriminata. Perché la nostra so­ cietà possa limitare le spese per gli armamenti, proteg­ gere i cittadini nelle case e nelle strade, o approvare ef­ ficaci leggi sulle armi, dobbiamo prima chiarirci le idee sul nostro modo di vedere il potere. Il desiderio di idee e abilità intellettuali nuove, che consentano di smorzare l’inerzia delle idee non pensa­ te, è una fame profonda dell’anima americana. Questo ho scoperto nella mia attività di insegnamento in giro per il mondo, nel mio lavoro di psicoanalista e anche nei molti workshop a cui ho partecipato in tutto il paese. I rapporti interpersonali possono essere di conforto, i gruppi di sostegno possono essere di nutri­ mento, e il successo può far crescere, ma le idee danno potere allo spirito e aprono i suoi occhi a nuove possi­ bilità. Io non voglio credere che noi siamo essenzial­ mente un popolo ossessionato dalla sicurezza (assicu­ razioni, prigioni, protezione, leggi sulle etichette dei prodotti), né che siamo un popolo schiavo del consu­ mismo, incantato dai media, dallo spettacolo e dalla celebrità, e dipendente dalle relazioni; o che la nostra sia una società narcisistica, innamorata della propria infanzia al punto da negare completamente le tragedie nazionali e non avere la capacità di immaginare un fu­ turo significativo. Queste diagnosi si fermano ai sinto­ mi senza cogliere la sindrome che sta alla base, di cui i

Aprendo il libro

sintomi non sono che manifestazioni fluttuanti e lega­ te alla moda. La sindrome più profonda è l’inerzia del­ lo spirito, una passività che non sente alcuna vocazio­ ne e che rifugge dall’immaginazione, dal pensiero av­ venturoso e dalla chiarificazione intellettuale. Il fatto che oggi ci immaginiamo come una nazione di vittime denota il vuoto spirituale della nazione stessa. Questi sono i sintomi dell’anima in cerca di chiarezza. La chiarezza è essenziale. L’anima è alla disperata ricerca del potere della men­ te, che la rende in grado di affrontare l’impotenza che sperimenta. Anche se vogliamo le idee, non abbiamo ancora imparato a maneggiarle bene. Le bruciamo troppo rapidamente. Ce ne liberiamo mettendole im­ mediatamente in pratica. Sembra che con un’idea sap­ piamo fare un’unica cosa: applicarla, trasformarla in qualcosa da poter usare. Una «buona idea» è buona perché fa risparmiare tempo o danaro o perché rende le cose più convenienti. L’idea muore proprio lì, nella conversione. Perde la sua forza vitale. Gli Stoici greci parlavano di un logos spermatikos, parola generatrice o ragione seminale. Nel momento in cui queste idee vengono messe in pratica e concretizzate, non genera­ no più altre idee. Quando il dottor Joyce Elders propone di legalizza­ re le droghe attualmente illegali, o quando i Liberta­ rians suggeriscono l’abolizione della tassa sul reddito delle persone fisiche, ci affrettiamo immediatamente a giudicare, discutendo le implicazioni pratiche, o poco

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pratiche, di queste idee. Chi ne trarrebbe beneficio e chi danno? Quale sarebbe il loro costo? Come verreb­ bero applicate? Quale sarebbe l’effetto sul bilancio, sul sistema dell’assistenza, sulla salute, sui centri urbani, sui piani di difesa? Il dibattito si focalizza su ipotetici «fatti», su modelli di attuazione, sulla moralità di opi­ nioni e posizioni, trascurando completamente le altre spiagge del pensiero e del sentimento. Infatti le idee germogliate dai semi gettati dal dottor Elders e dai L i­ bertarians favoriscono ramificazioni nel regno del pen­ siero completamente separate da tutti i «come fare?» della pratica. Le droghe legalizzate evocano idee come la gioventù, la dipendenza, i prodotti farmaceutici, l’alcol, la città, i piaceri, mentre le penalizzazioni evo­ cano i complessi problemi della scienza politica — la natura del governo, il rapporto fra il guadagnare e lo spendere, i principi della tassazione, come la decima, la beneficenza, la penale, la condivisione, e così via. Arenati sui «come?» e sui «chi?», evitiamo di giocare con il «cosa?», di rigirarlo nella mente, di vivere un’i­ dea come un piacere, l’ideazione come uno sport che consente divertimento ed esercizio mentale come mol­ ti altri tipi di giochi. Sfortunatamente non siamo un paese dove la sera si fa tardi a parlare delle idee, perché siamo stanchi, avendo lottato per metterle in pratica. Quindi, nelle pagine che seguono non mi metterò a elaborare applicazioni dirette per le organizzazioni del business, e per i loro enigmi manageriali. Non voglio che gli uccelli siano messi in gabbia troppo presto. 3*

Aprendo il libro

Come prima cosa consentiamoci di pensare a ciò che viene in mente, cerchiamo di «sentirlo», chiediamogli di lasciarsi ponderare, soppesare. M a il mio metodo, nelle pagine che seguono, non sarà nemmeno il ragio­ nare lento e paziente o l’accumulare prove. La mia idea riguardo alle idee è che esse, per prima cosa, de­ vono essere covate. Solo allora potranno suscitarne al­ tre migliori nella nostra mente, e potranno portare a sviluppi imprevedibili nella nostra vita. La mia tattica è far esplodere piuttosto che spiegare; è mantenere le idee brevi, fulminee, accese e disseminate, in qualun­ que modo possibile - con l’eccesso polemico, il para­ dosso, o con l’attacco violento alle convenzioni che ci sono care. Prendete quella che segue come un’investi­ gazione, come una tavola rotonda, un’improwisazione, un disegno a mano libera di cose non viste. Vi pre­ go, non siamo a scuola e io non sono il vostro inse­ gnante. Lasciate parlare le idee. Dato che le idee sono la nostra miniera, ha un senso chiarire meglio cosa esse siano. La parola greca per «idea», eidos, viene da idein, «vedere», e si riferisce a un sostantivo che ha due significati: (a) una cosa vista co­ me forma, e (b) un modo di vedere, una prospettiva. Vediamo le idee e al tempo stesso vediamo per mezzo di esse. Sono le forme che la nostra mente assume e al tempo stesso ciò che consente alla nostra mente di tra­ sformare gli eventi in esperienze dotate di forma. Il primo significato classico, quello di idea come ap33

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parenza visibile, come immagine mentale o verbale chiaramente definita, è nato nell’era moderna con Car­ tesio (1596-1650), che andava in cerca di «idee chiare e distinte» su cui basare l’intera sua filosofia e ha fonda­ to il nostro modo di pensare occidentale. Tale è il pote­ re di un’idea! Per i metafisici platonici le idee esistono in una realtà sovrasensibile, accessibile soltanto alla ra­ gione, all’immaginazione e alla memoria —e forse alle pratiche magiche. Essi sostengono che le idee possono essere pensate, immaginate e ricordate - e forse mani­ polate (controllo della mente, propaganda, indottrina­ mento), ma non si possono toccare o sentire. Le idee ci vengono in mente. «Abbiamo» un’idea, possiamo essere «presi» da un’idea. Le idee possono ar­ rivare attraverso lampi di ispirazione, lunghi rimuginii e meditazioni, sogni, oppure attraverso l’attenzione fa­ ticosamente concentrata. Spesso passano di mente in mente, senza appartenere ad alcuno. Talvolta la stessa idea può sorgere in luoghi diversi e in menti diverse contemporaneamente. Il fatto che un’idea riesca a per­ suaderci, perfino a convertirci, le dà un potere immen­ so, simile a quello di una visione rivelatrice, come nel­ la visione di Giovanni nel quarto Vangelo, dove eidos è un qualcosa visibilmente percepito, proprio come può essere udita la voce di uno spirito. Quel «venire den­ tro» di un’idea che porta a una scoperta è espresso dal­ la parola latina invenire, da cui deriva «invenzione». Tutte le nostre invenzioni cominciano come idee; tut­ to il nostro potere materiale deriva dal potere ideativo. 34

Aprendo il libro

Il secondo significato classico, quello di idea come modo di vedere, come prospettiva, implica che le idee ci aprono gli occhi. Le nuove idee sono nuovi modi di vedere. Frasi del tipo «vedi cosa intendo?», «guarda co­ sa sto dicendo!», oppure «guarda la cosa in questo mo­ do», uniscono entrambi i significati di idea: idea come entità e come prospettiva. Dal momento che le idee sono già operanti nelle nostre prospettive —come quando, per esempio, dicia­ mo «questa è una tua percezione; la mia idea è diver­ sa» - capovolgere le idee e guardarle attentamente di­ venta importantissimo per qualunque tentativo, di qualunque genere. Poiché diamo per scontate le nostre idee, le idee (come poteri sovrasensibili), senza che ce ne accorgiamo, ci posseggono. È per questo che l’inda­ gare con cura le idee è liberatorio, e il favorirle ci arric­ chisce. C ’è un’idea in particolare, però, che ostacola fin dall’inizio l’esame delle idee: la convinzione che siamo noi a crearle nella nostra testa, come se fosse il cervello umano a secernerle. Noi tentiamo di dissimu­ lare l’autonomia del loro potere etichettando con no­ mi umani invenzioni tecniche, scoperte fisiche, proce­ dure mediche e leggi matematiche, attribuendo cioè le idee a persone che presumibilmente le hanno pensate. Il poeta W. H. Auden ha guardato in trasparenza que­ sta illusione umanistica, che cerca di imbrigliare la li­ bertà delle idee, e ha concluso: «Noi siamo vissuti dai poteri che vogliamo far credere di capire». Perché la nostra civiltà continui, saranno necessarie 35

IL P O T E R E

idee vitali come quelle formulate, in straordinaria ab­ bondanza, dai Padri Fondatori alla fine del XVIII seco­ lo. Perché le idee nascano e restino vive durante la loro infanzia precaria, devono essere accolte con calore, in modo che il loro potere ancora in germoglio possa raggiungere la mente in totale pienezza. Scetticismo e ironia non vanno bene, all’inizio. All’inizio meglio un po’ di follia, piuttosto che idee ritagliate per poter es­ sere inserite in fessure prestabilite. C ’è bisogno di co­ raggio per affrontare la loro forza distruttiva; le idee, infatti, possono anche distruggere abiti mentali ai qua­ li siamo affezionati. Questa distruzione delle vecchie idee, oggi la definiamo garbatamente «cambiamento di paradigma», mentre sarebbe più appropriato defi­ nirla «teoria della catastrofe». La vitalità di una cultura non dipende tanto dalle sue speranze e dalla sua storia, quanto dalla sua capacità di covare volentieri le forze divine e demoniache delle idee.

PARTE

I

L’eroica del potere cam bia

Introduzione Buona parte del mobilio essenziale delle nostre menti è stato messo lì dai vittoriani, nei sessant’anni compresi fra il 1830 e il 1890. Appartiene all’età eroica dell’in­ dustrialismo e deH’imperialismo, e il suo stile è stato ispirato dalle macchine a vapore e dalle rotaie ferrovia­ rie protese verso un orizzonte illimitato, dall’elettricità a buon mercato che illumina i luoghi bui al semplice scatto di un interruttore, dalla manodopera a buon mercato che lavora allo scatto di un altro interruttore, nonché dalla gerarchia di classe, dai successi nelle com­ petizioni, dai megamonopoli, dalle vittorie di ogni ge­ nere - sulle malattie, sugli ostacoli geografici, sui popo­ li indigeni e sull’irrazionalità dell’anima. Le nostre menti sono ancora arredate con armadi di quercia pie­ ni di uniformi eroiche e di ritratti di patrioti dalla ma­ scella volitiva, di grandi inventori e ingegneri, di gene­ rali e colonizzatori, di compositori e romanzieri, tutti dalle proporzioni e dalle imprese eroiche. 39

IL POTERE

I popoli indigeni della costa nordoccidentale del Pa­ cifico hanno scolpito giganteschi totem degli spiriti dei loro antenati, come icone del potere per la tribù. Anche il business ha i suoi spiriti eroici, che continua­ no a vivere nelle sue idee e nelle figure ancestrali, alle quali si affida per trarre ispirazione e che emula nel­ l’ambizione, perché questi giganti sapevano far cam­ biare direzione alle cose e portarle a compimento. Cambiarono il mondo, proprio come gli eroi leggen­ dari, come Ercole che deviò il corso di interi fiumi per ripulire la vecchia sporcizia; come Marduk che pro­ sciugò le infide paludi; come Mosè che liberò il suo popolo e fece annegare i suoi persecutori. Raffigura­ zioni, queste, del comando e del controllo intesi come un farsi carico. Qualunque cosa si presenti come un ostacolo può essere affrontata ponendovi rimedio o combattendola. II potere è stato definito per noi dal patrimonio che ci è stato tramandato. Le statue nei nostri parchi, i rac­ conti che leggiamo nei nostri libri scolastici, le note di un concerto, esaltano l’impresa eroica che ha la meglio sulle circostanze avverse grazie alla forza di volontà. Il potere è virtù persuasiva, lotta muscolare, comando ri­ soluto, risultato produttivo, utilità pratica la più vasta possibile. L’immagine del potere ce la dà colui che vin­ ce, anche quando uccide. Non è facile sbarazzarsi di questo mobilio ereditato, soprattutto perché a comporlo sono i residui del darwi­ nismo sociale, base filosofica dell’era moderna. Il

L ’eroica del potere cambia

darwinismo sociale può essere condensato in una se­ quenza di proposizioni. «Il progresso è naturale.» «Ciò che è naturale è dato da Dio.» «Quindi, il progresso è buono.» «Il progresso avanza mediante la selezione na­ turale: ciò che è superiore cresce, e ciò che è inferiore è destinato a finire.» «Ci sono più individui in fondo che in cima, sono di più le erbacce che le rose ibridate, quindi la gerarchia è naturale.» «Dato che via via che si sale, la piramide va numericamente a restringersi, la se­ lezione naturale impone la competizione, che permette agli elementi più adatti di sopravvivere.» «Solo i più adatti sopravvivono alla competizione.» «La sopravvi­ venza è assicurata se si raggiunge la cima e vi si rima­ ne.» (Le unità più piccole del mobilio, che accompa­ gnano il «raggiungere la cima», comprendono: una quota di mercato più ampia, un profitto dall’investi­ mento sempre maggiore, e un’integrazione verticale dalla materia prima al punto vendita al dettaglio.) Ciascuna di queste formule, che hanno a che fare con il progresso, la selezione, la sopravvivenza e la lot­ ta verso l’alto, può essere riassunta sotto un’unica idea dominante: la «crescita», una parola che porta un mes­ saggio incredibilmente efficace. Evocando immagini naturali come alberi pieni di gemme e frutta in matu­ razione, ma anche un’infanzia impaziente di diventare più grande, più forte, di prendere il comando, questa parola trasmette il messaggio eroico con un’efficacia molto maggiore di concetti come «progresso», «mi­ glioramento» o «sviluppo». La crescita ha finito per di­ 41

IL POTERE

ventare un importantissimo indice di potere, ma an­ che un suo sinonimo, dal momento che, nella giungla competitiva, la capacità di crescere presuppone un’in­ nata potenzialità di sopravvivenza e di vittoria. L’im­ perativo «cresci o muori» perdura, come la pendola vittoriana del nonno che scandisce la nostra vita ventiquattr’ore al giorno. Se esaminiamo bene l’idea di crescita, scopriamo che si accompagna a un’altra idea, altrettanto importante: quella dell’EfEcienza. La crescita, in sé, può anche si­ gnificare un’inutile ed eccessiva esfoliazione, erbacce che soffocano, reti di collegamento aggrovigliate, espansione senza scopo, ridondanza ovunque. La buro­ crazia è semplicemente la crescita naturale dirottata ver­ so l’interno. Dato che la crescita naturale è caratterizza­ ta da una dispendiosa sregolatezza, ha bisogno dell’effi­ cienza per diventare funzionale, per essere garantita nel­ la sopravvivenza. La sopravvivenza del più adatto si tra­ duce così nella sopravvivenza dell’efficiente. E questa traduzione avviene facilmente perché il darwinismo so­ ciale, con le sue immagini biologiche, fiorì nello stesso periodo vittoriano dell’industrialismo, con le sue me­ tafore meccaniche, come l’efficienza. M a anche l’effi­ cienza non è spontanea; dipende da attente misurazio­ ni, dal pensare per numeri, e da decisioni basate su questi. Oggi ne parliamo come di «valutazione dei co­ sti», di «analisi costi-benefici», di «economicità dei co­ sti», di «bottom line» (la cifra finale, una volta comple­ tate tutte le operazioni contabili). Sono queste le ulti­ 41

L’eroica del potere cambia

me, avveniristiche attrezzature d’ufficio, inchiodate al pavimento della mente del business e tenute a posto da specialisti chiamati contabili. Le idee di crescita e di efficienza, sia che abbiano le loro radici in modelli organici sia in modelli meccanici, esprimono entrambe la vecchia eroica che impone di avanzare sfidando i nemici, che sono l’inerzia, la pigri­ zia, il disordine e la confusione, senza lasciarci scivolare indietro nell’abbraccio confortevole dell’abitudine, e di realizzare le cose facendo fare il lavoro ad altri. Proba­ bilmente la capacità di far fare ad altri il lavoro è la più semplice definizione del potere. Di qui, il titolo di que­ sta parte: «L’eroica del potere cambia». M a in questa parte attueremo un piccolo stratagem­ ma: descriveremo due tipi di eroica, che definiremo «vecchia» e «nuova». La Crescita e l’Efficienza saranno controbilanciate dal Servizio e dalla Manutenzione. Dalla prospettiva della vecchia eroica, il servizio e la manutenzione sembrano azioni di retroguardia, opera­ zioni di ripulitura, mali necessari. Quindi, il compito che abbiamo di fronte richiede un modo nuovo di pensare al servizio e alla manutenzione, dato che occu­ pano un posto importantissimo in ogni pianificazione del business, in ogni operazione umana. Finché saran­ no immaginati come un impedimento che rallenta e appesantisce, non riusciremo a percepire quanto cru­ ciali siano diventati nel «business» del business. Il Ser­ vizio e la Manutenzione vanno a sfidare proprio al loro cuore i vecchi concetti eroici del business. 43

IL POTERE

Oggi la sfida eroica costringe a un confronto con l’eroismo stesso. All’eroismo viene chiesto di affronta­ re il suo stesso mito, lasciando libera l’immaginazione di trovare altri modi di pensare il potere, che per cosi lungo tempo è stato definito da concetti eroici. Oggi l’eroismo, invece di focalizzarsi sul tentativo di far cambiare direzione ai problemi, deve cercare di far cambiare direzione a se stesso, inventando nuove idee per la vecchia eroica, rivedendo ciò che oggi è innova­ tivo, ciò che apre nuove strade, quali sono oggi i veri nemici del risultato. Non serve a molto aprire con co­ raggio nuove strade se si continua a rimanere dentro 10 stesso labirinto. E il modello stesso che deve rom­ persi, che deve aprirsi. Forse il nemico dell’azione eroica non è dove è sem­ pre stato: nell’inerzia della materia grezza, nell’indo­ lenza del lavoro o nel freno della tradizione. Forse il nemico da sconfiggere si trova proprio nel cuore del­ l’eroismo stesso, nella sua stessa inerzia, nell’indolenza, nella resistenza a fronteggiare la modalità eroica. Fin­ ché guarda verso se stesso, resta nella negazione, inca­ pace di vedere le proprie tendenze autodistruttive, an­ che se raddoppia i suoi sforzi di azione eroica. Poiché 11 movimento dell’eroismo classico è un movimento in avanti e verso l’alto, il compito più difficile per la co­ scienza eroica è quello di guardare all’interno, dentro il proprio impulso, in quel mito che lo mantiene in marcia verso una fine crudele: Ercole che impazzisce, Gesù Cristo crocifisso, Edipo cieco, Agamennone uc­ 44

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ciso dalla propria sposa, Mosè che muore lontano dal­ la Terra Promessa. E possibile che grandi società come l’IBM o la GM o la KMART, e nazioni potenti come gli Stati Uniti, ascese al predominio grazie all’eroica del­ l’espansione e del miglioramento, si rendano conto delle tragiche conseguenze di quel modello che una volta funzionava così bene? È possibile che l’eroismo modifichi il proprio paradigma? Se si cercano nuove forme di eroismo, allora il Ser­ vizio e la Manutenzione dovranno assumere un’impor­ tanza maggiore, mentre la Crescita e l’Efficienza do­ vranno essere pensate in modo completamente diver­ so. Altrimenti sarà l’inerzia dei modi di pensare del XIX secolo a dirigere la mano dell’elettronica del XXI. Gli impianti, i macchinari potranno anche cambiare radi­ calmente, ma se la mente non cambia i suoi miti, sa­ ranno sempre Ercole, Marduk e Mosè a occupare la stanza dei bottoni. L’esercizio intelligente del potere ha inizio nella mente che riesce a guardare in profon­ dità le strutture delle proprie azioni. Prendiamo dun­ que in esame la prima di queste strutture, che tanto influenza il nostro concetto di potere: l’efficienza.

L'efficienza Il primo significato che il dizionario ci dà di «potere» è semplicemente «la capacità di fare, di agire; la capacità di realizzare qualcosa»; per cui, sempre secondo il di­ 4Í

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zionario, molto potere significa «forza», «potenza». Un potere forte, un potere assoluto, può essere definito da due elementi evidenti: il controllo assoluto delle con­ dizioni e la massima efficienza delle operazioni. In realtà, il primo dipende dal secondo perché il potere, per mantenersi, ha bisogno di efficienza. Non è possi­ bile mantenersi al vertice delle condizioni se i nostri metodi operativi sono inefficienti. M a questo non suggerisce anche che l’efficienza assoluta produce il massimo potere? Il campo di sterminio di Treblinka e il suo coman­ dante, Franz Stangl, sono esempi di efficienza al mas­ simo grado di purezza. Treblinka era il più grande dei cinque campi costruiti esclusivamente a scopo di ster­ minio dai Tedeschi durante l’occupazione della Polo­ nia. Secondo una stima estremamente prudente, in questi campi furono uccise circa tre milioni di persone in diciassette mesi. I campi di sterminio vennero escogitati per la «solu­ zione finale», in quanto il metodo usato in precedenza - la fucilazione di massa al margine di fosse aperte, su cui far passare poi i bulldozer (un metodo usato dai nazisti in Unione Sovietica) - fu ben presto accanto­ nato perché inefficiente per quello che Himmler ebbe a chiamare «l’enorme compito che abbiamo di fronte».1 Un metodo inefficiente per molte ragioni: il 1. Gitta Sereny, Into That Darkness, New York, Random House/Vintage, 1983, p. 98 (tr. it.: In quelle tenebre, Adelphi, Milano 1975). 46

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gas che si liberava dai corpi in putrefazione rivelava quanto stava succedendo; averi e oro non potevano es­ sere recuperati; la fucilazione a ridosso delle fosse aper­ te richiedeva l’impiego di troppi soldati, e quindi non poteva essere assicurata la segretezza; c’era troppa con­ fusione, alcune vittime fingevano di essere morte, altre fuggivano, i soldati non sparavano, ecc. L’efficienza qui va intesa solo dal punto di vista di colui che è al potere, di colui che compie l’esecuzione. In altre situa­ zioni, un’esecuzione efficiente tiene conto del punto di vista della vittima: deve essere, cioè, rapida, indolore, non crudele né inconsueta. Ecco un brano di una delle 70 interviste che Gitta Sereny fece a Franz Stangl: «Quantagente arrivava con un convoglio?», chiesi a Stangl. «Di solito circa cinquemila. Qualche volta di più». «Ha mai parlato con qualcuna delle persone che arrivava­ no?» «Parlato? No... generalmente lavoravo nel mio ufficio fino alle undici - c’era molto lavoro d’ufficio. Poi face­ vo un altro giro partendo dal Totenlager. A quell’ora, lì erano già un bel pezzo avanti con il lavoro». (Voleva di­ re che a quell’ora le cinque o seimila persone arrivate quella mattina erano già morte: il «lavoro» era la siste­ mazione dei corpi, che richiedeva quasi tutto il giorno e che spesso proseguiva anche durante la notte.) (...) «Oh, la mattina a quell’ora tutto era per lo più finito, nel campo inferiore. Normalmente un convoglio tene­ 47

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va impegnati per due o tre ore. A mezzogiorno pranza­ vo... Poi un altro giro e altro lavoro in ufficio.»2 Il mio scopo qui non è quello di psicoanalizzare Stangl, i suoi motivi, la sua coscienza o l’appoggio da parte della società, del mondo politico e religioso su cui po­ teva contare per condurre a termine il suo «lavoro». Né voglio fare della facile filosofia sulla storia europea, sul­ la teologia dell’Olocausto, sulla natura del male, o sulla routine e la programmazione sistematiche come forze archetipiche indipendenti. Qui, intendo concentrare l’attenzione sull’idea di efficienza. Vorrei inoltre chiedervi di leggere questi passi come esempi di pensiero manageriale di fronte a condizioni terribilmente difficili. Treblinka, come sistema, era un complesso industriale su vasta scala, e Stangl ne era il direttore generale. Sulle sue spalle gravava la responsa­ bilità. Fallire, per lui, significava ben più che un falli­ mento: significava la morte. M a il personaggio chia­ mato «Stangl» è l’ombra che incombe dietro le spalle di ogni «uomo qualunque» seduto alla scrivania di un ufficio. Il «lavoro» di uccidere con il gas e bruciare cinque­ mila esseri umani, e in alcuni campi da cinquemila a ventimila persone in 24 ore,3 esige il massimo dell’effi­

2. Ibidem, pp. 169-170. 3. Ibidem, p. 197. 48

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cienza. Nessun gesto inutile, nessun attrito, niente complicazioni, niente accumulo. «Arrivavano e, tempo due ore, erano già morti» diceva Stangl.4 Per renderci conto di quanto fossero efficienti le operazioni in quei campi, dobbiamo prima immagina­ re il potenziale di caotico disordine di questa efficien­ za. I treni arrivavano al campo su una linea a binario unico. Dovevano essere scaricati (i cadaveri di coloro che erano morti durante il viaggio dovevano essere gettati in una fossa) e spostati su un altro binario così da tenere libero quello principale per l’arrivo del treno successivo. Uomini, donne e bambini, di ogni età, scendevano barcollanti dai vagoni, accecati dalla luce del giorno o dai fasci abbaglianti dei proiettori, terro­ rizzati e confusi, semiasfissiati, disidratati, storditi, de­ bilitati, isterici, incapaci di comprendere gli ordini. Se giravano a sinistra anziché a destra, se inciampavano, se non eseguivano un ordine, se esitavano o provoca­ vano un qualsiasi problema, rallentavano il processo, e spesso venivano spinti avanti a frustate o fucilati im­ mediatamente sul posto. Niente doveva interferire con l’efficienza del processo. «Ma lei non poteva cambiare tutto questo?», chiesi io. «Nella sua posizione, non poteva far cessare quelle nudità, quellefrustate, quegli orrori dei recinti da bestiame?»

4. Ibidem, p. 199. 49

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«No, no, no! Questo era il sistema. L’aveva escogitato Wirth. Funzionava. E dal momento che funzionava era irreversibile.» M a con la morte il «lavoro» non era finito. Il campo doveva essere mantenuto in funzione, i forni riparati, le scorte di carburante e di gas letale rinnovate. Biso­ gnava dirigere il personale, fare in modo che fosse mantenuta la segretezza. E c’era anche da inventariare gli oggetti di valore, gli indumenti, l’oro, le enormi quantità di capelli, e poi, come diceva Stangl, c’era il lavoro d’ufficio. E tutto questo «funzionava». Il ruolo assoluto dell’efficienza. La prima chiara articolazione teorica dell’efficienza, nel pensiero occidentale, non è stata operata in fisi­ ca, nella meccanica, e neppure dalle teorie della pro­ duttività economica, ma nella Fisica e nella M etafìsi­ ca di Aristotele. Questi divise la risposta alla doman­ da «perché?» in quattro tipi di cause: la causa «for­ male», l’idea o principio archetipico che governa un evento; la causa «finale», lo scopo o il fine a cui ten­ de l’evento; la causa «materiale», la sostanza su cui si agisce e che cambia; la causa «efficiente», ciò che dà inizio al moto e che dà immediato innesco al cam­ biamento. L’esempio classico è quello di una statua. Uno scul­ tore (causa efficiente) produce dei cambiamenti in un blocco di marmo (causa materiale), allo scopo di fare 50

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un bell’oggetto (causa finale), con in mente l’idea di una statua (causa formale). Tutte e quattro le cause so­ no necessarie: nessuna può essere esclusa. L’idea di un libro (causa formale), e di questo libro particolare, è altrettanto importante di un’efficace stesura dello stes­ so, della carta, dell'inchiostro, della colla e della rilega­ tura che ne fanno un volume, così come dell’intento di comunicare delle idee (causa finale). Con il passare dei secoli, via via che l’interesse dei filosofi si orientava altrove, la causa efficiente assunse un ruolo sempre maggiore. Gli studiosi di morale ri­ vendicarono la causa finale all’etica e alla teologia, mentre la causa materiale toccò all’analisi scientifica della fisica della materia e del moto. La causa formale —così importante per i filosofi classici seguaci di Ari­ stotele —finì per ridursi a definizioni e descrizioni ar­ bitrarie, senza alcun potere effettivo. Nel XVII secolo, al tempo di John Locke, le cui spe­ culazioni in merito alla libertà individuale sono i fon­ damenti della vita politica americana, la causa effi­ ciente era diventata l’unica risposta alla domanda «perché?». Il capitolo sul «potere» del suo Saggio sul­ l'intelletto umano fa derivare l’idea del potere dalla vo­ lontà umana —che può dare inizio alle azioni, diriger­ le e fermarle. La causa efficiente intesa come potere spiega perché le cose avvengono: governa infatti tutti gli eventi. La libertà è potere senza impedimenti: la volontà senza costrizioni. La causa efficiente si fonde con l’idea stessa del potere, diventa perfino una sorta 5i

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di sostanza, la vera forza di base che muove il mondo, così come la volontà fa muovere il corpo. La causa efficiente fa sì che le cose avvengano. Quando viene scelta come unica causa, allora non importa più cos’è che avviene, a chi o a che cosa av­ viene, e per quale scopo avviene. Il grosso errore di Stangl - filosoficamente parlando - risiede in una de­ dizione unilaterale alla causa efficiente, senza guarda­ re o sentire le altre tre. Quando la causa efficiente viene spogliata dei suoi tre partner, può perdere ogni contatto con la realtà della vita. Il fatto che il mate­ riale su cui si opera siano esseri umani, il fatto che la natura essenziale dell’azione sia l’assassinio e la meta finale la morte, sono tutti dati subordinati in valore o perduti alla consapevolezza, proprio a causa dell’in­ tensa focalizzazione sui processi dell’efficienza. Per dirlo con la psicologia di oggi, l'efficienza è uno dei modi principali della negazione. Stangl lo dimostra chiaramente con le sue spiegazioni. La sua dedizione unilaterale a un lavoro efficiente gli chiudeva gli oc­ chi nei confronti di ciò in cui effettivamente consi­ steva il suo lavoro. La sua efficienza lo difendeva dalla sua sensibilità. Il lavoro si giustificava da sé; l’effi­ cienza fine a se stessa, che non si poteva fermare «per­ ché funzionava». Una ventina di anni fa Richard Nixon fece ricorso alla giustificazione dell’efficienza per negare le profon­ de e complesse implicazioni del caso Watergate. La sua difesa per averle così a lungo coperte (negazione) si 52

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basò fondamentalmente sull’importanza, prioritaria, di assolvere il compito di guidare il governo e condur­ re il paese verso la pace, la giustizia e la sicurezza mon­ diali; intanto, però, proprio quel coprire minava la ca­ pacità del governo di guidare e di governare. Un altro esempio è quello offertoci sempre da Nixon quando ordinò il violento bombardamento del Vietnam del Nord come mezzo efficiente per porre fine alla guerra. Quella decisione basata sull’efficienza sembrò tenere poco conto delle altre cause: la natura essenziale della violenza, gli effetti a lungo termine che avrebbe pro­ dotto su tutti coloro che avrebbe coinvolto, e il costo materiale. Elevare l’efficienza a principio indipendente porta a due conseguenze terribilmente pericolose. In primo luogo, favorisce il pensare a breve scadenza - non si guarda in avanti, fino in fondo — e questo produce un’insensibilità del sentire - non si guarda intorno, ai valori della vita, che così sono vissuti in modo effi­ ciente. In secondo luogo, i mezzi diventano dei fini: il fare qualcosa diventa, cioè, la piena giustificazione del fare, indipendentemente da ciò che si fa. Frasi corren­ ti nella vita del business quali «fallo, e basta!», «non stare a farti tante domande», «niente scuse: risultati!» sono segnali che il principio di efficienza comincia a distaccarsi dalle sue coorti e ad andarsene per conto proprio. La confusione etica che affligge il business, il gover­ no e le professioni, anche se le sue cause sono varie e 53

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molteplici, deriva in parte dalle pressioni dell’efficien­ za come valore in sé e per sé. Allora, curiosamente, sembra che gli altri principi aristotelici si riscattino dalla propria esclusione forzata soltanto per sabotare l’efficienza. L’inefficienza diventa così uno dei modi preferiti della ribellione contro la tirannia dell’efficien­ za. Rallentare il ritmo di lavoro, lavorare limitandosi a osservare le regole, giocare allo scaricabarile, l’assentei­ smo, rimandare le risposte, i documenti che vanno smarriti, le chiamate telefoniche che non vengono ri­ ferite: sono questi i modi dell’inefficienza che l’etica adotta per protestare nei confronti della tirannia del­ l’efficienza. Quasi che, per poter essere dei buoni citta­ dini, interessati alle implicazioni più ampie di un certo lavoro, dovessimo diventare «cattivi» lavoratori. Quello che qui voglio sostenere è che l’idea dell’effi­ cienza non rappresenta di per sé una ragione sufficien­ te per l’agire umano. Deve essere sempre in contatto con i suoi partner, le altre tre cause, ed esercitare la sua funzione all’interno di una complessa tensione di ra­ gioni. Non basta fare un lavoro con piacere, farlo be­ ne, o farlo perché bisogna farlo e perché ci dà sicurez­ za. Stangl, in qualche modo, poteva accampare tutte queste ragioni. Accanto a queste giustificazioni a difesa delle nostre azioni, che tentano di rispondere alla do­ manda «perché?» (perché facciamo quello che stiamo facendo?), è importante fare attenzione anche alle cau­ se fondamentali. Quali sono gli effetti materiali della 54

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nostra efficienza? Cosa stiamo facendo alla natura ma­ teriale del mondo? Qual è l’essenza di ciò che stiamo facendo? Qual è il principio formale che lo governa? Ma, soprattutto, qual è il suo scopo o, per dirlo con Aristotele, «ciò in ragione di cui» vengono eseguite le nostre azioni efficienti? Gitta Sereny incalzava Stangl per conoscere la causa finale (ciò in ragione di cui veniva eseguito il lavoro a Treblinka). Durante le loro numerose conversazioni lui parlò di paura, di sopravvivenza e dell’inutilità del­ la protesta. Alla fine lei gli domandò: «A quel tempo lei quali pensava che fossero le ragioni di quegli stermini?» La sua pronta risposta fu: «Volevano i soldi degli ebrei». «Non dirà sul serio!» La mia reazione incredula lo lasciò perplesso. «Ma na­ turale! Ha la minima idea di che somme incredibili si trattasse? E così che veniva comprato l’acciaio in Sve­ zia.»5

La causa finale di Stangl, lo scopo pratico di quegli stermini ai quali, con tanta efficienza, lui soprintende­ va, stringi stringi, era quello di prendere «i soldi degli ebrei». Non si trattava di razzismo e dello sterminio di gente indesiderabile. Non si trattava di nazionalismo o

5. Ibidem, p. 232. 55

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di far stare meglio i Tedeschi. Non era odio, paura, vendetta. E neppure lealtà nei confronti di un capo o di una causa, o in vista di un futuro migliore per cui oggi andavano fatti spiacevoli sacrifici. La causa finale di Stangl era priva di qualsiasi ideale, di qualsiasi pas­ sione: nessun altro scopo che il profitto. Nessun altro scopo che il profitto. Un’intuizione di questo combinarsi di profitto, potere, efficienza fanati­ ca e criminalità, Nietzsche l’aveva avuta già nel 1881: Da dove proviene questa smisurata impazienza che fa oggi dell'uomo un delinquente [...] i tre quarti della più elevata società si danno alla frode autorizzata e han­ no da sopportare la malcoscienza della borsa e della speculazione: Che cos’è che li spinge? A perseguitarli, giorno e notte, non è la necessità vera e propria [...] ma una terribile impazienza [...] nonché un piacere e un amore altrettanto terribili per il denaro accumulato. In questa impazienza e in questo amore viene però nuova­ mente in luce quel fanatismo della libidine di potenza che un tempo era stato acceso dalla fede di essere in possesso della verità, e che aveva nomi così belli da far sì che si potesse osare di essere con buona, coscienza inu­ mani (bruciare ebrei, eretici e buoni libri, e devastare intere culture superiori come quelle del Perù e del Mes­ sico). Gli strumenti della libidine di potenza si sono trasformati, ma è ancor sempre in fiamme lo stesso vul­ cano, l’impazienza e lo smisurato amore vogliono le lo­ ro vittime: e quel che si faceva un tempo «per amor 56

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d’iddio», lo si fa oggi per amor del denaro, cioè per amore di ciò che oggi dà sentimento di potenza e buona coscienza al massimo grado.6 Oggi il predominio del profitto si chiama pensiero «bottom line», un pensare in termini «costi-benefici», obbedienza al Dio Economia. La causa finale è diven­ tata la bottom line, la ragione ultima, che fornisce il terreno filosofico per un innalzamento del purismo dell’efficienza (un altro nome, forse, per il fascismo?) a spese delle altre due cause, la causa materiale e la causa formale. I materiali possono essere sfruttati, siano essi le materie prime o la manodopera lavorativa, e le con­ siderazioni formali, cioè estetiche ed etiche, possono essere ignorate sia negli atti della produzione sia nei beni prodotti e venduti. L’efficienza nell’interesse delle regole della bottom line. Chiunque giustifichi le decisioni facendo riferimen­ to alla bottom line, ha qualcosa da imparare da Treblinka. L’efficienza dei costi richiede qualche onesta ri­ flessione. Se l’efficienza può essere paragonata al suo analogo in fisica — l’energia erogata è pari all’energia introdotta meno l’attrito - allora il sistema più effi­ ciente, quello cioè che produce maggior profitto, è quello che elimina il più possibile l’attrito: muoversi

6. Friedrich Nietzsche, Aurora e Frammenti postumi (1879-1881), Adelphi, Milano 1964, framm. 204, p. 149. 57

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velocemente lungo il «tube» che porta alla camera a gas. Anche Stangl doveva ottenere il massimo spen­ dendo il minimo. Dal momento però che ogni scam­ bio è sempre una relazione, ottenere il massimo dando il minimo non è giusto, non è etico, è antisociale, è abusivo, forse è «il male». Eppure il commercio preda­ torio (il «libero mercato», come viene eufemisticamen­ te chiamato) funziona regolarmente sul principio di «guadagnare il massimo pagando il minimo». Il com­ mercio predatorio differisce da Treblinka soltanto nel­ la misura, non nel principio. Oggi esistono dei business che si occupano di «dou­ ble bottom line» - profitto e responsabilità sociale. Queste aziende tentano di agganciare il motivo del profitto ad altre motivazioni. Collegano l’efficienza al rispetto della natura (causa materiale), a valori estetici (causa formale) e a principi spirituali (causa finale). Continuano a perseguire l’efficienza (il profitto) ma non a spese del benessere dei propri dipendenti, delle comunità dove il business è situato, non a costo di im­ plicazioni che si ripercuotono su tutto il mondo. La double bottom line protegge da un’efficienza intesa come causa isolata e autonoma, semplicemente rico­ noscendo che un’azienda non è un potere autonomo isolato entro i confini della sua proprietà. Sarebbe bene tenere presente l’immagine di Tre­ blinka quando si chiede al governo di essere più «effi­ ciente». Aspettarsi che le poste, le ferrovie, le autostra­ de, il sistema carcerario o i parchi nazionali diano un 58

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profitto, significa dimenticare che l’amministrazione statale è fondamentalmente un’industria di servizio, come è nello spirito della Costituzione. La sua effi­ cienza può essere giudicata soltanto per i servizi che fornisce — se essi rispondono, oppure no, ai bisogni della gente che le delega il potere. Quando un candi­ dato imposta la sua campagna elettorale su una piat­ taforma di efficienza di governo, lascia intravedere l’infiltrarsi di ideali fascisti. Mussolini faceva viaggiare i treni in orario: ma a quale prezzo? I campi di sterminio continuano a far parte della nostra coscienza occidentale, non soltanto per ricor­ darci la capacità che ha l’uomo di compiere atrocità, il potenziale patologico della tecnologia sistematica, la virulenza del razzismo, l’esistenza del male o la morte del Dio degli ebrei e del Dio dei cristiani. Quei campi continuano a far parte della nostra coscienza perché la devozione all’efficienza è ancora viva nell’inconscio della psiche occidentale, testimoniando il lato oscuro del Dio oggi vivente, l’Economia: un Dio che conti­ nua a spingere in avanti la civiltà occidentale attraver­ so una sempre maggiore efficienza.

L a crescita Se l’efficienza sembra essere la via che porta al potere e il metodo con cui questo conserva la presa, la crescita sembra essere la prova del potere. Nel gergo terapeutico 59

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si parla della «crescita interiore» che porta alla maturità psicologica, e che assume il significato di «essere padro­ ni di sé», farsi carico della propria vita, aver potere. In realtà, sulla parola «crescita» convergono almeno sei differenti concetti, che possiamo così elencare: 1) Aumento di dimensioni. (Espansione, ovvero diven­ tare più grandi.) 2) Evoluzione nella forma e nella funzione. (Differen­ ziazione, ovvero diventare più svegli, più brillanti.) 3) Progresso. (Miglioramento, ovvero diventare mi­ gliori.) 4) Associazione di parti. (Sintesi, integrazione, ovvero sistemi di collegamento più estesi.) 5) Successione temporale per stadi. (Maturazione, ov­ vero diventare più maturi, più saggi.) 6) Autogenerazione. (Spontaneità, ovvero diventare creativi, indipendenti.) Queste idee di crescita risplendono tutte della speran­ za del miglioramento, anche se ciascuno di noi sa che diventare più grandi non sempre significa migliorare, che maturare significa anche appassire e morire, e che l’indipendenza comporta anche la solitudine. Ciò nonostante, la crescita resta carica di implica­ zioni positive come la fertilità, la speranza, la salute, il progresso, l’ottimismo, il vigore, l’invulnerabilità, la conquista e perfino la vita stessa: «o cresci, o muori». Le implicazioni positive permangono, anche se, in

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questi ultimi anni, è andata definendosi una controcorrente che sta ridimensionando la positività della crescita. I sei significati principali del termine hanno, in parte, perduto la loro presa. Quella che un tempo era una vacca sacra, tanto in psicologia che a Wall Street, oggi può essere smembrata. È possibile affon­ dare in questo termine la lama da dissezione, proprio come il governo e l’industria stanno facendo in tutti i loro feudi, intervenendo sulla crescita con le forbici da potatura. La crescita sta diventando un’idea più sottile rispetto alla versione naïve adatta ai bambini, per i quali davvero il diventare più grandi, più svegli, mi­ gliori, e via di questo passo, deve essere l’unica strada sicura che porta in avanti e verso l’alto. Oggigiorno l’equazione «più = crescita» non è possibile perché «più», in realtà, può limitare le possibilità inerenti alla crescita. M i piace pensare che questo venir meno della fede in quella che è stata una delle metafore di fondo del­ l’ideologia americana, la metafora del miglioramento infinito attraverso l’espansione, possa essere una con­ seguenza dell’affìnamento prodotto dalla psicologia. Sappiamo, infatti, che la nostra personale «crescita» individuale non segue il percorso che immaginavamo da bambini: un progresso costante negli anni: quat­ tro, poi cinque, poi sei e poi su, su, fino a quando le cifre diventano due, tredici, quattordici... Ciascuno di noi è consapevole che la psiche cresce attraverso sconfìtte, divorzi, depressioni, e che ogni cambia­ 61

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mento in meglio è stato pagato con una simultanea perdita. Il fatto che adesso si stia facendo marcia indietro non può, però, essere attribuito soltanto all’affinamento prodotto dalla psicologia. Nel desiderio dell’intero paese la qualità è andata sostituendo la quantità. Ovunque vediamo crescita, ne avvertiamo anche il pe­ so. Tutti i numeri in ascesa non esprimono più lo spiri­ to ottimistico, anzi, sono segno di mostruosità, di epi­ demie, di brutture, di disastri futuri, di estinzione. La crescita ha assunto una coloritura cancerosa. L’uso di questa parola manda un messaggio di pericolo: vuoi che a crescere siano il debito pubblico oppure la popo­ lazione, i disoccupati, le dimensioni delle città, l’inqui­ namento dell’aria, l’aliquota d’imposta, il costo della vita, il tasso di colesterolo, e perfino i numeri, quando saliamo sulla bilancia del bagno? Crescita, adesso, vuol dire declino. Quello che prima dava la misura del pro­ gresso, ora è diventato sintomo di problemi. L’esempio più illuminante a questo proposito è il declino dell’idea di sviluppo —una delle parole preferi­ te, in urbanistica e in psicologia. Anche se, in questo caso, la psicologia resta indietro: continua ancora a in­ segnare e a promuovere lo sviluppo. Le lezioni fondamentali della psicologia evolutiva vengono fuori dagli armadi vittoriani del darwinismo sociale e dalla sua concezione di crescita: diventa gran­ de, diventa forte, fai in modo da avere la meglio. Il progresso è un processo naturale. Non restare indietro: 62

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affronta i tuoi problemi come un eroe e lavoraci sopra. Queste idee definiscono il capitalismo psicologico: co­ me i limiti possano essere superati e le menomazioni integrate in un Io sempre in crescita che tiene tutto in­ sieme. Le personalità sviluppate possono fare quello che vogliono. Hanno in mano il proprio destino. La psicologia non si accorge di come sia cambiato il valore dell’idea di sviluppo così come non se ne ac­ corgono i proprietari terrieri e i fautori della proprietà immobiliare. Oggi, infatti, quando si sparge la voce che sta arrivando qualcuno con progetti di sviluppo, i cittadini fuggono impauriti e nasce la protesta. Un tempo, chi aveva progetti di sviluppo era soltanto uno che migliorava le cose, adesso è diventato anche uno che distrugge, e «territorio sviluppato» significa alberi abbattuti, bulldozer, strade di accesso, e alla fi­ ne fast food. Non siamo più sicuri di quale, fra le due espressioni «sottosviluppato» e «ipersviluppato», sia quella con la connotazione ecologicamente più nega­ tiva. Probabilmente nessuna delle due, mentre negati­ vo è piuttosto quel modo infantile di vedere la cresci­ ta come buona. Coloro che guardano alla crescita con occhio criti­ co, dal Club di Roma a E.F. Shumacher, dal movi­ mento Popolazione Zero agli ecologisti convinti, con­ centrano la loro attenzione soprattutto sul problema demografico, sulla disintegrazione sociale, sull’esauri­ mento delle risorse naturali e delle disponibilità ali­ mentari, sulla distruzione dell’habitat e delle culture 63

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come conseguenze della crescita incontrollata. Queste critiche hanno affinato in modo sostanziale il concetto di crescita e hanno messo in guardia coloro che lo so­ stengono. M a qualcos’altro sta minando l’idea della crescita come soluzione salutare per i mali della nazione. Il no­ stro cuore ha preso un’altra direzione e la nostra testa lo segue. Le conseguenze del Vietnam che perdurano nel tempo, la diffidenza e la corruzione nelle alte sfere del potere, i volti degli affamati e i corpi dei moribon­ di hanno spostato il fuoco della nostra attenzione. La conquista vittoriosa e l’espansionismo senza limiti non esprimono più l’onore nazionale. Le bombe intelligen­ ti non ci compensano dei bambini inebetiti. Abbiamo cominciato a considerare le nostre perdite in modo completamente differente, tanto che negli uffici dove si pratica il business gli atteggiamenti non sono più così scollati dalle emozioni, come lo erano un tempo negli studi dove si pratica la psicoterapia. Sono lo star­ sene fermi, il riflettere, il ricordare, il rattristarsi e l’ar­ rendersi che portano avanti la bandiera - perché con l’avverbio «avanti» non intendiamo più la stessa cosa di una volta. Andare avanti, adesso, significa andare verso il basso, verso gli errori della nostra cultura, e in­ dietro verso il dolore racchiuso nella sua memoria. Oggi abbiamo bisogno di eroi della discesa e non di maestri della negazione; di maestri della maturità, che siano capaci di reggere la tristezza, che diano amore all’invecchiare, che possano manifestare l’anima senza 64

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ironia o imbarazzo. Di maestri, non di capi-claque; di maestri, non di sostenitori o di filistei. Meglio la tri­ stezza nelle alte sfere — Lincoln, ad esempio — che la depressione endemica della popolazione e dell’economia. Gli eroi leggendari del mondo antico compirono tutti una discesa, e tranne Cristo che distrusse l’infer­ no e che da allora cancellò il mondo infero per ogni vero credente, Ulisse, Enea, Psiche, Persefone, Orfeo, Dioniso e perfino Ercole, fecero tutti la loro discesa per apprendere valori altri rispetto a quelli che regola­ no il business quotidiano della vita alla luce del sole. Ne ritornarono con uno sguardo più cupo capace di vedere in un tempo oscuro.7 Il Memoriale del Vietnam è un muro nero in una capitale in cui predominano i muri bianchi, ma che è abitata da gente di pelle nera. Quel memoriale è scava­ to verso il basso, a differenza della guglia del monu­ mento a Washington, che si slancia verso l’alto, e dei grafici della crescita con la freccia sempre verso l’alto. Oggi, coloro che si recano a visitare i templi della poli-

7. Per un approfondimento sul mondo infero come esperienza psicologi­ ca posso rimandare il lettore a due miei libri: Il sogno e il mondo infero, Edizioni di Comunità, Milano 1984, e II suicidio e l'anima, Astrola­ bio, Roma 1972. Un contributo estremamente importante, in questo contesto, è quello di Robert Bly nel capitolo «La via delle ceneri, della discesa e del dolore» nel suo Per diventare uomini, Mondadori, Milano 1992; e anche quello di Michael Meade, nel capitolo «The Water of Life» nel suo Men and the Water of Life, Harper/Collins, New York 1993. 65

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tica nel nostro paese, spesso si dirigono verso quello specchio oscuro della memoria, prima di salire le scali­ nate e alzare lo sguardo verso l’immagine smisurata dei presidenti nei loro apollinei templi bianchi. E possibile rivedere l’idea di crescita in modo tale che la progres­ sione da essa implicata possa trovare posto in un più maturo concetto della crescita stessa? «Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. M a quando mi sono fatto adul­ to, ho smesso ciò che era da bambino» (i Cor. 13, 11). Vorrei proporre adesso una seconda lista, con tipi di crescita che sono in correlazione con alcuni dei muta­ menti delle nostre condizioni, sia psicologiche sia sto­ riche: 1) approfondimento, 2) intensificazione, 3) spoliazione, 4) ripetizione, 5) svuotamento. Approfondimento. La direzione verso il basso non può significare semplicemente declino, dal momento che i modelli organici sostengono che le cose non pos­ sono crescere verso l’alto se contemporaneamente non crescono anche verso il basso, come avviene per la maggior parte delle piante. La direzione verso il basso è una cosa diversa dalla posizione inferiore in una clas­ sifica, perché l’espressione «verso il basso» si riferisce 66

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qui alla dimensione della profondità, all’approfondi­ mento dei sentimenti e delle intuizioni relazionali. Trent’anni di «self-help», di consulenza e di sostegno matrimoniale hanno influenzato l’intero paese nella direzione dell’approfondimento. Nelle organizzazioni, l’approfondimento può ricavare molti suggerimenti da queste lezioni che provengono dalla sfera privata, pur senza seguirli alla lettera. L’approfondimento inizia con il restare con ciò che sta succedendo, con il restare fermi nelle situazioni diffìcili. Il potere di fermarsi. Questo potrebbe tradur­ si nel restare con una data organizzazione, in un certo lavoro. L’avanzamento nella carriera non dovrebbe comportare di doversi trasferire e spostare da qualche altra parte per ampliare o acquistare esperienza (o per tirarsi fuori dalle situazioni difficili in cui ci si trova). L’«acquistare» fa comunque parte del modello naïf di crescita. L’approfondimento continua a ripetere: nien­ te elusioni, niente fughe. Resta fermo dove sei. Niente licenze. Metti ordine nel caos. Gary Snyder, poeta e fi­ losofo della natura, afferma che il modo migliore, for­ se l’unico modo per modificare una situazione, è quel­ lo di immaginare, perfino di dichiarare, che vogliamo restare dove siamo, in questo ambiente, per il resto della nostra vita. L’approfondimento costringe un’organizzazione, co­ me ad esempio un matrimonio, a entrare dentro di sé per andare fino in fondo ai suoi problemi. L’andare fi­ no in fondo non si ferma alla bottom line, ma va al­ 67

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l’interno di quei miti e di quelle filosofie portanti su cui un’organizzazione - di nuovo, come il matrimonio - si basa. Che cosa sacrificherà per il raggiungimento dei suoi scopi, e a quale prezzo? Quali scorciatoie è di­ sposto a prendere? Quali inganni pratica? Potrà essere mai soddisfatto, o dovrà essere sempre sotto pressione per raggiungere quella crescita sempre maggiore chia­ mata successo? Infine, l’approfondimento riconduce alla loro base essenziale le idee e le ragioni morali che, come nel ma­ trimonio, rendono possibile la partecipazione all’orga­ nizzazione. Questa organizzazione ha una visione di fondo che io posso condividere? Abbiamo le stesse mete? Ci ispiriamo a principi simili? Quali sono vera­ mente, realisticamente, i suoi principi - e quali i miei? Quello che ci unisce è un matrimonio d’interesse? La nostra è una relazione utilitaristica? Siamo cioè utili l’uno all’altro e quindi io uso questo business come questo business usa me? Quanto più io resto aderente a questi punti, e quanto più l’organizzazione può re­ stare con le proprie profondità introspettive, tanto più io ed essa potremo realmente crescere (nel senso di evolvere e maturare). Questa crescita potremmo chia­ marla crescita dell’anima.8 In un matrimonio, come in

8. A proposito del fare anima nella vita quotidiana, vedi i due libri di Thomas Moore, Care o f the Soul e Soul Mates, pubblicati entrambi da Harper/Collins, New York. 68

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un giardino, l’approfondimento tira fuori dal terreno cose brutte e contorte. Si tratta di sporcarsi le mani. Intensificazione. In economia, l’intensificazione si ri­ ferisce essenzialmente a quei generi di produzione che richiedono molta manodopera, come le colture inten­ sive realizzate da contadini in piccole risaie o in terraz­ zamenti, contrapposte all’agricoltura estensiva, prati­ cata con l’ausilio di mezzi meccanici su distese di mi­ gliaia di ettari. Io, invece, vorrei derivare l’idea di in­ tensificazione non dall’economia del lavoro ma dal la­ voro mentale della poesia. In tedesco, poeta si dice Dichter e poesia Gedicht, Dichtung. Dicht significa «spesso», «denso», e quindi dichten vuol dire anche «ispessire», «condensare». Il linguaggio poetico intensifica raggruppando un gran numero di implicazioni e di riferimenti nel piccolo spazio di una parola o di una frase. Una poesia minia­ turizza. È come un chip del computer o una fibra otti­ ca, che portano molti messaggi contemporaneamente: lo stesso avviene per le metafore. Tuttavia, se ancora non ci siamo spogliati della mentalità infantile, tendiamo a restare più impressio­ nati dall’espansione. N oi siamo un paese che ama la grandeur: la grotta più grande, il canyon più esteso, l’edificio più alto. Una delle caratteristiche degli Ame­ ricani è proprio questa romantica predilezione per l’immensità. L’intensificazione, invece, va contro il carattere nazionale. Di nuovo possiamo fare il con­ 69

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fronto con la psiche giapponese di cui si dice, e sono i Giapponesi stessi a dirlo, che abbia inventato ben po­ co. Non hanno fatto altro che fare le cose in dimen­ sioni più piccole: per esempio il ventaglio, che fu in­ ventato in Cina ma pieghettato per la prima volta in Giappone. Le aziende si intensificano spremendo un ritorno maggiore da ogni ora di lavoro, da ogni minimo spa­ zio televisivo, da ogni metro di spazio di vendita, da ogni dollaro di capitale investito. La loro aspirazione è quella di diventare più forti e di aggregarsi con altre a costituire un’unica unità. D a un certo punto di vista questo è economico, da un altro poetico. Occuparsi di riduzioni, di tagli ai costi e di raddop­ pi, in lavori ispirati a una filosofia del «lean-andmean», snello e duro, non è la stessa cosa dell’intensifi­ cazione in campo artistico. Se si tratta di arte, l’inten­ sificazione va misurata con parametri di tipo diverso, cioè la qualità invece dell’efficienza. Un valore duratu­ ro, invece della redditività immediata. Un’analisi costi­ benefici di un opera d’arte potrebbe dichiararla come una perdita secca, oppure come un prodotto dal valore aggiunto incredibile (sacchi, tappi di bottiglie, scarti di fil di ferro e acrilico nero usciti dalla mano di un pittore, che diventa hot, «molto interessante», grazie all’impegno di una galleria di Manhattan). Ciò che rende compressa l’arte non è né l’uso frugale dei mate­ riali, né l’accelerazione dei tempi di produzione. Sebbene sia il business sia l’arte si servano dell’in­ 70

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tensificazione per conseguire i loro scopi, la loro filo­ sofia è decisamente differente. Mentre il business ta­ glia per ottenere efficienza, le arti usano procedimenti simili per ottenere complessità, significato e bellezza. Potrebbe il business continuare con i suoi metodi di intensificazione, modificando però la filosofia che quei metodi servono? Possiamo immaginare che il bu­ siness stringa e condensi per accrescere la bellezza del­ le sue prestazioni, per offrire al proprio staff, ai clienti e al prodotto stesso, una complessità più interessante, per dare il suo contributo di significato al mondo che serve? Questo approccio estetico conferisce all’idea di crescita un significato più ampio rispetto alla sempli­ ce espansione, e propone l’inserimento di valori di­ versi da quelli misurati dalla direzione finanziaria del­ l’azienda. Ciò che conta nell’intensità dell’arte sono la dedi­ zione, la passione, l’entusiasmo, l’estasi e il sudore del­ l’artista. Si tratta di un fuoco sacro per quello che si sta facendo —di una concentrazione intensiva, che ad alcuni, soprattutto a coloro che sono posseduti dai «valori della famiglia», appare come un’ossessione, tan­ to da parlare dell’artista come di uno che non può fare a meno di lavorare, uno che è posseduto dal suo lavo­ ro. M a niente riesce a intensificare di più che l’essere innamorati - l’amore per l’arte del proprio lavoro e l’amore con cui si esegue quel lavoro. Inoltre, niente rende più snelli, perché l’intera psiche è concentrata sull’oggetto del desiderio. Snelli sì, ma non duri. 71

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Spoliazione. Le metafore classiche della spoliazione provengono dal ciclo della natura: la caduta delle fo­ glie in autunno, i serpenti che sgusciano fuori dalla lo­ ro pelle, i crostacei che si liberano del loro rigido cara­ pace per poter crescere, e la rinuncia alle vecchie abi­ tudini che gli uomini rinnovano ogni primo giorno dell’anno. Ci sono, tuttavia, spoliazioni meno confortevoli. Sono spoliazioni che feriscono: la lettera di li­ cenziamento, la chiusura di un ufficio o di un reparto, il trasferimento di interi stabilimenti di montaggio in paesi stranieri. In entrambi i tipi di spoliazione, una dovuta a necessità naturali e l’altra giustificata da ne­ cessità economiche, ad andare perdute sono soltanto le attività estrinseche. L’azienda può tagliare migliaia di buste-paga e il governo può smobilitare determinati programmi, ma la vitalità intrinseca del complesso re­ sta fondamentalmente intatta. D i fatto, adesso il ser­ pente è più in forma. Quello che invece io vorrei proporre è la spoliazione intrinseca, non una riduzione dei fronzoli e degli extra, non lasciare semplicemente che se ne vadano elementi non essenziali in vista di un rinnovamento. È facile eli­ minare il grasso, specialmente dal maiale. Quella a cui mi riferisco è una spoliazione radicale. Anche in questo caso prendo il mio modello dalla psicologia del profon­ do e non dal ciclo di rinascita naturale, o da quella sor­ ta di ascetismo puritano che gode a tirare la cinghia di quando in quando e che perseguita il business, il gover­ no, la ricerca e le istituzioni accademiche con un fervo­ 72

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re etico-purificatorio. Io non sto cercando di redimere la sofferenza e la perdita che la spoliazione comporta le­ gandola all’efficienza, alla produttività o alla speranza di una futura crescita. La spoliazione radicale avviene durante quelle crisi che si abbattono sull’anima e dalle quali non è facile riprendersi. Arrivano, spesso all’improwiso, in un mo­ mento qualsiasi, soprattutto quando si raggiunge la metà della vita. Può capitare che abbiano una causa specifica e immediata come un fallimento, un divor­ zio, una malattia, oppure che non ci sia alcun motivo apparente. È l’essenza stessa della propria vita organiz­ zata a essere improvvisamente attaccata, o alluvionata. Come in una catastrofe naturale. È possibile pensare in modo simile lo spogliarsi dell’essenziale da parte di una organizzazione? Può un’organizzazione aziendale, come una vita umana, attraversare una simile sorta di disastrosa insicurezza, di riconsiderazione dello scopo, di declino dell’autostima? Possono essere messi in discussione l’identità dell’organizzazione, i principi che governano le sue attività quotidiane, l’affidabilità delle sue procedure di valutazione, cioè gli stessi valori con i quali valuta se stessa? Può un’organizzazione esaminare in modo spietato la propria direzione, i rapporti con i propri dipendenti, con il pubblico, con l’ambiente? Può spo­ gliarsi di tutto quello che ritiene essere la propria in­ dividualità? Può farlo. Non alla lettera, naturalmente, ma in modo comunque estremamente serio, proprio 73

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come le crisi che assalgono l’individuo sono estremamente serie anche se non comportano alla lettera un salto dal Golden Gate. Quello che queste crisi esigo­ no è la radicale spoliazione da quelle identità alle qua­ li siamo attaccati in modo acritico. Dobbiam o pensare alla spoliazione come a un brutale e rigoroso far piazza pulita, non come a una ripulitura del sottobosco. Oppure come all’incendio di una foresta. Il modello della catastrofe non si ri­ promette un miglioramento, una qualche crescita futura, anche se ci piace attutire il colpo con la pre­ visione di un esito positivo. Le crisi a cui mi riferi­ sco sono di quel genere che vanno al di là delle con­ suete crisi che il business deve affrontare: disloca­ mento, fusioni incompatibili, procedimenti giudi­ ziari, defezioni in massa, pirateria, violazioni dei brevetti, aperture rinviate, rivolta degli azionisti, ec­ cedenza dei costi, frodi, malversazioni e così via. Sto cercando di descrivere una crisi dell’anima dell’orga­ nizzazione che non ha una causa definibile, e che quindi non può essere rapidamente affrontata e ri­ solta. Questa spoliazione essenziale possiamo figu­ rarcela come una sorta di naturale processo autono­ mo di disordine e di decadimento, che attacca l’ani­ ma in un corpo aziendale, proprio come avviene nel corpo umano. La crisi che costringe alla spoliazione costringe anche a una revisione filosofica, come se pretendesse una discriminazione fra ciò che va man­ tenuto e ciò che va lasciato andare, un ridurre all’os­ 74

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so le ragioni per cui esiste l’organizzazione. Talvolta la gestione cerca di impedire questi crolli con ritiri di gruppo, consulenti psicologici, o sedute aperte te­ se a riformulare gli obiettivi. Interventi che proba­ bilmente non funzionano perché non funziona la scelta del tempo — ciò che è «preventivo» diventa prematuro, abortivo, se non è in sintonia con le sta­ gioni dell’anima. Quello che rende così difficile la spoliazione è la paura. Come le persone, come gli esseri umani, un’or­ ganizzazione accumula sistemi, attrezzature, procedi­ menti, sezioni - ridondanze di ogni sorta, unicamen­ te per proteggersi dalla paura di imprimere una dire­ zione sbagliata, o peggio ancora di fallire. Quindi la fatica della spoliazione somiglia molto all’affrontare le paure in terapia. E un lavoro di immaginazione. Una paziente teme che il marito l’abbandoni; un al­ tro teme di diventare impotente; un terzo teme di impazzire; un altro è convinto di avere un cancro. La terapia dice a ognuna di queste persone che hanno paura: «Va’ avanti». «A cosa potrebbe somigliare la­ sciare tuo marito, essere impotente, impazzire, avere il cancro?» Seguiamo la paura morbosa, la fantasia ir­ razionale. Assumiamoci il rischio dell’immaginazio­ ne; oppure - come dice J. Lifton, l’illustre psicologo che ha studiato gli olocausti e le catastrofi - il com­ pito è quello di immaginare il reale o di immaginare, il più realisticamente possibile, le conseguenze della spoliazione, di visitare con la mente gli scenari della 75

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catastrofe e di rinunciare a ogni struttura difensiva, a tutte le identità comode, ai risultati ottenuti, ai piani per il futuro. Fissiamo la nostra attenzione su ciò che resta, perché soltanto su ciò si può veramente conta­ re per la crescita. Ripetizione. Per lungo tempo la ripetizione è stata lo spauracchio della produzione industriale di massa, presumibilmente perché trasformava gli uomini in macchine, come in Tempi moderni di Chaplin. M a no­ nostante i progressi della robotica nelle fabbriche e dell’elaborazione elettronica negli uffici, è il lavoro ri­ petitivo della linea di produzione che continua a sfor­ nare i beni che il mondo consuma. Basti pensare alle catene di montaggio in Cina o in altri paesi dell’Asia orientale, o a coloro che preparano i polli per la cottu­ ra, e ai braccianti agricoli stagionali che ci procurano il nostro pane quotidiano. La crescita ha in sé una connotazione positiva per­ ché è dinamica e organica, come un albero, mentre la ripetizione è considerata negativa perché è statica e inanimata, come una macchina. Anche Freud asso­ ciava la ripetizione alla morte, quando considerava la coazione a ripetere come l’attività primaria dell’i­ stinto di morte. La nostra concezione di ripetizione è talmente ossessionata da orribili fantasie di mac­ chine di morte, che, come nei film, immaginiamo la vita organica dei coleotteri, delle formiche e degli scarafaggi, come quella di una sorta di macchina, la 76

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cui temibile caratteristica principale è il movimento ripetitivo.9 Pensiamo invece alla ripetizione da un angolatura diversa, meno sgradevole. La ripetizione infatti è fon­ damentale non soltanto per le macchine: è il modo fondamentale sia nel rito sia nelle arti. La coazione a ripetere non è un impulso verso la morte ma un istin­ to verso l’arte. Manifesta il piacere che danno all’ani­ ma l’esercizio pratico, la rifinitura, la precisione. C ’è qualcosa nella natura umana che chiede di esse­ re eseguito esattamente allo stesso modo più e più vol­ te, come i rituali per salutare il sole o quelli che fanno mettere a letto i bambini con la stessa fiaba, raccontata con le stesse inflessioni, sera dopo sera. Come lo swing quando si gioca a golf, o come il lancio del ricevitore alla seconda base, nel baseball - più e più volte. D i­ ventiamo artisti soltanto quando proviamo altrettanta gioia nell’esercitarci che nell’eseguire. Fino a quel mo­ mento ad attrarci sono le luci della ribalta, più che l’arte. Non è il vernissage nella galleria che fa il pittore (anche se può essere determinante per la sua carriera): sono, piuttosto, le azioni ripetitive nello studio. Più e più volte, non per farle finalmente bene, non per per­ fezionismo, ma semplicemente per farle, senza l’obbli-

9. Per un’analisi più sottile delle macchine, a cominciare dalla prima vera macchina —la struttura sociale, politica e religiosa dell’antico Egitto che riuscì a costruire le piramidi senza vere e proprie macchine —si ve­ da la grande opera di Lewis Mumford, The Myth o f the Machine. 77

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go di doverle fare. Il lavoro di lavorare in sé, in modo meccanico, ripetitivo, impersonale. È possibile trasferire questa idea di disinteressata ri­ petitività - una delle aspirazioni più alte dello Zen, della contemplazione mistica e della pratica religiosa, così come della pratica dell’arte e dello sport - anche nell’amministrazione, nella vendita, nella produzione, nella contabilità? Non possiamo nemmeno lontana­ mente immaginare l’effetto che questo trasferimento potrebbe avere su queste attività, per lo meno fino a che non consideriamo l’idea della ripetizione come l’essenza del mestiere. Perché non immaginare tutte le azioni ripetitive non redditizie, come le telefonate ai clienti, il digitare più e più volte i numeri sulla calco­ latrice, il riempire moduli, non come gesti di routine privi di dignità ma come modi per curare la precisione e come segni di vocazione? Allora la ripetizione sareb­ be concepita non come una coazione, un peso disu­ manizzante, da schiavo, ma come il modo attraverso cui le cose diventano belle. Potrebbe, questo, aiutare a capire quali sono le relazioni che collegano fra loro lo stile di lavoro meccanico e ripetitivo dei Giapponesi, il loro senso del rituale e della bellezza, e la qualità dei loro prodotti? Svuotamento. Consentitemi di richiamare la vostra attenzione su un concetto di crescita molto diverso, che sembra quasi il suo contrario. Io credo che questo concetto sia iniziato con Goethe e abbia un parallelo 78

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nella valorizzazione buddhista del vuoto. Lo studio che Goethe fece sulla crescita della foglia nelle piante confermò la sua intuizione che la forma della pianta, nel suo insieme, fosse determinata in qualche modo dallo spazio negativo attorno al quale la foglia si di­ spiega. Potremmo dire che non è la foglia a farsi largo in vista di un’espansione ottimale e a ingrandirsi occu­ pando quanto più spazio possibile per assorbire la luce del sole. Se cosi fosse, tutte le foglie assumerebbero la stessa forma rotonda. No. La foglia assume la forma specifica della quercia, dell’acero o della betulla a fo­ glia seghettata perché c’è qualcosa nel vuoto circostan­ te che determina il suo formarsi nel modo specifico della specie. Non tutto è nel codice genetico; oppure, potremmo anche dire, il codice genetico si dispiega in risposta al vuoto. Le idee di Goethe riguardo alle piante, siano esse accettate oppure no dalla botanica, richiamano tutta­ via la nostra attenzione su quello che non c’è. M a non basta: quello che non c’è determina la particolare na­ tura di ciascun tipo di pianta. Questa idea rivendica al vuoto un invisibile potere, che gioca un ruolo deter­ minante in ciò che appare. Le forme emergono e cre­ scono dal vuoto, un po’ come un vaso di terracotta che si formi attorno alla presenza attiva di una cavità. Ogni contenitore - una pentola, un vaso, una brocca, una tazza - è semplicemente il guscio esterno di un vuoto con una forma specifica. Il potere è nel vuoto. Che la natura aborra il vuoto potrebbe essere soltanto 79

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un’idea che della natura si è fatto l’Occidente moder­ no. Diverse scuole del pensiero buddhista ritengono, per esempio, che i semi di tutte le cose viventi siano contenuti in un substrato di vuoto, cosicché è il pren­ dersi cura di ciò che è vuoto che consente ai semi di emergere. L’assenza precede la presenza, o per meglio dire è la prima forma di presenza. Gillo Dorfles propone idee simili riguardo alla mu­ sica. È la pausa priva di tono fra due note a rendere possibili il ritmo e la melodia. La musica è il risultato di momenti di silenzio specificamente disposti nello spazio e nel tempo. Dorfles trasferisce questa idea del­ l’intervallo a tutti i generi di moto, compreso il lavoro in fabbrica e il processo stesso del pensare, in cui il momento vuoto determina la forma delle cose future. La crescita si focalizzerebbe, allora, sul non ancora, su ciò che è mancante, sul vuoto - quei luoghi della gior­ nata non riempiti, come la pagina bianca in un’agen­ da, come i momenti liberi nella linea di produzione, che adesso tendiamo a eliminare in quanto «non pro­ duttivi». E, invece, sarebbe meglio chiamarli «pause», come in musica. Non sono soltanto degli arresti ma anche degli inizi: non delle spaccature, ma dei vuoti. Questa idea dello svuotamento possiamo applicarla all’invecchiamento delle persone e dei sistemi. Po­ tremmo considerare allora il declino e la contrazione che accompagnano l’invecchiamento come un «valore aggiunto», e non come una perdita letterale. La smemoratezza e le cadute dell’attenzione, quella vaga gof­ 80

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faggine nei movimenti, quel venir meno delle risposte emotive e quell’impoverirsi del linguaggio, potrebbero non essere soltanto così come appaiono agli occhi di chi è giovane. Forse c’è bisogno di fare spazio; c’è biso­ gno di una pausa in vista di una musica differente, di uno svuotamento di ciò che è abituale in vista di qual­ cosa che abituale non è. Lo stesso vale per il business che invecchia. Il «ridi­ mensionamento» di imprese consociate di grandi di­ mensioni, la vendita di alcune divisioni, il declinare di programmi ormai logorati, il freno posto a chi avanza speranze ambiziose, e l’accantonamento dei fondi per i piani di pensionamento — eventi spesso riportati dai notiziari economici — sono, naturalmente, metafore dell’età anziana di uomini e donne. M a più che come tali, è possibile immaginare questi eventi come l’aprirsi di alcune Gestalt che si scollano dai loro schemi abitua­ li avventurandosi verso spazi nuovi e insondati: un esperimento in corso. Leggere questi processi come se­ gni di contrazione e di decadenza non tiene conto delle idee più antiche del mondo, le idee su come il mondo stesso «cresce» in direzione dell’essere: creatio ex nihilo, creazione dal nulla. Ciò che viene per primo è il nulla. Questa visione, come ho già detto, si accorda tal­ mente bene con una certa filosofia orientale, che di nuovo siamo portati a constatare come le idee servano poteri archetipici: l’idea occidentale di crescita che ho presentato nella prima lista, più sopra, si addice al fanciullo, mentre quella di Goethe, di Dorfles e del 81

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buddhismo si addice al senex. Anche qui, la mia opi­ nione è molto semplice: non è possibile vedere niente se non attraverso le lenti degli archetipi. Ciò che per la «saggezza orientale» è crescita, si configura come deca­ denza patologica per la visione archetipica del fanciul­ lo in evoluzione. Ciò che al naturalismo ottimista del bambino appare come un salutare sviluppo delle pos­ sibilità di collegamento e un miglioramento dei servi­ zi, sembra, a un ottantenne, una folle distrazione, un disintegrarsi in quello che la filosofia orientale defini­ rebbe «le diecimila cose», il proliferare di una metasta­ si cancerosa. Quella che io chiamo «la prospettiva archetipica del fanciullo in evoluzione» sta proprio alla radice dell’i­ dea eroica di crescita; infatti gli eroi - Mosè, Gesù, Er­ cole, Perseo, David, Edipo —iniziano come neonati o bambini in pericolo, vulnerabili, abbandonati. L’equa­ zione «più grande = migliore» costituisce una grandio­ sa difesa finalizzata a proteggere dall’intrinseca insicu­ rezza che sta al cuore della forza eroica, e addirittura a sconfiggerla. Se il nostro concetto nazionale di crescita resta vincolato alla prospettiva archetipica del bambino, e quindi cieco nei confronti di generi di crescita più complessi e sofisticati, a questo stesso archetipo si conforma l’industria della psicologia quando pone l’enfasi sul «bambino interiore» e sulle sofferenze del­ l’infanzia personale. Per mantenere l’economia in crescita e il paese in movimento nel nuovo secolo,

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non basta soltanto passare attraverso la fine dello scorso, ma è necessario un atteggiamento di acco­ glienza nei confronti di ciò che finisce. Vorrei ricordare Ulisse, che cerca unicamente di mettere fine alla sua ventennale carriera di girovago tornando finalmente a casa. Tutta l’epica omerica è dedicata alla fine. Pen­ so anche a Prospero, ne L a tempesta di Shakespeare, che alla fine riesce a rinunciare alla magia, a scioglie­ re il suo staff e a buttare a mare il suo libro, salutan­ do la fine. La fine non è contemplata dalla coscienza del fan­ ciullo: il fanciullo guarda in avanti. La prima di que­ ste fini tuttavia, dovrebbe proprio coincidere con il termine della fanciullaggine americana (il che, però, non vuol dire «realismo» pratico, insensibile, privo di fantasia). In questo nuovo secolo dovremo passare - e di fatto lo stiamo già facendo —attraverso i rituali del­ la fine di quello scorso, attraverso la commemorazio­ ne della perdita, attraverso il lutto e il rimorso per es­ serci troppo a lungo attenuti a quei tipi di crescita in­ fantili che hanno sì «reso grande il nostro paese», ma non soltanto grande. La crescita attuale e futura di­ penderà non tanto dai programmi che intraprendere­ mo per realizzarla durante questo scorcio di tempo, ma da quanto questo scorcio di tempo ci aiuterà a rinnovare l’idea stessa di crescita. In questo capitolo, quindi, si è scelto di mantenere l’idea di crescita anziché rifiutarla in blocco. Abbiamo cercato, piuttosto, di rielaborare la «crescita» separan­ 83

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dola dall’innocenza fanciullesca e dall’ottimismo sem­ plicistico, che hanno indotto i suoi principali critici a svalutarla a vantaggio dei limiti, del piccolo, e della non-crescita, dei modelli a somma zero. Credo che questi critici non si siano curati abbastanza dell’idea in sé, e che il liquidarla lasci insoddisfatto quel profondo desiderio umano di cui l’espressione «crescita» è un simbolo. Eliminare questa idea non fa altro che ri­ muovere questo desiderio archetipico lasciandolo an­ cora bloccato in un semplicismo infantile. Quello che sto tentando è un approccio differente. Invece di sostituire alla crescita la non-crescita, amplio la lista di concetti con cui si apre questo capitolo. Al­ largo l’ombra di questi concetti portando l’idea di cre­ scita verso le regioni più profonde dell’intensificazio­ ne, della ripetizione, dell’approfondimento, della per­ dita e del vuoto. Quando la crescita assume tutti que­ sti altri significati, che ne rendono un po’ più tempe­ rata l’innocenza, allora non è più incompatibile con le realtà delle condizioni demografiche, sociali e psicolo­ giche dell’America. Allora i nostri difficili, perfino tra­ gici, dilemmi individuali, societari e nazionali, posso­ no essere compresi come necessari alla perdita dell’ot­ timismo maniacale e alla crescita dell’anima. Inoltre, possiamo incoraggiare la maturazione della crescita stessa verso un’idea più pienamente formata e più sot­ tilmente differenziata, dotata di freni inibitori propri anche quando resta un fattore di ispirazione.

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Il servizio Nel proporre di modificare il nostro modo di conside­ rare l’efficienza e la crescita, il mio scopo è demolire la vecchia concezione eroica del business come lotta, co­ me conquista, come vittoria, come guadagno, cui si contrappongono la passività, l’imprigionamento, la sconfitta, la perdita. Sto cercando di adattarmi alle realtà del nuovo secolo, nel quale il tipo di coraggio, lo stile dell’impresa saranno diversi: lo stile sarà ancora eroico, ma di stampo differente. Essere audaci, corag­ giosi, partire per un paese sconosciuto, salvare la città in pericolo, oggi può significare accettare il rischio che comporta la rinuncia alle vecchie idee della concezione eroica, come fare da soli, tenere gli altri sotto control­ lo, costruire muri e usare una scure spietata. Se il pro­ dotto interno lordo degli Stati Uniti è passato da una concezione eroica della produzione a un’economia es­ senzialmente di servizio che fornisce, si dice, il cento per cento di tutti i nuovi lavori, allora è forse il caso di operare una seria rivalutazione del servizio. Eppure, l’idea stessa di servizio rappresenta un ostacolo all’otti­ mizzazione del servizio. Il servizio va a offendere in profondità la dignità umana. Tutti noi, probabilmente, siamo propensi a usufruirne, ma chi a fornirlo? Per servizio, infatti, si intende ancora il servizio umile (non quello reso da un banchiere, da un agente di cambio, da un inse­ gnante, da un tecnico installatore, da un medico, da 85

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uno scrittore). La prima difficoltà è insita nella parola stessa, che evoca parole affini, quali servo, servile, ser­ vitore, servitù, servilismo, tutte derivate dalla comune radice latina di servus, schiavo. Il servizio, così come è definito nella nostra cultura, dà ben poco potere, o meglio, dà potere solo a coloro che sono in grado di imporre il servizio, e al sistema per il quale si lavora come schiavi. Le promesse politiche di rimettere in moto il paese non possono essere mantenute se il set­ tore dei servizi non svolge a sua volta un buon servi­ zio. M a qual è un buon servizio? Come è possibile pensare a un’economia di servizio se l’idea rimanda a un’economia schiavistica? D a quello che abbiamo appena visto a proposito dell’efficienza, non è possibile migliorare il servizio semplicemente rendendolo più efficiente, cioè rapido, senza attrito, privo di errori. Se il modo di migliorare il servizio fosse semplicemente questo, allora il proble­ ma sarebbe risolto con una buona attrezzatura digitale, con le fibre ottiche, i satelliti, i robot, il software - in altre parole, con sistemi impersonali più produttivi (camere a gas e forni crematori?). Effettivamente il fat­ tore personale verrebbe sempre più eliminato, ma co­ me fare poi con l’occupazione? Inoltre, sistemi più efficienti di distribuzione dei servizi, hardware e software, possono migliorare da so­ li la qualità del servizio? Quando il proprietario di un ristorante aggiunge una seconda porta, accanto all’u­ nica che collegava la sala da pranzo e la cucina, facili­ 86

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tando così il traffico a senso unico attraverso le due porte, probabilmente rende più rapidi e meno soggetti a frizione e a errore la distribuzione delle vivande ai ta­ voli e il recupero dei piatti sporchi. Questo, però, mi­ gliora davvero la qualità delle relazioni fra colui che mangia e il cameriere? Nel «campo» di Stangl c’erano grandi raffinatezze tecnologiche; avendo come obietti­ vo la rapidità, l’assenza di frizione e di errore, Treblinka offriva un servizio superbo. L’inventiva, l’effi­ cienza tecnica, l’oggettività impersonale possono per­ fezionare la distribuzione, ma esauriscono le esigenze di un buon servizio? Esistono termini di riferimento? Modelli? Un buon servizio, così come è definito dagli stan­ dard dell’élite benestante, non deve essere impersonale ma invece personale e individualizzato. Un portiere per ogni piano d’albergo, camera singola con infer­ miera personale in ospedale, un numero maggiore di persone di servizio per passeggero nella prima classe dell’aereo, auto con autista o, perlomeno, con un cu­ stode che la parcheggia, un flusso di attenzione perso­ nale a disposizione: decoratori, parrucchieri, sarti, massaggiatrici, pianificatori finanziari. Secondo questo standard, per avere un buon servizio si richiede sem­ plicemente «qualcuno con cui parlare, che sappia fare bene e con cortesia quello che chiedo». D a notare i cinque elementi che compongono questa definizione: una persona umana, con facilità di linguaggio e sensi­ bilità, adeguata al compito secondo il giudizio del de­ 87

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stinatario o del cliente. Tutt’altra cosa rispetto ai con­ gegni elettronici automatici. M a allora, come dobbia­ mo orientare il nostro modo di concepire il servizio: più sistematizzato o più personalizzato? Secondo il pensatore svedese Evert Gummesson,10 l’errore principale insito nel modo di pensare il servi­ zio è che non ci si pensa affatto. I primi centri di ricer­ ca su questa materia nel business e negli affari pubblici sono stati istituiti soltanto verso la metà degli anni O t­ tanta (a Karlstad, in Svezia e a Tempe, in Arizona), e così la maggior parte delle idee relative a l servizio sono state derivate dalle idee relative alla produzione-, come se un buon servizio potesse essere definito con i criteri della produttività. Per quanto mi riguarda, intendo contestare energi­ camente questo approccio, e a questo scopo non esi­ to ad amplificare l’opposizione che esiste fra produt­ tività e servizio; è assolutamente necessario tenere nettamente distinti questi due concetti, perché na­ scono da atteggiamenti psicologici radicalmente dif­ ferenti, perfino da stili di esistenza archetipicamente differenti. Il nostro abituale modo di pensare conti­ nua a sostenere che il servire è molto vicino all’arrendersi, mentre il produrre sarebbe simile al conquista­

lo. Evert Gummesson, «Service Productivity: A Blasphemous Approach», Dept, of Business Administration, University of Stockolm, 1992; e «Can Implementation be Taught?», ibidem, 1991. 88

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re. La produzione domina il materiale, mentre il ser­ vizio gli è sottomesso. Nel linguaggio del mito le idee dell’occupazione produttiva rimandano all’influenza sull’«io fai da te» del titano greco Prometeo, oppure di Efesto, l’artigiano olimpico che fabbricava le armi, perché la produzione costruisce. L’occuparsi del ser­ vizio, invece, proprio perché conserva, protegge e so­ stiene, richiama più probabilmente Estia, la Dea del focolare, una dea quasi invisibile nel suo servizio, an­ che se preziosa nel mantenere il ciclo quotidiano. Ma, forse, la nostra idea del servizio potrebbe essere anche ermetica, da Ermes, D io e Signore dei media e della mediazione, perché è il servizio che si occupa di distribuire, di scambiare e di comunicare messaggi in modo impersonale, senza coinvolgimenti con il mes­ saggio stesso. Quello su cui Gummesson insisteva in modo parti­ colare è il fatto che, per poter pensare al servizio in modo adeguato, è necessario, prima, liberarlo dal pa­ radigma della produttività. Inoltre, dobbiamo prima riconoscere quanto siano consolidati quei paradigmi che fino a ora hanno funzionato così bene, pur impo­ nendo servizi a un destinatario che percepisce queste innovazioni come imposizioni. Mi riferisco, qui, al servizio che anticipa i bisogni di un certo prodotto, che li inventa perfino, catturando il consumatore nella trappola del bisogno di ciò di cui non ha alcun bisogno. Un buon servizio in questo ca­ so si riduce alla distribuzione di un prodotto che lega 89

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o incatena il consumatore alla sovrapproduzione a opera dei mezzi di produzione. La produzione non è graduata in modo da rispondere ai bisogni del merca­ to, né è guidata da questi effettivi bisogni, ma è essa stessa a fare l’andatura, imponendo al mercato di ser­ vire i bisogni della produzione stessa. Il buon servizio non può essere definito dalla distribuzione del prodot­ to, senza che la popolazione che consuma venga scara­ ventata in un incubo orwelliano di consumi forzati, che cercano di soddisfare la crescita di bisogni inventa­ ti. («Non avremo mai abbastanza di ciò di cui non ab­ biamo veramente bisogno» diceva Eric Hoffer.) In­ somnia, il modello di pensiero della produzione, ap­ plicato al servizio, serve il consumo (come ultimo sta­ dio del processo produttivo), ma non il consumatore. Grazie a più di centocinquant’anni di rapide e inno­ vative soluzioni tecnologiche, che hanno migliorato la distribuzione del servizio, continuiamo a immaginare sugli stessi schemi, sordi talvolta ai suggerimenti di chi ritiene che il servizio possa essere migliorato con mezzi non tecnologici. Sostiene il vecchio cliché: le nuove guerre vengono combattute con le armi dell’ultima guerra e dai generali dell’ultima guerra. Le idee del passato, che funzionavano un tempo, continuano a determinare il modo di affrontare i problemi nuovi. Mentre le macchine del servizio sostituiscono il la­ voro fisico —il lavaggio dei panni, dell’auto, dei pavi­ menti —e mentre chip e software sostituiscono il lavo­ ro mentale, la nostra idea di servizio rimane legata a 90

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dispositivi che fanno risparmiare lavoro. Al tempo stesso, però, la manodopera in eccedenza e malpagata è diventata non solo la principale preoccupazione dei futurologi, ma anche il principale parassita che succhia la vitalità del capitalismo occidentale. Negli anni Cinquanta l’idea occidentale di un’ac­ ciaieria efficiente prevedeva l’impiego di un numero minimo di persone per tonnellata di prodotto: in C i­ na, invece, lo stabilimento più efficiente era quello che dava la massima occupazione e che aveva il numero più alto di occupati per tonnellata di prodotto. Proba­ bilmente oggi ci orientiamo di più verso questo modo di pensare cinese, dal momento che, per il benessere del paese, l’occupazione è diventata altrettanto impor­ tante della produttività. Ed è nel settore dei servizi che si creano nuovi posti di lavoro, proprio mentre l’im­ maginazione di quel settore resta abbarbicata ai vecchi paradigmi della produttività. Dato che l’immaginazione del business e dell’indu­ stria rimane sotto l’influsso del paradigma della pro­ duttività, un paradigma che favorisce l’occupazione high tech/low touch (alta tecnologia/basso contatto), noi continuiamo a svalutare il rovescio della medaglia, così necessario per il servizio: high touch/low tech (alto contatto/bassa tecnologia). In questo modo la nostra società continua a favorire l’esistenza di una forza la­ voro sottoretribuita, non rispettata, carica di risenti­ mento e riottosa, che aspetta solo di vincere alla lotte­ ria per riscattarsi dalla degradazione insita nell’idea 91

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stessa del suo lavoro. Fino a che un buon servizio si­ gnificherà «eliminare ciò che non è necessario fare» (la teoria per cui «la forma segue la funzione», propria dell’architettura modernista, applicata ai servizi uma­ ni), avremo un servizio arido, senza fronzoli, privo di fantasia, che limita in coloro che serve il potere imma­ ginativo. Un buon servizio, invece, «fa quel passo in più», «esce dal suo normale percorso», rivela variazioni immaginative, trova il modo giusto per soddisfare. Si rivolge all’immaginazione e rallegra l’immaginazione ma anche i sensi. E Barocco più che Bauhaus. Per cambiare la nostra idea del servizio dovremmo ripulire il nostro consueto modo di parlare, focalizzato in modo ossessivo sulla distribuzione, l’attuazione, la razionalizzazione e la performance, che trae i suoi mo­ delli dai sistemi di servizio rapido alla McDonald’s, o dalla regola della risposta telefonica rapida della Fede­ rai Express. Ridurre in modo semplicistico il piacere che trova l’uomo nel servire - il prendersi cura, il ripa­ rare, l’assistere, l’insegnare, il pulire, il rispondere, il mettere in ordine, l’accogliere, il conservare, il tran­ quillizzare, il nutrire, il guidare - non può che vanifi­ care tutti i nostri tentativi di migliorare la qualità da cui dipende l’economia. M a dopo tutto, cos’è la qualità se non l’approssi­ mazione a un ideale? Cioè, l’idea della qualità colma lo scarto fra un effettivo evento materiale e una forma perfetta idealizzata. Con il suo tendere alla perfezio­ ne, la qualità rievoca all’anima la bellezza ideale. Si 92

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dice, infatti: «Un servizio perfetto!». Una sostanza chimica di qualità è quella che non contiene surroga­ ti, che si avvicina al 100% di purezza. Uno strumento meccanico di qualità tollera soltanto imperfezioni in­ finitesimali. Un servizio di qualità, invece, suscita elo­ gi di un altro ordine quando viene apprezzato: super­ bo, garbato, bello, divino, straordinario, meraviglioso. In quanto gesto estetico, un buon servizio offre, a chi 10 compie e a chi lo riceve, il piacere della bellezza dell’esecuzione, dando così intensità alla vita e ag­ giungendo valore a un evento che altrimenti sarebbe soltanto una transazione. Questa visione estetica della qualità consente di leg­ gere su un piano differente la riconosciuta superiorità della qualità giapponese. Credo che abbiamo erronea­ mente attribuito quella superiorità soltanto a un insie­ me di fattori economici e psicologici: il conformismo della forza-lavoro e l’omogeneità propri dei Giappone­ si; la loro forte pressione scolastica, che assicura l’abi­ tudine alla concentrazione e all’attenzione prolungate; 11 lavoro manageriale organizzato in équipe; la discipli­ nata competitività, dai vertici alla base; la tradizione di obbedienza alle regole (minuziosamente specificate), perfino la «cultura della vergogna», dove gli errori di­ ventano psicologicamente intollerabili. A questi fattori che vorrebbero spiegare la qualità giapponese, vorrei aggiungere la sensibilità estetica, che è essenziale sia per il decoro che caratterizza la vita quotidiana dei Giapponesi sia per le complessità della 93

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loro lingua fortemente legata alle immagini. D a sem­ pre la mentalità giapponese è inserita in una cultura che dedica una devota attenzione ai particolari perce­ piti con i sensi. La loro passione per le arti raffinate l’arte di disporre i fiori, la cerimonia del tè, la calligra­ fia, le arti marziali e le armi, la miniaturizzazione, l’a­ bilità manuale, l’amore per i giardini, la preparazione dei cibi, la danza tradizionale, così come quella sottile, infinitesimale varietà di gesti che caratterizzano le rap­ presentazioni del teatro No, rivelano una «coscienza di precisione» delle qualità estetiche in un’aspirazione al­ l’ideale. Una coscienza di precisione è quello che noi chiamiamo «controllo di qualità». Naturalmente questa oggettiva impersonalità esteti­ ca può portare a un vuoto formalismo e a un rigido manierismo che rende ridicoli e che noi individuiamo fin troppo spesso nel modo di comportarsi dei Giap­ ponesi. Ciascun modo proietta la propria ombra. E il mio non vuole essere un invito a imitare il modo in cui i Giapponesi svolgano un servizio perché migliore. Voglio semplicemente sottolineare come sia evidente che il modo giapponese di esprimere la qualità deriva da una coscienza di precisione radicata in una tradi­ zione estetica. Il servizio di qualità, allora, migliora la vita non per­ dendo mai di vista l’ideale, aspirando alla purezza della perfezione. Naturalmente l’ideale non potrà mai essere raggiunto, il che è nella natura stessa dell’«ideale»; e questo spiega perché un ideale non sia semplicemente 94

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uno standard di riferimento. L’«ideale» implica qualità che vanno al di là di qualsiasi descrizione prestabilita. È soltanto qualcosa che offre degli indizi su come le cose dovrebbero essere e, forse, su come esse desiderano es­ sere, quasi che in ogni momento della vita ci fosse qualcosa che ha bisogno di trascendersi. Forse il mi­ glioramento non è soltanto un desiderio umano. Forse il movimento progressivo verso la perfezione, verso la realizzazione dell’ideale, è insito nella natura stessa del­ le cose, e il servizio lo riconosce facendo quanto è in suo potere per appoggiare questo desiderio di migliora­ mento, ottenendo da ciascuna cosa la prestazione mi­ gliore. È questo impulso spirituale la vera radice del servizio. Il nostro servizio nella vita e il nostro servizio alla vita cercano di restituire tutto ciò che facciamo a una visione utopica, all’ideale celeste che, in forma di gioia estetica, ciascuno di noi sente nel cuore ogni volta che qualcosa viene fatta veramente bene. In questi ultimi anni il servizio è stato immaginato in termini più umani che celesti. Ormai il servizio di qualità è definito sempre più come «un servizio perso­ nalizzato». Ciò è dovuto all’influenza della psicologia terapeutica, con la sua martellante insistenza sui senti­ menti e sulle relazioni personali, una focalizzazione che disturba i codici formali di condotta negli affari del business. Il business, infatti, osserva dei rituali che servono il compito e l’organizzazione in modo imper­ sonale - per quanto freddo, senza cura e patriarcale questo possa sembrare. 95

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Quando il servizio personalizzato diventa il criterio del servizio di qualità, si finisce per dedicare maggiore attenzione alla relazione fra chi riceve il servizio e chi lo presta, che all’obiettiva natura del compito. «Mi farebbe questo favore?» dice la hostess chiedendomi di riportare il sedile in posizione verticale in vista dell’atterraggio. Perché un favore? Perché un favore a lei? Un favore per­ sonale? In realtà stiamo compiendo i rituali impersonali dell’atterraggio, i corretti procedimenti che si avvicina­ no a una forma ideale, e che hanno poco a che fare con le relazioni umane fra me e lei. Il nome del cameriere non ha alcun rapporto con il pranzo per il quale sono andato in quel ristorante —non sono lì per fare amicizia con il cameriere. Non sarà il suo «Buon appetito!» quando inizio a mangiare, né il suo domandarmi, dopo, se le pietanze mi sono piaciute, a manifestare la sua preoccupazione che io mangi bene, bensì la sua coscien­ za di precisione nei confronti di ogni singolo atto, nei confronti dei rituali che è lì a compiere. E questo a far sì che il suo sia un lavoro ben fatto. Il lavoro personalizzato antepone la persona al servi­ zio. Una persona serve l’altra: io sono al tuo servizio oppure tu al mio, e così il rapporto padrone/schiavo proprio della servitù è subito in agguato nell’ombra, rivelando da una parte un’amabilità di superficie e dal­ l’altra un risentimento aggressivo. Soltanto una suora di carità, e che sia davvero santa, può compiere un ser­ vizio personalizzato senza lasciarsi catturare dall’osti­ lità repressa che sta nell’ombra. 96

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È il lavoro che richiede servizio; l’obiettività del la­ voro trasforma il servizio in un’attività rituale. Quindi potremmo considerare il servizio non tanto a vantag­ gio di una persona quanto a vantaggio di una cosa, di un evento, di una situazione; non un servire che dimi­ nuisce il potere, semmai un accrescimento; non una gentilezza soggettiva, ma un rituale obiettivo. Come dare la cera al pavimento per aumentarne la lucentez­ za, o come arieggiare a una stanza dopo che tutti se ne sono andati a dormire. Per rituale obiettivo intendo il modo in cui un’in­ fermiera fa il bagno a un paziente immobile, un sacer­ dote officia la messa, un interprete traduce il testo, un attore recita la parte. In questi casi il personale può in­ terferire con l’esecuzione obiettiva del servizio e con le caratteristiche del lavoro. Non soltanto le persone, ma anche le cose richiedono servizio —le macchine da lu­ brificare, i videoregistratori da pulire, le lavatrici da ri­ parare, i messaggi da trasmettere. Sono le cerimonie di chi si occupa delle riparazioni. Gli oggetti hanno una loro personalità, che richiede attenzione, proprio co­ me ci fanno vedere i pubblicitari quando ci mostrano una vasca da bagno sorridente che si gode il nuovo de­ tersivo, oppure il rivestimento in legno tutto soddi­ sfatto della vernice appena stesa, che gli impedisce di marcire. Trattare le cose come se avessero un’anima, con cura, con buone maniere —questo è il servizio di qualità. Finora ci siamo mossi, con un po’ di disinvoltura, 97

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lungo due principali linee di discorso sul servizio: la prima in riferimento alla prestazione di chi compie il servizio, cioè al modello della produzione high-tech, a elevata tecnologia, e la seconda in riferimento alla soddisfazione di chi lo riceve, cioè al modello dei bi­ sogni personalizzati. Abbiamo completamente trala­ sciato le ragioni e le valutazioni della prestazione, del­ la soddisfazione, dell’esecuzione personale e imperso­ nale, allo scopo di tornare là dove questo capitolo era iniziato. Torniamoci adesso, quindi, e osserviamo be­ ne la vecchia idea di servizio tanto aborrita: il servizio come servitù, come ineludibile soggezione alla morte. Non a un sistema tecnico di efficienza produttiva (Stangl, ma anche ciò a cui la gioventù giapponese co­ mincia a ribellarsi), e non a un personale cliente che ha sempre ragione (il «padrone» hegeliano diventa adesso il consumatore, i cui desideri vanno sempre soddisfatti). Invece, un’idea di servizio all’Altro, l’Al­ tro come pianeta nel suo insieme e in ciascuno dei suoi più piccoli componenti. L’idea del servizio, come io la immagino, deriva dal­ l’ecologia del profondo. L’«ipotesi di Gaia» sostiene che il nostro mondo, questo pianeta, è un organismo unitario che respira. E tutto e dovunque vivo, e dispo­ ne di gradi di coscienza, dove la coscienza non è più definita come proprietà esclusiva degli esseri umani, e quindi non più costretta all’interno della pelle e della testa dell’uomo. Sebbene l’ipotesi di Gaia sia recente e si serva di prove biologiche, fisiche e chimiche, l’idea è 98

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antica come la filosofia presocratica, come la cosmolo­ gia degli Stoici, come Xanima mundi dei Neoplatonici, ed è fondata su stratificazioni di miti della terra, come ricorda intenzionalmente il riferimento a Gaia, la Dea greca della terra. II lettore attento avrà già notato, magari con un cer­ to disappunto, una caratteristica dello stile di questo libro che rispecchia l’ipotesi di Gaia: l’aberrazione di attribuire soggettività a qualsiasi tipo di sostantivo. Avete letto frasi che attribuiscono coscienza e intenzio­ ne perfino al potere, alle idee, alle cose, e soprattutto alle parole. Alle parole vengono attribuite biografie, del libro si dice che ha un compito, e i fenomeni sono descritti come automanifestantisi, senza che io, né al­ cun altro, intervenga per loro. In questo libro vedrete agire gli esseri umani e con loro anche altri tipi di sog­ getti, che nella maggior parte della prosa che non sia quella dei libri per bambini e della fantascienza non hanno il diritto di esistere. Il modo stesso in cui le fra­ si sono composte è un tentativo di liberare l’idea del­ l’anima dal suo confinamento nella persona umana, soprattutto nella prima persona singolare, l’Io. Il servizio a un mondo che ha un’anima implica l’i­ dea che la vita umana serve, inevitabilmente, questo vasto sistema organico. Le nostre emanazioni, le no­ stre escrezioni, le nostre emozioni —tutto ciò che noi umani produciamo —servono in un modo o nell’altro alla complessità interdipendente che chiamiamo bio­ sfera, e che altre culture descrivono con i nomi di po­ 99

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teri, di dei e di dee. Come servitori in questo organi­ smo siamo però, inevitabilmente, al tempo stesso co­ loro che forniscono e ricevono il servizio. Un buon servizio sarà allora definito in rapporto a ciò che è sti­ mato buono per l’anima del mondo e un cattivo servi­ zio a ciò che è trascurato e sfiduciato. Naturalmente, queste valutazioni di ciò che è buo­ no o cattivo per il mondo non possono essere oggettivate. Chi potrebbe dire con sicurezza se serva meglio l’anima del mondo un pannolino usa e getta oppure uno di stoffa? Come valutare il consumo di acqua e di detersivo rispetto alla produzione e all’eliminazione della plastica? Possiamo però fare la nostra scelta aven­ do in mente questo ideale: la via che scegliamo dev’es­ sere un bene dal punto di vista dell’ecologia, e non soltanto per il nostro conto in banca o per la nostra personale convenienza. Non si tratta di inventare un nuovo tipo di guida dei consumatori che consenta di valutare, con indici di riferimento da uno a dieci, cosa sia meglio o peggio per il mondo; si tratta piuttosto di «sentire» ogni decisione avendo in mente un ideale, in modo che la nostra scelta rispecchi una coscienza eco­ logica. Ciò vuol dire valutare non solo quanto questo prodotto, questa attività, questo acquisto costa a me, ma anche quanto costa al mondo. Inoltre, così come immaginiamo che l’anima umana risieda dentro ogni singola persona, allo stesso modo si può immaginare che l’anima del mondo abbia il suo locus in ogni singola cosa. Le cose, allora, diventano

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anch’esse soggetti, e non semplici oggetti. Quando so­ no trattate come oggetti morti e abbandonate all’incu­ ria, allora manifestano una tossicità sempre maggiore. Ciò che era partito come «user friendly» amichevole per chi lo usa, comincia a emettere «cattive vibrazio­ ni». In quale altro modo le cose potrebbero richiamare l’attenzione sul nostro disservizio, se non smettendo di servire come schiavi silenziosi? Una tale idea di servizio esige abbandono, resa; esi­ ge una costante attenzione all’Altro. Questo viene sen­ tito come umiliazione e servaggio soltanto se ci identi­ fichiamo con un io caparbio e dominatore, un io che è specchio di un unico dio dominatore. M a come la mettiamo se Dio è invece in ogni cosa, l’altro mondo diffuso all’interno di questo mondo? La teologia chiama questa presenza del divino in tutte le cose «teoria dell’immanenza» e, talvolta, «pan­ teismo». «Dio è proprio qui nelle cose?», «Ogni cosa ha il suo proprio Dio?», «Esiste un solo Dio o molti Dei, oppure nessun Dio?» Questi interrogativi teologi­ ci possono anche essere affascinanti ma non hanno al­ cuna rilevanza immediata nella pratica: il servizio trat­ ta ogni singola cosa come portatrice di un proprio specifico valore — compreso quel sedile dell’aereo che mi si chiede di portare in posizione verticale. Se tratto quel sedile come se fosse animato da un suo proprio spirito, sarà meno probabile che lo maltratti e più pro­ babile che ne abbia cura. Un sedile del quale si ha cura funzionerà meglio e il suo servizio durerà più a lungo. IOI

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Una teologia dell’immanenza significa trattare cia­ scuna cosa, animata o inanimata (una distinzione, for­ se, non più così netta), naturale o fatta dall’uomo, co­ me se fosse viva, come qualcosa che richiede ciò che ogni cosa vivente sopra tutto richiede: una premurosa attenzione a ciascuna delle sue proprietà, alle sue qua­ lità specifiche. Questa pianta vuole poca acqua; questo legno non sopporta un grosso peso e, se bruciato, fa fumo. Osservami con attenzione: sono un pioppo, non una quercia. Nota le differenze, fa’ attenzione, ri­ spetta (ri-spettare = guardare ancora). Fa’ caso a quello che ti sta proprio sotto il naso, che conosci a menadi­ to, e occupatene come esso chiede, secondo le sue ne­ cessità. Sensibilità estetica. Coscienza di precisione. Questi concetti dell’occuparsi e del servire sono i si­ gnificati della parola greca therapeia, da cui deriva la nostra «terapia». L’idea greca di therapeutes era quella di «uno che si prende cura», «uno che è al servizio di qualcuno o di qualcosa», e che quindi può guarire. Un rapporto di servizio nei confronti del pianeta potrebbe determinarne la guarigione, o almeno conservarne lo stato di salute. Un’idea estetica del servizio calza bene con quello che la teoria più recente chiama servizio «high touch», ad «alto contatto», anziché «high tech», ad «alta tecno­ logia». E estetica perché richiede una sensibilità per la natura di ciò che è, e vuole una percezione attenta e reazioni sensibili. Queste parole, «sensazione» e «per­ cezione», sono la traduzione di aisthesis, che in greco 102

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non aveva a che fare con una qualche astratta teoria della bellezza, ma con la percezione del mondo sensi­ bile così come appare. Sto proponendo di dare una nuova collocazione all’idea di servizio: da concetto pu­ ramente funzionale, legato all’efficienza meccanica, a partecipazione qualitativa dei sensi in relazioni siste­ miche. Il servizio diventa, allora, adeguata risposta eco­ logica. I compiti, che adesso sono immaginati soprat­ tutto come doveri o come punizioni - ripulire, disin­ tossicare, riparare, strofinare, riciclare - diventano i modelli per un’idea di servizio terapeutica ed estetica. Il saggio di Suzi Gablik sul ruolo dell’arte in una so­ cietà ecologicamente consapevole, descrive l’azione compassionevole nei confronti delle cose come un nuovo stile per l’arte occidentale —l’arte al servizio del mondo.11 Uno dei capitoli, in cui si descrive la devo­ zione con la quale un artista si dedica a ripulire rego­ larmente gli argini dell’alto corso del Rio Grande, illu­ stra un rituale di servizio che risponde a una definizio­ ne dell’arte nel suo senso più alto e antico, «l’arte per l’arte», ma qui non più come privata «creazione» di un’élite separata dalla vita e dall’ambiente, ma total­ mente dedita alla vita e all’ambiente. Si tratta di pura arte, senza alcun compenso. Non ha alcun motivo ol­ tre l’azione, alcun programma, alcun messaggio ideo­

11. Suzi Gablik, The Reenchantment of Art, Thames and Hudson, New York 1991. 103

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logico —un fiume, infatti, non può essere ripulito da una sola persona, ammesso che possa essere ripulito. Si tratta di un gesto rituale, di una devozione meditativa e di un servizio fine a se stesso, che non dà alcun pro­ fitto né compiace alcun cliente. Adesso siamo andati oltre le definizioni del nostro soggetto fra loro in conflitto - una che è misurata dal profitto aziendale, l’altra dalla soddisfazione del con­ sumatore —e siamo approdati a una spiaggia più vasta. A questo punto vorrei azzardarmi a definire il servizio con due principi: primo, Vinoffensività', secondo, il mi­ glioramento. Il miglior servizio produce il minimo di danno e incrementa il valore o la bellezza. Con la sua prestazione, i suoi materiali, con il suo scopo, produce la minor offesa possibile nei confronti degli Dei. Que­ sto servizio, inoltre, realizza l’antica idea dell’Eroe, im­ maginato un tempo come una persona che aveva visto l’ideale e il cui coraggio e le cui doti straordinarie era­ no al servizio degli Dei e del bene della comunità.

L a manutenzione C ’è una particolare applicazione del servizio che ri­ chiede un’attenzione continua: la manutenzione. M a l’idea stessa di manutenzione esige manutenzione, per­ ché è facile che venga trascurata quando si affrontano le grandi idee della coscienza che cambia in vista di un nuovo secolo di gestione organizzativa. Eppure, di fatIO4

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to, nel bilancio preventivo dei costi di gestione - vuoi di una proprietà da affittare, di un ospedale, di un ae­ roporto, di un impianto sportivo, vuoi della realizza­ zione di un edificio per uffici —il fattore manutenzio­ ne rappresenta un peso considerevole. Un peso che può essere anche decisivo. La scelta del tipo di pavi­ mentazione, il design delle finestre (fisse o apribili), la qualità dei tessuti, la disposizione delle luci, degli ascensori e così via dipendono dalla valutazione dei costi di manutenzione. La manutenzione futura deter­ mina la progettazione attuale. Questo fattore è così decisivo al momento della costruzione, ed è talmente vero che la forma consegue alla funzione, da far sem­ brare che stiamo elaborando una nuova scuola di Ar­ chitettura Putzfrau, dove gli edifici sono disegnati per coloro e da coloro che dovranno occuparsi delle puli­ zie. Un importante motivo di conflitto fra l’industria e l ’EPA, l’Ente per la protezione dell’ambiente, riguarda i costi della manutenzione, il risanamento della bassa manutenzione del passato, e la prevenzione della bassa manutenzione per il futuro. Tuttavia, una bassa manutenzione è un requisito senza dubbio desiderabile, e non soltanto nel commer­ cio e nell’industria. Come consumatori privati voglia­ mo prati privi di erbacce, alberi da frutto nani, piante resistenti alle malattie, pacciame artificiale, colture che resistano alla siccità, staccionate in materiale plastico, cotone che non abbia bisogno di essere stirato, panta­ loni ingualcibili, piatti che possano andare anche in 105

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forno, che naturalmente dev’essere «autopulente». La bassa manutenzione è uno degli ideali della nostra quotidiana vita suburbana. Sembra che i sistemi, i progetti, le costruzioni e i beni di consumo che richie­ dono una manutenzione minima siano anche quelli che offrono il massimo dell’efficienza, cioè il minimo di tempo e di fatica da spendere in compiti non pro­ duttivi. In generale, l’atteggiamento nei confronti del­ la manutenzione è quello di accollarcela come un pe­ so, non come un aumento del valore aggiunto. È sem­ plicemente una ripetitiva lotta perdente contro il dete­ rioramento, mentre tutto deperisce e si logora. E quindi lavare le finestre, spazzare i pavimenti, rifare i letti ci sembrano una perdita di tempo, tempo che po­ trebbe essere invece impiegato produttivamente o per fare le cose con tranquillità, senza fretta. Questa visione della manutenzione fa sentire i suoi effetti sulla gerarchia delle categorie lavorative e sulle tabelle salariali —tanto è vero che le persone che si oc­ cupano della manutenzione sono le meno pagate —ma si ripercuote anche sulla politica dell’immigrazione, sui sentimenti razzisti radicati in profondità, perfino sulle paure generate da una casta di paria: «Stai a vede­ re che adesso troverai i detenuti a ripulire gli angoli delle strade dalle lattine che getti via». Generalmente, l’uomo che si occupa della manutenzione e la camerie­ ra del motel appartengono a quella classe non qualifi­ cata formata spesso da immigrati, da persone con qualche menomazione, da analfabeti, o da Americani

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dalla pelle un po’ più scura. La manutenzione è quindi una questione economica, ecologica, sociologica, ma anche una questione di giustizia nei confronti delle persone e delle cose. La manutenzione, e questo è molto importante, ri­ guarda anche la conservazione dell’energia e le leggi della termodinamica, principi basilari per la nostra interpretazione fisica dell’universo. Proviamo infatti a osservare il linguaggio che usiamo per questi lavori «inferiori». Parliamo di raccogliere, di lavare, di ag­ giustare, di ripulire, di mettere in ordine: la manuten­ zione come conservazione. Chiaramente, ciò che vie­ ne sottoposto a manutenzione passa dal disordine al­ l’ordine. La manutenzione svolge una funzione che va in senso opposto alla direzione a senso unico dell’en­ tropia, la quale va invece verso la dissociazione casua­ le, priva di scopo, di modello, come appare una stan­ za di albergo aH’ultima occhiata prima di abbando­ narla. In fisica, aumento dell’entropia significa dimi­ nuzione del grado di energia di un sistema, e corri­ sponde a un aumento del disordine. La meta finale è la stasi, l’immobilità assoluta. Freud collega l’entropia alla pulsione di morte. Ora, se la manutenzione è invece fondamentalmente una conservazione, allora questa modifica il gradiente di energia: la scienza parla di neg-entropia, il cui esem­ pio più evidente è il potere creativo della coscienza, un’energia libera che può «salire» al di sopra della forza casuale della disintegrazione entropica. In questa pro-

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spettiva, la manutenzione come equivalente della co­ scienza diventa un fattore creativo quanto la produzio­ ne, non più semplicemente il suo lato ombra ma parte del «costo» di produzione. Inoltre, se esaminiamo at­ tentamente l’origine delle parole, troviamo che «econo­ mia» deriva dall’equivalente greco di «amministrazione della casa» —oikos (casa) più nomos (ordine abituale). Se ascoltiamo quello che la parola «economia» ci suggeri­ sce, la manutenzione diventa allora un interesse prima­ rio del pensiero economico, e bassa manutenzione si­ gnifica semplicemente trascuratezza, che porta al deca­ dimento, alla disintegrazione e alla morte. Non basta. Oltre che dal punto di vista economico, ambientale, cosmologico e fisico, il nostro argomento può essere considerato anche dal punto di vista esteti­ co, e l’estetica della manutenzione appare evidente se si riporta anche questa parola alle sue radici latine: munu e tenere. Il significato letterale di mantenere è, dunque, tenere in mano. Esistono due «generi» di mani, così come sono due gli emisferi del cervello. Una mano tiene le redini e ma­ novra il volante, ma è anche il pugno che controlla e il dito che indica la direzione: tutte caratteristiche che ap­ partengono alla mano che dirige, alla mano del mana­ ger —un’altra parola che deriva dal francese e quindi dal latino, e che contiene in sé la mano. L’altro tipo di ma­ no, invece, è quella che deve entrare in contatto, per­ cuotere, ma anche percepire, palpare qual è il compito. Fra parentesi, la radice latina di palpare evoca il 108

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palmo della mano. La gestione pratica può dunque ri­ chiedere sia il pugno sia il palmo, e l’attenzione al mantenimento è parte essenziale di una gestione con tutte e due le mani. Nelle epoche preindustriali e nelle società non auto­ matizzate, le mani avevano un valore enorme per gli affari umani, e non solo in quanto strumenti per far funzionare un’attrezzatura volta a risparmiare lavoro, ma anche come strumenti per il contatto con le cose elementari. Prendere in mano un problema significava proprio questo: toccare con mano l’acqua, il legno, la brace, la cenere, il terreno, le piante, gli animali, il ci­ bo, la spazzatura e la sporcizia. I palmi delle mani ri­ volti verso gli Dei, o giunti in preghiera, sottolineava­ no il posto che le mani avevano nell’ordine delle cose. E la vita era «nelle nostre mani», nelle loro linee, dove un chiromante poteva leggere il nostro carattere. (La stessa parola «carattere» deriva dal termine greco per indicare segni incisi.) Nelle mani risiedeva anche una magia generatrice, tanto che il semplice contatto da parte della persona giusta, nel modo giusto, poteva be­ nedire o guarire, suggellare un patto fino alla morte o sollevare una persona da una posizione inferiore. Il potere veniva trasmesso attraverso le mani. Chi affondava le mani nelle cose ne traeva un piace­ re sensuale: il drappeggio di un tessuto, il peso di una pietra, la friabilità di un terriccio, la morbidezza di una pelle. Un medico sapeva come stavano le cose gra­ zie a quello che esse rivelavano alle sue mani. Con il IO9

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progredire della strumentazione, non diamo più alle cose con cui viviamo e lavoriamo tutto il giorno le no­ stre mani, ma solo le loro estremità, la punta delle di­ ta, quando premiamo dei tasti, tiriamo delle leve, o raccogliamo pezzi di carta o confezioni di plastica. La produzione e il servizio automatizzati, senza contatto manuale, hanno preso il posto del lavoro manuale in agricoltura, in marina; del lavoro manuale di ogni ge­ nere. L’ingegneria genetica, l’elettronica, la biotecnolo­ gia e la criogenica, perfino la diagnostica e il commer­ cio dei prodotti, hanno luogo attraverso un vetro, op­ pure, grazie alla robotica, mediante mani protesiche. Soltanto i nostri hobby —il giardinaggio, la cucina, il modellismo, il curare i cuccioli, l’aggiustare, il tessere, il ricamare, e quei pochi momenti alla settimana che dedichiamo alle carezze d’amore - consentono alle no­ stre mani di recuperare la loro piena funzionalità. Questi, però, sono momenti di distensione: non fanno parte del business. In tutto il nuovo armamentario delle comunicazioni c’è un elemento che vi piacerebbe conservare negli anni per la sensazione amichevole che dà? (A parte il fatto che il suo prezzo, sul mercato del­ l’usato, diminuisce non appena entra in commercio l’ultima generazione dello stesso articolo.) La bassa manutenzione, come ultimo stadio del con­ sumismo, del saccheggio, è il segno di una vita comple­ tamente secolarizzata. Nessuna devozione, nessuna at­ tenzione rituale dedicata ad altro che non sia l’altare di se stessi. E così tutta la nostra cura e il nostro interesse HO

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li riserviamo a lavori monotoni e alle vitamine, alla car­ riera e ai conti, alle relazioni e alla psicoterapia. E in­ tanto nel piacere frenetico di acquistarle perdiamo il piacere sensuale che possono darci le cose. M a se noi perdiamo il piacere rinunciando al contat­ to manuale, cosa perdono le cose, che non vengono più trattenute nelle mani dell’uomo? È forse per questa ragione che sembrano maledette, non benedette; di­ strutte, non curate; gettate, non tenute per tutta la vita; è per questo che restano a un ordine inferiore —oggetti meramente inconsci, materiali, senz’anima. E la ragio­ ne dell’enorme quantità di immondizie, non è forse che avere non vuol più dire tenere in mano? Cosi, an­ che alla luce di ciò che abbiamo scoperto nelle idee di efficienza e di servizio, la manutenzione diventa più un dono che un lavoro ingrato, e l’eliminazione più un re­ stituire che uno sbarazzarsi. Infatti, ormai non è più possibile sbarazzarsi veramente di niente, non solo per­ ché la materia non si crea né si distrugge —può soltan­ to cambiare —ma anche perché gli articoli «usa e getta» sono diventati anacronistici. Perfino le regioni più po­ vere, quelle desolazioni che sono il terzo mondo, e le riserve dei nativi americani, rifiutano i rifiuti. Non c’è più nessuno che voglia prendere la nostra spazzatura. Quando parlo di «dono», voglio dire che la manu­ tenzione della nostra proprietà dà piacere ai nostri vi­ cini, e avendo cura della proprietà pubblica abbiamo riguardo per i concittadini che usano gli stessi servizi, che camminano sullo stesso marciapiede. L’attenzione III

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che dedichiamo alla nostra proprietà è anche un dono per le cose stesse, che non vengono trattate come spor­ co, sudiciume, rifiuti, porcheria, escrementi, ciarpame, spazzatura - sono questi, infatti, gli insulti repulsivi che utilizziamo per ciò che decisamente non vogliamo conservare, non vogliamo toccare. L’idea dell'anim a mundi si traduce in cura per le co­ se. Mentre in passato, per pubblicizzare un buon pro­ dotto, si diceva che «non era stato toccato da mano umana», adesso sono particolarmente ricercate le cose che sono state toccate dalla mano dell’uomo, «fatte a mano», e che sono «user friendly», «amichevoli per chi le usa». Se le cose hanno un’anima, allora anche loro ri­ chiedono rituali di eliminazione che adesso stiamo co­ minciando a ritrovare con i nostri progetti di riciclag­ gio, che giustamente chiamiamo Redemption Centers. M a invece del vecchio moralismo, puritano e punitivo, riguardo al lasciare i rifiuti per la strada, c’è bisogno di un nuovo e gioioso animismo che i bambini sarebbero i primi a capire. «Non buttare la carta delle caramelle per la strada» —non perché insudicia o perché è da ma­ leducati; non perché è sbagliato; non perché «cosa suc­ cederebbe se tutti facessero così?» - ma «perché la carta della tua caramella non vuole restare lì sul marciapiede ed essere pestata; vuole stare nel cestino dei rifiuti in­ sieme a tutti i suoi amici». Non potrebbe darsi che quando le cose non vengono appropriatamente sepolte, cremate o trasformate in compost, in concime, la loro anima rimanga come un 112

L ’eroica del potere cambia

fantasma a perseguitare e avvelenare la comunità, met­ tendo in pericolo soprattutto i più vulnerabili, i bambi­ ni? L’inquinamento non è soltanto quello della chimica e della radioattività. Esiste anche un inquinamento psi­ cologico. Moltissime società tribali hanno elaborato dei tabù per scongiurare l’inquinamento dell’anima da par­ te di spiriti invisibili nell’aria e nelle acque. Anche i no­ stri inquinamenti e le nostre tossicità sono invisibili. Microonde, elettricità ad alta tensione, radon, additivi, raggi X, particelle di piombo, pesticidi - insapori, ino­ dori, minuscoli, eppure apparentemente indistruttibili. Non sarà che la nostra civiltà sta raccogliendo i frutti del suo disinteresse per la manutenzione, che come un fantasma implacabile torna a prendersi la sua vendetta, costringendoci a rivolgere un’attenzione colma di ansia anche ai minimi, infinitesimali residui? La prolungata negligenza nei confronti delle cose - il trattarle come se andassero eliminate o sostituite, anziché curate - sem­ bra aver avuto come effetto il fatto che adesso ci chie­ dono un altro genere di mano, la mano della gentilez­ za. I nostri enormi problemi riguardo alla pulizia e al­ l’eliminazione dei rifiuti sono diventati poteri autono­ mi che, come zombi distruttivi, esigono il tributo per i cumuli di ghoul e di cadaveri abbandonati nei vittorio­ si campi di battaglia della produttività, o gettati nelle fosse e scaricati nei fiumi perché siano portati via. Ma un «via» non esiste. La nostra civiltà sembra essere im­ pegnata in un eroico rituale riparatorio, in una propi­ ziazione degli spiriti. Stiamo tentando di riconciliarci

IL POTERE

con i poteri invisibili che la bassa manutenzione ha tra­ scurato, mediante l’unico rituale riparatorio che una società economica secolarizzata comprende: il dispen­ dio enorme, il Superstanziamento. *** In questa parte abbiamo preso in esame i concetti di «efficienza», di «crescita», di «servizio» e di «manuten­ zione», con l’intenzione di esplorarne il significato e di modificare il valore che viene loro attribuito. Proprio perché questi concetti hanno un effetto così decisivo sui nostri atteggiamenti e sul modo in cui le organiz­ zazioni conducono i loro affari e progettano il loro fu­ turo, sono dei poteri a pieno diritto. Come quattro enormi cavalli, tirano il carro dell’economia e sono, psicologicamente, molto più influenti delle cifre che, settimanalmente e mensilmente, ci arrivano dai mini­ steri del Lavoro, del Commercio e del Tesoro. Non so­ no il deficit della bilancia commerciale, il prodotto in­ terno lordo, il tasso di disoccupazione, l’indice dei prezzi al consumo e così via, a determinare il compor­ tamento attuale, quanto l’azione delle nostre idee: l’a­ dorazione della crescita, la mania dell’efficienza, l’av­ versione per il servizio e la denigrazione della manu­ tenzione. Possiamo adesso abbandonare il nostro ten­ tativo di esporre il potere delle idee, per affrontare di­ rettamente le idee del potere.

PARTE

II

Stili del potere

Il linguaggio del potere L’espressione «complesso di potenza» nasce con Jung e viene ampiamente definita in Tipi psicologici, pubbli­ cato per la prima volta nel 1921. Dice il paragrafo in questione: Chiamo occasionalmente complesso di potenza l’insie­ me di tutte quelle rappresentazioni e di quelle aspira­ zioni che tendono a collocare l’Io al di sopra di altre in­ fluenze e a subordinare queste all’Io, sia che tali in­ fluenze provengano da uomini e da situazioni, sia che esse provengano da impulsi, sentimenti e pensieri pro­ pri, soggettivi. In breve, la subordinazione, di qualunque tipo, suscita il complesso di potenza. Questa definizione suggerisce implicitamente che l’affermare se stessi al di sopra del­ l’altro, qualunque cosa sia questo altro, lo colloca al di sotto. L’espressione chiave, in questo passo di Jung, è 117

IL POTERE

«al di sopra». E i modi di ergersi «al di sopra» possono essere molti. La subordinazione può usare la forza, la forza di volontà, la persuasione attraverso l’atteggia­ mento, la logica, l’argomentazione, oppure la conver­ sione, il convincimento con il ragionamento, il terro­ re, la manipolazione, l’irretimento, l’inganno. Qua­ lunque sia il metodo, il complesso di potenza subordi­ na tutto all’arrivare e al restare in testa. Queste differenti modalità sono abbastanza familia­ ri. Chiunque abbia vissuto con un coniuge di umore depresso, o abile manipolatore, o litigioso e prepotente conosce profondamente cos’è la subordinazione e sa bene che una posizione di superiorità sembra essere definita, essenzialmente, dal fatto che qualcosa o qual­ cun altro diventa subordinato. Altrettanto familiari ci sono le tecniche di subordi­ nazione che si esplicano nella struttura del nostro stes­ so carattere — pensieri che non vogliamo consentirci, sentimenti che preferiamo reprimere, fantasie e abitu­ dini che non possono vedere la luce del giorno e che sono immediatamente giudicati inferiori. Sia all’inter­ no sia all’esterno, in se stessi o negli altri, l’idea jun­ ghiana del complesso di potenza si basa sull’idea di un Io superiormente dotato di forza di volontà. Altrove, però, Jung va oltre l’Io e parla di una pulsio­ ne di potenza, o istinto di potenza, facendo propria l’i­ dea, forse di Adler, forse anche di Nietzsche, della vo­ lontà di potenza. Questo istinto di potenza Jung lo ac­ coppia a un’altra travolgente forza psichica: la sessua­ li

Stili del potere

lità. Egli sostiene che il potere costituisce la base della psicologia adleriana, come il sesso la base di quella freudiana. Questo binomio è ben più antico della psi­ coanalisi, rimanda a due dei principali peccati contem­ plati dalla morale della Chiesa nel Medio Evo: ira e cupiditas (avidità e concupiscenza). Queste passioni pec­ caminose dell’antichità sono adesso diventate il potere e l’istinto sessuale. M a ancora più antiche, nel senso che sono presenti da sempre, sono due figure mitologiche, Ares/Marte e Afrodite/Venere. Anche queste figure sono spesso in coppia, e le loro storie ci parlano di potere e di ses­ sualità. Dietro i concetti della psicologia moderna c’è una lunga storia, e dietro quella lunga storia ci sono le configurazioni archetipiche che la storia riveste se­ condo la moda dei secoli. L’approccio archetipico al potere e al sesso ci dice che un essere umano non può mai controllare del tutto Yira o la cupiditas, perché è in queste esplosive pulsioni che dimorano gli Dei. E anche se pensiamo che i miti sono ormai da lungo tempo dimenticati, e che gli Dei e le Dee sono morti, in realtà essi risorgono nelle passioni dell’anima. L’i­ potesi che il nostro temperamento sia tracciato sulle linee di una griglia mitica è un’idea che merita mag­ giore spazio e che, quindi, costituirà il punto centrale della Parte III. La parola «potere», «potenza», da sola ha una riso­ nanza più vasta delle idee psicologiche di «complesso di potenza» e «pulsione di potenza», e la sua definizio­ 119

IL POTERE

ne, piuttosto innocente, è semplicemente la capacità di agire, di fare, di essere, e deriva dal latino posse (potis esse), essere capace. Come per la potenza elettrica e per la potenza muscolare: la capacità di compiere un lavo­ ro. In realtà la potenza e l’energia sono entrambe delle astrazioni, indotte dall’esecuzione di un lavoro. Quan­ do qualcosa si muove o si modifica, in qualunque mo­ do, noi postuliamo, e poi misuriamo, la ragione invisi­ bile di questa alterazione come energia o potenza. In modo ancora più ampio, il potere può essere definito come la semplice potenza, la potenzialità: non il fare, ma la capacità di fare. Lo studio del termine si fa ancora più interessante quando si risalga alle sue radici indoeuropee, perché scopriamo che è la parola stessa a evocare i significati psicologici attribuitigli da Jung. Il «potere» subordina davvero! Perfino in assenza di un soggetto che lo eser­ citi. Non c’è bisogno di ipotizzare un Io dominante. La radice della parola è infatti poti, che significa mari­ to, signore, padrone; il greco posis, «marito», da cui deriva des-potes, «signore della casa», da domos e posis, «padrone». Dominus in latino significa «signore», «pa­ drone», «colui che possiede», e gli schiavi romani chia­ mavano il loro padrone dominus, mentre quelli greci lo chiamavano despotes (da cui il nostro despota). In quest’idea di potere sono già insiti gerarchia e su­ bordinazione, e perfino dispotismo. Nella tradizione occidentale — che si esprime nel linguaggio che tutti ereditiamo nel momento in cui parliamo l’inglese (o 120

Stili del potere

qualunque altra lingua indoeuropea), e che quindi rientra nel campo culturale della storia irrevocabile e inesorabile - crediamo che la capacità di fare, di agire comporti l’autoritarismo, il dominio, lo spadroneggia­ re, il far sentire il proprio peso sulle cose, sulle perso­ ne, sull’ambiente. Dio stesso nel latino della Chiesa viene chiamato Dominus, e noi umili uomini, fatti a sua immagine, diventiamo dei dominatori semplicemente facendo una qualsiasi cosa. L’interrogativo più inquietante che nasce da tutta questa indagine sul potere è questo: «Come è possibile esercitare potere, fare qualunque cosa da agenti, senza per questo dominare?». Il grande problema della no­ stra psiche storica, forse della natura umana, è proprio questo: «Come è possibile agire senza dominio, senza controllo oppressivo, e tuttavia realizzare?». E la do­ manda che nasce nei genitori al momento di guidare i loro figli; negli operatori sociali quando vorrebbero in­ tromettersi nella vita dei loro assistiti, magari anche per aiutarli; in chi dirige un ufficio, al momento di dare anche semplicemente delle disposizioni. Ogni qual volta vogliamo fare qualcosa come agenti, il pote­ re fa la sua comparsa, e dove compare il potere compa­ re anche nel mondo la nostra storia occidentale. Noi dominiamo a immagine e somiglianza del nostro Dio, del nostro Dominus. Adesso possiamo immediatamente capire perché il femminismo politico si sia focalizzato sull’organizza­ zione gerarchica come chiave di volta della «coscienza 121

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patriarcale»: la gerarchia subordina, il potere diventa dominazione e dispotismo, e quindi via a smantellare la tavola dell’organizzazione e del potere dall’alto verso il basso; dai a ristrutturare, o in assoluta uguaglianza o in gruppi flessibili, cooperativi, senza leader - squadre di produzione, gruppi assembleari, unità operative — in modo da restare nell’orizzontale, senza pinnacoli verso l’alto. In questo radicale cambiamento di direzione, tra­ sversale invece che verticale, nuovi peccati sostituisco­ no quelli vecchi. Lo spietato livellamento - che nessu­ na testa osi sollevarsi troppo in alto, che nessuno guar­ di in alto — è il prezzo da pagare perché nessuno sia guardato dall’alto. Rispetto, ammirazione, reverenza vanno a farsi benedire. Cominciano a dominare altri tipi di conformismo e di correttezza politica. Emerge una nuova tirannia: l’assolutismo dell’uguaglianza. Oltre alla lotta per il potere fra la dimensione vertica­ le e quella orizzontale — adesso personalizzata in ma­ schile contro femminile - un’altra lotta di potere si svol­ ge all’interno della parola stessa. La storia di questo ter­ mine innesta qualunque cosa facciamo, in qualunque modo la facciamo, in un dualismo di attivo/passivo, pa­ drone/schiavo, e, per finire, in quello di sadico/maso­ chista. Il lavoro si realizza soltanto a spese del potere ne­ cessario a muovere la materia inerte. Questo modo di pensare riguardo al concretizzarsi delle cose segue un antico modello occidentale che considera la materia come mera potenzialità, inerte,

Stili del potere

passiva, femminile, vuota. H a bisogno di essere attua­ lizzata da qualcosa a essa superiore. Ancora una volta subordinazione, a partire da Aristotele, passando per san Tommaso d’Aquino, fino alla scienza newtoniana. Soltanto di recente abbiamo accettato di riconoscere l’innato potere della materia, il fatto che anch’essa sia energia e che le cose non abbiano bisogno degli ordini di un Cesare che le faccia muovere. Dove compare Ce­ sare arriva anche la folla inerte, la massa demotivata. La supremazia chiama la schiavitù, di una sorta o di un’al­ tra, sia essa anche soltanto la schiavitù del materiale su cui esibiamo il nostro dispotico dominio produttivo. Shakespeare chiama Cesare tiranno, ambizioso, poten­ te, padrone, signore; questi epiteti di potere, allo stesso tempo, riducono la gente comune a «ciocchi di legno, macigni, cose meno che insensibili!» (Giulio Cesarei, 1, 40). Il mondo si divide in attivi e passivi. I problemi politici di «massa e potere», come li chia­ ma Elias Canetti nel suo studio ormai classico, risiedo­ no nella pervasiva idea del potere che ha in suo domi­ nio la coscienza occidentale, un’idea che sostiene con insistenza che quanto più esso è umile e materiale, quanto più è femminile e inattivo, tanto meno è poten­ te: il potere segue la strada maestra della classe, della ric­ chezza, dell’educazione o della nascita. Il potere sta in cima, come Dio nel Cielo, Mosè sul Sinai, gli Dei greci sull’Olimpo, Gesù sul Monte degli Olivi e poi accanto a Dio con la Resurrezione, i colonizzatori al di sopra dei nativi, il bianco al di sopra dello scuro, e i missionari al 123

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di sopra delle loro donne. L’espressione filosofica corri­ spondente è actus purus: il massimo del potere definito come attività al massimo della purezza. Al di sotto c’è la materia, la massa, la plebe —un mero potenziale che ha bisogno di essere risvegliato dalla sua inerzia innata ma che, per la sua potenza latente, deve anche essere tratte­ nuto dall’eruzione spontanea. L’idea che l’essenza della divinità sia l’attività pura conferisce un impeto spiritua­ le al culto occidentale della produttività, così come pure al machismo, al razzismo e alla paranoia. E possibile ampliare l’idea di potere andando a in­ vestigare al di là delle esplorazioni psicologiche ed eti­ mologiche che abbiamo appena passato in rassegna e cercando di figurarcela in relazione ai concetti che co­ munemente vengono associati a questa parola. Il ter­ mine potere, infatti, nella nostra mente si differenzia, assumendo nell’uso comune un’infinità di sfumature. Queste differenti forme di potere, che ciascuno rico­ nosce nell’altro, le ricerchiamo anche noi, o magari creano imbarazzo anche a noi. Penso alla leadership, all’ascendente, alla resistenza, all’autoritarismo, alla ti­ rannia, al prestigio, al controllo, all’ambizione e così via - aspetti del potere ai quali torneremo fra poco. Forse queste molteplici sfaccettature sono ciò di cui il potere è composto, i tratti che, nel loro insieme, ne costituiscono la forza, la capacità di agire e di realizza­ re, di andare e di prendere, di avere e trattenere, di as­ servire e di distruggere; forse queste sfumature ci spie­ gano anche il perché l’idea di potere eserciti un’in­ 124

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fluenza così grande e perché produca tanta libertà, ma anche tanta sventura. Nel passare in rassegna gli stili di potere, useremo es­ senzialmente un metodo retorico. Come parliamo del potere? Come il potere parla a noi, come si manifesta nel linguaggio? Il metodo retorico differisce dai metodi consueti perché espone un soggetto. I metodi più co­ muni analizzano un’idea con l’ausilio di esempi, o di aneddoti su cui tali esempi si basano, oppure deduco­ no implicazioni logiche da definizioni, oppure ancora si basano sullo studio empirico di un caso da cui trarre utili conclusioni. Un altro metodo, più moralistico, di­ vide il potere in due generi fondamentali, quello di ti­ po buono e quello di tipo cattivo, sollecitando il primo e condannando il secondo. Nelle teorie del potere si rivela in modo particolar­ mente evidente il ricorso a un modello moralistico. Sotto il manto dell’obiettività teorica si nascondono spesso dei giudizi. Le teorie presentano uno spettro di potere che va dall’ascendente (buono) alla coercizione (cattivo), dalla persuasione (buono) alla violenza (catti­ vo), dal potere legittimo (buono) a quello usurpato (cattivo), da quello affidato ai simboli (buono) a quello affidato alle armi (cattivo), da quello condiviso e relati­ vo (buono) a quello dispotico e assoluto (cattivo): uno spettro che si ritrova tanto nelle persone che nelle strutture sociali. Generalmente le teorie iniziano con delle definizioni. Le definizioni stabiliscono degli stan­ dard, in modo che le varie idee di potere possono esse­ 125

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re misurate su un modello di riferimento in modo uni­ dimensionale, come su una scala da 1 a 10. Ciascuna teoria del potere cerca di trattare il proprio oggetto co­ me qualcosa di singolo e definito. È necessario che a questo punto chiariamo meglio la differenza fra definizioni e miti, dal momento che per tutto il libro ci muoveremo avanti e indietro fra loro. Usando i miti come griglie si analizzano i feno­ meni alla luce di figure archetipiche i cui attributi e i cui comportamenti sono ancora più complicati di quelli che stiamo esaminando. Anziché ridurre il si­ gnificato a definizione, i miti amplificano e compli­ cano. Sono la via della ricchezza. Aggiungono infor­ mazione ai fenomeni e consentono intuizioni. Forni­ scono immagini, enigmi, humour. Per esempio Erco­ le, il grande eroe, una figura mitica che fa da sfondo a gran parte del nostro senso di potere maschile, mu­ scoloso, infaticabile, massacratore, vigoroso aveva co­ me classico appellativo «il mangiatore di manzo». Per contro, nei giardini di Adone, il giovane amante dal­ la pelle liscia e dalle carni morbide, coltivava la lattu­ ga, e la lattuga era considerata sgradevole e negativa per la virilità, perché appassiva e in poco tempo si af­ flosciava. Quest’accoppiata di manzo e di lattuga of­ fre uno sfondo mitico a un cambiamento culturale che si sta verificando nei fa st food: gli enormi ham­ burger stanno cedendo il posto al banco delle insala­ te. Questa accoppiata compare anche, comicamente rovesciata, nel contrasto fra Bracciodiferro che, per

Stili del potere

essere forte, mangia spinaci, e l’imponente Poldo che vive di hamburger. Curiosamente i miti conferiscono maggiore obietti­ vità di quanto non facciano i modelli di pensiero. An­ che se le griglie mitiche usano figure antropomorfiche (Ercole) e parlano la retorica della soggettività - pas­ sioni, sentimenti, abitudini e atteggiamenti - il loro effetto è più obiettivo, perché non impongono una costruzione teorica di fenomeni. Ti lasciano libero di immaginare ancora a proposito di carnivori e vegeta­ riani, di cacciatori e agricoltori, di cambiamenti nei gusti della cultura popolare, di ambientalismo verde, di pubblicità del «manzo», di eroi e di potere. L’importanza di un modello sta nel costituire una definizione standard utile per misurare delle approssi­ mazioni al modello. Un eroe, secondo una completa e attuale definizione dell’ Oxford English Dictionary, è «un uomo che manifesta coraggio, fermezza e grandez­ za d’animo straordinari, in relazione a qualche attività, lavoro o impresa; un uomo ammirato e venerato per le sue imprese e per le sue nobili qualità». Invece di un’immagine, di un racconto mitologico o di una raffigurazione, ci viene data una chiara, obiettiva astrazione. Abbiamo un modello sul quale possono es­ sere confrontati atti, persone e qualità. Un modello, con il suo stabilire misure concettuali, impone sottil­ mente dei giudizi, anche quando aspira all’obiettività. Il generale Norman Schwarzkopf è veramente straordina­ rio? Se sì, in quale misura? Possiede grandezza d’animo? 127

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Mohammed Ali è venerato per le sue imprese e per le sue nobili qualità? Come la mettiamo con Einstein, Eleanor Roosevelt, John Kennedy, Martha Graham, Pi­ casso, Rachel Carson, Lee Iacocca: hanno i requisiti? E un eroe di guerra come il sergente York, o un eroe olimpico come Mark Spitz o Jesse Owens? Ci ritrovia­ mo a misurare, a confrontare, a discutere, a dissentire — ma, soprattutto, a fare del moralismo su quale persona, quale impresa sia all’altezza del modello. I miti non hanno questo effetto. Ci inducono a sorprenderci, a porci domande, a immaginare. Considerare Gesù un modello ci porta all’imitatio Christi e al senso di colpa per non essere mai all’altezza. Considerare Gesù in mo­ do mitico ci porta al mistero. L’approccio mitico al nostro tema, il potere, implica che il moralismo sul potere faccia marcia indietro. Questo perché le figure di fondo del potere —eroi, re, giganti, orchi, regine, streghe, maghe, megere, spiriti, dèmoni, ma soprattutto Dei e Dee —dimostrano che non ci sono figure assolutamente buone o assolutamente cattive. Ogni Dio e ogni Dea può essere anche un nemico e un assassino. Ogni forma di potere può essere distruttiva oppure costruttivamente preziosa. Ci sono abusi di magnanimità e di protezione così come ci sono esempi di costruttivo benessere sotto il duro governo della tirannia. Sì, esistono anche despoti be­ nevoli. Parlare di despota benevolo non è un ossimo­ ro: la storia dell’Occidente è piena di mostri costrutti­ vi, come lo zar che costruì San Pietroburgo o Napo­ 128

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leone. Il re generoso lega i suoi sudditi con i doni, proprio come fa il dirigente di un’azienda con le op­ portunità che offre. La buona madre prevede e provve­ de, e i suoi figli diventano sempre più passivi e dipen­ denti, dandosi al bere fino a morirne. Dispotismo be­ nevolo —non è questo che temono i nemici del Welfa­ re State? Troverete un’altra importante differenza fra ciò che stiamo facendo qui e le consuete critiche e teorie del potere. I vari stili non saranno allineati secondo un si­ stematico filo teorico, dal più importante al meno im­ portante, dal più forte al più debole, dal più vecchio al più recente e così via. Non stiamo esponendo delle forme teoriche ma delle forme di potere. La nostra non è una teoria del potere, ma una fenomenologia del potere, forse anche una fenomenologia delle fantasie di potere. Phainomenon vuol dire «quello che appare ai sensi o alla mente»: come le cose si manifestano; come le cose si accendono (con una radice che ha a che fare con il bagliore, con il risplendere, il rivelarsi). Una fenomenologia ritiene anche che non esista una cosa, come il potere, in sé e per sé. Non si tratta di un è, o, come diceva Gertrude Stein di Oakland, «là non c’è alcun là». Una fenomenologia del potere non presenta una sostanza con dei confini tali che si possa dire dove il potere inizia e dove finisce, quando è pre­ sente e quando non c’è. Una fenomenologia del potere tratta l’argomento come un insieme di fantasie e di eventi che si muovono per la mente e per il mondo, I

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perlopiù indistinguibili gli uni dagli altri, un pro­ teiforme mutare d’aspetto, che richiede un’enorme quantità di termini per poter arrivare a cogliere quel grappolo di concetti che il nostro linguaggio sottin­ tende quando parla di segni del potere. Qualunque sia il metodo - logico, empirico, feno­ menologico - dobbiamo usare il linguaggio. Un meto­ do ci convince per la forza del suo linguaggio, per la sua retorica, definita come «arte della persuasione». Quindi, se riusciremo a raggiungere le idee incluse nel linguaggio che riguarda il potere, a disvelare le idee persuasive che influiscono sul nostro pensiero e sul no­ stro comportamento, saremo vicini, per quanto è pos­ sibile, a conoscere ciò di cui è composto il potere. D u­ rante l’intera giornata lasciamo che termini quali con­ trollo, prestigio, ambizione, carisma, autorità escano dal­ le nostre labbra senza pensarci molto, e che giochino in giudizi che determinano le nostre decisioni e i nostri rapporti con i colleghi. Dato che il linguaggio è il no­ stro bagaglio, è utile aprire questi termini all’ispezione. Forse potremmo trovare ipotesi di contrabbando e pre­ giudizi nascosti, ma anche valori da lungo tempo di­ menticati che non sapevamo di portare con noi. Mentre le psicologie di tutti i generi sono attivamen­ te interessate all’acquisizione di potere, Æ empower­ ment, e usano regolarmente questa espressione nelle conferenze e nei programmi, permane tuttavia uno strano disagio nei confronti dell’idea del potere, non solo per le implicazioni tiranniche che abbiamo messo 130

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in luce, ma anche per un’altra ragione, che un’afferma­ zione di Jung esprime con precisione: «Dove regna l’a­ more non c’è volontà di potenza; e dove la volontà di potenza è grande, manca l’amore».1 Questa condizione antagonistica ci fa vergognare di quel tanto di potere che l’amore possiede (l’amore, in­ fatti, esercita una sorta di forte dominio su tutto ciò che tocca); e la frase di Jung ci dice anche che l’andare in cerca di potere è un comportamento privo di amo­ re. Ormai amore e potere si escludono a vicenda: o l’uno o l’altro. Credo che nell’affermazione di Jung sia compendiata la visione romantica sia dell’amore sia del potere. L’u­ no, che tutto dà, altruista, l’altro, che tutto pretende, egoista. L’uno, espressione dell’anima, l’altro, solo della volontà. E tuttavia partecipiamo a corsi per diventare empowered, per acquisire potere! Forse, nel definire ro­ mantica questa opposizione, sono troppo restrittivo, dal momento che perfino Machiavelli, la volpe di Fi­ renze, tutt’altro che romantico, affermava con insisten­ za che il regno dell’anima non ha nulla a che fare con il potere dei Principi. Ancora una volta, una netta separa­ zione fra l’idea di amore e l’idea di potere. Questa divisione induce a rinunciare al potere per diventare un’anima più nobile, amorevole. I buoni

1. C.G. Jung, The Collected Works, voi. 7, sez. 78, Princeton University Press, Princeton 1953.

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vengono per ultimi ed è per questo che sono buoni. Spesso le donne sono elette o scelte perché, in questa opposizione, rappresentano l’anima, non il potere. Quindi, essere privi di potere è prova non necessaria­ mente di debolezza e di castrazione, ma di nobiltà d’a­ nimo e di natura amorevole. Anche per questa ragione gli idealisti e i romantici, spesso, rifiutano il potere. Per appropriarsi del potere si abbandona l’anima per la sporca politica. M a è davvero il potere a essere sporco, oppure è sporca Videa che hanno del potere queste persone? È per tale ragione che spesso gli idealisti perdono? Non di rado ci si domanda perché gente di nobili in­ tenti non cerchi di ottenere una carica di primo piano, e perché, quando poi arriva a comandare e si accorge che le cose non vanno come vorrebbe, si rifiuti di tro­ vare una via d’uscita nel compromesso, e preferisca di­ mettersi cavalcando l’arrogante cavallo dell’indignazio­ ne. Perché le brave persone non possono scendere in basso, come si disse di Adlai Stevenson? Ma, cosa ancor più curiosa: perché i conflitti per il potere sono così feroci, e non tanto negli affari e nella politica, dove sono cose di tutti i giorni, quanto nelle professioni idealistiche, quali il sacerdozio, la medici­ na, le arti, l’insegnamento e l’assistenza? Coloro che si trovano invischiati nelle lotte accademiche o nelle liti all’interno degli ospedali o dei musei, ricorrono all’in­ ganno, alle pugnalate alle spalle, alle minacce, agli in­ trighi senza il minimo ritegno. Non rivolgono la paro­

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la agli amici dei loro nemici. Si formano conventicole. Si incaricano scagnozzi. Si trama la vendetta. Nel busi­ ness e nella politica, invece, i concorrenti a poste an­ che molto più alte continuano a incontrarsi per gioca­ re a golf, per mangiare o bere insieme. Nel business e nella politica sembra che ci sia meno idealismo e più senso dell’ombra. Il potere non viene represso, ma ci si convive, come con un compagno quotidiano, e non si afferma che è nemico dell’amore. Quindi, fino a che il concetto di potere è in sé cor­ rotto da una opposizione romantica con l’amore, con l’anima, con la bontà e la bellezza, il potere corrompe davvero, come afferma il celebre detto. La corruzione comincia non nel potere, ma nel non conoscerlo. E per questo che ci stiamo impegnando in queste indagini psicologiche, etimologiche e filosofiche. Rivolgere un’attenta considerazione a qualcosa, mantenere per es­ sa un profondo interesse non è amore? E, forse, quanto segue ora è proprio una manifestazione di amore: di amore per il potere.

I l controllo Probabilmente la parola che oggi viene più comune­ mente associata al potere è «controllo». «To be in con­ trol», avere il controllo, comandare. «To take control», assumere il controllo, impadronirsi di qualcosa. E pensare che controllo deriva da un’idea che essenzial­ 133

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mente limita il potere, che, di fatto, mette dei freni al potere, come un interruttore di controllo o il pannello di controllo che governa un’installazione in modo che non possa surriscaldarsi o andare in corto circuito. Il controllo è un agire, sì, ma di un genere restrittivo: la parola deriva da contra rotulus, contro il rotolare. Dato che il libero fluire dell’inerzia segue la via di minor resistenza, la via facile, in discesa, viene control­ lato attraverso limitazioni. Le manifestazioni di prote­ sta organizzate per «levarsi di torno il governo», o la ri­ vendicazione secondo cui controllare i militari vuol di­ re «combattere con una mano legata», esprimono il senso di intralcio che il controllo evoca. Il controllo go­ verna più con il veto che con la leadership, più ostaco­ lando e controbilanciando una varietà di forze che non partendo all’attacco come alla guida di una massa. Se guardiamo da vicino cosa desideriamo davvero quando vogliamo avere il controllo, troviamo soprat­ tutto desideri di prevenzione. Non vogliamo essere sec­ cati, non vogliamo essere umiliati, bloccati o criticati. Vogliamo che siano rimossi gli ostacoli in grado di competere con noi, come altre divisioni nell’azienda o altri capisquadra. Controllo significa interferenza pre­ ventiva. H a un effetto conservativo. Per questo le per­ sone che hanno il controllo ci fanno sentire frustrati: non vogliono che facciamo le cose a modo nostro; non danno libertà; impediscono il piacere; ti mettono fra i piedi un sacco di controllori e di scartoffie. M a insom­ ma, com’è che proprio da parte di chi comanda ci arri­ 134

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vano tante restrizioni e tante regole limitative? E per­ ché quella fantasia: «Se fossi io a comandare qui den­ tro, le cose non andrebbero in questo modo; non la­ scerei correre; io sì che metterei fine a...». Eppure, quando siamo noi ad arrivare nella posizione di chi as­ sume il controllo, troviamo che la libertà dalle limita­ zioni per la quale ci eravamo battuti è a sua volta limi­ tata dalle nuove limitazioni che noi stessi abbiamo co­ minciato a imporre. L’idea del controllo controlla i controllori; noi non abbiamo il controllo del potere di controllo. La fantasia di controllare il rotolare dei dadi o la ruota della fortuna dura ancora nel profondo, e promette il potere sul destino stesso. Quel grande analista del potere che fu Machiavelli ne II Principe concepisce il potere esattamente nei ter­ mini di controllo contro Fortuna, la capricciosa Dea del destino e della sorte. Machiavelli mette in contrap­ posizione controllo e Fortuna, cosicché il potere di­ venta la capacità di controllare gli imprevedibili inter­ venti della Fortuna, gli errori, i vizi, le incompetenze, i pasticci che attaccano ogni impresa. La persona capace di prevenire, dirigere o inibire queste eventualità, se­ condo gli insegnamenti di Machiavelli, è una persona di potere. Il controllo come potere negativo che inibisce ha fi­ nito per dominare sempre più le organizzazioni, sia al­ l’interno sia all’esterno. All’interno mediante metico­ lose procedure di contabilità. Per esempio, un’infer­ miera addetta all’assistenza post-operatoria non deve 135

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soltanto medicare le ferite ma deve anche tenere il ren­ diconto del materiale di medicazione: vari promemo­ ria in triplice copia, vari moduli da restituire compilati al mittente; offerte da confrontare, voci di spesa da va­ lutare e via dicendo. All’esterno, mediante la tecnolo­ gia della sicurezza: telecamere nascoste, controllo delle urine, accessi controllati, documenti che vengono di­ strutti riducendoli in striscioline, gerarchie e categorie di segretezza, stretta supervisione del tempo al compu­ ter, al telefono e così via. Quando entra in funzione un addetto al controllo, niente deve sfuggire alla sua attenzione - ogni ordine di acquisto, ogni conto-spese, qualunque cosa che esce dalla cassa. L’addetto al controllo non ha bisogno di occuparsi di tutto personalmente, e non si tratta tanto di dire «fai a modo mio» quanto «tienimi informato». Controllo significa sapere cosa sta succedendo. Tutto deve essere sottoposto a ispezione. Quello che conta è il sottoporre. Niente è tenuto nascosto. Niente armadi chiusi a chiave, niente porte chiuse - l’ufficio aperto sottopone tutti al controllo. Un metodo di controllo ancora più sottile è quello fondato sulla lealtà. «Fidati di me.» «Devo poter contare su di voi.» «Fate quello che mi aspetto da voi e io vi co­ prirò le spalle.» Mediante il legame della lealtà nei con­ fronti di altre persone siamo da esse vincolati a essere al loro fianco e dalla loro parte nelle lotte aziendali. Questi esempi di controllo - il bisogno di sapere, di supervisionare, di verificare, di usare la lealtà come 136

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mezzo - ci dicono due cose. In primo luogo ci rivela­ no che il controllo indebolisce il potere perché frena le sue varie espressioni. Il sotterfugio dell’influenza, le manipolazioni del prestigio, il rischio della leadership, il silenzio della resistenza non sono passibili di con­ trollo e mirano proprio ad aggirarlo. M a queste forme di potere vengono rifiutate. Invece di avventurarsi in avanti, a esplorare un territorio sconosciuto, il con­ trollo combatte un’azione di retroguardia, tenendo l’inventario di ciò che è già avvenuto. Ama i resoconti completi. Malgrado la sua posizione di comando, si­ cura di sé, si basa su una visione difensiva, e i tratti che abbiamo enumerato —la lealtà imposta, la preci­ sione rigorosa, la sospettosità per ciò che è nascosto, lo stare sempre con gli occhi ben aperti - sono tratti paranoidi. E poi —e questo è il secondo punto —qual è l’ansia nascosta che suscita l’idea di perdere il controllo? Cosa c’è in realtà di nascosto, da cui la paranoia si difende pur senza mai vederlo? Che cosa evoca la perdita di controllo? Forse fracassare una finestra, urlare, impre­ care contro quel bastardo del capo o quella strega? For­ se mettere le bombe? Tutta una gamma di comporta­ menti infantili, melodrammatici, sciatti, isterici, folli. Perdere il controllo ha finito per significare «selvaggio» e «indifeso», quindi privo di potere. «Senza controllo», invece, può significare qualcosa di completamente diverso se prendiamo in considera­ zione queste fantasie selvagge, che infatti ci mostrano 137

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il liberarsi di una grande riserva di energia. E anche potente! Comincia qui a venir fuori un’altra di quelle infrastrutture mitiche che governano i nostri senti­ menti e le nostre paure. Quella mitica figura, i cui an­ tichi appellativi erano «il dissoluto», «quello senza le­ gami», «quello che ruggisce», e che rappresentava la potenza dell’energia naturale che scorre irrefrenabile, abbastanza somigliante al principio del piacere di Freud, era il dio Dioniso. Era celebrato come fanciul­ lo; era chiamato il Dio dell’umidità e dell’ebbrezza; governava il teatro e l’arte drammatica; assumeva le sembianze di animali selvatici; ed era associato all’iste­ ria e alla follia.2 Ognuno degli ambiti del suo dominio rappresenta una minaccia per la tenuta del controllo. Toro e pante­ ra selvaggi, teatrale bisessualità, misteriosità infera, in­ stabilità vegetativa, democratico populista, morbido fanciullo, e soprattutto il suo appellativo, «Signore del­ l’Anima», non sono certo elementi che hanno spazio in una sala consiliare o in un ufficio del governo. Per di più Dioniso, che induceva i suoi seguaci a uscire 2. Sulla natura e gli attributi di Dioniso, vedi Walter Otto, Dioniso, Il Melangolo, Genova 1990 e C. Kerenyi, Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile, Adelphi, Milano 1992; sui misteri di Dioniso e l’inizia­ zione alla sua forma di potere, vedi Linda Fierz-David, Womens Dionysian Initiation, Dallas, Spring Publications, 1988; sulla psicolo­ gia e la psichiatria di Dioniso, vedi Ginette Paris, Pagan Grace, Spring Publications, Dallas 1990, e James Hillman, Il mito dell’analisi, Adelphi, Milano 1979, pp. 269 sgg. 138

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dalla città per andare nei boschi, non è mai stato poli­ ticamente corretto. Supponiamo, invece, di cambiare prospettiva. Suppo­ niamo di cercare di capire dall’interno il potere di questa configurazione, anziché cercare di tenerlo sotto control­ lo. Qual è l’essenza del potere di Dioniso? Qual è la ra­ gione della grande attrazione che esercita e della sua du­ rata nei secoli? Il controllo sul suo potere e la paura dei suoi effetti eccessivi sembra che non funzionino mai, sia nel mondo antico sia nella psiche contemporanea. In realtà i tentativi di controllare ciò che è incontrollabile non fanno che esacerbare gli eccessi. Le molestie sessuali in un ufficio organizzato alla perfezione sono un esem­ pio di un ritorno esagerato della vitalità dionisiaca in si­ tuazioni di accentuata disperazione mentale. Nel nostro comune modo di parlare, la frase che con più semplicità coglie il modo dionisiaco è «abbandona­ ti alla corrente». Non un andare alla deriva, senza bus­ sola né porto, ma un fluire insieme ai movimenti della psiche. Come nella danza - i fedeli di Dioniso sono spesso raffigurati nell’atto di danzare —dove il guidare e il seguire si fondono: una fusione della propria coscien­ za privata con un campo i cui confini si fanno impreci­ si. Si acquista una sensibilità particolare ai riverberi sot­ terranei, sì che la volontà del singolo è abbracciata dal gruppo e rappresenta il gruppo (Dioniso appare quasi sempre circondato dal suo gruppo, il suo thiasos). Si in­ carna la coscienza del gruppo, di cui si governa l’anima (Signore) sentendosi dentro tutto ciò che si svolge nel 139

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gruppo, il quale vive una crescita e un decadimento ve­ getativi suoi propri: pulsa, invecchia. Dioniso era iden­ tificato con la linfa dei tralci, con i viticci della pianta, con il latte nutriente - i succhi creativi che sono l’ani­ ma di ogni sistema. Non si può controllare Dioniso, ma si può esercitare il controllo in modo dionisiaco, non separandoci da quell’inspiegabile forza capace di dare potere, che genera tutto mediante l’organizzazione e che, come ritmo vitale, ne è il vero scopo ultimo, la sua bottom line. Dopo tutto le organizzazioni sono or­ ganiche, come dice là parola stessa, proprio come le so­ cietà, le corporations (termine che deriva da corpus), so­ no corpi viventi. D a una prospettiva archetipica, o mitica, pare abba­ stanza evidente che le nostre idee sul controllo e l’im­ pegno fanatico che mettiamo nel tentativo di assume­ re il controllo, di mantenere il controllo e di non per­ dere il controllo, sia in noi stessi sia nelle organizzazio­ ni, derivano da un tentativo di padroneggiare Dioniso. Se ne sapessimo di più dei suoi doni e dei suoi modi, riusciremmo a penetrare meglio i misteri del suo culto e il valore della sua natura; potremmo cercare di con­ trollare meno e ottenere davvero più potere.

L ’uffìcio C ’è una forma di potere che non riguarda qualcuno in particolare; un potere che è al di là di ogni potere urnaI4O

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no e che spetta a una persona per il semplice fatto che assume una certa posizione. Il potere accompagna l’uf­ ficio. L’ufficio può essere nettamente distinto dalla ca­ pacità personale di chi lo ricopre. Un esempio di pote­ re dell’ufficio ci viene dai vicepresidenti degli Stati Uniti Spiro Agnew e Dan Quayle. Come persone, non rappresentavano affatto l’incarnazione delle doti tipi­ che del politico, eppure la vicepresidenza li rivestì del manto che deriva da un’ampia possibilità d’azione. La possibilità d’azione aumenta quando si è pro­ mossi a un ufficio più alto, anche se restiamo la stessa persona che eravamo prima della promozione. Alcuni, come Harry Truman, un altro vicepresidente, crebbero di statura quando salirono a un ufficio superiore. M a è l’ufficio a conferire alla persona il potere di riconosce­ re, di nominare, di decidere e di eseguire. Il nome sul­ la porta, le dimensioni della scrivania, la vista che si gode dalla finestra esprimono l’invisibile potere del­ l’ufficio reso visibile attraverso gli ornamenti accessori. D i qui la corona, la mazza, lo scettro, la mitra, il mar­ telletto del giudice e l’aereo presidenziale. Così come viene con l’ufficio, questa forma di pote­ re se ne va con l’ufficio. Il passaggio che avviene alla mezzanotte del 20 gennaio, quando il nuovo presiden­ te degli Stati Uniti presta giuramento, è un esempio perfetto dell’ascesa di un cittadino ai vertici, mentre l’altro, che non è stato rieletto, se ne torna privo di potere alla vita privata. Le persone vanno e vengono, mentre l’ufficio rimane, residuo consacrato del potere 141

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impersonale che obbliga chi lo ricopre a non disono­ rarlo o degradarlo. Tuttavia l’ufficio è soltanto una parte del potere. In realtà, come dimostra il nostro esame del linguaggio del potere, l’ufficio è semplicemente un fenomeno fra molti. Senza leadership, senza carisma, autorevolezza o ascendente, una persona può anche «avere un ufficio, una carica, ma non il potere», per usare la frase con cui Norman Lamont, ex cancelliere dello Scacchiere, aggredì il suo ex superiore, il primo ministro John Major, di fronte a una Camera dei Comuni gremita. Il significato primo della parola «ufficio» è quello di servizio, come per l’offertorio della Messa cattolica ro­ mana. In inglese, l’espressione «Postai Office» è inter­ cambiabile con «Postai Service». Nella casa di un tem­ po, prima che il catasto ne rivedesse la definizione, con l’espressione office si intendeva l’insieme degli am­ bienti riservati alla famiglia, come la cucina, la dispen­ sa, la lavanderia, ma anche i fabbricati annessi, come rimesse e latrine, insomma i locali di servizio. Il tipo di potere che viene con l’ufficio deve la sua forza a qualcosa che è al di là della descrizione del compito, del grado di servizio civile, del posto nella tabella dell’organizzazione, nei cui confronti siamo re­ sponsabili e che è responsabile nei nostri confronti. L’ufficio infatti suggerisce una trascendenza imperso­ nale che ti consacra temporaneo detentore di un posto che c’era prima e che ci sarà dopo che te ne sarai anda­ to, che ti consente di prestare un servizio allo Stato, al­ 142

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la collettività, alla Chiesa, a Dio, o all’azienda, quel corpo impersonale e indissolubile che ha sostituito i tipi precedenti di eterne, non umane, invisibilità. De­ tenere un ufficio significa essere al servizio di qualcosa che è al di sopra di noi. Quando si è in ufficio si è al servizio ed è per questo che l’ Oxford English Dictionary, al primo significato del termine, dice: «Qualcosa che si fa nei confronti di qualcuno; un servizio, una gentilezza, un’attenzione». A questo segue: «Un dovere nei confronti di altri; un obbligo morale. Un dovere legato alla propria condi­ zione, posizione o impiego...». Solo come ottavo signi­ ficato c’è: «Un luogo per il disbrigo di affari... dove viene eseguito il lavoro impiegatizio di un’istituzione». A volte è difficile ricordarsi di quei primi significati quando siamo seduti dentro l’ottavo significato. Sono arrivato alla convinzione che la chiave per svolgere il lavoro d’ufficio come un servizio sia il vec­ chio cestino delle pratiche in arrivo. (L’efficienza pro­ duttiva esige un cestino delle pratiche in partenza molto carico, perché questo è considerato un segno di leadership produttiva, mentre il cestino degli arrivi deve essere tenuto leggero, solo le cose essenziali atti­ nenti a ogni singola scrivania.) Il ricevere diventa sempre meno significativo per l’amministrazione, tan­ to che finisce per essere separato e personificato in un’umile impiegata addetta alla ricezione, pagata per selezionare le telefonate e coloro che telefonano, per apparire decorativa come il vaso di fiori sulla sua scri­ 143

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vania, e per proteggere il flusso produttivo dell’ammi­ nistrazione in direzione del cestino delle pratiche in partenza. «Non mi chiami; la chiamerò io» —ecco lo slogan del grande imprenditore. Il significato di ufficio come «dovere nei confronti di altri» è, invece, simboleggiato dagli strumenti della ricezione, dal fax alla sala d’attesa. Compiamo un ser­ vizio ricevendo, ascoltando le richieste degli altri. An­ che quando uno non agisce secondo ciò che è suggeri­ to e non accondiscende a ciò che è richiesto, il solo prestare ascolto tiene la porta aperta al sanctum dell’uf­ ficio. Il diventare, in senso figurato, la nostra stessa ad­ detta alla ricezione dimostra quell’attenzione e quella gentilezza che definiscono il significato originario e più profondo della parola ufficio.

I l prestigio Quando l’idea di ufficio perde il suo fondamento nel servizio, non ci resta che gente in cerca di un ufficio, e che ne esige tutti gli accessori esteriori per il potere che conferiscono: il prestigio. E la gente in cerca di un ufficio è una massa rabbiosa e affamata. Il presi­ dente Garfield fu ucciso proprio da uno che non era riuscito a ottenere quello che voleva. Così come c’è stato chi ha sparato agli ex compagni di lavoro e agli ex capi, e chi ha fatto saltare in aria l’edificio nel qua­ le lavorava. 1 44

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Nel linguaggio psicologico il prestigio è la vanità del narcisismo - l’essere ammirati rinforzando così un au­ tostima vacillante. D a notare che il prestigio non im­ plica l’essere degni di ammirazione o il guadagnarsela, ma semplicemente l’essere rassicurati sul valore perso­ nale dall’approvazione esterna conferita dall’ufficio. Tuttavia, prima di giudicare troppo severamente, dobbiamo guardare gli aspetti comuni di questo desi­ derio di riconoscimento da parte degli altri. Soltanto l’eroico solitario, soltanto chi persegue una missione o il servo sofferente di Dio può assumere su di sé dei compiti senza aspettarsi riconoscenza. Il riconosci­ mento da parte degli altri rientra nel feedback comu­ ne. In parte siamo come gli altri ci vedono. Dall’ester­ no ci viene un grande compenso in termini di potere. Il prestigio, invece, vuole soltanto fare impressione; non influenzare, dominare, controllare, e neppure operare un intervento di qualunque tipo, a meno che questo non aggiunga qualcosa all’impressione che su­ scita. In realtà i rischi che comporta il fare qualcosa, e magari non riuscirci, possono costare il prestigio e possono quindi trattenere la persona che è determina­ ta a mantenere il prestigio dal fare buona parte delle cose. Quando la motivazione è il prestigio e la sua conservazione, quanto meno si fa tanto più probabile è il successo, perché non hai rischiato niente che possa intaccare il tuo prestigio; ed essere all’altezza del com­ pito significa essere presenti fra le persone importanti nelle situazioni importanti. 145

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Allora il prestigio non è che un vuoto sostituto del potere? È probabile che nel nostro discorso non c’entri affatto. Osserviamolo un po’ più da vicino. Quando si parla, per esempio, di un prestigioso studio legale, di una galleria d’arte o di una cattedra universitaria pre­ stigiose, ormai intendiamo riferirci a dei luoghi di po­ tere, tanto che il potere può essere un’emanazione del prestigio, un suo derivato. Entra in quello studio lega­ le, esponi in quella galleria, ottieni quella cattedra, e subito vedrai aumentare il tuo potere. La scala del pre­ stigio consiglia: «Iscriviti alle associazioni giuste, fa’ parte di molti consigli d’amministrazione, fatti vedere con le persone giuste, fa’ in modo che il tuo nome compaia nell’elenco dei contribuenti importanti». Questa è la via al potere. Nota bene: questi sforzi non hanno nulla a che fare con il semplice significato di potere, «il prezzo al quale viene fatto il lavoro». In realtà può anche non essere stato fatto alcun lavoro. Quando si intervista qualcuno per una promozione o per qualcosa di nuovo da gestire, se per valutare i candidati ci si serve del modello eroico è possibile che qualcosa d’importante vada perduto. Il candidato mi­ gliore può non essere quello che vuole cambiare tutto, che vuole far piazza pulita e assumere il controllo. Quello, invece, che si informa sulle competenze ac­ cessorie, su chi saranno i suoi colleghi, e sul tempo che potrà restare per conto proprio, potrebbe rivelare una via insolita a un potere effettivo. La manipolazio­ ne del potere mediante l’esibizione del potere è an146

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eh’essa una forma di potere. È questo il segreto insito nel prestigio. Ancora una volta, è la parola a rivelare un segreto. Prestigio deriva da praestigium, inganno, illusione, nel senso del trucco di un prestigiatore, che porta poi ai significati di raggiro e impostura. Abbiamo l’illusione del potere senza averne la sostanza; non magia cari­ smatica ma manipolazione. Dunque, per scoprire dove regna il prestigio, vai a cercare l’imbroglio, l’inganno, l’ostentazione, le trappole, la spasmodica ricerca di af­ ferrare e mantenere l’ufficio, senza correre dei veri ri­ schi. M a sempre di potere si tratta. E perché? Come è possibile che il potere risieda nel­ l’attenzione superficiale e tutta centrata su di sé? C o­ me è possibile che qualcuno, privo di integrità interio­ re, riceva l’onore del prestigio? Risposta: grazie alle trappole dell’ufficio, grazie al ruolo che la leadership conferisce, grazie alla posizione di autorità; indossan­ do la maschera del potere, il prestigio utilizza il potere della maschera. La pittura rupestre dei primitivi, i volti dipinti degli aborigeni, il teatro greco e quello giapponese sono tut­ te dimostrazioni che la maschera contiene ed emana un’effettiva capacità di agire. A circondare la persona­ lità vuota della persona mossa dal prestigio c’è l’aura archetipica della maschera. Attraverso la maschera si rende presente qualcosa che va oltre l’umano, si recita un dramma più elevato e vengono evocati poteri più grandi. Questi poteri si materializzano attraverso l’at­ 1 47

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teggiamento, la voce, attraverso quanto colui che in­ dossa la maschera dice, e ne aumentano la statura, gli conferiscono importanza. Dentro questa persona (nel senso latino) potrebbe anche non esserci nessuno, o magari soltanto un modesto commediante che fa la parte del Mago di Oz; e tuttavia, anche se la si guarda dentro, anche se osservata in trasparenza quella perso­ na conserva una posizione di potere ottenuta soltanto con il prestigio. M a ancora, perché? Qual è il trucco del prestigiato­ re? Il modo migliore per acquistare prestigio non è quello di imitare la leadership o l’autorità, ma quello di avere un sottile fiuto per ciò che è importante e per chi è importante. Chi è dotato di prestigio raccoglie segua­ ci semplicemente andando dietro a ciò che è nell’aria, facendo attenzione a come soffia il vento, a quando è il momento di orientare le vele, di spostare il carico, di invertire la rotta, di mettersi al riparo. Essendo inte­ riormente vuote, queste persone sono in totale balia di forze esterne. Per questo sono capaci di percepire im­ mediatamente qualunque cosa importante sia nell’aria. Nella conversazione lui lascerà cadere dei nomi, lei farà commenti su eventi che gli altri si sono persi. Entrambi non si fanno mai sfuggire l’occasione di dimostrare quanto sono ben informati e di dare indicazioni su do­ ve avvengono le cose importanti. La condanna del prestigio come una falsa buona re­ putazione ha una lunga storia. Cicerone nel De officiis riferisce di una presunta nota di Socrate: «Fai di te il 148

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genere di uomo che vuoi che la gente creda tu sia». Questo consiglio spalanca la porta al prestigio, dal momento che la frase può essere interpretata come: «Cerca la buona reputazione giocando un ruolo, met­ tendoti la maschera». E quindi Cicerone ammonisce — del tutto invano, credo — che è un «grave equivoco» credere che una «buona reputazione duratura possa es­ sere ottenuta con la simulazione, con la vuota esibizio­ ne, con un parlare ipocrita, o assumendo un’espressio­ ne del volto non sincera...». Anche l’antico saggio può sbagliare, perché non è esattamente con questi mezzi manipolativi che il prestigio procura la buona reputa­ zione: sotto l’apparenza e l’inganno, c’è invece una straordinaria consapevolezza di importanza.

L ’esibizionismo Dato che il prestigio si mette in mostra, gli psicoanali­ sti sono tentati di individuare in esso il piacere sessuale dell’esibizionismo. La psicopatologia definisce l’esibi­ zionismo come una «impropria e/o compulsiva esibi­ zione dei genitali». Un significato secondario è ^ e s a ­ sperata ricerca di richiamare l’attenzione su di sé». Questo secondo, più ampio significato suggerisce che la persona nel suo insieme diventi genitalizzata, come le rockstar, da Elvis Presley a Mick Jagger fino a M a­ donna (o, all’opposto, degenitalizzata come Michael Jackson), e quindi affascinante. 14 9

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È possibile ottenere il potere con l’«esasperata ricer­ ca di richiamare l’attenzione su di sé», cogliendo ogni occasione per mettere in mostra quello che si è appena realizzato - celebrazioni, comunicati stampa, incontri speciali. Cosa penserà poi? Hai visto com’era vestita a quel ricevimento! Affascinante! Anche quando la psicopatologia qualifica il mettersi in mostra come inappropriato, compulsivo ed esaspe­ rato, una psicologia archetipica ritiene che l’aura ses­ suale che promana dall’esibizione affascinante appar­ tenga autenticamente al potere. Fascinum era l’espres­ sione classica latina per le rappresentazioni del pene. Fascinum si riferiva essenzialmente a un talismano apotropaico, a forma di genitale, usato per tenere lon­ tani il male e la cattiva sorte. I gesti osceni sul palcoscenico pop potrebbero rivelare qualcosa di più delle compulsioni personali della star. Anch’essi potrebbero essere esibizioni del potere che il sesso ha di tenere lontani i mali della repressione pruriginosa, che vor­ rebbe negare il potere genitale alla politica del corpo. L’ipocrisia, la censura e il freddo nascondere la nostra carne dentro il colletto abbottonato e dietro le labbra cucite della correttezza aziendale. «Se non sopporti il calore, stai alla larga dalla cuci­ na.» Questo slogan della Casa Bianca, che riguarda la capacità di assorbire le pressioni del potere, può essere tradotto così: «Se non vuoi mostrare il godimento ses­ suale, tienti lontano dalle luci della ribalta». Ogni posizione di potere — l’ufficio, la leadership, 150

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l’autorità, il prestigio - emette le vibrazioni dell’alta potenza: «Fai attenzione, sono una persona potente; riesco a mantenere una mansione importante». Se la manifestazione della potenza pertiene al potere, allora un modo per ottenere il potere potrebbe consistere nell’imboccare la strada del comportamento genitalizzato. Questo potrebbe rappresentare una spiegazione per alcune delle molestie sessuali sul posto di lavoro. L’esibizione della sessualità ha a che fare anche con la scena del potere, con la struttura del potere, con l’at­ mosfera di potere che oggi si respira sul posto di lavo­ ro, specialmente quando il potere è definito dal signi­ ficato repressivo del controllo. A questo punto è necessario fare un’importante di­ stinzione: all’esibizionismo non andrebbe dato un si­ gnificato soltanto genitale. La manifestazione sessuale è soltanto una forma specifica del generico manifestar­ si animale. Ancor più fondamentale, per la vita animale, dell’e­ sibizione sessuale - che per gli animali superiori è sta­ gionale, quindi non frequente —è il manifestarsi in sé. Anche gli organismi marini più semplici manifestano la loro natura; e fra i mammiferi, fin dagli inizi deboli e incerti della vita, colori e forme, mantelli e versi ca­ ratteristici manifestano la specie a cui appartengono. La vita si mette in mostra, fin dall’inizio. Quando parlo di manifestazione non mi riferisco soltanto a quelle elaborate esibizioni che gli animali mettono in atto per attrarre, per minacciare, per pro­ 151

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teggere e per marcare il territorio. Secondo Adolf Portmann, biologo e filosofo della natura, per la vita ani­ male l’auto-presentazione (Selbst-Darstellung) è d’im­ portanza primaria, quanto l’auto-conservazione. Noi consideriamo quello che fanno gli animali in modo soltanto funzionalistico, perché abbiamo imparato a pensare a essi all’interno di una struttura competitiva capitalistica, di scarsità e predazione. Portmann non è d’accordo. Sostiene che il manifestarsi non sia riduci­ bile a una qualche singola funzione, e che solo in par­ ticolari circostanze sia soltanto sessuale. Ciascuna spe­ cie mette in mostra il proprio stile per nessun altro scopo che non sia il manifestarsi (come avviene per il canto di alcuni uccelli), per manifestare la propria es­ senziale capacità e, forse, per il proprio piacere. Per noi, animali umani, questo implica che l’esibizionismo non sia soltanto un atto sessuale, ma una manifesta­ zione della nostra natura innata. L’esibizionismo ma­ nifesta il nostro potere: il tuo modo di entrare in scena mostra chi sei. Forse è così che Adamo, all’inizio della Bibbia, seppe il nome di ciascun animale. Essi gli mostrarono chi erano con il loro portamento, con la loro andatura im­ pettita, con le loro striature e le loro scaglie, sfoggiando il capo elaborato e i tratti del muso a un’estremità, e i posteriori maculati, scodinzolanti e odorosi all’estre­ mità opposta. «Eccomi» dicevano ad Adamo, «guarda­ mi dappertutto; osserva il mio genere di potere, che mi conferisce il nome che porto.» 152

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Anche noi animali umani siamo spinti a manifestar­ ci, se non direttamente, mediante l’esposizione fronta­ le, almeno attraverso gli abiti, il decoro dell’ufficio, l’acconciatura dei capelli, la cancelleria, il tipo di auto­ mobile, la gestualità, il comportamento, il modo di parlare, il profumo, le unghie, le scarpe - e attraverso le realizzazioni personali. Osserva il mio genere di po­ tere, che mi conferisce il nome che porto. Indipenden­ temente dalla cura con cui può essere sublimato, il po­ tere si mostra e si mette in mostra. Sembra provare piacere in sé e dar piacere a chi lo possiede. Il mostrar­ si come un eccitare sessualmente. M a l’eccitazione ses­ suale, lo ripeto, non è la radice del mostrarsi. Il mani­ festarsi, nel suo senso più ampio, profondo, è molto importante nella nostra natura animale. M a di nuovo è necessario fare una distinzione, per­ ché infatti non tutto il potere è costretto a mostrarsi. Dobbiamo distinguere fra esibizione del potere da una parte, e operazioni nascoste del potere dall’altra. Inter­ mediari del potere dietro le quinte; vecchi tirapiedi dei boss che, in stanze piene di fumo, si spartiscono il ter­ ritorio; anonimi trafficanti di armi, di cocaina e di po­ litica estera. L’esibizione non è il potere del guardaro­ ba, il potere paranoide, il potere del campo da golf, il potere di copertura. L’esibizione è la vistosa e generosa rappresentazione di sé attraverso certe brachette ma­ schili del XV e XVI secolo, o gli spacchi, o le imbottitu­ re che arrotondavano il didietro. Questo potere ac­ compagna l’alta moda e lo sfoggio, quell’eleganza che 153

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contraddistingue sempre pirati e bucanieri, condottie­ ri, pugili e giocatori d’azzardo di alto bordo, dive e re­ gine. È l’esibizionismo dei palazzi e dei condomini cit­ tadini in pietra, delle lunghe limousine, dei servitori in livrea e delle guardie del corpo. Io sono chi sono e voi sapete chi sono perché lo potete vedere —e questo è eccitante. Questo attrae non perché è sexy ma è sexy perché manifesta il potere che può proteggere contro la malasorte. Probabilmente oggi, nei corridoi discreti (gelidi?) del potere istituzionale, tutto quello che ci re­ sta della nostra personale dichiarazione esibizionistica è una zaffata di Brut o di Obsession. Lo stile al silico­ ne, oggi così di moda fra le nuove aziende a nicchie di mercato, dove è di rigore la nonchalance, conferma, in senso inverso, il mio modo di vedere. Che sia conte­ nuta e rigida oppure brillante, sciolta e comoda, un’a­ zienda possiede una sua forma, e rientra nel controllo che essa esercita sui propri membri l’influenzare il loro modo di presentarsi. La convenzione, oggi diffusa, di un comportamento asessuato sul posto di lavoro - forse neppure nuova, ma semplicemente lo stesso vecchio eroico puritanesi­ mo che fa la sua ciclica ricomparsa - asserisce che l’e­ ròtica del potere dev’essere completamente rimossa dai luoghi del potere, come gli uffici del Senato, la Mensa degli Ufficiali e i club dirigenziali. Questa repressione confonde il potere dell’esibizione sessuale con il potere della molestia sessuale - molestare i sottoposti con in­ tenzioni genitali e allo scopo di favori genitali. M a co­ 154

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loro per i quali oggi formuliamo la diagnosi di esibi­ zionismo non chiedono di portare a termine le loro intenzioni; non molestano le loro vittime allo scopo di ottenere favori genitali. Tutto quello che dicono è: «Guardami». Un istante, e via. Supponiamo invece che la naturale manifestazione animale del proprio potere, repressa da regole e codici, anziché eliminare le molestie sessuali non faccia che rinforzarle. Se la manifestazione di sé, che necessaria­ mente possiede un’aura erotica, viene immediatamen­ te tradotta in esposizione di sé, come ci si può mettere in mostra con il Grande Fratello che sta a guardare? E non sta a guardare come un voyeur incantato, ma co­ me il grigio fantasma del governatore del Massachu­ setts Bay Colony, quel persecutorio puritano america­ no che non riusciamo mai a seppellire. Probabilmente il voyeurismo (il piacere di guardare, che è equivalente al piacere di mostrarsi), così come il fare pensieri scon­ ci e come le pressioni costrittive che si accumulano sotto le formalità degli uffici, sono una faccia dell’uni­ ca medaglia sul cui rovescio si trova il fantasma del puritanesimo. Se la manifestazione del potere è ridotta a esibizionismo sessuale, tutti noi continueremo a comprare solide uniformi da L.L. Bean, che si assume il meritorio compito di eliminare ogni allusione eroti­ ca. M a la censura e la correttezza non funzionano, perché, come diceva Freud molto tempo fa, il rimosso torna sempre a galla e l’impulso a manifestarci ci mo­ lesterà con richieste sessuali sempre più dirette. E que­ 155

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sto per due ragioni: primo, perché ad alcuni generi di potere piace mettersi in mostra; secondo, perché il ses­ suale, anche se non è alla base del manifestarsi del po­ tere, è tuttavia fondamentale per il fascino che esercita il potere stesso.

L ’ambizione Il desiderio di ricoprire un ufficio, di ottenere potere, in qualunque forma, molto spesso viene biasimato, anche se coloro che reclutano il personale vanno in cerca di giovani laureati ambiziosi, desiderosi di intra­ prendere la scalata. L’ambizione è stata definita, non senza un certo sarcasmo, come «un protendersi oltre quello che si è in grado di afferrare», «un’aspirazione che va al di là della competenza». Oppure come hybris (l’eccesso di orgoglio), che per i Greci era forse il peg­ giore di tutti i difetti del carattere. L’orgoglio sfrenato della propria capacità: non c’è bisogno degli Dei; non c’è bisogno del consiglio di un maestro — è questa l’ambizione universalmente condannata nella lettera­ tura tragica e nell’epica. Cocaina, stimolanti e steroidi anabolizzanti sono esempi concreti dell 'hybris dell’am­ bizioso del nostro tempo. Dimostrano che una perfor­ mance artificialmente intensificata segue un modello davvero mitico —una straordinaria ascesa e una caduta catastrofica. L’unica saggezza che ci insegnano i rac­ conti classici è questa: ricordati dei limiti fino ai quali 156

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spingerti, limiti imposti ai mortali dagli immortali (il nome che i Greci davano alle loro divinità). Un canto tradizionale dell’Africa occidentale consi­ glia: Non cercare troppo la fama, ma non cercare l’oscurità. Sii fiero. Ma non ricordare al mondo le tue imprese. Eccelli quando puoi, ma non eccellere sul mondo. Molti eroi non sono ancora nati, molti sono già morti. Essere vivi, sì da udire questo canto, è una vittoria.3 Questa saggezza pratica mette in guardia dal cercare di raggiungere il paradiso — cosa che non fa che portare all’inferno. Mantieniti nei limiti del mondo presente. Restare vivi non è ambizione da poco. Quando però si esamina attentamente la parola «ambizione», si scopre che possiede alcuni aspetti posi­ tivi. Ambitus significa giro, circuito, circonferenza, corso. Ambizione come l’intero corso, tutt’intorno, fi­ no in fondo. A Roma ambire indicava l’andare in giro in cerca di voti di un candidato che aspirava a un officium, e questo porta al secondo significato di «solleci­

3. «Old Song», in The Rag and Bone Shop o f the Heart, a cura di R. Bly, J. Hillman e M. Meade, Harper/Collins, New York 1992, p. 498. 157

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tare», «blandire», tanto che una persona ambiziosa può essere descritta, in senso stretto, come uno alla ricerca di una carica. In senso più ampio, però, l’andare in gi­ ro allarga il cerchio e percorre, passo dopo passo (ambulatio), le dimensioni del nostro ambito personale, dandoci la misura di noi stessi. L’ambizione ci porta fi­ no ai nostri limiti, sull’orlo, come spiega il dizionario. Dell’ambizioso si dice che ha «fame» di potere. Le figure potenti del mito, come i giganti della Scandina­ via e i Titani della Grecia, e le figure gigantesche delle fiabe e dei cartoni animati di Walt Disney, così come pure Gargantua, il grande mangione del racconto di Rabelais, hanno tutti un appetito mostruoso: vogliono tutto quello che c’è al mondo. Il concetto comune­ mente diffuso di appetito è ristretto genericamente a impulsi quali la fame e la sete, tanto che la parola vei­ cola la paura di mettere su peso e di ubriacarsi; se ap­ profondiamo l’analisi, invece, scopriamo che il proten­ dersi e l’aspirare, propri dell’ambizione, rientrano nel­ l’ambito di significato della parola appetito, che deriva dal latino petere, che traduce, a sua volta, la parola gre­ ca orexix (da cui la nostra anoressia, mancanza di ap­ petito). Orexix significa desiderio, brama, e deriva da oregein che vuol dire protendersi con la mano, allun­ gare le dita per afferrare. Se approfondiamo ulteriormente, troviamo qualco­ sa di ancora più strano: petere, e quindi appetito, è pa­ rente di pteron, la parola greca che indica l’ala di un uccello, la cui struttura è analoga a quella delle dita 158

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umane. L’etimologia ci dice dunque che noi voliamo con l’immaginazione in mano per mezzo del nostro fare, del nostro agire (la prima definizione di potere come capacità, come fattualità). L’appetito dell’ambi­ zione ci solleva da terra e ci trasporta fino alla soglia dell’estrema possibilità. Forse, allora, i tentativi di controllare l’appetito con la dieta sono espedienti scientisti, privi di immaginazione, volti a ridurre le ali del desiderio e il potere dell’ambizione alle appropriate e corrette proporzioni del corsetto puritano. Insom­ nia, il controllo dell’appetito è un surrogato inconscio del controllo dell’ambizione. La paura di volare. Dunque, l’ambizione, nel senso più vero del termi­ ne, costringe a rischiare, a buttarsi. Nessuno può sape­ re in anticipo quanto sarà ampio il perimetro, quanto lontano ci porterà l’ambizione, fino a che non si è an­ dati troppo lontani e non si è stati definiti troppo am­ biziosi. È questo rischiare gli estremi che ci fa condan­ nare l’ambizione nella gente e, tuttavia, spesso ci indu­ ce a elogiarla in un’opera d’arte o in un programma politico. Un’intenzione ambiziosa aspira, pone a se stessa delle mete elevate e corre i rischi necessari. Sono le circostanze, gli altri, la riottosità delle cose e la dea Fortuna a porre i limiti all’ambizione. Noi ci diciamo che si tratta di un fatale difetto del carattere, di un er­ rore di calcolo, dell’incapacità di prevedere quello che stava avvenendo. Questa cautela a posteriori localizza l’ambizione completamente all’interno della persona, come se fosse una caratteristica da controllare, mentre 159

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qui l’aspetto cruciale è la natura sfrenata dell’ambizio­ ne, che spinge ad andare fino al limite. Oltre il limite c’è l’imprevedibile, e l’ambizione cerca, per sua stessa natura, di andare troppo lontano. L’autolimitazione mediante la forza di volontà, e il forte autocontrollo in funzione di freno, non tengono conto del senso in­ trinseco dell’ambizione, che deve andare oltre ogni migliore giudizio rischiando l’impossibile. Eccedere, rischiare l’eccesso. Come diceva William Blake in Pro­ verbs from Helb. «Non saprai mai cosa è sufficiente se non sai cosa è più che sufficiente». «La via dell’eccesso porta al palazzo della saggezza.»

L a reputazione John Adams, il secondo presidente nella storia degli Stati Uniti, un uomo capace anche se un po’ schivo e caparbio, ammetteva di avere una «passione per la di­ stinzione». Era questo che lo spingeva: nutriva l’ambi­ zione di essere riconosciuto. In un linguaggio più at­ tuale, la «passione per la distinzione» diventa la passio­ ne per la Fama. Fame is the Spur («La fama è lo spro­ ne») era il titolo di un romanzo di qualche anno fa. La fama, anche solo per un quarto d’ora, diceva Andy Warhol. Ricca e famosa è la carriera della fama. Con la parola fam a i Romani intendevano, innanzi tutto, «la voce della moltitudine», quello che dice la gente, le dicerie, i 160

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pettegolezzi, i detti tradizionali riguardo a una persona, un luogo o un soggetto. Un secondo significato, deri­ vato, di fam a è quello di «opinione pubblica», una fon­ te di informazione più obiettiva sul carattere di una persona, la quale, se la fama è buona, diventa «famosa», se cattiva, «infame» e «malfamata». Dietro le stravagan­ ze della fama, dietro l’ascesa e la caduta nell’opinione pubblica, c’era la figura di una dea, Fama, la fama per­ sonificata, quella «dal piede veloce, che tutto vede, che cresce via via che procede». Secondo la descrizione che ne fa Virgilio, procede con una velocità terribile, rag­ giungendo dimensioni mostruose, crescendo soprattut­ to di notte; il suo corpo è coperto di piume, ma anche di innumerevoli occhi, lingue, bocche e orecchi —l’ar­ mamentario della diceria. La fam a diventò «la reputazione» nel Rinascimento, quando assunse un ruolo importante nella psicologia della motivazione. Nelle grandi figure del Rinascimen­ to italiano, così come negli altrettanto grandi perso­ naggi di Shakespeare, troviamo che la fam a!reputazio­ ne era una preoccupazione primaria. Queste figure erano fermamente convinte che si dovesse tener sem­ pre conto della reputazione - di come essa si accresca attraverso azioni onorevoli, di come protegga dalla ca­ lunnia. Non vanno dimenticate le conseguenze disa­ strose che comporta una reputazione rovinata; conse­ guenze che non riguardano soltanto la carriera del sin­ golo ma che ricadono anche sui suoi soci, i colleghi, il partito, la famiglia, gli amici, la città. l6 l

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In modo particolare ne è coinvolta la città, che rap­ presenta il collettivo più allargato, sia esso il paese e la sua gente, una banca, oppure una pubblica istituzione come un tribunale o un’università, o un’azienda im­ portante come la Johnson & Johnson o la R.J. Rey­ nolds. Nel Riccardo I I di Shakespeare (il, 1, 50 sgg.), il vecchio Giovanni di Gand, in un celebre discorso, elo­ gia l’Inghilterra: «Questo luogo benedetto, questa ter­ ra, questo regno... questa terra di anime nobili, questa amatissima terra, / amata per la sua reputazione in tut­ to il mondo...». La potenza del paese è strettamente le­ gata alla sua reputazione, tanto che, se questa viene meno, anche la sua potenza decade. A quattro secoli di distanza dallo stile elevato con cui Shakespeare fa esprimere re e regine, sono il frastor­ nante battage del costruttore d’immagine, il lancio del pubblicitario a proteggere la nostra immagine, l’imma­ gine del Presidente e della Nazione. Come veniamo percepiti? Cosa dicono i sondaggi? Per mantenere lu­ stra l’immagine vengono impegnati somme enormi e cervelli brillanti. Una reputazione macchiata riduce perfino il credito che ti concedono le banche. Un esempio più personale, particolarmente perti­ nente, ci viene ancora da Shakespeare, dall 'Otello (il, 3, 262). Il luogotenente di Otello, il «buono», «fedele» e «valente» Cassio (che cade preda delle manipolazioni di Iago), nel momento più critico esclama: «Reputa­ zione, reputazione, reputazione! Oh! La mia reputa­ zione l’ho perduta. Ho perduto la parte immortale di 162

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me, e ciò che resta è bestiale. La mia reputazione, Ia­ go, la mia reputazione!». Quello che dice Cassio ci fornisce un indizio per comprendere meglio ciò cui John Adams aspirava con la sua «passione per la distinzione». La reputazio­ ne ha a che fare con la parte immortale dell’anima, che cerca di elevarsi dall’oscurità alla visibilità di fronte agli occhi del mondo. Le origini umili e pove­ re, un’infanzia oppressa e segnata di violenze, il diso­ nore di fronte alla folla, secondo l’idea espressa da Cassio, mantengono l’uomo nel mondo bestiale. Qui «bestiale» significa semplicemente non illuminato, preso nel vortice del comportamento istintuale, non redento dall’«angelo». La reputazione di una persona si ripercuote sul suo «angelo», quella parte di una persona che nasce con lei e l’accompagna lungo tutta la vita, pur rimanendo invisibile. E l’«angelo» a essere elevato o macchiato dalle nostre azioni, e si eleva op­ pure cade a seconda di come la nostra fam a si modifi­ ca. Cassio si lamenta a gran voce per la perdita del proprio «angelo» e per la conseguente perdita della propria anima. Se l’«angelo» cade, l’anima potrebbe aver perso la propria possibilità di redenzione. Vedia­ mo dunque che l’aspirazione alla fama e l’interesse per la buona reputazione — magari soltanto per ag­ giungere un altro misero punto al nostro curriculum —nascono da scaturigini spirituali profonde. Proprio perché la reputazione significa redenzione da una vita bassa, la passione per la distinzione è un richiamo 163

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dell’«angelo» che vuol essere portato alla luce, sia pu­ re alle luci della ribalta. Quello che chiamo «angelo», che è nato con noi ed è il nostro segreto compagno, Socrate lo chiamava daimon, quello che lo metteva in guardia di fronte a mosse sbagliate. La stessa figura compare nel pensiero tedesco come Doppelganger, e nel pensiero antico co­ me genius. La celebrazione del compleanno, con la torta e le candeline, trae origine da un rituale che in­ tendeva onorare non noi, ma il nostro genius, che con noi era nato. Noi non siamo dei genii, né potremo mai esserlo, ma un genius ci protegge e ci guida e ab­ biamo il dovere di condurre una vita che non lo dan­ neggi. Il danno che dalla reputazione ferita subisce il genius (e Cassio parla proprio di ferita, così come Giovanni di Gand parla di vergogna) si ripercuote so­ prattutto sulla famiglia, perché il nostro genius deri­ va, in parte, dalla famiglia, ed è generato nel letto matrimoniale di famiglia {lectus genialis). Il nostro ge­ nius, o «angelo», è concepito con noi, discende in noi attraverso coloro che ci generano, ed è come un ge­ mello, invisibile al momento della nascita, parte del nostro retaggio psichico. Oggi diremmo che il danno alla nostra immagine non si ripercuote solo su di noi, ma anche sui nostri allievi, sui nostri sostenitori, sui nostri apprendisti, quelli che un tempo sarebbero stati i nostri discenden­ ti e i nostri familiari. M a il danno alla nostra immagi­ ne fa sentire i suoi effetti anche sui nostri protettori, 164

Stili del potere

sui nostri maestri, su coloro che ci hanno incoraggiato e sostenuto finanziariamente, su quelli che un tempo avremmo chiamato i nostri antenati. Ciascun indivi­ duo, come punto focale di tutte queste forze, si pone come un perno del potere che lotta per mantenere in­ tatta la propria immagine, schierandosi con il proprio «angelo» interiore. «Sii vero, sincero con te stesso» am­ monisce il vecchio Polonio, che viene poi ucciso da Amleto in un’ironica dimostrazione di come Amleto sia «vero» con il proprio genere di follia. Questo «sé vero» è quello che oggi chiamiamo «angelo». Localiz­ zando questo «sé vero», questo «angelo», nell’intimo della nostra persona, sotto la nostra pelle, noi conside­ riamo la nostra immagine esteriore, e la sua reputazio­ ne, semplicemente una maschera, quello che la psico­ logia chiama «persona». La persona, dice la psicologia, non è certamente il sé vero. Quella maschera è solo un modo per adattarsi alle istituzioni della società, solo un ruolo e non il vero «me» interiore. Questo modo personale e privato di pensare la no­ stra immagine separa quello che facciamo nel mondo da quello che crediamo di essere veramente dentro di noi e in questo modo dimentichiamo che l’immagine apparentemente superficiale della persona è la faccia esteriore di quel sé che effettivamente e veramente sia­ mo. Il mallo e il guscio fanno parte della noce intera così come il gheriglio. E il valore della noce è dato dal desiderio che la società ha di essa. Una buona noce ha una buona reputazione. Il suo valore dipende almeno 165

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in parte dall’opinione popolare. Lasciata a se stessa, per quanto buono possa essere il gheriglio, resterebbe sull’albero a seccare. «Essere vuol dire essere percepito» diceva Berkeley. Denigrare il volto che la società perce­ pisce, sentirsi al di sopra della propria reputazione e di «quello che si dice che siamo», rivela disprezzo sia per il giudizio degli altri sia per l’«angelo» che vive tanto nelle nostre azioni con gli altri quanto nell’opinione che abbiamo di noi stessi. La convinzione che V ange­ lo» viva soltanto nel gheriglio rende molto difficile «vedere noi stessi come ci vedono gli altri». L’opinione popolare può essere manipolata, gli spin doctors —coloro che riescono a orientare l’opinione pub­ blica in una determinata direzione —possono falsare le immagini, ridurre il vero sé a uno spot; e tuttavia ciò che dicono i sondaggi e il valore del tuo vero sé sono strettamente legati, proprio come quello che la nostra famiglia pensa di noi e quello che noi pensiamo di noi stessi non sono così distanti quanto la nostra illusoria grandeur di indipendenza vorrebbe farci credere. Il no­ stro genio è anche il loro. Il tuo «angelo» non è soltanto tuo, benché tu lo possieda. La mela non cade poi tanto lontano dall’albero. È per questo che i vincitori di una gara sportiva di­ cono in televisione: «Ciao mamma, ciao papà»; è per questo che ringraziano la famiglia e vogliono i genitori sul palco durante i festeggiamenti; è per questo che di­ cono: «Tutto quello che sono lo devo alla mia fami­ glia». Non alla famiglia in sé, ma al genius, all’angelo 1 66

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guida che dà la passione per la distinzione e spinge una persona dalla tenebra bestiale che è l’oscurità ver­ so le luci della ribalta. Riscattandola, sia pure solo per un quarto d’ora.

L ’ascendente L’ascendente, la capacità di influenzare, da un lato può essere un fluire fecondo nella vita di altri un insemina­ re un’organizzazione senza che gli altri, siano direttamente subordinati, dall’altro, però, può essere un infil­ trarsi subdolo negli altri mediante la propaganda, i premi, le punizioni, le manipolazioni. Che lo si consi­ deri nel suo aspetto positivo o in quello negativo, in entrambi i casi l’influenzamento è immaginato come un’attività. Tu sei sotto la mia influenza. Io ho influen­ za nelle alte sfere. Ti sono grato perché hai influenzato la mia carriera nella direzione giusta. Un’altra idea di ascendente è molto meno attiva. Si può influenzare semplicemente mantenendo una posi­ zione, dei principi, un modo di essere con il quale tut­ to ciò che ci circonda deve fare i conti. Non è più una questione di influenza buona o cattiva, quanto di in­ fluenzare, con la nostra sola presenza, tutti gli eventi, via via che le cose fluiscono intorno a noi, attraverso di noi e per mezzo nostro. È come un masso nel letto di un fiume: non si muove, e tuttavia influisce sul corso del fiume. Il fiume deve tenerne conto —deve girargli 167

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intorno, passarci sopra, aumentare la velocità o rallen­ tarla proprio per l’ostinata presenza di quella pietra. La pietra non manipola il fiume, né lo convince a condivi­ dere la sua ideologia. Non ha alcun controllo su quan­ to avviene. Dice semplicemente: ci sono anch’io. Probabilmente questo è un utile modo di leggere quel caparbio, difensivo restare aggrappati alla carica di coloro che non vogliono dimettersi anche quando la battaglia è perduta. Se immagino me stesso come una pietra nel letto di un fiume, accetterò che mi si passi sempre sopra, ma non di venir trascinato via. Accetterò di essere sommerso, sconfitto dalla furia degli eventi e di essere subordinato a forze attive superiori; ma quan­ do la piena è finita e arriva la stagione secca, io sono ancora lì, più che mai. Io aderisco al mio terreno, io sono il mio territorio. Non mi dimetterò dal mio inca­ rico, perché sono per natura rassegnato al fatto che il mio potere risiede proprio nell’affondare fino al livello più basso del mio posto. Soltanto con il continuo ap­ profondimento (non con l’adattamento), e rendendo la mia posizione sempre più pesante, potrà essere affer­ mata la mia influenza nell’insieme della geografia. Un’idea più elevata di ascendente è quella che ci viene da Henry Adams (1838-1918), il quale afferma­ va che «la genialità più alta è la ricettività nei confron­ ti delle forze più alte». In questo caso il potere dell’a­ scendente si allontana completamente dall’effetto che io produco su di te, o tu su di me. Qui ascendente vuol dire ricettività, la capacità di accogliere queste 168

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«forze più alte». M a cosa sono, e chi sono queste forze? I membri di un consiglio di amministrazione, i sena­ tori, gli esponenti di qualche lobby, con ampie riserve finanziarie a disposizione? O piuttosto gli scritti degli antichi filosofi e le visitazioni di sogni illuminanti? Per essere aperti all’influenzamento del tipo che rac­ comanda Adams bisogna, prima di tutto, avere ben chiaro quali riteniamo essere le «forze più alte», e in secondo luogo bisogna affinare la nostra ricettività in modo da essere in grado di filtrare tutte le informazio­ ni che arrivano. I vecchi teologi chiamavano questa opera di filtrazione diakrisis, il discernere le condizioni spirituali. Essi ritenevano che senza il discernimento si diventa vittime del demonio. Il discernimento consen­ te invece di essere più raffinati nei confronti delle for­ ze, più capaci di intenderle metaforicamente, non alla lettera, in modo da non farci meramente portavoce del nostro maestro, del nostro mentore o di un qual­ che canale di saggezza visionaria mascherata da genio.

L a resistenza L’idea di influenzamento, così come l’abbiamo appena delineata, confluisce facilmente in un altro genere di potere, il potere di resistere. Senza la resistenza non si capisce la subordinazione, perché non c’è nulla da sotto-porre. La forza di volontà, il potere della volontà, deve cozzare contro qualcosa, deve esercitare pressione 169

IL POTERE

su qualcosa o su qualcuno intorno. La semplice idea di potere presuppone che, perché il lavoro venga esegui­ to, ci sia qualcosa che resiste. Il superamento della re­ sistenza e l’abbassamento della resistenza sono concetti importanti per il riscaldamento, per l’elettricità, ma anche per la psicoanalisi. Sembra che la resistenza, in quanto fenomeno opposto all’esercizio del potere, ren­ da possibile il potere. Abbiamo già visto questo con­ cetto in relazione al controllo, che deriva da contra rotulus, contro il rotolare dell’inerzia. Il potere, se non c’è la resistenza di una contro-forza, mima l’inerzia al­ la quale si oppone, diventando un’espansione senza impedimenti, priva di tensione, seguendo la disposi­ zione del terreno, appiattendosi in accumuli stagnanti privi d’intenzione, un po’ come le raffigurazioni di certi despoti adagiati su gonfi cuscini, nelle loro stanze di piacere, quando ogni resistenza a questi plenipoten­ ziari è venuta meno. Per questo motivo le rivoluzioni non aspirano real­ mente all’utopia, ma cercano invece la rivoluzione perpetua, una lotta continua fra rivoluzionari e con­ trorivoluzionari, quelle ostinate sacche di resistenza che mantengono in vita la rivoluzione. La resistenza, inoltre, sembra essere parte costitutiva dell’universo: sembra che ogni singola cosa voglia ri­ manere dovè ed esattamente com’è, perché è così che è. Un tempo veniva chiamata «causa formale», la natu­ ra essenziale, che dà a ogni singola cosa il potere inter­ no di esistere. Sembra che il mondo ami lo status quo: I7O

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oppone resistenza al cambiamento, nonostante i misti­ ci dicano del cambiamento che è l’unica verità, e no­ nostante i fisici nucleari affermino che il moto delle onde e delle particelle è la fluttuante instabilità all’interno di ogni sostanza solida. Secondo Spinoza, la so­ stanza vuole persistere; la resistenza è costitutiva della sua stessa natura. Secondo Bergson, perché una cosa possa anche soltanto esistere deve durare nel tempo. Deve, in un qualche modo, rimanere la medesima. Il concetto di «medesimo» è una delle grandi categorie dell’esistenza, e per averne la prova basta osservare la nostra stessa vita: da una parte è possibile riconoscere tutti i cambiamenti e le differenze da dieci anni a que­ sta parte, dall’altra possiamo sentire che la nostra per­ sonalità, la nostra natura, i nostri modi, sono quelli di sempre. Un nuovo lavoro, nuove idee, una nuova città — tutto differente; eppure, se ti capita di incontrare tuo padre, o l’ex coniuge, ti accorgi di essere al punto di sempre —tutto è rimasto lo stesso. Quanta forza, quanto potere ci vuole per cambiare un’abitudine - lo hanno dimostrato i gruppi di recu­ pero degli Alcolisti Anonimi; proprio come ci vuole forza, potere per spostare un qualunque oggetto da qui a lì. Non meraviglia allora che il potere possa esse­ re definito, in modo estremamente semplice, in termi­ ni di lavoro eseguito. Il lavoro è così duro, la forza che richiede è così grande proprio per il fattore resistenza. È per questo che è così difficile ottenere dei cambia­ menti, ed è un miracolo quando avvengono. E per lo

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stesso motivo che un cambiamento rapido è sospetto, perché se non si è modificato il modello stesso della resistenza, il cambiamento rimane un’imbiancatura, una carta da parati: il muro di pietra che c’è sotto resta bloccato nella sua stasi e vuole restare così. È probabile che gestire una qualsiasi cosa —un com­ pito, una persona, la propria vita - voglia fondamen­ talmente dire avere a che fare con la sua resistenza in­ trinseca, e noi utilizziamo ogni possibile mezzo di po­ tere: l’influenza, la tirannia, la persuasione, la paura e il controllo. Il manager deve lavorare contro la resi­ stenza del suo staff, contro l’ostinazione dei problemi che non vogliono sparire, contro la forza di vendita che resta attaccata alle sue forme, e infine contro la re­ sistenza del compratore nei confronti del prodotto. Per non parlare della sua personale inerzia. C ’è resi­ stenza su tutta la linea. C ’è qualcosa, in ogni sistema, che vuole rimanere uguale. Quando difendiamo il nostro orticello, e diventiamo caparbi come muli anziché assecondare le regole nuove, nell’insieme del modello si sta mettendo in atto qualco­ sa di più vasto della mia semplice, personale caparbietà. Un facile adattamento alle regole può sembrare il corso più fluido, più agevole per il sistema nel suo insieme. Credere però che il sistema funzioni al meglio quanto più scorre liscio è un modello semplicistico, come il modello infantile che riconosce il genitore ideale in quello che non crea difficoltà. La potenza, il potere, vuole la difficoltà; il potere, come gioco di forze, ama i

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complessi riluttanti, che non vogliono sottomettersi, il componente del team che non vuole semplicemente adattarsi, il figlio disobbediente che mette in discussio­ ne le decisioni. Questo tipo di componenti, in qualun­ que sistema, serve alla potenza dell’insieme, mantenen­ dolo in uno stato di tensione elevata. In qualsiasi siste­ ma, sia esso un’azienda, una famiglia, o il meccanismo interiore della psiche umana, un no deciso, detto per il bene dell’insieme, può servire al bene dell’insieme e ad accrescerne la potenza anche più di un compiacente sì.

L a leadership Per descrivere la leadership si ricorre di norma a me­ tafore e a modelli ricavati dal mondo animale. Fra que­ sti modelli il più conosciuto è quello dell’«animale al­ fa», il grosso maschio che guida il branco in virtù della sua innata scaltrezza, delle sue dimensioni e della sua forza. Questo leader, come dimostrano certi cortili e certi laboratori universitari, non è necessariamente un maschio. Le galline, infatti, sono capaci di uccidere i galli. Il modello dell’animale alfa si basa sul concetto di potere come dominazione, e trascura il fatto che esistono una dozzina di modi di essere guida, come il­ lustra il comportamento degli animali femmina: la giovane alce esegue una danza per guadagnarsi l’atten­ zione del maschio e l’ingresso nel suo gruppo; la fem­ mina del coccodrillo sceglie il proprio compagno rifiu­ 173

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tando le avance degli altri; le leonesse cacciano insie­ me per procurarsi la preda; le mucche possono guidare la mandria al pascolo estivo sulle pendici alpine. Quin­ di, come prima cosa, sgombriamo l’idea di leadership dalle immagini del più grosso, del più coraggioso, del più muscoloso. Tuttavia, osservando i documentari sulla natura tra­ smessi dalla televisione, siamo portati a identificare i leader nell’awoltoio che dà inizio alla carneficina, nel grosso lupo che sottomette i giovani maschi che lo sfi­ dano. Presi dal fascino delle immagini, dimentichiamo che stiamo osservando ben più che degli animali: stia­ mo osservando noi stessi inseriti in una narrazione che segue le linee della filosofia economica umana. Gli uo­ mini, in realtà, non fanno solo da sfondo. Dalle favole di Esopo ai cartoni animati di Walt Disney, gli animali diventano spesso facili prototipi delle idee umane, e il modo di presentare la natura da parte dei media si conforma di più al mondo degli anni Ottanta illustra­ to da Falcon Crest o da D allas che a quello dominato davvero dalla legge della giungla o dal richiamo della foresta. Dagli animali che vediamo alla televisione, quindi, distilliamo l’idea di leadership: il potere come preda­ zione, come competizione, come pericolo sempre pre­ sente (paranoia), come dominio e possesso sessuali, come minaccia, allarme, tensione e stress, come so­ pravvivenza dei più adatti in un ambiente ostile, come scarsità. Se non ci fosse il parlato, in realtà potremmo 174

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«sentire» che le immagini ci raccontano un’altra storia: una storia di collaborazione, di limitazione, di gioco e di adattamento, e perfino di piacere e di bellezza. E di leadership, come essere in armonia e come seguire l’in­ nata volontà del gruppo, anziché cercare di dominarlo. Ogni cultura proietta sugli animali i propri miti. Un’idea abbastanza trasparente, quando gli antropologi riferiscono delle credenze tribali dell’Australia e dell’Africa. Molto più difficile è scorgere i miti nei nostri re­ soconti sul comportamento animale, che chiamiamo osservazione scientifica. Noi crediamo di limitarci a os­ servare dei fatti, ma la sistemazione che a essi conferia­ mo rivela le idee, e i fatti e le idee sono raccolti insieme secondo griglie mitiche, che sono particolarmente po­ tenti quando osserviamo una qualunque cosa che non comunica nel nostro linguaggio, come i bambini picco­ li, gli stranieri, i malati di mente, i ritardati e gli anima­ li. Eppure, quante idee sulla «vera natura» degli esseri umani sono ricavate proprio dall’osservazione della di­ mensione selvaggia! La prossima volta che alla televisio­ ne danno un programma sulla natura, provate a toglie­ re l’audio e a osservare le idee che evoca nella vostra mente quella parata di immagini. Dopo questa decisa denuncia, che dovrebbe inficia­ re quello che sto per dire in questo paragrafo, anch’io voglio servirmi delle metafore di animali per suggerire un’idea di leadership come potere naturale non appre­ so: il «leader nato». Ci sono dei cavalli che in pista non permettono a un altro cavallo di superarli. I caval­ 175

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li di una carovana devono essere disposti in un ordine preciso altrimenti alcuni si rifiuteranno di seguire, mentre altri staranno sempre a mordere la coda del ca­ vallo che li precede. Alcuni gattini, anche se più picco­ li alla nascita, ben presto riescono a raggiungere prima degli altri il capezzolo. Si dimostrano più curiosi, più avventurosi - oppure il loro appetito è più impellente. Il leader non può che andare avanti e non può che es­ sere spinto avanti da altri, che intuitivamente ricono­ scono la leadership e si sottomettono a una struttura gerarchica, l’organizzazione sociale. L’animale si presta particolarmente bene a illustrare la qualità della leadership, che unisce pensiero e azione in un unico gesto. Concepisco l’intelligenza animale più come una forma di comportamento che come for­ ma di riflessione. Non credo che gli animali soffrano del difetto di cui soffriva Amleto, nel quale «la deter­ minazione [della volontà] / si estenua scolorata, con l’ombra esangue del pensiero». Come Amleto, noi umani civilizzati soffriamo la scissione fra pensiero e azione —le azioni avventate di cui poi ci si rammarica, e quella paralisi dell’azione dove ogni capacità si con­ suma nel soppesare ciascun singolo atto, un soppesare che non arriva mai a una conclusione. Perché ci viene insegnato che la divisione fra pensie­ ro e azione è naturale e necessaria? Per esempio, il ci­ clo della pianificazione razionale di un’organizzazione si sposta avanti e indietro dall’impegno alla riflessione e poi di nuovo all’impegno. Ci viene insegnato che 176

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impariamo dagli errori che facciamo, secondo il siste­ ma tentativo-ed-errore del miglioramento evolutivo. Anche la psicologia del profondo accetta questa idea della separazione fra pensiero e azione. Portiamo nello studio dell’analista le nostre azioni di ieri per rifletterci sopra, e riflettiamo in anticipo sulle azioni di domani. I Francesi hanno un’espressione che coglie con effi­ cacia, in un’immagine, i sentimenti spiacevoli legati a questa scissione: l ’esprit de l ’escalier, lo spirito delle sca­ le, quel momento in cui, appena lasciata la stanza, mentre stai già scendendo le scale, ti viene in mente ormai troppo tardi - quello che avresti potuto fare, che avresti potuto dire, quello che faresti se ti fosse da­ ta un’altra possibilità. Il pensiero che segue l’azione non sincronizzata. L’inglese vittoriano lo chiamava after-wit, intelligenza a posteriori. Lo scopo dell’intera vita, allora, potrebbe non essere altro che il supera­ mento di questa amletica disgiunzione, sul modello del maestro Zen o degli animali. Lo scoiattolo salta, il gatto scatta, il falco si libra in alto, volteggia e poi si tuffa in picchiata: la situazione fornisce ai sensi dell’animale l’informazione esatta che gli serve per l’istantaneità di pensiero e azione. Non tanto riflessione, quanto riflesso. Il senso animale che il leader possiede legge la situazione con l’attenzione intensa e concentrata del gatto e del falco. La leadership, dunque, richiede probabilmente qual­ cosa di più delle consuete qualità della determinazione, della capacità di ascoltare tutte le parti e coordinarle fra 177

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loro, del coraggio di un comportamento capace di ri­ schiare, così come delle virtù morali che si possono ap­ prendere nel manuale dei boy-scout o in un testo di management. Queste qualità vanno tutte benissimo, ma probabilmente l’essenza della leadership risiede piuttosto nella capacità di sconfiggere in un attimo lo spettro di Amleto, che è lo «spirito delle scale». E il po­ tere del leader risiederebbe dunque in un’intelligenza agita, definita come un’attenzione eccezionalmente ben sintonizzata, immediatamente collegata a una risposta riflessa. Quindi chiunque aspiri alla leadership potrà imparare di più in un campo di pallacanestro o mentre pesca con la lenza che in una scuola per dirigenti di azienda, perché il grosso compito è quello di avvicinare sempre di più i due poteri che la nostra cultura amleti­ ca, con il suo «animale interiore» ferito (più che il «bambino interiore» violentato), continua a separare: il pensiero e l’azione. Apparentemente, l’azione più elevata è la riflessione sull’azione. È questo l’insegnamento del Taoismo, del­ la Bhagavad-Gita dell’Induismo, dei sermoni di Gesù e delle Lettere di san Paolo. La riflessione, prima o do­ po l’azione, è anche quanto avviene in psicoterapia; quindi il mio modello, che unisce le due cose nel mo­ mento unico del riflesso, non è soltanto eretico nei confronti di buona parte dell’insegnamento tradizio­ nale, ma è anche pericoloso, perché l’atto animale re­ pentino che si propone come un vero e proprio rifles­ so, in realtà può semplicemente mascherare un grosso­ 17 8

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lano impulso che si autogiustifica come istinto. Quin­ di, non tutto quello che facciamo repentinamente e senza pensarci è come il salto di uno scoiattolo da un ramo all’altro. Lo scoiattolo ha presente tutta la situa­ zione che lo circonda. Magari non sembra che guardi prima di saltare, ma sicuramente guarda e salta simul­ taneamente. L’azione non premeditata può essere un segno caratteristico del leader, ma può essere a doppio taglio. A volte, botte, stupri, scazzottate, suicidi e omi­ cidi sono altrettanto spontanei del tuffarsi in un lago gelato per salvare la vita di un bambino. Probabilmente il mistero della leadership ha ben poco a che fare con l’eroismo, con l’ambizione, con l’influenza. E forse neppure con l’autorità che deriva da un vasto riconoscimento, da parte degli altri, della nostra competenza e del nostro giudizio. Si può avere autorità e non essere un leader, e l’espressione hidden leader, leader occulto, esprime proprio questa distin­ zione. Il leader occulto, di un’organizzazione o di un incontro, non stabilisce l’ordine del giorno, non forza le decisioni, né mette in atto il programma. Il leader occulto non comanda, anche se la sua autorità orienta la discussione, dal principio alla fine, in una direzione ben precisa. L’unica qualità estremamente preziosa del leader oc­ culto è, ancora una volta, un tratto animale: resta na­ scosto, come una murena, osservando e aspettando il momento giusto, il kairos, il nome che i Greci davano al momento opportuno. Secondo Machiavelli esiste 179

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un solo momento propizio, l’occasione, in cui il leader può manovrare le complesse cause del Fato e della Fortuna. Questa capacità di saper riconoscere Yoccasio­ ne è cruciale per l’esercizio della leadership e gli confe­ risce potere sulle circostanze. In un incontro, è pro­ prio la scelta del momento in cui intervenire a capo­ volgere le sorti. Il leader occulto non solo nasconde la mano, ma anticipa anche quello che è nell’aria, ha un fiuto speciale per ciò che non si vede, che è nascosto, che il presidente e i membri del comitato di presiden­ za, presi dai loro ordini del giorno e dai loro incarichi, non possono percepire. Il grosso maschio dell’antilope mette in moto il branco una frazione di secondo pri­ ma che gli altri si accorgano del pericolo: è sintonizza­ to con ciò che è nascosto. Dal momento che, come stiamo sostenendo, lea­ der si nasce e non si diventa, è possibile che il leader giunga in primo piano senza essere passato attraverso alcun test. Può non avere medaglie, né riconosci­ menti appesi alle pareti. Può non aver mai ricevuto alcuna onorificenza. Le fiabe, che parlano del piccolo sarto, del soldato zoppo, della fanciulla senza mani o della terza sorella malaticcia e del bambino abbando­ nato, così come i film con un James Stewart indeci­ so, un Henry Fonda sensibile e un Gary Cooper ti­ mido e laconico, ci presentano dei leader che posso­ no essere modesti, impacciati, ritrosi, perfino spaven­ tati, e che tuttavia, quando la situazione lo richiede, sanno mettersi in luce. Com e avviene con il meCCa­ 1 80

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nismo innato che fa scattare gli animali, la leadership è suscitata dalle circostanze. La persona si dimostra all’altezza della situazione e il gruppo si mette in fila dietro di lei. Risolve l’enigma risolvendo la crisi per la comunità. L’uomo solo sul suo cavallo e la brava principessa nella sua torre non sono leader perché non hanno una comunità e non sono al servizio di alcun seguito. Questa idea di leadership può essere l’istigatore se­ greto che accende l’ambizione, che pretende la carica e resiste all’adattamento. E nella natura del cavallo e del gattino, e vuole uscir fuori. Se questo impeto animale non viene assecondato, se l’ambiente non offre occa­ sioni, l’impulso frustrato si sposta in direzione di van­ taggi secondari. Tentiamo allora dei surrogati, la pseu­ doleadership del prestigio, il suscitare paura, oppure l’altezzoso purismo di chi è «troppo buono per farsi avanti». Per alcuni l’occasione di essere leader può arri­ vare troppo tardi, o non arrivare affatto, e questa ne­ cessità di adempiere una funzione animale, se non soddisfatta, può causare in età avanzata una sofferenza maggiore di ogni passato fallimento o misfatto. Anche se io, per descrivere la natura della leader­ ship, mi affido alle metafore di animali, non dobbia­ mo dimenticare che i leader sono l’incarnazione di idee. N é la benedizione o la maledizione del carisma, né la sicurezza istintiva della decisione, garantiscono a un leader tutte le altre cose necessarie per un risultato efficace. Quello che in definitiva conferisce il potere 18 1

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della leadership è la capacità di incarnare idee visiona­ rie, di non aver paura degli ideali. Molti posseggono i tratti di una personalità forte, ma a pochi è dato di rappresentare ed esprimere degli ideali. È proprio qui che l’idea di leadership trascende il suo fondamento animale nell’azione riflessa, e afferma un secondo fon­ damento spirituale nel bisogno che ha la psiche di idealizzare, di immaginare il lontano e il meraviglioso, di lasciarsi catturare dalla visione. L’idealismo è un po­ tere immenso, capace di mobilitare interi popoli, inte­ ri continenti, e quando è presente in una figura uma­ na vivente, come Simón Bolívar o Lenin, la leadership diventa strumento della storia.

L a concentrazione Per trovare immagini di un potere concentrato, possia­ mo iniziare col guardare vecchi film: la scena della bi­ blioteca rivestita di legno di quercia, dove la malvagia vedova possiede adesso tutto il capitale dell’azienda; il tetro magnate, solo nel suo vagone ferroviario; il boss mafioso, con la bocca serrata sotto il cappello nero, che dà le spalle alla parete del ristorante; il maestro di kung-fu, totalmente concentrato; il paranoide nemico di James Bond, isolato e invincibile, punto focale di un impero mondiale; il fragile insegnante tutto chiesa, la cui tenace determinazione riesce a far spostare il confine. Oppure, immaginiamo la scultura di Rodin, 182

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Il pensatore — quale concentrazione in quella testa, in quel pugno! Immagini del potere. Oggigiorno, nei testi di business, la concentrazione del potere non riceve molta considerazione. Un gover­ no, un comitato o un’azienda sono considerati su una cattiva strada, dal punto di vista manageriale, quando il potere è concentrato in un numero di mani troppo limitato. Il potere deve essere decentrato fra più sotto­ insiemi, ciascuno con una propria capacità decisionale e una propria autonomia riguardo alla produzione del profitto. I centri di potere devono essere distaccati, l’attribuzione del potere deve essere suddivisa. Le coo­ perative, i gruppi di lavoro, i dipendenti-azionisti, i colloqui invece delle direttive. I network. Il network, oggi, sostituisce la turbina come imma­ gine di amministrazione. Le nuove immagini del pote­ re non sono la massiccia dinamo costituita di fitte spi­ rali tenacemente avvolte su se stesse, e neppure le la­ mine al silicone strettamente compresse, ma piuttosto le immagini del fluire, del feedback, dell’energia distri­ butiva, del parlare con tutti, di collegi elettorali equili­ brati, della distribuzione —un indeterminato campo di forze quasi casuali. Non il cuore ma i capillari. «Vanno in pezzi le cose; il centro non regge; / Mera anarchia si riversa sul mondo»: questi famosi versi del poeta irlandese William Butler Yeats, che agli inizi del XX secolo profetizzavano gli orrori della civiltà occi­ dentale, lasciavano presagire anche le teorie del caos e della catastrofe della seconda parte del secolo, teorie 183

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che svuotano il centro a favore dell’innovazione creati­ va, lasciando libera l’iniziativa di trovarsi la propria nicchia di mercato e fare le proprie cose in qualunque modo si voglia. Il centro non dovrebbe reggere, in mo­ do che le cose possano davvero andare in pezzi. Tutto quello che ci serve è l’accesso, garantito dalle compati­ bilità. Il collegamento Internet, ecco dove risiede oggi il potere. Il potere entra in ciascuno di noi quando ci si inse­ risce, o meglio, il potere è l’essere inseriti, perché non esiste un unico «generatore». La concentrazione che il «pensare» richiede piano piano cede il passo all’«essere in contatto». Nonostante queste tendenze, la concentrazione re­ sta, decisamente, una propensione della mente uma­ na. C ’è qualcosa della mente umana che gode di una focalizzata immersione in se stessa. Prendere accurata­ mente in considerazione una singola questione, valu­ tare le opzioni e stabilire le priorità, preparare un pro­ gramma intelligente, ascoltare senza distrarsi, osserva­ re, applicarsi, analizzare, rimuginare —tutto questo ri­ chiede un potere della mente che va oltre l’assunzione di collaboratori e i briefing di esperti. Poirot, l’investi­ gatore belga protagonista dei romanzi di Agatha Chri­ stie, parlava di questa capacità come delle sue «piccole cellule grigie», espressione con cui alludeva non alla semplice perspicacia, ma alla capacità di concentrarsi completamente sui complicati enigmi del crimine, le circostanze, i personaggi, i moventi, gli alibi. Il tutto, 184

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tenuto insieme nell’intensità del pensiero, che porta a colpi di scena magistrali. M i è venuta in mente la possibilità di una relazione fra la mancanza di concentrazione dei ragazzi a scuola, che la psichiatria chiama «disturbo da deficit di atten­ zione», e il ricorso sempre più frequente alle armi che si riscontra tra quegli stessi ragazzi. Il potere intenso e concentrato di un’arma - una pistola, un coltello, una mazza, una catena —può costituire uno scopo unitario per una coscienza predisposta alla distrazione e alla di­ spersione, che fa zapping con la propria giornata, tutti i canali allo stesso tempo. Se, come io penso, la psiche desidera concentrarsi, allora un’arma può soddisfare questo desiderio come un’aula scolastica non consente di fare. Insieme a una disciplina dell’uso delle armi, po­ tremmo studiare metodi di insegnamento capaci di cat­ turare l’attenzione e di evocare la concentrazione —im­ magini, azioni teatrali, rituali, ritmi — ritrasferendo in questo modo il potere dalle armi alla mente del ragazzo. L’importanza che attribuisco alla concentrazione come potere, e un potere di cui la psiche ha bisogno e di cui gode, ci allontana dalle idee correnti di leadership come apprendimento: l’idea, cioè, che il potere di un leader moderno consista essenzialmente nella capacità di man­ tenersi aperto. La parola stessa «concentrazione» evoca cerchi chiusi, chiusura in se stessi, fecalizzazione verso l’interno, densità, intensità. Certamente si potrebbe di­ re che una mente simile rischia l’asfissia, chiusa com’è a respirare le proprie esalazioni nel proprio sgabuzzino, 185

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dove non soffia alcun vento di cambiamento, dove non si assimila alcun nuovo input e dove, quindi, questa mente non può imparare e dunque non può guidare, essere leader. Vista così, la concentrazione appare come un ritirarsi, un rinunciare al potere. Invece la concentrazione riceve i suoi insegnamenti altrove e riceve input da fonti differenti da quelle del­ l’altra gente. È questo lo stile introverso di potere che troviamo nello sciamano, nel solitario, nell’eremita, nel mistico, nel contemplativo. Persone che rivolgono la loro attenzione ai sogni, alle meditazioni, alle rêve­ ries, ai segni, ai presagi, ai vecchi testi, ai moti della natura e a «sedute di dolce pensiero silenzioso». La concentrazione apre l’accesso ad altri poteri —interio­ ri, nascosti e decisamente sospetti per il quotidiano ca­ meratismo del business. Cerca il contatto con il genius, con l’ispirazione. Confida nella solitudine. Gode del silenzio. E cresce, con amabile determinazione, di fronte alla sfida delle tensioni, delle crisi, dei dilemmi senza soluzione.

L ’a utorità C ’è poi un tipo di potere che non è dato né dal con­ trollo, né dalla carica, né dal prestigio, e che non può essere ottenuto con l’ambizione. La reputazione rien­ tra in questo tipo di potere, ma soltanto in parte. È il potere che viene dall’autorità. 1 86

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Quale sia la natura di questo tipo di potere, da cosa derivi, come sia possibile riconoscerlo, come agisce: sono questi gli interrogativi, e le risposte convenziona­ li non riescono a essere soddisfacenti. Per esempio, l’autorità può venire con l’età, cosa però non scontata, dato che nella nostra società non sempre gli anziani ri­ vestono l’autorità che era propria degli anziani di un clan. Le caratteristiche che si accompagnano all’età avanzata, come i capelli tinti, le dentiere, le rughe, non conferiscono certo a una persona sprofondata in una sedia a sdraio su una spiaggia per pensionati la stessa autorità di segni analoghi (cicatrici, solchi, denti mancanti e tatuaggi) nel volto di un anziano in una società tribale. L’età non basta. E la massima secondo cui «l’informazione è potere» non vale quando si tratta di autorità. Una persona può essere imbottita di dati e ricordare tutti gli intrighi e le storie personali del suo ufficio, e tuttavia dimostrarsi «priva di alcun valore» per l’azienda e non guadagnarsi mai l’autorità necessa­ ria per farsi ascoltare. L’autorità può derivare da un’impresa eccezionale, ma anche questa non è garantita, perché la competenza specifica non conferisce necessariamente quell’autorevo­ lezza più vasta che è il rispetto. L’esperienza sul campo può contribuire all’autorità, ma la riflessione in poltro­ na può dimostrarsi proporzionalmente più significativa. Quindi, il frequente uso di esperti in televisione in veste di «autorità» confonde lo stretto con il largo, l’opinione con la sagacia, l’informazione con la conoscenza. La ca­ 187

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pacità di esprimere pareri autorevoli in relazione all’Eu­ ropa orientale, o alla politica educativa, capacità richie­ sta per essere ammessi a far parte del comitato di esperti della TV, non dovrebbe essere riconosciuta ai soli che «ci sono stati», se quello che si vuole è la vecchia virtù men­ tale chiamata stima, la capacità di esprimere giudizi di valore guardando non soltanto ogni angolo, ma guar­ dando in profondità le radici e le ramificazioni a lungo termine di una data questione. Parlare di una questione essenziale è molto diverso che parlare a favore o contro una certa posizione nei confronti di una certa questio­ ne. La voce autorevole manifesta un’intrinseca capacità di disinteressarsi —con convinzione. Questa qualità è difficile da descrivere e tuttavia, come la buona arte e la cattiva pornografia (o come la cattiva arte e la buona pornografia), «se la vedo la rico­ nosco». Si può trovare dovunque, quasi in chiunque, anche se, in effetti, gli esempi sono pochi. Li incon­ triamo nella memoria - una figura della nostra infan­ zia, una persona piena di dignità, che sapeva valutare le cose, le cui parole colpivano in profondità, e che con la sola presenza riusciva a far percepire valori invi­ sibili. Fosse quello che facevano o quello che dicevano; fosse il loro modo di comportarsi o di reagire nel mo­ mento critico; fosse quella loro aura di distanza, quella naturalezza, quel sentirsi al proprio posto nel mondo; una cosa è sicura: ti facevano sentire il potere dell’au­ tenticità. Semplicemente l’avevano in sé. Anche se l’autorità nasce come dono autonomo e ri­ 188

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siede nella mia specifica natura, il suo potere effettivo si manifesta però soltanto entro un contesto comuni­ tario. È necessario che venga riconosciuta. Io potrò anche essere una persona esperta, intelligente, unica e imparziale, ma fino a che non sarò necessario, fino a che non sarà richiesta la mia voce, non avrò autorità. Sono gli altri ad accordare l’autorità, che non può essere conferita dalla sola individualità. L’autorità è dunque societaria, proprio come il sé è comunitario. Noi ci apparteniamo l’un l’altro, e il riconoscimento da parte degli altri delle qualità che ciascuna persona incarna è fondamentale per l’umana consapevolezza, quanto lo è il riconoscimento del canto o del verso per gli uccelli e degli odori per i mammiferi. L’auto­ rità può anche essere intrinseca, ma non c’è veramen­ te finché non riceve una conferma da parte del mon­ do. Per inciso, la parola «mondo» non è ristretta a in­ dicare le altre persone, perché l’autorità è riconosciu­ ta negli umani anche dagli animali, che mostrano ra­ pidamente, fra le persone che si occupano di loro, quali rispettano, quali possono ingannare, quali spa­ ventare e a quali disobbedire. L’autorità non può essere influenzata dalla persua­ sione e non cerca di opprimere, e perfino quando è su­ bordinata manifesta la sua intrinseca autonomia. Au­ tonomia che non è tanto un segno di distacco, di in­ differenza, quanto una radicale indipendenza da ogni altro genere di potere. La radicale indipendenza delle Corti di giustizia, scritta nella Costituzione, separa il 189

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giudizio dagli altri generi di potere. Il giudizio deve es­ sere disinteressato. Forse è proprio in questa indipen­ denza dalle consuete manifestazioni di potere che con­ siste l’autorevolezza dell’autorità. L’uso improprio del termine «autorità» per indicare organismi di governo, o il parlare di «autoritarismo» invece di dispotismo, oppure, di fronte a un’ostinata ribelle incapacità di assumere la direzione, fare diagno­ si di «problemi di autorità», svilisce l’idea di autorità e la confonde con altri stili di potere. Questo confondere una voce autorevole con una autoritaria dimostra quanto poco sia compreso questo genere di potere. M a dimostra anche quanta paura si abbia dell’autorità in una società democratica, e in una società sempre più egualitaria. M a c’è di più: que­ ste confusioni ci dicono anche quanto egocentriche siano le nostre idee sul potere in generale. Sembriamo incapaci di immaginare l’autorità come un dono, una capacità non localizzata nell’Io. Quindi, in questo ca­ so, quello che limita la nostra comprensione non è la paura dell’autorità, ma il giustificato timore dell’usur­ pazione di essa da parte dell’Io. Mi preme sottolineare il distacco di questo tipo di potere, la sua intrinseca riservatezza, perché l’autorità conferisce un potere enorme. Una sola voce può in­ fluenzarne mille. Il rispetto accordato dagli altri eleva al di sopra degli altri. Il potenziale della tirannia è sempre lì, nel momento in cui eserciti la tua autorità. Dice Shakespeare: «Il nascondimento, il disinteresse,

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l’indipendenza, sembrano essere corollari indispensa­ bili dell’autorità».4 L’indipendenza dell’autorità la rende libera nei con­ fronti dell’ufficio, del prestigio e di tutti gli orpelli del potere. Bernard Baruch aveva soltanto una panchina in un parco; Wendell Berry se ne sta con le sue poesie nella sua fattoria del Kentucky. Einstein. Segovia. Ca­ sals. Rouault. Matisse. La recente «psicologia popola­ re», che intende restituire agli uomini l’autorità che sentono di avere perduto, parla di questa indipenden­ za come del «sovrano interiore». In un dramma che tratta della perdita del potere da parte di un re, Shake­ speare, in pochi versi, dice molto sull’autorità. Quan­ do Kent si mette al servizio del sovrano, Lear lo inter­ roga a proposito del suo compito: «Che cosa vorresti?» «Un servizio.» «Chi vorresti servire?» «Voi.» «Mi conosci, tu, giovanotto?» «No, signore; ma nel vostro contegno avete ciò che vo­ lentieri chiamerei padrone.» «E cos’è questa cosa?» «L’autorità.»5

4. Misura per misura (il, 2, 108): «Oh, ottima cosa / avere la forza di un gigante, ma è da tiranno / usarla come un gigante». 5. Re Lear, I, 4, 24 sgg. 191

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E questo, dopo che il re era già stato deposto dal pote­ re del governo. Chiaramente, l’autorità di Lear è inna­ ta, e anche quando il dramma procede e lui diventa sempre più indifeso e folle, il potere dell’autorità non lo abbandona mai. Naturalmente questo deriva in parte da quello che si è stati nel passato. Dopo tutto, Lear era il re, così come Edipo, alla fine della vita, cieco, vecchio, povero e morente, era ancora quello che un tempo era stato Edipo il Tiranno. Il passato è ancora lì nel presente. Ai giorni nostri Averell Harriman, anche se non possiamo paragonarlo a figure come Lear o Edipo, era tuttavia a novantanni un uomo di autorità. Sen­ za alcun ufficio, senza alcuna base di potere, anche se la sua capacità di influenzare si era da tempo esauri­ ta, egli continuava ugualmente a emanare autorità. L’essere stato ambasciatore, governatore, emissario speciale, e mediatore nelle situazioni diffìcili, e l’esse­ re stato presente nei momenti decisivi per la storia del XX secolo —insieme al fatto di essere un rampollo di una famiglia privilegiata —ovviamente gli conferi­ vano potere; ma esistono molti altri che «sono stati sempre lì, fin dall’inizio», e che tuttavia cadono nel­ l’oblio. L’autorità è ben più della conoscenza, della memoria, del giudizio, della competenza, delle rela­ zioni sociali; è ben più delle persone che conosci e dei luoghi deve sei stato. E poiché è una qualità invi­ sibile, attira anche una grande invidia, e la sua auten­ ticità viene sminuita dal fatto di provenire — come

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nel caso di Harriman - da un ambiente facoltoso o di appartenere alla classe giusta. Resta ancora un’ultima componente da esaminare: quella che i Romani chiamavano gravitas, un certo pe­ so che conferisce importanza, ma anche una serietà oppressiva. Derivati di gravitas li troviamo nell’inglese gravity (gravità), e grave (tomba), così come nell’italia­ no «gravido». Gravitas discende, a sua volta, da un ter­ mine sanscrito ancora più antico, anche se tuttora molto comune: guruh (pesante). Il potere dell’autorità deriva dal ventre; la sua direzione è quella verso il bas­ so, come la gravità. Forse l’autorità aumenta via via che l’anima affonda «gravemente» - graveward, verso la tomba - via via che diventiamo un antenato, una fi­ gura che rappresenta la riserva accumulata della comu­ nità, una rappresentazione dunque, più che una perso­ nalità. La nostra autorità ci deriva non tanto dalla sto­ ria personale, quanto dalle autorità impersonali che sono oltre la tomba, i morti con i loro insegnamenti. È forse per questa ragione che, in momenti di crisi e nell’età avanzata, ci rivolgiamo alle biografie, nel ten­ tativo di approfondire la nostra personalità individuale collegandola con il passato e con coloro che sono mor­ ti, con quelle figure che Emerson chiamava «uomini rappresentativi». Ed è forse per questo che, con l’in­ vecchiare, l’autorità si fa più evidente. Forse è final­ mente autorizzata, consacrata, dagli Dei ctoni del mondo infero, da Ade e dagli antenati che la nostra cultura riconosce soltanto come Storia. 193

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L a persuasione Tutti quei «duri» che vediamo in televisione hanno modificato il significato della parola «persuasione» e del suo genere di potere. Persuasione ha finito per signifi­ care coercizione, arm-twisting (torcere le braccia) - l’u­ so spietato della forza, stile mafia. O anche la brutalità della polizia per estorcere la confessione. La nostra ci­ viltà si è decisamente allontanata dal posto che la per­ suasione occupava nella latinità. Suada infatti - come del resto Peitho («persuasione» in greco) —era una Dea, e suadeo, con la sua radice di suavis, ha a che fare con «il rendere dolce, piacevole», come un tenero amante che conosce l’arte delle dolci parole e sa come dare pia­ cere per rendere la vita amabile, gradevole. Nel mondo greco, Peitho compariva perlopiù come una figura a sé stante o come un attributo associato ad Atena e Afrodite. La persuasione è essenzialmente un potere di seduzione, attraverso la parola intelligente e convincente (Atena) oppure attraverso il fascino dei modi e la bellezza della figura (Afrodite). Il dono mag­ giore di Peitho è la retorica, il dono dell’eloquenza convincente. I pubblicitari sanno bene che prodotti e pubblico differenti richiedono retoriche differenti. Non si possono vendere macchine usate o materassi affidandosi allo stesso tipo di pubblicità che si usa per vendere profumi, docce o crociere ai Caraibi. Esistono stili diversi di persuasione, stili diversi di travestimenti retorici. Nel secolo scorso la pubblicità, ai suoi albori, 1 94

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persuadeva prevalentemente mascherandosi da educa­ zione. I messaggi commerciali venivano indirizzati a una vasta popolazione di immigrati, e insegnavano lo­ ro i modi del progresso. Il progresso come frutta in scatola, come latte condensato, come sapone in polve­ re. «Nuovo e migliorato» è una delle frasi superstiti della persuasiva retorica del progresso. I messaggi pubblicitari non sono però l’unico luo­ go dove la forza antica di questa dea esercita ancora la sua influenza, seducendoci ad andare, a ottenere, a comprare e a fare cose che spesso sembrano lontane dal nostro carattere e non radicate nel nostro deside­ rio. Peitho fa anche la sua comparsa come potere in una delle gravi fobie della vita quotidiana. Le stati­ stiche sullo stress psicologico riferiscono infatti che la paura di parlare in pubblico è una delle maggiori inibizioni che impediscono di avanzare nella scala aziendale e amministrativa. Malgrado i talk-show, i programmi basati sulle telefonate e i pubblici radu­ ni, l’esplosione di messaggi elettronici, di telefoni e di Internet, evidentemente non tutti sono in buoni rapporti con Peitho e riescono a trovare i modi e i mezzi per esprimersi in modo persuasivo. Un eloquio privo di qualsiasi fascino, senza intelligenza, senza al­ cuna cura per la propria bellezza e senza il desiderio di muovere la passione di un’altra persona riempie l’a­ ria e le orecchie di un frasario morto. Il parlare come violenza. Il parlare come anestesia. Il parlare come in­ quinamento. L’unico potere di persuasione che pos­ 195

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siede è quello di farci stare alla larga o di farci preme­ re l’interruttore. Nella vita pubblica, coloro che parlano in modo semplice e deciso, e duro anziché dolce, Ross Perot per esempio, sono più convincenti di coloro che sono in buoni rapporti con Peitho, per esempio Mario Cuo­ mo. Esempi di uomini dotati di scarsa grazia verbale, nella nostra civiltà possono assurgere ad alti uffici: per esempio Coolidge, Eisenhower, Nixon, Bush, Monda­ le, Quayle. Un linguaggio che riesca a toccare gli altri e possa, quindi, produrre potere, non dovrebbe essere fiorito o adulatorio, ma dovrebbe per lo meno tentare qualche giro di frase, comunicare un po’ di bellezza (Afrodite), e manifestare intelligenza e idealismo civi­ co (Atena). Penso alla forza di persuasione di Lincoln, di Woodrow Wilson, di Franklin Roosevelt. Ciascuno di loro possedeva la persuasiva capacità di modificare il destino di una nazione con il modo di mettere insie­ me le parole, con il potere della sua retorica. Per spie­ gare e difendere una certa politica, per riferire e comu­ nicare, ci vuole qualcos’altro oltre ai grafici, alle battu­ te e agli aneddoti. N é il carisma, né l’autorità, né uno speciale addestramento a comparire in pubblico, e nemmeno la padronanza dell’insieme dei fatti, riusci­ ranno a raggiungere il pubblico se il nostro linguaggio non contiene convinzione, in modo da poter convin­ cere gli altri. Soltanto una o due generazioni fa, il presidente di una banca o il capo di un’industria o di un’azienda 196

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commerciale che assumeva laureati di un college, gene­ ralmente non sceglieva laureati in scienze amministrati­ ve, economiche o tecnologiche, ma laureati in lettera­ tura inglese. Era proprio questa specializzazione in let­ teratura a formare la classe manageriale delle aziende. Una specializzazione in letteratura era quindi la via principale per arrivare ai vertici. Perché? A differenza della conoscenza di una materia specifi­ ca, come la finanza o l’ingegneria, l’affinamento della retorica ottenuto attraverso corsi di letteratura inglese insegnava il modo di organizzare il pensiero riguardo a qualunque materia. Questo significava che un laureato in lettere era in grado di pronunciare frasi che conte­ nessero pensiero, di esprimere visioni e decisioni in modo convincente, di analizzare materiali scritti, di distinguere fra questioni importanti e questioni mino­ ri, di scoprire premesse nascoste e conseguenze illogi­ che, ma anche di trovare la frase felice che rendesse piacevole l’atmosfera di lavoro. La persuasione era e resta un talento manageriale capace di sviare la collera degli azionisti, dei dirigenti sindacali, dei creditori, dei giornalisti e degli ispettori governativi. È la persuasione che smorza nei momenti esplosivi, che facilita i prestiti, che ottiene i contratti. E innalza il livello del discorso in tutta l’azienda. La retorica persuasiva è un genere di potere veramente necessario. La sua necessità è riconosciuta da lungo tempo. Durante il Medio Evo e il Rinascimento, la retorica 197

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era una componente importantissima dell’educazione superiore. Il potere richiedeva stile nelle parole e un linguaggio capace di convincere doveva essere forgia­ to accuratamente. La nostra civiltà vive ancora sulle formulazioni degli antichi Padri della Chiesa, dei dottori e dei giudici del Medio Evo, dei retori della M agna Charta e della King Jam es Bible, così come si affida ancora alle altisonanti frasi della Dichiarazione di Indipendenza e della Costituzione, composte più di due secoli fa, ma che conservano ancora la loro forza persuasiva. Espressioni come «pura retorica» o «vuota retorica» mostrano tutto il nostro rifiuto per un parlare fanta­ sioso e la nostra propensione per un linguaggio piatto, puritano, che dica le cose pari pari e basta. Soprattutto monosillabi e frasi brevi che implicano l’azione, anche se sono più un dare degli ordini che un persuadere. «Vieni a prenderlo», «fai questo», «non ci sono proble­ mi», «svegliati», «buon divertimento», «adesso vai», «muoviti» sono didascalie: non seducono. E tuttavia un dirigente deve stare molto attento a non perdere il contatto con questo genere brusco di linguaggio co­ mune, nel manifestare la sua propensione per un par­ lare ricco di sfumature. Non è molto difficile distinguere la «vuota retorica» dal potere persuasivo del discorso donato dalla Dea. La pura retorica ha i fiori ma non mette radici in un terreno più profondo. E soltanto un abbellire un pen­ siero superficiale, prevalentemente con l’uso di frasi 1 98

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fatte e di gergo, tanto la simpatia di Hallmark, quanto la totale tristezza New Age o l’atteggiamento promo­ zionale del business. Non sorprende, non stimola, non seduce. Ascoltando la retorica vuota si ha l’impressio­ ne di averle già sentite quelle cose, e anche molte vol­ te. Mentre la cosa vera ci fa balzare in piedi e ci fa vol­ tare la testa: il corso della nostra vita, un oscillare con­ tinuo verso una nuova direzione — per il solo potere delle parole.

I l carisma Una persona carismatica è una persona benedetta dalla grazia elargita dagli Dei - questo è il significato origi­ nario della parola carisma. Come dono degli Dei, tut­ tavia, il carisma non riguarda l’innata struttura della personalità, quella qualità quasi animale che ho de­ scritto come leadership. Il carisma può cadere su chiunque, anche su coloro nei quali la capacità di diri­ gere e di assumersi l’autorità è miseramente assente e che in questo modo ingannano quelli che li seguono, i quali non sono in grado di distinguere la maestria dal­ l’incantamento. N é il danaro né i media possono conferire il carisma. È una grazia che non ha a che fare con la fama, la cele­ brità, l’impresa eccellente, il sangue reale e i mucchi di oro. Si può essere personaggi televisivi molto popolari e tuttavia non brillare quanto a carisma anche se le no­ 1 99

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stre quotazioni salgono e i nostri fan conservano la fi­ ducia. Il potere carismatico rende splendido lo show­ man, innalzandolo a tratti allo status di sciamano. Si sente «su», «caldo», «in», «à la page» —ma questo pote­ re non gli appartiene in nulla, né può essere ricaricato mediante riti superstiziosi o con eccitanti. Ci piacereb­ be poter attribuire il carisma a un determinato tipo di personalità, come il genio o lo psicopatico. Invece, co­ me suggeriscono questi due stessi termini, questo gene­ re di potere è un mistero che non appartiene agli esseri umani, ma li arricchisce di un fascino ultraterreno che è molto ben espresso dalla parola star. Se la leadership nasce da una base istintuale e l’au­ torità dal carattere, il carisma dipende, in parte, dalle situazioni. Una situazione richiede che qualcuno sim­ bolizzi e formuli chiaramente le sue dinamiche. Si pensi a Boris Eltsin in piedi sui carri armati, al genera­ le MacArthur che strappa dalle fauci della disfatta una vittoria psicologica con un’unica parola: «Ritornerò». Il carisma può illuminare all’improwiso anche un’a­ zienda, come è successo molto tempo fa con la Apple Computer e con l’iBM. La persona carismatica riesce a esemplificare proprio quello che sta avvenendo. La storia è piena di queste incarnazioni archetipiche che rappresentano lo spirito dell’epoca, dei tempi, o anche di un singolo momen­ to. Si potrebbe perfino dire che siano loro a fare la sto­ ria. La persona giusta al momento giusto: il qui e l’ora si concretizzano in un essere umano. Può fare la sua 200

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comparsa da lontano, come Napoleone dalla Corsica e Franco dal Nord Africa, o dall’esilio politico, come De Gaulle e Churchill, o anche da nessun posto, ed ecco che diventa l’incarnazione ambulante di una grande scena storica. Come sono giunti alla ribalta in modo insolito, così spesso spariscono una volta che la loro scena si sia esaurita, restando splendidi nella memoria oppure screditati come ciarlatani. È come se un manto archetipico avvolgesse una persona con un’aura dorata di potere trascendente - e questa può anche non aver nulla a che fare con la biografia precedente. Generalmente le figure carismatiche non vengono fuori dalle fila dell’azienda, come un nuovo capo che, in precedenza, era un fedele vicepresidente, un respon­ sabile delle vendite. D i solito la loro apparizione è una sorpresa, ma quando compaiono loro scompaiono i problemi: un colpo di fortuna, un accordo imprevisto, un disastro evitato. Una personalità carismatica può an­ che favorire l’immagine aziendale nelle pubbliche rela­ zioni. Si presentano bene ai media. M a il carisma non si occupa di negoziati con i lavoratori, di ristrutturazio­ ne in vista di una riconversione, o delle piccole contro­ versie con una querula commissione. Gli Dei, così co­ me concedono i doni, se li riprendono anche, e non sembra che siano interessati al bilancio. Così, i proble­ mi si ripresentano, una volta che gli Dei se ne siano an­ dati lasciando un presidente fin troppo umano. Il carisma può essere un fattore decisivo. Thomas Dewey, brillante procuratore legale e valido governato­ 201

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re di New York, aveva potere in abbondanza, prestigio, ascendente, controllo, ufficio. M a non aveva assolutamente carisma: perse sia con Roosevelt che con Tru­ man. John Lindsay di carisma ne aveva moltissimo, ma probabilmente era tutto ciò che aveva se, come sindaco di New York negli anni Sessanta, è ricordato ancora con biasimo, a oltre trentanni di distanza, per aver condotto la città all’insolvenza fiscale. Il carisma di te­ flon di Ronald Reagan riuscì a tenere in pugno un’inte­ ra nazione, perfino il suo Congresso e i suoi media, con il suo ottimismo a tutti i costi, anche durante la grave crisi occupazionale che segnò il suo primo mandato e la cinica corruzione che dilagò durante il secondo. Se la figura carismatica non possiede autorità, allora quello che vediamo è un imperatore nudo, assolutamente non all’altezza del compito simbolico che do­ vrebbe sobbarcarsi. Se la figura è priva di un’innata ca­ pacità di leadership, allora la folla nobilita uno sciocco e segue il carisma fino alla rovina. Se invece è unito al­ l’autorità e alla leadership, il carisma cambia la storia attraverso persone come Giovanna d’Arco, Napoleone, Martin Luther King, Robert E. Lee, Abraham Lincoln e Charles De Gaulle.

L ’entusiasmo Quella che sembra essere pura ambizione personale, piuttosto spietata, e una copertura a sentimenti di in­ 202

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feriorità, può anche essere qualcosa di più profondo. Cos’è «la forza che attraverso la verde miccia spinge il fiore... La forza che spinge l’acqua attraverso le roc­ ce...»? Dylan Thomas, autore di questi famosi versi, nella stessa poesia dice che, di fronte a questa forza, re­ stiamo senza parole. Questa verde spinta della natura verso l’alto, non sappiamo spiegarla. Siamo come ani­ mali muti. Cosa possiamo dire della forza che induce quel cavallo a guidare gli altri, quel gattino a spingersi col muso davanti al resto della figliata? Nell’/ Ching, il più antico testo cinese, un libro di divinazione, il primo dei sessantaquattro esagrammi parla del potere crescente dello yang, e l’animale evo­ cato è il drago. Dice il testo: Il moto del cielo è vigoroso. Così il nobile rende se stesso forte e instancabile. La forza di cui non possiamo dare alcuna spiegazione è il «moto del cielo», che è al di là delle motivazioni umane e della struttura della personalità. E un movi­ mento nel cosmo stesso che avviene in determinati momenti, a determinate persone e in determinate si­ tuazioni, e i suoi effetti possono essere eroici: ogni ostacolo cede di fronte alla forza che ti porta, simile a un drago volante, a un fiume in piena che ti trascina. I suoi effetti possono essere anche l’arroganza, l’inflazio­ ne, la presunzione e il fanatismo. Questi momenti di esaltazione dello spirito danno una straordinaria capa­ 203

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cità di fare. «Vado forte» diciamo noi. «Pieno di pote­ re» dice l’antico testo cinese, proprio nell’immagine che apre il libro. Situazioni fatidiche possono scatenare il fiume, l’improvvisa, travolgente ondata del potere —la morte di un genitore e l’eredità del proprio territorio, un grande sogno rivelatore, la successione apostolica quando otteniamo l’avanzamento a una posizione su­ periore, o il vincere in amore, alle corse, al gioco, alle elezioni. Arriva come una piena di eros, e senza an­ nunciarsi, come un’improvvisa e potente erezione. M a questo spiccare il volo, questo essere portati dal fiume in piena, non va ridotto a un turgore fallico o a un volontaristico esercizio della forza. Il cavallo di te­ sta non cammina perché viene frustato. Il fiume, in­ fatti, - «fosco, indomito, intrattabile» (T.S. Eliot) apre il proprio corso nel terreno con cieca ostinazione, e noi non siamo un fiume. Noi abbiamo gli occhi, il fiume no: va, semplicemente. Tutte le cose viventi possiedono un calore nasco­ sto in fermento, che un tempo era immaginato come una sorta di energia solare e che, in seguito, è stato identificato con la combustione dell’ossigeno. Que­ sto calore nascosto si manifesta nelle febbri, nelle eruzioni cutanee, nella furia, nella collera. C i sale al­ la testa e ci porta fuori di noi, come se fossimo pos­ seduti dal puro potere. Michael Meade, in un pre­ zioso capitolo sulla necessità dell’iniziazione per la gioventù, descrive l’esaltazione che dà il potere in 204

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termini di quello che il popolo Gisu dell’Uganda chiamava Litima. Scrive Meade: «Per loro [i Gisu], il Litima è la vio­ lenta emozione, peculiare della parte maschile delle cose, che è la fonte dei litigi, della feroce competizio­ ne, della possessività, dell’impulso al potere, e della brutalità, ma che è anche la fonte dell’indipendenza, del coraggio, della rettitudine e degli ideali significati­ vi. Il Litima dà un nome e una descrizione a quella ca­ parbia forza emozionale che alimenta il processo attra­ verso il quale si diventa individui... Il Litima è ambi­ guo... possiede due lati. La fonte dell’indipendenza e degli ideali elevati può essere anche la fonte della fero­ cia e della brutalità».6 L’entusiasmo non è un potere focalizzato; è piuttosto un innalzamento del livello di energia, un innalzamen­ to dell’irritabilità, un senso di compressione, pronto a esplodere con una testa piena di progetti, troppe cose da fare e il corpo in continua corsa. La psichiatria chia­ ma questa emozione «umore ipomaniacale», del quale un importante segno diagnostico è Tesser «forte e in­ stancabile», come dice il testo cinese. C ’è un drago nel sangue. Per noi il drago è un animale mitico, un animale del tutto immaginario. Soffia fuoco, i suoi occhi lanciano

6. Michael Meade, Men and, the Water of Life, Harper San Francisco, San Francisco 1993, pp. 233-234. 205

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lampi verdi, ha molte teste, è guardiano di tesori, e inoltre divora gli umani, soprattutto quelli belli e gio­ vani, e gli eroi ingenui. Poiché è un animale del tutto immaginario, ne siamo soggiogati in virtù di quel no­ stro potere animale che è l’immaginazione. L’immagi­ nazione che ci comanda come una forza animale, che ci dona un entusiasmo dopo l’altro, che brucia quello che intorno ci opprime, e che ci fa sentire di essere pro­ tettivamente attorcigliati intorno a indicibili doni. La nostra umanità divorata da una forza che spinge l’ac­ qua attraverso la roccia. E così restiamo muti, incapaci di esprimere quanto sta avvenendo; incapaci perché non abbiamo parole ma anche perché siamo inebetiti. Siamo sotto l’influenza del mito: il mito come quella forza istintuale che ci porta sul dorso come un drago. È forse per questo che abbiamo un così disperato bisogno di colleghi, di amici, di abitudini, di una moglie, di un marito, di panini, della lavanderia, di parcheggi, di ne­ gozi di ferramenta che ci salvino dall’esaltazione, o che perlomeno ci offrano un posto ove toccare terra.

L a decisione «E un indeciso.» «Non sa da che parte stare.» «Paraliz­ zato dall’indecisione.» Queste espressioni di condanna rivelano molto chiaramente quanto importante sia la decisione per l’esercizio del potere. La decisione libera potere; forse, in quanto essenza stessa dell’agire, la de206

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cisione è potere. La decisione della Suprema Corte de­ gli Stati Uniti sospende un ordine esecutivo del presi­ dente e una legge approvata dal Congresso. Ci piace credere che le decisioni siano il risultato di esaurienti riflessioni. Una volta che si siano considerati tutti gli aspetti della faccenda e previste tutte le even­ tualità, la decisione segue. È come se la decisione fosse questione di soppesare i pro e i contro sui piatti della bilancia del giudizio. Questa visione del modo di deci­ dere dà però troppo credito alla ragione. Le decisioni provengono dalla pancia, da un qualche dato casuale o da una chiacchiera, da un’impressione intuitiva, dalla voce, appena percepibile, di quello che altrove ho chiamato «angelo», non meno che da una lunga rifles­ sione su un compendio dei fatti ben scritto. La radice del termine decisione (caedo, caedere) ri­ manda al significato di percuotere. Il primo significato latino non è certo razionale. Parla di un potere bruto: «colpire, percuotere, picchiare». Il secondo significato collega caedo, caedere al rapporto sessuale, come possia­ mo vedere quando gli uccelli si accoppiano. Un terzo significato è «uccidere, ammazzare, assassinare, abbat­ tere, immolare». Un quarto: «spaccare, fare a pezzi, rompere». Caedo, a sua volta, risale al sanscrito khidati, «schiacciare, appiattire», kheda, «martello». Quando un colpo del martelletto decreta la fine del­ la giornata di contrattazioni in Borsa, chiude un’asta, o dichiara concluso un procedimento giudiziario, ri­ suona un’eco di morte improvvisa, perfino violenta. 207

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Non si torna indietro. Non c’è da meravigliarsi, dun­ que, delle nostre decisioni torturanti, «vere e proprie agonie», perché la decisione fa entrare in scena la mor­ te, e chi si trova a dover prendere una decisione —co­ me Kennedy, solo di fronte alla Baia dei Porci, o come Eisenhower, solo prima del D-Day, a dover decidere se dare il via all’operazione nonostante il tempo incerto — si trova in presenza della morte, con la quale non si viene a patti, non ci sono compromessi. Non c’è dun­ que da meravigliarsi se, anche nei comuni affari della vita, è così difficile arrivare a una conclusione decisiva: da parte di una giuria, di un legislatore, di un agente immobiliare, di un venditore. La decisione, la capacità di decidere, è necessaria per creare. Il dizionario riporta come decimo significato di caedo «creare mediante il tagliare». Ogni più piccola azione, in arte, richiede che si prendano delle decisio­ ni: includere ed escludere, muoversi in questo modo o in quest’altro, scegliere prima questo e poi quest’altro. Ogni film che vediamo e ogni libro che leggiamo sono creazioni realizzate mediante dei tagli. La decisione sa quando e dove fermarsi, quando e dove lasciare che il momento della morte concluda l’opera. Una volta un insegnante di pittura disse a un mio amico che, a suo parere, in questa arte l’unica cosa importante da inse­ gnare è quando smettere di dipingere un quadro, quando tagliare, concludere, finire. La creatività della decisione si manifesta innanzi tutto come capacità di uscire dall’indecisione e dal­

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l’ambivalenza. Tuttavia, nel momento stesso in cui diamo via libera all’azione con la nostra decisione, creiamo anche dei nemici. Le decisioni dividono, ta­ gliano in due. L’ Oxford English Dictionary dice che de­ cide, decidere, significa «stabilire, dando la vittoria a una parte o all’altra». In un’organizzazione ogni deci­ sione lascia un perdente e produce sentimenti d’om­ bra, oscuri. La parte sconfitta diventa la parte lesa e cerca il risarcimento per quelli che sente come dei tor­ ti nati da una decisione sbagliata. Disaffezione. Resi­ stenza sovversiva. La vendetta si costruisce nei corridoi del potere. Dato che ogni vittoria vuol dire diversi schiavi riluttanti nei confronti di quella decisione, il potere costruito sulla capacità di decidere prontamen­ te può portare alla tirannia. Alessandro Magno e i ge­ nerali dell’Impero Romano sapevano che la vittoria produce altri nemici, e quindi facevano schiavi o ster­ minavano i sopravvissuti alla sconfitta, distruggevano pietra per pietra le loro città e i loro templi, cosparge­ vano di sale i loro campi. La richiesta di resa incondi­ zionata mira a eliminare per sempre la possibilità di una vendetta dell’ombra, che rimane latente dopo una vittoria decisiva. Oggi i leader si compiacciono di credere che la Gre­ cia e Roma siano ormai alle nostre spalle. Oggi alle vittorie preferiamo le decisioni consensuali. Crediamo ai compromessi, crediamo che la controparte possa es­ sere convinta, oppure comprata. La trattativa ha sosti­ tuito la vittoria e la sconfitta, e così oggi le decisioni 209

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vengono raggiunte attraverso un lungo e sottile lavoro, lasciando che ciascuno abbia una parte dell’azione procurandosi il linguaggio legale appropriato. Quindi è più probabile che le decisioni vengano bloccate pri­ ma che maturi una crisi decisiva; chi ha il potere, cioè, cerca di evitare di battere il martello da una parte o dall’altra, e preferisce creare, a partire dalle differenti aree di consenso, unità più ampie, dai confini indi­ stinti e dal linguaggio bolso. La tattica, apparentemen­ te indecisa, di orientare le vele secondo il vento deriva da una decisione prioritaria, quella di evitare la deci­ sione a ogni costo, e questo barcamenarsi e cambiare posizione deve essere quindi distinto dall’indecisione nevrotica, con la quale intendo quel tenere se stessi e gli altri in sospeso al fine di mantenersi al potere. Pos­ so mantenere il controllo con l’indecisione altrettanto abilmente che correndo il rischio di una decisione. C ’è un uso narcisistico dell’indecisione che fa di noi il cen­ tro dell’attenzione, come alla corte di un re dove tutti stanno in attesa domandandosi cosa verrà deciso. Quanto più uno esita, convoca consigli per consulta­ zioni, tiene tavole rotonde e legge documenti risolutivi redatti da comitati di esperti, tanto più importanti sembrano essere sia la decisione sia la posizione che colui che deve prenderla occupa all’interno del proces­ so che porta alla decisione. In breve, esistono almeno tre varietà di indecisione, che possono apparire molto simili: primo, la ritrosia a tagliare con la spada perché si teme di esporsi e di cor210

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rere i rischi che il tagliare comporta. Secondo, la pru­ dente saggezza che prevede le conseguenze di una de­ cisione. Terzo, l’oscillare nevrotico volto a mantenere il proprio prestigio e a restare in carica. Quando si esi­ ta al momento di decidere, potrebbe essere utile ana­ lizzare spietatamente il mescolarsi di questi tre motivi. M a anche l’autoanalisi richiede decisione.

L'intimorire Del generale Andrew Jackson, diventato in seguito presidente degli Stati Uniti, si diceva che «otteneva il massimo dai suoi uomini perché lo temevano più di quanto non temessero i nemici». L’esercizio del potere ottiene con la paura quello che non è possibile ottene­ re altrimenti. La televisione ci impartisce ogni giorno questa lezione. Né il distintivo della carica, né la voce dell’autorità riescono a far fare le cose rapidamente quanto la minaccia di un manganello o di una pistola. Sembra che per un agire efficace sia necessaria la pau­ ra. Vi è mai capitato di sentire la frase «un dirigente deve essere amato ma anche temuto»? Una direzione basata sul controllo e il comando conosce bene l’uso della paura. Un amministratore di un’università mi spiegò, con molti particolari, che facendo balenare la possibilità di disastri finanziari e di scandalose difficoltà riusciva a far prendere decisioni al senato accademico e ai consi­ 211

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gli di facoltà, altrimenti letargici. «Dovevo mettere lo­ ro paura: questo è decisamente il modo migliore per superare l’inerzia delle istituzioni.» La capacità di infondere paura fa parte di tutto l’ar­ mamentario del potere. D i tutte le facce del potere, l’intimorire sembra avere la funzione di profondo principio stabilizzante. Ai vari tipi di dinamiche che tengono insieme vasti imperi, quali la lingua, la cultu­ ra, l’economia e la geografia, va aggiunta la paura co­ me una delle forze su cui si costruisce la comunità. La paura condivisa unifica i popoli. Anche nel nostro se­ colo le due superpotenze, con il loro inimmaginabile potenziale di devastazione, sono state tenute a bada dalla paura della «sicura distruzione reciproca». Il re­ cente lungo periodo di relativa pace mondiale ci è sta­ to accordato dalla paura. L’idea dell’intimorire rivela uno dei motivi per i quali ha presa la tirannia. Dal punto di vista del mito, l’intimorire appartiene al mondo di Ares/Marte, il Dio dell’impeto battaglie­ ro, che aveva per figlio Phobos (paura). Altri Dei della guerra di altre culture e i guardiani scolpiti alle porte dei templi in Asia, presentano facce terribili per tenere lontana la falsa reverenza della pietà devozionale, il sentimentalismo e la vuota cerimoniosità. L’emozione della paura accompagna i fatti del potere: vicino al po­ tere soltanto uno sciocco non avrebbe paura. Molti dei sintomi che si manifestano in ufficio e in fabbrica e che chiamiamo stress, incontinenza, rallentamento del ritmo di lavoro, assenteismo, sono le reazioni paniche, 212

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paralizzanti, della paura di fronte al potere nei posti di lavoro. Gli attacchi di panico e gli stati d’ansia incon­ sciamente riconoscono la capacità che ha il potere di intimorire. Non la pulizia, la purezza, ma il timore è veramente prossimo alla devozione: infatti la Bibbia insegna che il timore di Dio è l’inizio della saggezza. Eppure non c’è nessuno che parli bene della paura, anche se alcuni di noi, e alcune parti nascoste di noi, possono trarne piacere. C ’è un certo piacere nell’essere temibile. Pen­ siamo al sergente istruttore, alla guardia carceraria, al campione di pugilato, all’adolescente teppista e alla ra­ gazzina gelida e arrogante, oppure alla figlia di mezza età che finisce col terrorizzare il vecchio genitore. Pen­ siamo alla vita familiare di milioni di persone, i cui rapporti di potere sono strutturati dal membro più ca­ pace di incutere terrore. In queste famiglie qualcuno ha scoperto che la via al piacere passa per la paura. Coloro che hanno subito violenza e che hanno scoper­ to i piaceri del masochismo capiscono l’uso della pau­ ra per ottenere l’eccitazione, l’aumento della sensibilità e la consapevolezza immaginativa. Se non si accetta di prendere in considerazione l’i­ dea che mettere paura dà piacere, non si riuscirà mai a cogliere tutta la profondità del potere. I casi di tortura documentati da Amnesty International in tutto il mondo sono la testimonianza non soltanto dell’uni­ versalità dell’umana depravazione, ma anche dell’uni­ versale piacere che dà il suscitare paura. Terrorizzare e 213

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torturare altri uomini, altre donne, animali e cose fa parte del compito quotidiano di uomini e donne: la carriera della paura deve dare una soddisfazione che va oltre il richiamo del dovere. Il cinema dell’orrore e del delitto prospera sulla paura associata al potere. Ogni voce che si alza, ogni sguardo minaccioso, ogni balenare di una pistola, ogni scazzottata, fanno au­ mentare il battito cardiaco del pubblico, tanto che, se­ duti là nel buio, non si può dire che cosa sia autorità imperiosa, tirannia dispotica, e cosa sia pura e sempli­ ce paura. Ne Gli spietati, considerato uno dei migliori film di tutti i tempi, la distinzione fra generi di potere risulta particolarmente chiara. Clint Eastwood e Gene Hackman sono tutti e due killer spietati, e anche se Hackman porta il distintivo della carica che ricopre comanda incutendo timore; Eastwood invece, un alle­ vatore di maiali con il morale a pezzi, rivela il potere dell’autorità. L’essere affascinati dalla crudeltà e la tendenza a fo­ mentare la paura sembrano risiedere nell’essenza del ca­ rattere umano, non soltanto in America e non soltanto in coloro che hanno subito privazioni e violenze. I bambini fremono di piacere nel sentire racconti di tor­ ture, nel raccontare vicende orripilanti e nel guardare immagini terrificanti alla televisione. Il termine medico che la psicologia ha attribuito all’eròtica della paura, «sadismo», che lega vittima e violentatore - ma anche colui che guarda —deriva dal marchese de Sade, la cui opera esplora questo genere di potere in tutta la sua 2I4

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ampia gamma immaginativa.7 Quello che Sade tentò di realizzare era la dissociazione della sensibilità, sepa­ rando il piacere erotico dai consueti sentimenti di bel­ lezza, amore e attrazione genitale, allo scopo di mettere in evidenza la connessione erotica che esiste fra il pia­ cere e il potere della paura. Si vuole che Buddha abbia detto che tutte le cose siano nella paura, perfino le piante e le pietre. Questo fatto fondamentale dà al suo mudra, quel gesto che in­ vita a «non temere», un significato davvero cosmico. Il timore viene con l’universo, riguarda la predazione co­ smica. Ogni cosa ne divora ogni altra, in un intricato sistema interdipendente da cui non c’è scampo; un si­ stema che abbiamo convenientemente e idealistica­ mente sterilizzato con il nome di «biosfera» e in cui è vivo il principio che tutto è usabile. Il fatto che tutte le cose siano al servizio l’una dell’altra, in una mutua­ lità cosmica —o in una predazione cosmica —significa che tutto è sfruttabile. Un’idea che spaventa; ma non è forse implicita nella natura stessa del potere?

L a tirannia Farò un uso tirannico di questo termine. In esso inten­ do includere il soggiogamento, il dispotismo, l’espan­ 7. Cfr. Thomas Moore, Dark Eros: the Imagination of Sadism, Spring Pu­ blications, Dallas 1990. 215

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sionismo, il dominio, lo sfruttamento. John Locke ha definito in modo estremamente chiaro la tirannia co­ me «il Potere Assoluto, Arbitrario, che un unico U o­ mo ha su di un altro, di trascinare la sua Vita ovun­ que voglia». Ecco che torniamo alla nostra premessa iniziale, alla subordinazione, adesso in una forma estrema. Le descrizioni della tirannia comprendono generalmente il caparbio esercizio della sovranità as­ soluta, della giustizia arbitraria - o della mancanza di giustizia —e della regola crudele, rigida e persecutoria. La proibizione delle «punizioni crudeli e inconsuete» da parte dell’vill emendamento alla Costituzione americana era una delle precauzioni contro il ritorno della tirannia. La parola chiave nelle definizioni della tirannia, dal suo primo uso da parte dei Greci fino a oggi, è assoluta, a indicare che la tirannia non richiede tanto un unico monarca, un unico dittatore, quanto un uni­ cità di mentalità, letteralizzata in un unico governatore assoluto. La tirannia può governare attraverso un gruppo, come un politburo, un directoire, un ordine re­ ligioso, una famiglia reale o maliosa, fino a che i mem­ bri non divergono sul principio o sull’attuazione del principio. La supremazia di un dogma e dell’obiettivo unico della linea del partito, dell’espansionismo della «famiglia» o della giunta dei colonnelli, conta più del modello della tirannia in un’unica persona. L’assoluti­ smo non è un governatore spietato, ma una regola spietata —cosa che dimentichiamo facilmente, perché 2l6

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la nostra mente si fissa sulle figure degli zar e dei si­ gnori del crimine. Queste immagini servono a mante­ nere il pericolo della tirannia proiettato su Stalin, su Gengis Khan o su Al Capone, proteggendoci dall’asso­ lutismo che può governare la psiche sotto forma di fondamentalismo nella religione, di «pensiero costi­ benefici» nel business e di «progresso» nelle scienze. Inoltre, la proiezione della tirannia su temibili tiran­ ni ci difende anche da un’intuizione che ci riguarda an­ cora più da vicino: che l’assolutismo può governare la nostra stessa vita. Senza saperlo, viviamo sotto la tiran­ nia. Un unico punto di vista, un’unica fede, un unico modo stabilito di fare le cose può espandersi e sfruttare tutti gli altri che sono nella nostra natura finché non siamo assoggettati a regole assolute, che ben presto agi­ scono in modo autonomo. La psicologia freudiana ha chiamato queste dominanti «diktat del Super-Io». Mol­ ti sono i sintomi che esprimono la tirannia di queste regole fisse. Crampi, spasmi, dolori artritici, inibizioni circolatorie ed escretorie si riferiscono spesso all’ostina­ tezza di abitudini croniche, che non possono abbando­ nare le loro regole e semplicemente cessare. E come se Saturno, il vecchio Dio della severa e rigida melanco­ nia, fosse diventato il governatore assoluto della psiche. Rispettosa sopportazione: vecchio prima del tempo. Intanto, altri sintomi acuti quali eruzioni, incidenti, collassi, possono essere la dimostrazione del ribelle op­ presso che improvvisamente si alza ad affrontare l’asso­ lutismo della coscienza abituale. 217

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La coscienza abituale deve reprimere per focalizza­ re. Per esistere in mezzo al brusio aggressivo del­ l’informazione, selezioniamo e rimuoviamo. Ci man­ teniamo fedeli a ciò che secondo noi funziona. E il guardare quello che funziona diventa uno dei modi privilegiati di fare le cose, e ben presto Vunico modo. Via via che si diventa più vecchi, e più ciechi, questa tirannia della coscienza abituale diventa sempre più visibile agli altri. Lo studio di Daniel Goleman su co­ me si è ingannati dalla nostra stessa coscienza abituale dimostra che la tirannica regola unilaterale è la base dell’auto-inganno.8 Questo genere di potere, che ci fa al tempo stesso fattivi e ciechi, va più in profondità che se fosse sem­ plicemente situato nei nostri modi. È il governo tiran­ nico dello stile; lo stile del nostro modo di pensare, di lavorare, di comunicare; lo stile delle nostre parole, dei nostri gesti: e se tutto questo combacia fino a formare una personalità integrata, la coscienza diventa tiranni­ ca. Beviamo per sfuggire a questo tiranno; divorziamo, ci innamoriamo, abbandoniamo il lavoro, cambiamo casa, andiamo in fallimento, ci lanciamo giù per le ra­ pide o con il deltaplano, litighiamo con i nostri figli qualunque cosa pur di sfuggire alla «punizione crudele e inconsueta» inflitta dall’assolutismo di un dominio

8. Daniel Goleman, Vital Lies, Simple Truths: the Psychology ofSelfDecep­ tion, Simon & Schuster, New York 1985. 218

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ben riuscito. Tutto è stato subordinato all’unico mo­ dello tirannico. Tutti gli altri, spariti. Siamo diventati totalmente noi stessi e ora soffriamo del dominio tota­ litario. Dal momento che ogni organizzazione, compreso quel gruppo di tipi strani e di prime donne che com­ pongono la psiche umana, è un’associazione multipla, il dominio da parte di uno sarà sempre minacciato da altri sentimenti e da altri punti di vista. Quanto più in­ sistiamo su parole quali «integrazione», «unità», «cen­ tratura», quanto più immaginiamo che il potere venga dal «tenere tutto insieme», tanto più probabile sarà che crescita diventi espansione di uno a scapito degli altri, e sviluppo semplicemente sfruttamento. La tirannia poggia fondamentalmente su un mito portante, su una convinzione interiore data da una forza archetipica. Per esempio sul mito dell’eroe che può superare ogni ostacolo; sul mito del fanciullo divi­ no, che è ispirato e protetto dalla divinità, e che può correre infiniti rischi e attraversa la vita come su uno skateboard, senza ripensamenti; oppure sul mito della romantica passione sessuale che spinge oltre l’umano, anche verso la sua distruzione. M a i miti non godono di molto credito nel nostro valutare la vita come «profitto-e-perdita». Crediamo soltanto ai miti che si pre­ sentano come fatti e come verità, in una sorta di com­ petizione neo-darwiniana. M a se i miti non vengono riconosciuti, li viviamo —oppure essi vivono noi —cie­ camente. In questa cecità, ciascuno di noi, come dice­ 21 9

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va Freud, sta mettendo in scena Edipo il Tiranno, che non vedeva il mito che viveva e per il quale moriva. La cura antica della tirannia era il tirannicidio, ucci­ dere il re. Un’altra è la democrazia, un voto a ogni vo­ ce adulta. Una terza cura è il complesso tavolo dell’organizza­ zione, con la separazione fra poteri esecutivi, veti e controllori, comitati etici, difensori civici e speciali commissioni inquirenti, burocrazie sovrapposte e dire­ zioni congiunte - il tutto codificato nei meandri di un sistema legale. Un’altra cura è il ricorso rituale a un pantheon di poteri. Era questo il metodo politeistico che governava il mondo antico e molte culture, al di là del monotei­ smo che adora un unico essere supremo: la tirannia esercitata in cielo. La storia e l’antropologia dimostra­ no chiaramente che la qura politeistica non garantisce la libertà dalla tirannia politica, e tuttavia, per ragioni psicologiche, vale la pena di esaminarla attentamente. Il pantheon era strutturato in modo che Zeus/Jupiter, per esempio, era semplicemente il prim us inter p a ­ res. Non poteva sconfinare nei domini degli altri Olimpici. Questa restrizione va oltre il concetto di so­ vranità limitata, perché l’assolutismo non può essere contenuto semplicemente condividendo il potere con un’oligarchia: le giunte sono oligarchie. N é può essere limitato per legge: la tirannia inizia sovvertendo la leg­ ge o piegandola al proprio uso. L’idea di un pantheon, che corrisponde alla struttura interna della psiche, può 220

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costituire invece un freno proprio là dove nasce la ti­ rannia, e cioè nella fantasia della mente che vede se stessa come un governatore assoluto e solitario. Il vo­ cabolario - per inciso - attribuisce al termine «assolu­ to» il significato di «senza condizioni, limitazioni o obblighi; indipendente, disimpegnato». E sciolto da relazioni, libero da ceppi, agisce a ruota libera. Ciò in cui la mente tirannica ha fede è il suo stesso potere, che è anche quello che «crea la propria mente». L’idea del pantheon, invece, rifiuta di lasciare che la mente creda in se stessa in modo così assoluto. Essa dice che la mente, come ogni altra cosa al mondo, è composita e soggetta a molti poteri, ciascuno con miti differenti che richiedono osservanza continua. Un es­ sere umano è immaginato non tanto come un agente centrale, nel quale, per definizione, la tirannia è sem­ pre una possibilità, quanto come un campo in conti­ nuo mutamento, dove l’attrito fra le varie figure ri­ chiede dei rituali e un atteggiamento riflessivo e interE per questo che in altre culture si consultano sem­ pre le stelle, le nubi, gli uccelli, i visceri di animali, i prodigi e i segni premonitori, proprio come noi tenia­ mo d’occhio le previsioni economiche prima di fare una mossa importante. Quello che un tempo erano, e altrove sono tuttora, gli indovini e i veggenti, qui so­ no gli esperti di statistica, gli attuari, gli econometri­ sti, gli esperti di previsioni economiche. Magia delle mode. La differenza fra i due rituali sta nel focus dei 221

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due modi di procedere. Il nostro, attraverso la raccol­ ta dei dati, cerca di contribuire al potere che ha la mente di governare la confusione delle circostanze e di mettere ordine fra di esse. Il loro cerca di differen­ ziare e di dar potere agli altri, in modo che le cose rientrino in un ordine cosmico. È per questo che la fede è centrale per il nostro approccio, mentre per il loro è centrale il sacrificio. Invece di essere fatto a im­ magine di un unico Dio onnipotente, come nella no­ stra cultura, l’essere umano, in queste realtà altre, ri­ flette voci contrastanti ed è immaginato sempre in un fascio di relazioni. Quindi devo domandarmi sempre: «Chi è che comanda adesso?». Quale principio, quale mito, quale potere ha usurpato il trono e sta immagi­ nando la mia mente? I rituali di un atteggiamento riflessivo e interrogati­ vo danno potere agli altri, come nell’interpretazione dei sogni. Non guardo soltanto quello che l’«Io» fa o non fa, ma guardo anche quello che fanno gli altri, e chi essi sono, e perché sono lì nel «mio» sogno. In un modello politeistico della psiche, la prima domanda riguarda gli altri, come avveniva in Grecia quando si consultava un oracolo. I Greci non chiedevano: «Cos’è che non va in me?», oppure «Cosa dovrei fare ades­ so?», ma: «A quale Divinità dovrei rivolgermi in que­ sta situazione?». Chi ha il potere adesso? Questa sem­ plice domanda, «Chi?», annuncia che non sono il solo a comandare e che il mio potenziale tirannico è stato messo in discussione. 222

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I l veto Questa singolare forma di potere si esplica in un’attività dedicata completamente alla negazione. La sua unica forza sta nella capacità di frustrare la volontà di molti. Sebbene affidato dai molti all’uno, dal collettivo all’in­ dividuo come garanzia protettiva, il veto asserisce una parità fra l’uno e il gruppo. Il fatto che la volontà della maggioranza del Congresso possa essere annullata dal veto di un unico presidente, accresce il potere dell’uno facendolo diventare pari a quello dei molti. Il veto, quindi, fa parte di quello che il sistema americano di governo costituzionale chiama «l’equilibrio dei poteri». Il veto non offre alcuna alternativa positiva, alcun compromesso e non è soggetto a condizioni. Può sol­ tanto essere ignorato dal potere di una maggioranza ancora più grande. Il suo potere è assolutamente proi­ bitivo, come dice la parola latina da cui deriva: vetare, proibire. Il fatto che il veto sia contemplato in sistemi di go­ verno del massimo livello — il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la presidenza degli Stati Uniti — dimostra che è profondamente riconosciuta l’impor­ tanza della negatività e indica che la negazione è fon­ damentale per il potere del potere. La negazione, diceva Freud, è una repressione: «Un giudizio negativo è il sostituto intellettuale della re­ pressione; il “no” con cui viene espresso è il marchio della repressione». Che enorme potere in quella paro­ 223

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letta, no! Rompe rapporti, rifiuta la cooperazione e sancisce il rifiuto. Chiunque ha subito anche il più gentile dei no, se ne va malconcio dall’incontro, sia che questo si svolga a una riunione d’affari, a un ballo o a letto. Un bambino di due anni, appena scopre il potere del suo veto, può usarlo per coartare la volontà di un’intera famiglia e per gettare la sua organizzazio­ ne nel disordine più selvaggio. Quell’unica sillaba consente un controllo definitivo, reprimendo le in­ tenzioni della comunità, bloccando completamente il meccanismo. Questa forza sorprendente nel corpicino di un bam­ bino di due anni prova che essa deriva da fonti al di là della volontà umana e che quindi la capacità di dire no fa parte dei nostri caratteri congeniti: un dono o un istinto dato con la natura e innato in tutti. «Prima ancora che il bambino abbia visto la luce, il principio della barba e dei capelli grigi è innato. Anche se picco­ le e nascoste, tutte le funzioni dell’intero corpo e di ogni successivo periodo della vita ci sono già.» In que­ sto brano Seneca si riferisce alle influenze archetipiche degli Dei, in questo caso del vecchio Saturno, il gran­ de frustratore, quello che nega, il signore della repres­ sione. Se il veto rimanda a una volontà più che uma­ na, il no che proibisce parla con la voce di una figura mitica immensa ed eterna. Può veramente dare al sin­ golo individuo un peso che controbilancia la volontà della maggioranza. Forse, proprio per la sua saturnina negatività, molti presidenti esitano a servirsi del veto e 224

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preferiscono evitare quella decisiva forza negativa ri­ correndo al «pocket veto», un veto indiretto, basato sul ritardo della firma. Il potere del veto paralizza. Il vecchio parlamento polacco, per esempio, assegnava il potere di veto indi­ viduale a ogni esponente della nobiltà, il quale, per sue arbitrarie ragioni, o non ragioni, poteva bloccare i provvedimenti del governo eletto per anni e anni. Se il concetto più condensato di potere è quello di «azione che subordina», il veto allora esemplifica que­ sto potere in modo estremamente chiaro. Subordinare, ovvero tenere sotto e indietro: è proprio questo ciò che il veto sa fare così bene. Lo stesso no che proibisce, tuttavia, può anche intravedere uno sbocco positivo a lungo termine. Infatti, quella che inizia come l’ultima accanita resistenza di un leader in declino, di un’am­ ministrazione, di una classe sociale può anche essere l’unica via aperta a un leader visionario che vede, ma che è troppo avanti rispetto alla massa. I visionari, tutt’altro che in posizione di retroguardia, puntano dritto verso un territorio sconosciuto. Venute meno l’influenza, la persuasione, l’autorità, non resta proba­ bilmente altra scelta che quella di porre il veto ai piani mal concepiti degli altri. Il giudizio negativo espresso dal veto segue l’intuizione di Kant: «La peculiare pro­ vincia dei giudizi negativi esiste unicamente per impe­ dire l’errore». In altre parole, la negazione può essere motivata da una visione ideale, da una purezza di sco­ po nella dedizione agli ideali, e allora il veto ha a che 225

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fare con il genere di potere che ci accingiamo ora a esaminare: il purismo.

I l purismo La tirannia non è l’estremo più lontano dalla subordi­ nazione. C ’è ancora un gradino più alto verso la pu­ rezza spirituale. E questa un’idea di potere raramente manifestata, anche se ampiamente onorata e incarnata in questo secolo dalla purezza dei principi e dal marti­ rio di due uomini di enorme potere come Martin Luther King e Gandhi. Il fatto che, adesso, la nostra discussione sia arrivata a questo genere di potere ecce­ zionale dimostra che stiamo seguendo gli ideali deter­ minanti della tradizione occidentale verso il regno del­ lo spirito. La direzione verso l’alto è quella che prefe­ riamo. Vi ricordate la definizione junghiana del com­ plesso di potenza con cui inizia questa parte? La parola chiave era «sopra». Lo spirito parla per assoluti. Subordina tutto quello che sta sotto. Relega in un luogo inferiore qualunque cosa non si adatti alla sua visione superiore. Lo spirito impartisce ordini chiari e mette sempre gli occhi su picchi più alti, non importa quanto umile sia la sfera della sua attività, come nelle assemblee e nelle marce sia di Luther King sia di Gandhi. Nessun luogo e nes­ suna persona sono troppo piccoli, perché proprio in quella umile modestia lo spirito manifesta il suo pote­ 226

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re vincente. Vince perché sogna e prevede; e coloro che seguono lo spirito, via via che salgono la scala ver­ so l’acquisizione del potere, devono spogliarsi dei gro­ vigli e degli impedimenti di una vita compromessa. Tutte le marce sono verso l’alto —verso il meglio, il fu­ turo, il vero. E il vero è uno e certo, e non duplice; perché ciò che è duplice produce dubbio. Le immagini classiche dello spirito sono il raggio di sole, la freccia e l’ala, l’aquila, la voce invisibile, la vet­ ta di un monte, il vento e il fuoco. «Chiarezza», «ordi­ ne», «verità», «unità» sono alcune delle sue espressioni preferite. La dimensione è quella verticale, la via dirit­ ta e stretta, e l’emozione è solitaria. Un’unica persona incarna la via e la meta, come M ao con la sua marcia, o Giovanna d’Arco con le sue battaglie. Questo tipo di potere non mira a governare sugli altri. La sua intenzione non è né il dispotismo né il controllo, ma piuttosto quella di stare al di sopra di ogni altro tipo di potere che ha a che fare con la vita. La purezza è una tirannia sulla vita stessa, e manifesta il potere di un unico sé sulle richieste della vita. Quin­ di il potere spirituale può anche dormire nel villaggio e camminare con i lavoratori, perché questo genere di potere non è contaminato dai fatti della vita. È al di sopra del danaro, al di sopra del prestigio e della fama. La sua autorità è suprema o, per meglio dire, la supre­ mazia è la sua autorità. Il potere del purismo si accu­ mula attraverso la spoliazione, e acquista forza non con l’espansione ma con l’abnegazione. Anche se le 227

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parole del suo linguaggio possono essere quelle dell’u­ nità inclusiva, che abbraccia tutti nella sua visione, la visione in sé è affilata e dura come la lama di una spa­ da, assolutamente esclusiva e non aperta a compro­ messi. Di queste persone si sente spesso dire: «Non al­ lenta mai... totalmente dedito... disciplinato... così duro con se stesso... non ha mai la minima esitazione ma sa esattamente dove vuole andare». «È divorata da una missione... nessuno riesce ad essere alla sua altez­ za... sempre la prima nel suo lavoro... di certo non sopporta pazientemente gli sciocchi». Sul percorso del potere del puro non c’è tempo per percorsi secondari, o turistici. L’unicità di visione - una delle definizioni che si possono dare del purismo —isola coloro che ce l’han­ no. Il sé che può esibire un potere sulle domande della vita è un solitario, talvolta un eremita, talvolta un vir­ tuoso crociato, non molto diverso da un fanatico ter­ rorista. Poiché soltanto la morte non ha veramente niente a che fare con la vita, esercitando così su di essa un potere supremo, questo genere di potere sorveglia il suo fuoco nella caverna della morte, traendo da que­ sta potere e agendo nel mondo come suo emissario, in nome di valori più alti. I puristi sono mortali; per questo sanno tutto sui peccati mortali. Per quanto possiamo ammirare e idealizzare la pu­ rezza del potere spirituale, ne abbiamo anche paura. È un genere di potere che ci tiene a distanza e noi ne re­ stiamo alla larga. Che sia una nostra tendenza a bandi­

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re i puristi dall’intimità della vita consueta o che siano loro stessi ad autoesiliarsi, fatto sta che succede qual­ cosa che impedisce al purismo di contaminarsi con le cose comuni della strada (e che induce i puristi a ca­ scare fra le braccia della prostituzione, del mercantili­ smo e dello scandalo). Di tutte le barriere che circondano il purismo, quel­ le psicologiche sono le più efficaci. Come prima cosa i puristi del potere vengono definiti «elitari»; poi «arro­ ganti» e «distanti»; infine «isolati» e «schizoidi». La passione che producono con i loro rimedi per la vita, sembra che la vita stessa la respinga. Troppo estrema, troppo radicale. La loro intolleranza per le nostre im­ perfezioni è pari alla nostra intolleranza per la loro perfezione. Non sono per il gioco di squadra, non so­ no gente per l’organizzazione, fratelli e sorelle. Alcuni definiscono le persone che incarnano il pote­ re spirituale come «pericolosi sociopatici» o «paranoidi deliranti». Con troppa facilità ricorriamo a metodi psichiatrici di controllo politico; un po’ come i sistemi usati nell’Unione Sovietica, dove i dissidenti venivano rinchiusi negli ospedali e sottoposti a trattamenti psi­ chiatrici, o come quelli usati da noi, quando rinchiu­ diamo chi non ce la fa. Le categorie della psicopatolo­ gia si prestano facilmente e virtuosamente allo Stato, quali strumenti del suo stesso purismo, che cerca di mantenere il corpo politico immune da infezioni spiri­ tuali aliene. Poiché i puri di spirito non si conformano al senso

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comune, sembrano avere idee stravaganti e modi di comportamento apertamente estremi. Forse perché credono di poter veramente cambiare il mondo? La te­ levisione e la stampa popolare (ma quale stampa non è popolare?) li associano ai serial killer e a quei tipi soli­ tari che compiono crimini orrendi contro le donne e i bambini e ai weirdos posseduti da alieni. Lo status quo ricorre a tutto il suo potere convenzionale per imbri­ gliare, castrare, incarcerare e diffamare il purismo, a ogni costo —a ragione o a torto. I puristi dello spirito, la cui dimora è, in parte, fuo­ ri da questo mondo, diventano nemici dello Stato perché il loro stato mentale li tiene separati, come uno Stato in se stessi; come Solzenicyn, che dichiara­ va di essere uno Stato indipendente dal governo so­ vietico. Solzenicyn, premio Nobel, aveva davvero sor­ vegliato i suoi fuochi nella caverna della morte nel­ l’arcipelago Gulag e nella Divisione Cancro. Non è allora il purismo la suprema forma di potere? E que­ sto genere di potere, con tutta la sua tirannia e il suo assolutismo egocentrico, non è forse anch’esso al ser­ vizio? Al servizio di un potere di cui sappiamo poco: il potere degli spiriti.

II potere sottile Vent’anni di fecalizzazione femminista sul potere han­ no modificato molte delle sue consuete valenze. Oggi 23O

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la subordinazione sembra un concetto sorpassato, lega­ to alla dominazione dei maschi in una civiltà patriarca­ le, come sostengono le femministe. Se seguiamo le loro argomentazioni, molte delle idee del potere che abbia­ mo descritto, come l’intimorire, la tirannia, il prestigio, il controllo e naturalmente l’esibizionismo, riflettono una civiltà «maschilista bianca, ormai morta», con le sue mummificate idee di potere. Inoltre queste idee rendono ciechi nei confronti di generi di potere più sottili che funzionano ogni giorno da sostegno al no­ stro diventare e al nostro fare, al nostro agire effettivo. L’agire stesso, che è la più astratta e imparziale delle definizioni del potere, nella nostra civiltà è stato ristret­ to a un genere limitato e vigoroso di potere, modellato sui miti dell’eroe. Quel solitario individuo muscoloso lotta contro le avversità e distrugge i nemici, uccide gli animali e devasta la campagna abbattendo alberi e de­ viando il corso dei fiumi. Può caricarsi sulle spalle la terra intera. Poiché la nostra nazione è ossessionata dal­ l’ansia della produttività competitiva, poiché noi aspi­ riamo a diventare «più snelli e più duri», le nostre idee di potere si sono modellate in maniera da conformarsi a quest’ansia dominante. Il potere dev’essere produtti­ vo e la produttività dev’essere eroica. Questi concetti di potere vigorosi, competitivi, atle­ tici, trovano il loro supporto nei miti dell’eroe occi­ dentale, ma anche nel Cristianesimo occidentale. Pri­ ma dei monaci, prima degli eremiti e dei santi con­ templativi, prima dei frati compassionevoli, i cristiani

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delle origini erano chiamati «atleti» di Cristo. Proprio in seguito alla competizione con le altre sette, il Cri­ stianesimo era arrivato a dominare il Mediterraneo orientale e, come diremmo oggi, aveva conquistato il «mercato religioso». L’espressione greca athletes indica­ va, in origine, uno che contende, che lotta nei giochi competitivi, ma anche che patisce le prove e le tribola­ zioni di queste lotte. Come athletes, i primi cristiani erano zelanti missionari che diffondevano la parola, convertivano e lottavano per ottenere una «penetrazio­ ne di mercato» più profonda. Le sfide della competi­ zione accrebbero la forza del Cristianesimo, proprio come oggi la concorrenza viene considerata il modo per mantenere produttiva una nazione. M a è proprio vero che il potere produttivo non può essere immaginato diversamente? Pensiamo alla Dea delle messi, Demetra/Cerere, con la cornucopia tra­ boccante di piaceri commestibili. Pensiamo al potere del banchettare, in molte civiltà non occidentali, dove il segno del prestigio, dell’autorità, della leadership, cosi come lo scopo dell’ambizione, consiste nell’offrire a ciascuno tutto quello che probabilmente non riu­ scirà mai a mangiare.9 Lean and mean, snello e duro, come i principali mezzi del potere produttivo, è un’e­ spressione che trascura lo scopo finale dell’accumula­

9. Lewis Hyde, The Gift: Imagination and the Erotic Life o f Property, Random House/Vintage, New York 1979. 232

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zione di profitto nella storia del capitalismo america­ no. Altruismo, carità, sovvenzioni, magnanimità: tutto questo, i nomi che contano lo tolgono dalla circolazio­ ne. I padri di una fondazione sono diventati impor­ tanti nella storia americana quanto i Padri Fondatori. M a allora la generosità deve essere proprio rimandata alla fine, come parte delle ultime volontà, anziché es­ sere inserita nella benevolenza del vivere quotidiano? La filantropia, che vuol dire amore per il genere uma­ no, non consiste soltanto nel regalare del danaro e non è privilegio unicamente di persone eminenti e dal ca­ rattere ammirevole. Anche le persone dure e non cre­ denti possono essere dei filantropi, quando esercitano il potere nella vita quotidiana profondendo la loro vi­ talità al servizio del loro lavoro o dei loro amici, come facevano Picasso o Ezra Pound. Il potere della genero­ sità ha poco a che fare con l’intenzione personale di colui che dà, e molto con l’effetto impersonale del do­ no. La filantropia è anche un rito propiziatorio, un tentativo di restituire parte del potere che ci è stato da­ to, affinché non diventiamo vittime dei nostri stessi talenti. Il re M ida ricevette da Dioniso il dono prodi­ gioso di trasformare in oro qualunque cosa toccasse. M a poiché gli si trasformavano in oro anche il cibo e le bevande, dovette pregare Dioniso di riprendersi proprio quel dono che lo aveva reso tanto ricco. C ’è poi il potere del piacere. Che presa dominante ha sul modo di concepire la nostra giornata! Non mi riferisco soltanto a quello che mangiamo, a quello che 233

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indossiamo o al modo in cui passiamo le serate. Penso piuttosto al potere dei colori e dei sapori, delle chiac­ chiere sulle nostre minime reazioni e osservazioni; penso al potere della sensualità, dell’intelligenza, del­ l’affetto e dell’amicizia —i piaceri che muovono il cor­ po e l’anima e che possono benissimo essere la meta fi­ nale di ogni altra nostra azione. Il piacere, come la bel­ lezza e l’ordine, è uno dei grandi poteri che muovono il cosmo. Riconoscendo il Lustprinzip, il principio del piacere che cerca di dare gioia erotica ad ogni atto, co­ me una forza alla radice dell’anima, Freud dette al pia­ cere la dignità di Principe del Potere, non di Principe delle Tenebre. Il fatto che il principio del piacere sia stato contrapposto all’etica del lavoro li umilia en­ trambi, riducendo il lavoro a schiavitù e il piacere a una sorta di infantile marinare la scuola; ci porta inol­ tre a considerare il piacere come un decadente parassi­ ta che fiacca la forza del potere. Mai l’opposizione fra il lavoro e il piacere diventa così evidente, e a volte assurda, come nella difesa del luogo di lavoro dalle incursioni di Venere/Afrodite, in quella forma degradata che sono le molestie sessuali. Se immaginiamo che questa Dea del piacere vuole che la sensualità e lo scherzo erotico trovino ovunque un posto nella vita, allora è naturale che cerchi di entrare, in un modo o in un altro, in ogni luogo da dove è sta­ ta bandita. Allora l’interrogativo non è più come im­ pedire che le molestie sessuali disturbino i luoghi di lavoro, ma è piuttosto: perché l’idea di lavoro dev’esse­ 234

Stili del potere

re così scissa dal piacere? Perché l’eros, la bellezza, la frivolezza, la dolcezza, la sensualità, la seduzione, il fa­ scino, il flirt devono essere marginalizzati nei bar dei single o in zona di guerra, in modo che il lavoro possa essere gestito da una puritana schiera di abiti grigi, con camicie Oxford e scarpe cordovane? I miti ci dico­ no che ogni attività, come il lavoro d’ufficio, che proi­ bisce la presenza di Afrodite sollecita la vendetta della Dea, che non vive soltanto nei templi del passato ma anche nel tempio dell’anima, la metafora filosofica per il corpo. «Buon divertimento» dice la cameriera. Perché non lo dice anche il padrone, quando ti siedi al lavoro? E non soltanto trarre piacere dal lavoro, ma anche dare piacere, come un amante. Non è questa forse una ca­ pacità di potere, come il controllo, la leadership o l’a­ scendente? Che dire di un altro tipo di attività, come l’insegna­ mento o il giardinaggio? O l’assistenza post-operato­ ria? Nel loro campo, insegnanti e giardinieri esercitano un potere immenso. Dominano e controllano sì, con la matita rossa e con le forbici per potare, ma non devono sottomettere gli oggetti delle loro cure. Un’infermiera accudisce un paziente immobile: dispotismo, tirannia, intimori­ mento sono tutti elementi potenzialmente presenti, ma il suo potere, come quello dell’insegnante e del giardiniere, consiste nel prendersi cura della vita di chi le è stato affidato. I moventi e l’atmosfera del suo agire 235

IL POTERE

sono radicalmente differenti dai tipi di potere che ab­ biamo esaminato. La manutenzione, come incremento dell’energia, costituisce un altro esempio del prendersi cura come potere. Inoltre, avrete sicuramente notato quante attività elencate sotto la voce manutenzione insegnare, prendersi cura, accudire, pulire, riparare — sono state per così lungo tempo associate alle donne o assegnate loro come lavori femminili. L’intero concetto dell’agire va rivisto. Noi ne abbia­ mo esaminato soltanto metà. E come se avessimo pre­ so in considerazione soltanto il marito di un matrimo­ nio anni Cinquanta che esce per andare al lavoro, mentre la moglie, la sua little woman, è quella che in realtà gli dà potere da dietro la porta di casa. Il potere di concepire, di far sviluppare, di mettere al mondo e poi di nutrire, proteggere e far crescere un’altra vita, corrisponde a un genere quotidiano di potere in­ comparabilmente efficace, quello di una madre se lo in­ tendiamo alla lettera, ma anche di genere diverso se lo interpretiamo metaforicamente. Prendersi cura della continuità, sostenere gli ideali e i valori, nutrire ogni cosa di cui si è responsabili affinché possa fiorire, talvolta a co­ sto di sminuire noi stessi, non significa idealizzare la ma­ ternità, ma riconoscere un modello archetipico di potere che raramente trova la strada dei testi di management, tutti focalizzati sulle abilità dell’assertività, sul fronteggia­ re l’insubordinazione, sulla proiezione d’immagine. Il prendersi cura ha vari corollari: conservare, con­ dividere, permettere. Corollari che conferiscono pote­ 236

Stili del potere

re agli altri, invece di delegare. Corollari che smenti­ scono l’idea di materia inferiore, passiva, che abbiamo esaminato in precedenza e che pervade i nostri atteg­ giamenti iperenergetici di produttività e di prestazio­ ne. A differenza della tradizionale concezione passiva secondo cui la materia deve essere mossa esercitando su essa una forza superiore (e questo in pratica signifi­ ca la forza di qualcuno che è superiore nella catena del comando), la visione del mondo basata sul prendersi cura sostiene che esiste un potenziale innato in ciascu­ na persona, in ciascun compito, in ciascuna creatura, animata e inanimata. Questo potenziale non è inerte ma, come direbbero i marxisti, è in catene. L’anima in catene, imprigionata, appartiene al reper­ torio delle immagini filosofiche occidentali che risalgo­ no molto indietro nel tempo. Prima della scienza mo­ derna, la filosofia della natura sosteneva che imprigio­ nate dentro tutte le cose ci sono scintille di fuoco, o anima. Queste scintille potevano essere liberate con va­ rie arti, in particolare con l’alchimia. L’idea di un’im­ magine vivente imprigionata dentro un blocco di ma­ teriale inerte permea le arti fin da Pigmalione, che scolpì una statua che aveva in sé la vita; fin da Miche­ langelo, che non imponeva semplicemente la sua im­ magine al marmo, ma che con lo scalpello liberava l’immagine che vi era già implicita. L’alchimista concepiva la propria arte come un ope­ rare con le forze naturali in modo da liberare i poten­ ziali innati, bloccati e in attesa di esprimersi. Il simbo­ 237

IL POTERE

lo di questa trasformazione dalla muta e depressa inat­ tività alla massima realizzazione del potenziale, era l’o­ ro. Tutte queste cose, se ce ne prendiamo cura in mo­ do appropriato, potrebbero diventare oro. Questa ana­ logia con l’alchimia possiamo utilizzarla anche oggi nel pensare all’applicazione del potere come un abile incoraggiamento a liberare i poteri innati negli altri, portandoli al massimo con la discrezione, e non con la direzione. Parallele alla filosofia naturale dell’alchimia, che hanno anche fortemente influenzato, sono le idee del misticismo giudaico. Mi riferisco all’idea cabalistica del tsim tsum, il rifugiarsi, il ritirarsi. L’argomentazione della Cabala segue questa linea di ragionamento: poi­ ché Dio è ovunque, «l’esistenza dell’universo è resa possibile dal ritirarsi di D io».10 Per creare, per produr­ re, bisogna fare spazio alle cose di questo mondo. Dio, così onnipresente, così onnipotente, fa restare fuori tutti gli altri generi di esistenza. Quindi egli deve tirar­ si indietro perché la creazione possa venire all’essere. Soltanto ritirandosi, Dio consente il mondo. Il princi­ pio che governa, al vertice, non deve essere onnipre­ sente e onnisciente. La produttività si realizza perché Dio si leva di mezzo. Non sa; diventa un Dio che non sa; governa con benigna trascuratezza. Si mette in esi-

10. Gershom Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Il Melan­ golo, Genova 1986. 238

Stili del potere

lio. Non è certo il manager che sta sempre a imparare e ad accrescere le proprie abilità. Siamo ben lontani dalla subordinazione. Possiamo immaginare che il tsim tsum avvenga an­ che al livello umano quotidiano, dove il ritirarsi potrà essere sentito come non poi così «divino». Potrà capi­ tare semplicemente come sentimento di incapacità, di impotenza e di esilio. Il senso di aver perso i contatti, di avere perso completamente il controllo. Se leggia­ mo contro lo sfondo del tsim tsum, o creatività attra­ verso il ritirarsi, queste esperienze depotenzianti sare­ mo in grado di immaginarle non tanto come debolez­ za, quanto come momenti che richiedono una forza epica, proprio come un Dio che riduce il proprio do­ minio attraverso un intelligente autocontenimento. A essere abbandonata è l’intera fantasia di condurre tut­ to lo show; abbandonati sono i piani di centralizzazio­ ne efficiente e di controllo supervisore. Invece, si ab­ bandonano le redini, i resoconti, la responsabilità, in modo da consentire ai potenziali di un’organizzazione di emergere dai loro nascondigli. È abbastanza eviden­ te il paragone con le arti. Infatti quello che l’attore cerca di raggiungere sul palcoscenico è il «levarsi di mezzo», in modo che il personaggio che sta interpre­ tando possa venire completamente fuori. Allo stesso modo anche lo scrittore e il pittore: devono levarsi di mezzo dal fluire dell’opera sulla carta o sulla tela. I pa­ rallelismi con l’organizzazione della personalità indivi­ duale non occorre nemmeno menzionarli. Dobbiamo 239

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«levarci di mezzo» in modo che le nostre famiglie pos­ sano respirare, in modo che i nostri sogni possano re­ stare vicini durante il giorno. Fin dove si può andare nel «non sapere», nella semplice ammissione di igno­ ranza? Tutto questo può sembrare come una rinuncia a tutti i nostri poteri. I biografi dei grandi parlano tal­ volta di «collasso creativo» per indicare questi periodi di tsirn tsum in una vita umana. Queste sottili idee di potere, o idee di potere sottile, su cui poggiano il femminismo, le arti e il misticismo, non esauriscono ancora la portata del nostro tema. Esistono infatti dei poteri che vanno al di là di qua­ lunque formulazione. Li raggiungiamo con i gesti e con i riti. Sembrano remoti rispetto al business, al go­ verno, e perfino rispetto alla psicologia. Alcuni si ma­ nifestano nella mente, come i sogni che ci impongono realtà che non vorremmo riconoscere; come le intui­ zioni che scuotono la nostra vita indirizzandola su nuove strade. Altri poteri giungono attraverso gli oc­ chi, come l’improvviso colpo di fulmine in una storia d’amore. Altri ancora li propiziamo con la preghiera o con le candele, e con le piccole pietre su altari privati, in casa, dopo una strana coincidenza o una cattiva giornata. Ci sono poi i poteri animistici che abitano l’ambiente che ci circonda, e che questo nostro tempo sta riscoprendo in due modi: il primo è l’ecologia, il secondo è la tossicologia. Il primo dice che l’attività umana dipende dal potere della biosfera, al quale l’esi­ stenza umana è subordinata. Il secondo dice che poteri 24O

Stili del potere

insospettati risiedono nel suolo e nell’acqua, nel cibo e nell’aria, nel mobilio e nelle pareti, e nei macchinari ad alta tecnologia con i quali lavoriamo. Questi posso­ no causare malattia e morte. Idee di potere fondate sull’agire umano si arrendono di fronte a questo ritor­ no dell’animismo. Sono i poteri là fuori, nei luoghi, nelle cose e nelle menti, che adesso hanno bisogno di attenzione e chiedono un’immaginazione del potere più raffinata. Gli accenni alle sottigliezze del potere ci riportano a un aborigeno sentimento del rituale. Il maestro africa­ no Malidoma Some scrive a proposito dell’agire: ... nessuno può realizzare nulla che non sia in linea con gli Dei o con un Dio ... Non richiede poi molto tempo innalzare una piccola invocazione all’inizio e alla fine della giornata ... mettendo ritualmente nelle mani degli Dei quello che facciamo, noi rendiamo possibile che le cose siano fatte meglio, perché in questo fare le cose è implicato qualcosa di più che noi soltanto.11 La leadership, l’autorità, l’ambizione, che si muovono soltanto secondo la loro visione, corrono un altro ri­ schio, il rischio di offendere poteri che non vedono. «Perché è implicato qualcosa di più che noi soltanto»,

11. Malidoma Some, Ritual: Power, Healing and Community, Pordand, Swan & Raven, Oregon 1993. 241

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come dice Malidoma Some. Tutti coloro che hanno potere dovrebbero tenere un piede in ciascun mondo, rispondendo a ciascuno secondo le sue richieste. L’i­ stinto da cui dipende la leadership è molto vicino al­ l’intuizione, quel fiuto per ciò che è nell’aria. Una per­ sona che ha potere si rivolge alle sottili forze che sono nell’aria —che a loro volta si rivolgono a lui —e agisce come un mediatore collettivo degli spiriti molesti, che lo fanno sentire disturbato e vulnerabile. Questa aper­ tura, questa capacità di essere influenzato, ma anche di resistere, pone al servizio comunitario della crescita e del mantenimento di un’organizzazione coloro che de­ tengono il potere. I poteri sottili che riconosciamo ci stabiliscono al tempo stesso come avanguardia e come confluenza di varie forze. Siamo come il seme indivi­ duale di uno spirito comune, che dà voce a una vo­ lontà più differenziata e comprensiva. Tipi sottili di potere si sono delineati nel corso di tutto questo libro, e tuttavia il potere delle definizioni convenzionali continua a subordinare il nostro pensie­ ro a concetti vecchi e familiari quali «il potere è fonda­ mentalmente una forza subordinante», «l’agire richie­ de esercizio», «per avere potere bisogna prima esercita­ re la volontà». Noi invece abbiamo suggerito - e ora affronteremo in modo più esauriente questo punto nella Parte III - che il potere non è nelle mani di agen­ ti umani, non comporta necessariamente il dominio dell’Altro, e certamente non esclude emanazioni di potere derivanti dalle semplici attività della vita quoti­ 242

Stili del potere

diana. Un buon servizio, strutture ben mantenute, gli uffici che ricopriamo, il linguaggio con cui ci vengono scritte le relazioni e quello che noi usiamo nelle riu­ nioni - anche queste sono forme di potere, che eserci­ tano un effetto e che portano le nostre azioni in deter­ minate direzioni. Il potere emana da idee come l’effi­ cienza e la crescita, che possono conferire autorità ai programmi del purismo e del timore. Ormai abbiamo visto il potere sottile delle idee che possono controlla­ re, influenzare o tiranneggiare il nostro modo di pen­ sare e di sentire quello che facciamo. Siamo arrivati, insomma, a riconoscere le sfumature di potere che so­ no insite nelle idee di potere.

PARTE

III

I m iti del potere - Il potere dei m iti

In questa parte tenteremo di affrontare il potere in modo differente. Mentre la Parte II ha differenziato le idee tipiche associate al potere, questa cercherà di mo­ strare più direttamente il potere dei miti sulle idee. La Parte II ci ha reso consapevoli che la spinta al potere ha molte facce, e che mentre per una certa persona il modo di percepire il potere può essere il prestigio, per un’altra può essere l’autorità e l’ascendente. Adesso an­ dremo oltre le idee tipiche e gli stili personali; ci spo­ steremo infatti da una tipologia a una archetipologia. Qui sto postulando l’esistenza nell’immaginazione di modelli di potere, che precedono le idee e che si ri­ velano nelle idee. Questi modelli sono gli archai — il termine che i Greci usavano per i principi ultimi: le metafore basilari su cui tutte le cose poggiano, e che danno, in modo costante, forme tipiche e stili di espressione al nostro modo di pensare, di sentire e di parlare. Le figure del mito rivelano particolarmente bene questi modelli, ed è per questo che le figure trat­ te dai miti sono diventate, soprattutto in questi ultimi 247

IL POTERE

anni, una sorta di tassonomia stenografica per classifi­ care modelli di comportamento e stili di personalità lungo linee definite. Queste griglie somigliano piutto­ sto a mappe, a curve di livello del territorio dell’imma­ ginazione che consentono alla mente di leggersi in modo immaginativo, laddove le spiegazioni sarebbero una sorta di bulldozer che spiana il terreno riducendo­ lo a un pensiero piano, semplice, utile a mettere in piedi costrutti concettuali. Chiamiamole archetipi, queste linee incise, chia­ miamole griglie mitiche, oppure persone immaginabili o forme ideative, ma qualunque sia il nome che diamo loro vanno comunque distinte dalle categorie che filo­ sofi come Aristotele o Kant sostenevano essere struttu­ re mentali fondamentali, categorie astratte come spa­ zio e tempo, moto e numero. Le griglie mitiche sono figurative, personizzate. Le ritroviamo più facilmente nelle arti (nel teatro, nella pittura, nella scultura, nella poesia, nelle varie forme di scrittura). Resti di questa pratica, come la Dea della Giustizia, della Ragione, della Libertà, continuano ad adornare pubblici edifici. Un tempo a Roma - e i Romani, del potere, ne sape­ vano qualcosa - c’erano statue, templi e offerte votive per rendere omaggio a ogni forma di potere che influi­ va sulle relazioni personali, sulla condotta dello stato e sugli atteggiamenti della mente. Questi templi che onoravano poteri mitici erano comuni anche nell’anti­ ca Grecia. «Per parlare della sola Atene, troviamo altari e santuari della Vittoria, della Fortuna, dell’Amicizia, 248

I miti del potere

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Il potere dei miti

della Modestia, della Pietà, della Pace, e molti altri an­ cora.» Anche il Brutto, l’Insolenza e la Violenza aveva­ no un loro riconoscimento. Erano poteri reali ai quali bisognava prestare attenzione, non «mere invenzioni dell’immaginazione».1 Si pensava che, come Dei e Dee, queste strutture on­ nipotenti determinassero e qualificassero aree impor­ tantissime dell’esistenza umana e cosmica. Per esempio, in Grecia e a Roma, Ares/Marte, il Dio della violenza e della furia guerresca, ma anche il protettore della città, aveva una moltitudine di luoghi, di giorni e di ¡sventi che appartenevano a lui, allo stesso modo del cavallo di battaglia, della lancia e del ferro. Portava lo scudo ed era ben protetto, così che poco o nulla pote­ va penetrare il suo elmo. Le ramificazioni simboliche di questo Dio virile, irsuto, dal volto acceso, facevano sì che il suo regno si estendesse a coprire innumerevoli aspetti della vita quotidiana: i cibi piccanti (peperone, rafano); le pietre e i fiori rossi; le malattie acute (feb­ bri, eruzioni); i tempi e le chiavi musicali, i ritmi scan­ diti e le battute incalzanti della poesia; i rimedi vegeta­ li, gli animali come lo sparviero e il picchio, le confi­ gurazioni geografiche calde e aride, e uno stile retorico di linguaggio esortativo, rapido, apodittico. Tutto quel­ lo che si incontrava nella gente, nella natura, nel fato,

1. R. Hinks, Myth and Allegory in Ancient Art, Warburg Institute, Lon­ don 1939, p. 109. 249

IL POTERE

nel mondo sensibile delle cose, apparteneva a una fi­ gura mitica o a un’altra. Il mondo era un libro aperto e poteva essere letto secondo le griglie mitiche dell’im­ maginazione. E così anche oggi. Dalle bombe su Baghdad al cla­ more e ai cori negli stadi, alle lotte con pugni e san­ gue, Marte continua a esplodere nei nostri soggiorni dagli altari luminosi degli schermi televisivi. Pubbli­ cità di automobili (spesso rosse), inseguimenti in au­ to, corse automobilistiche, auto che finiscono in ac­ qua, auto che si fracassano sprigionando colonne di fuoco. Scene di incidenti, di catastrofi - come se tut­ to il pubblico televisivo fosse sintonizzato sul 113. Marte però non governa soltanto il contenuto e le immagini, ma soprattutto la velocità con cui vengo­ no diffusi: la disinvoltura con cui si elidono i parti­ colari di un messaggio per renderlo comprensibile in un flash, i tagli, gli spostamenti e le sconcertanti giu­ stapposizioni dell’editing, il fuoco incrociato di bat­ tute, gli applausi scroscianti, il volume sovreccitato degli stacchi musicali, le nottate — il disc jockey co­ me uno che viene da Marte. Pensiamo ai cartoni ani­ mati, tutto uno «zip-bum-bang»; Marte che vende merendine e giocattoli; la televisione come minicam­ po di addestramento reclute per bambini di cinque anni. Marte ama lo stile maniacale che non tollera interruzioni e che irrompe urlante, a rotta di collo, mentre noi che stiamo guardando ci adattiamo pas­ sando da un canale all’altro, o magari guardandone 25O

I miti del potere - Il potere dei miti

due contemporaneamente grazie allo schermo diviso e alle mini-finestre. Questa concezione mitica dei modelli che opera­ no nel mondo quotidiano ha dominato per secoli ed è stata fondamentale per il Rinascimento. Com e m odo di comprensione, le figure mitiche sembrano tornare dal loro lungo esilio nelle fantasie decorati­ ve dell’arte, nell’astrologia popolare e nella tradizio­ ne erboristica; sembrano ritornare con una certa forza non soltanto nelle mani di studiosi di psicolo­ gia come D avid L. Miller,2 Thom as M oore3 e G i­ nette Paris,4 m a anche, imprevedibilmente, in quel­ le di Charles H andy il quale, in Gods o f M anage­ ment? descrive quattro differenti modi di concepire e praticare il management, ciascuno caratterizzato dal nome di una figura mitica greca: Zeus, Apollo, Atena, Dioniso. Ciascuno di essi rappresenta una differente cultura entro cui il management opera. Scrive Handy:

2. J. Hillman e D.L. Miller, Il nuovo politeismo, Edizioni di Comunità, Milano 1983. 3. Thomas Moore, «Artemis and the Puer», in Puer Papers, a cura di J. Hillman, Spring Publications, Dallas 1979. 4. Ginette Paris, Pagan Meditations, Spring Publications, Dallas 1986. 5. Charles Handy, Gods of Management, Pan Books, London 1985. Cfr. anche James Ogilvy, Many Dimensional Man, Oxford University Press, New York 1977, per uno studio ancora precedente che si serve degli Dei della classicità come metafore strutturali. 251

IL POTERE

Ogni cultura - e questo risulterà evidente —ogni dio opera su presupposti completamente differenti, riguar­ do alle basi del potere e dell’ascendente, riguardo a ciò che motiva la gente, al come pensa e impara, al modo in cui è possibile cambiare le cose. Questi presupposti hanno come risultato un management, strutture, modi di procedere e sistemi retributivi completamente diversi... Per compiti differenti sono necessarie culture e dèi differenti. Le quattro configurazioni elaborate da Handy non co­ prono però l’intero spettro della griglia mitica. Fra i molti altri, lo stile eroico è quello più facilmente rico­ noscibile. Guardiamo le pubblicità dei vari seminari sul management di successo. Su cosa viene posto l’ac­ cento ? Sulla vittoria. Sul risultato. Sulla capacità di af­ fermarsi. Su pensieri di potenza. Sulla prestazione al massimo. Su come arrivare e restare in alto. Su come essere energici con se stessi. Su come prendere il co­ mando e andare avanti. Guardiamo anche i consigli, la retorica e gli aneddoti dei vincitori e sui vincitori: si dice che il presidente della Home Depot, nel presiede­ re una conferenza sul business, abbia raccontato la se­ guente storia: Ogni mattina, in Africa, una gazzella si sveglia e sa che deve correre più veloce del più veloce leone, altrimenti verrà uccisa. Ogni mattina il leone si sveglia e sa che deve correre 252

I miti del potere - Il potere dei miti

più veloce della gazzella meno veloce, altrimenti morirà di fame. Che voi siate un leone o una gazzella, non importa: non appena sorge il sole è meglio che vi mettiate a cor­ rere. Più volte, nelle pagine precedenti, ci siamo riferiti all’e­ roismo, perché gli eroi come Ercole sono particolar­ mente rilevanti per i modelli che governano le nostre idee di potere. L’eroe, non soltanto allarga il dominio vincendo gli oppositori e assumendo il comando del loro territorio, non soltanto affronta tutti coloro che lo sfidano come avversari, non solo è proclamato più for­ te, più rapido e brillante di tutti gli altri in una vita de­ dicata alla continua competizione, ma l’eroe del tipo di Ercole viene alla ribalta come un soter, un salvatore, che intraprende un’operazione di salvataggio per impe­ dire che una data istituzione vada a fondo. Handy e gli altri autori che ho appena citato non giudicano questi modelli in termini di migliore o peg­ giore, come se uno stile zeusiano di supervisione ge­ rarchica fosse giusto, mentre l’individualismo, rilassato e vagabondo, che Handy attribuisce al modo dionisia­ co fosse sbagliato.6 Oppure — per utilizzare un’altra

6. Sullo stile dionisiaco vedi anche Mia Nijsmans, «A Dionysian Way to Organizational Effectiveness», in Psyche at Work, a cura di Murray Stein e John Hollowitz, Chiron Publications, Wilmette, 111., 1992, pp. 136-155. *53

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coppia — come se l’ordine limpido e la formalità di­ staccata apollinei fossero corretti, mentre le decisioni scaltre e rapide di Ermes fossero sconsiderate, precipi­ tose e irresponsabili. Ginette Paris, mettendo a con­ fronto Apollo e Afrodite, scrive: «Ciascuno di essi è necessario alla civiltà [o al management], e una menta­ lità politeistica può aiutarci a dare a entrambi il dovu­ to riconoscimento, senza cercare di metterli in con­ trapposizione».7 Thomas Moore allarga ulteriormente il principio del politeismo, dichiarando: «... in un ge­ nuino politeismo il conflitto non può mai essere ridot­ to a un semplice dualismo, a una dialettica o ai due corni di un dilemma. Una prospettiva politeistica si apre sempre a complessità maggiori e a ulteriori possi­ bilità».8 Questi scrittori contemporanei seguono l’anti­ co monito di Euripide: «Ciascun Dio ci fa una richie­ sta che possiamo pagare soltanto con la moneta degli Dei: questo è un fatto al quale non si sfugge». Basta immaginare una scelta fra le varie figure per restare intrappolati in un pensiero oppositivo, che contrappone fra loro i vari modelli e mette in moto una guerra — o una vertenza giudiziaria — fra i vari Dei. Non si tratta tanto di scegliere fra gli stili, quanto di percepirne la diversità. Ogni situazione che il ma­ nagement si trova ad affrontare ha una differente con­

7. Ginette Paris, op. cit., p. 17. 8. Thomas Moore, op. cit., p. 199. 2-54

I miti del potere - Il potere dei miti

figurazione e rivolge sue peculiari richieste, pagabili soltanto con la moneta della figura mitica che esprime quella situazione alla sua origine. L’abilità manageriale diventa allora percezione psicologica, che a sua volta diventa riflessione mitologica - cioè una sensibilità al mito, capace di guardare alle radici della difficoltà. Qual è la moneta che ci vuole in questo momento? Chi sta determinando adesso gli eventi? Qual è il mito adesso in azione? La leadership comporta l’apprendi­ mento di questi modelli, l’apprendimento dei diversi modi degli Dei, in modo da non cadere preda delle semplificazioni monoteistiche tipo «una misura che vada bene a tutti». Come dice Handy: «Le differenze, poi, sono necessarie e benefiche per la salute di un’or­ ganizzazione. Il monoteismo, il seguire un unico dio, non può che essere sbagliato per la maggior parte delle organizzazioni».9 Come riconoscere, allora, il modello dominante in una determinata questione? Tre sono le regole pratiche che possono esserci di aiuto. Primo, fare attenzione al proprio linguaggio. Secondo, sentire il proprio stato d’animo. Terzo, ascoltare come risponde il mondo. Tutte e tre le regole richiedono la consapevolezza che i problemi e le decisioni hanno un contesto archetipico che influenza la retorica del nostro pensiero, l’interio­ rità del nostro sentimento e gli effetti che produciamo

9. Charles Handy, op. cit., p. 39. 255

IL POTERE

sugli altri. Il contesto archetipico è come un campo che tiene insieme noi, il problema o la decisione, e il mondo in una storia comune senza via d’uscita, e che i Greci chiamavano la trama o il mito che governa il de­ stino. I problemi e le situazioni possono essere analiz­ zati non soltanto dal punto di vista personale, in ter­ mini di persone interessate, e dal punto di vista siste­ mico, in termini di organizzazione, ma anche dal pun­ to di vista archetipico, coi modelli profondi universal­ mente offerti dai miti. Forse il modo più chiaro di discernere i miti nelle nostre idee è quello di rivolgersi alla futurologia, al campo dei modelli scientifici di previsione. Questi modelli presentano un insieme di configurazioni con­ suete che compaiono più e più volte. La futurologia è sì governata dagli attuali modelli di pensiero e dall’e­ sperienza passata, ma anche da archai, o griglie miti­ che fondamentali, fuori del tempo. Quando la mente umana lavora con l’ignoto - e il futuro è senza dubbio l’ignoto - è costretta a inventare e a immaginare. Que­ sto immaginare gli inconoscibili —come lo spazio e i pianeti più lontani, la soggettività interiore degli ani­ mali, dei neonati e di tribù remote, l’origine della vita e la destinazione dopo la vita —è soggetto ai poteri che strutturano l’immaginazione in modelli ripetitivi piut­ tosto definiti, che vengono proiettati sul campo oscu­ ro che stiamo esplorando, e che sosteniamo di vedere nelle prove che raccogliamo. Quello che vediamo è in 256

I miti del potere - Il potere dei miti

parte distorto dall’immaginazione. Quando predicia­ mo, noi proiettiamo. E infatti gli studi che riguardano il futuro spesso sono chiamati «proiezioni». Il fattore che determina la proiezione è nella mente soggettiva tanto quanto nei dati oggettivi, e dal momento che le strutture ultime della mente sono probabilmente mo­ delli archetipici che compaiono regolarmente e uni­ versalmente nell’arte e nel pensiero, nel rituale e nel comportamento, nei sogni e nella follia, possiamo aspettarci che essi si manifestino anche nelle proiezio­ ni sul futuro. Passiamo in rassegna alcune di queste consuete fantasie: 1. Il ritorno ciclico della storia secondo modelli che conosciamo dal passato: il conflitto etnico e il genoci­ dio; la balcanizzazione dell’Europa; il colosso tedesco; la sfera di co-prosperità della «Grande Asia orientale», come i Giapponesi chiamavano, negli anni Trenta e Quaranta, l’economia dell’area del Pacifico; il pericolo giallo; la rivolta degli schiavi; la rivolta dei contribuen­ ti; l’isolazionismo americano; il proibizionismo («dire semplicemente di no»), il puritanesimo e la censura; baronie e organizzazioni a delinquere (che adesso si chiamano aziende multinazionali e che godono del li­ bero mercato); il colonialismo (le forze di pace della coalizione occidentale); la natura che si prende cura di sé (la risemina dopo gli incendi delle foreste) attraver­ so una benefica incuria; l’autorigenerazione degli ocea­ ni; il riciclaggio e la trasformazione; le fonti illimitate 2-57

IL POTERE

di energia. I grandi Ricorsi (Vico), l’Eterno ritorno (Nietzsche). Tutto quello che avverrà sarà simile a quello che è già avvenuto. 2. L a depressione e il destino avverso. Congiuntura. Crescita zero. Tasso di disoccupazione costantemente elevato. Una torta sempre delle stesse dimensioni con una richiesta sempre maggiore di fette sempre più grandi; il ridursi delle fonti; la scarsità di viveri; la po­ polazione che invecchia e che consuma i guadagni dei giovani. Un numero sempre minore di bambini sani e un numero sempre maggiore di madri malate e di figli affamati; un numero sempre crescente di liminari e di marginali (mutanti genetici, storpi, dislessici, analfa­ beti, tossicomani, senzatetto, senzalavoro eccetera). La violenza razziale ed etnica. L’estinzione delle specie. Un proletariato o sottomesso e indolente, oppure ri­ belle. Un’applicazione più rigida della legge, sul mo­ dello dei metodi semi-legali latino-americani degli an­ ni Settanta e Ottanta; la latinizzazione del Nord Ame­ rica attraverso la demografia e l’economia, con l’élite in zone protette, i signori della droga e le bande che governano feudi in lotta fra loro, i poveri nelle barac­ copoli e il declino del ceto medio. L’aumento della po­ polazione penitenziaria e le guardie armate nelle scuo­ le. La corruzione nelle istituzioni. E, soprattutto, la coltre dell’inverno nucleare e/o dell’innalzamento del­ la temperatura in tutto il globo.

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I miti del potere - Il potere dei miti

3. Il verde della speranza. Una nuova età dell’Acqua­ rio. Il villaggio globale, l’autodeterminazione di so­ cietà etniche coesive come la Slovacchia e la Slovenia. Nuovi modelli di risoluzione dei conflitti. Miliardi di alberi riforestati come mille punti di luce; la biotecno­ logia per «ripulire» dopo le catastrofi ambientali. Pa­ rità per le razze e per i generi. Cura per la comunità, ospizi, centri di assistenza diurna, periodi di aspettati­ va ai genitori per accudire i figli, scuole integrate, il rinascimento delle arti con obiettivi spirituali e sociali. Dividendi di pace. Il suicidio permesso. Unioni ses­ suali permissive. Il crollo di tutti i muri. La prostitu­ zione legalizzata, la marijuana legalizzata. L’educazione creativa. L’abbattimento delle barriere architettoniche. L’assistenza sanitaria e la condivisione della ricchezza. 4. La catastrofe apocalittica. Incidenti nucleari come quelli di Three Mile Island e di Chernobyl. Mutazioni virali e genetiche irreversibili. Il problema dei residui tossici insolubili che producono il cancro e morte epi­ demica dei biosistemi. Terremoti. Vulcani come il M ount St. Helens. Lo Jihad. Le carestie nel Sahel. Il Ruanda, la Somalia, Haiti, Timor, la Cambogia. N uo­ ve malattie epidemiche, come l’AIDS. Il soffocamento negli scarichi industriali. Il terrorismo nucleare. Il bu­ co dell’ozono —intere popolazioni che muoiono anne­ gate, avvelenate e bruciate a causa di calamità ecologi­ che. Il crollo epidemico del sistema immunitario. La netta caduta del tasso di spermatozoi. Tutti che girano 259

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armati; i governi che crollano; le città che non funzio­ nano; i rapimenti di bambini; le guerriglie, la delin­ quenza, la yakuza e i signori della guerra; il dominio della mafia. La salvezza dallo spazio. 5. Il razionalismo ben amministrato. L’integrazione economica di tutta l’Europa, del Nord America. I nuovi accordi commerciali e le ecosfere di produzione, distribuzione e consumo razionali. La diminuzione e il controllo della produzione delle armi. I mezzi di tra­ sporto e di comunicazione sempre migliori; la proget­ tazione di sistemi (strategie) finanziari e tecnologici per risolvere le crisi alimentari, demografiche, climati­ che, energetiche. Le unità operative, i gruppi SWAT (Special Weapons and Tactics), i centri di ricerca. La bioingegneria; la longevità in aumento; l’innovazione genetica; i progressi nell’immunologia; l’uso pratico dello spazio celeste. Le prospettive ottimistiche basate su complesse analisi dei dati statistici. L’ecumenismo e la tolleranza religiosa. L’allargamento dell’integrazione nella società, delle donne, delle minoranze, dei disabi­ li. Le nuove richieste di servizi che creano nuove pro­ fessioni. Gli obiettivi determinati da una filosofia so­ ciale anziché dalla sola economia di mercato: l’educa­ zione, la cura della salute, la qualità della vita invece del consumo, della produzione e dell’espansione. La riforma dei mezzi di comunicazione di massa affinché riflettano le istanze sociali. 260

I miti del potere - Il potere dei miti

Questi cinque esempi non esauriscono lo spettro degli scenari possibili. Inoltre, per ciascuno di essi esistono variazioni e corollari che potrebbero perfezionare que­ ste proiezioni sul futuro. Tuttavia questi cinque esem­ pi rendono più chiara la mia idea, che cioè esistono delle griglie lungo le quali viene proiettato il futuro. Gli scenari suggeriscono gli autori e i direttori che, dietro le quinte (dentro l’immaginazione), guidano i progetti e danno forma al linguaggio che i futurologi sembrano «scoprire» con la loro dimostrazione empiri­ ca. Proprio non possiamo pensare senza presupposti di base, e questi presupposti, in quanto archai, sono pro­ babilmente dati con la mente che immagina. Se mettiamo i cinque esempi sulle griglie mitiche, scopriremo che dietro a ciascuno di essi c’è un diretto­ re, una direzione di pensiero archetipica che raccoglie le prove di cui ha bisogno, e trae le conclusioni che proietta secondo la sua visione del mondo. 1. Il ritorno ciclico suggerisce la Grande Madre del declino, della morte e del rinnovamento. I climi stagio­ nali, le fasi lunari, il crescere e il decrescere delle maree, che governano tutte le cose. Ogni cosa si ripete e ogni cosa diventa peggiore prima di migliorare. Il ciclo del business è una legge immutabile, così come immutabili sono le fluttuazioni di Wall Street: ogni cosa che sale deve necessariamente scendere, e viceversa. Non è tan­ to il contenuto della previsione a riflettere questa parti­ colare prospettiva archetipica, quanto l’enfasi che viene 261

IL POTERE

posta sul confronto con i modelli precedenti e la loro inevitabile ripetizione. L’ipotesi di Gaia che considera il pianeta come un organismo vivente è soltanto una del­ le attuali manifestazioni di Gaia. 2. L a depressione e il destino avverso. Il vecchio Satur­ no, signore dei reietti, dei falliti, degli storpi; delle misu­ razioni esatte e delle scienze rigorose come la matemati­ ca; quello che ha fondato la zecca e che tiene la borsa; colui che divora i propri figli, che governa l’inverno, le calamità e la resistenza caparbia. Il vecchio Scrooge. 3. Il verde della speranza. Forse l’eterna gioventù (il puer aeternus dell’immaginario latino), la visione ado­ lescenziale del cambiamento in meglio, gli orizzonti lontani, le ali del desiderio, l’elevazione della bellezza, la soluzione rapida. Peter Pan. 4. La catastrofe apocalittica. È questo il mito della nostra civiltà, perché il Nuovo Testamento termina con il libro dell’Apocalisse, con l’annientamento com­ pleto di tutte le cose in un fuoco sacrificale che prepa­ ra la Seconda Venuta del Cristo. La teoria delle cata­ strofi offre una formulazione abbreviata di questo mi­ to, che è sempre in agguato nell’inconscio desiderio di morte della civiltà cristiana. 5. Il razionalismo ben amministrato. Questo forse non riflette alcun Dio se non la Dea del XX secolo, la 262

I miti del potere - Il potere dei miti

Dea Ragione. O forse potremmo anche rintracciarvi il consiglio ben elaborato e volto all’integrazione di Ate­ na/Minerva, e l’ottimismo di suo padre, il gioviale Zeus/Jupiter, la cui grandiosità olimpica è sostenuta dall’autosufficienza e dalla fede nel potere che ha l’in­ telligenza di superare le avversità. Altri direttori potrebbero dare, alle direzioni che ho abbozzato, una diversa inclinazione. Il pensiero arche­ tipico non ha necessariamente bisogno di equazioni univoche, perché è radicato nell’immaginazione politeistica, dove i poteri delle idee sono reciprocamente collegati e influenzati. Non esiste una verità certa, un’identità certa, una spiegazione certa. Il valore del pensiero archetipico non consiste nel dare una sicura identificazione ai problemi. Il suo scopo è piuttosto quello di aprire la mente alla riflessione psicologica sulle posizioni e i progetti della mente. Quando parlo del futuro e mostro le mie mappe e i miei grafici, qua­ le figura mitica sta influenzando quello che prevedo? Non semplicemente che cosa vedo io, ma chi sta ve­ dendo. Chi sta formulando le prove e traendo le con­ clusioni? Secondo quale prospettiva e lungo quale gri­ glia mitica? Nel momento in cui riesco a fare un passo indietro rispetto alla mia stessa esposizione e a doman­ darmi «chi?», sto esaminando la mia stessa soggettività nei confronti dei fattori immaginativi che, più o meno inconsciamente, guidano la mia scelta dei dati, la prio­ rità dei valori e le conclusioni specifiche. 263

IL POTERE

Proprio questo passo indietro è la morale dell’ap­ proccio archetipico alle idee. Questo vuol dire che per essere sempre più obiettivi dobbiamo essere sempre più soggettivamente vigili nei confronti delle domi­ nanti dell’immaginazione, che ci consentono di vede­ re, o ci fanno vedere, le cose in determinati modi ben definiti. Se non sappiamo chi è in azione in una certa idea, veniamo catturati dal suo potere con maggiore facilità. Finiamo per identificarci con quell’idea, la di­ fendiamo, lottiamo per essa, e ben presto finiamo per diventare dei fondamentalisti delle idee, che credono fermamente in un’idea perché «è veramente giusta». I conflitti fra le persone, nelle aziende così come nei matrimoni, sono guerre fra gli Dei il cui smisurato potere olimpico conferisce alle idee una tale convin­ zione. Il sentimento della certezza deve venire da qualche parte che è al di sotto o al di là del consueto io, ed è quindi l’identificazione con il potere interno a un’idea, a dare a colui che la esprime il sentimento della certezza. I miti possono spiegare anche quel sentimento di certezza. Anche questo viene dagli Dei. Si pensi a Cas­ sandra. Apollo la voleva, e così le diede il dono dell’in­ tuizione profetica inumidendole le labbra con la lin­ gua. M a in seguito lei si sottrasse al suo desiderio, e al­ lora lui le inflisse la maledizione che nessuno avrebbe creduto a quello che lei vedeva con tanta certezza. An­ che se prediceva esattamente quello che sarebbe avve­ nuto, le sue parole giungevano a orecchi distratti. Non 264

I miti del potere - Il potere dei miti

poteva dire che la verità, ma i Troiani, i suoi concitta­ dini, la consideravano pazza. Il sentimento di certezza non dipende dall’accetta­ zione da parte degli altri, né dalla conferma data dagli eventi. Viene da tutt’altra parte, come a Cassandra ve­ niva da Apollo. Questa è la sua verità, e la sua trage­ dia, e il suo potenziale di follia paranoide. Vedete co­ me i miti complicano le cose - costringendo la mente a essere sempre più nel dubbio, sottile e sofisticata an­ che riguardo alla stessa certezza? Oltre ai cinque modi di vedere il futuro che abbiamo appena delineato, dobbiamo esaminare una figura miti­ ca talmente dominante nelle nostre attività odierne, che il suo potere sembra crescere a passi da gigante —un’ap­ propriata metafora per Ermes/Mercurio, il Dio greco e romano dalla verga magica, dai pensieri volanti e dai piedi alati. I mucchi di pietre risalenti alla preistoria, che stava­ no a simboleggiare questo Dio, segnano il margine, il bordo, i limiti. Ermes stabiliva i confini —ma anche li superava, compiendo incursioni tra vicino e lontano, tra familiare ed estraneo, fra questo mondo e l’altro mondo, fra sopra e sotto. Quindi è il Dio dei messag­ gi, della comunicazione, degli scambi commerciali, del mercato; è il Dio di chi è sulla strada fra qui e lì; non stabile, ma volubile. M a è anche il Dio del linguaggio, l’interprete degli invisibili, l’audace mentitore, l’abile artigiano, e l’agile ladro in uno speciale rapporto con 265

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il mondo infero. Il suo arrivo è istantaneo, un flash dell’ispirazione; innovativo, scaltro, delicato nelle sue raffigurazioni, e tuttavia fallico e seminale. Come si­ gnore dei cancelli, delle porte e delle strade aperte, consente l’accesso e tesse quella rete miracolosa che so­ no gli scambi della comunicazione. Non viviamo forse in un mondo dominato da que­ sto genere di potere? Non è forse vero che nel mercato tutti - e non soltanto i grandi nomi della finanza co­ me Boesky, Milken, Keating e Jett - siamo debitori a Ermes/Mercurio? Questo Dio può essere immaginato anche in altre aree di confine. La fisica ad alta energia degli invisibili adroni, degli acceleratori di particelle, della superconduttività, della trasmissione senza attrito e del principio di complementarietà, sembra essere go­ vernata da Ermes più che dalle regole stabili e dalle leggi classiche di Apollo; mentre la relazione con il mondo naturale, per essere protetta, non si affida tan­ to alla reverenza e alla devozione per Artemide, quan­ to alla scaltra abilità mercuriale capace di far mutare i geni e di vincere in astuzia i germi, di escogitare esche sessuali e semi ibridi. Perfino la pianificazione strategi­ ca della guerra, territorio classico di Atena e campo di battaglia della furia marziale, adesso dipende comple­ tamente dalla sofisticazione elettronica e dalla comu­ nicazione istantanea (e anche dalla visione notturna: Ermes era capace di furtive incursioni nelle tenebre). Sebbene io viva a quattro miglia dalla più vicina edi­ cola, da un distributore di benzina, da un negozio di 266

I miti del potere - Il potere dei miti

generi di prima necessità, messaggi di ogni genere en­ trano in casa mia, perfino quando dormo. Fax, modem, cavo, segreteria telefonica, avviso di chiamata, satellite dish, radiotelefono, Lexis/Nexus, Internet, e-mail e vi­ deoregistratore programmabile. Sono collegato con il mondo intero e ho la possibilità di fare acquisti, di in­ vestire il mio denaro, di consigliarmi e di fare sesso at­ traverso i media. Accesso illimitato. Ogni mese le bol­ lette del mio telefono e del mio fax registrano comuni­ cazioni con venti stati americani e una dozzina di pae­ si stranieri. Eppure io sono una persona relativamente solitaria, che lavora tranquilla, un cittadino di campa­ gna. I miei amici e i miei collaboratori, i miei allievi e i miei familiari sono sparsi dappertutto. Eppure ogni giorno riesco a raggiungerne e a contattarne qualcu­ no, invisibilmente, immediatamente, elettronicamen­ te. Questo è Ermes/Mercurio. Le mie azioni sono ri­ tuali che danno riconoscimento a questo potere e la mia centralina elettronica costituisce il tempio di fronte al quale mi inginocchio, sul mio sgabello ergo­ nomico, senza schienale. Oltre che di queste attrezzature, mi occupo di altre attività mercuriali. La mia mente interpreta continuamente il mondo, in attesa di segni e portenti, in cerca di significati simbolici, impegnata nell’ermeneutica. Ap­ partengo al tempo degli spin doctors e delle realtà virtua­ li, capaci di modificare i fatti, di distoreere e truccare parole e immagini, tanto che memoria e immaginazio­ ne, dimostrazione e illusione sono ormai indistinguibili. 267

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Ho appreso il linguaggio segreto, da iniziati, del softwa­ re, dei data base, delle periferiche, dei floppy disk, degli acronimi e delle abbreviazioni che aprono finestre, che consentono scambi con chiunque, dovunque, o con nessuno di definito in particolare. Un Ermes aperta­ mente fallico invia anonimi messaggi scurrili attraverso Internet, e ignoti adolescenti, fanatici dei computer, ru­ bano i miei pensieri e violano la mia privacy. Che questo sia anche il futuro, oppure no, è sicura­ mente il presente, e dobbiamo riconoscere che l’iper­ trofia della comunicazione può diventare una malattia endemica della cultura elettronica. Jung diceva che «gli Dei sono diventati malattie». Ci colpiscono attra­ verso i nostri sistemi, il nostro comportamento, attra­ verso i misteri che affliggono la nostra vita, senza che ce ne accorgiamo. Questa ipertrofia della comunica­ zione è la malattia escogitata da Ermes/Mercurio. In ogni Dio risiede un potenziale di malattia; ogni griglia può diventare un’abitudine ossessiva quando un’unica visione è vissuta in modo unilaterale ed è monoteisticamente adorata sopra tutte le altre. Nel mondo greco Ermes era spesso associato a Estia,10 10. Sulle caratteristiche di Ermes e di Estia, vedi William G. Doty, «Her­ mes, Heteronymous Appellations», in Facing the Gods, a cura di J. Hillman, Spring Publications, Dallas 1980; Barbara Kirksey, Estia — Una dimora per le immagini, in «Anima», 1988; Paola Pignatelli, The Dialectics o f Urban Architecture —Hestia and Hermes, in «Spring», 1985; Wolfgang Fauth, Hermes, in «Spring», 1988; Stephanie Demetrakopoulos, Hestia, Goddess of the Hearth, in «Spring», 1979. z6 8

I miti del potere - I l potere dei miti

la Dea del focolare interiore, quella alla quale, per pri­ ma, si rendeva onore durante le cerimonie. A Roma le sue sacerdotesse, le vestali, erano le custodi del sale che dà sapore al quotidiano e che consente di prendere per la coda gli uccelli che volano; conservazione, immuta­ bilità. Estia veniva rappresentata soltanto con una pie­ tra rotonda centrale, il luogo del fuoco. Estia, la vergi­ ne in sé compiuta, autosufficiente; Ermes, colui che invisibilmente penetra i confini, che oltrepassa i limiti. Lei era l’interno, intimo, sempre presente, così come lui era l’esterno; lei l’immobilità, lui il moto continuo; lei il focus concentrato {focus è il termine latino per fo­ colare), lui la molteplice partecipazione sulle strade, ovunque. Così, come possiamo testimoniare il potere di Er­ mes che percorre incontrollato i circuiti del nostro im­ pianto psicologico, possiamo anche scoprire il potere complementare di Estia, che ispira, in primo luogo, l’idea della terapia e, in secondo luogo, della leader­ ship come servizio. Centinaia di migliaia, se non addirittura milioni di persone impegnate nella vita mercuriale dei mercati, della comunicazione, delle vendite, dei viaggi e della disseminazione nel mondo, nello stesso tempo proteg­ gono e conservano il loro fuoco interiore con la quiete estianica della terapia. Come Dea della fiamma inte­ riore che mantiene viva una casa, una città, e ogni sin­ gola persona, Estia chiede a coloro che più sono attrat­ ti dalle ali di Mercurio di ricordarsi dell’altra metà del­ 269

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la coppia, di «entrare in» terapia e di «restare in» tera­ pia, con lo scopo di mantenere un focus - spesso si parla di «centrarsi» - nel cuore affaccendato di una vi­ ta mercuriale. Estia ricorda a Ermes che da solo non ha un fuoco per la sua visione: una visione del tutto periferica. La leadership come servizio, una teoria e una prati­ ca inventata da Robert Greenleaf (ex direttore della ri­ cerca sulla direzione aziendale presso I’a t & t ) , restitui­ sce al servizio il suo carattere di forma primaria di po­ tere, estremamente adatta al nostro tempo. Con il suo porre l’accento sull’ascolto, l’accettazione e l’empatia, la leadership come servizio funziona in modo introvertito, per mezzo di connessioni interiori, da anima ad anima. Anche se il linguaggio e l’idea riflettono chiara­ mente le figure del servo sofferente di Isaia e di Gesù, quello che Estia offre a questa scuola di leadership non è un’esaltazione della sofferenza secondo il modello cristiano, ma il fuoco della profonda attenzione inte­ riore. Il servizio di Estia non è una sofferenza. Lei ren­ de la vita immediatamente percepibile; non istantanea come Ermes, ma immediata, nel senso di proprio qui, vicina, intensa, concreta come il sale, diretta come il fuoco, ora: un abitare stabilmente nella materia a por­ tata di mano. L’Io, invece, questo «Uomo qualunque» del futuro, non abita. La mia abitazione, la mia casa, non è il mio «castello», è il mio ufficio, e qualcosa che si può de­ trarre dalle tasse. È protetta da timer automatici che

I miti del potere - Il potere dei miti

accendono la radio, il lettore CD, la televisione (che re­ gistra le trasmissioni mentre io sono dalla parte oppo­ sta del paese). All’esterno le luci si accendono e si spengono grazie a sensori che rendono la casa a prova di scassinatori (le fantasie di Ermes, il ladro). Nessuno è costretto a restare a casa. La casa va avanti per conto suo; il focolare è un termostato. Essere vuol dire essere inserito, il computer mai spento; tutti i sistemi che vanno sui piedi veloci di Ermes. Dal momento che i miei amici sono al telefono o al fax, io posso ignorare i miei vicini che vanno e vengo­ no. L’avviso di chiamata mi consente anche di raddop­ piarmi. Il mio notiziario è quello di Panama, della N a­ mibia, della Romania —non quello del locale consiglio per l’educazione, della commissione per la pianificazio­ ne e la zonizzazione, dei necrologi del comune. Le mie opere di beneficenza sono importanti: i senzatetto di New York, i rifugiati di Miami, i casi di AIDS di San Francisco, non quel disoccupato per la strada che vive grazie ai buoni-mensa e a un misero sussidio. Non so nemmeno chi sia. C ’è Greenpeace per le balene del­ l’Artico, ma che ne è degli uccelli canori di questa zo­ na? La televisione via cavo presenta spettacoli talmente meravigliosi che chi può sentire il bisogno di un ritro­ vo nella zona? L’«Io» vive dappertutto tranne qui. Non è che Mercurio sia sbagliato ed Estia giusta. N é sto invocando la moderazione e l’equilibrio fra i due. E non voglio nemmeno migliorare la mistura: un po’ più di uno e un po’ meno dell’altro. Il mio punto 27I

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di vista non è tanto morale e pratico, quanto psicolo­ gico, e riguarda il potere. Quando nella Parte II abbiamo esaminato i generi di potere, abbiamo differenziato stili e significati. Questi sembravano semplicemente una serie di sfumature ver­ bali, che davano una differente accentuazione. Sembra­ vano anche raggiungibili dalla ragione. È sicuramente impossibile distinguere la tirannia e il dominio dall’au­ torità e dall’influenza. A quel primo esame il potere sembrava qualcosa che può essere tenuto sotto il con­ trollo della ragione. Questo secondo modo di vedere mostra il potere di un altro genere, o a un diverso livello. È un potere, questo, che gestisce la nostra vita attraverso il dominio che esercita sulle nostre idee riguardo alla nostra vita. Questa prospettiva dice che ci comportiamo secondo idee archetipiche, sulla linea di griglie mitiche. Questo genere di potere è incontrollabile, non è nelle nostre mani, ma ci mette nelle mani di Dei che agiscono dentro la psiche attraverso i complessi, i sintomi, i tratti del carattere, gli istinti e le fantasie. Euripide diceva che «tutte le cose sono piene di Dei». Per me questo vuol dire anche il cane accucciato ai miei piedi, l’albero del mio cortile, le pietre che ten­ gono su la mia casa - ma anche l’autobus che mi porta al lavoro e le apparecchiature davanti alle quali mi sie­ do per lavorare. Se «tutte le cose sono piene di Dei», allora anche noi umani, coi nostri travagli interiori, le nostre stesse idee, siamo pieni di Dei. Anche noi sia­ 272

I miti del potere - Il potere dei miti

mo soggetti ai miti anche se il Dio principale del no­ stro pantheon personale, quello al quale consapevol­ mente rendo testimonianza all’inizio della maggior parte delle frasi che pronunzio, è l’io con la maiuscola, l’Io. L’Io non crede che i miti siano veri, così non pos­ sono avere potere. L’Io è diventato il Dio monocentri­ co che crea ciò che è vero dichiarando che è vero, for­ mando così il mondo secondo la propria teologia. Se la tesi delle griglie mitiche ha una qualche vali­ dità, allora le dichiarazioni di indipendenza fatte dal­ l’Io sono da leggere come proteste. L’Io ha paura di condividere il potere con gli altri, che può far scompa­ rire (negandoli), ma che tuttavia muovono i suoi fili da dietro le quinte. Come diceva il poeta Auden: «Noi siamo vissuti dai poteri che pretendiamo di capire». Qui il mio punto di vista è psicologico; non è asso­ lutamente religioso, nel senso abituale di fede. All’Io non viene chiesto di credere. Un senso psicologico dei poteri che riempiono la nostra mente e le nostre azio­ ni, nei sotterranei e ai margini del regno dell’Io, non richiede la preghiera, i preti o un testo sacro, non chiede testimonianza, non carica di sensi di colpa. Un senso psicologico di questi poteri è semplicemente una consapevolezza, quasi primitiva e ingenua, che anche se la tua volontà è fallimentare e il tuo cuore nella di­ sperazione, non sarai mai completamente solo, mai senza alcun potere. C ’è qualcosa che ti ha sempre nella sua mente.

Conclusione: sul potere e i poteri

Una parola o due prima di congedarci. Tutte queste pagine hanno avuto come filo conduttore nascosto una visione politeistica del mondo. Questa visione so­ stiene che i poteri fondamentali dell’immaginazione sono i miti invisibili che dispongono i nostri pensieri e le nostre azioni in linea con modelli universali. Nella nostra cultura questi poteri dominanti hanno nomi greci e romani, ma se ne possono facilmente trovare di analoghi in altre culture - in quella egiziana, in quella eschimese, haitiana, polinesiana, in quella dell’Africa occidentale o dei nativi d’America. Certo, con diffe­ renti sfumature: Dei e Dee hanno sempre abitazioni locali e nomi diversi, anche se spesso volti simili. Per una cultura prevalentemente eurocentrica i modelli greco-romani sono quelli più rilevanti e più differen­ ziati, e quindi quelli più potenti. Quando dico poten­ te, intendo dire influente, autorevole, prestigioso, che controlla, tirannico. Anche se questi modelli immagi­ nativi che governano il nostro pensiero e il nostro agi­ re sono del tutto patriarcali, e quindi condannati in 275

IL POTERE

quanto pericolosamente legati alla morte, come quei depositi di residui tossici prodotti dalla combustione del carburante sui quali la civiltà ha vissuto per mil­ lenni, purtuttavia essi sono le radici. Non se ne può prescindere. Il multiculturalismo non può uscire fuori dal crogiuolo che è stato fuso nel bronzo, in Grecia, secoli fa. Finché la nostra cultura sarà tradizionalmen­ te e ufficialmente legata alle lingue indoeuropee e a istituzioni di governo ed educative, alle strutture fami­ liari, a modi di pensare che definiscono le arti, le scienze, le religioni e la natura umana, non potremo cambiare la nostra mente, anche se potremo benissimo ampliarla, rivederla e reimmaginarla. Esponendo le vecchie e radicate idee del potere con le quali principalmente viviamo e con le quali gestia­ mo ancora il nostro business, e aderendo a esse anzi­ ché buttarle via come residui di un patriarcato ormai defunto, siamo riusciti a ospitare in questo libro idee che stanno venendo fuori ovunque nella scena con­ temporanea. Alcune di queste sono: una concezione meno umiliante della manutenzione e del servizio, concetti del potere sottili, non fondati sulla subordi­ nazione, tipi di crescita più adeguata ai business della vita in questo periodo storico. M a può anche darsi che il mondo non stia entrando in una nuova epoca più gentile e gradevole, dove modelli più felici, tratti dalle arti e dal misticismo, sostituiranno i modelli delle turbine, dello stress, delle linee ad alta tensione, e daranno un nuovo assetto al nostro pensiero riguar­ 27 6

Conclusione: sul potere e i poteri

do al management, alla produzione e alla generatività. L’intimorire, il sadismo e la presa della mano che af­ ferra non si trasformeranno mai del tutto nel palmo della mano che accarezza e benedice. La voce che sale dalle ceneri di Auschwitz (o di Tre­ blinka), che rappresenta il culmine della cultura eurocentrica, dice che «il mondo è governato dal potere».1 Un’affermazione però immediatamente contestata da un’altra voce secondo la quale il mondo è governato dall’amore ed è per questo che restiamo scioccati ogni volta che il potere vuole avere il predominio. Sentia­ mo, nel nostro cuore, che il mondo non può essere davvero così perverso e violento e che l’amore, che non mostra la sua mano come fa il potere, muove tut­ tavia le cose dall’interno e da dietro, impercettibil­ mente, invisibilmente. Il potere può fare mostra di sé, imperversare, imprigionare, ma l’amore fa sì che i va­ lori resistano, durino. L’amore conquista tutto. Queste voci che insistono su un conflitto fra l’amo­ re e il potere sono voci dell’Occidente, del Nord; voci

1. Otto Friedrich, The End of the World, Coward, McCann & Geoghegan, New York 1982, p. 294, cita il poeta Tadeusz Borowski: «L’esistenza dei campi di concentramento ... ci ha insegnato che il mondo intero è pro­ prio simile a un campo di concentramento ... Non c’è un solo crimine che l’uomo non commetterebbe pur di salvare se stesso. Il mondo non è governato né dalla giustizia né dalla moralità, il delitto non viene punito né la virtù ricompensata, l’uno viene dimenticato altrettanto rapida­ mente dell’altro. Il mondo è governato dal potere». 277

IL POTERE

cristiane e romantiche. In parte sono rispecchiate dalla visione semplicistica che divide la Bibbia in Antico Te­ stamento del potere e Nuovo Testamento dell’amore. Qual è il risultato di questa opposizione, se non un potere della tirannia e del controllo, privo di amore, e un amore impotente, che può desiderare ma non vole­ re? Amore e potere non sono in opposizione; sono le nostre idee che li hanno costruiti in questo modo. Mettendo in movimento le nostre idee abbiamo co­ minciato a scoprire la benevolenza nascosta in quei concetti di potere quali l’ambizione, l’esibizionismo, il prestigio, la resistenza, e perfino la paura, che prima ci apparivano privi di amore. Siamo riusciti a riconoscere che anche la persuasione, il purismo, la tirannia, il controllo e l’influenza hanno a che vedere con la prati­ ca dell’amore, che ne rinforzano l’efficacia e che gli danno un grande potere subordinante nei confronti della vita. La soluzione di questa spossante competizione fra potere e amore non richiede che un semplice passo: passare dal singolare al plurale. Basta modificare una desinenza. Il mondo non è un unico mondo, il potere non è un’unica idea, e l’amore, che si presenta in mi­ gliaia di varietà e in un numero ancora maggiore di travestimenti, è una merce generica che non può esse­ re posseduta da un’unica definizione. La stessa cosa vale anche per il business: basta tra­ sformare la «o» di profitto in una «i» —il profitto non soltanto per i soci e per gli azionisti. Il monoteismo 278

Conclusione: sul potere e i poteri

del motivo del profitto può essere allentato in modo da dare spazio ad altre forme di proficuità: proficuo per la continuità a lungo termine della vita e delle ge­ nerazioni future, proficuo per il piacere e per la bellez­ za del bene comune, proficuo per lo spirito. La doppia bottom line della responsabilità sociale ed ecologica estende la proficuità solo parzialmente. È l’idea stessa di profitto che deve essere pluralizzata. Quella piccola variazione di desinenze è proprio l’argomento di questo libro. Ecco perché questo libro ha deliberatamente complicato il termine unico di «potere», differenziandone il significato nell’intento di rendere complessa la nostra mente. Per tutte queste pagine ho suggerito che le azioni di chiara e limpida semplicità richiedono una mente consapevole delle complessità. Perché l’azione sia diretta e semplice, il pensiero deve essere diversificato e plurale. Il pensie­ ro è in grado di contenere una pluralità di opzioni, una diversità di implicazioni contrastanti, e può pre­ vedere le conseguenze che derivano da queste idee. Quando il pensiero è troppo semplice per contenere l’ambiguità, si insinua nell’azione come ambivalenza. Il pensiero deve fare e dubitare, entrambe le cose, al­ trimenti l’azione sarà disfatta dalle esitazioni dei ripensamenti, che ne confondono la direzione e ne pa­ ralizzano la forza. Il mito gioca un ruolo molto importante nel rende­ re complesso il pensiero. Durante il Rinascimento eu­ ropeo i miti antichi furono resuscitati e gli Dei reinte­ 279

IL POTERE

grati quali dominanti dell’immaginazione e categorie della riflessione. Questo risveglio diede al pensiero del Rinascimento una complessità immensa. L’unilatera­ lità fu frammentata in un pantheon di possibilità. I si­ gnificati proliferarono. Eppure durante quello stesso periodo l’azione fu eccezionalmente decisiva e duratu­ ra. Furono realizzate con audacia scoperte scientifiche, esplorazioni del globo, innovazioni finanziarie e im­ prese artistiche, proprio mentre il paradosso e l’allusio­ ne sottile governavano il pensiero. La lezione che ho tratto dalla sottigliezza del Rina­ scimento giustifica le incursioni nel mito e le ampli­ ficazioni ideative che vi siete pazientemente sorbiti lungo tutte queste pagine. In esse, per mezzo dei mi­ ti, dell’etimologia e delle definizioni del dizionario ho furtivamente riscritto quello slogan dei nostri tempi che troviamo ovunque sugli adesivi che tap­ pezzano i paraurti delle macchine; quello cui ci sol­ lecitano gli ambientalisti: «Pensa globalmente, agisci localmente», traducendolo in «Pensa sottilmente, agisci semplicemente». Per raggiungere la sottigliezza ho cercato di espandere tutti i punti toccati in que­ sto libro verso la diversità di una visione politeistica: poiché il potere non è unitario, non può essere go­ vernato da un’unica idea. Le nostre stesse tradizioni cristiana e giudaica distinguono una varietà di pote­ ri: almeno 25 differenti termini del testo ebraico e greco della Bibbia —el, zeroa, chajil, koack, izzuz, dynamis, arche, kratos, eccetera eccetera — sono stati 280

Conclusione: sul potere e i poteri

unificati, nelle nostre traduzioni, sotto l’unica parola potere} Invece che di potere, dovremmo parlare di poteri, e allora non riusciremmo più a localizzarli in un unico luogo, come l’unica attività della volontà umana. D ’al­ tra parte esistono nell’uomo dei poteri, come la devo­ zione appassionata e la tirannia dell’ideologia, per i quali la volontà stessa soffre e ai quali si arrende. Esi­ stono anche poteri del tutto indipendenti dall’azione umana, che altre culture riconoscono sacrificando un pollo,3 accendendo una candela, offrendo un obolo, facendo segni, danze e gesti. Questi poteri estranei al nostro intervento, secondo il grande fenomenologo delle religioni Gerardus van der Leeuw,4 sono alla base di tutto quello che intendiamo con la parola Dio, e di tutto quello che facciamo quando pratichiamo una re­ ligione. In questo libro, però, non abbiamo seguito la sua direzione, lungo le vie dei poteri sacerdotali, scia­ manici e teologici, né abbiamo considerato il potere lungo le vie analizzate da George Santayana (in una delle opere della vecchiaia, Domination and Powers), 2. Cfr. Robert Young, Analytical Concordance to the Bible, Society for Promotion of Christian Knowledge, London, n.d., V II ed., alla voce «Power». 3. Cfr. Manuel Núñez, Santería, Dallas, Spring Publications, 1992; Seldon Rodman e Carole Cleaver, Spirits of the Night: The Vaudun Gods of Haiti, Spring Publications, Dallas 1992. 4. Gerardus van der Leeuw, Fenomenologia della religione, Boringhieri, Torino 1975. 281

IL POTERE

da Elias Canetti (M assa e potere), da Norman Cousins ( The Pathology o f Power) o dalle opere classiche di Karl Marx, Max Weber e Eric Voegelin. Non abbiamo seguito nemmeno un terzo percorso, a me più familiare: l’idea di poteri che la psicologia del profondo ha situato nella psiche inconscia — istinti, complessi, pulsioni, ricordi, emozioni. Anche questi, come i poteri della religione e dello stato, sono estra­ nei alla volontà dell’individuo. Invece di servirmi di questi tipi di approccio, che avrebbero circoscritto il nostro esame ai campi più ri­ stretti della religione, della politica o della psicologia, ho cercato di dimostrare che i poteri al di là dell’uma­ na volontà influenzano il nostro business quotidiano. Viviamo costantemente nella loro aura. Quello che può avere un effetto più potente del cielo lassù, alto, dell’intercessione degli angeli, e della magia dei dèmo­ ni, sono le idee che abitano le nostre menti e che pas­ sano, senza che ce ne accorgiamo, nella nostra condot­ ta quotidiana. D i tutte le piccole e grandi forze che su­ bordinano le nostre azioni a poteri superiori, sono le idee quelle che hanno la presa più diretta e immediata. Più che alle figure del mito, più che allo stato politico, più che ai complessi e alle emozioni inconsci, siamo soggetti alle idee attraverso le quali filtriamo e con le quali formiamo i poteri della religione, della politica, della psicologia. Sì, lo scrittore dell’Olocausto aveva ragione: il mondo è governato dal potere, dal potere delle idee. 282

Conclusione: sul potere e i poteri

Nulla muore per sempre, per esempio il mito, an­ che quando lo giudichiamo sbagliato e ce lo buttiamo dietro le spalle come «storia». Treblinka, quel vertice di potere dispotico, esisteva già nell’immaginazione prima che Treblinka fosse costruita, ed esiste ancora, dopo che Treblinka è stata rasa al suolo. Ogni cosa trova la propria via del ritorno nella tenda della men­ te, se non altro nelle bizzarre manifestazioni seconda­ rie della patologia. Le griglie politeistiche dei miti ten­ gono in moto tutti gli anelli contemporaneamente, fornendo anche le reti di sicurezza e i fili di sostegno, che impediscono all’intero spettacolo di cadere a pez­ zi. Una volta abbandonata l’idea ossessiva di un unico centro e l’idea di ordine come unità, le cose non pos­ sono più veramente cadere a pezzi. Continuano sem­ plicemente a rappresentare i loro spettacoli di varietà, ciascuno secondo il proprio genere —giocolieri, clown, tigri e cavalli, e i salti spericolati sul trapezio volante. Gira e rigira, la mente che ospita incessantemente le idee ed è da esse ospitata.

Indice analitico

Accudire, 235-36 Adams, Henry, 19, 168 Adams, John, 160 Adler, Alfred, 118 Agire, 231, 241 Agnew, Spiro, 141 Alchimia, 237-38 Alessandro Magno, 209 Alfa, animali, 173-78 Ambizione, 156-60, 278 Amleto (Shakespeare), 165, 176 Amore, 71 potere e, 131, 133, 277-78 Angeli decisione e, 207 reputazione e, 163-67 Anima crescita dell’, 68-69 manutenzione del mondo che ha un’anima, 112-14 reputazione e, 162-64 servizio a un mondo che ha un’anima, 99-104 Animali, metafore degli, 173-76 Animismo, 240-41 Apollo, 264-66 Appetito, 158-59 Approfondimento, 66-69

Archetipico, pensiero, 255-57, 26364 crescita e, 81-84 Ares/Marte, 249-50 Aristotele, 50-51, 55, 248 Arte decisione e, 208-09 intensificazione e, 70-71 potere sottile e, 239-41 ripetizione e, 77 servizio e, 103-04 Assolutismo, 122, 216-17, 218 Adeti (athletes), 232 Attenzione, disturbo da deficit, 185-

86 Auden, W.H., 35-36, 273 Aurora e Frammenti postumi, (Nietzsche), 56-57 Auto-inganno, 218 e n. Autorità, 22 conferimento della, 188-90 fonti della, 187-88 gravità e, 193 indipendenza della, 189-93 tirannia e, 190

Bacon, Francis, 19 287

IL POTERE

Baruch, Bernard, 191 Bergson, Henri-Louis, 171 Berkeley, George, 166 Berry, Wendell, 191 Bibbia, 278 Blake, William, 160 Bolívar, Simón, 182 Borowski, Tadeusz, 277n Bottom line pensiero double bottom line, 58, 279 efficienza e, 57-58 Buddhismo, 80, 81-82, 215 Bush, George, 196 Business come forza fondamentale della società umana, 13-18 eroismo nel, 39-41 idea di, 11-20 potere del, 16-20

Cambiamento, resistenza al, 170-72 Canetti, Elias, 20, 123, 282 Caos e catastrofi, teorie del, 183 Carisma, 199-202 Cartesio, 34 Cassandra, 264-65 Catastrofe apocalittica, fantasia, 259-60, 262 Centrarsi, 270 Certezza, sentimento di, 264-65 Chiarezza, 31 Christie, Agatha, 184 Churchill, Winston, 201 Cicerone, 148-49 Cina, 16-17, 91 Commercio predatorio, 58 Complessità, 279-80 Comportamento asessuato sul posto di lavoro, 154-56 Compromesso, 209-10 288

Comunicazione, ipertrofia della, 266-68 Concentrazione, 182-86 Conferire potere, 22, 25 Confucio, 24 Consumo, 89-90 Controllo, 21, 133-35, 278 miti e, 138-40 organizzazioni e, 135-36 orientamento preventivo, 134 perdita del controllo, problema, 137-40 potere indebolito dal, 135-37 Controllo, addetto al, 136 Coolidge, Calvin, 196 Coscienza abituale, 217-18 Coscienza di precisione, 94, 96, 102 Cousins, Norman, 282 Crescita, 19, 45-46, 114 approfondimento e, 66-69 efficienza e, 43 implicazioni positive, 60-61 intensificazione, 69-71 messaggio portato dalla parola «crescita», 41-42 molteplicità di significati di, 60 prospettiva archetipica su, 82 ripetizione e, 76-78 sottile idea di, 61, 84 spoliazione e, 72-76 svuotamento e, 78-83 venir meno della fede e, 61-66 Crescita della foglia nelle piante, 79 Crisi dell’anima dell’organizzazione, 73-75 Cristianesimo, 231-32 Crudeltà, fascino per la, 213-14 Cuomo, Mario, 196

Dahl, R.A., 20

Indice analitico Darwinismo sociale, 40-42 Decisione, 206-11 Definizioni, analisi dei fenomeni con, 127-28 D e Gaulle, Charles, 201, 202 Depressione e destino avverso, fantasia, 258, 262 Despoti benevoli, 128-29 Dewey, Thomas, 201-02 Dioniso, 138-40,233 Discernimento, 169 Discesa, eroi della, 64 Dominio, 120-22 Dorfles, Gillo, 80, 81 Drago, 205-06 Droghe illegali, 31

Ecologia, 100, 240-41 Economia, 14-17, 108 Efficienza, 19, 45-46, 114 bottom line pensiero e, 57-58 causa efficiente, concetto di, 50-52 crescita e, 43 esempio di Treblinka, 46-49, 52, 55-59 governo e, 58-59 manutenzione e, 106 negazione e, 52-53 potere e, 45-46, 51-52 ricerca dell’efficienza come unico scopo, pericoli della, 52-57 servizio e, 86-88 Einstein, Albert, 20 Eisenhower, Dwight, 196, 208 Elders, Joyce, 31 Eliot, T.S., 204 Eltsin, Boris, 200 Emerson, Ralph Waldo, 19, 193 Energia, conservazione della, 107 Entropia, 107

Entusiasmo, 180, 202-06 Ermes/Mercurio, 265-69, 271 Eroismo, 252 discesa, eroi della, 64 nel business, 40 nuove idee su, 43-45, 84-85 vecchia eroica, 39, 43 Esibizionismo, 278 manifestazione e, 151-53 repressione dell’impulso esibizionista, pericoli dell’, 154-56 sessualità e, 149-52 significati dell’, 149 vistosa natura dell’, 153-54 Essay Concerning Human Understanding (Locke), 51 Estia, 268 e n., 269-71 Euripide, 254, 272

Fam a, 161 Fama, v. Reputazione Fanciullaggine, mettere termine alla, 81-84 Fascismo, 59 Femminismo, 122, 230-31 Fenomenologia, 22, 129-30 Filantropia, 233 Forza, 29-30 Franco, Francisco, 201 Freud, Sigmund, 24, 76, 107, 155, 217-20, 223, 234 Futurologia, 256-65

Gablik, Suzi, 103 e n. Gaia, ipotesi di, 98-99 Gandhi, Mohandas K., 226 Generosità, 21, 233 Genius, 164, 186 Gestione pratica, 109 289

IL POTERE

Giapponese, cultura, 69-70 qualità e, 93-94 Giardinaggio, 235 Giovanna d’Arco, 202, IT I Gisu, popolo, 205 Giulio Cesare (Shakespeare), 123 Gods o f Management (Handy), 251 e n., 252, 255 e n. Goethe, J.W. von, 78-79, 81 Goleman, Daniel, 218 e n. Goring, Hermann, 19 Governo, efficienza e, 58-59 Gravità, 193 Greenleaf, Robert, 270 Gummesson, Evert, 88 e n., 89

Handy, Charles, 251 e n., 252, 255 e n. Harriman, Averell, 193 Himmler, Heinrich, 46 Hoffer, Eric, 90 Hong Kong, 16-17 Hoover, J. Edgard, 19 Hybris, 156

I Cbing (testo cinese), 203-05 Ideale, 94-95 Idealismo, 132-33 Idee autonomia delle, 28-29 caratteristica delle, 33-35 civiltà e, 36 del business, 11-20 esame delle, 31-35 leadership e, 181 nuove idee, desiderio di, 30 potere delle, 12-13, 29, 282 Immanenza, teoria dell’, 101-02 Impiego, 91 290

Importanza, consapevolezza di, 149 Inconscio, 15 Indecisione, 210-11 Inefficienza, 54 Influenza (persuasione), 21, 29, 16769, 278 Inglese, studio dell’, 197 Inquinamento, 112-13 Insegnare, 235-36 Intensificazione, 69-71 Intimorire, 211-15, 277 Into That Darkness (Sereny), 46n. Introverso, stile di potere, 186 Intuizione, 242 Invecchiamento, processo dell’, 80-81 Io, 273

Jackson, Andrew, 211 Jung, C .G ., 117-20, 131 e n., 226, 268

Kant, Immanuel, 225, 248 Kennedy, John E , 208 King, Martin Luther, Jr., 202, 226

Lamont, Norman, 142 Leader occulto {hidden leader), 17980 Leadership come apprendimento, 185 come servizio, 270 dimostrarsi all’altezza della situazione, 181 idee e, 181 impulso frustrato di comandare, 181 modello dell’animale alfa, 171-76 riflesso e, 177-79

Indice analitico Lealtà, 136 Lee, Robert E., 202 Leeuw, Gerardus van der, 281 en . Lenin, V.I., 182 Libertarians, 31 Lifton, Robert Jay, 75 Lincoln, Abraham, 196, 202 Lindsay, John, 202 Linguaggio del potere, 24-25, 130 Litima, emozione, 205 Locke, John, 51, 216

MacArthur, Douglas, 200 Macchine, 76 Machiavelli, Niccolò, 131, 135, 17980 Maestri, 64-65 Major, John, 142 Management di successo, seminari, 252 Mani, 108-11 Manifestazione, 151-52 Manutenzione, 45, 112-14, 276 anim a mundi e, 112-13 atteggiamento negativo nei confronti della, 106 bassa manutenzione, 105-07, 110 business, processo decisionale e, 105 come dono, 111 conservazione dell’energia e, 107-08 economia e, 108 efficienza e, 106 nuove idee sulla manutenzione, bisogno di, 43 potere sottile della, 236 pratica, nozione di, 109-12 «Manutenzione», etimologia di, 108 MaoTse-tung, 19, 227

Marx, Karl, 282 Maschera, 147-49, 165 Masochismo, 213 Meade, Michael, 204-05 Medesimo, 171 Michelangelo, 237 Miller, David, 251 en . M isura per M isura (Shakespeare), 191 en . Miti, 11, 19,247-50 ambizione e, 156-58 analisi dei fenomeni con, 126-28 come radice della cultura, 275 controllo e, 138-40 culture antiche e, 247-49 culture moderne e, 250-56 entusiasmo e, 205-06 fare proiezioni e, 257-65 influenza dell’Estia, 168-71 influenza di Ermes/Mercurio, 265-71 intimorire e, 212-13 natura umana e, 175 pensiero archetipico e, 256-57, 264 pensiero complesso e, 279-80 persuasione e, 194-95 potere, approccio mitico al, 128, 272-73 potere sottile e, 232-34 produttività e, 89 reputazione e, 161 sessualità e, 119 tirannia e, 219-20 veto e, 224-25 Molestie sessuali, 139, 151, 155, 234 Mondale, Walter, 196 Moore, Thomas, 251 e n., 254 e n. Morte, decisione e, 208 Morte, istinto di, 77 Motivazioni, 161 291

IL POTERE

Multiculturalismo, 175-76 Multinazionali, aziende, 14 Musica, 80-81 Mussolini, Benito, 59

Napoleone, 201, 202 Narcisismo, 145 Natura umana, 175 Negazione, 52 Negazione, v. Veto Nietzsche, Friedrich, 56-57, 57n., 118 Nixon, Richard, 52-53,196

Odissea (Omero), 83 «Old song», 157 e n. Omero, 83 Operazioni nascoste, 153 Oscillare, 211 Otello (Shakespeare), 162

Panteismo, 101 Pantheon, 221 Paris, Ginette, 251 e n., 254 e n. Parlare in pubblico, 195-96 Paura, 75 Peitho, 195-96 Pensatore, / / ( Rodin), 182 Pensiero complessità del, 279-80 divisione pensiero/azione, 176-77 Perot, Ross, 20, 196 Persona, 165 Persuasione, 278 come talento manageriale, 196-99 miti e, 194-95 parlare in pubblico e, 195-96 retorica e, 194, 198-99 292

Piacere, 233-34 Picasso, Pablo, 233 Poesia, 69 Politeismo, 254 Politica, 18 Portmann, Adolf, 152 Potenza, complesso di, 117, 119 Potenza, istinto di, 118 Potere, 11-13 amore e, l'31, 133, 277-78 approccio mitico al, 128, 272-73 aspetto di dominazione del,

120-22 come attività al massimo della purezza, 124 concentrazione di, 182-84 concetto ereditato di, 40-41 del business, 16-20 delle idee, 12-13, 29, 282 differenziazione delle idee sul, 21-22, 279-83 dimensione verticale e orizzontale del, 122 disagio nei confronti dell’idea di, 130-33 efficienza e, 45-46, 51-52 esame psicoanalitico del, 23-26 estensione del potere personale,

21-22 fenomenologia del, 129 forza e, 29-30 linguaggio del, 24-25, 130 modello moralistico di, 125 molteplici significati di, 18-23 nozione comune di, 124 potere che gestisce la nostra vita attraverso il dominio che esercita sulle nostre idee riguardo alla nostra vita, 272-73 potere innato della materia, 122-23

Indice analitico recupero del senso di potere nella società (americana), 26-29 sessualità e, 119-20 stile introverso di potere, 186 uso grezzo del, 24-25 vedi anche Potere sottile «Potere», etimologia di, 120 Potere di fermarsi, 67 Potere sottile, 230, 242, 276 abile incoraggiamento a liberare i poteri innati negli altri, 238 generosità e, 233 manutenzione e, 236 miti e, 232-34 piacere e, 233-34 prendersi cura e, 235-36 ritirarsi per consentire al potenziale negli altri di emergere, 238-41 rituale, 241 spirito comune e, 242 Pound, Ezra, 233 Prendersi cura, 235-36 Prestigio, 149-51, 278 come vuoto sostituto del potere, 144-47 importanza, consapevolezza di, 149 «maschera», prospettiva attraverso la, 147-49 ufficio e, 144 Prevenzione, 134 Principe, //(Machiavelli), 135 Produttività, 124, 231-32 servizio e, 89-90 Proficuità, 279 Progresso, 41, 195 Proiezione, determinante della, 25765 Proverbs from H ell (Blake), 160 Psicoanalisi, 23-26 Pubblicità, 194-95 Purismo, 226-27, 278

barriere che circondano il, 228-30 spirito e, 226-27 unicità di visione del, 228

Qualità, 61-62, 92-98 Quayle, Dan, 141, 196

Razionalismo ben amministrato, fantasia, 260, 262-63 Reagan, Ronald, 20, 202 Re Lear (Shakespeare), 191 en . Religione, 18 Reputazione, 160-61 angeli e, 163-67 anima e, 163 collettivo e, 162 miti e, 161 motivazione e, 160-61 significati di, 160 Resistenza, 21, 169-73, 278 Retorica, 125 persuasione e, 194-99 Riccardo //(Shakespeare), 162 Ricezione, 143-44 Riciclaggio, 112-13 Riflessione sull’azione, 178-79 Riflessivo e interrogativo, atteggiamento, 221-22 Riflesso, 176-77 Rinascimento, pensiero del, 280 Ripetizione, 76-78 Rischio, 159-60 Rispetto, 101-02 Ritiro per consentire al potenziale negli altri di emergere, 238-41 Ritorno ciclico, fantasia del, 257, 261 Rituale, 241 Rivoluzioni, 170 Rodin, Auguste, 182 293

IL POTERE

Roosevelt, Franklin, 196, 202 Russell, Bertrand, 20

Sade, marchese de, 214-15 Sadismo, 214-15, 277 Saggezza, 211 Santayana, George, 281 Seneca, 224 Sereny, Gitta, 46n., 47, 48-49n., 55 en . Servizio, 4 6 ,1 4 4 ,2 7 6 buon servizio, standard comuni di, 87-88 come rituale obiettivo, 97 dimensione spirituale del, 95 efficienza e, 86-88 high touch/low tech (alto contatto/bassa tecnologia), 91-92, 102 idea terapeutica ed estetica del, 102-03 inoffensività e, 104 miglioramento e, 104 mondo che ha un’anima (anima mundi), servizio a, 98-104 nuove idee sul servizio, bisogno di, 43-44, 85-86 occupazione e, 90-91 produttività e, 89-90 servizio di qualità, 92-97 servizio personalizzato, 96 ufficio e, 140-44 vecchie concezioni sul, 85-86 Servizio, leadership come, 270 Sessualità esibizionismo e, 149-52 potere e, 119 Shakespeare, William, 83, 123, 1616 3 ,1 6 5 ,1 7 6 ,1 9 0 -9 2 , 191n. Snyder, Gary, 67 294

Socrate, 24, 148, 164 Sogno, interpretazione del, 221-22 Solzenicyn, Aleksandr, 230 Some, Malidoma, 241 e n., 242 Sottigliezza, 280 Spietati, Gli, 241 Spinoza, Baruch, 20, 171 Spirito, 226-27 Spirito comune, 242 Spirito delle scale (esprit de l ’escaliei), 177-78 Spoliazione, 72-76 Stangl, Franz, 46-52, 54-58 Stein, Gertrude, 129 Stevenson, Adlai, 132 Stima, 188 Subordinazione, 117-18, 122,230-31 resistenza e, 169 tirannia e, 215-16 veto e, 225 Sviluppo, 62-63 Svuotamento, 78-81

Tassazione, 31-32 Tempesta, La (Shakespeare), 83 Terapia, 102, 269-70 Thomas, Dylan, 203 Timidezza, 210 Tipi psicologici (Jung), 117 Tirannia, 278 assolutismo e, 216-18 autorità e, 190 coscienza abituale e, 218-19 cure per la, 220-22 miti e, 219-20 significati di, 215-16 Tortura, 213-14 Tossicologia, 240 Treblinka, campo di sterminio, 4649, 52, 55-59, 87, 283

Indice analitico Truman, Harry, 141, 202 Him tsum, idea cabalistica del, 238-40

Ufficio, 27, 140-44 molteplici significati di, 140-44 prestigio e, 144 servizio e, 140-44 Uguaglianza, assolutismo della, 122 Umore ipomaniacale, 205 Unicità di visione, 228

Vendetta, 209 Verde della speranza, fantasia, 259, 262 Veto, 134, 223-26

Vietnam, guerra, 53 Vietnam, Memoriale, 65 Violenza con le armi, 185 Virgilio, 161 Vittoriana, società, 39, 42 Voegelin, Eric, 282 Voyeurismo, 155

Warhol, Andy, 160 Watergate, scandalo, 52 Weber, Max, 282 Whitehead, A .N., 20 Wilson, Woodrow, 196

Yeats, William Butler, 183

Indice generale

Aprendo il libro

11

Introduzione L’efficienza La crescita Il servizio La manutenzione

37 39 45 59 85 104

PARTE II. STILI DEL POTERE

115

Il linguaggio del potere Il controllo L’ufficio Il prestigio L’esibizionismo L’ambizione La reputazione L’ascendente La resistenza La leadership

117 133 140 144 149 156 160 167 169 173

PARTE I. L’EROICA DEL POTERE CAMBIA

IL POTERE

La concentrazione L’autorità La persuasione Il carisma L’entusiasmo La decisione L’intimorire La tirannia Il veto Il purismo Il potere sottile

182 186 194 199 202 206 211 215 223 226 230

PARTE III. I MITI DEL POTERE - IL POTERE DEI MITI

245

Conclusione: sul potere e i poteri

275

Indice analitico

287

J A M E S H I L L M A N , americano di Atlantic City, è uno dei grandi filosofi contemporanei, oltre che il più illustre esponente della psicanalisi di matrice junghiana. H a insegnato alle università di Yale, Syracuse, Chicago e Dallas. Tra le sue opere, continuamente ristampate da Adelphi, ricordiamo Saggio su Pan (1977), I l mito del­ l’analisi (1979), Re-visione della psicologia (1983), A nim a (1989; nuova edizione 1999), I l codice dell’anim a (1997), PuerAetem us (1999), L a forza del carattere (2000). Presso Rizzoli sono usciti i due libri-intervista con Silvia Ronchey, L ’anim a del mondo (1999) e II piacere di pensare (2001). Questo saggio è apparso originariamente presso Garzanti nel 1996 col titolo Forme del potere.

In copertina: K ylix con E d ip o c la Sfinge, M u seo G rego rian o E tru sco, M u sei Vaticani, R o m a, © Scala. P ro getto grafico di M ucca D esign