Il passaggio [PDF]

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Zitiervorschau

Il libro Nel cuore della foresta boliviana il professor Jonas Lear fa una scoperta destinata a cambiare per sempre il destino dell’umanità: un virus, trasmesso dai pipistrelli che, modificato, è in grado di rendere più forti gli esseri umani, preservandoli da malattie e invecchiamento. In una remota base militare in Colorado, il governo degli Stati Uniti inizia quindi degli esperimenti genetici top secret per studiare i prodigiosi effetti di questa scoperta. È il Progetto Noah, che utilizza come cavie umane dodici condannati a morte e una bambina. L’esperimento però non procede secondo le previsioni e accade ciò che non era neanche lontanamente immaginabile: i detenuti sottoposti alla sperimentazione – i virali – trasformatisi in creature mostruose e assetate di sangue, fuggono dalla base, seminando morte e distruzione. Da quel momento gli eventi precipitano e nessuno è più in grado di controllarli, nessun luogo è più sicuro e tutto ciò che rimane agli increduli sopravvissuti è la prospettiva di una lotta interminabile e di un futuro governato dalla paura del contagio, della morte e di un destino ancora peggiore. L’unica speranza è rappresentata da Amy, piccola superstite del fallimentare esperimento che ha scatenato l’apocalisse: su di lei il virus ha avuto effetti particolari, trasformandola in una pedina fondamentale nella lotta contro i virali. Sarà l’agente dell’FBI Brad Wolgast a salvarla da una fine terribile e a iniziare con lei un’incredibile odissea per liberare finalmente il mondo dall’incubo in cui è precipitato. Il destino dell’umanità è nelle sue mani. Ambientato in un prossimo futuro, Il passaggio non è solo un thriller letterario, ma anche un avvincente romanzo post-apocalittico e una cronaca epica della resistenza umana di fronte al pericolo di una catastrofe senza precedenti.

L’autore

Justin Cronin è nato nel New England, è professore di letteratura inglese alla Rice University e vive con la famiglia a Houston, in Texas. Il suo primo libro, Mary and O’Neil, ha vinto il prestigioso premio Pen/Hemingway. Il passaggio è stato l’evento editoriale americano del 2010 e presto diventerà un film diretto da Ridley Scott.

Justin Cronin IL PASSAGGIO Traduzione di Annamaria Biavasco e Valentina Guani

  IL PASSAGGIO Ai miei figli. Niente brutti sogni.

Dopo aver visto la mano crudele del tempo sfregiare il ricco, orgoglioso tesoro di età consumate e sepolte, così come vedo talvolta crollate al suolo le torri superbe, e il durevole bronzo ridotto in schiavitù dalla furia mortale; dopo aver visto l’oceano affamato corrodere il regno alle rive, e la terra inoltrarsi sull’ampia distesa dell’acqua a compensare il guadagno con la perdita, e la perdita con il guadagno; dopo aver visto un tale mutamento di condizioni, e la stessa esistenza confondersi fino all’annullamento, è stato allora che questa Rovina mi ha indotto a meditare che il Tempo verrà a strappare da me l’amore mio. WILLIAM SHAKESPEARE Sonetto 64

Prima parte IL SOGNO PIÙ BRUTTO DEL MONDO 5-1 a.V. La strada che conduce alla morte è un lungo cammino, assediato da tutti i mali, e pian piano, a ogni nuovo orrore il cuore manca, a ogni passo le ossa si ribellano, la mente innalza la sua resistenza amara, e a che scopo? Una ad una, le barriere cadono e non v’è riparo per gli occhi che escluda lo spettacolo della rovina, e la vista dei delitti ivi commessi. KATHERINE ANNE PORTER Bianco cavallo, bianco cavaliere

1 Prima di diventare la Bambina Venuta dal Nulla – Quella Arrivata per Caso, la Prima, Ultima e Unica a vivere un intero millennio – era solo una bambina dell’Iowa di nome Amy. Amy Harper Bellafonte. Il giorno della sua nascita la madre Jeanette aveva diciannove anni. La chiamò Amy in memoria della propria madre, che era morta quando lei era piccola, e come secondo nome scelse Harper, in onore di Harper Lee, l’autrice del Buio oltre la siepe, il suo romanzo preferito. Per la verità, era l’unico libro che avesse letto fino in fondo ai tempi delle superiori. Le sarebbe piaciuto chiamarla Scout, come la protagonista del romanzo, perché voleva che diventasse tenace, spiritosa e saggia come lei, nel modo in cui Jeanette non riusciva a essere. Ma Scout era un nome da maschio e Jeanette non voleva che sua figlia, per tutta la vita, fosse costretta a spiegare perché si chiamava così. Il padre di Amy era un uomo che un giorno era entrato nella tavola calda dove Jeanette faceva la cameriera da quando aveva sedici anni, un diner conosciuto da tutti come “The Box” perché sembrava una grossa scatola cromata posata lungo la strada, fra campi di granturco e di fagioli, e nient’altro nel raggio di chilometri, a parte un autolavaggio self-service di quelli in cui metti i soldi nella macchinetta e devi arrangiarti da solo. L’uomo, Bill Reynolds, vendeva mietitrebbiatrici e altre macchine agricole, ed era uno che ci sapeva fare. Mentre Jeanette gli serviva il caffè e anche dopo, più e più volte, le aveva ripetuto che era molto carina, che gli piacevano tanto i suoi capelli neri come il carbone, i suoi occhi nocciola e i suoi polsi delicati. E dal modo in cui lo diceva sembrava che ne fosse convinto, non come i suoi compagni di scuola, che le facevano i complimenti solo per ottenere quello che volevano. Bill aveva un’auto molto grande, una Pontiac nuova, con un cruscotto degno di un’astronave e sedili di pelle morbidi come il burro. Jeanette aveva pensato che di quell’uomo si sarebbe potuta innamorare davvero. Ma lui si era fermato in paese solo pochi giorni e poi era ripartito. Il padre di Jeanette, quando lei gli aveva raccontato quello che le era successo, aveva detto che sarebbe andato a cercarlo per costringerlo ad assumersi le sue responsabilità. Jeanette però non aveva accennato al fatto che Bill Reynolds era sposato e aveva una famiglia a Lincoln, nel Nebraska. Le aveva addirittura mostrato le foto dei figli che teneva nel portafoglio, due maschietti in tenuta da baseball, Bobby e Billy. Quindi, nonostante suo padre le avesse chiesto più volte chi era stato a metterla incinta, Jeanette non gli aveva detto nemmeno il nome dell’uomo. In realtà non era dispiaciuta: né della gravidanza, che era stata facile fino alla fine, né del parto, doloroso ma veloce, né, soprattutto, della bambina, la piccola Amy. Per far capire a Jeanette che aveva deciso di perdonarla, il padre aveva trasformato la stanza che era stata di suo fratello in una cameretta per la piccola ed era salito in soffitta a prendere la vecchia culla, la stessa in cui aveva dormito Jeanette anni prima. Poi era andato con la figlia da Walmart a comprare tutto il necessario: pigiamini, un bagnetto di plastica e una giostrina da appendere sopra la culla. Aveva letto in un libro che i neonati hanno bisogno di oggetti da guardare per stimolare il cervello e sviluppare l’intelligenza. Fin dall’inizio Jeanette era stata convinta che fosse una femmina, perché in cuor suo lo desiderava, ma sapeva che queste cose non si devono dire a nessuno, nemmeno a se stessi. Quando all’ospedale di Cedar Falls le avevano fatto un’ecografia, lei aveva chiesto alla donna con il camice a fiorellini che le passava la sonda sulla pancia se era maschio o femmina, ma quella aveva riso, guardando sullo schermo le immagini del feto che dormiva dentro di lei, e aveva risposto: “Cara, il suo bambino è timido. A volte si vede, a volte no, e questa è una di quelle in cui non si vede”. Così Jeanette non sapeva se avrebbe avuto un maschietto o una femminuccia, ma non importava. Con l’aiuto del padre

aveva vuotato la camera di suo fratello e staccato dai muri le bandierine e i poster: José Canseco, la band dei Killer Picnic, le Bud Girls. Vedendo quanto erano sbiadite e rovinate le pareti, le avevano dipinte di un colore che si chiamava “Dreamtime”: misteriosamente era rosa e azzurro al tempo stesso, quindi sarebbe andato bene in ogni caso. In alto, tutto intorno alla stanza, suo padre aveva attaccato un nastro di carta con tanti anatroccoli che sguazzavano in uno stagno. Poi aveva ripulito una vecchia sedia a dondolo di legno d’acero comprata in una casa d’aste, in modo che Jeanette avesse un posto dove sedersi a cullare il neonato. Partorì d’estate, una femmina, come desiderava, e la chiamò Amy Harper Bellafonte; le parve inutile darle il cognome di un uomo che molto probabilmente lei non avrebbe mai più visto e che, ora che c’era Amy, non avrebbe neanche voluto rivedere. Bellafonte, invece, era un gran bel cognome: una “bella fonte”, questo era Amy. Jeanette la allattava, la cullava e la cambiava. E, quando la bambina piangeva nel cuore della notte perché era bagnata, aveva fame o paura del buio, lei si alzava e andava nella sua cameretta in fondo al corridoio, a qualsiasi ora, anche se era rientrata stanchissima dal lavoro, la tirava su e le diceva che la mamma era lì e ci sarebbe sempre stata. “Se piangi io corro subito, è un patto fra noi che varrà per sempre, mia piccola Amy Harper Bellafonte.” Poi la teneva in braccio e la cullava finché l’alba non filtrava dalle tapparelle e fuori, sugli alberi, si sentiva il canto degli uccellini. Quando Amy compì tre anni, Jeanette rimase sola. Suo padre era morto d’infarto, le dissero, o forse di ictus; impossibile stabilirlo di preciso. Era successo una mattina d’inverno, mentre lui stava salendo sul furgone per andare a lavorare; aveva avuto appena il tempo di posare il caffè sul parafango prima di crollare a terra, senza versarne nemmeno una goccia. Jeanette continuò a lavorare al diner, ma i soldi non le bastavano, né per Amy né per il resto, e suo fratello, che era lontano, in marina, non rispondeva alle sue lettere. “Dio ha inventato l’Iowa perché la gente possa andarsene e non tornarci mai più” aveva sempre detto lui. Jeanette non sapeva che cosa fare. Poi un giorno nella tavola calda entrò un uomo. Era Bill Reynolds. Sembrava cambiato, e non in meglio. Il Bill Reynolds che lei ricordava – e doveva ammettere che di tanto in tanto ci pensava ancora, piccoli dettagli come il modo in cui i capelli biondo rossicci gli cadevano sulla fronte quando parlava, o il fatto che prima di bere il caffè ci soffiava sopra anche se non era più bollente – aveva qualcosa di attraente, emanava una specie di luce calda a cui veniva voglia di avvicinarsi, come uno di quei bastoncini fosforescenti che si usano alle feste. Quello era lo stesso uomo, ma la sua luce si era spenta. Era invecchiato e dimagrito. Jeanette notò che non si era fatto la barba, aveva i capelli unti e arruffati e non indossava una polo ben stirata, come un tempo, ma una camicia da lavoro, come quelle che portava suo padre, fuori dai pantaloni e con gli aloni di sudore sotto le ascelle. Aveva l’aria di aver passato la notte all’addiaccio o in macchina. La guardò dalla soglia e Jeanette lo seguì in un séparé in fondo alla sala. «Perché sei venuto?» «L’ho lasciata» rispose lui guardandola. Jeanette, in piedi, sentì odore di birra nell’alito, puzza di sudore e di vestiti sporchi. «Ce l’ho fatta, Jeanette: ho lasciato mia moglie. Adesso sono un uomo libero.» «E hai fatto tutta questa strada per venirmelo a dire?» «Ho pensato a te.» Si schiarì la voce. «Molto. Ho pensato a noi.» «Noi? Noi chi? Non puoi presentarti qui e dire che hai pensato a noi.»

Bill Reynolds si raddrizzò sulla sedia. «Be’, ci ho pensato. E ci sto pensando anche adesso.» «Ho da fare, non lo vedi? Non posso stare qui a parlare con te. Devi ordinare qualcosa.» «Bene» rispose lui, ma non guardò il menu appeso al muro e continuò a fissare lei. «Prendo un cheeseburger. Un cheeseburger e una Coca-Cola.» Mentre scriveva l’ordinazione, Jeanette si accorse che le parole le ballavano davanti agli occhi. Si era messa a piangere. Le sembrava di non dormire da un mese, da un anno. A tenerla in piedi era la pura forza di volontà. Per un certo periodo aveva sperato di poter fare qualcosa nella vita: prendere il diploma di parrucchiera, magari, aprire un negozio, trasferirsi in una vera città come Chicago o Des Moines, affittare un appartamento, avere degli amici. Le era sempre piaciuto immaginarsi seduta in un ristorante, in un bar o in un bel locale: era autunno, fuori faceva freddo e lei era sola a un tavolino vicino alla vetrina a leggere un libro. Sul tavolo c’era una tazza di tè fumante. Alzava lo sguardo e vedeva passare per la strada la gente della città in cui viveva, imbacuccata in cappotti pesanti, con il cappello in testa, e vedeva anche la propria faccia riflessa nel vetro, che aleggiava sopra l’immagine dei passanti. In quel momento, lì in piedi, le sembrò di essere una persona completamente diversa. Adesso c’era Amy, quasi sempre raffreddata, con le coliche o qualche malanno preso al nido fatiscente in cui trascorreva le giornate mentre lei lavorava al diner. E poi suo padre, morto in quel modo, così all’improvviso che sembrava fosse precipitato in una voragine apertasi di colpo sotto di lui. E adesso Bill Reynolds seduto lì, come se fosse uscito un attimo prima e non fosse stato lontano quattro anni. «Perché mi fai questo?» Lui la guardò negli occhi per qualche istante e le accarezzò una mano. «Vediamoci dopo. Ti prego.» Finì che Bill andò a vivere con lei e Amy. Jeanette non avrebbe saputo dire se glielo avesse proposto o se fosse successo per caso. Comunque se ne pentì subito. Chi era veramente Bill Reynolds? Aveva lasciato la moglie e i figli, Bobby e Billy, con la loro divisa da baseball, nel Nebraska. Non aveva più la Pontiac e neppure un lavoro: con la crisi che c’era, spiegò, nessuno comprava un accidente di niente. Sosteneva di avere molti progetti, ma poi se ne stava tutto il giorno in casa senza far niente; non si occupava di Amy e non lavava nemmeno i piatti della colazione, mentre lei sgobbava dalla mattina alla sera. La picchiò la prima volta tre mesi dopo che si era trasferito da lei; era ubriaco, e poi scoppiò a piangere dicendo che gli dispiaceva tantissimo. Glielo ripeté all’infinito, in ginocchio, singhiozzando, come se fosse stata lei a fargli un torto. Jeanette doveva capire che per lui era difficile: tutti quei cambiamenti nella sua vita erano più di quello che un uomo, qualsiasi uomo, potesse sopportare. Lui l’amava e le chiedeva di perdonarlo. Non sarebbe successo mai più, mai più. Lo giurò. Non avrebbe più fatto del male né a lei né ad Amy. Alla fine Jeanette si ritrovò a chiedergli scusa. L’aveva picchiata durante un litigio per i soldi; quando arrivò l’inverno e Jeanette si rese conto di non avere abbastanza denaro in banca per pagare il gasolio del riscaldamento, la picchiò di nuovo. «Perdio, stupida donna! Non capisci che sono in difficoltà?» Jeanette, lunga distesa sul pavimento in cucina, si teneva una mano sulla tempia. Bill le aveva dato un ceffone tanto forte che l’aveva fatta volare per terra. Che strano: adesso che era lì vedeva quanto le piastrelle erano sporche e macchiate. C’erano grumi di polvere e chissà

cos’altro ai piedi dei mobiletti, dove di solito non si guarda. Una parte del suo cervello notava quei particolari, mentre l’altra le bisbigliava: “Non ragioni, Jeanette. Le botte di Bill ti hanno fatto saltare qualche rotella, e adesso ti preoccupi della polvere”. Anche i suoni erano strani: al piano di sopra Amy aveva acceso il piccolo televisore nella sua cameretta e Jeanette si sentiva rimbombare dentro la testa la voce di Barney il dinosauro viola e una canzoncina su com’è bello lavarsi i denti; poi, in lontananza, udì il rumore dell’autocisterna del gasolio che si allontanava e cambiava marcia immettendosi nella strada principale. «Non è casa tua» gli disse. «Hai ragione.» Bill prese una bottiglia di Old Crow da sopra il lavello e, anche se erano solo le dieci del mattino, se ne versò un po’ in un barattolo di marmellata vuoto che usava come bicchiere. Si sedette al tavolo, ma non accavallò le gambe per mettersi comodo. «Neanche il gasolio è mio.» Jeanette si girò su un fianco e cercò di alzarsi, ma non ci riuscì. Lo guardò bere per un minuto buono. «Vattene.» Lui rise, scuotendo la testa, e ingollò un altro sorso di whisky. «È ridicolo che tu me lo dica così, lunga distesa per terra.» «Parlo sul serio. Vattene.» Amy entrò in cucina, con il coniglietto di peluche che portava sempre con sé. Aveva la salopette bella, quella che Jeanette le aveva comprato all’outlet di OshKosh B’Gosh, con le fragole ricamate sulla pettorina. Una spallina era slacciata e le penzolava sul petto. Jeanette intuì che doveva essersela sganciata da sola perché aveva bisogno di andare in bagno. «Sei caduta, mamma.» «Non è niente, tesoro.» Si alzò per dimostrarglielo. L’orecchio sinistro le fischiava leggermente. Come nei cartoni animati, con gli uccellini che le svolazzavano intorno alla testa. Si accorse di avere anche una mano sporca di sangue, ma non capì da dove venisse. Prese in braccio Amy e si sforzò di sorridere. «Visto? La mamma ha fatto un capitombolo, niente di grave. Devi andare in bagno, tesoro? Ti metto sul vasino?» «Guardati» diceva intanto Bill. «Ma guardati!» Poi scosse di nuovo il capo e bevve. «Stupida stronza. Probabilmente lei non è nemmeno figlia mia.» O per quelle parole, o per la vista del sangue, la bambina si mise a piangere. «Visto cos’hai combinato?» continuò Bill e, rivolto ad Amy, aggiunse: «Su, dài. Non è niente di grave, a volte i grandi litigano, succede». «Te lo ripeto: vattene.» «E poi che cosa farai? Sentiamo! Non riesci nemmeno a pagarti il gasolio.» «Credi che non lo sappia? Non c’è bisogno che me lo ricordi, perdio!» Amy nel frattempo aveva iniziato a singhiozzare. Jeanette, che l’aveva in braccio, sentì allargarsi una chiazza umida e calda: la bambina si era fatta la pipì addosso. «Cristo, falla stare zitta!»

Jeanette strinse a sé Amy. «Hai ragione. Non è tua. Non lo è e non lo sarà mai. Vattene, altrimenti giuro che chiamo lo sceriffo.» «Non mandarmi via, Jean. Sul serio.» «Sì, invece. Ti butto fuori una volta per tutte.» Bill si alzò e, sbattendo le porte, fece il giro della casa per prendere le sue cose. Le gettò alla rinfusa nelle scatole di cartone in cui le aveva portate mesi prima. Perché non l’aveva insospettita subito il fatto che fosse arrivato senza nemmeno una valigia? Jeanette si sedette al tavolo della cucina con Amy in grembo, guardò l’orologio sopra i fornelli e contò i minuti, temendo che lui tornasse a picchiarla. Invece sentì la porta d’ingresso che si apriva e passi pesanti sui gradini. Bill andò avanti e indietro per un po’ trasportando scatoloni. Aveva lasciato la porta spalancata, cosicché la casa si riempì di aria fredda. Alla fine tornò in cucina con le scarpe sporche di neve impiastricciando dappertutto. «Bene, bene. Vuoi davvero che me ne vada? Guardami.» Prese la bottiglia di Old Crow dal tavolo. «È la tua ultima chance» disse. Jeanette tacque e non gli rivolse neppure un’occhiata. «Allora d’accordo. Bene. Ti dispiace se bevo il bicchiere della staffa?» In quel momento Jeanette allungò il braccio e fece volare il barattolo dall’altra parte della cucina con il palmo, quasi fosse una racchetta da ping-pong. Si era resa conto di quello che stava per fare circa mezzo secondo prima e, pur intuendo che non era una buona mossa, ormai era troppo tardi per fermarsi. Il barattolo andò a sbattere contro il muro con un tonfo sordo e cadde per terra senza rompersi. Jeanette chiuse gli occhi e tenne stretta Amy, immaginando quello che sarebbe successo. Per un attimo il rumore del barattolo che rotolava sul pavimento parve riempire completamente la stanza. Lei avvertì la rabbia di Bill, quasi emanasse dal suo corpo. «Vedrai che cosa ti riserverà il mondo, Jeanette, vedrai. Ricordati che ti avevo avvertito.» Poi i suoi passi si allontanarono dalla cucina. Bill Reynolds se n’era andato. Jeanette diede al fornitore di gasolio i soldi che aveva e abbassò il termostato a dieci gradi per farselo durare. «Fa’ finta che siamo in campeggio, Amy, tesoro» diceva alla bambina mettendole i guanti e il berretto. «Ecco, così. Non è poi tanto freddo. È una specie di avventura, la nostra.» Dormivano insieme sotto un mucchio di vecchie trapunte. Nella stanza la temperatura era così bassa che il fiato formava una specie di nebbiolina sopra di loro. Jeanette trovò un secondo lavoro serale: faceva le pulizie in una scuola e affidava Amy a una vicina. Quando però la donna si ammalò e venne ricoverata in ospedale, fu costretta a lasciare la figlia da sola. Le spiegò cosa doveva fare. «Mettiti a letto, non aprire a nessuno e chiudi gli occhi. Vedrai che torno presto.» Aspettava che la bambina si fosse addormentata prima di uscire in punta di piedi e andare a passo svelto fino alla macchina, che parcheggiava a una certa distanza in modo che Amy non sentisse il rumore quando la metteva in moto. Una notte, però, commise l’errore di confidarsi con una collega dell’impresa di pulizia con cui era uscita a fumare una sigaretta. Fumare non le era mai piaciuto e le scocciava spendere i

soldi, ma era un modo per tenersi svegli e, se avesse rinunciato anche a quella pausa, non avrebbe avuto proprio niente di gradevole da fare: solo pulire gabinetti e lucidare pavimenti. Raccomandò alla collega, che si chiamava Alice, di non dirlo a nessuno, perché sapeva di rischiare grosso a lasciare Amy sola in casa, ma naturalmente lei andò subito a riferirlo al supervisore, che licenziò in tronco Jeanette. «Quello che fa alla bambina non va bene» la rimproverò l’uomo nel piccolo ufficio vicino alla caldaia, un bugigattolo con una scrivania di metallo tutta ammaccata, una vecchia poltrona con l’imbottitura che usciva e un calendario appeso al muro che non era nemmeno di quell’anno. Faceva così caldo che a Jeanette mancava l’aria. «Si consideri fortunata che non la denuncio» aggiunse il supervisore. Lei si domandò perché la trattasse in quel modo. Fino allora era sempre stato piuttosto gentile. Forse Jeanette avrebbe potuto difendersi, spiegargli che senza i soldi delle pulizie non ce l’avrebbe fatta a tirare avanti, ma era troppo stanca e non trovò le parole. Prese il poco che le spettava e tornò a casa sulla vecchia Kia che aveva comprato di seconda mano quando era ancora alle superiori: già a quei tempi aveva sei anni e andava in pezzi così in fretta che le pareva di lasciare una scia di dadi e bulloni. Quando, dopo che si era fermata al Quick Mart a comprare un pacchetto di sigarette Capri, la macchina non ripartì, Jeanette scoppiò a piangere e non riuscì a smettere per mezz’ora. Il problema era la batteria: per comprarne una nuova da Sears le chiesero ottantatré dollari. A quel punto lei aveva già perso il lavoro da una settimana ed era stata licenziata anche dal diner. Le erano rimasti giusto i soldi per andarsene, dopo aver raccolto tutte le sue cose in qualche sacchetto di plastica e negli scatoloni lasciati da Bill. Nessuno sapeva che fine avessero fatto. La casa rimase vuota e l’acqua gelò nelle tubature, che scoppiarono come frutti maturi. Al disgelo, in primavera, ci volle un bel po’ prima che quelli dell’acquedotto si accorgessero che il consumo era altissimo ma nessuno pagava la bolletta. Allora mandarono due operai a sigillare il contatore. Ormai nella casa vivevano i topi e quando, durante un temporale estivo, si ruppe il vetro di una finestra al piano di sopra, arrivarono anche le rondini. Fecero il nido nella camera dove Jeanette e Amy avevano dormito al freddo e al gelo e riempirono le stanze dei loro suoni e dei loro odori. A Dubuque Jeanette trovò lavoro in una stazione di servizio. Faceva il turno di notte e metteva Amy a dormire su un divano nel retro. Quando il proprietario se ne accorse, la mandò via. Era estate e vivevano sulla Kia, lavandosi nei bagni della stazione di servizio, quindi andarsene non fu un grosso problema. Per un po’ si stabilirono a Rochester da un’amica di Jeanette, una compagna di scuola che si era trasferita là per prendere il diploma di infermiera. Jeanette trovò un impiego nello stesso ospedale in cui lavorava lei. Faceva le pulizie, ma lo stipendio era bassissimo e l’appartamento troppo piccolo per tre persone, così andò a stare in un motel. Lì però non c’era una persona che potesse tenere Amy: l’amica non ce la faceva e non conosceva nessuno disposto a guardare la bambina. Perciò tornarono a vivere sulla Kia, ma era settembre e cominciava a far freddo. La radio parlava continuamente di guerra. Jeanette partì per il Sud e arrivò fino a Memphis prima che la Kia cedesse definitivamente. Accettò un passaggio su una Mercedes da un tipo che disse di chiamarsi John. Era una bugia, e Jeanette lo capì dal modo in cui lo disse, dopo averla squadrata un momento, come un bambino che ha rotto una lampada e si inventa una scusa. «Mi chiamo... John.» Le parve sulla cinquantina, ma non era brava a giudicare l’età delle persone. Aveva una barba ben curata e un completo scuro e aderente, da impresario di pompe funebri. Mentre guidava, guardava Amy

nello specchietto retrovisore, cambiava posizione sul sedile e faceva un sacco di domande a Jeanette: dove andava, che cosa le piaceva fare, come mai era venuta nel Tennessee. L’automobile le ricordava quella di Bill Reynolds. In meglio: con i finestrini chiusi non si sentiva praticamente nessun rumore e i sedili erano così morbidi che pareva di stare in una coppa di panna montata. Aveva sonno. Quando l’uomo fermò la macchina davanti a un motel, Jeanette pensò che non le importava, che era inevitabile. Erano vicino all’aeroporto, in una distesa piatta come nell’Iowa, e lei vedeva le luci degli aerei che descrivevano archi nel crepuscolo avvicinandosi lentamente, come bersagli in un tiro a segno. «Amy, cara, la mamma va un momento dentro con questo signore così gentile, okay? Guarda il tuo libro, tesoro.» John fu abbastanza educato, la chiamò “baby” e “amore” e prima di andarsene le lasciò cinquanta dollari sul comodino: quanto bastava per pagare una notte in motel per lei e per Amy. Altri però non furono altrettanto gentili. Di notte Jeanette chiudeva a chiave Amy nella stanza, con il televisore acceso per tenerle compagnia, e andava sulla strada davanti al motel. Non ci voleva mai molto perché qualche uomo si fermasse. Si mettevano d’accordo e poi lei lo portava dentro. Prima di farlo accomodare in camera, accompagnava Amy in bagno e la faceva sdraiare nella vasca, dove aveva sistemato le coperte e i cuscini in più. Amy aveva sei anni. Era taciturna, non parlava quasi, ma a furia di sfogliare sempre gli stessi libri aveva imparato a leggere da sola e sapeva anche contare. Una volta madre e figlia guardarono La ruota della fortuna. Quando la vincitrice dovette decidere come spendere i soldi, Amy sapeva esattamente che cosa poteva comprare: non si sarebbe potuta permettere il viaggio a Cancún, ma se avesse acquistato divano e poltrone per il salotto le sarebbe rimasto abbastanza per due set di mazze da golf. Jeanette la prese come la dimostrazione che Amy era intelligente, molto intelligente, e pensò che avrebbe dovuto mandarla a scuola. Non sapeva neppure se ci fossero scuole in quella zona, però. Pareva che esistessero soltanto autofficine, banchi di pegni e motel come quello nel quale stavano loro, che si chiamava SuperSix. Il proprietario sembrava Elvis Presley, non all’epoca in cui era giovane e bello, ma quando ormai era vecchio e grasso, con i capelli unti e gli occhiali dorati che facevano sembrare gli occhi due pesci in un acquario. Portava una giacca di raso con una folgore sulla schiena, proprio come Elvis. Se ne stava quasi sempre dietro il bancone a fare solitari e a fumare sigari lunghi e stretti con un bocchino di plastica. Jeanette gli pagava la camera in contanti una volta alla settimana. Una tantum gli allungava cinquanta dollari in più, e lui non faceva storie. Un giorno le chiese se aveva qualcosa per difendersi, all’occorrenza, e le propose di venderle una pistola. «Va bene. Quanto costa?» rispose Jeanette. «Cento» disse lui e le mostrò una piccola rivoltella un po’ arrugginita, calibro .22. Jeanette la impugnò, lì nell’ufficio, e non le parve un granché, meno che mai un’arma con cui si potesse uccidere qualcuno. Così piccola, però, stava comodamente in borsetta. Non le sembrò una cattiva idea portarsela dietro. «Attenta a dove la punti» la avvertì il proprietario del motel. «Okay, se ti fa paura, vuol dire che funziona. La compro» replicò lei. Era contenta di averla con sé. Tenendola in borsetta, si rese conto che non era più impaurita come prima. Era un segreto, una specie di identità nascosta, un po’ come avere l’ultimo pezzo

di sé nella borsa. L’altra Jeanette – quella che batteva il marciapiede con un top aderente e la minigonna, che ancheggiava e diceva: “Che cosa vuoi, tesoro? Posso fare qualcosa per te stasera?” – era un personaggio inventato, la protagonista di una storia di cui lei non era sicura di voler sapere il finale. Una sera salì sulla macchina di un uomo che non era come se l’era immaginato. Di solito i tipi pericolosi Jeanette li riconosceva subito. Diceva semplicemente “no, grazie” e tirava dritto. Quello, invece, sembrava un bravo ragazzo, forse uno studente universitario, o comunque era abbastanza giovane da poterlo essere. Era anche ben vestito: aveva un paio di pantaloni beige stirati e una di quelle camicie con l’omino a cavallo che impugna una mazza da polo. Sembrava che stesse andando a prendere la sua ragazza, e Jeanette rise fra sé quando salì sulla grande Ford Expo con il portabici sul tetto. Poi però successe una cosa strana: lui si rifiutò di andare nel motel. Certi uomini volevano farlo subito lì, in macchina, senza nemmeno accostare, ma quando Jeanette si avvicinò, pensando che fosse questo che voleva, il ragazzo la respinse gentilmente. Voleva portarla fuori, disse. «Fuori dove?» chiese lei. «In un bel posto» rispose. «Non preferisci andare in un bel posto? Ti pagherò bene, più di quanto prendi di solito.» Jeanette pensò che Amy stava dormendo e che, in un modo o nell’altro, non avrebbe fatto differenza. «Basta che non ci voglia più di un’ora» disse. «E poi devi riaccompagnarmi qui.» Invece ci volle più di un’ora, molto di più, e quando arrivarono a destinazione Jeanette era spaventata. Il ragazzo si fermò davanti a una villa che aveva una grande insegna sopra il portone con tre simboli che sembravano lettere, ma non proprio. Lei capì che doveva essere la sede di una confraternita universitaria: un posto dove abitavano, tutti insieme, tanti figli di papà che sbevazzavano invece di studiare per diventare medici e avvocati. «I miei amici ti piaceranno, vedrai» disse lui. «Vieni che te li presento.» «No, non vengo. Riportami subito indietro.» Il giovane, con entrambe le mani sul volante, non replicò subito. Quando Jeanette lo guardò in faccia e vide la folle bramosia che gli compariva lentamente negli occhi, cambiò idea sul fatto che fosse un bravo ragazzo. «È fuori discussione» ribatté alla fine. «A questo punto non se ne parla proprio.» «Lo dici tu.» Jeanette spalancò la portiera e si avviò a piedi, sebbene non sapesse nemmeno dov’era. Il ragazzo scese, la raggiunse e la prese per un braccio. Ormai le era chiaro che cosa la aspettava dentro la villa, che cosa volevano da lei. Avrebbe dovuto capirlo già da molto tempo, forse fin dal giorno in cui Bill Reynolds aveva messo piede nel diner la prima volta. Si rese conto che anche il ragazzo aveva paura: forse qualcuno lo costringeva a comportarsi così, magari i suoi amici dentro la villa. A lei non importava. La afferrò da dietro e cercò di metterle un braccio intorno al collo per immobilizzarla, ma Jeanette gli assestò un pugno nel punto giusto, forte, e lui cacciò un grido, le diede della puttana, della troia e così via. Le mollò anche un ceffone. Jeanette perse l’equilibro e cadde, e lui ne approfittò per salirle a cavalcioni, come un fantino in sella a un cavallo. La tempestò di pugni e schiaffi e cercò di immobilizzarle le braccia. Se ci fosse

riuscito, per lei sarebbe stata la fine: molto probabilmente, che fosse cosciente o no, per lui e i suoi amici non aveva grande importanza. Jeanette infilò la mano nella borsetta, che era caduta per terra, sull’erba. La sua vita era così strana che le sembrava non le appartenesse più, ormai, ammesso che le fosse mai appartenuta. Le pistole invece non avevano problemi esistenziali: una pistola è una pistola e non ha dubbi al riguardo. Jeanette sentì il metallo freddo nel palmo della mano, dove voleva stare. “Non pensare, Jeanette” le disse una voce dentro la testa, e lei appoggiò la canna alla fronte del ragazzo; poi esercitò una pressione, fino a sentire la pelle e, sotto, le ossa del cranio. A quella distanza non poteva mancare il bersaglio, pensò, e premette il grilletto. Le ci volle tutta la notte per tornare al motel. Quando il ragazzo le scivolò via di dosso, Jeanette si mise a correre più veloce che poté. Arrivò fino alla strada più grande che riuscì a trovare, un ampio viale illuminato, e salì sul primo autobus. Temeva di avere i vestiti sporchi di sangue, ma l’autista non la guardò nemmeno mentre le spiegava come fare per raggiungere l’aeroporto. Andò a sedersi in fondo, lontano da occhi indiscreti. L’autobus, comunque, era quasi vuoto. Jeanette vide sfilare lentamente fuori dal finestrino quartieri sconosciuti di case e negozi con le luci spente, poi una grande chiesa e i cartelli per lo zoo. Infine arrivò in centro, dove aspettò un altro autobus sotto una pensilina di plexiglas, tremando di freddo. Non sapeva che ora fosse e non aveva più l’orologio. Doveva averlo perso, forse durante la colluttazione. La polizia lo avrebbe trovato e sarebbe risalita a lei. O forse no, visto che era un comunissimo Timex comprato da Walgreens. La pistola la preoccupava molto di più. L’aveva buttata nel prato, o almeno così le pareva. Aveva ancora la mano un po’ indolenzita per il contraccolpo e le ossa che vibravano come un diapason. Arrivò al motel al sorgere del sole, mentre la città si stava svegliando. Nella luce cinerea dell’alba entrò in camera. Amy dormiva con il televisore acceso che trasmetteva la pubblicità di un attrezzo da fitness. Un uomo tutto muscoli, con la coda di cavallo e una bocca enorme, da cane, abbaiava qualcosa dallo schermo. Jeanette calcolò che entro un paio d’ore al massimo la polizia sarebbe venuta a cercarla. Era stata scema a lasciare là la pistola, ma ormai era inutile recriminare. Si lavò la faccia e i denti senza guardarsi allo specchio, poi s’infilò i jeans e una maglietta, prese la minigonna, il top aderente e la giacca con le frange che aveva indosso la sera prima, sporchi di sangue e pezzetti di qualche sostanza che preferiva non sapere cosa fosse, andò dietro il motel e li buttò nel cassonetto puzzolente. Le sembrava che il tempo si fosse accorciato come una fisarmonica: tutti gli anni che aveva vissuto, tutte le sue vicissitudini parevano essersi appiattiti di colpo sotto il peso di quel momento. Ripensò a quando Amy era appena nata e la mattina presto la teneva in braccio cullandola vicino alla finestra e, qualche volta, si addormentava anche lei. Era un bel ricordo: non avrebbe mai più dimenticato quelle mattine. Mise le cose di Amy nello zainetto delle Superchicche, infilò in un sacchetto della spesa un po’ di vestiti per sé e i soldi, poi spense il televisore e svegliò con dolcezza la bambina. «Forza, tesoro, alzati. Dobbiamo andare.» Amy, mezzo addormentata, si lasciò vestire. Al mattino era sempre così, assonnata e un po’ stordita, e Jeanette si rallegrò di non dover partire in un altro momento della giornata, quando per convincerla ci sarebbero volute più moine e spiegazioni. Le diede una barretta di cereali e un succo di frutta, poi insieme si incamminarono verso la fermata dell’autobus dove Jeanette era scesa poco prima. Ricordava di aver visto, mentre tornava al motel, una grande chiesa di pietra con la scritta

SANTA MARIA ADDOLORATA. Se fosse riuscita a prendere l’autobus giusto, pensò, ci sarebbe passata davanti di nuovo. Si sedette in fondo, con un braccio intorno alle spalle della figlia, tenendosela vicina. Amy non aprì bocca, a parte per dire che aveva ancora fame, e allora Jeanette prese un’altra barretta di cereali dalla scatola che aveva messo nello zainetto insieme con i vestiti puliti, lo spazzolino da denti e Peter coniglio. “Amy” pensò “sei la mia brava bambina, la mia brava bambina, perdonami, perdonami.” In centro cambiarono autobus e viaggiarono ancora per mezz’ora. Quando passarono davanti allo zoo, Jeanette temette di avere superato la fermata, ma poi si ricordò che quel mattino aveva visto prima la chiesa e dopo lo zoo, e che adesso procedevano in senso inverso. Infatti la vide. Alla luce del giorno era diversa, meno grande, ma andava bene lo stesso. Scesero dalla porta di dietro e, mentre l’autobus ripartiva, Jeanette tirò su la cerniera della giacca alla figlia e le mise lo zainetto sulle spalle. Poi guardò in alto e vide l’altro cartello che ricordava di aver notato la notte prima, su un paletto all’imboccatura del viale accanto alla chiesa: CONVENTO DELLE SUORE DELLA MISERICORDIA. Prese per mano Amy e si incamminò sul viale: era costeggiato da grandi alberi che dovevano essere querce, con lunghi festoni di muschio pendenti dai rami sopra le loro teste. Non aveva idea di come fosse fatto un convento, ma poi capì che era semplicemente una casa, abbastanza carina, di una pietra un po’ luccicante, con il tetto di legno e i telai delle finestre bianchi. Davanti c’era un orto e Jeanette immaginò che fossero le suore a occuparsene, a curare le piantine. Arrivò al portone e suonò il campanello. La donna che venne ad aprire non era vecchia, contrariamente a quanto si aspettava, e non portava la tonaca, o il saio, o come si chiamavano i vestiti delle suore. Doveva avere solo qualche anno più di lei e, fatta eccezione per il velo in testa, era vestita normalmente, con gonna, camicetta e un paio di mocassini marroni. Era nera. Nell’Iowa Jeanette aveva visto solo una o due persone di colore in vita sua, a parte alla televisione e al cinema. Memphis, invece, era piena di neri. Sapeva che c’era gente a cui non piacevano, ma per lei non era mai stato un problema. Anzi, era contenta che la suora fosse di colore. «Scusi se la disturbo» esordì. «Mi si è rotta la macchina poco lontano e avrei...» «Ma certo» disse la suora. Aveva una voce strana, come Jeanette non ne aveva mai sentite: sembrava che delle note musicali riecheggiassero fra le parole. «Venga, si accomodi. Venite.» Si fece da parte per lasciar entrare Jeanette e Amy nell’atrio. Jeanette sapeva che nel convento ci dovevano essere altre suore – forse nere anche quelle – che dormivano, cucinavano, leggevano o pregavano, cosa che le suore dovevano fare spesso, magari tutto il giorno. C’era silenzio, quindi probabilmente stavano pregando anche in quel momento. Le sarebbe bastato che la donna rimanesse un momento sola con Amy. Era sicura di ciò che doveva fare, così come lo era di avere ucciso un ragazzo la notte precedente e di tutto il resto. Sarebbe stato ancora più doloroso, ma non molto diverso: avrebbe sentito male nello stesso punto. «Signora...?» «Oh, io sono Lacey» disse la suora. «Dammi pure del tu. È tua figlia?» Si inginocchiò davanti ad

Amy. «Ciao. Come ti chiami? Ho una nipotina della tua età che è carina quasi quanto te.» Alzò gli occhi e si rivolse a Jeanette. «È molto timida. Forse è per il mio accento. Sa, vengo dalla Sierra Leone, nell’Africa occidentale.» Si voltò di nuovo verso Amy e le prese una mano. «Sai dov’è? È un posto molto lontano.» «Tutte le suore vengono da là?» chiese Jeanette. La donna si alzò e rise mostrando i denti bianchissimi. «Oh, santo cielo, no! Sono l’unica, temo.» Rimasero un attimo in silenzio. A Jeanette la suora era simpatica: le piacevano la sua voce, il modo in cui trattava Amy e il fatto che la guardasse negli occhi mentre parlava. «La stavo portando a scuola e la mia vecchia carretta mi ha piantato in mezzo alla strada» spiegò Jeanette. La suora annuì. «Prego, da questa parte.» Le accompagnò in un corridoio che portava in una cucina molto grande, con un enorme tavolo di legno e mobili provvisti di etichette che ne specificavano il contenuto: STOVIGLIE, CONSERVE, PASTA E RISO. Jeanette pensò che, essendo in tante, doveva far comodo sapere dov’erano le cose. Lacey le indicò il telefono, un vecchio apparecchio marrone a muro con il filo molto lungo. Jeanette aveva pianificato bene quella parte. Mentre la suora tirava fuori un piattino di biscotti fatti in casa per Amy, Jeanette compose un numero. Una voce registrata la informò che il cielo quel giorno sarebbe stato coperto, con una temperatura massima intorno ai tredici gradi e possibili rovesci in serata. Lei finse di parlare con il soccorso stradale annuendo varie volte. «Mandano un carro attrezzi» disse dopo avere riagganciato. «Devo andare ad aspettarlo vicino alla macchina. Per fortuna ce n’era uno in zona.» «Bene. Si vede che oggi è il tuo giorno fortunato» osservò la suora in tono allegro. «Se vuoi, puoi lasciarmi la bambina. Meglio che aspetti qui piuttosto che in una strada piena di traffico.» Ecco fatto. Non doveva inventarsi altro, solo accettare l’offerta. «Se non è troppo disturbo...» La suora sorrise di nuovo. «Staremo benissimo, vero?» disse guardando Amy con aria incoraggiante. «Visto? È contenta. Vai pure.» Amy era seduta su una delle sedie intorno al grande tavolo di legno, davanti a un piattino di biscotti e a un bicchiere di latte che non aveva ancora toccato. Si era tolta lo zainetto e lo aveva appoggiato sulle ginocchia. Jeanette la guardò più a lungo che poté, poi si inginocchiò e la abbracciò. «Fai la brava» le disse, e Amy, con la faccia contro la sua spalla, annuì. Jeanette avrebbe voluto aggiungere qualcosa, ma non trovò le parole. Pensò al biglietto che le aveva messo nello zaino e che sicuramente le suore avrebbero trovato, una volta capito che lei non sarebbe tornata a riprendere la bambina. La tenne stretta a lungo, assaporando la sensazione di averla fra le braccia, il suo tepore, l’odore della pelle e dei capelli. Le veniva da piangere. La suora – Lucy? Lacey? – non poteva e non doveva vederla, ma indugiò ancora per un momento, cercando di memorizzare bene le sensazioni per conservarle in un posto sicuro dove poterle poi ritrovare. Quindi lasciò andare la figlia e, senza dare a nessuno il tempo di dire altro, uscì dalla cucina e

dal convento e si incamminò lungo la strada.

2 DAI FILE DEL COMPUTER DI JONAS ABBOTT LEAR, RICERCATORE Dipartimento di Biologia molecolare e cellulare, Harvard University Docente incaricato presso l’Istituto militare americano per la ricerca medica sulle malattie infettive (USAMRIID) Dipartimento di Paleovirologia, Fort Detrick, Maryland Da: [email protected] Data: lunedì 6 febbraio, 13.18 A: [email protected] Oggetto: Attivazione connessione satellitare Caro Paul, saluti dalla giungla boliviana, ombelico delle Ande. Stando lì nella gelida Cambridge a guardare cadere la neve sono certo che l’idea di passare un mese ai tropici non ti sembrerà malvagia, ma credimi: non è St Bart’s. Ieri ho visto un serpente grande come un sottomarino. Il viaggio è andato bene: sedici ore di volo fino a La Paz e poi, con un aereo più piccolo, fino a Concepción. In questa zona non esistono strade decenti, solo sterrati, perciò d’ora in avanti proseguiremo a piedi. Siamo tutti pieni di entusiasmo e la squadra è sempre più numerosa. Dopo il gruppo della UCLA, a La Paz ci hanno raggiunto anche Tim Fanning della Columbia e Claudia Swenson del MIT. (Se ricordo bene, l’hai conosciuta a Yale.) Oltre alla sua considerevole fama, Tim si è portato dietro sei assistenti, che hanno immediatamente abbassato l’età media della squadra di dieci anni e aumentato la percentuale di femmine. “Sono preparatissime” ha puntualizzato Tim. Ha avuto tre mogli, una più giovane dell’altra, ma non impara mai. Devo dire che, nonostante i dubbi miei, tuoi e di Rochelle, coinvolgere i militari è stato importante. Solo l’USAMRIID poteva avere la forza e i soldi per mettere insieme una squadra così nel giro di un mese. Dopo anni di tentativi a vuoto, ci si è improvvisamente aperta una porta e a noi non resta che attraversarla. Mi conosci, sono uno scienziato e non sono superstizioso, ma una parte di me non può non pensare che sia un segno del destino. Dopo la malattia di Liz, tutte le sue sofferenze, è straordinario che io ora abbia la possibilità di risolvere il più grande dei misteri, quello della morte. Sono convinto che le sarebbe piaciuto essere qui. Me la immagino con il suo cappello di paglia seduta su un tronco vicino al fiume a leggere il suo amato Shakespeare. A proposito, congratulazioni. Poco prima di partire ho sentito che il comitato ti ha eletto per acclamazione, cosa che non mi ha sorpreso dopo il voto del dipartimento. Non posso dirti niente ma, resti fra noi, è stato unanime. Non sai quanto mi faccia piacere. Sei il nostro biochimico migliore, l’unico in grado di far cantare l’Alleluia a una proteina citoscheletrica microtubulare. Cosa avrei fatto durante la pausa pranzo se il mio compagno di squash non fosse stato rieletto? Salutami Rochelle e di’ ad Alex che lo zio Jonas gli porterà qualcosa di speciale dalla Bolivia. Che ne dici di un piccolo anaconda? Pare che siano simpaticissimi: basta assicurarsi che abbiano sempre la pancia piena. Non vedo l’ora di andare alla partita dei Sox. Non so ancora come tu sia riuscito a procurarti quei biglietti. Jonas Da: [email protected]

Data: mercoledì 8 febbraio, 8.00 A: [email protected] Oggetto: Re: Sbranali, tigre Caro Paul, grazie dell’e-mail e del saggio consiglio riguardo alle belle assistenti di Tim Fanning. Non posso dire di non essere d’accordo con te e, nelle notti solitarie sotto la mia tenda, ci ho pensato spesso. Ma non è cosa. Per adesso, l’unica donna della mia vita è Rochelle. Diglielo pure. Qui è tutto militarizzato, e mi sembra già di sentire Rochelle che mi rinfaccia “te l’avevo detto”. Immagino che fosse inevitabile, visto che abbiamo preso i soldi dell’USAMRIID. (E tanti: la ricognizione aerea non è roba da poco, si parla di ventimila dollari per riposizionare un satellite e mezz’ora di trasmissione.) Eppure a me sembra un po’ eccessivo. Ieri, mentre ci stavamo preparando alla partenza, è arrivato un elicottero al campo base. Scende una squadra delle forze speciali armata fino ai denti, tute mimetiche, facce dipinte, visori a infrarossi e M19 Combat Magnum. Non mancava niente, una roba da far paura. Al comando c’era uno in giacca e cravatta, un civile. Attraversa il campo e viene da me. Giovane, nemmeno trent’anni, abbronzato come un campione di tennis. Cosa vuole? “È lei quello dei vampiri?” mi domanda. Tu sai che effetto mi fa quella parola. Prova a chiedere una sovvenzione all’Agenzia per la Sicurezza nazionale scrivendo “vampiro” su uno dei moduli. Essendo educato e tenendo alla mia pelle, evito di fare polemiche. “Dottor Lear, sono Mark Cole” mi dice stringendomi la mano con un gran sorriso. “Ho fatto un lungo viaggio per venire da lei. La informo che è maggiore.” Io penso: maggiore di cosa? E chi cazzo siete voi? “Questa è una spedizione scientifica civile” gli dico. “Non più” mi risponde. “Chi l’ha deciso?” gli domando. E lui: “Il mio capo”. “E chi è il suo capo?” E lui: “Dottor Lear, il mio capo è il presidente degli Stati Uniti”. Tim c’è rimasto male, perché lui è solo capitano. Non mi intendo di gerarchia militare, per me è tutta la stessa zuppa. Claudia invece stava per far scoppiare un casino. Ha minacciato di preparare i bagagli e di andarsene. “Non l’ho manco votato! Non voglio far parte del suo maledetto esercito!” Nessuno di noi l’ha votato, per la verità, e questa storia è veramente ridicola. Poi abbiamo scoperto che Claudia è quacchera e che suo fratello più giovane è stato obiettore di coscienza durante la guerra contro l’Iran. Alla fine, comunque, siamo riusciti a calmarla e a convincerla a rimanere, giurandole che non avrebbe dovuto fare il saluto militare a nessuno. Resta il fatto che non so perché queste persone siano qui. Capisco l’interesse delle forze armate, visto che dopotutto stiamo spendendo i loro soldi, ma perché affiancare una squadra di teste di cuoio a un gruppo di biochimici? Il giovanotto in giacca e cravatta – che presumo sia dell’Agenzia per la Sicurezza nazionale, anche se per certo non si sa niente – mi ha detto che quest’area è controllata dal cartello dei Montoya e che loro sono qui per proteggerci. “Che figura ci facciamo se un gruppo di scienziati americani viene ucciso dai signori della droga in Bolivia?” mi ha chiesto. “Il ministro degli Esteri non sarebbe molto contento, credo.” Non l’ho contraddetto, ma so benissimo che nella zona in cui siamo diretti non esiste narcotraffico, perché è più a ovest, sull’altopiano. Questa è una zona praticamente disabitata, a parte qualche villaggio di indios che da anni non ha contatti con il mondo esterno. E lui sa che io so. Tutto questo mi fa riflettere, ma penso che per la spedizione non farà una gran differenza. Viaggiamo semplicemente sotto scorta. I soldati stanno per conto loro e quasi non aprono bocca. È un po’ sinistro, ma per lo meno non ci rompono le scatole. Domattina partiamo. L’offerta del piccolo anaconda è sempre valida. Jonas Da: [email protected]

Data: mercoledì 15 febbraio, 23.32 A: [email protected] Oggetto: Vedi allegato Allegato: DSC00392.JPG (596 KB) Caro Paul, sono passati sei giorni. Scusa se non mi sono più fatto sentire. Per favore, di’ a Rochelle di non preoccuparsi. È stata una marcia dura e faticosa, in mezzo a una fitta foresta e sotto una pioggia costante, e montare il ricevitore satellitare sarebbe stato troppo. La sera mangiamo e ci buttiamo in branda stremati. Puzziamo come cammelli. Stasera però sono troppo eccitato per dormire. L’allegato te ne spiegherà il motivo. Ho sempre creduto in ciò che stiamo facendo, ma ovviamente ho avuto i miei momenti di incertezza e ho passato notti insonni a chiedermi se non fosse una pazzia, un’illusione a cui mi sono aggrappato quando Liz si è ammalata. So che anche a te il dubbio è venuto. Peraltro, è giusto riflettere sulle nostre motivazioni. Ora, però, mi sento molto più tranquillo. Secondo il GPS manca una ventina di chilometri al sito. La topografia, coerente con le immagini dal satellite, indica un territorio pianeggiante coperto da fitta giungla, con un fiume che scorre incassato fra dirupi in roccia calcarea pieni di grotte. Persino un geologo dilettante riuscirebbe a decifrarne la stratificazione. Ci sono i soliti sedimenti fluviali e una linea nera, a circa quattro metri dall’orlo. Stando a una leggenda Chuchote, mille anni fa questa zona fu annerita dal fuoco, “un enorme incendio mandato dal dio Auxl, signore del Sole, per distruggere i demoni dell’uomo e salvare il mondo”. Ieri sera ci siamo accampati sulla riva del fiume e sentivamo stormi di pipistrelli che uscivano dalle grotte al tramonto. Al mattino ci siamo diretti a est, lungo la gola. Poco dopo mezzogiorno abbiamo visto la statua. Lì per lì ho pensato di avere le allucinazioni. Se guardi l’immagine, vedi che è un essere umano, ma non del tutto: ha la postura curva da animale, le mani ad artiglio, lunghi denti, il tronco molto muscoloso. E questi dettagli sono ancora visibili dopo chissà quanto tempo. Quanti secoli di vento, pioggia e sole hanno consumato la pietra? Sono rimasto senza fiato. E la somiglianza con le altre immagini è innegabile: le colonne del tempio di Manasara, i bassorilievi della necropoli di Xianyang, le incisioni rupestri nelle grotte della Côtes d’Amor. Stasera sono tornati i pipistrelli, ma ci stiamo abituando: per lo meno mangiano le zanzare. Claudia ha costruito una trappola per catturarne uno. Sembra che amino le pesche sciroppate e lei le ha usate come esca. Forse Alex preferirebbe un cucciolo di pipistrello? J Da: [email protected] Data: sabato 18 febbraio, 18.51 A: [email protected] Oggetto: Altri file JPG Allegato: DSC00481.JPG (596 KB), DSC00486.JPG (582 KB), DSC00491.JPG (697 KB) Da’ un’occhiata a queste immagini. Finora abbiamo contato nove figure. Cole è convinto che qualcuno ci stia seguendo, ma non vuole dirmi chi è. Sostiene che è solo una sensazione. Passa la notte al ricevitore satellitare, però non vuole parlare di quello che sta succedendo. Per lo meno ha smesso di chiamarmi “maggiore”. È il più giovane, anche se non è giovanissimo. Finalmente il tempo è bello. Siamo vicini, meno di dieci chilometri, e procediamo secondo la tabella di marcia.

Da: [email protected] Data: domenica 19 febbraio, 21.51 A: [email protected] Oggetto: Da: [email protected] Data: martedì 21 febbraio, 1.16 A: [email protected] Oggetto: Caro Paul, ti scrivo nel caso in cui non riesca a fare ritorno. Non voglio metterti in allarme, però devo essere realistico. Siamo a meno di cinque chilometri dal luogo della sepoltura, ma dubito che potremo procedere all’estrazione come pianificato. Troppi di noi sono morti o si sono ammalati. Due notti fa siamo stati attaccati, non dai narcotrafficanti, ma dai pipistrelli. Sono arrivati dopo il tramonto, quando eravamo fuori dalle tende, sparsi per il campo, impegnati nelle nostre faccende. Era come se ci avessero seguito e stessero aspettando il momento buono per attaccare. Io sono stato fortunato: ero risalito lungo il fiume per alcune centinaia di metri, lontano dagli alberi, alla ricerca di un segnale migliore per il GPS. Ho sentito le grida e poi gli spari, ma quando sono tornato lo stormo si era già spostato più a valle. Quattro persone sono morte nella notte, tra le quali Claudia. I pipistrelli l’hanno praticamente travolta. Lei ha cercato di scappare verso il fiume, sperando di scrollarseli di dosso, ma non ce l’ha fatta. Quando l’abbiamo raggiunta, aveva già perso troppo sangue. Non c’è stato niente da fare. Nella confusione, sei persone sono state morsicate o graffiate e ora stanno male. Sembra una versione fulminante della febbre emorragica boliviana: sanguinamento dalla bocca e dal naso, emorragie sottocutanee e oculari, febbre altissima, liquido nei polmoni, coma. Siamo in contatto con il Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie, ma senza un’analisi dei tessuti si può solo tirare a indovinare. A Tim hanno praticamente fatto a pezzi le mani mentre cercava di liberare Claudia. È quello che sta peggio. Temo che non passerà la notte. Ieri sera sono tornati. I soldati avevano costruito un perimetro difensivo, ma quelle bestiacce erano troppe, centinaia di migliaia, uno stormo enorme che ha oscurato le stelle. Tre soldati sono stati uccisi, anche Cole è morto. Era davanti a me: ho visto i pipistrelli che lo sollevavano per aria e poi gli si avventavano contro facendolo a pezzi. Non ti dico come lo hanno ridotto. Stasera sembra tutto più tranquillo e non ci sono pipistrelli. Abbiamo acceso una serie di fuochi intorno al campo per tenerli lontani. Persino i soldati sono sotto shock. Noi pochi rimasti stiamo decidendo il da farsi. Gran parte dell’equipaggiamento è perduta. Non è chiaro come sia successo, ma durante l’attacco di ieri sera una granata è caduta nel fuoco: un soldato è rimasto ucciso, il generatore è partito e la tenda con le provviste è andata distrutta. Abbiamo ancora il ricevitore satellitare e le batterie abbastanza cariche per chiamare i soccorsi. Probabilmente la cosa migliore sarebbe tornare indietro, ma quando ci penso mi chiedo perché dovrei ritirarmi proprio adesso e non mi viene in mente un solo motivo per cui dovrei tornare a casa. Se Liz fosse ancora viva, sarebbe diverso. Penso che durante quest’anno una parte di me abbia finto che fosse andata via solo temporaneamente e che un giorno me la sarei ritrovata sulla porta, con il suo solito sorriso e la testa piegata di lato per scostarsi i capelli dal viso. La mia Liz, finalmente a casa, pronta a farsi una tazza di Earl Grey e una passeggiata sotto la neve lungo il fiume Charles. È strano, ma gli avvenimenti degli ultimi due giorni mi hanno chiarito le idee riguardo a quello che stiamo facendo, alla posta in gioco. A me non dispiace essere qui, non ho paura. Se

necessario, sarei pronto ad andare avanti da solo. Qualsiasi cosa accada, qualsiasi cosa io decida, voglio che tu sappia che per me sei un grande amico. Anzi, un fratello. Che strano scrivere questa frase seduto sulla riva di un fiume nella giungla della Bolivia, a quasi settemila chilometri dalle cose e dalle persone che amo. Ho la sensazione di essere entrato in una nuova era. La vita a volte ci porta in luoghi strani, verso oscuri passaggi. Da: [email protected] Data: martedì 21 febbraio, 5.31 A: [email protected] Oggetto: Re: Non fare lo stupido e vattene via di lì al più presto Caro Paul, abbiamo chiamato i soccorsi. Ci verranno a prendere tra dieci ore. A noi pare un tempo infinito. Non so come faremo a sopravvivere un’altra notte qui. Noi che stiamo bene abbiamo deciso di usare il tempo che ci resta per avvicinarci al sito. Stavamo già per tirare a sorte, ma poi ci siamo resi conto che ci volevamo andare tutti. Partiremo tra un’ora, alle prime luci dell’alba. Forse riusciremo a trarre ancora qualcosa di buono da questo disastro. Una notizia positiva è che Tim sta un po’ meglio. La febbre è scesa e, anche se è ancora catatonico, l’emorragia si è fermata e il colorito è migliorato. Gli altri, invece, sono sempre in condizioni critiche. So che il tuo dio è la scienza, Paul, ma voglio chiederti di pregare per noi, per favore. Per tutti noi. Da: [email protected] Data: martedì 21 febbraio, 23.16 A: [email protected] Oggetto: Ora so perché siamo scortati dai militari.

3 Circondata da oltre milleseicento ettari di pinete e praterie, nella parte orientale del Texas, la Polunsky Unit del dipartimento di Giustizia del Texas, detta anche “Terrell”, assomigliava a una grande scuola pubblica, ma era il penitenziario in cui finivano i condannati a morte dello Stato. Quel mattino di marzo Anthony Lloyd Carter, detenuto numero 999642, condannato all’iniezione letale per l’omicidio di Rachel Wood, una donna di Houston madre di due figli che gli faceva falciare il prato di casa per quaranta dollari e un bicchiere di tè freddo alla settimana, era rinchiuso nel braccio della morte della Terrell Unit da milletrecentotrentadue giorni, e cioè da meno di molti altri condannati e da più di alcuni. Ma di questo a Carter non fregava un accidente: non è che alla fine ti davano un premio se stavi lì più a lungo. Mangiava da solo, faceva ginnastica da solo, si lavava da solo, e una settimana era come un giorno, o un mese, per lui. L’unico diversivo che poteva capitargli era che il direttore e il cappellano si presentassero nella sua cella e lo accompagnassero nella saletta dove gli avrebbero fatto l’iniezione. Ormai non mancava molto. Era autorizzato a leggere, ma per lui era difficile, lo era sempre stato, e da un po’ di tempo aveva smesso di provarci. La sua cella, un parallelepipedo di cemento di due metri per tre, aveva una finestrina e una porta di acciaio con una fessura grande abbastanza da passarci sotto le mani. Lui trascorreva le sue giornate in branda, la testa sgombra come un secchio vuoto. La maggior parte del tempo non avrebbe saputo dire nemmeno se fosse sveglio o dormisse. La giornata cominciò esattamente come le altre, alle tre del mattino, l’ora in cui venivano accese le luci e distribuite le colazioni. In genere nel vassoio che le guardie facevano passare dall’apposita fessura trovava una ciotola di cereali, oppure uova strapazzate o pancake. Le colazioni migliori erano quelle a base di pancake e burro di arachidi, e quel giorno arrivò proprio questo. Le posate erano di plastica e si spezzavano con grande facilità, perciò Carter si sedette sulla branda e mangiò i pancake con le mani, ripiegandoli come se fossero tacos. Gli altri detenuti dell’ala H si lamentavano del cibo, dicevano che faceva schifo, ma a Carter non pareva troppo cattivo, nel complesso. Aveva mangiato peggio di così in vita sua e in certi periodi aveva addirittura patito la fame, per cui era contento quando si vedeva servire pancake con il burro di arachidi la mattina; anche se ci voleva tutta a chiamarla mattina, visto che era ancora buio. C’erano i giorni di visita, naturalmente, ma in tutto il tempo in cui era stato alla Terrell nessuno era mai andato a trovarlo, a parte il marito della signora Wood, il quale una volta si era presentato per dirgli che aveva ritrovato la fede in Gesù Cristo nostro Signore. Aveva pregato tanto, dopo che Carter gli aveva ammazzato la moglie e aveva lasciato orfane le sue figlie, e alla fine se n’era fatto una ragione e aveva deciso di perdonarlo. Gli aveva detto tutto questo dall’altra parte del vetro, al telefono, piangendo. Carter era cristiano, o comunque per certi periodi lo era stato, e lo capiva. Ma dal modo in cui parlava gli era sembrato che il signor Wood avesse deciso di perdonarlo solo per stare meglio. E in ogni caso non aveva accennato alla possibilità di fermare il corso della giustizia, di chiedere la grazia. Non sapendo cosa replicare, Carter gli aveva detto: “Gliene sono grato. Che il Signore la benedica e scusi tanto. Se mai mi capitasse di incontrare la sua signora in paradiso, non mancherò di riferirglielo”. Al che l’uomo si era alzato in fretta e furia e lo aveva mollato lì, con il telefono ancora in mano. Era stata l’ultima volta che Carter aveva avuto visite alla Terrell e da allora erano passati come minimo due anni. Il fatto era che la signora Wood era sempre stata tanto buona con lui: ogni volta gli dava cinque o dieci dollari in più e quando faceva caldo gli offriva un tè freddo, che gli portava su un vassoio

come al ristorante. Carter non sapeva come potesse essere successo. Gli dispiaceva un sacco e non riusciva proprio a capire come fossero andate le cose, per quanto ci pensasse e ci ripensasse. Non aveva mai detto di non essere stato lui ad ammazzarla, ma non gli sembrava giusto dover morire per qualcosa che ancora non aveva compreso. Gli sarebbe piaciuto poter fare un po’ di chiarezza prima dell’iniezione letale. Ci rifletteva, cercava di ricostruire i fatti, però dopo quattro anni non l’aveva ancora spuntata. Forse avrebbe dovuto farsene una ragione come il signor Wood, ma fino a quel momento non si era rassegnato. Quanto più passava il tempo, tanto meno ci capiva e, con i giorni, le settimane e i mesi che gli si confondevano nella testa, non era più nemmeno sicuro di quello che ricordava. Alle sei del mattino, al cambio del turno, le guardie svegliarono di nuovo tutti quanti per fare l’appello e poi passarono per le celle a ritirare mutande e calzini sporchi e a distribuire biancheria pulita. Quello voleva dire che era venerdì. Siccome Carter aveva il permesso di fare la doccia soltanto una volta alla settimana e vedeva il barbiere più o meno una volta ogni due mesi, era contento di potersi cambiare la biancheria. D’estate era ancora peggio: avevi sempre la pelle appiccicosa e sudavi come un maiale anche se stavi fermo; ma dalla lettera che il suo avvocato gli aveva spedito sei mesi prima Carter aveva capito che difficilmente avrebbe passato un’altra estate nel caldo afoso del Texas. Il 2 giugno sarebbe finito tutto. Bussarono alla porta interrompendo le sue riflessioni. «Carter. Anthony Carter.» Era la voce del Pizzico, il capoturno. «Chi altro vuoi che ci sia qui dentro, Pizzico?» disse Anthony dalla branda. «Ti devo ammanettare.» «Non è l’ora d’aria e neanche il giorno della doccia.» «Senti, non ho mica tutta la mattina da perdere con te!» Carter si alzò dalla branda su cui era coricato a guardare il soffitto pensando alla signora che gli portava il tè freddo sul vassoio. Indolenzito e dolorante, faticò a mettersi in ginocchio con la schiena rivolta verso la porta. L’aveva già fatto migliaia di volte, ma continuava a dargli fastidio. Non era facile mantenere l’equilibrio. Quando eri in ginocchio, dovevi chiudere le scapole, girare le braccia e infilarle nella fessura da cui passavano i vassoi. Sentì il freddo del metallo e poi Pizzico che gli metteva le manette. Lo chiamavano “Pizzico” perché le stringeva sempre troppo. «Adesso spostati, Carter.» Carter spinse avanti un piede e, quando spostò il baricentro, gli scricchiolò un ginocchio. Si alzò piano piano togliendo le mani dalla fessura. Sentì che Pizzico faceva tintinnare le chiavi e dopo un momento vide che la porta si apriva. Pizzico era con il secondino soprannominato Totò Tritolo per via dei capelli, uguali identici a quelli del personaggio del fumetto Denny, e anche perché era scatenato con il manganello. Riusciva sempre a colpirti dove faceva più male. «C’è uno che vuole vederti, Carter» gli annunciò Pizzico. «Non è il tuo avvocato e nemmeno tua madre.» Non sorrise, ma Totò Tritolo aveva l’aria divertita. Fece ruotare il manganello con l’abilità di una majorette. «Mia madre se l’è presa il Signore quando avevo dieci anni» replicò Carter. «Te l’avrò già detto cento volte, Pizzico. Chi è che vuole vedermi?»

«Non lo so. Il direttore mi ha detto di portarti nelle gabbie.» Carter immaginò il peggio. Era passato tanto tempo dalla visita del marito della signora Wood. Forse era venuto a dirgli addio, o ad avvertirlo che aveva cambiato idea e alla fine aveva deciso di non perdonarlo e anzi di mandarlo all’inferno. Comunque fosse, Carter non aveva niente di nuovo da dirgli. Aveva già chiesto scusa un sacco di volte, adesso basta. «Andiamo, su!» fece Pizzico. Lo scortarono lungo il corridoio. Pizzico lo teneva per il gomito, come si fa con i bambini in mezzo alla folla, o con le ragazze quando le porti a ballare. I secondini lo facevano sempre, anche per accompagnarti alle docce. Un po’ ti ci abituavi, un po’ continuava a irritarti che ti mettessero le mani addosso in quel modo. Totò Tritolo aprì la porta che separava il braccio della morte dal resto dell’isolamento, la cosiddetta “ala H”, poi lo condusse nell’ala detentiva, dove c’era il corridoio che portava alle gabbie. Erano quasi due anni che Carter non usciva dall’ala H, dove “H” stava per: “Ho poco da vivere”, “Hui, mamma, l’ho preso in quel posto”, o anche “hellhole”, “inferno”. Camminava guardando per terra, ma una sbirciatina in giro la diede, se non altro per vedere qualcosa di nuovo, anche se sempre la Terrell era, con le sue porte pesanti e i corridoi che puzzavano di sudore e di sporcizia. Nella zona riservata alle visite i secondini fecero un cenno alla guardia e lo accompagnarono in una gabbia vuota. La temperatura era molto più alta che in cella e c’era un forte odore di candeggina, che a Carter faceva bruciare gli occhi. Mentre Totò Tritolo gli teneva il manganello sotto il mento, Pizzico gli sganciò le manette e gliele riallacciò davanti. Poi gli mise le catene anche alle caviglie. Dappertutto c’erano cartelli che dicevano cosa si doveva e non si doveva fare, ma Carter non si prese neanche la briga di leggerli. Lo fecero sedere sulla sedia e gli misero in mano il telefono. Riusciva a tenerlo sull’orecchio solo avvicinando al petto le ginocchia, che scricchiolavano terribilmente, e tirando al massimo la catena. «L’altra volta i piedi non me li avevate legati» disse. Pizzico fece una risata cattiva. «Scusa se non ti abbiamo chiesto il permesso, Carter. Fottiti! Hai dieci minuti.» Se ne andarono e lui rimase lì ad aspettare che la porta dall’altra parte si aprisse per sapere chi diavolo era andato a trovarlo dopo tanto tempo. L’agente speciale Brad Wolgast detestava il Texas. Non c’era una sola cosa che gli piacesse di quello Stato. Il clima era schifoso, o troppo caldo o troppo freddo, e c’era un’umidità tale che pareva di avere un asciugamano bagnato sulla testa. Odiava il panorama, a cominciare dagli alberi, rinsecchiti, patetici, con i rami nodosi come quelli delle figure sui libri del Dr. Seuss, e le distese piatte e desolate. Odiava i cartelli stradali, le superstrade, i quartieri tutti uguali e la bandiera, onnipresente, grande come un tendone da circo. Odiava i pick-up enormi su cui giravano tutti quanti, nonostante il prezzo della benzina e il fatto che il pianeta stesse soffocando per i fumi tossici. Gli erano antipatici i texani, con l’accento strascicato e i loro cinturoni e stivaletti da cowboy: sembrava che girassero ancora a cavallo con il lazo, anziché in macchina con la ventiquattrore. Ma il motivo principale per cui Brad Wolgast detestava il Texas era che i suoi ci si erano trasferiti quando lui frequentava le medie. Ormai aveva quarantaquattro anni – era ancora in

forma, nonostante i doloretti e i capelli sempre più radi –, era passato un sacco di tempo da allora e non aveva grossi rimpianti, ma la ferita non si era mai chiusa. Lo percepì con estrema chiarezza percorrendo con Doyle la superstrada 59 a nord di Houston, in mezzo alla campagna primaverile. Gli bruciava ancora che dall’Oregon, dove pescava alla foce del fiume Coos e giocava beato con gli amici nei boschi dietro casa per interi pomeriggi, fosse dovuto andare a stare in quell’obbrobrio che era Houston, in una casa di merda senza neanche un po’ d’ombra, costretto a raggiungere la scuola a piedi sotto un sole cocente che pareva prenderlo a calci sulla testa. Gli era sembrata la fine del mondo. Sì, Houston era proprio la fine del mondo. Il primo giorno di scuola il prof lo aveva fatto alzare in piedi a recitare il giuramento di fedeltà alla bandiera, neanche fosse immigrato da un altro paese. Ci aveva passato tre anni terribili. Non era mai stato tanto felice di cambiare casa, nonostante le circostanze non fossero le migliori. Suo padre era ingegnere meccanico. Aveva conosciuto la moglie quando, subito dopo l’università, era andato a insegnare matematica nella riserva di Grande Ronde, dove lei faceva l’infermiera. La madre di Brad era per metà Chinook e il suo cognome era Po-Bear. Si erano trasferiti nel Texas perché lì si guadagnava di più, ma nell’86, con la crisi del petrolio, suo padre era stato licenziato. Avevano provato a vendere la casa, però non c’erano riusciti e alla fine la banca se l’era ripresa. Così erano andati a stare nel Michigan e poi nell’Ohio, quindi si erano trasferiti nello Stato di New York, inseguendo lavoretti sempre meno importanti. Suo padre non si era mai più ripreso dalla botta. Quando era morto di cancro al pancreas due mesi prima che Wolgast si diplomasse – il terzo tumore che gli avevano diagnosticato in tre anni –, era stato facilissimo dare la colpa al Texas. Sua madre era tornata nell’Oregon, ma poi era morta anche lei. Non gli era rimasto più nessuno. Il primo uomo, Babcock, era andato a prenderlo nel Nevada. Gli altri venivano dall’Arizona, dalla Louisiana, dal Kentucky, dal Wyoming, dalla Florida, dall’Indiana e dal Delaware. A Wolgast non piacevano neanche quegli Stati, ma erano sempre meglio del Texas. Wolgast e Doyle erano arrivati a Houston da Denver in aereo la sera prima. Avevano pernottato al Radisson vicino all’aeroporto (Wolgast aveva preso in considerazione di farsi un giro in città e magari andare a cercare la casa dove aveva abitato, ma poi si era domandato perché avrebbe dovuto farlo), la mattina avevano noleggiato una macchina, una Chrysler Victory che odorava di nuovo come un dollaro appena uscito dalla zecca, e si erano messi in viaggio. Era una giornata limpida e il cielo era dell’azzurro dei fiordalisi. Wolgast guidava e Doyle leggeva il dossier bevendo un latte macchiato, con i fascicoli impilati in grembo. «Ti presento Anthony Carter» disse Doyle mostrandogli la foto. «Il soggetto numero dodici.» Wolgast non aveva nessuna voglia di vedere la sua faccia. Era come se l’avesse già vista: tirata, con l’espressione spenta di chi è poco più che analfabeta e con l’animo tormentato. Erano tutti uguali, che fossero bianchi o neri, vecchi o giovani: avevano lo sguardo vacuo, uno sguardo che ti risucchiava dentro pozzi senza fondo. In astratto, si poteva anche provare pietà per loro. Ma solo in astratto. «Non vuoi neanche sapere cos’ha fatto?» Wolgast si strinse nelle spalle. Non ne aveva una gran voglia, ma tanto prima o poi avrebbe dovuto scoprirlo. Doyle bevve un sorso di latte e lesse: «“Anthony Lloyd Carter, afroamericano, un metro e sessantaquattro per cinquantacinque chili”». Doyle alzò la testa. «Adesso capisco il perché del

soprannome. Indovina.» Wolgast era già stufo. «Little Tony?» «Sta’ al passo con i tempi, capo. No, è T-Tone. “T” sta per “Tiny”, penso. Non lo so, però. Perde la madre e, siccome il padre non l’ha neanche riconosciuto, passa da un affido all’altro. Cominciano tutti male. Precedenti di poco conto, anche se numerosi: accattonaggio, disturbo della quiete pubblica, roba così. Passiamo al reato serio. Il nostro Anthony una volta alla settimana va a falciare il prato di una signora di River Oaks, Rachel Wood, moglie di un avvocato di grido e madre di due figlie. La signora frequenta country club, associazioni benefiche, dame della carità eccetera, e Anthony Carter diventa il suo protetto dal giorno in cui lei passa in macchina sotto un viadotto e lo vede sul ciglio della strada con un cartello HO FAME, o qualcosa del genere. Lo porta a casa, gli dà da mangiare, fa un paio di telefonate e gli trova un posto in una specie di ricovero per il quale raccoglie fondi. Poi chiama le sue amiche di River Oaks, da brava scout, e le convince ad affidargli qualche lavoretto. Così il nostro comincia a falciare prati, potare siepi e fare piccole riparazioni. La cosa prosegue per due anni e tutti sono felici e contenti, finché un giorno Anthony va a tagliare l’erba dalla Wood e la figlia più piccola, di cinque anni, è a casa da scuola perché non sta bene. La madre è al telefono o in altre faccende affaccendata, la bambina esce in giardino e vede Anthony. Lo conosce, l’ha già visto un sacco di volte, ma chissà cosa succede quel giorno. Fatto sta che si spaventa. Qualcuno parla di molestie sessuali, però i periti del tribunale hanno espresso dubbi in merito. Comunque la piccola comincia a gridare, la madre arriva di corsa gridando pure lei, si mettono a urlare tutti quanti e scoppia un casino bestiale. Il nostro Anthony, che fino a quel momento era un brav’uomo da aiutare, di colpo diventa l’uomo nero che fa paura ai bambini e tutta la benevolenza da Madre Teresa di Calcutta va a farsi friggere. Vengono alle mani, c’è una colluttazione e la signora cade in piscina, o ce la spinge lui, non si sa. Si butta anche Anthony, forse per salvarla, ma lei gli grida contro e lo scaccia. Così adesso strillano tutti come degli ossessi, ma in acqua.» Doyle guardò Wolgast. «Indovina come va a finire?» «Lui la affoga.» «Bravo. Sotto gli occhi della bambina. Una vicina sente il bordello e chiama la polizia. Quando gli agenti arrivano, trovano lui seduto sul bordo e lei che galleggia senza vita.» Scosse la testa. «Brutto spettacolo.» A volte Wolgast trovava inquietante che Doyle mettesse tanta passione in quei racconti. «Non poteva trattarsi di un incidente?» «La vittima era stata campionessa di nuoto all’università e faceva ancora cinquanta vasche tutte le mattine. Il pubblico ministero puntò molto su questo piccolo particolare. Così come sul fatto che Carter praticamente ammise di averla ammazzata.» «Cosa dichiarò al momento dell’arresto?» Doyle alzò le spalle. «Che voleva solo farla smettere di gridare. E chiese un bicchiere di tè freddo.» Wolgast scosse la testa. Erano sempre storie brutte, ma erano i dettagli quelli che lo turbavano di più. Carter aveva chiesto un bicchiere di tè? Mamma mia... «Quanti anni hai detto che aveva?» Doyle sfogliò il fascicolo. «Non l’ho detto. Adesso ne ha trentadue. All’epoca ventotto. Sta’ a

sentire questa: non ha nessun parente. L’ultima visita che ha ricevuto alla Polunsky Unit è stata del marito della vittima, più di due anni fa. Il suo avvocato si è trasferito quando il ricorso in appello è stato respinto e la procura della contea di Harris gli ha assegnato un difensore d’ufficio che non ha nemmeno letto la pratica. Se ne fregano tutti. Anthony Carter il 2 giugno verrà giustiziato per omicidio aggravato nella più totale indifferenza. Insomma, quell’uomo è già un fantasma.» Il viaggio fino a Livingston richiese novanta minuti, l’ultimo quarto d’ora su una strada sconnessa in mezzo a pinete e praterie punteggiate di lupini azzurri. Era solo mezzogiorno; se tutto fosse andato bene, pensò Wolgast, avrebbero finito per l’ora di cena e avrebbero fatto in tempo a tornare a Houston, restituire la macchina e prendere l’aereo per il Colorado. Era meglio quando le spedizioni erano rapide. Se si prolungavano troppo, se i soggetti temporeggiavano, esitavano, andavano per le lunghe, Wolgast si angosciava, anche se alla fine accettavano sempre tutti. Ogni volta gli tornava in mente The Devil and Daniel Webster, che aveva letto alle superiori: gli sembrava di recitare la parte del demonio. Doyle era diverso. Era più giovane, tanto per cominciare, aveva meno di trent’anni; era un ragazzo di campagna con le guance rubizze, un ragazzo dell’Indiana che giocava a fare Robin con lui che faceva Batman. Lo chiamava “capo” e “boss” ed era intriso di un patriottismo vecchio stampo, talmente puro che una volta Wolgast lo aveva visto commuoversi nel sentire l’inno nazionale prima di una partita dei Rockies alla TV. Wolgast non pensava che esistessero ancora persone come Phil Doyle. Non c’erano dubbi sul fatto che fosse un tipo in gamba, con un futuro davanti. Appena laureato alla Purdue University, si era iscritto a un master in giurisprudenza, ma era entrato nel Bureau subito dopo il massacro del Mall of America, dove avevano perso la vita trecento persone per un attentato terroristico della jihad iraniana. Quell’orrore, ripreso dalle telecamere dell’impianto di sorveglianza del centro commerciale, era stato trasmesso dalla CNN in tutti i suoi più macabri dettagli, spingendo moltissimi giovani a entrare nelle forze dell’ordine. Finito il corso di addestramento a Quantico, Doyle era stato assegnato all’ufficio di Denver, sezione Antiterrorismo. Quando l’esercito era andato a selezionare due uomini, Doyle si era subito offerto volontario. Wolgast non capiva perché: sulla carta il Progetto Noah non sembrava avere un grande futuro. Wolgast aveva accettato l’incarico proprio per quello. Aveva appena divorziato e, siccome il suo matrimonio con Lila non era tanto finito quanto svaporato, la depressione lo aveva colto alla sprovvista. Lo allettava l’idea di viaggiare: sperava di ritrovare un po’ di lucidità. Con il divorzio era entrato in possesso di una modesta somma di denaro, la sua quota della casa di Cherry Creek più una parte della liquidazione di Lila, e aveva addirittura preso in considerazione l’ipotesi di lasciare il Bureau, tornarsene nell’Oregon e mettersi in proprio, magari aprire un negozio di ferramenta o di articoli sportivi, pur non intendendosi né di un settore né dell’altro. La maggior parte dei colleghi che smettevano di lavorare nel Bureau finiva nelle aziende di sicurezza privata, ma a Wolgast piaceva l’idea di gestire un negozietto, semplice e pulito, e vendere guantoni da baseball o martelli, oggetti utili e facilmente identificabili. Il Progetto Noah gli era però sembrato un modo indolore per concludere la sua onorata carriera nel Bureau. Naturalmente il lavoro si era rivelato ben più complicato che riempire moduli e passare carte, e Wolgast si chiedeva se Doyle l’avesse saputo fin dal principio. Arrivati al penitenziario, dovettero mostrare i documenti e consegnare le armi prima di essere accompagnati nell’ufficio del direttore. La Polunsky Unit era lugubre, ma non più di tanti altri penitenziari. Mentre aspettavano, Wolgast controllò sul palmare i voli serali da Houston: ce n’era uno alle 20.30. Se si fossero sbrigati, sarebbero riusciti a prenderlo. Doyle stava zitto e sfogliava “Sports Illustrated”, come se fosse dal dentista. Era l’una appena passata quando la

segretaria li fece entrare. Il direttore del carcere era nero, sulla cinquantina, con i capelli brizzolati e le spalle da pesista strizzate nella giacca. Non si alzò e non strinse loro la mano. Wolgast gli porse i documenti. L’uomo li lesse, poi lo guardò negli occhi. «Agente, questa è la richiesta più strana che io abbia mai visto. A cosa vi può mai servire Anthony Carter?» «Temo di non poterglielo dire. Siamo qui per trasferirlo e basta.» Il direttore mise da una parte i fogli e giunse le mani. «Capisco. E se rifiutassi?» «Le darei un numero di telefono e la farei parlare con una persona che le spiegherebbe che si tratta di una questione di sicurezza nazionale.» «Mi darebbe un numero.» «Sì.» L’uomo fece un sospiro, irritato, si voltò sulla poltroncina girevole e indicò la finestra alle sue spalle. «Sapete cosa c’è là fuori?» «Non la seguo.» Il direttore guardò in faccia Wolgast. Non pareva arrabbiato, ma forse non era abituato a essere contraddetto. «C’è il Texas. Circa settecentomila chilometri quadrati di Texas, per la precisione. Io lavoro per questo Stato, agente, non per quelli di Washington, o di Langley, o di chi mi risponderebbe a quel numero. Anthony Carter è stato affidato a me e io devo far sì che venga giustiziato nell’interesse dei cittadini di questo Stato. E a meno che non mi chiami la governatrice è quello che farò.» “Maledetti siano il Texas e tutti i suoi abitanti” pensò Wolgast. Ci avrebbero messo tutta la giornata. «Sono certo che perverremo a un accordo, direttore» replicò. L’uomo gli restituì i documenti. «Se lo dice lei, agente.» Wolgast e Doyle tornarono all’ingresso, ripresero le armi e salirono in macchina. Wolgast telefonò a Denver e chiese di parlare con il colonnello Sykes sulla linea criptata. Gli spiegò la situazione e lui si irritò, ma promise di intervenire. «Un giorno al massimo» disse. «Restate in zona e aspettate che vi richiami. Mi raccomando, fatelo firmare. Potrebbe esserci un piccolo cambiamento del protocollo» aggiunse poi. «In che senso?» Sykes ebbe un attimo di esitazione. «Vi informerò. Voi pensate a far firmare Carter.» Andarono a Huntsville e presero una stanza in un motel. Che il direttore del carcere facesse ostruzionismo non era una novità: ogni tanto succedeva. Avrebbero perso un po’ di tempo, tutto lì. Nel giro di qualche giorno, una settimana al massimo, Carter sarebbe finito nell’ingranaggio e ogni prova della sua esistenza sarebbe stata cancellata dalla faccia della terra. Persino il direttore del carcere avrebbe giurato e spergiurato di non averlo mai sentito nominare. Qualcuno sarebbe dovuto andare a parlare con il marito della vittima, ovviamente, l’avvocato di River Oaks rimasto solo con due figliole da tirar su, ma questo esulava dalle mansioni di Wolgast. Sarebbe stato emesso un certificato di morte per infarto o qualcosa del

genere, una cremazione veloce e stop: giustizia sarebbe stata fatta, in ogni caso. Siccome alle cinque del pomeriggio non avevano ancora ricevuto nessuna telefonata, si cambiarono e andarono a cercare un ristorante. Scelsero una steak house in una strada piena di negozi, fra un Costco e un Best Buy. Faceva parte di una catena, per fortuna: dovevano passare il più inosservati possibile. Il contrattempo aveva innervosito Wolgast, ma Doyle sembrava imperturbabile. Una bella cenetta e una serata di libertà in una città sconosciuta a spese del governo federale evidentemente gli facevano piacere. Doyle mangiò una costata enorme, spessissima, mentre Wolgast piluccò un piatto di costine di maiale e dopo aver pagato il conto – in contanti, da una mazzetta nuova di zecca – si sedettero al bar. «Secondo te firmerà?» domandò Doyle. Wolgast fece ruotare il ghiaccio nel bicchiere di scotch. «Firmano sempre tutti.» «Non hanno molta scelta.» Doyle guardò il bicchiere. «O l’iniezione letale o la misteriosa porta numero due. Però...» Wolgast sapeva a cosa stava pensando Doyle: dietro la porta non doveva esserci niente di buono, altrimenti non l’avrebbero offerto ai detenuti nel braccio della morte, uomini che non avevano nulla da perdere. «Lo so» disse. Nel bar c’era un televisore sintonizzato su una partita di basket: Rockets contro Golden State. La guardarono in silenzio per un po’. Era appena incominciata e le squadre giocavano piuttosto male, senza combinare granché. «Hai più sentito Lila?» chiese Doyle. «Sì, di recente» rispose Wolgast. «Si sposa» aggiunse poi. Doyle sgranò gli occhi. «Con quello là? Il dottore?» Wolgast annuì. «Hanno fatto presto... Perché non hai detto niente? Gesù, ti avrà mica invitato al matrimonio?» «Non proprio. Mi ha mandato un’e-mail. Pensava che dovessi saperlo.» «E tu cosa le hai risposto?» Wolgast si strinse nelle spalle. «Non le ho risposto.» «Non le hai detto niente?» Non era finita lì, ma Wolgast preferiva non parlarne. “Caro Brad” gli aveva scritto Lila “penso tu debba sapere che io e David aspettiamo un bambino. Ci sposiamo la prossima settimana. Spero potrai essere felice per noi.” Wolgast era rimasto dieci minuti davanti al computer, a leggere e rileggere quelle poche righe. «Non avevo niente da dire. Siamo divorziati, può fare quello che le pare.» Finì lo scotch e prese altre banconote dalla mazzetta per pagare. «Vieni?» Doyle si guardò in giro. Quando si erano seduti, il bar era quasi vuoto, ma nel frattempo erano arrivate parecchie persone, compreso un gruppo di ragazze che avevano avvicinato tre tavoli e ordinato margarita, parlando a voce alta. Poco lontano da lì c’era un’università, la Sam Houston

State, e Wolgast immaginò che dovevano essere compagne di studi o di lavoro. Il mondo poteva anche andare in malora, ma l’happy hour era l’happy hour e le belle ragazze andavano al bar anche a Huntsville, in Texas. Indossavano magliette aderenti e jeans a vita bassa con strappi alla moda sulle ginocchia, si erano acconciate e truccate per la serata e bevevano un cocktail dopo l’altro. Una di loro, un po’ cicciottella, era seduta di spalle e aveva i jeans talmente bassi che Wolgast le vedeva le mutande, con un motivo a cuoricini. Non sapeva se aveva più voglia di guardarle la biancheria o di gettarle addosso una coperta. «Magari io resto ancora un po’» rispose Doyle sollevando il bicchiere a mimare un brindisi. «Finisco di vedere la partita.» Wolgast annuì. Doyle non era sposato e non aveva nemmeno una ragazza fissa. Di regola, avrebbero dovuto evitare il più possibile i contatti con la gente, ma Wolgast pensò che non era affar suo come Doyle decideva di passare la serata. Provò anche un briciolo d’invidia, dopodiché scacciò il pensiero. «Okay. Ricordati solo...» «Sì, certo» lo interruppe Doyle. «Come dice l’orso Smokey: “Portati via tanti bei ricordi, ma non lasciarne nessuno”. Da questo momento, sono un rappresentante di fibre ottiche di Indianapolis.» Le ragazze alle loro spalle scoppiarono in una risata sonora: in quel vociare Wolgast riconobbe la tequila. «Bel posto, Indianapolis» commentò. «Meglio di questo schifo.» «Non direi proprio» replicò Doyle con un sorrisetto malizioso. «Penso che mi troverò bene in questa città.» Wolgast uscì dal locale e s’incamminò. Aveva lasciato il palmare al motel pensando che, se avesse ricevuto la chiamata al ristorante, avrebbe dovuto interrompere la cena. Quando controllò, tuttavia, non c’erano messaggi. Dopo il chiasso del bar, il silenzio della stanza gli parve inquietante e rimpianse di non essersi fermato con Doyle, pur sapendo di non essere di compagnia, in quel periodo. Si tolse le scarpe e si sdraiò vestito sul letto a guardare la fine della partita. Non gliene importava niente, era solo per fare qualcosa. A mezzanotte appena passata, le undici a Denver – un po’ tardi, ma al diavolo –, fece quel che si era ripromesso di non fare e chiamò Lila. Gli rispose una voce maschile. «Ciao, David. Sono Brad.» Per un attimo David stette zitto. «È tardi, Brad. Cosa vuoi a quest’ora?» «C’è Lila?» «È stanca» ribatté David con fermezza. «Ha avuto una giornata faticosa.» “Lo so che è stanca” pensò Brad. “Ho dormito con lei per sei anni.” «Me la passi solo un secondo, per favore?» David sospirò e posò rumorosamente il telefono. Wolgast sentì il fruscio delle lenzuola e subito dopo la voce di lui. «È Brad. Gli puoi dire di chiamare a un’ora più ragionevole la prossima volta?» «Brad?» «Scusa se ho chiamato a quest’ora. Non mi ero reso conto che fosse così tardi.»

«Non ci credo. Cosa c’è?» «Sono nel Texas, in un motel, non ti posso dire esattamente dove.» «Nel Texas?» Pausa. «Tu odi il Texas. Non penso che tu mi abbia chiamato per dirmi che sei nel Texas, o sbaglio?» «Scusami, non ti volevo svegliare. David sembrava irritato.» Lila sospirò. «Non ti preoccupare. Siamo rimasti amici, no? David è grande, capisce.» «Ho ricevuto la tua e-mail.» «Ah.» La sentì respirare. «Immaginavo che mi avessi chiamato per quello. Che prima o poi ti saresti fatto vivo.» «Vi siete già sposati?» «Sì, il weekend scorso, qui a casa. Abbiamo invitato pochissima gente. Amici intimi e i miei genitori. Mi hanno chiesto di te, a proposito. Volevano sapere come stai. Ti hanno sempre voluto bene. Chiamali se ne hai voglia. Manchi soprattutto a mio padre, penso.» “Soprattutto? E a te non manco, Lila?” Lasciò perdere. Avrebbe voluto che gli dicesse ancora qualcosa, ma lei si zittì e nel silenzio a lui venne in mente una cosa, un ricordo di Lila a letto, con una vecchia maglietta e i calzini, perché di notte aveva sempre freddo ai piedi, anche d’estate, e un cuscino fra le ginocchia, per tenere dritta la spina dorsale. Per la bambina, la loro bambina. Eva. «Volevo solo dirti che lo sono.» La voce di Lila era quasi un sussurro. «Sei cosa, Brad?» «Felice per voi. Me l’hai chiesto. Pensavo anche che dovresti smettere di lavorare stavolta, sai? Prendertela comoda, stare un po’ tranquilla. Mi sono sempre domandato se...» «Sì, ho capito» lo interruppe Lila. «Sta’ tranquillo, mi sento bene, è tutto normale.» Normale? Era tutto fuorché normale. «È solo che...» «Per favore.» Lila sospirò. «Mi fai intristire. Domani mattina devo alzarmi presto.» «Lila...» «Adesso ti devo salutare.» Si era accorto che Lila piangeva. Non aveva emesso il minimo suono, ma a lui non era sfuggito. Stavano pensando tutti e due a Eva e pensare a Eva le faceva venire da piangere. Era il motivo per cui si erano lasciati e non potevano più stare insieme. Quante ore della sua vita l’aveva tenuta fra le braccia, mentre piangeva, senza sapere cosa dirle? Era questo il problema. Solo più tardi – troppo tardi – aveva capito che anche tacere andava bene. «Accidenti, Brad. Non volevo. Non adesso.» «Mi spiace, Lila. È solo che... pensavo a lei.» «Lo so, maledizione. Maledizione! Per favore, lascia perdere.»

La sentì singhiozzare. Poi udì la voce di David. Le aveva preso di mano il telefono. «Non chiamare più, Brad. Davvero. Cerca di capire.» «Vaffanculo» disse Wolgast. «Va bene, ma tu non telefonare. Lasciaci in pace.» E riattaccò. Wolgast guardò un attimo il palmare e poi lo scagliò contro il muro. Disegnò un arco perfetto, ruotando su se stesso come un frisbee, dopodiché si schiantò sopra il televisore con un rumore di plastica che si spezza. Wolgast se ne pentì immediatamente. Quando però si chinò a raccoglierlo, vide che non era rotto: si era solo aperto il coperchio della batteria. Wolgast era stato al compound, la zona militare, soltanto una volta, l’estate prima, convocato dal colonnello Sykes. Non si era trattato di un colloquio vero e proprio: gli era stato fatto capire che l’incarico nell’ambito del Noah sarebbe stato suo, bastava che lui dicesse di sì. Ce lo avevano accompagnato due militari a bordo di un furgone con i finestrini scuri, ma Wolgast si era accorto lo stesso che erano a ovest di Denver, fra le montagne. Il viaggio era durato sei ore e poco prima di arrivare si era addormentato. Era sceso dal furgone nel pomeriggio estivo, si era sgranchito le gambe e si era guardato intorno. A occhio avrebbe detto che si trovavano dalle parti di Ouray, oppure un po’ più a nord. L’aria era limpida, pulita, e lui aveva il mal di testa tipico dell’altitudine. Nel parcheggio c’era un civile ad aspettarlo, un uomo tarchiato in jeans, camicia beige con le maniche rimboccate e un paio di occhialini da aviatore sul grosso naso. Era Richards. “Spero che il viaggio non sia stato troppo faticoso” gli aveva detto stringendogli la mano. Da vicino, Wolgast aveva notato la pelle butterata dall’acne. “Siamo piuttosto in alto. Se non c’è abituato, faccia le cose con calma.” Lo aveva scortato oltre il parcheggio, verso un edificio detto lo “Chalet”, che era effettivamente uno chalet, grande, a tre piani, con le travi a vista. Un tempo in montagna c’erano un sacco di case così, aveva pensato Wolgast, ricordi di un’epoca in cui resort e condomini non erano ancora stati inventati. Davanti allo Chalet c’era un prato e dietro, a circa cento metri di distanza, fabbricati di cemento, tende militari e una palazzina bassa, lunga e stretta, che assomigliava a un motel. Per la strada c’erano mezzi militari: Humvee, jeep e camioncini. In mezzo al prato un gruppetto di uomini con le spalle possenti e i capelli cortissimi prendeva il sole a torso nudo su alcune sedie a sdraio. Entrando nello Chalet, Wolgast aveva avuto l’inquietante sensazione di essere finito su un set cinematografico: sembrava che la costruzione fosse stata sventrata completamente per ospitare uffici modernissimi, con moquette grigia e controsoffitti insonorizzati dotati di faretti a scomparsa. Gli pareva di essere dal dentista, o nell’ufficio del commercialista dove andava una volta all’anno per la dichiarazione dei redditi. Si erano fermati alla reception, dove Richards gli aveva chiesto di consegnare arma e palmare; li aveva dati alla guardia, un ragazzo giovane in tuta mimetica, che vi aveva apposto un cartellino. C’era l’ascensore, ma Richards era passato oltre per imboccare un corridoio stretto che conduceva a una pesante porta metallica. Dietro, c’erano le scale. Erano saliti al primo piano e, dopo aver percorso un altro anonimo corridoio, erano giunti all’ufficio di Sykes. Al loro ingresso il colonnello era scattato in piedi. Era alto, ben messo, in divisa, con mostrine e medaglie sul petto. Wolgast non aveva mai capito il loro significato. L’ufficio era lindo e ordinatissimo. Tutto pareva essere stato sistemato nella posizione migliore, per garantire la

massima efficienza, compreso il portafotografie sulla scrivania. Al centro del piano c’era una spessa busta marrone. Wolgast aveva intuito che doveva contenere informazioni su di lui. Si erano stretti la mano e Sykes gli aveva offerto un caffè. Wolgast aveva accettato. Non aveva sonno, ma la caffeina gli avrebbe fatto passare il mal di testa. “Mi spiace per la messinscena del furgone” aveva detto Sykes indicandogli una sedia. “Ma è la prassi.” Era arrivato un militare con un vassoio su cui c’erano un thermos di plastica e due tazze di porcellana. Richards era rimasto in piedi dietro la scrivania di Sykes, con la schiena verso la grande finestra che dava sui boschi tutto intorno alla zona militare. Sykes aveva spiegato a Wolgast che cosa voleva da lui. La missione era semplice, e ormai Wolgast sapeva come funzionavano le cose. L’esercito aveva bisogno di condannati a morte, da dieci a venti, per la terza fase di sperimentazione di un farmaco. Nome in codice: Progetto Noah. Ai detenuti che avessero acconsentito a partecipare, sarebbe stata commutata la pena in ergastolo senza possibilità di condizionale. Il compito di Wolgast sarebbe stato convincerli a firmare, nient’altro. Era tutto perfettamente legale, ma siccome il progetto concerneva la sicurezza nazionale, i firmatari sarebbero stati dichiarati ufficialmente morti. Da quel momento in poi, sarebbero stati affidati al sistema penale federale e avrebbero vissuto in un’altra struttura detentiva con una nuova identità. Fra i criteri in base ai quali sarebbero stati scelti c’era che fossero di età compresa fra i venti e i trentacinque anni, senza parenti di primo grado ancora in vita. Wolgast avrebbe risposto direttamente a Sykes, senza altri contatti, pur rimanendo tecnicamente ancora alle dipendenze del Bureau. “Li devo scegliere io?” aveva chiesto. Sykes aveva scosso la testa. “No, a quello pensiamo noi. Io le darò i nominativi e lei dovrà soltanto andare da loro e convincerli a firmare. A quel punto interverrà l’esercito, che li trasferirà nel carcere federale più vicino e poi qui.” Wolgast aveva riflettuto un momento. “Volevo solo chiederle una cosa, colonnello...” “Vuole sapere che cosa ne facciamo?” Sykes aveva fatto un sorriso quasi umano. Wolgast aveva annuito. “Capisco che non potrò entrare nei particolari, ma gli andrò a chiedere di consegnarsi per tutta la vita. Dovrò pur dirgli qualcosa.” Sykes e Richards si erano scambiati un’occhiata. Richards aveva fatto spallucce. “Io ora vado” aveva detto salutando Wolgast con un cenno del capo. “Agente.” Dopo che Richards aveva lasciato l’ufficio, Sykes si era appoggiato allo schienale. “Non sono uno scienziato, agente, e quindi si dovrà accontentare della mia versione da non addetto ai lavori. I precedenti sono questi, per quello che le posso rivelare. Circa dieci anni fa, al CDC, il Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie, giunse una segnalazione di un medico di La Paz che aveva in cura quattro americani, i quali si erano rivolti a lui con sintomatologie che lo avevano fatto pensare a un’infezione da hantavirus: febbre alta, vomito, dolori muscolari, mal di testa, ipossia. Tutti e quattro facevano parte di un gruppo di quattordici escursionisti impegnati in un trekking nella giungla. A un certo punto i quattro si erano persi e avevano vagato per settimane senza la guida. Per fortuna erano incappati in una specie di missione di frati francescani, che li avevano aiutati a tornare a La Paz. Ora, l’hantavirus non è diffuso come il raffreddore, ma non è nemmeno rarissimo, quindi a nessuno sarebbe mai venuto in mente di segnalare il loro caso al

CDC se non fosse per un piccolo particolare: erano tutti malati di cancro in fase terminale. Il tour a cui avevano partecipato era organizzato da un’associazione che si chiama L’Ultimo Desiderio. La conosce?” Wolgast aveva annuito. “Pensavo che portassero i malati a fare parapendio e cose del genere, però. Non tour nella giungla.” “Anch’io, devo dire. Invece no, a quanto pare. Dei quattro, uno aveva un tumore al cervello inoperabile, due erano affetti da leucemia linfoblastica acuta e una aveva un cancro alle ovaie. Guarirono tutti e quattro. Non solo dall’infezione da hantavirus, ma anche dal cancro. Remissione completa.” Wolgast era sbigottito. “Non capisco.” Sykes aveva bevuto un sorso di caffè. “Neanche i medici del CDC ci capiscono molto. Ma il fatto è che qualcosa è successo. Dev’esserci stata un’interazione fra il sistema immunitario dei malati e qualcosa, presumibilmente di natura virale, con cui sono venuti a contatto nella giungla. Potrebbe essere qualcosa che hanno mangiato o bevuto, non si sa. Purtroppo questi signori non sapevano ricostruire con esattezza neppure dove erano stati.” Sykes si era proteso verso Wolgast. “Ha mai sentito parlare della ghiandola timica?” Wolgast aveva scosso la testa. Sykes si era posato un dito appena sopra lo sterno. “È qui, fra lo sterno e la trachea. È piccolina, delle dimensioni di una ghianda. In genere si atrofizza prima della pubertà e la maggior parte di noi non si accorge nemmeno di averla, a meno che non si ammali. Nessuno sa con esattezza a cosa serva, o per lo meno nessuno lo sapeva prima di questa faccenda. Perché in tutti e quattro i soggetti il timo si era rimesso a funzionare ed era addirittura cresciuto, diventando tre volte più grosso. Lì per lì pensarono a una neoplasia, ma non era così. Il sistema immunitario era come impazzito e aveva scatenato una rigenerazione cellulare velocissima. E non solo. Si ricordi che questi signori erano tutti ammalati di cancro e tutti sopra i cinquant’anni. Be’, era come se fossero tornati adolescenti: olfatto, udito, vista, tonicità della pelle, capacità polmonare, forza fisica, resistenza, persino la funzione sessuale. A uno degli uomini erano persino ricresciuti i capelli.” “Tutto questo per effetto di un virus?” Sykes aveva annuito. “Come le dicevo, io non sono un medico, ma qua ci sono scienziati, gente con specializzazioni in materie delle quali fino a poco tempo fa ignoravo persino l’esistenza, che ritengono sia andata proprio così. Mi parlano nel tono che si usa con i bambini, sa? E fanno bene, perché capisco poco o nulla.” “Che fine hanno fatto i quattro malati di cancro?” Sykes si era appoggiato allo schienale, rabbuiato. “Non bella, purtroppo: sono morti tutti. Quello che è sopravvissuto più a lungo ha resistito ottantasei giorni. Aneurisma cerebrale, attacco cardiaco, ictus: è come se fossero andati in corto circuito.” “E gli altri partecipanti al tour?” “Nessuno sa dove siano finiti. Sono scomparsi senza lasciare tracce, compresa la guida. Pare che fosse un personaggio un po’ losco e che quei viaggi fossero una copertura per traffici di droga...” Si era stretto nelle spalle. “Forse le ho già detto fin troppo. Ma volevo che si facesse

un quadro della situazione. Qui non si tratta di trovare la cura a una malattia in particolare, agente, ma la panacea di tutti i mali. Quanto si allungherebbe la vita umana se sparissero cancro, malattie cardiocircolatorie, diabete, Alzheimer? A questo punto della ricerca abbiamo assolutamente bisogno di cavie umane. Non è una bella definizione, me ne rendo conto, ma in fin dei conti di questo si tratta. Per farla breve, il suo compito è convincere questi uomini a partecipare allo studio.” “Perché non incaricate gli agenti di custodia? Sembrerebbe il loro campo, più che il mio.” Sykes aveva scosso la testa. “Guardie carcerarie, bisogna chiamarli. Ci abbiamo pensato, naturalmente, ma quelli sono buoni solo a portare mobili su e giù dalle scale. Questo compito richiede capacità diverse.” Aveva aperto il dossier sulla scrivania e si era messo a leggere. “‘Bradford Joseph Wolgast, nato ad Ashland, Oregon, il 29 settembre 1974. Laureato con lode in giurisprudenza alla State University of New York di Buffalo nel 1996; contattato dal Bureau, rifiuta il posto offertogli e preferisce un dottorato di ricerca in scienze politiche alla Stony Brook, ma dopo due anni lascia l’università ed entra nel Bureau. Frequenta il corso di formazione a Quantico, poi viene mandato a...’” Sykes aveva alzato gli occhi dal fascicolo per guardare Wolgast. “Dayton?” Wolgast si era stretto nelle spalle. “Niente di eccezionale.” “Be’, un po’ di gavetta tocca a tutti. ‘Svolge incarichi di modesta importanza ma con buoni risultati e dopo l’11 settembre chiede di passare all’Antiterrorismo. Torna a Quantico per diciotto mesi e nel settembre del 2004 viene assegnato alla sede di Denver, dove in collaborazione con il ministero del Tesoro indaga sui movimenti finanziari attraverso le banche americane eseguiti da cittadini russi che in verità sono esponenti della mafia, anche se non bisogna dirlo. Vita privata: nessuna affiliazione politica o di altro genere, non è neppure abbonato a un quotidiano; genitori deceduti; dopo alcuni rapporti sentimentali di breve durata, sposa Lila Kyle, chirurgo ortopedico, da cui divorzia quattro anni dopo.’” Sykes aveva chiuso il dossier e fissava Wolgast. “Voglio essere franco, agente: a noi serve una persona con buone attitudini alla negoziazione, capace di relazionarsi non soltanto con i detenuti, ma anche con le autorità carcerarie, e che sappia muoversi con abilità e destrezza, senza lasciare troppe tracce. Come ripeto, agiamo ai confini della legalità, ma questa potrebbe essere la ricerca medica più importante di tutta la storia dell’umanità e per questo motivo rischiamo di venire fraintesi. Glielo dico perché penso sia importante che lei capisca quanto è alta la posta in gioco.” Wolgast aveva calcolato che Sykes gli stava dicendo al massimo il dieci per cento dell’intera storia. Era molto convincente, certo, ma chissà cosa nascondeva il restante novanta per cento. “Quali rischi comporta?” Sykes aveva fatto spallucce. “C’è rischio e rischio. Non le nascondo che anche quest’operazione ne comporta, ma le assicuro che faremo di tutto per minimizzarli. Un risultato negativo non è nell’interesse di nessuno. Le ricordo, inoltre, che si tratta di condannati a morte, individui non certo integerrimi e con poche chance. Noi diamo loro l’opportunità di vivere e al tempo stesso di contribuire in maniera significativa al progresso della scienza. Non è poco, tutto considerato. Insomma, abbiamo tutti da guadagnarci.” Wolgast aveva riflettuto un momento. La faccenda era complicata. “Non capisco perché siano coinvolte le forze armate.” Sykes pareva risentito per quell’osservazione. “Sul serio? Ci pensi bene, agente. Supponiamo che a Khorramabad o a Groznyj un soldato rimanga ferito da una bomba artigianale, un tubo di

piombo pieno di esplosivo e di viti e bulloni, o da qualche arma di fabbricazione russa. Io ho visto con i miei occhi come ti riducono. Bisogna trasferirlo e magari muore dissanguato durante il tragitto; o, se è fortunato, arriva in un ospedale da campo dove un chirurgo, due paramedici e tre infermiere lo rappezzano alla bell’e meglio e lo portano in Germania o in Arabia Saudita.Un tragico incidente che causa grandissime sofferenze a lui e una grave perdita all’esercito che lo ha addestrato. Non solo: quanto torna a casa, magari senza una gamba, quel poveraccio si deprime, diventa rabbioso e distruttivo, va al bar e racconta ai suoi amici che ha perso una gamba e ora gli tocca pisciare in un sacchetto per il resto della sua vita e non sa neanche perché.” Sykes si era appoggiato allo schienale lasciando che Wolgast ci pensasse su. “Siamo in guerra da quindici anni, agente, e ci resteremo altri quindici come minimo. Non voglio raccontarle balle. Il principale problema dell’esercito è sempre stato avere un gran numero di soldati. Se un militare ferito si rimettesse in piedi nel giro di un giorno e mezzo, pronto a riprendere il combattimento, in nome di Dio e della patria, all’esercito farebbe molto, ma molto piacere. Non crede?” “Ho capito” aveva risposto Wolgast, intimidito. “Meno male.” Sykes si era ammorbidito: il predicozzo era terminato. “Quindi è plausibile che le forze armate sovvenzionino questa ricerca, no? Non le dico di quali cifre stiamo parlando, perché le uscirebbero gli occhi dalle orbite. Non so a lei, ma a me piacerebbe parecchio vivere abbastanza da conoscere i miei bis-bis-bis-bisnipoti e sarei felice di giocare a golf il giorno del mio centesimo compleanno e poi tornare a casa a far l’amore con mia moglie tutta la notte. Chi non lo sarebbe?” Aveva scrutato Wolgast. “Abbiamo tutti da guadagnarci, agente. Siamo tutti dalla stessa parte, quella degli angeli. Allora, accetta?” Si erano stretti la mano e Sykes lo aveva accompagnato alla porta. Richards lo stava aspettando per riportarlo al furgone. “Un’ultima domanda” aveva detto Wolgast. “Perché si chiama Progetto Noah?” Sykes e Richards si erano scambiati un’occhiata veloce e Wolgast aveva avuto la sensazione che gli equilibri di potere fossero cambiati. Forse ufficialmente comandava Sykes, ma doveva rispondere in qualche modo a Richards, che con ogni probabilità era il tramite con l’attore principale, quello dietro le quinte: l’Istituto militare americano per la ricerca medica sulle malattie infettive, il dipartimento della Sicurezza interna, o magari l’Agenzia per la Sicurezza nazionale. Sykes si era rivolto nuovamente a Wolgast. “Non è un acronimo, come potrebbe sembrare. Lei ha mai letto la Bibbia?” “Un po’, da bambino” aveva risposto lui guardando prima uno, poi l’altro. “Mia madre era metodista.” Sykes aveva sorriso per la seconda volta. “La riprenda in mano e si legga la storia di Noè e dell’arca. Controlli quanti anni visse. Non le dirò altro.” Quella sera a casa sua, a Denver, Wolgast aveva fatto ciò che Sykes gli aveva consigliato. Non possedeva una Bibbia e probabilmente non ne vedeva una dal giorno delle nozze. Ma aveva trovato il testo online. “L’intera vita di Noè fu di novecentocinquanta anni, poi morì.” Soltanto allora Wolgast aveva capito qual era il pezzo che gli mancava, la cosa che Sykes gli

aveva taciuto. Certamente il suo dossier ne parlava. Era per quello che, fra tutti gli agenti federali, avevano scelto proprio lui. Lo avevano scelto per Eva, la figlia che aveva visto morire. La mattina si svegliò al trillo del palmare. Stava sognando, e nel sogno Lila lo chiamava per dirgli che il bambino era nato e non era quello di David, era il suo. Wolgast per un attimo si sentì invaso dalla felicità, poi si rese conto di dov’era: in un motel di Huntsville. La sua mano trovò il telefono sul comodino e premette il tasto per accettare la chiamata prima che lui avesse il tempo di guardare il display e vedere chi fosse. Sentì i tipici rumori disturbati della linea criptata. Poi arrivò la voce. «Tutto a posto» disse Sykes. «Non dovrebbero esserci più problemi. Fate in modo che Carter firmi e non disfate i bagagli: potremmo avere un altro incarico per voi.» Wolgast guardò l’ora: erano le 6.58. Doyle era sotto la doccia. Lo sentì chiudere l’acqua e accendere l’asciugacapelli. Ricordava vagamente di averlo udito rientrare, la sera prima: rumori dalla strada, una scusa a mezza voce e poi lo scroscio dell’acqua. Aveva guardato l’ora e aveva visto che erano le due appena passate. Doyle uscì dal bagno in una nuvola di vapore, con un asciugamano intorno alla vita. «Ti sei svegliato. Bene.» Aveva lo sguardo vivace e la pelle arrossata dopo la doccia bollente. Come potesse fare le ore piccole in giro per locali e alzarsi la mattina dopo fresco e riposato, per Wolgast era un mistero. Si schiarì la voce. «Com’è andata al rappresentante di fibre ottiche?» Doyle si sedette sul suo letto e si passò una mano tra i capelli ancora umidi. «È un settore molto interessante, contrariamente a quanto pensi tu. Ritengo che la gente lo sottovaluti.» «Fammi indovinare: quella in jeans?» Doyle sorrise e inarcò le sopracciglia. «Erano tutte in jeans, capo.» Inclinò la testa da una parte. «Cosa t’è successo? Sembra che ti sia passato addosso un TIR.» Wolgast si guardò e si accorse di aver dormito vestito. Gli succedeva sempre più spesso: da quando aveva ricevuto l’e-mail di Lila, passava quasi sempre la notte sul divano di casa. Guardava la TV finché non si addormentava e poi restava lì, come se sentisse di non meritare più di dormire in un letto come le persone normali. «Mi sono appisolato davanti al televisore» disse. «La partita era noiosissima.» Si alzò e si stirò. «Ha telefonato Sykes. Andiamo, così concludiamo.» Fecero colazione in un Denny’s e tornarono alla Polunsky Unit. Il direttore li aspettava nel suo ufficio. Era la giornata, o anche lui aveva dormito poco quella notte? «Non state neanche a sedervi» disse porgendo a Wolgast una busta. Wolgast la aprì e lesse i documenti. Come si aspettava, c’erano un atto di commutazione della pena firmato dalla governatrice e un’ordinanza di trasferimento della custodia di Carter alle autorità federali. Ammesso che il prigioniero accettasse, avrebbero potuto trasferirlo al carcere federale di El Reno in giornata. Da lì, Carter sarebbe poi stato mandato in altre tre strutture diverse, cosicché nell’arco di due o tre settimane, massimo un mese, di lui si perdessero le tracce. A quel punto, nel compound in Colorado, dal furgone nero sarebbe sceso un uomo noto

ormai soltanto come Numero Dodici. Nella busta c’erano anche un certificato di morte di Carter e un referto del medico legale, entrambi datati 23 marzo. Di lì a tre giorni, pertanto, Anthony Lloyd Carter sarebbe morto nella sua cella per aneurisma cerebrale. Wolgast rimise tutti i fogli nella busta e se la infilò in tasca rabbrividendo al pensiero di quanto fosse facile far scomparire un essere umano. «Grazie della collaborazione» disse al direttore. L’uomo li guardò, prima l’uno e poi l’altro, con le labbra strette. «Ho l’ordine di dichiarare di non avervi mai visti né conosciuti.» Wolgast sorrise. «È un problema?» «Immagino che, se lo fosse, verrebbe risolto con un altro referto del medico legale, stavolta a mio nome. Tengo famiglia, agente, come si suol dire.» Prese il telefono e compose un numero. «Manda due guardie a prendere Anthony Carter. Che lo portino alle gabbie e poi vengano qui da me.» Chiuse la comunicazione e guardò Wolgast. «Se non vi dispiace, preferirei che aspettaste fuori. Più vi vedo, più fatica farò a dimenticare tutta questa faccenda. Buona giornata.» Dieci minuti dopo arrivarono le guardie. Il più anziano dei due uomini aveva l’aspetto benevolente e sovrappeso di un Babbo Natale da centro commerciale. L’altro, che doveva avere vent’anni, aveva un ghigno che a Wolgast non piacque per niente. C’era sempre qualcuno che finiva a fare la guardia per i motivi sbagliati e questi doveva appartenere alla categoria. «Siete qui per Carter?» Wolgast annuì e gli mostrò le credenziali. «Esatto. Siamo gli agenti speciali Wolgast e Doyle.» «Non ci interessa» replicò il ciccione. «Il direttore ci ha detto di portarvi alle gabbie e noi vi ci portiamo.» Li accompagnarono nella sezione riservata ai visitatori. Carter era seduto dall’altra parte del vetro con il telefono fra l’orecchio e la spalla. Era minuto, come aveva detto Doyle, e la tuta da carcerato gli stava larga. I condannati a morte potevano avere molte espressioni diverse, Wolgast l’aveva imparato per esperienza: Carter non era né impaurito né arrabbiato, ma piuttosto rassegnato, come se il mondo gli avesse portato via l’anima a poco a poco, a piccoli morsi. Wolgast indicò le manette e le catene. «Toglietegliele, per piacere» disse alle guardie. Il secondino più anziano scosse la testa. «Regolamento.» «Non importa: toglietegliele lo stesso.» Prese il telefono. «Anthony Carter? Sono l’agente speciale Wolgast. Le presento l’agente speciale Doyle. Siamo dell’FBI. Adesso le guardie verranno a toglierle le manette. Gliel’ho chiesto io. Cercherà di essere collaborativo, vero?» Carter fece cenno di sì con la testa. «Sì, signore» rispose con voce sommessa. «Ha bisogno di qualcos’altro?» Carter lo guardò sbigottito: da quanto tempo non gli facevano una domanda simile? «No, grazie.»

Wolgast si rivolse alle guardie. «Allora? Parlo al muro, forse? Volete che chiami il direttore?» Le guardie si scambiarono un’occhiata, incerte. Poi quello che chiamavano Totò Tritolo uscì e riapparve poco dopo dall’altra parte del vetro. Wolgast, in piedi, aspettò che sganciasse le manette al detenuto, fissandolo. «Così va bene?» chiese il ciccione. «Sì, grazie. Vorremmo essere lasciati soli. Appena abbiamo finito, vi avvertiamo.» «Fate un po’ come vi pare» replicò la guardia e se ne andò chiudendo la porta dietro di sé. C’era solo una sedia pieghevole di metallo. Wolgast la prese e la posizionò davanti al vetro. Doyle rimase in piedi dietro di lui. Toccava a Wolgast parlare. Prese di nuovo il telefono. «Così va meglio?» Carter aspettò un istante prima di rispondere. Lo guardò, poi annuì. «Sì, signore. Grazie. Pizzico le stringe sempre troppo.» “Pizzico”: Wolgast prese nota del soprannome. «Ha fame? Ha fatto colazione?» «Pancake» rispose Carter con un’alzata di spalle. «Cinque ore fa, più o meno.» Wolgast si voltò verso Doyle e fece una faccia interrogativa. Doyle annuì e uscì. Wolgast aspettò che tornasse. Nonostante il cartello con la scritta VIETATO FUMARE, il tavolinetto sotto il vetro era tutto bruciacchiato. «Ha detto che siete dell’FBI?» «Sì.» Carter fece un sorrisetto. «Come alla TV?» Wolgast non sapeva a che cosa si riferisse e non gliene fregava niente. «Quale programma, Anthony?» chiese tuttavia per dare a Carter qualcosa di cui parlare. «Quello con la donna. Dove ci sono gli alieni.» Wolgast ci pensò su un momento, poi gli venne in mente. X-Files. Non lo trasmettevano più da quanto... vent’anni? Probabilmente Carter aveva visto le repliche da ragazzino. Wolgast non se lo ricordava molto bene, ma sapeva che parlava di rapimenti da parte degli extraterrestri e di una sorta di complotto per mettere tutto a tacere. Dunque Carter aveva quest’idea dell’FBI. «Anche a me piaceva. Si trova bene qui, Anthony?» Carter si irrigidì. «Siete venuti apposta per chiedermelo?» «Lei è un uomo in gamba, Anthony. No, non siamo venuti per questo.» «Per cosa, allora?» Wolgast si avvicinò al vetro, cercò lo sguardo di Carter e lo fissò negli occhi. «Io so come si sta qua dentro, Anthony. So cosa succede a Terrell. Voglio solo accertarmi che la trattino come si deve.» Carter fece una faccia scettica. «Abbastanza.»

«Come sono le guardie?» «Pizzico stringe troppo le manette, ma alla fine è un bravo cristo. Totò Tritolo non è mio amico. Non è amico praticamente di nessuno.» La porta alle spalle di Carter si aprì e apparve Doyle con un vassoio giallo della mensa. Lo posò sul tavolinetto davanti al detenuto. C’erano un cheeseburger con patatine straunte e un cartone di latte al cacao. «Prego» disse Wolgast indicandogli il vassoio. «Mangi pure. Parliamo dopo.» Carter posò il telefono, prese il cheeseburger e lo ingurgitò in tre bocconi. Poi cominciò a divorare le patatine. Wolgast lo guardava. Carter era concentratissimo sul cibo: sembrava di veder mangiare un cane. Doyle tornò da lui. «Cavolo, aveva proprio fame!» «Non c’era niente di dolce?» «Fette di torta rinsecchite e bignè al cioccolato che sembravano cacche di cane.» Wolgast rifletté un momento. «Okay, lasciamo perdere. Prendigli un tè freddo. Presentato bene, se possibile.» Doyle si accigliò. «Gli ho preso il latte. Non so nemmeno se ce l’hanno, il tè freddo. È un postaccio.» «Siamo nel Texas, Phil.» Wolgast cercò di controllare l’irritazione. «Sono sicuro che ce l’hanno. Va’ a vedere.» Doyle uscì scrollando le spalle. Quando Carter ebbe finito di mangiare, si leccò le dita una per una e sospirò. Prese il telefono e Wolgast lo imitò. «Come sta, Anthony? Meglio?» Wolgast lo sentiva respirare profondamente e vedeva che aveva gli occhi lucidi per la contentezza. Le calorie del cheeseburger, proteine e carboidrati complessi, gli stavano entrando in circolo. Era come se Wolgast gli avesse dato un cordiale. «Sì, signore. Grazie.» «Bisogna mangiare. Non si può andare avanti a pancake.» Ci fu un attimo di silenzio. Carter continuava a leccarsi lentamente le dita. Poi parlò a voce bassissima. «Cosa volete da me?» «È il contrario, Anthony» lo corresse Wolgast. «Sono io che dovrei chiederle che cosa posso fare per lei.» Carter abbassò gli occhi sull’involucro unto del cheeseburger. «Vi ha mandato lui, vero?» «Chi?» «Il marito.» Carter si rabbuiò, ripensandoci. «Il signor Wood. È venuto, una volta. Mi ha detto

che aveva ritrovato la fede.» Wolgast ripensò a quello che gli aveva riferito Doyle in macchina. Anche se erano passati due anni, Carter se ne ricordava ancora. «No, non mi manda lui, Anthony. Glielo giuro.» «Gli ho chiesto scusa» insistette Carter con la voce rotta. «Ho chiesto scusa a tutti quanti. Adesso basta, però.» «Nessuno ha parlato di chiedere scusa, Anthony. Io lo so che è pentito. Per questo ho fatto tanta strada per venire qui.» «Ha fatto tanta strada?» «Tantissima» rispose Wolgast annuendo. Guardò Carter negli occhi: aveva qualcosa di diverso da tutti gli altri. Percepì un’apertura, una disponibilità maggiore. «Anthony, cosa mi direbbe se le proponessi di andare via da qui?» Carter lo fissò cauto. «In che senso?» «Andare via. Adesso. Oggi. Lasciare questo posto e non tornarci mai più.» Carter non capiva: era un’idea troppo strampalata, troppo assurda, per lui. «Le direi che mi prende in giro.» «Non la sto prendendo in giro. Siamo venuti fin qui apposta, Anthony. Forse non se ne rende conto, ma lei è una persona speciale. Unica, oserei dire.» «Secondo lei, io posso andarmene da qui?» Carter aveva la fronte aggrottata. «Non ha senso. Dopo tutto ’sto tempo. Non mi hanno dato nemmeno l’appello: l’avvocato mi ha scritto, me l’ha detto.» «Non mi riferivo a un appello, Anthony. Molto meglio: io la posso far uscire adesso, subito. Cosa ne dice?» «Che sarebbe bellissimo.» Carter si appoggiò allo schienale e incrociò le braccia. «Troppo bello per essere vero. Questa è una prigione.» Wolgast rimaneva sempre stupito nel constatare che l’accettazione dell’idea di vedersi la pena di morte commutata in ergastolo avveniva in cinque stadi, come l’elaborazione del lutto. In quel momento Carter era allo stadio della negazione: trovava l’idea incredibile e inaccettabile. «Lo so. Conosco la Terrell Unit. Anthony, so che è nel braccio della morte, ma so anche che non è il posto giusto per lei. Per questo sono qui. Non è una proposta che faccio a tutti, Anthony, ma solo a lei.» Carter si rilassò un pochino. «Non sono mica niente di speciale, io.» «Sì, invece. Non se ne rende conto, forse, ma lei è speciale. Vede, avrei bisogno di un favore. Le propongo un patto: io la faccio uscire da qui, ma lei in cambio dovrebbe fare qualcosa per me.» «Cosa?» «I miei superiori hanno saputo quello che la aspetta. Sanno che cosa dovrebbe succedere a

giugno e pensano che non sia giusto. Ritengono ingiusto che lei sia stato trattato in questo modo, che il suo avvocato abbia preso e se ne sia andato lasciandola in brache di tela. E si sono accorti che potevano fare qualcosa. Abbiamo un lavoro da offrirle.» Carter era confuso. «Falciare il prato, intende? Come alla signora?» Cristo santo! Quell’uomo pensava che lui volesse fargli falciare dei prati. «No, Anthony, no. È un lavoro molto più importante.» Wolgast abbassò la voce. «Vede, il fatto è questo: io voglio da lei qualcosa di così importante che non posso parlargliene. Non lo so neanch’io, pensi.» «Come fa a sapere che è importante se non sa che cos’è?» «Lei è un uomo in gamba, Anthony. È una domanda intelligente la sua. Però le chiedo di fidarsi di me. Io posso farla uscire. Adesso. Basta che lei mi dica sì.» A quel punto tirò fuori la busta che gli aveva consegnato il direttore e la aprì. Si sentiva sempre un mago nel fare quel gesto: era un po’ come infilare la mano nel cilindro ed estrarre un coniglio. Rimise in tasca la busta e appoggiò il foglio contro il vetro perché Carter potesse vederlo. «Sa cos’è questo, Anthony? È un atto di commutazione della pena firmato dalla governatrice Jenna Bush. In data odierna. Vede? Sa cosa significa “commutazione di pena”?» Carter strizzò gli occhi. «Che non mi fanno più l’iniezione letale?» «Esatto, Anthony. Né a giugno né mai più.» Wolgast fece scivolare il foglio nella tasca della giacca. Aveva gettato l’esca. L’altro documento, quello che Carter avrebbe dovuto firmare – e che avrebbe firmato, ne era certo, non appena fosse finita la contrattazione –, in cui si stabiliva che Anthony Lloyd Carter, detenuto numero 999642, si consegnava al cento per cento, passato, presente e futuro, al Progetto Noah, era ancora nella busta. Quando fosse giunto il momento di tirarlo fuori, Carter non avrebbe nemmeno dovuto leggerlo. Carter annuì lentamente. «Mi è sempre piaciuta. Già quando era la First Lady.» Wolgast lasciò correre l’errore. «È una dei miei capi, Anthony. Ce ne sono altri. Se le facessi i nomi, forse li riconoscerebbe. Ma non posso. Mi hanno mandato qui per dirle che hanno bisogno di un favore da lei, Anthony.» «Io vi faccio questo favore e voi mi lasciate uscire? Però non mi volete dire cos’è?» «Esatto. Se lei adesso mi dice “no, grazie”, io la saluto e passo oltre. Se lei mi dice “sì”, invece, entro stasera la faccio uscire. Tutto qui.» Si aprì di nuovo la porta e arrivò Doyle con il tè. Aveva fatto quello che Wolgast gli aveva chiesto: lo aveva messo in un bicchiere, su un piattino, con un cucchiaino dal manico lungo, bustine di zucchero e una fetta di limone. Lo posò davanti a Carter, che guardò il bicchiere e rimase a bocca aperta. In quel momento Wolgast capì che era innocente, che non era andata come la giuria aveva sostenuto. Negli altri casi aveva sempre avuto l’impressione di trattare con degli assassini, gente che aveva davvero qualche morto sulla coscienza. Invece adesso pensava che la donna era morta, sì, qualcosa era successo, ma non era così semplice come l’aveva fatta la corte. Guardando Carter, aveva l’impressione che la sua mente fosse una stanza buia, senza finestre e con la porta chiusa. Era lì che l’avrebbe trovato, al buio. E gli avrebbe mostrato la

chiave per aprire la porta. Carter guardava il vetro. «Sì, a me sta bene, però...» cominciò. Wolgast aspettò che finisse la frase. «Però cosa, Anthony?» chiese alla fine. Carter sfiorò il bicchiere con la punta delle dita. Era freddo, umido. Ritrasse la mano e si sfregò pollice e indice lentamente, concentratissimo. A Wolgast sembrava di vedere la sua mente che si apriva per accogliere i pensieri che gli suscitava il fatto di sfregarsi i polpastrelli bagnati, come se fosse la chiave di tutti i misteri della sua vita. Poi Carter lo guardò. «Ho bisogno di tempo. Devo pensare...» sussurrò. «La storia della signora...» “L’intera vita di Noè fu di novecentocinquanta anni, poi morì.” «Il tempo per pensare posso darglielo, Anthony» disse Wolgast. «Posso darle tutto il tempo del mondo. Un mare di tempo.» Un momento dopo Carter annuì. «Cosa devo fare?» Wolgast e Doyle arrivarono all’aeroporto intercontinentale George Bush poco dopo le sette. Il traffico era micidiale, ma giunsero un’ora e mezzo prima del volo. Lasciarono l’auto a noleggio e presero la navetta per il terminal, mostrarono le credenziali per bypassare il controllo passaporti e andarono diretti al gate. Doyle si scusò un attimo: aveva fame. Wolgast invece non aveva voglia di mangiare, pur sapendo che forse poi se ne sarebbe pentito, soprattutto in caso di ritardi. Controllò il palmare. Sykes non si era ancora fatto vivo. Meno male: non vedeva l’ora di andarsene dal Texas. Al gate c’erano pochi passeggeri in attesa: un paio di famiglie, alcuni studenti con lettori Blu-ray e iPod, uomini in giacca e cravatta intenti a digitare sul portatile o a parlare al cellulare. Guardò l’orologio: erano le sette e venticinque. A quell’ora Carter doveva essere a bordo di un furgone diretto a El Reno, mentre tutto quello che esisteva sul suo conto veniva distrutto in un tritadocumenti e persino il ricordo di lui cancellato dalla faccia della terra. Prima di sera, sarebbe stato eliminato anche il suo identificativo federale: dell’uomo Anthony Carter sarebbero rimaste solo voci, una lievissima increspatura sulla superficie del mondo. Si appoggiò allo schienale e si rese conto di essere stanchissimo. Gli succedeva sempre così, di colpo, di sentirsi esausto. Quelle spedizioni lo lasciavano svuotato dal punto di vista sia fisico sia emotivo, con la coscienza che gli rodeva, un tormento da mettere a tacere. Era troppo bravo in quel lavoro, aveva la capacità di scegliere il gesto giusto, la parola giusta. Uno che sta chiuso in un parallelepipedo di cemento a pensare che deve morire dopo un po’ si disintegra, come l’acqua che evapora completamente in una pentola lasciata troppo a lungo sul fuoco. Per comprendere un uomo così, bisogna analizzare i resti polverizzati della sua vita, passata e futura, capire di cosa erano fatti. A volte si trovano soltanto collera, tristezza, vergogna, oppure desiderio di perdono. Pochissimi non vogliono più niente, e di loro rimane solo una sorda rabbia animale nei confronti del mondo e dei suoi sistemi. Anthony era diverso e Wolgast ci aveva messo un po’ a capirlo. Anthony era un punto interrogativo, espressione di puro stupore fatta persona. Non sapeva perché era nel braccio della morte. Non che non avesse capito il verdetto o la condanna: li aveva non solo compresi, ma anche accettati. Come quasi tutti, peraltro, visto che non poteva fare diversamente. Basta leggere le ultime parole dei condannati a morte per accorgersene: “Dite a tutti che gli voglio bene. Mi dispiace. D’accordo, direttore, proceda pure”. Cose così, che ti fanno venire i brividi. E Wolgast ne aveva lette molte. Ma nella storia di

Anthony Carter c’era un pezzo mancante. Wolgast l’aveva intuito quando l’aveva visto sfiorare il bicchiere. Prima ancora, anzi: quando gli aveva chiesto del marito di Rachel Wood e aveva detto che gli dispiaceva senza dirlo davvero. Wolgast non sapeva se Carter non ricordasse ciò che era successo quel giorno nel giardino dei Wood o se non riuscisse a far quadrare le sue azioni con l’uomo che sentiva di essere. In ogni caso, prima di morire, aveva bisogno di trovare il pezzo che mancava. Dal suo sedile di fronte alla vetrata del terminal, Wolgast vedeva la pista dell’aeroporto. Il sole era già basso e gli ultimi raggi illuminavano la fusoliera degli aerei fermi. Il volo di ritorno gli faceva bene, di solito: qualche ora per aria a rincorrere il tramonto e tornava a essere se stesso. In aereo non beveva, non leggeva e non dormiva: stava fermo, respirava l’aria condizionata e guardava fuori la terra che scivolava nel buio. Una volta, mentre tornava da Tallahassee, c’era stato un temporale così forte e così esteso che sembrava una catena montuosa e la cabina si illuminava a giorno per i fulmini. Era settembre e stavano sorvolando l’Oklahoma, o il Kansas, un territorio piatto e desolato. Forse erano ancora più a ovest, Wolgast non ne era sicuro. La cabina era buia e dormivano quasi tutti, compreso Doyle, che si era messo un cuscino sotto la guancia non rasata. Per venti minuti buoni l’aereo aveva volato ai margini della tempesta senza neanche un sobbalzo. Wolgast non aveva mai visto una cosa del genere, non si era mai sentito così completamente in balia dell’immensità della natura, del suo potere planetario. L’aria era elettrica, ad altissima tensione, e lui era in una bolla di silenzio lanciata a tutta velocità nello spazio, con niente sotto a parte novemila metri di aria, di vuoto, e guardava quello spettacolo come se stesse assistendo alla proiezione di un film muto. Aveva aspettato che il pilota dicesse qualcosa, avvertisse anche gli altri passeggeri, invece era stato zitto e dopo un po’ erano atterrati a Denver, con quaranta minuti di ritardo. Wolgast non ne aveva parlato con nessuno, nemmeno con Doyle. In quel momento pensò che gli sarebbe piaciuto telefonare a Lila e dirglielo. Era una sensazione così vivida, così chiara, che gli ci volle un momento per capire che era una follia, che a suggerirlo era la sua “macchina del tempo interiore”, come l’aveva definita la psicologa. Era un’amica di Lila, si erano conosciute in ospedale. Lui e Lila ci erano andati un paio di volte. Era sui trentacinque anni, con capelli lunghi prematuramente ingrigiti e occhi grandi e affettuosi. All’inizio della seduta si toglieva le scarpe e incrociava le gambe come un capo scout seduto attorno al fuoco di bivacco. Parlava talmente sottovoce che Wolgast doveva avvicinarsi per sentire. “A volte la mente fa strani scherzi” aveva spiegato. Non era un avvertimento, non lo diceva con quel tono: era un dato di fatto. Lui e Lila facevano e vedevano cose che in realtà appartenevano al passato. Per esempio, si ritrovavano in coda alla cassa con i pannolini nel carrello, o passavano davanti alla camera di Eva in punta di piedi per non svegliarla. Erano i momenti peggiori, perché erano costretti a rivivere la perdita. Con il tempo, tuttavia, sarebbe successo sempre più di rado. Glielo aveva assicurato. Per Wolgast in realtà non erano brutti momenti. Quando gli capitava, nonostante Eva fosse morta da tre anni, lui era tutt’altro che scontento. Anzi, li considerava regali inaspettati che gli faceva la sua mente. Per Lila invece era diverso. «Agente Wolgast?» Si voltò. Completo grigio, semplice, mocassini comodi anche se poco costosi, cravatta anonima che non si notava nemmeno: per Wolgast fu come guardarsi allo specchio. Solo la faccia era diversa. Si alzò e s’infilò la mano in tasca per tirare fuori i documenti. «Sono io.»

«Agente speciale Williams, sede di Houston.» Si strinsero la mano. «Mi spiace, ma non potete salire sull’aereo. Ho un’auto per voi qui fuori.» «Messaggi?» Williams estrasse dalla tasca una busta. «Forse intende questa.» Wolgast la prese. Conteneva un fax. Si sedette a leggerlo, poi lo rilesse. Lo stava ancora leggendo quando tornò Doyle, con una cannuccia in bocca e un sacchetto di Taco Bell. Wolgast alzò gli occhi e guardò Williams. «Ci dà un minuto, per cortesia?» Williams si allontanò. «Cosa c’è?» chiese Doyle a bassa voce. «È successo qualcosa?» Wolgast fece cenno di no con la testa e gli passò il fax. «Gesù, Phil, è un civile.»

4 Suor Lacey Antoinette Kudoto non sapeva che cosa volesse Dio, ma era certa che qualcosa voleva. Il mondo glielo diceva da che lei ricordasse: glielo sussurrava il fruscio delle palme nel villaggio sull’oceano dov’era nata, glielo mormorava il ruscello fra le pietre dietro casa sua. Lo sentiva anche nei suoni frettolosi che producevano gli uomini, nelle macchine, nei motori e nelle voci. Era piccola, aveva sei, sette anni, quando aveva chiesto lumi a suor Margaret, che dirigeva la scuola del convento a Port Loko. Suor Margaret si era messa a ridere. “Lacey Antoinette!” aveva esclamato. “Mi sorprendi, sai?” Aveva avvicinato la faccia alla sua e aveva mormorato: “È la voce di Dio!”. Lacey lo sapeva, in realtà: quando suor Margaret glielo aveva detto, si era accorta di averlo sempre saputo. Non aveva mai parlato a nessuno della voce, perché dal tono della risposta di suor Margaret – come se fosse una cosa nota soltanto a loro – aveva capito che ciò che lei sentiva nel vento e nelle foglie, nel cuore dell’esistenza stessa, era un fatto privato, fra loro due. A volte per settimane, o addirittura mesi, quella sensazione svaniva e il mondo tornava a essere un posto normale, fatto di cose normali. Era così per la maggioranza delle persone, compresi i suoi genitori, le sue sorelle, le sue compagne di scuola: vivevano in una prigione di silenzio, in un mondo senza voce. Quel pensiero la rattristava al punto che a volte piangeva per giorni interi e i suoi la portavano dal medico, un francese con le basette che mangiava perennemente caramelle che puzzavano di canfora, il quale la scrutava, la tastava e la auscultava con lo stetoscopio gelato senza mai trovare niente che non andasse. “Che cosa terribile” pensava lei. “Che cosa terribile dover vivere così, per sempre soli.” Dopo un po’, però, mentre attraversava i campi di cacao per andare a scuola, mangiava con le sue sorelle o non faceva assolutamente nulla – magari guardava una pietra per terra o stava distesa nel letto senza dormire –, la sentiva di nuovo. Non era proprio una voce: veniva da dentro di lei, ma sussurrava anche tutto intorno a lei, un bisbiglio sommesso che pareva fatto non di suono ma di luce, che si muoveva dolcemente come la brezza sull’acqua. A diciott’anni, ormai in convento, aveva capito cos’era. Aveva capito che la chiamava per nome. “Lacey” le diceva il mondo. “Ascolta, Lacey.” Lo sentiva ancora adesso, dopo tutti quegli anni, dall’altra parte dell’oceano, nella cucina del convento delle Suore della Misericordia di Memphis, nel Tennessee. Trovò la lettera nello zainetto della bambina poco dopo che la mamma era andata via. Qualcosa l’aveva messa in ansia da subito e guardando la bambina capì perché: la donna non le aveva detto come si chiamava. Era evidentemente figlia sua: avevano gli stessi capelli scuri, la stessa carnagione chiara, le ciglia lunghe con la punta all’insù, come se ci fosse un alito di vento a sollevarle. Era graziosa, ma spettinata: aveva nodi come quelli nel pelo dei cani. Aveva messo la giacca sul tavolo, vicino a sé, come se fosse abituata a partire di corsa. Sembrava in buona salute, anche se un filino troppo magra. I pantaloni erano un po’ corti e sporchissimi. Quando la bambina ebbe finito di mangiare lo spuntino che le aveva offerto, Lacey si sedette vicino a lei e le chiese se nello zaino aveva qualcosa con cui giocare o un libro da leggere insieme. La piccola, che non aveva ancora detto una parola, si limitò ad annuire e glielo passò. Lacey guardò lo zainetto rosa con alcuni personaggi dei fumetti dagli occhi enormi, che le ricordavano quelli della bambina, e le venne in mente che la donna aveva detto che stava portando la figlia a scuola.

Aprì lo zaino e vi trovò dentro un coniglietto di peluche, diverse paia di mutande arrotolate, calzini, uno spazzolino da denti e una scatola di barrette di cereali alla fragola mezzo vuota. Nient’altro. Poi notò la tasca esterna, chiusa con la zip. Era troppo tardi per andare a scuola, pensò Lacey con il senno di poi. E la bambina non aveva né libri né quaderni né pranzo. Trattenendo il respiro, aprì la cerniera e vide il foglietto ripiegato. “Mi dispiace. Si chiama Amy e ha sei anni.” Lacey fissò quelle parole per un sacco di tempo. Non che facesse fatica a capire: il messaggio era chiarissimo. Guardava piuttosto lo spazio fra una parola e l’altra, una pagina di niente. Due frasi: ecco tutto quello che aveva quella bambina per spiegare chi era. Due frasi e i pochi oggetti nello zainetto. Era la cosa più triste che Lacey Antoinette Kudoto avesse mai visto in vita sua, talmente triste che non riuscì nemmeno a piangere. Correre dietro alla donna sarebbe stato inutile. Chissà dov’era già, a quell’ora. E anche se Lacey l’avesse trovata, comunque, che cosa avrebbe potuto dirle? “Credo si sia dimenticata qualcosa. Credo ci sia un errore”? No, non c’era nessun errore. La donna aveva fatto esattamente quello che aveva deciso. Lacey ripiegò il foglio e lo mise nella tasca della gonna. «Amy» disse e, come aveva fatto suor Margaret tanti anni prima nel cortile della scuola di Port Loko, avvicinò la faccia alla sua e le sorrise. «Ti chiami Amy? È un nome bellissimo.» La bambina si guardò intorno con fare furtivo. «Dov’è Peter?» Lacey rimase un attimo interdetta. Chi era Peter? Il fratello? Il padre? «Chi è Peter, Amy?» «È nello zaino, forse» disse la bambina. Lacey tirò un sospiro di sollievo: la prima richiesta di quella bambina era stata semplice, poteva accontentarla. Prese il coniglietto. Era logoro, con il pelo completamente consumato in più di un punto, aveva gli occhi di vetro nero e un’anima di fil di ferro nelle orecchie. Quando glielo porse, Amy se lo mise in grembo. «Amy?» ricominciò Lacey. «Dov’è andata tua madre?» «Non lo so.» «E Peter?» domandò Lacey. «Peter lo sa? Magari Peter me lo può dire.» «Non sa niente» rispose Amy. «È un pupazzo.» La bambina si rabbuiò. «Voglio tornare al motel.» «Dov’è il motel, Amy?» «Non lo posso dire a nessuno.» «È un segreto?» Amy fece cenno di sì con la testa tenendo gli occhi fissi sul tavolo. “Un segreto così segreto da non poter neanche dire che è un segreto” pensò Lacey. «Non ti ci posso portare se non so dov’è. Vuoi andare davvero al motel?» «È sulla strada trafficata» spiegò la bambina tirandola per una manica. «Ci vivi con la tua mamma?»

Amy non disse niente. Aveva un modo tutto suo di non guardare e non parlare, di rimanere sola con se stessa anche in presenza di un’altra persona. Lacey non aveva mai visto nessuno fare così. Aveva qualcosa di spaventoso: in quel momento sembrava che gli altri scomparissero. «Ho un’idea» disse Lacey. «Facciamo un gioco. Ti va, Amy?» La bambina la guardò, scettica. «Che gioco?» «Si chiama “Segreti”. È facile: io dico un segreto a te e tu ne dici uno a me. Un baratto, insomma: un mio segreto in cambio di un tuo segreto. Cosa te ne pare?» La bambina fece spallucce. «Okay.» «Va bene. Inizio io. Il mio segreto è questo: una volta, quando ero piccola come te, sono scappata di casa. Abitavo in Sierra Leone, dove sono nata. Ero arrabbiatissima con la mamma, che non voleva lasciarmi andare al circo se prima non finivo i compiti. Io non vedevo l’ora di andarci, perché mi avevano detto che facevano delle acrobazie con i cavalli e io adoravo i cavalli. Scommetto che anche a te piacciono i cavalli, vero?» La bambina annuì. «Penso di sì.» «A tutti i bambini piacciono i cavalli. Ma io avevo una vera e propria passione. Per farle vedere quanto ero arrabbiata, mi sono rifiutata di fare i compiti e lei mi ha mandato in camera mia, in castigo. Ero furibonda! Pestavo i piedi, giravo per la camera come una matta. Poi mi è venuto in mente che, se fossi scappata di casa, la mamma si sarebbe pentita di avermi trattato così e mi avrebbe lasciato fare tutto quello che volevo. Sono stata sciocca, lo so: ma in quel momento la pensavo proprio così. Quando si sono addormentati tutti, i miei genitori e le mie sorelle, sono uscita di casa. Non sapevo dove andare, perciò mi sono nascosta nei campi dietro la casa. Faceva freddo, era buio. Volevo stare lì tutta la notte, per sentire al mattino mia madre che piangeva e si disperava non trovandomi in camera mia. Ma non ci sono riuscita. Ci sono rimasta un po’, però poi avevo troppo freddo e troppa paura, così sono tornata, mi sono messa a letto e nessuno ha mai saputo niente.» Guardò la bambina, che la osservava attentamente, e si sforzò di sorridere. «Ecco. Non l’avevo mai raccontato a nessuno fino adesso. Sei la prima persona a cui lo dico. Che cosa ne pensi?» La bambina la guardava fissa. «Sei... tornata a casa?» Lacey annuì. «Mi era passata l’arrabbiatura. Al mattino, mi sembrava tutto un sogno. Non ero sicura nemmeno che fosse successo. Adesso invece lo so: l’ho fatto davvero.» Le diede una pacca sulla mano. «Adesso tocca a te. Hai un segreto da raccontarmi, Amy?» La bambina abbassò la testa e non disse niente. «Nemmeno uno piccolo piccolo?» «Non credo che tornerà» disse Amy. Gli agenti di polizia che intervennero dopo la chiamata, un uomo e una donna, non riuscirono a farsi dire niente da Amy. La donna, che era robusta e aveva i capelli cortissimi, parlò alla bambina in cucina, mentre il suo collega, un nero con un bel viso liscio e affilato, raccolse la deposizione di Lacey, che gli descrisse la madre. Le chiese se le era sembrata agitata, ubriaca, sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, com’era vestita e che macchina aveva. Le rivolse mille domande, ma Lacey capì che gliele faceva perché doveva: anche lui riteneva che non sarebbe

tornata a riprendere la bambina. Prese nota delle sue risposte su un bloc-notes, con una matita minuscola. Appena ebbero finito, si rimise il blocchetto nel taschino della giacca della divisa. In cucina brillò la luce di un flash: la donna aveva scattato una foto ad Amy. «Chiamate voi i servizi sociali o lo facciamo noi?» domandò il poliziotto a Lacey. «Perché, tenuto conto di chi siete, forse ha un senso aspettare un po’. Inutile mettere subito di mezzo i servizi, tanto più che è un weekend. Sempre che non vi dispiaccia tenerla qui qualche giorno. Dirameremo la descrizione della donna: vediamo se riusciamo a rintracciarla. Inseriremo anche i dati della bambina nel database dei minori scomparsi. È possibile che la madre torni. In quel caso, però, trattenete la bambina e chiamateci.» Era mezzogiorno passato e le sorelle sarebbero dovute tornare all’una dallo Spaccio dei bisognosi, dove tutti i martedì e i venerdì raccoglievano e distribuivano generi alimentari e pannolini. Lacey aveva il raffreddore dall’inizio della settimana: erano tre anni che abitava a Memphis e non si era ancora abituata agli inverni così umidi. Suor Arnette le aveva raccomandato di stare a casa se non voleva che le venisse pure la febbre. Era tipico di Arnette, anche se Lacey quella mattina si sentiva già meglio. Guardando il poliziotto, prese una decisione impulsiva. «Li chiamo io.» Per questo, quando le sue consorelle tornarono, Lacey non raccontò la verità. Mentre si toglievano sciarpe e cappotti nell’ingresso, presentò loro la bambina. «Questa è Amy. Sua madre è un’amica. È dovuta andare a trovare una parente malata. Amy passerà il fine settimana con noi.» La sorprese riuscire a mentire con tanta facilità. Non era abituata a raccontare bugie, ma le parole le erano venute fuori spontanee, senza sforzo. Mentre parlava, guardava Amy chiedendosi se l’avrebbe smentita, ma vide nei suoi occhi un lampo di approvazione. Era una bambina abituata a tenere i segreti. «Sorella» disse suor Arnette con la sua tipica aria severa «mi fa piacere che tu offra il nostro aiuto a questa bimba e alla sua mamma, ma prima avresti dovuto chiedermi il permesso.» «Me ne scuso» replicò Lacey. «Era un’emergenza. Ed è solo fino a lunedì.» Suor Arnette la squadrò da capo a piedi, poi guardò la bambina appoggiata alla sua sottana e si tolse i guanti, un dito per volta. Nel corridoio entrava una corrente fredda da fuori. «Questo è un convento, non un orfanotrofio. Non è il luogo adatto per dei bambini.» «Capisco, sorella, mi dispiace. Non ho potuto fare diversamente.» Passò un altro momento e Lacey pregò. “Signore, aiutami a voler bene a suor Arnette, che è prepotente e si crede chissà chi, ma è tua servitrice come me.” «Va bene» decretò alla fine suor Arnette con un sospiro irritato. «Fino a lunedì. Può stare nella stanza libera.» Fu allora che suor Lacey si chiese perché avesse mentito e come mai le fosse riuscito così facile, quasi come se non si fosse trattato di una vera e propria bugia. Si era messa in una posizione difficile: che cosa sarebbe successo se la polizia fosse tornata o avesse telefonato e suor Arnette avesse scoperto la verità? E che cosa sarebbe successo lunedì, quando avrebbe dovuto chiamare i servizi sociali della contea? Tuttavia non era impaurita. Quella bambina era un mistero mandato da Dio, non tanto al convento quanto a lei, Lacey. Quindi spettava a lei risolvere il mistero e mentendo a suor Arnette – anche se non si trattava necessariamente di una menzogna, perché chissà, magari la madre di Amy era davvero andata a trovare una

parente malata – aveva guadagnato un po’ di tempo per cercare la soluzione. Forse era per questo che non aveva avuto nessuna difficoltà a mentire: era stato lo Spirito Santo a parlare attraverso di lei, a ispirare in lei la fiamma di una verità diversa, più profonda, perché la bambina era in pericolo e Lacey doveva aiutarla. Le altre suore erano contente: non avevano mai ospiti, o per lo meno molto raramente, e si trattava sempre di religiosi: consorelle o preti. Una bambina era una novità. Non appena suor Arnette fu salita di sopra per ritirarsi nella sua cella, tutte si misero a parlare contemporaneamente. Come faceva Lacey a conoscere la mamma della bambina? Quanti anni aveva Amy? Che cosa le piaceva fare? Mangiare? Guardare la TV? Come le piaceva vestirsi? Erano così eccitate che non si accorsero nemmeno che Amy parlava pochissimo: anzi, non aveva ancora detto niente. Era sempre Lacey a rispondere. Per cena, Amy avrebbe sicuramente gradito hamburger o hot dog, i suoi cibi preferiti, patatine e gelato alla stracciatella. Le piaceva modellare, colorare o guardare film di principesse e adorava i coniglietti, se nel negozio ne avevano. Aveva bisogno anche di vestiti. Sua madre era tanto presa dalla sua opera di bene che, nella fretta, aveva dimenticato la valigia (era dovuta andare fino in Arkansas, vicino a Little Rock, poverina; la nonna di Amy era diabetica e malata di cuore), e quando si era offerta di tornare a casa a prenderla, Lacey aveva detto che non era il caso, si sarebbero arrangiate. Le bugie uscivano così facili e tranquille, rivolte a orecchie disposte ad accoglierle, che nell’arco di un’ora tutte le sorelle avevano una versione lievemente diversa della stessa storia. Suor Louise e suor Claire presero il furgone e andarono da Piggly Wiggly a comprare hamburger, hot dog e patatine, poi da Walmart a prendere vestiti, video e giocattoli. In cucina, suor Tracy cominciò i preparativi per la cena, annunciando che non solo avrebbero mangiato hamburger, hot dog e gelato, ma che avrebbe fatto anche una torta al cioccolato a tre strati. (Erano sempre tutti contenti quando il venerdì cucinava suor Tracy. I suoi genitori avevano un ristorante a Chicago e lei aveva fatto un corso da chef, prima di prendere il velo.) Persino suor Arnette si lasciò contagiare dall’entusiasmo e stette con Amy e le consorelle a vedere La storia fantastica prima di cena. Suor Lacey cercava di restare concentrata su Dio. Alla fine del film, che tutte trovarono bellissimo, quando suor Louise e suor Claire portarono Amy in cucina a vedere i giocattoli che le avevano comprato da Walmart – album da disegno, pastelli, colla, cartoncini colorati e un gioco della Barbie con talmente tanti piccoli animaletti e minuscoli accessori che suor Louise impiegò un quarto d’ora per toglierli tutti dall’involucro di plastica –, Lacey salì di sopra. Nel silenzio della propria camera pregò che la voce le parlasse e la aiutasse a risolvere quel mistero, il mistero di Amy, e che il Signore le svelasse qual era la sua volontà, ma quando innalzò la propria mente a Dio le rimasero mille interrogativi senza risposta. Era uno dei tanti modi in cui Dio parlava all’uomo. La sua volontà era spesso sfuggente e incomprensibile e, per quanto ciò fosse frustrante e tutti avrebbero preferito che le sue intenzioni fossero un po’ più esplicite, non era così che funzionava. Le consorelle pregavano quasi sempre nella cappella dietro la cucina, e anche Lacey ci andava, tuttavia riservava le preghiere più sincere e profonde ai momenti di solitudine nella sua cella. Non si inginocchiava, ma si sedeva alla scrivania, o in fondo al letto, posava le mani in grembo e chiudeva gli occhi, lasciando che la mente si allontanasse il più possibile. Da quando era piccola, la immaginava come un aquilone che si sollevava sempre di più a mano a mano che gli davi spago. E aspettava di vedere che cosa succedeva. Quella sera, seduta sul letto, lo mandò più in alto che poté, riducendo l’immaginario gomitolo di spago nelle sue mani a poco più di una biglia e l’aquilone a un puntino colorato nel cielo, ma sentì solo il vento che lo sbatteva di qua e di là, forte e potente. Dopo cena le sorelle tornarono in salotto a guardare un programma in TV, un telefilm su un

ospedale che seguivano dal primo episodio, e Lacey accompagnò Amy di sopra per metterla a letto. Erano le otto. Di solito le suore andavano a dormire alle nove e si alzavano alle cinque per le devozioni del mattino, e Lacey pensava che quegli orari potessero andare bene anche per una bambina dell’età di Amy. Le fece fare il bagno, le lavò la testa con uno shampoo al lampone e le mise un bel po’ di balsamo per sbrogliare i nodi e pettinarla per bene finché i suoi capelli scuri non furono lisci e lucidi. A quel punto scese a portare i vestiti sporchi nella lavanderia. Quando tornò di sopra, Amy si era messa il pigiama che suor Claire le aveva comprato quel pomeriggio da Walmart, rosa con stelline, mezzelune e faccine sorridenti, di una stoffa che frusciava e brillava come seta. Entrando in camera, vide che la piccola si guardava le maniche con un’espressione sbalordita: erano troppo lunghe e la facevano sembrare un clown. Lacey le rimboccò sia quelle sia i pantaloni. Poi Amy si lavò i denti, rimise lo spazzolino nella custodia e si voltò a guardarla. «Dormo qui io?» Erano passate talmente tante ore dall’ultima volta che l’aveva sentita parlare che a Lacey venne il dubbio di non aver capito bene. La guardò negli occhi e si accorse che quella domanda così strana per la bambina aveva un senso. «Perché dovresti dormire nel bagno, Amy?» La piccola abbassò gli occhi. «La mamma dice che non devo far rumore.» Lacey non sapeva cosa pensare. «No, certo che no. Dormirai nella tua camera, che è vicino alla mia. Adesso te la mostro.» Era una stanza spoglia, pulita, con le pareti nude e un letto, un comò e uno scrittoio, senza neppure uno scendiletto. Lacey si dispiacque di non avere nulla con cui renderla un po’ più accogliente, un po’ più carina. Decise che l’indomani avrebbe chiesto a suor Arnette il permesso di comprare un tappeto da mettere vicino al letto, cosicché Amy non dovesse posare i piedi sulle assi fredde del pavimento, la mattina. Le rimboccò le coperte e si sedette sul bordo del materasso. Sentiva il mormorio della televisione al piano di sotto, il borbottare dei tubi nei muri, il vento che muoveva le foglie delle querce e degli aceri e il rombo sommesso del traffico su Poplar Avenue. Lo zoo era due isolati dietro il convento, in fondo al parco. Nelle notti d’estate, con le finestre aperte, a volte si sentivano le scimmie che gridavano nelle loro gabbie. Le era parso strano ma bellissimo sentirle così lontano da casa, però quando era andata allo zoo aveva scoperto che era un posto orribile, come una prigione: i recinti erano piccolissimi, i leoni erano chiusi dietro pareti di plexiglas e giraffe ed elefanti erano legati con le catene. Povere bestie, sembravano tutte così tristi. La maggioranza praticamente non si muoveva nemmeno e i visitatori facevano chiasso, disturbavano gli animali e lasciavano che i bambini tirassero popcorn attraverso le sbarre per farsi notare. Lacey l’aveva trovato insopportabile e se n’era andata di corsa, con le lacrime agli occhi. Le spezzava il cuore vedere creature di Dio trattate con tanta crudeltà e fredda indifferenza senza un motivo. Quella sera, però, seduta sul letto di Amy, pensò che forse alla bambina sarebbe piaciuto visitare lo zoo. Magari non c’era mai andata. Anche se non si poteva in alcun modo alleviare la sofferenza degli animali, andare allo zoo non era peccato. E comunque lo avrebbe fatto a fin di bene, per portare un po’ di gioia a una bambina che doveva averne sperimentato ben poca. Si ripropose di parlarne con suor Arnette l’indomani mattina, dopo averle chiesto il permesso di comprare il tappeto. «Eccoci qua» disse alla piccola sistemandole le coperte. Amy stava fermissima, come se avesse

paura a muoversi. «È tutto a posto e, se hai bisogno, io sono nella stanza accanto. Domani faremo qualcosa di divertente, vedrai. Io e te.» «Puoi lasciarmi la luce accesa?» Lacey le promise di non spegnerla, poi si chinò e le diede un bacio in fronte. Profumava di marmellata, per via dello shampoo. «Mi piacciono le tue sorelle» disse Amy. Lacey sorrise: nella confusione, non aveva pensato che la bambina potesse fraintenderla. «Sì. Sai, è difficile da spiegare, ma noi non siamo proprio sorelle sorelle, nel senso che intendi tu. Siamo sorelle, ma senza avere gli stessi genitori.» «E com’è possibile?» «Ci sono tanti modi di essere sorelle. Noi lo siamo nello spirito: siamo sorelle agli occhi di Dio.» Le diede un colpetto sulla mano. «Anche suor Arnette.» Amy fece una smorfia. «Perde subito la pazienza.» «Un po’, è fatta così. Ma anche lei è contenta che tu sia qui. Siamo tutte contente. Non ci rendevamo conto di cosa ci perdevamo finché non sei arrivata tu.» Le accarezzò la mano e si alzò. «Adesso basta parlare. Tu devi dormire.» «Prometto che non faccio rumore.» Sulla porta, Lacey si fermò. «Sta’ tranquilla. Anche se fai un po’ di rumore non importa.» Quella notte Lacey fece un sogno: era piccola e giocava nei campi dietro casa sua. Era accucciata sotto una palma bassa, tra le foglie che scendevano tutto intorno a lei come una tenda, sfiorandole le braccia e la faccia. Era insieme alle sue sorelle, che però a un certo punto correvano via. Dietro di loro sentiva arrivare degli uomini, intuiva oscure presenze. Udiva spari e sua madre che urlava: “Correte via, bambine! Scappate! Correte più forte che potete!”. Ma lei, Lacey, era impietrita dalla paura. Era come se si fosse trasformata in qualcos’altro, tipo un pezzo di legno, perché non riusciva a muovere un muscolo. Sentiva sparare e a ogni colpo vedeva un lampo di luce che squarciava la notte come una lama. In quei momenti scorgeva tutto quello che c’era intorno a lei: la casa, i campi e gli uomini che correvano di qua e di là; sembravano soldati, ma non avevano la divisa e avanzavano con i fucili imbracciati. Il mondo le appariva così, in una serie di inquadrature fisse. Le facevano paura, ma non riusciva a smettere di guardarle. Aveva gambe e piedi bagnati, però stranamente sentiva caldo: senza accorgersene, si era fatta la pipì addosso. Aveva nel naso e in bocca un odore aspro di fumo, di sudore e anche di qualcos’altro, che conosceva ma di cui non sapeva il nome. Era il sapore del sangue. C’era qualcosa, qualcuno, vicino: un uomo, il suo respiro rasposo, i suoi passi per terra, l’odore della sua paura e della rabbia che emanava da tutti i pori. “Non ti muovere, Lacey!” le diceva la voce, imperiosa e urgente. “Non ti muovere!” Lacey chiudeva gli occhi trattenendo il fiato; aveva il cuore che le batteva talmente forte che non udiva più nient’altro. L’ombra dell’uomo d’improvviso la copriva, le passava sopra la faccia e il corpo come un’enorme ala nera. Quando lei riapriva gli occhi, non c’era più e anche i campi erano vuoti. Lacey era di nuovo da sola. Si svegliò di soprassalto, terrorizzata. Non appena si rese conto di dov’era, il sogno si interruppe

e sparì in qualche buio recesso della sua anima. Le rimase per un istante la sensazione delle foglie di palma sulla pelle, un bisbigliare nelle orecchie, un odore come di sangue... Poi anche quella svanì. Ma si rese conto che nella sua cella c’era qualcuno. Si tirò su a sedere e vide Amy sulla porta. Guardò la sveglia: era mezzanotte; avevano dormito solo un paio d’ore. «Cosa c’è, piccola?» chiese sottovoce. «Stai bene?» La bambina entrò nella stanza, con il pigiamino che luccicava alla luce del lampione fuori dalla finestra: sembrava vestita di lune e di stelle. Lacey si chiese se fosse sonnambula. «Hai fatto un brutto sogno?» Amy non rispose. Lacey non riusciva a vederla in faccia: era troppo buio. Piangeva? Scostò le coperte per farle posto nel suo letto. «Vuoi venire a dormire qui?» le domandò. Senza una parola, Amy andò a coricarsi vicino a lei. Emanava un gran calore: non aveva la febbre, ma era più calda del normale. Sembrava un carbone ardente. «Non aver paura» la rassicurò Lacey. «Qui sei al sicuro.» «Voglio restare qui» disse la bambina. Lacey capì che non stava parlando della sua stanza o del suo letto, ma che voleva fermarsi a vivere con loro, nel convento. Non sapeva cosa rispondere. Entro lunedì avrebbe dovuto dire la verità a suor Arnette, non poteva fare diversamente. Che cosa sarebbe successo a quel punto? Non ne aveva idea. Ma in quel momento si rese conto che, mentendo, aveva unito il proprio destino a quello della bambina. «Vedremo.» «Non dirò niente a nessuno. Non lasciare che mi portino via.» Lacey ebbe un brivido di paura. «Chi, Amy? Chi potrebbe volerti portare via?» Amy non rispose. «Non ti preoccupare» ripeté Lacey abbracciandola. «Dormi. Dobbiamo riposare.» Ma restò sveglia per ore, con gli occhi spalancati nel buio. Erano le tre del mattino quando Wolgast e Doyle arrivarono a Baton Rouge e si diressero a nord, verso il confine con il Mississippi. Doyle aveva guidato da Houston fino a poco dopo Lafayette, mentre Wolgast aveva cercato di dormire. Poco dopo le due si erano fermati a una Waffle House per darsi il cambio. Da allora, Doyle non si era quasi mosso. Piovigginava appena, ma abbastanza da dover azionare il tergicristallo. A sud di dov’erano si estendeva il Federal Industrial District di New Orleans, che Wolgast era ben lieto di evitare. Il solo pensiero lo deprimeva. Era stato a New Orleans una volta, con alcuni compagni di università, in occasione del Carnevale, e aveva sentito il fascino della città, la sua

energia, la sua vitalità e tolleranza. Non aveva chiuso praticamente occhio per tre giorni, eppure non aveva sonno. Una mattina si era trovato al Preservation Hall che, a dispetto del suo nome, era poco più che una baracca, afosa e caldissima, a sentire un quartetto jazz che suonava St Louis Blues e si era reso conto di essere sveglio da quasi quarantott’ore. L’aria era densa come quella di una serra; tutti ballavano, si muovevano e battevano le mani a tempo di musica: una gran folla di gente di ogni colore ed età. Dove altro poteva capitarti di ascoltare sei neri di oltre ottant’anni che suonavano jazz alle cinque del mattino? Ma nel 2005 c’era stato Katrina e qualche anno dopo Vanessa, un uragano di categoria 5 con venti da trecento chilometri all’ora e un’onda di marea alta dieci metri, ed era stata la fine. Adesso restava soltanto una gigantesca raffineria petrolchimica circondata da acquitrini talmente inquinati che se ci mettevi dentro una mano ti veniva via la pelle. Nella città non viveva più nessuno e persino il cielo soprastante era off-limits, pattugliato da caccia della base aerea Keesler. La zona era recintata e sorvegliata da uomini del dipartimento della Sicurezza interna in tenuta da guerra; oltre il perimetro e nel raggio di quindici chilometri in tutte le direzioni, c’era il New Orleans Housing District, una distesa di roulotte che un tempo erano state usate per gli alluvionati e adesso ospitavano le migliaia di lavoratori che mandavano avanti giorno e notte il complesso industriale della città. Era una sorta di gigantesca baraccopoli, a metà fra un campo profughi e un avamposto di frontiera del vecchio West. Le forze dell’ordine sapevano che il tasso di criminalità là dentro era alle stelle ma, siccome ufficialmente non era una città e non faceva parte di alcuno Stato, quel dato non compariva da nessuna parte. Poco prima dell’alba giunsero in prossimità del posto di blocco sul confine del Mississippi, le cui luci brillavano nel crepuscolo. C’era la coda anche a quell’ora, formata prevalentemente da autocisterne dirette a nord, verso Saint Louis e Chicago. Lungo le file di camion passavano guardie con cani provviste di contatori geiger e lunghi specchi montati su pali. Wolgast si fermò dietro un autoarticolato con bandierine di Yosemite Sam e un adesivo sul parafango che diceva MIA MOGLIE MI MANCA, MA PURTROPPO LA SUA MIRA STA MIGLIORANDO. Dietro di lui, Doyle si stiracchiò e si fregò gli occhi, poi si tirò su a sedere e si guardò in giro. «Siamo arrivati, papà?» «Siamo fermi a un posto di blocco. Dormi ancora un po’.» Wolgast uscì dalla fila, si avvicinò a una guardia, abbassò il finestrino e le mostrò le credenziali. «Siamo agenti federali. Potete farci passare?» La guardia era giovanissima, con la faccia da bambino piena di foruncoli. Il giubbotto antiproiettile la ingoffiva, ma Wolgast calcolò che doveva essere un peso welter. Avrebbe dovuto essere a casa sua, pensò, sotto le coperte, a sognare la compagna di banco, invece che in mezzo a un’autostrada del Mississippi con quindici chili di Kevlar addosso e un fucile in mano. Il ragazzino guardò le credenziali con vago interesse, poi fece segno verso una palazzina di cemento sul bordo della strada. «Dovete fermarvi alla stazione, agente.» Wolgast sospirò, irritato. «Senti, figliolo, non ho tempo per queste cose.» «Se vuole superare la fila, deve passare alla stazione.» Un attimo dopo arrivò un’altra guardia, che si posizionò su un fianco e imbracciò il fucile. “Che cosa cazzo fai?” pensò Wolgast. «Scusate, è proprio necessario?» «Metta le mani dove le posso vedere!» urlò l’ultimo arrivato.

«Per l’amor del cielo!» fece Doyle. La prima guardia si voltò verso il collega e gli fece cenno di abbassare l’arma. «Tranquillo, Duane: sono federali.» Dopo un attimo di esitazione, l’altro se ne andò con una scrollata di spalle. «Scusate. Accostate pure. Vedrete che faranno presto.» «Speriamo» disse Wolgast. Nella stazione, un agente si fece consegnare le credenziali e disse loro di aspettare mentre telefonava per verificare gli identificativi. FBI, dipartimento della Sicurezza interna, polizia statale e municipale: il sistema adesso era centralizzato e controllava tutti i movimenti di tutti. Wolgast si versò una tazza di caffè torbido da una caraffa e, dopo averlo assaggiato, lo buttò nel bidone della spazzatura. Nonostante il cartello VIETATO FUMARE, l’aria puzzava di portacenere sporco. L’orologio sul muro segnava le sei passate: il sole sarebbe spuntato nel giro di un’ora. L’agente tornò al bancone con le loro credenziali. Era un tipo anonimo, asciutto, con la divisa grigia della Sicurezza interna. «Tutto a posto, signori. Potete proseguire. Una cosa soltanto: dal sistema risulta che ieri sera dovevate prendere un aereo per Denver. Probabilmente è un errore, ma io devo segnalarlo comunque.» «Effettivamente saremmo dovuti tornare a Denver» spiegò Wolgast «ma all’aeroporto abbiamo ricevuto l’ordine di andare a prendere un testimone federale a Nashville.» L’uomo rifletté un istante, poi annuì e digitò qualcosa nel suo computer. «Va bene. Peccato che non vi ci abbiano mandati in aereo. Saranno millecinquecento chilometri.» «Non me lo dica. Ma gli ordini sono ordini.» «Lo so.» Tornarono alla macchina e una guardia li fece passare. Pochi minuti dopo erano di nuovo in autostrada. «Nashville?» chiese Doyle. Wolgast fece cenno di sì con la testa guardando la strada. «Pensaci. Sulla I-55 ci sono posti di blocco in Arkansas e in Illinois, uno a sud di Saint Louis e uno a metà strada fra Normal e Chicago. Se pigli la 40 in direzione est e attraversi il Tennessee, il primo posto di blocco è dall’altra parte dello Stato, fra la I-40 e lo svincolo della 75. Ergo, questo è l’ultimo posto di blocco fra qui e Nashville. Dunque il sistema non saprà mai che non siamo andati a Nashville. Possiamo andare a Memphis, prendere quello che dobbiamo prendere, attraversare il confine per entrare in Arkansas, bypassare il posto di blocco dell’Oklahoma facendo il giro lungo intorno a Tulsa, immetterci nella 70 a nord di Wichita e vederci con Richards al confine con il Colorado. Un unico posto di blocco da qui a Telluride, e Sykes ci metterà una parola buona. Nessuno saprà mai che siamo andati a Memphis.» Doyle si accigliò. «E il ponte sulla 40?» «Lo eviteremo: non è difficile. Una settantina di chilometri a sud di Memphis c’è un ponte più vecchio che ti porta su una strada statale di là dal fiume, in Arkansas. I camion che vengono da New Orleans non ci possono passare, è solo per autovetture ed è quasi completamente

automatizzato. Lo scanner rileverà il nostro codice veicolo e le telecamere ci riprenderanno, ma quella è roba che si può sistemare in un secondo tempo, all’occorrenza. Da lì saliamo verso nord e prima di Little Rock prendiamo la I-40.» Proseguirono. Wolgast era tentato di accendere la radio e magari cercare le previsioni del tempo, ma poi rinunciò: era sveglio, nonostante l’ora, e non voleva distrarsi. Quando il cielo schiarì, diventando di un pallido grigio, erano a nord di Jackson, in linea con la tabella di marcia. Per un po’ aveva smesso di piovere, poi aveva ripreso. Il panorama era collinare, con alture morbide che sembravano onde in mare aperto. Wolgast continuava a pensare al messaggio di Sykes, che gli pareva di aver ricevuto giorni prima. “Femmina. Bianca. Nome: Amy. Cognome: NN. Zero impronte. 20323 Poplar Avenue, Memphis, Tennessee. Da prelevare entro sabato a mezzogiorno. Contatti: nessuno. VFDR. Sykes.” VFDR: viaggiare fuori dai radar. “Non dovete solo acchiappare un fantasma, agente: dovete essere invisibili come fantasmi.” «Vuoi che guidi un po’ io?» propose Doyle rompendo il silenzio. Wolgast capì dalla voce che stava pensando anche lui alla stessa cosa. Amy NN. Chi era costei? Scosse la testa. Le prime luci dell’alba si stendevano sul delta del Mississippi come una coperta fradicia di pioggia. Azionò il tergicristallo. «No, grazie» rispose. «Vado avanti ancora un po’.»

5 C’era qualcosa che non andava nel Soggetto Zero. Erano sei giorni che non usciva dall’angolo neppure per mangiare. Restava lì appeso, come un insetto gigantesco. Grey lo osservava agli infrarossi: un ammasso brillante nel buio. Ogni tanto cambiava posizione, si spostava di qualche centimetro a sinistra o a destra, tutto lì. E senza che Grey lo vedesse mai muoversi. Alzava un attimo la testa dal monitor, oppure usciva dall’area di contenimento per prendersi un caffè o fumarsi una sigaretta nel cucinino e, quando lo guardava di nuovo, si accorgeva che Zero era appeso da un’altra parte. Appeso? Oppure appiccicato? O addirittura sospeso? Nessuno gli aveva mai raccontato niente. Non una parola di spiegazione. Che cos’era Zero, tanto per cominciare. Il Soggetto Zero aveva cose che Grey avrebbe definito umane, per esempio due gambe e due braccia, una testa nel posto giusto, con occhi, orecchie e bocca. Aveva anche una sorta di arnese che penzolava in mezzo alle gambe, una specie di cavalluccio marino. Ma le somiglianze con un essere umano finivano lì. Per esempio, Zero brillava. Agli infrarossi tutte le fonti di calore brillano, certo, ma il Soggetto Zero sullo schermo era più luminoso di un cerino acceso; quasi ti faceva male agli occhi guardarlo. Persino la sua cacca brillava. E il corpo glabro, liscio e lucido come vetro sembrava... pronto a scattare come una molla. Era quella l’immagine che veniva in mente a Grey quando ci pensava, come se il Soggetto Zero fosse una molla racchiusa in un involucro di pelle. E aveva gli occhi arancioni come i segnali di pericolo in autostrada. Ma la cosa peggiore erano i denti. Ogni tanto l’audio gli mandava un ticchettio e Grey capiva che a Zero era caduto un dente sul cemento. Gliene cadevano mezza dozzina al giorno. Li buttavano nell’inceneritore, come tutto il resto. Uno dei suoi compiti era recuperarli. Gli facevano venire la pelle d’oca, perché erano lunghi e appuntiti come spadini da cocktail. I denti giusti per aprire un coniglio e svuotarlo in due secondi netti. Inoltre il Soggetto Zero era diverso dagli altri. Non era tanto una questione di aspetto: gli Incandescenti erano un branco di brutti bastardi e nei sei mesi in cui aveva lavorato al livello 4 Grey ci si era abituato. C’erano differenze, ovvio, e se guardavi attentamente le vedevi. Il Numero Sei era un po’ più basso degli altri, il Numero Nove era più attivo, il Numero Sette mangiava appeso a testa in giù e sporcava da far schifo, il Numero Uno parlava in continuazione, con quei versi bizzarri che facevano tutti, una specie di schiocco di gola che Grey non aveva mai sentito prima. No, non era niente di fisico a rendere Zero diverso. Era più che altro quello che ti comunicava. Grey non avrebbe saputo spiegarlo diversamente. Gli altri se ne fregavano di te che stavi di là dal vetro, si facevano i fatti loro come gli scimpanzé dello zoo. Zero no: lui ti guardava con attenzione. Quando si abbassavano le sbarre, rinchiudendo Zero nella parte posteriore della stanza, e Grey si infilava la tuta protettiva e passava oltre la chiusa d’aria per pulire il locale o portare dentro i conigli – e perché proprio conigli, poi? –, gli veniva immancabilmente la pelle d’oca, come se avesse le formiche addosso. Faceva quello che doveva senza alzare gli occhi da terra, il più in fretta possibile, e quando usciva e si recava nell’unità di decontaminazione era sempre sudato fradicio e con il fiatone. Anche in quel momento, con un vetro di separazione spesso cinque centimetri fra lui e Zero, che se ne stava appeso lì, di schiena, fosforescente, con le gambe larghe e i piedi ad artiglio, a Grey pareva di vedere la sua mente che aleggiava nel buio, come un’invisibile rete a strascico nelle profondità dell’oceano.

Eppure del lavoro Grey non poteva lamentarsi: ne aveva fatti di molto peggiori. In genere passava le otto ore del turno seduto lì a fare cruciverba, a controllare il monitor e a compilare il registro, specificando cosa Zero mangiava e cosa non mangiava, quanta cacca e quanta pipì faceva. Ogni cento ore di riprese di Zero che non faceva niente, poi, doveva eseguire un backup sul disco fisso. Chissà se gli altri mangiavano? Aveva pensato di chiederlo a uno dei tecnici. Forse si erano messi tutti d’accordo per fare lo sciopero della fame. Magari erano stufi di nutrirsi di conigli e volevano scoiattoli, oppure opossum o canguri. Sapendo come mangiavano gli Incandescenti, gli venne da ridere al pensiero. Grey si era azzardato a guardare una sola volta, e gli era bastato e avanzato. Da quel giorno praticamente era diventato vegetariano. Andava detto, però, che anche loro avevano delle regole riguardo al cibo. A cominciare dalla faccenda del decimo coniglio, per esempio. Chissà perché, tu gli davi dieci conigli e loro ne mangiavano soltanto nove; il decimo lo lasciavano lì, come se volessero tenerselo per dopo. Grey aveva avuto un cane che faceva così. L’aveva chiamato Orsobruno, senza un motivo particolare, visto che non assomigliava a un orso e non era nemmeno bruno. Era biondastro, con chiazze bianche sul petto e sul muso. Orsobruno mangiava mezza ciotola al mattino e l’altra mezza di notte. Grey di solito dormiva quando il cane decideva di andare in cucina a finire la pappa, verso le due o le tre del mattino. Il giorno dopo, quando si alzava, trovava la ciotola vuota al solito posto, vicino ai fornelli. Orsobruno era un bravo cane, il migliore che avesse mai avuto. Era passato un sacco di anni, da allora. A un certo punto era stato costretto a darlo via e probabilmente ormai era morto da un pezzo. Tutto il personale civile, gli inservienti e qualcuno dei tecnici alloggiavano insieme nella caserma in fondo alla zona militare. Le stanze non erano male, con doccia, TV via cavo e niente bollette da pagare alla fine del mese. Non si poteva uscire dal compound, faceva parte del contratto, ma a Grey non importava: aveva tutto ciò che gli serviva; la paga era buona, come ai tempi delle piattaforme petrolifere, e si accumulava in un conto offshore a suo nome. Non ci pagava su nemmeno le tasse, grazie a qualche strana agevolazione riservata ai civili assunti ai sensi del Federal Emergency Homeland Protection Act. Ancora un anno o due così e, se non avesse speso troppo in mensa, fra pasti e sigarette, avrebbe avuto a disposizione un bel gruzzoletto e avrebbe potuto dire “tanti saluti” a Zero e a tutto il resto. Gli altri inservienti erano gente per bene, ma lui preferiva starsene per conto suo. Alla sera si chiudeva in camera a guardare Travel Channel o National Geographic, per scegliere dove andarsene una volta finito quel lavoro. Per un po’ aveva pensato al Messico, perché supponeva ci fosse un sacco di spazio ora che metà della popolazione si era riversata negli Stati Uniti a chiedere l’elemosina nei parcheggi dei centri commerciali. La settimana prima, però, aveva seguito un programma sulla Polinesia francese, con il mare di un azzurro che mai aveva visto prima e le case su palafitte, e adesso era tentato di andare là. Aveva quarantasei anni e fumava come una ciminiera, quindi calcolava di potersene godere solo un’altra decina. Suo padre, anche lui fumatore incallito, aveva passato gli ultimi cinque anni della sua vita attaccato a un respiratore ed era rimasto definitivamente senza fiato un mese prima di compiere sessant’anni. Certo, uscire un po’ da quel buco, anche solo per cambiare aria, non gli sarebbe dispiaciuto. Sapeva che erano nel Colorado, ma non esattamente dove. L’aveva capito dalle targhe delle macchine e dal fatto che ogni tanto uno degli ufficiali o degli scienziati, che potevano andare e venire a piacimento, lasciava in giro una copia del “Denver Post”. Non doveva essere un gran segreto, perciò, checché ne dicesse Richards. Un giorno, dopo una nevicata abbondante, Grey era salito sul tetto con gli altri inservienti per spalar via la neve e oltre gli alberi aveva visto degli ski-lift, una seggiovia e gente che scendeva su un pendio bianco. Doveva trattarsi di una località

sciistica e non poteva essere a più di dieci chilometri da lì. Strano che, con una guerra in corso e il mondo messo male com’era, le persone andassero ancora a sciare. Grey non si era mai messo gli sci ai piedi, ma ad attirarlo erano i bar, i ristoranti, i bagni turchi e le saune che dovevano sorgere vicino a quegli ski-lift, la gente che beveva vino in calici dallo stelo lunghissimo. Li aveva visti su Travel Channel, lo sapeva. Era marzo, ancora inverno, e per terra c’era un sacco di neve, il che significava che al calar del sole la temperatura scendeva parecchio. Quella sera soffiava anche un vento forte e, tornando a piedi alla caserma con le mani in tasca e il colletto della giacca a vento tirato su, a Grey pareva che il gelo lo stesse prendendo a schiaffi. Ragione di più per pensare a Bora Bora e alle piccole palafitte sul mare. Al diavolo Zero e la sua disappetenza: che mangiasse o no, per lui non era un problema. Se gli avessero detto di servirgli uova in camicia su triangolini di pane tostato, lui l’avrebbe fatto. E avrebbe pure sorriso. Chissà quanto poteva costare una di quelle palafitte? Non avevi neanche bisogno dell’impianto idraulico: ti affacciavi alla ringhiera e la facevi lì, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Quando lavorava sulle piattaforme petrolifere nel golfo del Messico, faceva così, la mattina presto e la sera tardi, quando non c’era nessuno in giro. Bisognava stare attenti al vento, d’accordo, ma se soffiava da dietro pisciare da una piattaforma alta sessanta metri e guardare l’arco che precipitava nel blu era uno dei massimi piaceri della vita. Ti faceva sentire piccolo e grande al tempo stesso. Adesso l’industria petrolifera era sotto la protezione federale e quelli che Grey aveva conosciuto ai vecchi tempi erano tutti scomparsi. Dopo la storia di Minneapolis, le bombe al deposito di gasolio di Secaucus, l’attentato alla metropolitana di Los Angeles e tutto il resto, oltre ai fatti dell’Iran, dell’Iraq o cosa caspita era, l’economia si era inceppata come un ingranaggio pieno di sabbia. Fra le ginocchia doloranti, il fatto che fumava e i precedenti penali, non c’era verso che lo prendessero nella Sicurezza interna o da qualche altra parte. Era disoccupato da quasi un anno quando gli avevano telefonato. Lì per lì Grey aveva pensato che fosse un altro incarico su una piattaforma petrolifera, magari per conto di un fornitore straniero. Non gliel’avevano detto espressamente, ma gliel’avevano fatto capire, e lui era rimasto stupito quando si era presentato all’indirizzo che gli avevano dato e si era ritrovato in un negozio vuoto di un centro commerciale abbandonato vicino alla fiera di Dallas, con le vetrine imbiancate. In passato era stato una videoteca: si leggeva ancora il nome sull’insegna sopra la porta, MOVIE WORLD WEST. Il locale vicino era stato un ristorante cinese e quello a fianco una lavanderia a gettoni; il resto non si capiva. Grey c’era passato davanti con il pick-up un paio di volte, pensando di aver capito male l’indirizzo, riluttante all’idea di scendere nel caldo infernale per niente. C’erano quasi quaranta gradi, come sempre ad agosto nel Nord del Texas, ma non ti ci abituavi mai. L’aria era densa e puzzolente e il sole ti picchiava sulla testa come un martello. La porta era chiusa, ma c’era un citofono. Grey aveva suonato ed era rimasto ad aspettare. Era uscito dall’abitacolo climatizzato del pick-up da un minuto e già aveva gli aloni di sudore sotto le ascelle. Aveva sentito un tintinnare di chiavi dall’altra parte, poi la serratura che scattava. In fondo al negozio erano stati sistemati una piccola scrivania e degli schedari. C’erano ancora gli scaffali per i DVD e dal controsoffitto spuntavano grovigli di cavi e fili elettrici. Appoggiata alla parete in fondo c’era una sagoma di cartone a grandezza naturale, coperta di polvere, raffigurante un attore che Grey non riconobbe. Era nero, pelato, con occhiali scuri avvolgenti e bicipiti che sembravano tronchi d’albero. Grey non si ricordava neanche il film. Aveva riempito il modulo, ma l’uomo e la donna che stavano lì e scrivevano al computer non lo avevano nemmeno letto. Gli avevano chiesto un campione di urina e l’avevano sottoposto a un breve interrogatorio con il poligrafo, come facevano tutti. Grey aveva cercato di non sentirsi un

bugiardo anche se diceva la verità e quando, come previsto, gli avevano domandato del carcere a Beeville, aveva raccontato tutto quanto: non è proprio il caso di mentire se sei attaccato alla macchina della verità. E poi era tutto verbalizzato: bastava collegarsi al sito e si trovava ogni cosa, persino le foto. Comunque non era stato un problema. Quei due sembravano avere già un sacco di informazioni sul suo conto e gli avevano fatto domande soprattutto sulla vita privata, roba che se non la chiedi al diretto interessato non la puoi sapere. Aveva amici? (Praticamente nessuno.) Viveva solo? (Da sempre.) Aveva ancora parenti in vita? (Una zia, a Odessa, che non vedeva da vent’anni, e un paio di cugini dei quali non si ricordava nemmeno i nomi.) I suoi vicini di Allen, nel campo dove abitava sul caravan, com’erano? (Vicini?) E avanti di questo passo. A ogni risposta che dava, sembravano sempre più contenti. Facevano finta di niente, ma glielo si leggeva in faccia. Solo quando Grey aveva stabilito che non erano della polizia, si era reso conto di averlo pensato fino a quel momento. Due giorni dopo era su un aereo per Cheyenne. Non sapeva nemmeno come si chiamavano i due che gli avevano fatto il colloquio e non si ricordava che faccia avessero. Gli avevano spiegato che per un anno sarebbe dovuto restare sempre sul posto, avevano precisato le modalità di pagamento e gli avevano raccomandato di non dire a nessuno dove era diretto; anche se avesse voluto, non avrebbe potuto, visto che non lo sapeva. All’aeroporto di Cheyenne era andato a prenderlo un uomo in tuta da ginnastica nera, che in seguito aveva scoperto chiamarsi Richards. Era magro, alto meno di un metro e settanta e perennemente imbronciato. Lo aveva accompagnato fuori dell’aeroporto, dove c’era un furgone con altri due uomini in piedi che aspettavano. Dovevano essere arrivati su voli diversi. Richards aveva aperto la portiera e prelevato una borsa di stoffa delle dimensioni di una federa, che poi aveva spalancato davanti a loro. “Portafogli, cellulari, effetti personali, fotografie, tutto quello che ha una scritta sopra, compresa la penna che vi ha regalato la banca, va messo qui dentro” aveva ordinato. “Persino i biscottini cinesi della fortuna.” Dopo essersi vuotati le tasche, avevano caricato le sacche nel bagagliaio ed erano saliti dal portellone laterale. Grey si era accorto che i finestrini erano oscurati solo dopo che Richards li aveva chiusi dentro. Da fuori, quel veicolo sembrava un normalissimo furgone, ma all’interno era tutta un’altra storia: c’era un divisorio fra i posti davanti e il retro, che era di metallo, con sedili in finta pelle inchiavardati al fondo. Richards aveva dato loro il permesso di scambiarsi solo i nomi di battesimo. Gli altri due si chiamavano Jack e Sam ed erano talmente simili a lui che Grey aveva avuto l’impressione di guardarsi allo specchio: erano bianchi, di mezz’età, con i capelli corti, le mani arrossate e l’abbronzatura da muratore, quella che ti lascia il segno delle maniche. Il nome di Grey era Lawrence, ma nessuno lo chiamava così e gli aveva fatto una strana impressione presentarsi in quel modo. Stringendo la mano a Sam, si era sentito una persona diversa, come se a Dallas fosse salito sull’aereo un uomo e a Cheyenne ne fosse sceso un altro. Con i finestrini oscurati non si vedeva dove si andava e veniva un po’ di nausea. Per quanto ne sapeva Grey, stavano girando intorno all’aeroporto. Senza niente da fare o da vedere, si erano assopiti tutti quanti. Quando si era svegliato, Grey non sapeva che ore fossero. Gli scappava da morire la pipì. Erano gli ormoni. Si era alzato dal sedile e aveva bussato sul divisorio. “Scusi, dovrei scendere.” Richards aveva aperto lo sportello permettendo a Grey di vedere dal parabrezza. Il sole era tramontato e la strada, a due corsie, era scura e vuota. In lontananza si scorgeva una striscia

viola brillante, nel punto in cui finiva il cielo e cominciavano le montagne. “Mi scusi, ma devo pisciare” aveva spiegato Grey. Gli altri due nel retro si erano mossi. Richards si era chinato a prendere una bottiglia di plastica trasparente, con l’imboccatura grande, e gliel’aveva consegnata. “Vuole che la faccia qui dentro?” “Già.” Richards aveva richiuso lo sportello, senza aggiungere altro. Grey si era riseduto e aveva guardato la bottiglia. Era abbastanza grande, ma l’idea di tirarlo fuori davanti agli altri due gli faceva passare la voglia di pisciare. “Io quella non la uso” aveva detto Sam. Aveva gli occhi chiusi, le mani giunte sul grembo e la faccia assorta. “Piuttosto me la tengo.” Avevano proseguito ancora un po’. Grey cercava di distrarsi, di non pensare alla vescica che gli stava scoppiando, ma la situazione non faceva che peggiorare. Gli sembrava di avere un mare dentro. Avevano preso una buca e il mare era andato a sbattere contro una scogliera. Grey aveva emesso un gemito. “Mi ascolti!” aveva sbottato bussando di nuovo. “Scusi, ma è un’emergenza.” Richards aveva riaperto il pannello. “Cosa c’è adesso?” Grey aveva infilato la testa nell’apertura e abbassato la voce perché gli altri non sentissero. “Non ce la faccio, davvero. Non riesco a pisciare nella bottiglia. Si deve fermare un momento.” “Non può aspettare ancora un po’, perdio?” “No, sul serio. Non ce la faccio... Ho un problema medico.” Richards aveva sospirato, seccato. I loro occhi si erano incontrati nello specchietto retrovisore e Grey si era chiesto se l’altro sapesse. “Resti dove la posso vedere. E non si guardi intorno. Non sto scherzando.” Aveva accostato. Grey borbottava fra sé: “E dài, sbrigati...”. Poi il portellone si era aperto, lui era saltato giù ed era corso un po’ più in là, come se avesse una bomba a orologeria fra le gambe. Si era ritrovato in una specie di campo pieno d’erba. Uno spicchio di luna le conferiva un bagliore glaciale. Doveva allontanarsi un po’, aveva pensato, per poter stare tranquillo. Era arrivato a una recinzione e, nonostante le ginocchia malmesse e la vescica gonfia, l’aveva superata con un balzo. Aveva sentito Richards che gli urlava di fermarsi – “Dove cazzo vai, perdio?” – e poi che gridava anche agli altri due. L’erba alta e umida gli aderiva ai pantaloni e aveva già le scarpe bagnate. Aveva visto un puntino rosso muoversi nel campo davanti a lui, senza capire cosa fosse. Sentiva odore di mucche, ne percepiva la presenza lì intorno. Aveva paura che lo stessero guardando. Ma non ce la faceva più, doveva liberarsi. Fermandosi lì dov’era, si era abbassato la zip e aveva urinato con foga, con sollievo. Non era un bell’arco elegante, ma uno spruzzo violento degno di un idrante. Sembrava non finire più. Era una sensazione meravigliosa, come se gli avessero finalmente tolto un tappo. Quasi quasi era contento di avere aspettato tanto a lungo. Finalmente si era svuotato del tutto. Era rimasto un attimo fermo, con l’aria fresca della notte

sulla pelle nuda, invaso da una calma profonda, paradisiaca. Il campo si estendeva intorno a lui come un grande tappeto verde, con i grilli che cantavano. Si era acceso una Parliament, riempiendosi i polmoni di fumo, e aveva guardato l’orizzonte. Non aveva notato la luna, prima: spicchio di luce, unghia luminosa sopra le montagne. Il cielo era pieno di stelle. Si era voltato per tornare da dove era venuto. Scorgeva i fari del furgone sul ciglio della strada e Richards che aspettava, con la sua tuta da ginnastica e qualcosa di luminoso in mano. Era saltato oltre la recinzione in tempo per vedere che anche Jack stava tornando dal campo, poi aveva notato Sam che attraversava la strada. Erano arrivati al furgone tutti insieme. Richards era davanti ai fari, con le mani sui fianchi. Qualsiasi cosa avesse in mano fino a poco prima adesso era sparita. Grey aveva finito la sigaretta e buttato il mozzicone sull’asfalto. “Grazie. Non ce la facevo più.” “’Fanculo” aveva detto Richards. “Non hai capito un cazzo.” Jack e Sam guardavano per terra. Richards aveva fatto cenno con la testa di risalire nel furgone. “Forza, muovetevi. Non voglio più sentire una parola.” Si erano andati a sedere in silenzio, mogi. Richards aveva riacceso il motore ed era ripartito. Solo allora Grey aveva capito. Non aveva avuto nemmeno bisogno di guardare gli altri. Jack e Sam erano come lui. Anzi, forse qualcosina in più. Aveva capito anche cos’era l’oggetto che Richards aveva in mano poco prima e che adesso doveva essersi rimesso nella cintola o aver nascosto nel vano portaoggetti, quella lucina rossa che ballava sull’erba come una goccia di sangue. Un altro passo e Richards gli avrebbe sparato. Una volta al mese Grey faceva un’iniezione di Depo-Provera e tutte le mattine prendeva una pastiglia di spironolattone, a forma di stella. Erano sei anni e più che seguiva quella terapia: lo avevano fatto uscire a quella condizione. Non gli dispiaceva, per la verità. Gli crescevano meno peli, questo sì. Lo spironolattone era un antiandrogeno e gli aveva fatto rimpicciolire i testicoli. Da quando lo prendeva, poteva radersi anche ogni due o tre giorni e gli cresceva una barba meno ispida, come quando era ragazzo. Aveva la pelle più morbida, più liscia, nonostante il fumo. E, naturalmente, c’erano i benefici cosiddetti “psicologici”, come gli aveva spiegato lo psichiatra del carcere. Non aveva più gli impulsi di una volta, quelle sensazioni che lo rodevano per giorni, come se avesse inghiottito un pezzo di vetro. Dormiva come un sasso e non ricordava più i sogni. Qualsiasi cosa fosse stata a spingerlo a fermare il pick-up quel giorno, quindici anni prima – il giorno in cui tutto era cominciato –, adesso non c’era più. Quando ci ripensava, quando rifletteva su quel periodo e tutto ciò che era successo dopo, provava una sensazione spiacevole ma indistinta, come una foto sfocata. Era come star male perché piove: nessuno può farci niente. Il Depo-Provera, però, gli dava problemi alla vescica, perché era uno steroide. Quanto al fatto che non voleva farsi vedere, era anche per come era cambiato il suo modo di ragionare. Lo psichiatra lo aveva avvertito e in questo, come in tutto il resto, aveva avuto ragione. Gli inconvenienti non erano gravi, ma Grey doveva stare attento a evitare certe cose. I bambini, per esempio, motivo per cui era andato a lavorare così volentieri sulle piattaforme petrolifere. Le donne incinte. Le aree di servizio in autostrada. E queste erano cose che in televisione comparivano continuamente, in programmi che un tempo guardava senza problemi, non solo sexy, ma anche di sport, o nei telegiornali. Gli avevano vietato di avvicinarsi a più di duecento

metri da scuole e asili infantili, ma non gli pesava. Se poteva, evitava di prendere il pick-up fra le tre e le quattro del pomeriggio e faceva il giro lungo per non incontrare lo scuolabus. Persino il colore giallo adesso gli faceva schifo. Era strano, è vero, difficile da spiegare, ma di sicuro era meglio della prigione. Non solo: ora era molto più sereno di una volta, quando aveva sempre la sensazione di avere una bomba che stava per scoppiargli dentro. Se l’avesse potuto vedere il suo vecchio... A volte Grey ci pensava. Ora che prendeva quei farmaci, forse sarebbe anche riuscito a perdonarlo per quello che gli aveva fatto. Lo psichiatra del carcere, il dottor Wilder, gli aveva parlato parecchio del perdono. “Perdono” era una delle sue parole preferite, forse la numero uno. Il perdono, diceva Wilder, era il primo passo della lunga strada verso la guarigione. A volte era una strada, a volte una porta soltanto, ma dovevi varcarla per far pace con il passato e guardare in faccia il tuo demone, la parte “cattiva” di te, quella che stava dentro la tua parte “buona”. Wilder gesticolava molto, quando parlava, e tracciava immaginarie virgolette con le dita. Secondo Grey diceva un sacco di stronzate. Probabilmente le propinava a tutti, sempre le stesse. Ma in una cosa Grey doveva ammettere che Wilder aveva ragione: era vero che lui aveva una parte “cattiva” e in un certo periodo della sua vita quella parte “cattiva” aveva imperversato. Quindi ben vengano i farmaci. Tant’è che aveva intenzione di continuare a prenderli per tutta la vita, e non solo per i dieci anni imposti dal tribunale: Grey quella parte “cattiva” non la voleva proprio più vedere. Si trascinò verso la caserma sotto la neve e mangiò dei tacos in mensa prima di tornare nella sua stanza. Il martedì sera c’era il bingo, ma Grey non riusciva a entusiasmarsi più di tanto: aveva giocato un paio di volte e aveva sempre perso almeno venti dollari. Vincevano immancabilmente i militari, tanto che aveva il dubbio che fosse tutto truccato. E comunque era un gioco stupido, una scusa per fumare, tutto lì. E quello poteva farlo anche in camera sua, senza spendere un centesimo. Si sdraiò sul letto, con un paio di cuscini dietro la schiena e il portacenere sulla pancia, e accese il televisore. La maggior parte dei canali era oscurata: non si potevano vedere CNN, MSNBC, GOVTV, MTV e neppure E! Non che lui li avrebbe guardati, ormai. Lo schermo diventava azzurro anche quando veniva trasmessa la pubblicità e la visione riprendeva non appena ricominciava il programma. Fece un po’ di zapping finché trovò un programma interessante sull’invasione alleata della Francia, su War Network. A Grey la storia era sempre piaciuta e a scuola prendeva bei voti. Era bravo a ricordare date e nomi e, una volta memorizzati quelli, tutto il resto si incasellava facilmente. Coricato sul letto, con ancora indosso la tuta, Grey guardava la televisione e fumava. I soldati sbarcavano sulla spiaggia sparando e lanciando granate, cercando di evitare le cannonate, mentre alle loro spalle enormi bocche da fuoco tuonavano contro le scogliere della Francia occupata dai nazisti. “Quella sì che era una guerra” pensò Grey. Le inquadrature ballavano ed erano sfocate, ma a un certo punto vide distintamente un braccio – il braccio di un nazista – sbucare dalla fessura di un fortino che un americano aveva appena preso d’assalto con un lanciafiamme. Il braccio era tutto bruciato e fumava come un’ala di pollo lasciata troppo tempo sul barbecue. Il padre di Grey era stato due volte in Vietnam come paramedico: chissà cosa avrebbe detto di una cosa così. Grey a volte si dimenticava che suo padre aveva nozioni di medicina: quando lui era piccolo, non gli aveva mai nemmeno messo un cerotto su una sbucciatura. Fumò un’ultima Parliament e spense il televisore. Due giorni prima Jack e Sam se n’erano andati senza dire una parola a nessuno e Grey aveva accettato di fare un doppio turno. Perciò doveva tornare al livello 4 per le sei. Era un peccato che quei due avessero mollato così: se non restavi almeno un anno, perdevi tutti i soldi. Richards aveva fatto capire chiaramente che era una cosa gravissima e che, se qualcun altro aveva l’idea di andarsene, ci pensasse bene, ma proprio bene. Mentre lo diceva, li aveva guardati tutti quanti con l’aria incazzata del prof di ginnastica.

Aveva fatto quel bel discorsetto la mattina a colazione e Grey aveva tenuto gli occhi sul piatto per tutto il tempo. Gli affari di Jack e Sam non lo riguardavano e in ogni caso quella ramanzina non era diretta a lui, visto che non aveva intenzione di andare da nessuna parte e non era in confidenza con i fuggitivi. Sì, si erano parlati un po’, ma giusto per passare il tempo, nient’altro. E il fatto che se ne fossero andati significava che lui avrebbe potuto guadagnare di più. Un doppio turno voleva dire cinquecento extra; se in una settimana ne facevi tre, te ne davano altri cento di gratifica. Finché accumulava soldi e aumentavano gli zeri sul suo conto, lui era ben contento di stare dov’era. Si tolse la tuta e abbassò la luce. La neve batteva sul vetro producendo un rumore che sembrava sabbia in un sacchetto di carta e ogni venti secondi passava sulla tapparella il segnale luminoso del faro sul perimetro ovest. A volte i farmaci lo rendevano inquieto, oppure gli venivano i crampi alle gambe: in quei casi, Grey prendeva un paio di pastiglie di ibuprofene. A volte si svegliava di notte per fare pipì o fumare una sigaretta, ma in genere dormiva fino al mattino. Quella sera si ritrovò a pensare a Zero. Forse era a causa di quel braccio carbonizzato che aveva visto alla televisione, fatto sta che non riusciva a toglierselo dalla testa. Zero era un prigioniero. Vederlo mangiare ti dava il voltastomaco, con quei poveri conigli era un macello, ma alla fine mangiare bisogna e Zero invece digiunava. Se ne stava lì appeso come se dormisse, ma secondo Grey era sveglio. Il microchip che aveva nel collo inviava tutta una serie di dati alla console, alcuni comprensibili anche per Grey, altri no. Però lui ormai sapeva distinguere fra sonno e veglia. Il ritmo cardiaco era sempre lo stesso, 102 battiti al minuto, più o meno. I tecnici che entravano nella sala di controllo per leggere i dati non facevano commenti, si limitavano ad annuire e a prendere appunti sui loro palmari, ma 102 battiti al minuto per Grey voleva dire che Zero era sveglio. Anzi, sveglissimo. E comunque Grey lo sentiva che Zero era sveglio. “Ci risiamo” pensò. Non riusciva a scrollarsi quella strana sensazione che Zero... Era una follia, però... Grey non si intendeva di gatti, ma a quanto dicevano era un po’ la stessa cosa. Un gatto che dorme su uno scalino non dorme veramente: basta che arrivi un topo e subito scatta come una molla. Cosa stava aspettando Zero? Forse era solo stufo di mangiare conigli. Forse voleva una torta al cioccolato, un panino con il salame o un piatto di spaghetti. Per quel che ne sapeva Grey, Zero avrebbe mangiato perfino dei ciocchi di legno. Con quelle zanne, avrebbe potuto benissimo masticare qualsiasi cosa. Pensare ai denti di Zero gli fece venire i brividi e decise che, se voleva addormentarsi, doveva smettere di star lì a rimuginare. Era già mezzanotte: in men che non si dica sarebbero state le sei. Si alzò, prese un paio di pastiglie di ibuprofene, fumò una sigaretta e si svuotò di nuovo la vescica, tanto per stare tranquillo. Poi tornò a coricarsi. La luce del faro passò una volta, due, tre. Si sforzò di chiudere gli occhi e pensare alla scala mobile. Era un trucco che gli aveva insegnato Wilder. Secondo il medico, Grey era un soggetto “suggestionabile”, ovvero facile da ipnotizzare. Wilder usava la scala mobile: dovevi immaginare di essere su una scala mobile e di scendere lentamente. Non importava dove fosse: in un aeroporto, in un centro commerciale o altrove; infatti quella di Grey non era in nessun posto in particolare. L’importante era che fosse una scala mobile. Tu ci stavi sopra e scendevi, scendevi, scendevi verso una luce fredda e bluastra. A volte ne bastava una, altre volte invece dovevi prenderne tre o quattro. Quella sera una fu sufficiente. Sentiva il rumore degli ingranaggi, il corrimano di gomma liscio e fresco, e sapeva che in fondo c’era il blu: non dovevi neanche guardarlo, te lo sentivi dentro. Quando il blu ti riempiva e ti assorbiva, allora ti eri addormentato. “Grey.”

Era pieno di luce, ma non era luce blu: che strano! Era di un giallo arancione, calda, pulsante. Una parte del suo cervello diceva: “Stai dormendo, Grey. Dormi e sogni”. Ma un’altra, quella che era nel sogno, la ignorava. Grey si muoveva nella luce arancione, pulsante. “Grey. Sono qui.” La luce cambiava, diventava più gialla. Grey era in un fienile, in mezzo alla paglia. Era un sogno, ma era anche un ricordo, o forse no. Era coperto di paglia perché ci si era rotolato dentro. Ne aveva sulle braccia, sulla faccia e fra i capelli. C’era anche un altro ragazzo, suo cugino Roy, che non era veramente suo cugino, ma lui lo chiamava così; e anche lui era coperto di paglia e rideva. Si erano rotolati nel fieno, facendo la lotta o qualcosa del genere, ma a un certo punto era cambiato qualcosa, come quando una musica cambia ritmo. Grey sentiva l’odore del fieno, del proprio sudore e di quello di Roy, e tutti insieme quegli odori diventavano il profumo dei pomeriggi d’estate di quando era ragazzo. Roy diceva, sottovoce, che non c’era problema. “Togliti i jeans che me li tolgo anch’io, vedrai che non arriva nessuno. Fai come me, ti mostro io come si fa, è la sensazione più bella del mondo.” Grey si era inginocchiato vicino a lui, in mezzo al fieno. “Grey. Grey.” Roy aveva ragione: era davvero la sensazione più bella del mondo. Come arrampicarsi sulla corda durante la lezione di educazione fisica; anzi, meglio, come uno starnuto che comincia dal basso e poi sale, sale e ti attraversa tutto. Chiudeva gli occhi e lo lasciava salire. “Sì, Grey, sì. Vengo.” Ma con lui non c’era più Roy. Sentiva un rombo, dei passi sulla scala a pioli e la musica cambiava di nuovo. Vedeva Roy un’ultima volta, con la coda dell’occhio, ed era tutto bruciato, fumava. Suo padre aveva preso la cinghia, quella nera, pesante, non aveva neanche bisogno di vederla. Affondava la faccia nel fieno e la cinghia intanto lo frustava sulla schiena nuda una volta, due, tre. E poi lo colpiva qualcos’altro, che faceva ancora più male, lo lacerava dentro. “Ti piace, eh? È questo che ti piace, eh? Te lo faccio vedere io! Sta’ zitto e prendilo.” Quell’uomo... no, non era suo padre. Grey adesso se lo ricordava. Non era la cinghia che usava per fargli così male, e non era suo padre. Al suo posto a quel punto c’era un altro, un certo Kurt “che d’ora in avanti ti farà da padre”, e c’era un dolore lancinante, profondo, la sensazione che doveva aver provato suo padre sul sedile davanti del camion, la mattina della nevicata. Grey doveva avere sei anni, non di più. Una mattina si era svegliato prima di tutti gli altri e aveva visto questa luce strana nella stanza, impalpabile, tenue, e aveva capito subito cos’era stato a svegliarlo, aveva capito che durante la notte era nevicato. Si era alzato e aveva aperto le tende, abbagliato dalla liscia lucentezza del mondo. La neve! Non nevicava mai nel Texas. A volte ghiacciava, ma non era la stessa cosa. Lui non aveva mai visto la neve come si vede sui libri e alla TV, quella coltre bianca e bellissima su cui si può andare con la slitta e con gli sci, in cui ci si può sdraiare per disegnare cerchi con le braccia, con cui si possono costruire fortini e pupazzi. Gli si era allargato il cuore nel vederla lì, a portata di mano, nuova e piena di possibilità, un dono meraviglioso e improbabile che lo aspettava fuori dalla finestra. Aveva toccato il vetro e aveva sentito quanto era freddo, di un freddo tagliente, come una scossa elettrica. Si era vestito in fretta e furia e si era infilato un paio di scarpe da ginnastica senza nemmeno allacciarle, tanto era ansioso di uscire. Era sceso di sotto in punta di piedi. Era sabato mattina e la sera precedente i suoi avevano dato una festa con molti invitati, avevano parlato forte e

impestato l’aria di fumo di sigaretta. Quella mattina avrebbero dormito fino a tardi. Aveva aperto la porta ed era uscito sulla veranda. L’aria, fredda e ferma, aveva l’odore del bucato appena fatto. L’aveva respirata a pieni polmoni. “Grey. Guarda.” L’aveva visto subito, il camion di suo padre. Era parcheggiato come al solito, ma aveva qualcosa di diverso: una macchia rossa, come uno spruzzo fatto con la bomboletta, sul finestrino dalla parte del guidatore, che sembrava ancora più rossa e più scura per via della neve. Aveva cercato di capire. Forse era uno scherzo. Forse suo padre l’aveva fatta apposta per invitarlo a giocare, per dargli qualcosa di buffo e di strano da vedere appena alzato la mattina, prima che gli altri si svegliassero. Era sceso dalla veranda e aveva attraversato il giardino, con la neve che gli entrava nelle scarpe da ginnastica, tenendo gli occhi fissi sul camion perché quella macchia gli faceva paura. Forse non era stata la neve a svegliarlo, ma quella macchia. Il motore era acceso e dalla marmitta usciva una nuvoletta grigia che sporcava la neve. Il parabrezza era appannato, però lui vedeva la sagoma scura contro il finestrino, proprio dov’era la macchia rossa. Aveva le mani piccole e poca forza, eppure ce l’aveva fatta: aveva aperto la portiera. E, appena l’aveva fatto, suo padre era caduto nella neve. “Grey. Guarda. Guarda me.” Il corpo era caduto a faccia in su, con un occhio rivolto verso di lui, ma Grey si era accorto subito che non guardava da nessuna parte. L’altro occhio non c’era più. E mancava metà testa. Grey conosceva la morte: aveva visto opossum, procioni e anche cani e gatti morti, schiacciati sull’asfalto. Era la stessa cosa. E suo padre aveva ancora in mano la pistola, con il dito infilato nell’occhiello di metallo, come gli aveva mostrato che bisognava fare un giorno, in giardino. “Vedi? Vedi quant’è pesante? Non devi mai puntare una pistola contro nessuno.” C’era sangue dappertutto, e pezzi di carne e di roba bianca, una poltiglia sulla faccia di suo padre e anche sui vestiti, sul sedile e sulla portiera del camion. E aveva un odore particolare, così forte che gli era restato in bocca un sacco di tempo. “Grey. Grey. Sono qui.” La scena cambiava. Gli si muoveva tutto intorno, come se la terra si tendesse, si deformasse. La neve era diversa, cominciava a muoversi; poi, quando lui cercava di guardare meglio, si accorgeva che non era neve, erano conigli: migliaia di coniglietti bianchi, dal pelo lungo e soffice, vicini vicini, così attaccati l’uno all’altro che ci camminavi sopra. Il giardino era pieno di coniglietti bianchi. Si voltavano verso di lui con il loro musetto dolce e lo fissavano con gli occhietti scuri: lo conoscevano, sapevano cosa aveva fatto, non a Roy ma agli altri, ai bambini con lo zainetto che tornavano a casa dopo la scuola, da soli. E lì Grey capiva che in quella pozza di sangue non c’era suo padre, ma Zero. Zero era dappertutto, Zero era dentro di lui e si muoveva profondamente, lo dilaniava, svuotandolo, come faceva con i conigli. Grey apriva la bocca per gridare, ma non gli usciva suono. “Grey Grey Grey Grey Grey Grey Grey.” Nel suo ufficio al livello 2, Richards era seduto davanti al computer, immerso in un solitario. La partita numero 36.592 gli stava dando del filo da torcere, purtroppo. Era forse la decima volta che provava a concluderla, ma non riusciva a sistemare le carte nella maniera migliore, a spostare gli assi e a liberare gli otto rossi che gli servivano. Gli faceva tornare in mente la numero 14.712, in cui aveva avuto altrettante difficoltà con gli otto rossi e aveva impiegato

quasi un’intera giornata per arrivare alla fine. Vincere era sempre possibile, tuttavia: era questo il bello del gioco. Le carte venivano distribuite e, se facevi le mosse giuste, avevi la possibilità di riordinarle tutte per seme. Al clic della vittoria, le carte si incolonnavano come in una danza. Richards lo trovava bellissimo, tutte le volte. E meno male, visto che aveva ancora 91.048 partite da fare, compresa quella in corso. C’era un ragazzino di dodici anni di Seattle, nello Stato di Washington, che sosteneva di averle vinte tutte quante, nell’ordine, compresa la numero 64.523, la più difficile, in meno di quattro anni. Voleva dire che faceva ottantotto partite al giorno, tutti i giorni, inclusi Natale, Capodanno e il Quattro luglio. Considerando che ogni tanto non giocava, o perché aveva l’influenza o perché svolgeva qualche attività consona ai suoi dodici anni, molto probabilmente faceva una media di cento partite al giorno. Richards, sinceramente, non vedeva come fosse possibile. Quel ragazzo non andava a scuola? Non faceva i compiti? Non dormiva? Il suo ufficio, come tutti gli spazi sotterranei della zona militare, era un parallelepipedo climatizzato e illuminato con lampade al neon. Persino la luce sembrava filtrata e riciclata. Erano le due e mezzo del mattino, ma Richards dormiva meno di quattro ore per notte da anni e quindi non ci badava. Sul muro sopra la sua postazione di lavoro era allineata una trentina di monitor che trasmetteva immagini da tutti gli angoli del compound: dalle guardie al cancello che battevano i denti per il freddo alla mensa vuota, con i suoi tavoli deserti e i distributori di bevande in stand-by, all’area di contenimento due piani più in basso, con i suoi ospiti incandescenti e infetti. Le telecamere riprendevano anche le batterie nucleari ancora più in basso, che alimentavano tutti gli impianti del compound e avevano un’autonomia di un centinaio di anni. Richards amava avere tutto sotto controllo e leggeva i monitor come leggeva le carte del suo solitario. Aspettava una consegna fra le cinque e le sei del mattino, per cui ormai non valeva nemmeno la pena che andasse a coricarsi. La procedura di ammissione dei soggetti richiedeva al massimo un paio d’ore: se necessario avrebbe schiacciato un pisolino in ufficio a cose fatte. Guardò lo schermo e trovò la soluzione. Era lì, sotto il sei: la regina nera che gli serviva per muovere il jack e liberare il due eccetera eccetera. Un paio di clic e la partita si concluse, facendo danzare le carte come dita di un pianista sui tasti. UN’ALTRA PARTITA? Certo che sì. Perché il gioco era la cosa più naturale del mondo, come la guerra. Era così da sempre. E se non ci fossero state guerre al mondo, che cosa avrebbe fatto uno come Richards? Gli ultimi vent’anni gli era andata bene, le carte gli erano state favorevoli. Sarajevo, Albania, Cecenia, Afghanistan, Iraq, Iran, Siria, Pakistan, Sierra Leone, Ciad. E poi Filippine, Indonesia, Nicaragua e Perù. Ricordava ancora il giorno – glorioso e terribile al tempo stesso – in cui le Torri Gemelle erano state abbattute dagli aerei e il loro crollo era stato trasmesso in continuazione dalle televisioni di tutto il mondo. Le palle di fuoco, i corpi che precipitavano, tonnellate di acciaio e cemento liquefatti, nuvole di polvere sempre più alte: il filmato shock del nuovo millennio, tragico reality a disposizione del pubblico ventiquattr’ore su ventiquattro. Richards era a Giacarta, quell’11 settembre, non ricordava neanche perché. Gli era sembrato giusto, se l’era sentito nelle ossa. Era giusto, assolutamente giusto. Bisognava pur dare qualcosa da fare ai militari, perché altrimenti si sarebbero sparati l’uno con l’altro, ma da allora in poi era cambiato tutto. La

guerra, quella vera, quella che andava avanti da un migliaio di anni e sarebbe continuata per migliaia di migliaia, quella fra Noi e Loro, fra i Ricchi e i Poveri, fra i nostri dèi e i vostri, chiunque voi siate, sarebbe stata combattuta da gente come lui, uomini con una faccia che non si nota e non si ricorda, vestiti da fattorini, tassisti e postini, ma con il silenziatore nella manica. Quella guerra sarebbe stata combattuta da giovani madri con cinque chili di esplosivo nel passeggino e da scolarette che salgono sulla metropolitana con il Sarin nello zainetto di Hello Kitty. Non più campi di battaglia, ma pianali di camion, camere d’albergo e grotte in montagne desolate, marciapiedi di stazioni ferroviarie e navi da crociera, centri commerciali, cinema e moschee, campagna e città, notte e giorno. Avrebbero combattuto nel nome di Allah e del nazionalismo curdo, degli Ebrei per Gesù e dei New York Yankees – gli argomenti non erano cambiati e non sarebbe mai successo: alla fine, tolte tutte le stronzate, era sempre questione di utili di bilancio e posti nei consigli di amministrazione –, ma ormai la guerra era dappertutto, con metastasi in ogni parte del pianeta, cellule impazzite ovunque. Ormai la guerra coinvolgeva tutti. Perciò il Progetto Noah aveva un senso, all’inizio. Richards ci lavorava fin dal principio, dal primo comunicato che aveva ricevuto da quella buon’anima di Cole, la merdaccia. Sapeva che c’era in ballo qualcosa di importante quando Cole era andato a trovarlo ad Ankara cinque anni prima. L’aveva aspettato seduto a un tavolo vicino alla finestra e l’aveva visto entrare con la ventiquattrore in mano, in cui probabilmente c’erano solo il cellulare e il passaporto diplomatico. Indossava una camicia hawaiana e un completo beige, e sembrava uscito da un romanzo di Graham Greene. A ripensarci, gli scappava ancora da ridere. Avevano ordinato un caffè e Cole aveva incominciato a spiegare la faccenda, emozionato. Cole veniva da una cittadina della Georgia, ma anni di Andover e Princeton gli avevano fatto venire un accento a metà fra Bobby Kennedy e Robert E. Lee. Sorriso smagliante, da Ivy League, non un dente storto, un bianco splendente da far luce. Era cominciata così: “Pensa alla bomba atomica, pensa a come ha cambiato le cose per il solo fatto che noi l’avevamo e gli altri no. Finché non se la sono procurata anche i russi nel ’49, il mondo era in mano nostra. Per quattro anni l’America ha potuto fare quello che voleva. Pax americana, e tanti saluti. Ormai ce l’hanno tutti, ormai almeno un centinaio di vecchie testate sovietiche gira per il mercato libero... che noi sappiamo, ma ce ne saranno molte di più... e Pakistan e India hanno rotto i coglioni. Grazie a voi, ragazzi, incenerire centomila persone per una cazzata è diventata la normalità per il vicesottosegretario dell’Antiterrorismo”. E intanto che parlava, Cole beveva il caffè. “Questa cosa, però, non la può fare nessun altro” diceva. Era il nuovo Progetto Manhattan, anzi, di più. Cole non poteva entrare nei dettagli, ovviamente, “ma tanto per darti un’idea, pensa al corpo umano trasformato in arma”. A quel punto l’American way sarebbe andata avanti per un bel po’. Forse per sempre. Per questo Cole si era rivolto a Richards: aveva bisogno di uno come lui, uno un po’ fuori dal gioco, e non solo. Un uomo pratico, pragmatico, capace di gestire la gente. Non subito, forse, ma nei mesi a venire, quando avrebbero messo insieme i pezzi. La sicurezza era importantissima, la priorità assoluta. Ecco perché era andato fin lì con quella camicia ridicola, per il buy-in, per accaparrarsi il pezzo mancante. Se le cose fossero andate come previsto, sarebbe stato perfetto. Invece no, proprio per niente. A cominciare dal fatto che Cole era morto. Non solo lui, per la verità. E alcuni... be’, era difficile definire il loro stato. Solo tre persone erano uscite vive dalla giungla, senza contare Fanning che stava già diventando... come dire? Più di quello che Cole si aspettava, certamente. Forse qualcun altro sarebbe potuto sopravvivere, ma l’ordine dei reparti scelti era stato chiaro: chiunque non si fosse presentato all’appello sarebbe stato ridotto in cenere. E infatti da dietro le montagne era arrivato il missile. Richards si chiedeva che cosa avrebbe detto Cole se avesse

saputo che non ne sarebbe uscito vivo nemmeno lui. Solo a quel punto Richards aveva saputo di cosa si trattava; quando Fanning era stato rinchiuso, Lear era nel Colorado e di quello che era successo in Sudamerica era stata cancellata ogni traccia. VSA, Very Slow Aging, ovvero “invecchiamento rallentato”. Richards aveva sempre pensato che fosse un acronimo cretino, una Very Stupid Abbreviation. Un virus, o meglio una famiglia di virus, latente nel mondo, negli uccelli, nelle scimmie o sui sedili sporchi delle toilette. Un virus che, con le dovute migliorie, poteva ripristinare la funzionalità del timo. Richards aveva letto i primi articoli di Lear, quelli che avevano attirato l’attenzione di Cole, pubblicati uno su “Science” e l’altro sul “Journal of Paleovirology”, in cui lo scienziato ipotizzava l’esistenza di “un agente capace di allungare in misura significativa la vita dell’uomo e di aumentare le resistenze dell’organismo, come già avvenuto in passato”. Richards non aveva bisogno di un dottorato di ricerca in microbiologia per sapere che era roba rischiosa; roba vampiresca, anche se “vampiro” era una parola che nei reparti scelti non usava nessuno. Se a scrivere certe cose non fosse stato uno scienziato della levatura di Lear, microbiologo di Harvard, sarebbe suonata come una notizia del “Weekly World News”. Ma qualcosa di inquietante c’era. Richards aveva letto una serie di racconti e romanzi, non solo i fumetti tipo Zio Tibia e La casa dei vampiri: aveva letto proprio Bram Stoker e aveva pure visto i film. Fin dal principio aveva colto le ingenuità, il lato erotico, eppure non c’erano delle somiglianze, degli echi? I denti, la sete di sangue, l’unione immortale con le tenebre... E se non fossero state fantasie, ma ricordi o immagini, sensazioni impresse da millenni nel DNA, risonanze di un oscuro potere dell’animale uomo? E se fosse stato possibile riattivare, perfezionare, imbrigliare questo potere e sfruttarlo? Lear ne era convinto, Cole anche. Per questo erano andati nella giungla della Bolivia a cercare un gruppo di turisti scomparsi. Avevano scoperto che non erano morti, anzi, erano non morti: a Richards la definizione non piaceva, ma non riusciva a trovarne una migliore. Perché alla fine “non morte” era la descrizione più calzante dell’anomalia che aveva ucciso – o, più precisamente, smembrato – ciò che restava del gruppo di ricercatori. Tutti fuorché Lear, Fanning, uno dei soldati e un giovane neolaureato che si chiamava Fortes. Se non fosse stato per Fanning, il bilancio della spedizione sarebbe stato totalmente fallimentare. Lear ispirava sentimenti di pena, di pietà. Forse era ancora convinto di salvare il mondo, ma aveva venduto il suo sogno non appena aveva accettato il sostegno di Cole e dei reparti scelti. Era difficile sapere di cosa fosse convinto, ormai, visto che non usciva più dal livello 4, mangiava e dormiva in laboratorio e non vedeva il sole da un anno a quella parte. All’inizio Richards aveva scavato un po’ ed era riuscito a scoprire parecchie cose interessanti. La prova A era il necrologio della moglie di Lear sul “Boston Globe”, datato sei mesi prima della visita di Cole ad Ankara, un anno prima del fiasco boliviano. Elizabeth Macomb Lear, quarantun anni, laurea allo Smith College, Master of Arts a Berkeley, dottorato di ricerca alla University of Chicago, docente di inglese al Boston College, redattrice del “Renaissance Quarterly”, autrice di Shakespeare’s Monsters: Bestial Transformation and the Early Modern Moment, Cambridge University Press, 2009. Una lunga battaglia contro un linfoma eccetera eccetera. C’era anche una foto. Richards non l’avrebbe definita una bellezza, ma non era nemmeno brutta, anche se un po’ troppo magra. Una donna seria, con idee serie. Per fortuna non aveva figli. Probabilmente a causa della radioterapia e della chemio. Dunque alla fine a questo si riduceva: quanto del Progetto Noah dipendeva dal lutto di quell’uomo che ormai non usciva più dal sotterraneo, dal suo desiderio di rimediare alla morte della moglie? Cinque anni e chissà quante centinaia di milioni di dollari dopo, i risultati di quell’impresa

straordinaria ammontavano alla morte di circa trecento scimmie, innumerevoli cani e porci e cinque o sei senzatetto, più la trasformazione di undici condannati a morte in mostri fosforescenti che facevano paura a chiunque li vedeva. Come le scimmie, i primi soggetti umani erano morti nel giro di poche ore in seguito a febbri altissime ed emorragie interne. Il primo ex detenuto del braccio della morte, Babcock, era sopravvissuto. Giles Babcock, uno psicopatico come pochi al mondo, che al livello 4 tutti chiamavano “il Chiacchierone”, perché non stava zitto nemmeno mezzo secondo, né prima né dopo. Poi erano sopravvissuti Morrison, Chávez, Baffes e gli altri, perché il virus era stato attenuato sempre di più e l’organismo dei condannati riusciva a combatterlo. Dunque il risultato era undici vampiri – perché non chiamarli così? – che non servivano a niente e a nessuno, almeno che Richards sapesse. Sykes aveva confessato di non essere certissimo di poterli uccidere, se non sparando loro con un lanciarazzi in gola. VSA: “Vampiri, State Attenti!”. Il virus aveva trasformato la pelle dei soggetti in una specie di esoscheletro a base proteica, talmente resistente da far sembrare il Kevlar pastella per pancake, con un unico punto debole di una ventina di centimetri quadrati in corrispondenza dello sterno. Anche quella era una teoria, però. Inoltre gli Incandescenti erano contagiosi. Sei mesi prima uno dei tecnici si era ammalato, nessuno sapeva come. Fino a un attimo prima stava bene, ma appena entrato nella camera di decontaminazione aveva cominciato a vomitare, aveva avuto una crisi epilettica e, se Richards non l’avesse visto sul monitor e non avesse isolato immediatamente il livello, chissà cosa sarebbe successo. Per fortuna invece l’accesso era stato bloccato e, dopo che il tecnico era morto, tutto era stato disinfettato. Si chiamava Samuels, gli pareva, o forse Samuelson. Poco importava il nome, comunque. Al termine di una quarantena di settantadue ore, quando tutti gli inservienti erano risultati sieronegativi, Richards aveva fatto riaprire il livello. Non dubitava nemmeno per un secondo che avrebbe staccato la spina se fosse toccato a lui. Si chiamava Protocollo Elizabeth. Chi l’aveva battezzato così forse voleva fare una battuta. Richards non aveva dubbi su chi era stato. C’era lo zampino di Cole, del Cole di un tempo, visto che adesso non c’era più. Sotto quella facciata da country club, aveva sempre battuto un cuore machiavellico. Elizabeth... solo Cole avrebbe potuto dargli il nome della defunta moglie di Lear. Richards se lo sentiva: stavano andando alla deriva. Parte del problema era la noia: non si possono relegare ottanta uomini ai piedi di un monte, senza niente da fare a parte contare pelli di coniglio, e chiedergli di starsene bravi e zitti per l’eternità. E poi c’erano i sogni... Anche lui li faceva, o comunque pensava di farli. Non se li ricordava mai, ma spesso si svegliava con la sensazione che durante la notte fosse successo qualcosa di strano, o di essere appena tornato da un viaggio imprevisto. Doveva essere stato lo stesso anche per i due inservienti che avevano cercato di fuggire. Ricorrere a castrati era stata un’idea sua e per un po’ aveva funzionato: erano docili, sereni e pacifici come Buddha e alla fine della fiera nessuno sentiva la loro mancanza. Gli inservienti, Jack e Sam, erano scappati dal compound nascondendosi in due sacchi della spazzatura. Quando Richards li aveva rintracciati, la mattina dopo, rintanati in un Red Roof sull’interstatale a una trentina di chilometri di distanza, che aspettavano solo di farsi beccare, gli avevano detto che erano stati i sogni a farli uscire di testa. La luce arancione, i denti, le voci che li chiamavano nel vento. Non ce la facevano più: stavano impazzendo. Lui era rimasto ad ascoltarli per un po’: due uomini condannati per abusi sessuali, con i testicoli grossi come acini d’uva e la pelle liscia come il cachemire, che si soffiavano il naso nelle mani e piagnucolavano come marmocchi. Commovente, per certi versi, ma dopo un po’ chiunque si sarebbe stufato. “Adesso basta, ragazzi” aveva detto Richards. “Non vi preoccupate: nessuno è

arrabbiato con voi.” Li aveva portati in un bel posto sul fiume in modo che potessero vedere un’ultima volta quello a cui stavano dicendo addio e gli aveva sparato in fronte. Adesso Lear voleva una bambina. Persino Richards ci aveva dovuto riflettere un po’. Un conto era prendere barboni alcolizzati e condannati a morte – esseri umani riciclabili, almeno per Richards –, ma un bambino? Sykes aveva spiegato che era indispensabile per via del timo. La ghiandola timica di un soggetto molto giovane combatte meglio il virus e può riuscire a indurre una sorta di stasi nell’attività virale. Era a questo che Lear stava lavorando: ottenere i benefici senza avere spiacevoli effetti collaterali. Spiacevoli effetti collaterali? Richards si era concesso una risata. Occorreva tener conto che gli Incandescenti nella loro vita precedente erano uomini come Babcock, gente capace di tagliare la gola alla madre per i soldi del tram, diceva Lear. Forse influiva anche questo, perciò Lear voleva avere a disposizione una tabula rasa, un cervello ancora scevro da scempiaggini e crudeltà. Richards aveva pensato che prima o poi gli avrebbero chiesto un neonato. Ma alla fine aveva trovato quello che serviva. Dopo qualche settimana di ricerche, aveva finalmente individuato il soggetto giusto: bianca, sei anni, abbandonata in un convento di Memphis da una madre che probabilmente preferiva drogarsi che star dietro alla figlia. “Zero impronte” aveva detto Sykes. Questa bambina di sei anni, senza nome, poteva scomparire senza lasciare la minima traccia. Il lunedì, però, sarebbe stata affidata ai servizi sociali e a quel punto non se ne sarebbe più potuto fare niente. Avevano quarantotto ore per prelevarla, sempre che la madre non tornasse a riprendersela come una valigia. Quanto alle suore, be’, Wolgast avrebbe trovato il modo di gestire la situazione: sarebbe riuscito a vendere lampade ai raggi ultravioletti in un reparto oncologico. Si era già dimostrato più che capace. Richards staccò lo sguardo dal computer e osservò i monitor. I bambini erano tutti a letto. Babcock parlottava come suo solito: muoveva la gola come un rospo. Richards attivò l’audio e ascoltò un momento i versi che emetteva chiedendosi per l’ennesima volta se avessero un significato. Magari stava chiedendo di uscire, o altri conigli da mangiare, oppure lo stava minacciando di morte. Richards parlava una dozzina di lingue: le solite europee, più turco, farsi, arabo, russo, tagalog, hindi e persino un po’ di swahili. A volte, sentendo Babcock, aveva la netta sensazione che pronunciasse parole di senso compiuto, spezzettate e ricomposte a caso, che lui non capiva solo perché non aveva l’orecchio allenato a decifrarle. In quel momento, tuttavia, gli parve che blaterasse a vanvera. «Non riesci a dormire?» Richards si voltò e vide Sykes sulla soglia, con una tazza di caffè in mano. Indossava la divisa, ma aveva la cravatta allentata e la giacca sbottonata. Si passò una mano tra i capelli radi, prese una sedia e si sedette al contrario, con la spalliera davanti, di fronte a Richards. «Neanch’io» aggiunse. Richards fu tentato di chiedergli dei sogni, ma evitò. Era una domanda inutile: glielo leggeva negli occhi. «Dormo poco» disse. «Ah, be’» replicò Sykes con un’alzata di spalle. «Certo.» Visto che Richards taceva, con un cenno del capo indicò i monitor. «Tutto tranquillo di sotto?» Richards fece cenno di sì con la testa. «Nessun altro è andato a fare una passeggiata al chiaro di luna?»

Si riferiva a Jack e Sam. Sykes non era mai sarcastico, ma evidentemente era arrabbiato. Si erano nascosti in due sacchi della spazzatura, perdio! Le guardie avrebbero dovuto controllare tutto quello che entrava e usciva dal compound, ma erano ragazzi giovani, soldati di leva. Si comportavano come se fossero ancora alle superiori, non sapevano fare di meglio. Bisognava guidarli, dirgli cosa fare, e ultimamente Richards era stato poco attento. «Ho fatto un discorsetto all’agente di guardia. Credo che non se lo dimenticherà più.» «Puoi spiegarmi che fine hanno fatto i due fuggiaschi?» Richards non aveva niente da dire al riguardo. Sykes aveva bisogno di lui, ma non lo trovava per niente simpatico e non approvava quello che faceva. Si alzò e si avvicinò ai monitor, regolando quello su cui si vedeva Zero. «Erano amici, sai» continuò «Lear e Fanning.» Richards annuì. «Sì, me l’hanno detto.» «Eh, già.» Sykes fece un respiro profondo, con gli occhi sempre fissi sul monitor. «Non è il modo di trattare gli amici.» Poi si voltò verso Richards, che era rimasto seduto davanti al computer. Sembrava non si rasasse da giorni e aveva lo sguardo appannato. Per un attimo, parve sperso, disorientato. «E noi?» gli chiese. «Siamo amici, noi?» Richards rimase sorpreso: Sykes doveva fare sogni ancora peggiori di quello che pensava. Chi se ne fregava se erano amici o no... «Sì, certo» rispose sorridendo. «Siamo amici.» Sykes lo guardò ancora un attimo. «A ben pensarci, non mi sembra una buona idea.» Fece un gesto, come per cancellarla. «Grazie comunque.» Richards intuì che Sykes era turbato dal pensiero della bambina. Aveva due figli maschi, ormai grandi. Avevano frequentato entrambi l’accademia di West Point come il papà e adesso uno era al Pentagono, dove si occupava di spionaggio, e l’altro in un’unità corazzata nel deserto dell’Arabia Saudita. Forse avevano dei figli a loro volta. Richards aveva l’impressione che Sykes gli avesse detto di essere nonno, anche se in genere non parlavano di quelle cose. In ogni caso era chiaro che la storia della bambina non gli garbava. A Richards, per la verità, non fregava niente di Lear. «Dovresti riposarti un po’» disse. Guardò l’orologio. «Fra tre ore abbiamo una consegna.» «Tanto vale aspettarla alzati» ribatté Sykes andando verso la porta. Prima di uscire, si fermò e guardò Richards. «Detto fra noi, e solo se hai voglia di parlarmene: come hai fatto a farlo arrivare così velocemente?» Richards fece spallucce. «Non è stato difficile. L’ho imbarcato su un mezzo per il trasporto truppe proveniente da Waco. Sono riservisti, ma vale come corridoio federale. Sono atterrati a Denver poco dopo mezzanotte.» Sykes aggrottò la fronte. «Anche se è un corridoio federale, mi sembra che ci abbia messo troppo poco tempo. Perché tutta questa fretta, secondo te?» Richards non lo sapeva con certezza: l’ordine arrivava dal referente nei reparti scelti, ma probabilmente all’origine della richiesta c’erano uno scienziato pazzo che non usciva dal proprio laboratorio da mesi, i sogni strani, il Red Roof e tutto il resto. A ben guardare – e Richards aveva smesso di guardare bene da un pezzo – all’origine di tutto quanto molto probabilmente c’era

una ricercatrice graziosa ma dall’aria molto seria che si chiamava Elizabeth Macomb Lear, che aveva a lungo combattuto con un cancro eccetera eccetera. «Ho chiesto a Langley di intervenire e far sparire ogni cosa. Dalla A alla Z, in tutto il sistema. Carter ormai non è più nessuno. Volesse comprarsi un pacchetto di chewing-gum, non potrebbe più.» Sykes si rabbuiò. «Nessuno non è più nessuno. Qualcuno interessato c’è sempre.» «Può darsi. Questo qui, comunque, c’è vicino.» Sykes indugiò ancora un momento sulla porta, senza dire niente. Sapevano entrambi a cosa era dovuto quel silenzio. «Be’» concluse «non mi piace lo stesso. Se esiste un protocollo, un motivo c’è. Tre carceri, trenta giorni e dopo si arriva qui.» «È un ordine?» Richards scherzava: Sykes non era in condizioni di dargli ordini. Era una finta. «No, figurati» rispose Sykes. Sbadigliò coprendosi la bocca con il dorso della mano. «Mica possiamo rimandarlo indietro...» Fece segno di bussare alla porta. «Chiamami quando arriva il furgone. Sarò di sopra, sveglio.» Strano: quando Sykes se ne andò, Richards si sentì dispiaciuto che non fosse rimasto. Forse erano davvero amici, in un certo senso. Richards aveva già fatto lavori brutti, sapeva che c’era un momento in cui cambiava la musica, il latte lasciato fuori del frigo cominciava a irrancidire e ti ritrovavi a parlare come se ormai non importasse più niente, come se i giochi fossero fatti. E a quel punto cominciavi ad affezionarti alla gente, ed era un problema. Andava tutto a rotoli molto in fretta, da lì in poi. Carter non aveva niente di particolare: era un condannato a morte che aveva come unica merce di scambio la propria vita, come tutti gli altri. Ma la bambina? Perché Lear voleva una bambina di sei anni? Tornò a guardare i monitor e si mise le cuffie. Babcock era tornato nel suo angolo e continuava a blaterare. Era strano: Babcock aveva qualcosa che gli metteva ansia. Era come se possedesse una parte di lui, come se lo avesse in pugno. Richards non riusciva a scrollarsi di dosso quella sensazione. A volte stava lì ad ascoltarlo per ore e si assopiva davanti al monitor, con le cuffie sulle orecchie. Guardò di nuovo l’ora, sapendo che non avrebbe dovuto ma non riuscendo a trattenersi. Erano le tre appena passate. Non era dell’umore per fare un altro solitario, e che quel piccolo bastardo di Seattle andasse pure a farsi friggere. Di colpo le ore che mancavano all’arrivo del furgone gli parvero lunghissime, fauci pronte a inghiottirlo. Inutile cercare di resistere. Regolò il volume e si rimise ad ascoltare i versi di Babcock chiedendosi cosa volessero dire.

6 Lacey si svegliò per il rumore della pioggia che cadeva sulle foglie fuori della sua finestra. Amy. Dov’era Amy? Si alzò di corsa, s’infilò la vestaglia e scese di sotto. Quando arrivò in fondo alle scale, la paura le era già passata: Amy doveva essersi alzata per andare a fare colazione o a guardare la TV, o semplicemente per fare un giro. La trovò seduta a tavola, in cucina, ancora in pigiama, che mangiava un waffle. Suor Claire era seduta a capotavola, con la tuta da ginnastica con cui usciva a correre la mattina in Overton Park. Stava leggendo il “Commercial Appeal” con una tazza di caffè fumante in mano. Claire non era ancora una suora, in realtà: era una novizia. Aveva la giacca della tuta bagnata sulle spalle e la faccia rossa per la corsa. Posò il giornale e sorrise a Lacey. «Ti sei alzata. Bene. Noi abbiamo già fatto colazione. Vero, Amy?» La bambina annuì masticando. Prima di entrare in convento, suor Claire lavorava in un’agenzia immobiliare di Seattle. Lacey, quando si sedette a tavola, vide che stava leggendo proprio la pagina degli annunci immobiliari. Se suor Arnette l’avesse vista, si sarebbe irritata e forse si sarebbe lanciata in uno dei suoi predicozzi sulle distrazioni della vita terrena. Ma l’orologio sopra i fornelli segnava le otto appena passate: le sorelle dovevano essere a messa. Lacey provò un moto d’imbarazzo: come aveva fatto a dormire così tanto? «Io sono andata a messa presto» disse Claire, come se le avesse letto nel pensiero. Andava spesso a quella delle sei, prima di fare jogging, che definiva una sua personale devozione a Nostra Signora delle Endorfine. A differenza di tutte le altre suore, che non avevano mai fatto altro, Claire aveva avuto una vita fuori dal convento: era stata sposata, aveva guadagnato, aveva posseduto cose come un appartamento, scarpe con il tacco e una Honda Accord. Aveva avuto la vocazione a trent’anni suonati, dopo aver divorziato da quello che definiva “il peggior marito del mondo”. Nessuno conosceva i dettagli, a parte forse suor Arnette, ma per Lacey la vita di Claire era fonte di meraviglia. Come faceva una persona ad avere due esistenze così diverse l’una dall’altra? Claire certe volte diceva frasi tipo: “Carine, quelle scarpe” o “L’unico hotel decente, a Seattle, è il Vintage Park” e per un attimo le sue consorelle rimanevano basite, in un silenzio che era di disapprovazione ma anche d’invidia. Era stata Claire ad andare a comprare quello che serviva ad Amy, perché avevano dato tutte per scontato che solo lei sapesse fare shopping. «Se ti sbrighi, arrivi in tempo per la funzione delle otto» suggerì suor Claire. Ma era chiaro che era troppo tardi: voleva dire qualcos’altro. «Sto io con Amy.» Lacey guardò la bambina, che era spettinata ma aveva la faccia riposata e lo sguardo vivace. Le aggiustò la frangia con le dita. «Molto gentile da parte tua. Magari, oggi soltanto, visto che Amy è qui...» «Non dire altro» la interruppe suor Claire ridendo. Alzò una mano per impedirle di continuare. «Ti copro io.» Lacey pensò alla giornata che le aspettava e le tornò in mente che aveva progettato di andare allo zoo. A che ora apriva? Il tempo era brutto? Forse la cosa migliore sarebbe stata uscire

prima che tornassero le altre. Non solo perché si sarebbero chieste come mai non era andata a messa, ma anche perché avrebbero cominciato a fare domande su Amy. Fino a quel momento le sue bugie avevano retto, ma Lacey sapeva che potevano cedere da un momento all’altro come un pavimento di legno marcio. Quando Amy ebbe finito di mangiare e si fu bevuta un bicchierone di latte, Lacey la riaccompagnò di sopra e la aiutò a vestirsi. Le mise i jeans nuovi, ancora rigidi, e la T-shirt con la scritta FASHION di paillette. Solo suor Claire poteva avere il coraggio di comprare una cosa del genere. Suor Arnette avrebbe disapprovato sicuramente, avrebbe sospirato e scosso la testa come faceva sempre, inacidendo l’aria nella stanza. Lacey però sapeva che quella T-shirt era perfetta e ad Amy sarebbe piaciuta tantissimo. Le paillette la rendevano speciale e certo era questo che Dio avrebbe voluto per una bambina come Amy: una piccola gioia, anche se di poco conto. Nel bagno, lavò la faccia ad Amy e le spazzolò i capelli. Alla fine si vestì anche lei, con la solita gonna grigia a pieghe, la camicetta bianca e il velo. Aveva smesso di piovere e un sole tiepido stava uscendo da dietro le nuvole, senza fretta. Sarebbe stata una giornata calda, pensò, con l’afa che veniva dal Sud a seguire il fronte freddo che aveva fatto piovere tutta la notte. Aveva abbastanza soldi per comprare i biglietti e qualcosa di buono da mangiare, e allo zoo si poteva andare a piedi: era vicino. Uscirono nella mattina che si stava facendo calda e profumava di erba bagnata. Le campane avevano iniziato a suonare, quindi la messa stava per finire. Lacey prese Amy per mano e la condusse a passo svelto fuori dal cancello, oltre l’orto che suor Louise curava con amore e i suoi odori di rosmarino, dragoncello e basilico. Nel parco c’era già abbastanza gente, attratta dal tempo primaverile, desiderosa di sentire il sole sulla pelle. C’erano ragazzi con i cani e con il Frisbee, adulti che facevano jogging, famiglie che si sceglievano un posto all’ombra con tavoli da picnic e barbecue. Lo zoo era nella parte nord del parco, costeggiato da un ampio viale che tagliava in due il quartiere come un coltello. Da un lato della strada sorgevano le belle ville con i grandi giardini della vecchia Midtown, dall’altra c’erano una serie di catapecchie con le verande mezzo rotte, auto scassate a marcire nei cortili di terra battuta e ragazzi che andavano avanti e indietro, fermandosi ora qua ora là, oziosi e vagamente minacciosi. Lacey non avrebbe dovuto avere paura, ma i neri in quella zona erano diversi da lei, che non era mai stata povera, o per lo meno non così. In Sierra Leone suo padre lavorava in un ministero e sua madre andava a fare shopping a Freetown con l’autista e a giocare a polo; una volta, a una festa, aveva persino ballato il valzer con il presidente. Vicino allo zoo l’aria era diversa e odorava di noccioline e di animali. All’ingresso c’era già la coda. Lacey comprò i biglietti contando le monetine, poi prese Amy per mano e la accompagnò oltre i tornelli. La bambina aveva in spalla lo zaino con dentro Peter coniglio. Quando Lacey le aveva suggerito di lasciarlo a casa, le aveva letto negli occhi che non c’era neanche da parlarne: non intendeva separarsi dalle sue cose. «Cosa vuoi vedere prima?» le domandò. C’era un chiosco con una grande cartina in cui i vari habitat erano segnati in colori diversi. Una coppia di bianchi la stava guardando, l’uomo con la macchina fotografica al collo, la donna con una carrozzina e una neonata sotto una copertina rosa. Quest’ultima guardò Lacey con sospetto: cosa ci faceva lì una suora nera con una bambina bianca? Ma poi le fece un sorriso, anche se un po’ forzato, forse per rimangiarsi l’occhiata, o per scusarsene, e si allontanò con il marito. Amy guardava la mappa. Lacey aveva il dubbio che non sapesse ancora leggere, ma c’erano diversi disegni, oltre alle scritte.

«Non so» rispose. «Gli orsi?» «Quali?» La bambina ci pensò su un momento osservando le figure. «Gli orsi polari.» Le brillavano gli occhi per l’eccitazione. Adesso erano contente tutte e due di essere allo zoo, di poter vedere gli animali, proprio come Lacey aveva sperato. Mentre loro erano ferme, era entrata altra gente. Lo zoo era piuttosto affollato. «E poi anche le zebre, gli elefanti e le scimmie.» «Benissimo» replicò Lacey con un sorriso. «Li vedremo tutti.» Comprarono un sacchetto di noccioline a una bancarella e si addentrarono nello zoo, in una zona piena di suoni e di odori. Avvicinandosi alla vasca degli orsi polari, sentirono un rumore di spruzzi e poi risa e urla, in un mix di voci giovani e meno giovani. Tutto a un tratto Amy lasciò la mano di Lacey e corse avanti. Lacey si fece largo tra la gente ferma davanti alla vasca e trovò la bambina con la faccia appiccicata al vetro da cui si scorgeva la parte sommersa dell’habitat degli orsi. Strano vedere quella finta banchisa nel caldo di Memphis e quell’acqua di un azzurro artico. Tre orsi erano spaparanzati al sole, come tappeti davanti al caminetto, e un quarto nuotava. Amy e Lacey lo guardarono mentre avanzava verso di loro, sott’acqua. Arrivò vicinissimo, fino a toccare il vetro con il naso. Alcuni, lì nei pressi, lanciarono un grido e Lacey provò un brivido di emozione. Amy posò le mani sul vetro, vicino al muso dell’orso, che aprì la bocca mostrando la lingua rosa. «Attenta!» ammonì un signore dietro di loro. «Avranno anche il musetto simpatico, ma possono mangiarti in un sol boccone.» Lacey si voltò a vedere chi era quell’uomo che cercava di far paura a una bambina. Ma nessuna delle facce alle sue spalle le restituì lo sguardo: tutti sorridevano e guardavano l’orso. «Amy» disse Lacey, a bassa voce, mettendole una mano sulla spalla. «Non li stuzzicare. È meglio.» La bambina non parve averla sentita. Avvicinò ulteriormente la faccia al vetro. «Come ti chiami?» chiese all’orso. «Stai più lontano, Amy.» La bambina accarezzava il vetro. «Ha un nome da orso. Non lo so pronunciare.» Lacey ebbe un attimo di esitazione. Era un gioco? «L’orso ha un nome?» La bambina la guardò strizzando gli occhi, con l’espressione di chi la sa lunga. «Certo che ha un nome.» «Te l’ha detto lui?» Dalla vasca si alzarono alti spruzzi e i presenti rimasero senza fiato. Un altro orso si era tuffato e nuotava verso Amy. Adesso erano in due, a un palmo dalla faccia della bambina, grossi come automobili, con la pelliccia che ondeggiava nell’acqua azzurra. «Guarda un po’ che roba...» disse una voce. Era la donna che avevano visto vicino al chiosco. Era accanto a loro e teneva la bambina in braccio come se fosse una bambola. Aveva i capelli lunghi, raccolti in una coda di cavallo, un paio di calzoncini corti, una maglietta e sandali

infradito. Lacey vide che non le si era ancora rassodata la pancia dopo la gravidanza. Il marito era dietro di lei, accanto alla carrozzina vuota, con la macchina fotografica in mano. «Gli sei simpatica» disse la donna ad Amy. «Guarda, tesoro!» trillò poi alla figlia muovendole le braccine. «Vedi gli orsi? Sono belli, vero? Tesoro, ci fai una foto? Una foto?» «Non posso» rispose lui. «Sei girata dalla parte sbagliata. Falla guardare da questa parte...» La donna sospirò, irritata. «Dài, sbrigati! Finché sorride. Non riesci a fare più in fretta?» Lacey stava osservando quella scena quando successe: ci fu un altro spruzzo, poi un altro ancora. Il vetro parve gonfiarsi, con quei bestioni dietro. Dal bordo della vasca cominciò a traboccare acqua, che bagnò la gente che assisteva impotente. «Attenzione!» L’acqua gelata colpì Lacey come uno schiaffo riempiendole il naso, la bocca e gli occhi di salmastro, spingendola all’indietro. Si era levato un coro di grida e la neonata era scoppiata a piangere. Lacey udiva i suoi strilli e le urla della madre: «Via! Via!». Si sentì urtare e sballottare da tutte le parti e si rese conto di avere chiuso le palpebre per proteggersi dall’onda salata. Fece un passo indietro, incespicando, perse l’equilibrio e finì addosso a un gruppo di persone. Si aspettava che da un momento all’altro il vetro cedesse e una fiumana d’acqua travolgesse tutti quanti. «Amy!» Aprì gli occhi e si ritrovò davanti un uomo che la guardava, con il viso vicinissimo al suo. Era il tipo con la macchina fotografica. La folla intorno a lei si era zittita. Il vetro aveva retto. «Mi scusi» disse lui. «Sta bene, sorella? Devo aver perso l’equilibrio.» «Maledizione!» La moglie era lì in piedi, bagnata fradicia, con la figlioletta in braccio che urlava disperata. Era furibonda. «Cos’ha fatto la sua bambina?» Lacey si rese conto che stava parlando con lei. «Io non...» «Guardate!» La folla si era allontanata dalla vasca e fissava sbigottita la bambina con lo zainetto che si era inginocchiata davanti al vetro dietro il quale si erano raccolti i quattro orsi. Lacey si rialzò e corse da lei. Amy aveva la testa bassa, con l’acqua che continuava a sgocciolarle dai capelli infradiciandole le ginocchia, e muoveva le labbra, come in preghiera. «Cosa c’è, Amy?» «Quella bambina parla con gli orsi!» urlò una voce. Dalla folla si alzò un mormorio di sorpresa. «Guardate!» La gente cominciò a scattare foto. Lacey si accucciò vicino ad Amy e le scostò i capelli bagnati dal viso. Aveva le guance rigate di lacrime, che si mescolavano all’acqua uscita dalla vasca. «Cosa c’è, Amy?» «Gli orsi lo sanno» disse lei con le manine sul vetro.

«Che cosa?» La bambina la guardò. Lacey era stupefatta: non aveva mai visto un’espressione tanto triste, un dolore così consapevole sul volto di una bambina. Eppure non c’era paura nel suo sguardo, ma rassegnata accettazione. «Cosa sono io» rispose. Suor Arnette, seduta nella cucina del convento delle Suore della Misericordia, aveva deciso di fare qualcosa. Le nove, le nove e mezzo, le dieci: Lacey e la bambina, Amy, non tornavano. Alla fine suor Claire si era arresa e aveva raccontato che Lacey aveva saltato la messa ed era uscita con la bambina, che aveva lo zainetto in spalla. Claire le aveva sentite andare via e aveva guardato dalla finestra: avevano varcato il cancello sul retro e attraversato il parco. Lacey aveva in mente qualcosa: suor Arnette avrebbe dovuto capirlo. La storia della bambina era piena di lacune, lo aveva notato subito. O per lo meno aveva intuito che qualcosa non andava e quel germe di sospetto durante la notte si era trasformato in certezza. Come Miss Clavel di Madeline: il diavoletto della scuola. E, proprio come nel film, adesso la bambina era sparita. Nessuna delle altre suore conosceva la vera storia di Lacey. Nemmeno Arnette aveva saputo tutti i particolari finché dal Capitolo Generale non le avevano mandato la perizia psichiatrica. Arnette ricordava di aver sentito la notizia al telegiornale, tanti anni prima, e di aver pensato che certe cose succedevano sempre, in Africa. Sembrava che in certi paesi africani la vita non contasse nulla e che la volontà del Signore si manifestasse in maniera più incomprensibile e strana che altrove. È orribile, ti spezza il cuore, ma alla fine non puoi stare male per tutto: di tragedie così ne capitano in continuazione, e Arnette se n’era dimenticata. Adesso però Lacey era lì, nel suo convento, e l’unica a conoscere la verità era lei. Peraltro bisognava dire che Lacey era una suora modello sotto quasi tutti i punti di vista, benché un po’ chiusa, forse, un po’ troppo mistica nelle sue devozioni. Lacey sosteneva – senza dubbio in buona fede – che suo padre, sua madre e le sue sorelle erano ancora in Sierra Leone, giocavano a polo e venivano invitati ai balli; dal giorno in cui era stata ritrovata in un campo dalle forze di pace dell’ONU che l’avevano portata al convento, Lacey non aveva mai dato segno di credere a qualcosa di diverso. Da un certo punto di vista era una benedizione: il Signore, misericordioso, la proteggeva dal ricordo di quello che le era capitato. Perché i soldati, dopo aver sterminato la sua famiglia, non se n’erano andati: erano rimasti con Lacey nel campo per ore e ore, e alla fine l’avevano lasciata lì pensando che fosse morta. E se il Signore non le avesse fatto la grazia di cancellarle la memoria, per lei sarebbe stato meglio morire. Sia fatta la volontà del Signore: suor Arnette non poteva che accettare che Dio avesse deciso di non prenderla con sé allora. Conoscere i fatti per lei era un peso, accompagnato da molteplici preoccupazioni, che sopportava in silenzio. E adesso c’era quella bambina, Amy. Fin troppo educata, taciturna. Non c’era qualcosa di estremamente strano in tutto questo? Di assolutamente incredibile? Più suor Arnette ci pensava, più le pareva assurda la versione di Lacey. Che fosse amica della madre era impossibile. A parte per andare a messa tutti i giorni, Lacey non metteva piede fuori dal convento: come avrebbe fatto a entrare in contatto con quella donna? E per quale ragione questa avrebbe affidato la figlia proprio a lei? Era inspiegabile, perché non c’era spiegazione:

era una bugia. E adesso sia Lacey sia la bambina erano sparite. In cucina, alle dieci e mezzo, suor Arnette decise il da farsi. Che cosa avrebbe detto, però? Da dove poteva cominciare? Da Amy? Le altre suore sembravano all’oscuro di tutto. La bambina era arrivata quando Lacey era sola in convento, come spesso accadeva: Arnette la esortava sempre a uscire, ad andare con loro a svolgere attività benefiche, a fare la spesa o qualche commissione, ma lei si rifiutava e in quei momenti il suo viso irradiava una tale serena inconsapevolezza che insistere era inutile. “No, grazie, sorella. Magari un altro giorno.” Tre, quattro anni così e poi di punto in bianco arriva la bambina e Lacey dice di conoscerla. Se avesse chiamato la polizia, avrebbe dovuto cominciare da Lacey, dal campo e da quello che le era stato fatto. Prese in mano il telefono. «Sorella?» Si voltò: era suor Claire, che era appena arrivata in cucina con la tuta da ginnastica, mentre a quell’ora si sarebbe già dovuta cambiare. Claire, che aveva fatto l’agente immobiliare e non solo si era sposata, ma aveva anche divorziato e teneva nell’armadio un paio di scarpe con il tacco e un vestito da sera nero. Ma questo era un problema al quale avrebbe pensato in un altro momento. «Sorella» disse Claire, preoccupata. «C’è una macchina qua davanti.» Arnette posò il telefono. «Chi è?» Claire era titubante. «Sembrano... della polizia.» Arnette arrivò nell’atrio un attimo prima che suonasse il campanello. Scostò la tenda della finestra accanto alla porta per guardare: erano due uomini. Uno dimostrava una ventina d’anni, l’altro era più vecchio, ma agli occhi di Arnette ancora giovane. Sembravano delle pompe funebri, tutti vestiti di nero. Poliziotti, ma non proprio. Si trovavano lì per qualcosa di ufficiale, di serio. Erano in fondo alla scala, ancora lontani dalla porta. Il più vecchio la vide e le sorrise, cordiale, senza dire nulla. Era un bell’uomo, ma niente di speciale, con un fisico scattante e lineamenti regolari. I capelli erano brizzolati sulle tempie, che brillavano di sudore alla luce del sole. «Apriamo?» domandò Claire alle sue spalle. Anche suor Louise era scesa appena aveva sentito il campanello. Arnette fece un respiro profondo cercando di calmarsi. «Certo.» Aprì la porta, ma lasciò la catena. I due uomini si avvicinarono. «In che cosa posso esservi utile?» Il più vecchio prese un tesserino dal taschino della giacca e glielo mostrò: FBI. «Sono l’agente speciale Wolgast, signora. E questo è l’agente speciale Doyle.» Rimise in tasca il tesserino. Arnette vide che aveva un taglietto sul mento: doveva essersi ferito facendosi la barba. «Scusate se vi disturbiamo il sabato mattina...» «Siete qui per Amy» disse Arnette. Non riusciva a spiegarselo: se l’era lasciato scappare subito, come se lui l’avesse costretta a dirlo. Siccome l’uomo non rispondeva, continuò: «Non è vero? Non siete qui per Amy?». L’uomo più vecchio, di cui si era già scordata il nome, guardò suor Louise alle spalle di Arnette e

le fece un sorrisetto per rassicurarla. Poi riportò gli occhi su Arnette. «Sì, è vero, siamo qui per Amy. Le spiace se entriamo un momento? Vorremmo farvi un paio di domande.» E così nel salotto del convento erano entrati due tipi grandi e grossi, vestiti di nero, che odoravano di uomo. La loro presenza pareva rendere la stanza più piccola, diversa. A parte qualche operaio incaricato di riparare qualcosa o padre Fagan della canonica, nel convento non entravano mai uomini. «Scusate» disse Arnette. «Potreste ripetermi i vostri nomi?» «Certo.» Di nuovo quel sorriso cordiale, sicuro di sé. Fino a quel momento il giovane non aveva detto una parola. «Io sono l’agente Wolgast e lui è l’agente Doyle.» Si guardò intorno. «Allora, Amy è qui?» Intervenne suor Claire. «Perché la cercate?» «Purtroppo non posso dirvi tutti i particolari. È bene che sappiate, però, per la vostra stessa sicurezza, che Amy è una testimone federale. Dobbiamo metterla sotto custodia.» Sotto custodia federale! Arnette si sentì prendere dal panico. Era peggio di quanto avesse immaginato. Custodia federale? Erano cose che si sentivano dire in TV, in quei polizieschi che non voleva mai guardare ma che a volte seguiva anche lei, dal momento che piacevano tanto alle consorelle. «Che cosa ha fatto Lacey?» L’agente la guardò incuriosito. «Lacey?» Fingeva di saperlo, per darle l’agio di parlargliene, di fornirgli informazioni: Arnette se ne accorse subito. Ma era già caduta nella trappola dandogli il nome di Lacey. Nessuno l’aveva nominata, a parte lei. Il silenzio delle altre alle sue spalle la opprimeva. «Suor Lacey ci ha detto che la madre di Amy è una sua amica» spiegò. «Capisco.» I due agenti si scambiarono un’occhiata. «Meglio che parliamo anche con lei, allora.» «Siamo in pericolo?» chiese suor Louise. Suor Arnette si voltò e le fece una brutta faccia, per zittirla. «Sorella, capisco le tue buone intenzioni, ma lascia che me ne occupi io.» «Non siete propriamente in pericolo» spiegò l’agente. «Ma penso sia opportuno che parliamo con Lacey. È qui con voi?» «No.» Era stata suor Claire a rispondere. Aveva le braccia conserte e un’espressione di sfida. «Sono uscite un’oretta fa.» «Sapete dove sono andate?» Per un attimo tutti rimasero in silenzio. Poi squillò il telefono. «Vogliate scusarmi un istante, per favore» disse Arnette. Entrò in cucina con il cuore che le batteva all’impazzata. Era grata dell’interruzione, di avere un

momento per pensare. Quando rispose al telefono, però, sentì una voce sconosciuta. «Parlo con il convento? Vi vedo spesso. Scusate se vi disturbo.» «Chi parla?» «Mi perdoni.» L’uomo parlava veloce, agitato. «Sono Joe Murphy, del servizio di sicurezza dello zoo.» Si sentiva una gran confusione in sottofondo. L’uomo si rivolse a qualcun altro. «Apri il cancello» ordinò. «Subito!» Poi tornò a parlare al telefono. «È una vostra consorella quella che è qui con una bambina? Nera, vestita come voi.» Suor Arnette ebbe un capogiro e sentì un ronzio come se fosse circondata da uno sciame di api. Era una mattina bellissima ed era successo qualcosa di tremendo. Udì il rumore della porta della cucina che si apriva e vide entrare gli agenti, seguiti da suor Claire e suor Louise. La guardavano tutti. «Sì, mi dica.» Arnette cercò di parlare piano, ma era inutile. «Cos’è successo?» Per un attimo non sentì nulla. Murphy doveva aver messo la mano sulla cornetta. Non appena la rialzò, si udirono urla, pianti di bambini e anche qualcos’altro: versi di animali. Ruggiti di leoni, strilli di scimmie, barriti di elefanti e gridi di uccelli. Arnette impiegò un momento prima di capire che non sentiva quei versi soltanto al telefono, ma anche dalla finestra aperta. «Che cosa succede?» chiese di nuovo. «Sarà meglio che venga qui, sorella» disse l’uomo. «È la cosa più incredibile che io abbia mai visto in vita mia, perdio.» Lacey correva, senza fiato, bagnata fradicia, con la bambina in braccio. Amy le teneva le gambe intorno alla vita ed erano perse dentro lo zoo, che era come un labirinto. Amy piangeva, singhiozzava... “Cosa sono io, cosa sono io.” C’era anche tanta altra gente che correva. Era iniziato tutto con gli orsi, che si erano agitati sempre di più finché Lacey non aveva allontanato Amy dal vetro. Poi era stata la volta dei leoni marini, che entravano e uscivano dall’acqua come ossessi. Quando si erano voltate per tornare verso il centro dello zoo, gli animali della prateria – gazzelle, zebre, okapi e giraffe – avevano incominciato a girare in tondo e a cercare di abbattere le recinzioni. Lacey aveva capito che era a causa di Amy che si agitavano così. Quello che era successo agli orsi stava succedendo a tutti gli altri: non solo agli animali, ma anche alle persone. Era scoppiato il finimondo. Passarono davanti agli elefanti e Lacey percepì la loro imponenza e la loro forza: pestavano le zampe per terra e alzavano la proboscide barrendo nel caldo di Memphis. Un rinoceronte si lanciò contro la recinzione, provocando un clangore come di macchine che si scontrano, poi prese a sbattervi contro il corno. L’aria si era improvvisamente riempita di suoni, di spaventose urla di dolore, e la gente correva di qua e di là chiamando i figli, spingendo, tirando e spintonando gli altri. Ma tutti si facevano da parte per lasciar passare Lacey. «È lei!» urlò qualcuno. Lacey sentì quella voce alle sue spalle, che la colpì come una freccia. Si voltò e vide l’uomo con la macchina fotografica che le puntava contro l’indice. Era a fianco di un addetto del servizio di sicurezza dello zoo con una maglia gialla. «È quella bambina!» Tenendo stretta Amy, Lacey si voltò e riprese a correre, oltrepassando gabbie di scimmie che strillavano, un lago con i cigni che starnazzavano e sbattevano le grandi ali inutili, ed enormi voliere da cui si alzavano i gridi striduli degli uccelli tropicali. La gente usciva terrorizzata dal rettilario. Una scolaresca di bambini, tutti con la maglietta rossa, le tagliò la strada e Lacey

rischiò di cadere, ma riuscì a mantenere l’equilibrio e a proseguire. Per terra svolazzavano dépliant e indumenti perduti nella fuga e sull’asfalto c’erano gelati mezzo sciolti nella carta. Passò di corsa un gruppo di uomini con il fiatone: uno di essi imbracciava un fucile. Una voce annunciava, con calma robotica: «Il giardino zoologico sta per chiudere. I visitatori sono pregati di raggiungere l’uscita più vicina. Il giardino zoologico...». Lacey stava correndo in circolo, alla vana ricerca di un’uscita. I leoni ruggivano, i babbuini, i suricati e le scimmie emettevano i versi che sentiva dalla sua camera nelle sere d’estate, con la finestra aperta. Quei suoni si insinuavano dappertutto, le riempivano la testa come un ritornello, riecheggiavano come colpi di fucile, come gli spari nel campo, come la voce di sua madre che gridava: “Scappa! Corri più veloce che puoi!”. Si fermò. E fu in quel momento che lo sentì. Percepì la presenza di un’ombra, di un uomo che non c’era, ma c’era. Era lì per Amy, Lacey lo sapeva. Ecco cosa le stavano dicendo gli animali. Sarebbe arrivato un uomo oscuro, che avrebbe portato Amy nel campo dove c’erano i rami; quei rami oltre i quali Lacey, sdraiata per terra, aveva guardato il cielo per ore e lo aveva visto impallidire quando alla notte era seguito il mattino, mentre udiva i suoni di quello che le stava succedendo e le grida che le uscivano dalla bocca; ma lei aveva staccato la mente dal corpo, l’aveva mandata oltre i rami, verso il cielo, verso Dio, e la bambina nel campo non era più lei, ma qualcun’altra, che Lacey non ricordava più, e il mondo era avvolto in una luce calda che l’avrebbe tenuta al sicuro per sempre. Il sapore di sale che le bruciava in bocca non era solo l’acqua della vasca degli orsi. Piangeva, correva e scorgeva la strada attraverso la cortina luccicante delle lacrime, continuando a tenere Amy stretta al petto. Poi vide la bancarella delle noccioline. Le apparve dinnanzi come un faro nella notte. Si erano fermate lì, appena entrate. E infatti dietro la bancarella c’era l’uscita, spalancata come una bocca. I guardiani con la maglia gialla parlavano concitati nei walkie-talkie e facevano segno alla gente di uscire, in fretta. Lacey trasse un respiro profondo e avanzò nella ressa con Amy contro il petto. Era a pochi passi dall’uscita quando si sentì afferrare per un braccio. Si voltò e vide uno dei guardiani. Con la mano libera fece un cenno a qualcuno e continuò a tenerla stretta. “Lacey. Lacey.” «Mi segua, per cortesia.» Lacey non temporeggiò: diede uno strattone con tutta la forza che le restava e sentì la folla che si piegava, si apriva. Dietro di lei la gente gridava e protestava. Si divincolò e corse via, con il guardiano che le urlava di fermarsi. Ma ormai avevano superato il cancello e Lacey imboccò la stradina che portava al parcheggio. Il suono delle sirene era sempre più vicino. Era tutta sudata, aveva il fiatone e sapeva di essere allo stremo. Non aveva idea di dove stesse andando, ma non importava. “Via” pensava. “Via, via, via! Correte più forte che potete, bambine. Portala via. Porta via Amy.” Udì uno sparo alle sue spalle, dentro lo zoo. Il rumore fendette l’aria e la costrinse a fermarsi. Nel silenzio che seguì, un furgone inchiodò davanti a lei. Amy si era afflosciata. Era il furgone del convento, quello blu che usavano per fare le commissioni e per lo Spaccio dei bisognosi. Alla guida c’era suor Claire, ancora in tuta da ginnastica. Dietro di loro si fermò una berlina nera. Suor Arnette saltò giù di corsa dal furgone. La gente correva tutto intorno e le automobili uscivano sgommando dal parcheggio.

«Lacey, che cosa ti è saltato...» Dalla berlina uscirono due uomini. Emanavano oscurità da tutti i pori. A Lacey si strinse il cuore e le si bloccò la voce in gola. Non ebbe bisogno di guardarli per capire chi erano. “Troppo tardi! È tutto perduto!” «No» disse arretrando. «No!» Arnette la prese per un braccio. «Sorella, controllati!» La tiravano di qua e di là, cercavano di strapparle Amy. Lacey la trattenne con tutta la forza che aveva stringendosela al petto. «No! No!» gridava. «Aiutatemi!» «Sorella, questi signori sono dell’FBI. Per favore, fa’ quello che ti dicono.» «Non portatela via!» Lacey era per terra, adesso. «Non potete! Non potete!» Era Arnette, dopotutto. Era suor Arnette che le stava portando via Amy. Come nel campo, Lacey scalciava, gridava, resisteva. «Amy! Amy!» Fu scossa da un terribile singhiozzo e le forze la abbandonarono. Le strapparono via Amy e le si aprì un vuoto intorno. Sentì la bambina che gridava: «Lacey, Lacey, Lacey» e poi il rumore delle portiere che si chiudevano. Amy era prigioniera nella berlina. Lacey udì il rombo del motore, il fischio delle ruote, una macchina che si allontanava a tutta velocità. Si tenne il volto fra le mani. «Lasciatemi! Non portatemi via!» Piangeva. «No, no, no!» Claire si avvicinò e le mise un braccio intorno alle spalle. «È tutto a posto, sorella» disse. Lacey vide che stava piangendo anche lei. «Va tutto bene. Sei al sicuro, adesso.» Non era vero: non era al sicuro. Nessuno era al sicuro: né Lacey, né Claire, né Arnette, né la donna con la bambina piccola in braccio, né il guardiano dello zoo con la maglia gialla. Lacey lo sapeva benissimo. Perché Claire cercava di illuderla? Non era tutto a posto. Le voci glielo dicevano da anni, da quella notte nel campo, quando era soltanto una bambina. “Lacey Antoinette Kudoto. Ascolta. Guarda.” Con l’occhio della mente lo vide, vide tutto, finalmente: i soldati, le fiamme della battaglia, le tombe, le fosse e le urla di cento milioni di anime morenti, le tenebre sempre più vaste, come un’ombra scura che si allargava sul mondo, le ultime, amare ore di crudeltà e dolore, l’ultima fuga disperata, il trionfo della morte su tutto quanto e, alla fine, le città deserte, immerse in un silenzio di cento anni. Stava arrivando tutto questo. Lacey pianse, e pianse. Perché, seduta su quel marciapiede di Memphis, Tennessee, vedeva anche Amy, la sua Amy, che non era riuscita a salvare come non era riuscita a salvare se stessa. Amy, immobile nel tempo e senza nome, che vagava in eterno per il mondo dimenticato e senza luce, sola e senza voce, tranne che per dire: “Cosa sono io, cosa sono io, cosa sono io”.

7 La prima sensazione di Carter fu che si trovava in un luogo freddo. Lo fecero sbarcare per primo. Non era mai stato in aereo in vita sua e gli sarebbe piaciuto sedersi vicino all’oblò, invece lo avevano sistemato dietro con tutti gli zaini, legato a un tubo per il polso sinistro e con due soldati a sorvegliarlo. Mentre scendeva la scaletta, il freddo lo colpì come un ceffone. Non che non lo avesse mai sofferto: se dormivi sotto un viadotto a Houston a gennaio, il freddo lo conoscevi, eccome. Quello, però, era diverso, così asciutto che ti si seccavano subito le labbra. Gli si erano tappate le orecchie. Era tardi, non sapeva quanto, ma la pista era illuminata come il cortile del penitenziario: dalla cima della scaletta contò dodici velivoli grandi e grossi, con i portelloni posteriori aperti e i carrelli elevatori che caricavano pallet coperti con teloni mimetici. Si chiese se lo volessero fare diventare un soldato, se era per questo che gli avevano dato la possibilità di vivere. Ricordava il nome dell’agente: Wolgast. Strano che gli avesse ispirato fiducia, dopo anni che non si fidava più di nessuno. Wolgast aveva qualcosa che lo aveva convinto, dava l’impressione di sapere con certezza qual era il proprio posto. Carter, legato mani e piedi, scese con difficoltà, stando attento a non perdere l’equilibrio, con un soldato davanti e uno dietro. Nessuno gli aveva parlato, nessuno aveva aperto bocca in generale. Aveva una giacca a vento sopra la tuta, ma era slacciata a causa delle catene, e il vento era tagliente. Fu condotto oltre la pista, verso un hangar illuminato dove lo aspettava un furgone. Il portellone si aprì non appena si avvicinarono. Il primo soldato lo spinse con la canna del fucile. «Sali, su.» Carter ubbidì. Sentì un ronzio e vide richiudersi il portellone. Per lo meno il sedile era comodo, a differenza della panca dura su cui era stato seduto in aereo. L’unica luce proveniva da una lampadina sul soffitto. Sentì battere due volte sulla fiancata, poi il furgone partì. In aereo aveva dormito e ora non aveva più sonno. Senza finestrini e senza cognizione del tempo, perse anche il senso della distanza e dell’orientamento. Ma era stato seduto per mesi e mesi, nella sua vita: un’altra ora o due non avrebbe fatto una grande differenza. Svuotò la mente. Il tempo passò e dopo un po’ il furgone rallentò. Di là del divisorio che lo separava dalla cabina di guida si udivano delle voci, ma Carter non capiva cosa dicessero. Il veicolo si fermò con un sobbalzo. Il portellone si aprì e Carter vide due soldati che battevano i piedi per terra, infreddoliti. Erano bianchi e sopra le tute mimetiche indossavano pesanti giacche a vento. Dietro di loro pulsava luminosa l’oasi di un McDonald’s. Carter aveva sentito rumore di traffico e aveva immaginato che stessero viaggiando su un’autostrada. Benché fosse buio, qualcosa nel cielo gli faceva pensare che fosse mattino. Era tutto indolenzito. «Ecco» disse uno dei due uomini lanciandogli un sacchetto. Carter notò che l’altro stava finendo di mangiare un panino. «La colazione.» Carter aprì il sacchetto, che conteneva un Egg McMuffin, frittelle di patate e succo di frutta. Aveva la gola secca per il freddo e avrebbe voluto più succo, o anche soltanto dell’acqua. Lo bevve tutto d’un fiato: era così dolce che gli fece male ai denti. «Grazie.» Il soldato sbadigliò coprendosi la bocca con la mano. Carter si chiese come mai erano così gentili con lui, così diversi da Pizzico e dagli altri. Erano armati, ma tranquilli.

«Ci vogliono ancora un paio d’ore» disse il soldato mentre Carter finiva di mangiare. «Vuoi andare in bagno?» Carter non aveva più fatto pipì da quando era sceso dall’aereo, ma era così disidratato che non ne aveva bisogno. Un tempo era così: poteva tenerla per ore e ore. L’idea di entrare nel McDonald’s però lo attirava: la gente, i profumi, le luci. «Sì, è meglio.» Il soldato salì sul furgone facendo rimbombare il fondo di metallo sotto gli scarponi pesanti. Si accucciò, prese dalla tasca del cinturone una chiavetta lucida e aprì le manette. Anthony lo vide in faccia: era rosso di capelli e doveva avere una ventina d’anni. «Non fare scherzi» gli disse. «Non dovremmo liberarti.» «Tranquillo.» «Tirati su la cerniera. Fa un freddo porco fuori.» Lo scortarono, uno di qua e l’altro di là, ma senza toccarlo. Carter non ricordava di essere mai andato da nessuna parte senza qualche mano addosso. Molte auto nel parcheggio avevano la targa del Colorado. L’aria profumava di pini e Carter aveva la sensazione che intorno ci fossero delle montagne. C’era neve per terra, ammucchiata ai bordi del parcheggio e incrostata di ghiaccio. Lui aveva visto la neve solo una volta o due, in vita sua. I soldati bussarono alla porta del bagno e, non ottenendo risposta, lo fecero entrare. Uno lo accompagnò, l’altro rimase sulla porta. C’erano due orinatoi e Carter si sistemò davanti a uno; il soldato prese l’altro. «Tieni le mani in maniera che io le possa vedere» gli disse. Poi scoppiò a ridere. «Scherzo...» Carter si riallacciò i pantaloni e si avvicinò al lavandino. I McDonald’s di Houston che ricordava erano piuttosto sporchi, soprattutto le toilette. Quando viveva per strada, andava a lavarsi in un McDonald’s di Montrose finché un giorno il direttore lo aveva beccato e lo aveva mandato via. Invece quello lì era bello pulito, profumato di fiori, con una piantina vicino al lavandino. Carter si lavò le mani prendendosi tutto il tempo, lasciandosi scorrere l’acqua calda sulla pelle. «Adesso ci tengono persino le piante nei McDonald’s?» domandò al soldato. Il ragazzo lo guardò un po’ stupito, poi rise di nuovo. «Da quant’è che non vedi il mondo?» Carter non sapeva cosa ci fosse da ridere. «Sono dentro da una vita.» Quando uscirono dal bagno, l’altro soldato si era messo in coda. Aspettarono tutti e tre insieme. Nessuno lo toccava o lo spintonava. Carter si guardò in giro: c’erano due uomini seduti da soli, una o due famiglie, una donna con un adolescente che giocava alla sua console portatile. Erano tutti bianchi. Arrivati alla cassa, il soldato ordinò un caffè. «Tu vuoi qualcos’altro?» domandò a Carter. Lui ci pensò su un attimo. «Hanno tè freddo qui dentro?» «Avete tè freddo?» chiese il soldato alla cassiera. La ragazza fece spallucce e, senza smettere di masticare il chewing-gum, rispose: «Solo caldo».

Il soldato guardò Carter, che scosse la testa. «Solo il caffè, grazie.» I due soldati si chiamavano Paulson e Davis. Si presentarono tornando al furgone. Uno era del Connecticut, l’altro del New Mexico. Carter però confondeva i due Stati, non capiva la differenza, non avendo mai visitato né l’uno né l’altro. Davis era quello con i capelli rossi. Per il resto del viaggio lasciarono aperto lo sportello del divisorio e non lo legarono. Erano in Colorado, come Carter aveva intuito, ma ogni volta che passavano davanti a un cartello, i due gli facevano chiudere gli occhi e ridevano come se fosse un gioco divertentissimo. Dopo un po’ uscirono dall’interstatale e presero una strada che saliva tortuosa fra le montagne. Carter, sul sedile più vicino alla cabina di guida, colse qualche scorcio di panorama attraverso il parabrezza. Lungo la strada c’erano mucchi di neve. Non vide centri abitati, solo una macchina ogni tanto, nell’altro senso di marcia, un lampo di luce gialla seguito da schizzi di neve bagnata. Non era mai stato in un posto del genere, con così poca gente. L’orologio sul cruscotto segnava le sei appena passate. «Fa freddo qui» disse. Paulson guidava. L’altro, Davis, leggeva un fumetto. «È vero» disse Paulson. «Più freddo del busto ortopedico di Beth Pope.» «E chi è Beth Pope?» Paulson fece spallucce. «Una che veniva a scuola con me. E che aveva la scoliosi.» Carter non capì, ma doveva essere divertente, perché i due soldati risero. Se il favore al quale Wolgast aveva accennato avesse implicato lavorare con quei due ragazzi, Carter sarebbe stato più che contento. «È Aquaman?» chiese a Davis. Il ragazzo gli passò un paio di giornalini a fumetti, X-Men e Vendetta. Era troppo buio per riuscire a leggere, ma anche guardando le figure si riusciva a seguire la storia. Wolverine era davvero prepotente: a Carter era simpatico, anche se un po’ gli faceva pena, perché non deve essere tanto facile avere uno scheletro di metallo e perdere continuamente persone care. Dopo circa un’ora Paulson fermò il furgone. «Scusa, ma ti dobbiamo incatenare di nuovo» disse a Carter. «Figurati» replicò lui. «Anzi, grazie che fino adesso mi avete lasciato libero.» Davis scese, fece il giro e, appena aprì il portellone, una folata d’aria gelida investì Carter. Il soldato lo ammanettò e s’infilò la chiave in tasca. «Sei comodo?» Carter annuì. «Quanto manca ancora?» «Poco.» Proseguirono. Carter capì che stavano viaggiando in salita. Non vedeva il cielo, ma immaginava che stesse schiarendo. Rallentarono per attraversare un lungo ponte sul quale il furgone fu

sferzato da forti raffiche di vento. Appena furono dall’altra parte, Paulson lo guardò negli occhi, dallo specchietto retrovisore. «Tu non sembri come gli altri, sai? Cos’hai fatto? Se non ti dispiace parlarne.» «Gli altri chi?» «Gli altri come te. Galeotti. Hai presente...» Si voltò verso Davis. «Te lo ricordi Babcock?» Scosse la testa e rise. «Un pazzo. Te lo raccomando.» Guardò Carter. «Tutto diverso da te. Si vede subito che tu non sei così.» «Non sono matto» disse Carter. «Il giudice l’ha detto chiaro e tondo.» «Però hai fatto fuori qualcuno, no? Altrimenti non saresti qui.» Carter si chiese se era tenuto a parlarne, se faceva parte dei patti. «Dicono che ho ammazzato una signora. Ma non volevo.» «Chi era? Tua moglie, la tua ragazza?» Paulson sorrideva nello specchietto, incuriosito. «No» rispose Carter. Deglutì. «No, le falciavo il prato.» Paulson rise e si rivolse a Davis. «Hai sentito? Le falciava il prato.» Guardò di nuovo Carter nello specchietto retrovisore. «E come hai fatto, piccoletto come sei?» Carter non sapeva cosa rispondere. Di colpo aveva una brutta sensazione, come se i due ragazzi fossero stati gentili con lui solo per poterlo tormentare adesso. «E dài, Anthony! Ti abbiamo offerto la colazione, no? Ti abbiamo accompagnato in bagno... Diccelo.» «Lascialo in pace, cazzo!» esclamò Davis. «Sta’ zitto. Siamo quasi arrivati. Che importanza ha?» «Ha importanza» ribatté Paulson. Poi fece un sospiro. «Mi piacerebbe sapere cos’ha combinato. Perché qualcosa hanno fatto, tutti quanti. Dài, Anthony, raccontami la tua storia. L’hai violentata prima di ammazzarla? È andata così?» Carter era rosso di vergogna. «Non avrei mai fatto una cosa del genere» riuscì a dire. Davis si voltò verso di lui. «Non starlo a sentire. È uno stronzo. Non sei obbligato a dirci niente.» «Questo è ritardato, ascolta me» fece Paulson guardando Carter nello specchietto. «Scommetto che invece è andata proprio così: hai violentato la bella signora bianca a cui falciavi il prato. Eh, Anthony?» Carter non riusciva quasi a respirare. «Non... voglio... dire... altro.» «Tu sai cosa ti faranno adesso?» gli chiese Paulson. «O pensavi che fosse solo una bella gita gratis?» «Chiudi quella cazzo di bocca, per la miseria» insistette Davis. «Richards ci fa il culo se lo viene a sapere.» «Per me, può andare a cagare» replicò Paulson. «Mi ha detto che dovevo fargli un favore» spiegò Anthony. «Che era importante. Che io ero

speciale.» «Speciale.» Paulson era sarcastico. «Speciale, sei speciale.» Proseguirono in silenzio. Carter teneva gli occhi bassi. Gli girava la testa e aveva un po’ di nausea. Rimpianse di aver mangiato il McMuffin. Gli veniva da piangere. Non si ricordava l’ultima volta che aveva pianto. Nessuno l’aveva mai accusato di aver violentato la signora, non gli pareva proprio. Gli avevano fatto domande sulla bambina, se mai, ma lui aveva sempre giurato che non le aveva fatto niente, Dio gli era testimone. Aveva cinque anni, Cristo! Le aveva semplicemente mostrato un rospo che aveva trovato nell’erba, perché pensava che potesse piacerle. Perché era piccolo piccolo, come lei. Voleva solo essere gentile. Nessuno gli aveva mai fatto vedere animali quando lui era un bambino. “Vieni qui a vedere, piccoletta. Guarda quanto è piccolo. Come te.” Almeno alla Terrell Unit sapeva cosa lo aspettava. Nessuno lo aveva mai accusato di aver violentato la signora Wood. Quel giorno, in giardino, era diventata matta, si era messa a urlare, aveva alzato le mani, aveva gridato alla figlia di scappare, ma non era colpa di Carter se era caduta in acqua; anzi, lui aveva cercato di calmarla, di rassicurarla: non era successo niente e se lei voleva se ne sarebbe andato e non sarebbe tornato mai più. Avrebbe accettato quello e anche tutto il resto che era venuto dopo. Poi però era arrivato Wolgast e gli aveva detto che non dovevano per forza fargli l’iniezione letale. A quel punto Carter aveva cominciato ad abituarsi all’idea, però adesso non capiva più niente, stava male, aveva paura. Alzò la testa e vide che Paulson gli sorrideva. Sgranò gli occhi. «Bu!» fece Paulson dando una manata sul volante. E scoppiò a ridere, come se avesse fatto la battuta più divertente del mondo. Poi chiuse lo sportello. Wolgast e Doyle stavano cercando di uscire dalla periferia sud di Memphis, in un dedalo di strade e stradine. Era andato tutto storto, fin dal principio. Wolgast non aveva idea di cosa fosse successo allo zoo, ma era scoppiato il finimondo. Per fortuna la suora più vecchia, Arnette, era riuscita a fermare l’altra, Lacey, e a prenderle la bambina. Amy, cognome NN, doveva avere sei anni, non di più. Wolgast era pronto a lasciar perdere, ma poi la suora nera aveva mollato la bambina e quella vecchia l’aveva consegnata a Doyle, che l’aveva caricata in macchina senza dargli il tempo di dire “bah”. A quel punto non restava altro da fare che andarsene il più presto possibile, prima che arrivasse la polizia di Memphis a fare domande. Chissà quanti testimoni oculari c’erano? Era successo tutto troppo in fretta. Bisognava abbandonare la macchina, chiamare Sykes e uscire dal Tennessee, nell’ordine, e subito. Amy era sdraiata sul sedile posteriore e stringeva il coniglietto di peluche che aveva tirato fuori dallo zaino. Gesù, cosa avevano fatto? Una bambina di sei anni! Erano in un quartiere squallidissimo, tutto condomini e centri commerciali. Wolgast entrò in una stazione di servizio e spense il motore, poi si voltò verso Doyle. Non si erano scambiati una sola parola dopo lo zoo. «Cosa ti è preso?» «Senti, Brad...» «Sei matto? L’hai vista? È una bambina!»

«È andata così.» Doyle scosse la testa. «C’era una gran confusione. Va bene, forse ho combinato un casino. Ma cos’altro potevo fare?» Wolgast trasse un sospiro cercando di calmarsi. «Aspetta qui.» Scese dalla macchina e chiamò Sykes sulla linea sicura. «Abbiamo un problema.» «L’avete presa?» «Sì, l’abbiamo presa. È una bambina, cazzo!» «Capisco la sua rabbia, agente, però...» «Sì, sono arrabbiato. Ci saranno cinquanta testimoni, a cominciare da quelle suore. Sono tentato di lasciarla al posto di polizia più vicino.» Sykes stette un attimo zitto. «Agente, si calmi. Uscite dallo Stato, poi ci risentiamo e decidiamo come procedere.» «Procedere? Il contratto che ho firmato non specificava che io dovessi fare certe cose.» «È sconvolto, agente. E ne ha motivo. Dove siete adesso?» Wolgast inspirò profondamente cercando di placare la collera. «In una stazione di servizio nella zona sud di Memphis.» «La bambina sta bene?» «Fisicamente, sì.» «Non fate stupidaggini.» «Mi sta minacciando?» Nel momento stesso in cui lo disse, Wolgast si rese conto della situazione con una lucidità glaciale. Se aveva avuto una possibilità, dopo lo zoo se l’era giocata. Adesso erano tutti in fuga. «Non ce n’è bisogno» rispose Sykes. «La richiamo fra poco.» Wolgast chiuse la comunicazione ed entrò nel bar. Dietro un vetro antiproiettile c’era un indiano con il turbante che guardava un predicatore in TV. La bambina probabilmente aveva fame: Wolgast comprò dei biscotti farciti con il burro di arachidi e del latte al cacao. Andò alla cassa. Alzò gli occhi, vide le telecamere e sentì la suoneria del palmare. Pagò in fretta e uscì. «Posso mettervi a disposizione un’auto a Little Rock» disse Sykes. «Se mi dà un indirizzo, mando qualcuno dalla sede distaccata.» Little Rock era a un paio d’ore di distanza, come minimo. Troppo. Due uomini in completo scuro, una bambina, una berlina nera che non passava certo inosservata... Non era escluso che le suore avessero preso il numero della targa. Non sarebbero mai riusciti a superare i controlli prima del ponte. Se la scomparsa della bambina era stata considerata un sequestro di persona, a quell’ora doveva essere stata emessa un’allerta Amber. Wolgast si guardò intorno. Dall’altra parte della strada c’era un rivenditore di automobili usate, con una serie di bandierine colorate che sventolavano tutto intorno allo spiazzo dove erano parcheggiate vecchie carrette e veicoli a benzina, che ormai non si poteva permettere più nessuno. Di fronte al marciapiede c’era una Chevy Tahoe che doveva avere almeno dieci anni.

Sul parabrezza c’era scritto FINANZIAMENTO AGEVOLATO. Wolgast spiegò a Sykes l’idea che gli era venuta. Andò a dare il latte e i biscotti a Doyle, perché facesse mangiare Amy, e attraversò la strada di corsa. Nel vedere che si avvicinava alla Tahoe, un uomo con occhialoni enormi e il riporto uscì da un prefabbricato. «Bella, vero?» Wolgast contrattò fino a farsela lasciare per seimila dollari, che erano praticamente tutto quello che aveva in tasca. Sykes avrebbe dovuto risolvere anche il problema soldi. Siccome era sabato, i documenti della Tahoe sarebbero arrivati ai computer della motorizzazione soltanto lunedì. A quel punto loro sarebbero già stati lontani. Doyle lo seguì per un chilometro, un chilometro e mezzo, fino a un condominio. Parcheggiò sul retro, distante dalla strada, e trasferì Amy sulla Tahoe. Non era proprio il massimo, ma, se Sykes avesse mandato qualcuno a far sparire la macchina prima di sera, sarebbero stati irrintracciabili. Gli interni della Tahoe profumavano eccessivamente di limone; a parte questo la macchina era abbastanza comoda e pulita e il contachilometri segnava solo 150.000. «Quanti contanti hai?» domandò Wolgast a Doyle. Misero insieme i soldi: avevano circa trecento dollari, fra tutti e due. Il pieno sarebbe costato almeno duecento, ma gli avrebbe consentito di arrivare fino all’Arkansas occidentale, se non addirittura nell’Oklahoma. Lì avrebbero potuto darsi appuntamento con qualcuno che portasse loro un mezzo diverso e altro denaro. Rientrarono nel Mississippi e si diressero a ovest, verso il fiume. Era una bella giornata, con poche nuvole lunghe e strette in cielo. Amy era immobile come una pietra sul sedile posteriore. Non aveva toccato cibo. Era minuta, sembrava ancora più piccola della sua età. Wolgast stava male al solo pensiero: quella Tahoe era una scena del crimine su ruote. Doveva uscire dallo Stato. Poi, chissà. Quando arrivarono al ponte era l’una. «Pensi che siamo a posto?» domandò Doyle. Wolgast non staccò gli occhi dalla strada. «Lo scopriremo molto presto.» La sbarra era sollevata, la guardiola vuota. Passarono senza problemi di là del fiume fangoso e gonfio delle acque primaverili. Una lunga fila di chiatte avanzava lenta verso nord, controcorrente. Lo scanner avrebbe rilevato e archiviato il codice veicolo, che però sarebbe risultato ancora di proprietà della concessionaria. Ci sarebbero voluti giorni per risalire a loro, controllare le riprese delle telecamere e collegare la bambina alla Tahoe. Sull’altra sponda del fiume, la strada scendeva dolcemente fra campi intrisi d’acqua. Wolgast aveva scelto con cura l’itinerario, in maniera di non attraversare centri abitati di dimensioni ragguardevoli fino a Little Rock. Regolò il controllo automatico della velocità a ottanta chilometri orari, il limite indicato sui segnali stradali, e andò verso nord, chiedendosi come avesse fatto Sykes a intuire che cosa aveva in mente di fare. Quando il furgone che trasportava Anthony Carter giunse al compound, Richards dormiva nel suo ufficio, con la testa sulla scrivania. Udì il ronzio dell’interfono: lo stavano chiamando dalla portineria per avvertirlo che Paulson e Davis erano arrivati.

Richards si fregò gli occhi e si concentrò. «Portatelo subito dentro.» Decise di non svegliare Sykes. Si alzò, si stirò, chiamò uno dello staff medico e la sicurezza, si mise la giacca e scese al pianterreno. L’area di carico e scarico era sul retro dell’edificio, lato sud, di fronte ai boschi e alla valle dove scorreva il fiume. Il compound un tempo era stato una specie di resort per manager e funzionari governativi. Richards conosceva vagamente la storia. Si sapeva che i locali erano in disuso da una decina d’anni quando i reparti scelti li avevano rilevati. Cole aveva ordinato che lo Chalet venisse smantellato pezzo per pezzo in modo da poter costruire la centrale nucleare sotto le fondamenta e poi rimontarlo esattamente come prima. Richards uscì al freddo. Sopra l’area di carico e scarico c’era un’ampia tettoia per proteggere la zona dalla neve e nascondere il resto del compound. Guardò l’ora: erano le sette e dodici minuti. Anthony Carter a quel punto doveva essere psicologicamente distrutto. Gli altri soggetti avevano avuto il tempo di abituarsi un po’ all’idea, ma lui era stato prelevato dal braccio della morte e portato lì nel giro di ventiquattr’ore. Si aspettava di trovarlo sconvolto come se fosse uscito da una centrifuga. L’importante era tenerlo calmo per almeno due ore. I fari del furgone illuminarono l’area. Richards scese i gradini e vide arrivare di corsa nella neve due militari armati. Disse loro di tenersi a una certa distanza e di non estrarre le armi. Aveva letto il dossier e dubitava che Carter fosse un uomo violento: risultava anzi docile come un agnellino. Paulson spense il motore e scese dal furgone. Sul portellone c’era un tastierino numerico: digitò la combinazione e il portellone cominciò a scorrere. Carter era seduto con la testa china e gli occhi aperti. Aveva le mani in grembo e i polsi ammanettati. Richards vide il sacchetto di McDonald’s appallottolato ai suoi piedi. Per lo meno gli avevano dato da mangiare. Lo sportello fra la cabina di guida e il comparto posteriore era chiuso. «Anthony Carter?» Nessuna risposta. Richards lo chiamò un’altra volta. Niente di niente. Carter sembrava catatonico. Richards si allontanò dal furgone e prese da parte Paulson. «Forza, spiegami com’è andata» ordinò. Paulson fece una faccia come a dire: “Perché proprio io?”. «Non so. È fuori, sragiona.» «Non raccontarmi balle.» Richards guardò l’altro, il rosso, Davis. Aveva in mano un fascio di giornalini. Fumetti, Cristo santo! Per la millesima volta pensò che erano solo dei ragazzini. «Cosa mi dici tu, soldato?» gli domandò. «Signore?» «Non far finta di non capire. Cos’hai da dire, ragazzo?» Davis guardò Paulson, poi ancora Richards. «Niente, signore.» Decise che si sarebbe occupato di quei due in un secondo tempo e si avvicinò di nuovo al furgone. Carter era rimasto immobile. Richards notò che gli colava il naso e aveva le guance rigate di lacrime.

«Anthony, io mi chiamo Richards e sono il responsabile della sicurezza di questo posto. Questi due ragazzi adesso non ti tormenteranno più. Mi senti?» «Non gli abbiamo fatto niente» si difese Paulson. «Era solo uno scherzo. Anthony, non li capisci gli scherzi?» Richards lo fulminò con un’occhiata. «Non ti rendi conto di quando è il momento di stare zitto? Cerca di tener chiusa quella cazzo di bocca.» «Ma per favore!» protestò Paulson. «Non ci sta con la testa, quello. Lo capirebbe chiunque.» Richards stava per perdere anche l’ultimo briciolo di pazienza. Senza dire una parola, prese l’arma che portava alla cintola, dietro la schiena. Era una Springfield Long Slide calibro .45, che usava prevalentemente per far scena: era troppo grossa, ridicola. Ma, nonostante le dimensioni, era facile da portare e alle primissime luci dell’alba, lì nell’area di carico e scarico, le sue parti in titanio risultarono efficacemente minacciose. Fece scattare la sicura con il pollice e caricò un proiettile con un unico gesto, poi prese Paulson per la cintura e gli puntò la canna nella morbida V di carne sotto il mento. «Non capisci che ti sparerei qui su due piedi, pur di far sorridere quest’uomo?» disse in tono pacato. Paulson, irrigidito, cercò con gli occhi Davis o qualcuno della sicurezza, ma guardò dalla parte sbagliata. «Cosa cazzo...?» balbettò sputacchiando. Deglutì, e il pomo d’Adamo gli andò su e giù davanti alla canna della pistola. «A posto. A posto.» «Anthony» fece Richards, sempre guardando Paulson. «Devi dirmelo tu: è a posto oppure no, secondo te?» Carter tacque per un po’. «Sì, a posto» rispose poi, sottovoce. «Sei sicuro? Perché me lo devi dire se non è così. L’ultima parola è la tua.» Altro silenzio. «A posto.» «Hai sentito?» Richards lasciò la cintura di Paulson e abbassò la pistola. «Secondo lui è tutto a posto.» Paulson stava per mettersi a piangere. I suoi due colleghi della sicurezza scoppiarono a ridere. «La chiave» ordinò Richards. Paulson la prese dalla tasca e gliela porse. Aveva le mani che gli tremavano e l’alito che puzzava di vomito. «Va’, adesso. Vattene» disse Richards. Lanciò un’occhiata a Davis e ai suoi giornaletti. «Anche tu. Toglietevi di qui, tutti e due.» I ragazzi scomparirono nella neve. Nei pochi minuti da che era arrivato il furgone il sole aveva fatto capolino dietro le montagne colorando l’aria di un pallido bagliore. Richards si chinò a liberare Carter. «Tutto bene? Ti fa male da qualche parte?» Carter si fregò la faccia bagnata. «Non volevano fare niente di brutto.» Spostò i piedi e scese a

terra, con le gambe un po’ rigide. Sbatté le palpebre e si guardò intorno. «Sono andati via?» Richards disse di sì. «Cos’è’ sto posto?» «Domanda pertinente» replicò Richards annuendo. «Poi te lo dico. Hai fame, Anthony?» «Mi hanno offerto la colazione. Da McDonald’s.» Carter vide gli uomini della sicurezza, ma rimase impassibile. «E loro chi sono?» domandò. «Sono qui per te, Anthony. Sei l’ospite d’onore.» Carter lo guardò diffidente. «Davvero gli avrebbe sparato se gliel’avessi detto io?» Qualcosa, in Carter, gli fece venire in mente Sykes. Quando era andato a trovarlo in ufficio e gli aveva chiesto se erano amici. L’espressione sperduta era simile. «Cosa pensi? Secondo te?» «Non so cosa pensare.» «Be’, che resti fra noi: no. No, non gli avrei sparato. Volevo solo mettergli paura.» «Come pensavo.» Carter sorrise. «Mi sono divertito, però. A vedere come l’ha trattato.» Scosse la testa ridacchiando. Poi si guardò in giro. «Adesso cosa succede?» «Succede che io ti accompagno dentro, dove non fa così freddo» rispose Richards.

8 La sera erano a un’ottantina di chilometri oltre Oklahoma City e correvano verso ovest nella prateria. All’orizzonte si stavano accumulando velocissimi nuvoloni scuri. Doyle dormiva con la testa appoggiata alla giacca ripiegata fra il sedile e il finestrino. In momenti come quelli, Wolgast gli invidiava la capacità di dimenticare, di spegnere l’interruttore e addormentarsi in qualsiasi luogo come un bambino di dieci anni. Wolgast era stanchissimo e sapeva che la cosa più giusta sarebbe stata accostare, farsi dare il cambio e riposarsi un po’, perché aveva guidato sempre lui da quando erano partiti da Memphis. Ma tenere in mano il volante era l’unica cosa che gli dava la sensazione di avere ancora una carta da giocare. Dopo la telefonata a Sykes, l’unico contatto che avevano avuto era stato in un’area di sosta per camion appena fuori Little Rock, dove avevano incontrato un agente con una busta che conteneva tremila dollari in biglietti da venti e da cinquanta e una macchina nuova, una berlina del Bureau priva di contrassegni. Ma a quel punto Wolgast aveva imparato ad apprezzare la Tahoe e voleva tenerla. Gli piacevano il motore otto cilindri, energico e grosso, le sospensioni elastiche, lo sterzo docile. Erano anni che non guidava una macchina così. Era un peccato rottamare un gioiellino del genere. E così, quando l’agente gli aveva offerto le chiavi della berlina, Wolgast aveva fatto segno di tenersele. Non lo rimpiangeva. “Ci sono segnalazioni su di noi?” aveva chiesto all’agente, una recluta con la pelle rosea, color prosciutto cotto. L’agente aveva fatto una faccia perplessa. “Io non so niente.” Wolgast aveva riflettuto un istante. “Bene. Continua così” aveva replicato poi. L’agente l’aveva accompagnato al bagagliaio della berlina, che si era aperto come per magia. Conteneva una borsa di nylon nera, che lui non aveva chiesto ma che si aspettava. “Tienitela” aveva detto. “Sicuro? Mi hanno detto di darla a voi.” Wolgast aveva guardato la Tahoe parcheggiata in mezzo a due autoarticolati fermi. Dal finestrino dietro vedeva Doyle, ma non la bambina, che probabilmente era ancora sdraiata. Voleva ripartire al più presto: perdere tempo era sicuramente la cosa peggiore. Quanto alla borsa, poteva risultare utile o no, ma la decisione di non prenderla lo faceva stare meglio. “Di’ pure quello che vuoi ai tuoi superiori” aveva replicato. “In realtà quello che mi servirebbe veramente sono degli album da colorare.” “Scusi?” Ci sarebbe stato da ridere se la situazione non fosse stata così drammatica. Wolgast aveva posato il palmo sul portellone e lo aveva chiuso. “Non importa.” Nella borsa c’erano pistole, ovviamente, e munizioni. Forse anche giubbotti antiproiettile. Era possibile che ce ne fosse uno anche per la bambina: una ditta, in Ohio, ne produceva anche di taglie molto piccole dopo i fatti di Minneapolis. Wolgast l’aveva sentito dire al Today Show. Venivano realizzate addirittura tutine in Zylon per neonati. Che mondo! Avevano superato Little Rock da sei ore, ormai, ed era ancora contento di non aver preso quella

borsa. Che succedesse quel che doveva succedere! Una parte di lui avrebbe voluto che li fermassero. Fuori da Little Rock, aveva sfiorato i centotrenta chilometri orari, solo vagamente consapevole di ciò che stava facendo, ovvero richiamare l’attenzione di un vigile o un poliziotto in maniera che gli impedisse di portare a termine la missione. Ma Doyle gli aveva detto di rallentare – “Capo, non converrebbe premere un po’ meno sull’acceleratore?” – e lui aveva ritrovato la lucidità. Si era immaginato la scena: i lampeggianti, la sirena, lui che accostava e metteva le mani sul volante, guardava nello specchietto e vedeva l’agente che comunicava il numero di targa via radio ai colleghi in centrale. Due uomini e una bambina a bordo di un mezzo con targa provvisoria del Tennessee: non ci sarebbe voluto molto a mettere insieme le cose, a collegare quei tre con la storia della suora allo zoo. Nella sua immaginazione, non era andato oltre l’agente con il microfono in una mano e l’altra posata sulla pistola. Che cosa avrebbe fatto Sykes? Avrebbe ammesso di conoscerli? No, lui e Doyle sarebbero stati rottamati, cancellati nello stesso tritadocumenti usato per Anthony Carter. E la bambina? Be’, proprio non lo sapeva. Avevano sfiorato Oklahoma City diretti a nordest, evitando il posto di controllo sulla I-40 e attraversando la I-35 su una strada di campagna priva di telecamere. La Tahoe non aveva un navigatore satellitare, ma Wolgast poteva utilizzare quello del palmare. Con una mano sul volante, digitava agilmente con l’altra e lasciava che il percorso evolvesse a mano a mano che proseguivano, in un patchwork di statali e provinciali, alcune dissestate, altre addirittura sterrate, verso nord e verso ovest. Adesso fra loro e il confine con il Colorado c’erano solo pochi centri, cittadine dai nomi come Virgil, Ricochet o Buckrack, oasi semiabbandonate in un mare di praterie con poco o nulla a parte un minimarket, due o tre chiese, qualche silos e chilometri di aperta pianura fra l’una e l’altra. I cieli sconfinati delle grandi pianure gli facevano venire in mente l’eternità, perché erano sempre uguali, erano sempre stati così e sempre lo sarebbero rimasti. In un luogo come quello si poteva sparire senza problemi, vivere tutta la vita senza che nessuno se ne accorgesse. Forse, quando fosse tutto finito, sarebbe tornato lì. Forse era di un posto del genere che aveva bisogno. Amy era così silenziosa che ci si sarebbe potuti benissimo dimenticare di lei, a parte il fatto che tutto quello che la riguardava era un errore. Una bambina di sei anni, per la miseria! Maledetto Sykes, maledetto il Bureau e maledetto anche Doyle. Wolgast maledisse anche se stesso, per buona misura. Amy, distesa sul sedile con i capelli sulla faccia, sembrava addormentata, ma Wolgast non credeva dormisse: faceva finta, come i gatti, e lo teneva d’occhio. La vita, per quanto breve, le aveva insegnato ad aspettare, a portare pazienza. Tutte le volte che Wolgast le aveva chiesto se aveva bisogno di andare in bagno o di mangiare qualcosa – visto che non aveva toccato il latte e i biscotti di quella mattina –, nel sentire il suono del proprio nome aveva aperto gli occhi con rapidità felina e aveva incrociato il suo sguardo nello specchietto per una frazione di secondo soltanto, ma con un gelo che gli aveva trapassato il cuore. Poi li aveva richiusi. Era dallo zoo che non parlava, da oltre otto ore. Lacey. Si chiamava così la suora che si stringeva Amy al petto come di fronte alla morte. Quando ripensava a quel terribile braccio di ferro nel parcheggio, a tutte quelle grida e quei pianti, Wolgast si sentiva torcere le budella. “Sai, Lila, oggi ho rapito una bambina. Così adesso ne abbiamo una per uno, eh?” Doyle si stava svegliando. Si tirò su a sedere e si fregò gli occhi con espressione svanita. La sua mente stava riassemblando i pezzi, ritrovando la consapevolezza di se stesso. Si voltò a

guardare Amy e subito tornò a guardare davanti. «Andiamo incontro a un temporale» disse. Si erano ammassati talmente tanti nuvoloni da oscurare il tramonto e rabbuiare il cielo prima del tempo. All’orizzonte, sotto una striscia di nuvole, una cortina sottile di pioggia scendeva sui campi, rischiarata da una luce dorata. Doyle si chinò a guardare meglio il cielo dal parabrezza. Parlò a voce bassa. «Quanto è lontana quella perturbazione?» «Meno di dieci chilometri, direi.» «Forse dovremmo cambiare strada.» Doyle guardò l’ora. «Andare un po’ più a sud.» Tre o quattro chilometri dopo oltrepassarono una stradina sterrata costeggiata da una recinzione con il filo spinato sopra. Wolgast frenò e fece retromarcia. La viuzza saliva dolcemente e scompariva dietro una fila di pioppi: probabilmente al di là della collina c’era un fiume, o un canale. Wolgast controllò sul navigatore, ma la strada non era indicata. «Non so» disse Doyle quando Wolgast gli fece vedere. «Forse dovremmo cercare qualcos’altro.» Wolgast girò il volante della Tahoe e si diresse verso sud. Non pensava che quella strada fosse senza sbocco: avrebbero visto le cassette della posta all’incrocio. Trecento metri dopo la strada si restringeva e diventava ancora più sconnessa. Superata la fila di pioppi, attraversarono un ponticello di legno che passava sopra il ruscello del quale Wolgast aveva indovinato l’esistenza. Il crepuscolo era di un verde spento. Nello specchietto retrovisore vedeva il temporale che si alzava sopra l’orizzonte e, dal modo in cui l’erba si increspava, capì che stava per raggiungerli. Dopo una quindicina di chilometri cominciò a piovere. Non erano passati davanti a case o fattorie; si trovavano in aperta campagna, senza niente sotto cui ripararsi. Scese qualche goccia, poi, nel giro di pochissimo, li investì un acquazzone di una violenza tale che Wolgast non vedeva più niente. I tergicristallo erano inutili. Accostò sul bordo della strada, con folate di vento che facevano ondeggiare la macchina. «E adesso?» chiese Doyle alzando la voce per farsi sentire nonostante la furia degli elementi. Wolgast si voltò a guardare Amy, che continuava a far finta di dormire sul sedile dietro. Tuonava, ma lei non batteva ciglio. «Aspettiamo che passi. Intanto mi riposo un po’.» Chiuse gli occhi e ascoltò il rumore della pioggia sul tetto. Lasciò che quel suono lo attraversasse: in quei mesi con Eva aveva imparato a riposare senza dormire, per potersi alzare subito e correre verso la culla appena lei si svegliava. Gli vennero in mente ricordi, immagini, sensazioni che riemergevano dal passato: Lila nella cucina di Cherry Creek, una mattina poco dopo l’acquisto della casa, che versava il latte sui fiocchi di cereali; l’acqua fredda quando si tuffava dal molo a Coos Bay, le voci degli amici sopra di lui, che ridevano e lo incitavano; un ricordo di quando era piccolo, appena nato, con luci e rumori intorno a confortarlo, a dirgli che era al sicuro. Era nell’anticamera del sonno, in quel luogo dove sogni e ricordi si mescolano raccontando storie bizzarre, e contemporaneamente era ancora in macchina, ad ascoltare la pioggia. «Devo andare.» Aprì gli occhi di scatto: non pioveva più. Quanto tempo aveva dormito? L’auto era buia: il sole

era tramontato. Doyle era girato verso il sedile posteriore. «Cos’hai detto?» domandò Doyle. «Devo andare» ripeté la bambina. La sua voce, dopo ore di silenzio, era sorprendente: chiara e forte. «In bagno.» Doyle guardò Wolgast, agitato. «La porto io?» chiese. Wolgast capì che non ne aveva nessuna voglia. «No, tu no» dichiarò Amy. Si era tirata su a sedere, con il coniglietto in braccio. Era floscio, sporco e logoro. Cercò gli occhi di Wolgast nello specchietto, alzò una mano e lo indicò. «Mi porta lui.» Wolgast si slacciò la cintura e scese dalla Tahoe. L’aria era fresca e immobile: quel che restava del temporale stava scomparendo verso sudest, lasciandosi dietro un cielo color dell’inchiostro, fra il blu scuro e il nero. Tolse la sicura alla portiera e Amy scese. Si era tirata su la cerniera della felpa e si era messa il cappuccio sulla testa. «Okay?» le chiese Wolgast. «Qui non la faccio.» Wolgast non le disse che non si doveva allontanare: non gli pareva il caso. Dove poteva andare? La accompagnò una decina di metri più in là, dove i fari della macchina non arrivavano, e si voltò dall’altra parte mentre lei si abbassava i jeans sul ciglio della strada. «Mi aiuti?» Wolgast si girò. La bambina era rivolta verso di lui, con i jeans e le mutandine all’altezza delle caviglie. Wolgast si sentì arrossire. «Cosa vuoi che faccia?» Amy gli tese le mani. Le sue dita gli parvero minuscole, i palmi umidi e caldi, da bambina piccola. La sorresse mentre lei si piegava all’indietro per accucciarsi, sospendendosi sopra il fosso che costeggiava la strada come un pianoforte che penzola da una gru. Dove aveva imparato a mettersi in quella posizione? Chi l’aveva aiutata in passato? Appena ebbe finito, Wolgast si voltò per darle modo di tirarsi su i pantaloni. «Non devi aver paura, piccola.» Amy non replicò e non fece un passo verso la macchina. Intorno a loro i campi erano vuoti e l’aria immobile, come se il mondo stesse trattenendo il fiato. Wolgast avvertì il vuoto dei campi, le migliaia di chilometri di terra desolata tutto intorno. Sentì aprire e richiudere la portiera: anche Doyle era sceso a fare pipì. A sud si sentiva l’eco del temporale che si allontanava e insieme un altro rumore, nuovo, tintinnante, simile a uno scampanare. «Possiamo essere amici, se ti va» azzardò. «Cosa dici?» Era una bambina strana, pensò: come mai non aveva pianto nemmeno un po’? Da quando l’avevano presa allo zoo, non aveva mai chiesto di sua madre, non aveva mai detto che voleva tornare a casa, o al convento. Dov’era la sua casa? A Memphis, presumibilmente. O forse no, forse quella bambina non aveva una casa. Qualsiasi cosa fosse, quello che aveva passato le aveva tolto l’idea di casa.

«Non ho paura. Possiamo tornare alla macchina se vuoi.» Per un attimo lo guardò, lo studiò. Wolgast si era abituato al silenzio ed era certo che ciò che sentiva era musica, anche se la distanza la distorceva. Da qualche parte, lungo quella strada, c’era qualcuno che suonava. «Io mi chiamo Brad.» Gli parve un nome vuoto e pesante. Amy fece cenno di sì con la testa. «E il mio collega si chiama Phil.» «Lo so, vi ho sentito parlare.» Spostò il peso da una gamba all’altra. «Pensavate che non sentissi, ma io sentivo.» Aveva un che di inquietante, ma era una bambina intelligente. Lo si sentiva dalla voce, lo si vedeva dal modo in cui guardava il prossimo, squadrandolo, dall’uso del silenzio per valutare, soppesare l’altro. Wolgast aveva la sensazione di parlare con una persona molto più grande, anche se forse non era proprio così. Non sarebbe stato in grado di dire che differenza c’era. «Cosa c’è nel Colorado? Perché è lì che andiamo, vero? Ve l’ho sentito dire.» Wolgast non sapeva cosa rispondere. «C’è un medico che ti visiterà. Ti farà una specie di controllo.» «Non sono mica malata.» «Proprio per questo. Cioè, in realtà non lo so neanch’io.» Si sentiva male a mentirle. «Non devi aver paura.» «Smettila di dire così.» La sua schiettezza lo colse talmente alla sprovvista che per un attimo rimase zitto. «Bene. Mi fa piacere.» «Perché io non ho paura» dichiarò Amy incamminandosi verso le luci della Tahoe. «Tu sì, invece.» Pochi chilometri dopo si ritrovarono davanti una specie di cupola di luce pulsante; quando si avvicinarono, si rivelò una costellazione di punti luminosi che orbitavano bassi sopra l’orizzonte. Mentre Wolgast si rendeva conto di che cosa aveva di fronte, arrivò a un incrocio. Accese la luce per controllare il navigatore. Sulla strada principale c’era una fila di auto e pick-up, molti più veicoli di quanti ne avessero visti nelle ultime ore, che andavano tutti nella stessa direzione. Aprì il finestrino e l’aria della notte portò con sé un suono inequivocabile di musica. «Cos’è?» chiese Doyle. Wolgast non disse niente e svoltò immettendosi nella fila di auto. Sul pianale del pick-up davanti a loro c’erano cinque o sei ragazzini seduti su balle di fieno. Passarono davanti a un cartello con la scritta: HOMER, OKLAHOMA, POP. 1232. «Non stargli così vicino» disse Doyle riferendosi al pick-up. «Questa cosa non mi piace.» Wolgast lo ignorò. Una ragazzina, vedendo la sua faccia oltre il parabrezza, gli fece ciao con la mano. Aveva i capelli mossi dal vento. Le luci del luna park erano sempre più chiare, e così i

segni di civiltà: una cisterna, un negozio di articoli agricoli, una costruzione moderna che probabilmente era una casa di riposo o un ospedale, non distanti dalla strada. Il pick-up si fermò davanti a un Casey’s General Store, nel parcheggio del quale c’era un sacco di veicoli e di persone. I ragazzini si alzarono subito in piedi e saltarono giù prima ancora che il pick-up finisse di fare manovra, per raggiungere gli amici. Nella cittadina il traffico era più lento. Amy si era messa a sedere e guardava tutto quel movimento dal finestrino. Doyle si voltò. «Sta’ giù, Amy.» «Lascia che guardi.» Wolgast alzò la voce perché Amy sentisse. «Non dare ascolto a Phil, piccola: fa’ quello che vuoi.» Doyle gli si avvicinò. «Cosa stai facendo?» Wolgast continuò a guardare la strada. «Rilassati.» Piccola? Da quando in qua? Le strade erano piene di gente che camminava tutta nella stessa direzione, con plaid, borse frigo e sedie a sdraio. Molti adulti tenevano per mano bambini o spingevano carrozzine e passeggini: erano contadini, rancheros, in salopette, jeans e scarponi pesanti. Gli uomini avevano tutti il cappello da cowboy. Wolgast vedeva qualche pozzanghera qua e là, ma la serata era limpida e asciutta. La pioggia era finita: adesso c’era la fiera. Wolgast si lasciò trasportare dal flusso del traffico fino alla scuola superiore, dove uno striscione diceva ISTITUTO SUPERIORE DELLA CONTEA DI BRANCH: FESTA DI PRIMAVERA, 2022 MARZO. Un uomo con un giubbotto arancione catarifrangente fece segno di entrare nel parcheggio, dove un altro li indirizzò verso un’area supplementare, in un campo pieno di fango. Wolgast spense il motore e osservò Amy nello specchietto: la bambina stava guardando fuori dal finestrino, verso le luci e i suoni del luna park. Doyle si schiarì la voce. «Stai scherzando, vero?» Wolgast si voltò sul sedile. «Amy, Phil e io usciamo a parlare un secondo. Okay?» La bambina annuì: improvvisamente fra loro due c’era un’intesa da cui Doyle era escluso. «Torniamo subito» disse Wolgast. Doyle lo aspettava dietro la Tahoe. «Non esiste» dichiarò. «Che male c’è?» Doyle abbassò la voce. «Siamo già fortunati a non aver incontrato polizia. Pensaci: due uomini in completo scuro con una bambina. Non credi che ci noterebbero tutti?» «Ci separiamo. Io vado con Amy. Ci possiamo cambiare in macchina. Beviti una birra, divertiti.» «Non sei lucido, capo. Amy è una prigioniera.» «No.» Doyle sospirò. «Hai capito cosa voglio dire.» «No. È una bambina, Phil. Ha sei anni.» Erano vicinissimi e Wolgast sentiva l’odore della stanchezza addosso a Doyle, dopo ore di

viaggio. Passò vicino a loro un gruppo di adolescenti e per un momento tacquero. Il parcheggio si stava riempiendo. «Senti, non sono di pietra» disse Doyle sottovoce. «Sei convinto che non mi renda conto di quanto è assurda questa storia? Se ci penso, mi viene da vomitare.» «In realtà mi sembri piuttosto rilassato. Hai dormito come un bambino da Little Rock a qua.» Doyle si mise sulla difensiva. «Vuoi spararmi un colpo di pistola? Fa’ pure: ero stanco. Ma non possiamo portarla sulle giostre. Esula dai nostri programmi.» «Un’ora soltanto» replicò Wolgast. «Non possiamo tenerla chiusa in macchina un giorno intero, senza darle nemmeno un po’ di respiro. La facciamo divertire un’oretta, così si scarica. Sykes non verrà mai a saperlo. Poi ci rimettiamo in viaggio e vedrai che dormirà tutto il tempo.» «E se ci scappa?» «Non scappa.» «Non so come fai a esserne così sicuro.» «Tu ci controllerai da lontano. Se succede qualcosa, noi siamo due e lei è da sola.» Doyle fece una faccia scettica. «Okay, il capo sei tu, tocca a te decidere. Ma sappi che io sono contrario.» «Sessanta minuti e ci rimettiamo in marcia» disse Wolgast. Si cambiarono sui sedili davanti della Tahoe, mettendosi jeans e camicie sportive. Amy li aspettò seduta dietro. Poi Wolgast le spiegò che cosa avrebbero fatto. «Devi starmi sempre vicino. E non parlare con nessuno. Promesso?» «Perché non posso parlare con nessuno?» «È la regola. Se non ci stai, non andiamo.» La bambina ci pensò su un momento, poi annuì. «Va bene.» Doyle rimase indietro, mentre loro si diressero verso l’ingresso del luna park. L’aria profumava di dolci e di fritto. Una voce maschile, piatta come le pianure dell’Oklahoma, annunciava all’altoparlante i numeri del bingo. «B sette. G trenta. Q sedici.» «Senti» disse Wolgast ad Amy appena ebbe la certezza che Doyle non li potesse più sentire. «So che ti sembrerà strano, ma vorrei che facessi una cosa. Mi faresti questo favore?» Si fermarono. Wolgast vide che Amy era tutta spettinata. Si inginocchiò e le ravviò i capelli con le mani, scostandole le ciocche dalla faccia. Aveva una maglietta con la scritta luccicante FASHION. Le tirò su la cerniera della felpa, perché faceva freddo. «Fa’ finta che io sia tuo papà. Lo so, non lo sono: è una finta. Ma se ti chiedono qualcosa, di’ così. Okay?» «Ma hai detto che non posso parlare con nessuno.» «Sì, ma, caso mai, di’ così.» Lanciò un’occhiata nella direzione di Doyle, che aspettava con le

mani nelle tasche della giacca a vento, con la zip tirata su fino al collo. Wolgast sapeva che aveva la pistola nella fondina sotto l’ascella. Lui aveva lasciato la sua nel vano portaoggetti. «Proviamo. Chi è il signore che è con te, bambina?» «Mio papà?» tentò Amy. «Più convinta. Riprova.» «Mio... papà.» “Ottimo” pensò Wolgast. La bambina avrebbe dovuto fare l’attrice. «Bravissima.» «Possiamo andare sul gira-gira?» «Il gira-gira? E qual è, amore?» Piccola, amore... Non riusciva a trattenersi. Gli veniva dal cuore. «Quella giostra là.» Wolgast guardò: dietro la biglietteria c’era una giostra enorme con una serie di bracci e una navicella colorata che ruotava in fondo a ciascuno di essi. La Piovra. «Certamente» rispose sorridendo. «Andiamo dove vuoi tu.» Pagò i biglietti per entrare al luna park e quindi fece la fila per comprare quelli per le singole attrazioni. Pensò che forse Amy voleva mangiare, ma decise di aspettare, nel caso in cui i giri sulle giostre le facessero venire la nausea. Gli piaceva pensare in quel modo, immedesimarsi in lei, cercare di capire che cosa avrebbe potuto farla felice. Sentiva anche lui l’eccitazione, l’euforia della fiera. Quattro giostre in croce, malmesse e probabilmente pure pericolose, però... Anzi, perché aveva deciso di restare un’ora soltanto? «Sei pronta?» La coda per salire sulla Piovra era lunga, ma veloce. Quando arrivò il loro turno, l’operatore li fermò alzando una mano. «Quanti anni ha la bambina?» Li guardava, diffidente, fumando una sigaretta. Sugli avambracci nudi serpeggiavano tatuaggi violacei. Prima che Wolgast avesse il tempo di rispondere, Amy fece un passo avanti. «Otto» disse. Wolgast vide solo in quel momento il cartello posato su una seggiola pieghevole. VIETATO L’ACCESSO AI MINORI DI SETTE ANNI. «Non li dimostra» commentò l’uomo. «Be’, li ha» ribatté Wolgast. «È con me.» L’operatore squadrò la bambina da capo a piedi, poi si strinse nelle spalle. «Se vomita, sono affari suoi.» Si sedettero nella navicella e il tatuato abbassò la sbarra di sicurezza. Poi la navicella si sollevò con un sobbalzo e avanzò, in maniera che sulle successive potessero salire altre persone. «Paura?» Amy gli si strinse contro tenendosi il cappuccio della felpa vicino alla faccia perché aveva freddo. Si aggrappò alla sbarra con tutte e due le mani. Aveva gli occhi spalancati. Scosse la testa con foga.

La navicella avanzò e si fermò altre quattro volte. Dal punto più alto si vedevano tutti i baracconi, la scuola e i parcheggi e, dietro, la cittadina di Homer, con la sua griglia di strade illuminate. Dalla strada provinciale continuavano ad arrivare macchine. Da lassù parevano lente come le papere del tiro al bersaglio. Wolgast cercò Doyle con lo sguardo e sentì la navicella sobbalzare un’altra volta. «Tieniti forte!» Scesero a precipizio, di colpo, finendo addosso alla sbarra. La gente lanciava gridolini eccitati. Wolgast chiuse gli occhi, sentendosi scaraventato di qua e di là, in balia della giostra. Erano anni che non andava al luna park e gli parve di una violenza spaventosa. Sentiva Amy spinta contro di lui dalla forza centrifuga. Quando riaprì gli occhi, volavano rasoterra, con le luci della fiera che ruotavano intorno a loro come una pioggia di stelle cadenti. Poco dopo vennero di nuovo sospinti in alto. Girarono sei, sette, otto volte, e ogni volta salivano e scendevano. Durò un’eternità, e finì in un istante. Durante la sobbalzante discesa verso lo sbarco dalle navicelle, Wolgast osservò Amy: aveva l’aria indifferente, lo sguardo scrutatore, ma nei suoi occhi scuri brillava una luce calda di gioia. Wolgast si sentì invadere da una nuova sensazione: nessuno le aveva mai fatto un regalo così. «Allora, ti è piaciuto?» le domandò sorridendo. «Bello!» Amy alzò il viso. «Facciamo un altro giro.» L’operatore sollevò la sbarra di sicurezza per farli scendere. Si rimisero in coda. Avevano davanti una cicciona con un vestito a fiori, in compagnia del marito, che aveva la faccia abbronzata e indossava jeans e una camicia da cowboy. Sotto il labbro, aveva una presa di tabacco. «Come sei carina!» trillò la donna guardando Wolgast. «Quanti anni ha?» «Otto» rispose Amy dando la mano a Wolgast. «Lui è mio papà.» La donna scoppiò a ridere e le sue sopracciglia si sollevarono come paracaduti nel vento. Aveva le guance truccate malamente. «Ma certo: si vede subito che è tuo papà. Vi assomigliate tantissimo.» Diede un colpetto al marito. «Non è carina, Earl?» L’uomo annui. «Carinissima.» «Come ti chiami, tesoro?» le chiese la donna. «Amy.» La donna guardò di nuovo Wolgast. «Ho una nipotina più o meno della sua età, che però non parla così bene. Deve essere fiero di sua figlia.» Wolgast era troppo stupefatto per rispondere. Gli sembrava di essere ancora sulla giostra, in balia di forze più grandi di lui. Pensò a Doyle e si chiese se li stava osservando. Ma in fondo non gli importava: se voleva guardare, che guardasse pure. «Stiamo andando nel Colorado» aggiunse Amy stringendo la mano a Wolgast con fare da cospiratrice. «A trovare la nonna.» «Davvero? Tua nonna è molto fortunata ad avere una nipotina come te che va a farle visita.» «È malata. Dobbiamo portarla dal dottore.»

La donna fece una faccia triste. «Mi dispiace.» Poi si rivolse a Wolgast con un’espressione comprensiva. «Spero che si aggiusti tutto. Vi ricorderemo nelle nostre preghiere.» «Grazie.» Dopo aver fatto altri tre giri sulla Piovra, si spostarono per cercare qualcosa da mangiare. Wolgast non riusciva a vedere Doyle da nessuna parte: o li stava pedinando come un vero professionista, oppure aveva deciso di desistere. C’era un sacco di belle ragazze in giro. Forse si era lasciato distrarre. Wolgast comprò un hot dog per Amy e si sedette con lei a un tavolo da picnic a guardarla mangiare. Tre morsi, quattro, e l’hot dog era finito. Gliene comprò un altro e, dopo che ebbe divorato anche quello, le prese una frittella spolverata di zucchero e un cartoncino di latte. Non era proprio una cena sana, ma per lo meno aveva bevuto il latte. «E adesso?» le domandò. Amy aveva le guance sporche di unto e di zucchero. Fece per pulirsi con il dorso della mano, ma Wolgast la fermò. «Usa il tovagliolino.» E gliene porse uno. «La giostra con i cavalli» disse lei. «Davvero? Non sarà un po’ troppo tranquilla, dopo la Piovra?» «C’è la giostra con i cavalli?» «Penso proprio di sì.» Era comprensibile, pensò Wolgast. La Piovra era per la sua parte adulta, quella che sapeva aspettare in silenzio e mentire con affascinante sicurezza alla donna in coda, i cavallini per la bambina che Amy effettivamente era. Nell’incantesimo di quella sera, fra luci e suoni, disorientato dopo quattro giri sulla Piovra, Wolgast aveva voglia di farle delle domande: chi era veramente; chi erano sua madre e suo padre, se ne aveva uno; di dov’era; chi era la suora, Lacey, e cosa era successo allo zoo, la scena di follia nel parcheggio. “Chi sei, Amy? Che cosa ti ha portato qui? Che cosa ti ha fatto arrivare fino a me? E come fai a sapere che ho paura, che vivo nella paura?” Amy lo prese per mano e per Wolgast fu quasi come ricevere la scossa. La bambina gli trasmetteva una corrente calda, che lo invadeva piano piano. Quando Amy vide i cavalli dipinti che giravano, Wolgast ebbe l’impressione che la sua gioia lo contagiasse. “Lila” pensò. “Lila, era questo che volevo, sai? Non ho mai desiderato altro.” Diede i biglietti all’operatore. Amy scelse un cavallo sulla fila esterna, uno stallone lipizzano rampante, con denti di ceramica bianchissimi. Non c’era quasi nessuno: erano le nove passate e i bambini più piccoli erano già tornati a casa. «Resta vicino a me» ordinò Amy. Wolgast ubbidì. Posò una mano sul palo e l’altra sulle briglie, come per guidarla. Amy aveva le gambe troppo corte per infilare i piedi nelle staffe; le raccomandò di tenersi forte. Fu lì che vide Doyle, a pochi metri di distanza, dietro una fila di balle di fieno vicino al tendone

della birra, che parlava animatamente con una ragazza dalla lunga chioma rossa. Le stava raccontando qualcosa e gesticolava, con il bicchiere in mano, per sottolineare un punto, una battuta. Probabilmente recitava la parte del rappresentante di fibre ottiche di Indianapolis, come aveva fatto Amy con la signora in coda quando si era inventata la storia della nonna malata nel Colorado. Era così che si faceva, pensò Wolgast: ti inventavi un personaggio e dopo un po’ non ti restavano altro che le bugie, diventavi quel personaggio. Sotto i suoi piedi il fondo della giostra sussultò; con una specie di rutto la musica cominciò a uscire dagli altoparlanti e la giostra iniziò a girare. La rossa, intanto, rovesciò la testa all’indietro, civettuola, e sfiorò la spalla di Doyle con un rapido gesto della mano. Con il ruotare della giostra, uscirono dal suo campo visivo. Fu in quel momento che gli venne l’idea. Sembravano frasi scolpite nella pietra. “Vattene. Prendi Amy e vattene via.” “Doyle è distratto, ha perso la cognizione del tempo. Va’!” “Salvala!” La giostra continuava a girare e il cavallo di Amy andava su e giù come un pistone. In pochi minuti i pensieri di Wolgast presero forma, diventarono un piano. Appena finita la corsa, sarebbe scomparso con la bambina nella folla, nel buio, lontano dal tendone della birra e oltre l’uscita e, quando Doyle se ne fosse accorto, nel parcheggio avrebbe trovato soltanto un posto vuoto. Sarebbero svaniti nel nulla, risucchiati in un raggio di millecinquecento chilometri. Era bravo, sapeva come fare. Aveva tenuto la Tahoe per quel motivo, si rese conto in quel momento: già là, nel parcheggio di Little Rock, nutriva il seme di quell’idea, un seme che aspettava solo di germogliare. Non sapeva come fare a trovare la madre di Amy, ma ci avrebbe pensato in un secondo tempo. Non si era mai sentito così lucido, così determinato. Sembrava che tutta la sua vita ruotasse intorno a quel proposito di fuga, di salvezza. Il resto – il Bureau, Sykes, Carter, gli altri, persino Doyle – era una bugia, un velo dietro il quale il suo vero io aveva vissuto nascosto, in attesa di uscire allo scoperto. Era arrivato il momento: doveva solo seguire il proprio istinto. La giostra cominciò a rallentare. Wolgast non guardò neanche in direzione di Doyle per paura che portasse iella, che lo prendesse il panico. Quando si fermarono, fece scendere Amy dal cavallo e si inginocchiò per poterla guardare dritto negli occhi. «Amy, vorrei che mi facessi un favore. Ascolta bene quello che ti dico.» La bambina annuì. «Adesso noi due ce ne andiamo. Tu restami vicina e non dire una parola. Ci muoveremo in fretta, ma senza correre. Fa’ quello che ti dico e andrà tutto bene.» La scrutò per vedere se aveva capito. «Okay?» «Non devo correre.» «Esatto. Andiamo.» Scesero dalla giostra. Erano dalla parte opposta al tendone della birra. Wolgast la prese in braccio e la calò al di là della recinzione intorno alla giostra. Poi, aggrappandosi con una mano a un palo di metallo, la scavalcò con un salto. Nessuno parve notarlo, o forse qualcuno se ne accorse ma Wolgast non lo vide. Tenendo Amy per mano, si diresse di buon passo verso il fondo

della fiera, lontano dalle luci. Aveva in programma di fare il giro per raggiungere l’ingresso principale oppure trovare un’altra uscita. Se si fossero sbrigati, quando Doyle si fosse accorto della loro fuga sarebbe stato troppo tardi. Arrivarono a una recinzione alta, dietro la quale c’era una fila scura di alberi e, oltre, le luci di una strada che costeggiava il campo sportivo a sud della scuola. Non c’era modo di oltrepassarla: bisognava per forza fare tutto il giro e tornare all’ingresso principale. Stavano camminando nell’erba alta, ancora bagnata dopo il temporale, e avevano calzoni e scarpe fradici. Riemersero vicino ai chioschi di cibo e ai tavoli da picnic. Da lì Wolgast vedeva l’uscita, a una trentina di metri di distanza. Aveva il batticuore. Si fermò a controllare rapidamente la scena: Doyle non c’era. «Dritti verso l’uscita» disse ad Amy. «Testa bassa.» «Capo?» Wolgast si bloccò. Doyle li stava raggiungendo di corsa indicando l’orologio. «Avevamo detto un’ora.» Wolgast lo guardò imperturbabile. «Credevamo di averti perso» mentì. «Ti stavamo venendo a cercare.» Doyle lanciò un’occhiata verso il tendone della birra. «Sai com’è. Avevo attaccato discorso.» Sorrise con un’aria vagamente colpevole. «C’è della bella gente da queste parti. Gente che chiacchiera volentieri.» Indicò i pantaloni fradici di Wolgast. «Cosa t’è successo? Sei tutto bagnato.» Per un attimo Wolgast rimase zitto. «È pieno di pozzanghere.» Si sforzò di non distogliere lo sguardo, di fissare Doyle dritto negli occhi. «L’acquazzone.» Forse non era tutto perduto. Forse poteva ancora distrarlo prima di arrivare alla Tahoe. Ma Doyle era più giovane e più forte, e Wolgast aveva lasciato la pistola in macchina. «L’acquazzone» ripeté Doyle. Annuì, e Wolgast glielo lesse in faccia: aveva capito. Anzi, lo sapeva fin dall’inizio. Il tendone della birra era una prova, una trappola. Non li aveva mai persi di vista, neppure per un attimo. «Capito. Be’, abbiamo un lavoro da portare a termine. Giusto?» «Phil...» «Lascia stare.» Parlò a voce bassa, senza toni minacciosi, come un dato di fatto. «Non dire niente. Siamo insieme in questa cosa, Brad. È ora di andare.» Wolgast perse di colpo tutte le speranze. Continuava a tenere Amy per mano e non aveva il coraggio di guardarla in faccia. “Mi dispiace” pensò, trasmettendole quel messaggio attraverso la mano. “Mi dispiace.” Insieme, con Doyle che li seguiva a pochi passi di distanza, uscirono dal luna park ed entrarono nel parcheggio. Nessuno di loro notò l’uomo, l’agente della polizia di Stato dell’Oklahoma fuori servizio che, due ore prima, aveva letto la segnalazione relativa a una bambina rapita da due uomini bianchi allo zoo di Memphis. Aveva finito il turno poco dopo ed era andato all’appuntamento con la moglie davanti alla scuola superiore per portare i figli sull’autoscontro. Ma lui aveva notato loro.

9 “Mi chiamavo... Fanning.” Quelle parole gli rimasero sulle labbra tutto il giorno, fin da quando si svegliò alle otto, si lavò, si vestì, fece colazione e si sedette sul letto nella sua stanza, facendo zapping e fumando Parliament, in attesa che venisse sera. Tutto il giorno continuò a sentire: “Fanning. Mi chiamavo Fanning”. Per Grey erano parole senza senso. Non conosceva quel nome, non aveva mai incontrato nessuno che si chiamasse Fanning o qualcosa del genere, o per lo meno non se ne ricordava. Ma durante il sonno quel nome si era insinuato nella sua mente, come se si fosse addormentato ascoltando una canzone le cui parole, a furia di ripetersi, gli avessero scavato un solco nel cervello e adesso una parte della sua mente non riuscisse più a uscire da quel solco. Fanning? Chi era costui? Gli faceva venire in mente lo strizzacervelli del carcere, il dottor Wilder, che gli aveva indotto uno stato di trance più profondo del sonno, nella stanza che chiamava “del perdono”, con il lento tap-tap-tap della penna sul tavolo, lasciando che quel suono gli entrasse dentro. Adesso Grey non riusciva a prendere il telecomando, a grattarsi la testa o ad accendersi una sigaretta senza sentire quelle parole. Il loro ritmo sincopato faceva da sottofondo a ogni sua azione, anche la più piccola. “Mi” (scatto dell’accendino)... “chiamavo” (boccata di fumo)... “Fanning” (espirazione). Fumava, aspettava, fumava. Cosa gli era preso? Si sentiva cambiato, e non in meglio. Era sulle spine, a disagio, fuori fase. Di solito era capace di starsene lì ad aspettare senza far niente, lasciando passare le ore: aveva imparato a Beeville, dove le giornate gli scivolavano fra le dita in una sorta di trance senza pensieri. Quel giorno no, invece. Quel giorno era agitato come un insetto in una padella rovente. Cercò di guardare la TV, ma parole e immagini sembravano non essere sincronizzate. Fuori dalle finestre il cielo del pomeriggio pareva di plastica vecchia, di un grigio slavato. Il tempo ideale per passare la giornata a sonnecchiare. Invece era lì seduto sul bordo del letto sfatto ad aspettare che finisse il pomeriggio, con i grilli nella pancia. Aveva l’impressione di non aver chiuso occhio, anche se in realtà non aveva nemmeno sentito la sveglia, alle cinque, e aveva perso il turno del mattino. Era un turno extra, quindi poteva inventarsi una scusa, dire che si era confuso, che si era dimenticato, ma una ramanzina se la sarebbe beccata comunque. Il prossimo era alle dieci, quella sera, e doveva dormire almeno un po’ per prepararsi a guardare altre otto ore Zero che guardava lui. Alle sei si mise la giacca a vento per andare in mensa. Mancava un’ora al tramonto, ma il cielo era coperto e le nubi basse assorbivano l’ultima luce della sera. Sotto raffiche di vento umido, attraversò il campo che separava la caserma dalla mensa, una costruzione di blocchi di calcestruzzo che sembrava essere stata tirata su in fretta e furia. Le montagne non si vedevano e in giornate come quella a Grey pareva che la zona militare fosse un’isola, che il mondo si fosse fermato davanti a un mare nero fatto di niente, alla fine del lungo viaggio sul furgone. C’erano mezzi che andavano e venivano, camion di provviste, camionette e autocarri dell’esercito carichi di rifornimenti, ma potevano arrivare dalla luna, per quel che ne sapeva lui. I suoi ricordi del mondo stavano cominciando a sbiadire. Non oltrepassava la recinzione del compound da sei mesi. La mensa avrebbe dovuto essere affollata a quell’ora. Grey si aspettava che cinquanta e più persone la riempissero di calore e di rumore, invece quando aprì la porta, si abbassò la cerniera

della giacca a vento e batté i piedi per terra per scrollarsi via la neve dagli scarponi vide che c’erano soltanto pochi avventori sparsi qua e là ai tavoli, da soli o in piccoli gruppi. Una dozzina in tutto, non di più. Si capiva che mansioni avevano dal modo in cui erano vestiti: i sanitari indossavano il camice e zoccoli di plastica; i soldati, che erano chini sui vassoi e mangiavano come lupi, le mimetiche invernali; gli inservienti tute marrone tipo UPS. Dietro la sala da pranzo c’era uno spazio per il ping-pong e l’air hockey, ma non c’era nessuno né a giocare né a guardare la TV sul megaschermo. C’era silenzio, a parte un mormorio di voci e un acciottolio di stoviglie e bicchieri. Per un certo periodo avevano predisposto tavolini con computer, dei bei vMac nuovi per scrivere e-mail e tutto il resto, ma una mattina dell’estate precedente era arrivata una squadra di tecnici che li aveva portati via tutti, su un carrello, mentre loro facevano colazione. Qualche soldato aveva protestato, però non era servito a niente: i computer non erano più riapparsi. L’unica traccia che restava della loro presenza erano i cavi che spuntavano dal muro. Secondo Grey, quella era stata una punizione, anche se non aveva idea di quale fosse la ragione del castigo. A lui comunque i computer non erano mai interessati. Nonostante l’agitazione, l’odore di cibo caldo gli fece venire appetito. A causa della terapia ormonale aveva sempre una fame terribile e c’era da stupirsi che non fosse ingrassato ulteriormente. Si riempì il vassoio e avanzò lungo la fila assaporando già minestrone, insalata con crostini e formaggio, crocchette di patate con barbabietola, prosciutto incoronato da una fetta di ananas rinsecchita e, per finire, torta al limone. Prese un bicchierone di acqua con ghiaccio e si andò a sedere a un tavolo vuoto in fondo. Gli inservienti mangiavano per lo più da soli, come lui, anche perché non c’era molto di cui fossero autorizzati a parlare. A volte passava una settimana intera senza che Grey dicesse una parola, a parte salutare la sentinella del livello 3, che lo faceva entrare e uscire dall’area di contenimento. Fino a qualche mese prima, sanitari e tecnici gli rivolgevano domande, gli chiedevano di Zero, dei denti, dei conigli. Ascoltavano le sue risposte annuendo e magari prendevano anche appunti sui palmari. Adesso invece si facevano consegnare i rapporti senza una parola, come se la faccenda di Zero fosse chiusa e non ci fosse più niente di nuovo da scoprire su di lui. Grey mangiò con metodo, una portata dopo l’altra. Continuavano a ronzargli nella testa le parole di Fanning, ma mettere qualcosa sotto i denti lo calmava e per qualche minuto se ne dimenticò quasi. Stava finendo la torta quando al suo tavolo si sedette un soldato, un certo Paulson: a Grey pareva si chiamasse così. Lo aveva visto in giro, anche se i militari si assomigliavano un po’ tutti, in tuta mimetica, maglietta e scarponi lucidi, con il taglio a spazzola e le orecchie immancabilmente a sventola. Paulson aveva i capelli talmente corti che Grey non avrebbe saputo dire di che colore erano. Spostò la sedia in maniera che fosse ad angolo retto rispetto a quella di Grey e ci si sedette a cavalcioni. Gli fece un sorriso che Grey avrebbe stentato a definire cordiale. «Mangiate parecchio voialtri, eh?» Grey fece spallucce. «Tu sei Grey, vero?» Il militare strinse gli occhi. «Ti ho visto.» Grey posò la forchetta e inghiottì un boccone di torta. «Eh, già.» Paulson annuì con aria pensosa, come se dovesse decidere se quel nome andava bene oppure no. Sembrava che si stesse sforzando di mantenere la calma. Lanciò un’occhiata verso la telecamera nell’angolo sopra le loro teste, poi guardò di nuovo Grey. «Siete di poche parole, voialtri» continuò. «Questa cosa mi mette ansia, devo dire.»

Ansia? Paulson non aveva idea... Ma Grey stette zitto. «Posso farti una domanda?» Paulson indicò il piatto di Grey con il mento. «Non ti voglio interrompere. Finisci pure di mangiare mentre parliamo.» «Ho finito» replicò Grey. «Devo andare a lavorare.» «Com’è la torta?» «Vuoi sapere com’è la torta?» «No, non la torta.» Paulson scosse la testa. «Te l’ho chiesto per educazione. Si chiamano “convenevoli”.» Grey si domandò che cosa volesse da lui. I militari non gli rivolgevano praticamente la parola e di colpo arrivava quello lì, Paulson, a blaterare di “convenevoli” sotto l’occhio delle telecamere. «È buona» rispose Grey. «A me il limone piace.» «Me ne sbatto il cazzo della torta.» Grey prese il vassoio. «Devo andare» disse. Quando fece per alzarsi, però, Paulson lo afferrò per un polso. Grey si accorse subito della sua forza: quell’uomo aveva muscoli d’acciaio. «Sta’ seduto, cazzo.» Grey ubbidì. La sala gli parve improvvisamente deserta. Guardò oltre Paulson e vide che effettivamente la maggior parte dei tavoli era vuota. C’erano solo due o tre tecnici in fondo, che bevevano il caffè in bicchieri di plastica. Dov’erano finiti tutti quanti? «Guardate che lo sappiamo chi siete voi» disse Paulson con pacata fermezza. Era chino sul tavolo e continuava a tenere Grey per un polso. «Sappiamo cosa avete fatto: questo dico. Che vi piacciono i bambini, o quel che è. A me, se Dio vi ha fatto così, non me ne frega niente.» Grey rimase in silenzio. «Non tutti la pensano come me, ma il mio parere è questo. Siamo in un paese libero, in fondo.» Si spostò sulla sedia e gli avvicinò la faccia. «Conoscevo uno, alle superiori, che si metteva sull’uccello l’impasto per i biscotti e se lo faceva leccare dal cane. Perciò, se a te piacciono i bambini, fa’ pure. Personalmente non lo capisco, ma alla fin fine sono cazzi tuoi.» Grey si sentiva male. «Scusa, ma adesso devo proprio andare» riuscì a dire. «Dov’è che devi andare, Grey?» «Dove?» Deglutì a fatica. «A lavorare. Devo andare a lavorare.» «No che non devi.» Paulson prese il cucchiaino dal vassoio di Grey e lo fece ruotare sul tavolo con il dito indice. «Mancano ancora più di tre ore al tuo turno. Guarda che so leggere l’ora, sai? Stiamo facendo quattro chiacchiere, perdio.» Grey guardò il cucchiaino e aspettò che Paulson dicesse qualcos’altro. Aveva bisogno di fumare, tutto a un tratto, un bisogno irresistibile di nicotina. «Cosa vuoi da me?» Paulson diede un’ultima spinta al cucchiaino. «Cosa voglio? È proprio questo il punto, no? Sì, voglio qualcosa.» Si protese verso di lui e gli fece segno di avvicinarsi con un dito. «Voglio che

mi parli del livello 4» bisbigliò, con un filo di voce. Grey avvertì un vuoto allo stomaco, come se avesse messo il piede su uno scalino mancante. «Faccio le pulizie. Sono solo un inserviente, io.» «Scusami, ma non ci credo» disse Paulson. Grey ripensò alle telecamere. «Richards...» Paulson sbuffò. «Che vada a cagare!» Guardò la telecamera, fece ciao con la mano, poi la voltò e strinse il pugno, lasciando sollevato solo il dito medio. Rimase in quella posizione qualche secondo. «Pensi che qualcuno visioni i filmati? Che ci controllino tutto il giorno, tutti i giorni?» «Non c’è niente là sotto. Giuro.» Paulson scosse lentamente la testa e Grey vide la luce rabbiosa nei suoi occhi. «Sappiamo tutti e due che è una palla. Risparmiamela. Cerchiamo di essere franchi.» «Io pulisco e stop» protestò debolmente Grey. «Sono qui per lavorare.» Paulson non replicò. Il silenzio nella sala era tale che Grey sentiva il battito del suo stesso cuore. «Dimmi una cosa, Grey. Tu dormi bene?» «Cosa?» Paulson gli lanciò un’occhiata minacciosa. «Ti ho chiesto se dormi bene.» «Dormo» rispose Grey. «Più o meno.» Paulson scoppiò in una sonora risata, fatalistica, appoggiandosi allo schienale e rovesciando la testa verso il soffitto. «Più o meno! Più o meno!» «Non capisco perché me lo chiedi.» Paulson sospirò. «Non sogni, Grey?» Gli avvicinò la faccia. «Te lo chiedo per via dei sogni. Voialtri sognate, no? Io sogno. Tutta la notte, Cristo! Tutte le notti. E faccio sogni del cazzo. Una follia!» Sì, era proprio una follia, pensò Grey. Paulson era impazzito, gli mancava qualche rotella, era uscito di testa. Troppi mesi in cima ai monti, forse, troppo tempo al freddo e al gelo. Grey ne aveva conosciuto di gente così a Beeville: arrivavano che erano a posto e dopo un po’ non riuscivano più a mettere insieme due frasi di senso compiuto. «Vuoi sapere che sogni faccio, Grey? Prova a indovinare.» «Non voglio.» «Ti ho detto di provare a indovinare, cazzo!» Grey abbassò gli occhi. Sapeva che le telecamere li riprendevano... Aveva l’impressione che Richards stesse ascoltando tutto quello che si dicevano. “Ti prego, ti prego, smettila di farmi domande...” pensò. «Non lo so...» «Non lo sai.»

Grey scosse la testa, sempre con gli occhi bassi. «No.» «Be’, allora te lo dico io» fece Paulson, sottovoce. «Io sogno te.» Per un attimo rimasero zitti tutti e due. Paulson era fuori di testa. Matto come un cavallo. «Mi dispiace» balbettò Grey. «Non c’è niente là sotto, davvero.» Fece per andare e temette che Paulson lo afferrasse di nuovo per il polso per trattenerlo. «Va bene» disse invece il militare e lo salutò con la mano. «Per oggi basta. Vattene, va’.» Si girò sulla sedia per guardare Grey, che era lì in piedi con il vassoio in mano. «Ti dico un segreto, però. Vuoi?» Grey fece cenno di no con la testa. «Hai presente quei due inservienti che se ne sono andati?» «Chi?» «Lo sai benissimo.» Fece una brutta faccia. «Quei due ciccioni. Scemo e più scemo.» «Jack e Sam?» «Esatto.» Paulson alzò gli occhi al cielo. «Mai saputo come si chiamavano. Chissenefrega dei nomi, dirai tu.» Grey aspettava che Paulson continuasse. «Be’?» «Be’, spero non fossero tuoi amici. Perché la sai l’ultima? Sono morti.» Paulson si alzò, senza guardare Grey. «Siamo tutti morti.» Era buio e Carter aveva paura. Lo avevano condotto sottoterra: aveva visto quattro pulsanti, nell’ascensore, con i numeri alla rovescia, come nei garage sotterranei. Quando lo avevano fatto stendere sulla barella, gli girava la testa e non provava dolore; gli avevano dato qualcosa, gli avevano fatto un’iniezione per sedarlo senza farlo dormire, quindi qualcosa aveva sentito, mentre armeggiavano nel suo collo, dietro. Gli avevano fatto un taglietto e infilato qualcosa sottopelle. Gli avevano legato delle cinghie intorno alle braccia e alle gambe. Perché stesse più comodo, avevano detto. Poi lo avevano caricato in ascensore, steso sulla barella, e quella era l’ultima cosa che ricordava, i pulsanti e un dito che schiacciava “L4”. L’uomo con la pistola, Richards, non era più tornato, nonostante glielo avesse promesso. Adesso era sveglio e, anche se non ne era proprio sicuro, aveva l’impressione di essere sottoterra. Aveva ancora le braccia e le gambe legate, e forse anche la vita. La stanza era fredda e buia, ma vedeva delle lucine che lampeggiavano. Non sapeva quanto distanti fossero. Sentiva anche il ronzio di una ventola. Aveva dimenticato cosa gli avevano detto gli uomini prima di portarlo giù. Lo avevano pesato, questo Carter lo rammentava, e gli avevano fatto le cose che fanno normalmente i dottori: gli avevano misurato la pressione, chiesto di urinare in una provetta, provato i riflessi con il martelletto e guardato nel naso e in bocca. Poi gli avevano infilato un tubicino nel dorso della mano – facendogli un male cane, tanto che lui aveva imprecato; questo non l’aveva scordato – e gli avevano messo una flebo. Tutto il resto era confuso. Si ricordava una luce strana, un bagliore rosso sulla punta di una penna, e varie facce intorno, con la mascherina, una delle quali – ma Carter non aveva capito chi era – aveva detto:

“Questo è un laser, signor Carter. Sentirà una leggera pressione”. In quel momento, nel buio, gli venne in mente che, prima che il suo cervello affondasse in una specie di mare oscuro, aveva pensato che fosse un altro scherzo di Dio e che alla fine gli avessero fatto davvero l’iniezione letale. Si era domandato se avrebbe visto Gesù, la signora Wood o il diavolo in persona. Invece non era morto, si era semplicemente addormentato, non sapeva per quanto. La sua mente aveva vagato alla deriva per un po’, passando da un buio a un altro, come quando si cammina per una casa con tutte le luci spente. Non vedeva nulla, non riusciva a orientarsi. Non sapeva riconoscere il sopra dal sotto, aveva male dappertutto e la lingua gonfia, asciutta. Gli sembrava di avere in bocca un calzino appallottolato, o un animaletto peloso. Sentiva un gran dolore alla base del collo. Provò ad alzare la testa per guardarsi in giro, ma vide solo minuscoli puntini di luce, rossi come quelli della penna. Non sapeva quanto distanti fossero, che dimensioni avessero. Potevano essere le luci di una città in lontananza, per quel che ne sapeva. Gli venne in mente un nome: Wolgast. Qualcosa che aveva detto a proposito del tempo che era come il mare, che lui poteva dargliene quanto ne voleva. “Posso darle tutto il tempo del mondo. Un mare di tempo.” Come se sapesse che cosa c’era nel più profondo del suo cuore, come se lo conoscesse da anni. Nessuno gli aveva mai parlato in quel modo in vita sua. Quel pensiero lo riportò al giorno in cui era incominciato tutto, come se le cose fossero collegate. Era giugno, questo lo ricordava. Era giugno, e l’aria sotto il viadotto era caldissima. Carter, in un cuneo di ombra sporca, con il cartello di cartone sul petto – HO FAME. GRAZIE, CHE DIO VI BENEDICA – aveva visto la macchina, una Denali nera, accostare al marciapiede. Il finestrino si era abbassato: non di due dita, come al solito, giusto lo spazio per passargli un paio di monete o una banconota piegata senza sfiorargli nemmeno la mano. No, era sceso completamente, con grande facilità e naturalezza, e il riflesso del suo volto era calato come un sipario al contrario, aprendo una voragine nel mondo, rivelando una camera segreta. Era mezzogiorno e il traffico si intensificava all’ora di pranzo sulle strade intorno allo svincolo: macchine e autocarri gli passavano sulla testa a ritmo serrato, come vagoni di un treno merci. “Signore?” lo aveva chiamato la donna al volante, a voce alta per il frastuono. “Mi scusi, signore?” Carter si era avvicinato al finestrino aperto e aveva sentito il freddo dell’aria condizionata, l’odore dolce e un po’ affumicato dei sedili di pelle nuovi e il profumo della donna, che si era chinata verso di lui, con la cintura di sicurezza allacciata. Aveva gli occhiali da sole sulla testa ed era bianca. Questo Carter lo sapeva ancor prima di averla vista. L’aveva capito dalla Denali nera con la carrozzeria lucida e la griglia cromata, dal fatto che era sulla corsia che portava a River Oaks, dove c’erano le case più eleganti della città. Era giovane, però, più giovane di quanto aveva immaginato vedendo la macchina, trent’anni al massimo. Era vestita da tennis, con una gonnellina bianca e un top coordinato, e aveva la pelle lucida, umida, le braccia sottili ma muscolose e abbronzate, i capelli lisci, biondi con qualche ciocca più scura, pettinati all’indietro. Aveva un bel viso ovale, con il nasino delicato. Non portava gioielli, a parte un brillante al dito, grosso come un dente. Carter sapeva che non doveva guardare troppo, ma non era riuscito a trattenersi. Aveva lanciato un’occhiata verso il sedile dietro e aveva visto un seggiolino per bambini, vuoto, con alcuni peluche coloratissimi che penzolavano sopra, e un sacchetto della spesa accanto, che era di carta ma sembrava di metallo, con scritto il nome del negozio: NORDSTROM. “Ha qualche spicciolo?” aveva borbottato Carter. “Che Dio la benedica, signora.”

Teneva la borsa in grembo. Era una cartella di pelle, piuttosto gonfia. La donna vi aveva frugato dentro buttando roba sul sedile: un rossetto, una rubrica, un cellulare piccolo come un gioiello. “Aspetti che le do qualcosa” aveva detto. “Bastano venti? Quanto le dà la gente di solito? Io non lo so.” “Che Dio la benedica, signora.” Stava per scattare il verde, Carter lo sapeva. “Quello che vuole, signora.” Appena la donna era riuscita a trovare il portafoglio, le macchine avevano cominciarono a suonare il clacson. Lei aveva voltato la testa, poi si era accorta che il semaforo era verde. “Ossignore! Ossignore!” Frugava agitata nel portafoglio, che era enorme. Grande come un libro, pieno di tasche e taschine e zip e bottoni e foglietti di carta. “Non so” diceva. “Non so.” Altri clacson. Poi la macchina dietro di lei, una Mercedes rossa, aveva accelerato rombando e si era spostata sulla corsia di mezzo, tagliando la strada a un SUV. Il conducente del SUV aveva inchiodato e si era messo a strombazzare. “Mi scusi, mi scusi” continuava a borbottare la donna. Guardava il portafoglio come se fosse una porta blindata di cui non trovava la chiave. “Ho solo carte di credito qui. Credevo di avere una banconota da venti, o forse da dieci. Ossignore! Ossignore!” “Ehi, cretina!” aveva urlato un uomo sporgendosi dal finestrino di un pick-up due auto più indietro. “Non vedi che è verde? Vogliamo muoverci o cosa?” “Non si preoccupi” aveva detto Anthony facendo un passo indietro. “Vada, vada.” “Siete sordi?” aveva strillato l’uomo. Altri clacson. Lui agitava il braccio dal finestrino. “Volete muovervi, Cristo santo?” La donna si era voltata a guardare nello specchietto retrovisore e aveva sgranato gli occhi. “Piantatela!” aveva gridato. Poi aveva cominciato a prendere a pugni il volante. “Smettetela! Smettetela!” “Vada, signora!” “Volevo darle qualcosa, volevo proprio. Perché dev’essere tutto così difficile? Volevo aiutarla...” Carter aveva pensato che era meglio scappare: vedeva già come sarebbe andata a finire. Si sarebbe aperta una portiera, qualcuno sarebbe sceso furibondo e l’avrebbe accusato di molestare la signora, di darle fastidio; poi altri si sarebbero uniti e alla fine, per quanto la signora avesse cercato di difenderlo, nessuno le avrebbe più creduto. Perché la gente vedeva quello che voleva vedere: un uomo nero con una donna bianca, un seggiolino per bambini, borse e sacchetti, il portafoglio aperto sulle ginocchia. “Vada, signora, per favore.” La portiera del pick-up si era aperta e un omone con la faccia rossa, in jeans e maglietta, era sceso dall’auto. Aveva le mani grosse come guantoni da baseball. Carter si era detto che avrebbe potuto schiacciarlo come un insetto. “Ehi!” aveva urlato indicando con un dito. La fibbia rotonda della cintura luccicava nel sole. “Tu!” La donna aveva visto nello specchietto quello che Anthony Carter aveva già notato: l’uomo

aveva in mano una pistola. “Oh, mio Dio! Oh, mio Dio!” aveva strillato. “La sta rapinando! Quel negro di merda le vuole rubare la macchina!” Carter era rimasto impietrito. Gli stava arrivando addosso tutto insieme: i clacson, le grida, gli uomini che lo volevano prendere. La donna si era sporta verso di lui e gli aveva aperto la portiera. “Salga!” Carter non riusciva a muoversi. “Salga, presto!” aveva insistito lei. Carter le aveva ubbidito, non sapeva neanche lui perché. Aveva mollato il cartello per terra, era salito in macchina e aveva chiuso la portiera. La donna era partita subito, nonostante nel frattempo fosse scattato di nuovo il rosso. Aveva attraversato l’incrocio a tutta velocità costringendo le altre auto a evitarla. Per un attimo Carter aveva pensato che sarebbero andati a sbattere e aveva chiuso gli occhi, preparandosi allo scontro. Ma non c’era stato nessun incidente. Era la cosa più assurda che gli potesse capitare, si era detto. Usciti da sotto il cavalcavia, erano spuntati di nuovo nel sole. La donna andava talmente veloce che Carter aveva pensato che si fosse dimenticata di lui. Attraversando i binari della ferrovia la Denali aveva sobbalzato così forte che Carter aveva preso una testata nel tettuccio. Anche lei aveva fatto un salto ed evidentemente si era spaventata, perché aveva premuto sul pedale del freno mandando Carter a sbattere contro il cruscotto. Poi aveva sterzato per entrare in un parcheggio, davanti a una lavanderia a secco e a una friggitoria. Senza guardarlo e senza dirgli una parola, aveva posato la testa sul volante ed era scoppiata in un pianto dirotto. Carter non aveva mai visto una donna bianca piangere, per lo meno non così da vicino. Solo nei film o alla TV. Dentro la macchina gli pareva di sentire l’odore delle sue lacrime, come di cera sciolta, oltre al profumo dei suoi capelli. Si era reso conto di sentire anche il proprio odore; non gli succedeva da tempo, ed era tutt’altro che gradevole. Puzzava di carne irrancidita e di latte andato a male. Si era guardato le braccia e le mani sporche, la maglietta e i jeans che portava da giorni, e si era vergognato. Dopo un po’ la donna aveva alzato la testa dal volante e si era asciugata il naso con il dorso della mano. “Come si chiama?” gli aveva chiesto. “Anthony.” Carter aveva pensato che stesse per portarlo direttamente alla polizia. L’automobile era così nuova e pulita che gli pareva di essere una macchia di sporcizia, seduto lì. Ma la donna non dava segno di sentire la sua puzza, o comunque di provare fastidio. “Ora vado” le aveva detto. “Mi spiace di averle causato tanto disturbo.” “Lei? Lei non ha fatto niente. Cosa c’entra lei?” Con un lungo sospiro, aveva abbandonato la testa all’indietro chiudendo gli occhi. “Mio marito mi ucciderà. Gesù, Gesù, Gesù. Rachel, che cosa ti è venuto in mente?” Sembrava arrabbiata e Carter aveva pensato che stesse aspettando che lui scendesse. Erano appena a nord di Richmond: poteva prendere un autobus e tornare nel posto dove dormiva in quegli ultimi tempi, in uno spiazzo vicino all’isola ecologica, a Westpark. Era una buona

sistemazione; lì nessuno gli diceva niente e se pioveva quelli del centro di stoccaggio lo lasciavano dormire in uno dei garage vuoti. Aveva solo dieci dollari, banconote e monete raccolte quella mattina sotto la 610, ma gli sarebbero bastati per tornare indietro e anche per comprarsi qualcosa da mangiare. Aveva fatto per aprire la portiera. “No!” aveva gridato la signora. “Non se ne vada.” Si era voltata verso di lui. Aveva gli occhi gonfi di pianto. “Deve dirmi se è vero o se è una bugia.” Carter non aveva capito. “Mi scusi?” “Quello che aveva scritto sul cartello e che poi mi ha anche detto: ‘Che Dio la benedica’. Perché io non mi sento per niente benedetta da Dio” aveva aggiunto, senza aspettare che lui rispondesse. Aveva fatto una risatina amara. I suoi denti erano piccoli e bianchissimi. “È strano, vero? Dovrei sentirmi benedetta, invece sto malissimo. Sono sempre infelice.” Carter non sapeva cosa dire. Come poteva essere infelice una donna bianca come lei? Con la coda dell’occhio vedeva il seggiolino vuoto sul sedile posteriore, i giochini colorati. Chissà dov’era il piccolo adesso. Forse doveva parlarle del bambino, dirle che doveva essere bello avere figli. Era un’esperienza che dava gioia, di solito, specialmente alle donne. “Non importa” aveva continuato lei. Guardava nel vuoto, fuori dal parabrezza. “So cosa sta pensando. Non deve dire niente. Le sembrerò pazza.” “Veramente a me sembra normalissima.” Aveva riso di nuovo, amaramente. “Be’, è così, no? Il problema è proprio questo. Sembro normale. Se chiede in giro, tutti le diranno che Rachel Wood ha tutto. Rachel Wood sembra assolutamente normale.” Erano rimasti lì per un po’, lei a piangere e fissare il vuoto, Carter a meditare se scendere dalla macchina o no. Ma la donna sembrava sconvolta e gli pareva brutto andarsene e lasciarla lì. Forse voleva che lui la compatisse. Rachel Wood doveva essere lei: stava parlando di sé. Non ne era sicuro al cento per cento, però: Rachel Wood poteva anche essere una sua amica, o la babysitter. Prima o poi, comunque, lui sarebbe dovuto andare. La tristezza le sarebbe passata e avrebbe capito di aver rischiato di farsi sparare addosso per colpa del negro puzzolente che aveva fatto salire in macchina. In quel momento, però, l’aria fredda che usciva dalle ventole e gli arrivava sul volto e lo strano silenzio triste della donna erano sufficienti a farlo restare dov’era. “Qual è il suo cognome, Anthony?” Non ricordava che qualcuno glielo avesse mai chiesto. “Carter” aveva risposto. Ma era stato ciò che la donna aveva fatto dopo a stupirlo davvero. Rachel Wood si era voltata e, guardandolo negli occhi, gli aveva porto la mano. “Piacere, signor Carter” aveva detto con voce ancora triste. “Io sono Rachel Wood.” “Signor Carter”: gli piaceva. La mano della donna era piccola ma forte. Stringendola aveva provato una sensazione strana, bella, che non riusciva a spiegare a parole. Si aspettava che lei si sarebbe pulita la mano dopo avergliela data, ma non lo aveva fatto.

“Mio Dio!” aveva esclamato sgranando gli occhi. “A mio marito verrà un colpo. Non gli dica cos’è successo prima, per favore. Non gli dica niente. Mi raccomando.” Carter aveva scosso la testa. “Sa, mio marito è un deficiente. Non è colpa sua, poveretto, ma non capirebbe mai: vede le cose in maniera diversa da noi. Mi prometta che non gli dirà niente, signor Carter.” “Non dirò niente.” “Bene.” Lei aveva annuito, soddisfatta. Guardando oltre il parabrezza, aveva fatto una faccia pensosa. “Non so perché mi sono fermata proprio davanti a questa friggitoria. Ha voglia di un krapfen?” La sola parola a Carter aveva fatto venire l’acquolina in bocca e gorgogliare lo stomaco. “A me piacciono i krapfen” aveva replicato. “E anche il caffè.” “Ma non è un pasto caldo, no.” Rachel Wood aveva parlato in tono deciso, con fermezza. “E lei ha bisogno di un pasto caldo.” In quel momento Carter aveva capito qual era la sensazione che provava. Si sentiva considerato, come se fino a quel momento fosse stato un fantasma, uno spettro. D’un tratto si era reso conto che la signora lo voleva portare a casa sua. Aveva sentito raccontare storie così, ma non ci aveva mai creduto. “Sa, signor Carter, penso che sia stata la mano di Dio a condurla vicino a quel semaforo, oggi. Perché Dio voleva dirmi qualcosa.” Aveva inserito la marcia. “Io e lei diventeremo amici, me lo sento.” Ed era successo, proprio come aveva detto. Che strano! Lui e quella donna bianca, la signora Wood, con un marito che avrebbe potuto essere suo padre – Carter non lo incontrava quasi mai –, la sua bella casa con le querce nel giardino, il prato verde e le siepi tutto intorno, e le sue due figlie – quella piccola che stava sul seggiolino e una più grande, graziosissima –, erano amici. Lo sapeva, nel profondo del cuore. La signora Wood aveva fatto per lui quello che nessun altro aveva mai fatto. Era come se, quando gli aveva aperto la portiera, gli avesse aperto un mondo pieno di gente, di voci che lo chiamavano per nome, di cose buone da mangiare, di letti per dormire e tanto altro. Gli aveva procurato un lavoro, non solo nel suo giardino, ma anche in altri. E, ovunque lui andasse, lo chiamavano “signor Carter”, gli chiedevano se, per favore, poteva fare qualche lavoretto extra, visto che avevano ospiti: spazzare le foglie dalla veranda, verniciare sedie, liberare le grondaie o portare a spasso il cane. “Signor Carter, so che ha tanto da fare, ma se non è troppo disturbo, potrebbe per favore...?” E lui diceva sempre di sì e nella busta sotto lo zerbino o sotto il vaso di fiori alla fine trovava dieci o venti sacchi in più, senza nemmeno doverli chiedere. Gli piacevano anche queste altre persone, ma in verità non gliene importava più di tanto: Carter lo faceva per lei. Il mercoledì, il giorno più bello di tutta la settimana, il giorno in cui andava da lei, Rachel Wood lo salutava dalla finestra mentre lui prendeva la falciatrice nel garage e a volte, quasi sempre, quando aveva finito e stava mettendo in ordine, usciva. Non gli metteva i soldi sotto lo zerbino come tutti gli altri, glieli consegnava personalmente e a volte si sedevano a bere un tè freddo; gli raccontava di sé, s’interessava di lui. Chiacchieravano come persone vere, all’ombra. “Signor Carter, è stato Dio a mandarla da me” gli diceva. “Signor Carter, non so come avrei fatto senza di lei. Lei è il pezzo che mancava al puzzle della mia vita.”

Lui le voleva bene, la amava. Era questo il mistero, triste e insondabile. E in quel momento, steso al freddo, nel buio, sentì che gli venivano le lacrime agli occhi. Come avevano potuto dire che le aveva fatto del male, dal momento che lui la amava? Perché Carter lo sapeva. Anche quando lei sorrideva, rideva e sbrigava le sue cose – la spesa, il tennis e il parrucchiere –, lui sapeva che si portava dentro un vuoto. Lo aveva visto il primo giorno, in macchina, e nel profondo del cuore sperava di riuscire a colmarlo. I giorni in cui lei non usciva in giardino, sempre più frequenti a mano a mano che il tempo passava, Carter la cercava con gli occhi e la vedeva restare seduta sul divano per ore, con la bambina più piccola che piangeva, perché era bagnata o aveva fame, e lei niente. Stava lì, come sgonfiata di ogni energia. Certi giorni non la vedeva proprio e immaginava che fosse nascosta in casa, a piangere. Allora lui faceva qualche lavoretto in più – rasava le siepi o strappava le erbacce dal vialetto – sperando che, se si fosse trattenuto ancora un po’, sarebbe uscita con il tè. Perché quando gli offriva il tè voleva dire che stava bene, che aveva superato un’altra giornata di infelicità. Poi, quel pomeriggio nel giardino – quel pomeriggio terribile –, Carter aveva trovato la figlia più grande, Haley, da sola. Era dicembre, l’aria era umida e la piscina piena di foglie cadute dagli alberi. La bambina, che andava alla scuola materna, aveva i calzoncini corti blu, la camicetta della divisa e nient’altro, neanche le scarpe. Era seduta lì, nel patio, con una bambola. Una Barbie. Non andava a scuola quel giorno? le aveva domandato Carter, e Haley aveva fatto cenno di no con la testa, senza guardarlo. La mamma era in casa? “Papà è in Messico” gli aveva risposto la bambina rabbrividendo per il freddo. “Con la sua ragazza. E la mamma non scende dal letto.” Carter aveva provato ad aprire la porta, ma era chiusa a chiave. Aveva suonato il campanello e chiamato dalla finestra, però non gli aveva risposto nessuno. Non sapeva cosa fare con quella bambina, lì sola, fuori, senza giacca, ma c’era un sacco di cose che ignorava dei Wood e di quelli come loro. Certe non avevano senso per lui. Aveva solo una vecchia felpa lurida da dare alla bambina. Lei l’aveva presa e se l’era avvolta intorno al corpo come una coperta. Lui si era messo a lavorare nel prato, pensando che magari il rumore della falciatrice avrebbe svegliato la signora Wood e che lei, una volta sveglia, si sarebbe ricordata della bambina sola in giardino, vicino alla piscina, e che l’aveva accidentalmente chiusa fuori. “Signor Carter, non so come sia successo. Mi sono addormentata. Meno male che c’era lei.” Aveva finito di falciare il prato, mentre la bambina lo guardava silenziosa con la sua bambola, ed era andato in garage a prendere il retino per pulire la piscina. Era lì che l’aveva visto, sul bordo del vialetto: un rospo, piccino piccino. Non più grande di una monetina. Era una fortuna che non l’avesse ammazzato passando la falciatrice sul prato. Si era chinato a raccoglierlo: pesava pochissimo. Se non l’avesse visto con i propri occhi, avrebbe detto di non avere niente in mano, tanto era leggero. Forse era la bambina che lo guardava dal patio, o la signora Wood ancora a letto... ma in quel momento gli era parso che quel rospetto potesse mettere tutto a posto. “Vieni” aveva detto alla bambina. “Vieni a vedere. Guarda com’è piccino, signorina Haley. Come te.” Si era voltato e aveva scorto la signora Wood sul prato, alle sue spalle. Doveva essere uscita dalla porta principale, perché non aveva udito alcun rumore. Indossava una maglietta larga, a mo’ di camicia da notte, ed era spettinata. “Signora Wood!” aveva esclamato. “Eccola qua! Sono contento che si sia alzata. Volevo mostrare a Haley questo...”

“Stalle lontano!” Non era la signora Wood quella che aveva parlato. Aveva lo sguardo da pazza. Sembrava che non l’avesse nemmeno riconosciuto. “Signora, volevo solo farle vedere questa cosina carina...” “Via! Via! Corri, Haley! Scappa!” Prima che Carter potesse dire un’altra parola, gli aveva dato uno spintone, con tutta la forza che aveva, e lui aveva perso l’equilibrio ed era inciampato nel retino, che aveva lasciato vicino alla piscina. Istintivamente aveva allungato una mano per afferrare la maglia della signora Wood e con il suo peso l’aveva trascinata giù, senza poterci fare niente. Era così che erano finiti nell’acqua. L’acqua. L’aveva colpito come un pugno, gli era entrata nel naso, negli occhi e nella bocca, con il suo sapore chimico, alito del diavolo. Quando erano caduti, lei gli era finita addosso, in un groviglio di braccia e gambe intrecciate. Carter aveva cercato di liberarsi, ma lei lo tratteneva, lo trascinava sempre più giù. Non riusciva a nuotare, non riusciva a fare neanche una bracciata, cercava di risalire, ma aveva paura, non poteva fermarla. Aveva allungato il collo per prendere aria, ma la superficie dell’acqua sembrava lontanissima. La signora Wood lo trascinava giù, verso un mondo di silenzio, come se la piscina fosse il cielo al contrario, e a lui era sembrato proprio così, che volesse andare in cielo. Ci voleva andare dal principio, da quel giorno che si era fermata al semaforo e lo aveva chiamato “signor Carter”. A trattenerla nell’altro mondo, quello sopra l’acqua, era stato qualcosa di labile, che nel frattempo si era sfilacciato piano piano e alla fine si era strappato come il filo di un aquilone; ma il mondo era alla rovescia, adesso, e l’aquilone precipitava. Lei lo aveva stretto a sé, il mento contro la spalla, e per un attimo lui l’aveva guardata negli occhi, nell’acqua che vorticava tutto intorno, e vi aveva letto un’oscurità terribile, definitiva. “Oh, per piacere, lascia che lo faccia io. Muoio, se vuoi. Sono disposto a morire per te, lascia che sia io a morire.” Doveva solo aprire la bocca. Lo sapeva con la stessa certezza con cui sapeva il proprio nome, ma per quanto ci provasse non ci riusciva; aveva vissuto troppo a lungo per abbandonare volontariamente la vita. Nel frattempo avevano toccato il fondo con un tonfo lievissimo e la signora Wood continuava a trattenerlo. Lui l’aveva sentita sussultare quando aveva preso il primo respiro. Poi ne aveva preso un altro, e un altro ancora e le ultime bolle d’aria le erano scappate dai polmoni sfiorandogli le orecchie, come un bisbiglio: “Che Dio la benedica, signor Carter”. A quel punto l’aveva lasciato andare. Non ricordava di essere uscito dalla piscina, di aver detto qualcosa alla bambina. Piangeva, era disperata, poi aveva smesso. La signora Wood era morta, la sua anima non c’era più, ma il suo corpo svuotato era salito lentamente in superficie, trovando posto tra le foglie che galleggiavano e che lui avrebbe dovuto eliminare. C’era qualcosa di pacifico in tutto ciò: una serenità terribilmente triste, come quando qualcosa che è andato avanti per troppo tempo alla fine trova la sua conclusione. Carter aveva ricominciato a scomparire. Forse erano passate ore, forse minuti, prima che arrivasse la vicina, e poi la polizia. A quel punto Carter aveva capito che non avrebbe detto a nessuno che cosa era successo, ciò che aveva visto e udito. Era un segreto che lei gli aveva confidato, il segreto più grande, su chi era veramente, e lui l’avrebbe custodito. Aveva deciso che avrebbe accettato qualsiasi cosa gli fosse accaduta di lì in avanti. Era inevitabile. Forse Wolgast gli aveva mentito, forse no, ma lui aveva raggiunto lo scopo della sua vita e nessuno gli avrebbe mai più fatto domande riguardo alla signora Wood. Ormai sarebbe rimasta per sempre un ricordo nella sua mente, come se una parte di lei fosse passata a lui. Non

doveva dire niente a nessuno. L’aria intorno a lui si mosse con un sibilo, come se fosse uscita da un buco in una gomma, e sul muro in fondo apparve una lucina verde dove prima ce n’era una rossa. Si aprì una porta e la stanza fu inondata da un pallido bagliore azzurro. Carter si accorse di essere steso su una barella, con un camice addosso. Aveva ancora la flebo nel dorso della mano e il solo guardare l’ago sotto il cerotto gli provocò un bruciore terribile. La stanza era più grande di quanto gli fosse sembrato fino a quel momento, tutta superfici bianche, immacolate, eccetto la porta che si era appena aperta e qualche macchinario in fondo, a lui sconosciuto. Sulla soglia apparve una sagoma. Carter chiuse gli occhi e rimase lì, a pensare. “Va tutto bene, adesso. È tutto a posto. Sono pronto. Venite pure.” «Abbiamo un problema.» Erano le dieci di sera e Sykes fece capolino sulla soglia dell’ufficio di Richards. «Lo so» rispose Richards. «Me ne sto occupando.» Si riferivano alla bambina senza nome, che per la verità adesso ne aveva uno. Richards aveva ricevuto un aggiornamento attraverso la rete informativa delle forze dell’ordine poco dopo le nove: la madre era indagata per la morte di un giovane in una confraternita di studenti universitari, il figlio di un giudice federale. La pistola rinvenuta accanto al cadavere aveva condotto gli inquirenti a un motel nei pressi di Graceland; il gestore – che aveva due pagine intere di precedenti penali – aveva riconosciuto la bambina grazie alla foto che i poliziotti avevano scattato il venerdì al convento in cui era stata abbandonata. Le suore avevano riferito tutta la storia – compreso un pasticcio allo zoo di Memphis riguardo al quale Richards non sapeva cosa pensare – e alla fine la superiora aveva identificato Doyle e Wolgast nel video dell’impianto di telesorveglianza di un checkpoint sulla I-55, a nord di Baton Rouge. Le TV locali avevano trasmesso la notizia al telegiornale della sera, una volta scattato l’allerta Amber. E così adesso il mondo cercava due agenti federali e una bambina di nome Amy Bellafonte. «Dove sono adesso?» domandò Sykes. Richards richiamò le immagini dal satellite e indicò una zona fra il Tennessee e il Colorado. La trasmittente era nel palmare di Wolgast. Richards controllò i diciotto punti caldi presenti nella regione e trovò quello che corrispondeva a Wolgast. «Oklahoma occidentale.» Sykes guardava il monitor da dietro le sue spalle. «Pensi che lui sia già al corrente?» Richards trafficò con i tasti e zumò sull’immagine. «Credo di sì.» Gli indicò i dati. Velocità bersaglio, 120 km/h Poi, un momento dopo: Velocità bersaglio, 133 km/h

Stavano fuggendo. Richards doveva fermarli. Erano coinvolti agenti locali, polizie statali. Si preparò al peggio, sempre che fosse riuscito a raggiungerli in tempo. L’elicottero era già partito da Fort Carson: l’aveva richiesto Sykes. Presero le scale sul retro per raggiungere il livello 1 e uscire fuori ad aspettare. La temperatura era salita, rispetto al tramonto. Si stava alzando una nebbia fitta, sotto le luci del parcheggio: sembrava ghiaccio secco a un concerto rock. Erano lì, l’uno di fianco all’altro, in silenzio. Non c’era niente da dire. Era un grandissimo pasticcio, sotto praticamente tutti i punti di vista. Richards pensò alla foto che era stata diramata. Amy Bellafonte, capelli neri, lisci, lunghi fino alle spalle, bagnati forse a causa della pioggia, un bel visino con le guance paffute, occhi scuri, di una serietà spaventosa. Jeans e felpa con la zip tirata su fino al collo. In una mano aveva un pupazzetto di peluche, forse un cagnolino. Ma erano stati gli occhi a colpire Richards, a tormentarlo. Perché Amy Bellafonte guardava dritto l’obiettivo come a dire: “Vedi? Cosa pensavi, Richards? Che nessuno al mondo mi volesse un briciolo di bene?”. Fu questione di un attimo: lo sfiorò il desiderio di essere un’altra persona, la possibilità che lo sguardo di quella bambina volesse davvero comunicare qualcosa a lui. Cinque minuti dopo sentì il rumore dell’elicottero, una presenza pulsante che sorvolava la muraglia di alberi a sudest e poi virava piano, trascinandosi dietro un cono di luce, per posarsi nel parcheggio con la precisione di un ballerino di danza classica. Era un UH-60 Black Hawk armato di tutto punto e attrezzato per la ricognizione notturna. Sembrava perfino eccessivo per una bambina di sei anni. Ma erano in un gran pasticcio. Sykes e Richards si misero una mano sulla fronte per proteggersi gli occhi dal vento, dal frastuono e dagli schizzi di neve. Non appena l’elicottero ebbe toccato terra, Sykes prese Richards per un gomito. «È una bambina» gli urlò nel frastuono. «Mi raccomando!» “Chissà cosa voleva dire” pensò Richards allontanandosi per salire sul velivolo.

10 Stavano procedendo a grande velocità: Wolgast era alla guida e Doyle digitava furiosamente sul palmare per chiamare Sykes e fargli vedere chi comandava. «Non c’è segnale, cazzo.» Doyle gettò il palmare sul cruscotto. Erano usciti da Homer e avevano percorso una trentina di chilometri in direzione ovest. I campi aperti scorrevano infiniti sotto il cielo stellato. «Se me l’avessi domandato, te l’avrei detto subito» replicò Wolgast. «Siamo sul lato oscuro della luna, qui. E non dire parolacce.» Doyle lo ignorò. Wolgast guardò nello specchietto e vide che Amy lo stava fissando. Era sicuro che la bambina avesse capito che erano alleati. Da quando erano scesi dalla giostra, si era schierato con lei. «Quanto sai?» domandò. «Ormai puoi dirmelo.» «So quello che sai tu» rispose Doyle con un’alzata di spalle. «Poco di più, forse. Richards temeva che avresti avuto dei problemi.» Quando si erano parlati? Mentre lui e Amy erano sulle giostre? O quella sera a Huntsville, quando lui era rientrato al motel e aveva telefonato a Lila? O prima ancora? «Dovresti stare attento, Phil, davvero. Un uomo così... Si occupava di sicurezza privata, hai presente? È poco più di un mercenario.» Doyle sospirò, irritato. «Sai qual è il tuo problema, Brad? Non sai chi è dalla tua parte e chi no. Prima ti ho dato il beneficio del dubbio. Bastava che tu la riportassi alla macchina all’ora giusta. Non vedi il quadro generale.» «Ho già visto abbastanza.» Apparve una stazione di servizio, un’oasi luminosa nel buio. Quando ci arrivarono vicini, Wolgast rallentò. «Non ti fermare, per l’amor di Dio!» gli disse Doyle. «Prosegui.» «Non arriveremo lontano senza carburante. Abbiamo solo un quarto di serbatoio. Potrebbero non esserci distributori per un po’.» Se Doyle voleva comandare, doveva almeno comportarsi da comandante, pensò. «Va bene. Ma facciamo il pieno e stop. Non scendete dalla macchina.» Si fermarono vicino alla pompa. Dopo che Wolgast ebbe spento il motore, Doyle sfilò la chiave dal cruscotto, aprì il vano portaoggetti, prese la pistola di Wolgast, estrasse il caricatore, se lo infilò in tasca e rimise l’arma dov’era. «Non ti muovere.» «Controlla anche l’olio, già che ci sei.» Doyle sospirò. «Nient’altro?» «Non vogliamo rimanere in panne in mezzo a una strada, no?»

«Okay, controllo anche l’olio. Tu però resta in macchina.» Fece il giro della Tahoe e cominciò a riempire il serbatoio di carburante. Wolgast aveva un momento per pensare, ora che Doyle non c’era. Ma, senza pistola e senza chiavi, non poteva fare granché. Una parte di lui aveva deciso di non prendere sul serio quello che Doyle diceva, ma per il momento la situazione era quella che era. Tirò la leva sotto il volante e Doyle si spostò davanti alla macchina, alzò il cofano e li perse di vista per un momento. Wolgast ne approfittò per voltarsi verso Amy. «Stai bene?» La bambina annuì. Aveva lo zainetto in grembo, e dall’apertura spuntava un orecchio liso del coniglietto di peluche. Wolgast si accorse che aveva ancora le guance sporche di zucchero, che pareva neve sulla sua pelle. «Andiamo dal dottore, allora?» «Non lo so. Vediamo.» «Lui ha la pistola.» «Lo so. Non ti preoccupare, piccola.» «Anche mia madre ne aveva una.» Wolgast non ebbe il tempo di rispondere, perché il cofano si abbassò di colpo. Fece un salto e si voltò di scatto, in tempo per vedere tre macchine della polizia che superavano a tutta velocità la stazione di servizio dirette dalla parte opposta. La portiera si aprì ed entrò una corrente di aria fredda. «Merda.» Doyle porse la chiave a Wolgast e si girò sul sedile per guardare le autopattuglie. «Pensi che cerchino noi?» Wolgast si sporse per seguirne la traiettoria nello specchietto retrovisore. Andavano a centotrenta chilometri all’ora, come minimo. Certo, poteva trattarsi di un incidente stradale, un incendio o qualcos’altro di ordinaria amministrazione. Il suo istinto, però, gli suggeriva che non era così. Contò i secondi, guardando i lampeggianti sparire in lontananza. Quando fu arrivato a venti, le macchine stavano facendo inversione per tornare indietro. Girò la chiave nell’accensione e sentì rombare il motore. «Sì, cercano noi.» Erano le dieci, ma suor Arnette non riusciva a prendere sonno. Non riusciva nemmeno a chiudere gli occhi. Era tremendo, tremendo! Tutto quello che era successo era tremendo. Prima quegli uomini che erano venuti a cercare Amy, che l’avevano ingannata. Avevano ingannato tutti, per la verità. E comunque continuava a non capire come potessero essere agenti dell’FBI e contemporaneamente rapitori. Poi il bailamme allo zoo: urla, strepiti, tutti che scappavano e Lacey che stringeva al petto Amy e si rifiutava di mollarla. Avevano passato il resto della giornata alla centrale di polizia, dove le avevano trattate non propriamente come criminali ma di certo non come suor Arnette era abituata: avevano usato toni vagamente minacciosi, le avevano fatto e rifatto le stesse domande. Da ultimo, davanti al convento si era radunata una

ressa di cameraman e giornalisti che puntavano i riflettori contro le loro finestre. E il telefono aveva continuato a squillare finché a suor Claire non era venuto in mente di staccarlo. La madre della bambina aveva ucciso un ragazzo, le aveva detto un ispettore. Si chiamava Dupree, era giovane e aveva il pizzetto. Cercava di essere cortese e parlava con un lieve accento di New Orleans, il che significava che con ogni probabilità era cattolico. Ma anche i due che si erano presentati alla sua porta le erano sembrati brave persone. Wolgast e l’altro, quello più giovane e belloccio. Li aveva rivisti nelle riprese che le aveva mostrato Dupree, filmate nel Mississippi mentre nessuno dei due guardava. Aveva creduto che fossero a posto solo perché si comportavano da persone perbene? E la madre della bambina? L’ispettore Dupree le aveva detto che faceva la prostituta! “Una fossa profonda è la prostituta [...] Ella si apposta come un ladro e fra gli uomini fa crescere il numero dei traditori” Proverbi 23, 27-28. “Veramente le labbra di una straniera stillano miele, e più viscida dell’olio è la sua bocca; ma alla fine ella è amara come assenzio, pungente come spada a doppio taglio. I suoi piedi scendono verso la morte, i suoi passi conducono al regno dei morti” Proverbi 5, 3-5. Conducono al regno dei morti... Quelle parole facevano rabbrividire suor Arnette, distesa nel letto. Perché gli inferi esistevano realmente, erano un posto vero, dove le anime in pena si torcevano dal dolore per l’eternità. E Lacey, meno di trentasei ore prima, aveva fatto entrare nella loro cucina una donna così: una donna i cui passi conducevano al regno dei morti. Una donna che aveva adescato un ragazzo – Arnette non voleva approfondire quell’aspetto – e poi gli aveva sparato, gli aveva piantato una pallottola nella testa e alla fine aveva consegnato la figliola a Lacey per poter scappare. Quella bambina... Chissà cos’aveva dentro... Perché era strana, aveva qualcosa di assolutamente fuori dalla norma. Non era bello dirlo, ma come altro spiegare lo scompiglio che aveva causato al giardino zoologico? Era una situazione tremenda. Veramente tremenda. Arnette cercava di addormentarsi, ma non ci riusciva. Sentiva il ronzio dei furgoni della stampa appostati fuori dal convento e, anche con gli occhi chiusi, scorgeva le loro luci forti. Se avesse acceso il televisore, sapeva già che avrebbe visto reporter con il microfono in mano che parlavano concitati indicando la casa in cui lei e le sue consorelle stavano cercando di dormire. La scena del crimine, l’avrebbero definita, dove si era svolto l’ultimo sviluppo di una terribile storia fatta di omicidi e rapimenti in cui erano coinvolti anche alcuni agenti federali. L’ispettore Dupree aveva proibito alle suore di dirlo, però: nessuno doveva saperlo. Quando erano tornate a casa, su una camionetta della polizia, esauste e senza parole, e avevano trovato i reporter assiepati davanti al convento, suor Claire aveva notato che non c’erano soltanto inviati delle reti locali, ma anche alcuni che venivano da Nashville, Paducah e Little Rock. C’era persino una troupe di Saint Louis. Non appena erano scese, i giornalisti erano sciamati intorno al veicolo, puntando loro addosso riflettori, telecamere e microfoni e urlando domande rabbiose e incomprensibili. Non avevano la minima decenza. Suor Arnette aveva talmente paura che tremava. C’erano voluti due poliziotti per far spostare i reporter. “Non vedete che sono suore? Vi sembra il caso di venire a disturbare in un convento? Sgomberare, sgomberare.” Così loro erano riuscite a rientrare. Sì, l’inferno esisteva veramente e Arnette sapeva dov’era. C’era dentro in quel momento. Poi si erano riunite in cucina: nessuna di loro aveva fame, ma tutte parevano aver bisogno di stare insieme. Tutte eccetto Lacey, che si era fatta accompagnare subito di sopra da Claire per poter riposare. Era strano: Lacey sembrava la meno scossa dopo i fatti di quel pomeriggio. Non aveva proferito parola per ore, non rispondendo né alle sorelle né a Dupree; era rimasta lì, con

le mani giunte in grembo e le lacrime che le scorrevano sulle guance. Poi era successa una cosa strana: gli agenti avevano mostrato loro le riprese fatte nel Mississippi e, quando Dupree aveva fermato l’immagine sui due uomini, Lacey si era alzata e aveva fissato lo schermo. Arnette aveva già detto a Dupree che erano loro. Li aveva guardati bene e non aveva avuto alcun dubbio: erano stati quegli uomini a venire al convento e a prendere la bambina. L’espressione di Lacey, tuttavia, che per suor Arnette non era tanto di sorpresa, quanto piuttosto di stupore, aveva creato in tutti i presenti un senso di aspettativa. “Ho sbagliato” aveva detto Lacey alla fine. “Non è lui. Era un’altra persona.” “A quale si riferisce, sorella?” le aveva domandato gentilmente Dupree. Lacey aveva puntato il dito sul più vecchio dei due, quello che aveva parlato. Eppure era stato il più giovane a prendere Amy e a caricarla in macchina: suor Arnette se ne ricordava benissimo. Nell’inquadratura, guardava la telecamera con un bicchiere di plastica in mano. La scritta nell’angolo in basso a destra diceva che erano le 6.01 del sabato mattina in cui si erano presentati al convento. “Lui” aveva detto Lacey sfiorando il vetro. “Non ha preso la bambina?” “Oh, sì, ispettore” era intervenuta Arnette. Si era voltata verso suor Louise e suor Claire, le quali avevano entrambe assentito. “Siamo tutte d’accordo. La nostra sorella è ancora sconvolta.” Ma Dupree non si era lasciato scoraggiare. “Suor Lacey? Che cosa intende quando dice che non è lui?” Lacey emanava convinzione da tutti i pori. “Quell’uomo, vedete?” Si era voltata verso le consorelle e aveva sorriso. “Vedete? Le vuole bene.” Le vuole bene. Come interpretare quelle parole? Ma Lacey non aveva aggiunto altro, che Arnette sapesse. Voleva forse dire che Wolgast conosceva la bambina? Che poteva essere suo padre? Era di questo che si trattava? Anche se fosse stato così, non avrebbe spiegato quel che era successo allo zoo, quel trambusto in cui un bambino era stato calpestato dalla folla – e adesso era in ospedale –, due animali – un grosso felino e una scimmia – erano stati abbattuti, senza contare lo studente della confraternita universitaria ucciso e tutto il resto. Eppure da quel momento in poi, mentre passavano da un ufficio di polizia all’altro a ripetere sempre la stessa storia, Lacey aveva avuto per tutto il tempo uno strano sorriso sulle labbra, come se lei sapesse qualcosa che gli altri ignoravano. Secondo Arnette dipendeva da quello che le era successo da piccola, in Africa. Arnette aveva confidato tutto alle sorelle, sedute in cucina ad aspettare l’ora di andare a dormire. Forse non avrebbe dovuto, ma era stata costretta a raccontare tutto a Dupree e a quel punto aveva sentito il bisogno di dirlo anche alle altre. Un’esperienza simile non si dimentica più, avevano concordato le suore, ti rimane dentro per sempre. Suor Claire – che era andata all’università e teneva un abito da sera e scarpe con il tacco nell’armadio, come se da un momento all’altro qualcuno potesse invitarla a una festa – sapeva come si chiamava: disturbo da stress postraumatico. Spiegava ogni cosa, aveva detto, dava un senso a tutto quanto: i sentimenti protettivi che Lacey aveva provato per la bambina e come mai non uscisse quasi mai dal convento e rimanesse sempre un po’ in disparte, vivendo insieme a loro ma tenendo le distanze, come se una parte di lei fosse costantemente altrove. Povera Lacey, serbare dentro

un ricordo così... Arnette guardò l’ora: mezzanotte e cinque minuti. Il rumore dei generatori era cessato: forse le troupe se n’erano finalmente andate. Scostò le lenzuola e sospirò. Non poteva negarlo: era stata tutta colpa di Lacey. Arnette non avrebbe mai consegnato la bambina a quei due uomini se Lacey non le avesse mentito sin dal primo momento. Eppure adesso Lacey dormiva tranquilla, mentre lei non riusciva a chiudere occhio. Non se n’erano accorte le altre sorelle? Forse dormivano beatamente pure loro. Solo lei era condannata a passeggiare tutta la notte su e giù per i corridoi della sua mente. Perché era preoccupata, molto preoccupata. C’era qualcosa che non quadrava, indipendentemente da quello che diceva suor Claire. “Non è lui. Lui le vuole bene.” E quello strano sorriso... Dupree aveva fatto moltissime domande a Lacey, per capire che cosa intendeva dire, ma lei non aveva fatto altro che sorridere e ripetere le stesse parole, come se spiegassero ogni cosa. Peraltro la sua affermazione era palesemente falsa: era stato proprio Wolgast, su questo erano tutte d’accordo. Erano stati Wolgast e l’altro uomo a rapire la bambina. Doyle, Phil Doyle: il nome le sovvenne in quel momento. Dove avevano portato la piccola e perché? Nessuno le aveva detto niente. Arnette aveva capito che anche Dupree era perplesso dal fatto che lui continuava a ripetere le stesse domande, giocherellando con la penna, aggrottando incredulo le sopracciglia, scuotendo la testa, facendo telefonate, bevendo un caffè dopo l’altro. Poi, nonostante tutte le preoccupazioni, Arnette sentì la tensione allentarsi e le immagini di quel giorno cominciarono a srotolarsi dentro di lei come il filo di una spola, attirandola verso il sonno. “Ci dica di nuovo del parcheggio, suor Arnette.” E lei nella stanzetta con lo specchio che in realtà non era uno specchio, Arnette lo sapeva. “Ci dica dei due uomini. Ci dica di Lacey.” Arnette era di fronte al vetro e oltre la spalla di Dupree vedeva il proprio viso riflesso, pieno di rughe di vecchiaia e di stanchezza, incorniciato dal velo grigio, che sembrava staccato da tutto il resto, sospeso per aria. Dietro, di là dal vetro, sopra e intorno a lei, c’era una presenza, una sagoma scura che la teneva d’occhio. Chi si nascondeva dietro il suo volto? Le pareva di sentire la voce di Lacey, che nel parcheggio si era comportata come una pazza, distante da tutte loro, seduta per terra con la bambina stretta al petto. Arnette era dietro di lei e Lacey e la bambina piangevano. “Non portatela via!” La sua mente seguì il suono della voce di Lacey, scendendo in un luogo oscuro. “Non portatemi via! Non portatemi via! Non portatemi via...” Il panico le causò una fitta al petto. Si tirò su a sedere, di scatto. L’aria sembrava più leggera, nella stanza, come se l’ossigeno fosse stato prosciugato. Aveva il batticuore. Si era addormentata? Era stato un sogno? Che cosa era successo? Poi, d’un tratto, capì. Erano in pericolo, in grandissimo pericolo. Stava per succedere qualcosa, anche se non sapeva di che si trattasse. Una forza oscura si era liberata nel mondo e adesso avanzava verso di loro, per risucchiarli tutti quanti. Lacey lo sapeva. Lacey, che era rimasta distesa in quel campo tante ore, sapeva che cos’era il male. Arnette uscì dalla stanza e corse nel corridoio. Un terrore così a sessantotto anni, dopo aver donato la propria vita al Signore e alla sua amorevole benevolenza! Giacere da sola terrorizzata nel buio! Percorse i pochi passi che separavano la sua stanza da quella di Lacey. Spinse la maniglia, senza risultato: la porta era stata chiusa dall’interno. Bussò con forza.

«Sorella! Lacey! Apri!» Arrivò Claire, con indosso una maglietta che pareva brillare al buio e una crema azzurrina sul viso. «Cosa c’è? Cos’è successo?» «Suor Lacey! Apri la porta! Subito!» Silenzio. Arnette afferrò la maniglia e la scosse come un cane che riesca a impossessarsi di una pantofola. «Ubbidisci!» Si accesero luci, si alzarono voci, si aprirono porte, ci fu trambusto. Arrivarono altre suore, con la faccia allarmata, che parlavano tutte insieme. «Cosa succede?» «Non lo so, non lo so...» «Lacey sta bene?» «Chiamate il 911!» «Lacey, apri questa porta!» urlò suor Arnette. Poi Arnette venne afferrata da una forza sovrumana che la spostò. Suor Claire l’aveva presa da dietro, per le braccia. Arnette si sentì in balia della sua forza, impotente. «Guardate, la sorella si è fatta male...» «Oh, Signore misericordioso!» «Guardatele le mani!» «Per piacere» singhiozzò Arnette. «Aiutatemi.» Suor Claire la lasciò andare. Tutte le suore erano pervase da un senso di riverente compassione: dai polsi di suor Arnette colavano nastri scarlatti. Claire le prese una mano, con delicatezza, e la aprì. Il palmo era rosso di sangue. «Sono le unghie» disse mostrandole alle consorelle. «Se le è piantate nei palmi.» «Per favore!» Arnette piangeva. «Aprite la porta! Guardiamo!» Nessuno sapeva dove fosse la chiave. Alla fine a suor Tracy venne in mente di andare a prendere un cacciavite dalla cassetta degli attrezzi sotto il lavandino della cucina e lo infilò nella serratura. A quel punto suor Arnette aveva già capito che cosa avrebbero trovato. Il letto era fatto: nessuno ci si era mai coricato. Le tende della finestra, aperta, danzavano nella corrente. La stanza era vuota. Lacey Antoinette Kudoto era scappata. Erano le due e la notte scorreva lentissima. Era cominciata male, per Grey. Dopo lo scontro con Paulson in mensa, era tornato in camera sua. Mancavano ancora due ore all’inizio del turno, fin troppo tempo per riflettere su ciò che Paulson gli aveva detto a proposito di Jack e Sam. L’unico lato positivo era che quel pensiero lo aveva distratto dall’altra cosa, la strana eco che gli risuonava nella testa, eppure continuava a non sentirsi bene. Era preoccupato, angosciato. Alle dieci meno un quarto non stava più nella

pelle: si era infilato la giacca a vento e aveva attraversato il perimetro militare, diretto allo Chalet. Sotto le luci del parcheggio, si era concesso un’altra Parliament, aspirandone avidamente il fumo, mentre un gruppetto di medici e tecnici di laboratorio con il cappotto infilato sopra il camice andava a prendere la macchina per tornare a casa. Nessuno lo aveva salutato. Il pavimento dell’atrio era scivoloso a causa della neve sciolta. Grey aveva battuto i piedi per terra e si era avvicinato al bancone, dove la guardia gli aveva preso il tesserino per passarlo nello scanner e gli aveva indicato l’ascensore. Grey aveva premuto il pulsante L3. “Aspetta!” Grey si era sentito mancare. Era Richards, che un istante dopo lo aveva raggiunto portandosi dietro una ventata di aria fredda. “Grey.” Aveva premuto il pulsante L2 e guardato l’ora. “Dove cazzo eri stamattina?” “Mi scusi, non ho sentito la sveglia.” Le porte si erano chiuse e l’ascensore aveva cominciato a scendere lentamente. “Credi di essere in vacanza? Credi di poterti presentare quando ti pare?” Grey aveva scosso la testa, con gli occhi bassi. Solo sentire la voce di Richards gli faceva contrarre addome e sfinteri: non osava guardarlo in faccia. “Mi scusi.” “È tutto quello che hai da dire?” Grey aveva i sudori freddi e ne sentiva l’odore rancido, simile a quello delle cipolle quando restano troppo a lungo nella credenza. Chissà se anche Richards lo sentiva. “Non so...” Richards si era limitato a sbuffare con il naso e non aveva detto niente. Grey aveva capito che stava decidendo come procedere. “Ti tolgo due turni” aveva dichiarato alla fine Richards guardando dritto davanti a sé. “Milleduecento dollari.” Le porte si erano aperte al livello 2. “E che non succeda mai più.” Richards era uscito dall’ascensore e si era allontanato. Le porte si erano richiuse e Grey aveva ricominciato a respirare. Milleduecento dollari erano tanti, ma Richards... Lui sì che lo metteva in subbuglio. Soprattutto dopo il discorso di Paulson. Forse era davvero successo qualcosa a Jack e Sam, forse non erano scappati e basta. Gli era tornata in mente la lucina rossa che ballava sull’erba. Sì, doveva essere andata così: Jack e Sam avevano fatto qualcosa e Richards gli aveva puntato addosso quella lucina. Le porte si erano aperte al livello 3, regalandogli una vista dei due militari con la fascia arancione al braccio che indicava che erano di turno. Quel livello si trovava un bel po’ sottoterra e questo gli procurava sempre una sensazione di claustrofobia. Sopra il bancone c’era scritto: ACCESSO RISERVATO AL PERSONALE AUTORIZZATO – ZONA A RISCHIO BIOLOGICO E NUCLEARE – È VIETATO FUMARE E CONSUMARE CIBI E BEVANDE – IN PRESENZA DI UNO QUALSIASI DEI SEGUENTI SINTOMI, CONSULTARE IMMEDIATAMENTE IL MEDICO DI GUARDIA. Seguiva un

lungo elenco: febbre, vomito, capogiri, convulsioni. Grey aveva consegnato il tesserino al soldato che si chiamava Davis. “Salve” gli aveva detto Davis prendendolo e passandolo nello scanner senza nemmeno guardare il monitor. “Ti racconto l’ultima: quanti ragazzini con un disturbo dell’attenzione ci vogliono per cambiare una lampadina?” “Non lo so.” “Di’, andiamo a fare un giro in bicicletta?” Davis era scoppiato a ridere battendosi una mano sul ginocchio. L’altro militare si era accigliato e Grey aveva pensato che neanche lui avesse afferrato. “L’hai capita?” “Perché gli piace andare in bicicletta?” “Sì, gli piace andare in bicicletta. Ha un disturbo dell’attenzione, non riesce a concentrarsi.” “Ah, ho capito...” “È una barzelletta, Grey: dovresti ridere.” “Sì, è divertente” era riuscito a borbottare Grey. “Ma adesso devo prendere servizio.” Davis aveva sospirato. “Okay. Aspetta un momento.” Grey era risalito in ascensore con Davis. Questi aveva preso una lunga chiavetta argentata che teneva appesa al collo e l’aveva infilata nell’apposita fessura vicino al pulsante L4. “Divertiti” aveva detto. “Io pulisco e basta” aveva replicato Grey, nervoso. Davis aveva scosso la testa. “Non voglio sapere niente.” Nello spogliatoio del livello 4, Grey si era tolto la tuta da ginnastica e aveva indossato il camice. C’erano altri due uomini, anche loro inservienti, Jude e Ignacio. Su una lavagna bianca appesa al muro erano scritte le mansioni di ciascuno. Si erano cambiati senza parlare ed erano usciti. Grey era stato il più fortunato: gli toccava semplicemente lavare i corridoi e vuotare i cestini della carta straccia. Dopo avrebbe fatto da baby-sitter a Zero fino alla fine del turno, controllando se mangiava. Aveva preso lo spazzolone e i detersivi e si era messo subito al lavoro: a mezzanotte aveva già finito. A quel punto aveva infilato la chiave magnetica nella porta in fondo al primo corridoio ed era entrato. La stanzetta, di circa due metri quadrati, era vuota. Sulla sinistra c’era la doppia camera d’equilibrio che portava all’area di contenimento. Per superarla ci volevano come minimo dieci minuti e al ritorno anche di più, perché occorreva fare la doccia. A destra della camera d’equilibrio c’era un pannello di controllo con un sacco di spie luminose, pulsanti e interruttori di cui Grey non conosceva la funzione e che non era autorizzato a toccare. Sopra c’era una parete di vetro rinforzato scuro che dava sulla stanza. Grey si era seduto davanti al pannello e aveva controllato gli infrarossi. Zero era rannicchiato in un angolo, lontano dallo sbarramento, rimasto aperto dopo che quelli del turno precedente avevano portato i conigli. Il carrello d’acciaio era lì, al centro della stanza, con dieci gabbiette

spalancate. Tre conigli erano ancora dentro. Grey aveva cercato gli altri con lo sguardo: erano usciti e si erano sparsi qua e là, ma erano ancora tutti vivi. Poco dopo l’una la porta che dava sul corridoio si era aperta ed era entrato uno dei tecnici, un sudamericano grande e grosso che si chiamava Pujol. Gli aveva fatto un cenno di saluto e aveva guardato il monitor. “Continua a non mangiare?” “Uh-uh.” Pujol aveva digitato qualcosa sul palmare. Aveva la carnagione scura e sembrava sempre che non si fosse rasato. “Mi chiedo una cosa” aveva detto Grey. “Come mai non mangiano il decimo?” “E io che ne so? Forse lo tengono per dopo” aveva risposto Pujol. “Avevo un cane che faceva così” aveva osservato Grey. Pujol continuava a digitare sul palmare. “Ah.” Aveva alzato una spalla: non gliene fregava niente.”Se si decide a mangiare, chiama il laboratorio.” Dopo che Pujol se n’era andato, Grey aveva rimpianto di non avergli fatto le altre domande che gli ronzavano in testa, tipo: perché gli davano da mangiare conigli? Come faceva Zero a stare appeso al soffitto? E come mai rimanere seduto lì da un po’ di tempo a quella parte gli metteva un’ansia terribile? Perché con Zero era peggio che con gli altri: stare in compagnia di Zero era quasi come stare in compagnia di una persona. Zero aveva una testa, si capiva che pensava. Mancavano cinque ore alla fine del turno e Zero non si era mosso di un millimetro da che lui era lì. Dal monitor risultava che continuava ad avere centodue battiti al minuto, come quando si muoveva. Grey rimpiangeva di non essersi portato qualcosa da leggere, o magari dei cruciverba, per restare sveglio. Paulson lo aveva messo talmente in agitazione che se n’era dimenticato. Aveva anche voglia di fumare. C’era gente che lo faceva nei gabinetti, non solo inservienti, ma anche tecnici e persino qualche medico. Per tacito accordo, era consentito purché non se ne potesse proprio fare a meno e non si stesse via più di cinque minuti, ma Grey non voleva tirare troppo la corda avendo già fatto arrabbiare Richards. Si era appoggiato allo schienale. Ancora cinque ore. Aveva chiuso gli occhi. “Grey.” Grey spalancò gli occhi e si tirò su a sedere. “Grey. Guardami.” Non era una voce quella che sentiva. Non propriamente. Le parole risuonavano nella sua testa come se le stesse leggendo. Erano parole di qualcun altro, ma a pronunciarle era la sua voce. «Chi è?» Sul monitor, la sagoma di Zero pareva incandescente. “Mi chiamavo Fanning.” Grey ebbe una visione, come se gli si fosse aperta una porta della mente. Era una città

scintillante di luci, talmente tante che pareva che il cielo notturno fosse caduto sulla terra e si fosse avvolto intorno a palazzi, ponti e strade. Varcò la porta che aveva visto davanti a sé e sentì odori e sensazioni: la durezza del pavimento freddo sotto i piedi, i fumi degli scarichi, l’odore di pietra, l’aria fredda e invernale che soffiava in mezzo ai palazzi e gli alitava sul volto. Non era Dallas, però, né nessun’altra città in cui fosse stato: era un luogo antico, d’inverno. Una parte di lui era seduta davanti al pannello al livello 4 e un’altra era in quella città. Sapeva di avere gli occhi chiusi. “Voglio andare a casa. Portami a casa, Grey.” Pensò che fosse un college, anche se non aveva idea del perché gli fosse venuto in mente. E come faceva a sapere che la città era New York, dove non aveva mai messo piede e che aveva visto solo in fotografia? Quelli intorno a lui erano gli edifici di un campus universitario: aule, uffici, dormitori e laboratori. Stava percorrendo un viale, non proprio camminando, ma comunque muovendosi lungo quel nastro d’asfalto, fra la gente. “Guardale.” Erano donne giovani, infagottate in lunghi cappotti di lana, con sciarpe annodate intorno al collo. Alcune avevano berretti calati sulla fronte e folti capelli che uscivano da sotto e le avvolgevano come scialli di seta nella gelida aria di New York d’inverno. Avevano gli occhi vivaci, pieni di vita. Ridevano, con i libri sottobraccio e parlavano animatamente fra loro, sebbene le loro voci a lui non arrivassero. “Sono bellissime. Non sono bellissime, Grey?” Sì, erano bellissime. Perché Grey non se ne era mai reso conto? “Non senti il loro calore, il loro odore, quando passi vicino? Io non mi stancavo mai di annusare il loro odore. Mi sembrava che l’aria si addolcisse al loro passaggio. Stavo lì e mi beavo di quel profumo. Anche tu lo senti, vero, Grey? Come i bambini.” «I bambini.» “Te li ricordi, i bambini, Grey?” Sì, se li ricordava. Tornavano da scuola, madidi, con la cartella pesante sulle spalle, la camicia umida e appiccicaticcia. Ricordava l’odore di sudore e di sapone che emanava dai loro capelli, dalla loro pelle, gli aloni sulla schiena dove si appoggiava la cartella. E poi lui, il bambino che restava indietro e prendeva la scorciatoia, il vicolo che gli consentiva di arrivare a casa più in fretta. Il bambino con la pelle abbronzata dal sole e i capelli neri incollati al collo, gli occhi bassi sul marciapiede, che faceva un suo gioco silenzioso con le fessure tra le pietre del lastricato. Perciò non si era accorto subito di Grey, del pick-up che si muoveva lentamente alle sue spalle e poi si fermava. Come sembrava solo... “Tu volevi amarlo, non è vero, Grey? Volevi trasmettergli il tuo amore...” Grey sentì il macigno che si portava dentro prendere improvvisamente vita. Il vecchio Grey. Il panico gli attanagliò la gola. «Non me lo ricordo.» “Sì che te lo ricordi. Ma poi ti hanno fatto delle cose, Grey. Ti hanno tolto quella parte di te, la parte che provava amore.”

«Io non posso... Non devo...» “Ce l’hai ancora, Grey. È solo un po’ più nascosta. Io lo so, perché anche dentro di me c’era una parte nascosta. Prima che io diventassi quello che sono.” «Quello che sei.» “Io e te siamo uguali. Sappiamo quello che vogliamo: dare e ricevere amore. Ragazze, bambini, è la stessa cosa. Noi vogliamo amarli e loro hanno bisogno di amore. Non vorresti, Grey? Non vorresti provare di nuovo quei sentimenti?” Sì, lo avrebbe voluto. Se ne rese conto in quel momento. «Sì, lo vorrei.» “Io devo tornare a casa, Grey. E voglio portarti con me, mostrarti casa mia.” Grey rivide, nella sua mente, la grande città di New York. Era intorno a lui e pulsava di vita e di rumore; la sua energia trapassava le pietre e i mattoni, arrivava fino a lui attraverso le suole delle scarpe. Era buio, e quel buio aveva un che di meraviglioso, in cui Grey si sentiva bene, a proprio agio. Scorreva dentro di lui, gli entrava nella gola e nei polmoni, e annegarci dentro era dolcissimo. Era ovunque e al tempo stesso non era in nessun luogo, e non si muoveva sopra la strada, ma dentro la città, attraversandola da parte a parte, respirandola e lasciandosi respirare da essa. Poi la vide. Era lì, sola, che camminava lungo un viale del campus, fra un dormitorio di studenti che ridevano e una biblioteca silenziosa dalle alte finestre appannate, accanto a un ufficio vuoto dove una donna faceva le pulizie ascoltando musica nera in cuffia, china a lavare uno straccio in un secchio con le ruote. Sapeva tutto, sentiva tutto: le risate e il silenzio degli studenti, il numero dei libri sugli scaffali, le parole della canzone che la donna delle pulizie canticchiava fra sé – Whenever you’re near I hear a symphony – e la ragazza sul viale, la sua figura solitaria e scintillante, pulsante di vita. Camminava dritta verso di lui, la testa china contro il vento, le spalle leggermente curve sotto il cappotto a indicare che aveva qualcosa tra le braccia. La ragazza stava andando a casa. Da sola. Era stata fuori fino a tardi a studiare sul libro che adesso teneva stretto al petto e aveva paura. Grey sapeva di avere qualcosa da dirle, prima che gli sfuggisse. “Ti piace, è una cosa che ti piace, ti faccio vedere.” Si sollevava, si librava nell’aria, le si tuffava addosso... “Amala, Grey. Prendila.” Grey si sentì male. Si piegò sulla sedia e, con un terribile conato, rigettò tutto quello che aveva nello stomaco: la minestra, l’insalata, le barbabietole, le crocchette e il prosciutto. Teneva la testa fra le ginocchia e dalle labbra gli colava un lungo filamento di saliva. “Ma che caspita... Che...?” Si tirò su e riacquistò un po’ di lucidità. Livello 4. Era al livello 4. Era successo qualcosa, non ricordava cosa. Un sogno terribile, in cui volava. Nel sogno mangiava qualcosa, ne sentiva ancora il sapore in bocca. Un sapore come di sangue. E poi aveva vomitato. Aveva vomitato... Al pensiero si sentì ancora peggio: era un sintomo grave. Molto grave. Doveva stare attento. Avrebbero potuto venirgli febbre e convulsioni. Doveva preoccuparsi anche del più piccolo starnuto. C’erano cartelli ovunque, non solo nello Chalet, ma anche in caserma, in mensa e persino nelle toilette. IN PRESENZA DI UNO QUALSIASI DEI SEGUENTI SINTOMI, CONSULTARE IMMEDIATAMENTE IL MEDICO DI GUARDIA...

Pensò a Richards, alla lucina rossa che aveva fatto danzare sull’erba, ai due inservienti che si chiamavano Jack e Sam. “Oh, merda, merda, merda.” Occorreva sbrigarsi. Nessuno doveva vedere il vomito per terra. Si impose di stare calmo. “Non ti agitare, Grey, forza.” Guardò l’ora: 2.31. Non poteva restare altre tre ore e mezzo. Si alzò, aggirò la chiazza di vomito e aprì silenziosamente la porta. Diede una sbirciatina: non c’era nessuno. Doveva fare in fretta, questo era importante. Avrebbe pulito e se ne sarebbe andato. Chissenefrega delle telecamere: Paulson probabilmente aveva ragione, non controllavano tutti quanti tutto il giorno. Andò a prendere lo spazzolone e riempì il secchio d’acqua, poi vi versò un bicchiere di candeggina. Se lo avesse visto qualcuno, avrebbe detto che aveva rovesciato qualcosa, una bibita o un caffè. A rigore bere era vietato, lì dentro, ma lo facevano tutti. Aveva rovesciato una bibita. Gli dispiaceva enormemente. Ecco cosa avrebbe detto se qualcuno lo avesse sorpreso. Non si sentiva poi troppo male, non aveva gli altri sintomi scritti sui cartelli. Era sudato, questo sì, ma probabilmente per la paura. Mentre sollevava il secchio che puzzava di cloro, ne ebbe la certezza. Era stato qualcosa nel sogno a fargli venire da vomitare, non una malattia. Aveva ancora in bocca non solo il sapore, ma addirittura la sensazione di quel liquido troppo caldo, dolciastro, appiccicaticcio. Lo avvertiva sulla lingua, sui denti, in gola. Sentiva la consistenza della carne morbida e cedevole sotto i suoi morsi, l’esplosione di liquido. Era come mordere un frutto marcio. Prese un bel po’ di carta dal rotolo, un sacchetto per i rifiuti pericolosi e un paio di guanti e portò tutto nella stanza. Non sarebbe riuscito a pulire con lo spazzolone soltanto, perciò si inginocchiò a raccogliere il vomito con la carta, facendo dei mucchietti per poterli prendere meglio. Infilò tutto nel sacchetto e lo chiuse bene. Poi sparse acqua e candeggina per terra e pulì. Si accorse di avere qualche residuo di vomito sulle scarpe e lo eliminò. Adesso in bocca aveva un sapore diverso, come di cibo andato a male, che gli fece venire in mente Orsobruno e l’odore del suo fiato. Era l’unica cosa brutta di quel cane, l’alito cattivo che a volte aveva quando tornava a casa dopo aver mangiato qualche carcassa di animale investito da una macchina e gli avvicinava il muso alla faccia, con quel suo sorriso da cane e le gengive ritratte sui molari. Grey non ce l’aveva con Orsobruno, che era solo un cane, ma quell’odore non gli piaceva per niente. E adesso lo aveva in bocca lui. Andò nello spogliatoio e si cambiò in fretta, cacciando il camice nel bidone degli indumenti sporchi, poi salì in ascensore al livello 3. Davis era ancora lì, appoggiato allo schienale della sedia, con i piedi sulla scrivania, a leggere una rivista. Muoveva gli scarponi a ritmo con la musica che usciva dalle minuscole cuffie sulla sua testa. «Sai, non so manco più perché guardo ’sta roba» disse a Grey, parlando forte perché aveva la musica nelle orecchie. «Che senso ha? Non metto mai piede fuori da questo iceberg.» Posò i piedi per terra e gli mostrò la copertina, con la foto di due donne nude che si abbracciavano, la bocca aperta e le due lingue che si toccavano. La rivista si chiamava “Hot Chicks”. A Grey quelle lingue parvero fette di carne come quelle che i macellai posano su vassoi di ghiaccio. Gli venne di nuovo la nausea. «Ah, già» fece Davis vedendo la sua espressione. Si tolse le cuffie. «A voi non piace ’sta roba. Scusa.» Si protese in avanti e arricciò il naso. «Ehi, com’è che puzzi di fogna?»

«Devo aver mangiato qualcosa che era andato a male» rispose Grey, cauto. «Mi devo stendere due minuti.» Davis si preoccupò subito. Si alzò dalla scrivania e indietreggiò. «Non me lo dire.» «Davvero, penso che sia qualcosa che ho mangiato.» «Cristo santo, Grey.» Il soldato era spaventatissimo. «Cosa mi combini? Hai mica la febbre?» «Ma no. Ho cacciato via tutto. Forse ho mangiato troppo. Mi stendo due secondi e mi passa.» Davis ci pensò su un attimo, guardandolo con preoccupazione. «Be’, ho visto come mangi. Tutti quanti voi. Sembra che non mastichiate nemmeno. Non hai una bella cera, devo dire. Anzi, scusa, ma hai proprio una faccia terribile. Devo avvertire i miei superiori.» Avrebbero chiuso il reparto, Grey lo sapeva. E Davis sarebbe rimasto giù tutto il tempo della quarantena. Chissà poi a lui cosa avrebbero fatto: non ci voleva nemmeno pensare. Non era malato, questo lo sapeva, ma non stava neanche bene. Non era la prima volta che faceva brutti sogni, però non gli era mai capitato di vomitare per un incubo. «Sei sicuro?» insistette Davis. «Me lo diresti se avessi qualcosa di serio, vero?» Grey annuì. Percepì un rivolo di sudore che gli scendeva sul petto. «Che giornata» recriminò Davis. «Va be’, aspetta.» Gli diede la chiave dell’ascensore e staccò la ricetrasmittente dalla cintura. «Non dire che non ho mai fatto niente per te.» Poi parlò al microfono. «Chiamo dal livello 3. Avremmo bisogno di una sostituzione...» Grey non rimase ad ascoltare il resto. Salì in ascensore e se ne andò.

11 A ovest di Randall, Oklahoma, pochi chilometri a sud del confine con il Kansas, Wolgast decise di arrendersi. Erano parcheggiati in un autolavaggio lungo una strada sconosciuta in mezzo alla campagna ed era quasi l’alba. Amy dormiva sul sedile posteriore della Tahoe, acciambellata come un cagnolino. Dopo tre ore di viaggio ad andatura sostenuta, con Doyle che gli faceva da navigatore consultando il GPS e con una fila di lampeggianti che li seguivano in lontananza, a volte sparendo quando loro deviavano, ma riassemblandosi subito dopo, alle due appena passate Wolgast aveva visto l’autolavaggio e aveva deciso di tentare di nascondersi. Si erano acquattati nel buio e avevano sentito le autopattuglie passare oltre a grande velocità. «Quanto dobbiamo restare qui, secondo te?» domandò Doyle, molto più mogio di prima. «Un po’» rispose Wolgast. «Lasciamo che si allontanino.» «Gli stiamo dando il tempo di predisporre posti di blocco lungo il confine. O di tornare indietro, se si accorgono di averci perso.» «Se hai un’idea migliore, dimmelo» replicò Wolgast. Doyle rifletté un momento. I rami che pendevano sopra il parabrezza facevano sembrare più angusto l’abitacolo. «No, non ho altre idee.» E così restarono fermi. Wolgast temeva che da un momento all’altro apparisse una luce abbagliante davanti a loro e una voce amplificata da un megafono gli intimasse di scendere con le mani alzate. Non successe, tuttavia. Il segnale ora c’era, ma essendo analogico non si poteva criptare e quindi non avevano modo di comunicare la loro posizione. «Senti» disse Doyle. «Mi dispiace per quello che è successo prima.» Wolgast era troppo stanco per parlarne. Gli sembrava che fosse passato tantissimo tempo da quando si erano fermati al luna park. «Non importa.» «Il fatto è che a me il mio lavoro piace tantissimo, sai? Il Bureau, tutto quanto. Ho sempre sognato di fare quello che faccio.» Trasse un lungo respiro e con un dito tolse una goccia di condensa dal finestrino. «Cosa succederà adesso?» «Non lo so.» Doyle fece una smorfia. «Sì che lo sai, invece. Penso che avessi ragione a proposito di Richards.» I finestrini della macchina cominciavano a rischiararsi. Wolgast guardò l’ora: mancavano pochi minuti alle sei. Più di così non potevano aspettare. Girò la chiave nell’accensione e uscì dall’autolavaggio in retromarcia. Amy si svegliò, si tirò su a sedere, si fregò gli occhi e si guardò in giro. «Ho fame» dichiarò. Wolgast si voltò verso Doyle. «Cosa ne pensi?» Doyle era titubante e Wolgast si accorse che si stava rassegnando all’idea che non c’era più niente da fare.

«Ma sì, tanto vale...» Wolgast ripartì nella direzione da dove erano venuti, verso Randall. La strada principale della cittadina, lunga circa una mezza dozzina di isolati, aveva un’aria desolata. Molte vetrine erano imbiancate o coperte di fogli di carta. Dovevano avere aperto un Walmart lì nei pressi, o uno di quei centri commerciali che cancellano dalle carte geografiche le piccole località come quella. Vide un riquadro di luce che illuminava il marciapiede un po’ più avanti, con cinque o sei pickup parcheggiati davanti. «Facciamo colazione» annunciò. Era un locale lungo e stretto, con il controsoffitto macchiato da anni di fritture e fumo di sigaretta. Da una parte c’era un bancone lungo, dall’altra una fila di séparé con divanetti imbottiti dallo schienale alto. Vi aleggiava un profumo di caffè e di burro fritto. C’erano diversi uomini in jeans e camicia da lavoro, con le schiene possenti chine su piatti di uova strapazzate. Si andarono a sedere a un tavolo in fondo. La cameriera, di mezza età, con la vita larga e occhi grigi molto chiari, portò il caffè e distribuì i menu. «Cosa posso servirvi?» Doyle disse che avrebbe preso soltanto un caffè, perché non aveva fame. Wolgast guardò la donna, che aveva una targhetta con scritto LUANNE. «Cosa mi consiglia, Luanne?» «Quando uno ha fame, è tutto buono» rispose lei con un sorriso. «Il porridge di mais non è male.» Wolgast annuì e le restituì il menu. «Va bene.» La donna guardò Amy. «E la bambina? Cosa prendi, tesoro?» Amy alzò gli occhi dal menu. «Pancake?» «E un bicchiere di latte» aggiunse Wolgast. «Subito» disse la cameriera. «Ti piaceranno, tesoro. Il cuoco li fa speciali.» Amy si era portata appresso lo zainetto. Wolgast la accompagnò alla toilette delle donne perché si desse una lavata. «Vuoi che entri con te?» Amy scosse la testa. «Lavati la faccia e i denti» le raccomandò. «E datti una pettinata.» «Andiamo dal dottore?» «Non so. Vediamo.» Tornò al tavolo. «Senti» disse a Doyle, a bassa voce. «Non voglio incappare in un posto di blocco. Potrebbe finire male.» Doyle annuì. Il significato era chiarissimo: con quello spiegamento di forze, sarebbe potuta accadere qualsiasi cosa. Avrebbero potuto ridurre la Tahoe a un colabrodo e ammazzarli tutti e tre. «Se andassimo all’ufficio distrettuale di Wichita?» «Troppo lontano: non vedo come possiamo arrivarci. A questo punto, penso che nessuno

ammetterà mai di averci visto o conosciuto, negheranno tutto.» Doyle guardava il caffè con il volto tirato e l’espressione sconfitta. Wolgast ebbe un moto di compassione. La situazione era sfuggita di mano pure a lui. «È una brava bambina» disse Doyle. Sospirò. «Cazzo.» «Con quelli del posto sarà più facile, penso. Decidi cosa fare. Se vuoi, ti do le chiavi. Gli dirò tutto quello che so. È la cosa migliore, secondo me.» «La cosa migliore per lei.» Doyle non lo disse in tono d’accusa, bensì come un dato di fatto. «Sì, la cosa migliore.» Arrivarono le ordinazioni e Amy tornò dal bagno. Il cuoco aveva decorato i pancake come se fossero facce di clown, con panna spray e mirtilli per fare gli occhi e la bocca. Amy li coprì di sciroppo e cominciò a mangiare, bevendo lunghi sorsi di latte fra un boccone e l’altro. Era bello vedere come li gustava. Quando ebbero finito, Wolgast si alzò dal tavolo e andò verso le toilette. Non voleva usare il palmare, che peraltro aveva lasciato sulla Tahoe, e aveva visto che lì c’era un vecchio apparecchio pubblico. Compose il numero di Lila a Denver, ma il telefono squillò a lungo e poi scattò la segreteria. Non sapendo che cosa lasciar detto, Wolgast riattaccò. In ogni caso se David avesse trovato un suo messaggio, probabilmente l’avrebbe cancellato. Tornò al tavolo e vide che la cameriera stava sparecchiando. Prese il conto e andò alla cassa. «C’è un posto di polizia nei paraggi?» domandò alla donna mentre pagava. «Oppure l’ufficio dello sceriffo?» «È tre isolati più in giù» rispose lei infilando i soldi nel registratore di cassa. «Ma non è il caso che andiate fin là.» Chiuse il cassetto. «C’è qui Kirk, il vicesceriffo. Dico bene, Kirk?» «Lasciami fare colazione tranquillo, Luanne.» Wolgast guardò l’uomo che stava mangiando pane fritto seduto al bancone. Aveva la faccia tonda e le mani grosse e segnate ed era in borghese, con un paio di Wrangler aderenti sotto la pancia prominente e una giacca Carhartt macchiata di unto, color toast bruciato. In un paese così piccolo, probabilmente faceva tre lavori. Wolgast si avvicinò. «Devo denunciare un rapimento» disse. L’uomo si voltò sullo sgabello, si pulì la bocca nel tovagliolino e lo guardò incredulo. «Eh?» Non si era rasato e puzzava di birra. «Vede quella bambina? La stanno cercando in tutti gli Stati Uniti. Avrete ricevuto una segnalazione, immagino.» Il vicesceriffo guardò prima Amy, poi Wolgast e sgranò gli occhi. «Merda! Scherza? È quella di Homer?» «È vero!» intervenne Luanne, emozionata, indicando Amy. «L’ho vista in televisione. È lei! Sei tu, vero, tesoro?» «Che mi venga un accidente.» Kirk scese dallo sgabello. Improvvisamente era calato un gran silenzio nel locale: tutti stavano guardando. «La polizia di Stato la sta cercando dappertutto.

Dove l’avete trovata?» «L’abbiamo rapita noi, per la verità» spiegò Wolgast. «Siamo i sequestratori. Io sono l’agente speciale Wolgast e lui è l’agente speciale Doyle. Saluta, Phil.» Doyle fece ciao con la mano. «Salve.» «Agenti speciali? Dell’FBI?» Wolgast posò le credenziali sul bancone perché il vicesceriffo potesse esaminarle con comodo. «È una storia un po’ complicata.» «Avete preso voi la bambina.» Wolgast ribadì il concetto. «Vogliamo consegnarci, vicesceriffo. Non appena avrà finito di fare colazione.» Si udì un risolino. «Ho finito, ho finito» disse Kirk. Aveva ancora in mano le credenziali di Wolgast e le guardava come se non credesse a quello che vedeva. «Figurarsi. Perdio.» «Dài, Kirk, arrestali» lo incitò uno ridendo. «È quello che vogliono. Sai come si fa, vero? Te lo ricordi ancora?» «Aspetta, Frank. Ci devo pensare.» Kirk lanciò a Wolgast un’occhiata timida. «Mi scusi, ma sono un po’ arrugginito. Più che altro, scavo pozzi. Da queste parti non succede mai niente, qualche caso di ubriachezza molesta, tutto lì. E il colpevole il più delle volte sono io. Non ho nemmeno le manette.» «Gliele presto io, se crede» si offrì Wolgast. Wolgast gli suggerì di sequestrare la Tahoe, ma il vicesceriffo disse che sarebbe tornato a prenderla in un secondo tempo. Gli consegnarono le armi e salirono sul pick-up di Kirk per fare i tre isolati fino al municipio, che era una palazzina di mattoni a due piani con la data “1854” sul portone. Era spuntato il sole e la cittadina era bagnata di luce piatta e soffusa. Scendendo dal pick-up, Wolgast sentì cinguettare gli uccellini su alcuni pioppi pieni di gemme. Provava un senso di felicità, di leggerezza, che riconobbe come sollievo. Durante il breve tragitto sul pick-up aveva tenuto Amy in braccio. In quel momento si inginocchiò e le posò le mani sulle spalle. «Fai quello che ti dice quest’uomo, okay? Mi metterà in una cella e per un po’ io e te non ci vedremo.» «Io voglio restare con te» disse lei. Wolgast si accorse che aveva le lacrime agli occhi e gli venne un groppo alla gola. Sapeva che stava facendo la cosa più giusta, però. La polizia dell’Oklahoma sarebbe arrivata in fretta, non appena Kirk avesse comunicato la notizia dell’arresto, e Amy sarebbe stata al sicuro. «Lo so» rispose sforzandosi di sorridere. «Andrà tutto bene, vedrai.» L’ufficio dello sceriffo era nel seminterrato. Kirk non li aveva neppure ammanettati, vedendo quanto erano collaborativi. Li accompagnò sul lato dell’edificio, giù per una scala e in una stanza con il soffitto basso e due scrivanie di metallo, un armadio pieno di fucili e alcuni schedari appoggiati alle pareti. La luce entrava dalle finestre, che erano alte ma sotto il livello della

strada e coperte da foglie secche. Nell’ufficio non c’era nessuno: la segretaria arrivava alle otto, spiegò Kirk accendendo le luci. Quanto allo sceriffo, chissà dov’era. Probabilmente in macchina, da qualche parte. «A dire la verità non so bene come fare: documenti, registri, la procedura. Meglio che lo chiami via radio.» Chiese a Wolgast e Doyle se gli dispiaceva aspettare in cella. Ne avevano una soltanto, ed era piena di scatoloni, ma pensava che un po’ di posto ci fosse ancora. Wolgast disse che andava bene. Kirk ce li accompagnò, aprì la porta e li fece entrare. «Voglio stare in cella anch’io» disse Amy. Kirk la guardò sorpreso. «Questo è il rapimento più strampalato che abbia mai visto.» «Non si preoccupi» lo rassicurò Wolgast. «Aspetta qui con me.» Kirk ci rifletté un momento. «Ma sì, va bene. Per lo meno finché non viene mio cognato.» «Chi è suo cognato?» «John Price» rispose Kirk. «Lo sceriffo.» Comunicò per radio e dieci minuti dopo arrivò un uomo con la divisa cachi che andò dritto alla cella. Aveva un fisico da ragazzino ed era basso, nonostante il tacco degli stivaletti, che a Wolgast sembrarono di pelle di struzzo o di lucertola. Pensò che lo sceriffo li metteva per sembrare più alto. «Porca merda!» esclamò, con voce sorprendentemente profonda, guardandoli con le mani sui fianchi. Aveva un pezzettino di carta sul mento, nel punto in cui doveva essersi tagliato rasandosi di corsa. «Siete federali?» «Sì.» «Bel pastrocchio» commentò. Poi si voltò verso Kirk. «Perché hai fatto entrare in cella anche la bambina?» «C’è voluta andare lei.» «Cristo santo, Kirk, non si sbattono in cella bambini di quell’età! Hai preparato i documenti?» «Aspettavo te.» Price sospirò, esasperato. «Sai, Kirk, devi lavorare un po’ sulla tua autostima. Ne abbiamo già parlato. Ti lasci mettere troppo i piedi in testa da Luanne e dagli altri.» Kirk stette zitto, quindi lo sceriffo aggiunse: «Be’, è meglio che avverti i colleghi. La stanno cercando per mare e per terra». Guardò Amy. «Stai bene?» Amy, seduta sulla panchetta di cemento accanto a Wolgast, fece cenno di sì con la testa. «Me l’ha chiesto espressamente» si giustificò Kirk. «Non mi interessa.» Price prese una chiavetta dalla tasca nel cinturone e aprì la cella. «Dài, esci, piccolina.» Le tese la mano. «Questa cella non è il posto per te. Vieni che ti cerco qualcosa da bere. Kirk, telefona a Mavis, per favore. E dille di venire subito.»

Quando furono di nuovo soli, Doyle, che era chino sulla panchetta, rovesciò la testa all’indietro e chiuse gli occhi. «Cristo santo! Sembra una puntata della Fattoria dei giorni felici.» Passò una mezz’oretta. Wolgast sentiva Kirk e Price che parlavano nell’altra stanza, cercando di decidere che cosa fare e chi chiamare per primo. La polizia di Stato? La procura? Fino a quel momento non avevano neppure formalizzato l’arresto. Non c’era da preoccuparsi, però: prima o poi ci sarebbero arrivati. Wolgast sentì aprire la porta e poi una voce di donna che parlava ad Amy, le diceva che era molto graziosa e le domandava come si chiamava il suo coniglietto. Le offrì un gelato, dicendo che il negozio all’angolo stava per aprire e gliene avrebbe volentieri comprato uno. Stava andando tutto come Wolgast aveva previsto quando, nell’autolavaggio buio, aveva deciso di costituirsi. Era contento di averlo fatto, così contento da esserne stupito lui stesso. La cella, presumibilmente la prima di una lunga serie, non gli sembrava tanto male. Si chiese se era così che si era sentito Anthony Carter, se anche lui si era detto: “D’ora in poi la mia vita sarà questa”. Arrivò Price, con la chiave in mano. «Quelli della polizia di Stato sono per strada» annunciò dondolando sui talloni. «Dovete aver fatto un gran casino, eh?» Gli passò le manette dalle sbarre. «Immagino sappiate usarle.» Doyle e Wolgast si ammanettarono, Price aprì la cella e li riaccompagnò in ufficio. Amy era seduta su una seggiola di metallo vicino alla reception, con lo zainetto in grembo. Stava mangiando un gelato fra due biscotti. Una donna dall’aria nonnesca, in tailleur pantaloni verde, le stava seduta vicino e le mostrava un album da colorare. «Lui è mio papà» disse Amy alla donna. «Lui?» chiese la donna voltandosi. Aveva le sopracciglia disegnate con la matita nera e un rigido caschetto di capelli corvini, chiaramente una parrucca. Fissò Wolgast con aria interrogativa, poi riportò lo sguardo su Amy. «Questo signore qui è il tuo papà?» «Non è il caso» disse Wolgast. «Sì, è il mio papà» ribadì Amy con voce ferma. «Papà, andiamo adesso?» Price aveva tirato fuori il kit per le impronte digitali. Kirk, alle sue spalle, stava montando uno schermo e la macchina fotografica sul cavalletto. «Cosa succede?» domandò Price. «È una lunga storia» fece Wolgast. «Per favore, papà!» Wolgast sentì aprire la porta dell’ufficio. La donna alzò la testa. «Desidera?» «Buongiorno» disse una voce di uomo che a Wolgast sembrò familiare. Price gli stava tenendo la mano destra per il polso, per premergli dito dopo dito sul tampone inchiostrato. Wolgast vide l’espressione di Doyle e capì. «Questo è l’ufficio dello sceriffo?» chiese Richards. «Buongiorno a tutti. Mamma mia, quanti fucili! Sono veri? Ho una cosa da farvi vedere, signori.» Wolgast si voltò appena in tempo per vedere Richards che freddava la donna sparandole un colpo in mezzo agli occhi. Aveva una pistola con il silenziatore, per cui non si udì lo sparo. La

donna dondolò all’indietro, con gli occhi spalancati e la parrucca di traverso. Un delicato spruzzo di sangue bagnò il pavimento davanti a lei. La donna alzò le braccia e le riabbassò, per poi restare immobile. «Pardon» mormorò Richards con una piccola smorfia. Girò intorno alla scrivania. La stanza era piena dell’odore acre della polvere da sparo. Price e Kirk erano rimasti a bocca aperta, impietriti dal terrore. O forse non era paura, quella che provavano, ma stupore. Come se fossero finiti nella scena di un film dalla trama insensata. «Fermi dove siete» intimò Richards prendendo la mira. «Perfetto così.» E sparò anche a loro due. Nessuno si mosse. Era successo tutto come al rallentatore, come in un sogno, ma era finito in un istante. Wolgast guardò la donna, poi i due uomini per terra, Kirk e Price. Com’era sorprendente la morte, com’era irrevocabile e completa... Seduta al banco della reception, Amy guardava la faccia della morta. Era lì vicino a lei quando Richards le aveva sparato. Aveva la bocca aperta, come per parlare, e dalla fronte le colava un rivolo di sangue sulla faccia, riempiendone le rughe, come il delta di un fiume. Amy aveva in mano il gelato ormai semisciolto. Forse ne aveva ancora un po’ in bocca, che le ricopriva la lingua di una dolce patina lattea. Wolgast pensò, chissà perché, che il sapore del gelato le avrebbe ricordato quel momento per il resto della vita. «Cosa cazzo ha fatto?» sbottò Doyle. «Li ha ammazzati tutti quanti?» Price era caduto a faccia in giù dietro la scrivania. Richards si chinò e gli tastò le tasche finché non trovò la chiave delle manette, che lanciò a Wolgast. Poi agitò la pistola in direzione di Doyle, spazientito. Doyle guardava l’armadio pieno di fucili. «Non ci pensare nemmeno» lo ammonì Richards. Doyle si risedette. «A noi non sparerà» disse Wolgast a Richards liberandosi i polsi. «Per ora no» replicò lui. Amy si era messa a piangere e singhiozzare. Wolgast diede la chiave delle manette a Doyle, poi la prese in braccio e se la strinse forte al petto. Amy si lasciò andare fra le sue braccia. «Mi spiace. Mi spiace.» Non riusciva a dirle altro. «Che scenetta commovente» commentò Richards porgendo a Doyle lo zainetto di Amy. «Purtroppo, però, conviene che andiamo, prima che mi tocchi sparare a qualcun altro. Direi che per oggi potrebbe essere sufficiente.» Wolgast pensò al caffè dove avevano fatto colazione. Probabilmente Richards aveva compiuto una strage anche lì. Amy continuava a singhiozzare e Wolgast aveva la camicia bagnata delle sue lacrime. «È una bambina, Cristo santo!» Richards aggrottò le sopracciglia. «Perché continuate a ripeterlo tutti quanti?» Fece segno verso la porta con la pistola. «Andiamo.» La Tahoe li aspettava nel sole del mattino, vicino all’autopattuglia di Price. Richards chiese a Doyle di guidare e si sedette dietro con Amy. Wolgast si sentiva un perfetto cretino: dopo tutto quello che aveva fatto, dopo le centinaia di decisioni che aveva preso, adesso non poteva fare altro che ubbidire. Richards li fece uscire dalla cittadina e li diresse verso un campo aperto in cui

li aspettava un elicottero nero, senza contrassegni. Nel vederli arrivare, il pilota mise in moto. Wolgast sentì un suono di sirene in lontananza. «Facciamo in fretta» disse Richards. Salirono a bordo e l’elicottero si sollevò quasi subito. Wolgast abbracciava Amy, sentendosi come in trance. Gli sembrava di sognare, di vivere un incubo terribile, indicibile, in cui gli veniva strappato tutto ciò che aveva desiderato nella vita e non poteva fare altro che guardare, impotente. Non era la prima volta che faceva quel sogno: voleva morire ma non ci riusciva. L’elicottero fece una brusca virata, dando loro una vista del campo bagnato e della fila di auto della polizia che correvano a tutta velocità. Wolgast ne contò nove. Richards indicò il vetro e disse al pilota qualcosa che lo fece inclinare dalla parte opposta per poi volare a punto fisso. Le autopattuglie erano sempre più vicine, ormai a poche centinaia di metri dalla Tahoe. Richards fece cenno a Wolgast di mettersi le cuffie. «Guardi qui» disse. Prima che Wolgast potesse replicare, un lampo di luce abbagliò l’abitacolo, come un flash gigantesco, e il velivolo fece un sobbalzo spaventoso. Wolgast prese Amy per la vita e la tenne stretta. Quando guardò di nuovo dall’oblò, al posto della Tahoe c’era solo un cratere pieno di fumo, grande abbastanza da poterci costruire una casa. Sentì Richards che rideva. Poi l’elicottero si inclinò di nuovo, la forza di accelerazione li schiacciò contro il sedile, e volarono via.

12 Era morto: era un dato di fatto. Wolgast lo accettava, come accettava gli eventi della vita. Quando tutto fosse stato finito, comunque fosse andata, Richards lo avrebbe convocato in una stanza da qualche parte, gli avrebbe lanciato la stessa occhiata gelida che aveva riservato a Price e Kirk, con la freddezza di chi deve compiere un’azione che richiede precisione, tipo allineare il pallino sul tavolo da biliardo o gettare un foglio appallottolato nel cestino della carta straccia, e lo avrebbe tolto di mezzo. Forse Richards lo avrebbe portato in un luogo all’aperto. Wolgast se lo augurava: sperava di poter morire in un posto con degli alberi, di sentire il sole sulla pelle. Magari glielo avrebbe chiesto. “Le spiace? Se non è troppo disturbo, mi piacerebbe morire fra gli alberi.” Era nel compound da ventisette giorni. Secondo i suoi calcoli, doveva essere la terza settimana di aprile. Non sapeva dove fossero Amy e Doyle. Erano stati divisi non appena avevano toccato terra: Amy era stata portata via da Richards e da un gruppo di militari armati, Wolgast e Doyle da un manipolo di loro colleghi; erano stati separati poco dopo. Nessuno gli aveva chiesto di fare rapporto sulla missione e questo all’inizio gli era parso strano, ma dopo un po’ ne aveva capito la ragione: ufficialmente non era successo nulla. Non gli avevano fatto domande perché la sua storia non era che una storia, nient’altro. L’unico interrogativo che gli era rimasto era perché Richards non gli avesse sparato subito. La stanza in cui lo avevano chiuso era simile alla camera di un albergo modesto, anche se un po’ più squallida: niente moquette, niente tende all’unica finestra, mobilio anonimo, pesante, inchiavardato al pavimento, un bagnetto minuscolo con le mattonelle gelate, un fascio di cavi che usciva dal muro dove prima doveva esserci stato un televisore. La porta era spessa e si apriva con un ronzio, da fuori. Vedeva esclusivamente le persone che gli portavano da mangiare: tipi imponenti e taciturni che indossavano tute marroni e gli lasciavano il vassoio con le vivande sullo stesso tavolino a cui Wolgast passava le giornate ad aspettare. Probabilmente Doyle faceva lo stesso, ammesso e non concesso che Richards non gli avesse già sparato. La vista non era granché: un bosco di pini e stop. Certe volte, però, Wolgast stava a guardarlo per ore. Era primavera, gli alberi erano fradici di neve sciolta e dappertutto si sentiva scorrere acqua: gocciolava dai tetti e dai rami e scrosciava giù per le gronde. Se si metteva in punta di piedi, Wolgast riusciva a vedere una recinzione fra gli alberi e le sentinelle che vi passavano accanto. Una notte, all’inizio della quarta settimana di prigionia, era scoppiato un forte temporale, di potenza quasi biblica: aveva tuonato fino all’alba e, quando la mattina Wolgast si era affacciato, aveva visto che l’inverno era finito, spazzato via dalla pioggia. Per un po’ aveva provato ad attaccare discorso con gli uomini che gli portavano da mangiare e, un giorno sì e uno no, un camice e un paio di pantaloni ospedalieri e biancheria pulita. Aveva cercato di farsi dire almeno come si chiamavano, ma nessuno lo aveva mai degnato di una risposta. Si muovevano con passi pesanti, goffi e maldestri, e avevano espressioni ottuse e prive di qualsiasi curiosità, come zombi di un vecchio film horror. Morti viventi che si radunavano fuori da una fattoria emettendo versi lamentosi e inciampando, avvolti in brandelli di divise smesse nelle vite precedenti. Da bambino aveva adorato quei film, inconsapevole delle verità che raccontavano. Chi erano gli zombi se non una metafora dello stramaledetto avanzare della mezza età? Wolgast capiva che la vita poteva trasformarsi in una semplice serie di errori la cui fine era l’ultimo anello di una catena di scelte sbagliate. Il fatto è che molti di questi errori erano presi a

prestito da altre persone. Ti lasciavi sedurre dalle loro idee sbagliate e, per un motivo o per l’altro, le facevi tue. Aveva capito questa verità sulla giostra con Amy, ma era un pensiero che aveva cominciato a prendere forma dentro di lui molto prima. Ci rimuginava da quasi un anno, per la verità. E adesso aveva molto tempo a disposizione per rifletterci. Non si poteva guardare negli occhi uno come Anthony Carter e non capire che era così. Era come se quella sera, in Oklahoma, avesse avuto la prima vera idea da molti anni a quella parte. Dai tempi di Lila e di Eva. Eva era morta tre settimane prima di compiere un anno e da quel momento lui aveva camminato per il mondo come un morto vivente, un uomo che teneva in braccio un fantasma. Ecco perché era tanto bravo con Carter e gli altri: si sentiva come loro. Si chiedeva dove fosse Amy, che cosa le stessero facendo. Si augurava che non si sentisse sola e spaventata. La sua era non solo una speranza, ma una preghiera, una determinazione a far sì che stesse bene. Chissà se l’avrebbe mai più rivista. Quando ci pensava, si alzava dalla sedia e andava alla finestra, quasi potesse scorgerla lì fuori, tra le ombre ondeggianti degli alberi. Passavano le ore e il trascorrere del tempo era segnato soltanto dai cambiamenti di luce alla finestra e dall’arrivo degli uomini con il vassoio del pranzo e della cena, che lui non toccava quasi. La notte dormiva sonni senza sogni da cui si svegliava la mattina dopo intontito e con le membra pesanti come ghisa. Chissà quanto tempo gli restava da vivere. Poi, la mattina del trentaquattresimo giorno, ricevette una visita. Era Sykes, ma era diverso. L’uomo che aveva conosciuto un anno prima era elegante, azzimato. Questo, pur con la medesima uniforme, sembrava aver dormito sotto un ponte. Aveva la divisa sgualcita e sporca, le guance coperte di peluria grigia, gli occhi rossi come quelli di un pugile dopo qualche round con un avversario molto più forte di lui. Si sedette al tavolo, dove era seduto anche Wolgast. Giunse le mani, si schiarì la voce e parlò. «Sono qui per chiederle un favore.» Wolgast non proferiva parola da giorni. Quando fece per rispondere, si rese conto di avere la gola chiusa, ispessita dal disuso. «Basta favori» gracchiò. Sykes fece un lungo respiro. Puzzava di chiuso, di stantio, di sudore e poliestere. Per un momento lasciò vagare lo sguardo per la stanza. «So che le sembrerò un ingrato... Me ne rendo conto.» «Vada a cagare.» Wolgast lo disse con gusto. «Sono qui per la bambina, agente.» «Si chiama Amy» precisò Wolgast. «Lo so. So molte cose di lei.» «Ha sei anni, le piacciono i pancake e i luna park, ha un coniglietto di nome Peter. Lei invece è uno stronzo senza cuore. Lo sapeva, Sykes?» Sykes tirò fuori una busta dalla tasca della giacca e la posò sul tavolo. Conteneva due fotografie. Una era il ritratto di Amy scattato al convento, quello che doveva essere stato diramato insieme all’allerta Amber. La seconda foto, tratta da un album scolastico, immortalava una donna che era chiaramente sua madre: aveva gli stessi capelli scuri, gli stessi lineamenti delicati, gli stessi occhi malinconici ma capaci di illuminarsi in un istante. Chi era? Aveva amici, un ragazzo, dei parenti? Qual era la sua materia preferita, a scuola? Che sport praticava? Era brava? Aveva segreti, un passato che solo lei conosceva? Che cosa si aspettava dalla vita? Era di tre quarti e

guardava oltre la spalla destra, con il vestito lungo della festa del diploma, di un azzurro pallido, sbracciato. In calce alla fotografia c’era scritto: “Mason Consolidated High School, Mason, Iowa”. «La madre si prostituiva. La sera prima di abbandonare la figlia al convento ha sparato a un tipo davanti alla sede di una confraternita e l’ha ammazzato. Glielo dico per la cronaca.» Wolgast avrebbe voluto replicare: “E allora? Mica è colpa di Amy, no?”. Ma, guardando la donna, che più che una donna era una ragazza, si trattenne. Forse Sykes non stava neppure dicendo la verità. Posò la foto. «Che fine ha fatto?» Sykes alzò le spalle. «Non lo sappiamo. È sparita.» «E le suore?» Sykes si rabbuiò. Wolgast si rese conto di aver messo il dito su un punto dolente, senza volere. “Gesù” pensò. “Anche le suore?” Era stato Richards o qualcun altro? «Non so» rispose Sykes. «Si guardi» ribatté Wolgast. «Lo sa, eccome.» Sykes non disse altro e con quel silenzio fece capire a Wolgast che l’argomento era chiuso. Si fregò gli occhi, rimise le foto nella busta e la busta in tasca. «Dov’è?» «Agente, il problema è che...» «Dov’è Amy?» Sykes si schiarì di nuovo la voce. «È il motivo per cui sono qui a chiederle un favore. Temiamo che Amy stia morendo.» Wolgast non era autorizzato a fare domande. Non poteva parlare con nessuno, guardarsi intorno né uscire dalla visuale di Sykes. Venne scortato da due militari dall’altra parte del compound, nella luce di una mattina umida. C’era aria, profumo di primavera. Dopo quasi cinque settimane chiuso in una stanza, Wolgast si ritrovò a respirare avidamente. Il sole gli faceva bruciare gli occhi. Una volta dentro lo Chalet, Sykes lo scortò in un ascensore. Scesero quattro piani e uscirono in un corridoio deserto, spartano e bianco come quello di un ospedale. Wolgast calcolò che dovevano essere almeno quindici metri sottoterra, forse anche di più. Qualsiasi cosa avessero messo là sotto gli uomini di Sykes, volevano che ci fosse un bello strato di terreno a separarla dal mondo. Arrivarono davanti a una porta con la scritta LABORATORIO PRINCIPALE, ma passarono oltre. Dopo un certo numero di altre porte, giunsero a destinazione: Sykes infilò una chiave magnetica nel lettore e fece scattare la serratura. Si ritrovarono in una specie di saletta di osservazione. Dall’altra parte della vetrata, sotto una luce fioca e azzurrognola, Amy era distesa in un lettino d’ospedale, sola. Aveva una flebo nel braccio, nient’altro. Accanto al letto c’era una seggiola di plastica vuota. Su alcuni binari fissati al soffitto scorrevano tubi colorati, come quelli per gonfiare gli pneumatici nelle officine. Per il

resto, la stanza era spoglia. «È lui?» Wolgast si voltò e vide un uomo che prima non aveva notato. Indossava un camice bianco e pantaloni da chirurgo verdi, proprio come lui. «Le presento il dottor Fortes.» Si salutarono con un cenno del capo, ma non si strinsero la mano. Fortes era molto giovane: doveva avere meno di trent’anni. Wolgast si chiese se era un medico o un altro tipo di dottore. Aveva l’aria stanchissima, esausta, come Sykes. Aveva la pelle unta, i capelli troppo lunghi e la barba da fare. Pareva non si pulisse gli occhiali da un mese. «Le abbiamo impiantato un microchip che trasmette i parametri vitali su questo monitor.» Fortes gli mostrò frequenza cardiaca, respirazione, pressione sanguigna e temperatura: 38,8. «Dove?» «Cosa?» Il dottore lo fissò senza capire. «Il microchip.» «Ah.» Fortes guardò Sykes, che annuì, e si toccò la nuca. «Sottopelle, fra la terza e la quarta vertebra cervicale. Con un sistema di alimentazione ingegnoso, attraverso una minuscola batteria nucleare. Come quelle dei satelliti, ma molto più piccola.» Ingegnosa. A Wolgast vennero i brividi. Un’ingegnosa batteria nucleare nel collo di Amy. Si voltò verso Sykes, che osservava cauto. «Lo avete fatto a tutti? Anche a Carter e agli altri?» «Loro erano... preliminari» precisò Sykes. «Preliminari a che?» Sykes aspettò un istante prima di rispondere. «Ad Amy.» Fortes spiegò la situazione: Amy era in coma. Non se lo aspettavano, ma aveva la febbre alta da troppo tempo. I reni e il fegato stavano peggiorando. «Speravamo che potesse parlarle lei» disse Sykes. «A volte aiuta. Doyle sostiene che la bambina è... molto legata a lei.» C’era una doppia camera d’equilibrio per entrare nella stanza di Amy. Sykes e Fortes condussero Wolgast nella prima camera. Al muro era appesa una tuta protettiva arancione, con il casco che penzolava da una parte, come la testa di un impiccato. Sykes gli spiegò come funzionava. «Deve indossare questa e sigillare le chiusure con nastro adesivo. Le valvole alla base del casco si collegano ai tubi al soffitto del colore corrispondente. Collegarli è molto semplice. Quando torna, deve farsi una prima doccia con la tuta e un’altra senza. Le istruzioni sono appese al muro.» Wolgast si sedette sulla panca per togliersi le scarpe, ma si fermò subito.

«No» disse. Sykes lo guardò perplesso. «No cosa?» «No, non mi metto la tuta.» Si voltò e lo guardò con decisione. «Non credo servirebbe a molto, se Amy aprisse gli occhi e mi vedesse in una tuta da astronauta. Se volete che entri là dentro, ci entrerò così come sono.» «Non le conviene, agente» lo avvertì Sykes. Wolgast aveva deciso. «O così, o niente.» Sykes lanciò un’occhiata a Fortes, che si strinse nelle spalle. «Potrebbe essere... interessante. In teoria, il virus a questo punto dovrebbe essere inerte. Ma potrebbe anche non esserlo.» «Il virus?» «Scoprirà tutto» disse Sykes. «L’autorizzo io. Agente, sappia che una volta che è dentro, è dentro. Non le posso garantire niente. È chiaro?» Wolgast disse di sì e Sykes e Fortes uscirono. Wolgast si rese conto che non si aspettava che acconsentissero. Li chiamò all’ultimo momento. «Dov’è lo zainetto?» Fortes e Sykes si scambiarono un’altra occhiata. «Aspetti qui» disse Sykes. Tornò qualche minuto dopo con lo zainetto di Amy. Era delle Superchicche. Wolgast non l’aveva mai notato. Erano tre, in gomma, incollate alla stoffa ruvida, con i pugni chiusi, in volo. Aprì lo zaino: alcune cose, come la spazzola, mancavano, ma Peter coniglio c’era ancora. Guardò Fortes. «Come faccio a sapere se il virus non è... inerte?» «Se ne accorgerà...» Sigillarono la porta e Wolgast sentì calare la pressione. La luce sulla seconda porta passò dal rosso al verde. Lui girò la maniglia ed entrò. La seconda camera, più grande della prima, aveva un grosso scarico nel pavimento e una doccia a soffione che si attivava tirando una catenella di metallo. La luce era diversa, azzurrognola, tipo crepuscolo autunnale. Un cartello sul muro elencava le istruzioni a cui aveva accennato Sykes: una lunga lista di operazioni da compiere che si concludeva con una doccia da fare piazzandosi sopra lo scarico; occorreva risciacquarsi bocca e occhi, raschiarsi la gola e sputare. Sul soffitto era installata una telecamera. Wolgast si fermò davanti alla seconda porta. La lucina sopra era rossa. Sulla parete c’era un tastierino. Come avrebbe fatto a entrare? In quel momento la lucina diventò verde, come nella camera precedente: Sykes stava bypassando le sicurezze del sistema. Aspettò un istante, prima di aprire. La porta sembrava pesantissima, di acciaio scintillante, come quella del caveau di una banca o il portello di un sottomarino. Non sapeva perché aveva insistito tanto per non mettersi la tuta: adesso quella decisione gli sembrava troppo impulsiva. Aveva detto di volerlo fare per Amy? Non era stato forse un modo per cercare di estorcere informazioni a Sykes? In ogni caso, gli era sembrata una scelta giusta. Girò il maniglione e gli si stapparono di nuovo le orecchie: un altro calo di pressione. Fece un lungo respiro e trattenne l’aria nei polmoni. Poi varcò la soglia.

Grey non aveva idea di cosa stesse succedendo. Erano giorni che andava avanti così: si presentava al turno, scendeva in ascensore al livello 4 – Davis lo aveva coperto e quindi non era successo niente, dopo quella sera –, si cambiava, faceva il suo lavoro, puliva corridoi e stanze, entrava nell’area di contenimento e usciva sei ore dopo. Era tutto perfettamente normale, insomma: a parte il fatto che di quelle sei ore non ricordava mai nulla. Erano come un cassetto vuoto nella sua mente. Evidentemente sbrigava le sue incombenze, inviava i rapporti, faceva il backup dei drive, spostava le conigliere dentro e fuori e scambiava persino qualche parola con Pujol o gli altri tecnici che entravano quando lui era lì a sorvegliare. Però poi dimenticava tutto. L’ultimo ricordo era che infilava la chiave magnetica nella serratura della saletta di osservazione, poi più niente fino all’uscita dalla stanza, sei ore dopo. Ogni tanto gli restavano vaghi brandelli di memoria, piccoli ma luminosi, che parevano catturare la luce come fiocchi di neve che volteggiavano nella sua mente durante la giornata. Non erano visioni, immagini chiare o dirette, ed erano sfuggenti. Magari era in mensa, o nella sua stanza, oppure attraversava il compound a piedi, e gli saliva in bocca una bolla di sapore, gli restava nei denti una patina vischiosa. A volte la sensazione era così forte che doveva fermarsi a riprendere fiato. In quei momenti gli venivano in mente cose strane, assolutamente slegate fra loro. Quasi sempre era presente Orsobruno, però. Era come se quel gusto in bocca gli premesse un bottone nel cervello riportandogli alla memoria il suo cane, a cui per la verità negli ultimi anni aveva pensato ben poco, prima del sogno giù all’area di contenimento, quando aveva vomitato. Orsobruno e il suo alito fetido. Orsobruno che stringeva nelle fauci una carcassa di animale, un opossum, un procione; oppure quella volta che aveva trovato dei coniglietti appena nati in una tana, palline di pelle color pesca alle quali non era ancora cresciuto il pelo, e li aveva sgranocchiati l’uno dopo l’altro, spezzandogli il piccolo cranio fra i molari, come un bambino che mangia popcorn al cinema. La cosa strana era che non sapeva se Orsobruno l’aveva mai fatto veramente. Forse si era ammalato. Il cartello al livello 3 gli metteva ansia come mai prima. Sembrava che fosse stato scritto apposta per lui: IN PRESENZA DI UNO QUALSIASI DEI SEGUENTI SINTOMI... Una mattina, tornando da colazione, si era sentito prudere in gola e aveva pensato che forse aveva preso freddo. Un istante dopo aveva starnutito. Da allora gli colava il naso. Ma era primavera e la notte faceva ancora freddo, anche se di giorno la temperatura saliva e certi pomeriggi raggiungeva i dieci, quindici gradi, e gli alberi erano pieni di germogli, come se qualcuno avesse colorato le montagne di verde con una bomboletta spray. Lui aveva sempre sofferto di allergie. Anche il silenzio era strano. Grey ci aveva impiegato un po’ per rendersene conto. Nessuno parlava: non solo gli inservienti, che erano sempre stati di poche parole, ma anche i tecnici, i militari, i sanitari. Non era successo da un giorno all’altro, e nemmeno nell’arco di una settimana. Lentamente, però, era sceso un silenzio quasi assoluto, che chiudeva quel luogo come un coperchio ermetico. Grey era sempre stato poco loquace e Wilder, lo strizzacervelli del carcere, gli aveva detto che era un buon ascoltatore. Voleva fargli un complimento, ma più che altro Wilder amava sentirsi parlare ed era contento di avere un pubblico. Fatto sta che Grey sentiva la mancanza di voci umane. Una sera, in mensa, aveva contato trenta uomini chini sul piatto, e non uno che dicesse una parola. Certi neanche mangiavano: stavano seduti lì e basta, magari con una tazza in mano e lo sguardo perso nel vuoto, come se fossero mezzo

addormentati. C’era una cosa da dire: Grey non aveva problemi di sonno. Dormiva, dormiva, dormiva, e quando suonava la sveglia alle cinque, o a mezzogiorno se faceva il turno di notte, si girava verso il comodino, prendeva il pacchetto di sigarette, fumava e se ne stava lì qualche minuto a cercare di capire se aveva sognato oppure no. In genere, gli pareva di non sognare. Poi una mattina andò in mensa per fare colazione: pane imburrato, uova, tre salsicce e una ciotola di porridge. Sicuramente l’appetito non gli mancava, ammesso che si fosse ammalato. Quando alzò la testa per addentare il pane, vide Paulson seduto a due tavoli da lui, che lo guardava. Lo aveva già incontrato un paio di volte dopo la discussione di quel giorno, ma mai così da vicino. Paulson, con un piatto di uova intonse davanti a sé, aveva una faccia spaventosa, la pelle talmente tirata che gli si vedevano le ossa del cranio. Per un istante i loro sguardi si incrociarono. Paulson si girò subito dall’altra parte. «Tu lo conosci Paulson?» chiese Grey a Davis quella sera quando prese servizio. Negli ultimi giorni Davis non era allegro come al solito. Non raccontava più barzellette, non guardava riviste porno e non sentiva musica dalle cuffiette. Grey si chiedeva che cosa facesse tutta la notte, lì seduto al tavolo. Era vero però che nemmeno lui sapeva che cosa faceva nelle ore notturne. «Perché?» Grey non sapeva cosa rispondere. «Niente. Dicevo così per dire.» «Se non vuoi grane, stagli lontano.» Grey scese di sotto e si mise al lavoro. Solo molto più tardi, mentre puliva uno dei gabinetti del livello 4, gli venne in mente la domanda che voleva fare a Davis. “Di cosa ha paura? Di cosa avete paura, tutti quanti?” Lo chiamavano “Numero Dodici”. Non Carter, Anthony o Tone, anche se adesso stava così male, solo, al buio, che quei nomi sembravano di qualcun altro, di una persona che era morta e aveva lasciato al suo posto un essere agonizzante. Il malessere non lo abbandonava un istante. Eterno, così gli veniva da definirlo. Non perché pensasse che sarebbe durato per l’eternità, ma perché era un malessere legato al tempo. Era come se il tempo, il suo trascorrere, fosse diventato parte di lui, avesse pervaso ogni cellula del suo corpo. E il tempo non era un mare, come gli aveva detto una volta un uomo, bensì una miriade di minuscole fiammelle che non si sarebbero mai più spente. Era una sensazione orribile, la peggiore del mondo. Gli avevano detto che presto si sarebbe sentito meglio, molto meglio, e lui si era aggrappato a quella speranza, ma adesso sapeva che era una bugia. Era solo vagamente cosciente del movimento intorno a lui, dell’andirivieni di persone vestite da astronauti che lo tastavano e lo palpavano. Avrebbe voluto dell’acqua, anche solo un sorso, per placare la sete. Ma quando aveva provato a chiederla, dalle sue labbra non era uscito un suono. Solo un rumore infernale nelle orecchie. Gli avevano tolto molto sangue. Litri e litri, gli sembrava. L’uomo che si chiamava Anthony ogni tanto andava a donare il sangue, per soldi. Gli facevano schiacciare una pallina mentre una sacca si riempiva di sangue; lui lo guardava, stupito di quanto fosse denso, del suo colore così intenso. Sembrava vivo. Non gliene toglievano mai più di mezzo litro e poi gli davano dei biscotti e un fascio di banconote e lo mandavano via.

Adesso, invece, gli uomini con le tute da astronauti gliene prelevavano una sacca dopo l’altra e il suo sangue aveva un aspetto diverso, anche se non avrebbe saputo dire in che senso. Il sangue nel suo corpo era ancora vivo, ma lui pensava che non gli appartenesse: era di qualcun altro, di qualcos’altro. Sarebbe stato contento di morire, adesso. La signora Wood lo sapeva. Non solo di se stessa, ma anche di lui. Quando gli venne quel pensiero, per un istante tornò a essere Anthony. Sì, sarebbe stato bello morire. C’era qualcosa di leggiadro in quella risoluzione, un abbandonarsi, come nell’amore. Cercò di restare aggrappato a quel pensiero, il pensiero che lo faceva tornare a sentirsi Anthony, ma gli sfuggiva piano piano, come una fune che ti scorre fra le mani. Non sapeva da quanto tempo era lì. Gli stava succedendo qualcosa, ma non abbastanza in fretta, almeno secondo gli uomini in tuta. Ne parlavano continuamente, palpandolo, tastandolo e prendendogli altro sangue. Adesso udiva anche qualcos’altro, un mormorio sommesso, come di voci, che però non appartenevano agli uomini astronauti. Parevano arrivare da molto lontano e contemporaneamente da dentro di lui. Anche se lui non le conosceva, erano parole: quella che sentiva era una lingua compiuta, con un ordine, un senso e una mente. Anzi, non solo una mente, ma dodici. Una, però, era più delle altre. Non più forte, più e basta. Una voce e dietro le altre, dodici in tutto. Gli parlavano, lo chiamavano, sapevano che era lì. Erano nel suo sangue ed erano in eterno. Avrebbe voluto rispondere. Aprì gli occhi. «Chiudete le sbarre!» urlò una voce. «Sta trasmutando!» Le cinghie non erano niente: le strappò come se fossero di carta facendo schizzare via i rivetti. Prima le braccia, poi le gambe. Il buio della stanza non nascondeva niente ai suoi occhi: l’oscurità ormai faceva parte di lui. Sentiva dentro una bramosia famelica, che cresceva sempre più: avrebbe divorato il mondo. L’avrebbe inghiottito, se ne sarebbe saziato e sarebbe diventato completo, rendendolo eterno come lui. Un uomo stava scappando verso l’uscita. Anthony gli fu addosso con un balzo. Un urlo, poi l’uomo si zittì, ormai un ammasso di brandelli di carne per terra. Meraviglioso tepore del sangue! Bevve, e bevve. Quello che gli aveva detto che presto si sarebbe sentito meglio non aveva mentito, dopotutto. Anthony Carter non era mai stato meglio in vita sua. Pujol, quel cazzone imbecille, era morto. Trentasei giorni: ecco quanto c’era voluto perché Carter trasmutasse. Era il lasso di tempo più lungo da quando avevano iniziato. Ma Carter doveva essere il peggiore, l’ultimo stadio prima che il virus raggiungesse la sua forma definitiva. Quella che era stata inoculata alla bambina. Personalmente, a Richards non importava niente della bambina. Che sopravvivesse o no, che vivesse in eterno o morisse di lì a cinque minuti, per lui era lo stesso. Dal punto di vista dei reparti scelti, il problema non era più la bambina. Adesso c’era Wolgast con lei, che le parlava e cercava di farla rinvenire. Meglio così, ma se fosse morta non avrebbe fatto nessuna differenza.

Che cosa cazzo era venuto in mente a Pujol? Avrebbero dovuto chiudere lo sbarramento già da giorni. Ma almeno adesso sapevano di che cosa erano capaci quegli esseri. Già era scritto nel rapporto dalla Bolivia, ma vederlo con i propri occhi era tutt’altra cosa; vedere sul video Carter, un uomo mingherlino con un quoziente intellettivo non superiore a ottanta, uno che aveva paura della sua stessa ombra, spiccare un balzo altissimo e fulmineo, come se non si muovesse nello spazio ma lo aggirasse, e squarciare un uomo dall’inguine alla gola, neanche fosse una busta che era impaziente di aprire. Era stata questione di due secondi; poi l’avevano abbagliato, in modo che si rintanasse in un angolo e loro potessero chiudere lo sbarramento. Adesso erano dodici, tredici contando Fanning. Il lavoro di Richards era finito, o per lo meno si stava avviando alla conclusione. L’ordine era appena arrivato: il Progetto Noah stava per diventare l’Operazione Jumpstart. Nel giro di una settimana gli Incandescenti sarebbero stati trasferiti a White Sands, dopodiché Richards se ne sarebbe lavato le mani. “Peggio di una bomba bunker buster”: così li aveva definiti Cole ai tempi in cui era ancora solo una teoria, prima della Bolivia, di Fanning e di tutto il resto. “Pensa a cosa potrebbe fare uno così nelle caverne delle montagne nel Nord del Pakistan, o nei deserti orientali dell’Iran, o fra le macerie della zona libera cecena. Una bella pulizia da dentro, Richards: praticamente un clistere.” Forse Cole alla fine sarebbe rinsavito. In sua assenza, però, l’idea aveva acquisito vita propria. Pazienza se violava una mezza dozzina di trattati internazionali e se era la più grossa cretinata che Richards avesse mai sentito in tutta la sua vita. Un bluff, probabilmente. Ma anche i bluff bisogna saperli fare. Davvero qualcuno si era illuso di poter contenere uno di quegli esseri nelle caverne nel Nord del Pakistan? Gli dispiaceva per Sykes. Era preoccupato: il colonnello era ridotto come uno straccio e non usciva quasi più dall’ufficio da quando era giunta la notizia dai reparti scelti. Richards gli aveva chiesto se Lear sapeva, e Sykes era scoppiato in una risata lunga e straziante. “Povero cristo” aveva detto. “Continua a pensare che il suo sia un tentativo di salvare il mondo. Invece sarà il mondo che avrà bisogno di essere salvato se si va avanti così. Non riesco a capacitarmi che qualcuno abbia potuto anche solo concepire un’idea del genere.” Gli Incandescenti sarebbero stati trasferiti a Grand Junction a bordo di camion blindati e da lì a White Sands in treno. Richards stava pensando che, una volta portato a termine il suo compito, avrebbe potuto comprarsi una piccola proprietà nel Canada settentrionale, per esempio. Gli inservienti sarebbero stati i primi ad andarsene, seguiti dai tecnici e dalla maggior parte dei militari, a cominciare dai più esaltati, come Paulson. Dopo lo scontro nell’area di carico e scarico, Richards era andato a controllare il suo fascicolo personale. Paulson, Derrick G., ventidue anni, arruolato appena finita la scuola superiore a Glastonbury, nel Connecticut; un anno nel deserto, poi era tornato in patria. Stato di servizio immacolato e una bella testa: QI 136. Sicuramente sarebbe potuto andare all’università o alla scuola ufficiali. Era lì da ventitré mesi e aveva ricevuto due note di biasimo, una per essersi addormentato in servizio e l’altra per uso non autorizzato della posta elettronica. Nient’altro. Quel che lo turbava era che Paulson sapeva, o comunque era convinto di sapere: Richards se n’era accorto subito. Non perché Paulson avesse detto o fatto qualcosa di particolare, ma per la faccia che aveva Carter quando Richards gli aveva aperto il portellone al suo arrivo nel compound: sembrava che avesse visto un fantasma, o peggio. Nessuno metteva piede al livello 4, a parte lo staff scientifico e gli inservienti. Senza altro da fare che stare di guardia in mezzo

alla neve, era inevitabile che i soldati tirassero fuori congetture e parlassero in mensa. Richards, però, aveva la netta sensazione che quelle di Paulson non fossero soltanto dicerie, pettegolezzi. Forse Paulson sognava. Forse tutti sognavano. In quel periodo, quando sognava, Richards sognava le suore. Era la parte che gli era piaciuta di meno. Da ragazzo, in quella che ormai sembrava una vita precedente, aveva studiato in una scuola cattolica. Le monache erano vecchie stronze con la bacchetta facile, ma lui le rispettava perché credevano in quello che dicevano e facevano. Perciò gli era dispiaciuto sparare alle suore. Quasi tutte dormivano e non si erano accorte di niente. Una, però, si era svegliata e dal modo in cui lo aveva guardato gli era parso che se lo aspettasse. Ne aveva già fatte fuori due, lei era la terza. Aveva aperto gli occhi nel letto e lui, alla pallida luce che filtrava dalla finestra, aveva visto che non era una vecchiarda rinsecchita come le altre; era giovane e abbastanza carina. Aveva subito richiuso gli occhi e mormorato qualcosa, forse una preghiera. Richards le aveva sparato attraverso il cuscino. Ne mancava una: Lacey Antoinette Kudoto, quella matta. Richards aveva letto la perizia psichiatrica nella diocesi. Nessuno le avrebbe creduto e, se mai fosse successo, era un vicolo cieco che terminava nell’Ovest dell’Oklahoma, con la strage nella stazione di polizia causata da un agente FBI in preda a un raptus e la vecchia Chevy Tahoe disintegrata. Ma uccidere quella suora non gli era piaciuto per niente. Era seduto nel suo ufficio e guardava i monitor della sicurezza. La scritta in basso diceva che erano le 22.26. Gli inservienti entravano e uscivano dall’area di contenimento con i carrelli dei conigli, che però nessuno mangiava. A iniziare il digiuno era stato Zero, più o meno quando era arrivato Carter, e adesso nessuno si nutriva. Era una stranezza. Comunque i reparti scelti avrebbero trovato il modo per farli ricominciare a mangiare. A quel punto Richards sperava di essere già a pescare nella baia ghiacciata dell’Hudson o a costruirsi un igloo. Guardò il monitor della camera di Amy. Wolgast era seduto al suo capezzale. Gli avevano portato un WC portatile con una tenda di nylon e una branda. In realtà da quando era lì non aveva più dormito: stava seduto accanto al letto per tutto il tempo, ogni giorno, le accarezzava la mano e le parlava. Chissà cosa le diceva. Non che a Richards interessasse particolarmente. Eppure li guardava per ore, quasi quanto osservava Babcock. Spostò lo sguardo sul monitor della camera di Giles Babcock, il Numero Uno. Era appeso a testa in giù, con gli occhi arancioni fissi sulla telecamera e le mandibole che si muovevano appena, masticando l’aria. “Io sono tuo e tu sei mio, Richards. Siamo tutti destinati a qualcuno e io sono destinato a te.” “Sì” pensò Richards. “Vaffanculo pure tu.” Gli squillò la ricetrasmittente. «Cancello principale» disse una voce. «C’è qui una donna.» Richards guardò il monitor relativo alla guardiola. C’erano due sentinelle, una con la ricetrasmittente all’orecchio, l’altra con il fucile in mano. La donna era appena fuori dal cerchio di luce. «E allora?» replicò. «Mandatela via.»

«Il problema è proprio questo, signore» disse la sentinella. «Non se ne vuole andare. Sembra non abbia una macchina. Credo che sia arrivata fin qui a piedi.» Richards guardava fisso il monitor. Vide che la sentinella lasciava cadere per terra la ricetrasmittente e imbracciava il fucile. «Ferma!» lo sentì urlare Richards. «Torni indietro o sparo!» Udì la detonazione e vide l’altra sentinella correre nel buio. Dall’audiofono caduto nel fango arrivò il rumore attutito di altri due spari. Passarono dieci secondi, venti. Poi vide tornare le sentinelle. Dal modo in cui camminavano, capì che l’avevano persa. Una delle due recuperò l’apparecchio e guardò verso la telecamera. «Scusi, ma ci è scappata. Vuole che la cerchiamo?» Gesù! Ci mancava solo questa... «Chi era?» «Nera, con un accento strano» spiegò la sentinella. «Cercava un tale Wolgast.» Non era ancora morto. Il tempo passava e lui non moriva. Il terzo giorno, Wolgast le raccontò la storia. «C’era una volta una bambina più piccola di te che si chiamava Eva. Suo padre e sua madre le volevano molto bene. La notte dopo la sua nascita, il suo papà la prese in braccio, nella cameretta d’ospedale in cui erano tutti, e la tenne stretta, pelle contro pelle. Da quel momento la bambina entrò a far parte di lui. Si portava la figlioletta dentro, nel cuore.» Probabilmente qualcuno lo stava ascoltando e guardando. La telecamera era alle sue spalle. Wolgast se ne fregava. Fortes andava e veniva. Le fece un prelievo e le cambiò le sacche e Wolgast continuò il suo racconto per quasi tutto il terzo giorno, dicendo ad Amy le cose che non aveva mai detto a nessuno. «Poi la bambina si ammalò. Il suo cuore. Qui...» Si toccò il petto. «Il suo cuoricino era troppo piccolo. Mentre lei cresceva, il cuore restava com’era. Poi smise di crescere anche il resto. Il padre avrebbe dato il proprio cuore per salvarla, se solo avesse potuto, perché comunque apparteneva a lei: era sempre stato e sempre sarebbe stato suo. Ma non poteva fare né questo né nient’altro. Nessuno poteva fare niente. E, quando la bambina morì, anche lui morì con lei. Non era più l’uomo che era stato fino allora. E lui e la moglie non riuscivano più a volersi bene come un tempo, perché il loro amore non era altro che tristezza, ormai, nostalgia per la figlioletta perduta.» Le raccontò la storia, dal principio alla fine. E, quando giunse al termine del suo racconto, anche il giorno finì. «Poi sei arrivata tu, Amy» le disse. «Ho trovato te. Capisci? È come se la mia bambina mi fosse stata restituita. Ti prego, torna, Amy. Torna, torna, torna.» Alzò la testa e aprì gli occhi. E anche Amy li aprì.

13 Lacey, nei boschi, camminava piegata in due, correndo da un albero all’altro, e cercava di aumentare la distanza fra sé e i soldati. L’aria era fredda, sottile, pungente. Appoggiò la schiena contro un tronco e respirò. Non aveva paura. I proiettili dei soldati non erano nulla. Li aveva sentiti fischiare nel sottobosco, ma non erano vicini, e poi erano così piccoli! Come faceva un proiettile a fare male? Dopo tutta la strada che aveva fatto, dopo tutte le vicissitudini che aveva superato, come potevano sperare di spaventarla con degli affarini tanto insignificanti? Sbirciò da dietro un grosso tronco. Vedeva la luce della guardiola oltre gli alberi, sentiva le voci dei due soldati, le loro parole portate dal vento nella notte senza luna. «Nera, con un accento strano.» E l’altro: «Merda, adesso quello ci rompe il culo. Come cazzo abbiamo fatto a lasciarcela scappare? Eh? Cazzo, cazzo! Non hai nemmeno preso la mira, coglione!». Parlavano con qualcuno, forse al telefono, e avevano paura di lui. Ma Lacey sapeva che quell’uomo non contava niente, non era nessuno, e che i soldati erano come bambini, non pensavano con la loro testa. Erano come quelli nel campo, tanti anni prima. Adesso ricordava che cosa le avevano fatto, per ore. Pensavano di averle tolto qualcosa, glielo leggeva nel sorrisetto cupo, glielo sentiva nell’alito acido. Era vero: le avevano tolto qualcosa. Ma lei adesso li aveva perdonati e se l’era ripreso, era di nuovo se stessa e anche di più. Chiuse gli occhi e pensò: Ma tu sei mio scudo, SIGNORE, sei la mia gloria e tieni alta la mia testa.   A gran voce grido al SIGNORE ed egli mi risponde dalla sua santa montagna.   Io mi corico, mi addormento e mi risveglio: il SIGNORE mi sostiene.   Non temo la folla numerosa che intorno a me si è accampata.   Sorgi, SIGNORE! Salvami, Dio mio! Tu hai colpito alla mascella tutti i miei nemici, hai spezzato i denti dei malvagi.

Lacey aveva ricominciato a correre fra gli alberi. L’uomo con cui la sentinella parlava al telefono avrebbe mandato altri soldati. Eppure provava un sentimento quasi di gioia, un’energia nuova, vitale, più ricca e profonda di quanto avesse mai sperimentato. Era nata e cresciuta dentro di lei in quelle settimane di viaggio verso... Dove? Neanche sapeva come si chiamasse quel posto. Nella sua testa era semplicemente il luogo in cui si trovava Amy. Aveva preso dei pullman, aveva viaggiato sul pianale di un camion insieme a due labrador e una cassa di maialini. Certe mattine si era svegliata chissà dove e aveva intuito che quel giorno le sarebbe toccato camminare, e aveva camminato. Ogni tanto mangiava qualcosa e, se sentiva di poterlo fare, bussava a una porta e chiedeva se avevano un letto in cui dormire. La donna che le apriva – era sempre una donna, ovunque – le diceva: “Ma certo, si accomodi” e la portava in una stanza con un letto già fatto che la aspettava, senza farle domande. Una volta, mentre saliva per una lunga strada di montagna, in una magnifica giornata che celebrava la gloria di Dio, aveva capito di essere giunta a destinazione. “Aspetta” le aveva detto la voce. “Aspetta il tramonto, sorella. La via ti mostrerà la via.” E così era successo. Adesso erano tanti a seguirla: ogni passo, ogni ramoscello spezzato, ogni respiro era come uno sparo, forte, fortissimo, e diceva a Lacey dov’erano. Si erano allargati alle sue spalle, a ventaglio, erano in sei e avevano il fucile puntato nella notte, verso il nulla, verso il punto in cui Lacey era stata fino a poco prima. Arrivò a una radura. C’era una strada. Sulla sinistra, a duecento metri di distanza, c’era la guardiola immersa nel suo alone di luce. Sulla destra la strada si inoltrava nel bosco e scendeva ripida. Si sentiva il rumore del fiume in fondo alla valle. Niente in quel luogo rivelava il suo significato a suor Lacey, tuttavia lei sapeva che era meglio aspettare. Si distese per terra, la pancia sulle foglie. I soldati erano dietro di lei: cinquanta metri, quaranta, trenta. Sentì il rumore di un motore diesel che arrancava, i giri che calavano quando l’uomo al volante ingranava una marcia più bassa per affrontare la salita finale. Il rumore e le luci avanzavano verso di lei. Si tirò su, accucciandosi nel sottobosco, quando i fari esplosero sulla cresta. Era un camion militare. Cambiò di nuovo marcia e prese velocità. “Adesso?” E la voce disse: “Adesso”. Lacey si alzò e cominciò a correre più forte che poté, puntando verso il retro del camion. Il paraurti era grosso e sopra c’era un grande pianale coperto da un telo. Per un attimo Lacey temette di essersi mossa troppo tardi, invece riuscì ad accelerare e a raggiungerlo. Le sue mani trovarono la sponda, un piede nudo si staccò dall’asfalto, seguito dall’altro, e Lacey Antoinette Kudoto rimase un istante sospesa a mezz’aria, poi rotolò sotto il telo. Batté la testa sul pianale producendo un rumore sordo. Casse: il camion era pieno di casse. Strisciò avanti, verso la cabina. Il veicolo rallentò, avvicinandosi alla guardiola, e Lacey trattenne il respiro. Sarebbe andata come doveva andare: ormai lei non poteva più farci niente. Sentì il fischio dei freni e il camion si fermò sussultando.

«Fammi vedere la bolla di carico.» La voce era della sentinella che le aveva intimato di fermarsi, l’uomo bambino con il fucile. Intuì che era sul predellino. L’aria improvvisamente s’impregnò di fumo di sigaretta. «Non dovresti fumare.» «Sei mica mia madre...» «Leggi la bolla di carico, coglione: con tutte ’ste munizioni rischi di farci saltare in aria.» Una risatina sarcastica proveniente dal sedile anteriore. «Morite pure voi, comunque. Avete visto qualcuno lungo la strada?» «Civili, dici?» «E chi? L’abominevole uomo delle nevi? Certo: civili. Nello specifico, una donna nera, con la gonna, alta un metro e sessantacinque.» «Stai scherzando?» Pausa. «No, non abbiamo visto nessuno. È buio. Non saprei.» La sentinella scese dal predellino. «Aspettate un attimo che controllo dietro.» “Non ti muovere, Lacey” disse la voce. “Non ti muovere.” I lembi del telone si aprirono, si richiusero, si riaprirono. Sul pianale del camion si mosse un fascio di luce. “Chiudi gli occhi, Lacey.” Serrò le palpebre e avvertì il fascio di luce che le passava sul volto una volta, due, tre. “Signore, sei il mio scudo...” Sentì bussare sulla fiancata, proprio vicino al suo orecchio. «Potete andare!» Il camion ripartì. Richards non era affatto contento. La suora pazza? E cosa cazzo ci faceva lì? Decise di non dire niente a Sykes, per lo meno finché non avesse avuto maggiori ragguagli. Aveva mandato sei uomini. Sei! “Sparatele, per cortesia: toglietela di mezzo.” Invece no, erano tornati senza averla trovata. Li aveva rimandati indietro a controllare tutto il perimetro. Possibile che fosse così difficile trovarla e farla fuori? La storia di Wolgast e della bambina stava andando avanti da troppo tempo. E Doyle? Come mai era ancora vivo? Guardò l’ora: 00.03. Prese la pistola dal primo cassetto della scrivania, controllò che fosse carica e se la mise nei pantaloni, dietro la schiena. Lasciò l’ufficio, scese al livello 1 per le scale posteriori e uscì passando dall’area di carico e scarico. Doyle era chiuso in un alloggio riservati ai civili, nella stanzetta precedentemente occupata da uno degli inservienti morti. La sentinella di guardia alla porta sonnecchiava sulla sedia. «In piedi!» ordinò Richards.

Il soldato si svegliò di soprassalto e lo guardò senza capire, come se non sapesse nemmeno dov’era. Quando si rese conto di chi aveva davanti, scattò subito sull’attenti. «Mi scusi, signore.» «Apri.» Il soldato immise il codice e si fece da parte. «Vai pure» disse Richards. «Signore?» «Se è per dormire, tanto vale che tu te ne stia a letto.» «Sissignore. Mi scusi, signore» rispose il ragazzo, sollevato. Andò via trotterellando. Richards aprì la porta. Doyle era seduto in fondo al letto, con le mani in grembo, e guardava il rettangolo vuoto dove un tempo c’era stato il televisore. Per terra c’era un vassoio con il cibo ancora intatto, che puzzava lievemente di pesce marcio. Alzò la testa e fece un sorrisetto. «Richards. ’Fanculo.» «Andiamo.» Doyle sospirò e si diede una manata sulle ginocchia. «Aveva ragione Wolgast. Riguardo a te, intendo. Ero proprio qui che pensavo: “Quand’è che il mio amico Richards mi viene a trovare?”.» «Fosse stato per me, sarei venuto prima.» Doyle sembrava sul punto di scoppiare a ridere. Richards non aveva mai visto nessuno che, sapendo cosa stava per succedergli, fosse così di buonumore. Doyle scosse la testa, sempre sorridendo. «Avrei fatto meglio ad aprirlo, l’armadio dei fucili.» Richards prese la pistola e tolse la sicura. «Avremmo risparmiato un po’ di tempo, sì.» Lo accompagnò dall’altra parte del compound, verso le luci dello Chalet. Era possibile che Doyle si mettesse a correre, che cercasse di scappare, ma... fin dove sarebbe riuscito ad arrivare? E come mai non aveva chiesto di Wolgast e della bambina? «Dimmi una cosa» fece Doyle quando furono nel parcheggio, dove c’erano le macchine di quelli che facevano il turno di notte. «È già arrivata?» «Chi?» «Lacey.» Richards si bloccò sui suoi passi. «Allora è arrivata» disse Doyle ridacchiando fra sé. «Dovresti vedere che faccia hai fatto.» «Come fai a saperlo?» Era strano: negli occhi di Doyle sembrava brillare una luce fredda, azzurrognola. Richards la vedeva anche nel buio del parcheggio. Era come guardare in una macchina fotografica nel

momento in cui si apre l’otturatore. «Non ci crederai, ma...» Doyle alzò lo sguardo verso le sagome scure degli alberi. «L’ho sentita arrivare.» “Grey.” Era al livello 4. Sul monitor, la sagoma di Zero sembrava fosforescente. “Grey. È il momento.” Allora ricordò, ricordò finalmente tutto: i sogni e le notti passate nell’area di contenimento a guardare Zero, ad ascoltare la sua voce e le storie che raccontava. Ricordò New York, la prima ragazza e poi tutte le altre, ogni sera una diversa, la sensazione che l’oscurità si muovesse dentro di lui, la soffice gioia nel palato quando piombava su di loro. Era Grey e non era Grey, era Zero e non era Zero, era dappertutto e non era da nessuna parte. Si alzò e premette la faccia contro il vetro. “È il momento.” Era buffo, pensò. Non buffo da ridere, buffo nel senso di strano. Il concetto di tempo era proprio buffo. Aveva sempre creduto che fosse una cosa, invece era tutt’altro. Non una linea, ma un cerchio. E non solo: era un cerchio fatto di cerchi fatti di cerchi, l’uno sopra l’altro, cosicché ogni momento era vicino a tutti gli altri momenti. Una volta che ti eri reso conto di questo, non potevi più considerarlo come prima. Ormai vedeva gli eventi che dovevano ancora accadere come se fossero già accaduti, perché sotto certi punti di vista era proprio così. Aprì la camera d’equilibrio. La tuta era appesa al muro. Per aprire la seconda porta bisognava chiudere la prima e poi per aprire la terza bisognava chiudere la seconda, ma non era scritto da nessuna parte che doveva mettere la tuta, o essere solo. “La seconda porta, Grey.” Entrò nella camera centrale. Sopra la sua testa, il soffione della doccia sembrava un fiore mostruoso a testa in giù. La telecamera lo stava riprendendo, ma dall’altra parte non c’era nessuno, lo sapeva. Sentiva altre voci, adesso, non solo quella di Zero. E sapeva a chi appartenevano. “La terza porta, Grey.” Che felicità provava, che sollievo! Abbandonarsi, lasciar andare le cose. Era una sensazione che aveva preso forma giorno dopo giorno, il Grey buono e il Grey cattivo che diventavano tutt’uno e si consolidavano in qualcosa di nuovo e inevitabile. Un nuovo Grey, capace di perdonare. “Ti perdono, Grey.” Girò il maniglione e aprì lo sbarramento. Zero si allungò davanti a lui, nel buio, e Grey sentì il suo fiato sulla faccia, negli occhi, sulla bocca e sul mento. Sentì anche il suo cuore che batteva come un martello. Pensò a suo padre nella neve. Piangeva. Piangeva di felicità e di terrore, piangeva perché aveva voglia di piangere. I denti di Zero trovarono il suo collo, il punto morbido sotto cui pulsava il sangue. Grey finalmente capì che cos’era il decimo coniglio. Il decimo coniglio era lui.

14 Successe molto in fretta. Trentadue minuti perché finisse un mondo e ne nascesse un altro. «Che cos’hai detto?» fece Richards e poi sentì l’allarme. Lo sentirono tutti e due. Era l’allarme che non sarebbe mai dovuto suonare, un fischio atonale che riecheggiava in ogni punto del compound e pareva arrivare da tutte le direzioni. Problema di sicurezza all’area di contenimento, livello 4. Richards si voltò di scatto verso lo Chalet. Decisione rapida: si girò nuovamente verso il punto in cui aveva lasciato Doyle. Ma Doyle non c’era più. “Maledizione” pensò. Poi lo disse ad alta voce: «Maledizione!». Adesso i fuggitivi erano due. Guardò il parcheggio sperando di beccarne almeno uno. In quel momento si accesero le luci, dappertutto, inondando ogni cosa di un riverbero aspro e artificiale. Dalla caserma si alzarono delle grida e dopo un po’ arrivarono militari di corsa. Non c’era tempo per pensare a Doyle. Salì i gradini dello Chalet, passò oltre la sentinella che gli urlava qualcosa a proposito dell’ascensore, prese le scale e corse al livello 2. La porta del suo ufficio era aperta. Guardò i monitor. La camera di Zero era vuota. La camera di Babcock era vuota. Tutte le camere erano vuote. Premette il pulsante dell’audio. «Sentinelle livello 4. Qui Richards. A rapporto.» Nessuna risposta. «Laboratorio principale, a rapporto. Qualcuno mi vuol dire cosa cazzo sta succedendo lì giù?» Gli rispose una voce terrorizzata. Fortes? «Li hanno fatti uscire!» «Chi? Chi li ha fatti uscire?» La linea era disturbatissima. Richards sentì urla, spari, altre urla e le grida che lanciano gli umani appena prima di morire. «Cazzo.» L’altoparlante gracchiò di nuovo. «Sono tutti fuori! Li hanno liberati gli inservienti!» Richards richiamò le immagini del posto di guardia al livello 3. La parete era affrescata di sangue, Davis era lungo disteso per terra, con la faccia sulle piastrelle, come se stesse cercando una lente a contatto perduta. Richards vide entrare nell’inquadratura un altro soldato, Paulson, con una calibro .45. Dietro di lui, le porte dell’ascensore erano aperte. Paulson fissò la telecamera infilando la pistola nella fondina e prendendo una granata. Tirò il cordino con i denti e la lanciò dentro l’ascensore. Ripeté l’operazione con altre due granate. Quindi guardò verso

Richards – che notò il suo sguardo vacuo – sollevò la .45 e si sparò in testa. Richards allungò la mano verso l’interruttore che chiudeva l’accesso al livello, ma era troppo tardi. Udì l’esplosione dentro il pozzo dell’ascensore, poi un altro scoppio e il rumore della cabina che precipitava di sotto. Tutte le luci si spensero. Lì per lì Wolgast non capì che cosa stesse succedendo: l’allarme era stato così improvviso, il suo suono così estraneo, che per un momento aveva cancellato ogni altro pensiero. Si alzò dalla sedia accanto al letto di Amy e armeggiò con la porta, che naturalmente non si smosse: poteva essere aperta solo dall’esterno. L’allarme continuava a suonare. Che fosse scoppiato un incendio? “No” pensò, con il frastuono che gli rimbombava nelle orecchie. Era qualcos’altro, qualcosa di molto peggio. Sollevò gli occhi verso la telecamera nell’angolo. «Fortes? Sykes? Aprite, per la miseria!» Sentì raffiche di mitragliette dietro i muri spessi e per un attimo credette che qualcuno stesse andando a salvarli. Ma era un pensiero assurdo: chi avrebbe potuto farlo? Poi, prima di riuscire a formulare un altro pensiero, udì un urto violentissimo, un boato terribile e un’altra esplosione, più forte della prima, seguiti da un tremore profondo, sonoro, come una scossa di terremoto. La stanza piombò nell’oscurità. Wolgast rimase impietrito. Il buio era totale: assenza di luce completa, disorientante. Gli allarmi si erano zittiti. Aveva l’impulso di mettersi a correre, ma non sapeva dove andare. La stanza pareva espandersi e chiuderglisi intorno al tempo stesso. «Amy, dove sei? Aiutami a trovarti!» Silenzio. Fece un respiro profondo e lo trattenne. «Amy, di’ qualcosa. Parla!» Sentì un debole gemito alle sue spalle. «Okay.» Si voltò tendendo le orecchie, cercando di misurare la distanza e la direzione. «Di nuovo. Ti troverò.» Era più lucido adesso: il panico scemava lasciando spazio alla determinazione. Fece un passo verso la voce, guardingo, poi un altro. Sentì un secondo gemito, fievolissimo. La stanza era piccola, meno di due metri quadrati: com’era possibile che Amy gli paresse tanto lontana? Non udiva più spari e raffiche. Fuori c’era silenzio. Avvertiva solo il debole respiro di Amy, che lo chiamava. Raggiunse i piedi del letto e seguì a tastoni le sbarre di metallo. In quel momento si accesero le luci di emergenza, due fasci agli angoli del soffitto, sopra la porta, appena sufficienti a orientarsi. La stanzetta era sempre la stessa: ciò che stava succedendo fuori lì non era ancora arrivato. Si sedette accanto ad Amy e le tastò la fronte. Era ancora calda, ma la febbre stava diminuendo. Aveva la pelle umida di sudore. La flebo si era interrotta quando era mancata la corrente. Wolgast si chiese cosa fare e poi decise di staccargliela, anche se forse era sbagliato. Aveva visto Fortes e gli altri cambiarle la flebo diverse volte, sapeva come si faceva. Chiuse la clip, interrompendo il flusso di liquido, e tolse il lungo ago dalla farfallina di gomma all’estremità del tubicino che le entrava nella mano. Ora che la flebo era staccata, non c’era motivo di lasciarla lì. La tirò via delicatamente. Non usciva sangue, ma per precauzione coprì il buco con garza e cerotto, che prese dal carrello. Poi rimase lì ad aspettare.

Passarono i minuti. Amy si muoveva nel letto, agitata come se stesse sognando. Wolgast intuì che, se avesse potuto vedere il suo sogno, avrebbe capito che cosa stava succedendo fuori. Una parte di lui si chiedeva che importanza avesse: erano sottoterra, chiusi ermeticamente in quella specie di tomba. Si era rassegnato all’abbandono quando sentì il sibilo dell’equalizzatore di pressione e gli tornarono le speranze: la porta si aprì e apparve una figura solitaria, controluce, con il volto in ombra. Aveva indosso abiti normali. Appena giunse sotto il fascio delle luci di emergenza, Wolgast vide una persona che non riconobbe, con lunghi capelli scarmigliati, scuri ma striati di grigio, e una barba ruvida che gli copriva metà guance. Indossava un camice sgualcito e macchiato. Si avvicinò al letto di Amy con l’aria preoccupata della vittima di un incidente o del testimone di un disastro. Pareva non essersi accorto della presenza di Wolgast. «Lo sa» mormorò guardando Amy. «Come fa a saperlo?» «Chi è lei? Cosa succede?» L’uomo continuò a ignorarlo. Pareva emanare una sorta di aura calmissima, fatalista. «È strano» disse un momento dopo. Fece un sospiro profondo e si toccò la barba guardando la stanzetta spoglia. «Tutto questo. È questo che volevo? Volevo che ce ne fosse almeno uno, capisce? Una volta visto, una volta capito che cosa stavano pianificando, come sarebbe finita, volevo che ne restasse almeno uno.» «Di cosa sta parlando? Dov’è Sykes?» Lo sconosciuto parve finalmente accorgersi di Wolgast. Lo squadrò da capo a piedi e si rabbuiò. «Sykes? È morto. Io credo che siano morti tutti. Lei no?» Morti? «Li avranno fatti a pezzi, immagino. Nella migliore delle ipotesi.» Scosse lentamente il capo con meraviglia. «Avrebbe dovuto vedere come dondolavano sui rami. Parevano pipistrelli. Avremmo dovuto prevederlo.» Wolgast era completamente smarrito. «Senta, io non capisco di cosa sta parlando.» Lo sconosciuto si strinse nelle spalle. «Be’, fra poco capirà. Mi spiace per lei.» Lo guardò di nuovo. «Perdoni i miei modi, agente Wolgast. È passato parecchio tempo. Sono Jonas Lear.» Gli fece un sorriso amaro. «Si può dire che io sia il responsabile qui dentro. Ma anche no. Date le circostanze, credo che non ci siano più responsabili.» Lear. Wolgast cercò di fare mente locale, ma quel nome non gli diceva nulla. «Ho sentito un’esplosione...» «Vero» lo interruppe Lear. «È saltato in aria l’ascensore. Secondo me, è stato uno dei militari. Ma io ero nella cella frigorifera, non ho visto.» Sospirò e si guardò attorno. «Non è stato molto eroico da parte mia chiudermi nella cella, vero, agente? Peccato che non ci sia un’altra sedia: mi siederei volentieri. Sa da quanto tempo non mi siedo?» Wolgast si alzò. «Prenda la mia, prego. Mi racconti che cos’è successo.» Lear scosse la testa facendo ondeggiare i capelli grigi. «Non abbiamo tempo, temo. Dobbiamo andare. È finita, Amy, vero?» Guardò la bambina che dormiva e le accarezzò una mano. «Per fortuna è finita.»

Wolgast non ne poteva più. «Che cosa è finito?» Lear alzò la testa e Wolgast vide che stava piangendo. «Tutto.» Lear li condusse lungo il corridoio. Wolgast teneva Amy in braccio. C’era puzza di bruciato, di plastica fusa. Quando girarono verso l’ascensore, Wolgast vide il primo cadavere. Era Fortes, e restava ben poco di lui. Sembrava che fosse stato schiacciato da un enorme peso e poi trascinato per terra. Il suo sangue brillava sotto le luci di emergenza. Dietro Fortes c’era un altro cadavere, o almeno così gli parve: in realtà, guardando meglio, si accorse che era un pezzo di Fortes. Amy aveva gli occhi chiusi, ma Wolgast glieli coprì comunque e le premette la faccia contro il suo petto. C’erano altri due cadaveri, forse tre, e il pavimento era scivoloso per il sangue, tantissimo sangue, e brandelli di carne umana. Al posto dell’ascensore saltato in aria restava solo un buco nero, illuminato dalle scintille che sprizzavano da cavi e fili rotti. Le pesanti porte di metallo erano finite nel corridoio e avevano sfondato il muro di fronte. Sotto la luce angolata delle lampade di emergenza, Wolgast vide altri due morti. Erano militari che erano stati schiacciati dalle porte dell’ascensore. Un terzo era contro il muro e sembrava che stesse facendo la siesta, a parte il lago di sangue che gli si era allargato intorno. Aveva la faccia tirata, svuotata, e la divisa gli stava larga, come se fosse stata di una taglia in più. Wolgast distolse lo sguardo. «Come facciamo a uscire?» «Di qua» disse Lear. Si era snebbiato e adesso era lucido e determinato. «Presto.» Percorsero un altro corridoio. Le porte che vi si affacciavano – pesanti, di metallo come quella della stanza di Amy – erano tutte aperte. Per terra c’erano altri morti, che Wolgast preferì non contare. I muri erano pieni di buchi di proiettili e il pavimento era coperto di cartucce e bossoli luccicanti. Da una porta spuntò un uomo. Più che altro, in realtà, inciampò. Era grande e grosso, come quelli che portavano da mangiare a Wolgast durante la sua prigionia, ma non pareva un viso noto. Si teneva una mano premuta su un terribile squarcio nel collo da cui sgorgavano fiotti di sangue che gli scivolavano fra le dita. La camicia, il sopra di una divisa bianca da ospedale come quella di Wolgast, pareva un bavaglino intriso di sangue. «Ehi» disse. «Ehi.» Li guardò tutti e tre, poi osservò il corridoio. Sembrava non far caso al sangue, o forse non ne era consapevole. «Cos’è successo alle luci?» Wolgast non sapeva che cosa rispondere. Con una ferita così, quell’uomo avrebbe dovuto essere già morto. Non capiva come facesse a stare in piedi. «Oooh» gemette il ferito traballando. «Bisogna che mi sieda.» Si accasciò per terra, quasi piegandosi in due, come una tenda senza pali. Trasse un profondo respiro, guardò Wolgast e fu scosso da un tremore. «Sto dormendo?» Wolgast non disse nulla. Quella domanda per lui non aveva senso.

Lear gli toccò la spalla. «Lasci perdere, agente. Non c’è tempo.» L’uomo si leccò le labbra. Aveva perso talmente tanto sangue che era disidratato. Sbatté le palpebre e le mani gli ricaddero lungo i fianchi, per terra, come guanti vuoti. «Perché devo dire che ho fatto un sogno spaventoso. Mi sono detto: “Grey, questo è l’incubo peggiore del mondo”.» «Non credo fosse un sogno» replicò Wolgast. L’uomo ci pensò su un attimo, poi scosse la testa. «È quello che temevo.» Ebbe un altro tremore, una sorta di spasmo, come se avesse preso la scossa. Lear aveva ragione: non potevano fare nulla per lui. Il sangue sul collo era diventato più scuro e aveva assunto un color blu nero. Wolgast doveva portare via Amy. «Mi dispiace. Dobbiamo andare.» «Voi dite che vi dispiace?» borbottò l’uomo e appoggiò la testa al muro. «Agente...» Ma Grey pensava già ad altro. «Non sono stato solo io» disse chiudendo gli occhi. «È colpa di tutti noi.» Proseguirono e arrivarono in una stanza piena di panche e stipetti. Wolgast temette che non ci fosse uscita, ma Lear tirò fuori una chiave di tasca e aprì una porta con la scritta MECCANICA. Wolgast entrò e vide Lear, in ginocchio, che cercava di aprire un pannello di metallo con un coltellino. Lo scardinò e Wolgast guardò dentro. L’apertura era meno di un metro quadrato. «Sempre dritto, fra una decina di metri troverà un condotto verticale. C’è una scaletta per la manutenzione che arriva fino in cima.» Quindici metri almeno, su una scala a pioli nel buio più totale, con Amy in braccio: Wolgast non pensava di potercela fare. «Non c’è un’altra uscita?» Lear scosse la testa. «No.» Resse Amy mentre Wolgast entrava nel cunicolo. Seduto, con la testa bassa, sarebbe riuscito a trascinare Amy tenendola per la vita. Arretrò fino a distendere le gambe e Lear gli sistemò Amy in mezzo. Sembrava che stesse per riprendere conoscenza. Wolgast sentiva la sua pelle calda attraverso la stoffa sottile della camicia da notte: continuava ad avere la febbre. «Ricordi quello che le ho detto. Una decina di metri.» Wolgast annuì. «Stia attento.» «Che cosa ha ucciso tutti quegli uomini?» Lear non rispose. «La tenga sempre accanto a sé» raccomandò. «Questa bambina è tutto. Vada, ora.» Wolgast cominciò a strisciare tenendo Amy per la vita con una mano e facendo leva con l’altra

per inoltrarsi nella conduttura. Solo quando il pannello metallico si richiuse capì che Lear non aveva mai avuto intenzione di andare con loro. Gli Incandescenti erano ovunque, ormai, in tutto il compound. Richards sentiva le urla e gli spari. Prese ancora un po’ di munizioni dalla scrivania e corse di sopra, nell’ufficio di Sykes. La stanza era vuota. Dov’era Sykes? Dovevano accerchiare gli Incandescenti, chiuderli dentro lo Chalet e premere l’interruttore. Richards uscì dall’ufficio con la pistola alzata. C’era qualcosa che si muoveva nel corridoio. Era Sykes. Quando Richards lo raggiunse, era già caduto per terra, con la schiena appoggiata al muro. Respirava affannosamente come uno scattista dopo la gara e aveva il volto lucido di sudore. Si teneva un braccio, con uno squarcio appena sopra il polso da cui usciva molto sangue. La sua .45 era sul pavimento, vicino al palmo girato verso l’alto. «Sono dappertutto.» Deglutì. «Perché non mi ha ucciso? Quello stronzo mi ha guardato in faccia.» «Qual era?» «Cosa cazzo importa?» Sykes fece spallucce. «Il tuo amico Babcock. Cos’avete, voi due?» Fu scosso da un tremito. «Non mi sento molto bene.» Vomitò. Richards arretrò, ma non abbastanza in fretta. Percepì un odore acre di bile e di qualcos’altro, elementare e metallico, come terra smossa. Sentì i pantaloni e le calze bagnate e capì, ancor prima di guardare, che il vomito di Sykes era pieno di sangue. «Cazzo!» Gli puntò contro la pistola. «Per favore» mormorò Sykes, forse intendendo “sparami”, o forse no. In ogni caso, quando Richards prese la mira, puntando l’arma al centro del petto di Sykes, nel punto debole, e premette il grilletto, fu convinto di fargli un favore. Lacey vide il primo uscire da una delle finestre più alte. Che velocità! Più veloce della luce! Si muoveva come se fosse fatto proprio di luce. In un attimo volteggiò a mezz’aria, sopra il compound, e si posò su un albero a un centinaio di metri di distanza. Era come un lampo a forma d’uomo, fosforescente, pulsante, una stella cadente. Aveva sentito l’allarme non appena il camion era entrato nel compound. I due uomini nella cabina si erano messi a discutere se andare subito via o no e Lacey aveva approfittato del bisticcio per scendere e correre a nascondersi tra gli alberi. Era da lì che aveva visto il demone volare dalla finestra. Gli alberi su cui era atterrato avevano avuto un fremito sotto il suo peso. Lacey vide che cosa stava per succedere. L’autista aprì la sponda posteriore del veicolo. La sentinella aveva parlato di munizioni. Probabilmente il camion trasportava armi. Le fronde ebbero un altro fremito e una scia verdastra scese verso il camion. “Oh!” pensò Lacey. “Oh! Oh!”

Erano tanti, arrivavano dall’edificio lanciandosi dalle finestre e dalle porte. Dieci, undici, dodici. C’erano soldati dappertutto, che correvano, gridavano e sparavano, ma i loro proiettili non servivano a niente: o i demoni erano troppo veloci, oppure le pistole erano inutili contro di loro. Uno per uno si lanciavano sui soldati, che morivano. Era per questo che era andata lì, per salvare Amy dai demoni. “Fai presto, Lacey! Fai presto!” Uscì da dietro gli alberi. «Alt!» Lacey si fermò: doveva forse alzare le braccia? Il soldato era spuntato da dietro gli stessi alberi tra i quali si era nascosta lei. Era un bravo ragazzo, che stava facendo quello che riteneva essere il suo dovere, che stava cercando di mostrarsi coraggioso, anche se naturalmente era spaventato. Lacey percepiva la sua paura, che arrivava fino a lei come un’onda di calore. Il ragazzo non sapeva che cosa ne sarebbe stato di lui. Lacey provò un moto di pietà. «Chi sei?» «Non sono nessuno» rispose Lacey, e in quel momento il demone atterrò sul soldato senza neppure lasciargli il tempo di puntare il fucile e di finire la frase. Lacey ne approfittò per correre verso l’edificio. Quando arrivarono alla base del condotto verticale, Wolgast aveva il fiatone ed era tutto sudato. C’era una luce fievolissima che proveniva dall’alto. Guardando in quella direzione, Wolgast vedeva il doppio fascio di una lampada d’emergenza e, sopra, le pale di un gigantesco ventilatore. Erano nel condotto di aerazione. «Amy, tesoro» disse. «Amy, svegliati, per favore.» La bambina sbatté le palpebre, ma poi le richiuse. Wolgast si mise le sue braccia intorno al collo e le gambe intorno alla vita, ma si rese subito conto che Amy era senza forze. «Tieniti forte, Amy. Mi raccomando.» La sentì più stretta a sé. Ciò nonostante avrebbe dovuto reggerla con un braccio e gli sarebbe rimasta una mano sola per aggrapparsi. Gesù. Si voltò e guardò la scala. Poi mise il piede sul primo piolo. Sembrava uno dei test del corso di addestramento: Brad Wolgast ha in braccio una bambina. Deve salire una scala a pioli lunga quindici metri in un condotto d’aerazione scarsamente illuminato. La bambina è in stato di semincoscienza. Come può Brad Wolgast uscire vivo da quella situazione e salvare la bambina? E capì come fare: un piolo per volta, avrebbe usato la destra per tirarsi su, dopodiché avrebbe agganciato la scala con il gomito reggendo Amy con un ginocchio, per poi cambiare mano e salire un altro piolo. Sinistra, destra e via di seguito, spostando il peso della bambina da una parte all’altra, piolo dopo piolo fino in cima. Quanto pesava Amy? Venti, venticinque chili? E a ogni cambiamento di mano, Wolgast avrebbe dovuto reggerla con un braccio solo. Iniziò a salire.

Richards si rese conto dalle urla e dagli spari che gli Incandescenti erano usciti all’aperto. Aveva capito subito che cosa stava succedendo a Sykes. Probabilmente avrebbe fatto anche lui la stessa fine, visto che Sykes gli aveva vomitato sangue infetto sui vestiti. Dubitava che sarebbe vissuto abbastanza a lungo da doversi porre il problema, tuttavia. “Cole” pensò. “Cole, sei proprio una merda. Era questo che avevi in mente? È questa la tua idea di Pax americana? Perché io vedo un unico esito per questa tragedia.” C’era soltanto una cosa che gli stava a cuore ormai: un’uscita di scena tranquilla, senza brutte figure. L’ingresso dello Chalet era crivellato di colpi, i vetri erano infranti, le porte scardinate e penzolanti. C’erano tre soldati morti per terra, forse colpiti da fuoco amico nella confusione, o forse si erano sparati a vicenda apposta, per non fare una fine peggiore. Richards alzò una mano e guardò la Springfield. Cosa gli faceva pensare che potesse servire a qualcosa? Anche i fucili dei soldati sarebbero stati inutili. Ci voleva qualcosa di più potente. L’arsenale era dall’altra parte del compound, oltre la caserma. Doveva attraversare il compound di corsa. Guardò la porta e lo spiazzo antistante. Per lo meno le luci erano ancora accese. Be’, meglio adesso che poi, visto che forse non ci sarebbe stato nessun poi. Partì veloce. C’erano soldati dappertutto, che correvano e gridavano al nulla o ai compagni. Non facevano nemmeno finta di organizzare la difesa, figurarsi un assalto allo Chalet. Richards corse più veloce che poté, aspettandosi un proiettile da un momento all’altro. Era a metà strada quando vide il camion fermo nel parcheggio, lasciato lì, con le portiere aperte. Sapeva che cosa vi avrebbe trovato sopra. Dopotutto, forse non ci sarebbe stato bisogno di attraversare il compound. «Agente Doyle.» Doyle sorrise. «Lacey.» Erano al primo piano dello Chalet, in una stanzetta con scrivanie e schedari. Doyle aspettava lì da quando era cominciata la sparatoria, nascosto sotto una scrivania. Aspettava proprio lei. Si alzò. «Sa dove sono?» Lacey stette zitta un istante. Aveva la faccia e il collo graffiati e foglie impigliate fra i capelli. Annuì. «Sì.» «Ho sentito la sua voce, sorella» disse Doyle. «Tutte queste settimane.» Aveva la sensazione che dentro di lui si stesse aprendo qualcosa di grande. Si commosse. «Non so come.» La suora gli prese le mani. «Non è me che sentiva, agente Doyle.» Per fortuna Wolgast non poteva abbassare gli occhi. Sudava copiosamente e mani e piedi gli scivolavano sui pioli mentre cercava di salire. Le braccia gli tremavano per la fatica e le pieghe dei gomiti, con cui si aggrappava ogni volta che cambiava mano, erano doloranti. C’era un limite alla fatica fisica, lo sapeva, una linea invisibile dalla quale, una volta oltrepassata, non si tornava indietro. Scacciò il pensiero e continuò a salire.

Le braccia di Amy, che si era messo intorno al collo, reggevano. Piolo dopo piolo, l’ascesa proseguiva. Il ventilatore adesso era più vicino. Wolgast sentiva sul viso una brezza leggera, fresca e profumata di notte. Allungò il collo per controllare se sui lati del condotto c’erano aperture. Poi la vide, accanto alla scala, circa tre metri sopra di lui: una conduttura orizzontale aperta. Avrebbe dovuto farci entrare prima Amy. Avrebbe dovuto tenersi in equilibrio sulla scala, spingerla dentro e poi infilarcisi anche lui. Raggiunsero l’apertura. Il ventilatore era più in alto di quanto pensava, almeno una decina di metri sopra le loro teste. Dovevano essere al livello del primo piano dello Chalet, più o meno. Forse sarebbe dovuto andare più su, cercare un’altra uscita, ma era allo stremo delle forze. Posizionò il ginocchio destro in maniera da reggere il peso di Amy e allungò la mano sinistra. Le sue dita incontrarono un muro piatto di metallo, liscio come vetro. Dopo un po’ ne tastò il bordo e ritirò la mano. Altri tre pioli. Fece un respiro profondo e salì, posizionandosi appena sopra la conduttura. «Amy» mormorò con un filo di voce. Aveva la bocca riarsa. «Svegliati, per favore. Cerca di svegliarti, tesoro.» Sentì cambiare il ritmo del suo respiro: la piccola si sforzava di reagire. «Amy, quando te lo dico io, devi lasciarmi andare. Io continuerò a tenerti. C’è un’apertura nel muro e tu devi provare a infilarci i piedi.» La bambina non rispose e Wolgast sperò che l’avesse sentito. Cercò di immaginare come far entrare Amy nella conduttura e poi passare lui stesso. Non ci riusciva. Ma non aveva alternative: bisognava provarci e basta. Non aveva le forze per fare altro. Doveva sbrigarsi. Spinse Amy in alto con il ginocchio e lei gli staccò le braccia dal collo. Con la mano libera, Wolgast la resse per un polso, tenendola sospesa come un pendolo, e a quel punto capì quello che doveva fare: rilassò l’altra mano, si lasciò trasportare dal peso della bambina verso sinistra, verso l’apertura, dove infilò i piedi di Amy, facendocela scivolare dentro. Si sentì cadere. Era una sensazione che provava dall’inizio di quell’impresa, ma adesso percepì che i piedi non erano più a contatto con i pioli e che le mani scivolavano sul metallo. Cercò l’apertura e il sottile bordo di metallo gli si conficcò nei polpastrelli. «Ahi!» gridò, e la sua voce rimbombò nel condotto. Sembrava appeso lì per pura forza di volontà, con i piedi che dondolavano a mezz’aria. «Ahi!» Non sapeva come aveva fatto. Doveva essere stata l’adrenalina, Amy, o il fatto che non voleva morire, almeno per ora. Tirò con tutta la forza che gli era rimasta, piegando lentamente i gomiti, si sollevò inesorabilmente verso l’alto, prima la testa, poi il petto, la vita e tutto il resto, e scivolò dentro l’apertura. Rimase lì un momento respirando a pieni polmoni. Alzò la faccia e vide una luce più avanti, una sorta di fessura nel pavimento. Si girò, tenendo Amy per la vita come aveva fatto in precedenza, e strisciò sulla schiena. La luce diventava più intensa a mano a mano che si avvicinavano.

Arrivarono a una grata. Era chiusa, avvitata da fuori. Avrebbe voluto piangere. Erano così vicini alla salvezza! Se anche fosse riuscito a infilare le dita fra le sbarre, a trovare le viti con le mani, non sarebbe comunque riuscito ad aprire la grata senza un attrezzo. E tornare indietro era impossibile: non ne avrebbe avuto la forza. Sentì un rumore sotto di lui. Strinse Amy a sé. Pensò agli uomini che avevano visto: Fortes, il soldato nella pozza di sangue, l’uomo che diceva di chiamarsi Grey. Non voleva morire così. Chiuse gli occhi e trattenne il respiro cercando di restare nel più assoluto silenzio. Udì una voce, sommessa e dubbiosa. «Capo?» Era Doyle. Una cassa era per terra, dietro il camion. Sembrava che qualcuno avesse cominciato a scaricare la merce e poi, preso dal panico, avesse lasciato perdere. Richards cercò sul pianale e trovò il cric. La cerniera saltò con un rumore secco. Dentro la cassa, protetti dal polistirolo, c’erano due RPG-29. Sotto c’erano le ogive: lunghe mezzo metro, cilindriche, con testata HEAT a doppia carica, capaci di perforare i carri armati più moderni. Richards aveva visto cosa potavano fare. Li aveva richiesti quando aveva ricevuto l’ordine di trasferire gli Incandescenti, per prudenza. “Vampiri, State Attenti.” Montò il primo razzo sull’RPG udendo il ronzio che stava a significare che la testata era pronta. Quel ronzio pareva contenere migliaia di anni di progresso tecnologico, l’intera storia della civiltà. L’RPG-29 era riutilizzabile, ma Richards sapeva che avrebbe potuto sparare una volta sola. Si mise l’arma in spalla, sollevò il mirino e si allontanò dal camion. «Ehi» gridò e, in quel preciso momento, mentre il suono della sua voce si propagava nel buio, ebbe il primo conato. Gli pareva che la terra gli si muovesse sotto i piedi, rollava come una nave in un mare agitato. Sudava, sbatteva le palpebre. Dunque era più veloce di quanto si aspettava. Deglutì e fece un passo avanti, poi un altro, verso la luce, puntando il lanciarazzi sulla cima degli alberi. «Miciomiciomicio....» Trascorse un minuto carico di angoscia mentre Doyle apriva tutti i cassetti alla ricerca di un coltellino. In piedi su una sedia, con la lama allentò le viti. Wolgast gli calò Amy fra le braccia e poi scese. All’inizio non capì. «Suor Lacey?» La suora teneva Amy in braccio. La bambina dormiva. «Agente Wolgast.» Wolgast guardò Doyle. «Non...» «Non capisci?» Doyle inarcò le sopracciglia. Indossava un camice, come lui, ma troppo grande, larghissimo. Fece una risatina. «Neanch’io capisco.»

«Questo posto è pieno di morti» disse Wolgast. «È successo... Non so, mi sembra ci sia stata un’esplosione.» Non riusciva a spiegarsi. «Lo sappiamo» replicò Doyle annuendo. «È ora di andare.» Uscirono nel corridoio. Wolgast intuì che erano nella parte posteriore dello Chalet. C’era silenzio, ma ogni tanto da fuori arrivavano rumori come di spari attutiti. Senza dire una parola, andarono velocemente alla porta principale. Wolgast vide i soldati morti stesi per terra. Lacey si voltò verso di lui. «La prenda lei» disse. Wolgast ubbidì. Aveva le braccia stanche, dopo la salita lungo la scala a pioli, ma la strinse forte. Amy gemeva, cercando di svegliarsi, sforzandosi di disperdere la nebbia che la teneva nel crepuscolo. Avrebbero dovuto portarla in ospedale, ma anche se ci fossero riusciti che cosa avrebbero potuto dire ai medici? Che spiegazioni avrebbero potuto dare? L’aria vicino alla porta era gelata e Amy, in camicia da notte, tremava contro di lui. «Dobbiamo prendere un mezzo» suggerì Wolgast. Doyle uscì, a testa bassa, e un minuto dopo ritornò con un mazzo di chiavi. Si era anche procurato un’arma, una .45. Portò Wolgast e Lacey alla finestra e indicò loro dove guardare. «Quella in fondo al parcheggio, la Lexus grigia metallizzata. La vedete?» Wolgast la scorse: era a un centinaio di metri di distanza come minimo. «Bella macchina» disse Doyle. «Strano che il conducente abbia lasciato le chiavi nel cruscotto.» Mise il mazzo in mano a Wolgast. «Tienile tu. Non si sa mai.» Wolgast impiegò un po’ a capire, poi si rese conto che quella macchina era per lui e per Amy. «Phil...» Doyle alzò una mano. «Così dev’essere.» Wolgast guardò Lacey, la quale annuì, fece un passo avanti, baciò Amy e le fece una carezza sui capelli. Baciò anche lui, sulla guancia, e Wolgast ebbe l’impressione che quel bacio gli infondesse un senso di pace, di calma, di certezza. Non si era mai sentito così. Si allontanarono dalla porta, guidati da Doyle, tenendosi al riparo. Wolgast faceva fatica a stargli dietro. Udì un rumore di spari, che però non parevano diretti contro di loro. Sembravano salire verso l’alto, perdersi nelle fronde degli alberi, sui tetti, come colpi sparati a salve per una sinistra celebrazione. Ognuno era accompagnato da un urlo, poi c’era un momento di silenzio e quindi ricominciavano. Arrivarono all’angolo. Wolgast vide il bosco da una parte e dall’altra le luci del compound e il parcheggio. La Lexus li aspettava in fondo, isolata. «Corriamo» disse Doyle. «Siete pronti?» Wolgast, che già aveva il fiatone, annuì. Si misero a correre verso la macchina, allo scoperto. Richards ne percepì la presenza ancor prima di vederlo. Si voltò, tenendo il lanciarazzi come un saltatore tiene l’asta.

Non era Babcock. Non era Zero. Era Anthony Carter. Era accucciato, a cinque o sei metri di distanza. Alzò la testa, la girò da una parte e lo osservò con un che di canino. Aveva la faccia sporca di sangue, le mani ad artiglio, file e file di denti affilati come sciabole. Emetteva uno schiocco gutturale, simile al verso di un tacchino. Si sollevò lentamente, con languido piacere. Richards mirò alla bocca. «Fuoco» disse, e sparò. Capì subito, non appena il razzo partì, mentre il rinculo lo spingeva all’indietro, che l’aveva mancato. Carter non si trovava più dov’era stato. Era a mezz’aria, volava, gli piombava addosso. Il razzo sfondò la facciata dello Chalet, ma Richards udì solo vagamente lo schianto, lontanissimo, preso com’era da una sensazione nuova, assolutamente sconosciuta: quella di venire lacerato, aperto in due. L’esplosione colpì Wolgast sul lato sinistro come un muro di calore e di luce, uno schiaffo violentissimo. Perse l’equilibrio e venne sbalzato per aria, lasciandosi sfuggire Amy dalle braccia. Cadde per terra e rotolò, rotolò, rotolò, finché non si fermò, supino. Sentiva un fischio fortissimo nelle orecchie e non riusciva quasi a respirare. Sopra di lui si estendeva la volta celeste, profonda e vellutata, nera, punteggiata di centinaia di scintille, alcune delle quali in movimento. Pensò: “Stelle cadenti”. Pensò: “Amy”. Pensò: “Chiavi”. Alzò la testa. La bambina era distesa per terra a pochi metri da lui. L’aria era piena di fumo. Nella luce intermittente dello Chalet in fiamme, Amy pareva dormire come la principessa di certe fiabe, come la Bella addormentata nel bosco. Wolgast si mise carponi e tastò freneticamente tutto intorno alla ricerca delle chiavi. Si rendeva conto di aver subito dei danni a un timpano: era come se avesse la parte sinistra della testa coperta da uno spesso bendaggio che attutiva ogni suono. “Le chiavi. Le chiavi.” Poi si accorse di averle ancora in mano: non le aveva perse nemmeno per un attimo. Dov’erano Doyle e Lacey? Raggiunse Amy. Non sembrava essersi fatta male, né cadendo né a seguito dell’esplosione. Le mise le mani sotto le ascelle e la sollevò, poi se la caricò sulle spalle e corse verso la Lexus più veloce che poté. Si chinò per posarla sul sedile posteriore, salì davanti e girò la chiavetta. Si accesero i fari, luminosi nel compound. Cadde qualcosa sul cofano. Un animale; anzi, no: una creatura mostruosa, che emetteva una luce verdastra, fosforescente. Quando gli vide gli occhi e ciò che vi si nascondeva, capì che era Anthony Carter. Lo guardò sollevarsi, mentre cercava la leva del cambio; inserì la retromarcia, partì e Carter cadde. Alla luce dei fari, Wolgast vide che rotolava per terra e poi, con una serie di balzi fulminei, impossibili da seguire con lo sguardo, spiccava il volo e scompariva.

“Cosa caspita...?” Wolgast frenò e sterzò violentemente verso destra. La macchina fece un testacoda e poi si fermò, con il muso verso il viale d’accesso. Si aprì la portiera e Lacey salì veloce, senza dire niente. Aveva la faccia e la camicia sporche di sangue e una pistola in mano. La guardò sbalordita, poi la lasciò cadere per terra. «Dov’è Doyle?» «Non lo so» rispose la suora. Wolgast accelerò. E vide Doyle che correva verso di loro agitando la .45. «Andate» urlava. «Andate!» Si udì un tonfo sul tetto della macchina e Wolgast capì che era di nuovo Carter. Era atterrato sopra la Lexus. Inchiodò, facendo sbalzare tutti in avanti. Carter rotolò sul cofano, ma rimase aggrappato all’auto. Wolgast sentì che Doyle sparava tre colpi in rapida successione. Centrò Carter all’altezza della spalla, ma lui non se ne accorse nemmeno. «Ehi!» gridava Doyle. «Ehi!» Carter si voltò, lo vide e si rannicchiò per spiccare un salto, mentre Doyle sparava il suo ultimo colpo. Wolgast si girò a guardare la creatura che un tempo era stata Anthony Carter piombare sul suo collega e fagocitarlo. Finì tutto in un istante. Wolgast schiacciò l’acceleratore con forza. La macchina superò con un sobbalzo una striscia erbosa sgommando, poi, con gli pneumatici che stridevano sull’asfalto, si allontanò dallo Chalet in fiamme sfrecciando in una galleria di alberi. Ottanta chilometri all’ora, novanta, cento... «Cosa diavolo è stato?» chiese Wolgast a Lacey. «Cos’era?» «Si fermi qui, agente.» «Come? Sta scherzando?» «Ci prenderanno, seguiranno il sangue. Si fermi.» Gli toccò il gomito con un gesto sicuro, urgente. «La prego, faccia come dico.» Wolgast accostò. Lacey si voltò a guardarlo in faccia. Lui si accorse che aveva una ferita d’arma da fuoco a un braccio, sotto il deltoide. «Suor Lacey...» «Non è nulla» disse lei. «Solo carne e sangue. Io non devo venire con voi, adesso lo vedo con grande chiarezza.» Gli sfiorò di nuovo il braccio e sorrise. Era un sorriso triste e lieto al tempo stesso, una sorta di benedizione finale, come se fossero all’epilogo di un viaggio lungo e travagliato. «Si prenda cura di lei. Amy è nelle sue mani. Saprà cosa fare.» Scese dalla macchina e chiuse la portiera, senza lasciargli il tempo di replicare. Wolgast guardò nello specchietto retrovisore e la vide correre nella direzione opposta agitando

le braccia sopra la testa. Non era un gesto di ammonizione. No, li stava chiamando a sé. Dopo pochi metri su un albero si accese un lampo di luce, poi un altro e un altro ancora, e la avvolsero, così numerosi che Wolgast dovette distogliere lo sguardo. Accelerò e scappò, più veloce che poté, senza più guardare indietro.

Seconda parte L’ANNO DI ZERO Vieni, andiamo in prigione. Noi due soli canteremo come uccelli in gabbia; quando tu chiederai la mia benedizione, io m’inginocchierò per chiederti perdono. WILLIAM SHAKESPEARE Re Lear

15 Quando tutti i tempi finirono e il mondo perse la memoria, quando l’uomo che era stato scomparve alla vista come una nave che ha preso il largo per circumnavigare la terra, con la vita vissuta fino allora nascosta nella stiva, quando le stelle stavano a guardare il nulla e la luna descriveva il proprio arco dimentica anche del suo nome, restava solo un grande mare di fame su cui navigare. Eppure, dentro di lui, nel profondo del suo cuore, fu solo un anno. La montagna, le stagioni e Amy. Amy e l’Anno di Zero. Arrivarono al campo con il buio. Wolgast guidò lentamente per l’ultimo chilometro, con la luce dei fari che si perdeva tra gli alberi, frenando per superare a passo d’uomo le buche peggiori e i solchi scavati dalle piogge dell’inverno. Rami grondanti umidità sfioravano il tetto e i finestrini della macchina. Era un’auto vecchia, una Corolla con enormi cerchioni kitsch e un portacenere pieno di mozziconi ingialliti, che Wolgast aveva rubato in una rimessa di camper fuori Laramie, lasciando la Lexus con le chiavi nel cruscotto e un bigliettino: “Tenete pure questa. Grazie”. Un vecchio bastardino legato a una catena, troppo stanco per abbaiare, aveva guardato con disinteresse Wolgast che manometteva l’accensione della Toyota e poi spostava Amy dalla Lexus e la stendeva sul sedile posteriore, pieno di vecchi involucri di fast-food e pacchetti di sigarette vuoti. Per un attimo aveva rimpianto di non poter vedere la faccia che avrebbe fatto il proprietario trovando una berlina da ottantamila dollari al posto di quella vecchia carriola: la zucca di Cenerentola trasformata in carrozza. Wolgast non aveva mai guidato niente di simile in vita sua. Sperava che il nuovo proprietario, chiunque egli fosse, si concedesse di farci almeno un giro, prima di trovare il modo per sbarazzarsene con discrezione. La Lexus era di Fortes. O, meglio, lo era stata, perché Fortes era morto. Fortes James B.: Wolgast non conosceva il nome di battesimo prima di vedere il libretto dell’automobile. L’indirizzo era del Maryland, il che probabilmente significava che lavorava all’USAMRIID, o forse all’NIH, l’Istituto nazionale di sanità. Wolgast aveva gettato il libretto dal finestrino in un campo di grano al confine tra il Colorado e il Wyoming. Ma aveva tenuto quanto c’era dentro il portafoglio che aveva trovato sotto il sedile del conducente: un po’ più di seicento dollari in contanti e una Visa Titanium. Erano passate già parecchie ore da quando era successo e la sensazione del tempo trascorso era intensificata dalle distanze percorse. Colorado, Wyoming, Idaho, quest’ultimo attraversato interamente con il buio, visto solo nei coni di luce disegnati dai fari della Corolla. Erano arrivati nell’Oregon all’alba della seconda mattina e avevano attraversato gli altipiani aridi dell’interno, fra campi vuoti e monti dorati coperti di artemisia e spazzati dal vento. Per tenersi sveglio, Wolgast guidava con i finestrini abbassati, lasciando entrare l’aria che profumava di dolce, d’infanzia, di casa. Nel pomeriggio si accorse che il motore arrancava: finalmente avevano cominciato a salire. Al calar della sera si trovarono di fronte la Catena delle Cascate, imponente e scura, che bloccava i raggi del sole al tramonto e colorava il cielo di rossi e di viola verso ovest, come un rosone. Le cime rocciose, in alto, erano scintillanti di ghiaccio. «Amy» disse Wolgast. «Svegliati, tesoro. Guarda.» Amy era distesa sul sedile posteriore sotto una copertina di cotone. Era ancora molto debole e negli ultimi due giorni aveva quasi sempre dormito. Ma il peggio forse era passato. L’incarnato

pareva migliore e aveva preso un po’ di colore. Quella mattina era riuscita persino a mangiare due bocconi di un panino con l’uovo e a bere qualche sorso di latte al cacao che Wolgast aveva comprato a un drive-in. Stranamente la luce del sole le dava un fastidio terribile. Sembrava farle proprio male, non solo agli occhi. Reagiva come se avesse appena preso la scossa. Wolgast le aveva comprato un paio di occhiali da sole in una stazione di servizio, di un rosa diva del cinema, gli unici abbastanza piccoli per lei. Le aveva preso anche un berretto con il logo della John Deere. Ma, nonostante gli occhiali scuri e la visiera calata sul volto, Amy aveva tirato fuori la testa dalla coperta solo pochi minuti in tutto il giorno. Nel sentire la voce di Wolgast, si riscosse dal sonno e sollevò lo sguardo verso il parabrezza, verso il sole al tramonto. Con gli occhiali rosa sul naso, strizzò le palpebre e si protesse gli occhi con le mani. Il vento le scompigliava i lunghi capelli. «Che luce!» mormorò. «Le montagne» disse Wolgast. Percorse gli ultimi chilometri per istinto, seguendo strade non segnate che si addentravano nelle pieghe boscose nelle montagne. Era un mondo nascosto: stavano andando dove non c’erano città, paesi, case e persone. O, per lo meno, così lui ricordava. L’aria era fredda e profumava di pini. Il serbatoio era quasi vuoto. Oltrepassarono un negozio buio che Wolgast ricordava vagamente, benché il nome gli paresse sconosciuto: MILTON’S – ALIMENTARI E ARTICOLI DI CACCIA E PESCA. Affrontò la salita che li avrebbe portati a destinazione. Tre tornanti dopo ebbe paura di avere sbagliato strada, ma poi una serie di piccoli particolari lo rassicurò: ricordava la pendenza della strada, la curva dietro cui si vedeva uno squarcio di cielo stellato, la distesa aperta appena prima del ponte sul fiume. Gli sembrava che quegli scorci riemergessero dal suo passato, quando andava al campo con suo padre, da bambino. Giunsero a una radura. Sul lato della strada c’era un’insegna ormai quasi illeggibile: BEAR MOUNTAIN CAMP. Sotto, appeso a due catenelle, un cartello recava la scritta VENDESI seguita dal nome di un’agenzia immobiliare e da un numero di telefono con il prefisso di Salem. Come molti cartelli che avevano incontrato lungo la strada, anche quello era crivellato di colpi di fucile. «Siamo arrivati» annunciò Wolgast. Lo sterrato di accesso, lungo poco più di un chilometro, seguiva l’alta sponda del fiume, poi girava a destra intorno a un mucchio di massi e s’inoltrava fra gli alberi. Il rifugio era chiuso da anni. Chissà, se esisteva ancora, in che condizioni l’avrebbero trovato. E se nel frattempo fosse andato distrutto, magari in seguito a un incendio? E se il tetto fosse crollato sotto il peso della neve? Lo vide spuntare oltre gli alberi: quando lui era bambino lo chiamavano “Old Lodge”, perché era vecchio già allora. C’erano un edificio principale e alcuni più piccoli, una decina in tutto. Oltre il rifugio c’erano un altro bosco e un sentiero che portava al lago artificiale, una distesa immobile di ottanta ettari a forma di fagiolo. I fari della Toyota batterono sulle finestre della facciata dando momentaneamente l’illusione che fossero illuminate da dentro, come se ci fosse qualcuno ad aspettarli. Era come se avessero viaggiato non nello spazio ma nel tempo e fossero tornati indietro di trent’anni, all’epoca in cui Wolgast era bambino. Fermò la Corolla vicino all’ingresso del rifugio e spense il motore. Aveva una strana voglia di recitare una preghiera di ringraziamento, di festeggiare l’arrivo. Ma era da tanto tempo che non pregava, troppo. Scese dalla macchina, nel freddo sorprendente. Il fiato gli formò una spessa condensa intorno al volto, come ai cavalli. Erano i primi di maggio eppure l’aria recava ancora il

ricordo dell’inverno. Andò al bagagliaio. Quando l’aveva aperto la prima volta, nel parcheggio di un Walmart a ovest di Rock Springs, l’aveva trovato pieno di latte di vernice vuote. Adesso invece conteneva abiti per lui e per Amy, generi alimentari, articoli per la pulizia, candele, batterie, un fornelletto, bombole di propano, attrezzi vari, un kit di pronto soccorso e due sacchi a pelo di piuma d’oca. Quanto bastava per sistemarsi lì per un po’, ma presto sarebbe dovuto scendere a fare altri rifornimenti. Alla luce della lampadina nel bagagliaio trovò quello che cercava e salì i gradini che portavano alla veranda. La serratura della porta d’ingresso cedette al primo colpo quando fece leva con il cric. Wolgast accese la torcia ed entrò. Se Amy si fosse svegliata in macchina da sola, si sarebbe spaventata, però voleva dare un’occhiata in giro e accertarsi che non ci fossero pericoli. Provò l’interruttore vicino alla porta, ma non successe niente: naturalmente la corrente era staccata. Se anche ci fosse stato un generatore nei paraggi, per farlo partire avrebbe dovuto metterci il combustibile. E chissà se funzionava ancora. Puntò il fascio di luce qua e là nella stanza: c’erano tavoli e sedie, una stufa di ghisa, una scrivania di metallo contro un muro, sopra la quale era appesa una bacheca a cui non era affisso nulla a parte un foglio arricciato dal tempo. Le finestre non erano state sbarrate, ma i vetri avevano tenuto. L’aria era asciutta, non c’erano grossi spifferi: una volta accesa la stufa, l’ambiente si sarebbe scaldato in fretta. Seguì il fascio di luce e arrivò alla bacheca. BENVENUTI! ESTATE 2014 recitava, e sotto c’era un elenco di nomi: i soliti Jacob, Joshua e Andrew, ma anche un Sasha e persino un Akeem. Vicino a ciascun nome era segnato il numero della camerata. Wolgast era andato lì per tre anni, l’ultimo dei quali, dodicenne, aveva fatto il caposquadra e aveva dormito insieme a ragazzini più piccoli che avevano una nostalgia di casa talmente invalidante da diventare una malattia. Fra quelli che piangevano tutta la notte e gli scherzi crudeli dei loro tormentatori, Wolgast non aveva praticamente mai chiuso occhio. Eppure era stato benissimo: per certi versi quelli erano stati i giorni migliori della sua giovinezza, una sorta di età dell’oro. L’autunno successivo i suoi genitori lo avevano portato nel Texas ed erano cominciati i problemi. Il proprietario del rifugio era un certo signor Hale, un insegnante di biologia con la voce profonda e il torace possente da ex giocatore di football qual era. Era amico del padre di Wolgast, benché non l’avesse mai dimostrato riservandogli un trattamento speciale. Durante l’estate Hale abitava lì, al primo piano, con la moglie. Avevano una specie di appartamentino. Era questo che cercava Wolgast in quel momento. Uscì dalla sala comune ed entrò in cucina: rustici sportelli di pino, pentole e pentoloni mezzo ossidati appesi a ganci, un lavandino con una vecchia pompa, fornelli, un frigorifero con lo sportello socchiuso e un grande tavolo di legno al centro. Su tutto quanto c’era una spessa coltre di polvere. I fornelli erano vecchio stile, di smalto bianco con un orologio che segnava le tre e sei minuti, le lancette ferme da chissà quanto. Wolgast provò a girare una manopola e sentì il sibilo del gas. Una scala stretta portava dalla cucina al primo piano, dove c’era un dedalo di stanzette, la maggior parte delle quali era vuota. Due, però, contenevano una branda con il materasso piegato verso il muro. Non solo: in una, su un tavolino vicino alla finestra, c’era un apparecchio con quadranti e interruttori che doveva essere una radio a onde corte. Tornò alla macchina. Amy dormiva raggomitolata sotto la coperta. La svegliò scrollandola delicatamente. La bambina tirò su la testa e si fregò gli occhi. «Dove siamo?» «A casa» rispose lui.

Si ritrovò a pensare spesso a Lila in quei primi giorni in montagna. Stranamente non provava curiosità per le vicende del mondo, per ciò che stava succedendo altrove. Passava le giornate a sbrigare faccende, sistemare la casa e badare ad Amy, ma la sua mente, libera di andare dove voleva, sceglieva di dirigersi verso il passato, sorvolandolo come un uccello che passa sopra un immenso specchio d’acqua, senza rive o sponde in vista, solo il riflesso distante di se stesso sulla superficie luccicante a tenergli compagnia. Non si era innamorato subito di Lila, ma gli era successo qualcosa e gli era parso di scivolare, di cadere. L’aveva conosciuta una domenica invernale quando era andato al pronto soccorso con due amici che lo sostenevano per le spalle, tutto sudato. Non era un gran giocatore di basket, non lo praticava dai tempi del liceo, ma si era lasciato convincere a partecipare a una partita di beneficenza, tre per squadra, mezzo campo, impegno minimo. Miracolosamente era riuscito a giocare due tempi. Poi, dopo un tiro in elevazione, si era accartocciato per terra, con il tendine d’Achille sinistro spezzato. La palla non era nemmeno entrata nel canestro: cornuto e mazziato, come si suol dire. Il dolore era stato lancinante. Il medico del pronto soccorso, dopo averlo visitato, aveva detto che il tendine era strappato e lo aveva mandato dall’ortopedico, cioè da Lila. Lei era entrata nella stanza con un vasetto di yogurt in mano e l’ultimo cucchiaino in bocca, aveva buttato tutto nel cestino della spazzatura e si era lavata le mani nel lavabo, senza nemmeno guardarlo. «Allora.» Si era asciugata le mani e aveva sbirciato velocemente prima la cartella clinica e poi lui, che era seduto sul lettino. Non era quella che Wolgast avrebbe definito una bellezza classica, ma aveva qualcosa che lo aveva colpito come un déjà vu. I capelli, color cacao, erano raccolti in una specie di chignon, tenuto su con un bastoncino. Aveva occhiali dalla montatura nera, molto piccoli, che le scivolavano sul naso stretto. “Sono la dottoressa Kyle. Si è fatto male giocando a pallacanestro?” Wolgast aveva annuito, imbarazzato. “Non sono propriamente un atleta.” In quel momento le era vibrato il palmare che teneva in vita. Lei aveva abbassato gli occhi, corrucciata. Poi, con calma precisione, aveva appoggiato un dito sul punto dolente dietro il terzo dito del piede sinistro. “Spinga verso il basso.” Wolgast ci aveva provato, ma il dolore era così forte che aveva temuto di svenire. “Che lavoro fa?” Wolgast aveva deglutito. “Sono nelle forze dell’ordine” aveva risposto a fatica. “Gesù, che male!” La dottoressa scriveva sulla cartella. “Forze dell’ordine” aveva ripetuto. “Polizia?” “FBI.” Wolgast aveva cercato un minimo di interesse negli occhi di lei, ma non ne aveva visto. Non aveva anelli alla mano sinistra. Non che significasse per forza qualcosa: forse si toglieva la vera per visitare i pazienti. “La mando a fare una risonanza” aveva detto. “Ma sono sicura al novanta per cento che il tendine è strappato.” “E quindi?”

Si era stretta nelle spalle. “E quindi dovrà essere operato e poi restare fermo otto settimane. Fra sei mesi sarà completamente guarito.” Aveva fatto un sorrisetto cupo. “Dovrà chiudere con il basket, temo.” Gli aveva dato un antidolorifico che gli aveva fatto venire subito sonno. Era stato portato a fare la risonanza, ma quasi non se ne era reso conto. Quando aveva riaperto gli occhi, Lila era ai piedi del suo letto. Qualcuno gli aveva messo addosso una coperta. Aveva guardato l’ora: erano quasi le nove di sera. Si trovava in ospedale da circa sei ore. “I suoi amici sono ancora qui?” “Ne dubito.” L’intervento era stato fissato per le sette del mattino seguente. Doveva riempire dei moduli, poi sarebbe stato accompagnato in camera. Voleva avvisare qualcuno? “No, grazie” aveva risposto lui, ancora intontito dal Vicodin. “Sarò patetico, ma non ho neppure un gatto.” Lei lo guardava con una certa ansia, come se aspettasse che le dicesse qualcos’altro. Stava per chiederle se si erano già visti da qualche parte quando Lila gli aveva fatto un bel sorriso. “Bene” aveva detto. Il loro primo appuntamento, due settimane dopo l’intervento di Wolgast, era stato alla tavola calda dell’ospedale. Wolgast, con le stampelle e un tutore che gli immobilizzava la gamba sinistra dal piede al ginocchio, aveva dovuto aspettare come un invalido che lei andasse a prendere da mangiare per tutti e due. Lila indossava il camice: faceva il turno di notte e sarebbe stata in ospedale fino alla mattina dopo. Si era truccata, però, rossetto e mascara, e si era pettinata con cura. Era nata e cresciuta vicino a Boston, aveva studiato medicina alla Boston University – orrendo, i quattro anni peggiori della sua vita, lo sarebbero stati per chiunque – e poi si era trasferita nel Colorado per specializzarsi in ortopedia. Pensava di star male in quella città senza volto così lontana da casa, invece no, era proprio il contrario: vivere a Denver era un sollievo. Le piaceva il modo in cui era cresciuta la città, con quartieri e strade che proliferavano in maniera caotica; le piacevano gli spazi aperti della pianura e le montagne indifferenti; le piaceva il fatto che la gente parlasse senza problemi e senza pretese, con grande disinvoltura, e che arrivassero tutti da fuori, esuli come lei. “Voglio dire, mi sembrava tutto così normale qui.” Stava spalmando del formaggio cremoso su un bagel: erano le otto di sera e lei faceva colazione. “Non sapevo che cosa fosse la normalità prima. Era quello che ci voleva a una ragazza di buona famiglia di Wellesley.” Wolgast si sentiva inferiore e glielo aveva detto. Lei era scoppiata a ridere, un po’ imbarazzata, e gli aveva sfiorato la mano. “Non devi.” Lavorava molte ore al giorno e vedersi per andare al ristorante o al cinema era impossibile. Wolgast era in malattia e passava le giornate a casa, sulle spine. Verso sera, andava all’ospedale in macchina e cenava con lei alla tavola calda. Lila gli parlava della sua infanzia a Boston, con i genitori insegnanti, della scuola, degli amici che frequentava, dei suoi studi, dell’anno che aveva trascorso in Francia perché si era messa in testa di fare la fotografa. Wolgast si era convinto che

aspettasse di trovare qualcuno per il quale tutto questo fosse nuovo. La ascoltava volentieri, gli piaceva essere quel qualcuno. Per un mese non si erano presi neppure per mano. Poi, una sera, dopo cena, Lila si era tolta gli occhiali, si era chinata verso di lui e gli aveva dato un lungo, tenero bacio. Aveva appena finito di mangiare un’arancia e sapeva di agrumi. “Ecco” aveva detto poi. “Tutto bene?” Si era guardata intorno con fare teatrale e abbassando la voce aveva aggiunto: “Voglio dire: in teoria sono il tuo medico”. “Mi sento già molto meglio” aveva risposto lui. Wolgast aveva trentacinque anni e Lila trentuno quando si erano sposati, un giorno di settembre, a Cape Cod, in un piccolo yacht club, su una baia tranquilla in cui ondeggiavano le barche a vela sotto un cielo di un azzurro già autunnale. Quasi tutti gli invitati erano parenti di Lila, che aveva una famiglia immensa, una sorta di grande tribù con innumerevoli zii, zie e cugini dei quali Wolgast non poteva neanche sperare di ricordare tutti i nomi. La metà delle ragazze sembrava essere stata compagna di stanza della sposa, in qualche periodo della sua vita, e non vedeva l’ora di rievocare avventure che alla fine erano tutte uguali. Wolgast non era mai stato così felice. Aveva bevuto troppo champagne e, in piedi su una sedia, aveva fatto un lungo discorso sdolcinato ma del tutto sincero che si era concluso con una interpretazione penosamente stonata di Embraceable You. Tutti avevano riso e applaudito, prima di salutarli sotto una pioggia di chicchi di riso. Se qualcuno sapeva che Lila era incinta di quattro mesi, non ne aveva fatto parola. Wolgast all’epoca lo aveva attribuito alla discrezione del New England, ma in seguito aveva capito che a nessuno importava: erano felici per loro e basta. Con i soldi di Lila – in confronto al suo stipendio quello di Wolgast era ridicolo – avevano comprato una casa a Cherry Creek, un vecchio quartiere con tanto verde e buone scuole, e avevano aspettato la nascita della figlia. Sapevano che era femmina. Eva era il nome di una nonna di Lila, un personaggio prodigioso che, secondo una leggenda di famiglia, era stata a bordo dell’Andrea Doria e aveva avuto una relazione con un nipote di Al Capone. Era stata Lila a suggerirlo e a Wolgast il nome era piaciuto subito. L’idea era che Lila lavorasse fino all’ultimo; dopo la nascita di Eva, lui avrebbe preso un anno di aspettativa, poi Lila avrebbe chiesto il parttime all’ospedale. Era un piano assurdo, che avrebbe causato un sacco di problemi, ma loro cercavano di non pensarci. Erano sicuri che sarebbero riusciti a trovare una soluzione a tutto. Alla trentaquattresima settimana di gravidanza a Lila era salita la pressione ed era dovuta stare a riposo. Aveva detto a Wolgast di non preoccuparsi: l’ipertensione non avrebbe messo in pericolo la salute della bambina. Era un medico, dopotutto: se ci fossero stati dei rischi, glielo avrebbe detto. Wolgast temeva che si fosse strapazzata, che avesse lavorato troppe ore in piedi in ospedale, ed era contento di averla a casa, di poterla viziare un po’, portandole da mangiare, film, libri e riviste. Poi, una sera, tre settimane prima della data prevista per il parto, Wolgast era tornato a casa e l’aveva trovata in lacrime, sul bordo del letto, con la testa fra le mani. Singhiozzava. “C’è qualcosa che non va.” In ospedale gli avevano detto che la pressione era 160 su 95 e che Lila soffriva di preeclampsia. Era per questo che aveva mal di testa. Temevano che potesse avere crisi convulsive e problemi ai reni e che ci fossero conseguenze negative per il feto. Erano tutti molto spaventati, soprattutto Lila. Era indispensabile indurre il parto, aveva spiegato il medico. Sarebbe stato

meglio se avesse partorito naturalmente ma, nel caso in cui il travaglio si fosse protratto troppo a lungo, dopo sei ore le avrebbero fatto il cesareo. Le avevano messo una flebo di pitocina e un’altra di solfato di magnesio per le convulsioni. A quel punto era mezzanotte passata. Il magnesio era fastidioso, aveva detto l’infermiera con irritante allegria. Fastidioso in che senso? Be’, era difficile da spiegare, però le avrebbe dato noia. Le avevano fatto anche un monitoraggio. E avevano aspettato. Fu terribile. Lila, sul letto, si lamentava, emettendo dei versi che Wolgast non aveva mai sentito e che lo scuotevano nel profondo. Era come avere tanti piccoli fuochi sottopelle, aveva detto Lila, come se il suo stesso corpo la detestasse. Non si era mai sentita così male. Se fosse il magnesio o la pitocina a farla stare così, Wolgast lo ignorava e nessuno rispondeva alle sue domande. Erano iniziate le contrazioni, forti e ravvicinate, ma l’ostetrica diceva che non era abbastanza dilatata. Due centimetri al massimo. Quanto sarebbe potuta andare avanti così? Avevano fatto il corso preparto, si erano preparati. Nessuno però aveva mai detto che sarebbe stato come assistere a un incidente stradale al rallentatore. Finalmente, appena prima dell’alba, Lila aveva annunciato che doveva spingere. Doveva, doveva, doveva. Nessuno credeva che fosse pronta, ma il medico aveva controllato e scoperto che, miracolosamente, aveva raggiunto i dieci centimetri di dilatazione. Tutti avevano cominciato a darsi un gran daffare, spostando carrelli, infilando guanti puliti, sistemando il letto per il parto. Wolgast si sentiva come una nave senza timone, inutile, in mezzo al mare. Aveva stretto la mano a Lila mentre lei spingeva una, due, tre volte. Di colpo, era tutto finito. Gli avevano porto un paio di forbici perché tagliasse il cordone ombelicale. Un’infermiera aveva messo Eva in un’incubatrice ed effettuato il test per stabilire l’indice di Apgar. Poi le aveva coperto la testa con una cuffietta, l’aveva avvolta in una copertina e data in braccio a Wolgast. Straordinario! Di colpo era passato tutto: il dolore, la paura, la preoccupazione. Nella stanza c’era un esserino nuovo di zecca. Nulla lo aveva preparato a quell’emozione tanto intensa, alla sensazione di tenere un neonato in braccio, sua figlia. Era piccola, pesava solo 2,260 grammi. Aveva la pelle calda e rosea, del colore delle pesche maturate al sole. Quando aveva avvicinato la faccia alla sua, aveva avvertito un odore lievemente affumicato, come se l’avessero appena tolta dal fuoco. Medici e infermieri erano intorno a Lila, ancora intontita dalle flebo, e la stavano ricucendo. Wolgast era rimasto stupito nel vedere il sangue per terra, scuro e viscido: nella confusione, non se ne era accorto. Ma Lila stava bene, aveva detto il medico. Wolgast le aveva mostrato la bambina e poi l’aveva tenuta in braccio a lungo, chiamandola dolcemente per nome, finché era venuto il momento di portarla alla nursery. Amy stava riprendendo le forze, ma la fotofobia non accennava a diminuire. In un casotto Wolgast trovò delle assi di legno, una scala, un martello, una sega e dei chiodi. Dovette tagliare le assi a mano, salire sulla scala e tenerle in posizione mentre le inchiodava, tuttavia riuscì a chiudere le finestre del primo piano. Dopo l’impresa di fuggire dai sotterranei del compound con Amy, che con il senno di poi gli pareva assolutamente impossibile, quello sforzo gli sembrò cosa da poco. Amy dormiva quasi tutto il giorno e la sera si svegliava per mangiare. Gli chiese dov’erano e lui le rispose che si trovavano nell’Oregon, in montagna, in un rifugio dove lui andava da bambino. Non gli domandò perché: o lo sapeva già, oppure non le interessava saperlo. Il serbatoio di propano del rifugio era quasi pieno. Wolgast cucinava poco, piatti veloci sulla stufa, minestre e stufati in scatola, cracker e cereali con latte in polvere. L’acqua che usciva dalla pompa della cucina aveva un lieve odore di zolfo, ma era potabile e così fredda che faceva male ai denti.

Wolgast si rese conto quasi subito di non aver portato abbastanza provviste: presto sarebbe dovuto scendere a valle a procurarsene altre. Trovò scatoloni pieni di vecchi libri nel seminterrato, una collana di classici, umidi e un po’ ammuffiti, e la sera, alla luce di una candela, li leggeva ad Amy: L’isola del tesoro, Oliver Twist, Ventimila leghe sotto i mari. A volte Amy usciva durante il giorno, se il cielo era coperto, e lo guardava tagliare la legna, riparare i buchi nel tetto o trafficare con il vecchio generatore a benzina che aveva trovato in uno dei casotti esterni. Si sedeva su un ceppo all’ombra, con gli occhiali da sole e un asciugamano sulla testa, tenuto fermo dal berretto, per ripararsi il collo. Ma non stava mai fuori tanto: dopo un’ora la pelle le si arrossava come dopo una doccia d’acqua bollente. Wolgast allora la rimandava in camera. Una sera, quando ormai stavano lì da quasi tre settimane, Wolgast la portò al lago a fare il bagno. A parte i rari momenti passati fuori a guardarlo lavorare, Amy non si era quasi mai avventurata all’aperto e mai così lontano. In fondo al sentiero c’era un molo traballante, lungo una decina di metri. Wolgast si spogliò, rimanendo in mutande, e disse ad Amy di fare lo stesso. Aveva portato asciugamani, shampoo e una saponetta. «Sai nuotare?» Amy fece di no con la testa. «Va bene. Ti insegno io.» La prese per mano e la condusse nel lago. L’acqua era freddissima. Si spinsero dove era più profonda e ad Amy arrivava al torace. Wolgast la prese in braccio e, tenendola in posizione orizzontale, le insegnò a muovere braccia e gambe. «Lasciami andare» disse lei a un certo punto. «Sicura?» Amy respirava velocemente. «Sì.» La lasciò andare e lei andò a fondo come un sasso. Wolgast vide nell’acqua limpida che aveva smesso di muoversi, teneva gli occhi aperti e si guardava intorno come un animale che esamina un nuovo habitat. Poi, con grazia sorprendente, tese le braccia e le aprì, ruotando le spalle e fendendo l’acqua come una rana. Batté i piedi e in un istante scivolò lungo il fondo sabbioso e sparì. Wolgast stava per tuffarsi a riprenderla quando la vide riemergere un po’ più in là, dove non toccava. Sorrideva felice. «È facile» disse muovendo le gambe. «È come volare.» Wolgast, senza parole, rise. «Fa’ attenzione a...» Ma, prima che potesse continuare, Amy aveva preso un bel respiro e si era rituffata sott’acqua. Wolgast le insaponò i capelli e le spiegò che doveva lavarsi anche tutto il resto. Quando uscirono dall’acqua, il cielo era passato dal viola al nero e centinaia di stelle si riflettevano sulla superficie immobile del lago. Non si udiva suono, a parte le loro voci e il lieve sciabordio dell’acqua sulla riva. Wolgast fece strada con la torcia. Mangiarono minestra e cracker in cucina, poi lui l’accompagnò in camera. Sapeva che sarebbe stata sveglia per ore: ormai Amy viveva di notte e anche Wolgast ci si stava abituando. A volte stava sveglio fin quasi all’alba a leggerle libri.

«Grazie» disse Amy, mentre lui si sedeva con Anna dai capelli rossi. «E di che?» «Di avermi insegnato a nuotare.» «Non ne avevi bisogno. Te lo aveva già insegnato qualcun altro.» Amy rifletté su quelle parole con un’espressione sbigottita. «Non credo proprio.» Wolgast non sapeva come interpretare la sua reazione. Amy era un mistero, sotto molti punti di vista. Sembrava stesse bene. Più che bene, per la verità. Qualsiasi cosa le avessero fatto al compound, qualunque fosse il virus che le era stato inoculato, doveva averlo neutralizzato. La storia della luce era un po’ strana, però. E non solo quella: non le crescevano i capelli, per esempio. A Wolgast arrivavano già sul collo, ma Amy sembrava esattamente come quando era arrivata. Non le aveva dovuto nemmeno mai tagliare le unghie, né l’aveva vista farlo. E alcuni aspetti erano ancora più misteriosi: che cosa aveva ucciso Doyle e tutti gli altri nel Colorado? Chi era quell’essere sul cofano della macchina, che sembrava Carter ma non lo era? E cosa intendeva Lacey quando gli aveva affidato Amy dicendogli che avrebbe saputo cosa fare? Fino a quel momento era stato vero: non aveva mai avuto dubbi su come procedere. Ma le risposte a quelle domande continuavano a sfuggirgli. Quella sera, quando ebbe finito di leggere, disse ad Amy che la mattina dopo sarebbe sceso a valle. Gli sembrava che stesse abbastanza bene e potesse restare nel rifugio da sola un’ora o due. Avrebbe fatto presto: probabilmente sarebbe tornato prima che lei si svegliasse. «Lo so» disse Amy e Wolgast, di nuovo, non seppe come interpretare quelle parole. Uscì che erano appena passate le sette. Dopo essere stata tante settimane ferma lì a raccogliere polline, la Toyota emise un lungo rantolo di protesta quando Wolgast cercò di metterla in moto, ma dopo un po’ il motore si accese. La nebbia del mattino si stava alzando dal lago. Wolgast innestò la marcia e imboccò il lungo sterrato. Il centro abitato più vicino era a una cinquantina di chilometri di distanza, ma lui non aveva intenzione di andare così lontano. Se la Toyota si fosse rotta, sarebbe stato un pasticcio, sia per lui sia per Amy. E poi non aveva quasi più benzina. Ripercorse la strada che aveva fatto all’andata, fermandosi a ogni bivio per ricordare il percorso. Non incontrò altri veicoli, ma non era un fatto insolito in quel luogo tanto isolato. Tuttavia quella desolazione lo preoccupava. Il mondo in cui stava ritornando, per quanto brevemente, sembrava del tutto diverso da quello che aveva lasciato tre settimane prima. Poi vide l’insegna: MILTON’S – ALIMENTARI E ARTICOLI DI CACCIA E PESCA. All’andata, al buio, l’emporio gli era sembrato più grande. In realtà era una piccola costruzione a due piani di assi sbiadite dal sole. Una casetta nel bosco incantato, come nelle fiabe. Davanti non c’erano auto, ma sul retro era parcheggiato un vecchio furgone che doveva essere degli anni Novanta. Wolgast scese dalla Toyota e si avviò verso l’ingresso. Sulla veranda c’era una mezza dozzina di distributori di giornali, tutti vuoti tranne quello di “USA Today”. Vide il titolo sulla prima pagina, a caratteri cubitali. Ne prese una copia e si accorse che era composto da due soli fogli ripiegati. Si mise a leggere lì sulla veranda. COLORADO NEL CAOS Imperversa il virus assassino

Chiusi i confini dello Stato I primi casi anche in Nebraska, Utah e Wyoming. Il presidente dichiara lo stato di calamità nazionale e chiede ai cittadini di mantenere la calma di fronte a quella che definisce una “minaccia terroristica senza precedenti”. Washington, 18 maggio. Il presidente Hughes ha assicurato che saranno prese tutte le misure necessarie per arginare la diffusione di quella che viene ormai chiamata “febbre virale del Colorado” e per punire i responsabili dell’epidemia. «I nemici della libertà e i governi che irresponsabilmente li sostengono non si illudano di sfuggire alla giustificata ira degli Stati Uniti d’America» ha dichiarato il presidente nello Studio Ovale, nel primo messaggio alla cittadinanza dall’inizio della crisi, otto giorni fa. «Vi sono prove incontrovertibili del fatto che questa epidemia devastante non è opera della natura, ma di estremisti antiamericani operanti all’interno dei nostri confini e sostenuti da governi nemici» ha spiegato Hughes alla nazione angosciata. «Questo è un crimine non soltanto contro il popolo degli Stati Uniti, ma contro tutta l’umanità.» Il discorso del presidente è stato pronunciato il giorno successivo alla denuncia dei primi casi di contagio oltre i confini del Colorado e poche ore dopo che la Casa Bianca aveva proclamato lo stato di calamità nazionale e ordinato la chiusura dei confini. I voli interni e per l’estero sono stati sospesi e i trasporti sono nel caos, con migliaia di cittadini alla ricerca di un mezzo diverso per tornare a casa. Cercando di rassicurare la popolazione e nel contempo di mettere a tacere le critiche sempre più accese all’attuale governo, accusato di avere reagito con colpevole lentezza all’emergenza, Hughes ha invitato la nazione a prepararsi a una battaglia senza precedenti. «Questa sera vi chiedo di darmi la vostra fiducia, la vostra determinazione e le vostre preghiere» ha detto il presidente. «Non lasceremo nulla di intentato. Giustizia sarà fatta, e in tempi brevissimi.» Il presidente non ha specificato a quali gruppi o nazioni facesse riferimento e si è rifiutato di rivelare quali siano le prove di un coinvolgimento terroristico nell’epidemia. Il portavoce della presidenza, Tim Romer, ai reporter che gli chiedevano se fosse prevista una risposta militare all’emergenza ha replicato: «A questo punto non escludiamo nulla». In base alle dichiarazioni di esponenti dell’amministrazione del Colorado, sembra che i morti siano già cinquantamila. Non è chiaro se siano tutti vittime della malattia o se alcune persone siano state uccise dagli infettati, in preda a crisi di violenza. Il virus provoca vertigini, vomito e febbre altissima. Dopo una breve incubazione, che può essere di sei ore soltanto, l’esordio della malattia può essere caratterizzato da un incremento dell’aggressività e della forza fisica. «Alcuni contagiati impazziscono e manifestano istinti assassini» ha dichiarato un ufficiale sanitario del Colorado, che ha chiesto di restare anonimo. «Gli ospedali sono ormai zone di guerra.» La dottoressa Shannon Freeman, portavoce del CDC di Atlanta, ha minimizzato e messo in guardia dall’“isteria dilagante”, ma al tempo stesso ha ammesso che le comunicazioni con i funzionari all’interno della zona sottoposta a quarantena si sono interrotte.

«Sappiamo che la mortalità della malattia è alta, forse pari al cinquanta per cento» ha detto la dottoressa. «A parte questo, conosciamo ben poco. Il nostro consiglio per il momento è evitare il più possibile di uscire di casa.» La dottoressa Freeman ha confermato che ci sono stati casi di contagio in Nebraska, Utah e Wyoming, ma non ha voluto approfondire l’argomento. «Sembra che la malattia si stia diffondendo» ha dichiarato. «Chi teme di essere stato contagiato è pregato di presentarsi al più vicino pronto soccorso o posto di polizia. La nostra raccomandazione è questa.» Le città di Denver, Colorado Springs e Fort Collins, dove da martedì è in vigore la legge marziale, stasera erano praticamente deserte: i residenti hanno ignorato l’ordine del governatore Fritz Millay di chiudersi in casa e se ne sono andati in massa. Alcune fonti non confermate affermano che il dipartimento della Sicurezza interna abbia licenza di uccidere chiunque cerchi di varcare il confine e che unità della Guardia nazionale del Colorado abbiano cominciato a trasferire i malati verso destinazioni ignote. Non era finita lì, e Wolgast lesse e rilesse i vari articoli. Pareva che i contagiati venissero radunati e fucilati in massa: benché non fosse scritto espressamente, leggendo fra le righe appariva piuttosto chiaro. 18 maggio: quella copia era di tre, anzi, di quattro giorni prima. Lui e Amy erano arrivati al rifugio il 2 maggio. Tutto quello che il giornale descriveva era successo in poco più di dieci giorni. Sentì dei movimenti all’interno del negozio e capì di essere osservato. Si mise il giornale sottobraccio, si girò ed entrò. L’esercizio era piccolo, odorava di vecchio e di polvere ed era pieno fino al soffitto di ogni sorta di mercanzie: articoli da campeggio, vestiario, ferramenta, cibo in scatola. Sopra la porta del retrobottega, protetta da una tenda, c’era una testa di cervo. Wolgast si ricordò di quando andava lì a comprare caramelle e fumetti con un suo amichetto. Allora vicino alla porta c’era un espositore girevole con i fumetti dei Fantastici Quattro, di Batman e di Zio Tibia. Sullo sgabello dietro il bancone c’era un uomo grande e grosso, pelato, con una camicia di flanella a quadri e i jeans tenuti su da un paio di bretelle rosse. Intorno alla vita aveva un cinturone di cuoio con un revolver .38. Si salutarono con un cenno del capo. «Il giornale viene due dollari» fece l’uomo. Wolgast prese due banconote e le mise sul bancone. «Più recenti non ne ha?» «È l’ultimo che ho visto» replicò l’uomo riponendo i soldi nel registratore di cassa. «Quello che me li porta non viene da martedì.» Significava che era venerdì. Non che fosse importante. «Ho bisogno di un po’ di provviste» disse Wolgast. «E di munizioni.» L’uomo lo squadrò e aggrottò la fronte. «Per cosa?» «Springfield A .45.» L’uomo tamburellò sul bancone. «Vediamola. Tanto lo so che ce l’ha.»

Wolgast tirò fuori la pistola dalla cintura dei pantaloni. Era quella che Lacey aveva lasciato sulla Lexus. Era scarica. Wolgast non sapeva se fosse stata lei o qualcun altro a sparare tutti i colpi. Forse glielo aveva anche detto, ma lui non se ne ricordava. In quella confusione era difficile ricostruire tutto. In ogni caso conosceva quella pistola: la Springfield era una delle armi d’ordinanza dell’FBI. Sbloccò il caricatore e arretrò il carrello otturatore per mostrare che era scarica. Poi la posò sul bancone. L’uomo la prese in mano e la guardò con attenzione. Wolgast capì, dal modo in cui la girava sotto la luce, che se ne intendeva. «Castello di tungsteno, eiettore obliquo, percussore in titanio con ritorno breve del grilletto. Bell’oggetto.» Guardò Wolgast, pieno di aspettativa. «Se non sapessi che è impossibile, direi che lei è un federale.» Wolgast fece la faccia più innocente che poté. «Diciamo che lo sono stato. In una vita precedente.» L’uomo fece un sorrisetto triste e depose la pistola sul bancone. «Una vita precedente, eh?» Scosse la testa, disilluso. «Mi sa che ce l’abbiamo tutti. Vado a vedere.» Scostò la tenda, s’infilò nel retrobottega e tornò un momento dopo con una piccola scatola di cartone. «Sono tutte le munizioni .45 ACP che ho. Le tengo per uno che lavorava all’ATF, che adesso è in pensione e va nel bosco con una confezione da dodici bottiglie e le usa come bersaglio a mano a mano che le vuota. Le chiama le “giornate del riciclaggio”. È un pezzo che non lo vedo, però. Lei è la prima persona che entra in negozio da una settimana a questa parte. Le prenda pure.» Posò la scatola sul bancone: conteneva cinquanta proiettili a punta cava. La indicò con un cenno del capo. «Lì dentro non servono a niente. Li prenda, carichi la sua arma, se vuole.» Wolgast cominciò a riempire il caricatore. «Sa dove ne posso trovare altri?» «Se non va a Whiteriver, non so proprio.» Si toccò lo sterno due volte, con l’indice. «Dicono che bisogna mirare qui. Basta un colpo e cadono come mosche. Altrimenti, cade lei.» Lo disse in tono piatto, senza soddisfazione e senza paura, come se avesse parlato del tempo. «Non importa se era la tua dolce e cara nonnina: adesso ti succhia tutto il sangue prima che tu riesca a prendere la mira una seconda volta.» Wolgast finì di caricare la pistola e controllò la sicura. «Dove lo ha sentito?» «Lo dicono dappertutto. È anche su internet.» Si strinse nelle spalle. «Sostengono che è stato un complotto, o che il governo vorrebbe insabbiare tutto; parlano di vampiri e dicono un sacco di sciocchezze. Difficile discernere fra le cose vere e le stronzate.» Wolgast si rimise la pistola nei calzoni, dietro la schiena. Meditò di chiedere al negoziante il permesso di usare un attimo il suo computer per leggere le ultime notizie, ma decise che ne sapeva già più che abbastanza. Forse più di qualsiasi altra persona ancora in vita. Aveva visto Carter e gli altri, era consapevole di cosa erano in grado di fare. «Le racconterò una cosa. C’è uno che si fa chiamare l’“Ultimo Baluardo di Denver” e si è barricato in un grattacielo con un fucile ad alta potenza. Ha creato un video blog: ci sono dei filmati che non le dico... Dovrebbe vedere come si muovono quei bastardi.» Si toccò di nuovo lo sterno. «Si ricordi cosa le ho detto: un colpo solo, perché di spararne due non c’è il tempo. Si muovono di notte, sugli alberi.» Aiutò Wolgast a mettere insieme un po’ di provviste e a caricarle in macchina: scatolame, latte,

caffè in polvere, batterie, carta igienica, candele, carburante, due canne da pesca e una scatola di ami. Il sole era alto e caldo e l’aria sembrava assolutamente immobile, come nell’istante di silenzio prima che l’orchestra attacchi a suonare. I due si strinsero la mano dietro la macchina. «Lei è su al Bear Mountain, vero?» domandò l’uomo. «Se non le spiace che glielo chieda.» Wolgast non vide il motivo di tenerglielo nascosto. «Come fa a saperlo?» «Perché viene da quella parte» rispose l’uomo con un’alzata di spalle. «Non c’è altro lassù, a parte il campo. Non so come mai non sono riusciti a venderlo.» «Ci andavo da bambino. Strano: non è cambiato per niente. Ma forse da queste parti è sempre così.» «È stato intelligente a scegliersi quel posto. Tranquillo, non lo dirò a nessuno.» «Dovrebbe trovarsi un rifugio anche lei» suggerì Wolgast. «Più in alto, o più a nord.» L’uomo stava prendendo una decisione: Wolgast glielo lesse negli occhi. «Venga» gli disse dopo un po’. «Le faccio vedere una cosa.» Lo accompagnò dentro il negozio e oltre la tenda. Abitava lì. Le persiane erano chiuse e l’aria odorava di chiuso. Vicino alla finestra c’era un condizionatore che ronzava. Wolgast si fermò sulla porta, lasciando che i suoi occhi si abituassero alla penombra. Al centro della stanza c’era un grande letto tipo ospedale su cui era distesa una donna che dormiva. Il cuscino era sollevato a quarantacinque gradi e Wolgast le vide il volto tirato, rivolto verso la luce che filtrava dalle finestre chiuse. Era coperta da un lenzuolo, ma Wolgast si accorse che era pelle e ossa. Sul comodino c’erano decine di flaconi di medicinali, garze, pomate, una bacinella cromata e siringhe usa e getta. Vicino al letto c’era anche una bombola di ossigeno di un verde pallido. La donna aveva i piedi scoperti, nudi, con dei batuffoli di cotone fra le dita giallastre. Sulla seggiola in fondo al letto c’erano una lima per unghie e boccette di smalto colorato. «Si curava sempre i piedi. Ci teneva» disse l’uomo sottovoce. «Le stavo facendo la pedicure quando è arrivato lei.» Wolgast non sapeva cosa dire. Era ovvio che quei due non sarebbero andati da nessuna parte. Tornarono fuori, alla luce forte del sole. «Sclerosi multipla» spiegò il negoziante. «Speravo di tenerla a casa il più possibile. C’eravamo messi d’accordo così quando lo scorso inverno ha cominciato a peggiorare. Fino a poco tempo fa passavano gli infermieri, ma adesso è un po’ che non viene più nessuno.» Spostò i piedi sulla ghiaia e si schiarì la voce. «Non credo che l’assistenza domiciliare esista più, ormai.» Wolgast si presentò e l’uomo disse che si chiamava Carl e sua moglie Martha. Avevano due figli grandi, uno in California e l’altro in Florida. Carl per un po’ aveva fatto l’elettricista alla Oregon State University a Corvallis, ma poi aveva comprato l’emporio e si erano trasferiti lì. «Posso fare qualcosa per lei?» chiese Wolgast. Si erano già stretti la mano, ma se la strinsero di nuovo. «Non si lasci ammazzare» rispose Carl. Mentre tornava al campo, Wolgast pensò improvvisamente a Lila e si lasciò andare a ricordi di

un altro tempo, di un’altra vita, una vita che ormai non esisteva più, né per lui né per nessun altro. Pensare a Lila era un modo per prendere congedo, per dire addio.

16 Quando cominciarono gli incendi, era agosto e le giornate erano lunghe e asciutte. Wolgast sentì odore di fumo un pomeriggio, mentre lavorava davanti a casa, e il mattino dopo l’aria era spessa e acre. Salì sul tetto per guardare, ma vide solo il lago e tutto intorno alberi e montagne. Il fumo poteva viaggiare per centinaia di chilometri, portato dal vento. Era da oltre due mesi che non scendeva a valle, dal giorno in cui era andato a fare provviste all’emporio. Lui e Amy avevano trovato una loro routine: Wolgast dormiva fin quasi a mezzogiorno e poi lavorava fino al crepuscolo; dopo la cena e una nuotata, lui e Amy stavano alzati mezza nottata, a leggere o a fare giochi da tavolo, come passeggeri di una lunga traversata per mare. Wolgast aveva trovato una scatola di giochi in uno dei bungalow: c’erano Monopoli, Pachisi, una scacchiera... Per un po’ aveva lasciato vincere la bambina, poi si era reso conto che non ce n’era bisogno. Amy dimostrava una certa astuzia nel gioco, soprattutto a Monopoli: comprava proprietà su proprietà, calcolando rapidamente i profitti che le avrebbero procurato, e contava i soldi con gusto. Parco della Vittoria, viale dei Giardini, piazza Giulio Cesare: che significato avevano i nomi di quelle strade per lei? Una sera, mentre le stava rileggendo Ventimila leghe sotto i mari – su richiesta di Amy –, lei gli prese di mano il libro e alla luce traballante della candela cominciò a leggere ad alta voce. Non incespicava neppure sulle parole più difficili, non si impappinava per la sintassi contorta e vecchio stile. Mentre girava la pagina, Wolgast, sbigottito, le chiese dove aveva imparato. «Be’» rispose Amy «lo abbiamo già letto. Forse me lo ricordo.» Il mondo lontano dal rifugio diventava un ricordo sempre più distante ogni giorno che passava. Wolgast non era mai riuscito a far partire il generatore – aveva sperato di usare la radio a onde corte – e aveva smesso di provarci. Se stava succedendo quello che pensava, era meglio non saperlo. A cosa gli sarebbero servite le informazioni? Dove altro sarebbero potuti andare? Adesso, però, i boschi bruciavano, portando da ovest un muro di fumo asfissiante. Il pomeriggio del giorno successivo Wolgast capì chiaramente che dovevano muoversi, che l’incendio stava avanzando verso di loro: se avesse superato il fiume, nulla lo avrebbe più potuto fermare. Caricò la Toyota e mise Amy sul sedile del passeggero, avvolta in un plaid. Aveva preso uno straccio bagnato per uno, da mettere sulla bocca e sugli occhi se l’aria fosse diventata irrespirabile. Non avevano ancora fatto cinque chilometri che videro le fiamme. La strada era bloccata dal fumo, l’aria era un muro tossico e invalicabile. Soffiava un forte vento che spingeva il fuoco verso di loro. Andare avanti era impensabile: dovevano per forza tornare indietro. Wolgast non sapeva quanto tempo avrebbe impiegato l’incendio a raggiungerli e non aveva modo di bagnare il tetto del rifugio. Non restava che aspettare. Le finestre ben chiuse li proteggevano dal fumo, ma verso sera iniziarono a tossire e facevano fatica a respirare. In uno dei bungalow aveva visto una canoa. La portò a riva e andò di sopra a prendere Amy. Poi pagaiò fino al centro del lago e guardò le fiamme che devastavano la montagna avanzando verso il rifugio. Era uno spettacolo incredibile, come se si fossero spalancate le porte dell’inferno. Amy si appoggiava a lui sul fondo della canoa: se aveva paura, non ne dava segno. Non c’era altro da fare. L’energia lo abbandonò e, nonostante gli paresse impossibile, Wolgast si addormentò.

La mattina si svegliò e vide che il rifugio era ancora in piedi. Il rogo non aveva superato il fiume. Il vento doveva essere cambiato durante la notte e avere spinto le fiamme verso sud. L’aria era ancora pesante, ma il pericolo era passato. Quel pomeriggio si sentì un forte rombo di tuono, come se qualcuno facesse vibrare un’enorme lastra di metallo sopra le loro teste, e poco dopo li investì un acquazzone che durò tutta la notte. Wolgast non riusciva a credere alla loro fortuna. Il giorno successivo decise di usare il poco carburante che gli restava per scendere a controllare come se l’erano cavata Carl e Martha. Quella volta portò Amy con sé. Dopo l’incendio si era ripromesso di non lasciarla mai più sola. Aspettò il crepuscolo e si mise in viaggio. L’incendio era arrivato vicinissimo. A poco più di un chilometro dall’ingresso del campo, del bosco restavano solo rovine fumanti; la terra era nera e nuda come dopo una terribile battaglia. Dalla strada si vedevano carcasse di animali, non solo piccoli come opossum e procioni, ma anche cervi, antilopi e persino un orso. Era rannicchiato su se stesso ai piedi di un albero carbonizzato, come se avesse cercato di infilare il muso in qualche sacca d’aria respirabile ma non ce l’avesse fatta. Il negozio era ancora lì, indisturbato. Le luci erano tutte spente, ma era prevedibile che la corrente fosse saltata. Wolgast disse ad Amy di aspettarlo in macchina. Prese una torcia e salì sulla veranda. La porta era chiusa. Bussò, sempre più forte. Chiamò Carl. Nessuna risposta. Alla fine ruppe un vetro con la torcia. Carl e Martha erano morti. Erano distesi vicini nel letto d’ospedale, con Carl che abbracciava Martha da dietro. Pareva dormissero. Forse era stato il fumo a soffocarli. Ma qualcosa nell’aria gli fece pensare che fosse successo molto prima. Sul comodino, accanto a una mezza bottiglia di scotch, c’era un giornale piegato, sottile come quello che aveva visto quando era stato lì. Wolgast preferì non guardare il titolo, urlante, enorme. Si mise il giornale in tasca per leggerlo in un secondo tempo. Rimase un attimo ai piedi del letto a guardare i due cadaveri, poi chiuse la porta e, per la prima volta, pianse. Il furgone di Carl era ancora parcheggiato sul retro del negozio. Dopo aver tagliato un pezzo di tubo di gomma, Wolgast avvicinò la Toyota e travasò il carburante da un serbatoio all’altro. Non sapeva a cosa sarebbe potuto servire, ma la stagione degli incendi era tutt’altro che finita. Era stato un errore lasciarsi prendere alla sprovvista: ci avevano quasi lasciato la pelle. Finito di riempire il serbatoio dell’auto, versò il resto del carburante in una tanica vuota che aveva trovato in uno dei casotti del rifugio. Amy lo aiutò a fare provviste nel negozio. Presero cibarie, batterie e propano, misero tutto in grosse scatole e le caricarono sulla macchina. Poi Wolgast tornò nella stanza dov’erano Carl e la moglie e, con grande delicatezza, sfilò la .38 dalla fondina dell’uomo. Alle prime ore del mattino, quando Amy si fu finalmente addormentata, Wolgast tirò fuori il giornale dalla tasca della giacca. Era composto da un foglio soltanto, datato 10 luglio, quasi un mese prima. Chissà come se lo era procurato Carl. Probabilmente era andato in macchina a Whiteriver e al ritorno, dopo aver letto e visto come si stavano mettendo le cose, aveva deciso di farla finita. La casa era piena di medicinali: non doveva essere stato difficile. Wolgast aveva infilato il giornale in tasca per paura, ma anche perché sapeva con certezza quali notizie vi avrebbe trovato. Solo i particolari avrebbero potuto sorprenderlo. CHICAGO CAPITOLA Il “virus dei vampiri” raggiunge la Costa Orientale.

Milioni di morti. La linea della quarantena si sposta a est, verso la parte centrale dell’Ohio. La California approva la secessione dagli Stati Uniti e dichiara di volersi difendere da sola. L’India minaccia un attacco nucleare “limitato” contro il Pakistan. Washington, 10 luglio – Oggi il presidente Hughes ha ordinato ai militari di abbandonare Chicago dopo una notte di ingentissime perdite. Esercito e Guardia nazionale hanno infatti riportato una gravissima sconfitta a opera di un nutrito contingente di infetti, che ha occupato la città. «Abbiamo perso una delle più grandi città americane» ha dichiarato Hughes in un comunicato stampa. «Preghiamo per gli abitanti di Chicago e per i combattenti che hanno dato la vita per difenderli. Il ricordo del loro sacrificio ci sosterrà nelle battaglie che ci aspettano.» L’attacco è stato sferrato al calare della notte, quando le forze statunitensi lungo l’anello sud hanno riferito che appena fuori dal centro città si stava ammassando una guarnigione ragguardevole. «Si è chiaramente trattato di un attacco organizzato» ha detto il generale Carson White, al comando della Zona di Quarantena Centrale, che ha parlato di “inquietanti sviluppi” a proposito dei fatti della scorsa notte. Martedì mattina White ha riferito ai giornalisti che era stato stabilito un nuovo perimetro difensivo sulla Route 75, da Toledo fino a Cincinnati. «Il nostro Rubicone» ha annunciato. Quando gli è stato chiesto di commentare le voci secondo le quali moltissimi militari starebbero abbandonando le loro postazioni, White ha sostenuto di non saperne nulla e ha definito “irresponsabile” chi mette in giro simili chiacchiere. «Non ho mai avuto l’onore di combattere a fianco di uomini e donne più coraggiosi» ha poi dichiarato. Sono stati denunciati nuovi casi di contagio a Tallahassee (Florida), Charleston (South Carolina), Helena (Montana) e Flagstaff (Arizona), ma anche nell’Ontario meridionale e nel Messico settentrionale. I morti, secondo le stime della Casa Bianca e del Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie, superano i trenta milioni. Il Pentagono afferma che il numero degli infetti attualmente si aggira intorno ai tre milioni. Aree estese di Saint Louis, abbandonata domenica scorsa, stanotte erano in fiamme. Lo stesso sembra sia avvenuto a Memphis, Tulsa e Des Moines. Alcuni osservatori a terra hanno riferito di avere visto aeromobili sorvolare a bassa quota il famoso arco della città poco prima che divampasse l’incendio e le fiamme devastassero il centro. Le voci secondo le quali questi roghi sarebbero un tentativo di disinfettare le principali città della Zona di Quarantena Centrale da parte delle autorità federali non hanno finora avuto conferma. La benzina scarseggia in tutto il paese e le direttrici di trasporto continuano a essere intasate dai cittadini che cercano di fuggire al diffondersi dell’epidemia. Anche i viveri cominciano a scarseggiare, così come garze, antibiotici e medicinali in genere.

Molti profughi si sono ritrovati senza un posto dove andare e senza mezzi per proseguire il loro esodo. «Siamo bloccati qui insieme a tanti altri» ha dichiarato David Callahan davanti a un McDonald’s a est di Pittsburgh. Callahan era partito con la moglie e i due figli piccoli da Akron, nell’Ohio, e per compiere un viaggio che normalmente avrebbe richiesto due ore di macchina ne ha impiegate oltre venti. Avendo quasi esaurito il carburante, Callahan si è fermato a una stazione di servizio alla periferia di Monroeville, ma ha scoperto che le pompe erano a secco e che il bar da due giorni aveva finito le scorte di generi alimentari. «Volevamo andare da mia madre a Johnstown, ma abbiamo saputo che ormai il virus è arrivato anche là» ha detto Callahan, mentre un convoglio di cinquanta mezzi militari passava sulla corsia vuota in direzione ovest. «Non si sa più dove andare» ha aggiunto. «Ormai questi sono dappertutto.» Sebbene al di fuori di Stati Uniti, Canada e Messico non siano ancora stati riferiti casi di contagio, molti paesi esteri si stanno attrezzando per l’emergenza. Italia, Francia e Spagna hanno chiuso i confini e altre nazioni europee hanno vietato i viaggi fra una città e l’altra e accumulato ingenti scorte di farmaci. L’assemblea generale delle Nazioni Unite, che si è riunita per la prima volta all’Aia dopo avere abbandonato la sede di New York all’inizio della settimana scorsa, ha approvato la cosiddetta “Quarantena Internazionale”, che vieta a qualsiasi mezzo di trasporto navale e aereo di avvicinarsi a più di duecento miglia dal continente nordamericano. In tutti gli Stati Uniti, chiese e sinagoghe riferiscono che l’affluenza dei fedeli è aumentata e milioni di cittadini si sono raccolti in preghiera. Nel Texas, dove il virus ormai è dilagante, il sindaco di Houston Barry Wooten, autore di best-seller ed ex capo spirituale della Chiesa della Bibbia del Sacro Splendore, la più grande di tutta la nazione, ha dichiarato che la sua città è “la porta del cielo” e ha esortato i residenti e i rifugiati a raccogliersi nello stadio cittadino per prepararsi a quella che ha definito “la nostra ascensione al trono di Dio, non come mostri, ma come figli di Nostro Signore”. In California, dove il virus non sembra essere ancora arrivato, la Camera dei rappresentanti e il Senato dello Stato si sono riuniti ieri sera in sessione straordinaria per approvare in fretta e furia una Dichiarazione di secessione, che decreta il recesso da qualsivoglia vincolo federale da parte dello Stato californiano e dichiara la California nazione sovrana. Per prima cosa, la presidente della repubblica californiana, l’ex governatrice Cindy Shaw, ha decretato che tutte le forze armate e militari dello Stato d’ora in avanti faranno capo alla Guardia nazionale della California. «Ci difenderemo da soli, com’è diritto di ogni nazione» ha dichiarato la presidente Shaw fra gli applausi. «La California, con tutto ciò che rappresenta, resisterà.» La reazione della Casa Bianca nelle parole del portavoce Tim Romer: «È un’assurdità. Questo è il momento meno adatto per le secessioni: i governi locali non possono farsi carico del benessere degli americani. Per noi la California fa ancora parte degli Stati Uniti». Romer ha inoltre dichiarato che le forze armate e militari californiane che dovessero interferire con le operazioni di soccorso federali andranno incontro a gravissime sanzioni. «Sia chiaro» ha detto Romer «i disertori saranno puniti.» Mercoledì la Repubblica di California era già stata riconosciuta dai governi svizzero e finlandese,

dalla piccola Repubblica di Palau nel Pacifico meridionale e dal Vaticano. In risposta al ritiro delle truppe statunitensi dall’Asia meridionale, il governo indiano ha reiterato il proprio proposito di ricorrere alle testate nucleari contro le forze ribelli nel Pakistan orientale. «È il momento migliore per contenere la diffusione dell’estremismo islamico» da detto al parlamento il primo ministro Suresh Mitra. Dunque la situazione era questa, pensò Wolgast. Erano arrivati a quel punto. Gli venne in mente un’espressione che aveva sentito usare in aeronautica per spiegare come un aereo poteva precipitare in una giornata perfettamente limpida. OBE – Overcome By Events – “travolto dagli eventi”. Era quanto stava succedendo in quel momento. Il mondo, tutta l’umanità erano stati travolti dagli eventi. “Si prenda cura di lei. Amy è nelle sue mani” gli aveva detto Lacey. Pensò a Doyle, che gli aveva consegnato le chiavi della Lexus, a Lacey che gli aveva dato un bacio su una guancia, a Doyle che correva urlando: “Andate, andate!” e poi a Lacey che saltava giù dalla macchina e chiamava a sé le stelle... Era così che Wolgast le vedeva: stelle umane, ardenti di luce letale. Il tempo del riposo era finito. Di notte Wolgast sarebbe stato sveglio, con la .38 di Carl in una mano e la Springfield nell’altra. Faceva fresco, la temperatura era scesa intorno ai dieci gradi, e quando era tornato dall’emporio aveva acceso la stufa. Prese il giornale, lo piegò in quattro, poi in otto e poi in sedici. Aprì lo sportello della stufa e lo buttò tra le fiamme, guardando con stupore quanto faceva presto a ridursi in cenere.

17 L’estate finì, giunse l’autunno e il mondo li lasciò soli. La prima neve cadde l’ultima settimana di ottobre. Wolgast stava tagliando la legna davanti a casa quando vide con la coda dell’occhio i primi fiocchi, grasse piume leggere come polvere. Si era messo in maniche di camicia per lavorare, ma quando si fermò, alzò la faccia e sentì il freddo sulla pelle sudata, si rese conto che era arrivato l’inverno. Affondò l’accetta in un ciocco di legno e tornò in casa. Chiamò Amy da sotto. La bambina apparve in cima alla scala. La sua pelle, mai esposta al sole, era bianca come porcellana. «Hai mai visto la neve?» «Non so. Forse.» «Sta nevicando.» Wolgast rise e sentì la gioia nella propria voce. «Vieni a vedere.» Quando ebbe finito di vestirla, con giaccone, stivali, occhiali scuri e berretto, e di spalmarle la crema solare sul viso, la neve aveva cominciato a scendere fitta fitta. Amy uscì in quel biancore vorticante con gesti solenni, come un esploratore che metta piede per la prima volta su un pianeta. «Cosa te ne pare?» Amy inclinò la testa da una parte e tirò fuori la lingua per assaggiare i fiocchi. Fu un gesto istintivo. «Mi piace» rispose. Avevano legna da bruciare, cibo e un tetto sopra la testa. Wolgast era tornato altre due volte all’emporio Milton’s all’inizio dell’autunno, sapendo che d’inverno la strada sarebbe stata impraticabile, e aveva preso tutti i generi alimentari rimasti. Se avesse razionato con intelligenza scatolette, latte in polvere, riso e fagioli secchi, sarebbe riuscito a farli durare fino alla primavera. Il lago era pieno di pesci e in un bungalow aveva trovato una trivella: pescare non sarebbe stato difficile neanche dopo che il lago fosse ghiacciato. Il serbatoio di propano era mezzo pieno. Quindi benvenuto inverno, pensò, e si abbandonò ai suoi ritmi. Fino a quel momento non era arrivato nessuno a disturbarli: era come se il mondo li avesse dimenticati. Adesso sarebbero rimasti chiusi insieme lì nel rifugio, al sicuro. La mattina dopo la coltre di neve era alta parecchi centimetri e il sole brillava fra le nuvole, luminosissimo. Wolgast passò il pomeriggio a scavare un passaggio dal rifugio alla legnaia e un altro fino al bungalow che intendeva usare come ghiacciaia, ora che era arrivato il freddo. Viveva ormai quasi esclusivamente di notte, perché era più facile adattarsi ai tempi di Amy, e il sole sulla neve, un’esplosione di luce che era costretto a fissare, lo abbagliava. Forse per Amy anche la luce normale era così, fastidiosa e accecante. Quando scese il crepuscolo, uscirono insieme. «Ti insegno a disegnare gli angeli nella neve» disse Wolgast. Si sdraiò per terra, sotto il cielo brillante di stelle. All’emporio aveva preso una scatola di cacao che aveva tenuto nascosta ad Amy pensando di usarla in un’occasione speciale. Quella sera avrebbero messo i vestiti fradici ad asciugare sulla stufa e poi si sarebbero seduti al calduccio a bere una bella cioccolata calda. «Muovi gambe e braccia. Così.»

Amy si sdraiò vicino a lui, con il corpicino leggero e agile di una ginnasta, e mosse gambe e braccia come le aveva fatto vedere. «Che cosa sono gli angeli?» domandò. Wolgast ci pensò su un attimo. Non ne avevano mai parlato. «Specie di spiriti, immagino.» «Tipo Jacob Marley?» Avevano letto Canto di Natale. Anzi, era stata Amy a leggerlo a lui. Da quella notte d’estate in cui Wolgast aveva capito che Amy sapeva leggere, e molto bene, con sentimento ed espressione, l’aveva sempre lasciata fare, limitandosi ad ascoltare. «Più o meno. Ma non fanno altrettanta paura.» Erano ancora distesi vicini nella neve. «Gli angeli sono... Be’, diciamo che sono spiriti buoni, che vegliano su di noi dal cielo. Molta gente è convinta di questo.» «Tu ci credi?» Lo prese alla sprovvista con quella domanda. Wolgast non si era mai abituato ai modi diretti di Amy. Da una parte la sua mancanza di inibizioni gli sembrava una caratteristica infantile, dall’altra nelle sue affermazioni e domande trovava spesso un’acutezza molto saggia. «Non lo so. Mia madre, sì, ci credeva. Era molto religiosa, molto devota. Mio padre meno. Era un brav’uomo, ma faceva l’ingegnere, era più razionale.» Per un attimo rimasero in silenzio. «È morta, lo so» disse Amy a bassa voce. Wolgast si tirò su a sedere e vide che aveva gli occhi chiusi. «Chi, Amy?» Ma nel momento stesso in cui glielo chiedeva si rese conto che sapeva a chi si riferiva: “Mia madre. Mia madre è morta”. «Non me la ricordo» aggiunse Amy con voce impassibile, come se gli stesse dicendo qualcosa che lui sicuramente sapeva già. «Ma so che è morta.» «E come fai a saperlo?» «Lo sento.» Gli occhi di Amy incontrarono quelli di Wolgast, nel buio. «Li sento tutti.» A volte, appena prima dell’alba, Amy sognava. Wolgast la sentiva parlare nel sonno dalla stanza accanto, udiva il cigolio della rete ogni volta che si girava, inquieta. Borbottava, come se voci diverse disturbassero il suo sonno. A volte si alzava e scendeva di sotto, nella stanza più grande, quella con le ampie finestre che davano sul lago. Wolgast la guardava dalle scale. Amy restava lì qualche minuto, nel bagliore e nel tepore vicino alla stufa, rivolta verso le finestre. Era sonnambula e Wolgast stava attento a non svegliarla. Dopo un po’ la bambina si voltava, saliva di nuovo di sopra e tornava a letto. “Come fai a sentirli, Amy?” le chiedeva. “Che cosa senti?” “Non lo so” rispondeva lei. “Non lo so. Sono tanti, tristi, hanno dimenticato chi erano.” “Chi erano, Amy?” “Chiunque. Tutti.” Wolgast ormai dormiva al pianterreno, su una poltrona rivolta verso la porta. Carl gli aveva

detto che si muovevano di notte, sugli alberi, e che si aveva un solo colpo a disposizione, dopodiché si era perduti. Ma cos’erano? Persone come Carter, che un tempo era stato un uomo? In che cosa si erano trasformati? E Amy, che sognava voci, alla quale non crescevano i capelli, che dormiva poco o niente – perché lui se n’era accorto: faceva soltanto finta di dormire – che quasi non mangiava, che imparava a leggere e a nuotare come se ricordasse vite ed esperienze diverse dalla propria? Anche lei era come loro? Fortes aveva detto che il virus era inerte. E se non lo fosse stato? Si sarebbe ammalato anche Wolgast? Però lui si sentiva bene, come sempre; era solo un po’ frastornato, come un uomo che vive un sogno, che si è perduto in un mondo dai significati per lui incomprensibili, dagli scopi ignoti. Poi, una notte di marzo, sentì un motore. La neve era pesante, profonda, la luna piena. Si era assopito sulla poltrona e si accorse di aver udito un motore lungo la strada che portava al rifugio. Nel sogno – un incubo, piuttosto – quel rumore era diventato l’urlo delle fiamme nei roghi d’estate, che divoravano i boschi fino a loro. Lui correva con Amy tra gli alberi, in mezzo al fumo e alle fiamme, e a un certo punto la perdeva. Un lampo di luce attraversò le finestre e Wolgast sentì dei passi sulla veranda. Passi pesanti, malfermi. Si alzò di scatto, improvvisamente sveglio, con la Springfield in pugno. Tolse la sicura. La porta vibrò sotto tre pugni violenti. «C’è qualcuno fuori» disse la voce di Amy. Wolgast si girò e la vide in piedi in fondo alle scale. «Va’ di sopra!» ordinò, severo. «Svelta!» «C’è nessuno?» chiese una voce di uomo. «Vedo del fumo. Mi sentite?» «Amy, torna subito di sopra!» Bussò di nuovo. «Per l’amor di Dio, se mi sentite, apritemi!» Amy scomparve in cima alle scale e Wolgast si avvicinò alla finestra per guardare fuori. Non era una macchina o un camion, ma un gatto delle nevi, carico di casse e scatoloni. Alla luce dei fari, sotto la veranda, c’era un uomo in giacca a vento e scarponi, accucciato, con le mani sulle ginocchia. Wolgast aprì. «Stia indietro» intimò. «Mani bene in vista.» L’uomo alzò lentamente le braccia. «Non sono armato» disse. Aveva il fiatone e Wolgast si accorse che era ferito e che dal collo gli scendeva un nastro luccicante di sangue lungo la giacca a vento. «Sto male.» Wolgast fece un passo avanti e sollevò la pistola. «Se ne vada!» L’uomo cadde sulle ginocchia. «Gesù» gemette. «Cristo santo.» Poi chinò la testa e vomitò nella neve. Wolgast si voltò e vide Amy sulla soglia. «Amy, torna dentro!» «Vai, bella» disse l’uomo alzando la mano insanguinata per farle ciao. Si pulì la bocca nel dorso della mano. «Fa’ come ti dice tuo padre.» «Amy, torna subito dentro!» Amy chiuse la porta.

«Meno male che è andata» commentò l’uomo, in ginocchio davanti a Wolgast. «Non dovrebbe vedere queste cose. Gesù, mi sento di merda.» «Come ha fatto a trovarci?» L’altro scosse la testa e sputò nella neve. «Non sono venuto apposta a cercarvi, se è questo che sta pensando. Eravamo in sei, a una sessantina di chilometri da qui, nel casotto di caccia di un amico. Eravamo lì da ottobre, quando Seattle ha capitolato.» «In che senso?» domandò Wolgast. «Cos’è successo?» L’uomo si strinse nelle spalle. «Quello che è successo ovunque. Si sono ammalati tutti quanti, morivano a centinaia, oppure si facevano a pezzi. Poi è arrivato l’esercito e zac, tutto in fumo. Certi dicono che sono le Nazioni Unite, certi i russi. Per quel che ne so io, sono stati i marziani. Comunque noi siamo scappati verso sud, ci siamo infrattati in montagna. Pensavamo di stare qui quest’inverno e poi di cercare di raggiungere la California. Invece ci hanno beccato, quei bastardi. Non siamo riusciti a sparare neanche un colpo. Io sono fuggito, ma uno mi ha morso. Mi è piombato addosso dall’alto, non l’ho neanche visto. Non so perché non mi ha ammazzato come tutti gli altri. Ogni tanto succede, dicono.» Sorrise debolmente. «Chissà, magari era il mio giorno fortunato.» «L’hanno seguita?» «E che cazzo ne so? Ho sentito odore di fumo a un paio di chilometri da qui e sono venuto a vedere. Non mi chieda come ho fatto: l’ho fiutato come un cane.» Alzò la testa, disperato. «La prego, mi faccia questo favore. Lo farei da solo, se avessi un’arma.» Wolgast impiegò un momento a capire che cosa gli stava chiedendo quel poveraccio. «Come si chiama?» gli domandò. «Bob.» Si leccò le labbra con la lingua spessa, asciutta. «Bob Saunders.» Wolgast indicò la Springfield. «Dobbiamo allontanarci da qui.» Si inoltrarono nel bosco, Bob davanti e Wolgast cinque passi dietro di lui. Procedevano a fatica nella neve alta. Di frequente Bob si fermava a riposare, con le mani sulle ginocchia, cercando di riprendere fiato. «Sa cos’è che mi fa ridere?» disse. «Facevo analisi attuariale, ha presente? Mi occupavo di incidenti. Uno fuma, non si mette la cintura, mangia hamburger tutti i giorni? Io gli dicevo quando sarebbe morto, con una precisione incredibile.» Si aggrappò a un albero per non perdere l’equilibrio. «Ma questa cosa era proprio imprevedibile, eh?» Wolgast rimase in silenzio. «Me lo fa questo favore, vero?» chiese Bob guardando lontano, fra gli alberi. «Sì» rispose Wolgast. «Mi dispiace.» «Non importa. Non si faccia problemi.» Aveva il fiato grosso e continuava a leccarsi le labbra. Si voltò e si toccò il petto, come aveva fatto Carl tanti mesi prima per indicare a Wolgast dove bisognava sparare. «Qui, okay? Se vuole prima mi spari in testa, ma poi mi spari anche qui. Mi raccomando.»

Wolgast non poté fare altro che annuire, turbato dalla franchezza di quell’uomo, dal suo tono tranquillo, pragmatico. «A sua figlia dica che l’ho aggredita. Non deve sapere niente, povera bambina. E alla fine bruci il corpo. Lo cosparga prima di benzina, o di cherosene, che non resti niente.» Si stavano avvicinando alla riva del fiume. La luce della luna dava al paesaggio una sfumatura bluastra, trasformandolo in qualcosa di irreale nella sua immobilità. Wolgast sentiva il sommesso gorgoglio dell’acqua sotto il ghiaccio e la neve. Pensò che un posto valeva l’altro. «Si volti» disse. «Mi guardi in faccia.» Ma Bob parve non averlo sentito. Fece altri due passi nella neve e si fermò. Aveva cominciato a spogliarsi, chissà perché. Si era tolto la giacca a vento, buttandola nella neve, e si era slacciato le bretelle dei pantaloni da sci per sfilarsi la felpa da sopra la testa. «Si giri, le ho detto.» «Sa qual è il mio rimpianto?» disse Bob togliendosi la canottiera e chinandosi a slacciare gli scarponi. «Quanti anni ha sua figlia? Mi sarebbe piaciuto diventare papà. Perché non ho fatto figli?» «Non lo so, Bob.» Wolgast sollevò la Springfield. «Si alzi e mi guardi.» Bob si alzò. Si toccò la ferita sul collo e fu colto da uno spasmo, ma mantenne un’espressione calma, quasi seduttiva. Aveva la pelle luminosa, come se emanasse uno strano bagliore sotto i raggi lunari. Poi, di colpo, inarcò la schiena e nei suoi occhi brillò una luce soddisfatta. «Porco cane! Che bellezza!» esclamò. «Mi dispiace» fece Wolgast. «Ehi, aspetti un momento!» Bob sussultò e aprì gli occhi tendendo le braccia. «Aspetti!» «Mi dispiace» ripeté Wolgast e premette il grilletto. L’inverno finì con le piogge. Piovve per giorni e giorni, e i boschi si infradiciarono, il fiume e il lago si gonfiarono e l’acqua si portò via quel che restava della strada. Wolgast aveva bruciato il corpo, come Bob gli aveva raccomandato, dopo averlo cosparso di benzina. Quando le fiamme si erano spente, aveva buttato candeggina sopra le ceneri e poi le aveva coperte con terra e sassi. La mattina successiva aveva frugato nel gatto delle nevi. C’erano taniche di benzina e sotto il manubrio, in una sacca di pelle, il portafoglio di Bob, con la patente rilasciata a Spokane, le solite carte di credito, qualche dollaro e una tessera della biblioteca. C’era anche un ritratto scattato da un fotografo: Bob con un maglione natalizio accanto a una bionda molto carina con il pancione, due bambine con il vestitino di velluto verde e un maschietto di pochi mesi in tutina. Sorridevano tutti, compreso il piccolino. Sul retro della foto c’era scritto, in una grafia femminile: “Il primo Natale di Timothy”. Perché Bob aveva detto di non avere mai avuto figli? Forse li aveva visti morire ed era rimasto talmente traumatizzato da rimuovere completamente la loro esistenza... Wolgast seppellì il portafoglio sulla collina e vi piantò sopra una croce fatta con due bastoncini legati insieme da un pezzo di spago. Non era molto, ma non sapeva cos’altro fare. Si aspettava che ne arrivassero altri: dava per scontato che Bob fosse il primo. Usciva solo per

fare le cose indispensabili e unicamente di giorno; portava la Springfield sempre con sé e teneva la calibro .38 di Carl, carica, nel vano portaoggetti della Toyota. Ogni due o tre giorni metteva in moto l’auto e lasciava il motore acceso per un po’, perché non si scaricasse la batteria. Bob gli aveva parlato della California: era un luogo sicuro? Esistevano ancora luoghi sicuri? Avrebbe voluto chiedere ad Amy se li sentiva arrivare, se sapevano dov’erano. Non aveva una cartina, non poteva mostrarle la California. Una sera, poco dopo il tramonto, la portò sul tetto. «Vedi quella cresta?» le domandò indicando verso sud. «Segui il mio dito, Amy. Quella è la Catena delle Cascate. Se mi succede qualcosa, vai verso la cresta. Corri da quella parte, senza fermarti mai.» Ma i mesi passarono e loro continuarono a essere soli. Le piogge finirono e Wolgast una mattina uscì dal rifugio e sentì odore di sole: era cambiato qualcosa. Gli alberi erano pieni di uccelli e il lago non era più una lastra di ghiaccio. L’aria aveva un profumo dolce, tutto era più verde e per terra erano spuntati i crochi. Anche se il mondo stava andando in rovina, il dono della primavera restava intatto. La primavera in montagna regalava suoni e odori di vita dappertutto. Wolgast non sapeva nemmeno che mese fosse. Aprile o maggio? Non aveva un calendario e la batteria dell’orologio, che non si era più messo dall’autunno precedente, si era scaricata. Quella sera, seduto in poltrona davanti alla porta con la Springfield in mano, sognò Lila. Era un sogno in parte erotico, ma non del tutto. Lila era incinta. Giocavano a Monopoli. Non erano in nessun luogo particolare, come se lo sfondo intorno a loro fosse velato di nero, un palcoscenico con le luci soffuse. Wolgast aveva una paura terribile, irrazionale, che quello che stavano facendo fosse dannoso per il bambino. “Dobbiamo smetterla” diceva a Lila, preoccupato. “È pericoloso.” Ma lei non sembrava dargli retta. Lui lanciava il dado e muoveva la pedina, ritrovandosi nella casella con il poliziotto che fischia. “Va’ in prigione, Brad” diceva Lila ridendo. “Dritto in prigione.” Poi si alzava e si spogliava. “Okay, se mi vuoi baciare, puoi: a Bob non importa.” “Perché non gli importa?” chiedeva lui. “Perché è morto” rispondeva Lila. “Siamo tutti morti.” Si svegliò di soprassalto, con la sensazione di non essere solo. Si voltò e vide Amy, di spalle, che guardava dalla finestra verso il lago. Nel bagliore della stufa, la scorse alzare una mano e posarla sul vetro. Si alzò. «Cosa c’è, Amy?» Fece un passo e sul vetro comparve una luce accecante, immensa e bianchissima. Wolgast si bloccò, con la mente paralizzata. Sembrava che nella sua testa fosse scattato l’otturatore di un obiettivo che fissava l’immagine di Amy con le mani verso la luce e la bocca aperta in un urlo di terrore. Un vento fortissimo investì il rifugio, poi ci fu una scossa violenta e le finestre andarono in mille pezzi; Wolgast venne scagliato contro il muro dall’altra parte della stanza. Un secondo, cinque, dieci, il tempo si riassemblò: Wolgast si ritrovò carponi, circondato dalle schegge, migliaia di frammenti di vetro per terra che brillavano come stelle disintegrate in una luce aliena. Un bagliore bulboso si stava allargando nel cielo, verso ovest. «Amy!» Corse da lei. Era distesa sul pavimento. «Ti sei tagliata? Ti sei bruciata?» «Non vedo più! Non vedo più!» Si dimenava, muoveva terrorizzata le mani davanti alla faccia. Aveva minuscole schegge di vetro dappertutto, appiccicate alla pelle, sul viso, sulle braccia. E

aveva la maglietta intrisa di sangue. Wolgast cercò di calmarla. «Per favore, Amy, sta’ ferma. Fammi capire dove ti sei fatta male.» La bambina, fra le sue braccia, si rilassò. Wolgast la liberò con delicatezza dalle schegge. Non aveva tagli. Il sangue apparteneva a lui. Da dove veniva? Si guardò e vide che nella coscia gli si era piantato un lungo pezzo di vetro a forma di scimitarra, fra il ginocchio e il pube. Lo estrasse senza provare alcun dolore. Come aveva fatto a non sentire un vetro di cinque o sei centimetri conficcato nella carne? Era stata l’adrenalina? Aveva appena fatto queste riflessioni quando provò una fitta lancinante, come un treno che giunga in ritardo in una stazione. Per un attimo vide tutto nero, in preda a un conato di nausea. «Non ci vedo più, Brad! Dove sei?» «Sono qui. Sono qui.» La sua mente galleggiava nel dolore, chiedendosi se fosse possibile morire dissanguati per un taglio del genere. «Cerca di aprire gli occhi, Amy.» «Non posso! Mi fa troppo male!» “È rimasta accecata dalla luce intensissima” pensò. “Le si è bruciata la retina perché ha guardato dritto nell’esplosione.” Non era successo a Portland, a Salem o a Corvallis, ma più a ovest. Una testata nucleare, questo era certo, ma di chi? E quante ancora ne sarebbero state lanciate? A che pro? Era tutto inutile, lo sapeva: era solo un ultimo spasmo violento di un mondo ormai alla fine. Si rese conto di essersi illuso che il peggio fosse passato, che la vita potesse continuare, solo perché aveva sentito odore di primavera. Che stupido era stato! Portò Amy in cucina e accese la luce. Il vetro della finestra sopra il lavandino era rimasto intatto, chissà come. La mise su una sedia, cercò uno straccio e se lo legò intorno alla coscia. Amy piangeva premendosi le mani sugli occhi. La pelle, sul viso e sulle braccia, era di un rosa acceso e stava cominciando a sgretolarsi. «So che ti fa male, ma devi provare ad aprirli» le disse. «Devo vedere se hai dei pezzi di vetro negli occhi.» Aveva una torcia sul tavolo ed era pronto a controllare la situazione non appena Amy si fosse decisa a sollevare le palpebre. Era una specie di agguato, ma cos’altro poteva fare? Amy scosse la testa e si girò dall’altra parte. «Amy, per favore. Cerca di essere coraggiosa.» Dopo un altro minuto di tira e molla, Amy si lasciò scostare le mani dal viso e socchiuse appena gli occhi per richiuderli immediatamente dopo. «C’è troppa luce!» urlò. «Mi fa male!» Wolgast le propose un patto: al suo tre Amy avrebbe dovuto aprire gli occhi e tenerli aperti finché lui non avesse contato di nuovo fino a tre. «Uno» cominciò. «Due. Tre!» Amy aprì gli occhi, il volto contratto dalla paura. Wolgast riprese a contare, spostandole la luce sulla faccia. Non c’erano tracce di vetro o di lesioni: sembrava che gli occhi fossero a posto. «Tre!» Amy li richiuse subito, tremando e piangendo.

Wolgast le spalmò sulla pelle una crema contro le ustioni, le bendò gli occhi e la portò di sopra, per stenderla sul letto. «Vedrai che fra poco passa tutto» le disse cercando di rassicurarla. In realtà non ne era affatto convinto. «Penso che sia solo una cosa temporanea.» Rimase un po’ con lei, finché il respiro della bambina fu regolare e Wolgast fu certo che si era addormentata. Pensava che sarebbero dovuti andare via, il più lontano possibile dall’esplosione. Ma dove? Prima gli incendi e poi le piogge: la strada era ormai impraticabile. Avrebbero potuto provare a fuggire a piedi, ma dove sarebbero arrivati, soli nei boschi, con lui che non riusciva quasi a camminare e lei che non vedeva più? C’era soltanto da sperare che si fosse trattato di una bomba non troppo potente, o che fosse scoppiata più lontano di quanto fosse sembrato, o che il vento spingesse la radioattività da un’altra parte. Nella cassetta del pronto soccorso dove aveva preso la crema contro le ustioni trovò anche un ago da sutura e del filo nero. Mancava un’ora all’alba quando scese le scale e tornò in cucina. Posò la lampada sul tavolo, si tolse lo straccio e i pantaloni fradici di sangue. Il taglio era profondo ma straordinariamente pulito e la pelle pareva un pezzo di carta da macellaio intorno a una bistecca rossa e sanguinolenta. La sua esperienza di cucito si limitava a qualche bottone e a un orlo ai pantaloni, ma decise che ce l’avrebbe fatta. Cercò la bottiglia di scotch che aveva preso da Carl tanti mesi prima e se ne versò un bicchiere. Si sedette, bevve il liquore d’un fiato, senza nemmeno sentirne il sapore, se ne versò un altro e ingollò anche quello. Poi si alzò, si lavò bene le mani nel lavandino della cucina, se le asciugò in uno strofinaccio e lo appallottolò. Quindi si risedette, si mise in bocca lo strofinaccio, prese la bottiglia in una mano e l’ago con il filo nell’altra. “Peccato non avere più luce” pensò. Fece un respiro profondo e trattenne l’aria nei polmoni. Poi si versò il liquore sulla ferita. Tutto sommato fu quello il momento peggiore. Dopo, cucire il taglio parve quasi una passeggiata. Si svegliò e si rese conto di essersi addormentato con la testa sul tavolo. La stanza era gelata e nell’aria c’era un odore strano, chimico, come di gomma bruciata. Fuori scendeva una neve grigia. Con la gamba fasciata che gli pulsava dolorosamente, zoppicò fino alla veranda. Non era neve, ma cenere. Scese i gradini e la cenere gli cadde sul viso e sui capelli. Era strano, ma non provava paura né per sé né per Amy. Era uno spettacolo portentoso. Sollevò la faccia verso il cielo, lasciandosi cadere quei fiocchi grigi addosso. Erano ceneri di persone, lo sapeva. Stavano piovendo ceneri di anime. Poteva scendere con Amy nel seminterrato, ma sarebbe stato inutile. La radioattività li avrebbe raggiunti anche lì; era ovunque: nell’aria che respiravano, nel cibo che mangiavano, nell’acqua che scorreva dal lago fino alla pompa in cucina. Rimasero nel rifugio, al piano di sopra, dove le finestre sbarrate con le assi li avrebbero protetti un po’. Tre giorni dopo, quando tolse le bende ad Amy, la bambina vedeva, come lui le aveva assicurato. Wolgast invece cominciò a vomitare. Non riusciva a smettere. Fu scosso dai conati fino a non avere più nulla da rigettare a parte un muco scuro e semiliquido simile a pece. Gli si era infettata la ferita, o forse era colpa delle radiazioni. Le bende si intridevano di materiale purulento, verdastro, che puzzava in maniera insopportabile. Si sentiva quell’odore nauseabondo anche in bocca, negli occhi e nel naso. Sembrava emanare da ogni parte di lui. «Guarirò» disse ad Amy che, dopo tutto quello che era successo, pareva sempre la stessa. La pelle bruciata le era venuta via e lo strato sottostante era color latte. «Se sto a riposo due o tre giorni, mi riprendo.» Si stese sulla branda nella stanza vicino a quella di Amy. Sentiva i giorni passargli intorno,

dentro. Sapeva di essere vicino alla fine. Le prime cellule a morire furono quelle che si dividevano più velocemente: le mucose dello stomaco e della gola, i capelli, le gengive. Erano questi gli effetti delle radiazioni, no? Poi il male si propagò più all’interno e lo stritolò come una grande mano nera, mortale, dalle ossa d’uccello. Aveva la sensazione di sciogliersi come una pastiglia nell’acqua, ineluttabilmente. Forse sarebbe dovuto scappare subito dalla montagna con Amy, ma ormai era troppo tardi. Ai margini della coscienza sentiva la presenza della bambina, i suoi movimenti nella stanza, i suoi occhi attenti e fin troppo saggi su di lui. Gli avvicinava alle labbra riarse bicchieri d’acqua e lui si sforzava di bere, assetato ma soprattutto desideroso di compiacerla, di rassicurarla. Non riusciva a trattenere neanche una goccia di quell’acqua, però. «Sto bene» gli diceva Amy, o forse Wolgast lo sognava. La voce della bambina era sommessa, gli bisbigliava all’orecchio. Gli posava pezzuole fresche sulla fronte, gli alitava sul viso nella stanza buia. «Sto bene.» Era solo una bambina. Che cosa ne sarebbe stato di lei una volta che lui fosse morto? Mangiava appena, dormiva pochissimo, non conosceva malattia né dolore... No, Amy non sarebbe morta. Era questa la cosa peggiore, la conseguenza più terribile di ciò che le era stato fatto. Il tempo si apriva davanti a lei come le onde intorno a un molo. Il tempo le passava intorno e lei restava sempre uguale. “L’intera vita di Noè fu di novecentocinquanta anni, poi morì.” Non sapeva come fosse possibile, ma Amy non sarebbe morta. Non poteva morire. “Mi dispiace” pensò. “Ho fatto tutto quello che potevo, ma non è bastato. Ho avuto troppa paura, fin dal principio. Se c’era un piano, io non l’ho capito. Amy, Eva, Lila, Lacey. Sono solo un uomo. Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace.” Poi una notte si svegliò ed era solo. Se ne rese conto subito: c’era nell’aria un senso di partenza, di assenza, di fuga. Il semplice gesto di scostare le lenzuola richiese un enorme dispendio di forze: la coperta sembrava carta abrasiva sotto la sua mano, pungeva e bruciava a toccarla. Usò le energie residue per tirarsi su a sedere. Gli pareva di avere un corpo immenso, moribondo, che la sua mente riusciva a malapena a contenere. Eppure era quello in cui aveva sempre vissuto. Che strano morire, sentire che il corpo lo abbandonava. Al tempo stesso, una parte di lui l’aveva sempre saputo. “Morire” gli diceva il suo corpo. “Ecco perché viviamo: per morire.” «Amy?» disse, e la sua voce era un fievole, rasposo sussurro, un suono debole e inutile, privo di forma, che chiamava un’assenza nella stanza buia. «Amy.» Riuscì faticosamente a scendere le scale e ad arrivare in cucina. Accese la luce. Sotto il suo lampeggiante bagliore, le cose apparvero come erano sempre state, ma qualcosa era cambiato. Era la stessa stanza in cui lui e Amy avevano vissuto insieme per un anno, ma era anche un luogo completamente nuovo. Non sapeva che ora, che giorno o che mese fosse. Non ne aveva idea. Amy non c’era più. Uscì barcollando dalla veranda e si avviò verso il bosco scuro. Sopra gli alberi era sospeso un occhio socchiuso di luna, come un balocco appeso a un filo, come una faccina sorridente di luna che dondola sopra una culla. La sua luce si spargeva su un mondo di cenere in cui tutto moriva. Pareva che la superficie della terra si fosse staccata, rivelando un nucleo roccioso. Come un set, pensò Wolgast, una scenografia allestita per mettere in scena la fine di tutte le cose e di tutti i ricordi. Avanzò nella polvere grigia senza meta, chiamandola, chiamando il suo nome.

Si addentrò fra gli alberi, nel bosco, a una distanza indefinibile dal rifugio. Credeva che non sarebbe riuscito a ritrovare la strada, ma poco importava. “È finita, sono finito” pensò. Persino piangere era troppo per lui. Alla fine, rifletté, tutto si riduceva a scegliere un posto, se avevi la fortuna di poter fare almeno quello. Era sopra il fiume, sotto la luna, fra alberi nudi e senza foglie. Si inginocchiò, appoggiò la schiena a un tronco e chiuse gli occhi stanchi. Qualcosa si muoveva sopra di lui, fra i rami, ma era una sensazione remota, un fruscio vago. Gli venne in mente una cosa che qualcuno gli aveva detto molte vite prima, a proposito di movimenti notturni sugli alberi, ma recuperarne il senso avrebbe richiesto una forza di volontà che ormai non aveva più. Il pensiero lo lasciò solo. Fu invaso da un’emozione nuova, fredda e finale, come una corrente d’aria che entra da una porta aperta nel cuore dell’inverno, come l’immobilità dello spazio fra un astro e l’altro. L’alba lo avrebbe trovato morto. “Amy” pensò mentre le stelle cominciavano a cadere tutto intorno a lui, nel tentativo di riempirsi del suo nome, del nome di sua figlia, per rendere più facile il trapasso. “Amy, Amy, Amy.”

Terza parte L’ULTIMA CITTÀ 2 d.V. La musica, quando voci lievi svaniscono, vibra nella memoria. I profumi, quando le dolci viole appassiscono, vivono dentro i sensi che ridestano.   Quando la rosa è morta, i petali di rosa sono raccolti sul letto dell’amata; quando te ne sarai andata, con il pensiero di te anche l’Amore si addormenterà. PERCY BYSSHE SHELLEY Music, When Soft Voices Die

***** ORDINE DI EVACUAZIONE ***** COMANDO FORZE MILITARI USA ZONA DI QUARANTENA ORIENTALE, PHILADELPHIA, PENNSYLVANIA   Per ordine del generale Travis Cullen, generale facente funzioni dell’esercito e comandante supremo della Zona di Quarantena Orientale, e di George Wilcox, sindaco della città di Philadelphia: Tutti i bambini di età compresa fra i quattro (4) e i tredici (13) anni residenti nelle zone non infette CONTRASSEGNATE IN VERDE (“zone sicure”) della città di Philadelphia e delle tre contee a ovest del fiume Delaware (Montgomery, Delaware, Bucks) dovranno presentarsi alla STAZIONE FERROVIARIA DI 30TH STREET per l’imbarco immediato su un convoglio.   Ogni bambino DOVRÀ avere con sé: – certificato di nascita, tessera sanitaria o passaporto statunitense in corso di validità; – un documento attestante la residenza, quale per esempio una bolletta della luce o del gas intestata a un genitore o a un tutore, oppure un permesso di soggiorno valido; – un certificato di vaccinazione aggiornato; – un adulto responsabile per l’espletamento delle formalità di evacuazione.   Ogni bambino POTRÀ portare con sé: – un CONTENITORE per gli effetti personali di dimensioni non superiori a centimetri 55 × 35 × 25. SI PREGA DI EVITARE LE MERCI DEPERIBILI. Sul treno saranno distribuiti cibo e acqua; – un sacco a pelo o una coperta.   È severamente VIETATO introdurre sui treni o nella ZONA DI REGISTRAZIONE DEGLI EVACUATI i seguenti articoli: – armi da fuoco; – coltelli o armi da taglio di lunghezza superiore a 7 cm; – animali domestici. Nessun genitore o tutore sarà autorizzato a entrare nella stazione di 30th Street. Chiunque cercherà d’interferire con l’evacuazione verrà FUCILATO. Chiunque cercherà di salire sui treni senza autorizzazione verrà FUCILATO. Dio salvi il popolo degli Stati Uniti e la città di Philadelphia.

18 DAL DIARIO DI IDA JAXON (“IL LIBRO DELLA ZIA”) Presentato alla Terza conferenza globale sul Periodo di Quarantena nordamericano Centro studi sulle culture e i conflitti umani Università del Nuovo Galles del Sud, Repubblica Indo-Australiana 16-21 aprile 1003 d.V. [Estratto.] ... e fu il caos. Sono passati molti anni, ma spettacoli così non si dimenticano. Migliaia di persone terrorizzate che premevano contro le transenne, i soldati con i cani che cercavano di riportare la calma, gli spari in aria e io, che avevo sì e no otto anni, con la valigetta che la mia mamma mi aveva preparato la sera prima fra i singhiozzi, perché sapeva quello che stava facendo, sapeva che mi stava mandando via per sempre. Gli zompi avevano invaso New York, Pittsburgh e Washington. Quasi tutto il paese, per quanto mi ricordo. Io avevo parenti in quelle città. C’era un sacco di cose che non sapevamo, per esempio quello che stava succedendo in Europa, in Francia o in Cina, ma avevo sentito mio padre parlare con altri uomini della nostra strada di quanto il virus laggiù era diverso; morivano tutti, quindi forse in quel momento Philadelphia era l’ultima città ancora abitata al mondo. Era un’isola. Quando le chiesi della guerra, mia madre mi spiegò che gli zompi erano persone come noi, solo che erano malate. Anch’io ero stata malata, perciò mi venne una gran paura e mi misi a singhiozzare disperata, convinta che un giorno mi sarei svegliata e che avrei ucciso mia madre, mio padre e i miei cugini come facevano gli zompi. Lei mi abbracciò e mi disse: “No, Ida, è diverso, non è la stessa cosa, ora calmati e smettila di piangere”. Mi calmai, ma per parecchio tempo mi parve proprio assurdo. Non capivo com’era possibile che ci fossero la guerra e soldati ovunque solo perché a qualcuno era venuto il raffreddore o il mal di gola. Li chiamavamo “zompi”. Non “vampiri”, anche se qualcuno diceva pure così, come mio cugino Terrence, per esempio. Mi mostrò un giornalino a fumetti, una specie di libro illustrato, se ricordo bene, ma quando chiesi spiegazioni a mio padre e gli feci vedere le figure, mi rispose che i vampiri erano personaggi di fantasia, bellissimi ed elegantissimi, gentiluomini con il mantello. “Invece quello che sta succedendo a noi è la realtà, non una storia inventata, Ida” mi disse. Ora li chiamano in molti modi, ovviamente – “saltabecchi”, “fumidi” e “succhiasangue”, oltre che “virali” –, ma all’epoca li chiamavamo “zompi” perché quando ti aggredivano ti zompavano addosso. Mio padre sosteneva che, qualunque nome gli dessi, erano grandissimi figli di puttana. “Stai in casa come dice l’esercito, Ida.” Rimasi scioccata perché mio padre era diacono della Chiesa episcopale metodista africana e non diceva mai le parolacce. Il momento peggiore era la notte. Quell’inverno soprattutto. Non avevamo le luci come adesso, c’era poco da mangiare, a parte quello che ci dava l’esercito, e per scaldarci bruciavamo ciò che trovavamo. Appena il sole tramontava, si sentiva la paura scendere come una calotta che copriva tutto quanto. Non sapevi mai se gli zompi sarebbero riusciti a entrare. Mio padre aveva chiuso le finestre di casa nostra con delle assi e passava la notte in cucina a lume di candela, con il fucile in mano, ad ascoltare la radio e a bersi un bicchiere ogni tanto. Era stato ufficiale in marina e si intendeva di quelle

cose. Una notte andai in cucina e lo trovai lì che piangeva. Era seduto con la testa fra le mani e tremava e piangeva, con le lacrime che gli bagnavano tutta la faccia. Non so come mai mi ero svegliata, probabilmente per i singhiozzi. Era un uomo forte, mio padre, e a vederlo in quello stato rimasi malissimo. “Papà, cosa c’è?” gli chiesi. “Perché piangi così? Ti sei spaventato per qualcosa?” Lui scosse la testa e disse che Dio non ci amava più. “Forse è per qualcosa che abbiamo fatto, Ida, ma non ci ama più. Ci ha piantato in asso.” Poi arrivò mia madre e gli disse: “Sta’ zitto, Monroe, sei ubriaco”. E mi mandò a letto. Mio padre si chiamava così, Monroe Jaxon III. Mia madre si chiamava Anita. All’epoca non lo sapevo, ma penso che la notte che lo trovai a piangere così avesse appena saputo del treno. O forse piangeva per qualcos’altro. Solo il buon Dio sa come mai Philadelphia fu risparmiata tanto a lungo. Ormai di quel tempo ho solo vaghi ricordi. Sensazioni, più che altro. Piccole cose, come quando uscivo di sera con mio padre a prendere una granita all’angolo, i miei compagni della scuola elementare Joseph Pennell e una bambina che si chiamava Sharise e abitava vicino a noi. Giocavamo insieme per ore e ore senza stancarci mai. La cercai, sul treno, ma non la trovai. Mi ricordo anche l’indirizzo di casa mia: 2121 West Laveer. C’erano un college, negozi, strade piene di traffico e gente di tutti i tipi che andava e veniva. E ricordo una volta che il papà mi portò in centro, lontano dal quartiere dove stavamo, e prendemmo l’autobus per vedere le vetrine a Natale. Dovevo avere al massimo cinque anni. L’autobus passò davanti all’ospedale dove lavorava mio padre. Faceva i raggi X alla gente, cioè gli fotografava le ossa: era il suo lavoro da quando era tornato da militare e aveva conosciuto mia madre, e diceva sempre che era l’ideale per uno come lui, perché gli piaceva vedere dentro le cose. Avrebbe preferito fare il medico, ma anche il tecnico radiologo non era male. Mi mostrò le vetrine, tutte addobbate per Natale con tante luci, la neve, l’albero e i pupazzi che si muovevano: renne, folletti e cose del genere. Non ero mai stata così felice in vita mia. Mi entusiasmava vedere uno spettacolo tanto bello, tutti e due lì al freddo, insieme. “Adesso compriamo un regalo per la mamma” mi disse tenendomi una mano sulla testa come faceva sempre. “Una sciarpa o magari un paio di guanti.” Le strade erano piene di gente, tantissime persone di tutte le età e di tutte le razze. Mi piace pensarci anche ora, tornare con la mente a quel giorno. Nessuno ricorda più il Natale, che era un po’ come la Prima Notte di adesso. Ho scordato se comprammo la sciarpa e i guanti oppure no. Probabilmente sì. Non esiste più niente di tutto questo, ormai. E non ci sono più le stelle. A volte penso che di tutte le cose del Tempo di Prima sia quella che mi manca di più. Dalla finestra della mia camera guardavo sopra i tetti delle case e dei palazzi e le vedevo: puntini di luce nel cielo, appesi lì come se Dio in persona avesse messo le luminarie di Natale. Mia madre mi insegnò i loro nomi e mi spiegò che, dopo un po’ che le guardavi, cominciavi a vedere dei disegni nel cielo, cose semplici, come cucchiai, persone e animali. Per me guardare le stelle era un po’ come guardare dritto in faccia Dio. Bastava che fosse buio e lo vedevi. Chissà se si era davvero dimenticato di noi? Forse eravamo noi che ci eravamo dimenticati di lui, e per questo adesso non riuscivamo più a vedere le stelle. E, se devo dire la verità, sono l’unica cosa che mi piacerebbe rivedere prima di morire. Il nostro non fu l’unico treno, ne sono convinta. Avevamo sentito parlare di treni partiti da tanti altri posti, da città che li avevano organizzati già prima che arrivassero gli zompi. Forse erano solo i discorsi che fa la gente quando ha paura e si aggrappa al primo barlume di speranza. Non so quanti arrivarono a destinazione. Alcuni vennero mandati in California, altri in luoghi di cui non ricordo il nome. Soltanto di uno si ebbero notizie, all’inizio. Prima dei Pellegrini e dell’Unica Legge, quando la radio non era ancora stata proibita. Nel New Mexico, credo, non so esattamente dove. Ma poi gli si guastarono le luci e non se ne seppe più niente. Da quello che dicono Peter, Theo e gli altri, credo che ormai siamo rimasti solo noi.

Ma è del treno, di Philadelphia e di tutto quello che successe quell’inverno che voglio scrivere. Era un disastro. L’esercito era dappertutto: non solo soldati, ma anche carri armati, mezzi militari. Anche se mio padre diceva che erano lì per proteggerci dagli zompi, a me sembravano solo uomini grandi e grossi armati di fucile, quasi tutti bianchi; e il papà, che spronava sempre a guardare il lato migliore delle cose, era anche convinto che non bisognava fidarsi dell’uomo bianco. Diceva proprio così, come se tutti i bianchi fossero uno solo. Adesso sembra ridicolo, ora siamo tutti un miscuglio. Probabilmente chi leggerà queste righe non saprà nemmeno di che cosa parlo. Uno che conoscevamo si beccò una pallottola solo perché cercava di acchiappare un cane. Forse pensava che mangiare un cane fosse comunque meglio che digiunare, ma i soldati gli spararono e lo appesero a un lampione di Olney Avenue con un cartello sul petto che diceva SCIACALLO. Non so cosa avesse cercato di rubare, a parte un cane mezzo morto di fame che non sarebbe campato a lungo comunque. Poi, una notte, si sentì un boato fortissimo, seguito da un altro e da un altro ancora. Sopra la nostra testa passavano velocissimi degli aerei e mio padre disse che avevano fatto saltare i ponti. Per tutto il giorno seguente continuammo a vedere gli aerei. Si sentiva odore di fuoco e di fumo e capimmo che gli zompi erano vicini. Interi quartieri della città stavano bruciando. Andai a dormire e fui svegliata dopo un po’ da voci alterate. Casa nostra aveva solo quattro stanze e si sentiva tutto: se starnutivi in una camera, chi era nell’altra ti diceva “salute”. Udii mia madre che piangeva e piangeva e mio padre che le diceva “non puoi”, “dobbiamo...”, “sii forte, Anita” e cose del genere. Poi la porta della mia camera si spalancò ed entrò il papà con una candela in mano e la faccia sconvolta, come se avesse visto un fantasma, e il fantasma era lui stesso. Mi vestì in fretta e furia, con abiti pesanti perché faceva freddo, e disse: “Ora fai la brava, Ida, vai a salutare la mamma”. Io andai e lei mi abbracciò e mi strinse forte, per un sacco di tempo; piangeva in un modo che a pensarci ancora adesso, dopo tanti anni, mi fa stare male. Vidi la valigetta vicino alla porta e dissi: “Andiamo da qualche parte, mamma? Partiamo?”. Ma lei non rispose, continuò a piangere e piangere e a tenermi fra le braccia, finché mio padre non le disse di smetterla. Poi uscimmo, mio padre e io, soltanto noi due. Mi resi conto che era ancora notte solo quando fummo fuori. Faceva freddo e c’era vento. Fioccava e pensai che fosse neve, ma quando mi leccai un bioccolo sulla mano mi accorsi che era cenere. C’era odore di fumo nell’aria, che faceva bruciare gli occhi e la gola. Camminammo a lungo, quasi tutta la notte. Per strada passavano soltanto camion dell’esercito. Alcuni avevano l’altoparlante sul tetto e diffondevano il messaggio di non rubare, di mantenere la calma e spiegavano dell’evacuazione. C’erano alcuni passanti, non molti, però a mano a mano che procedemmo ne incontrammo sempre di più, finché le strade non furono piene di gente. Nessuno parlava e tutti andavano nella nostra stessa direzione, carichi di bagagli. Io a quel punto non avevo ancora capito che erano solo i Piccoli a partire. Era buio quando arrivammo alla stazione. Ho già detto qualcosa a questo proposito. Mio padre era voluto partire presto per evitare le code, perché le aveva sempre detestate, ma a quanto pareva mezza città aveva avuto la stessa idea. Aspettammo a lungo, però le cose si mettevano male, si capiva. Era come quando sta per scoppiare un temporale: l’atmosfera era elettrica. La gente aveva paura e diceva che gli incendi si stavano spegnendo, che stavano per arrivare gli zompi. Si sentivano dei gran botti in lontananza, che sembravano tuoni; gli aerei continuavano a passare bassi e velocissimi sopra le nostre teste. Ogni volta che ne vedevi uno ti si tappavano le orecchie e un attimo dopo c’era il botto e la terra ti tremava sotto i piedi. Quasi tutte le persone avevano dei Piccoli per mano. Mio padre teneva la mia stretta stretta. Nella recinzione c’era un’apertura dalla quale i militari lasciavano passare la gente: era lì che dovevamo infilarci. C’era talmente tanta ressa che quasi non riuscivo a respirare. Alcuni soldati avevano dei cani.

“Qualsiasi cosa succeda, Ida, stammi vicino” mi disse mio padre. “Tienimi per mano.” Arrivammo abbastanza vicino da vedere il treno giù in basso. Eravamo su un ponte e sotto c’erano i binari. Cercai di guardare fin dove arrivavano i vagoni, ma non ci riuscii, perché il treno era troppo lungo. Sembrava infinito, cento carrozze una attaccata all’altra. Non avevo mai visto un treno così. I vagoni non avevano finestrini e dalle fiancate sporgevano lunghi pali con delle reti appese che sembravano ali di uccello. Sul tetto c’erano soldati con grossi fucili, chiusi in gabbie di metallo come quelle dei canarini. Avevano le tute lucide, argentate, per proteggersi dal fuoco. Non ricordo che cosa successe a mio padre. Certe cose si dimenticano perché la mente le rifiuta, non vuole saperne più niente. Ricordo invece una donna che aveva un gatto in una scatola. Un soldato che le disse: “Signora, dove pensa di andare con quel gatto?”. Non so cosa accadde, ma due minuti dopo, incredibile ma vero, il soldato le sparò lì su due piedi. Poi ci furono altri spari e nella confusione mi ritrovai lontana da mio padre. Feci per riprenderlo per mano, ma la sua mano non c’era più. La folla era come un fiume e mi trascinò via. Fu orribile. C’era gente che gridava che il treno non era pieno, ma stava per partire lo stesso. Avevo perso la valigia e l’unica cosa che riuscivo a pensare era: “Ho perso la valigia e il papà si arrabbierà da matti”. Mi diceva sempre di avere cura di ciò che possedevo, di non essere sbadata. “Lavoriamo tanto per procurarci le cose che abbiamo, non trattarle come se fossero roba da niente, Ida.” Mi ero appena resa conto di essere nei pasticci come mai mi era capitato quando finii lunga distesa per terra e, rialzandomi, vidi che intorno a me c’era un sacco di morti. Uno forse era un mio compagno di scuola, Vincent Gum. Lo chiamavamo così, “vincentgum” tutto attaccato, perché aveva la mania delle gomme e si faceva sempre sgridare dalle maestre. Adesso però aveva una voragine nel petto ed era steso a pancia in su, in una pozza di sangue; dalla voragine continuava a uscirne, con delle bollicine che sembravano bagnoschiuma. Ricordo che pensai: “Quello lì per terra è Vincent Gum! Gli hanno sparato e lui è morto, non si alzerà più, non parlerà più, non masticherà più gomme né altro, rimarrà lì per sempre, con quella faccia vuota, assente”. Ero ancora sul ponte sopra il treno e c’era gente che saltava giù per prendere posto. Tutti gridavano. Molti soldati sparavano, come se gli avessero ordinato di mirare a tutto quello che vedevano, qualsiasi cosa. Guardai giù e vidi cadaveri ammucchiati come ceppi di legno in un camino e sangue da tutte le parti, tanto di quel sangue che sembrava acqua che esce da un tubo rotto. Poi qualcuno mi prese in braccio. Pensai che fosse mio padre, che finalmente mi aveva trovato; invece no, era un uomo che non conoscevo. Bianco, grasso e con la barba. Mi prese in braccio e mi portò di corsa dall’altra parte del ponte, dove c’era una specie di sentiero che scendeva fra le erbacce, fino a un muro lungo i binari. A quel punto, tenendomi per le mani, mi calò giù. Io avevo paura, pensavo: “Ora mi molla e io morirò come Vincent Gum”. Lo guardai in faccia. Non dimenticherò mai gli occhi che aveva: erano gli occhi di uno che sa di essere spacciato. Quando hai quegli occhi lì, non sei né giovane né vecchio, né nero né bianco, né uomo né donna, non più. Gridava: “Prendetela! Prendete questa bambina!”. Qualcuno, da sotto, mi afferrò per le gambe e io mi ritrovai sul treno, che stava partendo. Fu allora che mi venne in mente che non avrei mai più rivisto nessuno: né la mamma né il papà né chiunque avessi conosciuto in vita mia. Di quello che successe dopo mi sono rimaste più sensazioni che ricordi veri e propri: i bambini che piangevano, la fame, il buio, il caldo e la puzza di tanta gente stipata tutta insieme. Fuori si sentiva sparare e il calore degli incendi attraversava il metallo. Pareva che il mondo intero stesse bruciando. Le fiancate del treno si scaldarono talmente che se le toccavi ti bruciavi le mani. C’erano bambini piccolissimi, che non dovevano avere neanche quattro anni. Nel nostro

vagone le guardie erano due, un uomo e una donna. Alcuni dicono che erano dell’esercito; invece no, erano della Federal Emergency Management Agency, l’agenzia per la gestione delle emergenze. Me lo ricordo perché avevano la giacca con scritto grosso FEMA, in giallo, sulla schiena. Mio padre aveva dei parenti a New Orleans, era cresciuto lì, e diceva sempre che FEMA stava per “Fare dell’Emergenza una Merda Assoluta”. Non ricordo che cosa accadde alla donna, ma l’uomo era un Chou, apparteneva a una delle Prime Famiglie. Sposò un’altra guardia e, rimasto vedovo, si risposò altre due volte. Una delle sue mogli era Mazie Chou, la nonna del Vecchio Chou. Il treno non si fermava mai, per nessun motivo. Ogni tanto si sentiva un boato terrificante e il vagone tremava come una foglia al vento, ma il convoglio continuava imperterrito ad andare avanti. Un giorno la donna uscì dal vagone per andare a dare una mano a degli altri bambini e tornò indietro piangendo. La sentii raccontare al suo collega che i vagoni dietro il nostro non c’erano più. Il treno era costruito in modo che si potessero sganciare se entravano gli zompi, e i botti erano il rumore dei vagoni che si staccavano. Non volevo pensare a quei bambini e ancora adesso cerco di non pensarci. Quindi su questo non scriverò nient’altro. Immagino che a voi interessi soprattutto il nostro arrivo qui. Qualcosa ricordo, perché quando fummo a destinazione incontrai mio cugino Terrence. Non sapevo che viaggiasse sul mio stesso treno. Per fortuna non in uno dei vagoni dietro il mio: all’arrivo infatti ne erano rimasti solo tre, e due erano quasi completamente vuoti. Le guardie ci dissero che eravamo in California. La California non era più uno Stato come un tempo, ma una repubblica a sé stante. Ci sarebbero venuti a prendere con dei pullman per portarci in montagna, in un posto sicuro. Il treno rallentò, poi si fermò. Avevamo tutti paura, ma eravamo anche contenti di scendere dopo tanti giorni. Quando si aprirono le porte, la luce era talmente accecante che dovemmo tapparci gli occhi con le mani. Alcuni bambini si misero a piangere pensando che ci fossero gli zompi, che stessero per prenderci. Poi qualcuno disse che non dovevamo essere sciocchi, che gli zompi non c’erano, e quando aprii gli occhi vidi con sollievo che davanti a me c’era un soldato. Eravamo nel deserto. Ci portarono via. C’erano moltissimi militari in giro e una fila di pullman fermi sulla sabbia; sopra la nostra testa volavano elicotteri, che sollevavano un sacco di polvere e facevano un gran baccano. Ci diedero dell’acqua fresca da bere. Non credo mi sia più capitato di gustare tanto un bicchiere d’acqua fresca. La luce era così forte che mi facevano male gli occhi, ma mentre mi guardavo intorno vidi Terrence. Era lì in piedi in mezzo alla polvere come tutti noi, con una valigia e un cuscino sporco in mano. Non avevo mai abbracciato un ragazzo così forte e così a lungo in vita mia. Ridendo e piangendo, tutti e due dicevamo: “Ma guarda un po’ chi c’è!”. Non eravamo primi cugini, forse di secondo grado. Il papà era lo zio di suo padre, che si chiamava Carleton Jaxon. Carleton faceva il saldatore ai cantieri navali e Terrence in seguito mi raccontò che era uno degli operai che avevano costruito il treno. Il giorno prima dell’evacuazione lo zio Carleton aveva portato Terrence alla stazione, lo aveva fatto salire sulla locomotiva, vicino al macchinista, e gli aveva detto di stare lì. “Non muoverti da qui, Terrence, e fai tutto quello che ti dice il macchinista.” E così Terrence adesso era lì. Aveva solo tre anni più di me, ma all’epoca sembrava molto più grande. Gli chiesi: “Ti prenderai cura di me, vero, Terrence? Promettimelo”. Lui annuì, mi promise di prendersi cura di me e lo fece fino al giorno in cui morì. Fu il primo Jaxon a far parte della Consulta coloniale e da allora nella Consulta c’è sempre stato un Jaxon. Ci fecero salire sui pullman. Era tutto diverso per me, con Terrence vicino. Mi prestò il cuscino e io mi addormentai con la testa appoggiata a lui. Non saprei dire quanto tempo restammo su quel pullman, ma non credo che il viaggio sia durato più di un giorno. A un certo punto sentii Terrence che diceva: “Svegliati, Ida, siamo arrivati. Su, adesso svegliati”. Già dall’odore si capiva che l’aria era diversa. I soldati ci portarono via e per la prima volta vidi le mura con tutte le luci

in alto, in cima alle torrette. Ma era giorno ed erano spente. L’aria era fresca e pulita, anzi, fredda: battevamo i piedi e tremavamo. C’erano soldati e camion della FEMA ovunque, di tutte le misure, carichi di roba: cibarie, armi, carta igienica, vestiti; e poi animali: pecore, capre, cavalli, galline in gabbia e persino qualche cane. Le guardie ci fecero mettere di nuovo in fila, presero i nomi di tutti, ci diedero vestiti puliti e ci portarono al Nido. Ci condussero nella stanza che ormai conoscono tutti, la camerata in cui ancora adesso dormono i Piccoli. Scelsi la branda accanto a quella di Terrence e gli feci la domanda che non riuscivo a togliermi dalla testa, e cioè: “Dove siamo, Terrence? Tuo padre deve avertelo detto, visto che ha costruito il treno”. Lui rimase in silenzio per un po’, poi mi rispose: “Adesso noi abitiamo qui. Le luci e le mura ci proteggeranno dagli zompi e da tutto il resto, finché la guerra non sarà finita. È come la storia di Noè: questa è l’arca”. Allora io gli domandai che cos’era un’arca e se avrei più rivisto la mia mamma e il mio papà. “Non lo so, Ida” mi disse. “Ma mi prenderò cura di te, te l’ho promesso”. Seduta sulla branda vicino c’era una bambina più o meno della mia età che piangeva e singhiozzava. Terrence le si avvicinò e le chiese come si chiamava, sottovoce, e se voleva che si prendesse cura anche di lei. La bambina allora smise di piangere. Era molto bella, si vedeva benissimo, anche se era sporca e stanca morta come tutti noi. Aveva un viso dolcissimo e i capelli chiari e sottili come quelli dei neonati. Annuì. “Sì, grazie” rispose. “Anzi, se non ti dispiace, potresti prenderti cura anche di mio fratello?” Dovete sapere che quella bambina, Lucy Fisher, divenne la mia migliore amica e molti anni dopo anche la moglie di Terrence. Suo fratello si chiamava Rex, era piccolo e bello come lei, anche se più mascolino. Saprete tutti, immagino, che da allora i Fisher e i Jaxon sono sempre stati imparentati, in un modo o nell’altro. Nessuno mi ha mai assegnato il compito di ricordare queste cose, ma ho l’impressione che se non le scrivo io si dimenticherà tutto quanto. Non solo il modo in cui arrivammo qui, ma l’intero vecchio mondo, il mondo del Tempo di Prima. Il giorno in cui comprai i regali di Natale con mio padre, le passeggiate per andare a prendere la granita all’angolo, le sere d’estate seduti alla finestra a guardare le stelle che si accendevano in cielo. I Primi Coloni sono tutti morti ormai, oppure sono stati ghermiti, da tanto di quel tempo che nessuno ricorda più nemmeno come si chiamavano. Quando ripenso a quel periodo, non è tristezza ciò che provo. Un po’ di dispiacere, sì, per quelli che non ci sono più, come Terrence, che fu ghermito a ventisette anni, e Lucy, che morì di parto poco tempo dopo, e Mazie Chou, che visse a lungo ma perì in un modo che ho dimenticato. Di appendicite, forse, oppure di cancro. La cosa più dolorosa è pensare a quelli che si sono lasciati andare, e sono stati tanti, in tutti questi anni. Quelli che si sono suicidati per la tristezza, la preoccupazione o semplicemente perché non ce la facevano più a reggere il peso di questa vita. Sono loro che vedo nei miei sogni. È come se avessero lasciato il mondo incompiuto e nemmeno sapessero di essersene andati. Ma immagino che sia un normale segno di vecchiaia sentirsi così, metà in questo mondo e metà nell’altro, con le due cose che si confondono dentro la testa. Non è rimasto nessuno che conosce il mio nome. Tutti mi chiamano “Zia”, per il fatto che non ho mai avuto figli, e per me va bene così. A volte ho l’impressione di avere dentro di me tante di quelle persone da non sapere cosa vuol dire essere sola. Quando me ne andrò, le porterò via con me. Le guardie dicevano che l’esercito sarebbe tornato con altri bambini e altri soldati, ma non arrivò mai più nessuno. I pullman e i camion se ne andarono e, quando venne buio, chiusero le porte e accesero le luci, che illuminavano a giorno cancellando completamente le stelle. Uno spettacolo. Terrence e io uscimmo fuori a guardare e mentre eravamo lì a rabbrividire di freddo mi resi conto che quello che lui aveva detto era vero: avremmo abitato lì, da quel momento in avanti, per sempre. Eravamo insieme, la Prima Notte, quando si accesero le luci e si spensero le stelle. Da allora, in tutti questi anni e anni e anni, non le ho mai più riviste, nemmeno una volta.

Quarta parte TUTT’OCCHI   Prima Colonia Montagne di San Jacinto Repubblica di California 92 d.V. O sonno, dolce sonno, tenera nutrice della natura, ti incuto forse terrore, che non vuoi più gravarmi sulle palpebre, sommergere i miei sensi nell’oblio? WILLIAM SHAKESPEARE Enrico IV, Parte II

RICOSTRUZIONE DEL SITO DELLA PRIMA COLONIA (33° 74’ N, 116° 71’ O) Presentata alla Terza conferenza globale sul Periodo di Quarantena nordamericano Centro studi sulle culture e i conflitti umani Università del Nuovo Galles del Sud, Repubblica Indo-Australiana 16-21 aprile 1003 d.V.  

DOCUMENTO DELL’UNICA LEGGE CON LA PRESENTE SI INFORMANO TUTTI I COLONI CHE: Noi sottoscritti, d’ora in avanti detti la CONSULTA COLONIALE, al fine di tutelare l’ORDINE INTERNO, garantire a ciascuno la GIUSTA QUOTA DI SPETTANZA, promuovere la DIFESA del NIDO, assicurare la GIUSTIZIA in tutte le questioni inerenti il LAVORO e il COMMERCIO, e per garantire la DIFESA COMUNE della COLONIA, dei suoi BENI MATERIALI e di tutte le ANIME che risiedono all’interno delle sue MURA, fino al GIORNO DEL RITORNO, emaniamo e promulghiamo il presente DOCUMENTO DELL’UNICA LEGGE.   LA CONSULTA COLONIALE La CONSULTA COLONIALE è composta dai membri più anziani di ciascuna delle PRIME FAMIGLIE (Patal, Jaxon, Molyneau, Fisher, Chou, Curtis, Boyes, Norris), nel numero di uno per famiglia, senza escludere coloro che contraendo matrimonio sono entrati a far parte di una seconda famiglia, comprese le FAMIGLIE DEI PELLEGRINI; o, qualora il membro più anziano in vita rinunci all’incarico, da altra persona che porti lo stesso cognome; la CONSULTA COLONIALE, sentito il CONSIGLIO DEI MESTIERI, decide in merito a tutte le questioni inerenti la difesa, la produzione, l’illuminazione e la distribuzione delle GIUSTE QUOTE DI SPETTANZA e rappresenta la massima autorità in tutte le controversie e nelle EMERGENZE CIVILI; la CONSULTA COLONIALE elegge al proprio interno un CAPOCONSULTA, il quale è esonerato dallo svolgimento di un MESTIERE per l’intera durata del mandato.   I SETTE MESTIERI Le varie attività lavorative sia all’interno della COLONIA sia al di fuori delle MURA, comprese quelle svolte alla CENTRALE ELETTRICA, ai GENERATORI EOLICI, nei TERRENI DA PASCOLO E NEI POLIGONI, vengono suddivise nei seguenti SETTE MESTIERI: Guardia, Lavori Pesanti, Luce ed Energia, Agricoltura, Allevamento, Commercio e Produzione, e Nido-Infermeria; ciascuno dei SETTE MESTIERI (detti anche “Lavori”) sarà gestito in maniera autonoma. I RESPONSABILI di ciascun MESTIERE costituiscono il CONSIGLIO DEI MESTIERI, che risponde alla CONSULTA COLONIALE nei modi e nei tempi stabiliti dalla CONSULTA stessa.   LA GUARDIA La GUARDIA fa parte dei SETTE MESTIERI, al pari di tutti gli altri, e comprende come minimo un PRIMO CAPITANO, tre CAPITANI IN SECONDA, quindici GUARDIE A PIENO TITOLO e staffette in numero da stabilirsi. Tutte le ARMI DA FUOCO e le ARMI BIANCHE (archi, balestre e lame di oltre dieci centimetri di lunghezza) all’interno delle MURA della COLONIA devono essere conservate e custodite nell’ARMERIA, sotto la sorveglianza della GUARDIA.

  IL NIDO Per motivi di sicurezza i bambini risiedono all’interno del NIDO (Scuola elementare F.D. Roosevelt) da cui non possono uscire fino al compimento degli otto anni di età. Compiuti gli otto anni, ciascun(a) bambino/a lascerà il NIDO e si sceglierà un MESTIERE, compatibilmente con le esigenze della COLONIA e previa approvazione della CONSULTA COLONIALE e del CONSIGLIO DEI MESTIERI. La GIUSTA QUOTA DI SPETTANZA dei bambini in uscita dal NIDO verrà affidata alla FAMIGLIA di appartenenza, per essere loro restituita al momento del MATRIMONIO. All’interno del NIDO i bambini devono rimanere all’oscuro di ciò che accade fuori dalle mura della COLONIA, dell’esistenza dei VIRALI, delle mansioni della GUARDIA e dell’evento comunemente detto il GRANDE CATACLISMA VIRALE. Chiunque fornisca intenzionalmente a un BAMBINO MINORENNE informazioni in merito sarà punito con l’ESPULSIONE DALLE MURA.   DIRITTI DEI PELLEGRINI I PELLEGRINI, o anime non appartenenti alle PRIME FAMIGLIE, riceveranno la GIUSTA QUOTA DI SPETTANZA alla quale hanno pieno diritto, a eccezione dei maschi scapoli che decidano di vivere nella CASERMA e di devolvere la stessa ai rispettivi MESTIERI.   LEGGE DELLA QUARANTENA Chiunque, sia appartenente alle PRIME FAMIGLIE sia PELLEGRINO, entri a diretto contatto fisico con un VIRALE sarà tenuto in quarantena per un periodo di almeno trenta giorni. Chiunque, sia in quarantena sia in libertà, presenti sintomi di INFEZIONE VIRALE, inclusi a titolo esemplificativo, ma non limitativo, CONVULSIONI, VOMITO, INTOLLERANZA ALLA LUCE, CAMBIAMENTO DI COLORE DEGLI OCCHI, SETE DI SANGUE o DENUDAMENTO SPONTANEO, sarà soggetto a reclusione immediata e/o ESECUZIONE PIETOSA da parte della GUARDIA. Chiunque apra le porte della COLONIA, del tutto o in parte, intenzionalmente o accidentalmente, da solo o in compagnia, fra la SECONDA CAMPANA DELLA SERA e la PRIMA CAMPANA DEL MATTINO sarà punito con l’ESPULSIONE DALLE MURA. Chiunque possegga, utilizzi o favorisca l’utilizzo di una RADIO o di altri DISPOSITIVI DI SEGNALAZIONE SARÀ PUNITO CON L’ESPULSIONE DALLE MURA. Chiunque commetta il reato di omicidio, ove per omicidio si intende qualsiasi atto volto a provocare deliberatamente la morte di un’altra persona in assenza di provocazione infettiva, sarà punito con l’ESPULSIONE DALLE MURA.   APPROVATO E SOTTOSCRITTO NELL’ANNO DELLA NOSTRA ATTESA 17 d.V.

Devin Danforth Chou Federal Emergency Management Agency Viceamministratore regionale della Zona di Quarantena Centrale CAPOCONSULTA Terrence Jaxon Lucy Fisher Jaxon Porter Curtis Liam Molyneau Sonia Patal Levine Christian Boyes Willa Norris Darrell PRIME FAMIGLIE

19 Al crepuscolo di una giornata d’estate, nelle ultime ore della sua vecchia vita, Peter Jaxon – figlio di Demetrius e Prudence Jaxon, appartenenti alle Prime Famiglie; discendente di Terrence Jaxon, tra i firmatari dell’Unica Legge, e pronipote di colei che tutti chiamavano Zia, l’Ultima dei Primi; Peter delle Anime, detto “l’Uomo dei Giorni” e “Colui Che Rimase” – prese posizione sulla passerella sopra la Porta Maggiore ad attendere suo fratello per ucciderlo. Aveva ventun anni, era Guardia a Pieno Titolo, era alto, anche se non si considerava tale, con un viso lungo dalla fronte spaziosa, denti sani e la pelle bruna come il miele tardivo. Aveva gli occhi di sua madre, verdi con pagliuzze dorate. I capelli, che erano ispidi e scuri, tipici dei Jaxon, erano raccolti sulla nuca in un nodo compatto che pareva una noce, legato con un cordino di cuoio come usava fra le guardie. Agli angoli degli occhi, strizzati per guardare controluce, aveva una rete di rughe sottili e sulla tempia sinistra un ciuffo di capelli grigi conquistati a caro prezzo. Portava un paio di brache di recupero con pezze di vari tessuti alle ginocchia e sul sedere e una maglia di lana morbida stretta intorno alla vita sottile, sotto la quale sentiva il velo di sudore e sporcizia accumulato durante il giorno che gli faceva prudere la pelle. Aveva preso quelle brache al Magazzino tre stagioni prima, il Giorno della Distribuzione. Le aveva pagate un ottavo, contrattando con Walt Fisher che voleva un quarto; un prezzo esorbitante per un paio di brache, ma Walter faceva così: quello che chiedeva non era mai il prezzo finale. Erano un palmo troppo lunghe e gli si ammucchiavano sui piedi. Peter Jaxon calzava sandali fatti di tela e pezzi di vecchi copertoni; nel periodo caldo portava sempre i sandali, oppure girava scalzo, e teneva l’unico paio di scarponi decenti che aveva per l’inverno. Appoggiata al bastione c’era la sua arma, una balestra, e dentro il fodero di morbida pelle appeso in vita aveva una lama. Peter Jaxon, ventun anni, Guardia a Pieno Titolo, sorvegliava armato le mura della Colonia come avevano fatto suo fratello, suo padre e il padre di suo padre prima di lui. Quel giorno era lì per compiere l’Estremo Gesto di Pietà. Era il sessantatreesimo d’estate, le giornate erano ancora lunghe e asciutte sotto il cielo azzurro e l’aria fresca profumava di ginepro e di pino. Il sole era a due spanne dall’orizzonte: era già suonata la Prima campana della sera, che chiamava al dovere il turno di notte sulle mura e invitava il gregge a rientrare dal Campo di Sopra. La piattaforma su cui si trovava Peter – una delle quindici distribuite lungo la passerella che girava tutto intorno alle mura – si chiamava Piattaforma di tiro Uno. Di solito era riservata al Primo Capitano della Guardia, Soo Ramirez, ma quella sera no: quella sera, come le sei precedenti, era tutta di Peter. Cinque metri quadrati di superficie, circondati da una rete aggettante di cavi d’acciaio. Alla sinistra di Peter, trenta metri più in alto, c’era uno dei dodici piloni d’illuminazione: una griglia di lampade a vapori di sodio che a quell’ora, verso la fine della giornata, erano basse; alla sua destra, sospeso sopra le reti, c’era il braccio girevole con il paranco e le corde che Peter avrebbe usato per calarsi ai piedi delle mura nel caso in cui suo fratello fosse tornato. Alle sue spalle c’era la Colonia, una rassicurante nuvoletta di rumori, odori e attività, con le sue case, la stalla, i campi, le serre e le vallette. Peter ci viveva da sempre e, anche quando era voltato verso l’esterno a guardare il gregge che tornava a casa come in quel momento, era in grado di percorrerne mentalmente una mappa immaginaria: il Sentiero Lungo che andava dalla Porta Maggiore al Nido passando davanti all’Armeria, dove i martelli battevano sul metallo nel calore della fornace, i campi di granturco e di fagioli dove gli agricoltori stavano curvi sulla terra scura a zappare e vangare e, accanto al frutteto, le serre appannate dall’umidità; in mezzo il Nido, con le finestre murate e protette dal filo spinato che non riuscivano comunque a coprire

le voci dei Piccoli che giocavano nel cortile; la piazza del Sole, un ampio slargo semicircolare lastricato di pietre scaldate dal sole dove si riuniva la Consulta e si barattavano le merci; i recinti, le gabbie, i fienili e il pascolo, da cui provenivano suoni e odori di animali; il Magazzino, dove Walt Fisher organizzava i banchi di vestiti, cibarie, ferramenta e carburante; il caseificio, i telai, l’acquedotto, l’apiario ronzante, il vecchio parcheggio delle roulotte dove nessuno abitava più e, ancora più in là, oltre il Quartiere Nord e il capannone dei Lavori Pesanti, in fondo alla scorciatoia fra il muro nord e quello est, in una zona sempre fresca e all’ombra, le batterie, tre cassoni di metallo grigio circondati da rotoli di fili e tubature, ancora posati sulle gomme sgonfie dei semirimorchi con cui erano stati portati sulla montagna nel Tempo di Prima. Il gregge era arrivato sulla cresta. Peter, dall’alto, osservò la massa di animali belanti che avanzava come un liquido, seguita dai mandriani a cavallo, sei in tutto. Venivano verso di lui compatti, dopo avere attraversato un varco nella barricata incendiaria, e sollevavano un gran polverone. Quando passarono sotto la sua postazione, gli uomini a cavallo lo salutarono con un cenno del capo, come le sei sere precedenti. Non gli rivolsero la parola: parlare a chi aspettava di compiere l’Estremo Gesto di Pietà portava sfortuna. Uno dei cavalieri si staccò dal gruppo: era Sara Fisher e faceva l’infermiera. Era stata la madre di Peter a insegnarle il mestiere. Come tanti, anche Sara aveva più di un lavoro. E sembrava fatta apposta per andare a cavallo: era magra ma robusta, con una buona padronanza della cavalcatura, svelta e agile nel tenere le redini. Come tutti gli altri cavalieri, indossava una larga tunica trattenuta in vita da una cintura e stretti calzoni di jeans rattoppati. I capelli, di un biondo caldo e solare, lunghi fino alle spalle, erano raccolti, ma una ciocca le cadeva sugli occhi scuri e profondi. Aveva il braccio sinistro protetto da un paracolpi di pelle e la balestra, lunga un metro, appesa ad armacollo, che le dondolava sulla schiena come un’ala. Montava un cavallo castrato di quindici anni che si chiamava Dash e preferiva lei a tutti gli altri cavalieri. Con chiunque cercasse di montarlo, Dash rizzava le orecchie e agitava la coda, tranne che con Sara. Con lei si muoveva con grazia e docilità. Cavallo e cavaliere sembravano leggersi nel pensiero, essere una cosa sola. Peter vide che Sara varcava di nuovo la porta per tornare fuori: un agnellino, di quelli nati in primavera, si era allontanato dal gregge, attratto da una chiazza d’erba estiva sul lato interno della barricata incendiaria. Sara lo raggiunse, smontò di sella e con una serie di abili mosse lo rovesciò sulla schiena e gli legò le zampe con tre giri di corda. A quel punto gli ultimi animali del gregge varcarono la porta e, come una grande onda fatta di pecore, cavalli e cavalieri, imboccarono il viottolo che seguiva la curva del muro ovest, diretti al recinto. Sara si rialzò e guardò verso il punto in cui si trovava Peter sulla passerella. I loro sguardi si incontrarono. In qualsiasi altra occasione, Sara gli avrebbe sorriso. Quella sera, invece, prese in braccio l’agnellino e lo caricò sul cavallo, tenendolo fermo con una mano mentre con l’altra si puntellava per rimontare in sella. I suoi occhi dicevano: “Anch’io spero che Theo non ritorni”. Poi Sara batté i talloni e passò svelta sotto la porta, lasciando Peter da solo. Perché tornavano? Peter se lo chiese per l’ennesima volta. Perché tornavano a casa dopo essere stati ghermiti? Da dove veniva quel misterioso impulso? Era un ultimo, malinconico ricordo della persona che erano stati o un estremo saluto? I virali, si diceva, erano senz’anima. Quando Peter aveva compiuto otto anni e aveva lasciato il Nido, la Maestra, com’era suo dovere, gli aveva spiegato tutto. Nel sangue dei virali c’era una creatura minuscola, un virus, che distruggeva l’anima. Il virus entrava nelle persone attraverso un morso – di solito al collo, ma anche altrove – e gli rubava l’anima. Il loro corpo rimaneva a vagare sulla terra per sempre,

ma la persona che erano stati non esisteva più. Era la realtà della vita, la verità prima, quella da cui discendevano tutte le altre. Le riflessioni di Peter non avevano granché senso, da questo punto di vista: era un po’ come chiedersi perché scendeva la pioggia. Tuttavia, in piedi sulla passerella nel crepuscolo incombente, la settima e ultima sera di attesa – dopo la quale suo fratello sarebbe stato dichiarato morto, il suo nome sarebbe stato inciso sulla Pietra, le sue cose sarebbero state trasportate nel Magazzino per essere riparate, rattoppate e ridistribuite – se lo chiese lo stesso: perché i virali tornavano a casa se non avevano anima? Il sole era ormai soltanto una spanna sopra l’orizzonte e si abbassava velocemente verso la linea ondulata delle colline. Anche in piena estate le giornate finivano così, a precipizio. Peter si riparò gli occhi con la mano. Oltre la barricata incendiaria – una striscia di tronchi d’albero e legni affastellati a cui dare fuoco in caso di emergenza – oltre i pascoli del Campo di Sopra e la discarica con la sua fossa e i suoi mucchi, e oltre le colline dalla vegetazione a macchia, c’erano le rovine di Los Angeles e, ancora più in là, inimmaginabile, l’oceano. Quando Peter era ancora uno dei Piccoli del Nido, aveva studiato un po’ di geografia. Benché fosse stato deciso, molto tempo prima, che i libri lasciati dai Costruttori erano inutili e potevano anzi creare confusione nella mente dei Piccoli, che non dovevano sapere nulla né dei virali né di quello che era successo al mondo del Tempo di Prima, alcuni volumi erano stati conservati. A volte la Maestra leggeva storie di bambini, fate e animali parlanti che vivevano in una foresta dietro le ante di un armadio, oppure lasciava che i Piccoli si scegliessero un libro da soli, per guardare le figure e leggere quel che riuscivano. Gli oceani intorno a noi era il libro preferito di Peter: sceglieva sempre quello. Era un volume sbiadito, con il nome dell’autore in copertina, Ed Time-Life. Dentro, aveva pagine e pagine di meravigliosi disegni, foto e carte geografiche. Ce n’era una che si chiamava “planisfero” e che rappresentava tutto il mondo, da cui si vedeva che la maggior parte del pianeta era costituita da acqua. Peter chiedeva alla Maestra di leggergli i nomi: Atlantico, Pacifico, Indiano, Artico. Stava ore e ore seduto sul suo tappetino nella camerata con il libro sulle ginocchia e lo sfogliava, affascinato dagli spazi azzurri sulle carte geografiche. Il mondo, a quanto aveva capito, era una grande palla rotonda con tantissima acqua, una goccia di rugiada che sfrecciava nel cielo. L’acqua era tutta collegata: le piogge primaverili, la neve d’inverno, l’acqua che sgorgava dalle pompe e persino le nuvole sopra la sua testa facevano tutte parte dell’oceano. Un giorno aveva chiesto alla Maestra dov’era l’oceano e se si poteva vedere. Lei aveva riso, come sempre quando lui le faceva troppe domande, e aveva messo a tacere le sue curiosità scuotendo la testa. “Forse l’oceano esiste, o forse no. È solo un libro, piccolo Peter. Non preoccuparti di queste cose.” Il padre di Peter, però, aveva visto il mare: il grande Demetrius Jaxon, Capoconsulta. E anche lo zio di Peter, Willem, Primo Capitano della Guardia. Insieme avevano portato le Esplorazioni più lontano di quanto fosse mai arrivato chiunque altro da prima di Quel Giorno. Verso est, verso il sole del mattino, e verso ovest fino all’orizzonte e anche oltre, nelle città vuote del Tempo di Prima. Al ritorno il padre raccontava sempre le cose grandi e terribili che aveva visto, ma la più meravigliosa di tutte era l’oceano, in un posto che chiamava Long Beach. “Immaginate” aveva detto a Peter e a Theo, perché c’era anche lui; i due fratelli Jaxon erano seduti al tavolo della cucina della loro casetta all’ora del ritorno del padre e lo ascoltavano rapiti, bevendosi ogni sua parola come se fosse acqua. “Immaginate un posto dove la terra finisce di colpo e al di là non c’è altro che una distesa ribollente di azzurro, come un cielo a testa ingiù. Dentro ci sono le costole arrugginite di grandi navi, migliaia e migliaia di navi, come un’intera città creata dall’uomo e sprofondata, che affiora dalle acque dell’oceano a perdita d’occhio.” Il padre di Peter e Theo non era un uomo di molte parole: comunicava con frasi stringate e con altrettanta parsimonia dispensava il proprio affetto. Preferiva esprimersi con una pacca sulla spalla, aggrottando la fronte o, se era in vena di approvazione, con un cenno di assenso. I racconti

delle Esplorazioni però gli facevano tirare fuori la voce. Diceva che davanti all’oceano si avvertivano la grandezza del mondo, il suo silenzio, il suo vuoto, la solitudine, senza né un uomo né una donna che lo guardasse o pronunciasse il suo nome negli anni. Peter aveva quattordici anni quando suo padre era tornato dopo aver visto il mare. Come tutti i maschi della famiglia Jaxon, compreso il fratello maggiore Theo, aveva fatto l’apprendistato per entrare nella Guardia, sperando di poter partire con il padre e lo zio per le Esplorazioni. Purtroppo, però, non era andata così. L’estate successiva il gruppo di esploratori era caduto in un’imboscata in un luogo che suo padre chiamava Milagro, nei deserti orientali. Avevano perso tre anime, fra cui lo zio Willem, e da allora le Esplorazioni erano state abolite. La gente diceva che era colpa di suo padre, che si era spinto troppo lontano, aveva corso troppi rischi. E per che cosa? Erano anni che non si avevano notizie delle altre colonie. L’ultima, la Colonia Taos, era caduta da quasi ottant’anni, ormai. Nell’ultima trasmissione, prima della Divisione dei Mestieri e dell’Unica Legge, quando era ancora permesso usare la radio, avevano detto che la loro centrale elettrica aveva smesso di funzionare e che le luci si stavano spegnendo. Sicuramente erano stati sopraffatti, come tutti gli altri. Che cosa sperava di ottenere Demo Jaxon allontanandosi per mesi dalla sicurezza delle luci? Che cosa sperava di trovare là fuori nelle tenebre? C’era chi parlava ancora del Giorno del Ritorno, quando l’esercito sarebbe tornato a cercarli, ma in tutti i suoi viaggi Demo Jaxon non aveva mai incontrato l’esercito. L’esercito non esisteva più. Tutti quei morti per scoprire ciò che già sapevano? Dopo l’ultima Esplorazione, il padre di Peter era cambiato. Era diventato triste, aveva l’aria stanca, come se fosse invecchiato di colpo. Sembrava quasi che una parte di lui fosse rimasta nel deserto con Willem, che era la persona a cui voleva più bene, ancora più che a Peter, Theo o a sua moglie. Si era dimesso dalla Consulta, lasciando il posto a Theo, e aveva cominciato a uscire a cavallo da solo, partendo alle prime luci dell’alba con il gregge per tornare pochi minuti prima della Seconda campana della sera. Non diceva a nessuno dove andava, che Peter sapesse, e quando lo aveva chiesto a sua madre lei gli aveva risposto che il padre viveva in un tempo tutto suo. Quando fosse stato pronto, sarebbe tornato da loro. La mattina dell’ultima uscita di suo padre, Peter – che all’epoca faceva la staffetta per la Guardia – era sulla passerella vicino alla Porta Maggiore e lo aveva visto prepararsi a partire. Le luci si erano appena spente e stava per suonare la Prima campana del mattino. Era stata una notte tranquilla, senza segni, e nell’ora che precedeva l’alba aveva nevicato. Il giorno, grigio e freddo, era spuntato lentamente. Mentre il gregge si radunava vicino alla porta, Demo Jaxon era comparso sul viottolo in sella alla grossa cavalla roana che prendeva sempre. Si chiamava Diamond, per la macchia bianca che aveva in fronte, sotto la criniera, e non era una bestia particolarmente veloce, diceva Demo, ma era fedele e instancabile, e svelta quando occorreva esserlo. Guardando il padre con le redini in mano dietro il gregge, in attesa dell’apertura della porta, Peter aveva visto la cavalla scalpitare. Dalle narici le uscivano sbuffi di fiato che formavano una specie di corona di fumo intorno al suo muso lungo e mansueto. Il padre si era chinato e le aveva accarezzato il collo e Peter lo aveva visto muovere le labbra e bisbigliarle qualcosa, forse un incoraggiamento. Ripensando a quel mattino di cinque anni prima, Peter si domandò se suo padre si era accorto che lui era lì a osservarlo dalla passerella scivolosa di neve. Non aveva mai alzato la testa per cercarlo con gli occhi, e Peter non aveva fatto nulla per farsi notare. Mentre lo guardava parlare con Diamond e accarezzarle il collo con un gesto rassicurante, aveva ripensato a quello che aveva detto la madre e aveva capito che era vero. Demo Jaxon ormai viveva in un tempo tutto suo. Pochi istanti prima che suonasse la campana del mattino immancabilmente tirava fuori dal taschino la bussola, la apriva e la studiava, poi la richiudeva e avvertiva la Guardia. “Uno in

uscita!” gridava con la sua voce profonda, di petto. “Ricevuto!” rispondeva chi era di turno alla porta. Il rito era sempre lo stesso, osservato meticolosamente. Ma non quella mattina. Dopo che la porta era stata aperta, suo padre si era diretto con Diamond verso la strada per la centrale elettrica e non verso i pascoli. E solo allora Peter si era reso conto che non aveva né arco né balestra e che il fodero alla sua cintura era vuoto. Quella sera la Seconda campana era suonata senza di lui. Peter aveva poi saputo che il padre aveva fatto rifornimento d’acqua alla centrale a mezzogiorno ed era stato visto per l’ultima volta sotto le pale eoliche mentre cavalcava verso il deserto. Era consuetudine risparmiare alle madri e alle mogli l’ingrato compito di attendere il figlio o il marito; non era scritto da nessuna parte, ma a farsi carico dell’Estremo Gesto di Pietà erano fin da Quel Giorno padri, fratelli e figli maggiori. Così era toccato a Theo attendere il padre, così come adesso Peter attendeva lui. Chissà, magari un giorno qualcuno avrebbe atteso Peter, forse suo figlio. Perché coloro che non morivano, ma venivano ghermiti, tornavano immancabilmente a casa. Dopo tre giorni, cinque, o magari sette: mai di più. Di solito si trattava di guardie, ghermite nel corso di spedizioni di approvvigionamento o alla centrale, di mandriani usciti con il gregge e di addetti ai Lavori Pesanti che si spingevano fuori dalle mura per far legna, effettuare riparazioni o portare rifiuti alla discarica. Non si era mai al sicuro, neppure in pieno giorno: si poteva venire uccisi o ghermiti in qualsiasi momento da virali che si muovevano nell’ombra. La più giovane ghermita a tornare a casa, che Peter sapesse, era una delle figlie dei Boyes. Sharon? Shari? Aveva nove anni durante la Notte Nera. I suoi familiari erano tutti morti, o nel terremoto o nell’attacco che a questo era seguito, e, non avendo parenti ad attenderla, a farsi carico dell’ingrato compito era stato lo zio di Peter, Willem, in quanto Primo Capitano. La figlia dei Boyes, come molti altri, al suo ritorno era ormai trasmutata del tutto; alcuni erano ancora in fase di metamorfosi e, quando comparivano barcollando sotto le mura, stavano male, tremavano e si strappavano i vestiti di dosso. Più lo stadio era avanzato, più erano pericolosi: parecchi padri, figli o zii non erano riusciti a compiere l’Estremo Gesto perché avevano avuto la peggio. Ma di solito i ghermiti non opponevano resistenza. Si presentavano davanti alla porta, abbagliati dai fari, quasi in cerca del colpo fatale. Forse da qualche parte conservavano la memoria dell’umanità perduta e per questo volevano morire. Suo padre non era mai tornato, il che significava che era morto. Forse era stato ammazzato dai virali là nelle Terre Buie, in un luogo che si chiamava Milagro. Sosteneva di avere visto un Pellegrino laggiù, una figura solitaria che guizzava tra le ombre proiettate dalla luna poco prima dell’assalto dei virali. Ma a quel punto la Consulta e il Vecchio Chou avevano abolito le Esplorazioni e lui era caduto in disgrazia, aveva dato le dimissioni e si dedicava alle sue scorrerie misteriose e solitarie fuori dalle mura, descrivendo orbite sempre più vaste, che già allora a Peter sembravano la preparazione a qualcosa di definitivo. Nessuno gli aveva creduto. Era assurdo: sicuramente Demo Jaxon se l’era inventato perché gli concedessero di riprendere le Esplorazioni. L’ultimo Pellegrino giunto alla Colonia era il Colonnello, che era lì da quasi trent’anni e ormai era un vecchio. Aveva una lunga barba bianca e la pelle scura e ispessita come cuoio, e dimostrava l’età del Vecchio Chou, o addirittura della Zia, l’Ultima dei Primi. Un Pellegrino? Da solo, dopo tanti anni? Impossibile. Nemmeno Peter sapeva che cosa pensare, per lo meno fino a sei giorni prima. Adesso, in piedi sulla passerella nel crepuscolo, si ritrovò a rimpiangere che sua madre non ci fosse più: avrebbe tanto voluto poterne parlare con lei. Gli succedeva spesso di sentire la sua mancanza. Si era ammalata una stagione dopo l’ultima esplorazione del marito; tutto era cominciato in una maniera così subdola e graduale che Peter lì per lì non aveva fatto caso alla

tosse aspra che la scuoteva, o a quanto era dimagrita. Essendo infermiera, probabilmente lei invece aveva capito benissimo e sapeva che il cancro che si portava via tante persone si era mortalmente insediato anche dentro di lei, ma aveva deciso di tenere nascosta la notizia ai figli finché avesse potuto. Alla fine si era ridotta a un mucchietto di pelle e ossa e faticava anche solo a respirare. Tutti sostenevano che morire a casa propria, nel proprio letto, come Prudence Jaxon, fosse una fortuna, un buon modo per andarsene. Ma Peter le era stato vicino nelle ultime ore e sapeva quanto era stato terribile, quanto aveva sofferto. No, non esisteva un buon modo per andarsene. Il sole stava ripiegando sotto l’orizzonte e inondava la valle dei suoi ultimi raggi dorati. Il cielo, di un blu intenso, quasi nero, assorbiva le tenebre che si allargavano da est. Peter avvertì l’abbassamento di temperatura, il rapido e deciso calare del fresco della notte. Per un attimo tutto parve sospeso in un’immobilità fremente e silenziosa. Quelli del turno di notte stavano salendo le scale: Ian Patal, Ben Chou, Galen Strauss, Sunny Greenberg e gli altri, quindici in tutto, con archi e balestre sulle spalle. Parlavano tra loro mentre salivano e imboccavano le passerelle, diretti alle rispettive postazioni. Alicia, da sotto, gridava ordini e mandava le staffette di qua e di là. La sua voce gli era di conforto: Alicia era sempre rimasta al suo fianco durante tutte le notti dell’attesa, senza intromettersi ma anche senza allontanarsi più di tanto, in modo che lui sapesse che lei era lì. E, se Theo fosse tornato, sarebbe scesa dalle mura con lui per portare a termine l’ingrato compito. Peter fece un respiro profondo e trattenne nei polmoni l’aria della sera. Stavano per spuntare le stelle. La Zia gliene aveva parlato spesso, come pure suo padre: le stelle erano sparse per tutto il cielo come lucenti granelli di sabbia ed erano più numerose di tutte le anime mai vissute sulla terra, talmente tante che era impossibile contarle. Ogni volta che suo padre ne parlava, quando raccontava delle Esplorazioni e delle cose che aveva visto, aveva la loro luce negli occhi. Ma quella sera Peter non le avrebbe viste. La campana ricominciò a suonare, due rintocchi decisi, e Peter udì Soo Ramirez gridare dal basso: «Sgombrare la porta! Sgombrare la porta per la Seconda campana!». La passerella sotto i suoi piedi fu scossa da un fremito che gli arrivò fin nelle ossa, i contrappesi entrarono in azione e con un cigolio metallico le porte, spesse mezzo metro e alte venti, cominciarono a scendere dal loro alloggiamento nelle mura. Peter sollevò la balestra, augurandosi di arrivare al mattino successivo senza doverla usare. Poi le luci si accesero.

20 REGISTRO DI GUARDIA ESTATE 92 GIORNO 41: Nessun segno. GIORNO 42: Nessun segno. GIORNO 43: 23.06. Avvistato virale isolato a 200 m, PT 3. Nessun avvicinamento. GIORNO 44: Nessun segno. GIORNO 45: 02.00. Branco di 3 a PT 6. Un bersaglio si stacca e tenta la scalata delle mura. Frecce sparate da PT 5 + 6. Bersaglio in ritirata. Nessun altro contatto. GIORNO 46: Nessun segno. GIORNO 47: 01.15. Staffetta Kip Darrell riferisce movimento su barricata incendiaria NO fra PT 9 e PT 10, non confermato dalla guardia alla postazione, registrato ufficialmente come “nessun segno”. GIORNO 48: 21.40: Branco di 3 a PT 1, 200 m. Un bersaglio si avvicina fino a 100 m, ma si ritira senza scontri. GIORNO 49: Nessun segno. GIORNO 50: 22.15. Branco di 6 a PT 7. A caccia di piccoli animali, non si avvicinano. 23.05. Branco di 3 a PT 3. 2 maschi, 1 femmina. Scontro aperto, 1 KO. Uccisione nella rete eseguita da Arlo Wilson, assistente di Alicia Donadio, Capitano in seconda. Smaltimento cadavere affidato a LP. Inviata a LP richiesta di riparazione a giuntura con appiglio a PT 6. Ricevuta da Finn Darrell, LP. BILANCIO CORRENTE: 6 contatti, 1 non confermato, 1 KO. Anime uccise 0, ghermite 0. PRESENTATO ALLA CONSULTA CON OSSEQUI DA S.C. Ramirez, Primo Capitano Ammesso e non concesso che un singolo episodio potesse assumere un significato particolare se collocato nel contesto di altri eventi, la scomparsa di Theo Jaxon, membro di una delle Prime Famiglie e della Consulta, Capitano in seconda della Guardia, poteva essere considerata parte di una concatenazione di eventi cominciata dodici giorni prima, la mattina del cinquantunesimo d’estate, dopo l’uccisione di un virale nella rete da parte della guardia Arlo Wilson. L’attacco era avvenuto la sera prima, a sud, vicino alla Piattaforma di tiro 3. Peter, che si trovava nella sua postazione sul lato opposto del perimetro, non aveva visto nulla e aveva ricevuto un resoconto dettagliato dei fatti solo all’alba, quando la squadra dei rifornimenti si era radunata davanti alla Porta Maggiore. Attacchi così si verificavano un po’ in tutte le stagioni, ma d’estate erano più frequenti. Un branco di tre, due maschi e una femmina. Soo Ramirez pensava – e altri erano d’accordo – che molto probabilmente fossero gli stessi che erano già stati avvistati due volte nelle cinque notti precedenti nei pressi della barricata incendiaria. Gli attacchi avvenivano spesso così, per gradi,

nell’arco di parecchie notti. Si palesava un gruppo di virali al limitare della zona illuminata, come per valutare le difese della Colonia, poi niente per una o due notti e infine ricomparivano, questa volta più vicino. Magari uno si staccava dal branco e poi batteva in ritirata. In genere, la terza volta che si facevano vedere attaccavano. Le mura erano altissime e nemmeno i virali più forti riuscivano a salire fino in cima con un solo salto; l’unico modo per scavalcarle era scalarle, sfruttando le giunture fra le lamiere come appoggio per i piedi. Le piattaforme di tiro, con le reti di acciaio aggettanti, si trovavano in corrispondenza di tali saldature. I pochi virali che riuscivano ad arrampicarsi fino a una piattaforma di solito ci arrivavano confusi, disorientati e storditi dalle luci, e spesso battevano in ritirata. Quelli che non si arrendevano si ritrovavano appesi sotto le reti in una posizione in cui la guardia sulla piattaforma poteva colpirli abbastanza facilmente nel punto debole con la balestra o, alla peggio, con la lama. Era molto raro che un virale riuscisse a superare la rete: Peter l’aveva visto succedere una volta in cinque anni. Quando accadeva, tuttavia, la morte della guardia era pressoché inevitabile. A quel punto dipendeva tutto da quanto il virale era indebolito dalle luci, da quanto ci mettevano le altre guardie ad abbatterlo e da quante persone morivano nel frattempo. Il branco di quella notte si era diretto subito verso la Piattaforma di tiro 6. O erano stati molto fortunati, oppure i tre virali nelle due incursioni precedenti avevano notato la fessura sotto la piattaforma, larga meno di mezzo centimetro, dovuta all’inevitabile assestamento delle lamiere. Solo uno dei tre era arrivato in cima, la femmina. Era un dettaglio che Peter trovava sempre curioso, dal momento che la differenza tra maschi e femmine era lievissima e apparentemente inutile, visto che non risultava che i virali si riproducessero. Era una femmina grande, alta almeno due metri, con un caratteristico ciuffo di capelli bianchi. Impossibile stabilire se quel ciuffo significasse che quando era stata ghermita era già vecchia o che da allora si era verificato un cambiamento biologico: si credeva che i virali fossero immortali, o quasi, e nessuno prima di allora ne aveva mai visto uno con i capelli. La virale si era arrampicata velocemente lungo la saldatura fino alla base della rete, poi si era voltata, si era staccata dalla parete spiccando un salto nel vuoto e si era aggrappata al bordo più esterno della fortificazione, il tutto in un paio di secondi a dir tanto. A quel punto, sospesa a una ventina di metri di altezza, si era dondolata avanti e indietro varie volte per prendere lo slancio e, scavalcata la rete, era atterrata sul bordo della piattaforma, artigliandolo. Arlo Wilson le aveva puntato la balestra al petto e le aveva sparato a bruciapelo nel punto debole. La mattina dopo, alla luce del sole che sorgeva, Arlo aveva raccontato tutta la storia a Peter e agli altri, descrivendo con foga i particolari. Come tutti i Wilson, era un gran chiacchierone. Non era un Capitano, ma lo sembrava: era grande e grosso, con una folta barba, braccia robuste e modi affabili, da cui si capiva che era forte e sicuro di sé. Aveva un fratello gemello, Hollis, che gli assomigliava come una goccia d’acqua, ma si rasava. La moglie di Arlo, Leigh, era una Jaxon, cugina di Peter e Theo, e quindi anche lui era loro cugino. A volte, la sera, quando non era di guardia, Arlo si sedeva nella piazza del Sole sotto le luci a suonare la chitarra e cantare vecchie canzoni popolari trovate in un libro che avevano lasciato i Costruttori, oppure andava al Nido e, mentre i bambini si preparavano per andare a dormire, suonava loro buffe canzoncine inventate su una maialina di nome Edna che amava rotolarsi nel fango e mangiava trifoglio dalla mattina alla sera. Adesso che anche Arlo aveva un Piccolo al Nido – un fagottino che si chiamava Dora –, tutti si aspettavano che rimanesse nella Guardia sulle mura ancora uno o due anni e poi passasse a qualche mestiere meno pericoloso. Il merito dell’uccisione della virale era toccato a lui per puro caso e Arlo non aveva mancato di farlo notare: quella notte alla Piattaforma 6 avrebbe potuto esserci chiunque, perché a Soo piaceva spostare spesso le guardie, tanto che nessuno sapeva mai in che postazione si sarebbe

trovato e quando. Ma non era stata soltanto fortuna, e Peter lo sapeva bene, anche se per modestia Arlo non lo aveva detto. Molti, al momento di agire, si paralizzavano. Nemmeno Peter sapeva come avrebbe reagito al posto di Arlo. Non aveva mai affrontato un virale così da vicino: tutti quelli che aveva ucciso erano addormentati, in pieno giorno. Quindi, se proprio si voleva parlare di fortuna, era stata una fortuna per tutti che su quella piattaforma, quella notte, ci fosse proprio Arlo Wilson. La mattina dopo, Arlo era davanti alla Porta Maggiore. Faceva parte della squadra che doveva recarsi alla centrale per dare il cambio a quelli della manutenzione e portare i rifornimenti necessari. La squadra era composta come sempre da sei elementi: quattro guardie, due in testa e due in coda, a dorso di mulo, e due addetti ai Lavori Pesanti – che tutti chiamavano “bulldozer” – incaricati della manutenzione dei generatori eolici che alimentavano l’impianto d’illuminazione coloniale. C’era anche un’asina che tirava il carro con le cibarie, l’acqua, gli attrezzi e il lubrificante, che era un misto di farina di granturco e grasso di pecora. Intorno al carro si era già formata una nuvola di mosche, attirate dall’odore. Pochi istanti prima della campana del mattino i due bulldozer, Rey Ramirez e Finn Darrell, avevano controllato che sul carro ci fosse tutto il necessario, mentre le guardie aspettavano in sella ai loro cavalli. Theo, a capo della squadra, aveva preso posizione in testa, accanto a Peter; a chiudere la colonna c’erano Arlo e Mausami Patal. Mausami apparteneva a una delle Prime Famiglie; suo padre, Sanjay, era Capoconsulta. L’estate precedente si era appaiata con Galen Strauss e perciò adesso era una Strauss anche lei. Peter continuava a non capire perché avesse scelto proprio Galen: era un giovane abbastanza simpatico, ma aveva qualcosa di sfuggente, come se dentro di lui ci fosse un ingrediente essenziale che non si era ancora stabilizzato del tutto, come se fosse un’approssimazione di se stesso. Forse era il modo in cui guardava il suo interlocutore, strizzando gli occhi (sapevano tutti che ci vedeva poco), o forse era la sua aria perennemente distratta. Fatto sta che sembrava l’ultimo uomo che Mausami potesse scegliere. Theo non glielo aveva mai detto, ma Peter era convinto che avesse sperato di appaiarsi lui con Mausami. Lei e Theo erano cresciuti insieme, erano usciti dal Nido lo stesso anno ed erano entrati subito nella Guardia come apprendisti. La notizia del matrimonio con Galen era stata un brutto colpo per Theo. Subito dopo l’annuncio ufficiale, era rimasto abbacchiato per giorni e non aveva praticamente rivolto la parola a nessuno. Peter dopo un po’ aveva sollevato l’argomento, ma Theo gli aveva detto che in fondo era lo stesso, che evidentemente aveva temporeggiato troppo. Desiderava soltanto che Maus fosse felice e, se con Galen lo era, andava bene così. Non era uno loquace, incline alle confidenze, nemmeno con suo fratello. Perciò Peter si era dovuto accontentare di quella risposta, anche se Theo gliel’aveva data senza guardarlo negli occhi. Theo era fatto così. Era come suo padre, poco espansivo, e comunicava con il silenzio tanto quanto con le parole. Nei giorni successivi Peter aveva ripensato spesso a quella mattina e si era chiesto se ci fosse qualcosa di diverso in suo fratello, qualcosa che indicasse che sapeva ciò a cui stava andando incontro, se fosse consapevole che non sarebbe mai più tornato. Come suo padre. Invece no, era tutto come al solito: la normale partenza di una squadra di rifornimento, con Theo in sella al suo cavallo che giocherellava con le redini mostrando la consueta impazienza. Peter, con il cavallo che si muoveva nervoso sotto di lui, faceva queste riflessioni, di cui solo in seguito avrebbe capito l’importanza, in attesa che suonasse la campana per poter partire. A un certo punto aveva alzato gli occhi e visto arrivare Alicia. Era a piedi e veniva dall’Armeria di buon passo, con aria decisa. Peter si aspettava che andasse da Theo, dal Capitano, per consultarlo a proposito di quello che era successo durante la notte e decidere un’eventuale

controffensiva per scacciare il resto del branco. Invece lei gli era passata davanti e aveva tirato dritto, verso il fondo della fila. “Tu non vai da nessuna parte, Maus” aveva detto Alicia in tono secco. “Scordatelo.” Mausami si era guardata intorno con un’aria stupita che a Peter era subito sembrata fasulla. Tutti dicevano che Maus era fortunata ad assomigliare alla madre: aveva lo stesso viso delicato, ovale, e folti capelli neri che le ricadevano come un’onda scura sulle spalle. Per essere una donna era robusta, ma i suoi erano soprattutto muscoli, non grasso. “Cosa dici? Perché?” Alicia, in piedi davanti al cavallo, si era messa le mani sui fianchi. Anche alla luce fredda dell’alba i suoi capelli, raccolti in una lunga treccia, erano di un caldo rosso miele. Aveva, come sempre, tre lame alla cintura. Tutti dicevano che non si era ancora appaiata perché non si toglieva le lame nemmeno per andare a dormire. “Perché sei incinta, ecco perché” aveva risposto. Tutti erano rimasti in silenzio, sbigottiti. Peter non aveva potuto fare a meno di voltarsi sulla sella e abbassare lo sguardo sulla pancia di Mausami. Se aspettava un bambino, non si vedeva ancora, benché fosse difficile dirlo dato che indossava una tunica larga. Aveva guardato il fratello, che però era rimasto impassibile. “Senti senti...” aveva commentato Arlo schiudendo le labbra in un sorriso. “In effetti mi chiedevo come mai non vi davate da fare.” Sulle guance di Mausami erano comparse due chiazze rosso vivo. “Chi te l’ha detto?” “Secondo te?” Mausami aveva distolto lo sguardo. “Porco vampiro, giuro che lo ammazzo.” Theo si era voltato, in sella al cavallo, per guardarla in faccia. “Galen ha ragione, Maus. Non devi uscire a cavallo.” “Cosa ne sa lui? È un anno che fa di tutto perché sia esonerata dalla Guardia! Non può farmi questo.” “Galen non c’entra. Sono io che ti esonero dalla Guardia, Maus” era intervenuta Alicia. “Argomento chiuso.” Intanto, alle loro spalle, il gregge stava avanzando nel viottolo. Entro breve sarebbero stati sommersi dal rumore e dalla confusione degli animali. Peter aveva guardato Mausami e si era sforzato di immaginarla nel ruolo di madre, senza riuscirci. L’usanza era che le gravide si dimettessero dalla Guardia e anche molti uomini chiedevano di essere dispensati quando la moglie rimaneva incinta. Mausami però era un ottimo elemento, con una mira migliore di molti uomini, capace di mantenere il sangue freddo nei momenti di crisi e di muoversi con calma e determinazione. Come Diamond, aveva pensato Peter: svelta quando occorreva. “Dovresti essere contenta” le aveva detto Theo. “È una bellissima notizia.” Mausami pareva il ritratto dell’infelicità e Peter si era accorto che aveva gli occhi lucidi. “Dài, Theo! Mi ci vedi al Nido, seduta a sferruzzare scarpette da neonato? Impazzirei...” Theo si era sporto verso di lei. “Maus, ascolta...”

“No, Theo.” Mausami si era ritratta di scatto voltandosi per asciugarsi gli occhi con il dorso della mano. “Okay, statemi bene a sentire: lo spettacolo è finito. Contenta, Lish? Hai ottenuto quello che volevi. Me ne vado.” Appena si era allontanata, Theo aveva posato le mani sul pomolo della sella e guardato Alicia, che stava pulendo una lama su un lembo della tunica. “Avresti potuto aspettare il nostro ritorno.” Alicia si era stretta nelle spalle. “Un Piccolo è un Piccolo, Theo. Sai benissimo quali sono le regole. E, francamente, mi sono un po’ irritata che non mi abbia detto niente. Non è una cosa che si possa tenere nascosta.” Aveva fatto ruotare velocemente la lama intorno all’indice prima di riporla nel fodero. “Ho agito a fin di bene. Se ne farà una ragione.” Theo aveva aggrottato la fronte. “La conosco meglio di te.” “Non ho voglia di discutere, Theo. Ho già parlato con Soo. È deciso.” Il gregge ormai si accalcava intorno a loro e la luce era diventata più calda. Mancava poco alla Prima campana del mattino. A quel punto la porta della Colonia si sarebbe aperta. “Bisognerà trovare un quarto” aveva detto Theo. Alicia aveva sorriso. “Già fatto.” Alicia delle Lame. Era l’ultima dei Donadio, ma tutti la chiamavano “Alicia delle Lame”. Il più giovane Capitano mai nominato da Quel Giorno. Aveva perso i genitori durante la Notte Nera e il Colonnello l’aveva adottata e tirata su come se fosse sua figlia. Chiunque egli fosse – una questione alquanto discussa –, il Colonnello aveva plasmato Alicia a propria immagine e somiglianza. Il Colonnello aveva una storia vaga, più leggenda che realtà. Dicevano che si fosse presentato un giorno, di punto in bianco, alla Porta Maggiore, con un fucile scarico e una lunga collana di oggetti affilati e luccicanti che erano poi risultati essere denti di virali. Se avesse un nome, non era dato saperlo: ormai lo chiamavano tutti “il Colonnello” e basta. Alcuni dicevano che fosse un sopravvissuto degli Insediamenti della Baja, altri che venisse da un gruppo di nomadi, cacciatori di virali. Se Alicia conosceva la sua vera storia, non ne aveva mai parlato con nessuno. Il Colonnello non si era mai sposato e viveva per conto suo, in una baracca che si era costruito sotto il muro est con materiali di recupero; era stato più volte invitato a entrare nella Guardia, ma aveva sempre declinato, preferendo lavorare all’apiario. Si vociferava che si fosse scavato un passaggio segreto attraverso il quale usciva dalla Colonia per andare a caccia di virali al sorgere del sole. Ma nessuno lo aveva mai colto in flagrante. Non era l’unico nella Colonia a non essersi mai appaiato e a vivere in solitudine, e molto probabilmente sarebbe stato presto dimenticato se non fosse stato per gli eventi della Notte Nera. Peter all’epoca aveva solo sei anni e non era sicuro se quello che ricordava fosse successo veramente o fosse frutto delle storie che aveva sentito raccontare in seguito e che aveva abbellito con la fantasia. Il terremoto lo ricordava con certezza, però. Le scosse telluriche erano frequenti, ma mai forti come quella che aveva fatto tremare la montagna quella sera, mentre i bambini si preparavano ad andare a dormire: c’era stato un sussulto fortissimo, dopodiché la terra aveva tremato per un intero minuto, con tanta violenza che pareva volesse spaccarsi in due. Peter ricordava la sensazione d’impotenza che aveva provato nel sentirsi sollevare e

sbatacchiare di qua e di là come una foglia al vento, e poi le urla, le grida, la Maestra che strillava e strepitava, il boato con cui era crollato il muro ovest del Nido e il sapore di polvere in bocca. La terra aveva tremato subito dopo il tramonto facendo saltare la corrente; quando i primi virali avevano fatto irruzione dentro il perimetro, non era restato che dare fuoco alla barricata incendiaria e ritirarsi in ciò che restava del Nido. Molti di quelli che avevano perso la vita erano rimasti intrappolati sotto le macerie delle loro case. Al mattino i morti erano centosessantadue, fra i quali due intere famiglie, più metà gregge, quasi tutti i polli e tutti i cani. Molti superstiti dovevano la vita al Colonnello, che era stato l’unico ad avventurarsi fuori dal Nido in cerca dei feriti e se ne era caricati in spalla parecchi per portarli nel Magazzino, dove si era asserragliato e aveva resistito per tutta la notte all’attacco dei virali. Fra le persone che aveva soccorso, oltre una ventina, c’erano anche John e Angel Donadio, i genitori di Alicia, gli unici che non ce l’avevano fatta. Il mattino dopo, sporco di sangue e di polvere, il Colonnello era entrato in quel che restava del Nido, aveva preso per mano Alicia e aveva dichiarato: “A questa bambina ci penso io”. Poi era uscito portandola con sé. Nessuno degli adulti presenti aveva trovato la forza di obiettare. Quella notte Alicia era rimasta orfana, come tanti altri. I Donadio non erano una delle Prime Famiglie, erano Pellegrini; se qualcuno era disposto a occuparsi della bambina, tanto meglio. Tuttavia c’era chi all’epoca aveva visto nell’acquiescenza di Alicia un segno del destino, la possibilità di ristabilire un equilibrio cosmico: Alicia era, o sembrava essere, destinata ad appartenere al Colonnello. Il Colonnello le aveva insegnato tutto quello che aveva imparato nelle Terre Buie, prima nella sua baracca sotto le mura e poi nei poligoni di addestramento. Le aveva insegnato non solo a combattere e a uccidere, ma anche ad arrendersi. Perché era quello che bisognava fare quando arrivavano i virali, sosteneva: considerarsi già morti. La bambina aveva appreso in fretta e a otto anni era già apprendista nella Guardia, molto più brava degli altri sia con l’arco e la balestra sia con le lame. A quattordici era diventata staffetta e correva sulla passerella da una piattaforma di tiro all’altra. Una notte un branco di sei virali – viaggiavano sempre in multipli di tre – era riuscito a scavalcare il muro sud proprio mentre stava arrivando lei. In quanto staffetta, Alicia non era autorizzata a combattere: il suo compito era correre a dare l’allarme. Invece lei ne aveva neutralizzato uno lanciandogli una lama nel punto debole, quindi aveva imbracciato la balestra e aveva abbattuto il secondo al volo. Il terzo lo aveva affrontato con un coltello, a distanza ravvicinata: glielo aveva conficcato sotto lo sterno mentre le zompava addosso, sfruttando il suo slancio, la faccia talmente vicina da sentire l’odore del suo alito notturno. Gli altri tre virali a quel punto si erano separati, erano scesi nuovamente dalle mura e si erano dileguati nelle tenebre. Nessuno era mai uscito vivo da un combattimento così, uno contro tre, meno che mai a quindici anni. Da quel giorno Alicia era entrata a far parte della Guardia e a vent’anni aveva raggiunto il grado di Capitano in seconda. Tutti si aspettavano che prendesse il posto di Soo Ramirez, diventando Primo Capitano. Da quella fatidica notte, Alicia non aveva mai smesso di portare tre lame. Una volta, mentre era di guardia insieme a Peter sotto le luci, gli aveva raccontato del terzo virale e di come era arrivata ad arrendersi. Benché lei avesse un grado superiore, tra loro si era formato un legame in cui i rapporti gerarchici non erano importanti. Peter aveva capito subito che Alicia con quel racconto non voleva dimostrare nulla: gliene parlava solo perché erano amici. Non le era successo né con il primo né con il secondo virale, gli aveva spiegato, ma con il terzo sì. Era stato allora che aveva capito con assoluta chiarezza di essere morta. E la cosa strana era che, una volta resasi conto di questo, sfoderare il coltello era stato facilissimo. Tutte le paure erano scomparse e la sua mano aveva trovato la lama come di propria iniziativa;

quando la creatura le era saltata addosso, lei aveva pensato semplicemente: “Ecco, ci siamo. Ma visto che me ne sto andando da questo mondo, tanto vale che ti porti con me”. Come se fosse un dato di fatto, una cosa già avvenuta. Il gregge si era già incamminato quando Alicia era tornata sul suo cavallo, con una piccola borsa di tela in vita e una borraccia d’acqua appesa alla sella. Non aveva una casa vera e propria: nonostante ci fossero un sacco di costruzioni disabitate, preferiva dormire in una baracca di lamiera dietro l’Armeria, dove teneva una branda e le poche cose che possedeva. Che Peter sapesse, Alicia non dormiva mai più di qualche ora; se aveva bisogno di lei, l’Armeria era l’ultimo posto in cui andarla a cercare: era sempre sulle mura. Portava l’arco, che era più leggero di una balestra e più maneggevole a cavallo, ma non indossava il parabraccio: era solo per figura. Theo si era offerto di cederle il posto in testa alla squadra, ma lei aveva declinato e si era messa in fondo, al posto di Mausami. “Non preoccupatevi per me. Vengo solo per prendere un po’ d’aria” aveva detto portandosi accanto ad Arlo. “Tocca a te guidare il convoglio, Theo. Inutile cambiare la linea gerarchica. E poi preferisco stare vicino al grand’uomo, qui: mi terrà sveglia con le sue chiacchiere.” Peter aveva sentito Theo sospirare; sapeva che il fratello a volte trovava Alicia un po’ arrogante. “Non dovrebbe fare tanto la sbruffona” gli aveva detto in più di un’occasione, ed era vero: la sicurezza di sé di Alicia rasentava l’incoscienza. Si era voltato sulla sella e aveva guardato verso Finn e Rey, che avevano assistito alla scena indifferenti, in silenzio. Stabilire chi cavalcava a fianco di chi era di competenza delle guardie; a loro non sarebbe potuto fregare di meno. “Per te va bene, Arlo?” aveva chiesto Theo. “Certo, cugino.” “Sai, Arlo, mi sono sempre chiesta una cosa” aveva detto Alicia in un tono animato da cui traspariva tutta la sua esuberanza. “È vero che Hollis ha cominciato a radersi perché Leigh vi potesse distinguere l’uno dall’altro?” Tutti sapevano che da giovani i due fratelli Wilson si scambiavano le fidanzate senza che nessuno se ne accorgesse. Arlo aveva sorriso, sornione. “Dovresti chiederlo a Leigh.” Ma non c’era più tempo per le ciance: erano già in ritardo. Theo aveva dato ordine di partire. Mentre si avvicinavano alla Porta Maggiore, però, avevano sentito delle grida alle loro spalle. “Fermi! Fermatevi!” Peter si era voltato e aveva visto Michael Fisher che arrivava di corsa. Michael era Primo Ingegnere di Luce ed Energia. Come Alicia, era molto giovane per la carica che ricopriva: aveva solo diciotto anni. Ma nella sua famiglia tutti i maschi erano ingegneri e lui aveva imparato l’arte dal padre appena era uscito dal Nido. Nessuno capiva fino in fondo in cosa consistesse il lavoro degli ingegneri – Luce ed Energia era di gran lunga il più tecnico dei mestieri –, a parte il fatto che mantenevano accese le luci, ricaricavano le batterie e facevano arrivare la corrente elettrica fin sulla montagna, un’impresa che da una parte sembrava una gran magia, dall’altra una cosa del tutto normale. Le luci, in fondo, si accendevano regolarmente tutte le sere. “Per fortuna sono riuscito a raggiungervi” aveva detto Michael fermandosi per riprendere fiato. “Dov’è Maus? Credevo che uscisse con voi.”

“Lascia perdere, Circuito” aveva gridato Alicia da dietro. La sua cavalla dal pelo sauro, che si chiamava Omega, scalciava nella polvere, ansiosa di mettersi in marcia. “Theo, vogliamo andare, per favore?” Michael aveva fatto una faccia esasperata. Quando diventava tutto rosso, come in quel momento, e strizzava gli occhi sotto la frangia bionda, sembrava ancora più giovane di quanto non fosse. Senza dire nulla, aveva porto a Theo l’oggetto che aveva portato con sé: un rettangolo di plastica verde con tanti puntini di metallo sulla superficie. “Mi arrendo” aveva detto Theo rigirandoselo fra le dita. “Che cos’è?” “Una scheda madre.” “Ehi!” aveva esclamato Alicia. “E la scheda figlia dov’è?” Michael si era voltato a guardarla. “Non ti farebbe male documentarti un po’ di più sul nostro lavoro, sai?” Alicia aveva alzato le spalle. Tutti sapevano che lei e Michael non andavano d’accordo: litigavano sempre. “Premi un interruttore e si accendono le luci. Cosa c’è da capire?” “Piantala, Lish” era intervenuto Theo. Poi, rivolgendosi a Michael, aveva aggiunto: “Non starla a sentire. Hai bisogno di uno di questi affari?”. Michael aveva indicato la scheda. “Vedi questo quadratino nero? È il microprocessore. Non sto a spiegarti a cosa serve. Devi soltanto portarmene uno con gli stessi numeri, se puoi, o anche con un numero diverso purché finisca per nove. Sono in tutti i desktop, ma gli scarafaggi mangiano la colla, quindi se riesci trovamene uno pulito, asciutto e senza escrementi. Potresti provare a guardare negli uffici della parte sud del centro commerciale.” Theo aveva esaminato la scheda ancora una volta prima di metterla nella bisaccia. “Okay. Non abbiamo in programma approvvigionamenti, ma se facciamo in tempo lo cerchiamo. Serve altro?” Michael aveva aggrottato la fronte. “Ci farebbe comodo un reattore nucleare. Oppure tremila metri cubi di idrogeno ionizzato e una pila a combustibile a scambio protonico.” “Santo cielo, Circuito, parla come mangi! Nessuno capisce quello che dici. Theo, possiamo andare ora?” Michael aveva lanciato un’occhiataccia ad Alicia, poi si era rivolto di nuovo a Theo. “Mi basta la scheda madre. Se riesci, portamene più di una. E ricordati cosa ti ho detto della colla. E... Peter?” Peter si era distratto a guardare gli ultimi animali del gregge che si stavano allontanando oltre la porta in una nuvola di polvere, diretti in cima alla salita che portava al Campo di Sopra. Ma non era al gregge che stava pensando. Pensava a Mausami, alla faccia spaventata che aveva fatto quando Theo aveva allungato la mano verso di lei, come se avesse avuto paura che lui la toccasse, come se le fosse sembrato insopportabile. Scacciata quell’immagine, era tornato a guardare Michael, in piedi davanti al suo cavallo. “Mia sorella ti manda a dire una cosa” aveva detto Michael.

“Sara?” “Sì, Sara.” Michael si era stretto nelle spalle, un po’ imbarazzato. “Ti raccomanda di essere prudente.” La centrale elettrica si trovava a quaranta chilometri di distanza e per arrivarci a cavallo ci voleva quasi un giorno intero. Dopo un’ora di marcia, il caldo e la prospettiva del lungo viaggio che li attendeva misero a tacere tutti quanti, persino Arlo. In certi punti la strada che scendeva lungo le pendici della montagna era franata in seguito alle piogge e bisognava smontare di sella e condurre i cavalli a mano. Il lubrificante stava cominciando a puzzare e Peter si rallegrò di essere il primo della fila, lontano dal tanfo. Il sole era ormai alto e faceva caldo, non c’era un filo d’aria o di brezza. Il deserto, giù in basso, era lucido come ferro battuto. A metà giornata si fermarono per riposare. Mentre i due bulldozer abbeveravano gli animali, gli altri si posizionarono su un’altura rocciosa sopra il carro, a scrutare la linea degli alberi, Theo e Peter da una parte, Arlo e Alicia dall’altra. «Vedi laggiù?» Theo, che aveva il binocolo, indicò l’ombra degli alberi. Peter si riparò gli occhi dal riflesso del sole con la mano. «Non vedo niente.» «Abbi pazienza.» Poi anche Peter lo vide: a duecento metri di distanza, un movimento quasi impercettibile, poco più di uno stormire di fronde su un pino molto alto, seguito da una pioggerellina di aghi. Trattenne il fiato, sperando che non fosse niente. Ma poco dopo il pino si mosse di nuovo. «È un virale in caccia e si tiene all’ombra» disse Theo. «Cerca scoiattoli, probabilmente. Non c’è molto altro da queste parti. Deve avere una fame da morire, per essere uscito di giorno.» Theo emise un fischio, soffiando fra i denti. Alicia si voltò di scatto. Theo si indicò gli occhi con due dita, poi puntò l’indice verso la linea degli alberi e infine mostrò la mano con le dita flesse a mo’ di punto interrogativo: “L’avete visto anche voi?”. Alicia rispose con il pugno chiuso. “Sì.” «Andiamo, fratello.» Scesero dall’altura e si diressero verso il carro, dove Rey e Finn erano spaparanzati sui sacchi di lubrificante a mangiare gallette e a bere a turno da una bottiglia di plastica piena d’acqua. «Possiamo attirarlo con uno dei muli» propose Alicia mettendosi a disegnare con un bastone sulla terra davanti ai loro piedi. «Sostituiamo l’acqua con il lubrificante, lo mandiamo un centinaio di metri più vicino agli alberi e vediamo se il virale abbocca all’amo. Probabilmente ha già sentito l’odore. Ci piazziamo in tre punti, qui, qui e qui.» Segnò tre posizioni per terra. «E lo mettiamo sotto tiro incrociato. Al sole, dovrebbe essere un bersaglio facile.» Theo si rabbuiò. «Non siamo usciti per dare la caccia ai fumidi, Lish.» Per la prima volta Rey e Finn alzarono la testa dal carro. «Cosa diavolo dite?» esclamò Rey. «Ci sono dei fumidi? Quanti?» «Non preoccuparti, ora ripartiamo.»

«È uno solo, Theo» ribatté Alicia. «Non possiamo lasciarlo andare. Il gregge è a dieci chilometri da qui!» «Possiamo, invece, e lo faremo. Dove ce n’è uno, ce ne sono anche altri.» Theo inarcò le sopracciglia guardando Rey e Finn. «Siamo pronti a ripartire?» chiese. «Porco vampiro, andiamocene prima che possiamo» rispose Rey alzandosi velocemente dal pianale del carro. Alicia li osservò ancora un momento con le braccia conserte. Peter si domandò quanto fosse arrabbiata e si ricordò che, prima di partire, aveva parlato di linea gerarchica. «Va bene. Sei tu che comandi, Theo» disse infatti. Si rimisero in cammino. Quando arrivarono ai piedi della montagna, era metà pomeriggio. Erano in vista delle pale eoliche ormai da un’ora: sull’altopiano del passo di San Gorgonio ce n’erano centinaia, sembravano una foresta di alberi artificiali. In lontananza, i monti baluginavano nella caligine. Soffiava un vento asciutto, caldo, che si portava via le parole non appena venivano pronunciate e impediva di conversare. A mano a mano che scendevano, la temperatura si alzava: era come entrare nella fucina di un fabbro. A Banning la strada finiva e bisognava prendere la Eastern Road e proseguire verso l’interno per un’altra decina di chilometri prima di arrivare alla centrale. «Tutt’occhi» raccomandò Theo quasi gridando per farsi sentire nonostante il vento. Poi scrutò ancora qualche momento la strada con il binocolo. «Stiamo vicini. Lish, in testa.» Peter ebbe un moto di irritazione – era il secondo della fila, sarebbe toccato a lui passare in testa –, ma lasciò correre e non protestò: era chiaro che Theo voleva dare ad Alicia un contentino dopo averla contraddetta, per rappacificarsi. Le passò il binocolo. Alicia spronò il cavallo e si spostò una cinquantina di metri più avanti, con la treccia rossa che dondolava al sole. Senza voltarsi, alzò una mano aperta, poi la piegò fino a mettere il palmo parallelo al terreno e dalle labbra le uscì un fischio sottile, che sembrava il richiamo di un uccello. “Via libera. Avanti.” «Andiamo» disse Theo. Peter aveva il batticuore: dopo la lunga discesa, che era stata piuttosto monotona, tutti i suoi sensi si erano risvegliati e di colpo aveva un’intensa consapevolezza di ciò che lo circondava, come se vedesse la scena da più punti di vista contemporaneamente. Continuarono ad avanzare ad andatura regolare, pronti a tirare con l’arco. Nessuno parlava tranne Finn, che era sceso dal carro e guidava l’asina tenendola per le briglie e mormorandole parole rassicuranti. La strada era poco più di un sentiero sabbioso, con solchi profondi scavati negli anni dalle ruote dei carri. Peter percepiva ogni rumore e ogni movimento nel panorama come se facesse parte di lui: il sibilo basso del vento che passava in una finestra rotta, lo sventolio di un pezzo di tela impigliato in un palo, il cigolio di un’insegna di metallo ormai illeggibile che dondolava sopra le pompe di benzina di una vecchia stazione di servizio. Passarono accanto a un mucchio di auto arrugginite, carcasse contorte e accatastate l’una sull’altra, davanti a un gruppo di case semisepolte sotto dune di sabbia che arrivava quasi al tetto e a un enorme capannone di metallo, ammaccato e scolorito. Sentirono un tubare di piccioni e poi, quando furono sottovento, l’odore fetido dei loro escrementi. «Tutt’occhi» ripeté Theo. «Attraversiamo.»

Entrarono in silenzio nel centro della città, dove gli edifici erano più grandi e più alti. Molte costruzioni erano crollate, lasciando dei vuoti fra l’una e l’altra e riempiendo le strade di macerie e detriti. Lungo la strada c’erano auto e furgoni fermi in posizioni strane, alcuni con le portiere aperte a testimoniare in eterno il momento in cui i loro occupanti erano fuggiti; altri conservavano nell’abitacolo chiuso, sotto il sole implacabile del deserto, i cadaveri rinsecchiti dei “mingherli”: mucchietti di ossa chini sul cruscotto o schiacciati contro i finestrini, avvizziti e informi, tanto che a volte si riconoscevano soltanto da un ciuffo di capelli stopposi trattenuti da un nastro, o dal luccichio metallico di un orologio al polso di una mano che, dopo quasi cent’anni, stringeva ancora il volante di un pick-up con le ruote completamente affondate nella sabbia. Tutto appariva immobile e muto come una tomba, e così era fin dal Tempo di Prima. «Ho la pelle d’oca, cugino» mormorò Arlo. «Mi riprometto sempre di non guardare e poi guardo lo stesso.» Quando furono vicini allo svincolo dell’autostrada, Alicia si fermò di colpo. Si voltò, con una mano alzata, e tornò indietro al trotto. «Ce ne sono tre che dormono appesi sotto il cavalcavia.» Theo rimase impassibile. Se per il virale che avevano visto lungo la strada avevano avuto da dire, affrontare un intero branco, soprattutto a un’ora così tarda, era fuori discussione. «Dobbiamo fare il giro. Per far salire il carro ci vuole una rampa. Lish? Cosa dici: sei d’accordo?» «D’accordissimo. Ci compattiamo e andiamo.» Svoltarono verso est e costeggiarono l’autostrada, tenendosi a un centinaio di metri di distanza. Il sole era a quattro spanne dall’orizzonte: erano al limite, e il carro procedeva lento sul fondo sconnesso. Lo svincolo successivo si trovava a due chilometri. «Mi duole ammetterlo, ma Lish non aveva tutti i torti» disse Theo sottovoce a Peter. «Al ritorno, dovremmo organizzare una battuta di caccia ed eliminare quel branco.» «Se ci sarà ancora.» Theo aggrottò la fronte, pensoso. «Oh, sì che ci sarà. Un conto è un fumido isolato a caccia di scoiattoli, un altro è ’sto gruppetto: sanno che facciamo questa strada.» La questione di cosa sapessero o non sapessero i virali era tutt’altro che chiara. Erano creature puramente istintive o erano in grado di ragionare? Erano capaci di ideare piani e strategie? Se sì, non voleva dire che conservavano una certa umanità, che avevano mantenuto alcune caratteristiche acquisite prima di essere ghermiti? Gli interrogativi irrisolti erano molti. Per esempio, non si sapeva per quale motivo certi si avvicinassero alle mura e altri no, oppure perché un gruppetto come quello che avevano appena visto lungo la strada si arrischiasse a uscire di giorno. Attaccavano a caso o per reazione? E che cosa voleva dire il modo particolare in cui si muovevano, sempre in gruppi di tre, coordinati fra loro come versi in rima? Non si sapeva neppure quanti ce ne fossero, dal momento che vivevano nelle tenebre. Senza alcun dubbio era stata la combinazione di illuminazione e solide mura a garantire la sicurezza della Colonia per quasi cent’anni. I Costruttori evidentemente sapevano con chi avevano a che fare. Eppure, quando vedeva un branco che si aggirava ai margini della zona illuminata o sbucava dall’oscurità per controllare il perimetro e poi scomparire chissà dove, Peter aveva spesso l’impressione di osservare una creatura unica. E aveva anche l’impressione che quella creatura avesse un’anima, checché ne dicesse la Maestra. Capiva la logica della morte: il corpo e l’anima,

uniti durante la vita, cessavano insieme di esistere al momento del trapasso. Assistendo la madre nelle ultime ore, avendo sentito i suoi ultimi respiri rantolanti e visto l’improvvisa immobilità che ne era seguita, gli era apparso chiaro che Prudence Jaxon non era più. Ma come era possibile continuare a esistere senza un’anima? Arrivarono alla rampa. A nord, ai piedi delle colline, Peter intravide nella foschia la lunga sagoma bassa dell’Empire Valley Outlet Mall. Era stato molte volte in quel centro commerciale, durante le spedizioni di approvvigionamento. Con il tempo si era quasi svuotato, ma era talmente grande che vi si potevano ancora trovare cose utili. Gap era stato completamente svaligiato, come J. Crew, Williams-Sonoma, REI e la maggior parte dei negozi sul versante sud, vicino all’atrio; ma c’erano anche un grosso Sears, con vetrine che garantivano una certa sicurezza, e JC Penney, con un buon accesso esterno che permetteva di uscire in fretta, se necessario. In quei due negozi si trovavano ancora cose utili: scarpe, utensili e pentole. Gli venne in mente che sarebbe potuto andare a cercare qualcosa per il bambino di Maus. Forse anche Theo ci stava pensando. Ma non c’era tempo, in quel momento. Conficcato nella sabbia ai piedi della rampa c’era un cartello piegato dal vento: nter ata e 10 E P lm ings 25 In io 55 Alicia tornò verso di loro. «Via libera sotto il cavalcavia. Sarà meglio sbrigarsi.» La strada era praticabile e poterono di nuovo accelerare un po’. Sul passo soffiava un vento cocente e Peter si sentiva bruciare la pelle e gli occhi come se fossero legna secca sul punto di prendere fuoco. L’ultima volta che aveva fatto pipì era stata quando si erano fermati ad abbeverare i cavalli. Doveva bere più spesso. Theo scrutava avanti con il binocolo tenendo le redini allentate in una mano. Adesso erano abbastanza vicini da riuscire a distinguere le pale che giravano e quelle ferme. Peter cercò di contare quelle in funzione, ma alla fine rinunciò. L’ombra della montagna aveva cominciato ad allungarsi sulla valle quando si erano allontanati dalla Eastern Road. Finalmente videro la meta del loro viaggio: un bunker di cemento semisommerso nel fondovalle e circondato da una recinzione elettrificata molto alta. Dietro di esso c’era l’elettrodotto, una grossa conduttura color ruggine che saliva sul versante est della montagna lungo una parete di roccia bianca che costituiva una protezione naturale. Theo smontò da cavallo e si sfilò dal collo il cordoncino di cuoio a cui teneva appesa la chiave per aprire il pannello di metallo montato su un palo. Ce n’erano due, uno all’esterno e l’altro all’interno della recinzione, e contenevano l’interruttore per dare e togliere tensione alla barriera elettrificata e il pulsante di apertura del cancello. Theo staccò la corrente e indietreggiò aspettando che il cancello si aprisse. «Andiamo.» Adiacente alla centrale c’era una piccola scuderia, riparata da un tetto in lamiera, con una pompa e abbeveratoi per i cavalli. Bevvero tutti avidamente, lasciandosi colare l’acqua sul mento e bagnandosi la testa sudata; poi Finn e Rey rimasero a occuparsi degli animali e gli altri andarono verso il bunker. Theo tirò di nuovo fuori la chiave e fece scattare la serratura con un rumore metallico.

Entrarono e furono accolti da una ventata d’aria fresca e dal ronzio basso della ventilazione. Peter rabbrividì per lo sbalzo di temperatura. Una lampadina protetta da una griglia illuminava il corridoio che conduceva alle scale di metallo che scendevano nei locali sotterranei. In fondo, oltre una porta socchiusa, c’erano la sala di controllo, la foresteria, la cucina e i magazzini. Sul retro c’era una rampa che portava all’esterno e sbucava vicino alla stalla. «C’è qualcuno in casa?» gridò Theo. Spinse la porta con il piede. «Ehi! Salve!» Nessuna risposta. «Theo...» disse Alicia. «Lo so» replicò lui. «È strano.» Entrarono nella sala di controllo con grande circospezione. Sul lungo tavolo al centro della stanza c’erano diversi mozziconi di candele e i resti di un pasto abbandonato in fretta e furia: scatolette di miso, gallette, una pentola di ghisa tutta unta con un avanzo di stufato di carne che doveva essere lì da un giorno, se non di più. Arlo passò la lama sopra la pentola facendo alzare un nugolo di mosche. Nonostante il ronzio dei ventilatori, c’era odore di chiuso e di rancido, di sudore e di materiale isolante surriscaldato. L’unica luce, un debole bagliore giallastro, veniva dagli indicatori di livello del pannello di controllo che segnalavano il flusso di corrente in uscita dai generatori. L’orologio della centrale, sulla parete, segnava le 18.45. «Dove diavolo sono?» chiese Alicia. «Mi sbaglio, o è quasi l’ora della Seconda campana?» Controllarono la foresteria e i magazzini e trovarono conferma di quanto avevano intuito: la centrale era deserta. Salirono le scale e uscirono di nuovo nell’aria calda della sera. Rey e Finn aspettavano all’ombra della tettoia della scuderia. «Avete idea di dove possano essere andati?» domandò Theo. Finn aveva appallottolato la camicia, l’aveva tuffata nell’abbeveratoio e se la stava passando sul petto e sotto le ascelle. «Mancano un carrello portautensili e un’asina.» Guardò Rey e poi di nuovo Theo, come a dire: “Io un’idea ce l’avrei”. «Potrebbero essere ancora alle pale. A Zander piace stare fuori sino all’ultimo.» Zander Phillips era il responsabile della centrale. A parlargli non sembrava un granché, e neanche a guardarlo, per la verità: a furia di stare al sole e al vento, era rinsecchito come un chicco di uva passa e la vita solitaria lo aveva reso burbero e taciturno. Girava voce che nessuno gli avesse mai sentito dire più di quattro parole alla volta. «Sino all’ultimo?» Finn si strinse nelle spalle. «Sentite, io non so niente. Chiedetelo a lui, quando torna.» «Chi altro c’è qui?» «Solo Caleb.» Theo uscì dal riparo della tettoia per guardare la distesa di pale eoliche. Il sole aveva appena cominciato a scendere dietro la montagna, l’ombra della quale ben presto sarebbe arrivata fino alle colline dall’altra parte della valle. A quel punto, non ci sarebbe stato più nulla da fare: avrebbero dovuto chiudere le porte. Caleb Jones era solo un ragazzo, aveva appena quindici anni. Tutti lo chiamavano “All Star”.

«Be’, hanno ancora mezza spanna di tempo» osservò Theo dopo un po’. Lo sapevano tutti, ma bisognava che qualcuno lo dicesse ad alta voce. Li guardò a uno a uno per accertarsi che avessero capito che cosa intendeva. «Portiamo dentro le bestie.» Accompagnarono gli animali nella stalla e chiusero la paratia tagliafuoco per la notte. Quando ebbero finito, il sole era tramontato dietro la montagna. Peter lasciò Arlo e Alicia nella sala di controllo e andò a raggiungere Theo che aspettava al cancello, scrutando le pale eoliche con il binocolo. Sentiva il fresco della notte sulle braccia e sulle spalle bruciate dal sole e aveva di nuovo la gola secca e la bocca che sapeva di polvere e di cavalli. «Quanto vogliamo aspettare?» Theo non rispose. Era una domanda retorica, solo parole per riempire il silenzio. Doveva essere successo qualcosa, altrimenti o Zander o Caleb a quell’ora sarebbe stato di ritorno. Peter pensava a suo padre ed era convinto che anche Theo stesse pensando a Demo Jaxon, sparito fra le pale eoliche senza lasciare tracce, diretto verso la Eastern Road. Quanto avevano aspettato quella sera prima di chiudere le porte e lasciarlo fuori? Peter sentì dei passi, si voltò e vide Alicia che usciva dalla centrale e camminava verso di loro. Anche lei si fermò a guardare la pianura sempre più buia. Rimasero in silenzio ancora un po’, a fissare la notte che avanzava nella valle. Quando l’ombra della montagna toccò le colline sull’altro versante, Alicia tirò fuori una lama e la pulì nell’orlo della tunica. «Mi dispiace dirlo...» «Non ce n’è bisogno.» Theo si voltò e guardò in faccia tutti e due. «Okay, basta così: ora chiudiamo tutto.» Giorno per giorno: era così che dicevano, senza pensare né a un passato troppo carico di morti e di perdite né a un futuro che forse non ci sarebbe mai stato. Le novantaquattro anime sotto le luci artificiali vivevano giorno per giorno. Ma per Peter non era facile. Nei momenti di inattività, quando era di guardia e tutto pareva tranquillo, oppure quando stava disteso sul letto in attesa di prendere sonno, si ritrovava spesso a pensare ai suoi genitori. Benché nella Colonia ci fosse ancora chi parlava del cielo – un luogo al di là dell’esistenza fisica dove ascendevano le anime dopo la morte –, a lui sembrava un’assurdità. Il mondo era il mondo, fatto di sensi, di cose che si possono toccare, gustare, udire. Peter era convinto che i morti, ammesso che andassero davvero da qualche parte, non potessero che trapassare nei vivi. Forse glielo aveva detto la Maestra, o forse era un’idea a cui era arrivato da solo. Fatto sta che era convinto che le cose stessero così da che ne avesse memoria, da quando era uscito dal Nido e aveva appreso le verità del mondo. Finché fosse riuscito a ricordare i suoi genitori, una parte di loro avrebbe continuato a vivere, e quando anche lui fosse morto, il ricordo di lui sarebbe stato tramandato da quelli ancora in vita. In questo modo non solo lui e i suoi genitori, ma tutti coloro che avevano vissuto prima di loro e che sarebbero venuti in seguito avrebbero continuato a esistere. Peter non riusciva più a visualizzare le facce dei suoi genitori; era la prima cosa che se n’era andata, nel giro di pochi giorni. Quando pensava a loro, non li vedeva, ma li percepiva: veniva assalito da un’ondata di sensazioni che lo attraversava da capo a piedi. Il suono morbido della voce di sua madre, le sue mani chiare, sottili ma robuste, che si muovevano nell’Infermeria offrendo sollievo; il cigolio degli scarponi di suo padre che saliva la scala a pioli della passerella mentre lui, ancora staffetta, correva da una postazione all’altra; la sera che gli era passato

accanto in silenzio, toccandogli una spalla come unico segno di saluto; il calore e l’energia che animavano il soggiorno di casa sua all’epoca delle Esplorazioni, quando il padre, lo zio e gli altri uomini si riunivano per decidere l’itinerario e, più tardi, il suono delle loro voci sulla veranda quando facevano le ore piccole bevendo distillato fatto in casa e raccontandosi ciò che avevano visto nelle Terre Buie. A quell’epoca Peter desiderava ardentemente diventare uno di loro, partire anche lui per le Esplorazioni, ma sapeva che non sarebbe mai successo. Ascoltando dal suo letto le voci sulla veranda, il loro timbro profondo e virile, sentiva che a lui mancava qualcosa. Non avrebbe saputo come definirlo, non era neppure sicuro che avesse un nome: era qualcosa di più del coraggio e della capacità di arrendersi, benché c’entrassero anche questi. L’unica parola che gli veniva in mente era “grandezza”: era questa la caratteristica degli uomini che partecipavano alle Esplorazioni. E, quando fosse venuto il momento di coinvolgere uno dei giovani Jaxon, Peter sapeva che suo padre avrebbe convocato Theo alla Porta Maggiore. Lui sarebbe rimasto a casa. Anche sua madre aveva quella consapevolezza. Sua madre, che aveva sopportato stoicamente la caduta in disgrazia del marito e poi la sua spedizione finale, mentre tutti sapevano e nessuno osava dire la verità. Sua madre, che neanche all’ultimo, quando il cancro le aveva tolto tutto, aveva mai detto una sola parola contro il padre che li aveva abbandonati. “Vive in un tempo tutto suo, ormai.” Quando aveva dovuto mettersi a letto, era estate e le giornate erano lunghe e roventi. Theo era Guardia a Pieno Titolo e presto sarebbe diventato Capitano; la responsabilità di accudire la madre era toccata a Peter, che le era stato accanto giorno e notte, aiutandola a mangiare, a vestirsi e persino a lavarsi, un’intimità che li metteva in imbarazzo ma che sopportavano perché non si poteva fare diversamente. Prudence Jaxon era Prima Infermiera e se voleva morire a casa sua, nel suo letto, nessuno poteva vietarglielo. Ogni volta che Peter ripensava a quell’estate, alle giornate lunghe e alle notti interminabili, gli sembrava di non essere mai uscito del tutto da quel periodo della sua vita. Gli tornava in mente una storia che gli aveva raccontato la Maestra, di una tartaruga che si avvicinava a un muro: a ogni passo che faceva, la distanza che la separava dal muro si dimezzava, perciò non sarebbe mai arrivata alla meta. Così si sentiva Peter mentre guardava morire sua madre. Per tre giorni Prudence era uscita solo a tratti dal sonno, febbricitante, e aveva parlato unicamente per rispondere alle domande indispensabili. Aveva bevuto qualche sorso d’acqua, nient’altro. Sandy Chou, l’infermiera di turno, era andata a trovarla nel pomeriggio e aveva avvertito Peter di tenersi pronto. La stanza era in penombra, perché l’albero davanti alla finestra attenuava la luce forte dei riflettori. Sulla fronte pallida della malata luccicava una patina di sudore e le mani – quelle mani che Peter aveva osservato per ore all’Infermeria, occupate nel loro attento lavoro –, erano immobili lungo i fianchi. Da quando era scesa la notte, Peter non aveva più osato allontanarsi per paura che lei si svegliasse e si trovasse sola. Che la morte fosse ormai vicina, questione di ore, lo sapeva perché Sandy glielo aveva detto chiaramente, e l’immobilità delle mani che, concluso il proprio paziente lavoro, stavano inerti sulle coperte glielo confermava. Si era chiesto come fare a dirle addio. Si sarebbe spaventata se gli avesse sentito pronunciare quella parola? Con che cosa avrebbero riempito il silenzio, dopo? Con suo padre non c’era stato alcun commiato e forse, per certi versi, la cosa peggiore era stata proprio quella. Suo padre era semplicemente sparito nell’ombra, nell’oblio. Che cosa gli avrebbe detto Peter se avesse potuto parlargli? Egoisticamente, quello che gli veniva in mente era: “Scegli me”. Ecco che cosa avrebbe voluto dirgli. “Non Theo. Me. Prima di andartene, scegli me.” Vedeva la scena in maniera chiarissima: il sole stava per sorgere e loro due erano seduti sulla veranda, soli. Suo padre vestito da esploratore, con la bussola in mano, apriva il coperchio con il pollice e poi lo

richiudeva, come faceva sempre. La visione però finiva lì: Peter non era mai arrivato a immaginare che risposta gli avrebbe dato suo padre. E adesso sua madre stava morendo. Se la morte era una stanza in cui l’anima doveva entrare, sua madre era sulla soglia. Peter non era riuscito a trovare le parole per spiegarle quello che provava, per dirle che le voleva bene, che avrebbe sentito la sua mancanza. Lui era sempre stato figlio di sua madre e Theo figlio di suo padre: nessuno lo aveva mai detto esplicitamente, era un semplice dato di fatto. Peter sapeva che sua madre aveva avuto degli aborti spontanei e almeno un altro figlio che era nato prematuro, con qualcosa che non andava, ed era morto poche ore dopo il parto. Una femmina, gli pareva. Era successo quando lui era piccolo e viveva al Nido, quindi non ne era sicuro. Forse era quella la cosa che gli mancava – qualcosa non dentro di lui, ma dentro di lei – e forse era per quello che aveva sempre sentito con tanta intensità l’amore della madre nei suoi confronti. Era lui quello che Prudence avrebbe tenuto con sé. Dalla finestra entrava la prima luce del mattino quando Peter aveva sentito cambiare il respiro: le si fermava nel petto, come se avesse il singhiozzo. Per un attimo aveva temuto che fosse giunto il momento, poi si era accorto che lei aveva aperto gli occhi. “Mamma, sono qui” aveva detto prendendole la mano. “Theo.” Lo vedeva? Sapeva dove si trovava? “Mamma, sono Peter. Vuoi che vada a chiamare Theo?” Come se guardasse dentro di sé, in un luogo profondo, infinito e senza confini, un luogo eterno, Prudence aveva risposto: “Abbi cura di tuo fratello, Theo. Non è forte come te”. Poi aveva chiuso gli occhi e non li aveva riaperti mai più. Peter non l’aveva mai raccontato al fratello. Gli pareva inutile. In certi momenti pensava, si illudeva, di aver capito male, o di poter attribuire quelle ultime parole della madre al delirio della malattia. Ma per quanto si sforzasse di interpretarli diversamente, sia le parole in sé sia il loro significato sembravano inequivocabili. Dopo tutto quello che aveva fatto, dopo tutte le lunghe giornate e le nottate di assistenza, era Theo che sua madre aveva messo al proprio capezzale in punto di morte, era a Theo che aveva dedicato le ultime parole della sua vita. Dei due addetti alla centrale che non erano rientrati nessuno aveva più parlato. Diedero da mangiare agli animali, cenarono e si ritirarono nella foresteria, che consisteva in un’unica camerata maleodorante e poco spaziosa, con letti a castello e pagliericci macchiati che puzzavano di muffa. Quando Peter si sdraiò, Finn e Rey russavano già. Peter non era abituato ad andare a letto presto, ma era in piedi da ventiquattr’ore e si assopì quasi subito. Si risvegliò disorientato, la mente ancora in balia di una corrente di sogni angoscianti. Il suo orologio interiore gli suggerì che doveva essere metà notte o anche più tardi. Gli uomini dormivano tutti, ma il letto di Alicia era vuoto. Si alzò e andò nella sala di controllo in fondo al corridoio semibuio, dove la trovò seduta al tavolo a sfogliare un libro alla luce dei pannelli. L’orologio segnava le 02.33. Alicia alzò gli occhi e lo guardò. «Non so come hai fatto a dormire finora, con gli altri che russano in quel modo.» Peter prese una sedia e le si sedette di fronte. «Non dormivo, non proprio. Che cosa leggi?»

Alicia chiuse il libro e si sfregò gli occhi con la punta delle dita. «Non ne ho la più pallida idea. L’ho trovato nel magazzino. Ce ne sono intere scatole.» Spinse il libro sul tavolo, verso di lui. Era intitolato Nel paese dei mostri selvaggi. Era un volume illustrato, sottile, con poco testo: c’era un bambino in costume da lupo, con orecchie e coda, che armato di una forchetta inseguiva un cane bianco. Peter girò le pagine fragili, che odoravano di polvere, una per una. Nella camera da letto del bambino cresceva una foresta. Era una notte di luna piena: lui si metteva a navigare e arrivava in un’isola popolata da mostri. Peter lesse: E, appena arrivato nel paese dove abitano i mostri selvaggi, quelli ruggirono terribilmente, digrignarono terribilmente i denti, rotearono tremendamente gli occhi e mostrarono gli artigli orrendi finché Max gridò: «A CUCCIA!» e li domò con il trucco magico di fissarli negli occhi gialli senza batter ciglio. Quelli ebbero paura e proclamarono che lui era più mostro selvaggio di tutti... «Il trucco di fissarli negli occhi» disse Alicia. Poi sbadigliò coprendosi la bocca con il dorso della mano. «Non vedo come possa servire a qualcosa.» Peter chiuse il libro e lo mise da una parte. Non sapeva come interpretarlo, ma gli succedeva quasi sempre con le cose del Tempo di Prima. Come viveva la gente? Che cosa mangiava, come si vestiva, cosa pensava? Girava al buio come se niente fosse? Se non c’erano virali, di che cosa aveva paura? «Per me è tutto inventato» rispose stringendosi nelle spalle. «È solo una storia. Secondo me, il bambino sogna.» Alicia inarcò le sopracciglia come a dire: “Chi lo sa? Chi può dire com’era il mondo una volta?”. «Per la verità speravo che ti svegliassi» dichiarò alzandosi. Prese da terra una lanterna. «Volevo farti vedere una cosa.» Tornarono in foresteria e da lì entrarono in uno dei magazzini. Alle pareti c’erano scaffalature di metallo piene di utensili sporchi, rotoli di cavi, lega da saldatura, bottiglie di plastica piene d’acqua e flaconi di alcol. Alicia posò la lanterna per terra, si avvicinò a uno scaffale e cominciò a togliere la roba che c’era sopra, sistemandola sul pavimento. «Be’? Non stare lì a guardare con le mani in mano.» «Che cosa fai?» «Secondo te? E parla piano: non voglio svegliare gli altri.» Quando ebbero svuotato completamente lo scaffale, Alicia gli disse di mettersi da una parte, mentre lei si piazzava dall’altra. Peter vide che dietro il mobile c’era un foglio di compensato che nascondeva la parete retrostante. Lo tolsero. Una botola. Alicia si avvicinò, ruotò la manopola e la spalancò. Dall’altra parte c’era un condotto circolare, piuttosto stretto, con una scala a chiocciola di metallo che saliva. Contro la parete erano accatastate delle casse e la scala, di cui non si vedeva la fine, spariva nel buio sopra le loro teste. L’aria sapeva di chiuso e di polvere. «Quando l’hai scoperto?» chiese Peter, stupito.

«La scorsa stagione. Una notte mi annoiavo e mi sono messa a curiosare. Penso che sia una via di fuga lasciata dai Costruttori. La scala porta sul tetto.» Peter indicò le casse con la lanterna. «Cosa c’è lì dentro?» «La parte migliore» rispose Alicia con un sorriso malizioso. Trascinarono una delle casse sul pavimento del magazzino. Era di metallo, lunga un metro e profonda una cinquantina di centimetri, con le parole US MARINE CORPS stampate sul fianco. Alicia si chinò ad aprire i fermagli e sollevare il coperchio: conteneva sei oggetti neri, affusolati, posati nel polistirolo. Peter impiegò qualche secondo a capire cos’erano. «Cazzo, Lish!» Lei gliene passò uno: era un fucile, freddo al tatto e profumato di olio, sorprendentemente leggero, quasi fosse di un materiale che sfuggiva alla legge di gravità. Nonostante la poca luce, Peter notò il luccichio della canna. Fino a quel momento aveva visto solo cimeli corrosi dalla ruggine, pistole e fucili abbandonati dall’esercito. La Guardia ne conservava alcuni nell’Armeria, ma Peter era convinto che le munizioni fossero state tutte consumate ormai da anni. In vita sua, non aveva mai preso in mano nulla di così pulito, nuovo e ben conservato. «Quanti ce ne sono?» «Dodici casse, sei fucili l’una, un migliaio di proiettili. Altre sei sono nel sottotetto.» Tutta l’apprensione di Peter sparì, sostituita da una gran voglia di usare il meraviglioso oggetto nuovo che aveva fra le mani, di sperimentarne la potenza. «Fammi vedere come si carica» disse. Alicia si fece dare il fucile, arretrò l’otturatore, prese i proiettili dalla scatola e li infilò nel serbatoio davanti al ponticello del grilletto, poi richiuse l’otturatore e diede due colpi secchi con il palmo della mano per assestare le cartucce. «Prendi la mira come se fosse una balestra» gli suggerì. Si voltò dall’altra parte per dargli una dimostrazione. «Fondamentalmente è la stessa cosa, ma molto più potente. Non mettere il dito sul grilletto, a meno che tu non decida di sparare. Ti verrà voglia di provare, ma è meglio di no.» Glielo restituì. Un fucile carico! Peter se lo appoggiò alla spalla, cercando qualcosa nella stanza su cui prendere la mira, e scelse un rotolo di filo di rame sullo scaffale più lontano. La voglia di sparare, di sentire la forza prorompente del rinculo, era tale che dovette trattenersi per non cedere alla tentazione. «Ricordati quello che ti ho detto riguardo al grilletto» lo avvertì Alicia. «Hai venti colpi nel caricatore. Ecco, carica questo: così siamo sicuri che ci riesci anche da solo.» Peter le restituì il fucile carico e prese l’altro. Fece mente locale per ricordare tutti i passaggi: sicura, otturatore, caricatore. Quando ebbe finito, diede due colpetti secchi, come aveva visto fare ad Alicia. «Allora?» Alicia, con il calcio del fucile appoggiato all’anca, lo guardò con aria critica. «Non male. Un po’ lento. Non puntarlo in basso in quel modo, se no ti spari in un piede.» Peter si affrettò a sollevare la canna. «Sai, sono un po’ sorpreso. Pensavo che tu non credessi in questi aggeggi.»

Alicia fece spallucce. «È vero, non ci credo fino in fondo. Sporcano, fanno rumore e ti fanno sentire troppo sicuro di te.» Gli porse un altro caricatore da mettere nel marsupio. «D’altra parte, sui fumidi funzionano, se li usi come si deve.» Si batté con l’indice sullo sterno. «Uno sparo nel punto debole ed è fatta. A meno di tre metri ti sporchi un po’, ma non sempre.» «Allora li hai già usati.» «Ho detto questo?» Peter capì che era meglio non insistere. Casse piene di fucili dell’esercito. Com’era possibile che Alicia avesse resistito? «Di chi sono?» «E io come faccio a saperlo? L’unica cosa che ti posso dire è che sulle casse c’è scritto che sono proprietà del corpo dei marines. Smettila di fare domande e andiamo.» Entrarono nella botola e cominciarono ad arrampicarsi. A mano a mano che salivano la temperatura aumentava. Una decina di metri più in su sbucarono su una piccola piattaforma munita di una scaletta a pioli, sopra la quale c’era un’altra botola. Alicia posò la lanterna sulla piattaforma, si alzò in punta di piedi e cominciò a girare il maniglione della botola. Erano sudati tutti e due; l’aria era densa, irrespirabile. «Non ci riesco. È bloccato.» Peter si protese per aiutarla e il meccanismo cedette con un raspare rugginoso. Un giro, due, al terzo il portellone si abbassò, ruotando sui cardini. Dalla botola entrò una corrente d’aria fresca che odorava di deserto, di ginepro secco e mezquite. Peter alzò gli occhi e vide solo nero. «Vado prima io» disse Alicia. «Poi ti chiamo.» Peter sentì i suoi passi che si allontanavano. Tese l’orecchio, ma non udì altro. Alicia era sul tetto, senza luci a proteggerla. Peter contò fino a venti, poi a trenta. Doveva seguirla? In quel momento nella botola aperta ricomparve il viso di Alicia. «Via libera. Lascia lì la lanterna e vieni su.» Peter salì la scaletta e si ritrovò in un piccolo vano con tubi, valvole e altre casse allineate lungo le pareti. Si fermò e aspettò che gli occhi si abituassero all’oscurità. Davanti a lui c’era una porta aperta. Fece un respiro profondo e uscì. Si ritrovò in mezzo alle stelle. Rimase senza fiato, in preda a una sensazione di panico puramente fisica che gli opprimeva i polmoni. Si sentiva come se avesse messo un piede nel vuoto, direttamente nel cielo notturno. Gli si piegarono le ginocchia. Con la mano libera brancolò nel tentativo di aggrapparsi a qualcosa, di ritrovare il senso della forma e del peso, le dimensioni del mondo intorno a lui. Il cielo sopra la sua testa era una volta nerissima e piena di stelle. Ovunque! «Respira, Peter» consigliò Alicia. Era in piedi accanto a lui e gli aveva posato una mano sulla spalla. La sua voce, nel buio, sembrava provenire da molto vicino e da molto lontano nello stesso tempo. Peter le diede retta e si riempì i polmoni di aria notturna. A poco a poco gli occhi si abituarono all’oscurità e

cominciò a distinguere il bordo del tetto, oltre il quale c’era il nulla. Erano nell’angolo sudovest, vicino agli scarichi. «Allora, cosa ne pensi?» Peter continuò a guardare il cielo in silenzio. Più lo guardava, più stelle vedeva comparire nel buio. Erano le stelle di cui gli aveva parlato suo padre, quelle che aveva visto durante le sue Esplorazioni. «Theo lo sa?» Alicia rise. «Che cosa?» «Della botola. Dei fucili.» Peter si strinse nelle spalle, impotente. «Di tutto quanto.» «Io non gli ho mostrato nulla, se è questo che vuoi sapere. Immagino che Zander ne sia al corrente, dato che conosce questo posto come le sue tasche. Ma a me non ne ha mai parlato.» Peter la scrutò. Gli sembrava diversa, al buio: era la stessa Alicia che conosceva da sempre e al contempo una persona nuova. Capì che aveva conservato per lui quel segreto. «Grazie.» «Non pensare che questo voglia dire che io e te siamo amici o chissà che. Se si fosse svegliato prima Arlo, adesso qui fuori ci sarebbe lui.» Non era vero, e Peter lo sapeva. «Grazie comunque» disse. Alicia lo portò verso il cornicione. Guardavano a nord, l’altro versante della vallata. Non soffiava un alito di vento. La cresta delle montagne si stagliava nel cielo come una massa scura lambita da un mare di stelle. Presero posizione, sdraiati l’uno accanto all’altra con la pancia sul cemento ancora caldo di sole. «Tieni questo» disse Alicia frugando nella borsa. «Ti servirà.» Un visore notturno. Gli mostrò come si faceva a fissarlo sulla canna del fucile e a regolare il guadagno. Peter accostò l’occhio al mirino e vide un paesaggio di arbusti e rocce immersi in una luce verdolina, con un reticolo e, in basso, l’indicazione della distanza, che in quel momento era 212 metri. La cifra aumentava o diminuiva a seconda di come spostava il fucile. Straordinario. «Pensi che siano ancora vivi?» Alicia lasciò passare un attimo prima di rispondere. «Non lo so. Probabilmente no. Aspettare non guasta, comunque.» Tacque di nuovo, perché non c’era molto altro da dire al riguardo. «Secondo te sono stata troppo dura con Maus oggi?» Quella domanda lo colse di sorpresa. Da che la conosceva, Alicia non era tipo da ripensamenti. «Visto com’è andata, direi proprio di no. Hai fatto la cosa giusta.» «È un peccato perderla, ne convieni?» «Non importa. L’hai detto anche tu: Maus conosce benissimo il regolamento.» «Preferirei tenere lei piuttosto che Galen.» Alicia emise un gemito. «Porco vampiro, perché si è scelta proprio lui? Che cosa diavolo troverà in quell’uomo?» Peter alzò la testa. Il cielo era così pieno di stelle che sembrava bastasse allungare un braccio

per toccarle. Non aveva mai visto niente di più bello in vita sua. Gli faceva venire in mente gli oceani, quei nomi che aveva letto sul libro e che suonavano come parole di una canzone – Atlantico, Pacifico, Indiano, Artico – e suo padre fermo sulla riva del mare. Forse era alle stelle che si riferiva la Zia quando parlava di Dio, il vecchio Dio, quello del Tempo di Prima. Il Dio dei cieli che guardava il mondo dall’alto. «Ti capita mai di...» cominciò Alicia. «Non so, ti capita mai di pensarci?» Peter si voltò a guardarla. Lei aveva ancora l’occhio sul mirino. «A che cosa?» Alicia scoppiò in una risatina nervosa, un suono che Peter non le aveva mai sentito fare. «Te lo devo proprio dire, Peter? Non hai mai pensato di appaiarti? Di avere dei Piccoli?» Peter ci aveva pensato, eccome. Quasi tutti si appaiavano entro i vent’anni. Ma far parte della Guardia complicava le cose: si stava svegli tutta la notte e di giorno si dormiva, oppure si girava storditi dalla stanchezza. Sinceramente, però, non era l’unico motivo. Appaiarsi gli pareva impossibile, come se fosse una cosa riservata agli altri. Aveva avuto delle ragazze, e anche alcune che sarebbe stato più giusto definire donne. Le aveva frequentate per qualche mese, riducendosi ogni volta in uno stato in cui non riusciva a pensare che a loro, ma alla fine si era sempre allontanato oppure si era trovato, senza una ragione, a spingerle verso qualcun altro che gli pareva più adatto. «No, sul serio no.» «E Sara?» Peter, istintivamente, si mise sulle difensive. «Sara cosa?» «Su, Peter» disse Alicia in tono esasperato. «Lo so che vorrebbe appaiarsi con te. Non è un segreto. Anche lei fa parte di una delle Prime Famiglie, sarebbe un bel matrimonio. Lo pensano tutti.» «Cosa c’entra?» «Dicevo così. È evidente.» «Be’, per me non lo è.» Non avevano mai parlato così. Dopo una pausa, Peter aggiunse: «Senti, Sara mi piace, ma non sono sicuro di volermi appaiare con lei». «Ma vuoi appaiarti, sì o no?» «Un giorno, forse. Lish, perché me lo chiedi?» Si voltò di nuovo verso di lei: Alicia stava guardando nel mirino la vallata e muoveva lentamente il fucile lungo la linea dell’orizzonte. «Lish?» «Un momento. C’è qualcosa che si muove.» Peter si rimise in posizione. «Dove?» Alicia sollevò la canna del fucile indicando un punto. «A ore due.» Peter guardò e vide una figura solitaria che correva da un cespuglio all’altro, a un centinaio di

metri dalla recinzione. Era un essere umano. «È All Star!» esclamò Alicia. «Come fai a saperlo?» «È troppo piccolo per essere Zander. E fuori non c’è nessun altro.» «È solo?» «Non lo so. Aspetta. No. Dieci gradi più a destra.» Peter spostò il suo visore e scorse un lampo verdastro che saltava sulla superficie del deserto come un sasso a rimbalzello sull’acqua. Poi ne vide un altro, e un altro ancora, a duecento metri. Si avvicinavano. Anzi, no, descrivevano un cerchio. «Che cosa fanno? Perché non lo prendono e basta?» «Non lo so.» Poi lo udirono. «Ehi!» Era la voce di Caleb, acuta, disperata, piena di paura. Il ragazzo correva verso la recinzione agitando le braccia. «Aprite il cancello, aprite il cancello!» «Per mille vampiri!» Alicia balzò in piedi. «Andiamo.» Tornarono di corsa nel sottotetto e lei aprì velocemente uno dei contenitori accatastati vicino alla botola. Estrasse una specie di pistola, corta e con la canna grossa. Peter non ebbe il tempo di fare domande. Tornarono sul bordo del tetto e Alicia puntò l’arma in direzione delle pale eoliche e fece fuoco. Il razzo partì verso il cielo disegnando nel buio una scia sibilante di luce. Sebbene l’istinto gli suggerisse di non guardare, Peter non riuscì a trattenersi e rimase abbagliato all’istante da quel fascio di luce incandescente. Arrivato all’apice, il razzo parve fermarsi e rimanere un attimo sospeso nell’aria, poi esplose illuminando a giorno la piana. «Gli abbiamo fatto guadagnare un minuto» disse Alicia. «C’è una scala per scendere, dietro.» Si misero in spalla le armi e Alicia si calò per prima, scivolando giù come se la scala fosse una doppia pertica, senza quasi sfiorare i pioli con i piedi. Mentre anche Peter scendeva, Alicia sparò in aria un altro razzo, che descrisse un arco sulla centrale e si accese sopra il parco eolico. Appena toccato terra, si misero a correre. Caleb era fermo dall’altra parte del cancello. I virali si erano sparpagliati, rifugiandosi nell’ombra. «Aiuto! Fatemi entrare!» «Merda, non abbiamo la chiave» disse Peter. Alicia imbracciò il fucile e lo puntò sul pannello. Con una fiammata, un gran botto e una pioggia di scintille, il pannello si staccò dal palo. «Caleb, devi scavalcare la recinzione!» «Resterò fulminato!»

«No, non c’è corrente!» Alicia guardò Peter. «Secondo te è disattivata?» «Come faccio a saperlo?» Alicia fece un passo avanti e, prima che Peter potesse aprire bocca, premette il palmo della mano sulla rete. Non successe nulla. «Sbrigati, Caleb!» Caleb infilò le dita nelle maglie di rete metallica e incominciò ad arrampicarsi. Il buio stava per inghiottirli di nuovo: il secondo razzo aveva completato la discesa. Alicia ne tirò fuori un altro dal marsupio, caricò la pistola e sparò. Il razzo partì, seguito da una scia di fumo, ed esplose sopra le loro teste in una pioggia di luce. «Questo era l’ultimo» annunciò a Peter. «Abbiamo circa dieci secondi prima che capiscano che non c’è corrente.» Caleb era arrivato in cima e stava scavalcando. «Sbrigati, Caleb!» gli gridò. Il ragazzo fece un salto da cinque metri di altezza, atterrò rotolando e si rialzò subito. Era scalzo e aveva la faccia bagnata di lacrime e impiastricciata di polvere e muco. Ancora pochi secondi e sarebbe tornato il buio. «Sei ferito?» chiese Alicia. «Ce la fai a correre?» Caleb annuì. Si precipitarono verso il bunker. Peter li sentì arrivare ancor prima di vederli. Si voltò e scorse un virale che si stava gettando su di loro dall’alto della recinzione. Sfiorato da un proiettile, fece una capriola per aria e cadde sulla dura terra. Peter si girò di nuovo e vide Alicia sparare altri tre colpi in rapida successione, con il fucile imbracciato e gli occhi fissi sulla rete. «Portalo via!» gridò a Peter. Peter corse con Caleb fino alla scala. Alicia rimase indietro e continuò a sparare: le detonazioni arrivavano a Peter come schiocchi attutiti che riecheggiavano nel cortile. Intanto altri virali avevano superato la recinzione. Peter si mise il fucile a tracolla e salì la scala. Arrivato in cima, si voltò a guardare: Alicia stava indietreggiando verso il muro della centrale e continuava a sparare nel buio. Quando ebbe finito le munizioni, buttò l’arma e cominciò a salire; Peter imbracciò il fucile, lo puntò nella stessa direzione e premette il grilletto. La canna si sollevò verso l’alto e i colpi si dispersero, inutili, nel cielo. La violenza del rinculo lo scosse dalla testa ai piedi. «Attento a quello che fai!» gli gridò Alicia da sotto schiacciandosi contro la scala. «Prendi la mira, perdio!» «Ci provo!» Ne vide tre: stavano uscendo dall’ombra per avvicinarsi ai piedi della scala. Fece un passo verso destra e si appoggiò con forza il calcio del fucile alla spalla. “Prendi la mira come se fosse una balestra.” Era altamente improbabile che riuscisse a colpirli, ma sperava almeno di spaventarli. Premette il grilletto e li vide schizzare via, rotolare nel cortile e dileguarsi nel buio. Era riuscito a guadagnare qualche secondo. «Taci e vieni su!» gridò. «Se la smetti di spararmi addosso, forse ce la faccio!»

Arrivò in cima anche lei. Peter le prese una mano e la aiutò a saltare sul tetto di cemento. Caleb, affacciato alla botola, gesticolava. «Dietro di voi! Attenti!» Mentre Alicia si infilava nel buco, Peter si girò e vide un virale in piedi sul bordo del tetto. Uno solo. Alzò il fucile e fece fuoco, ma troppo tardi: ormai sul cornicione non c’era più nessuno. «Lascia perdere!» gridò Alicia da sotto. «Vieni!» Peter si tuffò nell’apertura e cadde addosso a Caleb, che si piegò sotto di lui con un grugnito. Atterrando sulla piattaforma, Peter sentì una fitta lancinante alla caviglia e si lasciò sfuggire il fucile. Alicia li scavalcò per andare a chiudere la botola, ma il portellone opponeva resistenza: qualcuno premeva da sopra. Con una smorfia, Alicia spinse verso l’alto con tutte le sue forze puntando i piedi sui pioli della scaletta. «Non ce la faccio!» Peter e Caleb si alzarono e andarono ad aiutarla, ma la pressione dall’altra parte era troppo forte. Peter doveva essersi slogato una caviglia nella caduta, tuttavia in quel momento avvertiva solo un dolore vago. Cercò con gli occhi il fucile che gli era caduto e lo vide per terra, in cima alla scala. «Mollate il portellone» disse. «Lasciate che la botola si apra. Non c’è altro da fare.» «Sei pazzo?» esclamò Alicia. Ma un attimo dopo Peter le lesse negli occhi che aveva capito cosa intendeva fare. «Okay, prova.» Si voltò a guardare Caleb, che fece di sì con la testa. «Pronti?» «Uno... due...» «Tre!» Lasciarono andare di colpo. Peter saltò sulla piattaforma, sentendo una fitta terribile alla caviglia, raccolse in fretta il fucile, si voltò e infilò la canna nella botola. Non aveva tempo di prendere la mira, ma sperò che non ce ne fosse bisogno. E fu così. La canna del fucile entrò dritta nella bocca spalancata del virale e lo infilzò come una freccia, passando in mezzo alle file di denti lucidi e andando a fermarsi contro il palato. Peter lo guardò negli occhi e pensò: “Stai fermo”. Gli spinse ancora un po’ la canna del fucile nella bocca e sparò nel cervello a Zander Phillips.

21 C’era una bella differenza tra il mondo com’era in quel periodo e il mondo del Tempo di Prima, pensava Michael Fisher. E la causa non erano i virali, ma l’elettricità. I virali costituivano certamente un problema. Anzi, quarantadue milioni e mezzo di problemi, se si doveva credere ai vecchi documenti contenuti nel capannone dei Lavori Pesanti dietro il Faro. Erano un resoconto delle ultime ore dell’epidemia, e Michael il Circuito li aveva letti. “Rapporto federale e statale di sorveglianza virologica CV1-CV13”, CDC, Atlanta, Georgia; “Protocolli di reinsediamento civili nei centri urbani, Zone 6-1”, FEMA, Washington, DC; “Efficacia della profilassi postesposizione al virus della febbre emorragica ereditaria da CV in primati non umani”, USAMRIID, Fort Detrick, Maryland. Eccetera eccetera. Tutti testi dello stesso tenore. Alcuni li capiva, altri no, ma in fondo ognuno di quei documenti diceva la stessa cosa. Una persona su dieci. Nove morivano e una trasmutava. Quindi, nell’ipotesi che all’inizio dell’epidemia la popolazione di Stati Uniti, Canada e Messico fosse di cinquecento milioni di persone – senza contare il resto del mondo, di cui non si sapeva quasi nulla – e supponendo che anche i virali avessero un certo tasso di mortalità – mettiamo del quindici per cento –, voleva dire che c’erano quarantadue milioni e mezzo di bastardi assetati di sangue che imperversavano tra Panamá e Bering, che divoravano tutto ciò che aveva emoglobina nelle vene e una temperatura corporea fra trentasei e trentotto gradi, ovvero il 99,96 per cento dei mammiferi, dalle arvicole ai grizzly. Quindi, okay, il problema c’era. “Ma se mi date abbastanza corrente elettrica” si diceva Michael “io vi tengo i virali lontani per sempre.” Se pensava all’elettricità nel Tempo di Prima, gli venivano i brividi: milioni di chilometri di cavi, miliardi di ampere, enormi centrali che trasformavano l’energia racchiusa nel pianeta in quella domanda eternamente affermativa che è l’ampere. E le macchine! Apparecchiature che ronzavano, meravigliose e luminose, computer, blu-ray, palmari... Ne avevano decine nel capannone, recuperate durante le spedizioni di approvvigionamento a valle. C’erano anche cose semplici, oggetti d’uso quotidiano come asciugacapelli, forni a microonde, lampadine a incandescenza, elettrodomestici dotati di spine da collegare a impianti elettrici. A volte gli sembrava quasi che la corrente fosse ancora lì, da qualche parte, in attesa. Aspettava che arrivasse lui, Michael Fisher, a premere un interruttore e riaccendere tutto quanto, rimettendo in funzione l’intera civiltà umana. Passava troppo tempo da solo al Faro, d’accordo. Stava con Elton, che poi voleva dire da solo e basta, perché Elton non era quel che si definisce un tipo socievole. Con Elton non si potevano fare due chiacchiere sul tempo e su cosa c’era da mangiare. Quindi sì, Michael stava troppo tempo da solo. Tuttavia aveva la certezza che c’era ancora un sacco di corrente elettrica nel mondo. Generatori diesel grossi come città. Enormi centrali a metano piene, pronte solo a partire. Distese di pannelli solari immobili nel deserto. Reattori nucleari formato tascabile che canticchiavano accumulando nelle barre di uranio decenni di calore e che un giorno sarebbero saltati in aria ricadendo poi sotto forma di vapore radioattivo. Il fallout sarebbe stato registrato da un satellite dimenticato in cielo, alimentato a sua volta da una piccola batteria atomica. Poi,

straziato dall’agonia del suo simile, anche il satellite avrebbe finito per spegnersi e precipitare sulla terra in una scia di luce che nessuno avrebbe mai visto. Che spreco. E il tempo incalzava. Ruggine, corrosione, vento, pioggia, rosicchiare di topi, escrementi di insetti, fauci fameliche, il trascorrere degli anni... La guerra fra la natura e le macchine, fra le forze caotiche del mondo e le opere dell’uomo. L’energia che l’umanità aveva estratto dal pianeta al pianeta veniva inesorabilmente restituita, risucchiata come acqua nello scarico di un lavandino. Entro breve, sempre che non fosse già successo, non sarebbe rimasto un solo palo dell’alta tensione in tutto il globo. L’umanità aveva costruito un mondo che avrebbe impiegato soltanto cent’anni a morire. Un secolo, e anche le ultime luci si sarebbero spente. La cosa peggiore era che la fine sarebbe avvenuta mentre lui era ancora in vita. Le batterie si stavano esaurendo, e alla velocità del fulmine. Michael vedeva scendere il livello giorno per giorno, sul suo vecchio schermo catodico con le barre verdi che pulsavano. Qual era la durata prevista per quelle batterie, secondo chi le aveva costruite? Trent’anni? Cinquanta? Il fatto che, dopo quasi un secolo, mantenessero ancora una certa carica era già un miracolo. Le pale eoliche avrebbero continuato a girare in eterno ma, senza batterie per accumulare e regolare il flusso della corrente, bastava una notte di calma piatta per far spegnere tutto. Ripararle era impossibile. Non erano fatte per essere riparate, ma per essere sostituite. Potevi cambiare tutte le guarnizioni che volevi, eliminare le parti corrose, sostituire i fili dei regolatori di carica, ma era fondamentalmente inutile, perché le membrane polimeriche erano cotte, irrimediabilmente incrostate di acido solfonico. Era questo che gli diceva il monitor con quei suoi singulti, giorno dopo giorno. A meno che non fosse arrivato l’esercito americano con un nuovo set di accumulatori freschi di fabbrica – “Oh, scusate, ci eravamo dimenticati di voi!” –, le luci si sarebbero spente. Un anno, due al massimo. E, a quel punto, sarebbe toccato a lui, Michael il Circuito, alzarsi e dire: “Statemi bene a sentire, tutti quanti, ho una notizia non tanto buona da darvi. Le previsioni meteo per stanotte? Buio, con urla diffuse. È stato bello tenere le luci accese, ma adesso è arrivata la mia ora: devo morire, come tutti voi”. L’unica persona a cui lo aveva detto era Theo. A Gabe Curtis no. Tecnicamente Gabe era il responsabile di Luce ed Energia, ma in pratica si era dimesso quando si era ammalato, lasciando tutto in mano a Michael ed Elton. Non l’aveva detto nemmeno a Sanjay, o al Vecchio Chou. E neppure a Sara, sua sorella. Perché aveva scelto di parlarne proprio con Theo? Erano amici. Theo era nella Consulta. Certo, tendeva un po’ alla depressione – Michael era il primo a riconoscere certi sintomi nel prossimo – e la notizia che la fine era vicina era pesante. Forse Michael l’aveva confidato a Theo pensando già a quando gli sarebbe toccato spiegare pubblicamente la situazione: magari sperava che si prendesse lui la briga di fare il tragico annuncio, o per lo meno che lo spalleggiasse. Ma anche Theo, che pure era più informato della media, pensava che le batterie fossero una sorta di dotazione fissa, non oggetti prodotti dall’uomo e governati da leggi fisiche. Anche per lui le batterie esistevano e basta, come il sole, il cielo e le mura. Le batterie accumulavano l’energia che arrivava dalle pale eoliche e la risputavano sotto forma di luce, e se c’era un guasto, be’, interveniva Luce ed Energia a ripararlo. “Giusto, Michael?” aveva detto Theo. “Questo problema delle batterie tu lo puoi risolvere, no?” Avevano girato intorno alla questione per un po’, finché Michael, esasperato, aveva sospirato, scosso la testa e illustrato meglio la situazione. “Theo, tu non hai capito. Le luci stanno per spegnersi.”

Erano sulla veranda della casetta a un piano dove Michael viveva con sua sorella. Ma Sara quel pomeriggio era uscita con il gregge, o forse era andata all’Infermeria a misurare la febbre ai malati o a trovare lo zio Walt per accertarsi che mangiasse e si lavasse per bene. Insomma, era in giro come al solito. La casa era al margine di un prato dove pascolavano i cavalli, ma la siccità estiva era cominciata presto e il campo era color crosta di pane e in alcuni punti talmente spelacchiato che si vedeva la terra, asciutta e morbida. Tutti, chissà perché, chiamavano quel posto “villa Fisher”. “Stanno per spegnersi” aveva ripetuto Theo. “Le luci.” Michael aveva annuito. “Sì, stanno per spegnersi.” “Due anni, hai detto.” Michael aveva guardato in faccia Theo e si era accorto che stava a poco a poco assimilando la notizia. “Potrebbero durare un po’ di più, ma non credo. Forse anche meno.” “E tu non puoi fare niente per rimediare.” “Né io né nessun altro.” Theo aveva buttato fuori il fiato tutto in un colpo, come se avesse appena preso un pugno. “Okay. Ho capito.” Aveva scosso la testa. “Ho capito. Porco d’un vampiro. A chi altro l’hai detto?” “A nessuno.” Michael si era stretto nelle spalle. “Solo a te.” Theo si era alzato e aveva fatto qualche passo. Per un attimo erano stati in silenzio tutti e due. “Dobbiamo trasferirci” aveva detto poi Michael. “Oppure trovare un’altra fonte di energia.” Theo guardava lontano, verso il prato. “Tu cosa consigli di fare?” “Io non consiglio nulla. Espongo solo la situazione. Quando gli accumulatori scenderanno sotto il venti per cento...” “Lo so, lo so. Le luci si spegneranno” lo aveva interrotto Theo. “Me l’hai già detto.” “Che cosa dobbiamo fare?” Theo aveva riso amaramente. “E io che ne so?” “Voglio dire, secondo te dobbiamo informare gli altri?” Michael aveva fatto una pausa scrutando il suo amico. “In modo che possano... sai, prepararsi.” Theo aveva riflettuto un attimo prima di scuotere la testa. “No.” La discussione era finita lì e non ne avevano mai più riparlato. Quando era successo? Più di un anno prima, all’incirca nel periodo in cui Maus e Galen si erano sposati. Era stato il primo matrimonio dopo moltissimo tempo, ed era sembrato strano: tutti erano felici e Michael sapeva quello che sapeva. Gli altri erano sorpresi del fatto che a fianco di Mausami ci fosse Galen e non Theo: solo Michael conosceva, o indovinava, il motivo. Aveva visto l’espressione di Theo quel pomeriggio sulla veranda: dopo aver parlato con lui, aveva perso qualcosa, una di quelle cose che difficilmente si riescono a ritrovare.

Non restava altro che aspettare. Aspettare, e restare in ascolto. Il fatto era che usare la radio era proibito. Il problema, se Michael aveva ben capito, era la troppa gente. Era stata la radio a far arrivare i primi Pellegrini nella Colonia; i Costruttori non l’avevano previsto, perché non immaginavano che la Colonia sarebbe durata così tanto. Perciò nell’anno 17 – settantacinque anni prima – era stato deciso che la radio doveva essere distrutta, l’antenna sulla montagna smontata, fatta a pezzi e buttata nella discarica. All’epoca forse aveva un senso. Michael capiva che potesse essere sembrata una decisione ragionevole. L’esercito sapeva dove trovarli, cibo e carburante erano limitati e così lo spazio sotto le luci. Ma ora, con le batterie a quel livello e le luci che stavano per spegnersi, la situazione era cambiata. Buio, grida e morte eccetera eccetera. Non molto tempo dopo la conversazione tra Michael e Theo – questione di pochi giorni, se Michael ricordava bene – gli era capitato fra le mani il vecchio registro. “Capitato” non era proprio la parola giusta, per la verità. Era l’ora più silenziosa di tutte, poco prima dell’alba. Michael era seduto come al solito davanti alla console del Faro a sorvegliare i monitor e stava sfogliando un libro della Maestra, Che nome dare al tuo bambino (nella sua disperata ricerca di qualcosa di nuovo da leggere non aveva trovato di meglio, ed era arrivato solo alla lettera “I”). Poi, chissà perché – forse per noia, o colto dal pensiero sconcertante che se il vento fosse girato diversamente i suoi genitori avrebbero potuto chiamarlo Ichabod (Ichabod il Circuito!) –, aveva posato gli occhi sullo scaffale sopra lo schermo catodico e l’aveva visto. Era un libretto rilegato di nero. In mezzo alle solite cianfrusaglie, tra un rotolo di lega da saldatura e una pila di CD di Elton (Billie Holiday Sings the Blues, Sticky Fingers dei Rolling Stones, Superstars #1 Party Dance Hits, una band che si chiamava Yo Mama e che a Michael sembrava che litigasse invece di cantare, ma di musica non capiva niente). Doveva averlo visto mille volte, ma non ci aveva mai fatto caso. Era questa la stranezza, e lo aveva fatto riflettere. Un libro, qualcosa che non aveva ancora letto. (Aveva già letto tutto, ormai.) Si era alzato, lo aveva preso e, aprendolo, la prima cosa che aveva visto, scritta a mano con una grafia precisa, da ingegnere, era stata un nome che conosceva: “Rex Fisher”. Il suo bis-(bis-bis?)-nonno. Rex Fisher, Primo Ingegnere di Luce ed Energia, Prima Colonia, Repubblica di California. Come diavolo aveva fatto a non vederlo prima? Aveva sfogliato le pagine di quel volumetto sottile e scritto a mano, arricciate dall’umidità e dal tempo, e gli era bastato un momento per analizzare quell’informazione, scomporla nelle sue varie parti e ricomporle in un insieme coerente da cui aveva dedotto che cos’era. Colonne di cifre, date scritte all’antica, seguite dall’ora e da un altro numero che doveva essere la frequenza di trasmissione e poi, nello spazio libero a destra, brevi note di poche parole ciascuna, ma che lasciavano intuire molte cose, intere storie racchiuse in poche righe: “segnalatore di posizione automatico”, oppure “cinque superstiti”, “militari?”, o ancora “tre di Prescott, Arizona”. C’erano anche altri toponimi: Ogden, Utah. Kerrville, Texas. Las Cruces, New Mexico. Ashland, Oregon. Centinaia di annotazioni di quel genere che riempivano pagine e pagine e a un certo punto finivano di colpo. L’ultima diceva semplicemente: “Cessate le trasmissioni per ordine della Consulta”. Quando Michael aveva finito di leggere, il cielo fuori della finestra stava schiarendo. Aveva spento la lanterna, si era alzato dalla sedia e la Prima campana del mattino aveva iniziato a suonare: tre rintocchi seguiti da una pausa di pari durata, poi altri tre per chi non aveva recepito il messaggio (“È mattina, e sei vivo”). Aveva attraversato il labirinto di oggetti che ingombravano la stanzetta: bidoni di plastica pieni di pezzi di ricambio, attrezzi sparsi e pile di piatti sporchi (Michael non capiva perché Elton non tornasse in caserma a mangiare: era davvero un maiale). Si era avvicinato al pannello degli interruttori e aveva abbassato le luci. Si era sentito invadere da un’ondata di stanca soddisfazione, come sempre alla campana del

mattino: un’altra notte di lavoro portato a termine, e tutti quanti sani e salvi, pronti ad affrontare un’altra giornata. “Sfido Alicia e le sue lame a fare la stessa cosa.” (Non era forse stata l’immagine di Alicia a distrarlo quando aveva alzato la testa e aveva visto il registro? Gli succedeva spesso. E non era un’immagine di Alicia in generale, ma una ben precisa: lei con il sole che le si rifletteva sui capelli, la sera prima, ignara della sua presenza, mentre lui scendeva lungo il sentiero per raggiungerla. Era un’immagine bellissima, nonostante Alicia Donadio fosse la donna più irritante della terra. Non che la rosa delle concorrenti fosse così ampia...) Michael era tornato alla console e, sistematicamente, aveva rimesso in carica tutte le batterie, acceso i ventilatori e aperto le prese d’aria; gli indicatori di livello, che erano tutti quanti al ventotto per cento, avevano cominciato a lampeggiare e a salire. Si era voltato a guardare Elton. Sembrava addormentato sulla sua poltrona, ma a volte era difficile capire se dormiva o era sveglio, perché i suoi occhi erano sempre uguali, due sottili strisce giallastre, gelatinose, che si intravedevano appena tra le palpebre lacrimose, perennemente socchiuse. Aveva le mani bianche appoggiate sulla pancia e, come sempre, le cuffie in testa: ascoltava musica tutta la notte. I Beatles. Boyz-B-Ware. Art Lundgren e la sua AllGirl Polka-Party Orchestra (l’unica che a Michael piacesse). “Elton?” Nessuna risposta. Michael aveva alzato il tono. “Elton?” Il vecchio – aveva almeno cinquant’anni – si era rianimato. “Porco vampiro, Michael. Che ore sono?” “Rilassati. È mattina. Smontiamo di turno.” Elton si era raddrizzato, facendo cigolare tutte le giunture della poltrona, e si era abbassato le cuffie sul collo. “Perché mi hai svegliato se il turno è finito? Ero quasi sul più bello...” Dopo i CD, il passatempo principale di Elton era costituito da scorrerie notturne in un mondo di avventure sessuali immaginarie, in compagnia di donne convenientemente morte da tempo. In seguito le raccontava a Michael con dovizia di particolari, sostenendo che si trattava di storie di vita vissuta. Michael era convinto che non fosse vero, perché Elton non aveva quasi mai messo piede fuori dal Faro e perché, tenuto conto del fatto che aveva la testa piena di forfora, la barba arruffata e i denti grigiastri con residui di cibo di giorni e giorni prima, non vedeva come quelle avventure potessero essere anche solo vagamente plausibili. “Non vuoi che te lo racconti?” Il vecchio aveva inarcato le sopracciglia in modo allusivo. “Era il sogno della paglia. Lo so che ti piace.” “Adesso no, Elton. Ho... Ho trovato una cosa. Un quaderno.” “Mi hai svegliato per dirmi che hai trovato un quaderno?” Michael si era mosso sulla sedia lungo la console fino ad arrivare vicino a Elton e gli aveva posato il registro in grembo. Il vecchio aveva accarezzato la copertina con gli occhi ciechi rivolti in alto, poi se lo era avvicinato alla faccia annusandolo a lungo. “Mmh, direi che è il registro del tuo bisnonno. Sono anni che è in giro.” Lo aveva restituito a Michael. “Io naturalmente non l’ho letto. Ci hai trovato niente di interessante?” “Elton, che cosa sai di questo registro?” “Be’, a volte succede che le cose saltino fuori proprio quando ne hai bisogno.”

In quel momento Michael aveva capito perché non lo aveva mai visto prima: perché non c’era. “Sei stato tu a metterlo sullo scaffale, vero?” “Su, Michael. La radio è proibita, lo sai benissimo.” “Elton, hai parlato con Theo?” “Theo chi?” Michael si era spazientito. Perché Elton non rispondeva alle domande? “Sentimi bene...” Il vecchio lo aveva interrotto con un gesto della mano. “D’accordo, non ti scaldare. No, non ho parlato con Theo. Ma mi pare di capire che lo hai fatto tu. Io non ho parlato con nessuno, tranne che con te.” Aveva fatto una pausa. “Sai, Michael, assomigli a tuo padre più di quanto tu creda. Nemmeno lui sapeva mentire.” Michael non era rimasto sorpreso più di tanto. Si era afflosciato sulla sedia. Una parte di lui era contenta. “Allora, quanto è grave la situazione?” aveva chiesto Elton. “Parecchio.” Michael si era stretto nelle spalle guardandosi le mani, senza sapere nemmeno lui perché. “La numero cinque è la peggiore, la due e la tre sono messe un po’ meglio. Sulla uno e sulla quattro la carica è irregolare. Stamattina il livello medio è ventotto, e non supera mai cinquantacinque alla Prima campana.” Elton aveva annuito. “Vuol dire illuminazione ridotta entro sei mesi e blackout totale entro trenta. Più o meno come aveva calcolato tuo padre.” “Mio padre lo sapeva?” “Tuo padre era uno che se ne intendeva, Michael. Aveva previsto tutto.” Allora era così. Suo padre era al corrente della situazione, e con ogni probabilità anche sua madre. Aveva provato un senso di panico che conosceva bene. Non voleva pensarci. No, non voleva. “Michael?” Aveva fatto un profondo respiro per calmarsi. Un altro segreto da portarsi dietro. Avrebbe fatto come faceva sempre, lo avrebbe spinto più in profondità che poteva dentro di sé. “Avanti, spiegami come si fa a costruire una radio.” A detta di Elton il problema non era la radio, era la montagna. In origine il segnale partiva da un’antenna sulla vetta. Un cavo isolato, lungo cinque chilometri, correva lungo l’elettrodotto e collegava l’antenna al trasmettitore dentro il Faro. Tutto ciò era stato smantellato e distrutto ai sensi dell’Unica Legge. Senza l’antenna, sul lato est erano completamente isolati. Se anche avessero ricevuto un segnale, sarebbe stato mascherato dall’interferenza elettromagnetica degli accumulatori. Le alternative erano due: chiedere alla Consulta l’autorizzazione a installare una nuova antenna, oppure stare zitti e cercare in qualche modo di potenziare il segnale. A ben pensarci, non c’era scelta. Per chiedere l’autorizzazione alla Consulta, Michael avrebbe

dovuto dare spiegazioni e questo significava rivelare la verità riguardo alle batterie. Ma informare la Consulta della gravità della situazione era impensabile, perché a quel punto lo sarebbero venuti a sapere tutti e sarebbe stata la fine. Michael non era responsabile soltanto degli accumulatori, ma del collante che teneva insieme tutta la Colonia, ovvero la speranza. Non si poteva dire alla gente che non c’era più niente da fare. L’unica soluzione era cercare dei superstiti fuori dalla Colonia e, per avere la certezza che disponessero di elettricità e quindi di luce, bisognava contattarli via radio. Senza dire niente a nessuno. Se non avessero trovato nulla, se il mondo si fosse rivelato davvero vuoto, sarebbe successo quel che doveva succedere comunque. Meglio che nessuno sapesse niente. Si era messo all’opera quel mattino stesso. Nel capannone, in mezzo ai vecchi tubi catodici, alle CPU, ai televisori al plasma e alle scatole di telefoni cellulari e di blu-ray, c’erano un vecchio radioricevitore stereo – solo AM e FM, ma la banda poteva essere ampliata – e un oscilloscopio. Un filo di rame dentro il camino fungeva da antenna. Michael aveva camuffato il radioricevitore montandolo dentro un normale telaio di computer. L’unico che si sarebbe potuto accorgere che sul bancone c’era un computer in più era Gabe, e Gabe, secondo Sara, non sarebbe più tornato a lavorare. Michael aveva collegato il radioricevitore alla porta audio della console. Il sistema di controllo delle batterie comprendeva un software che gli avrebbe permesso, lavorandoci un po’, di configurare l’equalizzatore in modo da escludere il rumore delle batterie. Non potevano trasmettere, perché Michael non aveva un trasmettitore e avrebbe dovuto costruirlo da zero, ma per il momento si sarebbero accontentati di raccogliere tutti i segnali degni di nota provenienti da ovest. Ci sarebbe voluta molta pazienza, certo. Purtroppo non avevano trovato nessun segnale. Oh, di roba da ascoltare ce n’era eccome: una gamma sorprendentemente vasta di attività che trasmettevano frequenze da ULF a microonde. Dal ripetitore per cellulari alimentato da un pannello solare ancora funzionante a fonti geotermiche che continuavano a immettere energia nella rete, a un paio di satelliti, ancora in orbita, che trasmettevano diligentemente i loro saluti cosmici e probabilmente si chiedevano dove fossero finiti gli abitanti del pianeta. C’era un intero universo nascosto di rumori elettronici e nessuno, non una sola persona, che desse segnali di vita. Giorno dopo giorno, Elton si sedeva alla radio, con le cuffie sulle orecchie e gli occhi ciechi rivolti verso l’alto. Michael isolava un segnale, eliminava il rumore e lo mandava all’amplificatore, dove veniva filtrato una seconda volta e inviato alle cuffie. Elton si concentrava intensamente per un attimo e poi annuiva, a volte si grattava pensoso la testa forforosa e poi dichiarava, con la sua voce pacata: “Appena percettibile, irregolare. Potrebbe essere un vecchio segnale di emergenza”. Oppure: “Rumore di fondo. Una miniera, forse”. O ancora, scuotendo la testa: “Niente. Passiamo ad altro”. E così trascorrevano giorni e notti, Michael davanti allo schermo catodico, Elton con le cuffie sulla testa, la mente apparentemente alla deriva fra i segnali residui della loro specie quasi estinta. Ogni volta che trovavano qualcosa, Michael lo annotava sul registro, segnando l’ora, la frequenza ed eventuali altre informazioni. Poi ricominciavano daccapo. Elton era cieco dalla nascita, quindi a Michael non faceva davvero pena, non per quello, almeno. Essere cieco faceva parte della sua identità. Era stata colpa delle radiazioni. I genitori di

Elton erano Pellegrini giunti con la Seconda Ondata circa cinquant’anni prima, ai tempi dell’invasione degli Insediamenti della Baja. I superstiti avevano attraversato le rovine radioattive di quella che era stata San Diego e, quando erano arrivati, in ventotto, i pochi che si reggevano ancora in piedi portavano in braccio gli altri. La madre di Elton, incinta, delirava per la febbre e poco dopo il parto era morta. Nessuno sapeva chi fosse il padre, nessuno aveva neppure imparato i loro nomi. Elton se la cavava abbastanza bene. Per uscire dal Faro usava il bastone, ma non succedeva spesso: sembrava contento di passare le sue giornate davanti alla console rendendosi utile nell’unico modo che conosceva. Dopo Michael, era il maggior esperto di batterie e accumulatori: un primato non da poco, considerando che non vedeva. A suo dire, però, questo era un vantaggio, perché così non si lasciava ingannare dall’aspetto esteriore delle cose. “Le batterie sono come le donne, Michael” gli piaceva dire. “Bisogna saperle ascoltare.” E così, il cinquantaquattresimo d’estate, quando la Prima campana della sera stava per suonare – quattro notti dopo l’uccisione di un virale da parte della guardia Arlo Wilson – Michael richiamò sullo schermo gli indicatori di livello delle batterie, una fila di barre per ognuna delle sei celle: cinquantaquattro per cento la due e la tre, un filo sotto cinquanta la cinque e la quattro, cinquanta precisi per la uno e la sei. Temperatura trentun gradi per tutte, nella fascia verde. Nella valle il vento soffiava a tredici chilometri orari, con raffiche fino a venti. Michael controllò tutte le voci sulla lista, la carica dei condensatori e tutti i relè. Che cosa aveva detto Alicia? Premi un interruttore e si accendono? La gente non capiva proprio nulla. «Dovresti controllare di nuovo la cella due» suggerì Elton dalla sua poltrona ficcandosi in bocca cucchiaiate di quagliata di pecora da una tazza. «Non c’è niente di strano alla due.» «Controlla, ti dico. Fidati di me.» Michael sospirò e richiamò sullo schermo i dati delle batterie. Manco a farlo apposta, la carica della numero due stava scendendo: cinquantatré per cento, cinquantadue. E la temperatura era leggermente aumentata. Fu tentato di chiedergli come aveva fatto ad accorgersene, ma la risposta di Elton era sempre la stessa; inclinava la testa da una parte con aria enigmatica, come a dire: “L’ho sentito, Michael”. «Aprì il relè» consigliò Elton. «Poi riprova e vedi se va a posto.» Mancava pochissimo alla Seconda campana della sera. Potevano accendere le luci usando temporaneamente cinque celle e cercare di capire cosa c’era che non andava. Michael aprì il relè, aspettò un momento per sfiatare eventuali gas in circolo e lo richiuse. L’indicatore di livello rimase fermo a cinquantacinque. «È statica» sentenziò Elton mentre la Seconda campana cominciava a suonare. Agitò il cucchiaio nell’aria. «Quel relè fa le bizze, però. Bisognerebbe sostituirlo.» In quel momento la porta si aprì. Elton alzò la testa. «Sei tu, Sara?» La sorella di Michael entrò, ancora vestita per cavalcare, tutta impolverata. «’sera, Elton.» «Mmh, che cos’è l’odore che hai addosso?» Fece un sorriso che andava da un orecchio all’altro.

«Lillà selvatico?» Sara si sistemò dietro un orecchio un ciuffo di capelli sudati. «Puzzo di pecore, Elton. Ma grazie lo stesso.» Poi si rivolse a Michael. «Vieni a casa stasera? Pensavo di preparare qualcosa di buono.» Michael pensò che avrebbe fatto meglio a restare dov’era, visto che uno degli accumulatori faceva le bizze e che la notte era il momento migliore per la radio. Ma non aveva mangiato niente in tutto il giorno e all’idea di qualcosa di buono il suo stomaco vuoto si mise a gorgogliare. «Ti dispiace, Elton?» Il vecchio alzò le spalle. «So dove trovarti se avessi bisogno di te. Vai anche subito se vuoi.» «Vuoi che ti porti qualcosa?» propose Sara mentre Michael si alzava. «Ce n’è per tutti.» Ma Elton scosse la testa, come sempre. «Stasera no, grazie.» Prese le cuffie dal loro posto sul bancone e gliele mostrò. «Ho tutto il mondo a tenermi compagnia.» Michael e la sorella uscirono dal Faro. Dopo tante ore nella penombra, Michael dovette fermarsi un attimo e sbattere le palpebre per abituarsi alla luce. Si incamminarono oltre i magazzini, in direzione del recinto degli animali, che emanava un odore forte e selvatico. Michael sentì il belato delle pecore e, proseguendo, i cavalli che nitrivano nella stalla. Lungo il sentiero che costeggiava il prato, a ridosso del muro sud, vide stagliate contro i fasci di luce dei riflettori le sagome delle staffette che andavano avanti e indietro sulla passerella. Si accorse che anche Sara le guardava, con aria assorta e preoccupata. «Non ti angustiare» le disse Michael. «Torneranno.» La sorella non rispose, e Michael si chiese se avesse sentito. Non parlarono più finché arrivarono a casa. Mentre Michael accendeva le candele, Sara si sciacquò le mani alla pompa della cucina, andò nella veranda sul retro e tornò un attimo dopo tenendo una lepre piuttosto grossa per le orecchie. «Porco vampiro!» esclamò Michael. «Dove l’hai presa?» Sara si era rasserenata. Sorrise tutta fiera. Michael vide che aveva colpito la lepre alla gola con una freccia. «Nel Campo di Sopra, subito sopra il poligono. Passavo a cavallo e l’ho vista lì, allo scoperto.» Michael non ricordava da quanto tempo non mangiava una lepre. Era tantissimo che non se ne vedevano in giro. La selvaggina si era praticamente estinta, a parte gli scoiattoli, che dovevano moltiplicarsi più in fretta di quanto i virali riuscissero a mangiarseli, e gli uccelli piccoli, tipo passeri e scriccioli, cibo poco gradito o troppo difficile da acchiappare. «La vuoi pulire tu?» chiese Sara. «Non so nemmeno se mi ricordo come si fa» confessò Michael. Sara fece una faccia spazientita ed estrasse la lama dal fodero alla cintura. «Va bene, lo faccio io. Tu accendi il fuoco.» Prepararono uno stufato, con carote e patate prese dalla cantina e un po’ di farina di granturco per addensare la salsa. Sara sosteneva di ricordare la ricetta del loro padre, ma Michael si

accorse che tirava a indovinare. Non importava. Dalla pignatta sul caminetto si diffondeva per tutta la casa un profumino delizioso e Michael provò una sensazione di calore e intimità che non sperimentava da tempo. Sara portò fuori la pelle della lepre per cominciare a raschiarla mentre Michael sorvegliava la cottura. Quando lei rientrò in casa asciugandosi le mani in uno strofinaccio, vide che il fratello aveva apparecchiato la tavola. «So che non mi darai retta, ma dovreste stare attenti, tu ed Elton.» Sapeva della radio. Visto che andava e veniva spesso dal Faro, era stato impossibile tenerglielo nascosto. Michael però aveva evitato di rivelarle il resto. «È solo un ricevitore, Sara. Non trasmettiamo niente.» «E cosa ricevete?» Michael, seduto a tavola, si strinse nelle spalle sperando di chiudere il discorso al più presto. Che cosa c’era da dire? Cercava l’esercito, ma l’esercito non c’era più. Non c’era più nessuno e le luci stavano per spegnersi. «Solo rumore, per lo più.» Sara lo osservò attentamente, con le mani sui fianchi e le spalle rivolte al lavandino, e aspettò. Vedendo che Michael non aggiungeva altro, sospirò e scosse la testa. «Be’, non fatevi beccare» disse alla fine. Mangiarono in silenzio al tavolo della cucina. La carne era un po’ filacciosa, ma così squisita che Michael si dovette trattenere dal mugolare di piacere mentre masticava. Non andava mai a letto prima dell’alba, ma quella sera avrebbe potuto posare la testa lì e addormentarsi all’istante. C’era qualcosa di familiare – e anche un po’ triste – nello stare seduti a quel tavolo a mangiare stufato di lepre, loro due soli. Alzò gli occhi e vide che Sara lo stava guardando. «Lo so. Anch’io sento la loro mancanza.» In quel momento Michael provò il desiderio di dirglielo, di parlarle delle batterie, del vecchio registro e di quello che aveva capito il loro padre tanto tempo prima. Aveva una gran voglia di condividere quel segreto, quel peso, con qualcuno, ma sapeva che era un desiderio egoistico. Non poteva permettersi di parlare. Sara si alzò da tavola e portò i piatti alla pompa. Quando ebbe finito di rigovernare, mise lo stufato avanzato in una pentola di terracotta e lo coprì con un panno per tenerlo caldo. «Lo porti a Walt?» chiese Michael. Walter era il fratello maggiore del loro padre. Era magazziniere, responsabile della distribuzione delle quote e faceva parte del Consiglio dei mestieri e anche della Consulta, in quanto membro più anziano della famiglia Fisher. A causa di questo triplice incarico, era uno dei personaggi più influenti della Colonia, secondo soltanto a Soo Ramirez e Sanjay Patal. Ma era anche un vedovo che viveva solo – sua moglie Jean era morta durante la Notte Nera –, saltava spesso i pasti e beveva troppo distillato di granturco. Quando non era al Magazzino, di solito armeggiava con l’alambicco che teneva nel capanno vicino a casa, oppure era lungo disteso da qualche parte, ubriaco marcio. Sara scosse la testa. «Non me la sento di vedere Walt in questo momento. Lo porto a Elton.»

Michael la guardò negli occhi. Sapeva che stava di nuovo pensando a Peter. «Dovresti riposarti. Sono sicuro che stanno tutti bene.» «Sono in ritardo.» «Di un giorno soltanto. È normale.» Sara non rispose. Michael pensò che era terribile l’effetto che l’amore poteva avere su una persona. Gli sembrava assurdo. «C’è anche Lish con loro. Vedrai che non è successo niente.» Sara, imbronciata, distolse lo sguardo. «È proprio Lish che mi preoccupa.» Andò dapprima al Nido, come faceva spesso quando non riusciva a dormire. Guardava i bambini che dormivano nelle loro brandine. Non sapeva se questo la faceva stare meglio o peggio, ma per lo meno la distraeva dalle preoccupazioni che la tormentavano. Le piaceva ripensare a quando anche lei era piccola e il mondo le sembrava un posto sicuro, addirittura felice, e le sue uniche preoccupazioni erano le visite dei genitori, il cattivo umore della Maestra e le gelosie infantili. Non le sembrava strano che lei e Michael vivessero al Nido e i loro genitori da un’altra parte, perché era così per tutti. Non le era mai venuto in mente di chiedere dove andavano i suoi la sera, quando uscivano dopo aver dato loro la buonanotte. “Adesso dobbiamo andare” dicevano quando la Maestra annunciava che la visita era finita, e in quella frase c’era tutto, per Sara e probabilmente anche per il fratello: i genitori arrivavano, si fermavano per un po’ e poi dovevano andare via. Molti dei ricordi migliori che aveva del padre e della madre risalivano a quelle visite serali, quando leggevano una storia o rimboccavano loro le coperte prima di dormire. Poi una sera Sara aveva rovinato tutto, senza volere. “Dove dormite voi?” aveva chiesto alla madre che si preparava ad andarsene. “Se non dormite qui con noi, dove andate?” E, quando le aveva fatto quella domanda, la luce negli occhi di sua madre si era spenta di colpo, come quando si abbassa velocemente una tenda a una finestra. Si era ripresa subito, però. “Oh” aveva risposto con un sorriso di cui Sara aveva percepito la falsità “io non dormo, non propriamente. Dormire è una cosa per te, piccola Sara, e per tuo fratello Michael.” Quella per Sara era stata la prima parziale rivelazione della terribile verità. Era vero, lo dicevano tutti: finivi per odiare la Maestra perché era lei che te lo spiegava. Quanto bene le aveva voluto Sara fino allora! Tanto quanto ai suoi genitori, forse anche di più. Il giorno dell’ottavo compleanno era speciale: succedeva qualcosa di meraviglioso, si andava in un posto diverso. I Piccoli non sapevano niente di più preciso. Quelli che tornavano al Nido, a trovare fratelli o sorelle minori, o per avere a loro volta dei Piccoli, ormai erano grandi. Al Nido si tornava dopo talmente tanto tempo che si era persone diverse, completamente cambiate, e dove si era stati e cosa si era fatto nel frattempo era un segreto che non si poteva svelare a nessuno. Il posto diverso dove si andava quando si usciva dal Nido a otto anni era speciale proprio perché era segreto. A mano a mano che si avvicinava il compleanno, le aspettative crescevano. Sara era così emozionata che non si era posta il problema di cosa avrebbe fatto Michael senza di lei. Anche per lui sarebbe venuto il giorno di uscire dal Nido. La Maestra diceva che non bisognava parlarne, ma naturalmente appena lei girava l’occhio i Piccoli cominciavano a scambiarsi informazioni più o meno inventate. Nei bagni, in sala da pranzo o in camerata, quando i Piccoli si bisbigliavano da un letto all’altro, parlavano sempre del momento di lasciare il Nido e a chi sarebbe toccato per primo. Com’era il mondo fuori? La gente viveva nei castelli

come nelle favole? Che animali lo popolavano? Animali parlanti? (I topolini che la Maestra teneva in una gabbia nell’aula erano tutti sconfortantemente muti.) Quali squisitezze avrebbero mangiato, con quali meravigliosi giocattoli avrebbero potuto trastullarsi? Sara non era mai stata emozionata come prima del giorno glorioso in cui avrebbe potuto finalmente mettere piede nel mondo. La mattina del suo compleanno si era svegliata con la sensazione di galleggiare su una nuvola di felicità. Sapeva però di dover contenere la propria gioia fino alla sera perché solo allora, dopo che i Piccoli si fossero addormentati, la Maestra l’avrebbe portata nel posto speciale. Nessuno aveva detto nulla, ma durante la colazione e il momento del cerchio Sara si era accorta che tutti erano felici per lei, tranne Michael, il quale non cercava neppure di nascondere la propria invidia e, immusonito, si rifiutava di parlarle. Michael era fatto così e Sara non intendeva permettergli di rovinarle la sua giornata speciale solo perché non riusciva a essere contento per lei. Dopo cena, quando la Maestra aveva riunito tutti quanti perché le dicessero addio, Sara aveva cominciato a chiedersi se per caso Michael non sapesse qualcosa di cui lei era all’oscuro. “Cosa c’è, Michael?” aveva domandato la Maestra. “Non riesci a salutare tua sorella, non riesci a essere felice per lei?” Michael l’aveva guardata. “Non è come pensi tu, Sara.” Poi l’aveva abbracciata frettolosamente ed era corso via, senza lasciarle il tempo di dire una parola. Era stranissimo. Sara lo aveva pensato allora e, nonostante fossero trascorsi tanti anni, continuava a pensarlo. Come faceva Michael a sapere? Molto tempo dopo, una volta che si erano trovati da soli, gli aveva chiesto spiegazioni. “Come lo sapevi?” Ma Michael si era limitato a scuotere la testa. “Lo sapevo e basta” le aveva risposto. “Non nei dettagli, solo in generale, con una buona dose di approssimazione. È per come ci parlavano mamma e papà la sera, quando venivano a darci la buonanotte. Glielo leggevi negli occhi...” Tuttavia il giorno in cui era uscita dal Nido, con Michael che scappava e la Maestra che la teneva per mano, Sara non ci aveva riflettuto più di tanto. Aveva semplicemente pensato che suo fratello era fatto così. Poi gli ultimi addii, gli abbracci, la solennità del grande momento: c’erano Peter, Maus Patal, Ben Chou, Galen Strauss, Wendy Ramirez e tutti gli altri che la toccavano, la chiamavano. “Ricordati di noi” le dicevano. Sara aveva in mano la borsa con le sue cose: i vestiti, le pantofole e la bambola di pezza che aveva sin da quando era piccolissima, perché era permesso portarsi un giocattolo soltanto. La Maestra l’aveva presa per mano e l’aveva accompagnata fuori dalla camerata. Erano uscite nel cortile dove si andava a giocare nelle giornate di sole, con le altalene e le pile di vecchi pneumatici su cui arrampicarsi e, varcata una porta, erano entrate in una stanza che Sara non aveva mai visto. Era simile a un’aula, ma vuota, con gli scaffali spogli e senza disegni alle pareti. La Maestra aveva chiuso la porta a chiave. Un attimo di esitazione, curioso e prematuro: Sara si aspettava qualcosa di più. Le aveva chiesto: “Dove vado? Il viaggio è lungo? Mi verrà a prendere qualcuno? Quanto tempo devo aspettare in questa stanza?”. Ma la Maestra sembrava non averla nemmeno udita. Si era chinata e aveva avvicinato il viso grande e morbido a quello di Sara. “Piccola Sara” le aveva detto. “Secondo te, cosa c’è fuori? Fuori da questo edificio, fuori da queste stanze dove hai vissuto finora? Ti ricordi che a volte anche di qui si vedono uomini che vanno e vengono alla sera e ci proteggono?” La Maestra sorrideva, eppure c’era qualcosa di diverso nel suo sorriso, che a Sara faceva paura. Non voleva rispondere, ma lei la guardava negli occhi e aspettava. A Sara era venuto in mente lo sguardo di

sua madre la sera che le aveva chiesto dove dormiva. “Secondo me c’è un castello” aveva risposto, un po’ titubante, perché nella trepidazione che tutto a un tratto l’aveva colta non le era venuto in mente altro. “Un castello con il fossato?” “Un castello” aveva ripetuto la Maestra. “Capisco. E poi, piccola Sara?” Il sorriso era svanito di colpo. “Non lo so” aveva risposto Sara. “Be’” aveva detto la Maestra. Poi si era schiarita la voce. “Non è un castello.” Le aveva raccontato tutto. Sulle prime Sara non le aveva creduto. O, meglio, aveva avuto la sensazione che la sua mente si fosse divisa in due e che una metà, la metà ignara, quella che credeva che Sara fosse ancora piccola, seduta in cerchio a giocare nel cortile o in trepida attesa dei genitori la sera, stesse dicendo addio all’altra metà, quella che aveva sempre saputo. Era stato come dire addio a se stessa. Le erano venute le vertigini e la nausea e si era messa a piangere. La Maestra l’aveva presa di nuovo per mano e l’aveva condotta in un altro corridoio e da lì fuori dal Nido, dove i genitori la aspettavano per portarla a casa. Era la stessa in cui Sara e Michael vivevano ancora adesso, ma fino a quel giorno lei ne aveva ignorato l’esistenza. “Non è vero” diceva tra le lacrime. “Non è vero.” Sua madre, che piangeva anche lei, l’aveva presa in braccio e l’aveva stretta a sé mormorando: “Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace. È così, è così, è così”. Erano questi i ricordi che assalivano Sara ogni volta che si avvicinava al Nido, che adesso le sembrava molto più piccolo di allora, molto più ordinario: una vecchia scuola di mattoni con il nome scolpito nella pietra sopra la porta: SCUOLA ELEMENTARE F.D. ROOSEVELT. Dal sentiero vide una guardia solitaria sui gradini davanti al portone: Hollis Wilson. «Salve, Sara.» «’sera, Hollis.» Hollis aveva una balestra appoggiata sull’anca. A Sara quelle armi non piacevano: erano molto potenti, ma ci voleva un sacco di tempo a ricaricarle ed erano troppo pesanti. Tutti dicevano che era praticamente impossibile distinguere Hollis da suo fratello, a meno che uno dei due non si radesse, ma Sara non era d’accordo: per lei non era mai stato un problema, anche quando erano piccoli. I fratelli Wilson avevano tre anni più di lei. Li riconosceva da piccole cose, particolari che a prima vista potevano sfuggire ma che per Sara erano evidenti, come il fatto che Hollis era un po’ più alto e aveva l’espressione un po’ più seria. Mentre Sara saliva la scala andandogli incontro, Hollis indicò con un cenno del capo la pentola e sorrise. «Che cosa mi hai portato di buono?» «Stufato di lepre. Ma non è per te, purtroppo.» Hollis era stupefatto. «Mi venisse... Dove hai preso una lepre?» «Nel Campo di Sopra.» Hollis fece un fischio e scosse la testa. Sara gli lesse in faccia che aveva una gran fame. «Non sai quanto tempo è che non mangio uno stufato di lepre. Me lo fai annusare, almeno?»

Sara sollevò il panno e il coperchio. Hollis si chinò e assaporò il profumino. «Non provo nemmeno a convincerti a lasciarlo un momento qui, vero?» «Scordatelo, Hollis. È per Elton.» «Be’, io ci ho provato. Okay, dammi la lama» replicò lui con un’alzata di spalle disinvolta, perché la sua proposta era scherzosa, non seria. Sara si sganciò il coltello e glielo porse. Solo le guardie erano autorizzate a portare armi nel Nido, e purché i bambini non se ne accorgessero. «Non so se hai saputo che abbiamo una nuova ospite» disse Hollis appendendosi il coltello alla cintura. «Sono stata tutto il giorno fuori con il gregge. Chi è?» «Maus Patal. Non è una sorpresa, immagino» rispose Hollis. Poi indicò con la balestra in direzione del sentiero. «Galen è appena andato via. Strano che tu non l’abbia incontrato.» Sara aveva camminato assorta nei suoi pensieri: Galen poteva benissimo esserle passato accanto senza che lei lo vedesse. Maus era incinta! Perché quella notizia la sorprendeva? «Bene» disse sforzandosi di sorridere. Doveva cercare di capire che cosa provava: invidia? «È una bellissima notizia.» «Fammi un favore: dillo anche a lei. Avresti dovuto sentirli litigare. Devono aver svegliato metà dei Piccoli.» «Maus non è contenta?» «A me veramente è sembrato che lo scontento fosse Galen, ma non lo so. Dimmelo tu, Sara, che sei una donna.» «Non cercare di lusingarmi, Hollis: non serve a niente.» Hollis fece una risatina. A Sara era simpatico, le piaceva la sua schiettezza. «Dicevo tanto per dire» si giustificò. Poi le indicò il portone con un cenno. «Se Dora è sveglia, salutala da parte dello zio Hollis.» «Come sta Leigh? È preoccupata che Arlo non è ancora tornato?» «Non è la prima volta che succede. Gliel’ho detto, ci sono un sacco di motivi per cui possono aver deciso di non rientrare oggi.» Sara entrò nel Nido. Lasciò lo stufato nell’ufficio vuoto e andò nella camerata dove dormivano i Piccoli. Un tempo era la palestra della scuola. La maggior parte dei letti era vuota: da anni il Nido non si riempiva. Le tende alle finestre erano tirate, ma dai lati filtravano strette strisce di luce che cadevano sulle sagome dei bambini addormentati. C’era odore di latte, di sudore, di aria scaldata dal sole: odore di bambini. Sara passò in punta di piedi tra le file di culle e lettini. C’erano Kat Curtis, Bart Fisher, Abe Phillips, Fanny Chou e le sue sorelle Wanda e Susan, Timothy Molyneau e Beau Greenberg, soprannominato “Bowow”, storpiatura del suo nome che non si sarebbe mai più tolto; e poi c’erano le tre “J”, Juliet Strauss, June Levine e Jane Ramirez, la figlia più piccola di Rey.

Sara si avvicinò a una culla in fondo all’ultima fila che ospitava Dora Wilson, la bambina di Leigh e Arlo. Leigh era seduta lì accanto. Le neomamme potevano rimanere al Nido per un anno. Leigh era ancora un po’ appesantita dalla gravidanza. Nella penombra, il suo viso largo sembrava quasi trasparente, tanto era pallida dopo tutti quei mesi passati al chiuso. In grembo aveva una matassa di lana e un paio di ferri da calza. Quando Sara si avvicinò, alzò gli occhi dal lavoro. «Ciao» disse sottovoce. Sara rispose con un cenno del capo e si chinò a guardare nella culla. Dora dormiva sulla schiena, nuda a parte il pannolino, le labbra socchiuse che formavano una piccola “O”. Russava leggermente. Il soffio leggero, umido, del suo respiro sfiorò le guance di Sara come un bacio. Guardando dormire un bambino piccolo si poteva quasi dimenticare com’era il mondo, pensò. «Non preoccuparti, non si sveglia» disse Leigh coprendo uno sbadiglio con la mano, poi riprese a sferruzzare. «Dorme come un morto.» Sara decise di non andare a cercare Mausami. I rapporti fra lei e Galen non la riguardavano. In un certo senso le dispiaceva per lui. Aveva sempre avuto un debole per Maus – era come una malattia da cui non riusciva a guarire – e tutti dicevano che quando le aveva chiesto di appaiarsi con lui Maus aveva accettato solo perché Theo le aveva già detto di no. L’altra possibilità era che Theo non avesse mai preso l’iniziativa e Maus cercasse di spronarlo. Non era la prima a commettere quell’errore. Tuttavia, mentre camminava, Sara si chiese perché certe cose dovevano essere sempre tanto difficili. Anche tra lei e Peter era così. Sara lo amava da sempre, da quando erano piccoli e stavano nel Nido. Non c’erano spiegazioni: da che ricordava, aveva provato per lui un amore simile a un invisibile filo dorato che li teneva uniti. Era più di una semplice attrazione fisica; Sara amava Peter soprattutto per ciò che si era spezzato in lui, per quell’angolo recondito del suo essere in cui custodiva la malinconia. Perché nessuno tranne lei conosceva la sconfinata tristezza di Peter Jaxon. Non era la normale tristezza quotidiana che tutti si portavano dietro, la nostalgia delle cose e delle persone perdute. No, la tristezza di Peter andava oltre quel sentimento e Sara era convinta che, se fosse riuscita ad alleviarla, lui in cambio l’avrebbe amata. Per quel motivo aveva scelto di fare l’infermiera. Se non poteva entrare nella Guardia – e di questo era assolutamente sicura –, l’Infermeria, diretta da Prudence Jaxon, era il posto migliore per lei. Quante volte era stata sul punto di chiedere a Prudence: “Come posso fare? Cosa devo fare perché tuo figlio mi ami?”. Ma alla fine era stata zitta. Si era impegnata a imparare il mestiere meglio che poteva e aveva aspettato, sperando che Peter capisse che cosa era disposta a offrirgli per il semplice fatto di essere lì. Peter una volta l’aveva baciata. O forse era stata Sara a baciare lui. La questione sembrava irrilevante rispetto al fatto che era accaduto. Era la Prima Notte, era tardi e faceva freddo. Avevano bevuto distillato di granturco ascoltando Arlo che strimpellava sulla sua chitarra e, quando il gruppo si era disperso nell’ultima ora prima dell’alba, Sara e Peter si erano trovati a passeggiare insieme, soli. A Sara girava leggermente la testa, ma non pensava di essere ubriaca né che lo fosse lui. Tra loro era sceso un silenzio un po’ nervoso: non un’assenza di suoni o parole, ma qualcosa di palpabile ed elettrico, come le pause fra le note della chitarra di Arlo. In quella bolla carica di aspettative avevano camminato insieme sotto le luci, senza toccarsi ma ugualmente legati, e quando erano arrivati a casa di Sara senza essersi mai detti di essere

diretti lì, il silenzio non era più una bolla, ma un fiume che li trascinava nella sua corrente. Non c’era stato modo di impedire quello che stava per succedere. Contro il muro della casa, in piedi in un cono d’ombra, Sara aveva incontrato prima le labbra di Peter e poi anche tutto il suo corpo. Non come quando giocavano a baciarsi al Nido, come facevano tutti i bambini, o come i primi goffi brancicamenti della pubertà – i rapporti sessuali non venivano scoraggiati e ognuno riusciva ad avere accesso praticamente a chiunque gli suscitasse un sia pur vago interesse; la regola non scritta era “fin qui, poi basta”, quasi si trattasse più che altro di una prova generale –, bensì qualcosa di più profondo, pieno di promesse. Si era sentita avvolgere da un calore che aveva a stento riconosciuto, il calore del contatto, dello stare davvero insieme a un’altra persona, di non essere più soli. Gli si sarebbe data volentieri anche subito, avrebbe fatto qualsiasi cosa lui le avesse chiesto. Invece dopo un attimo era già finito tutto: Peter si era tirato indietro. “Scusa” aveva balbettato, come se pensasse che lei non volesse, anche se dal bacio avrebbe dovuto capire che Sara voleva. Eccome. Nel frattempo però qualcosa era cambiato, la bolla era scoppiata, e tutti e due erano troppo imbarazzati, troppo turbati per dire altro. Peter l’aveva lasciata sulla porta di casa, ed era finita lì. Da quella notte non erano mai più stati soli insieme e si erano rivolti a malapena la parola. Perché lei lo sapeva. Lo aveva capito già quando si erano baciati, ma in seguito quella consapevolezza era diventata sempre maggiore a mano a mano che passavano i giorni: Peter non era suo, non avrebbe mai potuto essere suo, perché c’era un’altra. Sara ne aveva percepito la presenza tra loro come un fantasma, durante quel bacio. Adesso tutto era chiaro, disperatamente chiaro: mentre lei lo aspettava nell’Infermeria per mostrargli di cos’era capace, lui passava tutto il suo tempo sulle mura con Alicia Donadio. Quella sera, andando al Faro con lo stufato, Sara si ricordò di Gabe Curtis e decise di passare dall’Infermeria. Povero Gabe, che a soli quarant’anni aveva già il cancro. Nessuno poteva fare più molto per lui. Secondo Sara, la malattia doveva essere partita dallo stomaco, oppure dal fegato. Non era importante. L’Infermeria, che si trovava di fronte al Nido, nei pressi della piazza del Sole, era un piccolo edificio in legno nella parte della Colonia che tutti chiamavano “Centro storico”, un gruppo di cinque o sei case dove un tempo si trovavano negozi e botteghe. L’Infermeria, in particolare, prima era un negozio di alimentari; di pomeriggio, quando il sole batteva sulle vetrine con la giusta angolazione, si riusciva ancora a leggere il nome sul vetro smerigliato: ALIMENTARI, VINI E LIQUORI, CASA FONDATA NEL 1996. Nell’anticamera illuminata da un’unica lanterna, Sandy Chou – che tutti chiamavano l’“Altra Sandy” perché, per un periodo, c’erano state due Sandy Chou, lei e la moglie di Ben Chou, che poi era morta di parto – era china davanti al tavolo a pestare semi di aneto in un mortaio. L’aria era calda e umida. Dietro il tavolo c’era un bollitore fumante sul fornello. Sara posò lo stufato, tolse il bollitore dal fuoco e lo mise su un sottopentola. Poi tornò al tavolo e inclinò la testa verso i semi pestati, che Sandy a quel punto stava setacciando. «È per Gabe?» Sandy annuì. L’aneto era considerato un analgesico, ma veniva usato per trattare una vasta gamma di disturbi, dal raffreddore alla diarrea, all’artrite. Sara non era certa dei suoi effetti, ma Gabe sosteneva che gli alleviava i dolori ed era l’unica cosa che non vomitava. «Come sta?» Sandy stava colando l’infuso in una vecchia tazza sbreccata su cui era scritto NEOPAPÀ in

lettere formate da spille da balia. «Poco fa dormiva. L’ittero è peggiorato. Suo figlio è appena andato via. Ora c’è Mar.» «Gli porto l’infuso.» Sara prese la tazza e passò dall’altra parte della tenda. C’erano sei letti per i malati, ma solo uno era occupato. Mar era seduta su una sedia accanto a Gabe, steso sotto una coperta. Era una donna magra come un uccellino. Si era assunta tutto il peso di curare il marito e mesi di assistenza e fatiche le avevano lasciato profonde borse sotto gli occhi. Mar e Gabe avevano un unico figlio, Jacob, di circa sedici anni, che lavorava al caseificio con la madre: era un ragazzo alto e ben messo, con un’espressione dolce e un po’ assente, che non aveva mai imparato né a leggere né a scrivere e che era in grado di svolgere solo compiti elementari e unicamente se c’era qualcuno a dirgli che cosa fare. Quella di Mar era stata una vita difficile e sfortunata, anche senza la malattia di Gabe. A più di quarant’anni, e con Jacob da seguire, era poco probabile che riuscisse a risposarsi. Quando Sara si avvicinò, Mar si mise un dito davanti alle labbra per invitarla a non fare rumore. Sara annuì e si sedette su una sedia vicino alla sua. Sandy aveva ragione: l’ittero era peggiorato. Prima di ammalarsi, Gabe era un uomo grande e grosso – tanto grosso quanto la moglie era piccolina –, con spalle muscolose e avambracci possenti che sembravano fatti apposta per lavorare, e una pancia florida che debordava dalla cintura come un sacco di farina: era un uomo solido, capace, che non aveva mai messo piede all’Infermeria fino al giorno in cui si era presentato con il mal di schiena e fitte allo stomaco. Si era scusato, come se fossero un segno di debolezza, un difetto morale, anziché i primi sintomi di una grave malattia. (Quando Sara gli aveva palpato il fegato e con la punta delle dita aveva sentito la massa che vi stava crescendo, si era resa conto che doveva avere dolori terribili.) Adesso, a sei mesi di distanza, del Gabe Curtis di una volta restava solo l’involucro, che si aggrappava alla vita per pura forza di volontà. Il viso, che un tempo era pieno e colorito come una mela matura, era avvizzito e percorso da rughe e solchi che sembravano scarabocchiati. Mar gli aveva tagliato la barba e le unghie e gli aveva spalmato sulle labbra screpolate un unguento che aveva preso dal barattolo sul carrello vicino al letto: un piccolo conforto, inutile come l’infuso. Sara rimase per un po’ a tenerle compagnia, in silenzio. Si rendeva conto che, così come poteva finire troppo presto, la vita poteva anche durare troppo a lungo. Forse era il timore di lasciare sola la moglie a tener vivo Gabe. Alla fine Sara si alzò e posò la tazza sul carrello. «Se si sveglia, vedi se vuol bere questo.» Agli angoli degli occhi di Mar erano appese lacrime di spossatezza. «Gli ho detto che va bene, che può andarsene.» Sara ci mise un attimo a capire. «Hai fatto la cosa più giusta» replicò poi. «A volte è quello che una persona ha bisogno di sentirsi dire.» «È per Jacob, capisci? Non vuole lasciare Jacob. Gliel’ho detto, ce la caveremo. “Va’ pure” gli ho detto.» «Sono sicura che ve la caverete, Mar.» Le parve poco e aggiunse: «E anche Gabe lo sa». «È così cocciuto. Hai sentito, Gabe? Perché devi sempre essere così testardo?» Poi si nascose la

faccia tra le mani e pianse. Sara aspettò, per rispetto, sapendo che non poteva fare altro per alleviare le sofferenze di Mar. Aveva imparato che il dolore è un posto dove si va da soli, una stanza senza porte in cui deve restare chiuso tutto ciò che succede, tutta la rabbia e tutta la sofferenza che vi si provano, perché agli altri non deve interessare. «Scusami, Sara» mormorò Mar dopo un po’ scuotendo la testa. «Non avrei dovuto parlartene.» «Non ti preoccupare.» «Se si sveglia, gli dirò che sei passata.» Fra le lacrime, si sforzò di sorridere. «So che a Gabe sei sempre stata simpatica. Eri la sua infermiera preferita.» Sara arrivò al Faro nel cuore della notte. Aprì la porta senza fare rumore ed entrò. Elton era solo e dormiva davanti alla console, con le cuffie in testa. Si svegliò di soprassalto quando la porta si richiuse, spinta da una molla. «Michael?» «Sono Sara.» Elton si tolse le cuffie, si voltò sulla poltrona e annusò l’aria. «Che odore sento?» «Stufato di lepre. Ma sarà freddo gelato, ormai.» «Mi venisse...» Si mise a sedere più dritto. «Porta qui.» Sara glielo mise davanti. Elton prese un cucchiaio sporco dal bancone davanti alla console. «Se vuoi, accendi la luce.» «Sto volentieri al buio se non ti dispiace.» «Per me è lo stesso.» Sara rimase a guardarlo mangiare al riflesso della console. C’era qualcosa di quasi ipnotico nel modo in cui muoveva le mani, guidando il cucchiaio nella pentola e da lì fino alla bocca con estrema precisione, senza sprecare un solo gesto. «Mi stai guardando» le disse. Sara si sentì arrossire. «Scusa.» Elton finì lo stufato e si pulì la bocca con uno straccio. «Non devi scusarti. Le tue visite sono la cosa migliore che succede qui dentro, per quanto mi riguarda. Una bella ragazza come te può starmi a guardare fin che vuole.» Sara rise, non sapeva neppure lei se per l’imbarazzo o perché non ci credeva. «Non mi hai mai visto, Elton. Come fai a sapere che sono bella?» Elton scrollò le spalle e alzò al cielo gli occhi ciechi dietro le palpebre cascanti come se, nel buio della sua mente, avesse davanti l’immagine di lei. «È la voce. Il modo in cui mi parli, in cui parli a Michael. Il modo in cui ti occupi di lui. La bellezza si vede con gli occhi del cuore, dico sempre.» Sara sospirò. «Io non mi sento per niente bella.» «Fidati del vecchio Elton» replicò il cieco con una risatina. «Troverai l’amore anche tu.»

Parlare con Elton la rasserenava sempre. E non perché le faceva spudoratamente la corte, ma perché sembrava più sereno di tutti gli altri: Michael aveva ragione quando diceva che la cecità in lui non era un difetto, ma semplicemente una differenza. «Sono appena stata all’Infermeria.» «Ecco, vedi?» commentò Elton annuendo. «Ti occupi sempre del prossimo. Come sta Gabe?» «Non bene. Ha una gran brutta cera. E Mar soffre. Vorrei tanto poter fare qualcosa di più per lui.» «Ci sono cose possibili e altre impossibili. È arrivata la sua ora. Hai fatto tutto quello che potevi.» «Non basta.» «Non basta mai.» Elton si voltò, perlustrò il bancone con le mani, trovò le cuffie e gliele porse. «Ora, dato che mi hai portato un regalo, te ne faccio uno anch’io. Una piccola cosa che ti tirerà su di morale.» «Non ci capirei niente. Per me sono solo scariche statiche.» Elton aveva un sorriso furbetto sulle labbra. «Dammi retta. E chiudi gli occhi.» Le cuffie erano calde quando se le infilò. Intuì che Elton armeggiava sulla console muovendo le dita qua e là. E poi udì la musica. Era diversa da quelle che conosceva. Lì per lì le sembrò un suono distante, incorporeo, come un soffio di vento, poi in sottofondo cominciarono a salire note alte, simili a un canto di uccelli, che parevano danzare dentro la sua testa. Il suono crebbe, crebbe, come se venisse da tutte le direzioni contemporaneamente, e Sara capì che cosa stava ascoltando: era una tempesta, una grande tempesta di musica che riusciva a visualizzare dentro di sé. Non aveva mai ascoltato nulla di più bello in vita sua. Quando le ultime note si spensero, si tolse le cuffie. «Non capisco» disse, perplessa. «Questo veniva dalla radio?» Elton ridacchiò. «Be’, questa sì che sarebbe una novità, eh?» Toccò di nuovo qualcosa sulla console. Un cassettino si aprì ed espulse un disco argenteo: un CD. Sara non li aveva mai considerati interessanti: secondo Michael erano rumorosi e basta. Prese in mano il disco, tenendolo per il bordo. Stravinskij, La sagra della primavera. La Chicago Symphony Orchestra, diretta da Erich Leinsdorf. «Volevo solo farti ascoltare come ti vedo» disse Elton.

22 «Quello che non capisco è come mai siete ancora vivi, voi tre» disse Theo. Erano riuniti intorno al tavolo nella sala di controllo, tutti tranne Finn e Rey, che erano tornati a dormire. Peter, passata la scarica di adrenalina, aveva male alla caviglia. Non sembrava fratturata, ma gli pulsava. Ci teneva sopra un pezzo di ghiaccio staccato da uno dei condensatori, avvolto in uno straccio bagnato. Il fatto di avere appena ucciso Zander Phillips, un uomo che conosceva, per il momento non gli suscitava emozioni precise: era una cosa talmente strana che la sua mente non era in grado di elaborare l’informazione. Ma Zander aveva ancora al collo la chiave della centrale, quindi non c’erano dubbi sulla sua identità. Non c’era stata scelta, a dire il vero: la metamorfosi di Zander era già completa. A rigore, il virale che aveva cercato di introdursi nella botola non era più Zander Phillips. Eppure Peter non riusciva a togliersi dalla testa l’impressione di avergli visto brillare negli occhi, un attimo prima di sparare, un lampo di consapevolezza, forse addirittura un’espressione di sollievo. Dopo l’assalto Theo aveva sottoposto Caleb a un interrogatorio approfondito. La storia del ragazzo non quadrava al cento per cento, ma bisognava tenere conto del fatto che era sfinito, aveva le labbra gonfie e screpolate, un grosso livido viola sulla fronte e i piedi pieni di tagli. L’aver perso le scarpe sembrava la cosa che lo addolorava di più: aveva spiegato che erano un paio di Nike nuove di zecca, appena prese al Foot Locker del centro commerciale. Gli si erano sfilate durante la fuga nella valle, ma in quel momento la paura era tale che non se n’era neppure accorto. «Te ne procureremo un paio nuovo» lo consolò Theo. «Ora parlami di Zander.» Caleb stava mangiando delle gallette, che mandava giù aiutandosi con lunghi sorsi d’acqua. Spiegò che era stato tutto normale fino a circa sei giorni prima, quando Zander aveva cominciato a comportarsi in modo strano. Molto strano. Strano persino per Zander, il che era tutto dire. Non voleva più uscire dal bunker, non dormiva, passava la notte andando avanti e indietro per la sala di controllo borbottando. Caleb lì per lì aveva pensato che fosse stato troppo tempo alla centrale e aveva sperato che, appena fosse arrivata la squadra che doveva dare loro il cambio, gli sarebbe passato tutto. «Invece un giorno mi dice di prendere il carro e prepararlo, che andiamo nel parco eolico. Ero qui seduto a mangiare, era l’ora di pranzo, e lui arriva e mi dice che partiamo, che vuole sostituire uno dei regolatori nella sezione ovest. Okay, dico io, ma perché tanta fretta? Non è un po’ tardi ormai per uscire? Aveva lo sguardo da pazzo e puzzava in maniera terribile. Insopportabile, davvero. Gli chiedo se si sente bene e lui manco mi risponde. “Prendi la tua roba che andiamo” mi fa.» «Quando è successo?» Caleb deglutì. «Tre giorni fa.» Theo si sporse in avanti. «Sei stato fuori tre giorni?» Caleb annuì. Aveva finito le gallette e si accingeva a mangiare della pasta di soia con le dita. «Così prendiamo l’asina e partiamo, però succede che non andiamo nella sezione ovest, ma in quella est. Sono anni che da quella parte non funziona più niente, che è tutto morto. In più, ci vuole una vita per arrivarci, con il carro almeno due ore. Era già metà giorno, i tempi erano stretti. “Ehi, Zander” gli faccio “ovest è da quella parte, amico, dove diavolo stiamo andando?

Vuoi che facciamo una brutta fine?” Quando arriviamo alla torre che lui voleva riparare, ci accorgiamo che è un ammasso di ruggine. Un disastro, si vede anche da giù: è escluso che cambiando il regolatore possa rimettersi a funzionare. Ma lui insiste, così mi arrampico su per la scala e comincio a smontare la vecchia gondola, lavorando più in fretta che posso. “Okay” penso “è assurdo, secondo me stiamo rischiando la ghirba per niente, ma forse lui sa qualcosa che io non so.” Fatto sta che in quel momento sento un grido spaventoso.» «Era Zander?» Caleb scosse la testa. «No, l’asina. Non sto scherzando, ha lanciato un grido da farti accapponare la pelle. Mai sentita una cosa simile. Guardo giù e la vedo che cade, che si rovescia su un fianco come un sacco pieno di sassi. Ci metto un momento a capire che cosa succede. Vedo del sangue. Un mucchio di sangue.» Si pulì la bocca unta con il dorso della mano e spinse da una parte il piatto vuoto. «Zander diceva che questa roba sa di testicoli. E io gli chiedevo: “E tu come fai a saperlo? Li hai mai assaggiati?”. Ma dopo tre giorni di digiuno, devo dire che non è niente male.» Theo sospirò, spazientito. «Caleb, per favore. Stavi parlando del sangue...» Il ragazzo bevve un lungo sorso d’acqua. «Ah, sì, certo. Il sangue. Zander è in ginocchio vicino all’asina e io gli urlo: “Zander, cosa diavolo succede?”. Lui si rialza e vedo che è a torso nudo, ha una lama in mano ed è tutto sporco di sangue. Non so come ho fatto a non notare i sintomi. Ho paura che si arrampichi sulla scala per prendere anche me, invece no, se ne sta lì seduto ai piedi della torre, nascosto all’ombra di uno dei piloni. “Zander” grido “stammi a sentire. Devi combattere questa cosa, cercare di resistere.” Sono da solo, là in cima, e penso che forse se riesco a farlo rinsavire per un po’ mi salvo.» «Non capisco» intervenne Alicia. «Quando può essere stato infettato?» «È questo il fatto» riprese Caleb. «Non lo so proprio: stavamo insieme ogni minuto della giornata.» «E di notte?» suggerì Theo. «Hai detto che non dormiva. Magari è uscito di notte.» «È possibile, sì, ma perché avrebbe dovuto? E poi a vederlo non sembrava diverso da prima, a parte il sangue.» «Gli occhi?» «Niente. Non sono diventati arancioni, per quel che ho visto io. Vi dico che è stato stranissimo. Così mi ritrovo lì, in cima alla torre, con Zander sotto che non so nemmeno io se è ghermito oppure no, e viene buio. “Zander” grido “senti, io scendo comunque.” Non sono armato, ho solo una chiave inglese e penso che all’occorrenza gliela do sulla testa, lo stendo e scappo più veloce che posso. Devo anche riuscire a portargli via la chiave della centrale, però, in qualche maniera. Siccome dalla scala non lo vedo, quando sono a tre metri da terra decido di saltare, vada come vada. Gioco a carte scoperte, tanto sono morto comunque. Atterro e mi guardo intorno, con la chiave inglese in mano, pronto a colpire. Poi, all’improvviso, mi ritrovo a mani nude: Zander, alle mie spalle, mi ha sfilato la chiave. Mi fa: “Torna su”.» «Torna su?» ripeté Arlo. Caleb annuì. «Ha detto così, giuro. Io non capisco se sta trasmutando o no, però è lì, con la lama in una mano e la chiave inglese nell’altra, tutto coperto di sangue... E io senza chiave non posso

manco rientrare nella centrale. Gli faccio: “Come sarebbe a dire: torna su?”. E lui: “Se torni in cima alla torre sei al sicuro”. E così sono risalito.» Si strinse nelle spalle. «E ci sono stato tre giorni, finché non ho visto arrivare voi sulla Eastern Road.» Peter guardò Theo e capì dalla sua espressione che era perplesso quanto lui. Che cosa aveva voluto dire Zander? Era stato ghermito o no? Erano anni ormai che nessuno aveva modo di osservare di persona cosa succedeva nelle prime fasi dell’infezione, ma circolavano storie di comportamenti bizzarri, raccontate dai vecchi Pellegrini: oltre alla sete di sangue e al denudamento spontaneo, che tutti sapevano essere sintomi del contagio, si vociferava di gente che di punto in bianco aveva cominciato a emettere strani versi, tenere concioni ed esibirsi in demenziali exploit sportivi. Si narrava di un Pellegrino che era entrato nel Magazzino e si era tolto la vita mangiandosi vivo da solo e di un altro che aveva ucciso tutti i suoi figli mentre dormivano e poi si era dato fuoco. Uno, poi, si era denudato, era salito sulla passerella sotto gli occhi delle guardie e aveva recitato a gran voce l’intero discorso di Lincoln a Gettysburg – ce n’era una copia appesa su un muro del Nido – e cantato per intero Stella, stellina, la notte si avvicina prima di buttarsi da venti metri di altezza. «E i fumidi?» chiese Theo. «Be’, questa è la cosa più strampalata. Zander aveva ragione: non ce n’erano. O per lo meno non si avvicinavano. Ogni tanto, di notte, ne vedevo qualcuno, ma mi hanno lasciato in pace. Pare non amino andare in mezzo alle pale eoliche. Zander diceva che il movimento li confonde. Forse è per questo che non sono venuti, non so.» Il ragazzo si zittì e Peter si rese conto che stava cominciando a risentire degli effetti di tutto quello stress. «Una volta che mi sono abituato a stare lassù, ci stavo discretamente bene. Zander non l’ho più visto. Sentivo che si muoveva ai piedi della torre, ma non mi rispondeva. Ho pensato che la cosa migliore era aspettare che arrivasse il cambio, per cercare di scappare.» «E quando ci hai visti?» «Mi sono spolmonato a furia di gridare, ma eravate troppo lontano e non mi avete sentito. A quel punto mi sono accorto che Zander non c’era più e l’asina nemmeno. Dovevano essersela portata via i virali. Mi restava al massimo una spanna di luce, ma ero senz’acqua e sapevo che nessuno sarebbe venuto a cercarmi nella sezione est, così ho deciso di scendere e fare una corsa. A un migliaio di metri da qui, mi sono ritrovato circondato. Ho pensato: “Ci siamo, sono fritto”. Mi sono nascosto sotto una torre e ho aspettato di morire. Invece, non so perché, i fumidi sono stati alla larga da me. Non so dire quanto tempo sono rimasto là sotto, ma quando ho sbirciato fuori erano spariti, non ce n’era più manco uno. Sapevo che ormai il cancello era chiuso, ma ho pensato che in qualche modo sarei riuscito a entrare.» Arlo si rivolse a Theo. «È assurdo. Perché l’hanno lasciato stare?» «Perché lo seguivano da lontano» intervenne Alicia. «Li abbiamo visti dal tetto. Forse lo volevano usare come esca per farci uscire allo scoperto. L’hanno mai fatto prima?» «No» rispose Theo. Aveva un’espressione più dura e si era irrigidito sulla sedia. «Sentite, sono contento che Caleb ce l’abbia fatta, non fraintendetemi, ma la vostra è stata una bravata pericolosissima. Se questa centrale smette di funzionare e le luci si spengono, è la fine per tutti. Non credevo ci fosse bisogno di spiegarvelo ancora, ma evidentemente...» Peter e Alicia tacquero: non c’era niente da dire, era vero. Se Peter avesse sparato pochi centimetri più a sinistra o più a destra, a quell’ora probabilmente sarebbero stati tutti morti.

Era stata solo questione di fortuna, e Peter ne era consapevole. «Vorrei tanto sapere come ha fatto Zander a infettarsi» proseguì Theo. «E cosa aveva in mente quando ha rimandato Caleb in cima alla torre.» «Non mi sembra così importante» osservò Arlo battendosi le mani sulle ginocchia. «A me piuttosto interessa sapere dei fucili. Quanti ce ne sono?» «Dodici casse nel sottoscala e altre sei nel sottotetto» rispose Alicia. «E lì resteranno» dichiarò Theo. Alicia rise. «Non parlerai sul serio.» «Certo che parlo sul serio. Guarda che cosa abbiamo rischiato. Dimmi sinceramente se, senza quei fucili, sareste usciti.» «Forse no. Però, se Caleb è vivo, è solo grazie a quei fucili. Pensala come ti pare, ma io sono contenta che siamo usciti. Non sono soltanto fucili, Theo, sono fucili nuovi di zecca.» «Lo so benissimo» ribatté Theo. «Li ho visti.» «Veramente?» Theo annuì. «Certo.» Per un attimo nessuno parlò. Alicia si sporse in avanti. «Sai anche di chi sono?» Ma fu a Peter che Theo rispose: «Di nostro padre». Così, nell’ultima ora della notte, Theo raccontò la storia. Caleb, che non riusciva a tenere gli occhi aperti, era andato a dormire e Arlo aveva tirato fuori il distillato di granturco per bere un cicchetto in compagnia, come facevano a volte dopo una notte passata sulle mura. Ne versò due dita a ciascuno e passò i bicchieri intorno al tavolo. C’era una vecchia base dei marines a circa due giorni di cavallo da lì, spiegò Theo. Verso est, in un posto che si chiamava Twentynine Palms. Era quasi completamente insabbiata e, se non sapevi dove guardare, non la trovavi nemmeno più. Il loro padre aveva trovato le armi in un bunker sotterraneo, inscatolate e sigillate, all’asciutto. Non c’erano solo fucili, ma anche pistole e mortai, mitragliatrici e granate e un intero garage di veicoli, persino due carri armati. Le armi pesanti non potevano essere trasportate e i veicoli erano tutti fuori uso, ma Demo e Willem Jaxon avevano portato i fucili alla centrale, facendo avanti e indietro con il carro: tre viaggi in totale. Poi Willem era stato ammazzato. «Perché non l’ha mai detto a nessuno?» chiese Peter. «Be’, a nostra madre l’ha detto. E anche a pochi altri. Non partiva da solo per le sue spedizioni, sai? Io credo che il Colonnello lo sapesse, e probabilmente anche il Vecchio Chou. E pure Zander doveva esserne al corrente, visto che le armi erano nascoste qui.» «Ma Sanjay no» intervenne Alicia. Theo scosse la testa, corrucciato. «Sanjay era l’ultima persona a cui nostro padre l’avrebbe detto, credetemi. Sia chiaro, lui fa il suo dovere, ma è sempre stato contrarissimo a esplorazioni e spedizioni in genere, soprattutto dopo la morte di Raj.»

«Già» convenne Arlo. «Raj era uno dei tre.» Theo annuì. «Secondo me, Sanjay soffriva per il fatto che suo fratello volesse affiancare nostro padre nei suoi viaggi. Non ho mai saputo esattamente perché, ma fra lui e Demo non correva buon sangue. E dopo la morte di Raj la situazione peggiorò. Sanjay aizzò tutta la Consulta contro nostro padre, votò per le sue dimissioni e per l’abolizione delle Esplorazioni. Demo rinunciò a fare il Capoconsulta e da allora in poi cominciò a viaggiare da solo.» Peter avvicinò il bicchiere al naso, aspirò l’odore forte e bruciante del liquore e lo posò di nuovo sul tavolo. Non sapeva se era più sgomento al pensiero di essere stato tenuto all’oscuro di quel segreto da suo padre o da suo fratello. «Ma perché nascose le armi?» chiese. «Perché non le portò sulla montagna?» «A cosa sarebbe servito? Pensaci, fratello. Vi abbiamo sentito tutti, poco fa. Avrete sparato tre dozzine di colpi e quanti virali avete abbattuto? Due? Su quanti? No, quei fucili non sarebbero durati più di una stagione se nostro padre li avesse consegnati alla Guardia. Le persone avrebbero sparato anche alle proprie ombre, si sarebbero fatte fuori l’una con l’altra. Penso che avesse paura soprattutto di questo.» «Quanti ce ne sono ancora?» chiese Alicia. «Nel bunker sotterraneo? Non lo so. Non ci sono mai stato.» «Ma sai dov’è.» Theo bevve un sorso. «Vedo già dove vuoi andare a parare. Be’, scordatelo. Nostro padre... aveva una sua idea. Peter, lo sai anche tu. Non riusciva a rassegnarsi al fatto che fossimo rimasti solo noi, che al mondo non ci fosse nessun altro. Se fosse riuscito a trovare qualcuno, con un po’ di armi a disposizione...» Lasciò la frase a metà. Alicia si raddrizzò sulla sedia. «Voleva mettere insieme un esercito?» Li guardò uno per uno. «Un esercito per combattere i fumidi...» «Un proposito inutile» replicò Theo con un’amarezza nella voce che suo fratello colse subito. «Inutile e folle. L’esercito aveva armi potenti, eppure... che fine ha fatto? Con tutti i suoi fucili, razzi ed elicotteri, è mai tornato a cercarci? Nossignore. E sapete perché? Perché i soldati sono morti tutti.» Alicia non demordeva. «Be’, io non lo trovo un proposito inutile, a me l’idea piace» disse. Theo rise amaramente. «Ci avrei scommesso.» «Anch’io sono convinta che non siamo soli» insistette Alicia. «Non può non esserci qualcun altro, da qualche parte.» «Davvero? E su cosa si basa questa tua convinzione?» Alicia rimase interdetta. «Su niente. Me lo sento.» Theo guardò dentro il bicchiere, accigliato, e fece roteare il liquore. «Liberissima. Ma il fatto che tu te lo senta non significa che è vero» ribatté sottovoce. «Nostro padre ci credeva» disse Peter. «Sì, ci credeva. E ci ha lasciato la pelle. Non sono cose di cui parliamo volentieri, ma la realtà è

questa. Quando ti tocca salire sulle mura per compiere l’Estremo Gesto di Pietà, non puoi non fare certe riflessioni. Nostro padre non si avventurò chissà dove perché era stufo di vivere. Chi la pensa così non ha capito niente di lui. Ci andò perché non sopportava più di non sapere. Fu un gesto coraggioso e anche molto stupido. Ma ottenne la sua risposta.» «Incontrò un Pellegrino a Milagro.» «Così disse. Se vuoi il mio parere, nostro padre vedeva quello che voleva vedere. Comunque non ha importanza, che sia vero o no. Che differenza fa un Pellegrino in più o in meno sulla faccia della terra?» Peter rimase molto scosso dal pessimismo di Theo; gli pareva un atteggiamento sleale, non solo sfiduciato. «Dove ce n’è uno, ce ne sono anche altri» disse. «L’unica cosa che c’è, Peter, sono i fumidi. E questa è una realtà che non cambierà nemmeno con tutti i fucili del mondo.» Per un attimo nessuno parlò. La domanda rimase sospesa, non detta ma palpabile. Quanto tempo restava prima che si spegnessero le luci e non ci fosse più nessuno che ricordava come si faceva a ripararle? «Io non ci credo» dichiarò Arlo. «E non posso pensare che tu ne sia veramente convinto. Se non esiste altro, qual è lo scopo di tutto?» «Lo scopo?» Theo studiò di nuovo il contenuto del bicchiere. «Vorrei tanto saperlo. Immagino che lo scopo sia sopravvivere. Tenere le luci accese finché possiamo.» Si avvicinò la tazza alle labbra e bevve il liquore tutto d’un fiato. «A questo proposito, vi ricordo che fra poco è l’alba. Lasciate dormire Caleb, ma svegliate gli altri. Dobbiamo occuparci dei cadaveri.» Erano quattro. Ne trovarono tre nel cortile e uno, quello di Zander, sul tetto, steso a pancia in su sul cemento vicino alla botola, le braccia e le gambe nude divaricate a formare una X sbigottita. Il colpo sparato da Peter gli aveva staccato la parte superiore della testa, che penzolava di sbieco, appesa a un lembo di pelle. Il sole del mattino stava già cominciando a prosciugarlo: dalla carne annerita si alzava una sottile nebbiolina grigia. Peter era ormai abituato all’aspetto dei virali, ma visti da vicino continuavano a fargli impressione: i lineamenti sembravano cancellati, appiattiti fino a diventare lisci come quelli di un neonato, le mani e i piedi erano enormi, le dita lunghe e ricurve, con artigli affilati, gli arti e il torso muscolosi e il collo lungo, snodato. E tutti quei denti aguzzi, che riempivano la bocca come punte di acciaio... Bardato con stivali, guanti di gomma e un fazzoletto sulla faccia, Finn gli tolse la chiave appesa al collo con un lungo forcone e la fece cadere in un secchio di metallo. Poi vi versò dell’alcol e gli diede fuoco, lasciandolo quindi asciugare al sole: quel che non avevano ucciso le fiamme sarebbe stato eliminato dal calore. A quel punto fecero rotolare Zander, che era rigido come un pezzo di legno, su un telone di plastica e glielo ripiegarono intorno avvolgendolo per bene. Infine Arlo e Rey lo sollevarono, lo portarono sul bordo del tetto e lo buttarono di sotto. Quando ebbero finito di trascinare tutti e quattro i cadaveri fuori della recinzione, il sole era alto nel cielo e faceva molto caldo. Peter, appoggiandosi a un tratto di conduttura in un punto sopravvento, guardò Theo che cospargeva i cadaveri di alcol. Si sentiva inutile, ma con la caviglia slogata non poteva fare molto per aiutare. Alicia era di guardia, armata di fucile. Caleb si era finalmente svegliato ed era uscito insieme agli altri. Peter vide che aveva ai piedi un paio

di stivaloni di pelle. «Sono di Zander» spiegò il ragazzo stringendosi nelle spalle con aria un po’ colpevole. «Ne aveva due paia. Non penso che gli dispiacerebbe.» Theo tirò fuori dalla tasca una scatola di fiammiferi e si abbassò la maschera. Nell’altra mano reggeva una torcia. Aveva grossi aloni di sudore intorno al collo e sotto le ascelle della vecchia camicia presa nel Magazzino, senza più le maniche e con il colletto sfilacciato; sul taschino, ricamato in corsivo, c’era un nome: “Armando”. «Qualcuno vuole dire qualcosa?» Peter pensò che avrebbe dovuto fare un piccolo discorso, ma non trovava le parole. Aver visto il cadavere sul tetto non era bastato a liberarlo dall’inquietante sensazione che, alla fine, Zander avesse voluto facilitargli il compito, che di fatto Zander fosse ancora Zander. Tutti quei morti erano stati persone un tempo. Magari uno era Armando. «Okay, parlo io» disse Theo e si schiarì la voce. «Zander, sei stato un bravo tecnico e un ottimo amico. Avevi sempre una parola buona per tutti, e per questo ti ringraziamo. Riposa in pace.» Poi accese il fiammifero, avvicinò la fiamma alla torcia e, quando ebbe preso fuoco, la accostò al mucchio di cadaveri. La pelle bruciò quasi subito, vaporizzandosi come se fosse di carta. Poi se ne andò anche il resto; le ossa si sgretolarono ed esplosero sotto forma di nuvolette di cenere e in un minuto fu tutto finito. Quando le ultime fiamme si furono spente, spalarono i resti nella fossa scavata da Rey e Finn e li ricoprirono con uno strato di terra. Stavano schiacciando il terreno quando Caleb parlò. «Volevo solo dire che secondo me ha cercato di resistere. Avrebbe potuto uccidermi, là fuori.» Theo mise da parte la pala. «Non prenderla male, ma è proprio il fatto che non ti abbia ucciso a preoccuparmi» replicò. Nei giorni seguenti Peter ripensò agli eventi di quella notte, ripercorrendoli nella propria mente. Non solo quello che era successo sul tetto e la strana storia di Caleb in cima alla torre, ma anche l’amarezza con cui suo fratello aveva parlato dei fucili. Perché Alicia aveva ragione: quelle armi avevano un significato. Peter aveva sempre pensato che il mondo del Tempo di Prima non esistesse più. Era come se una lama fosse caduta sul tempo e lo avesse tagliato in due, quello che era successo prima e quello che era successo dopo, e fra quelle due metà non ci fosse nessun ponte: la guerra era stata persa, l’esercito annientato, il mondo precedente la Colonia era una tomba, una fossa aperta in cui giaceva una storia che nessuno ricordava. Lui stesso non aveva mai riflettuto su cosa cercasse suo padre nell’oscurità fuori dalle mura. Aveva dato per scontato che cercasse altri superstiti. Tuttavia, quando aveva preso in mano i fucili che Demo aveva nascosto, e anche in quel momento, steso sul letto ad aspettare che la caviglia guarisse e a ripensare alla sensazione che quei fucili gli avevano dato, intuiva che c’era qualcosa di più, che il passato e tutti i suoi poteri sembravano essere confluiti in lui. Quindi forse era questo che aveva fatto suo padre durante le Esplorazioni: aveva cercato di ricordare il mondo. Sicuramente Theo lo sapeva e da questo veniva la sua grandezza interiore, la grandezza di tutti coloro che avevano partecipato alle Esplorazioni. Peter aveva deciso da tempo di non serbare rancore nei confronti del fratello per ciò che gli aveva detto la madre prima di morire. “Abbi cura di tuo fratello, Theo. Non è forte come te.” La verità era la verità e con il passare degli anni

Peter aveva scoperto che quella consapevolezza era tollerabile, a volte addirittura un sollievo. Suo padre aveva tentato un’impresa difficile e disperata, basata su una fede che andava contro l’evidenza, e se di loro due era Theo quello che avrebbe dovuto portare quel peso – per entrambi – Peter poteva farsene una ragione. Ma dire ad Arlo che era tutto inutile, che l’unica cosa da fare era tenere le luci accese finché potevano, proprio ad Arlo, che aveva una Piccola al Nido... No, questo non era da Theo. Qualcosa l’aveva cambiato. Chissà che cos’era. Rimasero alla centrale cinque giorni. Finn e Rey passarono il primo a ripristinare l’elettrificazione nella rete, poi si spostarono nella sezione ovest per lubrificare le gondole delle turbine. Arlo, Theo e Alicia li scortavano, a turni di due alla volta. Rientravano sempre parecchio prima del tramonto per chiudere bene tutti gli accessi. Non avendo niente da fare, per passare il tempo Peter si mise a giocare al solitario con un mazzo a cui mancavano tre carte e lesse i libri che trovò in una scatola nel magazzino. Un assortimento casuale di titoli: La fabbrica di cioccolato, I signori degli orizzonti: una storia dell’impero ottomano di Jason Goodwin, La valle delle sorprese di Zane Grey (classici della letteratura occidentale). In fondo a ciascun volume c’era una tasca di cartone con la scritta PROPRIETÀ DELLA BIBLIOTECA PUBBLICA DELLA CONTEA DI RIVERSIDE, in cui era infilata una scheda con una serie di timbri in inchiostro sbiadito: 7 settembre 2014, 3 aprile 2012, 21 dicembre 2016. «Chi li ha trovati?» chiese a Theo una sera, dopo che il gruppo fu tornato dal campo, indicando i libri impilati per terra vicino al suo letto. Theo si stava lavando la faccia. Si voltò asciugandosi le mani nel davanti della camicia. «Penso che siano qui da parecchio. Non credo che Zander fosse un gran lettore, perciò li mise via. C’è qualcosa di interessante?» Peter gli mostrò quello che stava leggendo: Moby Dick. «A dire la verità, non sono nemmeno sicuro che sia scritto in inglese» rispose. «Mi ci è voluto quasi tutto il giorno per decifrarne una pagina.» Theo rise stancamente. «Fa’ vedere la caviglia.» Si sedette sulla branda, gli prese delicatamente il piede fra le mani e provò a ruotarlo. Non si erano quasi più parlati dalla notte dell’attacco. Né fra loro né con gli altri. «Be’, sembra che vada un po’ meglio.» Theo si accarezzò il mento. Aveva la barba lunga e le occhiaie. «È meno gonfia. Pensi di farcela a cavalcare?» «Sono disposto anche a strisciare, pur di uscire di qui.» Partirono l’indomani mattina dopo aver fatto colazione. Arlo aveva accettato di rimanere con Rey e Finn fino all’arrivo della squadra successiva. Anche Caleb voleva rimanere, ma Theo lo convinse a partire: visto che si fermava Arlo, se non si fossero avventurati fuori dalla recinzione, non ci sarebbe stato bisogno di un quarto uomo. Caleb ne aveva già passate di tutti i colori. C’era il problema dei fucili. Theo voleva lasciarli dov’erano, mentre Alicia sosteneva che era assurdo non prenderne nemmeno uno. Continuavano a non sapere cosa era successo a Zander e per quale motivo i fumidi non avevano ucciso Caleb. Alla fine giunsero a un compromesso: avrebbero preso un fucile per uno, ma non li avrebbero portati dentro le mura. Prima di rientrare nella Colonia li avrebbero nascosti in un luogo sicuro. E tutte le altre armi sarebbero rimaste nella centrale. «Dubito che ne avremo bisogno» disse Arlo mentre il gruppetto in partenza montava in sella.

«Se si presentano dei fumidi, li stordisco di parole.» Ma lo disse con un fucile a tracolla. Alicia gli aveva insegnato a caricarlo e a pulirlo e gli aveva fatto sparare qualche colpo di prova nel cortile. “Santi numi!” aveva esclamato Arlo con il suo vocione, facendo partire un colpo e centrando in pieno il bersaglio. “È fantastico!” Theo aveva ragione, pensò Peter: una volta che avevi preso un fucile in mano, era difficile rinunciare a usarlo. «Dico sul serio, Arlo» lo ammonì Theo. I cavalli, dopo tanti giorni di sosta, scalpitavano, ansiosi di mettersi in cammino. «C’è qualcosa che non mi convince. Non uscite dalla recinzione e chiudetevi dentro prima che venga buio.» «Non preoccuparti, cugino.» Arlo sorrise sotto la barba e guardò Finn e Rey, che non nascondevano la loro angoscia all’idea di dover rimanere chiusi per giorni nella centrale con Arlo, il quale con ogni probabilità avrebbe parlato e cantato dalla mattina alla sera. Aveva appesa al collo la chiave recuperata dal cadavere di Zander. Theo aveva l’altra. «Forza, ragazzi» disse Arlo ai bulldozer battendo le mani. «Fatevene una ragione. Ci divertiremo.» Avvicinandosi al cavallo di Theo, però, si fece di colpo serio. «Tieni questo.» Gli diede un foglio di carta ripiegato. «È per Leigh e la bambina. Se mai succedesse qualcosa.» Theo mise via il foglio senza guardarlo. «Dieci giorni. Non uscite per nessuna ragione.» «Dieci giorni, cugino.» Partirono. Non dovendo trainare il carro, tagliarono per i campi cavalcando direttamente verso Banning ed evitando la Eastern Route per accorciare di qualche chilometro. Nessuno parlava: risparmiavano il fiato per il lungo viaggio che li attendeva. Quando furono nelle vicinanze del centro abitato, Theo si fermò. «Stavo per dimenticarmi.» Infilò la mano nella bisaccia e tirò fuori lo strano oggetto che Michael gli aveva dato alla Porta Maggiore sei giorni prima. «Qualcuno si ricorda che cos’è questo?» Caleb si avvicinò, a cavallo, e prese la scheda per esaminarla. «È una scheda madre. Chipset Intel, serie Pion. Vedi il 9? Si capisce da questo.» «Ti intendi di ’sta roba?» «Per forza.» Con un’alzata di spalle, Caleb restituì la scheda a Theo. «I comandi degli aerogeneratori montano le Pion. Le nostre sono di tipo militare, protette, ma sono praticamente identiche. Sono robustissime e velocissime. Sedici gigahertz senza overclocking.» Peter guardò Theo, altrettanto perplesso: nemmeno lui aveva idea di che cosa volesse dire tutto ciò. «Be’, Michael ne vuole una.» «Avresti dovuto dirlo prima. Ne abbiamo d’avanzo alla centrale.» Alicia rise. «Da te non me l’aspettavo, Caleb! Parli come il Circuito. E io che credevo che voi bulldozer non sapeste manco leggere!» Caleb si girò sulla sella per guardarla in faccia ma, se si era offeso, non lo lasciò trapelare. «Scherzi? Là dentro non si può far altro che leggere. Zander andava regolarmente alla biblioteca

a prendere libri. Ce ne sono interi scatoloni nel magazzino degli attrezzi. E non solo manuali tecnici. Leggeva di tutto. Diceva che i libri sono più interessanti delle persone.» Per un attimo nessuno parlò. «Cosa ho detto di male?» chiese Caleb. La biblioteca era vicino all’Empire Valley Outlet Mall, nella parte nord della città: era un edificio basso e tozzo, circondato da terreno arido con qualche ciuffo d’erba alta qua e là. Smontarono di sella al riparo di una stazione di servizio. Theo prese il binocolo dalla bisaccia. «È parecchio insabbiata. Dal primo piano in su le finestre sono intatte, però. Sembra ben conservata.» «Riesci a vedere dentro?» chiese Peter. «C’è troppo sole, si riflette sui vetri.» Theo passò il binocolo ad Alicia e si rivolse a All Star. «Sei sicuro?» «Che Zander veniva qui?» Fece cenno di sì con la testa. «Sicurissimo.» «Sei mai venuto con lui?» «Scherzi?» Alicia si arrampicò su un cassonetto per arrivare sul tetto della stazione di servizio e avere una visuale migliore. «Vedi qualcosa?» Alicia abbassò il binocolo. «Hai ragione, c’è troppo sole. Non so come possa esserci qualcosa dentro, però, con tutte quelle finestre.» «Lo diceva sempre anche Zander» replicò Caleb. «Non capisco» disse Peter. «Perché veniva fin qui da solo?» Alicia scese dal tetto, si pulì le mani impolverate nella tunica e si scostò dal viso un ciuffo di capelli bagnati di sudore. «Secondo me, dovremmo andare a dare un’occhiata. Siamo in pieno giorno: meglio di così...» Theo guardò Peter con una faccia come a dire: “Ci avrei scommesso”. «Voti pro o contro?» «Da quando in qua votiamo?» «Da questo momento. Si va soltanto se siamo tutti d’accordo.» Peter cercò di capire dall’espressione del fratello che intenzioni aveva: aveva percepito un’ombra di sfida nella sua domanda. “Perché?” si chiese. “Perché proprio adesso?” Annuì. «Okay, Lish» dichiarò allora Theo prendendo il fucile. «Alla fine l’hai avuta vinta: diamo la caccia ai fumidi.» Lasciarono Caleb con i cavalli e si avvicinarono alla biblioteca in formazione sparsa. C’era molta sabbia accumulata davanti alle finestre, ma l’ingresso, in cima ad alcuni gradini, era sgombro. Il portone si aprì facilmente. Entrarono e si trovarono in una specie di atrio. Appesa alla parete,

vicino alla porta, c’era una bacheca con avvisi scritti su foglietti di carta che dicevano cose tipo: VENDO NISSAN SERATA DEL ’14, POCHI CHILOMETRI. VUOI PERDERE PESO? CHIEDIMI COME FARE! CERCASI BABY-SITTER PER IL POMERIGGIO E OCCASIONALMENTE PER LA SERA, AUTOMUNITA. GRUPPO DI LETTURA PER BAMBINI, MARTEDÌ E GIOVEDÌ 10.30-11.30. L’avviso più grosso era su carta gialla, un po’ arricciato. Diceva:

PER LA VOSTRA SICUREZZA, RIMANETE NELLE ZONE BENE ILLUMINATE. DENUNCIATE SUBITO EVENTUALI SINTOMI DI INFEZIONE. NON FATE ENTRARE SCONOSCIUTI IN CASA VOSTRA. USCITE DALLE ZONE SICURE SOLO SU ORDINE DI FUNZIONARI GOVERNATIVI.

Si inoltrarono nell’edificio ed entrarono in un salone pieno di luce, con alte finestre che si affacciavano sul parcheggio. C’era un odore forte e faceva molto caldo. Al bancone era seduto un cadavere. Era una donna – o almeno così parve a Peter – che doveva essersi sparata un colpo in testa, perché aveva ancora in mano una piccola rivoltella. Aveva la pelle completamente rinsecchita, tesa sulle ossa, color cuoio, e si vedeva il foro lasciato dal proiettile sulla tempia. Aveva la testa inclinata da una parte, come se le fosse caduto qualcosa e si fosse voltata un momento a cercarlo. «Sono contenta che Arlo non sia qui a vedere» mormorò Alicia. Avanzarono in silenzio fra gli scaffali. C’erano libri sparsi per terra dappertutto, ammucchiati come neve d’inverno. Fecero il giro e tornarono al bancone. Theo, con la canna del fucile, indicò le scale. «Tutt’occhi.» In cima c’era un’altra sala molto spaziosa, illuminata dal sole che entrava dalle finestre. Gli scaffali erano stati spinti da parte in modo da far posto a tante file di brande. Su ognuna era steso un cadavere. «Saranno cinquanta» sussurrò Alicia. «Cos’era? Una specie di infermeria?» Theo avanzò in punta di piedi fra i lettini. C’era uno strano odore muschiato nell’aria. Arrivato a metà di una fila, si fermò vicino a un cadavere, si chinò e prese in mano un piccolo oggetto, molle, di tessuto sdrucito. Lo sollevò per mostrarlo a Peter e Alicia: era una bambola di pezza. «Non credo fosse un’infermeria.» Le immagini nella mente di Peter cominciarono a farsi più nitide, a disporsi in ordine. I cadaveri erano tutti di dimensioni ridotte e fra le manine ossute stringevano pupazzi e giocattoli. Peter fece un passo avanti e calpestò un oggetto, che gli si ruppe sotto la suola: era una siringa. Ce

n’erano decine sparse per terra. Capì, e fu come un pugno nello stomaco. «Theo, questo è... questi sono...» Le parole gli rimasero in gola. Il fratello era già diretto verso le scale. «Andiamo via.» Corsero fuori e, sugli scalini davanti all’ingresso, presero fiato. In lontananza Peter vide Caleb in piedi sul tetto della stazione di servizio, ancora intento a scrutare la scena con il binocolo. «Hanno capito che cosa stava succedendo» mormorò Alicia. «E devono aver deciso che era meglio così.» Theo si mise in spalla il fucile e bevve un gran sorso d’acqua. Era grigio in faccia e gli tremavano le mani. «Maledetto Zander!» esclamò poi. «Cosa cazzo veniva a fare qui?» «C’è un’altra scala sul retro» osservò Alicia. «Dovremmo controllare anche quella.» Theo sputò per terra e scosse la testa. «Lascia perdere, Lish» disse Peter. «Che senso ha venire qui a controllare se poi non setacciamo tutto l’edificio?» Theo si voltò di scatto. «Non voglio rimanere un minuto di più in questo posto.» Ormai aveva deciso. «Bruciamo tutto. Non si discute.» Andarono a prendere un po’ di libri dagli scaffali e li ammucchiarono vicino al bancone. La carta prese fuoco subito e le fiamme si propagarono velocemente. Usciti dalla biblioteca, si fermarono a una cinquantina di metri di distanza a guardare. Peter bevve un po’ d’acqua dalla borraccia, ma non riusciva a togliersi dalla bocca quel sapore di morte, di cadaveri. Non avrebbe mai più dimenticato quello che aveva appena visto. Zander non frequentava la biblioteca solo per rifornirsi di libri, ma anche per vedere i bambini. Poi, di colpo, la sabbia accumulata intorno alla biblioteca si mosse. Alicia, che era in piedi accanto a lui, fu la prima ad accorgersene. «Peter...» La sabbia in corrispondenza delle finestre del seminterrato franò ed emerse un gruppetto di virali che scavavano con gli artigli: erano sei e le fiamme li avevano costretti a uscire alla luce abbagliante del sole. Gridarono, e il loro gemito acuto stridette nell’aria, carico di dolore e di rabbia. La biblioteca nel frattempo era completamente avvolta dalle fiamme. Peter alzò il fucile e cercò il grilletto alla cieca, confuso. Quella scena gli sembrava reale solo in parte, la sua mente stentava a capacitarsi di ciò che stava succedendo. Dal denso fumo nero che usciva dalle finestre dei piani superiori, dai vetri che scoppiavano ricadendo in una pioggia di schegge luccicanti, sbucavano virali avvolti dalle fiamme e da cascate di scintille di fuoco. Peter aveva l’impressione che fosse passato un sacco di tempo da quando aveva sollevato il fucile con l’intenzione di sparare. Il primo gruppetto di virali si era rifugiato in una zona d’ombra vicino ai gradini dell’ingresso; stavano lì accovacciati, vicini vicini, con la testa bassa, come Piccoli che giocano a nascondino.

«Non possiamo rimanere qui, Peter!» La voce di Alicia lo riscosse dal torpore. Anche Theo, al suo fianco, sembrava paralizzato, la canna del fucile puntata inutilmente a terra, la bocca aperta e gli occhi sgranati, rassegnati. “Tanto è inutile...” «Theo, ascoltami» disse Alicia prendendolo per un braccio e scuotendolo. Per un attimo Peter temette che volesse picchiarlo. I virali rannicchiati ai piedi della scala avevano cominciato a muoversi: il branco fu percorso da un fremito collettivo, come quando il vento increspa uno specchio d’acqua. «Dobbiamo andarcene via subito!» Theo guardò Peter. «Oh, fratello, ce l’abbiamo nel culo» disse. «Aiutami, Peter» implorò Alicia. Lo presero ciascuno per un braccio e lo trascinarono via. Dopo un po’ Theo cominciò a correre con le sue gambe. Il senso di irrealtà che lo aveva paralizzato era scomparso, sostituito da un unico desiderio: andarsene, scappare. Svoltarono l’angolo della stazione di servizio e videro Caleb, a cavallo, già in fuga. Montarono a cavallo anche loro e partirono al galoppo dietro di lui, verso il deserto. Peter udì altri vetri che andavano in frantumi. Alicia indicò il centro commerciale urlando qualcosa. Caleb si era diretto da quella parte. Superarono a tutta velocità una cresta di sabbia e scesero nel parcheggio vuoto appena in tempo per vedere Caleb che smontava di sella davanti all’entrata ovest, dava una pacca al cavallo e si infilava a razzo nel centro commerciale. L’animale si allontanò a briglia sciolta. «Entriamo anche noi!» gridò Alicia. Era lei a comandare adesso. Theo non diceva niente. «Lasciamogli i cavalli!» Erano un’esca, un’offerta. Non ci fu tempo per gli addii: appena furono scesi di sella, si precipitarono dentro. Peter sapeva che il posto migliore era l’atrio centrale: il soffitto di vetro era andato distrutto e c’erano molta luce e molti possibili nascondigli. Lì avrebbero avuto la possibilità di organizzare una difesa. Fecero di corsa il corridoio semibuio. L’aria era pesante, acre, i muri gonfi di muffa, con le travi arrugginite, fili che penzolavano e tubi pieni di incrostazioni. La maggior parte dei negozi aveva la saracinesca abbassata, ma alcuni erano spalancati come facce sbalordite. Dentro, nella penombra, si intravedevano sporcizia e detriti. Peter vide Caleb che correva, più avanti, tra fasci di luce dorata che scendevano dagli squarci nel soffitto. Arrivarono nell’atrio, dove il sole era così forte che rimasero abbagliati. Era una specie di foresta: dappertutto crescevano rigogliose piante rampicanti. Al centro, un gruppo di palme arrivava quasi al soffitto sfondato. Dalle travi esposte penzolavano liane che parevano corde. Si misero al riparo dietro una barricata di tavoli rovesciati ai piedi degli alberi. Caleb era scomparso. Peter guardò il fratello, accovacciato vicino a lui. «Tutto bene?» Theo annuì, dubbioso. Avevano tutti il fiatone. «Mi dispiace per prima. È che...» Scosse la testa. «Non so.» Si asciugò il sudore con la mano. «Io vado a sinistra. Tu stai con Lish.» E corse via. Lish, in ginocchio, controllò che il fucile fosse carico e fece scattare l’otturatore. Nell’atrio convergevano quattro corridoi: un eventuale attacco sarebbe arrivato da ovest. «Pensi che il sole li abbia fermati?» chiese Peter.

«Non lo so, Peter. Sembravano impazziti. Qualcuno forse sì, ma non tutti.» Si avvolse la tracolla del fucile intorno all’avambraccio. «Devi promettermi una cosa. Io non voglio assolutamente diventare una di loro. Se mai dovessi correre quel rischio, vorrei che ci pensassi tu.» «Porco vampiro, Lish, non dirlo neanche per scherzo.» «Ho detto se» replicò lei con voce ferma. «Mi raccomando: non esitare.» Non ebbero il tempo di continuare: udirono dei passi che si avvicinavano di corsa, poi videro Caleb arrivare nell’atrio stringendo qualcosa al petto. Si tuffò anche lui al riparo dei tavoli. Peter notò che aveva in mano una scatola da scarpe nera. «Non ci posso credere!» esclamò Alicia. «Sei andato a prenderti un paio di scarpe?» Caleb sollevò il coperchio della scatola e lo buttò da una parte. Erano scarpe da ginnastica gialle, ancora avvolte nella carta velina. Caleb si tolse gli stivali di Zander e se le infilò. «Merda, sono troppo grandi!» esclamò, abbacchiato. «Non mi stanno.» Un attimo dopo gli piombò addosso il primo virale. Ci fu un movimento confuso in alto, poi un guizzo alle loro spalle, qualcosa che scendeva dal soffitto. Peter rotolò via e vide Theo che veniva sollevato verso il soffitto, con il fucile che gli penzolava dal braccio, impigliato nella tracolla, e mani e piedi che si agitavano nel vuoto. Un secondo virale, appeso a testa in giù a una delle travi del tetto, lo afferrò per una caviglia come se non pesasse niente. Theo era completamente capovolto, con un’espressione di stupore assoluto, ammutolito. Il fucile cadde per terra e fece un piccolo rimbalzo. Poi il virale lanciò Theo verso l’alto e Peter lo vide scomparire oltre il buco nel soffitto. Si alzò e cercò il grilletto con il dito. Udì una voce che chiamava Theo, la sua stessa voce, e poi gli spari di Alicia. Adesso sul soffitto c’erano tre virali che saltavano da un pilastro all’altro. Con la coda dell’occhio, Peter vide che Alicia stava aiutando Caleb a scavalcare il bancone di un ristorante in fondo all’atrio, per nascondercisi dietro. Sparò una volta, due, ma i virali erano troppo veloci: ogni volta, quando partiva il colpo, il punto verso cui aveva mirato era già vuoto. Aveva l’impressione che lo facessero apposta, che fosse un gioco per costringerli a sprecare le munizioni. “L’hanno mai fatto prima?” si chiese. E gli parve di aver già sentito quelle parole. Quando saltò giù il primo, Peter gli vide descrivere un arco letale: Alicia era in piedi con le spalle al bancone e il virale le stava zompando addosso, con le braccia aperte e le gambe piegate per ammortizzare l’impatto. Era tutto denti, artigli, muscoli potentissimi. Prima che atterrasse, però, Alicia fece un passo avanti e si piazzò dritta sotto di lui, tenendo il fucile come se fosse un coltello. E fece fuoco. Ci fu un’esplosione di spruzzi rossastri, una confusione di corpi avvinghiati, e il fucile rotolò a terra. Peter si rese conto che Alicia non era morta quando la vide balzare in piedi. Il virale, invece, giaceva nel punto in cui era caduto, con un cratere sanguinolento al posto della nuca. Alicia gli aveva sparato in bocca. I suoi compagni di branco, più in alto, si erano fermati di botto, irrigiditi, con i denti che luccicavano, e avevano girato contemporaneamente la testa verso Alicia, come due marionette mosse dallo stesso filo. «Scappa!» gridò Alicia scavalcando il bancone con un salto. «Corri!»

Peter corse via. Si era addentrato molto nel centro commerciale e gli sembrava di non avere vie d’uscita. Tutte le porte erano sbarrate, bloccate da montagne di detriti e rottami vari: mobili, carrelli per la spesa, cassonetti pieni di spazzatura. Theo, suo fratello, era sparito. Non gli restava che nascondersi. Entrò in un corridoio di negozi chiusi e provò le saracinesche senza riuscire ad aprirne neanche una: avevano tutte il lucchetto. Nella nebbia del panico, gli sorse spontanea una domanda: “Come mai sono ancora vivo?”. Quando si era messo a correre, su suggerimento di Alicia, si aspettava di non riuscire a fare più di dieci passi prima di sentire un dolore lancinante e morire. Invece era passato più di un minuto: i virali non lo avevano inseguito. “Hanno altro da fare” pensò. Dovette afferrarsi a una saracinesca per non cadere. Infilò le dita nelle maglie di metallo e appoggiò la fronte, cercando di riprendere fiato. I suoi amici erano morti. L’unica spiegazione era quella. Theo era morto, Caleb e Alicia anche. Non appena avessero finito di succhiare il loro sangue, i virali sarebbero venuti a cercare anche lui. Si sentiva come un animale braccato. Riprese a correre. Percorse un corridoio, poi un altro, passando davanti a una fila di saracinesche chiuse. Non provava nemmeno più ad aprirle ormai. Il suo unico pensiero era uscire di lì, ritornare fuori. Intravide la luce del giorno, uno spazio aperto. Svoltò un angolo e, scivolando sulle mattonelle del pavimento, arrivò in un salone con il soffitto a volta. Un altro atrio... Era sgombro di detriti e la luce del sole scendeva in fasci fumosi da un anello di finestre in alto. Al centro del salone, immobili, c’erano dei cavallini. Erano disposti in cerchio, sotto una specie di tettoia. Peter si fermò di colpo pensando che nel vederlo i pony si disperdessero. Come avevano fatto a entrare nel centro commerciale? Avanzò, cauto, e capì che non si trattava di cavalli veri: era una giostra. Ne aveva vista una in un libro, una volta, al Nido. La base ruotava, c’era della musica e i bambini giravano in tondo in groppa ai cavallini. Salì sul piedistallo e vide che erano coperti da uno spesso strato di polvere. Ne pulì uno con la mano, scoprendone i colori e i particolari del muso: le ciglia, le scanalature fra i denti, il naso con le froge. In quel momento provò una sorta di brivido alle estremità, come se avesse sfiorato un metallo freddo. Trasalì e alzò la testa. Davanti a lui c’era una ragazza. Una Pellegrina! Non avrebbe saputo dire quanti anni aveva. Tredici? Sedici? I capelli erano lunghi, scuri e arruffati. Portava un paio di pantaloni sdruciti, tagliati sopra le caviglie, e una T-shirt sudicia, tutti e due troppo grandi per il suo fisico acerbo. I pantaloni erano stretti in vita con un pezzo di filo elettrico; ai piedi calzava un paio di sandali infradito decorati da piccole margherite di plastica. Senza lasciare a Peter il tempo di dire nulla, si avvicinò l’indice alle labbra: “Non parlare”. Andò

velocemente verso il centro della giostra e si voltò per fargli cenno di seguirla. Fu in quel momento che Peter li udì. Passettini veloci nel corridoio, uno scuotere di saracinesche metalliche. Stavano arrivando i virali. Cercavano lui. Volevano succhiargli il sangue. La ragazza spalancò gli occhi. “Sbrigati” gli disse con lo sguardo. Lo prese per mano e lo trascinò al centro della giostra. Poi si inginocchiò e sollevò un anello di metallo sul pavimento: una botola, invisibile nella superficie di legno. Ci si infilò dentro tutta, tranne la faccia. “Svelto, svelto!” Peter la seguì nel buio e si richiuse la botola sopra la testa. Erano in una specie di intercapedine sotto la piattaforma della giostra. Dalle fessure tra le assi entravano sottili lame di luce in cui danzava la polvere. Peter vide un ammasso di ingranaggi, un sacco a pelo ammucchiato per terra, file di bottiglie d’acqua e scatolette di cibo con l’etichetta ormai sbiadita. Che quella ragazza vivesse lì? La piattaforma vibrò. Lei si mise in ginocchio e sopra di loro passò un’ombra. Gli mostrò cosa bisognava fare. “Mettiti giù. Non ti muovere.” Peter ubbidì. La ragazza gli si stese sulla schiena. Peter sentì il suo calore, il suo alito sul collo. Lo stava coprendo con il proprio corpo. I virali intanto erano saliti sulla giostra. Peter intuì che cercavano, sondavano; udì i leggeri schiocchi di gola che emettevano. Quanto tempo avrebbero impiegato per trovare la botola? “Non ti muovere. Trattieni il respiro.” Peter chiuse gli occhi e si sforzò di rimanere completamente immobile, l’orecchio teso a captare il rumore della botola scardinata. Il fucile era a terra accanto a lui. Forse sarebbe riuscito a sparare un colpo o due, non di più. Passarono alcuni secondi. Si sentirono altre vibrazioni e il respiro eccitato dei virali che avevano fiutato odore d’uomo, odore di sangue. Ma c’era qualcosa che non andava: erano incerti. La ragazza era ancora sopra di lui. Lo nascondeva. Lo proteggeva. I rumori cessarono. Che i virali se ne fossero andati? Passò un minuto, poi un altro. Peter aveva smesso di pensare ai virali e adesso cercava di capire che cosa avrebbe fatto la ragazza. Dopo un po’ si staccò da lui. Peter si mise in ginocchio. Si ritrovarono faccia a faccia, vicinissimi. La ragazzina aveva la pelle liscia di un bambino, ma lo sguardo di un adulto. Peter sentì l’odore del suo alito, dolce, come di miele. «Come hai fatto a...?» La ragazza scosse la testa per zittirlo, fece un gesto verso l’alto e si mise di nuovo l’indice davanti alla bocca. “Se ne sono andati. Ma torneranno.” Si alzò e aprì la botola. Si voltò un attimo per comunicargli quello che voleva. “Vieni con me. Subito.” Risalirono sulla piattaforma della giostra. Il salone era vuoto, ma Peter percepì la presenza dei virali che erano stati lì fino a poco prima, i mulinelli invisibili dell’aria nei punti in cui lo avevano cercato. La ragazza si incamminò velocemente verso una porta dalla parte opposta. Era socchiusa, tenuta aperta da un cuneo di cemento. La superarono, lei tolse il cuneo e la richiuse. Peter sentì scattare la serratura.

Era tutto nero. Fu colto da un nuovo senso di panico, di totale disorientamento. Poi però la ragazza lo prese per mano. Con decisione, per rassicurarlo. E lo condusse più avanti, nell’interno del centro commerciale. “Ti tengo io. Va tutto bene.” Peter cercò invano di contare i passi. Sentiva, da come lei gli stringeva la mano, che avrebbe voluto camminare più in fretta, che l’incertezza di lui li rallentava. Inciampò in qualcosa e gli cadde di mano il fucile, andando a perdersi nel buio. «Aspetta...» Sentirono un clangore alle loro spalle, un cigolio di metallo che si piegava. I virali li avevano trovati. Più avanti c’era un barlume di luce. Peter cominciò a vedere dove si trovavano: in un lungo corridoio dal soffitto molto alto. Contro le pareti c’erano mucchi di mingherli, un coro di scheletri sogghignanti dalle braccia contorte, in pose che parevano di avvertimento. Alle loro spalle si udì un altro schianto: la porta stava per cedere, per staccarsi dai cardini. Il corridoio terminava con un’altra porta, che era aperta. C’era una scala. Dall’alto scendeva la luce dorata del sole; c’era odore di piccioni, un tubare sommesso. Un cartello sul muro avvertiva: ACCESSO AL TETTO. Peter si voltò. La ragazza era ancora nel corridoio. I loro sguardi si incontrarono per un attimo indimenticabile. Una frazione di secondo dopo lei fece un passo avanti, si mise in punta di piedi e gli posò le labbra chiuse sulla faccia, come un uccellino che si abbevera. Così: gli diede un bacio su una guancia. Peter rimase ammutolito dallo stupore. La ragazza indietreggiò, tornò nel corridoio buio. “Ora vai” gli disse con gli occhi. E chiuse la porta. «Ehi!» Peter udì lo scatto della serratura e afferrò la maniglia, che però era inamovibile. Bussò sulla porta di metallo. «Ehi! Non abbandonarmi!» Ma la ragazza non c’era più, come uno spiritello sparito nel nulla. Peter vide di nuovo il cartello: ACCESSO AL TETTO. Era lì che la ragazza voleva che andasse. Cominciò a salire. Faceva caldissimo e l’odore dei piccioni era asfissiante. Lungo le pareti colavano strisce di guano, che incrostava anche gli scalini e la ringhiera, come uno strato di vernice. I piccioni non sembravano disturbati dalla sua presenza, però, e svolazzavano appena a mano a mano che lui saliva, solo moderatamente incuriositi. Tre rampe, quattro: Peter ansimava, la bocca e il naso pieni di quell’odore schifoso, gli occhi che bruciavano come se ci fosse schizzato dentro dell’acido. Finalmente arrivò in cima. Un’ultima porta e, sul muro soprastante, troppo in alto perché lui potesse raggiungerla, una finestrella con spunzoni di vetro infranto intorno al telaio ingiallito dalla fuliggine e dal tempo. La porta era chiusa con un lucchetto. Dopo tanta fatica, era in un vicolo cieco! La ragazza lo aveva condotto in una strada senza

uscita. Un clangore spaventoso riecheggiò nella tromba delle scale: il primo virale era arrivato alla porta di sotto. I piccioni cominciarono a svolazzargli intorno riempiendo l’aria di piume. Fu in quel momento che la scorse, così incrostata di guano da risultare invisibile nella parete: ruppe il vetro con una gomitata e afferrò l’ascia. Da sotto venne un secondo schianto. Ancora una spinta, e i virali avrebbero abbattuto la porta e si sarebbero precipitati su per le scale. Peter sollevò l’ascia sopra la testa, prese lo slancio e sferrò il primo colpo. Il lucchetto non si aprì, ma qualche danno l’aveva fatto. Prese fiato, calcolò meglio la distanza e colpì di nuovo, con tutte le sue forze. Quella volta centrò il lucchetto in pieno e lo spezzò. Si appoggiò con tutto il suo peso alla vecchia porta arrugginita, che si spalancò con un gran cigolio proiettandolo in pieno sole. Era sul tetto all’estremità nord del centro commerciale, di fronte alle montagne. Si avvicinò zoppicando al cornicione. Erano almeno quindici metri da lì a terra. Nella migliore delle ipotesi si sarebbe rotto le gambe. Voleva restare lì fermo ad aspettare che i virali gli saltassero addosso? No, non era quella la fine che desiderava. Perdeva sangue da un gomito e aveva lasciato una scia scarlatta dalla porta fino a lì. Anche se non ricordava di aver sentito dolore, doveva essersi tagliato nel prendere l’ascia. Ma un po’ di sangue non avrebbe fatto una gran differenza. Almeno adesso aveva un’arma. Stava per voltarsi a guardare la porta, pronto a colpire, quando da sotto udì un grido. «Buttati!» Erano Alicia e Caleb, che erano arrivati da dietro l’angolo al galoppo. Alicia, con i piedi puntati sulle staffe, si sbracciava e urlava: «Buttati!». Peter pensò a Theo che spariva oltre il buco nel tetto, a suo padre, in piedi in riva al mare, all’oceano e alle stelle. Pensò alla ragazza che lo aveva protetto con il proprio corpo, al suo alito caldo e dolce sul collo, al bacio che gli aveva dato. I suoi amici, da sotto, lo chiamavano e si sbracciavano, i virali stavano salendo le scale, lui aveva un’ascia in pugno. “Non adesso” pensò. “Non ancora.” Chiuse gli occhi e si buttò.

23 Era di nuovo estate ed era rimasta sola. Sola, senza altra compagnia che le voci che udiva ovunque, tutto intorno a lei. Ricordava alcune persone. Ricordava l’Uomo. Ricordava l’altro uomo, con la moglie e il figlio, e poi la donna. Ricordava alcuni più di altri. Non ricordava nessuno. Ricordava di aver pensato, un giorno: “Sono sola. L’unico io che c’è sono io”. Viveva al buio. Non era stato facile, ma aveva imparato a camminare nella luce. Per un po’ questo le aveva causato un grande dolore, le dava la nausea. Ma aveva camminato e camminato, seguendo le montagne come le aveva detto l’Uomo. “Segui le montagne, corri senza fermarti mai.” A un certo punto, però, le montagne erano finite. Non ce n’erano più. Non riusciva più a trovarle. Certi giorni non andava da nessuna parte. Certi giorni erano anni. Aveva vissuto qua e là, con questi e con quelli. Con l’uomo, la moglie e il figlio, poi con la donna e alla fine da sola. Certi erano gentili con lei, prima di morire. Altri no. Era diversa, dicevano. Non era come loro, non era una di loro. Era sola e al mondo non c’era nessuno come lei. Certi la mandavano via, altri no. Alla fine, comunque, morivano tutti. Sognava. Sognava le voci e sognava l’Uomo. Per un periodo di mesi o di anni, se ascoltava con attenzione, riconosceva l’Uomo nell’urlo del vento e nel fruscio delle stelle, e questo le faceva venire nostalgia dei tempi in cui lui la accudiva. Poi, però, la voce dell’Uomo si era confusa con quelle degli altri, quelli che sognavano, presenti e assenti, così come il buio era una cosa e al tempo stesso non lo era, presenza e assenza insieme. Il mondo era un mondo di anime sognanti che non potevano morire. Pensava: “C’è la terra sotto i miei piedi, c’è il cielo sopra la mia testa, ci sono le case vuote e il vento e la pioggia e le stelle e ovunque ci sono le voci, tante voci e la domanda: ‘Chi sono io? Chi sono io? Chi sono io?’”. Non aveva paura di loro, a differenza dell’Uomo e di tutti gli altri, l’uomo con la moglie e il figlio e poi la donna. Aveva provato ad allontanare dall’Uomo quelli che sognavano e ci era riuscita, ce l’aveva fatta. L’avevano seguita, ognuno trascinandosi dietro la sua domanda come una catena, come nel libro, nella storia dello spirito di Jacob Marley. Per un po’ aveva pensato che fossero spiriti, ma non lo erano. Non sapeva come chiamarli. Non sapeva come chiamare neppure se stessa, la cosa che era diventata. Una notte si era svegliata e se li era visti tutti intorno, con i loro occhi supplichevoli, che rilucevano come braci nel buio. Ricordava il posto perché era un fienile, faceva freddo e pioveva. Le si erano radunati intorno con le loro facce sognanti, così tristi e sperdute, come il mondo solitario in cui lei camminava. Avevano bisogno che lei glielo dicesse, che rispondesse alla loro domanda. Sentiva l’odore del loro alito, l’alito della notte, e della domanda che scorreva come una corrente nel sangue. “Chi sono io?” le chiedevano. “... chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io chi sono io...” Allora era scappata da quel posto. Si era messa a correre e aveva corso, corso, corso. Le stagioni erano cambiate, avvicendandosi più e più volte. Faceva freddo, poi non più. Le notti erano lunghe, poi non più. Lei portava sulle spalle uno zaino di cose di cui aveva bisogno e di

cose che voleva avere con sé perché le erano di conforto, la aiutavano a ricordare, a trattenere nella mente il tempo, gli anni buoni e quelli cattivi. Cose come la storia dello spirito di Jacob Marley. Il medaglione che aveva sfilato alla donna dopo che era morta anche lei, come tutti, con grande agitazione, un osso del campo di ossa e un sasso della spiaggia dove aveva visto la nave. Ogni tanto mangiava. Alcune scatolette di cibo che trovava non erano più buone. Le apriva con un apriscatole che aveva nello zaino e sentiva una puzza terribile, come dentro i palazzi pieni di morti stesi in fila, oppure sparsi qua e là, e capiva di non poterle mangiare, di doverne cercare altre. Per un po’ aveva camminato con l’oceano a fianco, grigio ed enorme, e una spiaggia di sassi lisci, consumati dalle onde; c’erano pini altissimi con lunghi rami che si protendevano sopra la superficie dell’acqua. Di notte guardava le stelle muoversi nel cielo, la luna sorgere e poi tramontare sul mare. La luna era la stessa in tutto il mondo e per un po’ in quel luogo fu felice. Era stato lì che aveva visto la nave. “Salve!” aveva gridato, perché era tantissimo che non vedeva nessuno e si sentiva ricolma di gioia. “Salve, nave! Salve, o nave grandissima!” Ma la nave non le aveva risposto. Se n’era andata per un periodo lungo giorni e giorni, oltre il confine del mare, poi era tornata, spinta dalla marea lunare durante la notte. Come il sogno di una nave senza nessun altro a sognarla a parte lei. L’aveva seguita per giorni e per notti fino al luogo con gli scogli e il ponte color del sangue, crollato, e lì la prua si era fermata, in mezzo ad altre più grandi e più piccole, e a quel punto lei aveva capito che la nave, come le sue compagne sugli scogli, era vuota, senza nessuno a bordo. E il mare era nero e aveva un cattivo odore, come quello delle scatolette che non si potevano più mangiare. Se n’era andata anche da quel luogo. Oh, li sentiva, li sentiva tutti. Se allungava le braccia e accarezzava il buio, li sentiva ovunque. Il loro doloroso dimenticare. I loro cuori spezzati, in preda a una disperazione grande e terribile. Il loro costante, supplichevole domandare. La commuoveva, suscitando in lei un rammarico che era quasi amore. Come l’amore che aveva provato per l’Uomo che, siccome le voleva bene, le aveva detto di correre senza fermarsi mai. L’Uomo. Lei ricordava gli incendi e la luce che le era esplosa negli occhi come un sole. Ricordava la tristezza dell’Uomo, ricordava il suo sentimento. Ma non lo udiva più e pensava che se ne fosse andato per sempre. Udiva altri, però, nel buio. E sapeva chi erano. “Io sono Babcock.” “Io sono Morrison.” “Io sono Chávez.” “Io sono Baffes-Turrell-Winston-Sosa-Echols-Lambright-Martínez-Reinhardt-Carter.” Pensava a loro come ai Dodici, e i Dodici erano ovunque, dentro il mondo, dietro il mondo, intessuti nella notte. I Dodici erano il sangue che scorreva sotto la pelle di tutte le cose del mondo, a quei tempi. Tutto questo per anni e anni. Ricordava un giorno, il giorno del campo delle ossa, e anche un altro, il giorno dell’uccello e del “non parlare”. Era successo in un luogo con alberi altissimi. E lì si era trovata davanti alla faccia una creaturina che svolazzava nell’aria. Zampettava nel sole, nell’erba in cui aveva imparato a camminare, e si librava avanti e indietro frullando le ali invisibili. Lei la guardava e la guardava, le sembrava di osservarla da molti giorni.

Aveva pensato alla parola che corrispondeva a quella creatura, ma quando aveva provato a dirla si era resa conto di aver dimenticato come si faceva. “Uccello.” Aveva la parola dentro di sé, però le mancava la porta attraverso cui farla uscire. “Co-li-brì.” Aveva pensato a tutte le altre parole che conosceva, e per ognuna era lo stesso: erano chiuse dentro di lei e non riuscivano a uscire. Poi una notte di luna, molto tempo dopo, si era sentita sola e senza amici a farle compagnia. “Venite” aveva pensato. E loro erano venuti. Prima uno, poi un altro e altri ancora. “Venite a me.” Erano usciti dalle ombre, scesi dal cielo e dai luoghi alti intorno a lei e ben presto erano stati una compagnia innumerevole, come nel fienile, ma ancora di più. Le si erano affollati intorno con le loro facce sognanti. Lei li aveva toccati, accarezzati, e non si era sentita più sola. “Siamo tutti qui? Perché non ho visto nessuno, né uomo né donna, in tutti questi anni. L’unico io che c’è sono io?” aveva domandato. Ma, per quanto lei chiedesse, essi non avevano risposta. Avevano solo la loro domanda, impellente e bruciante. “Ora andate” aveva pensato chiudendo gli occhi. Quando li aveva riaperti, aveva visto che era sola. Fu così che imparò come fare. Poi, dopo stagioni di notti e dopo anni di notti, era arrivata nel luogo della città sepolta, dove alla luce calante del crepuscolo aveva visto gli uomini a cavallo. Erano sei, in groppa a sei cavalli scuri e muscolosi. Erano armati di fucile, come gli altri che ricordava, nei tempi dopo l’uomo con la moglie e il figlio e poi la donna; si era nascosta nell’ombra aspettando che scendesse la notte. Non sapeva ancora che cosa avrebbe fatto, ma gli smemorati erano venuti a lei come sempre nel buio e, benché gli avesse detto di non farlo, si erano avventati fulminei sugli uomini facendo una gran confusione; così gli uomini avevano cominciato a morire. Ne erano morti tre. Lei si era avvicinata ai cadaveri, agli uomini e ai cavalli che non avevano più una goccia di sangue in corpo, come sempre accadeva a coloro che morivano in quel modo. I tre non erano da nessuna parte, ma l’anima di uno era ancora vicina e guardava da un posto senza nome, dove le cose perdevano forma. Lei si era chinata a guardargli la faccia e l’espressione che vi era stampata. Era la stessa espressione che aveva visto sul volto dell’uomo, della moglie e del figlio e poi della donna. Un’espressione di paura, dolore e resa. Le era venuto in mente che quell’uomo si chiamava Willem. E quelli che lo avevano ridotto così erano dispiaciuti, molto dispiaciuti. Allora lei si era alzata. “Non importa” aveva detto loro. “Adesso andate e non fatelo mai più, se riuscite a trattenervi” aveva aggiunto pur sapendo che questo era impossibile. Non potevano a causa dei Dodici, che riempivano loro la testa di terribili sogni di sangue e non davano altra risposta alla loro domanda se non: “Io sono Babcock.” “Io sono Morrison.” “Io sono Chávez.” “Io sono Baffes-Turrell-Winston-Sosa-Echols-Lambright-Martínez-Reinhardt-Carter.”

“Io sono Babcock.” “Babcock.” “Babcock.” Li aveva seguiti sulla sabbia, anche se la luce era abbagliante per i suoi occhi e certi giorni non riusciva a ripararsi dal sole. Si era avvolta in un telo che aveva trovato e si era riparata la faccia con gli occhiali. Le giornate erano lunghe, il sole descriveva il suo arco alto nel cielo e solcava la terra in basso con la lunga lama dei suoi raggi. Di notte il deserto si faceva silenzioso; l’unico rumore era lei che lo attraversava, il battito del suo cuore e il mondo sognante tutto intorno. Poi un giorno erano ricomparse le montagne. Non aveva mai più trovato quegli uomini a cavallo né il luogo da dove venivano. Alcuni di loro dovevano essere morti nella città sepolta che lei aveva davanti agli occhi. Il fondovalle, tra le alture, era punteggiato di alberi spogli che ruotavano al vento. Era giunta alla costruzione con i cavallini e quando li aveva visti nella loro immobilità e solitudine aveva pensato: “Forse questi sono i cavallini che conoscevo”. Non erano vivi, ma lo sembravano, e al vederli aveva provato una sensazione di pace e di nostalgia per l’Uomo che si era preso cura di lei; allora si era detta che doveva rimanere lì, che il tempo della fuga era finito. Adesso basta correre. Quello era il luogo in cui si sarebbe riposata. Ma era finito anche il tempo del riposo. Gli uomini erano tornati con i loro cavalli e lei ne aveva salvato uno, lo aveva coperto con il proprio corpo, come le aveva suggerito l’istinto. Aveva detto a quelli che sognavano: “Andate, andate adesso, questo non uccidetelo” e per un po’ le sue esortazioni avevano fatto effetto, ma l’altra voce dentro la loro mente era forte, e anche la fame era tanta. Nel suo angolo buio e polveroso sotto i cavallini aveva pensato all’uomo che aveva salvato, sperando che non fosse morto, e aveva teso l’orecchio per captare rumore di uomini, di cavalli e di fucili. E dopo un certo periodo di giorni, non essendoci traccia di loro, era partita da quel luogo, come da tutti i luoghi precedenti, ed era uscita nella notte di luna di cui faceva parte, una e indivisibile. “Dove sono andati?” domandò allora alle tenebre. “Dove sono andati gli uomini a cavallo, affinché io possa andare a cercarli? Perché sono stata sola per tutti questi anni e anni, io con il mio unico io.” E dal cielo notturno giunse a lei una nuova voce che diceva: “Immergiti nella luce della luna, Amy”. “Dove? Dove devo andare?” “Portali a me. La via ti mostrerà la via.” Sì, l’avrebbe fatto. Perché era stata sola troppo tempo, unico io esistente, e traboccava di dolore e di voglia di altri come lei, per non essere più sola. “Immergiti nella luce della luna e trova gli uomini affinché io li conosca come li conosci tu, Amy.” “Amy” pensò lei. “Chi è Amy?” E la voce rispose: “Sei tu”.

Quinta parte LA BAMBINA VENUTA DAL NULLA Tu che non ricordi passaggio dall’altro mondo ti dico che seppi parlare di nuovo: tutto ciò che ritorna dall’oblio ritorna per ritrovare una voce... LOUISE GLÜCK L’iris selvatico

24 REGISTRO DI GUARDIA ESTATE 92 GIORNO 51: Nessun segno. GIORNO 52: Nessun segno. GIORNO 53: Nessun segno. GIORNO 54: Nessun segno. GIORNO 55: Nessun segno. GIORNO 56: Nessun segno. GIORNO 57: Peter Jaxon a PT 1 (in attesa di Theo Jaxon). Nessun segno. GIORNO 58: Nessun segno. GIORNO 59: Nessun segno. GIORNO 60: Nessun segno. BILANCIO CORRENTE: 0 contatti. Uccisi 0, ghermiti 0. Richiesta sostituzione Capitano in seconda (T. Jaxon, deceduto) inoltrata a Sanjay Patal. PRESENTATO ALLA CONSULTA CON OSSEQUI DA S.C. Ramirez, Primo Capitano All’alba dell’ottava mattina Peter aprì gli occhi di scatto sentendo il rumore del gregge che scendeva lungo il viottolo. Si ricordò che a metà notte aveva pensato: “Due minuti soltanto. Due minuti di riposo e recupero le forze”. Non appena si era seduto e aveva appoggiato la schiena al muro e la testa sulle braccia conserte, però, si era addormentato. «Finalmente ti sei svegliato.» Alicia era in piedi davanti a lui. Peter si sfregò gli occhi e si rialzò, accettando senza una parola la borraccia che gli porgeva. Era tutto indolenzito, aveva le ossa rotte. Bevve un sorso d’acqua tiepida e guardò oltre il parapetto. Al di là della barricata incendiaria si stava alzando una nebbiolina sottile. «Quanto ho dormito?» Alicia gli rispose con un’alzata di spalle. «Lascia perdere. Sei stato sette notti senza chiudere occhio. Non dovresti nemmeno essere qui. Se qualcuno ha qualcosa da ridire, che venga a parlarne con me.» Suonò la Prima campana del mattino. Peter e Alicia, senza parlare, guardarono le porte che si aprivano e gli animali che cominciavano a uscire dalle mura, ansiosi di andare al pascolo. «Va’ a casa e cerca di dormire un po’» suggerì Alicia, mentre i taglialegna si preparavano a

mettersi in marcia. «Della Pietra ti preoccuperai più tardi.» «Voglio aspettarlo qui.» Alicia lo guardò negli occhi. «Peter, sono passate sette notti. Torna a casa.» Si interruppero sentendo dei passi sulla scala. Era Hollis Wilson, che salì sulla passerella e li guardò con aria corrucciata. «Smonti, Peter?» «Accomodati, Hollis» rispose Alicia. «Noi abbiamo finito.» «No, io resto qui.» Il primo turno del mattino stava prendendo posto: arrivarono altre due guardie, Gar Phillips e Vivian Chou. Gar stava raccontando qualcosa e Vivian rideva. Quando videro loro tre lì in piedi, però, si zittirono immediatamente e proseguirono in silenzio. «Senti» disse Hollis «se vuoi restare, non ho niente in contrario. Ma, essendo io il capoturno, devo avvisare Soo.» «No, Peter adesso smonta» ribatté Alicia. «È un ordine. Non te lo dà Hollis, ma io. Vattene a casa, Peter.» Nonostante l’istinto fosse di protestare, quando fece per aprir bocca Peter fu investito da uno sconforto tale che dovette arrendersi. Alicia aveva ragione. Era tutto finito: Theo non era tornato. Avrebbe dovuto sentirsi sollevato per questo, invece l’unica cosa che provava era una spossatezza talmente profonda che gli pareva dovesse accompagnarlo fino alla fine dei suoi giorni. Gli costò fatica anche solo sollevare da terra la balestra. «Mi spiace per tuo fratello, Peter» mormorò Hollis. «Adesso che sono trascorse sette notti, te lo posso dire.» «Grazie, Hollis.» «Entrerai tu nella Consulta, giusto?» Peter non ci aveva ancora pensato, ma in effetti era molto probabile che toccasse a lui prendere il posto di Theo. Aveva due cugine più grandi, Dana e Leigh, ma Dana aveva già rinunciato quando si era dimesso Demo Jaxon e Leigh difficilmente avrebbe accettato l’incarico, avendo una bambina piccola da seguire al Nido. «Immagino di sì.» «Be’, congratulazioni, allora.» Hollis scrollò le spalle, un po’ imbarazzato. «Anche se può sembrare fuori luogo, sai cosa intendo.» Non aveva detto a nessuno della ragazzina, nemmeno ad Alicia, l’unica che forse gli avrebbe creduto. Il tetto del centro commerciale era meno alto di quanto gli fosse sembrato in un primo momento. Da sopra Peter non poteva vedere bene i mucchi di sabbia che si erano accumulati contro il muro, di cui invece Alicia da sotto aveva calcolato l’utilità. Quando si era buttato, la sabbia aveva attutito la caduta. Con l’ascia ancora in mano, Peter era saltato in groppa a

Omega, dietro ad Alicia, e soltanto dopo avere attraversato Banning, quando ormai erano ragionevolmente sicuri di non essere inseguiti dai fumidi, si era chiesto come avevano fatto a uscirne vivi, sia loro sia i cavalli. Alicia e Caleb si erano infilati nella cucina del ristorante e, percorsa una serie di corridoi, erano sbucati nel garage riservato allo scarico merci. Le saracinesche erano bloccate dalla ruggine e non si aprivano, ma per fortuna una non era del tutto chiusa e lasciava filtrare una striscia di luce. Facendo leva con un pezzo di tubo, Alicia e Caleb erano riusciti a sollevarla abbastanza da passarci sotto e si erano ritrovati sul lato sud del centro commerciale. Lì, al sole, avevano visto due cavalli che brucavano erbacce in un’aiuola. Alicia sulle prime non era riuscita a capacitarsi di tanta fortuna. Lei e Caleb erano saliti in groppa agli animali e stavano facendo il giro dell’edificio quando avevano sentito il rumore della porta che Peter aveva abbattuto ad accettate e lo avevano visto sul tetto. “Perché non siete scappati subito quando avete trovato i cavalli?” le aveva chiesto Peter. Si erano fermati lungo la strada per abbeverare gli animali, non lontano dal posto dove sei giorni prima avevano avvistato un virale fra gli alberi. Avevano solo l’acqua delle borracce, ma dopo averne bevuto un po’ se l’erano versata nelle mani per dissetare i cavalli. Peter aveva il gomito fasciato con una benda ricavata dalla sua stessa tunica: la ferita non era profonda, ma sanguinava e probabilmente avrebbe avuto bisogno di qualche punto di sutura. “Non sono una che si fa tante domande” aveva risposto Alicia, brusca, forse risentita. “In quel momento mi sembrava meglio fare un piccolo giro di ricognizione. E meno male che l’abbiamo fatto.” Peter avrebbe potuto dirglielo in quell’occasione, invece aveva esitato e poi l’attimo era passato. Una ragazzina, sola, che l’aveva coperto con il proprio corpo dopo averlo fatto nascondere dentro una giostra, gli sguardi che si erano scambiati, il bacio che gli aveva dato prima di congedarsi da lui, la porta sbattuta. Forse si era sognato tutto... Ai compagni aveva detto di aver trovato le scale e di essere salito alla luce del sole, niente di più. Al rientro avevano trovato la Colonia in gran fermento: erano in ritardo di quattro giorni e stavano per darli per dispersi. Davanti alla Porta Maggiore si era radunata una piccola folla. Leigh era svenuta senza dare loro il tempo di spiegarle che Arlo non era morto, ma era rimasto alla centrale. Peter non aveva avuto cuore di andare al Nido a dire a Mausami di Theo. Qualcuno l’avrebbe informata comunque. Ad aspettarli c’erano anche Michael e Sara, che gli aveva pulito per bene la ferita al gomito e gliel’aveva suturata mentre lui, seduto su un sasso, faceva smorfie di dolore. Benché la perdita del fratello l’avesse lasciato intontito, l’ago gli faceva male lo stesso. Sara gli aveva rifatto la fasciatura, l’aveva abbracciato e poi era scoppiata in lacrime. Con il calare della notte, la folla si era dispersa e ai rintocchi della Seconda campana Peter era salito in cima alle mura ad attendere il ritorno del fratello per compiere l’Estremo Gesto di Pietà. Salutò Alicia in fondo alla scala dopo averle promesso di andare a casa a dormire. Ma non ne aveva nessuna voglia. Erano pochi gli uomini spaiati che abitavano nella caserma, che era sporca e puzzolente come la centrale. Tuttavia Peter aveva deciso che da quel momento in poi sarebbe andato a stare lì. Avrebbe recuperato lo stretto necessario da casa e poi si sarebbe trasferito. Il sole del mattino gli batteva già caldo sulle spalle quando arrivò alla casa di cinque vani che affacciava sulla valletta di levante, l’unico posto in cui Peter avesse mai abitato da quando era

uscito dal Nido. Dopo la morte della madre, tuttavia, lui e Theo l’avevano usata solo per dormire e non l’avevano tenuta granché bene. A Peter dava fastidio che fosse così lercia e in disordine – piatti sporchi nel lavandino, indumenti per terra, polvere e unto dappertutto –, ma non riusciva mai a mettersi d’impegno e fare un po’ di pulizia. Prudence Jaxon era ordinata e curava la casa: batteva i tappeti, lavava i pavimenti, toglieva la cenere dal caminetto e puliva bene la cucina. Al primo piano c’erano due stanze da letto, una per Peter e una per Theo, e al secondo, mansardato, c’era la stanza dei genitori. Peter salì in camera sua e infilò velocemente in uno zaino un po’ di vestiti, riproponendosi di andare nella stanza di Theo in un secondo tempo, per decidere cosa tenere e cosa portare al Magazzino. Gli metteva tristezza pensare che i vestiti e le scarpe di Theo sarebbero stati smistati fra gli abitanti della Colonia il Giorno della Distribuzione. Quando era morta la loro madre, era stato Theo a scegliere le cose da portare al Magazzino, sapendo che Peter non ce l’avrebbe fatta. Un giorno dell’inverno successivo, Peter aveva visto Gloria Patal con una sciarpa di sua madre. Era davanti a un banco del mercato a guardare i barattoli di miele e Peter, nel riconoscere quella sciarpa con le frange, era rimasto talmente turbato da dover correre via, come di fronte a un abominio del quale anche lui era stato complice. Finì di riempire lo zaino e scese al pianterreno, un ampio vano che fungeva da cucina e da soggiorno, con travi a vista al soffitto. La stufa non veniva accesa da mesi; chissà nel frattempo quanti topi avevano fatto il nido nella legna accatastata sul retro. C’era uno spesso strato di polvere ovunque, come se la casa fosse del tutto disabitata. Praticamente lo era, pensò Peter. Prima di uscire, sentì il bisogno di salire in camera dei genitori. I cassetti del comò erano tutti vuoti e sul materasso mezzo sfondato non c’era neppure un lenzuolo. Anche sui ripiani del vecchio armadio non c’era nulla, a parte le ragnatele che dondolavano nella corrente, sottili come filigrana. Osservò il comodino sul quale la madre teneva sempre un bicchiere d’acqua e gli occhiali, che Peter avrebbe volentieri conservato per ricordo ma che aveva dovuto consegnare lo stesso, perché un paio di occhiali da vista era prezioso, valeva una quota intera. Il piano del comodino era macchiato, coperto di aloni brunastri. Nessuno apriva le finestre da mesi e l’aria odorava di chiuso, di stantio. Peter si rammaricò della propria trascuratezza e sciatteria. Sentiva di aver deluso tutti quanti: suo padre, sua madre, suo fratello. Si mise lo zaino in spalla e uscì nella mattina calda e vibrante di attività: i cavalli nitrivano e scalpitavano nelle scuderie, dalla fucina si alzava il battere ritmato del martello, le guardie sulle mura si scambiavano messaggi e segnali e, andando verso il Nido, gli giunsero le risate dei bambini che giocavano nel cortile. Era l’intervallo, il momento più bello della giornata, quando la Maestra lasciava che i Piccoli si scatenassero. A Peter tornò in mente un giorno d’inverno, freddo ma soleggiato, in cui avevano giocato a bandiera ed era riuscito a vincere nonostante fosse in coppia con un bambino grande e grosso. Forse era uno dei fratelli Wilson. Fatto sta che era riuscito ad aggiudicarsi un bel po’ di punti, prima che la Maestra li facesse rientrare in classe battendo le mani coperte dai guanti. Se pensava a quel giorno – l’aria gelida nei polmoni, il paesaggio scuro e secco dell’inverno, il sudore sulla fronte e la gioia, l’esaltazione di riuscire a correre più forte degli avversari –, gli pareva di non essersi mai più sentito altrettanto vivo. Cercò di ricordare dove fosse Theo quella mattina d’inverno, ma non riuscì a ritrovarlo fra i compagni. Il suo posto era vuoto. Nel frattempo era arrivato davanti ai poligoni di addestramento, tre ampi avvallamenti nel terreno, lunghi una ventina di metri e delimitati da alte pareti di terra per evitare che le frecce che mancavano i bersagli e le lame lanciate malamente causassero danni. In fondo alla trincea centrale c’erano cinque ragazzi sull’attenti, tre femmine e due maschi di età compresa fra i nove e i tredici anni. Nelle posture rigide e nei loro sguardi ansiosi Peter riconobbe la stessa

serietà forzata che lo aveva caratterizzato durante l’addestramento. Quanto era importante per lui dimostrare il proprio valore! Theo era tre scaglioni avanti. Peter ricordava ancora la mattina in cui suo fratello era stato scelto per fare la staffetta, il sorriso orgoglioso che aveva sul viso mentre saliva per la prima volta in cima alle mura. Peter era stato fiero di lui e sapeva che, prima o dopo, avrebbe seguito le sue orme. I cinque ragazzi quella mattina erano addestrati da sua cugina Dana, figlia di Willem Jaxon. Aveva otto anni più di lui e si era dimessa dalla Guardia dopo la nascita della primogenita Ellie. La figlia minore, Kat, era ancora al Nido, mentre Ellie era uscita da un anno e aveva cominciato l’addestramento ai poligoni nel primo scaglione. Era longilinea come sua madre, con i lunghi capelli neri intrecciati nella tipica acconciatura delle ragazze della Guardia. Dana scrutava i suoi allievi con aria severa, come per scegliere l’animale da mandare al macello. Anche questo faceva parte del rito. «Che cosa abbiamo?» domandò. «Un colpo soltanto» risposero i ragazzi in coro. «Da dove arrivano?» «Dall’alto.» Dana stette un attimo in silenzio dondolando sui talloni. Aveva visto Peter con la coda dell’occhio e gli fece un sorriso triste, poi guardò di nuovo i suoi allievi, corrucciata. «Dovete impegnarvi di più! Per punizione farete tre giri di corsa supplementari prima del rancio. Adesso in fila per due e imbracciate la balestra.» «Che cosa pensi?» Era Sanjay Patal. Peter era talmente assorto nei propri pensieri che non lo aveva sentito arrivare. Sanjay era in piedi vicino a lui con le braccia conserte e lo sguardo rivolto verso i poligoni. «Impareranno.» I ragazzi avevano cominciato l’allenamento mattutino. Uno dei più giovani, il piccolo Darrell, aveva sbagliato clamorosamente mira e mandato la freccia a conficcarsi oltre il bersaglio. I suoi compagni erano scoppiati a ridere. «Mi spiace per tuo fratello.» Sanjay si voltò verso Peter distogliendolo dalle esercitazioni di tiro. Era minuto, anche se dava l’impressione di essere molto robusto. Si rasava e portava i capelli ormai grigi cortissimi. Aveva denti piccoli e bianchissimi e occhi scuri, con le sopracciglia cespugliose. «Theo era un brav’uomo. Peccato.» Peter non rispose: che cosa avrebbe potuto dire? «Ho riflettuto su quello che mi hai raccontato» continuò Sanjay. «A dire la verità, non riesco a spiegarmi la faccenda di Zander. E della biblioteca. Cosa ci siete andati a fare?» Peter stette molto attento a non tradirsi. Avevano deciso di non parlare a nessuno dei fucili, almeno per il momento. Tuttavia si era rivelato più difficile del previsto, giacché quei fucili erano l’elemento fondamentale della storia. Il motivo per cui erano saliti sul tetto della centrale, il salvataggio di Caleb, la morte di Zander e la visita nella biblioteca diventavano

difficili da spiegare, senza fare riferimento ai fucili. «Vi abbiamo già detto tutto» replicò Peter. «Zander dev’essere stato infettato, in un modo o nell’altro. Pensando che fosse successo in biblioteca, siamo andati a vedere.» «Perché Theo avrebbe corso un simile rischio, però? O è stata un’idea di Alicia?» «Come mai me lo chiedi?» Sanjay si schiarì la voce. «So che tu e Alicia siete amici, Peter, e non ho dubbi sulle sue capacità, ma penso che spesso sia troppo avventata. Se c’è da combattere, lei è sempre la prima.» «Non è stata colpa sua. Non è stata colpa di nessuno, a dire il vero. Siamo semplicemente stati sfortunati. La nostra è stata una decisione collettiva.» Sanjay non replicò e guardò i poligoni, meditabondo. Peter tacque, sperando che la discussione finisse lì. «Continuo a non capire, sai? Non mi sembra in linea con il carattere di Theo correre un rischio simile. Mah... non sapremo mai cosa gli è passato per la testa...» Poi Sanjay si voltò verso Peter e si ammorbidì. «Scusami, non dovrei interrogarti a questo modo. Chissà come sei stanco. Già che siamo qui, però, c’è un’altra cosa di cui ti volevo parlare. Riguarda la Consulta, il posto lasciato vacante da tuo fratello.» Il solo pensiero di succedere a Theo nella Consulta gli metteva ansia. Ma era un suo dovere e non si sarebbe tirato indietro. «Fatemi sapere che cosa volete che faccia.» «Proprio di questo ti volevo parlare. Tuo padre sbagliò a passare la carica a tuo fratello, a mio parere. Sarebbe toccato a Dana entrare nella Consulta. Era, ed è tuttora, la più anziana dei Jaxon.» «Credevo che Dana avesse rinunciato alla carica.» «Infatti. In confidenza, però, devo dirti che non siamo mai stati del tutto... convinti delle modalità del suo rifiuto. Dana era sconvolta, aveva appena perso suo padre. Io credo, e non sono il solo, che se tuo padre non avesse insistito perché entrasse tuo fratello, alla fine Dana avrebbe accettato.» Che cosa stava dicendo Sanjay? Che nella Consulta volevano far entrare Dana e non lui? «Non so niente di tutto questo. Theo non me ne ha mai accennato.» «Lo credo.» Sanjay lasciò passare un momento prima di continuare. «Tuo padre e io eravamo spesso in disaccordo, immagino che tu lo sappia. Io ero contrario alle Esplorazioni sin dall’inizio. Ma tuo padre non abbandonò mai l’idea, nonostante ci fosse costata già tante vite umane, e voleva che tuo fratello le riprendesse. Per questo insistette tanto affinché fosse lui a entrare nella Consulta.» I ragazzi nel frattempo erano usciti dai poligoni e avevano incominciato a correre lungo il perimetro. Era a questo che si riferiva Theo, quella notte alla centrale, quando aveva detto che Sanjay faceva il suo dovere? Il discorso di Sanjay lo aveva di colpo reso più interessato a far parte della Consulta. Eppure, fino a pochi minuti prima, avrebbe volentieri rinunciato a quella carica. «Non so cosa dire, Sanjay.»

«Non c’è bisogno che tu dica niente, Peter. La Consulta si è riunita e siamo tutti d’accordo che il posto spetta a Dana.» «Anche lei è d’accordo?» «Ora che le ho spiegato la situazione, sì.» Sanjay gli posò una mano sulla spalla e Peter immaginò lo facesse per consolarlo, anche se non era affatto così. «Non prendertela a male. Non è un provvedimento contro di te. Abbiamo sorvolato su quell’irregolarità perché Theo era un uomo molto stimato.» Peter pensò che ormai suo fratello era come morto e sepolto. Benché le sue camicie fossero ancora nei cassetti e le scarpe in fondo al letto, era come se non fosse mai esistito. Sanjay alzò gli occhi. «Ecco che arriva Soo.» Peter si voltò e vide arrivare Soo Ramirez accompagnata da Jimmy Molyneau. Era alta, bionda, aveva passato i quarant’anni ed era diventata Primo Capitano alla morte di Willem. Era una donna molto competente ma lunatica, capace di sfuriate che mettevano paura anche alle guardie più temprate. «Cercavo proprio te, Peter. Volevo dirti che, se desideri, puoi prenderti qualche giorno di riposo. E fammi sapere quando inciderai il suo nome sulla Pietra, per favore: vorrei dire due parole anch’io.» «Stavo pensando la stessa cosa» intervenne Sanjay. «Facci sapere. E prenditi davvero due o tre giorni di riposo. Non c’è fretta.» Non era una coincidenza che Soo fosse arrivata proprio in quel momento. Peter capì benissimo che lo stavano manipolando. «D’accordo» rispose. «Volevo bene a tuo fratello» intervenne Jimmy, sentendosi in dovere di dire qualcosa anche lui. «E anche Karen.» «Grazie. Me lo state dicendo in tanti.» Parlò in tono troppo aspro e se ne pentì immediatamente vedendo la smorfia di Jimmy. Era amico di Theo, Capitano in seconda come lui, e sapeva che cosa voleva dire perdere un fratello. Connor Molyneau era morto durante uno scontro con i virali nel Campo di Sopra cinque anni prima. Dopo Soo, Jimmy era l’ufficiale più anziano della Colonia, avendo superato i trent’anni. Era sposato e aveva due figlie e sarebbe potuto uscire dalla Guardia da anni senza che nessuno pensasse male di lui. Invece, aveva deciso di restare. A volte sua moglie, Karen, saliva sulle mura a portargli qualcosa di caldo da mangiare e questo lo riempiva di imbarazzo e lo rendeva oggetto di mille battute da parte delle altre guardie, ma gli piaceva anche molto. «Scusa, Jimmy.» Molyneau si strinse nelle spalle. «Figurati. Ci sono passato anch’io. So come ci si sente.» «Jimmy ha detto solo cose vere, Peter. Tuo fratello era molto importante per tutti noi.» Con quella dichiarazione finale, Sanjay fece un cenno a Soo. «Hai un minuto?» Soo annuì, ma non distolse gli occhi da Peter. «Parlavo sul serio, prima» disse. Gli posò la mano sul braccio. «Prenditi tutto il tempo che ti serve.»

Peter aspettò qualche minuto, per prendere le distanze da quei tre. Era agitato, sveglio ma confuso. Aveva sentito solo discorsi che non avrebbero dovuto sorprenderlo più di tanto: era normale che la gente gli facesse le condoglianze e, quanto al fatto che non lo volevano nella Consulta... be’, avrebbe dovuto rallegrarsene, visto che non aveva mai avuto nessun desiderio di comandare. Eppure fra le righe di quella conversazione gli era parso di percepire un messaggio più profondo. E aveva anche avuto la sensazione di essere manipolato, come se tutti sapessero qualcosa di cui lui invece era all’oscuro. Si rimise in spalla lo zaino pensando che avrebbe anche potuto fare a meno di portarselo appresso. Decise di non andare subito in caserma e s’incamminò nella direzione opposta. Nella piazza del Sole c’era la cosiddetta Pietra della Notte Nera, un masso di granito a forma di pera alto due volte un uomo, di un grigio chiarissimo punteggiato di quarzite rosa, sul quale erano incisi i nomi dei morti e dei dispersi. Era andato lì apposta per leggerli: erano centosessantadue solo le vittime della Notte Nera e c’erano voluti mesi per inciderli tutti. Due intere famiglie, i Levine e i Darrell, tutto il clan dei Boyes, nove persone in totale, e poi molti Greenberg, Patal, Chou, Molyneau, Strauss e Fisher. C’erano anche due Donadio, John e Angel, i genitori di Alicia. I primi Jaxon elencati sulla Pietra erano Darla e Taylor, i nonni di Peter, morti sotto le macerie della loro casa ai piedi del muro nord. Peter li immaginava vecchi, perché erano deceduti quindici anni prima e avevano vissuto in un periodo troppo lontano perché lui potesse averne memoria. Tuttavia Taylor doveva avere poco più di quarant’anni all’epoca del terremoto e Darla, la sua seconda moglie, ne aveva trentasei. La Pietra in origine era dedicata alle vittime della Notte Nera, ma in seguito era parso naturale continuare la tradizione e incidervi i nomi di tutti i morti e i dispersi. Peter vide che il nome di Zander era già stato aggiunto al lungo elenco. Non era l’unico Phillips: c’erano il padre, la sorella e la donna con cui Zander era stato sposato diversi anni prima. Zander era talmente introverso che era difficile immaginarlo nel ruolo di marito e Peter aveva addirittura dimenticato l’esistenza della moglie, Janelle, morta di parto insieme con il figlioletto pochi mesi dopo la Notte Nera. Al piccolo non era mai stato dato un nome e quindi non appariva sulla Pietra, come se il suo brevissimo soggiorno su questa terra fosse stato dimenticato. «Se vuoi, posso provvedere io all’incisione.» Peter si voltò e vide Caleb, con le scarpe da ginnastica gialle troppo larghe che sembravano zampe di papera. Guardandole Peter si sentì colpevole. Quelle scarpe ridicole e troppo grandi erano la prova – l’unica prova, in verità – della loro maledetta incursione nel centro commerciale. Se Theo le avesse viste, si sarebbe messo a ridere, avrebbe colto l’ironia molto prima di Peter. «Hai inciso tu il nome di Zander?» Caleb si strinse nelle spalle. «Io con il cesello me la cavo e nessun altro sembrava intenzionato a farlo. Non era uno molto socievole.» Guardò alle spalle di Peter e per un attimo sembrò sul punto di piangere. «Meno male che gli hai sparato. Zander li odiava i fumidi, sai? Pensava che essere ghermiti fosse il peggio che ti poteva capitare. Mi fa piacere che lo sia rimasto per poco tempo.» Fu in quel momento che Peter decise: non avrebbe inciso il nome di Theo sulla Pietra. Né l’avrebbe lasciato fare a qualcun altro, finché non avesse avuto la certezza. «Dove dormi?» domandò a Caleb.

«In caserma. Dove altro vuoi che dorma?» Peter indicò lo zaino. «Ti spiace se vengo anch’io?» «Se vuoi...» Soltanto con il senno di poi, dopo avere disfatto i bagagli ed essersi steso sul materasso sfondato, Peter capì che, quando Caleb aveva guardato alle sue spalle, non cercava il nome di Zander, ma i tre subito sopra, che appartenevano alla sua famiglia: Richard e Marilyn Jones e, sotto, Nancy Jones, la sorella maggiore. Richard Jones era un bulldozer ed era morto cadendo dalle mura nelle prime, frenetiche, ore della Notte Nera. La madre e la sorella di Caleb, invece, erano rimaste uccise dal crollo del tetto del Nido. Caleb, all’epoca, aveva poche settimane di vita. Probabilmente era per questo che Alicia l’aveva portato sul tetto della centrale: non per guardare le stelle, ma per cercare Caleb, che come lei era rimasto orfano nella Notte Nera. Doveva essere convinta che nessun altro si sarebbe preoccupato per lui. Aveva portato Peter sul tetto per aspettare insieme Caleb Jones.

25 Michael Fisher, Primo Ingegnere di Luce ed Energia, era seduto nel Faro ad ascoltare un fantasma. Era così che lo chiamava, “il segnale fantasma”. Faceva capolino oltre il rumore confuso nella parte più alta dello spettro udibile, dove a suo parere non ci sarebbe dovuto essere niente. Era un frammento di un frammento, c’era e non c’era. Sul manuale del radioperatore che aveva trovato in magazzino era scritto che quella frequenza non era assegnata. «Te l’avrei potuto dire anch’io» fece Elton. L’avevano sentito il terzo giorno dopo il ritorno della squadra dalla centrale. Michael ancora non riusciva a capacitarsi del fatto che Theo non ci fosse più. Alicia gli aveva assicurato che non era stata colpa sua, che non era morto per cercare la scheda madre, ma Michael non riusciva a non sentirsi responsabile, complice della concatenazione di eventi che aveva portato alla morte del suo amico. E la scheda madre... be’, quella era la cosa peggiore: Michael se ne era praticamente dimenticato. Il giorno dopo la partenza di Theo e degli altri aveva cannibalizzato un vecchio alimentatore per procurarsi ciò che gli serviva. Non aveva trovato proprio una Pion, ma una scheda abbastanza potente da captare un eventuale segnale all’estremo superiore della banda. E comunque non valeva la pena di morire per una scheda madre... Il segnale era 1432 megahertz, fievole come un sussurro, ma qualcosa diceva. Michael ne era ossessionato: ogni volta che gli pareva di coglierne il significato, il segnale spariva. Era una stringa digitale ripetuta e andava e veniva in maniera misteriosa, o almeno così pareva a Michael finché non si era reso conto – anzi, no, a capirlo era stato Elton – che arrivava ogni novanta minuti, trasmetteva per 242 secondi esatti e poi si zittiva di nuovo. Se ne sarebbe dovuto accorgere da solo, non aveva scuse. Diventava sempre più forte ora dopo ora, ciclo dopo ciclo, soprattutto di notte. Era come se si stesse avvicinando, stesse salendo su per la montagna. Michael aveva smesso definitivamente di cercare altri segnali: stava lì, seduto davanti alla console, e contava i minuti in attesa di sentirlo di nuovo. Con un ciclo di novanta minuti esatti, non poteva essere un fenomeno naturale. Non era un satellite, non proveniva dalle batterie. Non era un sacco di cose. Michael non sapeva cos’era. Per di più Elton era d’umor nero. Non era l’Elton a cui Michael era abituato, sereno e tranquillo, fiero di essere cieco. Adesso nel Faro c’era uno scorbutico pieno di forfora, che salutava a stento e passava le giornate con le cuffie ad ascoltare il segnale quando arrivava, arricciando le labbra e scuotendo la testa. Se parlava, era solo per lamentarsi di quanto poco dormiva. Non accendeva neanche le luci alla Seconda campana e, per quanto lo riguardava, Michael poteva anche lasciare che saltasse in aria tutto quanto. Elton non avrebbe detto una parola. Se almeno si fosse lavato... Certo, anche Michael tanto pulito non era. Come avevano fatto a ridursi così? Era stata la morte di Theo a sconvolgerli tanto? Da quando la squadra era tornata dalla centrale, sembrava che fosse passata a tutti la voglia di parlare. La storia di Zander era un mistero. Perché aveva mandato Caleb in cima alla turbina? Sanjay e gli altri avevano cercato di far passare la cosa sotto silenzio, ma le voci giravano lo stesso. La gente

mormorava, diceva che era risaputo che a quel tipo mancava qualche rotella, che stare tutti quei mesi alla centrale gli aveva fatto male. Aveva cominciato a uscire di testa quando aveva perso moglie e figlio in un colpo solo, poveraccio. Anche il comportamento di Sanjay era bizzarro: Michael non sapeva come interpretarlo. Due sere prima, mentre era seduto alla console, aveva sentito aprire la porta e se lo era trovato davanti con gli occhi sbarrati e una faccia come a dire: “T’ho beccato, eh?”. Michael aveva pensato di essere stato colto in flagrante e di essere spacciato, aveva immaginato che chissà come Sanjay avesse scoperto della radio e si accingesse a espellerlo dalla Colonia. Invece no. Sanjay non aveva detto niente. Era rimasto sulla porta a guardarlo con un’espressione strana. Michael se n’era accorto solo dopo un po’: Sanjay non aveva tanto la faccia indignata di chi ha appena scoperto un reato gravissimo, quanto piuttosto un’aria confusa, stupita. Era in pigiama, scalzo e disorientato. Camminava nel sonno. Nella Colonia era un problema diffuso – certe notti sembrava che metà degli abitanti fosse sonnambula – e con ogni probabilità aveva a che fare con i riflettori accesi, con il fatto che il buio non era mai completo. Era capitato anche a Michael, una volta o due, di ritrovarsi in cucina con le dita nel vasetto del miele. Ma Sanjay? Sanjay Patal, Capoconsulta? Non sembrava proprio il tipo. Michael aveva cercato di agire con tempestività, di farlo uscire dal Faro senza svegliarlo. Aveva preso in considerazione varie strategie, rimpiangendo di non avere miele da offrirgli, e a un certo punto Sanjay aveva aggrottato la fronte, inclinando la testa da un lato, come se avesse sentito un suono lontano, e gli era passato accanto senza degnarlo di uno sguardo. “Sanjay? Cosa fai?” Il Capoconsulta si era fermato davanti alla console. La mano destra, sul fianco, aveva tremato. “Non... non lo so.” “Non dovresti essere nel tuo letto?” aveva azzardato Michael. Sanjay non gli aveva risposto. Aveva sollevato la mano e se l’era portata davanti alla faccia, ruotandola da una parte e dall’altra stupefatto, come se non sapesse di chi era. “Bab...cock?” Michael aveva sentito dei passi fuori dalla porta e un attimo dopo era arrivata Gloria, anche lei in pigiama. Di giorno teneva i capelli raccolti, ma in quel momento li aveva sciolti sulle spalle. Sembrava affannata, come se avesse corso da casa fin lì, e aveva ignorato completamente Michael, che a quel punto era più imbarazzato che preoccupato: gli dispiaceva assistere a quel dramma coniugale privato. Lei era andata dritto dal marito e l’aveva preso sottobraccio con una certa fermezza. “Torna a letto, Sanjay.” “Questa mano... è mia, vero?” “Sì, è tua” aveva risposto Gloria, spazientita. Sempre tenendo il marito sottobraccio, aveva guardato Michael mormorando: “È sonnambulo”. “Allora è mia, è mia.” Gloria aveva sospirato. “Adesso basta, Sanjay. Andiamo.” Il Capoconsulta aveva cambiato espressione, si era guardato in giro e, vedendo Michael, aveva detto: “Ciao, Michael”.

Allora il ragazzo aveva fatto sparire le cuffie. “Ciao, Sanjay.” “Facevo due passi.” Michael si era trattenuto dal ridere, ma non aveva potuto fare a meno di chiedersi che cosa ci facesse il Capoconsulta davanti alla sua console. “Gloria è stata così gentile da venirmi a prendere. Adesso andiamo a casa.” “Okay.” “Grazie, Michael. Scusa se ti ho disturbato. Il tuo è un lavoro importante.” “Nessun problema.” Dopodiché Gloria Patal aveva riportato a casa il marito, presumibilmente a finire quel sogno inquieto nel suo letto. Come interpretare il comportamento di Sanjay? Quando Michael aveva raccontato l’accaduto a Elton, la mattina dopo, la sua risposta era stata: “Evidentemente capita anche a lui, come a tutti noi”. Michael gli aveva domandato: “Cosa? Cos’è che capita anche a Sanjay e a tutti noi?”. Ma Elton non aveva replicato. Sara aveva ragione: Michael elucubrava troppo, si preoccupava eccessivamente di tutto. Mancavano quaranta minuti al prossimo segnale, alla fine del ciclo. Siccome non aveva nient’altro da fare, richiamò sullo schermo i monitor delle batterie, sperando che andasse tutto bene. Brutte notizie, invece: nonostante il vento forte che aveva soffiato tutto il giorno nel parco eolico, le batterie erano già sotto il cinquanta per cento. Lasciò Elton da solo e andò a fare un giro per distrarsi un po’. Il segnale era 1432 megahertz. Significava qualcosa. Ma cosa? La spiegazione più ovvia era che i numeri fossero i primi quattro interi positivi in una sequenza che si ripeteva 1432143214321432, e così via, dove 1 era l’ultima cifra della sequenza, che poi ripartiva con il 4. Era interessante e probabilmente casuale, ma il problema di quel segnale fantasma era che pareva non avere nulla di davvero casuale. Arrivò alla piazza del Sole, dove spesso c’era gente e movimento anche a tarda sera, e strizzò gli occhi per vedere chi era la figura solitaria seduta ai piedi della Pietra, controluce. Aveva i capelli scuri e la testa appoggiata sulle ginocchia. Mausami. Michael tossicchiò per avvisarla della propria presenza, ma lei alzò appena il capo senza considerarlo: voleva restare da sola. Michael, però, aveva passato troppo tempo chiuso in una stanza a rincorrere fantasmi nel buio e aveva così bisogno di compagnia che era disposto a rischiare di essere respinto. «Ciao» disse. «Ti spiace se mi siedo?» Mausami a quel punto lo guardò e lui si rese conto che stava piangendo. «Scusami» sussurrò. «Se vuoi, me ne vado.» La ragazza fece cenno di no con la testa. «Non importa. Siediti pure.» Michael le si sedette vicino appoggiando la schiena al monumento. Le loro spalle si sfioravano e

Michael cominciò a dubitare della sensatezza di quel gesto. Restarono in silenzio per un po’. Ormai lui si sentiva in dovere di chiederle perché piangeva e magari di consolarla. Sapeva che in gravidanza le donne diventano ancora più lunatiche di quanto già non siano e cambiano umore continuamente. L’unica che non gli risultasse del tutto insondabile era Sara, che però era sua sorella e conosceva bene. «Ho saputo che aspetti un bambino. Posso congratularmi con te?» Mausami si asciugò gli occhi con la punta delle dita. Le colava il naso, ma Michael non aveva fazzoletti da offrirle. «Grazie.» «Galen sa che sei qui?» Mausami fece una risata amara. «No, non lo sa.» Michael a quel punto capì che Mausami non piangeva perché era lunatica. Era andata alla Pietra per Theo, era disperata per lui. «Io...» Non trovava le parole. «Non so.» Si strinse nelle spalle. «Mi dispiace. Era un amico.» Poi Mausami fece un gesto che lo stupì molto: posò una mano sulla sua e intrecciò le dita. «Grazie, Michael. La gente ti sottovaluta, secondo me. Hai detto la cosa più giusta.» Rimasero in silenzio per un po’. Mausami non ritirò la mano. Era strano, ma fino a quel momento Michael non aveva avvertito veramente l’assenza di Theo. Si sentiva triste, ma soprattutto solo. Avrebbe voluto dire qualcosa, cercare di esprimere quello che provava. Prima che ci riuscisse, però, arrivarono due persone. Erano Galen e, due passi dietro di lui, Sanjay. «Senti, non lasciarti turbare dalle stronzate di Lish. È fatta così, ma vedrai che prima o poi si riprende» disse Mausami. Lish? Cosa c’entrava Lish? Tuttavia Michael non ebbe il tempo di chiedere chiarimenti. Galen e Sanjay li avevano raggiunti. Galen era tutto sudato e affannato, come dopo una lunga corsa. Sanjay, invece, era un’altra persona rispetto al sonnambulo di due sere prima: era chiaramente indispettito e animato da sacra indignazione. «Cosa fai?» Anche Galen era arrabbiato. Strizzava gli occhi, come cercando di mettere a fuoco la moglie. «Dovresti essere al Nido. Perché sei qui?» «Sto bene, Galen» replicò lei. Poi fece un gesto, come per scacciarlo. «Torna pure a casa.» Sanjay si intromise, imperioso, autorevole. Sotto le luci della piazza, sembrava un’icona di paterno disappunto. Guardò Michael, arricciò le sopracciglia cespugliose e si voltò verso Mausami. Michael capì che non intendeva far parola del loro incontro di due sere prima. «Mausami, ho cercato di essere paziente con te, ma c’è un limite a tutto. Non capisco perché tu debba fare tante storie. Sai benissimo che non dovresti essere qui.» «Io sto qui con Michael e, se qualcuno ha qualcosa in contrario, se la veda con lui.» Michael si sentì mancare. «Ascoltate...» «Stanne fuori, Circuito» sbottò Galen. «Anzi, no: dimmi cosa stavi facendo qui fuori con mia moglie.» «Cosa stavo facendo?» «Sì, esatto. È stata un’idea tua?»

«Per l’amor del cielo, Galen» intervenne Mausami. «Sei ridicolo! No, non è stata un’idea sua.» Michael si accorse che tutti e tre lo stavano guardando: come aveva fatto a cacciarsi in quella situazione quando l’unica cosa che voleva era un po’ di compagnia e una boccata d’aria fresca? Destino crudele! Galen era arrabbiato, ma anche umiliato. Michael si chiese quanto fosse pericoloso: aveva un che di impotente, come se fosse perennemente distratto, un po’ in ritardo. Ma Michael non si lasciava ingannare dalle apparenze. Galen era molto più grande e grosso di lui e, in quel preciso momento, si sentiva dalla parte della ragione e deciso a difendere il proprio onore. Michael non era avvezzo a fare a botte. Le poche volte che si era azzuffato con qualcuno risalivano all’epoca del Nido, scaramucce di poco conto che gli erano tuttavia servite per capire che, se quando molli un pugno ci metti l’anima, fa male il doppio. Era in netto svantaggio: se Galen fosse riuscito a beccarlo, l’avrebbe massacrato. «Senti, Galen: stavo facendo due passi e...» Mausami non lo lasciò finire. «Lascia perdere, Michael: Galen lo sa benissimo.» Si voltò a guardarlo con gli occhi gonfi di pianto. «Abbiamo tutti da fare, o sbaglio?» Gli diede una strizzatina alla mano, come per sancire un patto. «Io devo starmene brava e buona, senza fare capricci. E così farò.» Galen si chinò per aiutarla a tirarsi su, ma Mausami fece finta di niente e si rialzò da sola. Sanjay, per nulla placato, aveva fatto un passo indietro e teneva le mani sui fianchi. «Non capisco perché debba essere così difficile, Maus» disse Galen. Mausami fece finta di non averlo nemmeno sentito e si girò verso Michael, che era rimasto seduto con la schiena appoggiata alla Pietra. Nello sguardo che si scambiarono, Michael lesse dispiacere e vergogna all’idea di doversi arrendere. «Grazie della compagnia, Michael.» Gli fece un sorriso triste. «Mi ha fatto piacere quello che mi hai detto.» Sara era nell’Infermeria e aspettava che Gabe Curtis morisse. Era appena tornata dalla cavalcata quando Mar aveva bussato alla porta e le aveva detto che Gabe stava malissimo, si lamentava, era agitato, respirava a stento. Sandy non sapeva cosa fare. Poteva venire lei, per favore? Per Gabe? Sara aveva preso la sua valigetta ed era andata con Mar nell’Infermeria. Appena aveva scostato la tenda, aveva visto Jacob, chino goffamente sul letto di suo padre, che cercava di aiutarlo a bere. Gabe non riusciva a mandare giù l’infuso, tossiva e sputava sangue. Sara era intervenuta subito, togliendo con dolcezza la tazza dalle mani di Jacob e girando il malato su un fianco. Poveraccio, ormai era pelle e ossa. Con l’altra mano aveva preso una bacinella di metallo e gliel’aveva messa sotto il mento. Gabe aveva dato ancora due colpi di tosse, che lo avevano squassato. Sara aveva visto che il sangue era rosso, con grumi nerastri. Sandy si era affacciata sulla soglia. “Scusa, Sara” aveva detto muovendo nervosa le mani. “Siccome aveva la tosse, ho pensato che l’infuso...” “Glielo hai fatto dare da Jacob? Senza aiutarlo? Cos’hai nella testa?”

“Perché tossisce così?” chiedeva intanto fra le lacrime il ragazzo, in piedi accanto al letto, confuso, impotente. “Il tuo papà è molto malato, Jacob” gli aveva risposto Sara. “Non siamo arrabbiati con te. Stavi cercando di aiutarlo, lo sappiamo.” Jacob si grattava l’avambraccio piantandosi le unghie nella carne. “Lo assisto io, Jacob. Farò il possibile.” Era sopraggiunta un’emorragia interna: il tumore doveva aver lacerato qualche organo. Sara passò la mano sull’addome del malato e sentì che c’era un versamento interno. Prese lo stetoscopio dalla valigetta, se lo infilò, sollevò la maglia di Gabe e gli auscultò i polmoni: alle orecchie le arrivò un rantolo gorgogliante, come di acqua in un secchio. Se ne sarebbe andato presto, nel giro di qualche ora al massimo. Guardò Mar, che assentì. Sara aveva capito che cosa intendeva quando le aveva detto che era la preferita di Gabe. Aveva capito che cosa le stava chiedendo di fare. «Sandy, accompagni fuori Jacob, per favore?» «E dove?» Davvero: cos’aveva nella testa quella donna? «Dove ti pare» rispose Sara. Fece un respiro profondo, per calmarsi: non era proprio il momento di lasciarsi prendere dalla rabbia. «Jacob, vai a fare due passi con Sandy. Okay?» Sara non lesse comprensione negli occhi del ragazzo, ma paura e desiderio di compiacere. Era abituato a lasciar decidere gli altri. Capì che avrebbe ubbidito. Jacob fece un cenno con il capo, non molto convinto. «Se proprio volete, me ne vado.» «Grazie, Jacob.» Sandy lo portò via. Un momento dopo Sara sentì aprire e poi chiudere la porta dell’Infermeria. Mar, seduta accanto al letto, teneva la mano al marito. «Hai per caso... qualcosa?» Non se ne parlava mai apertamente. Le erbe erano conservate nel seminterrato, in vasi di vetro sugli scaffali di metallo della vecchia cella frigorifera. Sara scese a prendere quelle che le servivano: digitale per rallentare la respirazione, stramonio per stimolare il cuore, cicuta per ottundere la mente. Le posò sul tavolo, le pestò in un mortaio fino a polverizzarle, le trasferì in un foglio di carta e quindi in una tazza. Poi mise via i vasi di vetro, pulì bene il tavolo e tornò di sopra. Mise a bollire dell’acqua. Il bollitore era già caldo, perciò l’infuso fu presto pronto. Aveva un colore verdognolo e un odore aspro e terroso. Lo portò al malato. «Eccoci.» Mar annuì e prese la tazza dalle mani di Sara. Il loro tacito accordo prevedeva che Sara preparasse l’infuso e che a tutto il resto pensasse Mar. La donna guardò dentro la tazza. «Quanto ne deve bere?» chiese.

«Se ce la fa, tutto.» Sara si posizionò alla testa del letto per sollevare le spalle del malato e Mar gli avvicinò la tazza alle labbra, chiedendogli di bere a piccoli sorsi. Gabe aveva ancora gli occhi chiusi e sembrava privo di sensi, tanto che Sara temette che non ce l’avrebbe fatta. Forse avevano aspettato troppo. Invece, dopo un po’, l’uomo bevve un sorso, poi un altro, come un passerotto che si abbeveri a una pozza. Quando ebbe finito, Sara lo aiutò a stendersi di nuovo. «Quanto ci vorrà?» chiese Mar guardandola. «Non molto. È veloce.» «Resterai? Fino alla fine?» Sara fece cenno di sì con la testa. «Jacob non deve sapere.» L’occhiata che Mar le rivolse era di supplica. «Non capirebbe.» «Promesso» disse Sara. Rimasero ad aspettare, insieme. Peter sognava la ragazza. Erano dentro la giostra, in quella prigione angusta e polverosa, e lei gli si distendeva sopra e gli alitava dolcemente sul collo. “Chi sei?” pensava. “Chi sei?” Ma le parole non gli uscivano di bocca, intrappolate fra i denti come uno straccio di lana. Aveva una sete terribile. Aveva voglia di girarsi per vederla in faccia, ma non riusciva a muoversi e sopra di lui adesso non c’era più la ragazzina, ma un virale che gli affondava i denti nel collo. Lui cercava di gridare, di chiamare suo fratello, però non emetteva alcun suono. Moriva e una parte di lui intanto pensava: “Che strano, non sono mai morto, finora. Dunque è così che succede”. Si svegliò di soprassalto, con il cuore che batteva all’impazzata, e il sogno si disperse subito lasciandogli solo un senso di panico, vago ma intenso, come l’eco di un grido. Rimase lì, immobile, a cercare di capire dove si trovava e che ora era. Allungò il collo per guardare fuori della finestra e vide le luci accese. Aveva la bocca secca, la lingua gonfia e fibrosa: aveva sognato di avere sete perché aveva sete davvero. Cercò a tastoni la borraccia sotto la branda e bevve. Caleb, nella branda accanto alla sua, dormiva. Nella stanza c’erano altri quattro uomini, mucchi di coperte in ombra che emettevano un lieve russare. Erano entrati tutti dopo che lui si era addormentato. Da quanto tempo non dormiva così profondamente? In quel momento, steso al buio, provò di nuovo quel senso di irrequietezza, quella sorta di impazienza quasi fisica che non gli dava pace da quando era tornato nella Colonia. Avrebbe dovuto essere sulle mura, ma Soo gli aveva detto chiaro e tondo di sospendere i turni di guardia per qualche giorno. Decise di andare a trovare la Zia. Non le aveva ancora detto di Theo. Probabilmente lo sapeva già, ma voleva comunque darle la notizia di persona. A volte era facile dimenticarsi di lei, chiusa nella sua casa nella valletta. “Oh, la Zia!” esclamavano le persone quando qualcuno la nominava, come se fino a quel momento si fossero scordate della sua esistenza. Per la verità, la vecchietta se la cavava sorprendentemente bene anche da sola. Peter e Theo ogni tanto andavano a tagliarle la legna e a farle piccole riparazioni. Sara, invece, la assisteva al Magazzino. Ma la Zia aveva poche esigenze, coltivava un orticello

dietro casa, in un piccolo appezzamento soleggiato, senza bisogno dell’aiuto di nessuno. A parte quando curava le piante, seduta su uno sgabellino, se ne stava quasi sempre in casa, fra le sue carte e i suoi ricordi, a pensare al passato. Usava tre paia di occhiali diversi, che teneva legati al collo ognuno con la sua catenella, e passava dall’uno all’altro a seconda della mansione che doveva svolgere. Eccetto che d’inverno, andava sempre in giro scalza. Dicevano tutti che era vicina ai cent’anni. Si era sposata non una, bensì due volte, ma poiché non aveva avuto figli la sua vita tanto lunga sembrava un portento naturale, ancorché privo di scopo, un po’ come un cavallo che impari a contare pestando gli zoccoli. Nessuno sapeva come avesse fatto a sopravvivere alla Notte Nera. La sua casa aveva subito pochi danni durante il terremoto e si diceva che la mattina dopo l’avessero trovata seduta in cucina a bere una tazza del suo schifosissimo tè, come se nulla fosse successo. “Forse il mio sangue è troppo vecchio e non gli piace” pareva avesse commentato. La notte era fresca e dalle finestre della casa della Zia emanava un fievole bagliore. La Zia sosteneva di non dormire mai, che per lei il giorno e la notte erano uguali, ed effettivamente tutte le volte che Peter era andato a farle visita l’aveva sempre trovata sveglia e al lavoro. Bussò alla porta e la aprì appena. «Zia? Sono Peter.» Sentì un frusciare di carte e il rumore di una sedia che strisciava sulle vecchie assi di legno. «Oh, Peter! Vieni, vieni.» Peter entrò. La luce proveniva da una lanterna in cucina, che praticamente era una baracca aggiunta in un secondo tempo al resto della casa, sul retro. Era piena di roba, ma al tempo stesso ordinata, perché mobili e oggetti – alte pile di libri, vasi pieni di sassolini e vecchie monete, soprammobili e chincaglieria di ogni tipo – erano disposti con un certo metodo e soprattutto sembravano essere lì da decenni, come alberi in un bosco. La vecchia comparve sulla soglia della cucina e gli fece cenno di entrare. «Sei arrivato giusto in tempo: ho appena fatto il tè.» La Zia aveva sempre “appena fatto il tè”. Lo preparava con miscele di erbe che coltivava e raccoglieva nei campi. Mentre era in giro per la Colonia, a volte la vedevi che si chinava, lentamente e a lungo, a raccogliere qualche piantina e se la metteva in bocca. Bere il tè della Zia era il prezzo che bisognava pagare per la sua compagnia. «Grazie» rispose Peter. «Volentieri.» La Zia trafficò con gli occhiali per scegliere il paio giusto fra quelli che portava appesi al collo. Finalmente li trovò e se li mise sul naso. Aveva la faccia bruna e rugosa come un guscio di noce e la testa piccola, quasi si fosse ristretta con il passare degli anni. Lo guardò e gli fece un sorriso sdentato, soddisfatta che fosse chi aveva intuito che fosse. Indossava, come al solito, un abito largo, senza maniche e molto scollato, un patchwork di stoffe diverse ricavate da una varietà di vecchi indumenti. I pochi capelli che le restavano, bianchissimi e vaporosi, sembravano non tanto crescerle sulla testa, quanto galleggiarle intorno come un’aureola. Sulle guance aveva una serie di macchie che erano una via di mezzo fra lentiggini e nei. «Andiamo in cucina.» Peter la seguì, scalza e con l’andatura strascicata, lungo lo stretto corridoio che portava sul retro della casa. La cucina era piccola, con un grande tavolo di rovere che lasciava a malapena lo spazio per muovercisi intorno. Il calore che proveniva dalla stufa e il vapore che usciva dalla teiera di alluminio tutta ammaccata che vi era posata sopra rendevano l’aria quasi irrespirabile.

Peter cominciò a sudare. Mentre la Zia versava il tè, Peter aprì appena la finestra per far entrare un po’ d’aria e si sedette. La Zia portò in tavola la teiera e la posò su un treppiedi di ghisa. Poi azionò la pompa del lavandino, sciacquò due tazze e le mise sul tavolo. «Qual è la ragione della tua visita, Peter?» «Ti devo dire una cosa. Riguardo a Theo.» La vecchia fece un gesto come a dire che non era il caso. «Oh, so già tutto.» Si sedette di fronte a lui e si rassettò il vestito sulle spalle ossute, poi stese le gambe e versò il tè filtrandolo con un colino. Era di un color giallo urina e lasciò nell’utensile un’inquietante poltiglia verde e marrone che pareva fatta di insetti schiacciati. «Com’è successo?» Peter sospirò. «È una lunga storia.» «Ho tutto il tempo per ascoltarla, Peter, sempre che tu abbia il desiderio di raccontarmela. Forza, il tè è pronto: non lasciamolo venir freddo.» Peter ne bevve un sorso. Era bollente, sapeva vagamente di terra e lasciava un retrogusto amaro più del veleno, ma Peter per educazione lo mandò giù senza fare smorfie. Sul tavolo c’era un quaderno, quello su cui la Zia scriveva costantemente. “Il mio libro di memorie” lo chiamava: era spesso, cucito a mano e con una copertina di pelle di pecora, le pagine fitte fitte di parole minuscole, vergate con una penna di corvo e inchiostro fatto in casa. La Zia preparava da sé addirittura la carta, facendo bollire segatura fino a ottenere una pasta che poi spalmava su vecchi vetri di finestre. Quando vedeva le pagine stese ad asciugare dietro la casa, Peter capiva che la Zia stava lavorando alacremente. «Come va il tuo libro di memorie, Zia?» chiese. «Non finisce mai.» Gli fece un sorriso rugoso. «Troppe cose e troppo tempo per scriverle. Tutto quello che è accaduto, il Tempo di Prima, il treno che ci portò qui quando tutto intorno bruciava. Terrence, Mazie e tutti gli altri... Scrivo così, come mi viene. Se non ci pensa nessun altro, a parte questa povera vecchia, avranno questo e stop. Ma di certo un giorno qualcuno vorrà sapere che cosa è successo qui.» «Tu pensi?» «Oh, Peter, ne sono sicura.» Bevve un sorso di tè, fece schioccare le labbra esangui e aggrottò la fronte. «Manca un po’ di tarassaco.» Lo guardò strizzando gli occhi dietro le lenti. «Non mi avevi chiesto questo, però, giusto? Volevi sapere che cosa scrivo, o sbaglio?» Era così che ragionava: saltando avanti e indietro, facendo strane associazioni, tuffi nel passato. Parlava spesso di Terrence, che aveva viaggiato con lei sul treno, e a volte diceva che era suo fratello, a volte suo cugino. Ma parlava anche di Mazie Chou, di un bambino che chiamava Vincent Gum, di una certa Sharise, di Lucy e Rex Fisher. Vagava nel tempo passato e poi, di punto in bianco, tornava lucidissima al presente. «Di Theo hai scritto?» «Theo?» «Mio fratello.»

Lo sguardo della Zia si perse brevemente nel vuoto. «Mi ha detto che partiva per la centrale. Quando torna?» Allora non sapeva niente... O se n’era dimenticata? Forse nella sua mente quella notizia si era confusa con altre storie simili. «Non credo tornerà» rispose Peter. «È questo che ero venuto a dirti. Mi dispiace.» «Non ti dispiacere, adesso» ribatté lei. «Si potrebbero scrivere libri interi sulle cose che ignoriamo. Buffo, no? Libri interi... Forza, bevi il tè.» Peter decise di non insistere. A cosa le sarebbe servito sapere che era morta un’altra persona? Ingollò un altro sorso di quell’infuso amarissimo e gli sembrò ancora peggiore di prima, se possibile. Gli venne quasi la nausea. «È la corteccia di betulla quella che ti dà noia. Ma fa digerire.» «È gradevole, davvero.» «No, è sgradevolissima, ma fa bene: ti pulisce come nient’altro al mondo.» A Peter venne in mente l’altra cosa che voleva dire alla Zia. «Ho visto le stelle, sai?» La vecchia si illuminò. «Che bellezza.» Gli sfiorò la mano con la punta di un dito rugoso. «Una bella notizia. Dimmi: che effetto ti hanno fatto?» Peter ripensò ai momenti passati sul tetto della centrale sdraiato sul cemento di fianco ad Alicia. Le stelle sopra di loro parevano vicinissime, quasi potessero toccarle. Gli sembrava che fossero passati anni da allora, che quelli fossero stati gli ultimi istanti di una vita che si era ormai lasciato alle spalle. «Non so come dire, Zia. Non me le immaginavo così.» «Sono una meraviglia.» Guardava nel vuoto e le brillavano gli occhi. «Non le vedo da quando ero piccola. Tuo padre veniva a trovarmi, come hai fatto tu adesso, e me ne parlava. Mi diceva: “Le ho viste, Zia”. E io gli domandavo: “Come le hai trovate le mie stelline care, Demo?”. Erano incontri molto piacevoli quelli con tuo padre a parlare di stelle. Come il nostro adesso.» Bevve un sorso e posò la tazza sul tavolo. «Perché fai quella faccia sorpresa?» «Davvero mio padre veniva a trovarti?» La Zia aggrottò le sopracciglia, come per un improvviso ripensamento, ma negli occhi continuò a brillarle una luce divertita. «Pensavi che non venisse da me?» «Non lo so» rispose Peter, a disagio. Era vero: non lo sapeva. Ma quando cercava di immaginare la scena, il grande Demetrius Jaxon seduto a bere tè con la Zia in quella cucina soffocante e a parlare delle sue Esplorazioni... Be’, non ci riusciva. «Non credevo l’avesse mai detto a nessun altro.» La Zia rise. «Oh, tuo padre e io parlavamo tantissimo! Parlavamo di tante cose. Di stelle...» Peter era confuso. Anzi, no: era più che confuso. Era come se nell’arco di pochi giorni, dalla notte in cui Arlo Wilson aveva ucciso quel fumido nella rete, nel mondo fosse cambiato qualcosa di fondamentale e lui non avesse ancora capito di che si trattava. «Ti ha mai detto di avere incontrato un Pellegrino, Zia?»

La vecchia arricciò le labbra. «Un Pellegrino? Mah, non mi pare di ricordare nulla di simile. Theo ha incontrato un Pellegrino?» Peter sospirò. «Non Theo, mio padre.» Ma la Zia aveva smesso di ascoltarlo: il suo sguardo si era perso nel vuoto. «Terrence, sì, mi parlò di un Pellegrino. Terrence e Lucy. Quant’era minuta quella bambina! Terrence la consolò: fu lui a farla smettere di piangere. Era bravissimo in queste cose.» Non c’era niente da fare: quando la Zia partiva per la tangente, poteva andare avanti per ore, o per giorni, e non c’era verso di riportarla al presente. Peter quasi la invidiava per questo. «Cos’è che mi volevi chiedere?» «Non importa, Zia. Niente di urgente.» La vecchia fece spallucce. «Se lo dici tu. Dimmi una cosa, Peter: credi in Dio onnipotente?» domandò dopo un momento di silenzio. La domanda lo colse di sorpresa. Benché la Zia parlasse spesso di Dio, non gli aveva mai chiesto se lui ci credesse. Ed era vero che guardando le stelle dal tetto della centrale aveva sentito qualcosa, una presenza dietro la loro vastissima immensità. Era come se le stelle stessero a guardare lui. Ma quel momento, quelle sensazioni erano svaniti subito. Sarebbe stato bello credere, eppure lui non ci riusciva. «Veramente no, Zia» ammise in tono triste e sconsolato. «Penso che Dio sia semplicemente un concetto che la gente utilizza per stare meglio.» «Mi dispiace tanto, Peter. Tantissimo. Perché il Dio che conosco io, sai, non ci dà chance.» Finì il tè e fece schioccare le labbra. «Adesso rifletti su quello che ti ho detto e poi mi racconterai di Theo, di dov’è andato.» Sembrava che la conversazione fosse finita. Peter si alzò e le diede un bacio sulla testa. «Grazie del tè, Zia.» «Vieni quando vuoi. Appena avrai la risposta, torna. Parleremo di Theo. Ci faremo una bella chiacchierata. Ah, Peter?» Peter, che era già sulla porta, si voltò. «Lei sta per arrivare. Perché tu lo sappia.» Peter rimase di stucco. «Chi, Zia?» La vecchia aggrottò la fronte, come una maestra. «Lo sai benissimo, ragazzo mio. Lo sai dal giorno in cui Dio ti ha sognato.» Per un istante Peter rimase fermo dov’era. «Per ora non dirò altro.» La vecchia gli fece un rapido cenno, come se scacciasse una mosca. «Va’ adesso. E torna quando sarai pronto.» «Non stare alzata tutta la notte a scrivere, Zia» riuscì a dire Peter. «Cerca di dormire un po’.» La vecchia sorrise. «Ho tutta l’eternità per riposare.»

Peter uscì nel fresco della notte e l’aria che gli accarezzò il viso gli gelò il sudore addosso. Il contrasto fra il calore della cucina e il freddo fuori era netto e il tè della Zia gli faceva borbottare lo stomaco. Rimase un attimo immobile, abbagliato dalle luci. Che strano che la Zia avesse detto quelle cose! Eppure non poteva sapere della ragazza. Si confondeva, mescolava le storie l’una con l’altra, le passate con le presenti. Chissà a chi si riferiva. Magari a una donna morta anni e anni prima. Mentre faceva quelle riflessioni, udì gridare nei pressi della Porta Maggiore. Poco dopo scoppiò il finimondo.

26 Tutto era cominciato con il Colonnello: questo venne accertato già nelle prime ore. Nessuno ricordava di averlo incontrato da qualche giorno, né all’apiario né nelle scuderie né sulla passerella, dove a volte saliva la notte. Peter non l’aveva visto nemmeno una volta nelle sette notti che era stato sulle mura ad attendere il fratello, ma non gli era sembrato particolarmente strano: il Colonnello andava e veniva come seguendo misteriosi piani e capitava che sparisse dalla circolazione per lunghi periodi. Una cosa si sapeva per certo, perché Hollis l’aveva riferita e altri l’avevano confermata: poco dopo metà notte il Colonnello era comparso sulla passerella vicino alla Piattaforma di tiro 3. Era una notte tranquilla, senza nessun segno: la luna era bassa e il terreno oltre le mura brillava alla luce dei riflettori. Pochi avevano notato la presenza del Colonnello e nessuno si era stupito di vederlo. “Oh, guarda, c’è il Colonnello” avevano pensato. “Il vecchio non riesce a dormire. Peccato che non ci sia niente da fare per lui stasera”. Era rimasto lì qualche minuto a guardare il campo sottostante giocherellando con la collana di denti di fumidi. Hollis aveva pensato che fosse salito su per parlare con Alicia, ma non sapeva dov’era e comunque il Colonnello non dava segno di cercarla. Era disarmato e non aveva rivolto la parola a nessuno. Quando Hollis si era voltato di nuovo dalla sua parte, non c’era più. Una staffetta, Kip Darrell, in seguito avrebbe riferito che era sceso dalla scala e si era diretto lungo il viottolo verso i recinti. Quando l’avevano avvistato di nuovo, era nel campo e correva. “Segno!” aveva urlato una staffetta. “Attenzione!” A quel punto Hollis l’aveva visto. Anzi, li aveva visti. Erano tre, in fondo al campo, e stavano zompando verso la luce. Il Colonnello gli correva incontro. Gli erano piombati addosso in un baleno, inghiottendolo come un’onda, ringhiando e mordendo, mentre dalla passerella scoccava quasi all’unisono una dozzina di frecce. La distanza era eccessiva, però: per beccare un fumido da tanto lontano ci voleva una notevolissima dose di fortuna. E così le guardie di turno quella notte avevano visto morire il Colonnello. Poi avevano visto lei, la ragazza. Era ai margini del campo, sola, al limitare fra la luce e l’ombra. In un primo momento tutti l’avevano presa per un’altra virale, avrebbe riferito in seguito Hollis, e le avevano scagliato contro dardi e frecce. D’altronde, a quel punto avrebbero sparato a qualsiasi cosa si muovesse. Mentre correva verso la Porta Maggiore sotto quella pioggia di frecce, qualcuno l’aveva colpita alla spalla – Hollis aveva addirittura udito l’impatto – e lei aveva perso l’equilibrio ma, dopo una giravolta su se stessa, aveva continuato a correre. “Non so, forse sono stato io a colpirla” avrebbe ammesso poi Hollis. A quel punto era intervenuta Alicia, strepitando e correndo sulla passerella: era una persona, urlava, un essere umano! Dovevano smetterla e calare piuttosto le funi, per tutti i vampiri! C’era stato un attimo di confusione: Soo, che era l’unica a poter dare l’ordine di calare le corde oltre le mura, non si trovava. Alicia però non si era persa d’animo: senza lasciare a nessuno il

tempo di dire “bah”, era salita in cima al baluardo con la corda in mano e si era calata di sotto. Hollis non aveva mai assistito a un’azione più sconsiderata. Alicia era scesa di gran carriera, puntellandosi appena con i piedi sulla parete, mentre tre persone trattenevano la corda per evitare che si schiantasse. Aveva toccato terra un istante dopo che la corda era stata bloccata nel paranco rotolando nella polvere. Si era rialzata subito e si era messa a correre. I virali erano a venti metri da lei, ancora chini sul corpo del Colonnello. Nel sentire il rumore, tuttavia, si erano riscossi e avevano sollevato la testa, sinuosi, all’unisono, come fiutando l’aria. Sangue fresco. La ragazza ormai era arrivata ai piedi delle mura. Il dardo che l’aveva ferita alla spalla aveva trapassato lo zainetto sulla schiena, che adesso era lucido e viscido di sangue. Alicia se l’era caricata in groppa ed era tornata indietro di corsa. La corda era inutile, ormai: l’unica speranza era che le aprissero le porte. Tutti assistevano alla scena impietriti. Aprire le porte di notte era assolutamente vietato, qualsiasi cosa succedesse. Non esistevano deroghe, neppure per Alicia. In quel momento arrivò Caleb dalla caserma e, un attimo dopo, Peter dalla casa della Zia. Peter non sapeva che cosa stava succedendo al di là della Porta Maggiore, ma sentì Hollis che gridava dalla passerella. «Lish! Lish!» «Cosa c’è?» «Lish è fuori!» esclamò Hollis. Caleb raggiunse l’argano per primo. Fu questo l’elemento che in seguito sarebbe stato usato per accusarlo e scagionare Peter. Quando Alicia arrivò alla porta con la ragazzina in spalla, la trovò aperta di quel tanto che bastava per infilarcisi. Se fossero riusciti a richiuderla in tempo, probabilmente la faccenda sarebbe finita lì. Purtroppo, però, Caleb aveva rilasciato il freno e i pesi scendevano acquistando velocità a mano a mano che scivolavano lungo le catene. Insomma, la porta si aprì completamente per semplice effetto della gravità. Peter afferrò l’argano, sommerso dalle grida che si alzavano dietro e sopra di lui, sotto una pioggia di dardi e frecce, mentre tutte le guardie scendevano di corsa dalle scale. Andarono a dargli una mano Ben Chou, Ian Patal e Dale Levine e, con estrema lentezza, riuscirono a invertirne il movimento. Ma era troppo tardi. Dei tre virali, solo uno riuscì a entrare nella Colonia. Ma bastò. Anche perché si diresse subito verso il Nido. Hollis fu il primo a raggiungere l’edificio, mentre il virale saltava sul tetto e, come una pietra che rimbalza sulla superficie dell’acqua, da lì zompava nel cortile interno. Hollis entrò a rotta di collo dalla porta principale e sentì un rumore di vetri infranti: il virale aveva sfondato una finestra. Hollis e Mausami arrivarono nella camerata contemporaneamente, da due corridoi diversi che sbucavano su lati opposti della stanza. Lei era disarmata, lui aveva la balestra. Furono accolti da un silenzio inquietante. Hollis si era preparato a urla e pianti, a bambini che scappavano da tutte le parti, invece erano quasi tutti nei loro lettini, anche se con gli occhi sbarrati per la

paura. Solo alcuni si erano nascosti sotto il letto. Entrando, vide che nella fila più vicina a lui una delle tre J – June, Jane o Juliet – scostava le coperte e sgattaiolava sotto. L’unica luce nella stanza proveniva dalla finestra rotta, con la tenda strappata che penzolava da una parte. Il virale era sopra il lettino di Dora. «Ehi!» urlò Mausami gesticolando furiosamente. «Guarda!» Dov’erano Leigh e la Maestra? Nel sentire la voce di Mausami, il virale si voltò e sbatté le palpebre, piegando il lungo collo da una parte ed emettendo uno schiocco gorgogliante, di gola. «Qua!» gridò Hollis cercando di attirare l’attenzione del mostro. «Da questa parte!» Il virale si girò di scatto e lo guardò con aria aggressiva. Gli brillava qualcosa alla base del collo: un ciondolo, forse. Ma non c’era tempo per approfondire: a Hollis si era aperto uno spiraglio e adesso aveva la possibilità di agire. In quel momento entrò Leigh, che era nell’ufficio a dormire e non aveva sentito nulla. Lanciò un grido. Hollis prese la mira e sparò un colpo con la sua balestra. Un colpo preciso, perfetto: il dardo centrò il virale nel punto debole. Hollis capì che lo avrebbe abbattuto appena lo ebbe scoccato. E, durante il breve volo della freccia, meno di cinque metri, capì anche chi era il virale. Fu la chiave appesa al collo a tradirlo, ma anche lo sguardo di luttuosa gratitudine che gli lanciò. Il pensiero finì di prendere forma nella mente di Hollis nello stesso istante in cui il dardo colpiva il virale al petto. Una sola parola, misericordiosa, fatale, irrevocabile. «Arlo.» Hollis aveva appena ucciso suo fratello. Sebbene non se ne ricordasse, Sara conobbe la Pellegrina in sogno. Un sogno confuso, spiacevole, nel quale era di nuovo bambina e stava facendo la pastella per le frittelle di polenta. La cucina in cui si trovava, in piedi su uno sgabello con una grande ciotola di legno in una mano e la frusta nell’altra, era quella di casa sua, ma era anche quella del Nido. Nevicava. Scendevano tanti fiocchi morbidi, ma non dal cielo, perché il cielo non c’era. La neve le appariva davanti agli occhi come dal nulla. Era strano: nevicava raramente e mai in casa. Nonostante fosse bizzarro, Sara aveva altre cose, più importanti, a cui pensare. Quel giorno doveva uscire dal Nido e la Maestra stava per venirla a prendere. Senza le frittelle di polenta, però, lei non avrebbe avuto niente da mangiare nel mondo fuori dal Nido; nel mondo fuori dal Nido la gente mangiava solo frittelle di polenta, le aveva spiegato la Maestra. C’era un uomo a tavola, Gabe Curtis, con un piatto vuoto davanti. “È pronto?” chiedeva a Sara. Poi, voltandosi verso la bambina seduta al suo fianco, aggiungeva: “Mi sono sempre piaciute le frittelle di polenta”. Sara si chiedeva un po’ allarmata chi fosse quella bambina; cercava di guardarla in faccia, ma non ci riusciva: ovunque posasse lo sguardo, la bambina che un attimo prima era lì non c’era più. Piano piano si rendeva conto di essere in un posto diverso, nuovo. Era nella stanza in cui l’aveva portata la Maestra, quella dove ai bambini in uscita dal Nido veniva svelata la verità. I suoi genitori la aspettavano vicino alla porta. “Va’ con loro, Sara” le diceva Gabe. “È venuto il momento che tu vada con loro. Corri, senza fermarti mai.” “Ma non eravate tutti morti?” diceva Sara. Guardava verso i genitori e vedeva che non avevano più la faccia; c’erano solo macchie sfocate, indecifrabili, ed era come guardare un volto sott’acqua in un torrente. Avevano qualcosa di strano nel collo. Sentiva un battere ritmato, la stanza spariva

e una voce la chiamava per nome e le diceva: “Siete tutti morti”. Si svegliò di colpo. Si era addormentata sulla poltrona, davanti al caminetto spento. Era stata la porta a destarla: qualcuno bussava e la chiamava. Dov’era Michael? Che ora era? «Sara? Apri, per favore!» Caleb Jones? Quando Sara aprì la porta, lui aveva una mano alzata, pronto a bussare di nuovo. «Abbiamo bisogno di un’infermiera.» Aveva il fiatone. «C’è un ferito.» Sara si svegliò del tutto. Prese la valigetta sul tavolo. «Chi è?» «L’ha portata dentro Lish.» «Lish? Lish è ferita?» Caleb scosse la testa cercando di riprendere fiato. «Non lei, la ragazza.» «Che ragazza?» Caleb fece una faccia sbalordita. «Una Pellegrina.» Quando arrivarono all’Infermeria, il cielo stava schiarendo. Non c’era nessuno e Sara se ne meravigliò: dal racconto di Caleb, si aspettava una folla. Salì le scale ed entrò di corsa. Su un letto era distesa una ragazzina. Era supina, con la freccia ancora piantata nella spalla e un oggetto scuro sotto la schiena. Al suo capezzale c’era Alicia, con la tunica sporca di sangue. «Fa’ qualcosa, Sara, per favore!» Sara si avvicinò di corsa e infilò una mano dietro la nuca della ragazza per sollevarle leggermente la testa. Aveva gli occhi chiusi, la pelle fredda e sudata, e rantolava. Le cercò la carotide per sentire il battito: era accelerato, sembrava quello di un uccellino. «È sotto shock. Aiutami a voltarla su un fianco.» La freccia era penetrata nella spalla sinistra appena sotto la clavicola. Alicia infilò le mani sotto la schiena della ferita, mentre Caleb le afferrava i piedi e, insieme, la girarono sul fianco. Sara prese un paio di forbici e le tolse prima lo zaino e poi la maglietta sottile. Aveva il corpo esile di una giovane adolescente, il seno acerbo, la pelle chiara. La punta della freccia sbucava appena sopra la scapola da una ferita che pareva una stella. «Bisogna che la recida, ma mi serve un attrezzo più robusto.» Caleb annuì e uscì di corsa. In quel momento entrò Soo Ramirez, con i lunghi capelli scompigliati e la faccia sporca. Si fermò di botto ai piedi del letto. «Porco vampiro, è una ragazzina.» «Dov’è l’Altra Sandy?» chiese Sara. Soo era sbigottita. «Da dove caspita arriva questa?» «Soo, non posso fare tutto da sola. Dov’è Sandy?»

Soo alzò la testa e la guardò. «Nel Nido, credo.» Si udirono passi e voci nell’anticamera: stavano arrivando un sacco di persone. «Manda via tutti, per favore» disse Sara a Soo. Poi, alzando la voce, aggiunse: «Sgomberare, per cortesia! Aspettate fuori, se proprio non volete andare via». Soo annuì e uscì dalla stanza. Sara controllò di nuovo il battito della ragazza. Aveva la pelle vagamente a chiazze, come il cielo d’inverno prima di una nevicata. Quanti anni poteva avere? Quattordici? Cosa ci faceva una quattordicenne in giro di notte, da sola? Si voltò verso Alicia. «L’hai portata tu dentro le mura?» Alicia annuì. «Ti ha parlato? Era sola?» «Dio mio, Sara, non te lo so dire.» Aveva lo sguardo sperso. «Credo che fosse sola, sì.» «E quel sangue è suo o tuo?» Alicia si guardò la tunica: sembrava essersi accorta delle macchie solo in quel momento. «Suo, penso.» Fuori dalla porta il brusio era ricominciato. Si udì la voce di Caleb. «Sto arrivando!» Spinse da parte la tenda e porse a Sara una grossa tenaglia. Era sporca e unta, ma andava bene. Sara versò dell’alcol sulle lame e sulle proprie mani, che poi asciugò in un telo. Con la ragazzina distesa sul fianco, recise la punta della freccia con la tenaglia e versò alcol su tutto quanto. A quel punto chiese a Caleb di disinfettarsi le mani anche lui, prese una matassa di lana da uno scaffale, ne strappò un bel pezzo e lo arrotolò per ricavarne una compressa. «All Star, appena io tolgo la freccia, tu devi premere bene questa sulla ferita. Premi forte, mi raccomando. Nel frattempo io la cucio dall’altra parte e vediamo se riusciamo a fermare l’emorragia.» Caleb fece cenno di sì con la testa, poco convinto. Sara capì che era sconvolto, ma lo erano tutti. La sopravvivenza della ragazza dipendeva da quanto sangue perdeva, oltre che dalle eventuali lesioni interne. La voltarono di nuovo sulla schiena. Mentre Caleb e Alicia la reggevano per le spalle, Sara afferrò la freccia e cominciò a tirare. L’asta incontrava resistenza fra i tessuti lacerati e le vibrava fra le mani, ma Sara continuò a tirare con forza e dopo un po’ il dardo uscì dalla spalla con un fiotto di sangue. «Porco vampiro, è lei!» Sara si girò e vide Peter sulla soglia. Cosa stava dicendo? Aveva riconosciuto la ragazza ferita? L’aveva già vista? Com’era possibile? «Voltatela sul fianco. Peter, aiutali.» Si posizionò dietro la ragazza e cominciò a suturarle la ferita con ago e refe. C’era sangue dappertutto, che inzuppava il materasso e colava per terra. «Cosa devo fare, Sara?» domandò Caleb. La compressa di lana era fradicia.

«Continua a premere.» Sara tirò il filo stringendo il punto. «Mi fate un po’ di luce, per favore?» Tre punti, quattro, cinque. I lembi della ferita erano quasi richiusi. Non sarebbe servito a molto, però, Sara ne era consapevole: la freccia doveva aver lesionato la succlavia ed era per questo che l’emorragia era tanto forte. La ragazza sarebbe morta nel giro di pochi minuti. Quattordici anni! Da dove era mai venuta? «Mi sembra che esca meno sangue» osservò Caleb. Sara diede l’ultimo punto. «Impossibile. Tieni premuto bene.» «Sul serio, Sara: vieni a vedere.» Girarono la ragazza sulla schiena e Sara sollevò la compressa. Era vero: l’emorragia era rallentata. La ferita di ingresso sembrava addirittura più piccola, rosea e con i bordi arricciati. Lei era più tranquilla, serena, come se dormisse. Sara le posò le dita sul collo: il battito si era fatto regolare. Com’era possibile? «Peter, reggimi la lanterna in questo punto.» Peter avvicinò la luce al viso della ragazza e Sara le sollevò con delicatezza la palpebra sinistra: il globo oculare era scuro e umido e la pupilla si contrasse. L’iride era del colore dell’argilla bagnata. Aveva qualcosa di diverso, qualcosa di strano. «Avvicina la lanterna.» Peter ubbidì gettando luce sull’occhio semiaperto. Sara si sentì precipitare, come se le si fosse aperta la terra sotto i piedi. Era peggio che morire. Stava cadendo in una voragine buia e nulla avrebbe più potuto fermare la sua corsa. «Cos’hai, Sara?» Sara indietreggiò, il cuore in gola, le mani che tremavano come foglie al vento. Tutti la guardavano e lei cercò di parlare, ma non ci riuscì. Che cosa aveva visto? No, non l’aveva visto, l’aveva sentito. Pensò a quella parola: “sola”. Sola! Ecco come si sentiva, sola. Tutti erano soli. I suoi genitori, anime perdute nelle tenebre. Soli! Si rese conto di avere gente intorno. Sanjay e Soo Ramirez erano entrati nella stanza, seguiti da due guardie, e tutti aspettavano che lei dicesse qualcosa, la fissavano pieni di aspettativa. Sanjay fece un passo avanti. «Se la caverà?» Sara prese fiato cercando di calmarsi. «Non lo so» rispose con un filo di voce. «È una brutta ferita, Sanjay. Ha perso molto sangue.» Sanjay guardò un momento la ragazza, quasi stesse decidendo cosa pensare di lei, come giustificare la sua inspiegabile presenza lì. Poi si voltò verso Caleb, che era in piedi vicino al letto con la compressa zuppa di sangue in mano. L’aria si caricò di tensione. Le due guardie rimaste sulla porta fecero un passo avanti, pronte a sfoderare la lama. «Vieni con noi, Caleb.» Erano Jimmy Molyneau e Ben Chou. Lo presero ciascuno per un braccio. Caleb rimase troppo sorpreso per opporre resistenza.

«Cosa fate?» intervenne Alicia. «Sanjay? Cosa succede?» «Caleb è agli arresti» rispose Sanjay. «Agli arresti?» protestò il ragazzo. «E perché?» «Ha aperto la porta. La legge lo vieta, lo sappiamo tutti. Portatelo via.» Jimmy e Ben dovettero trascinarlo a forza verso la tenda, perché Caleb si divincolava. «Lish!» gridò. Alicia si parò di fronte al terzetto sbarrando loro il passo. «Di’ qualcosa, Soo» implorò. «Sono stata io a scavalcare le mura. È colpa mia. Se proprio dovete arrestare qualcuno, arrestate me.» Soo, che era a fianco di Sanjay, non disse niente. «Soo?» Ma la donna scosse la testa. «Non posso, Lish.» «Cosa significa che non puoi?» «Significa che non dipende da lei» replicò Sanjay. «La Maestra è morta. Caleb è in arresto per omicidio.»

27 A metà mattina tutti nella Colonia sapevano quello che era successo durante la notte, in una versione o in un’altra. Era comparsa una Pellegrina fuori dalle mura, Caleb aveva aperto la porta e un virale era entrato nella Colonia. La Pellegrina, una ragazza giovanissima, era ricoverata nell’Infermeria, moribonda, ferita in maniera grave da una delle guardie. Il Colonnello era andato volontariamente incontro alla morte – ancora non era stato accertato come avesse fatto a uscire dalle mura – e Arlo era stato ucciso da suo fratello nel Nido. Ma la vera tragedia riguardava la Maestra. L’avevano ritrovata sotto la finestra della camerata; Hollis non l’aveva vista perché era dietro una fila di lettini. Doveva avere sentito scendere il virale dal tetto e cercato di difendere il Nido. Aveva in mano una lama. C’erano state diverse maestre al Nido, com’è ovvio, ma ognuna, nel corso degli anni, diventava la Maestra. Quella che era morta la notte precedente si chiamava April Darrell. Era la stessa che aveva riso bonariamente delle domande di Peter riguardo all’oceano. All’epoca era più giovane, aveva pochi anni più di quanti ne avesse lui adesso. Era graziosa, pallida, una specie di sorella maggiore costretta sempre in casa da qualche malattia. Era lei che aveva accompagnato Sara a scoprire la terribile verità, il giorno in cui era uscita dal Nido, che l’aveva condotta per mano di domanda in domanda, come lungo una scala che scendeva in una cantina buia, e poi l’aveva consegnata alla madre per piangere con lei su com’era il mondo. Era un mestiere difficile quello della Maestra, lo sapevano tutti. Un lavoro ingrato, sempre chiusi nel Nido a badare ai Piccoli, senza la compagnia di adulti, a parte le gravide e le puerpere che pensavano solo ai loro bambini. E poi era inevitabile provare un certo risentimento nei suoi confronti, perché era lei che svelava la triste verità. Non metteva quasi mai piede fuori dal Nido, a parte la Prima Notte, quando faceva una breve apparizione nella piazza del Sole. Anche allora, sembrava a disagio, quasi stesse venendo meno al proprio compito. Peter provava compassione per lei, ma non osava quasi guardarla negli occhi. La Consulta si riunì di primo mattino e dichiarò lo stato di emergenza civile. Le staffette fecero il giro di tutte le case per annunciarlo. Finché non si fosse fatta luce sulla vicenda, tutte le attività fuori dalle mura erano sospese; il gregge sarebbe rimasto all’interno della Colonia, i tecnici non si sarebbero spinti fuori per nessuna ragione, la porta sarebbe rimasta sprangata. Caleb era chiuso nella guardina in attesa di giudizio. Per il momento erano tutti troppo confusi e spaventati, troppo sconfortati dai lutti per poter prendere decisioni assennate. E poi c’era la questione della ragazzina. Al mattino presto Sanjay aveva accompagnato i membri della Consulta all’Infermeria perché la vedessero. La ferita alla spalla era grave e la malata non aveva ancora ripreso conoscenza. Non presentava segni di infezione virale, ma il fatto che fosse arrivata fin lì era assolutamente inspiegabile. Come mai i virali non l’avevano attaccata? Come aveva fatto a sopravvivere, sola, al buio? Sanjay aveva ordinato che tutti coloro che erano venuti a contatto con lei si sottoponessero a lavaggi accurati e bruciassero i vestiti che avevano indosso. La ragazza era in quarantena stretta: nessuno, tranne Sara, era autorizzato a entrare nell’Infermeria finché non si fosse scoperto qualcosa di più. La commissione inquirente si riunì nella vecchia aula del Nido in cui la Maestra aveva portato Peter il giorno in cui era uscito. Sanjay l’aveva chiamata così: “commissione inquirente”. Peter

non aveva mai sentito quell’espressione e gli sembrò un eufemismo per definire un gruppo di gente in cerca di un capro espiatorio. Sanjay aveva dato istruzione a lui, Alicia, Hollis e Soo di non parlare tra loro finché non fossero stati interrogati tutti e quattro. Aspettarono fuori, nel corridoio, stretti nei piccoli banchi allineati contro la parete, sotto l’occhio vigile di una guardia, il nipote di Sanjay, Ian. Nell’edificio c’era un silenzio inquietante: i Piccoli erano stati trasferiti al piano di sopra in attesa che finissero di disinfettare la camerata. Chissà che cosa gli avevano raccontato, poveri bambini. La nuova Maestra, Sandy Chou, avrebbe dovuto inventarsi qualcosa. Probabilmente avrebbe detto loro che era stato solo un sogno e forse i più piccolini ci avrebbero anche creduto. Gli altri... chissà. Magari avrebbero lasciato il Nido prima del tempo. Soo venne chiamata per prima e uscì poco dopo con l’aria angosciata. Il secondo a essere convocato fu Hollis. Sfilò le lunghe gambe da sotto il banchetto e si avviò, fiacco, come se avesse perso ogni energia, o una parte fondamentale di sé. Ian gli aprì la porta tenendo d’occhio gli altri con un’espressione severa. Sulla soglia Hollis si fermò e si voltò a guardarli. Poi pronunciò le prime parole da un’ora a quella parte. «Spero solo di non aver fatto tutto questo invano.» Aspettarono. Peter sentiva un brusio di voci oltre la porta. Avrebbe voluto chiedere a Ian se sapeva qualcosa, ma vedendo la sua faccia preferì lasciar perdere. Ian era suo coetaneo, erano cresciuti insieme. Era sposato con Hannah e aveva una figlia, Kira, ancora al Nido. Forse era per questo che aveva quella faccia: era in pena per lei. Hollis uscì, guardò brevemente negli occhi Peter e gli fece un piccolo cenno di saluto prima di allontanarsi. Peter stava per alzarsi, ma Ian lo fermò. «Non tocca ancora a te, Jaxon. La prossima è Alicia.» Jaxon? Da quando in qua lo chiamavano Jaxon? Uno della Guardia, poi... Perché gli suonava tanto strano detto da Ian? «Va bene» fece Lish alzandosi stancamente. Peter non l’aveva mai vista così sconfortata. «Spero solo che si sbrighino.» Lei entrò nell’aula e Peter rimase solo con Ian, che fissava il muro, a disagio. «Non è stata colpa di Lish, Ian. Non è stata colpa di nessuno.» Ian si irrigidì, ma non replicò. «Se ci fossi stato tu al suo posto, forse avresti fatto la stessa cosa.» «Dillo a Sanjay. Io non devo parlare con te.» Durante l’interrogatorio di Lish, Peter si assopì. Quando lei tornò, gli lanciò un’occhiata come a dire: “Ti verrò a cercare”. Peter lo capì subito, appena entrato nella stanza: la decisione era già stata presa e la sua testimonianza avrebbe fatto ben poca differenza. A Soo era stato chiesto di astenersi dal partecipare e i membri della Consulta presenti erano cinque: Sanjay, seduto al centro del lungo tavolo, il Vecchio Chou, Jimmy Molyneau, Walter Fisher e Dana, la cugina di Peter. Erano dispari: l’assenza di Soo avrebbe impedito eventuali situazioni di stallo. Davanti al tavolo c’era un banchetto. L’atmosfera era carica di tensione, non si sentiva volare una mosca.

Solo il Vecchio Chou fissava Peter negli occhi, tutti gli altri evitavano il suo sguardo, persino Dana. Walter Fisher, seduto scompostamente, non sembrava neppure cosciente di dov’era. Aveva i vestiti sporchi e sgualciti e puzzava di alcol. «Accomodati, Peter» disse Sanjay. «Preferisco stare in piedi.» Gli dava una certa soddisfazione sfidare la commissione, contraddirla. Sanjay, però, non batté ciglio. «Procediamo, allora.» Si schiarì la voce. «Nonostante alcuni punti ancora oscuri, è opinione generale della Consulta che non sia stato tu ad aprire le porte. Caleb ha dichiarato di aver preso l’iniziativa di testa sua. È anche la tua versione?» «La mia versione?» «Proprio così» replicò Sanjay sospirando con manifesta impazienza. «La tua versione dei fatti, come ritieni si siano svolte le cose.» «Io non ritengo un accidente. Che cosa ha detto All Star?» Il Vecchio Chou alzò la mano per prendere la parola. «Posso, Sanjay?» Sanjay si rabbuiò, ma non disse niente. Il Vecchio Chou si protese in avanti, autorevole. Aveva una faccia molle e rugosa e occhi lucidi che lo facevano sempre sembrare assolutamente sincero. Era stato Capoconsulta per molti anni, prima di lasciare la carica a Demo Jaxon, e quindi era ancora un uomo di potere, anche se non ne approfittava quasi mai. Dopo la morte della prima moglie nella Notte Nera, si era risposato con una donna molto più giovane e adesso passava quasi tutto il suo tempo nell’apiario, fra le sue amate api. «Peter, nessuno dubita che Caleb pensasse di fare la cosa più giusta. Questo non è un processo alle intenzioni. Vogliamo solo sapere se hai aperto la porta oppure no.» «Che cosa gli farete?» «Non abbiamo ancora deciso. Per favore, Peter, rispondi alla domanda.» Peter cercò lo sguardo di Dana, ma lei teneva gli occhi fissi sul tavolo. «L’avrei aperta se fossi arrivato prima di Caleb» dichiarò lui. Sanjay si spostò sulla sedia, arrabbiatissimo. «Visto? Proprio come vi dicevo!» Il Vecchio Chou non badò all’interruzione e continuò a guardare Peter negli occhi. «Dunque la tua risposta è no. Dico bene? Lo avresti fatto, ma non l’hai fatto.» Intrecciò le mani sul tavolo. «Rifletti un momento prima di rispondere, se vuoi.» Peter aveva l’impressione che il Vecchio Chou stesse cercando di proteggerlo. Dire com’erano andate le cose, tuttavia, avrebbe significato far ricadere l’intera colpa su Caleb, che aveva semplicemente fatto ciò che anche lui avrebbe fatto se fosse arrivato all’argano per primo. «Nessuno dubita della tua lealtà verso gli amici» continuò il Vecchio Chou. «Non mi aspetto nulla di diverso da te. Ma noi dobbiamo essere prima di tutto leali nei confronti della Colonia, dobbiamo mettere al primo posto la sicurezza della collettività. Perciò te lo chiedo di nuovo: hai

aiutato Caleb ad aprire la porta? O hai piuttosto cercato di chiuderla, essendoti reso conto di quello che stava succedendo?» Peter ebbe la sensazione di essere sull’orlo di un baratro: la sua risposta, qualsiasi essa fosse, sarebbe stata definitiva. Decise di dire la verità. Scosse la testa. «No.» «No cosa?» Peter fece un respiro profondo. «No, non ho aperto la porta.» Il Vecchio Clou si rilassò. «Grazie, Peter.» Guardò i colleghi. «Se nessuno ha altro da...» «Un momento» intervenne Sanjay. Peter si accorse che la tensione era aumentata: persino Walter Fisher sembrava essersi destato dal suo torpore. “Ci siamo” pensò Peter. «Sappiamo tutti della tua amicizia con Alicia» disse Sanjay. «Lei si confida con te, giusto?» Peter annuì, diffidente. «Immagino di sì.» «Ti ha fatto capire di conoscere la ragazza, di sapere chi è?» Peter si sentì attorcigliare le budella. «Perché pensate questo?» Sanjay lanciò un’occhiata agli altri, prima di riportare lo sguardo davanti a sé. «È una singolare coincidenza, capisci? Voi tre siete stati gli ultimi a tornare dalla centrale e la storia che avete riferito riguardo a Zander e Theo è... un po’ strana, lo ammetterai anche tu.» Peter non ce la fece più a tenere a bada la collera. «Pensate che abbiamo programmato tutto? Io ho perso mio fratello in quella missione. Siamo stati fortunati a uscirne vivi!» Nella stanza piombò il silenzio. Persino Dana guardava Peter con sospetto. «Quindi affermi di non conoscere la Pellegrina. Di non aver mai visto prima quella ragazza.» Non stavano più parlando di Alicia adesso: parlavano di lui. «Non so chi sia» rispose. Sanjay lo guardò fisso per un periodo innaturalmente lungo, poi annuì. «Grazie, Peter. Apprezziamo la tua sincerità. Puoi andare.» Di colpo era tutto finito. «Basta così?» Sanjay stava già trafficando con un fascio di carte che aveva davanti. Alzò la testa, corrucciato, quasi sorpreso che Peter non se ne fosse già andato. «Sì, per ora basta così.» «Non... non mi farete niente?» Sanjay si strinse nelle spalle, con la testa altrove. «Cosa vorresti che facessimo?» Peter provò una delusione inaspettata. Quando era seduto fuori con Hollis e Alicia, aveva sentito un legame con loro, come se fossero ugualmente coinvolti in quel pasticcio e il verdetto finale dovesse riguardare tutti nello stesso modo. Così invece li avevano separati, divisi.

«Se le cose sono andate come hai detto, tu non hai nessuna colpa e l’unico responsabile è Caleb. Secondo Soo, attendere tuo fratello sulle mura ti ha causato un grande stress e Jimmy è d’accordo con lei. Meglio che aspetti ancora qualche giorno prima di tornare al lavoro. Poi vedremo.» «E gli altri?» Sanjay ebbe un attimo di esitazione. «Non c’è motivo di tenerti all’oscuro, visto che fra poco lo renderemo pubblico. Soo Ramirez ha rassegnato le dimissioni da Primo Capitano e la Consulta, sia pur a malincuore, le ha accettate. Non era nella sua postazione al momento dell’attacco e ha le sue responsabilità. Sarà sostituita da Jimmy, che d’ora in poi sarà Primo Capitano. Hollis riprenderà servizio fra un po’: non è ancora pronto.» «E Lish?» «Le è stato ordinato di ritirarsi dalla Guardia. È stata assegnata ai Lavori Pesanti.» Fu quella la cosa più difficile da accettare, per Peter. Alicia un bulldozer? Non riusciva a capacitarsene. «State scherzando?» Sanjay lo guardò inarcando le sopracciglia con aria severa. «No, Peter. Non stiamo affatto scherzando.» Peter scambiò un’occhiata con Dana: “Tu lo sapevi?”. Le lesse negli occhi che la risposta era affermativa. «Se non c’è altro...» disse Sanjay. Peter si diresse alla porta ma, sulla soglia, gli venne improvvisamente un dubbio e si voltò di nuovo verso la commissione. «E la centrale?» Sanjay sospirò. «In che senso?» «Se Arlo è morto, non dovremmo mandarci qualcun altro?» La prima impressione di Peter, nel vedere le facce sbalordite che fecero tutti quanti, fu di essersi inguaiato con le sue stesse mani all’ultimissimo momento. Poi, però, capì che la loro sorpresa era autentica: nessuno aveva riflettuto su quel fatto. «Non avete mandato nessuno stamattina all’alba?» Sanjay si voltò verso Jimmy, che alzò le spalle imbarazzato, preso alla sprovvista. «Ormai è troppo tardi» rispose sottovoce. «Anche partendo adesso, non ce la farebbero ad arrivare prima del buio. Bisognerà aspettare fino a domani.» «Porco vampiro, Jimmy!» «Non ci ho pensato, okay? C’era già talmente tanta carne al fuoco... E comunque probabilmente Finn e Rey stanno bene.» Sanjay prese fiato per darsi un contegno, ma era furibondo. «Grazie, Peter. Terremo conto del tuo suggerimento.» Non c’era altro da dire. Peter uscì nel corridoio. Ian era ancora lì dove l’aveva lasciato, contro il muro, con le braccia conserte.

«Hai saputo di Lish?» «Sì, l’ho saputo.» Ian alzò le spalle. «Senti, so che è tua amica, ma non puoi negare che se l’è andata a cercare. Calarsi dalle mura a quel modo...» disse in tono meno rigido. «E la ragazza?» Ian si arrabbiò. «Chissenefrega della ragazza! Io ho una famiglia, Peter: mi sta più a cuore la vita di mia figlia che quella di una sconosciuta.» Peter non replicò. Ian aveva tutte le ragioni di essere arrabbiato. «Certo» disse dopo un po’. «È stata una stupidaggine.» Ian si ammorbidì. «Senti, siamo tutti sconvolti. Mi spiace di aver alzato la voce. Nessuno pensa che sia colpa tua.» Però lo era, pensò Peter. Era colpa sua. Michael aveva trovato la soluzione appena dopo l’alba. 1432 megahertz? Ma certo! Ufficialmente quell’ampiezza di banda non era assegnata, perché in realtà era una frequenza militare. Quel segnale digitale nella gamma delle onde corte che si ripeteva ogni novanta minuti cercava il proprio mainframe. Nel corso della nottata, il segnale era diventato sempre più chiaro. Praticamente era alle porte. La criptazione sarebbe stata la parte più facile. Il trucco stava nel trovare l’handshake, trasmettendo la sola risposta capace di connettere al mainframe l’unità che inviava il segnale, qualsiasi essa fosse e dovunque si trovasse. Una volta fatto questo, sarebbe bastato caricare i dati. Ma cosa cercava quel segnale? Qual era la risposta digitale alla domanda che esso poneva ogni novanta minuti? Prima di andare a letto, Elton aveva detto qualcosa. “Qualcuno ci sta chiamando.” E a quel punto Michael aveva capito. Sapeva di cosa aveva bisogno. Il Faro era pieno di robaccia di ogni tipo, conservata in contenitori allineati sugli scaffali, e ricordava che c’era anche un palmare di quelli in dotazione all’esercito. Doveva esserci anche qualche batteria al litio ancora in grado di mantenere la carica: probabilmente solo per pochi minuti, ma sarebbe stato sufficiente. Si mise al lavoro tenendo d’occhio l’ora, in attesa del segnale successivo. Si era reso vagamente conto che fuori stava succedendo qualcosa, che c’era un insolito baccano, ma non gli interessava appurare cosa fosse: voleva collegare il palmare al computer, captare il segnale in arrivo e l’identificativo in esso contenuto e programmare il palmare dalla console. Elton dormiva e russava sul materasso mezzo sfondato nel retro. Se avesse continuato a non lavarsi, Michael gliene avrebbe dette di tutti i colori: nel Faro c’era una puzza di piedi che faceva vomitare. Finì quello che doveva fare verso metà giorno. Da quanto tempo non si alzava dalla sedia,

indaffarato com’era? Dopo avere parlato con Mausami, era troppo agitato per pensare di andare a dormire ed era tornato lì. Dovevano essere passate dieci ore da allora. Aveva il sedere piatto e un gran bisogno di andare in bagno. Uscì troppo velocemente e rimase abbagliato dalla luce del sole. «Michael?» Era Jacob Curtis, il figlio di Gabe, che gli correva incontro, goffo, sbracciandosi. Michael fece un respiro profondo e cercò di prepararsi: non era colpa sua, povero ragazzo, ma non era facile parlare con lui. Prima di ammalarsi, a volte Gabe lo portava al Faro e chiedeva a Michael di dargli qualcosa da fare per tenerlo occupato. Michael ci si era messo d’impegno, ma Jacob non capiva praticamente niente: per spiegargli i lavoretti più semplici a volte ci metteva un giorno intero. Jacob si fermò davanti a Michael e si piegò, posando le mani sulle ginocchia, per riprendere fiato. Era grande e grosso, ma si muoveva con la goffaggine di un bambino, sempre un po’ scoordinato. «Michael...» ansimò. «Michael...» «Riprenditi, Jacob. Poi me lo dici.» Il ragazzo si agitava una mano davanti alla faccia come per inalare più ossigeno. Michael non capiva se fosse sconvolto o semplicemente eccitato. «Devo... vedere... Sara.» Michael gli disse che Sara non c’era. «Hai provato a casa?» «Non c’è!» Jacob alzò la faccia e Michael notò che aveva gli occhi fuori dalle orbite. «Io l’ho vista, Michael.» «Mi hai appena detto che non l’hai trovata a casa...» «Non lei, l’altra! Dormivo, e l’ho vista!» Jacob era spesso confusionario, ma Michael non l’aveva mai visto così agitato. Sembrava terrorizzato. «Tuo padre come sta, Jacob? Tutto bene?» Il ragazzo si rabbuiò. «Macché: è morto.» «Gabe è morto?» Jacob si esprimeva in un tono troppo piatto, troppo tranquillo: sembrava che parlasse del tempo. «Sì, è morto. Non si sveglierà mai più.» «Porco vampiro, Jacob. Mi dispiace.» In quel momento vide Mar che correva verso di loro e tirò un sospiro di sollievo. «Dove sei stato, Jacob?» La donna si fermò accanto al figlio. «Quante volte te lo devo dire che non devi scapparmi così? Eh?» Il ragazzo indietreggiò gesticolando. «Devo trovare Sara.» «Jacob!» La voce di Mar parve colpirlo come una freccia: Jacob si immobilizzò di colpo, ansante, la faccia

sempre terrorizzata. Mar gli si avvicinò con cautela, come si fa con un animale imprevedibile, pericoloso. «Guardami in faccia, Jacob.» «Mamma...» «Sst. Non dire altro. Guardami.» Gli prese il viso fra le mani e lo fissò negli occhi. «L’ho vista, mamma.» «Lo so, Jacob. Ma era solo un sogno. Non te lo ricordi? Siamo tornati a casa, io ti ho messo a letto e tu ti sei addormentato.» «Davvero?» «Sì, amore mio, dormivi. Hai sognato.» Jacob si stava calmando, placato dal tocco delle mani della madre. «Adesso torni a casa e mi aspetti lì, okay? Non andare a cercare Sara, mi raccomando. Promesso?» «Ma, mamma...» «Niente ma. Promesso?» Jacob annuì, riluttante. «Bravo.» Mar fece un passo indietro. «Va’ a casa, su.» Il ragazzo lanciò un’ultima occhiata a Michael e si allontanò di corsa. Mar si rivolse a Michael. «Funziona sempre quando è agitato» disse con un’alzata di spalle. «È l’unico modo.» «Ho saputo di Gabe. Mi dispiace.» Sembrava che Mar non avesse più lacrime da versare. «Grazie, Michael. Penso che Jacob volesse parlare con Sara perché gli è restata accanto fino alla fine. Si è dimostrata una vera amica. Con tutti noi.» Dopo un attimo di silenzio assunse un’espressione afflitta. Poi però scosse la testa, come scacciando il pensiero che l’aveva rattristata. «Le dici che la pensiamo tanto quando la vedi? Non ho avuto ancora modo di ringraziarla come si deve. Glielo dici tu, per favore?» «Sono sicuro che è qui in giro. Hai provato all’Infermeria?» «Sì, Sara è lì. È il primo posto in cui Jacob è andato a cercarla.» «Non capisco. Se è lì, perché Jacob ha detto che non l’ha trovata?» Mar lo guardò stranita. «Per via della quarantena, no?» «Quarantena?» Mar era sgomenta. «Dove vivi, Michael?»

28 Non fu Alicia ad andarlo a cercare, bensì il contrario: Peter sapeva dove trovarla. Era seduta all’ombra fuori dalla baracca del Colonnello, con la schiena appoggiata alla legnaia e le ginocchia raccolte al petto. Sentendolo arrivare, alzò gli occhi e se li asciugò con il dorso della mano. «Maledizione!» Peter le si sedette accanto. «Non te la prendere. È tutto a posto.» Alicia sospirò amaramente. «Non è vero. Se dici a qualcuno che mi hai visto piangere, ti faccio a fettine.» Rimasero in silenzio per un po’. Il cielo era nuvoloso e la luce era fumosa, pallida. L’aria aveva un odore acre, a causa dei cadaveri dei fumidi che bruciavano fuori dalle mura. «Sai, mi sono sempre chiesto una cosa» disse Peter. «Perché lo chiamavamo il Colonnello?» «Perché si chiamava così. Non aveva altri nomi.» «Come mai è uscito, secondo te? Non sembrava il tipo da arrendersi così.» Alicia non rispose. Gli parlava raramente dei suoi rapporti con il Colonnello, e mai nei particolari. Era una parte della sua vita, forse l’unica, che gli teneva nascosta. Ma Peter sapeva che esisteva, e sapeva anche che Alicia non considerava il Colonnello come un padre: non aveva mai percepito un affetto di quel genere fra i due. Le rare volte che affrontavano il discorso o che il Colonnello si faceva vivo sulla passerella la sera, Alicia si irrigidiva, quasi volesse prendere le distanze. Era una reazione pressoché impercettibile e forse Peter era stato l’unico a notarla. Che il legame fra Alicia e il Colonnello fosse forte, tuttavia, era innegabile. Ed era chiaro che in quel momento Alicia piangeva per lui. «Ci credi?» disse a Peter. «Mi hanno radiato.» «Sanjay ci ripenserà, non è uno stupido. È un errore: se ne accorgeranno.» Alicia non lo ascoltava nemmeno. «Sanjay ha ragione: non sarei dovuta uscire a quel modo. Ho perso la testa quando ho visto la ragazzina là fuori.» Scosse il capo, disperata. «Ed è stato pure inutile: hai visto anche tu in che condizioni è ridotta.» La ragazzina... Peter rifletté che non sapeva niente di lei. Chi era? Come aveva fatto a sopravvivere? Era l’unica o ce n’erano altri come lei? Come aveva fatto a sfuggire ai virali? Se fosse morta, non avrebbero mai avuto risposta a quegli interrogativi. «Ci hai provato, Lish. Io credo che tu abbia fatto la cosa giusta. E anche Caleb.» «Sai che Sanjay sta pensando di espellerlo? Sta pensando di cacciare fuori All Star... Non ci posso credere!» L’espulsione era la cosa peggiore che potesse capitare a un abitante della Colonia. «Non è possibile.» «Te lo giuro, Peter: ne stanno discutendo proprio adesso.»

«Nessuno accetterà mai una simile proposta.» «Da quando in qua è necessario che gli altri accettino? Sei stato anche tu davanti alla commissione, no? La gente ha paura. Bisogna trovare qualcuno a cui dare la colpa della morte della Maestra. Caleb è solo al mondo: è la persona più adatta.» «Senti, io Sanjay lo conosco bene. È superbo, arrogante, ma non credo sia capace di tanto. Caleb è amato da tutti.» «Anche Arlo lo era. Anche tuo fratello. Essere amati non significa che non si possa fare una brutta fine.» «Mi sembra di sentir parlare Theo.» «Mah...» Alicia guardò verso la luce strizzando gli occhi. «Io so solo che Caleb ieri notte mi ha salvato la vita. Se Sanjay vuole cacciarlo fuori dalle mura, dovrà prima vedersela con me.» «Stai attenta, Lish» disse Peter. «Pensaci bene.» «Ci ho già pensato. Non ci sarà espulsione per Caleb.» «Io sono dalla tua parte.» «Non so se ti conviene.» La Colonia era insolitamente silenziosa. Tutti erano scioccati da quello che era successo. Peter si chiese se quel silenzio segnasse la fine o l’inizio di qualcosa, se la vera tragedia fosse già avvenuta o dovesse ancora compiersi. Alicia aveva ragione: avevano tutti paura. «C’è una cosa che avrei dovuto dirti, Alicia» mormorò Peter. «A proposito della ragazza.» La guardina era un vecchio bagno pubblico nel parcheggio delle roulotte, nella parte orientale della Colonia. Quando vi si avvicinarono, Peter e Alicia sentirono alcune voci. Allungarono il passo, avanzando fra le carcasse semidemolite dei vecchi caravan, e si trovarono davanti a una piccola folla: intorno all’unica guardia presente, Dale Levine, c’era una decina di uomini e donne. «Cosa succede?» chiese Peter sottovoce. Alicia fece una faccia scura. «È scoppiato il casino, ecco cosa succede» rispose. Dale non era un uomo minuto, ma in quel momento lo sembrava. Anzi, pareva un animale braccato. Aveva problemi di udito ed era abituato a girare la testa a destra, per puntare meglio l’orecchio buono verso il suo interlocutore, un tic che lo faceva sembrare perennemente distratto. In quel momento non lo era affatto, però. «Scusa, Sam, ma non so niente che tu non sappia già» stava dicendo. Si rivolgeva a Sam Chou, il nipote del Vecchio Chou, un uomo semplice, che Peter aveva sentito parlare solo due o tre volte in vita sua. Era il marito dell’Altra Sandy, con cui aveva fatto cinque figli, tre dei quali erano ancora nel Nido. Peter e Alicia si avvicinarono al gruppetto e Peter capì che era composto da genitori. Come Ian, gli adulti che si erano raccolti davanti alla guardina avevano tutti almeno un figlio: c’erano Patrick ed Emily Phillips, Hodd e Lisa Greenberg, Grace Molyneau, Belle Ramirez e Hannah Fisher Patal.

«Quel ragazzo ha aperto le porte della Colonia!» «E io cosa vuoi che gli faccia? Parlane con tuo zio, piuttosto!» Sam alzò la voce, rivolto verso le finestre della guardina. «Caleb Jones? Mi senti? Sappiamo tutti quello che hai fatto.» «E dài, Sam. Lascialo in pace, povero ragazzo.» Si fece avanti un altro uomo, Milo Darrell. Era un bulldozer, come suo fratello Finn, e da bulldozer si comportava: era taciturno, grande e grosso, alto e un po’ gobbo, con una folta barba e lunghi capelli spettinati che gli cadevano sugli occhi. Alle sue spalle c’era la moglie, Penny, che vicino a lui sembrava una nana. «Hai una figlia anche tu, Dale» disse Milo. «Come puoi stare lì con le mani in mano?» “Una delle tre J” pensò Peter. “La piccola June Levine.” Dale sbiancò. «Mi prendi per scemo?» Stava perdendo autorevolezza. «Guarda che non sto mica con le mani in mano. Ma è la Consulta che deve decidere.» «Quello sciagurato merita l’espulsione!» A parlare era stata Belle Ramirez, moglie di Rey e madre di Jane. Peter notò che le tremavano le mani ed era sul punto di piangere. Sam le si avvicinò e le mise una mano intorno alle spalle. «Vedi, Dale? Vedi cos’ha fatto il ragazzo?» In quel momento Alicia si fece largo tra la gente e, senza guardare né Belle né nessun altro, si avvicinò a Dale, che fissava Belle sgomento. «Dammi la balestra, Dale.» «Non posso, Lish. Jimmy me l’ha vietato.» «Non me ne frega niente. Dammela e basta.» Gliela strappò di mano e si voltò guardando tutti i presenti a uno a uno, con la balestra sul fianco: era una postura volutamente poco minacciosa, ma Alicia era Alicia. «Capisco che siate sconvolti: ne avete tutti i diritti. Ma Caleb Jones è uno di noi.» «Fai presto a dirlo, tu.» Milo era insieme a Sam e a Belle. «È per salvare te che ha aperto la porta.» Nella folla si alzò un brusio. Alicia riservò a Milo un’occhiata gelida e tacque per un momento. «Hai ragione, Milo» replicò poi. «Se non fosse stato per lui, a quest’ora sarei morta. Perciò, se per caso stavate pensando di fargli qualcosa, vi consiglio di rifletterci molto bene prima di agire.» «Perché? Altrimenti che cosa ci fai? Ci infilzi tutti quanti con quella balestra?» la schernì Sam. «No, non tutti quanti» lo corresse Alicia in tono scherzoso. «Solo te. Milo lo infilzo con la lama.»

Alcuni risero, nervosi, ma le risatine si spensero presto. Milo fece un passo indietro. Peter, ancora ai margini della folla, si rese conto di aver posato la mano sull’impugnatura del coltello. Come sarebbe andata a finire? «Stai bluffando» disse Sam guardandola in faccia. «Tu credi? Allora forse non mi conosci.» «La Consulta lo espellerà dalla Colonia. Vedrai.» «È possibile. Non tocca a noi decidere. Perciò tutto questo casino serve solo ad agitare ulteriormente gli animi. Smettetela.» Improvvisamente tutti si zittirono e Peter percepì la loro indecisione. L’atmosfera era cambiata di colpo. A parte Sam, e forse Milo, le persone che erano lì erano non tanto arrabbiate quanto impaurite. «Lish ha ragione, Sam» disse Milo. «Andiamocene a casa.» Sam, con una luce bellicosa negli occhi, continuò a fissare Alicia, che non aveva spostato la balestra di un millimetro: non ce n’era bisogno. Peter, fra i due uomini, continuava a tenere la mano sull’impugnatura del coltello. Tutti gli altri erano indietreggiati. «Per piacere, Sam, tornatene a casa anche tu» disse Dale ritrovando la voce. Milo prese Sam per un braccio per accompagnarlo via, ma lui si ritrasse, nervosissimo. Sembrava che il tocco di Milo lo avesse riscosso da una trance. «Va bene, va bene. Adesso vengo.» Fu solo dopo che i due si furono allontanati che Peter si concesse di tirare un sospiro di sollievo. Senza neppure accorgersene, aveva trattenuto il fiato fino a quel momento. Soltanto un giorno prima non avrebbe creduto che potesse verificarsi una cosa simile, che la paura potesse trasformare quella gente – che lui conosceva bene, brave persone, lavoratori, genitori affettuosi – in una folla inferocita. E Sam Chou... non l’aveva mai visto così arrabbiato. Anzi, per la verità non l’aveva mai visto arrabbiato. «Com’è cominciata, Dale?» chiese Alicia. «E quando?» «Appena hanno portato qui Caleb.» Ora che erano rimasti soli, Dale lasciò trasparire tutto il suo sconforto e la sua paura. Sembrava uno che, dopo essere precipitato da un’altezza inverosimile, scopre di essere miracolosamente incolume. «Porco vampiro, per un attimo ho temuto che sfondassero la porta della guardina. Avreste dovuto sentire le cose che dicevano prima che arrivaste voi.» Udirono la voce di Caleb, da dentro. «Lish? Sei tu, Lish?» «Tieni duro, All Star!» rispose Alicia. Poi si rivolse a Dale. «Va’ a chiamare altre guardie. Non so cosa pensi Jimmy, ma a mio parere qui ce ne vogliono come minimo tre. Restiamo io e Peter finché tu non torni.» «Lish, sai bene che non posso lasciare qui te. Sanjay mi fa a pezzi se lo viene a sapere: non sei nemmeno più nella Guardia.» «Peter sì, però. E comunque da quando in qua prendi ordini da Sanjay?»

«Da stamattina.» Li guardò, sorpreso. «L’ha detto Jimmy. Sanjay ha dichiarato... come si chiama? Lo stato di emergenza civile.» «Sì, lo sappiamo. Questo non significa che sia lui a dare gli ordini, però.» «Parlane con Jimmy. Lui non la pensa così. E neppure Galen.» «Galen? Cosa c’entra Galen?» «Non lo sapete?» Dale li guardò in faccia, prima l’una e poi l’altro. «Già, nessuno vi ha informato. Galen è Capitano in seconda.» «Galen Strauss?» Dale si strinse nelle spalle. «Sembra assurdo anche a me. Jimmy ci ha convocati per dirci che d’ora in poi Galen prenderà il tuo posto e Ian quello di Theo.» «E chi sta al posto di Jimmy, ora che lui è Primo Capitano?» «Ben Chou.» Ben e Ian: sì, aveva un senso. Erano tutti e due in lizza per il posto di Capitano in seconda. Ma Galen? «Dammi la chiave» disse Alicia. «E vai a chiamare altre due guardie. Niente capitani, per favore. Cerca Soo, se puoi, e riferiscile la nostra conversazione.» «Non so chi ci sia ora...» «Davvero, Dale» insistette Alicia. «Vai.» Aprirono la guardina ed entrarono nella cella spoglia, di cemento. I vecchi gabinetti, ormai senza WC, erano allineati lungo una parete. Di fronte passavano dei tubi e sopra c’era un lungo specchio crepato e appannato. Caleb era seduto per terra, sotto le finestre. Gli avevano lasciato una brocca d’acqua e un bugliolo, nient’altro. Lish posò la balestra e gli si accucciò di fronte. «Se ne sono andati?» Alicia annuì. Peter si accorse subito che Caleb era terrorizzato. Sembrava che avesse pianto. «Sto da cani, Lish. Sanjay mi butterà fuori dalla Colonia, sono sicuro.» «No, Caleb. Nessuno ti butterà fuori. Te lo prometto.» Caleb si pulì il naso con il dorso della mano. Aveva la faccia sporchissima e le unghie nere. «Cosa puoi fare tu?» «Non ti preoccupare.» Sfilò una lama dalla cintura. «La sai usare questa?» «Porco vampiro, Lish. Cosa vuoi che faccia con quella lama?» «In caso di necessità, sapresti usarla?» «Non tanto.»

Alicia gliela mise in mano. «Nascondila bene.» «Non mi sembra una buona idea, Lish» intervenne Peter sottovoce. «Non voglio lasciarlo qui disarmato» ribatté lei. Guardò di nuovo Caleb. «Tieni duro e sta’ in campana: se ti si presenta l’occasione di scappare, scappa. Va’ al muro corto e nasconditi. Io ti verrò a cercare.» «Perché proprio al muro corto?» Sentirono un brusio proveniente da fuori. «È troppo lungo da spiegare adesso. Hai capito?» Entrò Dale con una guardia al seguito. Era Sunny Greenberg, una staffetta di soli sedici anni, che faceva parte della Guardia da meno di una stagione. «Uscite subito, per favore» disse Dale. «Non scherzo.» «Tranquillo, adesso ce ne andiamo.» Alicia si alzò e, nel vedere Sunny, si fermò di scatto, furibonda. «Non sei riuscito a trovare di meglio di una staffetta?» «Sono tutti sulle mura, Lish.» Peter pensò che soltanto dodici ore prima Alicia sarebbe riuscita a mettere insieme una squadra come si deve in un batter d’occhio. Adesso, invece, doveva accontentarsi. «E Soo?» chiese Alicia. «L’hai vista?» «Non so dove sia. Sarà sulle mura pure lei.» Dale lanciò un’occhiata a Peter. «La porti fuori, per favore?» Sunny, che fino a quel momento era stata zitta, fece un passo avanti. «Come sarebbe, Dale? Credevo che fosse stato Jimmy a volerti affiancare un’altra guardia. Prendi ordini da lei?» «Lish sta cercando di darci una mano.» «Non è più Capitano, Dale. Non fa nemmeno più parte della Guardia.» Le lanciò un’occhiata veloce e un po’ imbarazzata. «Non ti offendere, Lish.» «Non mi offendo.» Indicò la balestra che la ragazza teneva sul fianco. «Dimmi una cosa: sai tirare?» Sunny rispose con un’alzata di spalle. «Ero la migliore del mio scaglione durante l’addestramento.» «Speriamo bene. Perché, a occhio, direi che sei appena stata promossa.» Si voltò di nuovo verso Caleb. «Ce la farai?» Il ragazzo annuì. «Ricordati quello che ti ho detto. Io resterò nei paraggi.» Dopodiché guardò Dale e Sunny come a dire: “Non fate scemenze, perché non scherzo” e uscì con Peter.

29 Sanjay Patal, Capoconsulta, avrebbe potuto dire che era cominciato tutto molti anni prima. Era cominciato con i sogni. Non della ragazza, no: lei non l’aveva mai sognata. Ne era sicuro. Abbastanza sicuro. La Bambina Venuta dal Nulla – ormai la chiamavano tutti così, compreso il Vecchio Chou, e dalla sera alla mattina quello era diventato il suo nome – era arrivata in mezzo a loro di punto in bianco, come una visione che appare nelle tenebre, fatta di carne e sangue. L’impossibilità della sua esistenza era contraddetta dal fatto che esisteva veramente. Sanjay aveva cercato di fare mente locale, ma non aveva trovato traccia di lei nella sua memoria, né nella parte consapevole né nell’altra, quella dei sogni. Perché la sensazione lo abitava da sempre, da che Sanjay ricordasse. Era strano, come se ci fosse un’altra persona dentro di lui, un’anima separata ma che coesisteva con la sua. Un’anima che aveva un nome e una voce; una voce che cantava dentro di lui: “Sii mio. Io sono tuo e tu sei mio e insieme siamo più grandi della somma delle nostre parti”. Il suo era un sogno ricorrente: lo faceva da quando era piccolo e stava al Nido. Era ambientato in un mondo ormai finito da tempo, una voce che cantava dentro di lui. Era un sogno come tutti gli altri, fatto di suoni, di luci e di sensazioni. C’era una donna grassa che respirava fumo nella propria cucina e ingurgitava cibo ficcandoselo nella bocca enorme e cavernosa; intanto parlava al telefono, un curioso oggetto con un congegno per parlare e uno per ascoltare. Chissà come faceva a sapere cos’era e che si chiamava così. Da quel particolare Sanjay aveva capito che si trattava non di un sogno ma di una visione. Una visione del Tempo di Prima. E la voce dentro di lui cantava il proprio nome misterioso: “Io sono Babcock.” “Io sono Babcock. Noi siamo Babcock.” “Babcock. Babcock. Babcock.” All’inizio Sanjay pensava a Babcock come a un amico immaginario, un gioco in cui uno fa finta di essere un’altra persona. Ma il gioco era senza fine. Babcock era sempre con lui, nella camerata, nel cortile, a pranzo, a cena e anche quando andava a letto. Per tanti aspetti quel sogno non era diverso dagli altri, quelli infantili in cui si fa il bagno, si gioca sugli pneumatici o si guardano gli scoiattoli che rosicchiano nocciole. A volte Sanjay sognava queste cose, altre la donna grassa nel Tempo di Prima, senza un motivo, senza senso. Ricordava che una volta, mentre erano seduti in cerchio nella camerata, la Maestra aveva detto: “Parliamo del significato dell’amicizia”. Avevano appena finito di pranzare e lui era piacevolmente assonnato. Gli altri Piccoli ridevano e scherzavano, ma lui no, lui non era così, lui era ubbidiente. La Maestra aveva battuto le mani perché facessero silenzio e siccome Sanjay era un bravo bambino, l’unico che si comportava come si deve, lei aveva fatto la faccia di chi sta per darti un regalo, il regalo della sua attenzione, e aveva chiesto: “Dicci, Sanjay: chi sono i tuoi amici?”. “Babcock” aveva risposto lui. Lo aveva detto senza pensare, gli era scappato e si era accorto subito che era stato un errore rivelare il nome del suo amico segreto. Era come se, appena l’aveva pronunciato, avesse perso importanza, valore. La Maestra aveva aggrottato la fronte: quella parola non significava nulla per lei. “Babcock?” aveva ripetuto. “Ho sentito bene?” E Sanjay aveva capito che non tutti lo

sapevano, certo che no; come aveva fatto a pensarlo? Babcock era suo, una cosa speciale, personale. Dire il suo nome così, senza riflettere, solo per compiacere, per fare il bravo bambino, era stato un errore. Più che un errore una violazione. Pronunciandolo, aveva reso quel nome meno speciale. “Chi è Babcock, Sanjay?” Nel silenzio terribile che era seguito, in cui tutti i Piccoli avevano smesso di parlare, attentissimi a quella parola sconosciuta, qualcuno aveva riso. Nella sua testa era stato Demo Jaxon, che già all’epoca gli era antipatico. Poi si era messo a ridere anche qualcun altro, poi un altro ancora, e la risata si era propagata a tutto il gruppo, come una fiammella. Demo Jaxon, certo che era stato lui. Anche Sanjay apparteneva a una delle Prime Famiglie, ma il modo in cui Demo si comportava, il suo sorriso facile, spontaneo, la sua capacità di farsi amare sembravano collocarlo in una categoria a parte, quasi fosse il Primo dei Primi, l’unico, il migliore. La cosa che l’aveva fatto soffrire di più, però, era che si fosse messo a ridere anche Raj. Il piccolo Raj, che aveva due anni meno di Sanjay e pertanto avrebbe dovuto portargli rispetto, trattenersi. Era seduto a gambe incrociate alla sua sinistra: se Sanjay era a ore sei e Demo a ore dodici, Raj era a metà mattina. Sotto lo sguardo inorridito di Sanjay, il suo fratellino aveva lanciato un’occhiata a Demo Jaxon, come in cerca di approvazione. “Vedi?” sembrava dicessero gli occhi di Raj. “Anch’io rido di Sanjay!” La Maestra aveva battuto di nuovo le mani per riportare l’ordine nell’aula. Sanjay si era reso conto che, se non avesse posto subito rimedio a quel pasticcio, non ne avrebbe più visto la fine. Le risate dei compagni avrebbero continuato a ronzargli nelle orecchie a tavola, la sera, al buio, nel cortile e ogni volta che la Maestra si fosse distratta un secondo. “Babcock! Babcock! Babcock!” Neanche fosse una parolaccia, un improperio. “Sanjay ha il Babcock piccolo piccolo!” Doveva parlare, e sapeva cosa dire. “Mi dispiace, Maestra. Volevo dire Demo. Demo è mio amico.” Aveva sfoderato il suo sorriso più sincero al bambino seduto di fronte, quello con la testa riccioluta, come tutti i Jaxon, con i denti bianchi come perle e gli occhi inquieti, in perenne movimento. Se ci riusciva Raj, poteva riuscirci anche lui. “Demo Jaxon è il mio migliore amico.” Strano che gli fosse tornato in mente in quel momento, tanti anni dopo che Demo Jaxon era scomparso senza lasciare traccia, come Willem e Raj. La metà dei bambini che quel pomeriggio erano seduti in cerchio adesso non c’era più, morta o ghermita. La maggior parte se n’era andata durante la Notte Nera, altri in circostanze diverse, ognuno a suo tempo. Era come se fossero stati rosicchiati via, mangiucchiati a poco a poco. Così era la vita, così a lui sembrava. Erano trascorsi molti anni – incredibile come passava veloce il tempo – e Babcock era sempre lì, come una voce dentro di lui, urgente anche se sommessa, suo amico quando nessun altro riusciva a esserlo, seppure mai in maniera esprimibile a parole. Babcock era un modo di sentire il mondo. Da quel giorno nel Nido, Sanjay non aveva mai più pronunciato il suo nome. Era vero che, con il passare degli anni, la sensazione di Babcock era cambiata. E anche i sogni. Certo, di tanto in tanto Sanjay sognava ancora la donna grassa del Tempo di Prima. (A ben pensarci, cos’era andato a fare al Faro quella strana notte? Non se lo ricordava più...) Sognava non più il passato, ma il futuro, e il suo posto, il posto di Sanjay, nel tempo a venire. Stava per succedere qualcosa di grande, di importante. Non sapeva di che si trattasse. La Colonia non poteva durare per sempre. Demo su questo aveva ragione e anche Joe Fisher: prima o poi le luci si sarebbero spente. Il tempo stava per scadere, l’esercito non c’era più, non sarebbe mai tornato a salvarli. Qualcuno ci credeva ancora, ma Sanjay Patal no. Quello che stava per arrivare non era l’esercito, no.

Sapeva delle armi, ovviamente. Non era un segreto che ci fossero dei fucili. Non era stato Raj a dirglielo. Sanjay se lo aspettava, ma era rimasto deluso lo stesso nel sapere che Raj aveva scelto Demo e non lui. Raj però lo aveva detto a sua moglie, Mimi, la quale lo aveva detto a Gloria. Mimi era una chiacchierona, non riusciva a tenere un segreto per più di cinque secondi. Era una Ramirez, dopotutto. Una mattina, a colazione, nei giorni successivi alla scomparsa di Demo Jaxon, si era lasciata scappare il segreto e poi aveva raccontato tutta la storia. E aveva concluso dicendo: “Forse tu non avresti dovuto saperlo”. Casse piene di armi, aveva detto Gloria abbassando la voce in tono confidenziale, con l’espressione sincera di un allievo volonteroso. Alla centrale, dietro una finta parete. Fucili nuovi di zecca, che appartenevano all’esercito, che Demo, Raj e gli altri avevano trovato in un bunker. Gli aveva chiesto se era una scoperta importante e se aveva fatto bene a parlargliene. Ma la sua ansia era finta: con la voce diceva una cosa, con gli occhi ne diceva un’altra, ed era quest’ultima la verità. Gloria sapeva benissimo che cosa significavano quei fucili. Lui aveva assentito. “Sì, potrebbe essere importante: meglio che ce lo teniamo per noi. Grazie di avermelo detto, Gloria.” Non si illudeva di essere il solo a sapere. Era andato dritto da Mimi, la mattina stessa, e le aveva spiegato in maniera molto chiara che non doveva parlarne con nessuno. Tuttavia quello era un segreto impossibile da tenere. Zander ne era senz’altro a conoscenza, visto che la centrale era il suo regno. Ma probabilmente lo sapeva anche il Vecchio Chou, perché a lui Demo Jaxon diceva tutto. Sanjay pensava che Soo ne fosse all’oscuro, come Jimmy e Dana, la figlia di Willem. Li aveva sondati in maniera molto cauta e aveva avuto l’impressione che non fossero al corrente di nulla. Però di certo altri – per esempio, Theo Jaxon – sapevano. A chi potevano averlo detto? A chi era stato confidato, sottovoce, come aveva fatto con lui Gloria quella mattina a colazione? “Ho un segreto da raccontarti.” Dunque il problema era non che venisse fuori che c’erano dei fucili, ma quando e in quali circostanze. Anche le alleanze erano importanti, come Sanjay aveva scoperto quel pomeriggio al Nido. Era per quello che Sanjay aveva voluto estromettere Mausami dalla Guardia: affinché stesse lontana da Theo Jaxon. Sanjay sapeva da quando Mausami era nata che era lei la causa di tutto. Talvolta, anche recentemente, Sanjay si rammaricava di non aver avuto un maschio, intuendo che gli avrebbe dato un senso di completezza. Ma Gloria purtroppo non poteva avere altri figli: c’erano stati i soliti falsi allarmi e aborti spontanei, e ormai il ciclo si era fermato. Mausami era nata dopo una gravidanza che era sembrata disastrosa come tutte le altre, visto che Gloria aveva avuto perdite per tutti i nove mesi, e dopo un travaglio durato due giorni, che a Sanjay, costretto a sentire i lamenti della moglie fuori dall’Infermeria, era parso impossibile da sopportare. Ma alla fine Gloria c’era riuscita. Per ironia della sorte, era stata Prudence Jaxon a portargli la neonata perché lui la prendesse in braccio, dopo aver passato ore con la testa fra le mani ad aspettare e ad ascoltare le grida della partoriente. A quel punto Sanjay era convinto che Gloria sarebbe morta e la bambina anche, e che lui sarebbe rimasto da solo. Quando Prudence Jaxon gli aveva porto quel fagotto, era rimasto confuso e per un attimo aveva temuto che volesse mostrargli il cadaverino. “È una bambina” aveva detto invece Prudence. “Sana come un pesce.” Sanjay aveva stentato a crederci, aveva fatto fatica a collegare quelle parole con l’esserino che teneva fra le braccia. “Hai una figlia, Sanjay.” E quando aveva scostato la copertina e l’aveva guardata in faccia, si era meravigliato del fatto che fosse un essere umano dotato di una bocca, di capelli scuri, di occhi un po’ sporgenti e tenerissimi, e aveva capito che quello che provava, per la prima e unica volta nella sua vita, era amore.

Aveva rischiato di perderla. Che amara ironia che Mausami fosse attratta proprio da Theo Jaxon, figlio tanto simile al padre. Lei aveva cercato di tenerglielo nascosto, sia a lui sia a Gloria, per proteggerli, ma Sanjay se n’era accorto benissimo. Perciò aveva tirato un sospiro di sollievo quando la moglie gli aveva dato la bella notizia: benché lui fosse convinto che la figlia volesse appaiarsi con Theo, Mausami stava per sposare Galen Strauss. Sanjay non avrebbe scelto Galen Strauss per la figlia, tutt’altro: avrebbe preferito un uomo più robusto, come Hollis Wilson o Ben Chou. Ma almeno non era Theo Jaxon. Non era un Jaxon, l’importante era questo. E poi si vedeva chiaramente che Galen voleva bene a Mausami. Se alla base di quella storia d’amore c’era una certa debolezza, se non addirittura una certa disperazione, Sanjay avrebbe fatto buon viso a cattivo gioco: in fondo, era meglio così. Sanjay rimuginava su tutto questo mentre, in piedi nell’Infermeria a metà giorno, osservava la Bambina Venuta dal Nulla. Era come se in quella persona dall’esistenza impossibile, in quel mistero in carne e ossa, fossero intrecciate ciocche della sua vita: Mausami, Babcock, Gloria, i fucili e tutto il resto. Pareva immersa in una specie di sonno. Sanjay aveva mandato Sara e Jimmy nell’anticamera; fuori dalla porta c’erano Ben e Galen di guardia. Perché lo aveva fatto? Non lo sapeva esattamente. Una parte di lui voleva studiare la ragazzina da solo. Era ferita gravemente e, stando a quel che gli aveva detto Sara, non sarebbe sopravvissuta. Eppure, nel vederla lì distesa immobile e con gli occhi chiusi, senza traccia di fatica o sofferenza sul viso, il respiro regolarissimo, Sanjay ebbe l’impressione che fosse molto più forte e robusta di quanto sembrava. Una ferita come quella, una freccia della Guardia conficcata nella spalla, avrebbe ucciso un uomo fatto, figurarsi una ragazzina della sua età. Quanti anni poteva avere, a proposito? Sedici? Tredici? Di più o di meno? Sara aveva fatto del proprio meglio per ripulirla e le aveva messo un leggero camice di cotone che dopo anni di lavaggi da bianco era diventato di un grigio invernale. Le aveva infilato solo la manica destra e lasciato la sinistra penzoloni: faceva impressione, quasi la ragazza avesse tre braccia. Sara non gliel’aveva abbottonato e, sotto, si vedevano le spesse bende di lana che le fasciavano il petto e la spalla, fino alla base del collo, pallidissimo. Il corpo non era ancora quello di una donna: aveva fianchi e seno piatti, da bambina, e le gambe, che spuntavano dall’orlo sdrucito del camice, erano magre, con le ginocchia ossute da adolescente. Era sorprendente che su queste ultime non ci fosse nemmeno un segno, una cicatrice di qualche capitombolo fatto durante l’infanzia: una caduta dall’altalena, una sbucciatura giocando in cortile. Mentre le guardava le ginocchia, le braccia e infine la faccia, spostando gli occhi dal basso verso l’alto per osservarla tutta, Sanjay rimase sorpreso dalla sua pelle. Non era né bianca né pallida. Quei due aggettivi non catturavano la strana radiosità della carnagione, un candore che non era tanto assenza di colorito, quanto qualcosa di assolutamente puro. Sì, decise Sanjay, quella pelle esprimeva purezza. C’era un’ombra di rosato dove il sole l’aveva toccata, sulle mani, sulle braccia e sul viso, e una spruzzata di lentiggini sulle guance e sul naso. Lo commuoveva, risvegliava in lui un istinto paterno che credeva sepolto: Mausami, da piccola, aveva le stesse lentiggini. Lo zaino sporco di sangue e i vestiti con cui era arrivata erano stati bruciati, ma prima i membri della Consulta, con spessi guanti protettivi, ne avevano esaminato il contenuto. Sanjay non sapeva cosa si aspettava di trovare in quello zainetto di tela verde, forse militare, ma di certo non ciò che di fatto c’era. Alcuni oggetti, ne avevano convenuto tutti, erano utili: un coltellino, un apriscatole, un rotolo di spago. Altri, però, sembravano avere significati del tutto insondabili: un sassolino sorprendentemente tondeggiante, un osso sbiancato dal sole, una catenina con un ciondolo che si apriva, vuoto, un libro dal titolo misterioso, Canto di Natale di Charles Dickens,

edizione illustrata. La freccia lo aveva trapassato come se fosse un bersaglio e le pagine erano intrise di sangue. Il Vecchio Chou ricordava che il Natale era un momento di aggregazione nel Tempo di Prima, un po’ come la Prima Notte, ma in realtà nessuno sapeva con certezza cosa fosse. Solo la ragazzina poteva raccontare la propria storia. Quella Bambina Venuta dal Nulla, chiusa in una bolla di silenzio. Il significato della sua apparizione era ovvio: c’erano altri sopravvissuti. Chiunque fossero e ovunque si trovassero, costoro avevano mandato allo sbaraglio una ragazzina indifesa, che chissà come era riuscita a giungere fino a loro. Avrebbe dovuto essere una bella notizia, pensò Sanjay, un motivo di festa e di allegria; invece il suo arrivo era stato seguito da un silenzio pieno di ansia e di angoscia. Nessuno aveva esclamato: “Evviva! Non siamo soli! Ecco cosa significa: non tutti sono morti nel mondo”. Secondo lui era a causa della Maestra. Non solo per il fatto che era morta, ma anche per quello che diceva ai Piccoli il giorno in cui uscivano dal Nido. Quasi tutti, ripensando a quel momento, quando raccontavano il proprio ingresso nel mondo, la buttavano in ridere. “Non mi capacito di quante storie ho fatto!” dicevano. “Avreste dovuto vedere quanto ho pianto!” Come se non parlassero di se stessi, innocenti creature da comprendere e compatire, ma di altri, lontani, un po’ ridicoli. Ed era vero: una volta che sapevi che la morte imperversava nel mondo, il bambino che eri stato non ti apparteneva più. Vedere il dolore dipinto sul viso di Mausami, il giorno in cui era uscita dal Nido, per Sanjay era stata una delle esperienze peggiori di tutta la sua vita. Molti non riuscivano a farsene una ragione e finivano per arrendersi, ma la maggior parte teneva duro e andava avanti, trovava il modo per mettere da una parte le speranze, chiuderle in qualche angolo e compiere il proprio dovere. Sanjay aveva fatto così, e lo stesso Gloria e Mausami. Non c’era altro modo. Adesso, però, era arrivata questa sconosciuta e tutto quello che avevano dato per scontato fino a quel momento cominciava a vacillare. Perché la comparsa nel cuore della notte di una ragazzina indifesa era inquietante come una nevicata in piena estate. Sanjay lo aveva letto negli sguardi degli altri, il Vecchio Chou, Walter Fisher, Soo, Jimmy e tutti quanti. C’era qualcosa di fondamentalmente sbagliato, di insensato. La speranza portava dolore e sofferenza e quella ragazza era la speranza personificata. Una speranza penosa. Si schiarì la voce. Da quanto tempo era lì fermo in piedi a guardarla? «Svegliati» disse. Nessuna risposta. Tuttavia gli parve di scorgere un fremito dietro le palpebre, un involontario segno di coscienza. Riprovò, a voce più alta. «Se mi senti, svegliati.» Un movimento alle sue spalle lo interruppe. Erano entrati Sara e Jimmy. «Per favore, Sanjay, lasciala riposare.» «Questa ragazza è nostra prigioniera, Sara. Dobbiamo farci dire delle cose.» «Non è una prigioniera. È una paziente!» Sanjay guardò la ragazza. «A me non sembra affatto in fin di vita.» «Non si può dire. È un miracolo che sia ancora viva, con tutto il sangue che ha perso. Adesso, per piacere, vattene. Non riesco a tenere pulita l’Infermeria con tutto questo andirivieni.»

Sanjay si accorse che Sara era molto stanca: aveva i capelli sporchi e scarmigliati e gli occhi gonfi. Era stata una nottataccia per tutti e stavano vivendo una giornata lunga e faticosa. Tuttavia nello sguardo dell’infermiera c’era l’autorevolezza di sempre: quello era il suo regno, dettava lei le regole. «Avvertimi, appena si sveglia.» «Sì, certo. Te l’ho già detto.» Sanjay si voltò verso Jimmy, che era accanto alla tenda. «Va bene. Andiamo.» Ma Jimmy non reagì. Stava guardando la ragazzina con gli occhi sgranati. «Jimmy?» L’uomo si riscosse dalla trance. «Cos’hai detto?» «Ho detto andiamo. Lasciamo che Sara faccia il suo lavoro.» Jimmy scosse la testa, distratto. «Scusate. Per un attimo ero in un altro mondo.» «Dovresti farti una bella dormita» consigliò Sara. «Anche tu, Sanjay.» Uscirono e ritrovarono Ben e Galen di guardia davanti alla porta. Fino a poco prima c’era stato un viavai di persone che volevano vedere la Pellegrina, ma loro due avevano mandato via tutti. Ormai era metà giorno e in giro non c’era quasi nessuno. Sanjay notò una squadra di bulldozer, con mascherine e scarponi pesanti, diretti al Nido per lavare nuovamente la camerata. «Non so di che si tratti, ma quella ragazzina ha qualcosa di strano...» disse Jimmy. «Avete notato gli occhi?» Sanjay ebbe un moto di paura. «Li aveva chiusi, Jimmy.» Jimmy fissava per terra, come se cercasse qualcosa che gli era caduto. «Sì, è vero, forse hai ragione. Ma allora perché avevo l’impressione che mi guardasse?» Sanjay non rispose: era una domanda insensata. Tuttavia c’era un fondo di verità in quelle parole. Anche lui si era sentito osservato dalla ragazzina. Guardò gli altri due. «Voi ci capite qualcosa?» Ben fece spallucce. «Io no. Forse quella ragazzina ha un debole per te, Jimmy.» Jimmy si voltò di scatto con un’espressione terrorizzata e la fronte imperlata di sudore. «Non scherzare! Va’ là dentro e capirai che cosa intendo. È stranissimo, fidati.» Ben lanciò una rapida occhiata a Galen, che scrollò le spalle. «Porco vampiro, quanto te la prendi!» disse poi. «Era solo una battuta...» «Non c’è niente da ridere, maledizione. E tu perché fai quella faccia, Galen?» «Io? Ma se non ho aperto bocca...» Sanjay stava perdendo la pazienza. «Basta così, voi tre. Jimmy, là dentro non entra più nessuno. Chiaro?»

Jimmy annuì, mortificato. «Come vuoi, Sanjay.» «Davvero. E quando dico nessuno, intendo nessuno.» Guardò Jimmy negli occhi. Non era Soo Ramirez e neanche Alicia Donadio: perché aveva scelto proprio lui? «Cosa facciamo di All Star?» domandò Jimmy. «Non vogliamo espellerlo sul serio, dico bene?» Sanjay era sconfortato; in quel momento non aveva nessuna voglia di pensare a Caleb Jones. Nelle prime ore della crisi quel ragazzo era servito a dare alla gente qualcuno con cui prendersela, un bersaglio contro il quale sfogare la rabbia. Ma con il passare delle ore l’idea di espellerlo sembrava sempre più terribile, un gesto di crudeltà gratuita di cui tutti si sarebbero pentiti, prima o poi. Peraltro Caleb Jones era stato molto coraggioso: quando gli avevano letto i capi d’accusa, era rimasto in piedi davanti alla Consulta, prendendosi tutte le colpe senza batter ciglio. A volte il coraggio si nasconde nei luoghi più impensati, pensò Sanjay: nel caso specifico, nell’addetto ai Lavori Pesanti Caleb Jones. «Teniamolo in guardina ancora un po’.» «E Sam Chou?» «Cosa c’entra Sam Chou?» Jimmy ebbe un attimo di esitazione. «La gente parla, Sanjay. Sam, Milo e tanti altri lo vogliono sbattere fuori.» «E tu come lo sai?» «Me l’ha detto Galen.» «L’ho sentito in giro» si giustificò Galen. «Cioè, per la verità me ne ha parlato Kip. Era a casa dei suoi e ha sentito che ne discutevano.» Kip era una staffetta ed era il figlio maggiore di Milo. «Discutevano di cosa?» Galen si strinse nelle spalle, esitante, come per prendere le distanze da quello che stava per raccontare. «Del fatto che, se non lo caccerete fuori dalle mura voi, lo farà Sam con le sue stesse mani.» Sanjay pensò che avrebbe dovuto prevederlo. Ci mancava solo che la gente cominciasse a prendere iniziative personali. Sam Chou però gli sembrava troppo mite per dire una cosa del genere. Non era nel suo carattere. Si occupava delle serre, come da sempre i Chou, e curava con amore piantine di piselli, carote e insalatina. Forse era merito di tutti i figli che aveva messo al mondo. Sembrava che un giorno sì e uno no Sam festeggiasse l’arrivo di un nuovo pargolo, o l’ennesima gravidanza dell’Altra Sandy. «Ben, è tuo cugino. Non ne sai niente?» «Sono stato qua tutta la mattina. Chi potrebbe avermelo detto?» Sanjay ordinò di raddoppiare la sorveglianza a Caleb Jones e si incamminò. Il silenzio aveva qualcosa di inquietante, di sinistro. Persino gli uccelli parevano essersi improvvisamente zittiti. Gli tornò in mente la sensazione di essere osservato che aveva provato davanti alla ragazza, come se dietro il suo bel faccino – perché aveva davvero un bel faccino, che ispirava tenerezza e

lo faceva ripensare a Mausami da piccola, quando si arrampicava sul suo letto nella camerata e aspettava che lui le desse il bacio della buonanotte – e dietro le palpebre chiuse, la sua mente e i suoi occhi scandagliassero la stanza per cercarlo. Jimmy aveva ragione: quella ragazza aveva qualcosa di strano. Ed era proprio lo sguardo. «Sanjay?» Si rese conto di essersi distratto lasciandosi trascinare dalla corrente dei suoi pensieri. Si voltò e vide che Jimmy era in cima alla scala e lo scrutava con gli occhi socchiusi e un’espressione un po’ impaziente, come se si aspettasse qualcosa da lui. «Cosa c’è?» chiese Sanjay. Jimmy aprì la bocca, ma non ne uscì una sillaba, come se parlare gli costasse uno sforzo eccessivo. «No, niente» disse infine distogliendo lo sguardo. «Ha ragione Sara. Sarà meglio che mi riposi un po’.»

30 Un giorno di molti anni dopo Peter avrebbe ricordato gli eventi precedenti e successivi all’arrivo della ragazza come una sorta di balletto: persone che si avvicinavano e poi si allontanavano, proiettate brevemente in orbite più vaste per poi tornare al punto di partenza, mosse da qualche potere sconosciuto, da forze pacifiche e inevitabili come la gravità. Quando era arrivato nell’Infermeria la notte prima e aveva visto la ragazza in un lago di sangue, con Sara che cercava disperatamente di chiudere la ferita e Caleb che premeva compresse di lana per arrestare l’emorragia, non aveva provato né orrore né sorpresa. L’aveva riconosciuta subito: era la ragazza della giostra, quella che l’aveva condotto nel corridoio buio per mostrargli la via di fuga, quella che prima di chiudere la porta gli aveva dato un bacio sulla guancia. Quel bacio... Nelle lunghe ore trascorse sulla passerella ad attendere Theo, Peter ci aveva pensato e ripensato, chiedendosi cosa volesse dire, che tipo di bacio fosse. Non era stato come il bacio di Sara, la sera sotto le luci, ma non poteva definirlo amichevole e neppure casto e innocente come quello di un bambino. Tuttavia aveva qualcosa di fanciullesco: era stato rapido, furtivo, imbarazzato; era finito quasi prima ancora di cominciare, seguito dall’improvviso voltafaccia della ragazza, che era corsa indietro nel corridoio senza dargli nemmeno la possibilità di dirle “ciao” e gli aveva chiuso la porta sul naso. Solo entrando nell’Infermeria e vedendola lì distesa sul letto, Peter aveva capito cos’era stato quel bacio: una promessa. Una promessa chiara come le parole di una ragazza che non aveva parole. Un bacio che voleva dire: “Ti verrò a cercare”. Ora, nascosti dietro i cespugli di ginepro ai piedi del Nido, Alicia e Peter osservarono Sanjay che andava via. Jimmy lo seguì un momento dopo. C’era qualcosa di inconsueto nei suoi movimenti, pensò Peter, una sorta di disorientamento, di indeterminatezza, come se non sapesse bene dove andare o cosa fare. Di guardia, all’ombra della veranda, rimasero soltanto Ben e Galen. Alicia scosse la testa. «Non credo che riusciremo a convincerli a lasciarci entrare.» «Vieni» disse Peter. La condusse sul retro, lungo il viottolo che dall’Infermeria portava alle serre. La porta posteriore dell’edificio e tutte le finestre erano murate, ma al di là di una pila di cassette vuote c’era uno sportello di metallo da cui si accedeva al pozzo di un montacarichi che scendeva nel seminterrato. A volte, quando sua madre lavorava di notte e Peter era ancora abbastanza piccolo da divertirsi a fare quel genere di cose, gli lasciava usare il pozzo come scivolo. Aprì lo sportello. «Prego, signorina.» La sentì scivolare nel condotto di metallo. «Via libera» disse Alicia da sotto. Peter si aggrappò ai bordi dell’imboccatura e scivolò dentro anche lui, avendo l’accortezza di richiudere lo sportello. L’oscurità lo inghiottì: quando era bambino faceva parte del gioco. Mollò la presa e dopo pochissimo si ritrovò ad atterrare sui piedi. La stanza era come la ricordava, gremita di casse e macchinari. Sulla destra c’era una cella frigorifera piena di vasetti di vetro e al centro un grande tavolo con una bilancia, mozziconi di candela e apparecchiature varie. Alicia era in piedi in fondo alle scale che conducevano nell’anticamera dell’Infermeria, con la testa protesa verso il fascio di luce che filtrava da sopra. Dalla veranda l’anticamera era visibilissima: attraversarla sarebbe stato il momento più delicato.

Peter salì per primo. Quando fu quasi in cima, sbirciò per controllare la situazione, ma da quell’angolazione non riuscì a vedere bene. Sentì due voci maschili, però. Gli parve che i due fossero voltati dall’altra parte. Si girò verso Alicia, le mostrò a segni che cosa intendeva fare, percorse gli ultimi scalini, attraversò furtivo l’anticamera e si infilò nel corridoio che portava alla corsia. La ragazza era seduta sul letto, sveglia. Peter se ne accorse immediatamente. Non aveva più la camiciola sporca di sangue, ma un camice leggero e semitrasparente sotto cui si vedeva la spessa fasciatura. Sara, seduta sul bordo del letto, guardava dall’altra parte e le teneva il polso. La ragazza alzò gli occhi e incontrò il suo sguardo. Presa dal panico, ritrasse la mano e si rannicchiò sul letto. Sara si voltò di scatto. «Porco vampiro!» esclamò in un sussurro rauco, tesissima. «Peter, come hai fatto a entrare?» «Dal seminterrato.» La voce che le rispose non era quella di Peter, ma proveniva da dietro le sue spalle. Era Alicia. La ragazzina si era raggomitolata su se stessa, le ginocchia strette contro il petto, il camice tirato fino a coprire i piedi, le mani sulle caviglie. «Cos’è successo?» domandò Alicia. «Poche ore fa aveva una spalla completamente distrutta!» Sara si rilassò soltanto in quel momento. Sospirò e si lasciò cadere su uno dei letti vicini. «Tanto vale che ve lo dica. A quanto vedo, sembra perfettamente guarita. La ferita si è rimarginata quasi del tutto.» «Com’è possibile?» Sara scosse la testa. «Non me lo spiego. Credo che lei non voglia che lo sappia nessuno, però. Sanjay era qui fino a pochi minuti fa con Jimmy. Appena arriva qualcuno, lei finge di dormire.» Si strinse nelle spalle. «Forse a voi parlerà. Con me non ha detto una parola.» Peter aveva sentito quei discorsi come se si svolgessero in un’altra stanza. Si era avvicinato al letto della ragazza, la quale lo guardava con diffidenza da sopra le ginocchia, con i capelli sugli occhi. Gli sembrava di muoversi in presenza di un animale imprevedibile. Si sedette sul bordo del materasso e la guardò in faccia. «Peter, che cosa fai?» chiese Sara. «Mi hai seguito, vero?» La ragazza fece un impercettibile cenno di assenso. “Sì, ti ho seguito.” Peter alzò la faccia. Sara, ai piedi del letto, lo fissava sbalordita. «Mi ha salvato» spiegò lui. «Nel centro commerciale, quando siamo stati attaccati dai virali, lei mi ha protetto.» Rivolse di nuovo gli occhi verso la ragazza. «Non è vero? Mi hai protetto, li hai mandati via.» “Sì, li ho mandati via.” «Tu la conosci?» disse Sara. Peter ebbe un attimo di esitazione e cercò di riassemblare i pezzi della storia nella sua testa. «Ci siamo nascosti sotto una giostra. I virali avevano già portato via Theo e a quel punto

inseguivano me. Io ero convinto di essere spacciato, invece... lei si è sdraiata sopra di me.» «Si è sdraiata sopra di te.» Peter annuì. «Sì, sulla mia schiena. Mi ha fatto da scudo. Mi rendo conto che è incredibile, ma è andata proprio così. E dopo un po’ i fumidi se ne sono andati. Allora lei mi ha preso per mano e mi ha accompagnato lungo un corridoio fino alle scale che portavano sul tetto. E così mi sono salvato.» Sara rimase in silenzio. «So che sembra una stranezza, ma...» «Perché non l’hai raccontato a nessuno, Peter?» Lui si trovò in difficoltà. Non sapeva come difendersi. «Lo so, avrei dovuto. Non ero nemmeno sicuro che fosse successo veramente, però. E, non avendolo raccontato subito, poi era sempre più difficile parlarne.» «E se Sanjay lo scopre?» La ragazza aveva sollevato di pochissimo la faccia e sembrava studiare Peter da dietro le ginocchia, scrutandolo con uno sguardo pieno di saggezza. La sensazione di essere in presenza di una bestiola in difficoltà permaneva, forse per il modo in cui la ragazzina si muoveva, per le posizioni che adottava. Ma da quando erano entrati Peter e Alicia, la tensione si era nettamente allentata. «Non lo scoprirà» replicò Peter. «Oh, mio Dio!» esclamò una voce alle loro spalle. «Allora è vero...» Si voltarono e videro Michael. Aveva appena superato la tenda. «Come hai fatto a entrare, Circuito?» sibilò Alicia. «Parla piano!» «Come voi. Vi ho visto nel viottolo e vi ho seguiti.» Si avvicinò guardingo al letto e osservò la ragazzina. Aveva qualcosa in mano. «Chi è?» «Non lo sappiamo» rispose Sara. «È una Pellegrina.» Michael non replicò e rimase impassibile, ma Peter capì che stava facendo un rapido calcolo e vide che guardava perplesso l’oggetto che stringeva in mano. «Cazzo, cazzo, cazzo! È proprio come diceva Elton...» «Di cosa parli?» «Del segnale. Il segnale fantasma.» Fece loro cenno di stare zitti. «No, aspettate. Non ci posso credere! Siete pronti?» Si illuminò e fece un sorriso trionfante. «Eccolo che arriva.» Il dispositivo che aveva in mano emise un suono. «Cosa caspita è, Circuito?» domandò Alicia. Michael lo sollevò perché tutti potessero vederlo: era un palmare. «Ero venuto per parlarvi proprio di questo. La Pellegrina ci stava chiamando. Questa ragazza ci stava chiamando.»

Il trasmettitore doveva essere addosso a lei, Michael ne era sicuro. Non sapeva come fosse fatto, solo che doveva essere abbastanza grande da contenere un dispositivo di alimentazione. Zaino e abiti erano stati bruciati, quindi il segnale proveniva dalla ragazza medesima, non da qualcosa che si portava appresso. Sara si sedette accanto a lei e le spiegò che cosa intendeva fare. La pregò di stare ferma e poi le passò le mani su tutto il corpo, dai piedi alle gambe, alle braccia e al collo. Appena ebbe finito, si alzò, andò dietro la sua schiena e le tastò il cuoio capelluto. La ragazza la lasciò fare, senza protestare e anzi sollevando braccia e gambe quando Sara glielo chiedeva, guardandosi intorno con curiosità neutrale, come se non riuscisse a interpretare ciò che stava succedendo. «Se lo ha addosso, è ben nascosto» disse Sara scostandole una ciocca di capelli dal volto. «Sei sicuro, Michael?» «Sicurissimo. Se non lo ha addosso, lo ha dentro.» «Dentro?» «Sottopelle. Controlla se ha qualche cicatrice.» Sara ci rifletté su un momento. «Non qui, davanti a tutti. Peter e Michael, voltatevi dall’altra parte. Tu, invece, Lish, vieni qui. Potrei aver bisogno di aiuto.» Peter andò a sbirciare dietro la tenda. Ben e Galen erano ancora davanti alla porta, voltati dalla parte opposta. Peter si chiese fino a quando sarebbero rimasti. Presto sarebbe arrivato qualcuno a dargli il cambio. Sanjay, il Vecchio Chou, oppure Jimmy. «Okay, adesso potete girarvi.» La ragazza era seduta sul bordo del letto con la testa piegata in avanti. «Michael, avevi ragione: non ho dovuto nemmeno cercare tanto.» Le sollevò i capelli arruffati e indicò la cicatrice chiara, lunga un paio di centimetri, alla base del collo. Si vedeva anche un piccolo rigonfiamento, dove doveva essere il corpo estraneo, il trasmettitore. «Se tasti, senti i bordi.» Premette le dita sul collo della ragazza per darne una dimostrazione. «Dovrebbe venir via senza problemi.» «Non le farai male?» domandò Peter. «Sarò velocissima. Dopo quello che ha passato la notte scorsa, non sarà niente. Un po’ come togliere una spina dal polpastrello.» Peter si sedette sul letto e parlò alla ragazza. «Sara adesso ti toglierà una specie di radio che hai sottopelle. Okay?» Le lesse negli occhi un lampo di apprensione. Poi, però, fece cenno di sì con la testa. «Fa’ attenzione» raccomandò Peter. Sara andò a prendere nell’armadietto una bacinella, un bisturi e un flacone di alcol. Ne versò un po’ su un telo e disinfettò la pelle intorno alla cicatrice. Poi si posizionò dietro la ragazza, le scostò i capelli e impugnò il bisturi. «Sentirai bruciare un pochino.» Passò la lama lungo la linea della cicatrice. Se le fece male, la ragazza non lo diede a vedere. Apparve una gocciolina di sangue, che le scivolò lungo la schiena, sparendo sotto il camice. Sara

tamponò la ferita con il telo e indicò con un cenno del capo la bacinella. «Mi passate le pinzette, per favore? Senza toccare la punta.» Alicia le diede le pinzette e Sara le introdusse nel taglio che aveva appena praticato. Peter era talmente concentrato che gli pareva di avere lui stesso le pinzette in mano. Sara tirò fuori lentamente un oggetto scuro e lo posò sopra il telo. Poi lo sollevò in maniera che Michael lo potesse vedere. «È questo che cercavi?» Era un dischetto oblungo, di metallo lucente, con alcuni fili sottili come capelli. A Peter fece venire in mente un ragno schiacciato. «E quella sarebbe una radio?» domandò Alicia. Michael aggrottò la fronte, preoccupato. «Non ne sono sicuro» ammise. «Non ne sei sicuro? Com’è che fa suonare quel coso che hai in mano e non sai cos’è?» Michael pulì il dischetto con un telo e lo osservò alla luce. «Be’, è un trasmettitore. Ecco il perché di questi fili.» «Come mai lo aveva addosso?» chiese Alicia. «Chi glielo ha messo?» «Proviamo a chiederlo a lei» propose Michael. Ma quando glielo mise davanti agli occhi, steso sul telo insanguinato, la ragazza ebbe una reazione di sorpresa. Evidentemente non sapeva niente di più di quanto sapessero loro. «Pensi che glielo abbiano messo quelli dell’esercito?» domandò Peter. «È possibile» ripose Michael. «Trasmetteva su una frequenza militare.» «Ma a vederlo non sapresti dire.» «Peter, non ho neanche idea di cosa trasmette. Per quel che ne so io, recita l’alfabeto.» Alicia fece una faccia stupita. «Perché dovrebbe recitare l’alfabeto?» Michael lasciò perdere e guardò Peter. «Non posso dirti altro. Per saperne di più, dobbiamo aprirlo.» «Apriamolo, allora» replicò Peter.

31 Sanjay Patal era uscito dall’Infermeria con l’intento di andare a cercare il Vecchio Chou. Bisognava parlare, prendere delle decisioni. Riguardo a Sam e Milo, per cominciare – una grana che Sanjay non aveva preventivato –, e poi a Caleb e alla ragazza. La ragazza. C’era qualcosa nei suoi occhi che... Allontanandosi dall’Infermeria fu colto da un inaspettato senso di pesantezza. Era abbastanza normale, visto che era pomeriggio, lui era stato alzato quasi tutta la notte e aveva avuto una mattinata faticosa, con tante preoccupazioni, tante cose da dire, tanti pensieri. Spesso la gente prendeva in giro i membri della Consulta, diceva che non facevano un lavoro vero, come quelli della Guardia, dei Lavori Pesanti o dell’Agricoltura. Theo Jaxon l’aveva soprannominata il “comitato parolai” e quel nomignolo crudele era rimasto. Ma la gente non sapeva neanche metà della vera storia, non si rendeva conto delle responsabilità. Erano pesanti, un fardello che ti portavi sempre appresso e di cui non potevi sgravarti mai. Sanjay non era più giovane, aveva quarantacinque anni, ma mentre camminava lungo la strada ghiaiosa si sentì ancora più vecchio. A quell’ora il Vecchio Chou doveva essere nell’apiario. Se anche le porte della Colonia erano chiuse, alle api non importava un fico secco. Il pensiero di camminare fin laggiù, sotto il sole caldo di metà giornata, e la prospettiva di incontrare qualcuno e dovergli parlare per forza gli annebbiò la testa come una foschia grigia, riempiendolo di un’improvvisa stanchezza. Decise lì per lì che doveva riposarsi, che il Vecchio Chou poteva aspettare. E quasi senza rendersene conto si ritrovò a camminare verso casa, lungo la valletta ombrosa, e poi a varcarne la soglia (tese le orecchie per sentire se c’era Gloria, ma non udì nulla), salire le scale e sdraiarsi sul letto. Era stanco, stanchissimo. Non ricordava neppure più da quanto tempo non si concedeva un pisolino durante il giorno. Si addormentò subito. Quando si svegliò, aveva uno schifoso sapore acido in bocca e gli fischiavano le orecchie. Non gli sembrava tanto di essersi destato dal sonno, quanto di essere stato proiettato fuori da un sogno e di avere la testa vuota. Rimase lì, fermo, ad assaporare le sensazioni, a galleggiarci sopra. Si rese conto di avere udito delle voci provenienti da sotto, quella di Gloria e una dal tono più profondo, maschile. Pensò che potesse essere Jimmy, Ian o Galen, ma mentre rimaneva lì ad ascoltare il tempo trascorse e le voci si spensero. Quanto era bello starsene a poltrire. Bello e un po’ strano, perché sapeva che a quell’ora avrebbe dovuto essere in piedi da un pezzo: stava calando il sole, lo vedeva dalla finestra, il biancore del cielo estivo arrossava con il crepuscolo e c’erano tante cose da fare. Sicuramente Jimmy voleva sapere come comportarsi per la centrale, chi mandare il mattino dopo (anche se in quel momento Sanjay non ricordava con precisione per quale motivo), e poi c’era da risolvere la questione di Caleb. Chissà perché lo chiamavano tutti All Star, forse a causa della sua passione per le scarpe da ginnastica. Quante cose... Eppure più restava a letto, più lontane e indistinte gli parevano quelle preoccupazioni, quasi riguardassero qualcun altro. «Sanjay?» Gloria era sulla porta. Ne percepì non tanto la presenza, quanto la voce disincarnata, eterea, che lo chiamava nel buio. «Come mai sei a letto?»

Si rese conto che non lo sapeva. Era molto strano, ma Sanjay Patal non aveva idea del perché fosse a letto. «È tardi. Ti stanno cercando.» «Ho schiacciato un pisolino.» «Un pisolino?» «Sì, Gloria, ho schiacciato un pisolino.» Gli apparve la moglie, la sua faccia rotonda e liscia che pareva galleggiare in un mare grigio. «Perché tieni la coperta così?» «Così come?» «Guarda.» Con uno sforzo improbo, troppo arduo anche solo da concepire, sollevò leggermente la testa dal guanciale sudaticcio e si guardò. Nel sonno doveva avere arrotolato la coperta formando una sorta di fune e se l’era messa intorno alla vita. La teneva stretta con le mani. «Cos’hai, Sanjay? Perché parli così?» Gloria lo guardava dall’alto e lui non riusciva a metterla a fuoco, a vederla veramente. «Sto bene. Ero solo molto stanco.» «Adesso ti sei riposato, però.» «Sì, ma quasi quasi dormo ancora un po’.» «È venuto Jimmy: vuole sapere cosa deve fare per la centrale.» La centrale. Cosa bisognava fare per la centrale? «Cosa gli dico se torna?» A quel punto Sanjay ricordò che occorreva mandare qualcuno a vedere cos’era successo alla centrale. «Galen.» «Galen? Cosa c’entra Galen?» Ma quella domanda lo sfiorò soltanto. Gli si erano richiusi gli occhi, il volto di Gloria si era fatto indefinito e al suo posto stava lentamente apparendo quello di una ragazzina. Che occhi! Quegli occhi avevano qualcosa di strano. «Cosa c’entra Galen, Sanjay?» «Gli farebbe bene, non pensi?» sentì che rispondeva la sua voce. Era come se una parte di lui fosse ancora lì, in camera da letto, mentre l’altra, quella che sognava, fosse altrove. «Digli di mandarci Galen.»

32 Passarono le ore e arrivò la notte. Michael non si era ancora fatto sentire. Dopo essere usciti di soppiatto dall’Infermeria, i tre si erano separati: Michael era tornato al Faro e Alicia e Peter erano andati al parcheggio dei caravan e si erano nascosti dentro un veicolo vuoto da dove si vedeva la guardina, nel caso in cui Sam e Milo fossero tornati. Sara era rimasta nell’Infermeria con la ragazza. Per il momento non c’era che aspettare. La roulotte era abbastanza lontano da non attirare l’attenzione, ma abbastanza vicino da permettere loro di tenere sott’occhio la porta della guardina. Si diceva che i caravan fossero stati abbandonati lì dai Costruttori dopo che erano serviti ad alloggiare gli operai che avevano eretto le mura e installato i riflettori. Peter credeva che da allora non ci avesse più abitato nessuno. Erano stati in parte smontati per recuperare tubi e fili elettrici, mentre gli accessori e gli elettrodomestici erano stati demoliti o riciclati. In fondo c’era un piccolo vano chiuso da una porta scorrevole, dove un tempo doveva trovarsi il materasso, con due cuccette ai lati; dall’altra parte c’era un tavolino minuscolo con due panchette, una di fronte all’altra. Il rivestimento di vinile era screpolato e pieno di tagli da cui usciva una gommapiuma molto friabile, che si polverizzava appena la toccavi. Alicia aveva portato un mazzo di carte per passare il tempo e, fra una partita e l’altra di Ultimo, si spostava inquieta sulla panca e sbirciava dalla finestra verso la guardina. Dale e Sunny erano andati via e al loro posto erano arrivati Gar Phillips e Hollis Wilson, i quali evidentemente alla fine avevano deciso di non ritirarsi dalla Guardia. Nel tardo pomeriggio Kip Darrell gli aveva portato qualcosa da mangiare. Nel resto del tempo non si era visto nessuno. Peter diede le carte e Alicia smise di osservare dalla finestra per guardare la mano che le era toccata. «Porco vampiro, che schifo di carte!» Le mise in ordine, mentre anche Peter faceva lo stesso, poi cominciò con un fante rosso. Lui scartò una carta dello stesso seme e Alicia mise giù un otto di picche. «Tocca a te.» Peter non aveva altre picche e pescò una carta dal mazzo. Alicia sbirciò di nuovo fuori. «Piantala, per favore» disse Peter. «Mi agiti.» Alicia non replicò. Peter dovette prendere quattro carte dal mazzo e giocò il due di picche. Alicia rispose con un due di cuori, cambiando seme, poi calò altre quattro carte in fila. L’ultima era la regina di picche. Peter pescò un’altra carta dal mazzo. Aveva la sensazione che Alicia avesse parecchie picche, ma non poteva fare niente. Era bloccato. Giocò un sei e lei scartò una serie di carte, passando a quadri con un nove, fino a liberarsi di tutto ciò che aveva in mano. «Fai sempre così» disse Alicia accingendosi a rimescolare il mazzo. «Giochi per primo il seme in cui sei più debole.» Peter guardò le carte che gli erano rimaste come se la partita non fosse finita. «Davvero?» «Sempre.» Stava per suonare la Prima campana. Che strano non passare la notte sulla passerella, pensò Peter. «Cosa farai se Sam dovesse tornare?» chiese.

«Non so. Per prima cosa cercherò di convincerlo a parole.» «E se non dovessi riuscirci?» Alicia aggrottò la fronte e alzò le spalle. «Lo convincerò in un’altra maniera.» Risuonarono i rintocchi della Prima campana. «Non devi per forza stare qui» disse Alicia. Peter avrebbe avuto voglia di risponderle che lo stesso valeva per lei. Ma non sarebbe stato vero. «Fidati: dopo la Seconda campana non succederà niente» aggiunse Alicia. «Dopo i fatti di ieri sera, correranno tutti a rintanarsi in casa. Dovresti andare da Sara. E dal Circuito. Chissà se ha scoperto qualcosa.» «La ragazza... Cosa pensi che sia?» Alicia si strinse nelle spalle. «Una bambina spaventata, direi. Certo, questo non spiega l’aggeggio che aveva nel collo o come abbia fatto a sopravvivere là fuori. Chissà, forse non scopriremo mai la verità. Aspettiamo il responso del Circuito.» «Mi credi, Alicia? Credi alla storia che ho raccontato, a quello che è successo nel centro commerciale?» «Certo, Peter.» Lo guardò cupa. «Perché non dovrei?» «Perché è assurdo.» «Se tu dici che è andata così, io ti credo. Non ho mai dubitato di te e non ho intenzione di cominciare adesso.» Lo scrutò intensamente. «Non è questo che mi volevi chiedere, però. Vero?» Peter aspettò un momento. «Quando la guardi, che cosa vedi?» chiese poi. «Non so. Cosa dovrei vedere?» Suonò la Seconda campana. Alicia lo guardava, in attesa di una risposta. Peter però non riusciva a esprimere ciò che sentiva. Non aveva parole adeguate. Le luci si accesero. Peter si alzò. «Avresti usato la balestra contro Sam, oggi?» domandò. Alicia era ancora seduta e, con la luce che le brillava dietro le spalle, aveva il volto in ombra. «Non so, a dire la verità. Forse sì. Se lo avessi fatto, però, poi me ne sarei pentita.» Peter rimase un istante in silenzio. Per terra c’era lo zaino di Alicia, con un sacco a pelo, acqua e qualcosa da mangiare. La balestra era appoggiata lì vicino. «Va’» lo spronò Alicia indicando la porta con un cenno del capo. «Sbrigati.» «Sicura che te la caverai?» «Quando mai non me la sono cavata, Peter?» ribatté lei con una risata. Michael Fisher era al Faro, immerso nei problemi fino al collo. Il peggiore era la puzza.

Era sempre più forte, ormai insopportabile. Un tanfo di sudore, di piedi, di ascelle non lavate. Era odore di formaggio e cipolle, un fetore così schifoso che Michael non riusciva a concentrarsi. «Porco vampiro, Elton! Esci, fammi la cortesia. Stai impestando l’aria.» Il vecchio era seduto al suo solito posto davanti alla console, a destra di Michael, con le mani sui braccioli della poltroncina con le rotelle e la faccia leggermente voltata dall’altra parte. Avevano acceso i riflettori per la notte e i livelli erano tutti nella fascia verde, per fortuna. Qualsiasi cosa fosse successa alla centrale, la corrente continuava ad arrivare. Michael si era messo a lavorare al trasmettitore, che ormai era smontato in tanti pezzetti sul bancone. Per esaminarli, usava una lente di ingrandimento con il braccio articolato che era andato a prendere nel capannone. Aspettava che da un momento all’altro arrivasse Sanjay a informarsi sullo stato delle batterie ed era pronto a nascondere tutto quanto nel primo cassetto. L’unica visita ufficiale, fino a quel momento, era stata quella di Jimmy, nel tardo pomeriggio. Sembrava un po’ indisposto, con la faccia tutta rossa: forse stava covando qualcosa. Gli aveva chiesto senza grande interesse delle batterie, come se nel frattempo si fosse dimenticato del problema e si vergognasse a parlarne. Ed era rimasto sulla porta, forse per la puzza, che avrebbe tenuto lontano chiunque. Perciò non si era accorto della lente d’ingrandimento, che era in bella vista, e neppure dei cavetti colorati e dei circuiti. Non aveva nemmeno notato la saldatrice sul bancone. «Davvero, Elton: se è per dormire, vattene di là.» Il vecchio si riscosse dal suo torpore e strinse le dita intorno ai braccioli. Poi si voltò verso Michael. «Okay. Scusa.» Si passò la mano sugli occhi ciechi. «L’hai saldato?» «Adesso lo faccio. Senti, Elton, non lavori da solo. Quand’è che ti sei lavato l’ultima volta?» Il vecchio non rispose. A ben guardare, non sembrava in gran forma. Benché Elton non sembrasse mai in gran forma. Era sudato, stanco, distratto. Michael lo vide alzare la mano verso il bancone e cercare a tastoni le cuffie. Ma poi non le prese. «Ti senti bene?» «Eh?» «Mi sembri un po’ moscio.» «Le luci sono accese?» «Sì, da un’ora. Quanto hai dormito?» Elton si passò la lingua sulle labbra. Porco vampiro, che cosa stava succedendo? Aveva qualcosa fra i denti? «Sì, hai ragione: tanto bene non sto. Mi vado a coricare.» Si alzò faticosamente e imboccò il corridoio che portava sul retro. Michael sentì cigolare le molle della branda e sperò che rimanesse di là un bel po’. Si rimise al lavoro. Aveva avuto ragione riguardo all’aggeggio nel collo della ragazza: il trasmettitore era collegato a un microchip, di un tipo che però lui non aveva mai visto, molto piccolo e senza porte evidenti, a parte due elettrodi dorati.Uno era collegato al trasmettitore, l’altro ai fili sottili come capelli. O quei fili erano le antenne del trasmettitore inserito nel chip,

cosa che gli sembrava improbabile, oppure erano sensori, la sorgente dei dati che il chip memorizzava. L’unico modo per scoprirlo con certezza era leggere i dati. E per farlo bisognava saldare il chip alla memoria del mainframe. Era rischioso saldare un dispositivo sconosciuto direttamente alla console. Il sistema poteva non riconoscerlo oppure andare in crash, e in quel caso le luci si sarebbero spente. Probabilmente la cosa più saggia sarebbe stata aspettare almeno fino all’indomani mattina. Tuttavia Michael non sarebbe mai riuscito a rinviare, preso com’era dal problema e dalla voglia di risolverlo. Anche se se lo fosse imposto, non avrebbe resistito. Prima di tutto doveva mettere off line il mainframe, il che significava chiudere l’unità di controllo bypassandolo, per attingere direttamente alle batterie. Era un’operazione fattibile, ma solo per pochissimo tempo: senza il monitoraggio della corrente da parte del sistema, una fluttuazione qualsiasi poteva far saltare un interruttore. Quindi, una volta che il mainframe fosse stato off line, avrebbe dovuto sbrigarsi. Prese fiato e richiamò il menu di sistema. Chiudere il sistema? Cliccò su “Sì”. Il disco fisso cominciò a rallentare. Michael si alzò dalla poltroncina e corse al quadro elettrico. Non era saltato nessun interruttore. Si mise subito al lavoro: staccò la scheda madre, la posò sul bancone sotto la lente d’ingrandimento, prese la saldatrice in una mano e la lega nell’altra, la avvicinò alla punta della saldatrice, facendo sprigionare una nuvoletta di fumo, e fece colare una goccia di stagno sulla scheda madre. Centro! Prese il chip con le pinzette. Siccome non poteva permettersi sbagli, si tenne la mano destra ferma con la sinistra e immerse lentamente i contatti del microchip nella goccia di stagno fuso. Poi contò fino a dieci per aspettare che solidificasse. Solo a quel punto ricominciò a respirare. Rimise la scheda madre nella console, la assicurò al suo posto e fece ripartire il mainframe. Il sistema si riaccese, il disco fisso riprese a ronzare e lui tenne gli occhi chiusi per tutto il tempo, con le dita incrociate. Quando li riaprì, lo vide. Nella directory di sistema era scritto: DRIVE SCONOSCIUTO. Selezionò l’icona e la finestra si aprì. C’erano due partizioni, A e B. La prima era minuscola, pochi kilobyte soltanto. La B, invece, no. La B era gigantesca. Conteneva due file di dimensioni identiche: uno probabilmente era il backup dell’altro. Due file uguali, di un’immensità per lui assolutamente inconcepibile. Sembrava che in quel microchip fosse scritto tutto il mondo. Michael non riusciva a immaginare neanche la persona che lo

aveva impiantato nel collo di quella ragazza e che faceva parte di una realtà a lui totalmente estranea. Prese in considerazione l’idea di andare a svegliare Elton per chiedergli cosa ne pensava, ma a giudicare da come russava sarebbe stato difficile tirarlo giù dal letto. Quando aprì il file, lo fece furtivamente, con una mano sugli occhi, sbirciando fra le dita.

33 Che gran colpo di fortuna! Avvicinandosi all’Infermeria, Peter vide che c’era un’unica guardia. Si fece avanti senza indugio. «Ciao, Dale.» Dale aveva la balestra appoggiata su un fianco. Fece un sospiro esasperato e inclinò la testa da una parte porgendo a Peter l’orecchio buono. «Sai che non posso farti entrare.» Peter allungò il collo per guardare oltre il vetro e vide che sulla scrivania era accesa una lanterna. «Sara è dentro?» «No, è uscita poco fa. Ha detto che andava a mangiare qualcosa.» Peter rimase dov’era, in silenzio. Era solo questione di aspettare, lo sapeva. Notò un barlume di indecisione negli occhi di Dale, che dopo un po’ sbuffò e si fece da parte. «Porco vampiro, vai. Basta che fai presto.» Peter entrò nella corsia. La ragazza era rannicchiata nel letto e si abbracciava le ginocchia, la testa voltata dall’altra parte. Lo sentì arrivare ma non si mosse. Forse dormiva. Peter accostò una sedia al letto e si sedette con il mento fra le mani. Sotto i capelli arruffati, si vedeva il taglio che aveva praticato Sara per estrarre il trasmettitore: era una linea sottile, ormai quasi completamente rimarginata. Come se gli avesse letto nel pensiero, la ragazza si mosse e si girò a guardarlo. Aveva il bianco degli occhi umido e luccicante. «Ciao» disse Peter con voce rauca. «Come ti senti?» Lei aveva le mani giunte fra le ginocchia. Sembrava facesse apposta a sembrare più piccola di quanto era. «Sono venuto a ringraziarti di avermi salvato.» Lievissima alzata di spalle sotto il camice bianco. “Non c’è di che.” Era strano parlare a quel modo, soprattutto perché in fondo non sembrava innaturale. Anche se non udiva il suono della voce della ragazza, Peter non ne sentiva la mancanza: anzi, c’era qualcosa di profondamente tranquillizzante in quelle parole senza rumore. «Non hai voglia di parlare, immagino» azzardò. «Di dirmi come ti chiami, per esempio. Potresti cominciare con quello se ti va.» La ragazza non disse nulla, non fece gesti. “Perché dovrei dirti come mi chiamo?” «Okay, non importa» replicò Peter. «Possiamo anche stare in silenzio.» E così fecero. Rimase seduto con lei nella penombra e dopo un po’ la vide rilassarsi. Di lì a qualche minuto, come inconsapevole della sua presenza, richiuse gli occhi. Mentre aspettava, Peter venne colto da un’improvvisa sonnolenza che gli riportò alla mente il ricordo di una notte di tanto tempo prima, quando era andato in Infermeria a trovare la madre e l’aveva vista seduta al capezzale di uno dei suoi pazienti, non rammentava chi. Forse quel

ricordo sommava più ricordi insieme, più malati insieme, più notti. Peter aveva scostato la tenda e l’aveva trovata seduta su una seggiola vicino al letto di un malato, la testa piegata da una parte, e si era accorto che dormiva. Il paziente era un bambino, illuminato solo dalla candela su un vassoio accanto al letto. Peter aveva fatto un passo avanti, senza parlare. La corsia era deserta. Sua madre si era mossa e aveva girato la testa verso di lui. Era giovane, sana, e Peter era felice di vederla. “Abbi cura di tuo fratello, Theo.” “Sono Peter, mamma” le aveva detto. “Non è forte come te.” Un rumore di voci e la porta che si apriva lo riscossero da quei pensieri e un istante dopo Sara entrò con la lanterna in mano. «Peter! Tutto bene?» Lui sbatté gli occhi, abbagliato dall’improvviso chiarore. Gli ci volle un momento per capire dov’era. Non poteva essersi assopito per più di un minuto, ma gli sembrava di avere dormito più a lungo. Il ricordo e il sogno a cui aveva dato vita erano già svaniti. «Ero... non so.» Perché si stava scusando? «Devo essermi addormentato.» Sara trafficò con la lanterna e spostò un carrello accanto al letto su cui la ragazza era seduta, sveglia, all’erta. «Come hai fatto a convincere Dale a lasciarti entrare?» «Dale è uno a posto.» Sara si sedette sul materasso e aprì la borsa, che conteneva una pagnottina, un pezzo di formaggio e una mela. «Hai fame?» La ragazza mangiò in fretta, spazzolando tutto quanto a morsi velocissimi: il pane e il formaggio, che prima annusò sospettosa, e infine la mela, che rosicchiò fino al torsolo. Appena ebbe finito, si passò il dorso della mano sulla faccia impiastricciandosela ancora di più. «Be’, non sei molto educata, ma l’appetito non ti manca» dichiarò Sara. «Adesso ti controllo la medicazione, okay?» Le slacciò il camice e guardò la spalla bendata lasciando coperto il resto del corpo. Tagliò le garze con le forbici e osservò il leggero infossamento nel punto in cui era penetrata la freccia. Poche ore prima la carne era lacerata e l’osso fratturato. Nel vedere il lieve arrossamento, a Peter venne in mente la pelle di un neonato. «Perché tutti i miei pazienti non guariscono così in fretta? La sutura non serve più. Voltati, che ti tolgo i punti.» La ragazza ubbidì e Sara cominciò a tirare via il filo dalla ferita d’uscita con l’aiuto delle pinzette, facendolo cadere in una bacinella di metallo. «Qualcuno è al corrente di questa cosa?» domandò Peter.

«Del fatto che è guarita così in fretta? Non credo.» «Quindi non è venuto nessuno a trovarla, da oggi pomeriggio.» Sara tolse l’ultimo punto. «Soltanto Jimmy.» Le risistemò il camice sulla spalla. «Ecco fatto.» «Jimmy? E cosa voleva?» «Non lo so. Penso l’abbia mandato Sanjay.» Sara si voltò verso Peter. «In effetti, è stato un po’ strano: non l’ho sentito entrare, ma a un certo punto ho alzato gli occhi e me lo sono visto lì sulla porta, con una faccia... spiritata.» «Spiritata?» «Non so come altro descriverla. Gli ho detto che la ragazza non aveva ancora detto nulla e lui se n’è andato. Ma è successo parecchie ore fa.» Peter provò un improvviso moto di angoscia. Perché Jimmy aveva la faccia spiritata? Cos’aveva visto? Sara riprese in mano le pinzette. «Okay, adesso tocca a te.» Peter lì per lì non capì, poi gli venne in mente che Sara voleva medicargli il gomito. Ormai il bendaggio era lurido e sfilacciato e il taglio doveva essersi richiuso, anche se non lo controllava da giorni. Si sedette su uno dei letti vuoti. Lei si avvicinò e gli tolse la fascia, che emanava un odore aspro. «Hai tenuto il taglio pulito?» «Me ne sono scordato.» Sara gli tenne fermo il braccio e si chinò, con le pinzette in mano. Peter si sentiva addosso lo sguardo della ragazza. «Cosa dice Michael?» Peter sentì una fitta quando Sara gli sfilò il primo punto. «Ahi!» «Se stessi fermo, ti farei meno male.» Sara gli bloccò di nuovo il braccio, senza guardarlo, e riprese il suo lavoro. «Ho fatto un salto al Faro mentre venivo da casa. È con Elton e ci sta ancora lavorando.» «Con Elton? Non sarà un’imprudenza?» «Non ti preoccupare, ci possiamo fidare.» Sara alzò gli occhi al cielo, turbata. «È strano ritrovarsi all’improvviso a parlare così, di chi è fidato e chi no.» Gli diede una piccola pacca sul braccio. «Muovilo un po’.» Peter fece il pugno e piegò il braccio due o tre volte. «Come nuovo» disse. Sara nel frattempo era andata alla pompa a lavare gli strumenti. Si voltò verso di lui asciugandosi le mani. «Certe volte mi preoccupi, Peter.» Lui si rese conto di avere il braccio ancora flesso. Lo lasciò scivolare lungo il fianco, un po’ imbarazzato. «Va tutto bene.» Lei lo guardò dubbiosa, ma non disse nulla. La sera che si erano baciati, dopo i canti con Arlo e la sua chitarra e la bicchierata a base di distillato di granturco, Peter si era sentito

improvvisamente molto solo. Quel bacio, però, lo avevano riempito di sensi di colpa. Non che Sara non gli piacesse, e che lui piacesse a lei era fin troppo chiaro. Le cose che gli aveva detto Alicia sul tetto della centrale erano vere: Sara era la ragazza giusta per lui. Tuttavia Peter non riusciva a forzarsi a provare ciò che non provava. Una parte di lui non si sentiva abbastanza vitale per meritarla; non era in grado di darle nulla in cambio di ciò che lei gli offriva. «Già che sei qua, farei un salto a trovare All Star» disse Sara. «Voglio accertarmi che gli abbiano dato da mangiare.» «Hai sentito qualcosa?» «Macché: sono stata chiusa qui dentro tutto il giorno. Ne sai certamente più tu di me.» Peter non replicò e Sara fece spallucce. «Immagino che la gente sia divisa. La rabbia per quello che è successo ieri sera è tanta. Ci vorrà un po’ di tempo.» «Spero che Sanjay ci pensi bene prima di prendere decisioni avventate. Dovrà vedersela con Lish.» Sara si irrigidì. Prese la borsa e se la mise a tracolla, senza guardarlo. «Cos’ho detto di male?» Sara scrollò la testa. «Lascia stare. Lish non è un problema mio.» Se ne andò sparendo dietro la tenda. Peter si chiese come doveva interpretare quelle parole: Alicia e Sara erano diversissime e non andavano molto d’accordo. Forse Sara la riteneva responsabile della morte della Maestra, che l’aveva addolorata moltissimo. A pensarci bene, però, era chiaro: chissà perché non gli era venuto in mente prima. La ragazza lo stava di nuovo guardando. Inarcò leggermente un sopracciglio. “Cosa c’è che non va?” «Sara è angosciata» rispose lui. «Preoccupata.» Ci rifletté di nuovo: era proprio strano. Era come se la sentisse parlare dentro la propria testa. Se qualcuno l’avesse visto, avrebbe pensato che parlava da solo. La ragazza in quel momento fece una cosa che Peter non si aspettava. Spinta da un misterioso impulso ad agire, si alzò dal letto e andò verso il lavandino, azionò la pompa con tre spinte vigorose, riempì una bacinella d’acqua e la portò vicino a Peter. Gliela posò ai piedi, prese un telo dal carrello e si sedette vicino a lui, chinandosi a bagnarlo nella bacinella. Poi gli prese il braccio e cominciò a tamponargli la ferita con il telo inumidito. Peter sentiva il suo respiro sulla pelle bagnata. La ragazza aveva aperto bene il telo, per passargliene sulla pelle una superficie più ampia. Non era titubante come all’inizio, ma si muoveva sicura. Gli ripulì il braccio dalla sporcizia e dalla pelle morta. Era un semplice gesto di gentilezza e al tempo stesso sorprendente perché pieno di sentimento e di ricordi. Peter era completamente concentrato sulle sensazioni che gli scatenavano quel telo umido sul braccio e il respiro della ragazza sulla pelle. Gli pareva di essere tornato bambino, nella sua casa dopo essersi sbucciato un gomito, a farsi disinfettare e pulire da mani premurose. “Le manchi tanto.” Peter fece un salto sul materasso. La ragazza gli stringeva il braccio. Non aveva aperto bocca,

ma gli aveva parlato. Le sue parole gli erano arrivate dritto al cervello. Gli teneva il braccio, i loro visi erano vicini. «Come fai?» “Le manchi tanto le manchi tanto le manchi tanto.” Peter si alzò e arretrò. Aveva il battito a mille e si sentiva come un animale braccato. Indietreggiando, urtò contro un armadietto di vetro e fece cadere gli oggetti che vi erano contenuti. Da dietro la tenda spuntò qualcuno, lo vide con la coda dell’occhio. Era Dale Levine. «Cosa diamine succede qui dentro?» Peter deglutì preparandosi a rispondere. Dale era vicino alla tenda e aveva la faccia stupita: non riusciva a dare un senso a ciò che vedeva. Si voltò verso la ragazza, seduta sul letto con la bacinella d’acqua ai piedi, poi rivolse di nuovo lo sguardo verso Peter. «Cosa ci fa in piedi? Credevo fosse moribonda...» Peter ritrovò finalmente la voce. «Non devi... dirlo a nessuno.» «Porco vampiro, Peter! Jimmy lo sa?» «Davvero, Dale: a nessuno.» Si rese conto che, se non fosse uscito subito da quella stanza, sarebbe stata la fine. Si girò e corse via urtando Dale. Si precipitò giù per la scala e si fermò un istante nel cortile illuminato dai riflettori, con le parole della ragazza che gli rimbombavano ancora nella testa: “Le manchi tanto le manchi tanto le manchi tanto”. Aveva la vista offuscata e stava per mettersi a piangere.

34 Per Mausami Patal la serata cominciò nel Nido. Era seduta da sola nella camerata e stava cercando di imparare a fare la maglia. Culle e lettini erano stati spostati al piano di sopra. I bambini adesso dormivano là. La finestra rotta era stata sbarrata con assi di legno, i vetri erano stati portati via e la stanza era stata completamente pulita e disinfettata. L’odore dell’alcol era ancora fortissimo. Le faceva lacrimare gli occhi: non sarebbe dovuta stare lì. Povero Arlo. E povero Hollis, che aveva ucciso il suo stesso fratello! Meno male che l’aveva fatto, però. Mausami non voleva nemmeno pensare a cosa sarebbe successo se Hollis avesse mancato il bersaglio. Certo, Arlo non era più lui, come peraltro Theo, sempre che non fosse morto. Quel virus toglieva l’anima, trasformava le persone in esseri completamente diversi da quelli che avevi amato. Era seduta su una sedia a dondolo che aveva trovato nel ripostiglio. Vi aveva sistemato accanto un tavolino, sopra al quale aveva posato una lanterna per avere la luce necessaria. Leigh le aveva insegnato i punti più semplici e all’inizio le era parso un lavoro non troppo difficile, ma poi doveva aver sbagliato qualcosa. Le maglie erano irregolari e ogni volta che tentava di passare il filo tra i ferri le si impigliava nel pollice sinistro. Era più brava con la balestra: riusciva a incoccare una freccia in meno di un secondo e a lanciarne mezza dozzina in cinque. Inoltre, era in grado di infilzare un bersaglio con la lama a sei metri di distanza correndo, anche nelle giornate più nere. Perché confezionare un paio di scarpette da neonato doveva sembrarle un’impresa tanto ardua? Le era caduto il gomitolo per terra già due volte e, quando l’aveva recuperato e si era rimessa al lavoro, aveva perso il conto dei punti e aveva dovuto ricominciare daccapo. Una parte di lei non riusciva a capacitarsi del fatto che Theo non c’era più. Aveva deciso di dirgli della gravidanza durante la trasferta, magari la prima sera alla centrale. In quel dedalo di stanze e stanzette era facile rimanere un momento da soli. Se doveva essere sincera con se stessa, era proprio da quello che era iniziato tutto. Perché si era appaiata con Galen? Era crudele chiederselo, dal momento che Galen era una brava persona e non aveva colpa se lei non lo amava, se non provava praticamente niente per lui. Era stato un bluff, ecco cos’era stato. Un modo per scuotere Theo dal suo torpore. Quando glielo aveva detto, quella sera sulle mura, quando aveva pronunciato quelle parole – “Forse mi sposo con Galen Strauss” – Theo le aveva risposto: “Se è quello che vuoi, fallo. Io desidero solo che tu sia felice”. A quel punto il bluff le si era ritorto contro. Mausami aveva dovuto sposare Galen, dimostrare a Theo che si sbagliava su di lei, su se stesso, su tutto quanto. Bisognava provarci, bisognava agire, darsi una mossa, fare qualcosa. Era stato per cocciutaggine che aveva sposato Galen Strauss. Per ripicca contro Theo Jaxon. Per un po’, durante l’estate e l’autunno, aveva cercato di far funzionare il matrimonio. Aveva sperato di riuscire a provare i sentimenti giusti e per qualche tempo ce l’aveva quasi fatta, perché Galen sembrava felice che lei semplicemente esistesse. Appartenevano tutti e due alla Guardia, quindi non avevano orari regolari e non si vedevano troppo; anzi, era facile per Mausami evitare Galen, perché lui era quasi sempre di turno durante il giorno, un po’ perché era il meno bravo fra i suoi compagni di addestramento e un po’ perché non ci vedeva bene, soprattutto al buio. A volte Mausami, quando lui strizzava gli occhi per cercare di metterla a fuoco, si chiedeva se amasse davvero lei. Forse vedeva qualcun’altra al posto suo, una creatura della sua immaginazione.

Aveva trovato il modo di non stare quasi mai insieme a Galen. Quasi: perché ogni tanto con tuo marito ci devi stare per forza. “È tenero con te?” le aveva chiesto sua madre. “È dolce? Delicato? Attento a quello che provi? Mi basta sapere questo.” Galen era troppo felice per essere tenero. Era come se dicesse con tutto se stesso: “Non ci posso credere! Non riesco a credere che sei mia!”. E infatti Mausami non era sua: mentre Galen ansimava sopra di lei nel buio, Mausami era a chilometri di distanza. Più lui cercava di essere un marito, meno lei si sentiva una moglie. Poi – e questa era la parte peggiore, la più ingiusta – lei aveva cominciato addirittura a provare disgusto per il marito. Alla prima nevicata si era ritrovata a immaginare di poter chiudere gli occhi e cancellarlo dalla faccia della terra. Il risultato era stato che Galen ci si era messo ancora più d’impegno, accrescendo ulteriormente la repulsione di Mausami. Come faceva a credere che il bambino fosse suo? Non sapeva contare? Era vero che lei aveva mentito. La mattina che lui l’aveva sorpresa a vomitare in giardino, gli aveva detto che aveva saltato tre cicli, quando in realtà erano due. Tre cicli e il bambino era di Galen, due e non lo era. Galen l’aveva cercata una sola volta, il mese in cui lei era rimasta incinta, e lei lo aveva respinto con un pretesto che nemmeno ricordava. No, Mausami aveva ben chiaro quando era stato concepito il bimbo che portava nel grembo, e con chi. Era successo alla centrale. Lei, Theo, Alicia e Dale Levine erano rimasti alzati fino a tardi a giocare a Ultimo nella sala di controllo, poi Alicia e Dale erano andati a letto e lei era restata sola con Theo. Era la prima volta che succedeva da quando si era sposata. Era scoppiata in lacrime, sorprendendosi lei stessa di quel pianto dirotto, e Theo l’aveva abbracciata per consolarla, che era quello che lei voleva. Si erano detti quanto erano dispiaciuti e poi... Avevano resistito trenta secondi al massimo. Non era possibile. Mausami non l’aveva praticamente più visto da quella notte. Il mattino dopo erano tornati alla Colonia e la vita era ripresa normalmente, anche se per lei non c’era niente di normale. Il suo segreto era come una fonte di gioia tutta sua, dentro di lei, che le riscaldava il cuore. Persino Galen si era accorto del cambiamento e aveva detto qualcosa tipo: “Be’, mi fa piacere vedere che sei di umore migliore. È bello vederti di nuovo sorridere”. D’istinto avrebbe voluto dirgli tutto, condividere con lui la bella notizia, ma l’idea era assurda e impraticabile, perciò si era trattenuta. Non sapeva come sarebbe andata a finire, evitava di pensarci. Non ci aveva pensato nemmeno quando le era saltato il ciclo: non era mai stata regolare, le era già successo che non le venissero le mestruazioni. Piuttosto pensava continuamente alla successiva trasferta alla centrale, alla possibilità di fare di nuovo l’amore con Theo Jaxon. Lo vedeva sulla passerella e ai raduni serali, ma non era la stessa cosa, in quelle occasioni non c’era modo di toccarsi o di parlare. Bisognava aspettare. Ma anche l’attesa, il trascorrere crudelmente lento dei giorni che mancavano alla trasferta, la cui data era indicata in bacheca, visibile a tutti, faceva parte della gioia, dell’emozione. Il ciclo però le era saltato di nuovo, e Galen l’aveva sorpresa a vomitare in giardino. Era chiaro che era incinta. Come aveva fatto a non capirlo? Come le era potuta sfuggire una simile eventualità? Perché se c’era una cosa che Theo Jaxon sicuramente non voleva era un figlio. Forse, nelle giuste circostanze, Mausami sarebbe riuscita a convincerlo. Ma così... L’idea si era chiarita dentro di lei: stava per avere un bambino. Un figlio, suo e di Theo. Un bambino non era un’idea, un’astrazione, come poteva essere a volte l’amore. Un bambino era una realtà. Un essere umano con un cervello, un carattere, che esisteva indipendentemente dai

tuoi sentimenti. E, siccome esisteva, ti imponeva di credere in un futuro, il futuro nel quale sarebbe vissuto, prima gattoni e poi camminando. Un bambino era una fetta di tempo, una promessa che facevi al mondo e che il mondo faceva a te. Un bambino era il patto più antico: occorre tirare avanti, continuare a vivere. Forse Theo Jaxon aveva proprio bisogno di un figlio. Mausami aveva intenzione di dirglielo quando fossero andati alla centrale, nella stanzetta che ormai era diventata la loro. Si era immaginata la scena un sacco di volte: certe andava bene, altre meno, la peggiore era quella in cui si perdeva d’animo e non riusciva a parlare. (La seconda in graduatoria era quella in cui Theo indovinava che cos’era successo e a lei mancava il coraggio di ammettere la verità e gli assicurava che il padre era Galen). Sperava di vedergli una luce diversa negli occhi, quella che si era spenta tanto tempo prima. “Un bambino? Il nostro bambino?” Forse avrebbe detto così. “Che cosa faremo?” E lei gli avrebbe risposto: “Faremo quello che fanno tutti”. E allora lui l’avrebbe presa tra le braccia e, al sicuro, protetta da lui, Mausami avrebbe capito che ormai era tutto risolto, tutto appianato. Tornati alla Colonia, ne avrebbero parlato con Galen e con gli altri, insieme. Non era andata così, purtroppo. Quella era solo la fantasia di Mausami. Udì dei passi dietro di lei. Passi pesanti, che ben conosceva. Possibile che non ci fosse mai un attimo di pace? Non era colpa