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GIANNI VATTIMO e il pensiero debole
Gianni Vattimo nasce a Torino nel 1936. Si laurea in filosofia nella città natale e ottiene la specializzazione a Heidelberg, dove insegna il suo maestro Gadamer (ma fu allievo anche di Pareyson). Nel 1964 comincia ad insegnare filosofia all'università di Torino, dove sarà anche preside della facoltà di Lettere. Da sempre unisce all'impegno filosofico l'attività politica, per cui inizia come dirigente degli studenti cattolici negli anni '50, per poi confluire nei radicali e poi nei partiti della sinistra italiana (è stato parlamentare europeo). Vattimo si batte per il rinnovamento della società in senso pluralista e libertario (e, si potrebbe dire, postmoderno) pur non disdegnando l'accoglienza di quei valori storici propri della cattolicità tradizionale (soprattutto il senso della "pietas") sintentizzandoli in forza di un pensiero che giustamente si pone come debole, in contrapposizione alle distinzioni etiche intransigenti e dogmatiche. Direttore della rivista estetica, Vattimo ha insegnato più volte negli Stati Uniti in veste di visiting professor ed è uno tra i più eminenti studiosi europei, nel solco della corrente filosofica che da Heidegger porta a Gadamer e al pensiero francese della differenza (passando per il recupero del pensiero di Nietzsche). Opere principali: Il concetto di fare in Aristotele (1961); Essere, storia e linguaggio in Heidegger (1963); Ipotesi su Nietzsche (1967); Poesia e ontologia (1968); Schleiermacher, filosofo dell'interpretazione 1968; Introduzione a Heidegger (1971); Il soggetto e la maschera (1974); Le avventure della differenza (1980); Al di là del soggetto (1981); Il pensiero debole (1983) (scritto con A. Rovatti); La fine della modernità (1985); Introduzione a Nietzsche (1985); La società trasparente (1989); Etica dell'interpretazione (1989); Filosofia al presente (1990); Oltre l'interpretazione (1994); Credere di credere (1996). * Sommario 1. Il pensiero debole 2. Crisi del fondamento e depotenziamento della ragione
3. Il pensiero forte come forma di violenza, il senso della differenza 4. Implicazioni etiche e sociali del pensiero debole * 1. Il pensiero debole Gianni Vattimo è uno dei massimi teorici del pensiero debole, ovvero di un nuovo modo di porsi del pensiero nei confronti delle problematiche filosofiche ed etiche. L'idea che sta alla base di questa forma di pensiero è che non esiste alcuna possibilità, da parte del pensiero, di affermare o raggiungere una qualsiasi verità stabile o definitiva (si può notare la forte connessione tra pensiero debole e problematica della postmodernità). La filosofia si era strutturata in passato come indagine del senso autentico della verità, ogni sistema filosofico aveva come proprio obiettivo quello di racchiudere in un sistema di regole razionali il senso ultimo dell'esistenza e dell'essere. Vattimo riconosce, come molti altri, la tendenza storica che vede l'occidente perdere progressivamente questa volontà di dimostrare il senso stabile della realtà. Il pensiero filosofico è arrivato, a parere di Vattimo, al termine della sua avventura. Ogni tentativo di dimostrare i principi metafisici che regolano e sorreggono eternamente la realtà si è risolto in un fallimento, questo dimostra (sempre storicamente) che non esiste alcuna verità stabile. Da queste premesse si evince che occorre dare alla filosofia un altro senso: il nuovo senso della filosofia, quella strada che la filosofia dovrà percorrere in futuro, non è la ricerca della verità assoluta, ma è invece l'adeguarsi alla verità che esistono diverse verità (per cui non esiste verità assoluta, ma solo una pluralità di verità relative), per cui Vattimo auspica l'avvento di un pensiero debole, una forma di pensiero che non si ponga come spiegazione certa e incontrovertibile di un'unica verità alla quale adeguarsi (ovvero un pensiero forte, che non sia negabile), bensì una forma di pensiero che avverta e lasci apparire la pluralità dei sensi che il mondo via via verrà ad assumere. Il pensiero debole (contrapposto alla forma di pensiero forte che ha monopolizzato in passato il cammino della conoscenza) è in sostanza una forma di pensiero che si adegua al mutamento incessante delle condizioni della realtà, un pensiero morbido, che è in grado di accettare la pluralità dei punti di vista senza imporre alcun punto di vista come l'assoluto e incontrovertibile.
2. Crisi del fondamento e depotenziamento della ragione Come è evidente nell'economia dello studio della postmodernità, ogni senso definitivo decade, ogni fondamento è mes so in crisi. A fondamento di questa evidenza si pone il pensiero di Nietzsche, per il quale "Dio è morto", frase che racchiude il senso dell'epoca attuale, in cui a morire è ogni pretesa di fondamento certo e assoluto ("Dio" come principio autentico, eterno, onnipotente). Anche il pensiero di Heidegger rende bene l'idea di una realtà priva di fondamento (si ricordi che per Heidegger l'essere non ha fondamento, ed è semplicemente il manifestarsi imprevedibile degli enti). Ma la tesi di Vattimo deve molto anche all'ermeneutica di Gadamer quando accetta il recupero della tradizione in senso debole, ovvero accettando i valori della tradizione come aspetti culturali che vanno ad arricchire il senso della storia, a pari legittimità, e non a rinchiuderlo in una sola e monolitica tradizione dominante sulle altre tradizioni. Visto quanto detto fin qui, come si pone il pensiero debole nei confronti della ragione? Pensare razionalmente è da sempre il modo principale del sapere filosofico, per mezzo della ragione il filosofo percorre il sentiero di un sapere oggettivo, in cui la speculazione si può misurare con leggi razionali oggettive che fondano in qualche modo una legislazione del pensiero. Secondo Vattimo, nell'ottica dell'indebolimento delle strutture filosofiche, etiche e sociali, anche la ragione sperimenta un suo depotenziamento. La ragione non è in definitiva in grado di fondare alcuna certezza e alcun senso forte e definitivo, ma si pone come ragione depotenziata, elastica (emblematico l'esempio della scienza e della tecnica contemporanea come forma di conoscenza sempre perfettibile e ipotetica, che fonda il valore delle sue leggi sulla possibilità di essere comunque superate in ragione di novità sperimentali). Il depotenziamento della ragione in epoca contemporanea è quindi da vedere in quest'ottica: la ragione per mezzo della quale i filosofi del passato intendevano stabilire verità forti e immutabili ha fallito, la legge che sottende il funzionamento del mondo è una legge che muta e che non azzarda imporre alcunché di immutabile, per cui anche la ragione si piega alle tendenze deboliste, e si rifiuta ormai di fondarsi come forma di conoscenza immutabile e incontrovertibile, ma tende ad aprirsi a quella molteplicità di regole e di ragioni in cui consiste il mondo, sempre più variegato nelle sue diverse manifestazioni. 3. Il pensiero forte come forma di violenza, il senso della differenza
Alla base della critica che il pensiero debole muove alla categoria del pensiero forte (ma è anche una critica propria di un certo pensiero francese contemporaneo quale quello di Derrida ma soprattutto quello di Deleuze) vi è la convinzione che ogni pensiero forte si fondi come forma di violenza. Il pensiero forte, secondo i pensatori deboli (che ormai si definiscono ermeneuti, secondo quanto preferito dallo stesso Vattimo, seguendo le traccie del pensiero di Gadamer), è quella forma di pensiero che intende imporsi sulle altre escludendo di fatto ogni differenza e accorpando il senso e il significato del mondo in un unico e monolitico principio al quale ogni cosa deve adeguarsi (si veda la filosofia di Levinas). Questa forma di dominio dell'unico pensiero impedisce alle differenze di avere pari dignità. In sostanza, secondo i critici del pensiero forte, fondare la Legge Suprema che regola ogni aspetto della realtà passata, presente e futura, impedisce di fatto il riconoscimento di quella molteplicità dei punti di vista, tutti legittimi, in cui consiste la realtà ricca e mutevole che l'uomo ha ormai davanti agli occhi, nella sua evidente poliedricità. Secondo Nietzsche, ogni morale, ogni forma ideologica, politica, etica e religiosa che si voglia fondare su principi unici che intendono richiamarsi a una verità assoluta, è una forma di rimedio che gli uomini pongono in essere per paura dell'ignoto e del caos. I critici del pensiero forte sostengono che questa tendenza a fondare morali e ideologie forti è una forma di violenza che impedisce il riconoscimento della realtà caotica e imprevedibile. Di conseguenza, i fautori del pensiero forte, strumentalizzano le ideologie per imporre un sistema di dominio sugli uomini, in virtù di una gerarchizzazione degli aspetti della realtà, per cui alcuni sono migliori di altri. Ma questo dominio è una forma di violenza prevaricante e arbitraria. Dunque la realtà è, nel suo aspetto più originario e autentico, libertà e caos, movimento continuo, pluralità dei punti di vista. Il pensiero forte che si rifà a ideologie monolitiche ingabbiano questo aspetto originario della realtà, operando una limitazione dell'energia vitale e della libertà che spetta a ciascun uomo. Il senso della "differenza" che Vattimo e gli altri pensatori di questa categoria vogliono mostrare è che ogni aspetto della realtà, nella sua diversità, non fa parte di una gerarchia per cui vi sono aspetti della vita qualitativamente migliori di altri, ma ogni punto di vista e ogni tradizione, ogni aspetto dell'espressione vitale dell'uomo gode di pari dignità e legittimità, per cui non vi è una sola verità, ma una pluralità di verità che godono degli stessi diritti e dello stesso statuto essenziale: ogni aspetto della realtà, ogni differenza rispetto a un ipotetico senso unitario delle cose, si pone allo stesso livello delle altre.
4. Implicazioni etiche e sociali del pensiero debole Dunque per il pensiero debole l'aspetto autentico della realtà è l'assenza di qualsiasi gerarchia qualitativa tra le molteplici manifestazioni dell'esistenza: ogni aspetto della realtà è autentico, non vi è un principio o un aspetto più autentico dell'altro. Sul piano etico e politico questo discorso produce diversi effetti. Come effetto principale il pensiero debole pone ogni aspetto della realtà sullo stesso piano, per cui si auspica, a livello socio-politico, il riconoscimento delle diversità quale aspetto proprio del progresso civile. Ecco dunque il riconoscimento delle istanze delle minoranze, siano esse quelle razziali, culturali, femminili, omosessuali. Ogni minoranza possiede l'espressione della propria identità come fatto legittimo, ogni differenza è dunque rispettabile e meritevole della stessa attenzione. La postmodernità è caratterizzata proprio da questa tendenza a liberare le minoranze dalle condizioni di subordinazione, si pensi alle lotte dei movimenti civili, alle lotte per l'emancipazione femminile, a quelle per l'accettazione dell'omosessualità e via dicendo. La tendenza contemporanea è dunque quella del rispetto delle diversità. Storicamente, il pensiero debole si pone in un'ottica ermeneutica. La storia contiene i valori della tradizione, ma queste tradizioni non giustificano la predominanza di una certa tradizione sulle altre, bensì sono lo specchio di una molteplicità irriducibile, di una ricchezza culturale che sempre fiorisce e rifiorisce, producendo sempre nuovi modi di vivere la realtà. Al passato dunque non ci si deve rivolgere con l'atteggiamento inquisitorio di un pensiero forte che intende ciò che è stato il periodo buio dal quale scaturisce il presente (giudicando quindi il passato come un periodo qualitativamente inferiore al presente), al contrario, il pensiero debole accetta la diversità e la peculiarità delle società del passato con senso di "pietas" cristiana, quella forma di accoglienza del passato che rientra quindi a pieno nelle meccaniche dell'ermeneutica contemporanea, per cui il passato è fonte di dialogo, e non di disprezzo. Dal punto di vista etico il pensiero debole parte dall'affermazione che non può esistere un unico faro morale, questo sarebbe infatti una forma di dominio e di violenza di un solo aspetto della realtà sugli altri. Se la violenza è da sempre il prodotto di verità dogmatiche, rigide e alle quali si deve obbedire forzatamente, l'assenza di violenza si può produrre solo considerando la morale il frutto di un continuo confrontarsi tra le diversità, in cui non esiste una sola morale, ma si pone invece il dialogo continuo tra le diverse forme etiche.
Secondo Vattimo è dunque auspicabile un localismo dell'etica e della tradizione, ovvero un ridurre ad orizzonti locali la validità di un sistema etico, nei limiti della tradizione di cui l'etica è espressione. La realtà si configura così come una molteplicità di etiche locali, tutte legittime e tutte rispettabili, in un molteplice spettacolo di diversità che convivono le une accanto alle altre nel rispetto reciproco. Dunque l'origine della violenza, quella violenza che ancora fluisce libera nel mondo nonostante l'auspicio vattimiano, è da ricercare nel residuo di quelle strutture forti di potere che generano ideologie forti, le quali producono inevitabilmente lo scontro, nel loro tentativo di imporre il loro punto di vista sulle altre ideologie. Per questo la scomparsa della violenza è possibile solo se ogni ideologia forte scompare e lascia il posto a una molteplicità di "culture deboli", che non intendono dominare le une sulle altre, ma intendono rispettare le rispettive posizioni.