Il Monaco Che Amava I Gatti - Corrado Debiasi [PDF]

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Zitiervorschau

Il libro

S

e qualcuno ti dicesse che per uno strano gioco del destino ti ritroverai a trascorrere del tempo in compagnia di un anziano monaco e dei suoi meravigliosi gatti, ci crederesti? Che percorrerai un viaggio iniziatico,

costellato di incontri che ti porteranno a scoprire, attraverso un vortice di emozioni, l’immensa bellezza della tua anima, ci crederesti? Se qualcuno ti dicesse che prima di trovare l’amore dovrai scoprire l’amore in te stesso, e che tutto ciò che hai appreso può essere osservato da un’altra prospettiva, ci crederesti? Quando il protagonista di questa storia, Kripala, si mette in viaggio, non sa cosa gli riservi il futuro, ma sa cosa vuole lasciarsi alle spalle: un lavoro perduto, un amore finito. La sua destinazione è l’India, dove intende praticare lo yoga e spera di ritrovare l’equilibrio che la sua vita ha smarrito. Una volta arrivato, addentrandosi nel dedalo di viuzze di Varanasi, finirà per perdersi, ma proprio da quel momento inizierà a ritrovare se stesso. Nel ventre vitale e sacro di quella antica città si imbatterà in persone straordinarie nella loro apparente semplicità, umili nella loro natura ma abissali nella loro saggezza. Che si tratti di un maestro di arti marziali o di un pittore, di un’anziana che nutre i poveri o di una curatrice di giardini, ognuno di loro saprà lasciare a Kripala insegnamenti indelebili, parole che resteranno incise per sempre nella sua anima. Sopra tutti, a intrecciare destini come un abile tessitore, Tatanji: l’anziano monaco ritiratosi in un ashram in compagnia dei suoi gatti. Sarà lui a scuotere la polvere dagli occhi di Kripala, fino a indicargli che quella felicità di cui è in cerca l’ha già dentro di sé: deve solo imparare a riconoscerla. Il monaco che amava i gatti è la storia di un viaggio ispirazionale che tocca con poesia e semplicità i valori e i temi più profondi dell’esistenza. Una storia capace di parlare al cuore e all’anima di ognuno di noi.

L’autore

CORRADO DEBIASI

vive in Trentino. Lettore compulsivo, è appassionato di cultura

orientale e della filosofia yoga. Pratica regolarmente la meditazione fin da ragazzo. Ama gli animali e le lunghe passeggiate immerso nella natura. Il monaco che amava i gatti è il suo primo romanzo. Facebook: @corrado.debiasi

Corrado Debiasi

IL MONACO CHE AMAVA I GATTI Le sette rivelazioni

«A quella Coscienza Suprema che tutto avvolge, che non ha né inizio né fine, dove il tempo è un Suo pensiero e lo spazio un Suo respiro, io mi abbandono e rendo omaggio.» TATANJI

Introduzione

«OGNI cosa avviene sempre nel tempo e nel luogo giusti. Ogni cosa avviene quando sei pronto a riceverla.» Il momento giusto era arrivato, o meglio: è arrivato. Mi ritrovo a scrivere di alcune esperienze accadutemi tempo fa in India. Esperienze che hanno raggiunto le più intime profondità della mia anima. Avvenimenti di cui la mia esistenza ha beneficiato. È strano tutto quello che mi è capitato. Ne scrivo quasi fosse la cosa più importante della mia vita. Quasi fosse l’unica cosa buona che mi sia successa. E lo è. Ora è tempo di diffondere e condividere, come è desiderio del mio maestro, in modo tale che chi vuole possa apprendere e migliorarsi. Dopo una lunga riflessione ho deciso, infatti, di raccogliere qui, in forma di dialoghi, i brevi ma intensi incontri che ho avuto il piacere di fare con «persone straordinarie». Esseri umani all’apparenza semplici, umili nella loro natura, ma abissali nella loro saggezza. Ciò che ho appreso lo devo per lo più a un monaco chiamato, semplicemente, Tatanji. È conosciuto dalle persone del luogo come «il monaco che ama i gatti». La parola «Tatanji» – pronunciata Tatangi – viene dal sanscrito, una lingua indoeuropea molto antica. Si tratta di un nome abbreviato, o forse di un soprannome, il cui significato si avvicina a «colui che si espande attraverso l’indescrivibile». Narrerò di Tatanji al passato, ma in realtà è ancora in vita e sta continuando il suo servizio disinteressato al mondo. Appare giovanile, pur avendo un’ottantina d’anni. Di certo so che ha vissuto la maggior parte della sua vita in un’isolata comunità di monaci alle pendici dell’Himalaya. Ricordo quello che mi disse durante uno dei nostri primi incontri: per lui era determinante trasmettere parte degli insegnamenti al mondo. Ed è per questo che, un giorno di molti anni fa, decise di andarsene dal villaggio per

vivere in città. Il motivo? Non era d’accordo nel tenere nascoste queste conoscenze utili per il progresso del genere umano. «Siamo in un periodo di grandi cambiamenti di coscienza che influiscono sia a livello sociale sia spirituale. Gli esseri umani sono pronti per divenire», mi disse il giorno in cui lo conobbi. La comunità in cui ha vissuto è molto antica ed è sempre stata nascosta da tutto e da tutti. «Nascosti da ciò che è visibile», per usare le sue parole. Il villaggio è rimasto celato per millenni in una zona inaccessibile dell’India del Nord. Il suo nome però è noto, le leggende locali lo tramandano di generazione in generazione: «il villaggio dei monaci senza tempo». Una comunità isolata di esseri elevati che, senza farsi notare, innalzano la vibrazione di tutta la popolazione del pianeta. Monaci che hanno fatto il voto di non entrare in contatto con nessuno e che, grazie alle loro meditazioni e vibrazioni, influiscono sull’essenza sottile della specie umana e non. In questo libro ho cercato di essere il più fedele possibile nel ricordare le conversazioni avvenute tra me e i vari saggi con cui sono venuto in contatto e che hanno condiviso parte del loro sapere con me. Non è una storia di avventura o azione, ma soprattutto di dialoghi. Nascoste tra le righe, le rivelazioni più profonde. Alcuni passaggi potranno sembrare ermetici, talvolta, e verranno appresi solamente da chi è pronto a riconoscerli. Altre narrazioni, invece, sono «semplici nel cuore», perché «nel cuore vi è la salvezza», come diceva Tatanji. «La verità siede sempre ai piedi della semplicità, nascosta dalla polvere dell’ignoranza», mi rammentava spesso. Ricordo che, durante uno dei nostri primissimi incontri, si premurò di sottolineare che «poche parole di saggezza sono sufficienti per trasmettere una profonda conoscenza, elevando la nostra anima». Ma – aggiungo io – sempre se pronunciate da un maestro «presente a se stesso» e comprese da un allievo degno di realizzarle nella pratica. Se non fosse così, resterebbero mera conoscenza intellettuale. Tatanji mi rammentava spesso che certe frasi possono migliorare le sorti di un’esistenza, poiché «il nettare della conoscenza è nascosto nell’essenziale. Il resto è sabbia al vento, ovvero non serve a nulla. Ciò che è veramente importante può essere trasmesso in pochi concetti».

Vi domanderete come sia finito in India. Il motivo è semplice e nasce da una concomitanza di fattori che mi hanno spinto alla partenza: la chiusura dell’azienda in cui lavoravo da alcuni anni e la conclusione di una relazione d’amore nello stesso periodo. Tuttavia, al di là di questi avvenimenti, si nascondeva in me un desiderio più profondo: imparare lo yoga e la meditazione da insegnanti indiani. Alcune strane situazioni, che avrò modo di raccontare, mi hanno portato a intraprendere questo viaggio e condividere per un breve periodo la compagnia giornaliera di Tatanji. Inoltre il destino, se così vogliamo chiamarlo, mi ha fatto un grande dono – si svelerà nel corso di queste pagine. Durante il viaggio, ho provveduto a trascrivere dettagliatamente la sera stessa le varie conversazioni con queste persone speciali, vista l’importanza e la preziosità dei contenuti. Per non lasciar passare troppo tempo e creare vuoti di memoria. Ancora oggi, anche se sono trascorsi alcuni anni, porto nella mente le numerose conversazioni avute con Tatanji. Parole incise nella mia anima come tatuaggi indelebili e il cui significato merita di essere custodito come si conservano le pergamene sacre nelle stanze di culto: con rispetto e venerazione. Un doveroso grazie a tutte queste anime immense, umili e straordinarie a cui devo la mia seconda rinascita. Grazie a loro, il mio destino è cambiato. Cambiato in meglio.

Antefatto

INTRAPRESI questo viaggio per lasciare dietro di me quello che mi stava pesando sul cuore, e non solo. Il giorno prima della mia partenza mi sentivo «un po’ sulle mie». Ero ovviamente emozionato, ma anche triste, sia perché non avevo più il lavoro, sia per la conclusione della relazione con la mia compagna. Controllai più volte l’orario di partenza sul biglietto aereo, la valigia e il suo contenuto. Non avrei fatto ritorno per almeno una decina di giorni. Nelle settimane precedenti avevo ripetuto a me stesso che sarebbe andato tutto bene, tutto per il meglio. Volevo crederci, e un po’ me lo sentivo. In fondo andavo alla cieca, non sapendo se avrei trovato quello che cercavo. Tuttavia, ero certo che qualcuno o qualcosa di grande mi avrebbe protetto durante la mia permanenza in India. Da piccolo, mia madre mi raccontava di angeli che sopra le mie spalle mi sostenevano nei momenti difficili. La mia fiducia nelle sue parole mi ha sempre ispirato e spronato ad andare avanti. Viviamo in una società dove lentamente stiamo perdendo le nostre sembianze per dare vita a esseri umani digitali. Il senso della memoria sta sfumando. Viviamo a testa bassa con lo sguardo sugli smartphone che, come una lampada di Aladino, possono esaudire qualsiasi desiderio. Non volevo perdermi nella massa, bensì capire il significato della mia esistenza. Cercare quella piccola fiamma luminosa in me al momento fioca. Avevo progettato il viaggio a Varanasi da molto tempo, risparmiato denaro, definito i tempi di permanenza, dove andare e chi avrei voluto incontrare. Almeno, questa era l’intenzione. Volevo imparare lo yoga classico, senza fronzoli, senza eccedenze occidentali, direttamente da un buon maestro locale. Ero consapevole che in India, forse, la mia percezione della vita – o, per meglio dire, il modo di affrontarla – avrebbe preso

un’altra direzione grazie alle conoscenze che avrei acquisito. Speravo, in cuor mio, di trovare risposte a molte domande esistenziali di cui non avevo soluzione. Il mio interesse, in fin dei conti, era di incontrare una di quelle persone che si potrebbero definire «saggi», per aiutarmi a conoscere meglio e più in profondità me stesso. La motivazione era nata diversi anni prima, grazie a un vecchio amico alpinista. Era un amante delle scalate e delle vette himalayane. Nel corso di una spedizione era entrato in possesso di un indirizzo. Durante un viaggio in solitaria verso una zona di notevole difficoltà alpinistica, aveva incontrato un monaco errante ed era rimasto con lui alcuni giorni poiché le condizioni atmosferiche non permettevano di procedere lungo il percorso prestabilito. Aveva trascorso, così, un po’ di tempo nella sua piccola dimora tra le rocce. Mi diede l’indicazione precisa per l’ashram solo un mese fa. «Prendi questo indirizzo», mi disse, «sono sicuro che potrà esserti utile.» Era convinto che l’indicazione doveva arrivare a me. «Non sei sempre stato tu a voler andare in India? È l’indirizzo di un ashram a Varanasi.» «E che ci devo fare?» risposi. «Un ashram», ripeté. «Un posto speciale dove potrai trovare, forse, persone che possono darti quello che stai cercando da tempo.» «So cos’è un ashram», esclamai, concludendo che, se fosse capitata l’occasione, non mi sarei tirato di certo indietro. Quel mondo mi è sempre appartenuto e avevo un grande desiderio di viverlo. L’occasione ci fu. Ci fu eccome: le circostanze della mia partenza e soggiorno in India si erano incastonate perfettamente, quasi fossero state programmate. Nessun ostacolo. Ogni evento mi portava a intraprendere facilmente questo viaggio. Avrei visitato l’ashram, un luogo di meditazione dove si cerca se stessi attraverso l’aiuto di maestri o insegnanti; grazie a loro vieni indirizzato verso una conoscenza più profonda di te stesso, attraverso una pratica costante e sincera. Quando arrivai a Varanasi, chiesi alla gente del posto e al personale dell’hotel in cui alloggiavo dove potessi trovare l’indirizzo in mio possesso. Tutti mi diedero la stessa risposta: «Non conosco». Non mi arresi. Nei giorni a seguire continuai a procedere a piedi, di strada in strada, spesso stanco per la confusione dei mezzi e delle persone che vedevo

attorno a me. Continuavo a cercare, circondato da un frastuono fastidioso. Non ero abituato a questa realtà. Gironzolai senza meta e senza alcun progresso per diversi giorni. In più, non stavo affatto bene ed ero scoraggiato perché l’indirizzo sembrava non esistere. Per l’ennesima volta tornai deluso in hotel. E, come le ultime volte, posai il corpo stanco sul letto e presi sonno immediatamente. Il giorno successivo mi svegliai verso le sei di mattina, dopo aver dormito profondamente tutta la notte. Rotolai giù dal letto e mi diressi in bagno per una doccia ristoratrice. Rinfrescato, presi il tappetino yoga, lo deposi a terra e iniziai alcuni semplici esercizi. È una costante da decenni: appena mi alzo, e la sera prima di cena, è essenziale che faccia yoga. E ne ho compreso l’importanza dopo una pratica regolare protrattasi nel tempo. Mi sento più rilassato, più elastico, la mia mente è più serena. Non inizio né colazione né cena prima di aver praticato queste asana, come vengono chiamate nello yoga. Quel giorno mi sentivo felice e non vedevo l’ora di intraprendere questa esperienza di vita, di due settimane o forse più. Sempre se fosse stato possibile, poiché trovare l’ashram non era così semplice come credevo. Ma com’era possibile non riuscirci? Sapevo che la vita al suo interno era particolare, spesso piena di doveri da rispettare e prove. Ma non fisiche – quelle, più o meno, riesci ad affrontarle. Erano prove mentali, prove per abbattere il tuo ego, per renderti consapevole della tua parte più profonda. Sicuramente ci sarebbero stati momenti difficili per le mie emozioni, ma dentro di me, ero certo, questo tipo di conflitto mi avrebbe portato ad affrontare i miei demoni nascosti e, forse, a conviverci serenamente. Quella mattina, preso dall’ennesima voglia di scoprire dove fosse questo ashram, decisi di cercarlo in una delle vie più affollate di Varanasi. I miei pensieri si abbandonarono all’universo. Conducimi Tu, io mi arrendo, pensai. Avrei comunque chiesto ragguagli. La cosa che avvenne dopo ha dell’incredibile e rimarrà nella mia mente per sempre. Mentre camminavo in una strada affollata, dopo aver chiesto per l’ennesima volta indicazioni, cominciai ad avere giramenti di testa. Tutto, attorno a me, si stava offuscando. Uno stato confusionale prese il sopravvento e, dopo qualche istante, svenni, cadendo in un’oscurità totale.

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Il potere delle parole

EBBI la certezza che la sua anima conosceva la mia prima ancora che i nostri sguardi si incrociassero. Non era questione di crederci o meno, aveva a che fare col sentire: era ciò che sentivo. Era seduta dinanzi a me e, osservandomi in silenzio, sorrideva. Io, disteso a letto, guardavo i suoi occhi azzurri, profondi come l’oceano. Occhi che brillavano di un fuoco primordiale, dove potevo scorgere un’anima forte e pura. Mi innamorai di lei subito. Ma non lo sapevo ancora. D’improvviso, la melodia di un flauto proveniente dal piano di sotto interruppe i miei pensieri. In quel momento non mi curavo di dove fossi, ero ancora confuso e i miei sensi si stavano lentamente destando. Nessuno dei due si era ancora presentato, ma forse era un bene così, per ora. La donna accarezzava un gattino, uno di quelli a chiazze colorate. Continuavo a osservare i suoi movimenti e le sue sembianze aggraziate. Indossava un lungo e semplice capo di seta rosa con sfumature porpora tipicamente indiane. I lunghi capelli, biondo scuro, erano raccolti all’indietro, fermati a grappolo da un bastoncino che li teneva uniti. Al collo portava un rosario creato con i semi di una pianta indiana, penso si chiamasse mala. Aveva anche piccoli orecchini d’argento con incastonate pietre dello stesso colore degli occhi. Mentre accarezzava il felino, intravedevo ai suoi polsi piccoli tatuaggi con strani simboli di cui non comprendevo il significato. Nei momenti in cui i nostri occhi si incrociavano, il mio essere sussultava. La sua era di certo un’anima antica che in qualche esistenza passata avevo già conosciuto. D’un tratto, posò delicatamente il gattino sul pavimento e, rialzandosi, raccolse la copertina di seta che era caduta a terra. «Vedo che ti stai

riprendendo», disse. «Mi fa piacere. Immagino sarai leggermente intontito.» «Sì, in effetti sono scombussolato», risposi. Si avvicinò a me e posò la mano sul mio braccio in segno di conforto. «Ora sei qui, va tutto bene. Sii sereno. Ogni cosa avviene sempre nel tempo e nel luogo giusti. Ogni cosa avviene quando sei pronto a riceverla. Sta a te trasformarla in un’opportunità per la tua crescita o in un ostacolo per la tua evoluzione.» Cercai di capire il senso della frase, mentre alcuni raggi di sole che componevano strane forme di luce sulla parete accanto al letto distraevano la mia vista. Non ricordavo nulla di come fossi giunto lì. Mi apprestai, ancora attonito, a osservare la piccola stanza in cui mi trovavo. Sulle pareti erano appesi alcuni dipinti in batik con pitture di opere teatrali indiane. Nuovamente, la donna dagli occhi azzurri interruppe il mio stato catatonico. «Lo dice sempre Tatanji.» «Cosa?» «La frase che ti ho appena citato: ‘Ogni cosa avviene sempre nel tempo e nel luogo giusti. Ogni cosa avviene quando tu sei pronto a riceverla’.» «In che senso?» domandai, cercando di comprendere meglio quella situazione che ancora aleggiava confusa in me. «Cerco di spiegarti meglio, ma prima mi presento, ora che ti sei destato. Sono Shanti, l’aiutante di Tatanji, un anziano monaco che abita e insegna qui. In India si aggiunge il suffisso ‘ji’ alla fine del nome per dare un senso di rispetto e onorificenza nei confronti di una persona. Con lui faccio seva, ovvero servizio disinteressato, mi prendo cura dell’ashram.» Alcuni miagolii la interruppero. Guardai in un angolo della stanza: dei gatti stavano sonnecchiando in una cuccetta. Mi vennero in mente quelli che avevo tanti anni prima. «I gatti sono animali speciali, dei piccoli maestri di vita; ne ho avuto la prova quando ero ragazzo», le dissi. Lei annuì con un sorriso. Dal mobiletto accanto prese una caraffa di vetro e versò dell’acqua in un bicchiere, che poi mi offrì. Non esitai a bere. «Grazie», dissi, frastornato. «Devo ancora raccapezzarmi.» Lei sorrise di nuovo. Mi sollevai a sedere, appoggiando la schiena alla sponda del letto costruito con vecchie canne di bambù. In quell’istante mi accorsi di stringere un biglietto strapazzato: era l’indirizzo di un ashram a Varanasi.

In quell’attimo realizzai dove mi trovavo. Ricordai il viaggio, lo yoga, la città di Varanasi. Ma perché in quel momento ero lì, in quella piccola stanza in compagnia di una donna e di alcuni gattini, senza peraltro sapere come ci fossi arrivato? Lei, sempre paziente, accarezzava uno dei mici che si era appena adagiato sulle sue gambe. Attendeva che riprendessi completa consapevolezza di me stesso e del contesto. «Come sono arrivato qui?» domandai. «Ti ci hanno portato di peso. Ieri pomeriggio sono arrivate qui alcune persone. Una di loro si è fermata a parlare con me e mi ha detto che, prima che svenissi davanti a lui in strada, in piena via principale, ha sentito che stavi cercando questo ashram.» «Incredibile!» esclamai. «Sono giorni che lo cerco, e tutto a un tratto mi ci trovo catapultato a peso. Letteralmente! Senza sapere cosa sia successo e chi mi ci abbia portato. E, per arrivarci, mi tocca svenire.» Le mostrai il biglietto che tenevo in mano. «Guarda! Lo stavo ancora stringendo. Ed eccomi qui!» Shanti mi sorrise. «Ogni cosa ha motivo d’essere. Ricordi la frase che ti ho detto prima? Ecco: se sei qui, il motivo c’è. Esiste un detto, che conoscerai anche tu: quando l’anima è pronta, il maestro appare.» «Sì, è vero, ma non conosco questo modo di dire.» «In realtà il significato più profondo è che, quando sei pronto, ogni cosa che giunge sul tuo cammino può trasformarsi in un maestro. Una volta Tatanji mi disse: ‘Un maestro è colui che ti toglie la polvere dagli occhi, scuote la tua anima e ti indica dove guardare. Come se fossi un diamante, ti pone dinanzi alla luce e ti mostra quanto puoi risplendere’.» «Mi indica cosa guardare?» «Ti indica dove guardare. Cosa vedere spetta a te.» «In che senso?» «Tatanji non vuole creare nessun tipo di dogma. A seconda della tua profondità di coscienza, capirai strada facendo. Se sarai pronto, avrai la possibilità di realizzare ciò che dice. Lui non ti chiederà mai di credere in questo o in quello. Capire spetterà solo a te, unicamente a te. Tatanji ti potrà indicare i metodi più adatti al tuo percorso personale, grazie alla sua sensibilità e alla sua intuizione spirituale, ma ogni cosa si renderà manifesta solo quando sarai pronto a vederla. Tatanji dice che: ‘Ciò che riesci a vedere sta nel grado di purezza del tuo cuore’. Ci sono conoscenze che vengono

apprese solo da persone che riescono a comprendere se stesse e il cammino che devono percorrere.» A quel punto, Shanti cambiò discorso. «Come ti chiami?» Appoggiai le spalle alla testiera del letto. «Scusami, è vero, non mi sono presen…» Non feci in tempo a terminare la frase che lei mi interruppe di nuovo: «Kripala! Mi è arrivato in mente in questo preciso istante, un’intuizione. Kripala!» «Come, scusa?» «Ti chiamerai Kripala. È sanscrito. Se per te va bene, ovviamente.» Sorrise. «Kripala? Cosa significa?» «Deriva da Krìpa, in sanscrito significa ‘grazia’, ‘benedizione’. Se ora sei qui, è una grazia», rispose. «Penso non esista nome spirituale più adatto, vista la particolarità del momento. Sono sempre stata molto ricettiva a questo tipo di intuizioni. Mi piace sentire ‘oltre’, se possiamo dire così.» «Non capisco», replicai, confuso. «Va bene per il nome in sanscrito, mi piace. Ma cosa intendi quando affermi che se sono qui è una grazia?» «Avrai le tue risposte, ma non sarò io a dartele. Non attraverso me o forse in parte, chissà. Ora rinfrescati. Ripasso tra alcuni minuti, ti porto a conoscere Tatanji. Ti sta aspettando.» Shanti fece per alzarsi, ma la bloccai. «Un’ultima cosa. Sei italiana? Dal tuo aspetto, mi pare di sì. Hai una carnagione chiara e anche dalla pronuncia si direbbe di sì.» «In parte», rispose. «Mia madre è italiana, mio padre è un Rāja indiano, molto conosciuto in città. Discende da un’antica dinastia di principi.» Si alzò dalla sedia e, avvicinandosi alla finestra, iniziò a raccontarmi. «Molti anni fa, durante un viaggio in India, mia madre incontrò mio padre. Si frequentarono e poco dopo si sposarono, era già incinta di me. Fu uno scandalo senza precedenti, allora, ma con il tempo le persone dimenticano molte cose. Non senza difficoltà, i miei nonni accettarono la situazione. Io sono nata qui e ho il doppio passaporto. Ho vissuto per parecchio tempo in Italia, dove ho studiato Psicologia e Antropologia del linguaggio. Poi mio padre decise che avrei dovuto apprendere un altro tipo di conoscenza prima di sposare l’uomo che la mia famiglia aveva già scelto per me. Mi mandarono in questo ashram per fare seva, meditare e apprendere i consigli

di Tatanji. Quando ci siamo incontrati, siamo entrati subito in sintonia. In verità lui già mi conosceva, ma non ha voluto raccontarmi nulla. Sapeva però perfettamente chi fossi: una combattiva spirituale. Lo ringrazierò a vita per questa incredibile esperienza. Qui cerco il più possibile di aiutarlo e stargli accanto.» Il suo racconto mi aveva lasciato incredulo. «La tua famiglia ti ha combinato il matrimonio? Non sapevo si praticasse ancora questa usanza in India, ai giorni nostri.» Avevo parlato cercando di nascondere l’amarezza. «Inoltre mi piacerebbe sapere perché ti sia definita una combattiva spirituale.» «Ne parleremo più avanti, con calma. Ora rinfrescati.» Se ne andò con un sorriso e un namasté. Ero sempre spaesato, ma felice delle novità. Mi era stato concesso questo privilegio e intendevo assaporarlo appieno. Non aveva più importanza come fossi giunto lì: avevo intenzione di cancellare per breve tempo il mio passato e accogliere con fede il presente. Dobbiamo aver fede. Fede in ciò che sentiamo. Fede nei cambiamenti che spesso sono l’anticamera della nostra evoluzione. Mi presi il tempo per rinfrescarmi e rilassarmi. Dopo una mezz’ora, come promesso, Shanti tornò a farmi visita. Entrata in camera, si chinò per accarezzare un gatto che le stava passando accanto. «Sei pronto, vedo. Ottimo. Vieni, andiamo di sotto, in sala di meditazione.» La seguii. Mentre scendevamo lentamente per le scale, osservai l’ambiente che mi circondava. L’arredamento era essenziale. Nessun tipo di soprammobili o simili, solo alcuni mobili e qualche quadro paesaggistico. Tutto era minimalista e regalava un’atmosfera di pura serenità. Una volta nell’atrio, ci fermammo. «Quando, diversi anni fa, Tatanji si trasferì qui, c’erano tantissimi gatti randagi», mi raccontò Shanti. «Finita la ristrutturazione della casa, anziché allontanarsi alcuni di loro rimasero. Talvolta ne arrivano di nuovi, sempre ben accetti. Si sono abituati a noi, e noi a loro.» Entrammo in una grande sala riservata alla meditazione. Vi era una grande finestra da cui trapelava una luce intensa ma soffusa. Sui muri bianchi erano appesi alcuni quadri con dipinte, in primo piano, le dita delle mani in alcune posizioni particolari: non ne conoscevo il significato

mistico, ma sapevo che si chiamavano mudra. Negli angoli erano disposte piante di diversa natura e grandezza. Alcuni cuscini erano sparsi un po’ ovunque sul pavimento di legno scuro. Prima di entrare, con un gesto Shanti mi invitò a fare silenzio e a togliermi i sandali. Obbedii immediatamente. Al centro della sala, seduto nella posizione del loto, c’era Tatanji. Mi dava le spalle, stava ancora suonando il suo flauto traverso, di quelli costruiti con il bambù. Lunghi capelli grigi e ondulati, raccolti da un elastico, gli scendevano lungo la schiena in modo regolare. Indossava una tunica arancione. Un sussurro attirò la mia attenzione: Shanti mi indicò di sedermi dietro Tatanji. Annuii, e con un gesto lei mi salutò, facendomi capire che ci saremmo rivisti a breve. Lentamente e senza far rumore mi adagiai a gambe incrociate dietro di lui, che continuava a suonare indisturbato il flauto. Sopra la sua gamba destra, un gatto riposava tranquillo. Decisi di chiudere gli occhi per immergermi in quelle dolci note che avvolgevano la mia mente donandomi un senso di serenità. Dopo alcuni minuti, o forse più, percepii un gatto passarmi accanto, sfiorandomi la coscia. Aprii gli occhi e, sbalordito, vidi Tatanji di fronte a me; continuava a suonare. In quel momento si interruppe e mi sorrise. Come avrà fatto a girarsi? mi chiesi. Non ho sentito nessun rumore e la musica non si è mai interrotta. «Namasté. Benvenuto, Kripala.» «Namasté, Tatanji, grazie. Sono emozionato di essere qui, in tua compagnia. Una curiosità: come fai a conoscere il nome spirituale che mi ha dato qualche minuto fa Shanti?» gli chiesi. Attese un istante prima di rispondere. «Ho solo affermato quello che la tua anima traspira», disse infine. «È un nome che rispecchia molto il tuo essere. Come ti avrà già accennato, Shanti è portata a scoprire il nome spirituale delle persone. E si diverte pure.» Si fece serio e il tono di voce cambiò. «Ti stavo aspettando da tempo. Le nostre anime si stavano cercando.» «In che senso?» domandai, perplesso. «Io e te ci siamo già conosciuti, non in questa vita ma in altre, passate, come è successo con Shanti.»

Le sue parole turbarono la mia mente, già agitata di suo per l’incontro. Ero pronto a porre una serie di domande per avere spiegazioni, ma lui me lo impedì alzando un braccio. «Ciò che conta è solo questo istante. Le vite passate sono già avvenute, stanno bene dove sono e c’è una ragione. Pensa se dovessimo ricordare le migliaia di incarnazioni che abbiamo avuto, con tutti i ricordi piacevoli e dolorosi, i traumi, le gioie, le centinaia di migliaia di persone conosciute… se eravamo esseri umani, animali o altro… Diventeremmo pazzi. Facciamo fatica a gestire una sola vita, cos’accadrebbe se ne ricordassimo centinaia o addirittura migliaia?» «Io e te dovevamo incontrarci?» domandai interrompendo le sue riflessioni. «Sei qui perché nella tua vita hai superato molte prove. Sei stato ferito ma sei guarito. Sei caduto ma ti sei rialzato. Sei stato ingannato ma hai trovato la verità. Sei stato deluso ma hai sorriso. Sei la somma di tutte le esperienze che ti hanno forgiato e che, belle o brutte, ti hanno portato a essere chi sei, dove sei, in questo preciso momento.» Riflettei qualche istante in silenzio sulle sue parole. Tatanji aveva uno sguardo penetrante e, nello stesso tempo, dolce. Riconoscevo quel modo di essere. Era solo una sensazione, un ricordo lontano, ma in lui c’era una sorta di magia: riusciva a catturare la mia anima con la sola presenza. Alcuni gatti passarono accanto a lui, strofinandosi sulla sua veste e riempiendolo di fusa. Lui ricambiava accarezzandoli. Poi riprese a parlare. «Ogni evento della tua vita passata ti ha portato a essere qui, ora. Il mondo è stato influenzato in piccola parte da te, come il mondo ha influenzato te in piccola parte.» «Allora è corretto quando si dice che ognuno di noi è connesso con ogni altro essere vivente», ragionai. «Esattamente. Ogni anima è connessa con le altre, non vi è alcuna separazione. Cerchiamo fuori ciò che in realtà è già dentro di noi. A chi riuscirà a comprendere, sarà permesso di vedere ciò che prima gli era nascosto.» «Per cui l’importante è riuscire a ‘vedere’?» «Il mistero della vita appare se lo sai riconoscere. Un fiore diventa una stella, la nuvola una galassia, la goccia d’acqua un oceano. In verità non vi è distinzione. Quando la mente scompare, ciò che rimane è il tutto.»

«Dunque non è stato il caso, o la coincidenza, a far sì che un monaco errante diversi anni fa, sulle montagne dell’Himalaya, avesse incrociato un mio amico e gli avesse dato le indicazioni per farmi essere qui, ora, dinanzi a te.» Ancora una volta, Tatanji rimase in silenzio per qualche istante. Poi sul suo volto comparve un sorriso. «In realtà, quel monaco errante ero io. Ti mandai un messaggio.» «Eri tu?» proruppi, sbalordito e incredulo. «Ero in viaggio verso un villaggio alle pendici dell’Himalaya e lungo il percorso mi fermai alcune settimane per meditare. In verità, aspettavo anche il tuo amico. Poi lui arrivò nella piccola dimora di legno, sassi e arbusti che già qualcuno aveva costruito tempo addietro. Siamo stati assieme alcuni giorni e, prima che ripartisse, gli diedi un foglio e delle indicazioni per te: ossia di consegnartelo tra alcuni anni. Allora non eri pronto. Gli dissi il periodo esatto, che corrisponde a poco tempo fa. Sapevo che si sarebbe ricordato. Il mio compito era farti arrivare quel messaggio. Gli eventi e il destino hanno fatto il resto.» «Per cui ero predestinato! Tu avevi già visto. Sapevi che nel futuro ci saremmo incontrati!» esclamai. «Hai semplicemente smosso alcune energie, o qualcosa di simile, in modo da rendere tutto più veloce.» «Non più veloce, la velocità non c’entra, come non c’entrano il futuro e il passato. Tutto è avvenuto perché doveva avvenire.» Alcuni mici si accomodarono nuovamente sulle sue gambe. Il sorriso di Tatanji si allargò. «Qualche mese prima di partire per arrivare qui, ti sarai accorto di un maggior numero di quelle che tu chiami ‘coincidenze’. Hai perso il lavoro e nello stesso periodo hai messo fine a una relazione che durava da molto tempo, giusto?» «Sì, esatto. Ma come fai a saperlo?» esclamai meravigliato. «Questo non ha importanza; è importante, invece, capire che tutto è avvenuto per facilitare la tua partenza. Il tempo era maturo.» «Pensavo fosse stata una mia decisione, non il destino, a condurmi qui.» «Libero arbitrio e destino viaggiano sullo stesso binario. Tu sei l’artefice di ciò che sei e di ciò che sarai, ma subisci gli effetti delle tue azioni passate e presenti. Si chiama karma. Pensavi fossero coincidenze, in realtà vi era uno schema nascosto. Le coincidenze non esistono, sono segnali che

l’universo invia sulla tua strada con significati che solo tu puoi comprendere. Ogni avvenimento ha uno scopo: dalla farfalla che si posa su un fiore all’uragano che devasta un’intera isola. Tutto ha motivo d’essere. Tutto ha un significato profondo. Ogni evento visibile e invisibile segue una legge universale perfetta e armoniosa.» «Dunque non potevo scappare al mio destino», riflettei grattandomi il mento. «Anche se scappi, il destino ti viene a cercare, come una nave che, solcando l’oceano, non può sfuggire alla tempesta a cui è predestinata.» «Vuoi dirmi che il mio intenso desiderio di venire in India e di praticare lo yoga mi ha preparato a questo incontro?» «Quando desideri intensamente qualcosa, infiniti intrecci invisibili creano attorno a te circostanze imprevedibili. Ciò che è destinato a te, si rivelerà. Se il desiderio è puro, avrà modo di manifestarsi.» Stentavo a seguire il suo discorso, e glielo feci presente. «In che senso ‘puro’?» «Non è collegato ai desideri dell’ego. Sorge spontaneo, al di fuori della mente. Fai attenzione le prossime volte. Vedi, Kripala, il nostro scopo su questa terra è trovare la strada che ci conduca al nostro vero Sé. Tutto quello che si persegue diversamente non è altro che un modo di sottrarsi alla nostra interiorità. La nostra vera natura viene separata da un falso io, plasmato dai dogmi della società, dalla cultura e dalla famiglia in cui viviamo. Ciò che ci allontana da noi stessi è ciò che ci incatena.» Seguivo attento i suoi ragionamenti. «Dunque è importante ritrovare noi stessi, risvegliarci.» «Esattamente, ma non solo. Aiutare ogni essere vivente nella sua evoluzione, soprattutto se ne ha bisogno, è fondamentale per la nostra esistenza: viviamo tutti sulla stessa Terra. Tu sei l’autore del tuo destino; ogni cosa che dici, pensi o fai, influenza te e l’ambiente che ti circonda. Anche se può non sembrare, è così. L’universo è un caos ordinato. La Coscienza Suprema, a tua insaputa, genera intere galassie, fa nascere nuove stelle e nello stesso istante forma gli infiniti atomi dei nostri corpi. Noi partecipiamo a questo immenso gioco cosmico, coscienti o meno, di ciò che avviene e di ciò che siamo.» Assaporai l’attimo di silenzio che seguì, ripensando a quanto avevo appreso. «Grazie, Tatanji», risposi infine. «Avrò modo di starti accanto, in

questa permanenza, così apprenderò il più possibile.» «Non sempre accanto a me», replicò. «Nelle prossime giornate conoscerai anime meravigliose e passerai del tempo con loro. Probabilmente un pomeriggio o una mattina, o anche di più. Non pensare che un giorno sia troppo breve. Ci sono persone che, pur rimanendo per anni accanto ad anime elevate, apprendono poco e non realizzano quasi nulla. Capire ciò che ti verrà insegnato sarà compito della tua sensibilità e della tua consapevolezza. Hai un’anima antica, va solo risvegliata.» «Cosa intendi per anima antica?» «Un’anima che è rinata su questo pianeta prendendo nuovamente forma umana. Un’anima che ha vissuto molte vite. Un’anima che ha già un suo cammino evolutivo.» Mi guardai attorno, cercando di convogliare i pensieri su quello che Tatanji aveva appena detto. «Come ti accennavo, in questi giorni avrai queste splendide condivisioni», continuò sereno. «Ti verranno trasmesse rivelazioni profonde anche se talvolta potranno apparire semplici. In effetti a molti sembrano scontate o non interessanti; in realtà sono fondamentali. Chi riesce a scoprire la verità in queste rivelazioni ha le chiavi per la propria realizzazione interiore. Rimani limpido come un torrente di alta montagna», mi esortò. «Presta attenzione a ciò che ti arriva dal profondo del tuo essere. Alcuni insegnamenti saranno diversi da altri: sii consapevole di ciò.» Di nuovo perplesso, lo interruppi: «Cos’hanno di diverso questi insegnamenti? Cosa intendi?» «Alcune rivelazioni hanno il potere di cambiarti, ma solo se lo acconsenti. Cambiano la tua consapevolezza, entrano nella tua essenza.» Osservandomi, Tatanji comprese che non avevo capito. «Tutto dipende dalla tua sensibilità, dalla tua intuizione profonda», spiegò. «Se sarai pronto, capirai. Come un seme in un terreno fertile, che se nutrito cresce velocemente, allo stesso modo, quando il seme della coscienza sarà maturo, l’anima sarà pronta a ricevere il nettare della conoscenza.» «Non devo fare altro che ascoltare, dunque.» «Ascoltare è già molto. Molti ascoltano ma non sentono. Da migliaia di fiori le api estraggono e secernono poche gocce di nettare reale, così da migliaia di parole la vera saggezza può essere concentrata in pochi versi. Il potere di alcuni insegnamenti, se compresi e messi in pratica, ha l’effetto di

migliorare la nostra vita. Le parole hanno la capacità di modificare le vibrazioni attorno a te, se ne conosci la loro forza e il loro potere. Più le parole sono pregne di energia spirituale infusa da chi le pronuncia, più avranno un effetto trasformativo su chi le riceve.» Riflettei. «Tutto sta nel sapere e capire questi brevi concetti o insegnamenti.» «La saggezza può essere racchiusa in brevi formule. Nel linguaggio sanscrito si chiamano sutra. Non occorre avere la conoscenza di interi volumi per vantarsi ed elogiarsi con chiunque del nostro sapere, alimentando così il nostro ego. Saggio è colui che attraverso brevi e profondi concetti riesce a concentrare l’essenza spirituale e a farne buon uso.» «Che cosa sono i sutra?» «Anticamente erano versi spirituali cantati e ripetuti in continuazione, per dar loro potenza e fissarli nella memoria di chi li pronunciava, così che, di generazione in generazione, venissero correttamente tramandati. Sono brevi aforismi in cui è racchiusa un’antica saggezza. Ed è per questo che le parole, se ben utilizzate, possono migliorare le persone.» «Ognuno di noi è un universo a sé, ha una percezione e una coscienza differenti a seconda della sua evoluzione spirituale. Creiamo il nostro mondo con tutti i tasselli che costituiscono la nostra realtà apparente. Il vero sforzo è riconoscere il nostro universo e trascenderlo. Ecco: è questa l’utilità delle poche parole di potere. Nascoste in esse, vi è la saggezza nella sua essenza.» Rimasi, come sempre, qualche istante in silenzio per riflettere. Tatanji mi lasciò tra i miei pensieri, poi, guardandomi dritto negli occhi, mi chiese: «Cosa ricordiamo alla fine di un libro, al di là della storia? Alcune frasi o brevi dialoghi, ciò che ha toccato il nostro interesse, la nostra sensibilità, la nostra umanità, il nostro cuore. Frasi che, se rievocate, ci danno conforto e spesso cambiano in meglio le nostre giornate. Piccole saggezze che rimangono per sempre nella nostra anima come tatuaggi interiori». «È vero. Ricordo i detti di mia nonna e le citazioni di alcuni libri.» «Come si riconosce un fiore dal suo profumo, così si riconosce la saggezza dalla profondità in cui penetra nella nostra anima. La verità è celata nella semplicità. Questa saggezza è nascosta nei testi sacri: testi

religiosi o spirituali, oppure scritti di anime elevate, che attraverso la loro storia ci hanno lasciato gemme di una ricchezza infinita.» «Ad esempio alcuni famosi santi mistici?» domandai. «Sì. Le loro storie sono prese come esempio per intere generazioni, e lo saranno anche in futuro. Viviamo condividendo racconti fin dall’inizio della comparsa dell’uomo. Storie che spezzano o saldano i rapporti umani. Le parole creano il nostro mondo, il nostro passato, il nostro presente e il nostro futuro.» Tatanji si alzò, da un tavolo prese una brocca e ne versò il contenuto in una tazza. Nell’aria si propagò un lieve odore di tè. «Spesso le storie celano importanti insegnamenti, espressi in brevi nozioni. Il cambiamento nella nostra vita può avvenire anche attraverso pochi concetti ben appresi, ma solamente se li mettiamo in pratica. La pratica è ciò che fa la differenza tra un saggio e un erudito. Impara dalle grandi anime e da ciò che insegnano. Come un minatore scava nelle profondità della montagna per raggiungere le pietre più preziose, così il saggio penetra in se stesso per raggiungere l’essenza del suo cuore.» In quel momento, un uomo di mezza età entrò nella sala. Rivolse un saluto a Tatanji, che ricambiò, chiedendomi poi di lasciarlo solo con il suo ospite, con il quale aveva concordato un incontro importante già alcuni giorni prima. L’uomo attendeva in un angolo della stanza. «Va’ da Shanti, ti mostrerà l’ashram e la zona qui accanto», mi consigliò. «Ricordati che lei è collegata a te.» L’ultima frase mi stupì. «In che senso?» chiesi, mentre mi alzavo per dirigermi all’uscita. «Ci sono miliardi di persone che vivono su questa terra, ma ne incontriamo solo alcune: quelle che faranno parte del nostro destino. Alcune per breve tempo, altre per molto, altre per sempre.» «Vi è un numero prestabilito di persone che conosceremo?» chiesi incuriosito. «Quelle con cui hai creato un legame indissolubile e che si ripresentano vita dopo vita. Shanti è una di queste. Ascoltala e fai tesoro dei suoi consigli per tutto il tempo che rimarrai qui.» «Certamente, Tatanji, ne sarò felice», dissi. Feci per uscire, ma mi fermò. «Prima che tu esca, vorrei ricordarti una piccola e semplice usanza che pratichiamo nel nostro ashram. È la ripetizione di un breve sutra che viene

recitato ogni giorno: di mattina appena svegli, la sera prima di addormentarsi e ogni volta che si entra in sala di meditazione. È un sutra d’amore, un ricordo verso l’Infinita Coscienza Suprema che permea ogni cosa. Trova il tempo per impararlo e comprenderlo con il tuo cuore e con la tua mente.» «Ne sarò onorato, Tatanji.» Mi consegnò in mano un piccolo foglio che lessi mentalmente mentre uscivo. A quella Coscienza Suprema che tutto avvolge, che non ha né inizio né fine, dove il tempo è un Suo pensiero e lo spazio un Suo respiro, io mi abbandono e rendo omaggio. Rimasi meravigliato da tanta semplicità e profondità. Lo ripetei più volte, cercando ogni volta di entrare in connessione con il mio cuore. Mi chinai per raccogliere i sandali riposti dietro l’ingresso. In quell’istante, con la coda dell’occhio, notai Shanti entrare in ashram. Mi passò accanto senza vedermi. Il suo volto dai lineamenti delicati esprimeva dolcezza e sensualità e il suo profumo d’incenso speziato mi avvolse i sensi. D’improvviso, forse per intuito o altro, si girò verso di me accorgendosi del mio sguardo. E in quel mentre avvenne la cosa più bella che potesse accadere: sorrise. Presi i sandali e uscii in giardino, attendendo che tornasse. Arrivò poco dopo, mi mise in mano un mango maturo, sbucciato e tagliato, e mi indicò gli scalini accanto alla veranda. Ci sedemmo. Il mango era dolcissimo, e la ringraziai. Le raccontai la condivisione avvenuta con Tatanji, informandola che eravamo stati interrotti mentre discutevamo di un argomento che trovavo molto interessante. «Qualcosa ti posso accennare anch’io», mi disse, «grazie ai miei studi e a quello che ho appreso vivendo qui in ashram.» La ringraziai e mi predisposi all’ascolto. «Come hai capito, le parole hanno un potere enorme sul nostro modo di pensare. Non solo creano un forte impatto in noi, ma anche sulle persone che le ascoltano. Hanno un effetto visibile e invisibile su tutto ciò che vive. Possono influenzare la natura dei liquidi, delle piante, il nostro umore, i nostri geni e anche la nostra essenza. Tutto dipende da cosa si dice, come lo si dice e dal potere personale di chi le pronuncia.»

Terminai di gustare il mango. «Come fanno a influenzare la realtà?» «Hai mai alimentato la tua mente con le parole come fai con il cibo per il corpo?» «Cosa intendi?» «Assimiliamo alimenti salutari per darci una buona energia e migliorare la nostra salute. La stessa cosa dovrebbe avvenire quando parliamo di noi stessi: dovremmo utilizzare le parole per darci forza, coraggio, fiducia e amore. Cosa che la maggior parte delle persone non fa. Il modo in cui ti riferisci a te stesso dice molto su come nutri la tua mente. Dovremmo far entrare in noi parole di guarigione, di elevazione interiore, di stimolo per la nostra anima.» Allargai le braccia. «È vero, penso sia un bellissimo modo di migliorarci e aumentare la nostra autostima.» «Che linguaggio usi quando sei solo: è come la seta o come la lama? Delicato o tagliente? D’amore o di paura? Tutto ciò che ti racconti è spesso concretizzato. Fai in modo che la tua mente non sia un secchio, riversandovi parole negative e di disprezzo. Nutrila con parole d’amore, di stima e di forza. Ricorda: ogni singola cellula ti ascolta.» «Hai detto che le parole hanno il potere di trasformare: com’è possibile?» «Tutto nell’universo è vibrazione divina. Anche le parole vibrano. Creano o distruggono. Personaggi malvagi le hanno usate per sopprimere vite umane o intere nazioni. Le grandi anime, invece, per aiutare le persone e i popoli a evolversi. Ecco perché alcuni termini che utilizziamo sono chiavi di accesso a piani superiori o inferiori della nostra esistenza e coscienza. Osserva sempre come una persona si riferisce a se stessa: capirai molto di chi hai davanti. Prova a immaginare le parole come esseri viventi che hanno vita propria. Pensale mentre si evolvono, mutano, si difendono o attaccano. Le parole entrano in noi, nella nostra mente, possono diventare amici o nemici di noi stessi, trasformandoci. È importante comprendere la loro influenza. Secondo un antico sapere, i pensieri negativi sono sempre stati più potenti rispetto a quelli positivi. Questo accade perché essi si radicano in noi con più forza, rimangono aggrappati al nostro inconscio come i molluschi sugli scogli. Ed è per questo che occorrono diversi pensieri positivi per contrastarne solo uno negativo.»

«Come possiamo ostacolare i pensieri negativi che talvolta ci perseguitano?» «Attraverso l’evocazione di pensieri opposti. Fa’ in modo che la tua volontà sia focalizzata nel creare pensieri salutari. Tutto sta nella volontà del fare. Come dice Tatanji: lo sforzo è necessario, sempre. Ecco perché nelle varie tradizioni spirituali si utilizzano le parole sacre per purificare la mente e trascenderla. È un linguaggio che penetra nell’anima.» Shanti si prese una pausa per finire di mangiare il mango. «In sanscrito queste parole spirituali vengono chiamate mantra», continuò. «Sono espressioni dense di energia spirituale che nel corso dei millenni hanno continuato a caricarsi e diffondersi in tutto il mondo, grazie anche a milioni di persone che durante i secoli le pronunciavano e le cantavano. Vengono recitate da qualsiasi persona che senta il desiderio di evolversi. Chi ripete i mantra, con sincerità e regolarità, ha la certezza di purificare la mente e il cuore.» «Io li ho sentiti e recitati. Credo che…» Shanti mi interruppe: «Io, io. Utilizziamo sempre la parola ‘io’. Lo sai che è quella che usiamo di più?» «Io?» «Sì, e quello che ci aggiungiamo dopo è ancora più importante. La nostra realtà inizia dopo la parola ‘io’, è quello che ci definisce. Io sono quello. Io sono questo. Io desidero questa cosa e così via. È solo ego, ma è normale che lo sia. L’Io è sempre il nostro primo pensiero. Quello che sommiamo dopo crea il nostro universo. Un universo costruito da muri o da spazi infiniti. Spesso usiamo le parole per etichettare. In questo modo limitiamo la nostra visione e i nostri orizzonti. Ogni etichetta che incolli per definire qualcosa è in realtà una piccola prigione.» La sua affermazione mi rese perplesso. «Perché?» «Ci fa rimanere, talvolta, nella zona che abbiamo creato, ci confina impedendoci di osservare oltre. Spesso tutto ciò è causato dalla comodità, dalla cultura, dalla famiglia e dalla società. Soprattutto dalla nostra limitata capacità di comprendere una visione totale. Quando crei il tuo piccolo territorio, è difficile accettare la visione di persone che vogliono farti osservare panorami diversi dal tuo.» «In pratica creiamo il nostro mondo», commentai. «Come possiamo andare oltre?»

«Se i nostri pensieri non sono come li vogliamo, la soluzione è rompere gli schemi della mente. Si inizia piano piano, trasformando il linguaggio che si usa abitualmente.» «Chi mi insegnerà?» domandai. «Lo farai tu stesso. E forse un po’ io.» Una piccola smorfia si disegnò sulle sue labbra, e scoppiammo in una fragorosa risata. «Nei prossimi giorni avrai modo di conoscere cosa apprendere e da chi.» «Ti ringrazio», dissi. Attesi un attimo, guardandola. «Accanto a te non occorre parlare più di tanto. Mi capisci senza che dica nulla.» Ricambiò a suo modo, con un sorriso. «Questo vale anche per me.» La osservai come si guarda un fiore a primavera: con meraviglia e stupore. Possedeva uno spirito delicato ma forte come l’acciaio. In alcuni tratti ci assomigliavamo, quasi fossimo farfalle con gli stessi disegni dipinti sulle ali. Uscimmo dall’ashram e ci avviammo lungo una via parallela per una breve passeggiata in città. Entrambi avevamo fame, così ci fermammo nei pressi di un chiosco. «Mangia questo», mi consigliò Shanti indicandomi una foglia arrotolata. «Dimmi se ti piace.» Presi l’involtino vegetale che mi aveva indicato. «L’ho visto esposto in vari chioschi della città nei primi giorni dopo il mio arrivo. La maggior parte delle persone in strada ne mangia.» «È una foglia di betel avvolta e riempita con vari cibi locali. Cocco essiccato e speziato, chiodi di garofano, un tipo particolare di noce, e altro a seconda dei gusti dello chef. Spesso ci mettono tabacco che poi sputano a terra, anche se ora un’ordinanza vieta questo gesto. Una caratteristica della foglia è la sua forma a cuore, e pure il colore verde intenso e lucido, come puoi vedere.» «È buonissima e speziata», osservai, anche se era un tantino forte per il mio palato delicato. «Dopo che l’hai mangiata, la bocca diventa leggermente rossa. È un cibo conosciuto ovunque in India, benché questa ricetta sia una variante solo di Varanasi. Dicono che la foglia venga raccolta in zona, ma in realtà viene importata. È ottimo per rinfrescare la bocca. Pur trattandosi di un cibo tradizionale della cucina indiana, è mangiato e conosciuto in tutta l’Asia. A Varanasi lo trovi in ogni via, mercato o ristorante. Da diverse centinaia

d’anni questo alimento è sempre stato presente nella cultura locale, non solo per gustarlo ma anche per offrirlo alle divinità durante le celebrazioni religiose; oppure alle feste importanti, tra cui i matrimoni. La tradizione dice che offrirlo alle divinità sia di buon auspicio per la propria longevità. Infatti è un cibo che rispetto ad altri dura a lungo, e grazie proprio alle sue foglie che rimangono verdi per molto tempo.» Dopo mangiato ci rimettemmo a camminare e le parlai del mio modo di vedere la città. «Una delle cose che ho notato il primo giorno è il caos.» «Varanasi è magica nel suo caos. Piena di colori, mucche che mangiano nella spazzatura e motorini che attraversano ogni via a gran velocità. Per i turisti, Varanasi è una vera contraddizione. La visitano soprattutto pellegrini. Acquistano per lo più fiori o legname, i primi per le offerte e le preghiere, chiamate puja. Il legname, invece, è per cremare i propri cari. Come puoi avvertire, l’aria è piena dell’odore di legna bruciata. Se fai attenzione, in lontananza si sentono i canti di mantra e i suoni dei gong posti all’entrata delle centinaia di templi.» Tornammo in ashram. Quando arrivammo, Shanti mi disse di rientrare in sala di meditazione perché Tatanji era sicuramente libero: avrei potuto continuare la conversazione con lui. Ci salutammo, era ormai sera e lei si recò nella sua camera al piano superiore. Come aveva predetto Shanti, trovai Tatanji in sala: era indaffarato a pulire e a prendersi cura del suo flauto. Lo salutai e mi sedetti accanto a lui. «Hai avuto modo di chiacchierare con Shanti?» mi domandò continuando a lavorare. «Sì, ed è stato piacevole. È preparata nei suoi studi. Mi ha aiutato a comprendere il potere dei pensieri negativi che spesso disturbano la nostra quiete.» Tatanji interruppe la pulizia del flauto e si sedette accanto a me. «Quando impari qualcosa di nuovo, devi accogliere la nuova conoscenza mischiandola con cura con il tuo vecchio sapere. Devi poi avere la saggezza di saper scegliere cosa far rimanere e cosa lasciar andare. Riuscire a fare tutto ciò significa aver raggiunto un buon grado di saggia discriminazione.» Non mi era granché chiaro. «Saper scegliere è importante, lo capisco, ma non sempre si prendono decisioni giuste.» Gli domandai spiegazioni.

«Una delle più grandi capacità dell’essere umano è distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è. Nelle scelte che fai è nascosto il seme del tuo destino. Qualsiasi azione prestabilisce una scelta, anche non far nulla lo è. Prendere una buona decisione è la miglior azione che tu possa compiere. Ecco perché dovremmo scegliere di avere il più possibile pensieri positivi.» Il suo volto si fece serio. «I pensieri negativi nascono da un nostro giudizio. Esplodono nella nostra mente creando una grande carica emotiva, che nutriamo ripensando in continuazione fino a estenuarci.» «Come possiamo smettere di farci possedere dai pensieri negativi?» «Un modo è non dar loro energia, non pensandoci.» «E come?» «Come ti avrà accennato Shanti, ponendo l’attenzione su pensieri opposti. Come l’artigiano plasma l’argilla a suo piacere trasformandola in un bellissimo manufatto, così noi possiamo consapevolmente trasformare la qualità dei nostri pensieri per nutrire il nostro essere. Per questo è importante elevare il nostro linguaggio, rendere più luminose ed elevate le parole che utilizziamo. Ad esempio, se ti chiedessi come stai, cosa mi risponderesti?» «Sto bene.» Sorrise. «Immaginavo. La prossima volta, prova a rispondere: ‘magnificamente’, ‘benissimo’. Eleva il tuo linguaggio, così eleverai le tue emozioni. Questo creerà una realtà più positiva che a sua volta influenzerà le tue vibrazioni. Un esempio pratico è l’entusiasmo. Dovremmo vivere d’entusiasmi. Tutti ne sono attratti. Le anime sono influenzate dall’entusiasmo. Sorge dal cuore e si sprigiona ovunque. Nell’entusiasmo si acquista coraggio e voglia di vivere. È un linguaggio universale che tutti conoscono.» «In realtà, spesso, pensiamo male, giudichiamo molto e critichiamo», sentenziai. «Non guardare ciò che non va, concentrati su quello che va bene. È importante andare oltre e comprendere perché giudichiamo. Fai questo esercizio, quando puoi.» Si concentrò un istante. «Non dare alcun giudizio per tre ore. Se riesci, aggiungi altre tre ore e poi ancora tre, fino ad arrivare a un’intera giornata. Continua per un giorno, due, tre. Prosegui per una settimana e oltre. Osserva cosa accade in te stesso. Osserva come la mente sia soggetta a moltissimi schemi.»

«È difficile riuscire a non criticare. Alcune volte è giusto.» «Concordo, ed è per questo che attraverso tale esercizio capirai quando è utile e quando non lo è. Lo sforzo è necessario, senza sforzo e disciplina non si ottiene nulla, in ogni campo. Quando noti che la tua mente giudica o critica, osservala. Ti basta osservarla e domandare a te stesso cosa devi accogliere in te. Compreso ciò, prosegui e ricomincia l’esercizio. Il giudizio è spesso fonte di grandi contrasti: tendiamo a incolpare e criticare quasi inconsciamente. Sospendere questo rituale è difficile.» «Vi è un metodo per arrivare pian piano a non giudicare? O quantomeno a farlo consapevolmente?» Tatanji chiuse gli occhi e rimase in silenzio per qualche istante. «Quando sei messo in discussione, ascolta», rispose. «Quando ti criticano, ascolta. Quando vorresti rispondere di getto, ascolta. Ascoltando, dimostri di far attenzione alle opinioni altrui ma di non esserne influenzato. Qualsiasi critica è un punto di vista, non riflette la tua persona ma la realtà di chi l’ha pronunciata. La tua serenità d’animo è più importante di qualsiasi giudizio altrui.» «Ho capito. Prima di ogni decisione o di una scelta, l’ascolto è fondamentale», riassunsi. In quel mentre, accarezzò alcuni gattini che passavano accanto a lui, lo stesso feci io. Lasciammo passare un po’ di tempo, così, in serenità. Tatanji mi stava insegnando anche in questi momenti. Lo ringraziai mentalmente, capendo che durante la giornata mi era stata donata la consapevolezza del potere delle parole e del linguaggio. Era la prima rivelazione. Notai un piccolo quadretto appeso alla parete. Nel vuoto, hai lo spazio per riempirti. Nel non avere, hai te stesso per essere. Om shanti. Riflettei su quelle brevi parole e sul perché si trovassero appese al muro. «Ricorda, Kripala», disse Tatanji interrompendo il silenzio, «abbiamo sempre la possibilità di cambiare le sorti, risollevarci e trovare qualcosa di positivo. Vi è qualcosa di positivo in tutto, l’importante è vederlo. La felicità è più una riscoperta che una conquista. È qualcosa che hai sempre dimenticato di avere; poi un giorno ti accorgi che era sempre stata con te», Tatanji si alzò, fissandomi negli occhi.

Ciò che cerchi dalla vita, diventalo. Se cerchi integrità, sii integro. Se cerchi amore, sii amore. Se cerchi gentilezza, sii gentile. Se cerchi te stesso, sii presenza. La felicità risiede in questo, ciò che cerchi è già in te. Devi solo esserne consapevole. Viviamo questa esperienza umana per apprendere lezioni, imparare ad amare e servire il creato. Siamo anime immortali piene d’amore e avvolte dalla luce. Eleva la tua coscienza a un piano superiore e realizza ciò che prima ti era celato. Il tuo cuore conosce ogni verità.» Si era fatto tardi. Tatanji mi diede la buonanotte e mi ricordò di riempire d’acqua le ciotole dei gatti nel giardino e in sala, prima di andare a letto. Ci salutammo.

2

L’essere presenza

ERA una mattina di una calda estate indiana e il dolce suono del flauto mi dava la sveglia. Iniziai le pratiche yoga con molta emozione. Ero curioso per la giornata che stava nascendo, curioso di cosa avrei fatto e appreso. I miei pensieri vagavano come foglie al vento. Non vi era gioia più grande della bellezza di attendere nuove esperienze per la mia anima assetata di conoscenza. Conclusi velocemente gli esercizi e scesi in sala di meditazione. I gatti, come al solito, si stavano azzuffando. Tatanji versava acqua alle piante e toglieva qualche foglia avvizzita dai vasi. Mi guardai attorno e decisi di mettermi seduto nella solita posizione, a gambe incrociate, aspettando che terminasse. Di lì a poco arrivò Shanti con la colazione: frutta, tè e qualche sfoglia di chapati, il pane tipico indiano, sottile e senza sale. Attirati dal profumo, i gatti si avvicinarono a noi, annusando a giusta distanza la colazione. Tatanji si diresse in un angolino della stanza e versò in alcune ciotole la loro porzione di cibo: un po’ di latte e qualche avanzo della cena del giorno prima. Immediatamente, attratti dal suo richiamo, i mici smisero di annusare la nostra colazione e si diressero da lui. Nel mentre, come di consuetudine, Shanti versò del tè caldo nelle nostre tazze. Sorrisi, ringraziandola. Dopo un istante di interiorità, iniziammo a mangiare, rimanendo in silenzio per tutto il tempo. «Come sono state le tue pratiche yoga questa mattina?» mi chiese Tatanji. «Molto belle, grazie», risposi. «Mentre eseguivi i tuoi esercizi, a cosa pensavi?» «Pensavo a come sono fortunato e felice di essere qui, a tutto quello che mi è accaduto ieri. Sono curioso di sapere chi incontrerò oggi.»

Tatanji si fece serio e finì il boccone che stava mangiando. «Vedi, Kripala, la nostra esistenza avviene nel presente, in questo istante. E con ‘presente’ intendo un momento temporale e di presenza autentica. L’attenzione in ciò che fai, come camminare, lo yoga, cucinare, mangiare è importante. Se non sei conscio, manchi di presenza, manchi di vita. Non puoi sfuggire al qui e ora, anche se spesso non lo viviamo. Tutti passiamo attraverso l’istante presente; la differenza è tra chi ci passa da addormentato e chi da consapevole. Il miglior modo di sperimentarlo è esserci con tutto te stesso. Onorare l’attimo significa renderlo sacro, viverlo totalmente in presenza autentica.» Sorseggiò un po’ di tè, poi diresse lo sguardo verso i gatti, cosa che feci anch’io. «Guarda come fanno loro. Osservali. Sono ottimi maestri di meditazione.» «In che senso?» «Il saper vivere attimo per attimo fa parte della loro natura.» «Vivere attimo per attimo?» «Sì. I gatti vivono l’istante, non hanno preoccupazioni. Vivono il qui e ora perfetto. Se non va bene il luogo dove stanno, si spostano. Se hanno fame, cercano del cibo. Se trovano un buon posto per dormire, si fermano. Ogni attività è basata sul momento. Se giocano, giocano. Se mangiano, mangiano. Se dormono, dormono. Dovremmo imparare dai gatti, dal loro modo di vivere e di essere.» «E come possiamo vivere in maniera simile?» «Tutto accade qui, adesso. Ora è il miglior giorno della tua vita. Ora è il miglior momento per iniziare qualcosa. Ora è l’istante perfetto.» Tatanji accarezzò un gatto vicino a lui. «Come ti ho accennato pochi istanti fa, noi viviamo nel presente, ma spesso lo sfuggiamo. Manchiamo di presenza autentica: con la mente viviamo un po’ nel passato o un po’ nel futuro, dimenticando che la nostra vita si svolge adesso.» «Cosa intendi quando dici che viviamo il presente ma spesso lo perdiamo?» «Ti è mai successo di passeggiare e trovarti alla fine di un breve percorso assorto nei tuoi pensieri e senza esserti accorto del viaggio? Dov’è andato il tempo che passava? Intendo questo. Attraversi l’attimo ma non ne sei consapevole. In ogni azione, sii centrato. Se stai mangiando, sii ciò che mangi. Se stai studiando, sii ciò che studi. Se stai amando, sii ciò che ami.»

Immediatamente, quasi attratto dall’ultima frase, fissai Shanti, anche lei assorta nell’ascolto. Si accorse del mio sguardo e ricambiò con un sorriso. «Dovrei essere ciò che faccio?» chiesi. «Non identificarti in ciò che fai, ma sii consapevole in ciò che fai. La differenza è fondamentale.» Cercando di capire cosa volesse dire con quest’ultima frase, feci per parlare, ma alzò una mano precedendomi. «Questa mattina avrai l’opportunità di conoscere di più su ciò che ti ho appena accennato. Ora va’ con Shanti, ti farà compagnia fino a casa di Sanjay.» Si interruppe per accarezzare un altro gatto, poi continuò: «Ogni giorno è un nuovo giorno che ti viene donato. Quanti ne avrai ancora da vivere? Le opportunità sono tutte disponibili per te, in questo istante, pronte per essere colte. Non sprecare altro tempo. Vivi ora.» Con la mano ci fece cenno di uscire. Raggiunsi Shanti, che mi stava attendendo. Salutammo Tatanji, ringraziandolo, poi uscimmo dall’ashram. Prendemmo una via adiacente all’edificio, camminando in silenzio tra la folla. I miei pensieri erano rivolti a lei, ma come poteva essere altrimenti? Ogni volta che eravamo assieme, il mio cuore palpitava. Dal primo giorno era rimasta sempre nella mia mente. Grazie alla sua tenerezza, avevo capito che una fiamma di passione, seppur piccola, stava crescendo in me. Tuttavia, il solo fatto che fosse promessa mi impediva di pronunciarmi. Può l’amore cambiare le sorti del destino se esso è puro e sincero? Shanti rallentò. «Mi piacciono le domande che fai a Tatanji. Talvolta arrivano in ashram alcune persone per chiedergli consiglio. Di quelle poche conversazioni che ho potuto ascoltare, perché non private, non hanno mai posto a lui domande così particolari come le tue. Quelle che fai tu sono essenziali, e talvolta mi stupisco della loro semplicità e profondità.» «Cosa intendi?» «Le tue domande provengono dal cuore, sono pure. Ora capisco perché Tatanji ti stava aspettando da tempo. Nulla è un caso. Il vostro era un incontro karmico. Avrai modo di aiutare molte persone tramite le conoscenze che ti donerà.» «Grazie, non ci ho mai pensato», dissi. Poi tentai una connessione con lei. «Sai, appena ti ho vista, l’altro giorno, ho notato subito il tuo sguardo, il

tuo sorriso e la tua dedizione verso Tatanji. Anche tu sei un’anima speciale.» Arrossì e non rispose, forse a disagio. L’attimo che seguì fu silenzioso. «Posso farti una domanda?» chiesi, prendendo nuovamente in mano la situazione. «Dimmi pure, se posso ti rispondo.» «Come funzionano i matrimoni combinati dalle famiglie? Come ti ho detto, pensavo che in India, ora così moderna, fossero quasi del tutto scomparsi. Sei costretta a sposarti oppure non lo sei? Hai visto il tuo futuro marito? Cioè, vi frequentate? Vi amate?» La mia voce era altalenante. «Quante domande! Ma non volevi chiedermi una cosa sola?» Ridemmo mentre camminavamo tra le varie stradine della città. «È una tradizione sempre esistita nella famiglia di mio padre e in generale», iniziò Shanti. «È sempre stato così, da tempo immemore. Quando ero piccola, mia nonna mi spiegò che era una consuetudine, ovvero una normalità. Mia madre, invece, non ha mai accettato la cosa, la riteneva patriarcale. E infatti c’è sempre stata una diversità di pensiero tra lei e mio padre. Durante i matrimoni avvengono le più sfarzose celebrazioni. Non si bada a spese. Inoltre, gli invitati hanno il dovere di distribuire il massimo numero di benedizioni per i due sposi.» Tacque perché i rumori della città non ci permettevano di rimanere concentrati sull’argomento. Ci dirigemmo in una zona meno frequentata. «Mi piace questa città», commentai. «Come dicevi ieri, è veramente un controsenso. Ricordo che un tempo era conosciuta con un altro nome.» «Esatto. Varanasi è chiamata anche Benares, il cui nome spirituale è Kashi, una parola derivata da kasha, o ‘luminoso’ in sanscrito. È chiamata infatti ‘città della luce’. È la residenza del signore Shiva. Come avrai visto, la sua statua è un po’ ovunque. Spesso viene rappresentato seduto a gambe incrociate, come uno yogi, i capelli lunghi e, sopra la testa, una luna crescente. La sua pelle è blu e in mezzo agli occhi ne ha un terzo più piccolo. Varanasi è una delle città più antiche del mondo. Si racconta che sia una città eterna.» «È antichissima, tanto quanto le piramidi egizie!» esclamai. «E il nome Varanasi da dove nasce?» «Dall’unione di due fiumi, Varuna e Asi.»

Avevo un certo languore, così le domandai se potessimo fermarci un attimo. Shanti si mise a ridere e la imitai. Decidemmo di tornare al chiosco del giorno prima e, mentre mangiavamo, riprese a discutere delle proprietà del betel. Un medico ayurvedico, tempo prima, le aveva detto che le foglie di tale pianta erano ricche di vitamine e avevano proprietà medicinali. «Se prendi la foglia e la fasci attorno alla ferita, ne acceleri la guarigione. A Varanasi, gli involtini di betel sono anche un’alternativa ai dessert.» «Non mi parlare di dessert!» sbottai. «Da quando sono qui li vedo ovunque. Ne ho mangiati alcune volte il primo giorno. Sono buoni, ma troppo speziati. Penso che per noi occidentali adattarsi alla cucina indiana sia difficile. Quando sono arrivato in città, uno dei primi cibi che ho assaggiato è stato il lassi. Essendo vegano, me lo sono concesso con yogurt di soya. Ne ho mangiati parecchi durante il giorno. Li preferivo, assieme alle banane.» «È buonissimo e molto rinfrescante. Te lo consiglio anche accompagnato con i dolci fritti in padella, oppure con mango e cannella», suggerì. Conclusa la nostra piccola pausa per soddisfare il palato, continuammo in silenzio a passeggiare per le vie della città. Dopo un po’ arrivammo di fronte a una vecchia casa coloniale. «Prosegui lungo il corridoio, Sanjay ti sta aspettando», mi disse Shanti. Ringraziai e la salutai, dandole appuntamento per la sera. Mentre percorrevo l’ingresso, un forte odore di vernice acrilica mista a incenso mi si insinuò nelle narici. Avvolgeva tutta l’atmosfera. L’ambiente era abbellito con statuette di varie divinità indù. Lungo il corridoio, tra piccole insenature, riconobbi la dea Kali, Ganesha e Shiva Nataraji. Batik colorati adornavano le pareti, e molti libri erano sparsi un po’ ovunque. Arrivai in un’ampia stanza illuminata dalla luce che passava attraverso una grande vetrata a forma di cupola sul soffitto. Mi fermai, in silenzio. Sanjay era di spalle dinanzi a me. Lunga tunica bianca, corporatura imponente. Così imponente da coprire alla mia vista anche il suo lavoro, che lo teneva concentrato al punto da non sentirmi, o almeno credevo. Mi avvicinai. Stava dipingendo una tela. Osservando con più attenzione, notai un bellissimo fiore di molti colori all’interno di un vaso antico. Interruppe la pittura, si girò e mi salutò con un grande namasté. «Ben arrivato, Kripala.»

Mi inchinai leggermente, ricambiando il saluto. «Namasté, Sanjay.» Era davvero imponente. Pochissimi capelli, quasi calvo. La tunica, osservandola meglio, era color panna, appena macchiata da alcuni colori di pittura. Viso tondo, solare. Gli avrei dato una sessantina d’anni. «Il mio nome significa vittorioso.» Mi fece cenno di avvicinarmi. «Hai sete? Vuoi del tè?» disse gentilmente. «No, grazie», risposi. «Sto bene così.» «Ti piace la pittura?» «Sì, sono sempre stato affascinato dall’arte nelle sue varie sfumature.» La stanza era in realtà un grande studio colmo di quadri che ritraevano paesaggi, persone in meditazione, fiori, pietre disposte in verticale. Opere semplici, essenziali. Ogni tela trasmetteva un senso di serenità. Sanjay mi fissava, in silenzio, mentre continuavo a osservare le varie opere appese alle pareti. Mi lasciai trasportare, incantato. Ognuna di esse mi catturava. «Cosa ne pensi di questi quadri, ti piacciono?» mi domandò. «Me ne sento attratto. Emanano una sorta di tranquillità e allo stesso tempo possiedono energia. È affascinante.» Mi diressi verso il lavoro che stava portando avanti. Lui mi fissò con sguardo benevolo. «Ti ringrazio, mi fa piacere che apprezzi l’arte nelle sue sfumature.» «Non so esattamente perché sono qui», ammisi, spaesato. «Shanti mi ha accompagnato, ma non mi ha riferito altro. Tatanji ha detto che mi aiuterai a capire l’importanza dell’essere presenza, anche se in realtà non so bene di cosa si tratti.» «Capisco.» Sorrise. «Il mio scopo è farti comprendere l’importanza dell’attenzione, del qui e ora, dell’essere presenza. Lo scopo è conoscerci e condividere un po’ di tempo. È mio dovere non deludere Tatanji, ho un enorme rispetto e gratitudine nei suoi confronti. In ogni caso, sei qui e c’è un motivo. Probabilmente oggi, domani o più avanti, comprenderai. Vieni, sediamoci.» Ci accomodammo sopra due antiche sedie di legno, lavorate a mano, bellissime alla vista. Anche queste mi incantarono, e le osservai incuriosito. «Per molto tempo ho viaggiato per l’India in lungo e in largo. Ho visto luoghi meravigliosi. Ora vivo qui, ormai, da diversi anni. Mi piace dipingere ciò che sento nel cuore. Mi mantengo grazie alla vendita dei miei

quadri.» Sanjay mi raccontò delle sue peripezie giovanili attraverso le varie province indiane, di come fossero stati, per lui, anni di grande ispirazione artistica. Mi disse di come gli piacesse osservare paesaggi, fiori, ruscelli e altro, in ogni luogo che visitava. «Ora non viaggio più, ma porto ogni ricordo in me e lo esprimo disegnando», concluse. «Trovo in questo modo pace e serenità. E soprattutto presenza autentica.» «Cosa intendi per presenza autentica?» domandai, certo che avrebbe finalmente chiarito le mie perplessità. «Essere presente in quello che fai.» Mi fissò con un’espressione dolce. «Dimentichiamo che il nostro tempo è limitato», disse Sanjay una volta terminato il racconto. «Molte persone non capiscono che la nostra vita è costituita normalmente da un certo numero di respiri, da un certo numero di battiti del cuore. Spesso, non ci curiamo di ciò che avviene adesso. Ci dimentichiamo spesso di fermarci, di ascoltarci, di sentirci respirare. Di essere. Di assaporare la vita. Siamo talmente catturati da ciò è stato, o da ciò che sarà, che manchiamo di vivere il momento. Raramente troviamo spazi quotidiani per noi stessi, per viverci. La maggior parte del tempo la trascorriamo fuori dal presente, pur vivendolo.» «È vero», riflettei. «Molti sprecano la loro vita. In ogni caso gli esseri umani hanno questa errata convinzione che ci sia sempre del tempo, quasi fosse illimitato.» «Questo è il grande gioco o illusione della mente, ma sappiamo benissimo che prima o poi dovremo lasciare questo corpo fisico. L’unico modo di fermare il tempo è viverlo totalmente adesso. Allora, ogni istante sarà perfetto.» Mi fissò sorridente, avvicinandosi al mio viso. «Pensi di vivere per sempre, Kripala?» Ricambiai il sorriso. «No, ovviamente no.» «Ricordati che non rimarrai qui in eterno. La vita è ora, non ieri, non domani. Da’ valore al tuo tempo. Da’ valore a te stesso. Se non in questo momento, quando? Potrebbe essere l’ultimo. Accoglilo. Vivi l’istante come una farfalla vive di attimi. Nel qui e ora tutto si rivela.» Le sue parole mi affascinavano. «Vieni, usciamo.» Ci dirigemmo verso un piccolo giardino interno e ci sedemmo sull’erba. Avevo la mente piena di domande. I miei pensieri erano come scimmie in

cerca di frutti dolci, saltavano da una parte all’altra. Ero assetato di sapere di più. Il giardino era recintato da alti infissi di legno, in modo che non si potesse scorgere la strada. Attorno si trovavano diverse specie di fiori ben curati, come nei giardini zen. Sul perimetro vi erano molti bonsai e sassi bianchi disposti in un ordine preciso. Una stradina di pietre attraversava il giardino. «Scusami un attimo, arrivo subito.» Sanjay scomparve alla mia vista, per ricomparire un attimo dopo con in mano un bicchiere d’acqua. Arrivò dinanzi a me senza averne versata nemmeno una goccia e ciò mi stupì, considerando la rapidità con cui si era avvicinato. Mi porse il bicchiere. «Sto bene così, grazie», dissi, pensando volesse offrirmi dell’acqua. «Non è per bere», puntualizzò. «Ti chiedo un favore», continuò. «Attraversa il giardino seguendo la stradina di pietre, poi torna indietro. Ti aspetto qui. Porta con te il bicchiere e vedi, se possibile, di non versarne neppure una goccia.» Pensavo si trattasse di un esercizio, e con entusiasmo iniziai il percorso che mi aveva indicato. Con la mano destra tenevo il bicchiere, mentre con la sinistra reggevo per sicurezza la parte sottostante. Camminando lentamente, ricordai momenti simili, da piccolo, quando portavo del latte ai miei gatti cercando di non versarne nemmeno un po’. L’acqua cominciò a fluttuare. Rallentai. Cercai di trovare un equilibrio tra l’atto di camminare e le mie mani. Osservavo attentamente il bicchiere e mi concentravo sui movimenti e i passi tentando di aggirare alcune piante senza toccarle. Ci misi un po’, ma riuscii a completare il giro. Una volta tornato, mi misi davanti a Sanjay. Alcune gocce erano fuoriuscite dal bicchiere, finendo sul palmo della mia mano. Lui lo osservò e sorrise. «Hai perso un po’ d’acqua, vedo. Te ne verso di nuovo, fino all’orlo. Ora rifai lo stesso percorso di prima, ma senza versarne, e fallo più velocemente.» Ripresi a camminare, questa volta con andatura più energica. Ero molto attento e cercai di trovare più equilibrio tra i miei movimenti e l’acqua all’interno del bicchiere. Percorsi il giardino probabilmente in metà tempo, e fui di nuovo davanti a Sanjay.

«Vedo che hai perso ancora qualche goccia», commentò, «ma l’esercizio era per farti comprendere un altro aspetto.» «Quale?» «Siediti accanto a me. A cosa stavi pensando mentre tenevi il bicchiere in mano e attraversavi il giardino?» Riflettei. «Ero concentrato sui miei movimenti. Durante il primo giro pensavo ad alcuni ricordi di eventi passati simili, mentre durante il secondo sono rimasto più concentrato.» «Stavi pensando a qualcos’altro?» «No, la mia mente era focalizzata sull’atto di camminare e tenere il bicchiere in equilibrio. Forse è per questo che sono riuscito anche a completare il giro in minor tempo.» «Hai sentito il gruppo di persone all’esterno che stavano passando vicino al giardino cantando un mantra?» «No, non ci ho fatto caso.» «Vedi, Kripala, quando la mente è focalizzata nel qui e ora, in questo caso attraverso l’esercizio di prima, il resto viene escluso. Tu eri nell’attimo, non eri disturbato da altri pensieri, né passati né futuri.» Ero d’accordo con le sue parole, ma rimanevano ancora molti dubbi. «Tutta la mia attenzione dovrebbe essere focalizzata sul qui e ora?» chiesi. Sanjay annuì. «Centrati in tutto quello che fai. In ogni attività porta la tua attenzione cosciente. Solo allora capirai cosa significa vivere consapevolmente. Sii il meglio di te, sempre e ovunque. Dimostra a te stesso che si può dare il massimo in ogni istante.» Mentre riflettevo sulle sue parole, ci alzammo e rientrammo. «Ti faccio un esempio di cosa intendo per consapevolezza», continuò Sanjay. «Osserva la stanza, dimmi quanti oggetti gialli ci sono.» Mi guardai attorno. «Ne ho contati diciassette.» «Sei sicuro?» «Sì, ho osservato attentamente.» Sorrise. «Bene. Hai portato la tua consapevolezza al colore giallo. Vedi? È semplice, in realtà. Ora fai la stessa cosa, inizialmente nelle attività in cui sei più motivato, in modo tale da rimanere più facilmente centrato; poi, a mano a mano, estendi l’attenzione a tutto ciò che fai.» «Non è semplice», protestai. «Restare attenti a ciò che si fa penso sia la difficoltà più grande. La mente fugge.»

«Ve ne è una ancora più grande e, se pian piano riuscirai a comprenderla e a controllarla, il resto verrà da sé.» «E qual è la parte più difficile? Credevo fosse rimanere attenti.» «La parte più difficile nell’essere nel qui e ora è il ricordo della pratica continua. Ci sono così tante distrazioni attorno a noi che riuscire a praticare la consapevolezza è già di per sé una conquista. Ricordare di essere presenti è essenziale quanto esserci. È un esercizio nell’esercizio. Se vuoi vivere pienamente il momento, è importante che ricordi di praticarlo in continuazione. Con il tempo diverrà spontaneo e, quando lo sarà, ti accorgerai che la consapevolezza è una buona maestra di vita.» «È così difficile riuscire a ricordare di praticare la consapevolezza?» «Come ti dicevo, siamo circondati da innumerevoli stimoli sensoriali, distrazioni esterne e interne. La nostra mente divaga ovunque. Suoni, colori, odori. Ogni giorno i nostri sensi sono attorniati da migliaia di sollecitazioni, di cui solo una certa misura viene percepita dalla nostra mente cosciente. La maggior parte avviene inconsciamente. Ecco perché escludiamo ciò che per noi non è interessante. Poniamo attenzione su cose che riteniamo importanti. Famiglia, lavoro, svago, amori e così via. Questa è già una forma di consapevolezza. Va solo intensificata e mantenuta. Ti faccio un esempio. Quando siamo coinvolti in una situazione imminente di grande pericolo, rimaniamo pienamente e totalmente nella presenza autentica. La paura la puoi affrontare o la puoi fuggire, ma ci sei totalmente. Ogni altro pensiero svanisce. Vivi la situazione al massimo dell’attenzione, focalizzandoti su ciò che sta avvenendo. Similmente, nella vita di ogni giorno, dovresti essere centrato nella presenza di ciò che fai, prestando la massima consapevolezza. Sempre.» Si interruppe per bere un sorso d’acqua. «Se ho ben capito, la nostra mente è distratta da una miriade di sollecitazioni», riassunsi. «I nostri pensieri seguono qualsiasi cosa. Sta a noi decidere cosa filtrare.» «Esatto. Come una bussola è attirata dai campi magnetici, così la nostra mente è attirata dal passato e dal futuro. La soluzione è rimanere nel presente attraverso la consapevolezza.» «Siamo attirati da pensieri che ci portano a vivere il passato o il futuro? Ho capito bene?»

Mi indicò di nuovo di uscire in giardino. Poi si fermò e mi fissò con attenzione. «Come un’ipotetica macchina del tempo ci conduce nel passato o nel futuro, così sono i nostri pensieri. Viaggiano avanti e indietro. Se vai avanti, il risultato sono preoccupazioni, ansia. Se vai indietro, sono rancori, stress, rimorsi. Io li chiamo pensieri temporali. Avere pensieri temporali è normale, non è normale soffrirne gli effetti.» «Qual è la soluzione, in questo caso?» «La soluzione, Kripala, è ancorarsi nel momento.» «Ma come posso ancorarmi se la mia mente continua a spostarsi nel passato, nel futuro o, come dici tu, continua ad avere pensieri temporali?» dissi, perplesso. «Attraverso l’attenzione cosciente», rispose. «Come una lente d’ingrandimento focalizza i raggi del sole in un unico punto, così sotto i raggi della consapevolezza la nostra mente focalizza l’istante.» «Per cui grazie alla consapevolezza riusciamo a centrarci su quello che stiamo facendo.» «Esatto. Ti spiego meglio.» Attese un attimo come per concentrarsi, poi proseguì. «Noi viviamo solo il presente, ma la nostra mente è astuta, ci inganna spesso, ci porta dove sono i nostri desideri, creando illusioni, preoccupazioni e talvolta sofferenza.» «La mente ci porta dove c’è sofferenza? Che vuol dire?» «Sofferenza se ci lasciamo trasportare dalle frustrazioni, dai rancori del passato o dalle preoccupazioni e ansie del futuro. La mente si illude e soffre. Ma la sofferenza è una nostra scelta. È differente dal dolore fisico, che non possiamo evitare. La sofferenza è mentale, dunque possiamo controllarla. Ed è un buon insegnante per renderti consapevole. Ricorda: quando la mente si allontana dal tempo, diviene silenziosa. Nulla può ferirla, poiché è solo nel tempo che lei soffre. Dove il tempo è assente, la mente è nel suo stato più puro, lì risiede, in presenza e pace.» Restai in silenzio per riflettere su quello che aveva appena detto. «Qual è il motivo di tutto ciò? Perché la sofferenza mi rende più centrato, più consapevole?» domandai infine. «Ringrazia per ogni esperienza che ti riporta a te stesso. Essa ti conduce all’essere presenza, ti fa evolvere. Ogni momento passato nell’essere significa elevare la propria consapevolezza. Questa è la grande rivelazione. Ed è per questo che i più grandi maestri di ogni tempo e luogo hanno

sempre sottolineato l’importanza di ‘essere’. Nelle grandi sofferenze, nei dolori, nelle ferite del cuore, nelle tragedie, la mente ti riporta a te stesso, ti riporta a essere. Spesso però ci smarriamo. È nel dolore che la vita ridimensiona valori importanti che ci siamo dimenticati.» In quell’istante alcuni uccellini si misero a cantare sopra un ramo del giardino. Sanjay si prese qualche istante per ascoltare la loro melodia. Poi mi guardò nuovamente negli occhi. «Se mantieni la mente consapevole, troverai la tranquillità ed eviterai di torturare te stesso con stati d’animo negativi.» Si allontanò e uscì dalla stanza. Rientrò dopo alcuni minuti e si posizionò davanti al quadro a cui stava lavorando, osservandolo attentamente. A un tratto mi disse: «Ti insegno queste tre tecniche, molto essenziali. Sono chiamate le tre centrature. La prima è la centratura sui cinque sensi. La seconda è la centratura sull’assorbimento, piacere o dolore. La terza è la centratura sull’amore incondizionato. «Ti spiego meglio la prima centratura. Prendiamo l’olfatto. Percepisci gli odori che senti e presta attenzione a uno in particolare. Rimani fermo su questo. La stessa cosa con gli altri sensi. Ascolta un rumore, sii consapevole del suono che entra in te. Resta fermo su di esso. Puoi anche utilizzare il respiro per portare la mente a centrarsi su di sé e calmarla. È un buon metodo, poiché il respiro è un mezzo molto potente per rimanere consapevoli. Non puoi non respirare. Prestando attenzione a esso, converti l’esteriorità in interiorità. Osserva il tuo respiro per un po’ di tempo: ti condurrà alla presenza, allontanandoti dalle fluttuazioni dei pensieri temporali», fece una pausa e continuò. «Un esempio, ora, sulla seconda centratura. Dovresti essere totalmente assorbito, in modo consapevole, in qualcosa che ti piace. Avviene spontaneamente anche con l’opposto. Ti sei mai accorto che, quando stai svolgendo un’attività in cui sei totalmente assorto, il tempo trascorre in modo differente? Se è piacere, alcuni minuti durano secondi; se è dolore, ti sembra che alcuni secondi durino minuti. È la mente temporale che gioca la sua illusione e si identifica con ciò che fai. In entrambi i casi, sii consapevole di questi momenti. Accogli sia il piacere sia il dolore. Sii presente in ciò che sta avvenendo. Sii centrato. «La terza centratura si ha quando ami incondizionatamente. Il tempo sparisce poiché l’amore prende il suo posto. Sei nel flusso dell’amore puro.

Qualsiasi cosa tu faccia, se c’è amore incondizionato è perfetta. L’amore è oltre lo spazio e oltre il tempo. Questo accade specialmente ad anime elevate, che amano Dio. Un amore immenso, totale, incondizionato. Ma questo è un concetto difficile da comprendere se non lo si vive.» Si prese alcuni istanti chiudendo gli occhi. «Quando sei immerso nell’essere, la tua attenzione sarà lì. Sarai assorbito nella presenza autentica, nessuna distrazione esterna e temporale ti creerà disturbo. Fa’ in modo di rimanere il più possibile. Utilizza i cinque sensi per ampliare il contatto con l’attenzione nel qui e ora. La consapevolezza ti dà la possibilità di rispondere in un modo più razionale a ciò che accade attorno a te.» Le sue parole mi ispiravano, le sentivo in me. Sanjay aveva il potere di coccolare la mia anima, donandomi più forza e coraggio interiore. «Anche se il passato non c’è più», continuò, «puoi imparare da esso, come puoi apprendere dal futuro.» «Come, come? Un attimo!» dissi sbalordito. Non sapevo se stesse scherzando o avessi frainteso. «Va bene imparare dal passato, ma come si possono apprendere lezioni dal futuro se deve ancora avvenire?» «Osserva come vivi ora il tuo presente», sentenziò. «Prova a immaginare. Se ora mangi molti carboidrati, molti dolci, più volte al giorno e non fai attività fisica, continuando in questo modo otterrai in un prossimo futuro determinati risultati. Lo stesso avviene se fumi ogni giorno, per parecchi anni: avrai delle conseguenze sul tuo corpo, sulla tua mente e sui tuoi risparmi. Questo significa imparare dal futuro; purtroppo, molte persone non ne sono consapevoli.» «Ma succede spesso che, anche se hai un ottimo presente o buone intenzioni, il futuro ti prospetti situazioni spiacevoli o del tutto opposte!» protestai. «È vero. Il nostro destino non è sempre come lo immaginiamo, però sta a noi procedere come vorremmo che fosse. Abbiamo il libero arbitrio, possiamo agire al meglio per noi stessi e per il prossimo.» «Dunque dovrei avere il coraggio e la forza di volontà di cambiare adesso. Essere più consapevole di ciò che penso e di ciò che faccio.» Annuì. «Se vuoi avere un buon passato, inizia ora. Se vuoi avere un buon futuro, inizia ora. Se vuoi avere un buon presente è il momento esatto.»

Attesi un attimo per assaporare la saggezza delle sue parole. «Ho capito. Sia il passato sia il futuro avvengono ora, in un certo senso.» «Esatto. ‘In un certo senso’, hai detto bene. Se il futuro è ben progettato, è utile per la nostra vita, ci aiuta a organizzare meglio i nostri obiettivi. Se ci perdiamo in esso senza alcun motivo, o ancor peggio, preoccupandoci di ciò che potrebbe accadere, perdiamo la preziosità del qui e ora.» «E per il passato?» «Il passato serve per lo più a imparare dai nostri errori. Questo è un uso corretto della mente temporale: trarre vantaggio per migliorarci. Il tuo potere di cambiare gli eventi nasce solo in questo momento. Ciò che decidi in questo istante forgia il futuro e crea il passato.» Rimanemmo in silenziosa presenza per alcuni minuti. Sanjay chiuse gli occhi mentre io cercavo di ragionare sugli ultimi concetti appresi. Ero felice per quello che stavo imparando. Comprendevo, piano piano, l’importanza di restare presenti in quello che si fa. Sanjay uscì dalla stanza e rientrò poco dopo con del tè, che mi versò e che non esitai a bere. Lo ringraziai. «Comprendi che la vita è composta da istanti, e ogni singolo istante è importante. Il prima e il dopo non sono reali, sono solo un’immagine della mente. Goditi ogni attimo, vivilo, fallo tuo.» «Capisco che ogni istante è cambiamento», replicai, «ma, se è così, è perché c’è il tempo e noi ne siamo influenzati.» «La nostra mente è temporale, è vero. Dunque tutto è cambiamento, tutto è movimento. Ma nella presenza autentica vi è solo l’adesso. Solo l’istante ha valore. Fai di quest’attimo il migliore. Nel seme del presente è nascosto il fiore del futuro. Non lo sprecare. Ma ricorda: ciò che sei realmente è oltre questo momento», fece una piccola pausa e continuò. «Nella nostra società la vita è pagata con il nostro tempo. Il tuo lavoro è il tuo tempo. La cosa più preziosa che possiedi. Tutto è in relazione al tempo. Il denaro è il tramite. In ogni attimo che passa, un pezzettino della tua vita sparisce; di questo è composta la nostra esistenza. Ci sono stati donati piccoli mattoncini di tempo e c’è chi ci costruisce un palazzo, chi invece una strada verso la felicità. Chi li utilizza per studiare, chi per amare e c’è chi li perde senza conoscere la loro importanza. Quanti ne hai sprecati? Decidi ora di essere felice. Fai dei tuoi mattoncini di tempo dei gioielli preziosi.»

Rimasi affascinato da quella visione. «Ti spiego la stessa cosa da un altro punto di vista.» Sanjay attese qualche istante per avere la mia piena attenzione. «Come una vecchia pellicola cinematografica mostra velocemente l’una dietro l’altra le singole scene di un film, così il tempo che viviamo è formato da singoli istanti che scorrono l’uno dietro l’altro nel presente. Molti attimi creano il film che noi chiamiamo vita. Dare un senso a questi attimi è dare un senso al film della nostra vita. Sii centrato in ogni istante. È tutto qui.» Ci spostammo nuovamente in salotto. «Mentre la mia mente rifletteva sulla sua ultima frase…» Mi interruppe: «Sii il testimone di ciò che avviene». Mi offrì nuovamente del tè, diverso da quello precedente, più speziato. Bevemmo con calma e in silenzio. Guardò nuovamente il dipinto che stava creando. Lo osservava con cura e dedizione, e rimasi a fissarlo mentre stavo ancora pensando alle sue parole. «Se decidi di realizzare un quadro, una pittura, ti concentri su cosa vorresti dipingere, che colori utilizzare, il tipo di tela, la grandezza dei pennelli, il tocco che vuoi dare. Giusto, Kripala?» «Sì, certamente.» Si avvicinò al quadro. «Quando sei centrato nel realizzare il dipinto, qualsiasi altra distrazione, che provenga dal passato o dal futuro, non arriva a te. Tu in quel momento sei il quadro che vuoi realizzare, la tua energia è lì.» Rimase in silenzio continuando a osservare la sua creazione, poi si allontanò. «Vieni qui, prendi il mio posto. Continua tu a dipingere.» Sbalordito dalla richiesta, gli risposi: «Non ne sono capace, non vorrei rovinare quello che hai iniziato». «Per prima cosa impara a utilizzare bene le parole. ‘Non ne sono capace’: trasformalo in ‘ci provo’». «È vero. Mi è stato spiegato. Ci sto lavorando.» «Bene! Ora mettiti a dipingere.» Mentre ‘provavo’ a dare delicate pennellate al fiore che aveva iniziato lui, la mia mente vacillava, titubante. Ero perplesso, non avendo dimestichezza nel dipingere. Non sapevo quale risultato avrei portato a termine. Improvvisamente Sanjay si avvicinò a me. «Stai assaporando questo momento?» mi sussurrò all’orecchio. «Lo stai vivendo come se fosse il più

importante? Oppure stai sprecando il tuo tempo prezioso con altri pensieri?» Mi fermai. «Stavo pensando se riuscirò a disegnare un bel fiore», dissi. «Ho dei dubbi.» «Resta qui!» esclamò. «Il tuo lavoro è solo dipingere, lascia perdere il risultato. Non allontanarti. Stai pensando al futuro, invece devi portare la mente qui, al quadro, al disegno che stai realizzando, al fiore che stai osservando. È tutto di fronte a te. Sii consapevole! Il risultato dipende da ciò che sei ora.» Ripresi a dipingere con più serenità, cercando di essere più consapevole di ciò che stavo realizzando. Cominciando a capire, mi sentii sereno. Non mi preoccupavo dell’esito, ero soltanto felice di dipingere liberamente, grato per questa opportunità. «Entra nel quadro, entra nel fiore. Vivilo», continuò Sanjay. «Fai la stessa cosa anche della tua esistenza. Spremi al massimo la tua vita. Non perdere nessuna goccia del tuo tempo. Assapora ogni istante. Non occupare il presente con pensieri del passato o del futuro. Non è il loro posto. Lasciali al loro tempo. Dai a questo istante la massima importanza, poiché è solo adesso che la vita si compie.» Osservai il fiore. Immobile, ne contemplavo la bellezza e la semplicità. Vuoto di altri pensieri e con attimi di presenza autentica, ero il testimone di ciò che vedevo. Stavo provando l’esperienza di essere presenza, seppure per pochissimi istanti. Alla fine, mi accorsi che quello che avevo realizzato era tutto sommato accettabile. Il mio modo di dipingere era di completamento al suo. «Ecco, vedi? Hai fatto un ottimo lavoro, seppur piccolo. Le tue pennellate hanno dato un tocco particolare al dipinto. Lo hanno reso più luminoso», mi disse. «Sì, è vero», ammisi. «Grazie.» «Capisci, ora? Il fare è sempre un buon maestro.» Tornammo in giardino e ammirammo le numerose piante. «Per spiegarti meglio la consapevolezza, vorrei ritornare alla prima centratura», disse Sanjay. «Quella sui cinque sensi?» «Esatto. Quando visiti dei luoghi meravigliosi, mai visti prima, sei più propenso a essere consapevole. La tua mente è centrata in maniera istintiva.

Sei assorbito da quello che ti circonda, grazie ai cinque sensi più attivi per la novità. La stessa cosa puoi farla accadere sempre. Prendiamo la vista. Cosa vedi di fronte a te?» mi domandò. «Un fiore» risposi. «Com’è fatto, di che colore è, com’è disposto? Fai in modo che la tua mente rimanga consapevole di ciò che osservi. Passiamo al suono. Ascolta il rumore più forte attorno a te, cosa senti?» «Vento!» «Ascolta il suo suono: è leggero o forte? Oppure il tatto. Cosa tieni in mano? La tazzina del tè. È calda? Che sensazione ti dà? È leggera o pesante? E che profumi percepisci? Delicati, intensi, oppure c’è un odore che ti colpisce maggiormente?» «Incenso, sento odore di incenso.» «Il gusto. Hai appena bevuto il tè, ne hai il sapore in bocca. Che sensazione ti dà? È un gusto forte? Delicato o leggero? È dolce o amaro?» Sanjay bevve dell’acqua da una piccola fontana in giardino. «Questi sono alcuni esempi di esercizi di consapevolezza sui cinque sensi. Puoi praticarli ogni giorno, osservando attentamente, spostando la consapevolezza da un senso a un altro. Cerca di essere attento a quello che percepisci. Questo ti porta a essere sempre più presente. Tuttavia, è difficile controllare i pensieri, vanno e vengono senza che tu te ne accorga», ribadì. «Se fatichi a essere centrato, fai in modo di diversificare le diverse pratiche. Ad esempio, per un periodo di tempo sii consapevole del sentire. Quando vedi che la mente si agita, rimani consapevole nel silenzio interiore. Prosegui poi con il tatto dei piedi, passeggiando, e così via. In questo modo, seguendo un metodo, sarà più facile rimanere presenti.» «Capisco. Dunque l’importante è essere consapevoli il più possibile?» «Sì. Non lasciare che la mente divaghi, tu stai vivendo ora, né prima né dopo. Ricorda: le tue più grandi prigioni sono nel passato e nel futuro. La libertà è ora. Sta a te decidere dove vuoi vivere la tua esistenza. Esercitati ogni giorno.» «Lo farò. Ma questo vale anche per la felicità?» «Esatto. L’uomo è sempre alla ricerca della felicità e, per trovarla, deve capire che non sta fuori, ma dentro la sua mente. Sii consapevole che solo tu sei la causa di come reagisci agli eventi. Ogni reazione è una nostra scelta. Cosa scegli dipende dalla profondità della tua consapevolezza.»

Rimanemmo nuovamente in silenzio per diversi minuti, quasi volesse farmi capire che l’insegnamento avviene anche senza parlare. «Quando sei consapevole e agisci nel qui e ora, le tue energie sono indirizzate a quello che stai facendo», riprese. «Non vengono disperse in altri periodi temporali. Succede spesso, come ti accennavo prima, quando accade qualcosa d’improvviso, di inaspettato o di pericoloso. Immediatamente deviamo l’attenzione verso ciò che avviene.» Lo ringraziai sentitamente. «Ora capisco di più e praticherò meglio.» «È importante che tu comprenda quanto sia utile questo modo di essere. Tutto sta nel porre l’attenzione sulla consapevolezza, sul vivere il momento. La mente giudica quello che accade attorno a sé. Lascia che i pensieri siano foglie al vento, lasciali fluire. Osservali senza giudizio. Fai in modo che l’armonia interiore non sia interrotta da pensieri indesiderati. Il sentire è una fase importante della presenza autentica. Quando sei nell’essere, sei nella pace interiore che non reagisce», socchiuse brevemente gli occhi per poi riaprirli. «Gioisci nel presente e accogli ogni istante senza discriminare.» «Sì, comprendo. Spesso il giudizio è lo specchio di noi stessi.» «La vita è ora, perdona il passato e ringrazia per ciò che arriva», concluse Sanjay. «Un concetto non mi è chiaro. Quando parli di ancorarsi al presente, cosa intendi?» «Intendo portare la tua attenzione nel centrarti, impedendo al tempo, futuro o passato, di influenzare i tuoi stati d’animo. Le tue scelte saranno sempre più sagge se riuscirai ad ancorarti al presente, all’essere padrone dei tuoi pensieri controllando sentimenti, emozioni. Attraverso il fuoco della consapevolezza che brucia le distrazioni del tempo. In tal modo potrai solo essere.» Sanjay si interruppe qualche istante, poi riprese. «Ci sono altri modi per esercitarsi. Uno è rimanere focalizzati sempre di più nel qui e ora. Tentando e ritentando. Oppure nell’osservare i nostri pensieri e riportarli nuovamente a noi quando ci ‘sfuggono’. Infine, riconoscere che siamo già qui, che non possiamo essere in nessun altro posto se non adesso. Non occorre in verità nessun esercizio, perché tutto avviene in questo istante. Se osservi bene, in realtà il presente non esiste.» «Non esiste? Hai ribadito sempre l’opposto», esclamai, confuso. «Sì, ma ascolta attentamente. Ogni volta che pensi al presente, questo è già passato. Ogni attimo svanisce nel suo successivo. Dov’è il presente,

allora?» «E la soluzione qual è?» «Essere, questo ti basti.» «Per quanto tempo dovrei esercitarmi?» «Il più possibile. Bisogna riuscire a essere presenza fino a notare un cambiamento.» «Di cosa abbiamo bisogno per essere?» «Nulla, poiché essere, in realtà, lo sei già, devi solo prenderne consapevolezza. La tua volontà è importante. Esercitati. Vi sono diverse realtà dove si è consapevoli in modo differente di ciò che si è.» «Cosa intendi?» «Prova a ricordare quando dormi e sogni. Quando sei nel sogno, questa realtà non esiste. La tua mente diventa il tuo sogno finché non ti svegli. Solo allora capisci che stavi sognando e che il sogno non era la vera realtà. Hai realizzato che il sogno era un’illusione creata dalla tua mente. Eppure, quando sognavi tutto ti sembrava reale. Percepivi dolore, o eri felice, e ti sembrava normale. Nel sogno vivevi solo quella realtà, mentre di questa non eri consapevole. Tuttavia, stavi solo sognando. La stessa cosa vale per la percezione di una nuova consapevolezza. Quando ti risveglierai da questa realtà, capirai che quello che ora vivi è solo un’altra illusione della tua mente. Attento, questo non significa che la realtà in cui viviamo sia illusione: tutto è Infinita Coscienza, cambia solo il modo in cui viene percepita.» Era vero, e mi accorsi che le sue parole erano concrete. Mi era successo spesso, in quegli anni, di non capire la realtà del sogno, credendolo vero, e solo al mio risveglio comprendevo che era solo illusione. Eppure, era così vivo e reale. Sanjay chiuse gli occhi, per riaprirli dopo alcuni istanti. «Lascia che ogni cosa si compia, lascia che la vita si manifesti. Tu sei in questo istante, è solo ora che stai vivendo. Sei tutt’uno con l’Infinita Coscienza. Sii grato.» In quell’attimo arrivò Shanti. «Namasté, Sanjay. Mi auguro che abbiate trascorso una bella giornata.» «Benvenuta. Sì, certamente. Il curioso Kripala è di ottima compagnia. Ho scoperto che è un’anima dalle mille domande.» Scoppiammo in una fragorosa risata. «Ora dobbiamo andare», aggiunse Shanti.

Ringraziai Sanjay per la sua pazienza e per la sua generosità nell’avermi illuminato con quella che per me era la seconda rivelazione. L’essere presenza. Io e Shanti uscimmo dal suo studio e ci sedemmo fuori dell’edificio su una comoda sedia a dondolo in stile coloniale. Nessuno avrebbe mai creduto che tra noi potesse nascere qualcosa, forse per il poco tempo a disposizione, forse per la nostra diversità culturale. Ma alla fine nessuno si stupì degli eventi che seguirono. Shanti aveva portato della frutta che gustammo assieme. «Grazie di essere arrivata, mi piace passare del tempo assieme a te sia di mattina sia di pomeriggio. Ora sono qui e voglio esserci totalmente. Voglio esserci, con te, ora», dissi emozionato. «Ora è il nostro momento», rispose. «Vedo che hai capito l’essenza dei suoi insegnamenti. Bella la tua affermazione, mi piace.» Sorrise. «È la verità. Sono qui con te, e niente e nessuno mi potrà distrarre.» «È vero, l’importante è che nell’ascolto ci sia il sentirsi. Come è andata oggi con il maestro Sanjay?» «Direi illuminante. Dovrò riflettere molto su ciò di cui abbiamo parlato. Soprattutto mi ha colpito come la nostra mente venga catturata dal passato o dal futuro.» Shanti si fece seria. «Il tempo si diverte con noi quando ci perdiamo nel passato o ci proietta nel futuro. Tatanji mi disse che il tempo è simile a un ragno che attende la sua preda, ovvero la mente. Attende paziente di catturarla nel passato con pensieri di rabbia, rimpianto, colpa; o nel futuro, con pensieri d’inquietudine, preoccupazione, ansia. Solo l’attimo esiste, perché solo questo istante è reale. Più sei distante dall’adesso, più dipendi dagli eventi della mente temporale. Ricordo sempre una sua frase che mi colpì molto e che è di stimolo per me: ‘Se il passato ti crea sofferenza, sappi che non è qui. Se il futuro ti crea preoccupazioni, sappi che non è qui. Solo quest’attimo ha valore, questo solo esiste. Accoglilo. Ora è tutto ciò che è’.» Qualcosa in lei cambiava quando stavamo l’uno accanto all’altra. Forse provava le mie stesse sensazioni. La sentivo vicina al cuore, non troppo da offuscarlo, non troppo lontana da perderlo. Un equilibrio perfetto. Lei era brava a farmi rimanere sospeso. Mi sentivo come un gabbiano che si erge in alto, libero tra le nuvole, cullato dal vento.

C’incamminammo per il centro e, prima di giungere in ashram, ci fermammo in un chiosco per prendere un po’ di lassi. Lì Shanti mi raccontò di un’esperienza avuta con Sanjay. «Tempo fa, quando lo conobbi per la prima volta, mi insegnò un esercizio. Era una tecnica per non rimanere intrappolata fuori dall’essere presenza. Quando posso, lo pratico, specialmente nei momenti più difficili. Immagina, attorno a te, una perfetta sfera trasparente che circonda il tuo corpo. All’interno di questa sfera c’è il presente, solo questo momento. Quello che stai vivendo adesso. Fuori c’è il passato e c’è il futuro. Puoi uscire un po’ dalla sfera, interagendo parzialmente con i ricordi o con i progetti, per organizzarti, ma non devi mai farti trascinare fuori totalmente. Altrimenti perderai il tuo momento, che è la tua vita. Non devi farti coinvolgere da chi o da cosa ti vuole trattenere fuori dalla tua sfera, che siano ricordi dolorosi, problemi, preoccupazioni e tanto altro. Quando vedi che qualcosa ti risucchia fuori dalla sfera, ritorna al suo interno, al tuo qui e ora, al tuo essere. Non lasciare che il tuo ieri o il tuo domani entrino troppo nel tuo presente. Sii consapevole. Devi essere desto. Se riuscirai a trovare il tuo equilibrio temporale, collaborerai sia con il passato sia con il futuro, ma non ne sarai influenzato, perché tu sei adesso.» «Che esperienza!» esclamai meravigliato. «In effetti è un esercizio molto pratico.» «Esatto. Quando me lo rivelò la prima volta, ne rimasi entusiasta. Il segreto sta nell’impedire alle emozioni di condizionarti. Se la tua mentalità è stata per lungo tempo negativa, capita che gli stessi schemi mentali abitudinari negativi cerchino nuovamente di riportarti lontano dall’essere qui e ora. La soluzione sta nello sviluppare una mentalità consapevole, lasciando fluire i pensieri. Accogliendo quello che è stato e che ormai non è più. Esercizio, esercizio, esercizio. Finché diverrà tutto più naturale. Il segreto è, come mi diceva Sanjay, essere presenza nel presente.» «In che senso?» «Suddividi le parole. Essere presenza, nel presente. Due cose diverse e importantissime.» «La presenza di sé e vivere nel qui e ora? Intendi questo?» «Sì, ma avrai modo di capire meglio più avanti.» Mi fece l’occhiolino. Ci avviammo nuovamente lungo le vie della caotica città.

Ero attratto dai suoi piccoli modi di essere. Le nostre anime si conoscevano e i nostri cuori forse si erano amati ancor prima di incontrarsi. Questi legami sono già stabiliti dal destino e non vi è nulla che si possa fare per modificare il loro intreccio. Forse è delle piccole imperfezioni che ci innamoriamo. Quei piccoli dettagli che colpiscono il nostro cuore. Quelle piccole zone che, diverse dall’essere perfette, ci ricordano la nostra fragilità. Ecco perché le notiamo. Ci rammentano ciò che siamo: esseri umani. E quando vieni colpito nella tua fragilità, ti ripieghi in te stesso, come un riccio nel momento del pericolo. Ti curi le ferite e cominci a voler meno bene agli altri. Questo succede quando ti feriscono. Ti fidi di meno e ti proteggi di più. Questo mi era successo poco tempo fa. Ma qualcosa stava cambiando… Arrivammo vicino a un tempio, attorno a noi vi erano alcune statue del Buddha. Domandai a Shanti se esistesse qualche riferimento al buddhismo anche a Varanasi. Mi disse che a una decina di chilometri fuori città c’era un centro religioso buddhista, il Sarnath di Singhpur, dove il Buddha fece il suo primo discorso sul dharma. «È qui vicino, è un villaggio in cui si trovano molti templi e monumenti buddhisti. È un luogo davvero spirituale», concluse. Arrivammo in ashram. «Mi fermo qui», la informai. «Tu vai pure. Riordino la cucina, la sala di meditazione e, se riesco, i due bagni. Ogni giorno farò il mio seva, servizio disinteressato.» «Grazie», rispose sorridendo. «Grazie a voi», ribadii. «In questo modo mi sento utile.» Shanti mi salutò e, stanca della giornata trascorsa, salì in camera. Dopo aver ripulito ed essermi rinfrescato, mi recai in sala di meditazione, dove Tatanji mi stava aspettando. Iniziammo a meditare. Una volta concluso, prendemmo un tè caldo ed egli mi chiese come fosse andata la giornata. «Sono molto riconoscente, a te e a Sanjay», dissi. «Una giornata così la ricorderò per sempre. È stata importante per capire l’essere presenza. Forse la più importante finora.» «Ne sono felice», rispose. «E cosa ti ha colpito in modo particolare?»

«Quello che sono ora è la conseguenza delle azioni passate. Quello che sarò in futuro è la conseguenza delle azioni presenti. Tutto è centrato sull’essere qui e ora. Dall’istante nasce ogni evento.» Sorseggiai il tè. «Giusto», approvò. «Non puoi rivivere il passato, come non puoi vivere nel futuro. Oggi viviamo, domani forse. Il tempo che ci è donato è in questo istante.» «Ma sperare non penso sia negativo.» «Dipende come vivi la speranza. Se è intesa come semplice fiducia o come aspettativa. L’aspettativa è collegata al futuro come il rammarico è collegato al passato. Nell’essere presenza vi è solo pace. Non avendo aspettative, nulla ti turba; non avendo rimpianti, nulla ti rattrista. Prova a immaginare se non esistesse né futuro né passato. Solo l’istante. Il tuo vocabolario cambierebbe. Parleresti solo dell’adesso. Esercitati. Lo sforzo è necessario. Sempre. Quello che chiamiamo vita avviene solo in questo momento. Fa’ in modo che ogni istante sia sacro. Ogni volta che i tuoi pensieri ti portano lontano, conduci la tua attenzione all’essere. Inizialmente, portala ad osservare il tuo respiro: sarà più semplice. Ricorda: sei luce infinita. Risplendi!» «Vi è diversità tra attenzione e consapevolezza?» «La consapevolezza, in realtà, è la chiara percezione dell’essere. Mentre la percezione di ciò che stai facendo è semplicemente attenzione cosciente. Fai in modo che ogni azione che compi, dalla più piccola alla più grande, non sia il tuo piccolo ego a eseguirla, bensì l’Infinita Pura Coscienza che è in te. Non sei i tuoi pensieri, né colui che li osserva o li giudica. La consapevolezza sulla Coscienza Infinita ti porterà a realizzare che sei parte del tutto e che il tutto è parte di te.» Terminato il tè, concluse: «Tu sei infinita luce, infinito amore, infinita consapevolezza». Rimasi ispirato dalle sue parole. Un sentimento di amore verso l’universo mi stava avvolgendo. Comprendere di essere parte del tutto mi portava a essere compassionevole, amando e rispettando ogni essere vivente. «È un processo che avviene nel tempo», aggiunse Tatanji. «Ci vogliono pazienza e perseveranza. Tanto sforzo cosciente. La mente è ballerina: si fissa su qualcosa e l’attimo dopo è già da un’altra parte.» Ridemmo. «È nella tenacia il segreto per il successo. Come una nave sceglie di seguire la

sua rotta per arrivare a destinazione, così attraverso la disciplina non facciamo altro che direzionare le nostre vele, che ci condurranno al nostro porto. La perseveranza è il segreto. Centrati, riprova, non arrenderti mai.» «Non mi lamento delle difficoltà, dico solo che è un grande lavoro su di sé.» «Lamentarsi è desiderare una situazione diversa dal presente. Lamentarsi crea una proiezione nel futuro o nel passato dimenticando di accogliere ciò che è. I desideri sono spesso una trappola dell’ego. E quando si è in trappola, non si è felici. Il desiderio è un sentimento che ci lega a qualcosa. Liberarsi da questo bisogno è l’unico desiderio che dovresti avere. La felicità è semplice, non ha bisogno di nulla ma solo di essere, mentre l’infelicità la trovi nel desiderare qualcosa.» «Qual è il più bel desiderio?» «Il più puro desiderio è desiderare di essere Infinita Coscienza. Lì troverai le risposte a cui la tua anima anela.» «Ma non possiamo non desiderare.» «Ovviamente no, ma è buono comprendere ciò che ci incatena, rispetto al desiderio spontaneo di un gelato o di un abbraccio.» Sorridemmo. «Accogli l’istante, è tutto ciò che è. Vi troverai pace.» «Tuttavia, nel presente non vi è sempre pace, ci possono essere esperienze sia piacevoli sia spiacevoli», replicai. «L’esperienza non è altro che un avvenimento davanti alla tua mente. Come la definiamo e la giudichiamo crea la nostra realtà. Quando la mente si identifica con un evento negativo, dobbiamo riconoscere l’esperienza come tale. Il nostro obiettivo è riportare la nostra consapevolezza al momento. La qualità della tua felicità è proporzionale all’intensità della tua consapevolezza. Tutto qui.» «Cosa intendi?» «Quando accogli ciò che arriva, non vi è né attrito né sofferenza. Nell’accettazione vi è la consapevolezza che tutto avviene ora per te, non contro di te. La felicità arriva quando sei pienamente te stesso, ben radicato nell’essere, non influenzato né dal passato né dal futuro.» «È il tempo, allora, che ci inganna?» «Il tempo è simile a un battito d’ali che attraversa la nostra esistenza. Rendi unico ogni istante, rendilo così perfetto che ogni suo ricordo sia meraviglioso.»

Ero felice di ciò che Tatanji mi stava insegnando. Erano nuove spiegazioni sulla rivelazione appresa da Sanjay. «Cosa può aiutarmi nel riportare la mia consapevolezza al presente se la mia mente è fortemente attratta dal passato o dal futuro?» «Il tuo respiro.» «Vi è altro?» Attese qualche istante. «Un’antica leggenda indiana racconta di un perduto villaggio alle pendici dell’Himalaya. Ogni sera, i saggi anziani radunavano i giovani guerrieri attorno al fuoco facendogli osservare la luna. Gli veniva chiesto di porsi una domanda: come ho vissuto questa sacra giornata, da sveglio oppure dormendo? Questo per farti capire l’importanza di rimanere presenti. Se la tua mente è centrata, sei semplicemente nell’essere presenza.» «E come riconoscerò i miei miglioramenti, i miei progressi?» «Essi arriveranno quando sarai capace di focalizzare la mente in un unico pensiero e di liberarti senza difficoltà da quelli indesiderati. Allora ciò che ti è stato rivelato sarà stato compreso e realizzato, allora sarai sulla buona strada.» Tatanji si alzò, cosa che feci anch’io. Mi salutò con un grande namasté, che ricambiai. «Amati, rendi ogni giornata migliore per te e per chi ti sta accanto. Sii presente in ogni azione, sii sempre gentile. Poiché nella tenerezza è celata la forza, nella gentilezza è nascosta l’audacia e nell’amore è manifesta la generosità.» Lo ringraziai, commosso dalle sue parole. «Un’ultima domanda, Tatanji. Se dovessi riassumere tutto ciò, sull’essere presenza, quale sarebbe il tuo pensiero finale?» Tatanji rifletté un attimo. Poi mi guardò. «Nel tuo fare ci sia sempre il tuo essere. Non lasciare che il fare senza l’essere domini il tuo tempo. Più ci sarà presenza nell’essere, più meravigliosa sarà la tua vita.» Mi salutò nuovamente e se ne andò in un’altra stanza.

3

Gratitudine

ERA una mattinata bellissima, di quelle che neppure immagini di poter vedere. I raggi del sole illuminavano la stanza e io, a letto, ripensavo alla fortuna di essere lì, in compagnia di anime meravigliose. Ascoltavo come sempre il suono del flauto proveniente dalla sala di meditazione che, insinuandosi nel mio cuore, mi donava una profonda serenità. Il destino mi stava aspettando ai piedi di Tatanji. Sì, ai suoi piedi. Qualcuno mi disse, tempo fa, che se abbandoni l’ego davanti al tuo maestro il destino potrebbe mutare. In realtà, ai piedi del maestro abbandoni te stesso e accetti di rinnovarti accogliendo con fiducia ciò che l’universo ti dona. Improvvisamente la melodia si interruppe, come se Tatanji volesse dirmi di alzarmi e raggiungerlo. La mia mente vagava, ero curioso di chi avrei conosciuto quel dì. Di lì a poco, inoltre, avrei rivisto Shanti. In passato mi era già accaduto di conoscere nuove persone e di sentirmi in sintonia; credo sia normale. Con lei era diverso: vi era un’affinità ancora più profonda e intensa. Chissà se anche lei percepiva questo legame. Credevo di sì, lo speravo. Tatanji era stato molto chiaro sull’argomento tra me e lei, come mi aveva detto il primo giorno: «Shanti è collegata a te». Penso intendesse che tra noi vi è del karma in comune, o meglio, io e lei ci siamo già conosciuti, non in questa vita ma nelle precedenti. Un rumore mi destò dai pensieri e fermai la mia mente inquieta: stavo divagando troppo. Perdevo tempo, non ero centrato. Scesi dal letto, feci una doccia veloce e per un’oretta mi dedicai alle mie pratiche yoga mattutine. In seguito, mi diressi verso il salone, al piano di sotto. Tatanji mi aspettava alle sette precise, mancavano pochi minuti. Nel frattempo, aveva ripreso a suonare, e le note si diffondevano ovunque. L’ambiente era saturo di pace.

Appena entrai in sala, mi si presentò una scena esilarante: Tatanji era seduto di spalle, al centro, a gambe incrociate, e come sempre teneva il flauto trasversalmente. Un gattino era accomodato sulla sua spalla destra alzata, senza che capissi come ci fosse arrivato. Risi, senza darlo a vedere, per quella scena così meravigliosamente dolce e bella. Mi misi a sedere dietro Tatanji e attesi tra il miagolio di alcuni gatti. Qualche micio si azzuffava per gioco poco distante da me. Chiusi gli occhi per assaporare il momento, immerso in quei suoni melodiosi. Li riaprii dopo alcuni minuti e nuovamente Tatanji era dinanzi a me, a occhi chiusi. Ancora una volta mi domandai come facesse: girarsi all’improvviso e continuare a suonare… e senza il minimo rumore! Era un piccolo mistero. Terminato di suonare, Tatanji prese il gattino accoccolato sulla sua spalla e lo adagiò a terra. «Questi piccoli felini, pur essendo puliti e riservati, passano la maggior parte del tempo a giocare, mangiare e dormire. Questo è il loro dharma, o legge cosmica, e noi come esseri umani abbiamo il nostro. Ma il loro dharma in assoluto è mangiare», mi osservò con un sorriso. «Ultimamente ho conosciuto un altro il cui dharma più grande è mangiare», riprese. Ridemmo. Si riferiva a me. Accarezzai un gattino nerissimo che stava passando accanto a me ed egli ricambiò, strofinandosi contro la mia gamba. Tatanji lo indicò. «Questo è il loro modo di ringraziare. Apprezzano ciò che gli stai facendo. Sono esseri sensibili alle tenerezze e contraccambiano strofinandosi su qualsiasi parte del tuo corpo riescano a raggiungere.» Si fece serio e, guardandomi dritto negli occhi, mi domandò: «Kripala, sai ringraziare?» «Sì, Tatanji, quando me lo ricordo ringrazio sempre. Come ora, anche se non lo esprimo a voce. Ringrazio per essere qui, ringrazio te, Shanti, il luogo, tutti. Devo esercitarmi meglio a esprimere anche a voce la mia gratitudine.» Tatanji accarezzò un altro pelosetto. «Inizialmente la gratitudine richiede uno sforzo quotidiano, come ogni cosa che si desidera ottenere. Ci vogliono pratica e costanza. È un processo interiore che crea consapevolezza e gioia, ma gli effetti per lo spirito sono immensi.» «Per qualsiasi cosa dovrei essere grato?»

«Sì!» esclamò. «Benedici sempre ciò che arriva e ringrazia ciò che se ne va. Questa è l’essenza della gratitudine. Gratitudine incondizionata. Oggi avrai modo di confrontarti con un’anima speciale: Kritajìna. La conoscerai tra un po’.» In quel momento entrò Shanti, portando con sé la colazione. La salutammo e la ringraziammo. Lei prese a coccolare un gattino sonnacchioso. «Shanti, cosa pensi della gratitudine?» chiese Tatanji. «Sconosciuta ai molti», rispose. «La gratitudine è un gioiello da indossare sempre e ovunque. Così dice Kritajìna.» «Sì, la penso esattamente come lei», replicò Tatanji. Nel frattempo, versai il tè nelle tazze. Alla presenza di Shanti, il mio animo era irrequieto, ma cercai di non far trapelare la mia emozione. «Va tutto bene, Kripala?» mi domandò Tatanji. «Sì, sì, tutto bene, grazie», risposi imbarazzato. Tatanji sorrise in quel suo modo dolce e autorevole, come se sapesse cosa accadeva in me. Probabilmente percepiva ciò che sentivo. Dopo aver sorseggiato il suo tè, si alzò e uscì dalla sala, salutandoci e augurandoci una buona giornata. Ricambiammo il saluto. Shanti continuava in silenzio a far colazione, accarezzando un gatto adagiato accanto a lei. Terminato di mangiare, portai gli avanzi in cucina, mentre Shanti finiva di prepararsi. L’idea era di prenderci un po’ di tempo per una breve passeggiata e poi dirigerci verso il mio appuntamento. Poco dopo uscimmo all’aperto. Un’ondata d’incenso e odori speziati ci investì. Lungo la strada vi erano negozietti di resine con una serie variopinta di confezioni colorate: da lì provenivano queste ondate esotiche di intenso profumo. Mi inebriavano. L’India era anche questo. Ci divertivamo a osservare tutto quello che ci circondava, curiosavamo ogni oggetto, apprezzando di divertirci assieme. «Tra breve avrai modo di apprendere dei saggi consigli, quindi stai attento», mi informò Shanti. «Forse ne parleremo questa sera, ma sicuramente ne discuterai come sempre con Tatanji.» «Grazie», replicai. «E io ringrazio te, Kripala. Sai, quando acquisisci consapevolezza, ti senti connesso sempre più con tutto ciò che esiste. Col tempo impari che

ogni tua azione è collegata a quelle degli altri. Essere grati diventa un atteggiamento naturale.» Annuii, poi tornai su un discorso che mi interessava parecchio. «Scusami, ma sono curioso di saperne di più sulla tradizione dei matrimoni indiani. Tatanji è d’accordo circa il tuo matrimonio organizzato?» «Assolutamente no. Lui è contro i dogmi imposti dalla società o dalle religioni, contro il volere del dharma dell’essere umano. Ma è compassionevole, non vuole interferire. Prenderò una decisione a breve. Questo significa compiere una scelta che ritengo giusta per il mio benessere, ma che potrebbe anche voler dire ferire involontariamente qualcuno. Ma lo faccio per amore di me stessa, per la mia libertà. Anche se non è semplice. Mentre ieri eri in compagnia di Sanjay, ho avuto modo di parlare con il mio promesso sposo spiegandogli alcune cose e ribadendone altre. Penso abbia compreso e accettato le mie scelte. Ha espresso il desiderio di pensare a ciò di cui abbiamo discusso, chiedendomi di incontrarci nuovamente oggi.» «Sono scelte delicate e personali, posso capire», risposi. Le domandai poi di parlarmi nuovamente della città. «Da quello che ricordo, Varanasi fa parte delle sette città sacre indiane, ed è un luogo energetico e spirituale. Alcuni saggi fanno riferimento ai sette chakra del nostro corpo.» «Per chakra cosa intendi?» «I chakra sono vortici energetici invisibili dove fluisce l’energia vitale. Non si vedono perché sono presenti nel corpo sottile, ma, come esistono in noi, similmente la terra ne possiede diversi, sparsi un po’ ovunque. Sono luoghi in cui l’energia si concentra più intensamente. Per alcune culture queste zone sono diventate sacre, come a Varanasi.» «A quale chakra corrisponderebbe Varanasi?» «È il chakra associato all’acqua, alla fluidità, allo scorrere. Chi fa un pellegrinaggio in queste sette città ottiene grandi benedizioni per la sua anima.» Arrivammo in prossimità di una piccola casetta in una via poco frequentata. Subito qualcosa attirò la mia attenzione: da lontano, una donna di circa settant’anni ci faceva cenno di avvicinarci con la mano alzata. Di aspetto curato e corporatura esile, indossava un sari colorato e ci guardava

con un sorriso dolcissimo. Dietro di lei si trovava l’entrata di una casa condominiale in tipico stile inglese. Ci fece cenno di entrare. «Venite, venite, non statevene lì. Mi chiamo Kritajìna», mi disse. «Sono Kripala, namasté.» L’anziana salutò Shanti, che ricambiò. Entrammo in casa e ci accompagnò lungo uno stretto corridoio, fino a una stanza luminosa e arredata in modo semplice. «Volete del tè?» ci domandò. «Sì, grazie», riposi chinando leggermente la testa. Indicò con lo sguardo un cuscino di seta e mi fece cenno di sedermi. L’accontentai, cercando di piegarmi a gambe incrociate senza essere troppo goffo. «Il tè è già pronto, aspettandovi l’avevo messo in caldo», ci spiegò, poi si rivolse a Shanti: «Saresti così gentile da…» Si interruppe perché lei si alzò subito, intuendo quello che voleva dirle. Prese delicatamente la teiera e ci versò il tè. Quindi, con espressione dispiaciuta, si girò verso Kritajìna. «Non posso rimanere oltre, mi spiace, ma sono felice di averti rivisto. Passo più tardi, verso fine giornata.» «Anche io sono grata di averti rivisto, dolce Shanti. Va bene così, avremo modo di ritrovarci più in là, prendendoci più tempo per noi due.» «Sicuramente.» Shanti salutò Kritajìna con un namasté, poi si girò verso di me con quell’immancabile sguardo di tenerezza e forza. «Ti lascio in ottima compagnia. A più tardi.» La salutai con un piccolo cenno del capo. Appena Shanti uscì dalla stanza, Kritajìna si girò verso di me. Non avevo mai visto occhi luminosi come i suoi: trasmettevano una sensazione di tranquillità e il suo sguardo era pieno di calore. Le domandai cosa significasse il suo nome. «Significa ‘essere grato’, così, quando mi chiamano, mi rammenta sempre quanto sia importante essere riconoscenti.» «Anche il mio assomiglia al tuo», osservai. «Certamente, anche il tuo nome spirituale ha un suono simile, ma sono leggermente diversi nel significato. Kripala vuol dire ‘colui che porta benedizioni’ oppure ‘pura grazia’.» «Sono diversi, in effetti», confermai. Dopo un sorso di tè mi chiese da dove provenissi.

«Sono italiano.» «Bellissima l’Italia!» esclamò. «E come mai sei giunto in India?» «Perché vorrei conoscere lo yoga, imparare da Tatanji come realizzarmi interiormente.» «Capisco, vuoi trovare l’illuminazione», Kritajìna sorrise dolcemente. «Penso però che, come esseri umani, vi siano conoscenze fondamentali da apprendere prima di procedere sulla strada dell’illuminazione.» Si fece seria. «Si inizia dalle fondamenta per costruire una casa. Non dal tetto.» Annuii, ma non capivo cosa volesse dire. Ero convinto fino a quel giorno che il processo di evoluzione umana fosse svilupparsi interiormente fino ad arrivare all’illuminazione, come la definiscono in Oriente: il nirvana, il samadhi, l’estasi spirituale. Ma dalle sue parole capii che tale processo, oltre a non essere facile, doveva passare attraverso il riconoscimento di alcuni semplici concetti spesso dimenticati dai più. «Shanti ti ha accompagnato da me», osservò. «Sì», risposi. «È una ragazza molto gentile.» «L’hai ringraziata per averti accompagnato fin qui?» «Sì.» «Bene. Ringraziare è importante.» Prese nuovamente la tazza di tè e, prima di bere, chiuse gli occhi per alcuni secondi per poi riaprirli. «Sai cosa ho fatto?» Attesi qualche istante. «Hai recitato una preghiera?» azzardai. «Qualcosa di simile. Ho ringraziato.» «In che senso?» «Vedi, Kripala, ci sono due tipi di preghiera. Quella in cui si chiede e quella in cui si ringrazia. Una nasce dalle richieste dei nostri desideri, dall’ego; l’altra nasce dal cuore della gratitudine.» «Se ho capito bene, vi è la preghiera in cui si chiede di ottenere qualcosa e un’altra che esprime solo gratitudine e nient’altro», riassunsi. «Sì, esattamente, hai capito bene.» Continuò a sorseggiare il suo tè. Stessa cosa feci anch’io, ammettendo tra me e me che era il miglior tè assaggiato dal mio arrivo in India. «Di tutto il tempo trascorso oggi, quanti secondi hai utilizzato per ringraziare?» riprese. Riflettei e, un po’ a disagio, risposi: «A dire il vero, pochi».

«Capisco.» Sorrise. «L’abitudine è il velo ingannatore della nostra vita. Ci fa dimenticare il valore di ciò che conta, ossia di ciò che abbiamo, e quanto è stato desiderato prima di possederlo. L’abitudine spesso ci rende inconsapevoli della preziosità della vita.» «Vorresti spiegarmi meglio cosa intendi?» chiesi perplesso. «L’acqua del tè che stiamo bevendo, ad esempio, come ogni cosa ha un valore. Un tempo si usciva di casa e si andava al pozzo per prelevarla. Ancora oggi per molte persone bere acqua pura è una difficoltà. Essa è il frutto del lavoro di tanta gente e tutto ciò per rendere più agevole il suo utilizzo nei luoghi dove prima non c’era. Ma noi, a causa dell’abitudine e della nostra mancanza di consapevolezza, ce ne siamo dimenticati. Diamo tutto per scontato, o quasi. Questo vale anche per altre situazioni. Dobbiamo provare gratitudine per quello che ci circonda, per ciò che abbiamo, per i nostri affetti e anche per i nostri antenati. Attraverso le loro battaglie, i sacrifici e gli sforzi collettivi, sono stati i precursori del nostro benessere. Rendere omaggio, attraverso la gratitudine, è tener viva la loro memoria e il loro contributo al bene collettivo. In alcune zone del mondo il benessere è la normalità, e in generale come esseri umani siamo poco grati. Non abbiamo mai imparato l’importanza della riconoscenza. Provare gratitudine dà valore a ogni esperienza che avviene attorno a noi. Va coltivata come si coltivano i fiori, ossia attraverso la pratica quotidiana e l’amore. Essere grati ci rende felici, umili, ci fa comprendere che tutto è un dono. È fondamentale essere riconoscenti ogni giorno ed espandere questo sentimento all’infinito. Dobbiamo riuscire a percepirla ovunque. Per la nostra anima è una grande benedizione. Mostrare gratitudine al prossimo è un atto di nobiltà d’animo.» «Sì, hai ragione, ma penso che la difficoltà più grande sia saperla riconoscere ogni giorno, nelle piccole cose che spesso trascuriamo», riflettei. «Lo sforzo più grande è quello, esattamente. Hai sottolineato due punti molto importanti, Kripala. Non solo è importante riconoscere la gratitudine nelle nostre giornate, ma anche saper spezzare le abitudini che ci separano dal vederla e, cosa più rilevante, ricordarsi di praticarla. Se fai uno sforzo per ricordarla, sarà più semplice riconoscerla. Se la sai riconoscere, sarà più facile praticarla. L’una è in sintonia con l’altra, e questo vale per qualsiasi pratica interiore. Ricordalo!»

Rimasi in silenzio riflettendo su quello che aveva appena detto. «È importante accogliere totalmente ciò che arriva», riprese. «Essere grati non solo per le belle cose che abbiamo, ma anche per quelle meno belle che giungono a noi. Le esperienze brutte, o meglio, che noi definiamo tali, fanno parte della nostra esistenza, ci fanno crescere. Ci fanno comprendere la vita e i suoi insegnamenti.» Mi grattai il mento, e l’anziana notò subito il mio disagio. «Cosa ti turba, Kripala?» «Non si può pretendere di essere grati per eventi dolorosi, tragedie, malattie o cose simili», risposi. «Capisco ciò che vuoi dirmi. Gli esseri non vogliono provare dolore e sofferenza. È normale. Ma tutto ha un significato nascosto che spesso non comprendiamo. Può sembrare un atteggiamento crudo, ma è nel ringraziare la vita per ogni esperienza che ci concede, anche le meno belle, che troveremo serenità.» «In che senso?» «Se c’è la vita ci sarà anche la morte, se c’è la felicità ci sarà anche la sofferenza. C’è sempre un opposto. Come gradisci il sole, devi accettare la pioggia, come gradisci l’estate, devi accettare l’inverno. Se non sperimentiamo le brutte situazioni, non possiamo apprezzare le belle. Deve esserci sempre un’opposizione per dar valore alle piccole gioie della vita.» Si fermò per bere alcuni sorsi di tè. «Se vogliamo sperimentare la gratitudine, dobbiamo anche sperimentare l’insoddisfazione. Solo sperimentando gli estremi della vita riusciremo a capirne la sua vera profondità. Quanto più il dolore penetra nella nostra anima, tanto più spazio si crea per contenere la bellezza dell’esistenza. Come il diamante si è formato nella roccia e il fiore di loto è nato dal fango, così, lascia che il tuo essere entri nel dolore e ne sia forgiato.» Avevo ancora alcuni dubbi. «Perché dovrei ringraziare le difficoltà che la vita mi pone dinanzi?» «Le difficoltà della vita servono per elevarti spiritualmente, ti rendono più forte. Ogni avvenimento ha un senso, un significato. Attraversandole, ne uscirai più temprato. Le difficoltà ci aiutano a riconoscere il bello che prima era nascosto dal velo della normalità. Ricorda: ogni rosa ha il suo inverno. Sii grato, sempre.» Mi guardai attorno, pensieroso. La perplessità non mi abbandonava.

«L’essere umano fa fatica ad apprezzare ciò che ha», continuò Kritajìna. «Spesso sono gli oggetti a possedere lui. Attraverso la sofferenza o il dolore egli riconosce il valore di ciò che veramente gli sta più a cuore. Questa comprensione è l’inizio della saggezza. Il segreto della felicità è nel cuore della gratitudine. Più ringrazierai, più proverai gioia.» «È davvero così semplice essere riconoscenti?» Kritajìna mi fissò sorridendo. «Sforzati di vedere sempre una prospettiva positiva in ogni cosa.» Attese qualche secondo, come per darmi il tempo di assimilare le sue parole. «Se i tuoi pensieri sono pieni di gratitudine, sarai appagato e ti sentirai in pace. È un mezzo di ripresa per l’anima affranta, ti rende libero. Lascia che la riconoscenza ti trasformi. Si prenderà cura di te. Mia nonna aveva l’abitudine di ripetermi spesso una frase: la gratitudine è un buon medicinale. Non ha effetti collaterali. Non ha scadenza. Più ne doni, più sarai felice.» Annuii e ripresi a riflettere in silenzio. Kritajìna si alzò e mi invitò con un gesto a uscire dalla stanza. Prese un piccolo sari colorato e si coprì la testa. Mi alzai e la seguii. Uscimmo dall’abitazione e ci inoltrammo lungo le vie affollate. «Da quello che ho capito, nella nostra vita dobbiamo essere portatori di gratitudine. Vi sono però molte situazioni e persone che trasmettono negatività, e ringraziare è difficile», esordii. «È vero. Spesso non ce ne accorgiamo, ma siamo come spugne. Assorbiamo. Continuiamo ad assorbire ogni cosa. Siamo circondati da una miriade di informazioni che provengono da ovunque intorno a noi. La nostra mente fa sempre più fatica a filtrare ciò che è buono da quello che non lo è. Dovremmo fare il possibile per allontanare chi ci fa star male e avvicinare chi ci fa sentire bene. Non è sempre facile. Se siamo consapevoli delle vibrazioni intorno a noi, diventerà più semplice controllare questo tipo di energie.» «Sì, concordo. Talvolta siamo positivi e nel prossimo vediamo il bello, ma vi sono persone che per loro natura, simili a vampiri, hanno un potere ben più elevato del nostro e ‘assorbono’ la nostra positività, la nostra energia.» Kritajìna annuì. «Sii grato anche di queste persone perché ti fanno capire che è meglio cambiar strada quando le incontri.»

Ridemmo, e mi guardò come se tutto fosse chiaro. Lo era, sì, ma ero io che mi rifiutavo di capire, di accettare completamente la lezione. L’ostacolo erano le mie credenze passate. Mi venne in mente una frase di Tatanji: «Rimani limpido come l’acqua di un torrente». Ecco il suo aiuto in un momento di perplessità. Lo ringraziai mentalmente. «Dobbiamo praticare gratitudine. Diventare gratitudine. Essere gratitudine. Giorno dopo giorno. La vita, in questo modo, sarà più profonda e gioiosa», continuò Kritajìna. «È un atto semplice ma potente, i cui effetti sono immediati. Semplice perché non costa nulla, potente perché è trasformativo.» «Comincio a capire», replicai. «Penso sia un atteggiamento naturale, in realtà. Ma cosa intendi per ‘atto trasformativo’?» «La gratitudine trasforma ciò che tocca. Trasforma il dolore in elevazione. Trasforma la normalità in ringraziamento. Trasforma la confusione in chiarezza. Trasforma le opportunità in benedizioni.» Unì le mani in fronte e recitò un namasté, come per consolidare ciò che aveva appena detto. «Se la gratitudine diventa parte di te, il tuo cuore si trasformerà. Come per magia, ogni cosa avrà una vibrazione diversa, gioiosa.» Rimasi nei miei pensieri, in silenzio, mentre continuavamo a camminare per una via affollata. Kritajìna mi indirizzò verso un ampio quartiere. Da lontano scorsi un piccolo gruppo di persone composto principalmente da donne e alcuni uomini; vi era anche qualche bambino che, sorridente, si stava avvicinando a noi. Kritajìna salutava ognuno di loro, chiamandoli per nome. Si guardò attorno e, fissando i piani alti di una palazzina, fece cenno di scendere a due giovani donne che ci stavano osservando. Arrivarono poco dopo, portando con sé una grande pentola fumante di cibo e molta frutta. Con calma, il gruppetto si avvicinò e si mise in fila. Smisero di parlare e, dopo qualche istante, il brusio cedette il posto al silenzio. Ognuno di loro era pronto a ricevere la propria parte di riso e di chapati; per chi voleva vi erano anche banane e mele. Le due donne aiutarono Kritajìna, che cominciò a versare il pasto, prima ai bambini e poi agli altri. In ognuno di loro percepivo la gioia di sfamarsi con del buon cibo caldo e della frutta fresca. Dopo che ebbe finito di distribuire da mangiare a tutti, Kritajìna mi propose di sederci su un piccolo rialzo di legno poco distante da dove ci

trovavamo, ma più appartato. Era l’entrata di un piccolo tempio, almeno così mi sembrava. «Fai spesso questo seva?» domandai incuriosito. «È gratitudine anche questa», mi spiegò. «Portare luce e aiuto a chi ne ha bisogno è una grande opportunità per il tuo cuore. È un atto semplice, ma il suo valore è immenso. Donare gratitudine può cambiare la giornata di chi ti sta accanto, ma anche la tua: ti sentirai felice e appagato.» Frugò nel suo zainetto e mi diede due mele che aveva portato con sé per il nostro pranzo. Le mangiammo in silenzio. Dopo alcuni minuti, si alzò e si guardò intorno. Tutti o quasi avevano terminato il pasto. Da una piccola insenatura adiacente al tempio prese una scopa e si mise a pulire. Cercai nel mio piccolo di imitarla, raccogliendo gli avanzi di cibo rimasti a terra. Infine, Kritajìna salutò tutti con un grande namasté, e in risposta ricevette un coro di saluti gioiosi che riecheggiarono nel quartiere come canti in una cattedrale. Ci avviammo sulla strada del ritorno. Diversi minuti dopo, mi accorsi che Kritajìna aveva preso un percorso diverso da quello iniziale. Lungo la strada, piccoli gruppi di ragazzini chiassosi giocavano con dei palloni da calcio. Improvvisamente, una palla colpì forte la gamba di Kritajìna, che si guardò intorno cercando di capire cosa fosse successo. Pensavo che dovesse provare dolore, vista l’età e la forza con cui era stata colpita. Tuttavia, invece di essere infastidita, l’anziana prese la palla e si diresse sorridente verso il gruppetto. Parlarono un attimo, dopodiché si mise a giocare con loro, mentre io osservavo divertito la scena. Poco dopo, si avvicinò a me. «Non lasciare che un brutto momento turbi la tua serenità», disse. «Sii grato di ogni esperienza. Ringrazia per ciò che sei, e per ciò che sarà.» «Non sempre è facile accettarsi, osserviamo spesso i nostri difetti. Ci concentriamo su di essi perché non li vogliamo», valutai. «In realtà la soluzione è semplice. Non ti piace quello che sei? Accogli quello che vorresti essere. Cambia la tua prospettiva.» «Cosa intendi?» «Hai appena detto che osservi spesso i tuoi difetti perché non ti vanno bene.» «Sì, esatto.» «Guarda ciò che va bene, oppure concentrati su quello che vuoi che vada bene, come se già esistesse in te. Vivilo come se fosse tuo. Accoglilo e

ringrazia.» Impiegai qualche istante per capire ciò che aveva detto. «Se, ad esempio, volessi essere più socievole con il prossimo, farei di tutto per esprimerlo interiormente come fosse parte di me? Credendoci e immaginando di viverlo da tempo? È questo che intendi?» «Sì, esattamente. Crea nella tua mente un film e osservati in situazioni socievoli nella vita di tutti i giorni.» Arrivammo a casa sua. «Negli antichi insegnamenti si dice che la mente non distingue ciò che è reale da ciò che viene creato dai suoi pensieri, cioè, immaginato», continuò Kritajìna una volta entrati. L’ultima frase mi risuonò interiormente e ricordai le parole di Tatanji: «Solo alcune frasi ti entreranno in profondità. Di tutte le altre, se riesci, dovrai fare tesoro e lavorarci ogni giorno». Alcune erano diverse e fondamentali, dovevo prestare più attenzione. Ripetei ciò che Kritajìna aveva appena detto: «Per la mente non vi è differenza tra ciò che è immaginato e la realtà». Mi rimbalzava come il suono di un martello sull’incudine. A breve avrei capito che non dovevo fissarmi su quale discorso fosse il più o il meno importante per me. Dovevo essere semplicemente attento e aperto. Accogliere e non focalizzarmi troppo sull’analisi. Rimanere limpido, accettando ciò che arrivava. Così misi subito in atto la gratitudine, ringraziando più volte Kritajìna per ciò che mi stava donando. Era riuscita ad aprirmi gli occhi su qualcosa che non consideravo e a cui non avevo mai prestato attenzione. L’anziana si avvicinò a un piccolo mobile, accanto al muro, e accese un po’ d’incenso. Tornò in cucina, dove si trattenne alcuni minuti. «Preparo altro tè», disse, «spero continuerai a farmi compagnia.» «Certo», risposi sorridendo. Il tempo volava, era già pomeriggio inoltrato. Qualche minuto dopo ricomparve con la teiera. Un profumo speziato di erbe avvolse la stanza. Mentre stava versando il tè, notai di nuovo i suoi occhi luminosi. Ero colpito dalla loro dolcezza e dalla loro purezza. Si sedette. «Non è indispensabile avere un cuore grande per contenere gratitudine», disse. «Essa è ovunque, devi solo esserne cosciente.» «È un bell’esercizio.»

«Sì. In questa società una delle più grandi contraddizioni è la mancanza di riconoscenza. La più alta benedizione è dentro di noi. Essere riconoscenti per i doni che la vita ci offre, gioirne, benedicendo sempre il nostro destino, qualsiasi esso sia. «Quando ero piccola, i tempi erano difficili e la vita diversa da come la viviamo oggi, ma eravamo più felici. Mia nonna era una donna forte. Mi ripeteva spesso tre frasi, affinché le tenessi a mente, e appena si destava la mattina le metteva subito in pratica. Diceva che ingrandivano il cuore e rendevano la giornata positiva.» «E quali sono queste tre frasi?» chiesi incuriosito. «Inizia la giornata con gratitudine verso la Coscienza Suprema. Inizia la giornata con un pensiero positivo su di te. Inizia la giornata con un cuore pieno d’amore per tutti gli esseri viventi.» Pronunciò un namasté. «Questi tre consigli sono una vera benedizione. Sono semplici, si intrecciano, non possono coesistere separatamente. Fanno parte di un’unica visione. Infinita Gratitudine, tutto è Uno.» «È vero», risposi. «Se ho capito bene, il pensiero grato sulla Coscienza Suprema ti dona amore, quello su te stesso porta serenità, e quello sul prossimo crea gioia.» «Vedo che sei sveglio quando vuoi, ne sono felice.» «Ti sono infinitamente grato, Kritajìna», dissi. «Grazie a te sto capendo l’importanza della gratitudine consapevole. Essere grati è riconoscere l’amore, ovvero riconoscere il disegno universale che ci circonda e partecipare alla sua manifestazione. Grati di quanto siamo fortunati, di ciò che abbiamo, salute, relazioni, sentimenti.» «Ringrazia questo momento e accoglilo. Ringrazia sempre. Sii coraggioso. Non preoccuparti delle persone che sono sorprese o indifferenti alle tue benedizioni.» Ascoltavo incantato le sue parole. «Viviamo in un periodo storico contraddittorio, dove in sole poche ore possiamo attraversare il mondo. Qualche secolo fa ci avremmo messo mesi. Molte malattie di un tempo sono state sconfitte. Viviamo di più, ma siamo meno felici. Abbiamo a portata di mano tutto quello che vogliamo, e quando non è così possiamo richiederlo e ci arriva dopo qualche giorno. In realtà manchiamo di riconoscenza.»

Bevve il tè rimasto, prese un altro bastoncino d’incenso dal tavolino, l’annusò e l’accese. «Quando il tuo atteggiamento è di gratitudine, ciò che ti circonda cambia. Può non avvenire immediatamente, ma una cosa è certa: tu cambierai, sarai diverso, è solo questione di tempo. Trasformandoti, il mondo attorno a te inizierà a cambiare. Mi ripeto spesso, come faceva mia zia, una preghiera. In realtà è una piccola affermazione.» I suoi occhi si velarono. «Mi aiuta a essere consapevole di quanto sia fortunata.» Si concentrò un attimo e recitò: «‘Io sono grata all’universo per ciò che sono e per ciò che ho.’ Ripetila assieme a me.» «Io sono grato all’universo per ciò che sono e per ciò che ho», recitai. «Ripetila spesso, come un mantra. Quest’affermazione riconosce e ristabilisce il giusto equilibrio nascosto. Col tempo, giorno dopo giorno, praticando la gratitudine comincerai a vedere.» «Vedere? Cosa dovrei vedere?» «Vedrai abbondanza dove prima c’era carenza. Vedrai armonia dove prima c’era squilibrio. Vedrai luce dove prima c’era oscurità. Semplicità e gratitudine sono i più grandi doni che potrai essere.» Fece una piccola pausa. «Hai compreso? Hai notato qualcosa di particolare nella frase che ho appena pronunciato?» «Hai detto essere, non avere. Essere semplici ed essere grati. Penso di capire: è differente da avere semplicità e avere gratitudine. Essere lo sei ed è interno. Avere lo possiedi ed è esterno a te.» «Bravo, Kripala, per questo è fondamentale capire la differenza tra i due termini. Molti esseri umani vivono nell’avere invece che nell’essere. La differenza è immensa.» A mano a mano che spiegava, iniziai a comprendere quanto la gratitudine fosse determinante per la mia e altrui felicità. Da sempre conoscevo il concetto di riconoscenza. L’avevo praticata in alcune occasioni formali, ma non vi avevo mai dato troppa importanza. Ora, grazie a questa splendida donna, mi resi conto che una forza potente come la gratitudine era sempre stata in mio possesso e per incoscienza non l’avevo mai utilizzata. La sua compagnia mi stava donando forza e una sana dose di ottimismo. Per qualche istante la gratitudine mi avvolse, proprio quella gratitudine che avrei dovuto giorno dopo giorno fare mia grazie ai suoi consigli.

Kritajìna avvicinò il braccio destro e, scostando un pezzetto di sari, mi mostrò il polso. Indossava un piccolo mala composto da varie pietre dal colore intenso, tutte uniformi. «Vedi?» Lo fece roteare. «Mi aiuta a focalizzarmi sui colori attorno a me e vedo riconoscenza in tutte le sue forme.» «Cosa intendi per ‘in tutte le sue forme’?» «È un gioco che facevo da bambina e che ancor oggi pratico. Ogni colore corrisponde ai vari elementi che ci circondano in natura. Sai quali sono, vero?» Avvicinò il volto al mio con un sorriso interrogativo. Ricambiai con un sorriso ancora più grande. «Certo: aria, acqua, fuoco, terra ed etere.» «Esatto, vedo che sei preparato. Secondo la mistica indiana, ogni cosa è composta da questi cinque elementi. Il piccolo braccialetto mi rende consapevole di queste realtà, ne osservo un colore e immagino un ringraziamento corrispondente al colore che trovo. Vedo il blu e ringrazio il blu che noto attorno a me, che sia cielo o mare. È un piccolo stratagemma, come ti dicevo, che inventai da ragazzina; volevo intensificare il mio stato di riconoscenza per essere sempre più attenta.» Il suo modo di essere mi donava un senso di serenità. Bevvi un po’ di tè, che nel frattempo si era raffreddato. Non sapevo cosa chiedere, e aspettai alcuni minuti. Chiusi gli occhi cercando di assaporare quell’attimo di pace. Ascoltavo il brusio proveniente dall’esterno. Ero circondato da suoni lievi e da innumerevoli voci di donne che chiacchieravano, urla gioiose di bambini, musiche che si mescolavano a rumori indefiniti e canti di mantra lontani. Clacson di auto e risciò che passavano. Ringraziai con purezza quello che percepivo, che sentivo. E tutto avvenne in un istante. Improvvisamente avvertii nel petto un sentimento di gioia infinita. Un flusso di beatitudine si espanse dal cuore al mio essere. Una gioia immensa mi avvolse. Le lacrime sgorgarono copiose. Piangevo e ridevo di felicità. Com’era iniziato, in un istante, in un attimo scomparve. Non sapevo quanto tempo fosse trascorso, forse pochi minuti, anche se parevano molti di più. Lentamente, presi coscienza. La riconoscenza mi permeava. Non vi era un significato particolare, ma compresi cosa si prova quando si è grati. Gioia infinita.

Riaprii gli occhi. Kritajìna mi sorrideva, fissandomi come se sapesse cosa avevo provato. E infatti era così. «Hai capito, ora, cosa intendevo?» Annuii. Non volevo parlare e interrompere quel flusso che ancora mi faceva stare così bene. Le parole possono aiutarti a capire, ma solo grazie all’esperienza puoi conoscere. Realizzare è diverso da sapere. Attesi ancora qualche minuto, come per assaporare il ricordo di quegli attimi di serenità, poi domandai: «Che differenza c’è tra gioia e felicità?» «La felicità è transitoria. La gioia nasce dal cuore. Se vuoi essere felice basta decidere di esserlo, non hai bisogno di nessuno. Essere felici è un concetto della mente. Ma per comprendere queste due semplici parole talvolta non è sufficiente una sola vita.» «Come posso ottenere la gioia nella vita d’ogni giorno?» «Prima di compiere un’azione, ringrazia; quando hai concluso un’azione, ringrazia. Fai uno sforzo costante specialmente nei primi tempi. Inizia dalle piccole cose per poi allargarti sempre di più. Crea ovunque un atteggiamento di gratitudine. Benedici tutto e tutti, incondizionatamente. Se lo fai anche con chi ti crea disturbo, noterai subito una trasformazione dentro di te. Gli altri sono i nostri migliori insegnanti, ci fanno notare i nostri limiti e cosa dobbiamo comprendere di noi stessi.» Improvvisamente, i piccoli bambù appesi sopra l’ingresso si mossero e tintinnarono. Qualche istante dopo apparve Shanti. Ci salutò e si girò verso di me, sorridendo. «Bene, è arrivato il tempo di lasciarci, Kripala», disse Kritajìna. «Sono stata felice di conoscerti.» «La mia riconoscenza verso di te è infinita», risposi. Kritajìna ci accompagnò alla porta e ci salutò con una benedizione che ricorderò per sempre, una preghiera della gratitudine: «Ringrazia la vita, perché ogni giorno è un miracolo. Ringrazia l’attimo, perché hai solo questo. Ringrazia ciò che arriva, perché è un dono. Ringrazia ciò che se ne va, perché ha svolto il suo compito. Ringrazia l’universo, perché sei parte di esso». Chiuse gli occhi e pronunciò un namasté. Ricambiammo il saluto. Appena usciti dall’abitazione, Shanti mi fermò. «Vedo con piacere che la giornata trascorsa con Kritajìna ti ha portato un grande cambiamento.» «Da cosa lo noti?» domandai.

«Il tuo viso ha un sorriso enorme. Sei luminoso. Si intuisce subito che sei stato bene con lei.» «È vero. Mi ha donato un grande insegnamento: la terza rivelazione.» Ci allontanammo dalla casa, in silenzio. Ora capisco l’importanza di aver conosciuto questa donna straordinaria, che riesce a donare ovunque benedizioni di gratitudine. Kritajìna è un’anima semplice ed elevata. Mentre passeggiavamo lungo la strada principale, Shanti interruppe il silenzio. «Un giorno Tatanji mi disse che la gratitudine è un invito a entrare in silenzio nell’anima di qualcuno e vederne i suoi doni, e quando si viene invitati bisogna essere riconoscenti.» I suoi occhi si illuminarono mentre continuava a spiegarmi quella che per lei era stata l’esperienza più forte. «Fu Kritajìna, tempo fa, a farmi capire l’importanza di essere grata di vivere in ashram, di questa immensa opportunità che mi è stata donata dall’universo. Da allora sono in debito con lei, immensamente.» «Abituarsi a essere riconoscenti ogni giorno: penso sia stata una bella sfida», commentai. «Di sfide ne troverai sempre. È importante capire che, cambiando il tuo modo di vedere, cambia la tua realtà. Cambia il modo in cui affronti ogni cosa. Questo è necessario per poterle superare e proseguire il tuo cammino. E questo vale anche per la gratitudine. Abituati a ringraziare come sei abituato a mangiare.» «E come posso cambiare il mio modo di vedere le sfide?» «Attraverso la gratitudine. Solo se riuscirai a trasformarle a tuo vantaggio, affronterai serenamente ogni cambiamento. Il tuo cuore sarà leggero e pieno d’amore. Dipende tutto da te: fa’ in modo che la gratitudine sia parte del tuo essere e del tuo vivere. E come dice Kritajìna: per ciò che arriva, ringrazia. Per ciò che se ne va, ringrazia. Se non hai compreso qualche concetto, Tatanji ti darà ulteriori risposte. Ogni cosa ha un suo tempo, come le stagioni hanno il loro. Quando sarai pronto, Tatanji ti spiegherà.» «Sì, certamente, lo capisco, non è mia intenzione essere troppo impaziente con lui. Penso che conosca i modi e i tempi per farmi comprendere i suoi insegnamenti. Non mi lamento, ringrazio già di quello che mi sta donando.»

«Da quando apri gli occhi al mattino a quando li chiudi la sera, hai l’opportunità di trasformare la tua vita. Agire è fondamentale per ottenere dei risultati. Possiamo lamentarci di ciò che è stato, oppure impegnarci per qualcosa di costruttivo. La scelta è nostra.» «Sono d’accordo.» «Agire! Siamo gli autori della nostra esistenza!» esclamai. «Le lamentele prosciugano le nostre energie, la gratitudine ci dona gioia.» Era lì, dinanzi a me, più bella che mai. Volevo manifestarle la mia gratitudine e non solo. Qualcosa di antico ci univa. Mi stavo innamorando, me ne accorgevo giorno dopo giorno. Mi portò verso il centro della città. «Sembra di percorrere un labirinto», osservai. «Varanasi è formata da una miriade di stradine strette; perdersi è normale, specialmente nella città interna.» Shanti mi raccontò poi di come i tè di Kritajìna fossero molto conosciuti. Le persone arrivavano a casa sua dalle zone limitrofe, spesso anche dai villaggi vicini, per assaggiarlo e portarne qualche bustina a casa. «Devo ammettere che mi sono accorto anch’io della sua ottima qualità e del suo aroma. Cos’ha di speciale questo tè?» «È preparato secondo un’antica tradizione ayurvedica millenaria. È una miscela di molte erbe officinali che la sua famiglia custodisce segretamente da diverse generazioni. Ti sarai accorto che, appena lo bevi, ti senti rinvigorito.» «Sì, è vero.» Ci addentrammo per le varie vie della città interna e continuammo a camminare in silenzio. Le strade erano affollate in ogni direzione. Nella città vecchia notai numerosi templi che si susseguivano, ma anche ristoranti, hotel, negozi d’arte e artigianato. Raggiungemmo alcuni ghat in prossimità del fiume. «Varanasi è contornata da un centinaio di ghat o, per meglio dire, Ganga Ghats, ossia scalinate di pietra che costeggiano il Gange e scendono fino a immergersi di qualche metro nel fiume», mi spiegò Shanti. «Il fiume è considerato luogo sacro sia per gli indù sia per altre religioni, tra cui giainisti e buddhisti.» Mi fece notare alcuni argini in prossimità del fiume.

«Chi ha vissuto in questa città e vi muore, ha la fortuna, secondo gli indù, di immergere le proprie ceneri in queste acque sante.» «Hanno un modo di vivere diverso da quello occidentale», commentai. Annuì. «Quello che ho appreso dalla cultura indiana, essendo nata qui. Posso riassumertelo in tre frasi: vivi il momento come una celebrazione; vivi l’istante come un dono; vivi ora e sii felice. Questo ho imparato. La gratitudine è nella loro cultura. Ogni azione è un ringraziamento a Dio.» Continuando a camminare, riconobbi pian piano alcune vie in prossimità dell’ashram. Shanti era sempre dolce e gentile con me. Il mio cuore voleva parlare con il suo, ma quel giorno non mi sentivo pronto. In fondo, i veri amori risiedono nel silenzio; mentre la bocca tace, le anime si parlano. Ero felice, lei era accanto a me e questo mi bastava. Arrivammo in ashram prima del solito. Shanti mi informò che sarebbe uscita a breve: doveva concludere diverse commissioni prima di potersi riposare. Io andai in camera a rinfrescarmi per le mie pratiche yoga serali. Dopo un’oretta scesi a cercare Tatanji. Lo trovai in sala di meditazione mentre, indaffarato, puliva le numerose ciotole dei gatti. Mi misi a sedere, in attesa che finisse, e coccolai un micio che passava di lì. Concluso il lavoro, Tatanji si accomodò accanto a me. Restammo in silenziosa presenza per alcuni momenti, poi mi chiese come avessi passato la giornata. «Direi che oggi, come ieri, è stata una bellissima esperienza di vita e di saggezza. Grazie, Tatanji, a te e tutti voi.» «Noi non siamo il centro dell’universo. Tutto ciò che abbiamo e che vediamo ci è stato donato in prestito, il tempo necessario per la nostra evoluzione e permanenza su questa terra. Dobbiamo ringraziare chi ha contribuito alla nostra crescita. Ogni persona presente nella nostra vita ha modellato, in parte, ciò che siamo ora. Persone che ci hanno amato, altre che ci hanno fatto soffrire. Alcune sono rimaste per molto tempo, altre per poco. Tutte hanno contribuito a loro modo a farci diventare quello che siamo ora. Viviamo in una società che stimola continuamente il nostro ego e i nostri desideri. Siamo spesso concentrati nel nostro piccolo io, vogliamo questo o quello. Riuscire a ringraziare, a provare gratitudine verso ciò che abbiamo e ciò che arriva: è questo che ci libera. È l’inizio della comprensione.»

«Hai parlato di ego. Come facciamo a contrastarlo? È un circolo vizioso, l’ego è sempre presente in noi.» «Sì, ovviamente, altrimenti non saremmo quello che siamo. Uno dei modi per diminuire l’ego è accrescere la gratitudine. Più offri gratitudine, più l’ego rimane nelle stanze inferiori; tuttavia, in ogni cosa che facciamo esso è presente.» «Allora come possiamo comportarci?» «Una delle più grandi consapevolezze della vita è riconoscere il bene e la prosperità. Solo allora la gratitudine germoglierà in noi e renderà ricchi i nostri cuori.» «Prima hai detto che viviamo nel continuo desiderare: cosa intendi?» «Il desiderio crea aspettativa e attaccamento. Ciò che desideri è ciò che ti lega. Più ti concentri nei desideri e più rimarrai insoddisfatto se non riuscirai a realizzarli. Il desiderio manca di presenza autentica. Chi non desidera nulla non si aggrappa a nulla. Non mancando nulla, l’universo gli appartiene. Allora la gratitudine fiorisce spontanea.» «Comprendo l’importanza del riconoscere l’influenza dei desideri. Ieri mi hai spiegato molto a riguardo e capisco che vi è tanto da apprendere. Ma, come mi piace dire, ci sto lavorando.» Ridemmo. «Accetta il tuo destino e benedici tutto ciò che ti arriva», riprese Tatanji. «Scava dentro di te e riconosci la gioia della gratitudine. Alimenta nel profondo questo sentimento ed esso si moltiplicherà ovunque.» «Non tutti sono coscienti di questo potere, di questo dono della gratitudine. Perché non viene vista come un aiuto alle nostre sofferenze?» Tatanji sorseggiò un po’ di tè e prese in braccio un gattino. «Vedi, Kripala, è il grado di coscienza dell’individuo che dobbiamo intravedere. Alla fine, ciò che ci accade sono esperienze. Giungono per noi, non contro di noi. Se comprendi questo, qualsiasi evento sarà di stimolo per la tua crescita. Se non lo comprendi, ogni esperienza si ripresenterà sotto un altro aspetto finché non verrà accolta. Sono le reazioni alla vita, il modo di pensare, che creano il nostro paradiso o inferno nella realtà che viviamo. Quando vieni trattato in un certo modo, positivo o negativo che sia, accetta ciò che gli altri dicono di te. È un loro giudizio, solo una reazione del loro essere. Il modo in cui reagisci alle critiche rivela la tua natura, il tuo stato di

coscienza. Questo è importante: le tue reazioni alle azioni. Sii grato sempre. Tutto arriva per la tua evoluzione.» «Possiamo dire che, per chi la riconosce, la gratitudine è una grande benedizione», conclusi. «Essere grati è una grande benedizione», confermò. «Riconosce la preziosità della vita. Più sarai grato all’universo, più ti inonderà di abbondanza. Se vuoi essere felice, dona benedizioni.» «In che senso?» «Dona la tua incondizionata benedizione a qualsiasi persona incontri nella vita. Onorala e augurale tutta la felicità possibile.» «Non è sempre facile considerare tutti amici e vedere solo l’aspetto migliore, però», dissi dubbioso. «Invece è proprio questo che dovresti fare, vedere sempre il lato positivo in ogni cosa. Sforzarti di trovarlo ovunque, sia nelle persone sia negli avvenimenti. Offri a chiunque tutta la felicità di questo universo. Che sia un amico o meno. Fa’ che possa sentire tutta la sincerità del tuo cuore per il suo benessere. Questo cambierà ogni cosa, ogni forma di negatività con chiunque. Attraverso benedizioni incondizionate, riuscirai a eliminare tutte le nubi dei pensieri negativi. Quello di cui abbiamo veramente bisogno è la pace con noi stessi, ed è anche grazie alla riconoscenza che si manifesta. Pratica attimi di gratitudine, abbracciala e donala ovunque. Ciò che importa nella vita, non è tanto quello che sappiamo ricevere o donare, ma ciò che possiamo essere.» Tatanji si alzò, e compresi che per quel giorno era ora di lasciarci. «Come potrò capire la mia comprensione o i miei progressi nella consapevolezza della gratitudine?» domandai prima che si allontanasse. «Se riuscirai a dire grazie prima che qualsiasi esperienza giunga a te, allora sarai pronto. Vivi l’attimo. Vivilo, non tornerà mai più. Gioisci di ogni istante. Benedici ciò che arriva e ringrazia per ciò che se ne va. Sii felice.» Ci salutammo. Tatanji se ne andò nella sua stanza mentre io mi misi a pulire intorno ai cuscini dove i gatti stavano dormendo.

4

Rinasci dalle tue ferite

GUARDAI l’orologio. Ero in ritardo, forse a causa della stanchezza delle giornate precedenti. Tuttavia, ero fiero di essere stato benedetto dalla saggezza ricevuta in quei giorni. Il potere della gratitudine era stato per me una vera e propria rivelazione. Mi venne istintivo metterlo in pratica subito, ringraziando l’universo per la mia salute e per ciò che mi stava donando. Mi alzai velocemente; non presentandomi in tempo, avrei perso la colazione. Mi preparai e decisi di saltare le mie pratiche per diminuire il ritardo, le avrei fatte più tardi. Scesi velocemente le scale. Un gattino riposava in mezzo al corridoio; lo accarezzai e lo presi in braccio. Entrai in sala sotto gli occhi di Tatanji e Shanti, e adagiai il felino nella sua cuccetta. Shanti sorrideva, mentre lo sguardo di Tatanji era serio. «Buongiorno a tutti.» Mi sedetti accanto a loro. «Namasté», mi salutò Shanti. «Prima di mangiare, Kripala, ho una domanda per te», disse Tatanji. «Questa mattina hai svolto le tue solite pratiche?» «No, oggi sono leggermente in ritardo, come hai visto. Ho preferito saltarle, altrimenti non sarei potuto essere qui con voi per colazione. Le farò più tardi.» Tatanji mi osservò dritto negli occhi. «Più tardi? E quando?» Ci pensai un attimo. «Mmm… Non saprei», risposi. «Mi prenderò un momento per me quando ne avrò la possibilità. Oppure, probabilmente in tarda mattinata, ovunque mi trovi mi metterò in disparte il tempo necessario.» Tatanji attese qualche istante. Poi rispose, sempre più serio: «Le pratiche vanno rispettate, dovresti saperlo. Si chiamano pratiche quotidiane per un motivo valido: vengono eseguite ogni giorno, allo stesso orario. Devi aver rispetto del tuo tempo e delle persone. Se non ti sei alzato prima e non hai

organizzato bene il tuo programma giornaliero, trova una soluzione, ma va risolta adesso. Questo vale oggi e in futuro, altrimenti potrebbe ripetersi», affermò con enfasi. «La disciplina si conquista con l’abitudine e con una mente ferrea. La vita è una lotta tra la nostra parte istintiva e quella più sottile. A te la scelta di quale vuoi far prevalere», aggiunse. «Ora sali in camera, fai le tue pratiche con calma e sincerità, poi torna qui.» «Tatanji, ti chiedo scusa. Ho capito.» A disagio, li salutai e tornai in camera. Dopo un’oretta scesi nuovamente in sala. Shanti e Tatanji avevano già terminato la colazione. Ero deluso per non aver passato del tempo con loro, ma avrei ricordato la lezione per le volte successive, stando attento che non accadesse nuovamente. L’insegnamento di quella mattina era stato cristallino: la disciplina è fondamentale. Mi misi a sedere in sala di meditazione. Tatanji arrivò dopo alcuni minuti e per un po’ osservò ridacchiando dalla finestra un gatto in giardino che cercava di catturare un topo. Mi alzai e mi misi accanto a lui. I due animali erano impegnati in una lotta serratissima. Il topo era di dimensioni maggiori rispetto alla media, eppure il gatto non sembrava avere nessun timore; anzi, continuava a volerlo catturare in modo metodico e deciso. «Vedi? È nella natura del gatto cacciare una preda», disse Tatanji. «La vita è una lotta continua per la sopravvivenza, e questo vale anche per gli esseri umani. Se vuoi scoprire com’è la natura di un uomo, osservalo mentre combatte.» «Di cosa parli? Di una competizione?» domandai. «Sì, anche, ma capisci molto di lui da come affronta le sfide personali. Senza competizione non c’è crescita. Il nostro vero Io si rivela quando lottiamo nelle battaglie della vita.» «Quando dici ‘il vero io’ intendi la nostra personalità?» «Sì, esatto.» «Ma non vi è altro modo di vederla?» «Certo, ve ne sono diversi. Un altro è quando ti sono concessi molto potere e influenza su altre persone: il modo in cui interagisci rivela la tua natura.» Non avevo capito cosa intendesse, e rimasi un po’ a riflettere, osservando di nuovo il giardino. I due animali continuavano ad azzuffarsi, sembrava giocassero e, forse, un po’ era così.

«Mi spieghi meglio cosa intendi con ‘la natura dell’uomo si rivela quando lottiamo’?» chiesi. «La nostra personalità emerge durante le avversità che la vita ci pone di fronte. Quando un guscio si rompe, sai cosa c’è al suo interno. Similmente, è solo ‘rompendoci’ che sappiamo di che sostanza siamo fatti», replicò. «Attraverso le avversità, impari a scoprire e conoscere la tua vera essenza.» «Sì, comprendo, ma le avversità avranno una fine?» «Le difficoltà termineranno quando saremo consapevoli di poterle affrontare. Sono lo specchio di noi stessi e ci insegnano a migliorarci. Spronano le nostre potenzialità nascoste.» Tatanji continuava a osservare la competizione tra gatto e topo. «La nostra natura è simile a un seme nascosto nel terreno che, aprendosi, sale in superficie. Solo allora ne riconosciamo la pianta. Così sono gli esseri umani: attraverso le battaglie della vita scopriamo la loro forza, la loro tenacia, la loro determinazione, oppure le loro fragilità e le loro debolezze.» «Sinceramente, non penso di essere un grande lottatore.» «Non dubitare, Kripala, in te c’è l’anima di un guerriero.» «Tu dici?» Tatanji annuì. «Ogni essere vivente ha la sua importanza, dalla più grande megattera che solca gli oceani al più piccolo essere unicellulare. Tutti hanno un compito: seguire la loro natura. Trova il tuo dharma, Kripala. Combatti per i tuoi sogni e sii vittorioso.» Non vi erano parole più entusiasmanti che potessi sentirmi dire quel giorno. Il mio animo era in fibrillazione. «Qual è quella forza che ci fa vincere tutte le battaglie, che ci fa oltrepassare tutti gli ostacoli e che apre tutte le porte?» volli sapere. «L’amore è la chiave. Non dobbiamo far nulla per trovarlo, solo eliminare le paure che lo imprigionano. Meno ostacoli ci sono tra cuore e mente, più profondo sarà l’amore.» Riflettei nuovamente sulle sue parole, mentre continuavo a osservare la lotta serrata tra i due animali, giunta ormai alla conclusione. Il gatto aveva bloccato il topo sotto la zampa, tenendolo saldo. Il topo era immobile. «Kripala, osserva bene la scena.» Tatanji mi indicò i duellanti. «Il gatto ha vinto la battaglia, ma non mangerà il topo esausto e ferito; lo tratterrà sotto di sé, arginandolo nell’angolo, e non lo lascerà finché non sarà stanco del gioco. Il topo sa che è meglio fingersi morto: se tenta la fuga rischia di

essere mangiato. È uno stallo momentaneo. Se il gatto alzerà la zampa, il topo rimarrà immobile. Quando il gatto si sarà stancato o distratto, il topo scapperà.» Scrutai con attenzione la scena. Poco dopo avvenne quanto aveva predetto Tatanji: il gatto si stancò e, sentendo dei suoni dietro lui, si girò; il topo ne approfittò per allontanarsi. Nel frattempo, Shanti, attenta ai nostri discorsi, ci interruppe: «Scusami, Tatanji», disse. «Come dobbiamo considerare le nostre ferite?» «È grazie a un piccolo corpo estraneo che l’ostrica trasforma in perla l’impurità che l’ha ferita. Strato dopo strato, la ferita si trasforma, viene arricchita tramutandosi in bellezza», rispose lui. «Le ferite che subiamo nelle battaglie della vita non sono altro che strati di bellezza della nostra anima.» «Grazie, Tatanji.» «L’importante è combattere», aggiunsi. Tatanji sorrise. «Accetta gli ostacoli che la vita pone sul tuo percorso: ti indicheranno il giusto sentiero per trasformarti in un uomo.» Seguii Shanti verso l’uscita. «Ora andate», ci spronò Tatanji. «Altrimenti farete tardi. Ci vediamo questa sera.» Salutammo Tatanji, poi raccolsi lo zainetto. Uscimmo dall’ashram e prendemmo una strada diversa dal solito. Shanti mi disse che quel giorno ci saremmo spostati in un’altra zona della città. Non passarono che pochi minuti, poi rovistò nel suo zainetto e prese un sacchetto voluminoso. Me lo porse. «Cos’è?» chiesi. «Una parte della colazione di oggi. Non penserai che ti avrei lasciato a digiuno, conoscendo la tua fame senza fine.» Ridemmo. «Ovviamente con il benestare di Tatanji.» «Grazie, davvero.» Sospirai. «In effetti non sarei riuscito ad aspettare fino a sera. Avrei tirato fuori qualche scusa per dirigermi in un chiosco.» Ridemmo nuovamente. Da alcuni minuti stavamo percorrendo le strette e affollate vie di Varanasi. A un tratto, Shanti si fermò e si girò verso di me. «Devo essere sincera. Da quando ti ho visto la prima volta, una parte di me si è connessa alla tua.

È qualcosa che non so spiegarmi. Non ho fatto nulla, è stato inaspettato, spontaneo. Da quando ti ho visto, mi sono sentita a casa.» Mi osservò dritto negli occhi, quasi volesse scrutare la mia anima. «Non sono in grado di tacere ciò che provo. Potrei oppormi, ma ne uscirei sconfitta. Sento in me una piccola fiamma, ma è da essa che nascono gli incendi», sussurrò. «Vorrei capire meglio cos’è.» Non vi erano parole più belle che potessi sentire. Non vi era altro che avrei desiderato ascoltare. «Non dire nulla», risposi emozionato. Continuammo a camminare in silenzio. Ero assorbito in qualcosa di nuovo, sconosciuto. Era un’attrazione karmica, se si poteva descrivere così. Oppure una ‘attrazione tra anime gemelle’, come mi disse un’amica tempo fa. Entrando nel mio cuore, con tenerezza, Shanti si era fatta coraggio nel dire ciò che sentiva, in modo del tutto spontaneo. Non vi era nulla di più bello. Si era aperta a me, mostrando la luce del suo essere. Attraversammo una via adiacente a un tempio, per poi scendere verso il Gange e arrivare presso un ghat affollato. Ci sedemmo sugli scalini e osservammo il fiume. «Questa è una zona molto famosa della città. Varanasi è una città sacra e il suo fiume ne è il fulcro. Il Gange ha origine al nord, alle pendici dei monti himalayani, poi serpeggia attraversando la parte nord-orientale dell’India fino a riversarsi nel Golfo del Bengala. Per la spiritualità indiana, per tutti gli indù, questo è il fiume più importante e il più sacro, poiché di origine divina. Spesso, chi vive nelle sue prossimità prende un po’ d’acqua per tenerla in casa. Ciò è considerato propizio e di buon auspicio per tutta la famiglia. Il fiume è parte della storia dell’India, in antichità è stato proprio sulle sue sponde che si sono combattute le più grandi battaglie. Vi sono molte leggende e racconti sulla nascita di questo fiume. In una si narra che il Gange sia sempre stato collegato spiritualmente alla dea Ganga.» «Ecco perché è chiamato spesso madre Ganga o Gangaji», commentai. «Esatto, ma ora dobbiamo andare. Questa sera, dopo l’incontro, torneremo per vedere una delle più belle celebrazioni che si tengono in prossimità del fiume.» «Non vedo l’ora.» Ci dirigemmo in una zona meno affollata, e dopo poco Shanti si fermò. Davanti a me vi era un ampio recinto e, all’interno, una grande casa con l’insegna di una palestra di arti marziali.

«Oggi starai qui.» Shanti mi fece un namasté, ma questa volta presi coraggio e l’abbracciai. Non si aspettava tale reazione e sulle prime rimase sorpresa. Poi ricambiò l’abbraccio. La ringraziai nuovamente per la colazione, lei contraccambiò stringendomi ancora di più, poi ci salutammo. Entrai nella proprietà attraversando un grande cancello e un ampio cortile, guardandomi intorno. Un ragazzo si avvicinò e mi fece cenno di seguirlo. Nel cortile, sparsi un po’ ovunque, almeno una trentina di uomini e donne praticavano un’arte marziale che non conoscevo o, per meglio dire, che non riconoscevo. Pensai subito ai classici film cinesi, con urla e lotte corpo a corpo, ma quello che avevo davanti prevedeva pure salti incredibili. Qualcosa di diverso mi attendeva. Dopo aver attraversato qualche corridoio, il ragazzo mi indicò una vecchia sedia di legno davanti all’entrata di quella che consideravo la palestra, facendomi cenno di sedere. Mentre aspettavo, continuai a fissare le incredibili mosse di quei giovani guerrieri. Dopo qualche minuto, giunse un uomo di mezza età. Corporatura esile e lunghi capelli sciolti. Con il sorriso sulle labbra, fece un lieve inchino. «Benvenuto, Kripala. Sono il maestro Arjuna. Spero di non averti fatto attendere troppo. Desideri qualcosa da bere? Acqua? Del tè, oppure del latte di cocco?» Mi alzai dalla sedia e contraccambiai l’inchino. «Sono appena arrivato e ho mangiato da poco. Grazie ugualmente.» Si girò e parlò in bengali a un allievo, che si dileguò. Poi si voltò di nuovo verso me e mi fece cenno di seguirlo. «Questa che vedi è un’antica arte marziale indiana. Alcuni raccontano sia nata molti millenni fa nell’India meridionale, forse nello stato del Kerala. Viene riconosciuta come la madre di tutte le arti marziali, e ciò grazie ad alcuni uomini valorosi che l’hanno portata in tutto l’Oriente. Da lì sono nate, nel tempo, le altre arti marziali che conosciamo tutt’oggi.» Ci sedemmo sopra una panchina in prossimità del campo. Tutti gli allievi erano impegnati in combattimenti corpo a corpo. «Nei tempi antichi, prima di combattere, il guerriero si ritirava a meditare, praticando diversi rituali di purificazione. Tutto questo avveniva per preparare il suo corpo e la sua anima allo scontro imminente», disse Arjuna.

«Penso sia una bellissima forma di consapevolezza: il guerriero che accetta il proprio destino e si prepara interiormente», riflettei. «Sì, è così. Un tempo venivano chiamati Ksatriya e facevano parte dei quattro pilastri o caste esistenti in India. Di natura nobile, erano i difensori della società. Avevano coraggio, forza, generosità e determinazione. Tutte doti che sarebbero risaltate nella battaglia.» Il maestro si alzò. «Vieni, facciamo una piccola passeggiata in silenzio.» Compiendo il giro dell’isolato, mi mostrò alcune zone del centro. Rimasi in silenzio rispettando il suo volere, anche se nella mia mente le domande sgorgavano come zampilli. Imboccammo un vialetto che conduceva a un giardino curato. Dopo alcuni metri, dinanzi a noi si presentò un ammasso disordinato di mattoni. Accanto, un laghetto d’acqua, forse uno stagno, con alcuni pesci. Non lontano da me udii delle voci: erano alcuni allievi che, attraversando il giardinetto, proseguivano verso la palestra. Mi stavano osservando e, mi sembrò, stavano anche ridacchiando. Non capivo cosa ci fosse da sorridere. Con sguardo serio e deciso, il maestro mi fece un cenno. «Prendi questi mattoni e disponili in modo ordinato e preciso, l’uno sopra l’altro, accanto al laghetto. Solo su questo lato.» Mi indicò il punto. «Parleremo più tardi. Avrai diverse domande da farmi, ma ora ho un impegno e a breve inizierò una lezione con i miei allievi. Ci vediamo dopo.» Lo salutai. Voleva che eseguissi il lavoro con la massima cura, disponendo ordinatamente i mattoni, però non mi era chiaro il motivo. Perché proprio io e perché in quel momento? Mentre riflettevo in cerca di risposte, notai a poca distanza da me alcuni allievi rilassati che chiacchieravano. Perché non dava da sistemare il laghetto a loro o ad altri che vivevano lì da tempo? Ciò mi infastidì e pensai addirittura di andarmene. Tuttavia, trattenni le emozioni in modo che nulla trapelasse. Avrei creato dispiacere sia a Tatanji sia a Shanti, che si erano presi cura di me e avevano organizzato l’incontro con il maestro. Prendendo coraggio, afferrai il primo mattone e lo disposi a pochi metri dinanzi a me. Perfettamente in linea con il contorno del laghetto. Continuai con il secondo, il terzo, il quarto e così via. Il tempo passava e io proseguivo lentamente la mia costruzione, cercando di disporre ogni mattone simmetrico al successivo. Conclusa una linea, proseguivo con la

fila successiva. Volevo dimostrare che avrei portato a termine l’impegno preso. Alla fine, si trattava solo di innalzare un muretto. Passarono poco più di due ore. Le mani mi dolevano e la pelle dei polpastrelli si stava screpolando; non ero abituato a maneggiare mattoni. Collocai l’ultimo in cima, ben allineato agli altri, e guardai fiero la piccola opera. Perfettamente simmetrica e disposta in modo ordinato. Stavo ancora gongolando quando il maestro arrivò con sguardo severo e imperturbabile. «Vedo con piacere che sei riuscito nell’impresa», disse. «Sì. Pensavo fosse più difficile, ma credo di aver fatto un buon lavoro.» «Tu credi di aver fatto un bel lavoro? Bene, mi fa piacere.» Si avvicinò al muretto e lo guardò minuziosamente. Dalle sue labbra uscirono alcuni versi, più che altro «achha!» un’espressione tipicamente indiana. Mentre la pronunciano, muovono leggermente il capo, ma non si capisce se sia un gesto affermativo o negativo. Qualche attimo dopo, il maestro Arjuna distolse lo sguardo dalla costruzione e mi fissò, indicando una zona del muretto. «Vedi questo piccolo spazio nella penultima fila in basso? E quell’altro nella fila sopra?» Mi chinai e guardai nella direzione indicata. Vi era uno spazio più ampio rispetto a quelli vicini in tutti e due i punti che mi aveva segnalato. Lo sguardo del maestro divenne ancora più serio. «Rifai tutto nuovamente! Con più attenzione, questa volta, grazie.» Rimasi sbalordito. «Ma come?» esclamai. «Rifare tutto per quel pezzetto di spazio tra i due mattoni? È assurdo, ci ho messo due ore e mezza.» «Bene», rispose il maestro. «Vedi di metterci meno e fallo con più cura.» Se ne andò. L’irritazione mi salì alla testa, il sangue ribolliva. Avrei voluto lasciare tutto com’era e andarmene. Ancora incredulo, deposi in malo modo i mattoni a terra. I miei pensieri erano frenetici, la mia anima ferita. Come mai il maestro non comprendeva la mia fatica, non dimostrava nessun tipo di empatia nei miei confronti? Perché dovevo nuovamente ricostruire il muretto? Chi me lo faceva fare? E per cosa? Che motivo c’era di ricomporlo per una piccola imperfezione? Ero sommerso dai dubbi, il morale sotto terra. Due brevi frasi erano riuscite ad abbattermi. Ero convinto di aver fatto un buon lavoro e ne andavo fiero, ma avrei dovuto ricominciare da capo.

Nel frattempo, alcuni allievi che avevano assistito alla scena da lontano mi fissavano e sorridevano. Decisi che non me ne importava nulla di quello che pensavano, volevo solo finire al più presto e al meglio. Iniziai nuovamente la costruzione. Il maestro passò in vari momenti, offrendomi del tè che bevvi con piacere. Impiegai due ore, a scapito delle mie mani, ormai doloranti, ma fui fiero del risultato. Era un muretto migliore di quello precedente. Mi sedetti e attesi che il maestro Arjuna arrivasse. Trascorsero alcuni minuti, poi mezz’ora. Cercavo di stare tranquillo, ma ero impaziente. Alla fine, il maestro arrivò. Si mise davanti al muretto e lo esaminò. Chinandosi, fissò un mattone. «Vedi questo pezzo? È rovinato.» Osservò più attentamente. «Anche questo, e più sotto la stessa cosa.» Mi indicò la cima angolare dei due mattoni: erano scheggiati. «Rifai tutto, e stai attento a usare solo mattoni integri, grazie.» Accennò un leggero sorriso. Incredulo, avrei voluto ribattere, ma lasciai perdere, prendendo dei lunghi respiri per calmarmi. Mentre si stava allontanando, lo richiamai. «Ho la pelle delle mani rovinata e mi fanno male i muscoli delle spalle. Sono stanco, come posso ricostruirlo nuovamente? Se almeno si potessero utilizzare un paio di guanti…» Arjuna tornò da me con un tenero sorriso. «Certamente.» Mi indicò dov’erano posti. «Mi domandavo infatti come mai non me li avessi chiesti fin dall’inizio.» Si allontanò. Trasalii. Ero davvero pronto ad andarmene. In quell’istante passò davanti a me un allievo che si accorse della mia evidente collera e del mio sconforto. «Io l’ho rifatto sei volte, poi ho capito», mi disse prima di proseguire il cammino. Calmai i turbinii mentali, inspirai più volte e cercai di concentrarmi. Che cosa avrà voluto dire con ‘Poi ho capito?’, mi domandai. Che c’era da capire nell’atto di innalzare un semplice muretto? Continuai a lavorare, raccogliendo nuovamente i mattoni sparsi qua e là a terra. Tuttavia, la frase del ragazzo continuava a risuonarmi nella mente. All’improvviso, ebbi un’illuminazione. Ma sì, certo! Era una prova! Il mio ego si era attaccato alla ‘vanità’, voleva dimostrare che avrei costruito un bel muretto; inoltre, provavo il desiderio assiduo di voler parlare col maestro, invece di starmene lì. Era l’ego. L’unico ostacolo ero io, non il muretto.

In realtà la prova era con me stesso. Mi fermai, presi fiato e consapevolezza di dov’ero e come stavo. Ringraziai di poter apprendere da quell’esperienza, ringraziai dell’esercizio fisico che mi stava mantenendo in forma. Ringraziai il dolore che mi ricordava la mia fragilità. Ringraziai mentalmente Kritajìna che, attraverso i suoi insegnamenti, stava rincuorando il mio animo. Ora ero felice di aver conosciuto il maestro, perché avevo compreso. Ero felice di essere lì, in quel momento e senza aspettative. Ringraziai mentalmente anche Sanjay. Essere e non lamentarsi. Accogliere tutto. Un sentimento di serenità prese il sopravvento. Bastò mettere in pratica gli insegnamenti ricevuti in quei giorni e la prospettiva cambiò in meglio. Gioia e sofferenza erano originati dal mio modo di pensare. In quell’attimo arrivò il maestro Arjuna. Mi osservò, capì che avevo compreso, sorrise e fece un namasté. Ricambiai ringraziandolo. Mi indicò una panchina poco distante. «Vieni, ora sediamoci lì.» Mi diede una borraccia contenente acqua fresca, che bevvi con piacere. Ci sedemmo. Eravamo poco più in là del laghetto, lontano dai rumori degli allievi. «Sono felice della tua presenza qui», disse fissandomi negli occhi. «Ora hai capito, ho notato il tuo cambiamento. Sei pronto per ascoltare ciò che volevo dirti. Cos’è successo al tuo Io dopo che ti ho detto di ricostruire la prima e la seconda volta?» «Ero arrabbiato con te e anche con me. Non avrei voluto rifare il muretto. Non mi piaceva starmene lì da solo. Non mi piaceva nulla, in realtà.» «Sì, posso capirti.» «Non desideravo rifare il muretto una seconda, terza volta. Ero in conflitto.» «Non desiderare e sarai libero di essere.» «Cosa intendi?» «Il piace e il non piace, bello e non bello, volere e non volere: sono scelte. Il tuo rifiuto di non voler fare il muretto è stato una scelta. Le nostre resistenze non sono altro che limiti. Nella misura in cui permettiamo di accogliere ciò che arriva, le resistenze scompaiono.» «La soluzione stava nell’accettazione», osservai.

«Se all’inizio avessi accolto fiducioso il luogo, l’esperienza, la situazione, la tua mente sarebbe stata più serena e pronta a ricostruire senza opporre resistenza. Quando accogli tutto, vi è la serenità. La non accettazione crea sofferenza.» «Mi sono ‘aggrappato’ a voler dimostrare che ero bravo, che avrei soddisfatto le tue aspettative, in più, non nutrivo alcun interesse nel costruire un muretto.» «Se non ti aggrappi a nulla, non hai nulla da perdere. Se non hai nulla da perdere, hai il tutto a disposizione. Se hai il tutto a disposizione, sei libero di essere. Nello yoga esiste la pratica del karma yoga: ti insegna il non attaccamento, il concetto di non pensare al risultato come obiettivo. Il segreto di questo antico modo di vivere è che non sei colui che agisce. Non agendo, non hai nessun tipo di aspettativa. Offri il risultato delle tue azioni all’universo, alla Coscienza Suprema. Agisci, ma non agisci.» «Come avrei potuto cambiare lo stato mentale che provavo?» domandai. «Come ami ciò che ti piace, impara ad amare anche ciò che non ti piace. È una lotta con una parte del nostro ego, anche se in realtà è una scelta. Hai deciso di non farti piacere questo lavoro perché avresti preferito parlare con me. Tale desiderio ha portato il conflitto e dunque la sofferenza mentale.» «Sì, esatto. Poi è avvenuto il cambiamento. Grazie a un piccolo aiuto ho compreso che era necessario cambiare la mia prospettiva, il mio modo di pensare a quello che stava accadendo in me. Ho deciso di vedere tutto come una sfida divertente, quasi un gioco. La mia percezione negativa è scomparsa all’istante.» «Siamo noi gli artefici del nostro mondo. Tutto è nella nostra mente.» «Sì, sono pienamente d’accordo. A mano a mano che passano i giorni, comincio a capire questa frase. Vorrei, però, che mi spiegassi meglio ciò che hai detto prima. Amare ciò che non mi piace è difficile da realizzare, almeno per me.» «È un percorso, un cambiamento del modo di essere. È il primo gradino di un tragitto che ti porterà a comprendere chi sei. È con la perfezione continua, provando e riprovando, che si ottiene il massimo delle abilità. Se vuoi imparare qualsiasi cosa e ottenerne la padronanza, abbi cura di immergerti in essa. Non avere altro pensiero. Tralascia qualsiasi altra distrazione. Questa è la strada per il successo in qualsiasi campo.» «Ho provato dolore fisico», protestai.

«Chi non lo prova? Siamo forse senza dolore? E come lo usi? Per crescere oppure per lamentarti? Quando il tuo essere viene purificato dal dolore, sei sul giusto cammino, poiché non vi è altra guarigione dal dolore che il dolore stesso. Potranno esserci momenti difficili, ma passeranno. Nulla dura per sempre. Ricordalo. Il dolore ha origine dal corpo, la sofferenza è mentale. I guerrieri sono addestrati nel dolore. Ne vengono forgiati e trasformati.» «È vero. Spesso fuggiamo dalla sofferenza, desideriamo situazioni diverse da cosa o da dove siamo. Ci creano disagio, perché non le capiamo», dissi. «Sappi distinguere sempre ciò che è immutabile da ciò che è effimero. I desideri sono spesso motivo di sofferenza perché carichi di aspettative non soddisfatte. La felicità si trova nel presente e in una mente semplice e serena. Il dolore, invece, ti fortifica, ti fa arrivare al tuo limite. Oltre c’è un nuovo io», concluse. «Come posso superare i miei limiti?» «Quando arrivi al limite massimo, che sia fisico o mentale, comprenderai la sua lezione. Quando la sofferenza ti tocca in profondità, l’unica cosa importante è accoglierla, accettarla per quello che è. Allora non sarà più un ostacolo, ma verrà trasformata in forza per continuare a lottare. Spesso non vediamo la soluzione ma è lì, disponibile a mostrarsi appena saremo pronti a riconoscerla. Nelle fiamme puoi trovare calore o bruciarti; l’equilibrio crea la differenza. Nell’equilibrio vi è la soluzione. Nell’equilibrio l’ostacolo viene superato. Il guerriero sa che ogni esperienza avviene per lui, non contro di lui. Egli considera ogni ostacolo come una sfida e ogni sfida come una benedizione, un dono per la propria anima. Accetta ogni prova come un maestro, riconosci i suoi insegnamenti. Sta a te, trarre ispirazione e beneficio. Gli unici limiti sono creati dalla mente. Abbatti i muri che ti impediscono di trasformarti in ciò che sei. Trova il guerriero in te. Fai qualcosa che non ti piace. Mettiti alla prova. Se hai fede in te stesso, hai tutto ciò che ti serve per superare qualsiasi ostacolo. Nella fede troverai l’energia e la forza per proseguire il cammino. E ricorda che il cuore di un guerriero è gentile e compassionevole.» «Come possiamo essere gentili e compassionevoli e nello stesso tempo dei guerrieri?»

«Se le azioni saranno gentili, aprirai i cuori; se le parole saranno gentili, donerai fiducia; se i pensieri saranno gentili, sarai saggio. Impara a sviluppare la tua sensibilità e contemporaneamente accresci la tua forza interiore.» «In che modo?» «Attraverso le sfide della vita, ossia gli sforzi che plasmano il tuo carattere e ti formano interiormente.» Rimanemmo alcuni minuti in silenzio. Ciò avveniva a ogni incontro e cominciavo ad apprezzarlo. Attimi di completo abbandono, di interiorità. «Ci sono altri metodi per diventare un guerriero?» domandai dopo una decina di minuti. «Sviluppa costantemente le tre P attraverso la pratica continua.» «Cosa sono?» «La pazienza di un monaco, la perseveranza di una goccia d’acqua e la purezza di un fanciullo», spiegò Arjuna. «La pazienza ti servirà per essere umile e semplice in ciò che fai. La perseveranza ti servirà a fortificarti nella determinazione. La purezza ti servirà a rimanere autentico.» «Per cui dipende da me diventare un buon guerriero?» «Il vaso è solo un contenitore, è ciò che inseriamo in esso a dargli valore. Risplendi della tua luce interiore, Kripala!» «Ma allora chi è il vero guerriero?» domandai. «Troverai tante risposte quanti sono i maestri che ne incarnano gli ideali. Un guerriero è colui che lotta ogni giorno per dare un senso alla sua esistenza. Sono guerrieri tutti coloro che hanno mille motivi per lasciarsi andare, ma scelgono di combattere. Sono guerrieri quelli che trasformano la loro forza in gentilezza. Sono guerrieri quelli che lottano per il bene della società. Sono guerrieri quelli che elevano il loro spirito. Sono guerrieri quelli che non smettono mai di credere in qualcosa di meglio, che trovano la forza per lottare in ogni istante. Sono guerrieri quelli che portano su di sé la responsabilità di una famiglia, dei figli, del lavoro. Ogni persona che incontri può esserlo.» Mi guardò fissò negli occhi e sussurrò: «Trova il tuo potenziale, trova il tuo dono, dai un significato alla tua vita». «Concordo con ciò che dici, ma è difficile riuscire a lottare», commentai. Rimasi in silenzio per qualche istante. «Cosa ci fa rialzare dopo una caduta? Quali forze ci sostengono quando il mondo attorno a noi vuole schiacciarci?»

Il maestro mostrò un dolce sorriso. «Trova la forza nella volontà e nella fede. Fede nel riuscire vittorioso e volontà nel rialzarti sempre. Ricorda da dove vieni: sei figlio dell’universo. Nulla ti può sconfiggere.» «Maestro Arjuna, penso di dover correggere il mio modo di pensare. Non dico che sia sbagliato, ma, da quanto ho capito da te e da Tatanji, devo migliorare alcuni pensieri per essere ciò che voglio.» «Esatto. Come uno specchio riflette l’immagine davanti a sé, così la mente riflette i tuoi pensieri. Il mondo esteriore non è altro che lo specchio del nostro mondo interiore, del nostro modo di pensare e di essere. Quando cambierai i tuoi pensieri, anche la realtà attorno a te cambierà. Gli unici ostacoli sono nella nostra mente, come le soluzioni. Ricorda quante battaglie hai affrontato e superato finora e da cui sei uscito vittorioso.» «Spesso ho avuto paura. Sono stato sconfitto», confidai. «Le sconfitte ci ricordano di rimanere umili e ci spingono a trovare nuove soluzioni. Esse producono bellezza, ci danno nuove idee per crescere. La paura non è altro che un’illusione creata dalla mente.» «Come si può vincerla?» «Guardala in faccia, sfidala. È solo energia negativa che hai alimentato. Cambia il tuo modo di pensare e darai una direzione diversa a quell’energia.» «Devo esserne più consapevole?» «Quando sei consapevole della tua paura, le togli il potere che ha su di te. Puoi prendere la sua forza e usarla per uno scopo più elevato.» Arjuna si guardò attorno, poi, osservando il terreno sotto di sé, cercò tra i cespugli. Prese qualcosa vicino ai suoi piedi che non riuscivo a intravedere. «Chiudi gli occhi e apri le mani.» Mi prese le braccia e le alzò all’altezza del mio petto. Mi mise qualcosa prima in una mano, poi nell’altra. «Chiudile delicatamente.» Qualcosa di vivo si muoveva in entrambe. «Ora apri gli occhi e le mani dolcemente.» Obbedii. In una mano vidi una farfalla, nell’altra un ragnetto peloso. Sorpreso dal ragno, istintivamente lo misi a terra. «Perché hai lasciato andare il ragno?» mi chiese Arjuna. «Perché temevo mi potesse pungere.» «Come fai a sapere che questo ragno punge?»

«Non lo so, ho immaginato che fosse così. Da quello che ricordo, la maggior parte dei ragni potrebbe pungere, o essere velenosa, credo.» «Il tuo sapere ti ha detto di lasciar andare il ragno per difenderti. Pur non conoscendone la specie, hai preferito così.» «Sì, esattamente.» Il maestro mi indicò l’altra mano e la farfalla. «Invece lei la tieni ancora, come mai?» «Perché non penso mi faccia del male. Le conosco, le farfalle sono…» Mi interruppe: «Ti sbagli. Questa è una specie differente e bellissima, ma rilascia sotto di sé un polline urticante per l’uomo che proviene dalle ali. È un particolare meccanismo di difesa». Automaticamente, posai su un fiore anche la farfalla, che pochi istanti dopo volò via. Il maestro si mise a ridere. «Perché l’hai lasciata andare?» «Pensavo potesse farmi del male dopo quello che mi hai detto.» «La paura è arrivata dopo che ti ho spiegato di che tipo di farfalla si tratta», constatò. «Sì, esatto.» «Il suo polline urticante non è attivo in questo periodo. In ogni caso, hai avuto risposta alla tua domanda iniziale: la paura si vince anche con la conoscenza e con il coraggio. Chi conosce non ha paura. Il ragno era innocuo, ma per il tuo sapere era pericoloso, mentre la farfalla era pericolosa, ma per il tuo sapere era innocua e la tenevi in mano. La più grande afflizione dell’umanità è l’ignoranza. La maggior parte delle nostre paure sono dovute all’ignoranza su noi stessi e su ciò che non conosciamo. In realtà, non dovremmo mai aver paura.» «Come posso vincere le mie paure, allora?» «Accoglile in te. Accettandole scompariranno.» Riflettei sulle sue parole mentre il maestro chiacchierava con un giovane di passaggio che lo aggiornava sulla situazione dei suoi allievi. «Quali sono le qualità principali di un guerriero?» gli domandai dopo che ebbe concluso. «Il perdono e l’amore. Il perdono insegna l’umiltà e la presenza. L’amore insegna la forza e la compassione per tutte le creature viventi. Tutto ciò porta il guerriero a comprendere che le prove della vita sono fatte per

elevare lo spirito da uno stato grezzo a uno più sottile. Finita una prova, vi è la successiva. La vita è un buon maestro. Il guerriero è grato di tutto ciò.» Arjuna si alzò, informandomi che si era fatto tardi e che aveva altri impegni con i suoi allievi. Lo ringraziai per il tempo trascorso insieme e per i suoi insegnamenti. Prima di allontanarsi, si avvicinò a me. «Ti ho insegnato il necessario. Queste nozioni, seppur piccole, come semi cresceranno rigogliosi in te, dandoti forza e coraggio. Giorno dopo giorno, ti trasformerai in un guerriero. Grandi obiettivi richiedono grandi sforzi, ma ricorda: nessuna avversità potrà mai essere più grande della tua volontà. Tutto nell’universo è una sfida. Come il fiore di loto che, pur crescendo nel fango, fiorisce in superficie in bellezza e fragranza, così l’anima attraverso le difficoltà della vita si innalza luminosa per risplendere ovunque.» Ci salutammo. Osservai per qualche istante l’ambiente che mi circondava e cercai la via del ritorno. Ero appena uscito dalla palestra quando, lontano tra la folla, vidi Shanti. Arrivò sorridente. «Neppure il sole poteva illuminare il tuo sorriso così intensamente quando mi hai visto», dissi tutto d’un fiato. Lei arrossì e abbassò lo sguardo. Le presi le mani e le avvicinai al petto. «Scusami nuovamente, ma è quello che sente il mio cuore.» «Non devi scusarti. Quello che il cuore sente va espresso, sempre e senza paura. L’amore vero trasforma, ci rende migliori. Ogni cosa attorno a noi fiorisce.» Alzando la testa, mi guardò negli occhi. «Vorrei che sapessi che, in mezzo a tutte queste anime intorno a noi, la mia e la tua si sono ritrovate. Se non fossimo così simili, non vi sarebbe stata possibilità di riconoscerci. Ciò che è stato unito in passato, lo è di nuovo ora e lo sarà in futuro. Questi incontri sono concepiti dall’universo per una ragione precisa: evolversi in un’unica direzione, l’amore.» Lei sapeva leggermi, leggermi dentro. Seguiva delicatamente le linee del mio cuore, tenendo il segno per non perdere il filo che ci univa. Shanti mi sorrise. «Sento la stessa cosa», risposi, ricambiando il sorriso. «Sappiamo entrambi che sei promessa sposa. Da una parte, non è corretto che io ti dica così; dall’altra, niente e nessuno mi potrebbe impedire di dire ciò che provo. Ma capisco la situazione.»

«Ho avuto modo di parlare ancora con lui, come ti avevo accennato. Ho deciso di non sposarlo. È stato comprensivo, è un’anima rara. Ora posso essere più coerente con quello che provo. Hai capito perché ti ho detto ciò che sento?» Non credevo alle mie orecchie. Il cuore era in subbuglio. Ci sedemmo su una panchina in prossimità di una strada poco trafficata. «Quando iniziai ad aiutare Tatanji, non ero abituata allo stile di vita di un ashram», continuò Shanti. «Non capivo l’importanza del luogo dove mi trovavo e, soprattutto, in compagnia di chi mi trovassi. La situazione mi creava disagio, sia per la novità sia perché ero cresciuta in un ambiente dove tutto per me era facile. Un giorno ero affranta, abbattuta, con il dolore nel cuore, e stavo per conto mio, rannicchiata in un angolino vicino alla sala di meditazione. Ero triste e sofferente perché mi sentivo sola, come se fossi stata messa in punizione. Volevo tornarmene a casa. Quando Tatanji passò in sala e mi sentì piangere, si avvicinò e sussurrando mi disse: ‘L’allievo scappa dal dolore, ma quando è compreso lo accoglie in sé, lascia che lo purifichi e lo elevi, sarà il suo insegnante.’ Mi diede una parte del dolce che stava mangiando e in silenzio, accanto a lui, la mia anima si tranquillizzò. «All’inizio non capii il senso delle sue parole, ma dopo qualche tempo compresi la sua importanza. Ti ho detto questo perché un giorno Tatanji mi parlò dell’essere coraggiosi in amore e di non avere mai paura della sofferenza. Aggiunse che vi sono tre tipi di coraggio, quando si ama. Il primo è il coraggio di togliersi la propria corazza, frantumando le proprie paure. Quando si ama sinceramente, non ci devono essere barriere. Il secondo è il coraggio di accettare la propria vulnerabilità. Essere pronti ad aprirsi, aver fiducia, accettando sia i dolori sia i piaceri. Il terzo è il coraggio di rimanere liberi nel proprio essere senza dipendere da nessuno, pur continuando ad amare totalmente. Allora potrai dire di essere coraggioso. Ricordo una sua frase in particolare: quando si ama incondizionatamente, ogni azione è in funzione della gioia dell’amato. L’importante è non perdere se stessi ma ritrovarsi in se stessi, poiché l’amore è già in noi.» Cambiò discorso e mi chiese come fosse andata la giornata in compagnia del maestro Arjuna. Risposi che era stata una prova difficile. «Riuscire a comprendere la quarta rivelazione e farla mia non è stato semplice, ma ho capito il concetto

di dolore fisico e di sofferenza mentale. Mi ha aiutato a intendere il valore delle prove e la loro importanza per la crescita interiore.» Shanti rimase un attimo in silenzio. «Tatanji mi disse, tempo fa, che nella vita accadono eventi dolorosi che ci provano molto», riprese. «Questi eventi ci danno l’opportunità di riflettere e capire se il nostro cammino è nella direzione giusta oppure se dobbiamo cambiare strada, dando una svolta alla nostra vita, o ancora se dobbiamo affrontarli per superare ciò che siamo, trasformandoci in qualcosa di diverso, di migliore.» Ero curioso di sapere perché Tatanji l’avesse definita ‘anima combattiva’, e glielo chiesi. «Sì, lo sono, ma è importante capire il significato della parola ‘combattiva’», rispose. «Una combattiva spirituale è colei che non troverai mai muta dinanzi alle ingiustizie. Non vedrai mai uno sguardo basso di fronte al bisogno altrui, bensì una mano accanto che aiuta. Una combattiva è colei che sceglie la strada non tracciata e vive nella libertà di essere sempre se stessa. È colei che fa della disobbedienza un atto di sfida per il benessere di ogni essere senziente. Questa è l’anima della combattiva spirituale. Questo è ciò che sono.» Restammo in silenzio per alcuni minuti. Le sue parole avevano confermato ciò che avevo intuito di lei. Era un’anima coraggiosa, non fuggiva di fronte alle avversità: vi si immergeva. Si tuffava come si salta dalla scogliera per inabissarsi in mare. Era attratta dalle sfide, poiché era attraverso l’ebbrezza che poteva vivere quei momenti nella più totale presenza. Essere combattiva era il suo abito per presentarsi al mondo, e si trovava bene in quel vestito, ci stava comoda, come se l’avesse sempre indossato, quasi fosse stato cucito per lei. «Una volta Tatanji mi disse che nella vita puoi scegliere di essere uno spirito arrendevole o valoroso», continuò. «Gli spiriti arrendevoli hanno sempre una scusa per non fare, per lamentarsi, per non essere. Gli spiriti valorosi sono pronti ad assumersi le proprie responsabilità, a cambiare le loro sorti e migliorare quelle degli altri.» «Sì, concordo.» «Essere degli spiriti valorosi ci spinge a migliorarci, a diventare guerrieri.» Chiesi a Shanti se avesse con sé della crema, spiegandole che il lavoro sul muretto mi aveva irritato la pelle delle mani. Annuì. Prese della crema

ayurvedica dal suo zainetto e mi massaggiò le parti più arrossate. La lasciai fare e, a poco a poco, mi accorsi di stare meglio. «Ora è bene andare, a breve il sole tramonterà», mi disse alzandosi. «Ti porto a vedere un bel posto, come ti ho promesso questa mattina.» Dopo una breve passeggiata, arrivammo a una scalinata in prossimità del Gange. Prendemmo la barca di un suo amico e ci addentrammo nel fiume, poco lontani dalla riva ma a una distanza sufficiente da vedere tutta la zona del ghat. «Cosa vuoi mostrarmi?» chiesi. «Due sono i punti principali dove puoi assistere alle bellissime celebrazioni del Ganga Aarti: all’alba ad Assi Ghat e al tramonto qui, al Dashashwamedh Ghat. Questo non è il ghat più conosciuto, ma sicuramente il più suggestivo. Quello che ha reso Varanasi famosa è sicuramente il gath soprannominato ‘Burning’, fuoco.» «È bello, qui in barca», esclamai. «Il panorama è spettacolare e si ha un’altra prospettiva della spiaggia e dei templi.» «Sì, ma il meglio deve ancora arrivare. In questo ghat, ogni sera dopo il tramonto, ha inizio il Ganga Aarti. Su queste spiagge si radunano tantissimi shadu, pellegrini, mendicanti e monaci. Sull’acqua vengono depositate migliaia di luci galleggianti che creano un effetto luminoso spettacolare; anche per questo Varanasi è conosciuta come ‘città della luce’. Qui, come hai visto, vengono anche per cremare i propri cari.» Shanti indicò il tramonto alle mie spalle. «Osserva. La luce del giorno sta per lasciarci, ora inizia la magia dell’Aarti. La folla si fa silenziosa. Le luci dei ghat prendono il sopravvento sull’oscurità. I sacerdoti accendono le loro lampade. La cerimonia sta per iniziare.» «Quando dura?» «Poco meno di un’oretta. Ma il senso di calma e spiritualità che ne scaturisce è un’esperienza unica.» Continuammo a osservare mentre Shanti mi spiegava i vari passaggi. «La cerimonia viene condotta da alcuni sacerdoti vestiti color zafferano in prossimità della riva del ghat. Ecco, guarda!» esclamò. «I movimenti circolari dei sacerdoti ruotano in sincronia con le lampade. È un importante rituale della filosofia indù. La celebrazione viene fatta solitamente nelle quattro direzioni cardinali per ricordarci che la nostra anima è infinita.

Partecipando alle celebrazioni si ottengono anche le tanto attese benedizioni.» «Sento un forte profumo di incenso e di fiori.» «Sì, è il rituale. I fiori sono per le offerte e l’incenso per far arrivare le preghiere al cielo. In piccolo, questa cerimonia viene eseguita anche nelle proprie abitazioni davanti alle raffigurazioni delle divinità, oppure in qualche festa locale.» «Qui è tutto molto appariscente», osservai. «La religione ha penetrato la vita quotidiana in profondità. Per gli indù è significativo e va celebrato.» «In che consiste ogni singolo atto, dalla nascita fino alla morte, e cosa significa la parola aarti?» «È sempre in sanscrito, significa ‘azione che disperde l’oscurità’. È un’usanza antichissima. Si narra che questo tipo di rituale risalga a cinquemila anni fa, o anche di più.» «È bellissimo e suggestivo», dichiarai. «Ora capisco perché vi sono tantissimi turisti affascinati.» «Sì, lo è. Inizia con il soffio nella conchiglia sacra, la quale emette un suono mistico che pervaderà la zona, poi si prosegue con i bastoni d’incenso e con le lampade di fuoco, sempre intonando i sacri mantra. Vengono offerti alle varie divinità alcuni oggetti che, secondo la tradizione, rappresentano gli elementi del mondo materiale. E, grazie alla cerimonia e alle benedizioni, questi oggetti si trasformano in doni divini.» Rimanemmo in barca fino alla conclusione della cerimonia, poi raggiungemmo la riva e ci incamminammo nuovamente verso l’ashram. Dopo alcuni minuti, Shanti fece un movimento inaspettato che mi tolse il fiato. Mi prese la mano. Era solo un piccolo gesto, nulla di che, ma quando la strinse nella sua, il mio cuore vibrò. Qualcosa in me si stava sciogliendo. Tenere la sua mano, e stringerla nella mia, mi rinfrancava l’anima. Non vi era altro che potessi desiderare in quel momento. Arrivati all’ashram, Shanti mi salutò. «Se ci riusciamo, uno dei prossimi giorni ci alziamo presto e ti porto a vedere Assi Ghat.» «Va bene, ci conto. Grazie.» Dopo una breve doccia, mi precipitai in sala di meditazione. Tatanji mi stava aspettando. Mi misi seduto davanti a lui e meditai in sua compagnia. Quando finii, mi chiese se stessi bene e se fossi felice.

«Sì, Tatanji, grazie. È stata una giornata impegnativa.» Mi sorrise mentre accarezzava un gatto che passava vicino a lui. «Ora sarai diventato un grande guerriero.» Ridemmo, poi si fece serio. «Una freccia, quando viene lanciata, è soggetta a due forze contrarie: quella di gravità, che l’attrae verso il basso, e quella di resistenza dell’aria, che la rallenta. La forza del nostro braccio, nel tendere la corda dell’arco, deve essere più forte delle altre due, se vogliamo che la freccia arrivi al bersaglio. Così è nella vita. Devi sempre superare delle forze contrarie per arrivare a ciò che desideri: è una legge della natura. Dove c’è movimento, c’è attrito.» «È vero anche il contrario? Non ci può essere movimento senza attrito?» «Esatto. L’attrito è necessario, affina il nostro essere, ci conduce a cambiare noi stessi, a diventare più forti. Le più grandi personalità hanno vinto le forze contrarie che il destino poneva innanzi a loro. Hanno lottato per raggiungere i loro ideali. Nel sacrificio, hanno elevato il proprio essere. Questi sono i veri guerrieri.» «Per cui è nell’atto del sacrificio che ci innalziamo?» «È nel sacrificio che rendi sacra l’azione che compi. Nel sacrificio l’ego si inginocchia e l’anima si eleva. Quello che appare inizialmente come sofferenza si trasforma in un nobile atto di offerta per un bene superiore. Ogni sacrificio genera una trasformazione e ogni trasformazione genera una nuova consapevolezza. Accetta le fatiche del tuo divenire, come l’araba fenice accetta di rinascere dalle sue ceneri.» «Ho capito, Tatanji. Allora come devo considerare ogni esperienza che giunge a noi?» Rimase in silenzio e chiuse gli occhi. Attese alcuni istanti e li riaprì. «Considera ogni esperienza come un atto sacro, accettala come lezione. Comprendi il suo messaggio nascosto. Ogni esperienza avviene per te, non contro di te. Quando nell’azione non esiste più separazione tra l’Io e l’Infinita Coscienza, vi è connessione con l’assoluto. Ciò che prima era diviso ora è unito.» In quell’attimo fui io a rimanere in silenzio e chiudere gli occhi. L’ultima frase mi aveva colpito. In essa vi era molto da comprendere. La fissai nella mente come si fissa nel cuore un ricordo importante: con amore e rispetto.

Tatanji interruppe la mia quiete per continuare il discorso. «Ogni sfida porta con sé il dono prezioso del cambiamento. È un dono perché ti trasforma in qualcosa di migliore ed è stato conquistato a caro prezzo. Vedi, Kripala, ogni battaglia che vinciamo ci porta a una nuova creazione di noi stessi. Più alziamo l’asticella della sfida, più il ‘salto’ sarà difficile e arriveremo al limite. Talvolta saltare è semplice, talvolta non ci riusciamo. Ma non dobbiamo arrenderci. La sfida si ripresenterà nuovamente, stanne certo. Magari in altra forma, ma tornerà. Non essere triste o abbattuto se qualche volta non superi gli ostacoli, se non riesci nei tuoi intenti. Ricorda: sono le cicatrici che danno valore al guerriero. Raccontano le battaglie a cui è sopravvissuto e che lo hanno trasformato in ciò che è. Ha combattuto, sofferto e si è rialzato. Raccogli i cocci delle tue sconfitte e costruisci un nuovo te stesso. Come l’argilla viene modellata sul tornio per dare forma al vaso, così il nostro essere viene temprato attraverso le sfide. Quando vinciamo una battaglia, una nuova consapevolezza prenderà il sopravvento su di noi.» «Oggi il maestro Arjuna mi ha raccontato che le avversità, in effetti, ci rivelano. Ci fanno conoscere ciò che siamo realmente. Dobbiamo esserne grati perché scoprono parti di noi che non conoscevamo. Io però penso di conoscermi.» Tatanji sorrise. «Pensi? Nel senso che non ne sei sicuro? Difficile è conoscersi, ci vuole tutta una vita. Supera i tuoi limiti. Esci dalle tue sicurezze. Fai qualcosa che non ti piace fare. Solo allora sfiderai le tue ombre, solo allora combatterai realmente, solo allora capirai chi sei. La vera battaglia è contro se stessi. Sii grato a chi ti offre l’opportunità di sfidarti.» «Grato? In che senso? Perché dovrei ringraziare chi mi mette in difficoltà?» domandai incuriosito. «Perché ti porta a conoscerti.» Tatanji si concentrò per qualche istante. «Ti faccio un esempio. Quando sei al centro di un grande lago, solo e senza aiuto, possono accadere tre cose: puoi affogare, galleggiare o nuotare fino alla riva. Similmente, nella vita puoi decidere di lasciarti vincere, nel senso di farti prevaricare, oppure di abbandonarti al flusso, lasciarti condurre dalla vita, ma devi essere connesso con lei. Oppure decidi di lottare e affrontare la situazione.» «È vero!» esclamai. «Nelle persone intravedo questi atteggiamenti ogni giorno.»

«Esatto, Kripala. Nelle nostre prove vivono celate le nostre vittorie. Ed è per questo che le difficoltà colpiscono sempre la nostra fragilità. Sta a noi trasformarla in punti di forza.» «Ci vuole tempo per imparare.» «Certo, ma alla fine, se lo vogliamo veramente, ci riusciremo. Dobbiamo imparare prima a togliere ciò che c’è di sbagliato in noi, poi a sostituirlo con ciò che va bene. Come il serpente si disfa della sua vecchia pelle, così noi dobbiamo apprendere a disfarci del passato, lasciar andare quello che ci lega e che non ci serve più. Solo allora troveremo lo spazio necessario per accogliere il nuovo. Per questo il nobile guerriero accoglie tutto dalla vita. Opportunità, difficoltà, gioie o sofferenze, non rimpiange nulla. Sii anche tu, Kripala, un guerriero, dando il massimo di te.» «Farò il necessario per esserlo, Tatanji.» «Lo sforzo è necessario. Il sacrificio, come l’amore, è la base di tutte le discipline spirituali. Senza sforzo e amore sincero non ci sono progressi. L’opposto è l’apatia!» «Sottolinei spesso questa frase: lo sforzo è necessario, sempre.» «Per vincere ogni sfida, impara con la mente di un bambino, allenati con la mente di un vincitore, agisci con la mente di un guerriero. Spingiti con saggezza sempre uno scalino più in alto del tuo limite. La tua casa è il cielo e la tua destinazione l’infinito.» «Lo farò, Tatanji.» «Impara le sei regole di un buon guerriero. Sii semplice. Medita. Apprendi ogni giorno. Tieni elevati i tuoi pensieri. Aiuta il prossimo. Rialzati sempre. Il guerriero apprende dai suoi errori, li accetta perché fanno parte del suo progresso. Ne è grato perché gli ricordano di essere umile. Gli dimostrano dove può correggersi scovando nuove soluzioni. Poiché tu non sei gli eventi che la vita ti impone, sei la risposta a ognuno di essi. Questi sono i pilastri per diventare un uomo e un guerriero.» Si alzò e mi diede alcuni lavoretti da concludere prima di coricarmi. «Le rose hanno le spine, ma non privano di fragranza e bellezza il fiore, così le prove della vita non ti privano di ciò che sei, ma ne esaltano le qualità. Non arrenderti mai e trova sempre il germe del bene in ogni avversità. Abbi fiducia nella Coscienza Suprema che tutto pervade e che è sempre in te.» Mi salutò dandomi la buonanotte.

5

Il silenzio è il tuo miglior maestro

«CHE tu ci creda o meno, dipendiamo tutti dalla legge del karma.» Questo disse Tatanji entrando in camera mia di buon mattino e svegliandomi. «Se rispetti le regole, la colazione è pronta ed è buona; se non le rispetti, la colazione salta», esclamò ridendo. Guardai l’orologio: ero in tremendo ritardo. «D’accordo, Tatanji. Non ho sentito il suono del flauto questa mattina, scusami.» Non disse nulla e, salutandomi, uscì dalla stanza. La vita in ashram poteva sembrare una routine. Le giornate assomigliavano alle precedenti e le pratiche parevano sempre più o meno simili, ma non era così. Erano tutt’altro che monotone o ripetitive: ogni giorno era una nuova rivelazione che mi apriva un intero universo. Vi era di continuo qualcosa da imparare, qualcosa da conoscere, e soprattutto le bellissime condivisioni giornaliere. Un sentimento che proveniva dal cuore mi prese i pensieri. Stavo pensando a Shanti. Lei mi catturava l’anima. Bastava uno sguardo, un sorriso, per non riuscire più a liberarmene. Era una strana sensazione, ma percepivo il suo richiamo. Esiste una distanza se lei vive nel mio cuore e nella mia mente? No di certo, ma ne sentivo la mancanza fisica. Sapere che a breve l’avrei rivista pose termine alla mia malinconia. Mi accorsi che mi stavo distraendo e allontanando dai miei impegni mattutini, così mi lavai velocemente per poi iniziare le pratiche yoga e di meditazione. Le melodie del flauto, che nel frattempo Tatanji aveva ripreso a suonare, inondavano la stanza. La musica rendeva l’atmosfera mistica e

accompagnava dolcemente i miei esercizi. Poco dopo scesi in sala. Shanti era insieme a Tatanji; la colazione era pronta lì accanto. Lei mi salutò con un sorriso, ricambiai con un namasté. Notai immediatamente i gatti: stavano osservando Tatanji in un rispettoso silenzio, quasi devozionale, mentre concludeva la sua esibizione sonora. Sorrisi tra me e me. Nessuno di loro muoveva una zampa, erano completamente rapiti dalla musica. Un micio era accucciato vicino alle ciotole del cibo, forse intuendo che era meglio starsene lì se voleva mangiare per primo. Mi sedetti ad ascoltare le ultime note cercando di essere presente e porre la massima attenzione. Volevo mettere in pratica, passo dopo passo, le lezioni ricevute i giorni prima. Trascorsero alcuni minuti, poi iniziammo in silenzio la colazione; una volta conclusa, aiutai Shanti a pulire. Non passò molto tempo che, con una mano, Tatanji mi fece cenno di guardare alcuni gatti accucciati in un angolino poco distante da noi. «Osserva come i gatti attraversano l’esistenza in silenzio, camminando sulle nuvole senza far rumore. La tranquillità è nel loro essere.» «Sì, è vero, sembrano dei re seduti sui loro troni», replicai. «Possiedono una naturale predisposizione al silenzio.» «Esattamente. Dimmi, Kripala, quand’è stata l’ultima volta che sei riuscito a rimanere in silenzio con te stesso? In silenziosa presenza? Senza parlare con nessuno, senza usare il telefono, senza guardare la TV e senza ascoltare la radio? Noncurante dei suoni che ti circondano quotidianamente? Hai mai cercato il silenzio, invece di riempirlo con ogni inutile rumore?» Riflettei e mi resi conto che, in effetti, non avevo mai ricercato il silenzio, se non per brevi istanti. «Quando cammino nella natura lo trovo, o meglio, arriva. Il silenzio è quasi automatico», risposi. «Sì, la natura ci rende più silenziosi, più meditativi, ci porta a trovare una connessione con qualcosa di profondo in noi che talvolta dimentichiamo di avere. La natura si trasforma in un luogo di guarigione e il silenzio diventa terapeutico. Abbiamo tutti un giardino interiore silenzioso, ma di questo parlerai con Vimala.»

«È colei che incontrerò stamattina? Mi spiegherà il potere del silenzio?» «Sì. Come la meditazione è il nutrimento per l’anima, così lo è per il silenzio. Essere nel silenzio ci porta a noi stessi, ad ascoltarci focalizzando la nostra attenzione verso l’interno. Silenzio non significa non parlare, silenzio significa sentire; sentire qualcosa che va al di là delle parole.» «Cosa intendi per sentire oltre le parole?» «Grazie all’assenza possiamo percepire la presenza. Grazie all’oscurità possiamo vedere la luce. Grazie al silenzio possiamo sentire.» Tatanji attese, come per concentrarsi, poi continuò: «Sentire è intuire ciò che è oltre la parola». Rimase in silenzio, cosa che feci anch’io. Le domande nascevano spontanee, difficili da trattenere, ma volevo entrare più in profondità nei nostri discorsi. «Come possiamo essere nel silenzio o, come dici tu, in silenziosa presenza se il rumore esterno disturba i nostri pensieri, distraendoci?» domandai. «Come l’oceano in superficie è mosso da innumerevoli onde, anche la nostra mente in superficie è mossa da infiniti pensieri. Ma è nelle profondità dell’oceano che troviamo la calma; similmente, nelle profondità del nostro essere troviamo la pace. Se qualcosa disturba la nostra attenzione, dobbiamo accogliere ciò che arriva e con consapevolezza farci ricondurre all’interno. Il rumore non deve essere di stimolo per un conflitto con noi stessi, ma va accolto come parte del tutto.» «Accogliere, sì. Ora ricordo i discorsi di Kritajìna e Sanjay», commentai. «Vi sono due tipi di silenzio. Il primo è il silenzio esteriore. Avviene attraverso l’attenuazione dei cinque sensi, voce, vista, suono, tatto, gusto. Ci si distacca lentamente, e in questo modo si entra in minima interazione con ciò che sta al di fuori di noi. Il secondo è un silenzio più profondo. Avviene all’interno del cuore ed è infinito. Dà pace ed è fonte di saggezza e serenità. In sanscrito è chiamato mauna, che non significa solamente non parlare, ma è anche la capacità di ascoltare il silenzio che è dentro il nostro cuore.» «Una domanda, Tatanji. Hai parlato di giardino interiore, a cosa ti riferivi?» «Quando incontrerai Vimala, un’anima meravigliosa, starai un po’ di tempo in sua compagnia. Avrete modo di conoscervi e, soprattutto, di

parlare del potere del silenzio e del significato di giardino interiore», concluse. «Ora preparati, Shanti ti sta aspettando. Ci vediamo questa sera.» Lo ringraziai e lo salutai. Come aveva predetto, trovai Shanti all’entrata e ci incamminammo verso il centro città. Dopo alcuni minuti, notai lungo la via un flusso continuo di persone che si muovevano più in fretta rispetto al solito. «Non ho mai visto così tanta folla, dove siamo?» domandai a Shanti. «Al Godowlia Market», rispose. «È un mercato molto antico, penso sia uno dei più grandi della città, sicuramente il più affollato. Può non sembrare, se non lo conosci, ma è enorme. Si estende anche in alcune vie laterali. Qui trovi di tutto, dai più costosi sari di seta ricamati alle ultime tecnologie dell’elettronica e dell’informatica. Scarpe, borse, vasi di vetro pregiato, statuette di tutte le divinità. Qualsiasi cosa tu stia cercando, qui c’è.» Verso la fine della strada, Shanti mi mostrò un tempio da cui la gente entrava e usciva in modo ordinato e regolare. Guardai in alto: alla sommità vi era una grande cupola d’oro, e sotto di essa due più piccole. «Bellissimo», esclamai. «Questo tempio si chiama Kashi Vishwanath, ma è conosciuto come Golden Temple, è dedicato al dio Shiva.» «È meraviglioso e molto suggestivo.» «È uno dei più sacri del Paese. L’aspetto più incredibile è, che nei vari secoli, questo tempio è stato distrutto più volte, a causa di numerosi conflitti, ma è stato sempre ricostruito più o meno identico nello stesso luogo. Questo può far capire la sua importanza.» Continuammo a camminare lungo le strette vie laterali e parallele alla strada principale. Shanti, nel frattempo, mi spiegava come una perfetta guida turistica le storie dei vari templi che incontravamo. Ero affascinato dal suo modo di parlare, di descrivere i più minuziosi dettagli della città. «Varanasi è formata da due parti. In quella vecchia le stradine sono strette e labirintiche, i vicoli sono accessibili solo alle persone e agli animali, e talvolta percorsi da motorini. Poi vi è quella nuova, più omologata alle altre città indiane, con strade invase dal traffico di ogni tipo. Negli ultimi decenni moltissimi indiani si sono trasferiti in periferia perché la metropoli è inquinata e congestionata. I turisti preferiscono la zona nuova, sicuramente comoda perché ha molti hotel ed è più suggestiva. Chi

invece conosce bene la città, si ferma non troppo distante dalle zone dei ghat. Qui c’è l’anima di Varanasi, ed è anche una zona più tranquilla.» Dopo alcuni minuti, raggiungemmo una casetta nascosta tra alcune bancarelle; l’ingresso stesso era poco visibile. Shanti mi fece cenno di entrare. Salimmo diverse rampe di scale fino a trovarci sul tetto. Lì vi era un chiosco poco frequentato, da cui si poteva ammirare quasi totalmente la città. Era un panorama unico. Ci sedemmo per una breve pausa e per mangiare qualcosa. Ne approfittai per azzardare alcune domande che in quei giorni mi balzavano frequentemente in testa. «Mi piacerebbe sapere il significato della parola ‘amore’, ciò che sai e ciò che hai appreso stando accanto a Tatanji.» Shanti sorrise e, dopo aver ordinato del tè freddo per entrambi, cominciò a parlare. «Alcuni anni fa ho iniziato a lottare contro antichi pregiudizi che mi erano stati imposti dalle tradizioni della mia famiglia, riuscendo man mano a trovare il coraggio di ribellarmi. Ho affrontato a testa alta le insidie che si opponevano al mio divenire, e non è stato semplice. Con il tempo, però, le persone accanto a me hanno capito chi ero e cosa volevo. L’unico ostacolo che rimaneva da affrontare, il più grande, è stato superato da poco, e sai di cosa parlo. Liberarmi dal matrimonio prestabilito dai miei genitori. Tutto questo lo chiamo amore, amore per me stessa.» Aveva pronunciato le ultime frasi con enfasi, facendo intuire tutta la forza che possedeva. «Ogni essere umano che ho incontrato mi ha insegnato qualcosa. Attraverso l’amore, la sofferenza, il piacere, la delusione e la felicità, tutti mi hanno fatto capire quanto sia necessario amarmi e prendermi cura di me stessa; abbracciarmi con amore. Ho compreso che amare se stessi è necessario per poter amare gli altri. Se non abbiamo amore per noi, non lo abbiamo per nessuno. Se non fosse così, quello che doniamo al prossimo non sarebbe altro che un surrogato. L’amore lo trovi in te, non puoi trovarlo fuori se prima non lo scopri dentro. L’amore è l’essenza che muove l’intero universo, è oltre lo spazio e il tempo. Nulla vi era prima, nulla vi sarà dopo: tutto è una sua emanazione.» Mentre parlava, i suoi occhi brillavano. «Esprimere se stessi come amore infinito, o meglio, esserlo, è il mezzo più veloce per realizzarlo. Tu sei amore», concluse mangiando un po’ di

frutta. Non ascoltavo solo le sue parole, percepivo la sua anima. Tra noi vi era una sorta di reciproca appartenenza, ci capivamo senza parlare. Il sentirsi ci bastava. Quando terminò di mangiare, riprese a raccontare. «Tempo fa, domandai a Tatanji il significato di amare. Mi rispose con parole che rammento chiaramente perché toccarono le profondità del mio cuore. ‘Come la natura del fuoco è bruciare, così, la natura dell’amore è amare. Vivere senza aver mai amato è il più grande spreco dell’esistenza umana. Amare è l’atto più elevato che l’anima possa mai esprimere.’» Ci avvicinammo a un punto panoramico dove si scorgeva una visuale migliore e più suggestiva. Shanti mi abbracciò, stringendomi forte. In quel momento parve volersi liberare di un fardello per alleggerire il peso che portava dentro di sé. I suoi dolori, i suoi tormenti e le sue battaglie. Sembrava cercasse una nuova dimensione del suo essere. Tutto ciò che desideravo era stringerla tra le mie braccia. Rimanemmo in silenzio osservando il panorama. «Il segreto, Kripala, è, come dice Tatanji, plasmarsi di amore incondizionato. Offri il tuo cuore, sempre, senza pensare al ritorno. Il ritorno è sofferenza. Non aspettarsi nulla è il segreto.» «Capisco cosa dici, ma l’amore umano, come sai, è diverso. Spesso i sentimenti vengono nascosti perché il coraggio manca, oppure ci sentiamo inadeguati perché non siamo preparati a viverci. Qualsiasi cosa avverrà dopo, voglio dirti ora quanto sono follemente attratto da te. La mia anima è tornata a vivere come una farfalla che, uscita dal bozzolo, riconosce la sua nuova vita.» Shanti continuava a fissarmi, ascoltandomi senza dire nulla. «L’amore non lo conosci in superficie, anche se per molti è normalità», continuai. «L’amore lo vivi nella bellezza delle sue vette passionali e negli oscuri abissi dei suoi tormenti.» «Esatto», esclamò. «So cosa provi, lo percepisco ascoltando il ritmo veloce dei tuoi respiri, e quello che hai detto è l’inspiegabile amore umano.» Sorridemmo entrambi, e delicatamente mi strinse la mano.

«Amarsi è condividere in due corpi un’anima sola, questo per me è l’amore», disse sottovoce. Pur di aspetto semplice, la sua anima conteneva le stelle. Intere galassie danzavano in lei, e non vi era cosa più bella di perdersi senza fare ritorno. Rimanemmo a osservare la vastità del panorama senza dire nulla. Forse era questo che cercavo quando stavo in sua compagnia: non tanto le sue parole, quanto il suo silenzio. «È bello stare qui, accanto a te, senza parlare», dissi sottovoce, quasi per non interrompere l’incanto che si era creato tra noi. «Sì. Tutti cerchiamo il silenzio, anche se spesso non lo sappiamo. C’è chi lo cerca in luoghi lontani e meravigliosi, ma in realtà è solo un modo per trovare pace dalla frenesia dei nostri giorni.» Shanti mi raccontò che Vimala aveva fatto voto di silenzio da molti anni. «Come posso confrontarmi con lei?» chiesi dubbioso. «Non preoccuparti di questo. Quando la vedrai, dalle pure del tu; per il resto, lascia fare a lei. Ora andiamo.» Quando arrivammo a destinazione, Vimala ci stava aspettando davanti all’entrata della sua piccola abitazione. Il suo sguardo era fisso verso di noi, o così sembrava. Ci salutò lasciando intravedere un’anima gentile e serena. Shanti le fece cenno che doveva andare e, lanciandomi un’occhiata, salutò entrambi, allontanandosi poi verso il centro. Non dissi nulla e mi avvicinai a Vimala. Lei, con modi aggraziati, mi fece cenno di incamminarci per una stradina laterale poco frequentata. Standole accanto provavo una sorta di serenità. Come Kritajìna, dimostrava una settantina d’anni. A un tratto si fermò, osservandomi. La imitai. «Mi chiamo Vimala, che significa pura, immacolata», si presentò. «Hai un bellissimo nome.» «Grazie.» «Sono sorpreso. Come mai parli con me? Shanti mi ha detto che hai fatto voto di silenzio da diverso tempo.» Sorrise mentre fissava la strada. Riprendemmo a camminare. «Non riesco a comprendere, credimi», continuai. «Hai interrotto la tua promessa. Non so se devo essere a disagio o emozionarmi, o entrambe le cose.»

Sorrise nuovamente. «Non preoccuparti di questo. Anche se parliamo, rimango nel mio silenzio interiore. Per me non cambia nulla.» «Come può essere?» ribattei. «Dopo tutti questi anni di pratica, si raggiunge qualcosa che in realtà è già nostro da sempre: la silenziosa presenza. Così mi piace definirla. Non è una conquista, come potrebbe sembrare, ma una riscoperta.» Continuammo la passeggiata per diversi minuti lungo la riva di un ghat poco affollato. «Se permetti, di cosa ti occupi?» le domandai. «Di giardini. Quando me lo richiedono, curo le piante e i fiori di chi ne ha bisogno. Con la mia presenza cerco di rendere ogni luogo migliore. Controllo le energie di chi vive lì attraverso le piante. Quando posso mi prendo cura anche del mio giardino interiore. Coltivo me stessa. Sono il giardiniere della mia anima.» «Penso sia bellissimo stare accanto alle piante. Donano serenità, sono un mondo a sé.» «Quando sono con loro, entro in uno stato meditativo. Mi aiutano a essere in silenziosa presenza. Questo significa non solo non parlare, come avrai capito, ma anche un silenzio autentico che ha una sua forma, una sua dimensione e una sua energia, perfino un suo linguaggio.» «Un suo linguaggio? Com’è possibile?» domandai incredulo. «Il silenzio è un linguaggio e, come ogni linguaggio, si apprende nella pratica.» «Il silenzio è silenzio, non c’è comunicazione», ribattei. «Tu credi? Ne sei proprio convinto?» «Penso di sì, non ho mai visto comunicare una persona che sta in silenzio.» «Kripala, talvolta il silenzio ha più potere delle parole. Puoi star vicino a una persona non dicendo nulla, eppure allo stesso tempo comunicare con lei. I nostri sentimenti viaggiano su strade diverse dal comune linguaggio, spesso parliamo senza dire e sentiamo senza udire. L’uomo saggio trova le risposte nel silenzio.» «Ora che mi ci fai pensare, ultimamente sto vivendo una situazione simile. Il silenzio che intendi tu assomiglia a quello degli innamorati che, non dicendo nulla, lasciano parlare il cuore.»

«Hai compreso bene. Siamo esseri sociali e per noi è indispensabile comunicare, ma questo può avvenire in diverse forme, e non sempre attraverso la parola. Ogni parte di noi comunica qualcosa. I nostri movimenti, gli sguardi, l’odore, il modo di vestire, la musica che ascoltiamo, cosa mangiamo e i libri che leggiamo. Queste sono tutte forme di comunicazione: ‘trasmettono’ esternamente ciò che siamo internamente. Se sai osservare bene, capirai l’essenza di chi ti è vicino.» «Sì, ora ne sono convinto.» Per qualche minuto non parlai, poi chiesi: «Esiste un modo di vivere il silenzio, nel senso di praticarlo?» «Stai in sua presenza e ascolta ciò che ha da dirti.» Ero sempre più perplesso. «Ma come posso ascoltare il silenzio se è silenzio lui stesso?» «C’è sempre molto rumore fuori e dentro di noi. Siamo sempre circondati da una moltitudine di suoni e distrazioni, ma dobbiamo imparare a ritrovarci, a ristabilire un contatto con il nostro essere più profondo. Il silenzio è un buon maestro: dona molte risposte se sai ascoltarlo.» «Come posso riuscirci? È difficile non parlare.» «Fai tacere le parole e lascia che sia lui a esprimersi. Quando si è in pace, il vero linguaggio è il silenzio.» «È vero. Ricordo che esiste anche un modo di dire.» Ci pensai qualche istante. «Mi pare che sia: rimani in silenzio se il tuo parlar nulla dice, o qualcosa di simile.» Sorridendo, Vimala annuì. «Penso sia un ottimo modo di dire. Talvolta il silenzio è il miglior modo di comunicare e, spesso, la qualità delle parole che usiamo dipende dalla qualità del nostro silenzio. Più sarà profondo, più elevato sarà il linguaggio. Attento, ho detto ‘profondo’. Puoi anche non dire nulla per molto tempo, ma niente toglie che i tuoi argomenti siano poi superficiali. Se riuscirai a penetrare nel tuo essere attraverso la silenziosa presenza, solo allora avverrà il cambiamento.» «In che senso?» «Se le tue parole non sono così importanti, è saggio tacere. Molte persone sono pronte a rispondere a tono a un affronto, ma non sono pronte a rispondere con il silenzio. Ed è per questo che talvolta il silenzio è la miglior risposta: perché è più forte della parola.» Vimala mi aveva fatto capire il significato del mio modo di dire.

Continuando a camminare, ci allontanammo dal trambusto della città per poi proseguire verso una piccola distesa pianeggiante. Una sensazione di pace e tranquillità sovrastava il brusio della metropoli. «Sai, Vimala, ho sempre mille domande, mille dubbi che mi girano per la testa», dissi. «Sono sempre alla ricerca di risposte attraverso i testi sacri, o parlando con Tatanji e con altri simili a te. Spesso faccio fatica ad avere idee chiare e una mente serena. Non so ancora come il silenzio mi possa aiutare in tutto questo.» Vimala sorrise. «Con pazienza, ognuno trova le risposte sulla strada verso la verità. Ciò che importa è dove nascono le tue domande, caro ragazzo. Ogni domanda nata dal cuore avrà sempre la sua risposta.» «Dove potrei cercare le mie risposte quando non ho nessuno a cui domandare?» «Cercale nel silenzio. Ci induce a calmare la mente e a comunicare con il nostro più intimo interlocutore.» «Posso trovare il silenzio anche attorno a me? Lo posso trovare anche esternamente? Non sto parlando dell’assenza di rumore.» «Quando permetterai a te stesso di essere in pace, se saprai osservare troverai il silenzio ovunque.» Ci sedemmo sopra un grande tronco. Probabilmente era lì da diversi anni, visto quanto era consumato. Vi erano incise anche diverse scritte in bengali che non capivo. Da lì, il panorama era unico: da una parte vi era la città in tutta la sua maestosità, e dall’altra il Gange in tutta la sua bellezza. «Il silenzio è attorno a te se lo sai riconoscere. Lo puoi trovare nello spazio tra due respiri o nella neve che cade. Nel sorgere del sole o nella tranquillità dopo la tempesta. Tra due note musicali o nel seme che cresce», esordì. «Osserva come le parole sono scandite da piccolissimi intervalli di silenzio. Il silenzio è la colla che le unisce, e da cui sorgono.» «Scusa la mia insistenza», ripresi. «Non capisco come si possa imparare dal silenzio.» «Sposta la tua consapevolezza dalle parole al cuore e riuscirai a sentire ciò che non viene detto.» «Penso però sia difficile.» «Non è difficile, ma bisogna agire. Agendo si aprono mille porte che prima erano chiuse. Senza l’azione qualsiasi cosa risulta difficile.»

«Tatanji e Shanti me lo rammentano spesso.» «Trova il tuo spazio silenzioso, il tuo spazio interiore. Coltivalo, nutrilo, fai di esso un bellissimo giardino. Visitalo ogniqualvolta ne senti la necessità e lascia che la divinità nascosta in esso emerga attraverso il silenzio.» Riprendemmo a camminare. In realtà, le risposte che mi stava trasmettendo erano sufficienti per comprendere l’essenza del suo insegnamento. Dopo alcuni minuti ci trovammo nuovamente, e quasi per incanto, davanti alla sua casa. Ne rimasi sorpreso: pensavo fossimo molto più distanti. Entrammo in una veranda appartata ma luminosa. Mi sedetti mentre Vimala prendeva da un tavolino una ciotola che conteneva alcune fettine di cocco. Da un frigorifero tirò fuori anche una caraffa di lassi, mi offrì il tutto e iniziammo a mangiare. «Vimala, possiamo continuare il discorso?» domandai. Annuì sorridendo. «Mi prendo cura da molto tempo del mio giardino interiore. Ogni volta che vado a fargli visita, è una gioia. Ogni fiore è simile a un’emozione. Alcuni sono meravigliosi, altri piccoli, altri vistosi, altri ancora si nascondono. Fatico a sradicare le erbacce cattive, hanno radici profonde, tuttavia semino sempre nuovi germogli e faccio il possibile perché ogni pianta cresca sana e forte. Il mio è un giardino fiorito e colorato. Sono il giardiniere della mia anima. Sono il giardiniere delle mie emozioni.» «Deve essere un luogo meraviglioso. Mi pare di aver capito che le emozioni negative sono come le erbacce.» «Hai detto bene, Kripala. I pensieri negativi sono come erbe infestanti. Non lasciare che prendano il sopravvento. Non permettere che invadano troppo spazio. Con le giuste parole crea un giardino colorato attorno e dentro di te. Elimina le erbacce dei pensieri negativi che tolgono nutrimento alla tua vita. Fai crescere bellezza e amore. La tua anima sarà riconoscente.» «In che modo?» domandai curioso. «Dai più nutrimento ai fiori. Falli crescere forti e rigogliosi. Le erbacce moriranno di sete e non avranno modo di espandersi.»

«Grazie. Ora ho capito cosa intendi, ora comprendo meglio cosa devo fare.» «Tutti abbiamo il nostro giardino interiore, e come ogni giardino va coltivato e nutrito, ogni giorno, regolarmente. Molte persone non lo visitano spesso, e purtroppo molti lo hanno dimenticato. Farvi visita significa prendersi cura di sé, significa amarsi, significa tornare alla nostra pura presenza silenziosa. Anche tu, Kripala, dovresti visitare spesso il tuo giardino, ogni volta che ti sentirai affranto. È il tuo spazio sacro dove nulla può turbarti, lì puoi stare in pace e crescere più forte. Più lo visiti e più si prenderà cura di te. Con il tempo vi conoscerete meglio, e in esso troverai un luogo di serenità. E non dimenticare mai di annusare il profumo dei fiori che incontri lungo la strada. Lentamente la tua vibrazione cambierà, e ciò che è simile a te verrà richiamato dalla stessa energia.» Vimala chiuse gli occhi. Il suo volto divenne più rilassato, le guance più rosse. Osservandola con attenzione, dopo alcuni minuti mi accorsi che attorno a lei vi era un silenzio quasi fisico, difficile da spiegare. Era così intenso e profondo che, come un’eco, riecheggiava ovunque. Si poteva percepire pura tranquillità. In quell’istante capii che Vimala era riuscita nel corso della sua vita a esprimere la sua serenità e a portarla in superficie. Non vi era altra spiegazione. Mi vennero in mente alcune frasi che avevo sentito dire tempo prima, qualcosa di simile al suo stato. Quando siamo in presenza di grandi anime, la prima cosa che percepiamo è la loro emanazione di pace, così evidente da sembrare palpabile. Assaporai questo momento di pura presenza silenziosa. Pochi attimi dopo, Vimala riaprì gli occhi e sorrise. «Quando sarai una cosa sola con il giardino interiore, esso scomparirà e tu diventerai parte del tutto. Lascia che il caos della vita ti attraversi, ma resta sempre calmo e sereno, poiché è nella tranquillità dell’animo che nasce la tua forza. Lascia che le avversità elevino il tuo spirito: ogni sfida è uno scalino verso la consapevolezza», disse. «Avrai imparato da Tatanji che la vita è una lotta continua. Ci saranno giorni di sole, ma anche di tempesta. Ogni giorno sarà diverso dall’altro, tutto cambia e si trasforma. Le tempeste arrivano per darci l’opportunità di conoscerci. Toccano i nostri lati più fragili scoprendo la nostra essenza.

Come il carbone, che sottoposto a fortissime pressioni si trasforma in un diamante, così noi, sottoposti a innumerevoli prove, ci trasformiamo in anime temprate. Alcuni rimangono scoraggiati o indeboliti; altri, invece, si rialzano uscendone più forti e vittoriosi.» Finì di bere il suo lassi. «Grazie al silenzio possiamo accogliere ogni sfida come un’opportunità di crescita per la nostra anima. Nel silenzio diamo il tempo a noi stessi di trovare un’oasi di serenità prima di ogni azione.» Rimanemmo zitti, assaporando la tranquillità di quell’istante di condivisione. «Affina il silenzio e rendilo puro come il diamante», riprese Vimala. «È nelle profondità degli abissi che si trovano i tesori più preziosi. Inizialmente farai fatica e ti verrà voglia di parlare. La mente cerca sempre un pretesto per comunicare. Se sarai determinato, però, nel tempo il silenzio diverrà nutrimento per la tua anima.» «Dovremmo riuscire a trovarlo in mezzo al rumore, dunque a crearlo consapevolmente anche se circondati da mille distrazioni. Vi è un modo?» «Il segreto è mettere la mente nel cuore. Allora il silenzio ti accoglierà nella sua dimora. Lì troverai presenza autentica e sarà un luogo d’incontro e accettazione. Nel silenzio scoprirai consapevolezza. L’uno aiuta l’altra a raggiungere lo scopo.» «Cosa intendi?» «La consapevolezza precede il silenzio, attraverso di essa riusciamo a essere nella silenziosa presenza.» Vimala si prese una pausa prima di continuare: «Hai mai ascoltato i battiti del tuo cuore? Hai mai provato? Nel silenzio, ti verrà rivelata una grande verità. Ricorda, ciò che cerchi è più vicino del tuo stesso respiro». Rimanemmo nuovamente senza dire nulla per alcuni istanti. «L’universo ci ha creato simili a dei semi. Possiamo rimanere tali, o aprirci e fiorire. Fiorire è la parola più bella. Fiorire è necessario. Apri le braccia, Kripala, accogli la natura, il cielo, le stelle, l’infinito. Senti il profumo nei campi e fatti accarezzare dal vento. Osserva il tramonto sul mare e la sua alba al mattino. Tieni stretto chi ami e sii felice di tutto ciò. La vita è fatta di piccole gioie, vivile. La felicità è nell’avere una mente serena. Solo così ogni momento sarà speso bene.»

Qualcuno bussò alla porta della veranda. Era Shanti. Vimala si girò verso me, unì le mani e mi salutò. «Va’ in pace. Om shanti, shanti, shanti.» Appena ebbe pronunciato quella frase, in un istante tutto il mio essere e ogni singola cellula furono inondati da un’incredibile sensazione di immensa serenità. Un oceano di pace mi avvolse. Rimasi immobile, sperimentando il significato di profonda, silenziosa presenza. Aprii gli occhi. Non sapevo quanti minuti fossero trascorsi. Shanti non si era accorta di nulla ed era meglio così. Guardai Vimala e la salutai, ringraziandola. Mi sentivo felice di aver appreso la quinta rivelazione. Dopo che fummo usciti, ringraziai Shanti per la sua costante presenza. Mi sentivo felice perché tutto il pomeriggio, o quasi, era per noi due. «Sono in ritardo, scusami, ma ho perso tempo in alcune commissioni che dovevo portare a termine questo pomeriggio.» «Figurati, sei sempre così gentile. Anzi, non finirò mai di ringraziarti per la tua cordialità in ashram, per le tue buonissime colazioni e per le cene che riusciamo a mangiare assieme. Ti confido un segreto. Quando sono arrivato qui, mi sono accorto che il cibo indiano non era adatto al mio palato. Pensavo che non lo avrei mai apprezzato, ma grazie a te, che spesso ci metti un tocco italiano e amore, mi sono sentito un po’ a casa.» Sorridemmo e continuammo a camminare per le strade affollate della città, fino ad arrivare in prossimità di un ghat. «Ricordi l’altro giorno, quando ti ho parlato della città?» mi domandò Shanti. «Certamente.» «Molti parlano di questo fiume sacro. Chi si bagna qui, in queste sante acque, secondo la cultura locale ottiene punya, ovvero la più grande benedizione. In realtà questo vale per tutto il Gange, i pellegrini vi si immergono o si lavano prima di rendere omaggio al signore Shiva. Arrivano da ogni parte dell’India. Fanno un’offerta di luce, fiori o cibo, che in sanscrito si dice pooja, poi si tuffano nel fiume. Serve per eliminare i peccati di questa vita, rendendo così i pensieri e l’animo più pacifici per le varie celebrazioni a cui parteciperanno.» Mentre parlavamo, ci spostammo in un luogo più isolato e intimo. Shanti cercò nel suo zainetto fino a recuperare un piccolo contentore dove aveva riposto alcune fette di ananas, che mi offrì. Cominciammo a mangiare.

«Com’è andata con Vimala?» volle sapere. Le raccontai brevemente quello che mi aveva colpito della giornata trascorsa con lei. Attese un po’, poi volle condividere con me l’ultima fetta di ananas. «Dal momento in cui ti svegli, la mattina, sei circondato da una miriade di frastuoni e altro», disse. «Tutto questo lo accettiamo per sentirci vivi, spesso per non affrontare il ‘disagio’ di rimanere soli con noi stessi. Rumori e suoni riempiono le nostre menti e ci lasciano sempre meno spazi di tranquillità. Rimanere in presenza silenziosa, al giorno d’oggi, sembra una malattia.» «Allora cosa dobbiamo fare, secondo te?» «Togliere l’attenzione dagli stimoli esterni. Dovremmo diminuire il ‘rumore’ esteriore, focalizzarci sul respiro o su un mantra. Il fulcro consiste nell’essere testimoni di ciò che accade.» Shanti rimase zitta per qualche minuto. «Un tempo non c’era tutto questo frastuono, non esisteva. Non vi erano né elettricità né tecnologia. Un tempo, ci ascoltavamo di più. La gente si riuniva per cantare, ballare, raccontarsi la vita e antiche leggende. Le persone erano connesse con la natura, la terra e l’universo. Oggi dobbiamo ritrovare quella pace perduta attraverso momenti di silenzio autentico. Dobbiamo recuperare il contatto con noi stessi e con la divina creazione.» «Sì, è vero. Dipende anche dalla nostra consapevolezza», dissi. «I momenti di silenzio ci aiutano a riprendere la nostra pace, la nostra tranquillità, ma solo se lo vogliamo. Siamo circondati dal rumore, sia dentro le nostre case sia fuori, all’aperto. Non siamo più abituati al silenzio, ma ora ne abbiamo più che mai bisogno rispetto al passato. Tuttavia, forse ne abbiamo paura e lo riempiamo con tutto. La consapevolezza aiuta a trovare quel tempio nascosto dove puoi ritirarti ogniqualvolta vorrai essere in sintonia con la tua anima.» «Condivido il tuo pensiero.» Le nostre pause, che sempre più ricercavo dopo i discorsi, ci permettevano di fermarci e riflettere. Inizialmente non le capivo, pensavo fossero un modo di riposare e una perdita di tempo. Un giorno, grazie a Tatanji, ne avevo compreso l’importanza. Le pause, o meglio, il silenzio che intercorre tra un discorso e l’altro, aiutano a comprendere ciò che è stato appena detto. Il silenzio è necessario per trovare le risposte.

«Viviamo in una società che crea molti vuoti interiori per riempirli con desideri effimeri», riprese Shanti. «Ci offre ogni tipo di alternativa pur di farci dimenticare noi stessi. Spesso, quando ci manca qualcosa, cerchiamo ciò che lo riempie negli altri o negli oggetti. Che sia amore, sesso, denaro, emozioni o altro, cerchiamo in qualche modo di colmare i nostri vuoti interiori. In realtà, dobbiamo solo riscoprirci. Solo allora il nostro modo di confrontarci non sarà basato su ciò che manca, ma su ciò che possiamo donare di noi stessi.» Ero felice di essere in sintonia con lei. «Condivido ciò che dici e aggiungo che è importante trovare qualcuno che sappia sentirci con il cuore.» «Giusto, Kripala. Ciò che è veramente importante è trovare qualcuno che ci stia a sentire. Ascoltare, lo possono fare in molti. Sentire no, ed è bello quando accade. Puoi parlare in libertà sapendo che sarai accolto totalmente. Questo avviene perché non vi è nessun tipo di giudizio nei tuoi confronti, ma una completa accettazione di ciò che sei. Allora ti senti a tuo agio. Ogni problema viene compreso e spesso chiarito. I nuvoloni che volteggiano sopra la testa si trasformano in un bellissimo cielo azzurro.» Rimanemmo a osservare il panorama senza dire nulla. Sapevamo entrambi che questo silenzio era necessario per abbattere le nostre difese. Frantumare, una a una, tutte quelle barriere che nascondevano la nostra parte più preziosa, il cuore. Il silenzio era necessario. Il silenzio era il ponte che univa le nostre anime. «Non per farmi gli affari tuoi, mai hai pianto ancora per amore? Lo dico solo per curiosità», chiesi titubante. «Sì, sì, certo, solo per tua curiosità», esclamò ridendo. La imitai. Accadeva, quando ci si incontrava, di ridere spesso. Si rideva anche di nulla. Forse era questo il segreto della felicità: ridere e amare. «Posso dirti che sì, ho pianto ancora. Quando si ama può accadere. Un’antica leggenda indiana narra che le lacrime dell’amore possono essere sia di dolore sia di gioia. Le prime, salate come l’acqua del mare, nascono all’estremità dell’occhio e scivolano lungo il margine del volto quasi volessero fuggire. Sono lacrime di sofferenza e di dolore. Le seconde, dolci come il miele, nascono al suo apice e scendono fino alle labbra, quasi volessero farsi assaggiare. Sono lacrime di felicità e di gioia.»

Proseguimmo lungo le vie affollate e raggiungemmo l’ashram. Come sempre, salii in camera per rinfrescarmi e praticare i miei esercizi. Dopo circa un’ora, scesi in sala di meditazione. Tatanji mi attendeva per donarmi un po’ del suo tempo e per rispondere ad alcune domande sulla giornata trascorsa. Mi sedetti accanto a lui. «Fai del silenzio un tuo grande amico», disse dopo che ci fummo salutati. «Il silenzio è fonte di guarigione: più rimani in sua presenza, più l’anima se ne nutre.» Sorrise e mi offrì una tazza di tisana calda. «Allora, Kripala, com’è stato il tuo incontro odierno?» «Come per i precedenti, anche oggi ho appreso in consapevolezza. Non ero cosciente del potere del silenzio. Forse è per questo che tu le chiami rivelazioni. Ciò che è ‘velato’, o incompreso nella sua totalità, acquista una prospettiva nuova, un significato diverso, divenendo così una rivelazione.» «Esattamente. Il silenzio è la porta per entrare nel cuore. Come dal crepuscolo nasce l’alba, così dal silenzio nasce la luce della saggezza. Nel silenzio trovi le risposte. È tutto dentro di te, lo è sempre stato. Solo lo sciocco cerca l’acqua nel deserto quando è già nel pozzo di casa.» «Il pozzo è il cuore?» «Sì. È nel tuo cuore che risiede l’origine di ogni cosa. Lì troverai il tuo tesoro. Lì è nascosta la vera gioia. Sposta la consapevolezza dalle parole al silenzio e riuscirai a sentire.» «Qual è la differenza tra sentire e ascoltare, me lo spieghi meglio?» «C’è il sentire inteso come un avvertire sottile, quella sensazione intuitiva nei momenti di pericolo o quando qualcosa non va. Ma vi è anche un sentire più profondo, oltre le sensazioni: un sentire che scende nell’anima. Ascoltare è accogliere ciò che sta attorno a noi. È più fisico. Trova tempo per il silenzio, il tempo per connetterti con la parte più profonda di te: con la tua anima. Osserva un tramonto, il mare, la natura, cammina nel bosco, immergiti nella pace in silenziosa presenza. Quando getti un sasso in un lago calmo e piatto, sulla sua superficie si formano onde che si espandono ovunque, e non riesci più a vedere le sue profondità. Così sono le parole: tante onde superficiali che vagano attorno a noi, in ogni direzione, non permettendoci di vedere le nostre, di profondità. Solo in un lago calmo e puro la luna viene riflessa identica; similmente, solo nel silenzio più profondo possiamo scorgere la luce della nostra anima e

renderla manifesta. Pratica il silenzio giorno dopo giorno: trasformerà il tuo essere e, con il tempo, renderà puro il tuo cuore e le tue parole.» «Da quello che ho capito, la pratica va appresa come le lezioni a scuola.» «Puoi iniziare semplicemente a metterti in tranquillità e a rilassarti. Calma il respiro e osservalo. Puoi praticare in ogni luogo e periodo. Quando cucini, quando guardi un panorama, quando ascolti, quando cammini. Più ne fai esperienza e più non potrai farne a meno. Più lo cerchi e più ne sarai avvolto. L’anima si rivela nel silenzio, nei momenti di assoluta tranquillità. Non respingere nulla, presta attenzione a qualsiasi messaggio.» «Più lo pratichi e più non puoi farne a meno», ripetei. «Come può essere?» «Immagina il silenzio come una bevanda dolce. Ne bevi un sorso e ti accorgi che ti piace. Allora ne vuoi di più e non hai intenzione di smettere. Lo stesso accade con la presenza silenziosa.» «Ci vuole molta energia per la pratica, presumo.» «Quando rimani nel silenzio, la tua energia non va sprecata, e quando non va sprecata la ritrovi nel momento del bisogno. Osserva il respiro, poi, scendi in te stesso in profondità, ancora e ancora, fino a scomparire.» Tatanji guardò fuori dalla finestra, si era fatto tardi. Decise di ritirarsi nella sua stanza. Lo salutai augurandogli una notte serena. Lui ricambiò a modo suo. «Che il silenzio ti avvolga e nutra la tua anima.»

6

Cambiare è fluire

FORSE, erano i modi in cui piegava il viso quando sorrideva. Forse, erano i movimenti del suo corpo mentre camminava. Forse, era tutto l’insieme di espressioni, sorrisi, gentilezze che la rendevano così attraente alla mia vista. Come una medusa avvolge la propria preda e non la lascia, così lei mi avvolgeva il cuore. Forse, questo è l’amore: essere persi nei pensieri dell’amata, più di qualsiasi altro pensiero. Tenere tra le mani il suo cuore era tutto ciò che desideravo, null’altro. Una mano si appoggiò sulla mia spalla, scrollandomi. Aprii gli occhi. Era Tatanji. Nessun raggio di sole penetrava in camera, nessun suono mattutino proveniva dall’esterno. Era ancora notte. «Buongiorno, Kripala.» «Buongiorno, Tatanji.» «Vestiti, tra un po’ usciamo. Ti porto in un posto particolare.» Non attesi oltre. Mentre si accingeva a uscire dalla stanza, mi infilai in bagno a rinfrescarmi. Guardai l’ora: le quattro e qualche minuto. Ero curioso di sapere dove Tatanji mi avrebbe portato per svegliarmi così presto. Mentre mi preparavo, sentii la melodia delicata del flauto. Ascoltare ogni giorno questi suoni era una carezza per l’anima: già alle prime note donavano serenità. Conclusi le mie pratiche e scesi al piano di sotto. La prima cosa che notai furono i gatti acciambellati in un angolo a sonnecchiare. Risi: durante il giorno stavano sempre o quasi a divertirsi. Osservarli ora a nanna, così tranquilli, pareva impossibile. Erano raccolti, o meglio, avvinghiati l’uno all’altro, e somigliavano a un gomitolo di lana colorata. Non si accorsero neppure dei miei movimenti mentre li superavo attraversando la sala.

Tatanji, nel frattempo, vedendomi arrivare smise di suonare. Ripose il flauto nella sua custodia, si alzò e mi indicò la finestra. «Guarda, è ancora buio, ma tra poco sorgerà il sole. Quello che vedi ora è diverso da ciò che sarà. Tutto cambia e si trasforma.» «Sì!» esclamai. «Nell’universo nulla è inerte. La vita è un movimento continuo, tutto evolve in qualcos’altro.» «Niente può stare fermo?» chiesi cautamente. «Nulla può restare immutato, ogni cosa è anitya in sanscrito, cioè impermanente. Se fossimo coscienti che tutto cambia in qualcos’altro, avremmo un mondo diverso da ciò che è adesso, e avremmo compreso in parte il significato dell’esistenza umana. Il velo dell’illusione che ci divide dalla realtà è potente. Distinguere il vero dalla finzione è saggezza. Quando lo comprenderemo, daremo a ogni cosa il giusto valore.» Uscimmo dall’ashram e ci inoltrammo per le buie vie interne della città, camminando per una buona mezz’ora. In strada, solo persone che dormivano sdraiate o appoggiate ai muri avvolte da coperte; alcune da sole, altre in piccoli gruppi. Poco distante, diversi cani randagi si azzuffavano, mentre, sul lato opposto, due vacche riposavano a terra. Le stradine si susseguivano una dopo l’altra e, a mano a mano, le vie si facevano sempre più intricate. Nell’aria aleggiava un intenso odore di legno bruciato misto a incenso. Arrivammo finalmente in prossimità di un ghat. Da lontano si intravedevano alcune pire accese per la cremazione dei defunti. Ci sedemmo lungo le scalinate. «Cosa stai guardando?» mi chiese Tatanji. «Osservo le cremazioni dei corpi. Erano esseri viventi, esseri umani; nati, cresciuti, hanno amato, sofferto, gioito, e ora eccoli qui, dove finiremo tutti.» «Esatto. Questa è la conclusione del ciclo della vita: la morte. Attorno alle pire vi sono i famigliari per dar loro l’ultimo saluto e celebrare il passaggio.» Notai che le cremazioni proseguivano oltre la nostra vista, talvolta in modo ordinato, talvolta no. Producevano una fiamma intensa e un immenso calore che percepivo a seconda della direzione del vento, oltre a una quantità infinita di braci scintillanti che si innalzavano nell’oscurità.

Sembrava che il cielo si illuminasse di nuove stelle vibranti, alcune rosse, alcune gialle e altre arancioni. Anni addietro, alcuni amici mi avevano parlato di questo luogo sacro. Viaggiando per l’India vi erano passati e, rimasti affascinati, mi avevano detto che per rispetto verso la tradizione e le varie cerimonie era vietato fotografare i rituali funebri. Nulla di quello che stava accadendo doveva essere ripreso perché sacro. Per i non induisti non vi era possibilità di vedere, se non da lontano. In ogni caso, ovunque si guardasse si percepiva un’energia quasi soprannaturale. Domandai a Tatanji come si chiamasse quel luogo. «Manikarnika Ghat. È una zona sacra della città e, come avrai capito, qui vengono cremati i defunti. Molto tempo fa vi era più spazio per queste cerimonie, più terreno, ma nel corso degli anni l’acqua ne ha sommerso una parte. Non c’è superficie per tutti, e allora questi rituali avvengono, come vedi, anche nelle vicinanze dei ghat. L’odore che senti può essere scioccante perché è forte, ti travolge, ma ricorda come la vita che ha avuto inizio abbia anche fine. Da diversi secoli questo luogo offre la liberazione dalle rinascite a chi segue strettamente i precetti religiosi.» Continuò informandomi che la cerimonia della cremazione durava solitamente circa tre ore, e che qualsiasi parte rimasta del corpo bruciato veniva gettata nel fiume. Rimasi in silenzio. Tutto, per me, era surreale. Continuai a osservare mentre Tatanji mi raccontava che negli ultimi anni molte persone si erano arrabbiate per l’aumento del prezzo del legname utilizzato per queste celebrazioni, e perciò non potevano partecipare. E non tutti potevano assistere, anche perché attorno alle pire vi era spazio sufficiente solo per i parenti. Mi accorsi che alcune persone prelevavano della polvere da una piccola ciotola e la spargevano lungo il Gange. «Cosa stanno facendo?» Tatanji osservò la direzione indicata dalla mia mano. «Per i motivi che ti dicevo prima, molte persone non possono cremare i loro cari in questo luogo. I parenti allora vi portano solo le ceneri e le disperdono nel fiume sacro. Solo chi ha vissuto in questa città o nella periferia ha la grazia di lasciare le proprie spoglie in questo luogo e in queste sante acque.»

«Molte persone, a pochi passi dal fiume, compiono dei movimenti con candele accese, piccoli gesti attorno al volto e al corpo», dissi. «Qual è il loro scopo?» «È un’antica usanza, serve per ricevere il massimo dalle benedizioni. Le loro azioni sono rivolte alle divinità. Il fuoco serve per allontanare qualsiasi maleficio, demone o spirito maligno. I gesti che compiono ricordano la simbologia del cosmo, le stelle, i pianeti; tutto ruota attorno alla Coscienza Cosmica che è ovunque, e questi movimenti le rendono omaggio.» Da lontano mi giungevano nitidi alcuni rumori come di panni sbattuti, in sincronia. Domandai a Tatanji di cosa si trattasse, e mi rispose che erano gruppi di donne di diversa età che, di prima mattina o prima del sorgere del sole, arrivavano lungo le scalinate e facevano il bucato nel fiume. «Le lenzuola vengono intrecciate come un tempo per poi essere battute con estrema forza sulle scalinate. Questo accade tutto il giorno, dall’alba al tramonto.» Più il tempo passava e più mi accorgevo che la città stava diventando sempre più rumorosa e caotica. Tuttavia, la mia curiosità non aveva fine: tante domande mi ruotavano in testa. «Quanti corpi vengono cremati durante il giorno?» domandai a Tatanji. «Diverse centinaia durante tutta la giornata e anche di notte, ma, come ti dicevo, non tutti possono permetterselo.» La mia attenzione si spostò altrove, e notai una discreta quantità di rifiuti lungo le scalinate e la riva. Scarti di cibo, vestiti, plastica, giornali e altro, tutto era a terra e spesso accanto al fiume. Inoltre, un numero imprecisato di carcasse di animali, probabilmente vacche sacre, galleggiava sull’acqua. Ciò mi scioccò. Nel frattempo, Tatanji prese dallo zainetto che aveva con sé una grande foglia verde ancora fresca che pose a terra. Conteneva una piantina – una calendula, mi spiegò – e uno stoppino che, acceso, produsse una fiamma. «Va’», mi esortò, «adagiala sull’acqua ed esprimi un desiderio.» Mentre facevo come richiesto, mi venne in mente un’antica invocazione buddhista per la felicità e la liberazione dal dolore, di tutti gli esseri viventi, che recitai mentalmente. Dopo qualche istante di riflessione, mi congedai per ritornare da Tatanji, e con la luce dell’alba che ci illuminava rientrammo in ashram giusto in tempo per la colazione. Lì ci attendeva Shanti.

Concluso il nostro pasto in serena cordialità e qualche risata, e dopo aver salutato Tatanji, uscimmo per recarci all’appuntamento giornaliero. Fremevo dalla curiosità, non sapendo chi avrei incontrato. Lungo il cammino, Shanti mi chiese se avessi paura d’amare. «Non temo l’amore, anche se talvolta la paura d’amare esiste», risposi. Si fece seria e si fermò, osservandomi dritto negli occhi. «L’amore non conosce paura. Come potresti averne? Ogni istante che attraversiamo nel presente è diverso dal precedente. Non siamo la stessa persona che eravamo ieri, come non saremo quella di domani. I timori che avevi un tempo, ora ti fanno sorridere. Tutto è in continua evoluzione e i cambiamenti fanno parte della vita. Ciò che sei nel profondo è luce e amore infinito. Se vuoi conoscerti, sii centrato nell’essere.» Riflettei mentre ci spostavamo lungo vie laterali meno affollate. Shanti continuò a parlare. «Tempo fa, Tatanji mi disse: ‘Le paure sono di due tipi. Le prime non sono altro che apprensioni, ansie dovute soprattutto alla nostra immaginazione. Abbracciale. Se le accetti portandole nella tua presenza, scompariranno. Le seconde si distinguono, invece, perché sono reali situazioni di pericolo, come la minaccia immediata per la propria o altrui incolumità’.» Ripensai anche a quelle parole, poi ragionai: «Tutto sta nell’accogliere. Lo sto capendo sempre di più, o meglio, lo sto realizzando in me». «In realtà è molto semplice, siamo noi che complichiamo tutto. Accogli le tue paure e portale nel tuo amore. Ti renderai conto che erano tutte illusioni create dalla mente. L’amore vince qualsiasi paura.» Ci sedemmo su alcune scalinate da cui si poteva scorgere bene il fiume. «Quando ho conosciuto Tatanji, non ero tanto in presenza», disse Shanti. «Fisicamente sì, lo ero, ma spesso rivivevo fatti del passato che mi facevano star male. Erano situazioni che non volevo perdonare e mi rendevano triste, facendomi soffrire. Un giorno, vedendomi in quello stato, Tatanji si avvicinò a me e iniziammo a parlare. Da allora mi rimase in mente un passaggio che ho fatto mio. «Con la dolcezza simile a quella di un padre per sua figlia, mi domandò: ‘Questo episodio è accaduto tempo fa?’ «‘Sì, Tatanji, un po’ di tempo fa.’ «‘Quindi nel passato?’ «‘Sì.’

«‘Ora dove sei? Nel presente, giusto?’ «‘Sì.’ «‘Bene, e ora dimmi: che ci fa il ricordo di un’emozione negativa passata nei tuoi pensieri di adesso? Non fa altro che togliere energia al tuo presente. Lascia andare, lascia fluire. Vorresti a casa tua un ospite indesiderato che ti viene a trovare più volte al giorno, rimanendo con te per parecchio tempo e facendoti soffrire? Immagino di no. Resta qui, vivi l’attimo, vivi ora!’ «Io rimasi in silenzio di fronte a quella domanda così semplice e diretta. «‘Pulisci la mente dalle impurità dei pensieri passati o futuri che alterano la tua pace. Spezza questo legame temporale. Non vivi in nessun altro tempo che questo momento. Se devi andare nel passato, scegli di rivivere bei ricordi e pensieri che ti possano aiutare nei momenti difficili del presente. Altrimenti, lascia perdere.’ Questo mi fece capire che tutto cambia nel tempo. Portare nel qui e ora il peso di avvenimenti negativi del passato è illogico e non produce nulla di buono; di conseguenza, è saggio cambiare i nostri pensieri per vivere meglio.» Riprendemmo a camminare. «Osserva.» Shanti mi mostrò diversi negozi in cui si vendevano sari ricamati. «Gli artigiani realizzano a mano, ancora ai giorni nostri e con materiali semplici, queste bellissime sete pregiate. I tessitori di Varanasi sono conosciuti in tutta l’India e oltre i confini. Gli artigiani, o meglio artisti, che creano questi capi raffinati utilizzano oltre alle sete pregiate anche filamenti d’argento e oro. I sarti più bravi possono impiegare un mese intero per un capo fatto a mano.» «Incredibile.» «Lo senti questo rumore?» «Intendi un brusio ritmico?» «Sì. È il suono di centinaia di telai a mano che continuano ininterrotti a creare le sete pregiate. L’industria manifatturiera è la principale attività della città.» «Non vedo donne o uomini che li indossano», obiettai. «Questi sari altamente decorati e costosi vengono indossati nei matrimoni o nelle grandi celebrazioni.» «Come quelli che si vedono nei film indiani.»

«Sì. Nei secoli passati le più grandi rotte commerciali attraversavano Varanasi, conosciuta soprattutto per le sue sete pregiate. Nel corso dei secoli l’arte del ricamo è stata influenzata da contaminazioni cinesi e mediorientali. La zona che stiamo attraversando è conosciuta come Lallapura ed è un quartiere musulmano. Come puoi vedere, prevale il verde rispetto al solito zafferano presente in città.» «Perché qui prevale il verde?» «È associato normalmente alla tradizione del paradiso islamico.» «Molti artigiani sono fuori dalla loro bottega. Come mai?» «Per far riposare gli occhi. Rimangono concentrati per ore sul telaio sotto luci artificiali; così, per staccare e prendere un po’ di luce, di tanto in tanto escono in strada.» Arrivammo davanti a un bellissimo e colorato giardino, in cui fiori e piante erano disposti con cura. Il giardiniere doveva aver sicuramente lavorato con molta dedizione. I profumi avvolgevano i nostri sensi. Ci sedemmo sulla soglia dell’abitazione, contemplando tale bellezza. All’improvviso comparve una simpatica donna di mezza età vestita di bianco con un cappellino dello stesso colore. «Namasté, vedo che siete già arrivati», disse salutandoci. Shanti e io ricambiammo il saluto. «State bene? Volete qualcosa da bere?» «Per me no, grazie», disse Shanti. «Ti lascio in compagnia di Kripala, altri impegni richiedono la mia presenza.» Dopo aver pronunciato un grande namasté, si allontanò. «Mi chiamo Sundari», si presentò la donna. «Sono di origine tibetana, fuggita ancora piccola dal mio Paese dopo l’occupazione dei cinesi. Mi sono ritirata a Varanasi con la mia famiglia. Mio padre era un giardiniere giapponese e maestro zen. Incontrò mia madre in un viaggio a Katmandu, si sposarono e vissero assieme finché non vi fu l’occupazione.» «Ecco come si spiega questo bellissimo giardino», osservai. «Ho appreso molto dai miei genitori, specialmente da mio padre. Ricordo ancora quanto tempo dedicasse alla cura del giardino; io lo osservavo spesso dalla finestra della mia stanza, e per me era una magia.» Entrammo in casa. La prima cosa che notai fu la miriade di piante e fiori di ogni tipologia, grandezza e colore, disposti un po’ ovunque. Ci sedemmo

in una stanza luminosa circondata da molti vasi colorati e piante succulente. Un profumo intenso e variegato inondava l’ambiente. «Osserva come in natura tutto sia il risultato del cambiamento», mi disse. «La natura ci riporta a noi, è il punto d’unione tra materia e spirito. Quando siamo in contatto con lei, ci sentiamo a nostro agio: questo è il suo potere. Ci dona serenità, pace e armonia, comunica con noi attraverso energie invisibili. È un luogo magico sospeso tra due realtà, quella fisica e quella spirituale, ed è per questo che in molte culture e tradizioni la natura viene chiamata madre: come ogni madre, si prende cura dei suoi figli.» Sundari mi osservò in silenzio come per capire se avessi compreso le sue parole; poi, forse rassicurata dal mio sguardo, riprese a parlare. «Cosa ci insegnano le stagioni? Che tutto cambia e si trasforma. Che ogni cosa ha il suo tempo, e che, lasciando andare ciò che è stato, permettiamo al nuovo di arrivare. Che non c’è sempre il caldo e il sole, ma che il bello si trova anche nella pioggia e nella neve. Le stagioni ci insegnano a trasformarci, o meglio, ad adeguarci al flusso della vita.» «Cosa intendi per ‘adeguarsi al flusso’?» «Come in natura, lascia che la vita fluisca, che ti attraversi. Fatti trasportare, non opporre resistenza. Come l’acqua si adegua al suo contenitore, così adeguati al flusso della vita. La vita è cambiamento e il cambiamento è come il mare: può essere quieto oppure in tempesta. L’importante è attraversarlo. Fluire è essenziale per proseguire.» «Accettare il cambiamento significa lasciar andare le cose, se ho capito bene», riflettei. «Ti racconto una piccola storia per farti capire il significato di lasciar andare. «Tre monaci stavano portando dei vasi d’olio al loro monastero. Da alcuni giorni praticavano il silenzio interiore su consiglio del monaco anziano. Mentre camminavano, giunse un forestiero che si era perso nella foresta e chiese indicazioni per il villaggio più vicino. I tre monaci si guardarono. Il primo, il più giovane, decise di interrompere il voto e indicò all’uomo la strada più breve per arrivare al villaggio. Il forestiero ringraziò e partì. I tre monaci ripresero a camminare, ma, dopo aver percorso un breve tratto di strada, il secondo monaco interruppe il silenzio sgridando il giovane per aver parlato. Il terzo, nel frattempo, continuò a borbottare dentro di sé e, arrivati al monastero, sbottò chiedendo ai due come mai

avessero interrotto il voto. L’anziano monaco della comunità aveva osservato e sentito la discussione. Si avvicinò ai tre monaci. ‘Venerabili fratelli, è vero che il monaco più giovane ha parlato e risposto a quel forestiero, ma il suo è stato un atto di gentilezza e il fatto si è concluso lì. Voi, invece, non avevate alcun motivo per parlare; inoltre avete portato rancore per tutto il viaggio, invece di lasciarlo andare.’» Sundari mi osservò. «Hai compreso il significato?» «Sì, grazie, imparare a lasciar andare e fluire con la vita.» «Il fluire diventa parte dell’essere. Nulla da respingere, nulla da trattenere. Accettazione totale del divenire. Fluire è simile al lasciare andare. Lasciare andare non significa dare ragione o torto a quello che è stato, significa riportare nuovamente la consapevolezza nel presente. Comprendere che staccarsi dal passato è necessario per vivere bene il presente. Nel lasciar andare ritrovi la pace. Quando non ti aggrappi a nulla, sei libero di volare ovunque. Come le foglie di un albero, dobbiamo imparare a lasciarci andare, danzando e fluendo in leggerezza, lasciare che le cose seguano il loro corso.» Ero dubbioso. «Puoi spiegarmi meglio?» «Ogni cosa nell’universo danza in un infinito divenire. Tutto è movimento. Tutto scorre. Tutto fluisce in una danza cosmica. Impara a danzare. Danza nell’oscurità e nella luce, danza tra le tempeste e nella quiete, danza nel dolore e nella gioia. Danza sempre. Segui il flusso e lascia che l’esistenza ti conduca.» «La mia vita è piena di difficoltà, è una lotta continua.» «Chi ne è privo? Le difficoltà ci sono e ci saranno sempre, ci spingono a trovare nuove opportunità e soluzioni.» «Alcuni giorni fa il maestro Arjuna mi ha spiegato che la vita è spesso una tempesta, come dici tu, ma va affrontata», ribattei. «Sì, dal suo punto di vista ha ragione. Un giorno lo incontrai e ricordo una sua frase: ‘Lasciati macinare dalla vita, lascia che essa ti frantumi. Perdere le proprie sicurezze talvolta è la cosa più bella che ci possa capitare.’ La mia visione è diversa: affrontare l’esistenza in modo più armonioso, direi quasi fluido. Ovviamente vi sono diversi modi di viverla. Il concetto che la vita è una lotta e vada affrontata è uno di questi. Tutto dipende da come interpreti l’esistenza. Puoi viverle entrambe, oppure sentirti più attratto da una o dall’altra, o da altre ancora. C’è chi va

controcorrente e affronta tutto di petto, oppure chi accoglie tutto in sé e si fa trasportare armoniosamente.» «Lottare contro i propri demoni è difficile. Forse, come dici tu, è il caso di danzarci assieme», esclamai. Si mise a ridere, cosa che feci pure io. «È difficile lottare contro i propri demoni, ma sii paziente», mi suggerì. «La vita è espansione e contrazione. Respira.» «Si dice che le stelle nascono da grandi scontri, praticamente dal caos.» «Quello che noi chiamiamo caos, in realtà, è un ordine preciso e divino. Nulla è una coincidenza, nulla è un caso. Ogni avvenimento nell’universo, pur mostrandosi in un caotico disordine, tende all’equilibrio. L’armonia si trova al centro degli opposti.» «Dov’è il nostro centro?» «Nel cuore», rispose. «Trovare l’equilibrio», dissi, accentuando la frase, «penso sia la cosa più saggia da farsi, ma non la più semplice. Tutto ciò che è nuovo o diverso solitamente ci destabilizza o ci fa paura. Come esseri umani cerchiamo sicurezza, qualcosa che ci ancori. Ciò che più temiamo è trovarci nella sua mancanza.» «Ogni cambiamento spesso genera paura perché richiede un mutamento di mentalità, mentre la sicurezza è simile a un antico castello, le cui mura ci proteggono da ciò che sta fuori. Nel castello ti senti al sicuro, ma la verità è che ti imprigiona. La vera illusione è rimanere attaccati a ciò che vorremmo non cambiasse mai.» «Dovremmo abbattere i muri, allora.» «Sì. Quando accade, la paura scompare e la vita si esprime.» «Però è difficile uscire dalla propria prigione.» «Spesso molti preferiscono vivere nella loro comoda gabbia dorata piuttosto che essere salvati. Rassicurante è rimanere in ciò che è noto piuttosto che affrontare quello che non si conosce. Tendiamo a programmare il più possibile per sentirci sereni. Abbiamo paura che piccoli cambiamenti possano far crollare le nostre sicurezze; in realtà è l’opposto. Le novità ci permettono di scoprire le nostre potenzialità e nuove dimensioni creative. Per addentrarci in qualcosa di diverso dobbiamo spezzare le catene che ci tengono legati al vecchio, creando spazio per nuove esperienze.»

«Abbiamo paura di cambiare», sentenziai. «Spesso le nostre maggiori paure provengono da ciò che non conosciamo. Di fronte alla paura, come esseri umani solitamente scappiamo o l’affrontiamo. In verità vi è un’altra possibilità: accoglierla. Puoi affrontarla e dunque combatterla, puoi fuggire e dunque lasciartela dietro, oppure l’accetti in te perché parte del tuo vissuto. Accogliendola, lentamente svanirà.» «In questi giorni, nei vari incontri, sto scoprendo il vero significato di ‘accogliere’», ammisi. «Una parola che non avevo mai preso in considerazione e che è fonte di liberazione.» Sundari annuì, poi mi fece cenno di alzarmi. Ci incamminammo attraverso le vie del maestoso giardino. «Accogliere è tutto», disse. «Accogli le paure e fluisci nel cambiamento come fanno le nuvole. Solo allora danzerai con la vita e potrai cambiare veramente. Se riesci a essere come una nuvola capirai il significato della transitorietà della vita.» «In che senso?» «Hai mai notato una nuvola identica all’altra o identica al giorno prima?» Scossi la testa. «Esatto. Se le osservi nelle loro infinite forme, ti insegnano che dal nulla tutto prende forma per ritornare nuovamente al nulla. Tutto è impermanente.» «Impermanente, bella parola.» «È una parola importante in molte filosofie. Tutto è transitorio e, più ne sei consapevole, più la realtà acquisterà un significato profondo.» «Io mi sento sempre identico, ogni giorno», ribattei. «Come puoi dire di essere sempre lo stesso? Non si è mai la stessa persona che si è ora. Ogni giorno qualcosa di noi cambia. Le esperienze ci trasformano, e apprendere ci accresce. Vivere significa evolvere, vivere è cambiare, vivere è fare ciò che ci fa paura. Vivere vuol dire talvolta spezzare la routine che ci lega giorno dopo giorno agli stessi schemi, agli stessi percorsi e agli stessi modi di essere. Solo cambiando possiamo rinascere ogni istante. L’unica costante nella vita è che non vi è una costante.»

«Crescere significa migliorarsi, ma crescere non significa sempre maturare», obiettai. «Hai detto bene, ragazzo mio. Se vuoi crescere devi cambiare, ma crescere non vuol dire sempre crescere nel giusto equilibrio. Ciò che sei ora deriva dall’aver maturato saggezza, si spera, dalle tue esperienze passate. Per evolverci, oggi dobbiamo essere migliori di quello che eravamo ieri, e domani migliori di quello che siamo oggi. Crescere è spesso doloroso, ma è nel dolore che ci forgiamo.» «Non tutti sono consapevoli dei propri sbagli e a causa di ciò non cambiano», esclamai. «Sì, spesso è come dici. Non puoi cambiare le persone che non sono consapevoli dei propri errori, la soluzione sta nel cambiare la tua reazione al loro modo d’essere. Nella routine quotidiana la vita scorre ed è importante viverla. Spezzare l’abitudine è un atto di coraggio. Sappi distinguere sempre ciò che ti libera da ciò che ti imprigiona. Non temere, rimani fiducioso e positivo. Alla larva serve tempo per trasformarsi in farfalla.» Concludemmo la nostra breve passeggiata e ci sedemmo nuovamente. «Hai mai visto quanto è grande l’albero di baobab?» mi domandò Sundari. «Sì.» «Hai visto anche i suoi semi?» «Sì. Sono molto piccoli, assomigliano a piselli.» «Infatti, e questo ti fa comprendere che ogni cosa è diversa da come appare. Non pensare che un passo sia insignificante. Dovremmo iniziare col poco. È con il poco che iniziano i grandi cambiamenti. Le vere trasformazioni si hanno nelle piccole evoluzioni. Se vuoi essere qualcosa di diverso da ciò che sei ora, devi trovarti con persone, luoghi ed esperienze straordinarie; soprattutto, deve cambiare qualcosa in te. Il tuo stile di vita può subire miglioramenti enormi con piccoli ma costanti atti pratici. Scegli di camminare invece di prendere l’auto, scegli le scale invece dell’ascensore, prepara una ricetta invece che comprare cibo confezionato, leggi alcune pagine di un libro invece di rilassarti facendo zapping in TV, e così tanto altro. La vera trasformazione avviene quando accettiamo di cambiare noi stessi in qualcosa di migliore di ciò che siamo. Il cambiamento non accade quando sei legato al passato o al futuro. Il cambiamento avviene nell’accettazione del presente. Più avrai coraggio di

accogliere, più sarà facile proseguire. Cambiando consapevolezza, trasformiamo la nostra realtà. Ogni altro tentativo di cambiamento, se non parte da noi stessi, è vano. Possiamo evolverci solo se lo vogliamo, se c’è uno sforzo cosciente.» «A molte persone non interessa cambiare», obiettai. «Arriverà sempre un momento in cui sarà necessario, e questo accadrà quando sarai pronto per farlo, quando la tua anima sarà pronta per nuove esperienze.» Fu allora che ricordai la frase del mio primo giorno in ashram: Ogni cosa avviene sempre nel tempo e nel luogo giusti. Ogni cosa avviene quando sei pronto a riceverla. Sta a te trasformarla in un’opportunità per la tua crescita o in un ostacolo per la tua evoluzione. «Posso affermare che nulla è permanente e tutto è mutevole», volli concludere. «Saggio è colui che lo comprende. Osserva le montagne: pur vivendo milioni di anni, hanno fine anche loro, sgretolandosi. Come pure i ruscelli che diventano fiumi per poi scomparire in mare. Come le stelle, dapprima immense e luminose, tornano polvere. Solo due fratelli da sempre siedono indisturbati, osservano e sorridono: il tempo e il cambiamento.» Mentre ragionavo su quelle parole, Sundari mi avvicinò un piatto con un po’ di frutta che aveva già preparato sulla panca in cui sedevamo. «Come viviamo le nostre trasformazioni spetta solo a noi e a nessun altro. Possiamo accogliere il nuovo o rimanere legati al vecchio. Tutto sta nel cambiare la nostra percezione. Ed è per questo che è importante fluire e adattarsi a ogni situazione. Fluisci come il vento, sorvola tutte le cose e non aggrapparti a nessuna di esse.» Guardandosi intorno aggiunse: «Mi spiace interrompere la nostra discussione, ma oggi per me la giornata non è ancora finita. Tra poco ho un incontro importante di lavoro e dobbiamo salutarci in anticipo. Non era in programma e avrei voluto volentieri passare più tempo con te». «Non importa, Sundari. Sei stata molto preziosa.» Ricordai che, prima di lasciare l’ashram quella mattina, Tatanji mi aveva informato che Shanti non sarebbe venuta a prendermi. Salutai Sundari e la ringraziai per l’ospitalità e per i suoi insegnamenti. Non feci in tempo a incamminarmi che mi chiamò. Mi girai.

«Kripala, ricordati che siamo su questa terra per vivere esperienze e comprendere il mistero dell’esistenza.» Chiuse gli occhi e portò le mani giunte al volto per un namasté. «Ti auguro di vivere in grandezza e di amare in profondità. Ti auguro di osservare più tramonti e trovare molti arcobaleni. Ti auguro di essere semplice e di rincorrere i tuoi sogni. Ti auguro di essere entusiasta e portatore di sorrisi. Ti auguro di aiutare il prossimo al meglio delle tue possibilità. Ti auguro di abbracciare forte la vita, sempre, e nella sofferenza di stringere i denti e andare avanti. Siamo tutti Uno. Sii forte. Sii felice.» La ringraziai con un grande namasté senza far trapelare la commozione. Ero onorato di essere stato accanto a un’anima così meravigliosa, e felice di aver appreso la sesta rivelazione. Arrivai in ashram e, come al solito, mi rinfrescai per poi meditare. Poco dopo, scesi in sala di meditazione, emozionato più del solito nel confrontarmi con Tatanji. Mi stava aspettando e mi versò un po’ di tisana fumante e speziata. «Namasté, Kripala. Come stai? Sei felice?» «Sì, sono felice, Tatanji. Felice per la condivisione con Sundari e per quello che ho con te ora.» «Bene, mi fa piacere. Che tipo di riflessioni ti ha suscitato l’incontro di oggi?» Ci mettemmo comodamente seduti l’uno di fronte all’altro. «La conferma di ciò che Sanjay mi aveva insegnato», risposi. «Il presente è l’unica realtà, tutto è impermanente, ogni istante si trasforma in quello successivo. Nulla è perenne. Che senso avrebbe per la mente vivere nel passato o nel futuro se tutto è in trasformazione continua?» Dopo aver sorseggiato un po’ di tisana, Tatanji guardò un gatto vicino a lui. «Come per gli animali, anche a noi, quando siamo piccoli, piace giocare. Crescendo maturiamo, altre priorità prendono il sopravvento. Siamo in continua e inarrestabile evoluzione. Spesso per l’essere umano l’evoluzione si trasforma in involuzione a causa della sua incoscienza, della sua incapacità di comprendere e realizzare.» Annuii al suo ragionamento e gli confidai ciò che più mi aveva colpito. «Oggi mi è piaciuta in particolar modo una parola: impermanenza.» Lui mostrò un leggero sorriso e bevve ancora un po’ di tisana. «Tutto è impermanente. L’acqua si trasforma in ghiaccio e il fuoco in calore, il seme

in albero e il fiore in frutto. Ciò che noi chiamiamo fine, non è altro che un nuovo inizio. Il bruco ne è l’esempio più evidente. Il suo rinnovamento è una rinascita e la sua fine, in realtà, una trasformazione. Il segreto è sapersi adattare ai cambiamenti che la vita ci impone. Se sappiamo accogliere e divenire qualcosa di nuovo ogni volta, nulla ci potrà spaventare. Impara a fluire e ricorda che il fiume si riversa in mare solo se accetta di lasciarsi andare. Supera i tuoi limiti, sii migliore di quello che eri e di quello che sei. Rinnovati sempre, quando ne hai la possibilità. Come i camaleonti, che a seconda dell’ambiente in cui si trovano mutano il loro aspetto, così è per l’uomo. Se vogliamo, possiamo cambiare il nostro atteggiamento in qualsiasi situazione. Possiamo creare nuovi inizi e talvolta trasformare i finali. La scelta spetta solo a noi.» «Come avvengono i cambiamenti?» «In tre modi, solitamente. Attraverso eventi esterni, attraverso la tua volontà e l’azione, oppure attraverso l’amore, perché l’amore trasforma, sempre.» «Allora non siamo noi a controllare gli eventi, bensì il destino.» «Come già ti ho rammentato nei giorni scorsi, agire è essenziale se vogliamo cambiare determinate situazioni. Non pensare mai al karma o al destino. Agisci e cambia quello che non ti piace. Benché tu sia stato influenzato dal passato, non prestare attenzione a esso, ma adotta pensieri di rinnovamento e fiducia nelle tue capacità.» «Penso che non si possa agire su tutto», protestai. «Ci sono cose che puoi controllare, agisci. Ci sono cose che non puoi controllare, accettale. Ci sono cose che ti controllano, liberatene. Lo Yin e lo Yang sono l’esempio più evidente. Girando su se stessi creano i mutamenti della vita. Ogni opposto è legato all’altro. Ogni stagione alle successive. Ogni notte al giorno. Tutto cambia, tutto fluisce. In verità tutto avviene in noi.» «In che senso?» «Se scruti in profondità, non vi è nulla da cambiare, da cercare o da perdere. Tutto è già in te. Rimani nell’essere presenza. Vai al di là di questo o quello. Allora tutto sarà diverso senza dover cambiare nulla. Impara dall’acqua che sceglie la via di minor resistenza. Non trasformare nessun ostacolo in una diga, ma fluisci per proseguire. Ciò che è importante sempre è l’essere infinita presenza.»

«Sundari mi spiegava che il lasciar andare è fondamentale per vivere bene il qui e ora. Ma come si dimenticano situazioni che nel passato ci hanno ferito, e ora non riusciamo a perdonare?» domandai. «Lascia andare ciò che è stato, ma fa in modo di ricordare perché non avvenga ancora. L’atto del perdono implica l’accettazione del presente.» «Cosa intendi?» «Perdonare significa: lasciar andare ciò che ti ha colpito. Solitamente è un episodio legato al nostro passato. Perdonando, accetti di liberati da ciò che ti teneva prigioniero. Il perdono implica ritornare al presente, trovando pace nell’essere.» «La nostra sfida più grande sta nel rinnovarci in continuazione. Ogni cambiamento ci rafforza e tempra il nostro essere. Il seme deve spingersi verso l’alto per trasformarsi in germoglio, alla larva serve forza per rompere il bozzolo e diventare farfalla, il salmone deve nuotare controcorrente per riprodursi. Ogni cambiamento incontra sempre una resistenza, è una legge della natura.» «Cosa intendi per resistenza?» «I grandi cambiamenti avvengono sempre nella sofferenza o nell’accettazione. Sofferenza di chi non vuole cambiare, o accettazione di chi vuole crescere. Se qualcosa viene a mancare, crea lo spazio necessario per qualcosa che deve arrivare. È semplice equilibrio. Osservati. Sei diverso da come eri al tuo arrivo. Hai accettato di accogliere il nuovo senza opporti, abbandonando vecchi schemi e modi di vedere. Sei cambiato. Inizia a farsi spazio in te una nuova consapevolezza. Va tutto per il meglio, sii fiducioso.» Lo ringraziai dal più profondo del cuore. Mi avvertì che aveva altri impegni, lo informai che quella notte io e Shanti non saremmo rientrati. Annuì e, salutandomi, si diresse nella sua stanza. Zigzagando attraverso le strette strade del centro, io e Shanti ci fermammo in una zona poco illuminata e ci sedemmo appartati su una scalinata in prossimità di un piccolo tempio. Era una di quelle nottate serene, con il cielo limpido e le stelle ovunque. Stranamente, in giro non vi era quasi nessuno. «Shhh», mi bisbigliò Shanti, portandosi un dito alle labbra.

Udivo le onde del fiume e in lontananza il recitare di antichi mantra. Alzando gli occhi, mi indicò una zona del cielo. «Guarda che meraviglia. Tempo fa Tatanji mi portò in questo luogo. Le varie celebrazioni erano terminate, mi sentivo amareggiata e triste. Erano i miei primi giorni in ashram e non mi ero ancora adattata. Mi disse: ‘Quando sei in cerca di risposte, guarda in alto. Osserva il cielo, poi, in basso, i tuoi piedi.’ «‘In che senso? Non capisco’, ero perplessa. «‘Cosa vedi sopra di te?’ «‘Stelle.’ «‘Tu arrivi da lì, sii felice. Ora, guarda in basso, cosa vedi sotto di te?’ «‘Terra, sabbia.’ «‘Tornerai lì, sii umile. Ricordalo, e non sarai sopraffatta, né dalla troppa felicità, né dalla troppa sofferenza.’ Questo disse Tatanji, risollevandomi l’animo. «Lo stesso vale per te. Quando ti senti troppo in alto, troppo importante o migliore di altri, guarda in basso e ricordati che tornerai terra. Sii semplice. Nello stesso tempo, quando ti senti triste, confuso, sfiduciato, indifeso, ricordati di osservare il cielo: arrivi da lassù. Sei polvere di stelle, sei figlio dell’universo.» Rimanemmo in contemplazione per alcuni minuti. Nessuno aveva intenzione di parlare. Osservare il creato era a dir poco qualcosa di immenso. «Tutti gli esseri umani su questa terra hanno osservato questa infinita vastità di stelle», riprese. «I poeti hanno dedicato versi alla loro bellezza e gli antichi sapienti ne hanno appreso i misteri. Mentre ciò che resterà di noi sarà nel tempo un ricordo lontano.» Rimasi affascinato da quelle parole, e guardandola negli occhi, presi coraggio. «Nulla è il cielo e le sue infinite stelle paragonate allo splendore della tua anima. Cos’è la musica più bella, in confronto alla melodia del tuo cuore? Vorrei imparare ad amarti. Non sarà un amore perfetto, ma sincero, di questo ne sono certo», dissi sottovoce. «L’amore umano può essere leggera brezza o tempesta, non è mai identico», esclamò. «Cresce, si evolve o finisce. Ma il vero amore non chiede, non impone, il vero amore si nutre nell’essere sempre se stesso.»

Rimanemmo in silenzio alcuni istanti continuando a osservare il cielo notturno. «Volevo confrontarmi con te riguardo a un discorso di questa mattina», dissi. «Io e Sundari stavamo parlando della transitorietà della vita, e le ho detto che mi sento sempre uguale. Mi ha fatto comprendere che invece sono sempre diverso in ogni momento, e, come dici tu, anche l’amore è sempre diverso.» «L’amore è sempre diverso, sì. Come puoi averne paura se non è mai lo stesso? Potresti essere identico al giorno prima, o a quello dopo? Ciò che eravamo un anno fa, è diverso da ciò che siamo ora. Non siamo mai gli stessi. La vita è un fluire continuo, che tu lo voglia o meno.» Lentamente si accostò a me. «Imparerò ad amarti nella nostra diversità», disse sottovoce. «Amarsi per ciò che siamo senza doversi adattare a nessuno. Vogliamo essere sempre perfetti, ma la realtà è che non lo saremo mai. Ciò che ci differenzia l’uno dall’altro è l’imperfezione, la diversità. Quei piccoli dettagli che creano la nostra meravigliosa unicità. Come l’amore, sempre unico e sempre diverso. Accettarsi senza compromessi è il punto di partenza per migliorarci. Divenire consapevoli di ciò che siamo e dell’amore che possiamo essere.» Si avvicinò al mio orecchio e sussurrò: «Abbracciami, stringimi forte, stringimi in questa notte piena di stelle». Sentiva la necessità di essere abbracciata spesso, sembrava volesse dissetarsi ogni volta, la sua era una sete profonda: sete d’anima. «Vorrei conoscere il tuo cuore», dissi. «Ti perderai.» «È ciò che voglio.» Restammo abbracciati osservando da lontano il fiume che scorreva lento. Lei capiva i miei stati d’animo, e un po’ ci somigliavamo. Ma era nelle nostre differenze che riuscivamo ad amarci. Lo scoprirsi era l’inizio. Il donarsi, il cammino. Quello che ai molti sembrava una dissonanza musicale, a noi appariva una meravigliosa sinfonia. Decidemmo di andare a dormire alle porte di Varanasi, nei pressi di una piccola cittadina, cercando il primo hotel disponibile. Non vi erano tante possibilità, il paese era piccolo e l’ora era tarda. Per strada c’erano solo alcuni gruppetti di persone che fumavano il narghilè e cani randagi che abbaiavano alla luna.

Arrivati, facemmo una doccia veloce, proseguendo poi con le nostre pratiche meditative. Una volta concluse, ci sdraiammo esausti sul letto, abbracciandoci. Ero pensieroso e se ne accorse. «A cosa stai pensando?» «Tra qualche giorno partirò. Ho la necessità immediata di trovarmi un nuovo lavoro. Non potrò ritornare in India a breve. Nella mancanza di te, conoscerò l’intensità del mio amore, ed è già così forte che urla la tua presenza», osservai. «La mancanza è normale se due persone si amano e, per quello che so, il vento della separazione aumenta la fiamma dell’amore, oppure la spegne.» Sapevo che potevo perderla, poteva accadere. Dovevo accettarlo, metterlo in conto tra le possibilità. Lei non mi apparteneva, eppure la nostra unione non poteva essere spezzata, né dal tempo, né dalla distanza. Un legame invisibile ci univa, ora più che mai. In quell’attimo scomparve lo spazio che separa due anime affini. La strinsi così forte che una parte di me sembrava fondersi con la sua. La strinsi come se non volessi più staccarmene. Lei era tutto ciò che avevo sempre desiderato, stretta tra le mie braccia a prendermene cura. Nel silenzio, sentivo il bisogno di respirare la sua quiete. Gli occhi si chiusero e i corpi si unirono. Il nostro amore si mescolava l’uno all’altro, non sapendo più dove terminava il suo e dove iniziava il mio. Esserci totalmente ci bastava.

7

Amore incondizionato

CI svegliammo con il sole che illuminava i nostri volti. «Buongiorno», dissi accarezzandole i capelli. «Buongiorno», rispose stiracchiandosi per riprendersi dal torpore. Avvicinandosi mi baciò la fronte e mi accarezzò il viso con delicatezza e grazia, per poi far scorrere le dita tra i miei capelli. Sembrava che a ogni ciuffo raccogliesse tutti i miei dolori passati, tutte le mie amarezze, portandole via, lontano. «Stavo pensando a un episodio avvenuto con Tatanji durante il nostro primo incontro», dissi. «Sono questi i primi pensieri che hai solitamente di mattina?» Ridemmo. «Tatanji aveva già intuito la nostra affinità d’anime.» «Cosa intendi?» «Il primo giorno, dopo le mie pratiche mattutine, mi fece aspettare che tu finissi le tue attività. ‘Attendi Shanti, sarà qui a breve; nel frattempo medita’, mi disse. ‘Quando arriva, ringraziala per la sua gentilezza e per il lavoro che svolge per noi. Faglielo presente ogni giorno. È un’anima antica e molto affine alla tua.’ Non capivo cosa intendesse con ‘affine alla tua’, ma sentivo che le nostre anime si conoscevano. Forse significava questo… cioè, la pensavo così. Quando ti ho visto, tutto mi è apparso man mano più chiaro.» «Per me è successo diversamente», rispose. «Ero certa che prima o poi avrei conosciuto un uomo simile a te, senza sapere dove né quando ti avrei incontrato. Prima che avvenga è come essere in attesa di un treno di cui non conosci né la provenienza né l’orario di arrivo. Molti vivono così: sai che si può fare, ma, in cuor tuo, speri sempre di imbatterti nell’amore. Poi sei arrivato. È stato un incontro di anime più che di corpi. Talvolta accade che

attraverso un’anima affine si raggiunga un’esperienza più intensa e profonda. Ci sono coppie che per scelta karmica vivranno assieme per sempre; per altri, invece, il percorso è in solitudine.» «Cosa intendi per scelta karmica?» domandai incuriosito. «È un accordo evolutivo tra anime prima di rinascere in forma umana. Qualsiasi scelta è spirituale e va oltre la nostra opinione; penso abbia a che fare con il karma di coppia. Ti faccio un altro esempio. Da tempo percepivo che il matrimonio combinato dai miei genitori non si sarebbe mai concretizzato; me lo sentivo, ed ero tranquilla. Anche Tatanji lo intuiva, ma non ne ha mai accennato né consigliato qualcosa a riguardo.» Shanti smise di parlare e mi fissò negli occhi. «Con te, mi sento al mio posto.» Le sue parole provenivano dal cuore, ne ero certo. «Dal canto mio, invece, ho capito che dovevo incontrarti qui, perché solo qui era il momento e il luogo perché avvenisse tutto ciò», ribattei. «Sono sempre stato confuso in amore; ho amato, ho commesso errori, ma come si può non commetterli se ami? Siamo sempre esseri umani che apprendono, e anche in amore si impara. Da quando ti ho vista il primo giorno, tutto è apparso chiaro, e ora tutto ha un senso. Ci vuole coraggio ad amare e abbandonarsi, ma l’amore è una fiamma che purifica e ti brucia nei suoi tormenti.» «Non hai paura di essere bruciato dal mio amore?» chiese. «Non desidero altro.» «Bruciamo, allora», esclamò. Ci stringemmo e ci baciammo come per consolidare e dare un senso alle parole appena pronunciate. Nascosta nelle sue profondità vi era l’energia di un uragano, pronto a esplodere in tutta la sua intensità. Trascorsero alcuni istanti, e confermò il mio pensiero. «Dentro me sento il fuoco della passione. Mi nutre, mi trasforma. È un amore che non vuole barriere.» «Come puoi essere certa che questo sia amore e non volersi bene?» le chiesi. «Il volersi bene tocca il cuore, lo avvolge. Quando ami, entri nelle profondità dell’anima, nelle sue viscere, nei suoi angoli più sconosciuti e protetti. Il cuore si infiamma. Chi ama è un incendio vivente.»

Rimanemmo abbracciati ascoltando i suoni della città e senza dire nulla. Dopo alcuni minuti, Shanti si alzò e si avvicinò alla finestra. «Tornando all’ultimo discorso», riprese, «conosci la differenza tra sentire il profumo di un mango e mangiarlo?» «Sì, certamente.» «Bene, ed è per questo che sono sicura che il nostro sia amore.» «Paragoni l’amore a un mango?» Si mise a ridere. «No, è una metafora. Ti posso raccontare quanto sia buono il mango, profumato, succoso e dolce, ma è solo mangiandolo che lo conosci davvero. Similmente, ora vivo d’amore.» «Io, invece, del tuo respiro», dissi. «In che senso?» «Il mio amore per te è simile al respiro, sei dentro me, sei ovunque in me. Voglio respirarti in ogni momento. Vorrei viverti così. Ecco, solo questo.» Vidi i suoi occhi arrossire, poi lacrimare. Quelle goccioline fatte di acqua e sale le scendevano lungo il viso. Goccioline simili alla rugiada del mattino, che scivola indisturbata sui petali di loto. «Penso sia la dichiarazione più bella che abbia mai sentito», disse sottovoce. Si avvicinò, baciandomi dolcemente. «È così bello», sussurrò. Mi baciò nuovamente, ma con più intensità. Poi, si ritrasse di poco. Con le dita si toccò lievemente le labbra, come volesse confermare a se stessa che il gesto appena compiuto era reale. Mi strinse a sé e, fissandomi negli occhi, sorrise. Il suo cuore pulsava forte sul mio petto e il suo respiro era in armonia col mio. Niente di più bello da sentire. Starsene così, l’uno accanto all’altra, in un unico battito, un unico respiro e una sola anima. Tutto ciò che volevo era amarla. Si può rifiutare un desiderio così grande del proprio cuore? Improvvisamente, Shanti interruppe i miei pensieri. «Quello che provo, quello che sento, non vorrei però diventasse dipendenza. Non voglio essere né necessaria né indispensabile, vorrei semplicemente un amore puro, senza legami, che non mi consumi il cuore ma che lo nutra», disse sottovoce. «Se pensi di amarmi, abbraccia ogni parte di me, anche quelle oscure, e colmale di luce.»

Attesi un attimo, poi presi coraggio. «In questo momento ho un solo scopo: donarti me stesso senza perdermi e amarti senza soffrire. L’unica strada è sapere che nessuno ci appartiene. Essere felice per ciò che si è senza reclamare nulla. Non è semplice, ma ci possiamo provare.» «Dobbiamo migliorare entrambi. Ogni giorno, per tutto il tempo necessario, e potrebbe non finire mai.» «In cosa si deve migliorare?» «Nell’amore, che vuole essere nutrito da piccole e grandi attenzioni. L’amore è trasformare piccoli semi in splendidi fiori. Amare è fiorire, cosa c’è di più bello?» Osservai la luce che entrava dalla finestra, e per qualche istante riflettei sulle sue parole. Tutto ciò che aveva detto era vero. Sentivo che il suo modo d’amare era profondo. «Accoglimi per ciò che sono e io farò lo stesso», disse Shanti. «Sì.» Le nostre differenze combaciavano in un incastro perfetto. Mi avvicinai a lei. «Vorrei guardarmi allo specchio, sapendo che quello che osservo è un uomo pronto ad amare. Tu riesci a mostrami ciò che è nascosto in me, riesci a portarlo in superficie e a farmelo abbracciare», conclusi. «Tempo fa, ero curiosa di sapere se esistesse qualcuno simile a me, simile nel modo di essere e di amare. Lo domandai a Tatanji. ‘Ogni testa ha un suo modo di pensare, come ogni cuore ha un suo modo di amare. Non possiamo insegnare ad altri come farlo, né quanto amare. Possiamo solo sperare che sia come lo abbiamo sempre desiderato. Se accadrà, te ne accorgerai, stanne certa’, rispose. ‘L’anima gemella ti accoglie totalmente. Ti scuote, ti mostra le tue barriere. Riconosce la tua forza, la tua luce e ti aiuta a diffonderla. Ti sta accanto nei momenti difficili e rimane il tempo necessario per la tua comprensione e la tua evoluzione. Potrebbe essere un giorno, un mese, un anno o tutta una vita. Sii paziente, ogni cosa ha il suo tempo come le stagioni hanno il loro.’ Realizzai in quell’istante che un giorno ti avrei trovato.» Il tempo passava e ci rendemmo conto che era il momento di alzarci, rinfrescarci e praticare un po’ di esercizi. Trascorsa un’oretta o poco più, uscimmo dall’hotel per dirigerci verso l’ashram. Non parlavamo. Lungo la

strada ci fermammo per la colazione. Dopo aver bevuto del lassi e mangiato della frutta fresca, Shanti interruppe la nostra pausa silenziosa. «Ho fatto una scelta e preso una decisione.» Rimanemmo alcuni istanti a fissarci. «A che proposito?» le domandai. «Verrò con te.» «Come, scusa?» «Hai capito bene. Verrò con te in Italia.» «Ma è meraviglioso!» esclamai. «Con Tatanji come farai, cosa gli dirai?» «La verità. A breve lo vedremo e tu sarai accanto a me mentre lo farò.» «Certo.» Non stavo più nella pelle. Lei era anche questo: imprevedibile. Fino al giorno prima ero certo che l’avrei raggiunta nuovamente in India appena possibile, dopo due o tre mesi, anche se in cuor mio speravo fosse lei a venire in Italia, magari trascorsa qualche settimana o poco più. Ora il sogno era diventato realtà. Dovevo lavorare molto sui miei sentimenti. Ero felice e questo comportava anche l’opposto: se ci fossero stati dei problemi all’ultimo minuto, mi avrebbe spezzato il cuore. Tuttavia, Sanjay e Tatanji mi avevano insegnato che è solo ora l’istante in cui si vive e in cui si è, quindi decisi di essere ancora più felice. Indipendentemente da qualsiasi cosa sarebbe o no accaduta. Arrivammo in ashram. Tatanji ci stava aspettando e, dopo esserci scambiati i saluti, ci fece cenno di sederci accanto a lui. Restammo in silenziosa presenza per qualche minuto. «Shanti, hai da dirmi qualcosa?» le domandò infine. Lei sorrise, era pronta e intenzionata a chiarire per rispetto nei suoi confronti. «Oggi ho preso una decisione importante», sentenziò. «In questi ultimi giorni ho riflettuto. Mi sono posta diverse domande e ho cercato risposte. Molte cose sono cambiate attorno a me in breve tempo, come penso tu abbia capito.» Tatanji annuì. «Credo sia giunto il momento che lasci l’ashram e l’India», concluse lei con un filo di voce.

I suoi occhi erano arrossati e il respiro affannoso. Stava combattendo con se stessa per non piangere. La sua riconoscenza al maestro era infinita come la stima che riponeva in lui. Dopo una breve pausa, riprese fiato e continuò: «Sono innamorata di Kripala e lui di me». Distolsi lo sguardo da Tatanji per osservarla, lei si girò e ci scambiammo un lieve sorriso. Intuendo lo stato emotivo di Shanti, Tatanji prese la situazione in mano. «Sono felice per te, per voi, felice per la decisione che hai preso. Sapevo che prima o poi il nostro karma condiviso avrebbe avuto un termine, ed è giusto così.» Poi si rivolse a me: «Ieri, grazie a Sundari, hai compreso il motivo per cui ogni cosa ha il suo tempo». «E grazie anche a te», replicai. «Tutto cambia, tutto si evolve.» Tatanji annuì, poi il suo volto si fece serio. Chiuse gli occhi, rimanendo in silenzio per alcuni istanti, li riaprì e, con lo sguardo rivolto verso di me, continuò: «Kripala, hai mai visitato qualche museo e osservato alcuni quadri famosi?» «Sì, ad Amsterdam, a Parigi e in altre città.» «Quando sei davanti a un quadro, ne sei attratto solo se riesce a farti sentire qualcosa. Non conta se è bello o meno rispetto ad altri, deve trasmetterti qualcosa che già possiedi, qualcosa che è già in te e che, alla sua vista, viene risvegliato. Lo stesso avviene quando si ama. Shanti ha risvegliato il tuo amore e la stessa cosa è accaduta a lei. Solo attraverso gli altri possiamo rispecchiarci e riconoscerci realmente per ciò che siamo.» Tatanji si girò verso di lei, e Shanti annuì. Poi tornò a fissare entrambi e continuò. «Vi è sempre stato un grande mistero nell’amare. Fin dalle origini, in qualsiasi tempo e luogo, abbiamo sempre creduto che avere amore da donare significasse amare. Ma l’amore non è mai esistito nel verbo avere, né mai esisterà. L’amore esiste solo nel verbo essere. Possiamo essere solo l’amore che siamo. L’amore è essere amore. Allora possiamo donarlo senza offrirlo e riceverlo senza chiederlo. Perché siamo senza avere. Questo tipo di amore viene chiamato puro e incondizionato.» Ci fu un lungo silenzio. Le sue parole avevano catturato totalmente la mia attenzione.

«Siete su questa Terra per amare e aprirvi nell’infinito», continuò Tatanji, «accettare e capire la differenza tra essere e non essere. Amando te stesso capirai come amare gli altri.» «Essere o non essere?» «Sì, esatto. Essere o non essere: in queste parole vi è prigionia o liberazione. Alimentando l’amore per se stessi si alimenta quello verso gli altri. L’amore di sé non è egocentrico, è altruista. Volersi bene significa rispettarsi. Se ti ami, riesci ad amare il prossimo. Se non ami te stesso, come puoi pretendere di amare qualcun altro? Riempiti d’amore e ogni problema svanirà.» «Devo amare me stesso per amare Shanti?» «Siamo nati soli e soli moriremo, questa è la realtà, e per una vita spesa bene deve esserci l’amore. Amor proprio e per quello altrui. L’uno non può esistere senza l’altro, ci sarebbe un pezzetto di noi non ancora maturo se così fosse. L’amore umano ha le sue cime come i suoi abissi. Può toccare in breve tempo il paradiso oppure l’inferno. Può raggiungere le più alte vette di felicità come le più intense sofferenze del cuore. Quando si ama si vive tra questi due estremi. Il dolore nasce dall’avere, ma l’amore non è possesso. Il vero amore è preferire la felicità dell’amato alla propria. Nell’amore infinito risiede gioia infinita. È chiamato incondizionato.» Rimanemmo in silenzio cercando di apprendere ciò che Tatanji aveva detto. «Hai parlato di amore incondizionato. Puoi spiegarti meglio?» domandai a Tatanji. «Quando sei arrivato qui, Kripala, mi hai raccontato come la tua ultima relazione fosse stata la più grande e intensa di sempre e che non avresti più amato così intensamente e, forse, non saresti neppure riuscito ad amare ancora. Dico bene?» «Sì, esatto.» «L’amore muore quando è mal nutrito, spesso dimenticato o ferito. Come un giardino poco curato, i fiori scompaiono tra le erbacce, così, se non alimentato, l’amore tende ad appassire, isolarsi, proteggersi. Eppure, osserva. Ogni volta che il tuo cuore sanguina e soffre per amore, quando guarisce è più grande. Può non sembrare così, ma in realtà è pronto per contenere più amore di prima. L’amore che cerchi è celato nelle profondità

della tua anima. Comprendi e realizza come tutto sia una manifestazione dell’Infinita Coscienza. La tua ricerca della forma è solo illusione.» «Cosa intendi?» «Se amando hai sofferto, la scelta è stata tua: è dell’amore umano che parliamo. L’amore grato è il vero amore. Nulla vuole, nulla possiede, felice solo di poter amare. Si estende ovunque, non conosce confini poiché nulla lo trattiene.» «Amare oltre la forma fisica.» Avevo compreso. «L’amore condizionato è un legame che si crea nel piacere di ricevere e donare amore ed è qualcosa di puramente transitorio. Quando accade, si crea un attaccamento tra cuore e cuore. La felicità che ne consegue è fugace e, quando il legame si spezza, reca con sé sofferenza. In verità noi cerchiamo la gioia che sta oltre l’apparenza e che, non avendo legami, non crea mai dolore. Il vero amore scaturisce in assenza della forma, nasce dall’anima ed è oltre la mente. Come l’ape è attratta dai colori dei fiori, ma è del nettare che si nutre, così noi siamo attratti dalle forme dell’amore, ma è dell’amore stesso che ci nutriamo.» Rimanemmo per alcuni momenti in silenzio. «Ama la sua anima, e nemmeno la morte vi potrà separare», esortò. «Così è stato, così è e così sarà.» «L’amore nutre se stesso nell’amare. Non dobbiamo fare nulla, semplicemente abbassare le barriere che lo trattengono. Meno ostacoli si interpongono tra voi, più profonda sarà la relazione. Ed è per questo che la cosa più importante è sentirsi. Un rapporto d’amore deve essere compreso e sviluppato. Create reciproca gratitudine: più ne avrete e più l’amore si diffonderà. Lavorate su un problema alla volta e ricordate sempre i progressi che avete portato a termine insieme. Concentratevi sulle soluzioni, non sugli errori. L’errore è ciò che è stato, la soluzione è ciò che è ora. Non analizzatevi troppo, ma tentate di sentirvi molto. Impegnatevi per elevare la vostra empatia, meno ego svilupperete, più profondo sarà il rapporto. L’ego è parte di noi, ma possiamo scegliere come viverlo e di cosa riempirlo. Vivete l’attimo e cercate sempre i vostri lati positivi. Condividete i vostri stati d’animo senza puntarvi il dito contro. Dite quello che non va tra di voi e, soprattutto, dite spesso quello che vi piace. Nei vostri diverbi osservate l’atteggiamento che li ha scatenati senza che influisca sull’amore che provate l’uno per l’altra. Se c’è rispetto reciproco, l’azione può essere

cambiata e corretta. Perdonatevi sempre. Il perdono è lasciar andare il passato liberandosi dell’ego frustrato e deluso. E ricordate: non implorate di essere amati, ma amatevi senza riserve, poiché l’amore non chiede altro che amare.» Compresi che questa era l’ultima rivelazione, la più importante. Tatanji era stato con noi un maestro tessitore. Aveva intrecciato con grazia e saggezza i fili dispersi dei nostri cuori, trasformandoli in breve tempo in uno splendido arazzo. Dopo qualche istante si alzò e, salutandoci con un namasté, salì in un’altra stanza. Io e Shanti decidemmo di uscire e, dopo una buona mezz’ora di passeggiata, ci dirigemmo in una zona antica e poco frequentata. Vi era ovunque un silenzio mistico. Ci fermammo nei pressi di una scalinata che conduceva all’entrata di un piccolo tempio. Il luogo era appartato e non vi era anima viva. Ringraziai l’universo per tutto ciò che mi stava accadendo. Stringendomi la mano, mi riprese. «Nell’amare, non è nostro compito adattarsi l’uno all’altro, ma saper accogliere le nostre singole differenze, percorrendo assieme la stessa strada. Amando me, vedrai te stesso. Amando te, conoscerò me stessa.» Le risposi, pronunciando ciò che sentivo nel cuore. «Tu sei ciò che mi completa ma anche il mio opposto. Vorrei rispettarti e lasciarti la libertà di essere, poiché solo nella libertà risiede l’amore autentico.» Shanti mi fissò. «Ci vuole molto coraggio ad amare. Tu hai coraggio, Kripala?» «Sì, ora ho coraggio», esclamai. «Amare è perdere l’equilibrio e alla fine ritrovarsi.» «Ritrovare se stessi abbandonandosi all’amore», sottolineò. «Ti ricordi gli aeroplanini di carta che costruivamo da piccoli? Quando li lanciavi, non sapevi dove potessero cadere. Preparavi il tiro immaginando la traiettoria, poi lanciavi. Con una curva imprevedibile, loro proseguivano fluttuando per proprio conto in un’altra direzione, per poi planare in un posto completamente diverso. Ecco, questo intendo con perdere l’equilibrio. Abbandonarsi per volare liberi senza una meta precisa, liberi di essere se stessi. Liberi di amare.»

«Spero di superare l’esame di volo, allora.» Rise, e non vi era cosa più bella di vederla sorridere in leggerezza. «È bello vederti così.» «Grazie, anche per me. Tu sai farmi ridere e la tua gentilezza mi conquista, non vi è altro modo che conosca per toccarmi il cuore. Chi sa sorridere apre le porte dell’anima. Ricordo che Tatanji raccontava che, secondo un’antica leggenda indiana, quando un essere umano ride in modo puro, tutti gli esseri invisibili nelle vicinanze accorrono a vederlo. Perché è nella risata che l’anima si manifesta. Ed è per questo che è bello stare vicino alle persone che ridono. Hanno in sé l’entusiasmo della vita.» «Sono d’accordo.» Desideravo solo amarla, non ero in grado di controllare i miei sentimenti e nemmeno volevo reprimerli. Forse il modo di amare me stesso non era sufficiente per desiderarla con tutta l’intensità che volevo. Terminò il discorso con una frase di Tatanji: «Nella risata qualsiasi barriera mentale crolla. La risata è una lama affilata che frammenta l’ego». «Qual è il segreto dell’amore incondizionato di cui parlava Tatanji?» «L’amore incondizionato non vuole condizioni. L’amore è infinito, come potresti recintarlo in un cuore umano? Il segreto è che più lo sei, più si evolverà in te. La gioia sta nell’esserlo. È facile innamorarsi del profumo di una rosa, più difficile è accettare anche le sue spine e le sue radici. Amare incondizionatamente significa accogliere tutto.» «Ci proverò; anzi, lo sarò. Anche l’amore umano, quando lo si vive al massimo, è immenso.» «L’amore è follia», continuò. «L’amore è dimenticarsi le regole della logica per vivere di follia e di passione. Il cuore pulsa nelle vene, nella testa, nello stomaco, in ogni singola cellula. L’amore è seguire il cuore ovunque e vivere di poesia volando sopra le nuvole. Innamorarsi è una bellissima follia.» «Vorrei che il mio amore non ti bastasse mai e vorrei mostrarti quanto sia straordinaria e luminosa la tua anima», dissi. Osservandomi in silenzio, si tolse l’armatura che la proteggeva rivelandosi in tutta la sua vulnerabilità. Mi baciò con tutta l’intensità che il suo cuore poteva esprimere, stringendosi a me come non aveva mai fatto prima. In quell’attimo infinito, mi accorsi che non mi baciava solo la pelle, lei sapeva baciarmi l’anima.

Con delicatezza toccava parti di me che nessuno sapeva sfiorare. Chi riesce a farlo deve avere un’anima estremamente sensibile. In quel momento perfetto, realizzai che niente e nessuno mi avrebbe separato da lei. La desideravo con tutto me stesso, questo sentivo. «Come fai?» esclamai. «Come fai a farmi sentire così? È come conoscessi le profondità più intime del mio essere.» «La mia sensibilità è il mio dono e la mia croce. Dove ai molti è precluso, a me è permesso sentire. Sento le sfumature dell’anima e ne vedo i colori. Mi meraviglio di un fiore di campo e piango davanti al mare. Vedo nei cuori le cicatrici e nei sorrisi le lacrime nascoste. Sento gioie e piaceri, dolori e sofferenze. Questo è il mio dono, questa è la mia croce.» Non credevo si potesse amare così tanto un’anima complessa e semplice come la sua, ma era impossibile non farlo. La desideravo. Lei mi insegnava a essere anziché apparire, facendosi amare semplicemente, parlando e ridendo anche di nulla. Era ormai notte fonda quando decidemmo di rientrare. Sul percorso del ritorno ci fermammo per mangiare un po’ di frutta in un piccolo chiosco rimasto aperto. Appena arrivati in ashram, ci mettemmo seduti sugli scalini esterni. Mancavano alcune ore all’alba e ci saremmo dovuti alzare per dirigerci in aeroporto. Invece eravamo ancora lì svegli più che mai, ma era bello starsene così, ancora un po’. Shanti appoggiò la testa sulla mia spalla. «Sono arrivata al mondo sola e sola me ne andrò. Vorrei condividere il mio cammino insieme a te. Non dietro per seguirti, né davanti per precederti, ma accanto, per sostenerci. Senza te rimango me stessa, e tu senza me rimani te stesso, ma insieme siamo qualcosa di nuovo. Percorriamo dunque la strada che ci è stata assegnata. Se è destino, staremo l’uno accanto all’altra, se non lo è, avremo condiviso una parte di vita assieme.» «Ciò che desidero è starti vicino», le dissi. «Cosa sono i tesori del mondo intero? Nulla, paragonati a quello che provo per te. Un tuo abbraccio, un tuo sorriso e il mio cuore è in ginocchio.» «Accettarsi senza compromessi è la base per il nostro miglioramento. Divenire consapevoli di ciò che siamo e dell’amore che possiamo essere.» Augurandoci la buona notte, andammo a dormire.

Epilogo

ERA mattina e Tatanji ci stava aspettando paziente dinanzi la porta. «Pronti per la partenza?» «Sì», risposi. Con lo sguardo amorevole di un padre, Tatanji volle condividere un ultimo pensiero. «Quando sviluppate una relazione d’amore, se volete viverla, se volete rispettarla, fate in modo che assomigli a una sinfonia musicale. Create lo spazio necessario tra voi come lo si crea tra una nota e l’altra. Non siate né troppo vicini da stancarvi né troppo lontani da perdervi. Ascoltate la vostra musica insieme, ma ognuno suoni le sue note. Fate in modo che la vostra relazione possa vivere di movimento, che possa essere nutrita e non assorbita, che possa essere elevata e non repressa, che possa essere accolta e non imprigionata.» Shanti lo abbracciò, lui ricambiò. Rimasero così alcuni istanti, poi ci salutò con un grande namasté. L’ultimo. Sentivo in cuor mio che le sue lezioni non erano terminate: lo avrei rivisto più avanti, ne ero certo. Ci avviammo lungo il viale principale. Prima di svoltare l’angolo, mi girai per salutarlo un’ultima volta. In quell’istante, come un miraggio, vidi scorrere sul suo volto, in un armonioso divenire, tutto l’insieme di sorrisi, delusioni, amarezze, il bene e il male, le gioie e i dolori che in questi giorni erano stati parte di me. Capii che ogni essere è collegato all’altro e che ogni incontro era stato in realtà un incontro con me stesso. Compresi che l’Infinita Coscienza è fuori e dentro ogni cosa. Tutto è Uno.

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Indice

Copertina L’immagine Il libro L’autore Frontespizio Introduzione Antefatto 1. Il potere delle parole 2. L’essere presenza 3. Gratitudine 4. Rinasci dalle tue ferite 5. Il silenzio è il tuo miglior maestro 6. Cambiare è fluire 7. Amore incondizionato Epilogo Copyright