Il manicheismo in S. Agostino [PDF]

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ANNA ESCHER DI STEFANO

IL MANICHEISMO

IN S. AGOSTINO

CEDAM - CASA EDITRICE DOTT. ANTONIO MILANI - PADOVA

19 6 0

PROPRIETÀ' LETTERARIA

© Copyright 1960 by Cedam - Padova

Stampato in Italia - Printed in Italy

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Tip. Artigiana di Aldo Palombi - Via Vinc. Sartori, 80 - Roma - Tel. 629.768

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SUO- IO

Al Prof. Carmelo OttavIano,

che mi ha suggerito l'argo-

mento del presente lavoro, e

mi ha consigliato e guidato.

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Capitolo Primo

LA VITA

Patricio non era certo un modello di virtù, specie dal punto

di vista cristiano. Era piuttosto, come diremmo oggi, un one-

st'uomo, con i suoi difetti e i suoi pregi. Dal suo mestiere di de-

curione era forse derivata la grande fede ch'egli aveva in se

stesso, dato che lo Stato, quando chiede del denaro, è sempre certo

di aver ragione. Patricio, però, aveva ragione di stimarsi: era

tollerante, onesto e competente tanto nel suo lavoro quanto nelle

delicate convenienze sociali. Come temperamento, può forse dirsi

ch'era un sanguigno : una fondamentale bonomia e indulgenza

verso le passioni di questo mondo, una certa generosità, anche,

non gli impedivano di avere dei paurosi scoppi d'ira, non appena

qualcuno avesse osato toccare il suo orgoglio, o avesse solo ten-

tato di contrastargli i piaceri ch'egli prediligeva. Ma, come ogni

passionale, non ci metteva molto a passare dalla furia più sel-

vaggia all'intenerimento e perfino al pianto.

Sua moglie Monica, invece, era profondamente cristiana. Dolce

per carattere, aveva trovato nella religione la sublimazione di

questa sua buona qualità, ed era un modello di madre di famiglia.

Non certo in lei doveva trovar ragione di contrasti il marito, la

cui joie de vivre non andava disgiunta da una notevole tolleranza,

tutta romana, verso le pratiche e le idee religiose altrui, finché

esse non lo incomodavano personalmente.

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Da questi due genitori, che ci fanno pensare ad una coppia

di sposi degna di un romanzo francese dell'Ottocento, nacque

Aurelio. La famiglia risiedeva allora a Tagaste, oggi Souk Abras,

nella Numidia, e in quella città il futuro filosofo nacque nel no-

vembre del 354.

Agostino fece i primi studi nella stessa cittadina, e con tale

successo, che il padre, conscio e orgoglioso dell'intelligenza del

8 ANNA ESCHER DI STEFANO

figlio, lo mandò in seguito a studiare grammatica a Madaura. Era

questa una vecchia città numida, colonia romana sin dal primo

secolo, che con l'allargarsi delle sue scuole e della rinomanza

del suo foro era andata arricchendosi e popolandosi. Quando

Agostino vi si recò, trovò una città dal tono evoluto, con in più

la mentalità universale romana, il suo lusso e la sua raffina-

tezza intellettuale, uniti in un piacevole contrasto con la fiera

e ardente anima numida. Non era certo un ambiente fatto per

invitare alla contemplazione, pratica questa per altro poco fami-

liare ai fattivi Romani. Più tardi convertito, Agostino si pentirà

copiosamente del periodo di sregolatezza vissuto in quella città.

La verità è che a Madaura egli si staccò, insensibilmente, dagli

insegnamenti materni, per vivere da giovane studente, fra una di-

scussione con amici e una passeggiata nei quartieri malfamati,

fra una bevuta e conseguente schiamazzo, e una cinica discussione

sui problemi più importanti. Egli aveva del resto tutto il diritto

di unirsi ai suoi amici : era solo uno studente e un uomo, che

nemmeno il legame formale del battesimo legava alla religione

della madre.

Inoltre, un po' come Dante, la sua pretesa sregolatezza non gli

impediva di appassionarsi alla letteratura classica; leggeva avi-

damente Terenzio, il dolce Tibullo, il romantico Catullo, il grande

Virgilio e l'acuto Orazio, sommo poeta e buon umorista.

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Terminati gli studi, tornò a Tagaste, cercando di continuare

a vivere come a Madaura, nei limiti consentiti dall'ambiente pro-

vinciale, e attendendo che suo padre trovasse il modo, e i fondi

necessari, per inviarlo a Cartagine, dove avrebbe studiato reto-

rica. Dopo un anno, finalmente, poté ripartire, e nella grande

città, a suo dire, la sua moralità toccò il fondo della perdizione (1).

(1) « Veni Carthaginem — scrive Agostino — et circumstrepebat me un-

dique sartago flagitiosorum amorum. Nondum amabam, et amare amabam,

et secretiore indigentia oderam me minus indigentem. Quaer°bam quod

amarem, amans amare, et oderam securitatem, et viam sine muscipulis.

Quoniam fames mihi erat intus ab interiore cibo teipso, Deus meus, et ea

fame non esuriebam; sed eram sine desiderio alimentorum incorruptibi-

lium : non quia plenus eis eram, sed quo inanior, eo fastidiosior. Et ideo non

bene valebat anima mea; et ulcerosa projicebat se foras miserabiliter scalpi

avida contactu sensibilium. Sed si non haberent animarci, non utique ama-

rentur. Amare et amari dulce mihi erat, magis si et amantis corpore frue-

rer» (Confessiones, l. III, cap. I, col 683, P.L., Migne, 32).

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 9

Tuttavia non si deve esagerare la turpitudine di questi anni.

Agostino si sarà dato agli amorazzi di gioventù, sempre famelico

di piacere e sempre insoddisfatto, ma con tutto ciò non fu mai

un vizioso : e se cercava di imitare i compagni o si vantava delle

sue imprese, era solo perché, provinciale, era diventato un po'

snob e si sarebbe vergognato di pensarla diversamente.

Malgrado il suo snobismo, fu certamente il meno dissipato dei

suoi compagni. Mai riusci a perdersi completamente e a dimenti-

care del tutto se stesso e la sua dignità di uomo : « nam tu semper

aderas misericorditer saeviens, et amarissimis aspergens offensio-

nibus omnes illicitas jucunditates meas, ut ita quaererem sine

offensione jucundari; et ubi hoc possem non invenirem quid-

quam, praeter te, Domine, praeter te qui fingis dolorem in prae-

cepto, et percutis ut sanes, et occidis nos ne moriamur abs te » (2).

Ben presto si legò con amore sincero ad una donna, che gli rimase

accanto per dodici anni, e gli diede un figlio, Adeodato.

Il perché Agostino non abbia sposata questa donna sembra

debba attribuirsi alla modesta condizione di quest'ultima. Sia la

legge che l'opinione pubblica non gli consentivano infatti un ma-

trimonio legittimo, e, d'altra parte, ai suoi tempi il concubinato

non era considerato disonorevole. Questo non può meravigliare,

dato che l'ambiente ancora pagano, e immorale, pullulante di

sette e di superstizioni non forniva una distinzione universal-

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mente accettata tra bene, e male : donatisti, cattolici, manichei

pretendevano avere il monopolio della verità, con il solo risultato

di generare negli animi smarrimenti e dubbi (3).

Anche l'amicizia ebbe in quel periodo una parte molto im-

portante nella vita di Agostino; egli si legò d'affetto ad Alipio,

Nebridio, Onorato, i cui nomi ricorderà fino alla morte. Quel che

mi attaccava a loro, egli dirà nelle Confessioni (4) — era il piacere

di conversare e di ridere insieme, di usarci reciproche cortesie,

di leggere insieme, di discutere su qualche argomento, ma senza

odio, come se si ragionasse con se stessi, e di instaurare così un'ar-

(2) Ibid., l. II, cap. II, coli. 676-7.

(3) Il Portaliè nel suo articolo su Agostino nel Dictionnaire de théo-

logie catholique, col. 2269, non è d'accordo col Loofs (Realencyclopaide,

III édit., t. II, p. 268), il quale, a suo avviso, scusa troppo Agostino, dicendo

che nell'epoca in cui egli visse era la Chiesa stessa la quale permetteva

che un uomo tenesse presso di sé una concubina.

(4) S. Agostino, Confessiones ecc.. l. IV, cap. VIII, col. 699.

10 ANNA ESCHER DI STEFANO

monia in cui i contrasti rarissimamente sorgevano. L'amico amava

l'amico con tutto il suo cuore, desiderandone il ritorno, quan-

d'era assente, e godendo della sua presenza quando era presente.

In tal modo questa profonda amicizia, manifestata con il viso,

con la voce, con gli occhi e con mille carissime dimostrazioni,

era come fiamma ardente, nella cui luce tutte le nostre anime

erano riunite a formarne una sola.

Verso il diciannovesimo anno di età la lettura dell'Hortensius

di Cicerone gli aprì nuovi orizzonti. Esso, in fondo, non faceva

altro che dar voce e corpo all'indistinto ma prepotente desiderio

di verità che si agitava nella sua anima tanto nutrita di sensibile

intellettualità, prospettando una vita che non si esaurisse nel

breve cerchio dei piaceri materiali, ma che si slanciasse verso vi-

sioni più ampie e valori più universali.

In che consiste la felicità? si chiede Cicerone nel suo libro;

l'argomento non era certo nuovo, ma bastò per precisare tutte le

aspirazioni confuse, contrastanti che si agitavano in Agostino.

Diceva Cicerone che la felicità si trova nella virtù e nella

sapienza, e l'eco che queste idee trovarono nell'animo di Agostino

ci dice quanto la sua coscienza morale fosse sensibile ai problemi

dello spirito (5). Ma la filosofia apriva inevitabilmente la strada

alla religione, in quanto il desiderio di giungere alla verità non

è mai semplicemente un'esigenza del cervello, ma anche e, soprat-

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tutto, del cuore. Il Pincherle scrive a questo proposito : « Può

darsi, è anzi probabile, che egli fosse irreligioso di fatto e tra-

scurasse ogni pratica di pietà; ma il cristianesimo, in cui era stato

educato, guadagnava ogni giorno terreno» (6). Egli sentiva il

vuoto al di sotto della opulenta forma letteraria ciceroniana e

(5) « Quae nobis, inquit (Agostino, riportando le parole dell'Ortensio),

die noctques considerantibus, acuentibusque intelligenteam, quae est mentis

acies, caventibusque ne quando illa hebescat, id est, in philosophia viven-

tibus magna spes est, aut si hoc quod sentimus et sapimus mortale et

caducum est, jucundum nobis perfunctis muneribus humanis occasum, neque

molestam exstinctionem, et quasi quietem vitae fore: aut si, ut antiquis

philosophis hisque maximis longeque clarissimis placuit, aeternos animos

ac divinos habemus, sic existimandum est, quo magis hi fuerint semper in

suo cursu, id est, in ratione et investigandi cupiditate, et quo minus se

admiscuerint atque inplicuerint hominum vitiis et erroribus, hoc his faci-

liorem ascensum et reditum in coelum fore » (De Trinitate, l. XIV cap. XIX,

col. 1056; P.L., Migne, 42).

(6) Pincherle, S. Agostino, vescovo e teologo, Paris, 1930, p. 24.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 11

cominciò a cercare per i suoi problemi degli addentellati molto

più solidi di quello che lo scrittore romano poteva offrire. Il

Cristianesimo in cui era stato educato, continuava inconsapevol-

mente a lievitare nell'animo di Agostino, germinando in lui quella

insoddisfazione, che ancora non riusciva ad avere un nome, né,

tanto meno, una risposta : « Quoniam hoc nomen secundum mise-

ricordiam tuam, Domine, hoc nomen Salvatoris mei Filii tui, in

ipso adhuc lacte matris, tenerum cor meum praebiberat, et alte

retinebat; et quidquid sine hoc nomine fuisset, quamvis littera-

tum, et expolitum, et veridicum, non me totum rapiebat » (7).

Cominciò infatti a leggere la Bibbia : ma era ancora troppo

presto. Lo stile rozzo e disadorno lo deluse : la semplicità biblica

gli sembrò miseria in confronto all'eleganza stilistica delle pagine

di Cicerone (8).

Non avendo trovato ciò che cercava nelle S. Scritture, era

logico che cercasse altrove di soddisfare quella ricerca del vero,

che era ormai un bisogno della sua anima. Aderì pertanto ad una

setta che si diceva cristiana, ma che nello stesso tempo affermava

di poter spiegare tutto mediante la ragione, la setta dei Manichei.

Essa in quel periodo si andava sempre più affermando a Carta-

gine, ed era costituita da un miscuglio di elementi cristiani, e zo-

roastriani impostato sul dualismo iranico del dio del bene e del

dio del male, a giustificazione dei due aspetti della realtà. Essa,

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osserva il De Plinval, era una dottrina complessa, con la sua me-

tafisica, la sua cosmologia, i suoi libri sacri, i suoi riti e la sua

morale. Gli elementi su cui si basava erano la figura del Salva-

tore, di contro al Cristo; il Dio buono coeterno al Dio del male e

delle tenebre. Tutto l'universo risente di questo antagonismo : il

mondo pieno di luci e di ombre; i corpi che sono puri o impuri a

secondo delle particelle di luce che essi possono trattenere; le

anime dibattute tra il principio del bene e quello del male. La

(7) Confessiones ecc., l. II, cap. IV, col. 686.

(8) Dice infatti Agostino : t Et ecce video rem non compertam super-

bis, neque nudatam pueris; sed incessu humilem, successu excelsam et ve-

latane mysteriis: et non eram ego talis ut intrare in eam possem, aut in-

clinare cervicem ad ejus gressus. Non enim sicut modo loquor, ita sensi cum

attendi ad illam Scripturam: sed visa est mini indigna quam Tullianae

dignitati compararem. Tumor enim meus refugiabet modus ejus. Verumta-

men illa erat quae cresceret cum parvulis; ed ego dedignabar esse parvu-

lus, et turgidus fastu mihi grandis videbar » (Ibid., cap. V, col. 686).

12 ANNA ESCHER DI STEFANO

coreografia di questa dottrina era misteriosa e magica, oscura e

fantasiosa.

E' durante il periodo dell'influenza manichea che Agostino

scrive un trattato d'estetica, De pulchro et apto, in cui pone una

distinzione tra il bello e il conveniente, tra ciò che è bello in sé e

ciò che lo è in relazione alla sua applicazione. Per cui, commenta

il De Plinval, «on voit difficilement comment cette seconde don-

née pouvait se concilier avec la réalisme intrinsèque de la physi-

que manichéenne. Quoi qu'il en soit, fidele à la dialectique doctri-

nale, il établissait une distinction essentielle entre le principe

d'unité et celui de dualité : le premier, parfaitement vierge, source

de paix, de raison, de vertu; l'autre, principe de division et de

trouble, de sexualité et de discorde. Ainsi, d'un mouvement na-

turel, l'esthétique s'acheminait vers l'étique; cette démarche en-

core peu consciente se renouvellera plus tard, mais avec une effi-

cacité autrement puissante dans la pensée d'Augustin » (9).

Più tardi egli cercherà di giustificare questo suo traviamento :

« Est igitur mihi propositum ut probem tibi, si possem quod Mani-

chaei sacrilege ac temere invehantur in eos qui catholicae fidei

auctoritatem sequentes, antequam illud verum, quod pura mente

conspicitur, intueri queant, credendo praemuniuntur, et illumina-

turo praeparuntur Deo. Nosti enim, Honorate, non aliam ob cau-

sam nos in tales homines incidisse, nisi quod se dicebant, terribili

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auctoritate separata, mera et simplici ratione eos qui se audire vel-

lent introducturos ad Deum, et errore omni liberaturos. Quid enim

mea aliud cogebat, annos fere novem, spreta religione quae mihi

puerulo a parentibus insita erat, homines illos sequi ac diligenter

audire; nisi quod nos superstitione terreri et fidem nobis ante

rationem imperari dicerent, se autem nullum premere ad fidem,

nisi prius discussa et enodata ventate? » (10).

Ma l'adesione al manicheismo da parte di Agostino aveva an-

che una sua giustificazione psicologica. Quella corrente era la più

adatta a colpire la sua ardente fantasia, perché col suo dualismo

di potenze poteva ben spiegare i suoi travagli e i suoi dibattiti

interiori, rappresentando così un quietivo per la coscienza, dato

che offriva una scusa, per così dire razionale, alle sue deviazioni

dal bene. Inoltre essa non giudicava l'uomo responsabile delle sue

(9) G. De Plinval, La pensée de Saint Augustin, Bordas, 1954, p. 24.

(10) De utilitate crederteli, cap. I, col. 66; P.L., Migne, 42.

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IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 13

colpe, ma faceva risalire questa responsabilità ad un ente meta-

fisico : tant'è vero che Agostino, ricordando questo periodo, dice :

« Mihi videbatur non esse nos qui peccamus, sed nescio quam

aliam in nobis peccare naturam; et delectabat superbiam meam

extra culpam esse; et cum aliquid mali fecissem, non confiteri me

fecisse, ut sanares animam meam, quoniam peccabat tibi; sed

excusare eam amabam, et accusare nescio quid aliud, quod mecum

esset, et ego non essem. Verum autem totum ego eram, et adver-

sum me impietas mea me diviserat: et id erat peccatum insana-

bilius, quo me peccatorem non esse arbitrabar; et exsecrabilis

iniquitas te, Deus omnipotens, te in me ad perniciem meam, quam

mea te ad salutem malle superari» (11). Agostino dunque si acco-

sta ad manicheismo in quanto esso forniva una spiegazione del

male che travagliava l'universo, problema che sarà uno dei prin-

cipali sui quali si tormenterà il pensiero di Agostino (12).

Un altro motivo che spiega l'adesione di Agostino a quella

dottrina è la difficoltà, di cui egli ci parla nelle Confessioni, di

comprendere una sostanza altissimamente spirituale, quale è il

Dio cristiano: «Sed ego conabar ad te, et repellebar abs te, ut

saperem mortem, quoniam superbis resistis. Quid autem super-

bius, quam ut assererem mira dementia me id esse naturaliter

(11) Confessione*, l.v., cap. X, col. 714-5.

(12) « Et quaerebam unde malum, et male quaerebam... Ecce Deus, et

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ecce quae creavit Deus, et bonus est Deus, atque his validissime longissi-

meque praestantior; sed tamen bonus bona creavit, et ecce quomodo ambit

atque implet ea. Ubi ergo malum, et unde, qua huc irrepsit! Quae radix

ejus, et quod semen ejus? An omnino non est? Cur ergo timemus et ca

vemus quod non est? Aut si inaniter timemus, certe vel timor ipse malum

est, quo incassum stimulatur et excruciatur cor: et tanto gravius malum,

quanto non est quod timeamus et timemus. Idcirco aut est, malum quod

timemus, aut hoc malum est quia timemus. Unde est igitur, quoniam

Deus iecit haec omnia, bonus bona? Majus quidem et summum bonum

minora fecit bona, sed tamen et creans et creata bona sunt omnia. Unde

est malum? An unde fecit ea, materies aliqua mala erat, et formavit

atque ordinavit eam, sed reliquit aliquid in illa, quod in bonum non

converteret? Cur et hoc? An impotens erat totam vertere et commu-

tare, ut nihil mali remaneret, cum sit omnia potens? Postremo, cur inde

aliquid tacere voluit, ac non potius eadem omnipotentia fecit ut nulla esset

omnino? Aut vero existere poterat contra ejus voluntatem? Aut si aeterna

erat, cur tam diu per infinita retro spatia temporum, sic eam sivit esse,

ac tanto post placuit aliquid ex ea tacere?... ». (Confessiones, l. VII, cap. V,

coli. 736-7).

14 ANNA ESCHER DI STEFANO

quod tu es? Cum enim ego essem mutabilis, et eo mihi manifestimi

esset, quod ideo utique sapiens esse cupiebam, ut ex deteriore

melior fierem; malebam tamen etiam te opinari mutabilem, quam

me non hoc esse quod tu es. Itaque repellebar; et resistebas ven-

tosae cervici meae : et immaginabar formas corporeas, et caro

carnem accusabam, et spiritus ambulans nondum revertebar ad

te; et ambulando ambulabam in ea quae non sunt, neque in te,

neque in me, neque in corpore; neque mihi creabantur a veritate

tua, sed a mea vanitate fingebantur ex corpore : et dicebam par-

vulis fidelibus tuis, civibus meis, a quibus nesciens exsulabam;

dicebam illis garrulus et ineptus, Cur ergo errat anima quam fecit

Deus? Et mihi nolebam dici. Cur ergo errat Deus? Et conten-

debam magir incommutabilem tuam substantiam coactam errare,

quam meam mutabilem sponte deviasse, et poena errare confi-

tebar» (13).

Un altro motivo, infine, è costituito dalle contraddizioni che

Agostino trovava nelle Scritture; come egli stesso ci dice nel 51°

Discorso (14).

Il Portalié mette in evidenza anche motivi di ordine morale,

quale l'apparente austerità e la virtù che i Manichei sembravano

professare tanto rigorosamente. Tale austerità, però, ben presto

si mostrò ad Agostino in tutta la sua nuda ipocrisia, svelando il

fondo marcio che la sosteneva. Egli ben presto scoprì come nes-

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suno dei Manichei, soprattutto fra gli Eletti, si sarebbe potuto

salvare dall'accusa d'immoralità. Non pochi, egli dirà, furono tro-

vati tra il vino e le carni, non pochi a lavarsi nei bagni; alcuni

furono accusati d'aver sedotto donne altrui e a mettersi in evi-

denza in pubblico con atti osceni.

(13) Ibid., l. IV, cap. XV, coli. 703-4.

(14) Sermo, LI, cap. V, coli. 336-7: « Proferunt calumnias quas quidam,

et dicunt: Matthaeus certe evengelista est? Respondemur, ita, io ore, corde

devoto, in nulla omnino dubitantes: respondemus piane, Evangelista est

Matthaeus. Credis ei, inquiunt? Qui non respondeat, Credo, Quomodo de

murmure vestro pio insonuit? Ita, fratres, si secure creditis, non est und

erubescatis. Loquor vobis, aliquando deceptus, cum primo puer ad divinas

Scripturas ante vellem afferre acumen discutiendi, quam pietatem quae-

rendi : ego ipse contra me perversis moribus claudebam januam Domini

mei : cum pulsare deberem, ut aperiretur; addebam, ut clauderetur. Super-

bus enim audebam quaerere, quod nisi humilis non potest invenire. Quanto

vos beatiores estis modo! quam securi discitis, quam tuti, quicumque adhuc

parvuli estis in nido fldei, et spiritualem escam accipitis ».

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 15

Aderì alla setta per nove anni, nove intensi anni di studio,

durante i quali si dedicò non solo alla filosofia, ma anche alle

scienze naturali, e specialmente all'astronomia, per cercare un

fondamento scientifico che potesse sostituire i nebulosi e fanta-

siosi principi manichei.

Verso la fine del 374 Agostino ritorna a Tagaste, e vi apre

« bottega di parole », attorno a cui si riuniscono Onorato, Alipio,

Licenzio, e altri fedeli amici. Agostino cerca di propagare la fede

manichea, ma non si sa bene con quali risultati. La cosa certa

è che la madre, disperata, lo caccia di casa, non permettendo che

un manicheo viva sotto il suo tetto.

Tuttavia Agostino non fu mai un manicheo fervente, e, come

egli stesso ci avverte, ciò che soprattutto gli impedì di esserlo, fu

l'essersi accorto che la dottrina che egli seguiva si basava più

su argomenti critici contro la Chiesa, che su solide basi pro-

prie (15). Né la lucidissima mente di Agostino poteva acconten-

tarsi delle tesi pseudo-scientifiche dei Manichei, basate su un

confuso miscuglio di mito e scienza, di favola e realtà. Che cosa

può fare il vostro dio del male, il vostro principio tenebroso —

egli chiederà loro nelle Confessioni — contro Dio, se Dio non vuol

scendere in lotta con esso? Gli può forse nuocere? Ma in tal caso

Dio sarebbe violabile e corruttibile, e pertanto non lo si potrebbe

chiamare Dio. Allora non gli può nuocere? Ma in tal caso, perchè

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combatterlo? E inoltre come staccare da Dio una porzione della

Sua sostanza? Come unirla a nature a Lui avverse e da Lui non

create? Come fare d'una parte della Sua sostanza beata, un lembo

di miseria bisognosa d'un aiuto per il riscatto? E sarebbe questa

l'anima umana che il verbo di Dio, libero, puro, incorrotto e

nello stesso tempo corruttibile, in quanto staccato da una mede-

sima e unica sostanza, libererebbe dal suo stato di abominazione

e di schiavitù? Queste le domande che Nebridio, uno tra gli amici

più cari ad Agostino, rivolge ai Manichei. Domade, cui essi non

sapevano trovare risposta, in quanto venivano a mettere cruda-

mente in luce delle contraddizioni insite nello stesso nucleo cen-

trale della filosofia manichea, che così rivelava la sua intrinseca

insostenibilità.

Lo stesso problema del male, poi, che era stato uno dei prin-

cipali motivi per cui Agostino si era accostato alla setta mani-

US) Confessione*, l. VII, cap. II. col. 734.

16 ANNA ESCHER DI STEFANO

chea, credendo di trovare in essa risposta ai suoi assillanti perchè,

questo stesso problema veniva presentato dalla filosofia manichea

in maniera troppo semplicistica, perché Agostino potesse prestarvi

fede a lungo. Il male, che veniva sostanzializzato nel veleno dello

scorpione, era un'immagine troppo puerile e fantasiosa per adem-

piere al ruolo di quella razionalizzazione dei dogmi di cui la

setta tanto si vantava. Definizione, cui Agostino ribatteva : Se il

veleno fosse veramente un male essenziale, il primo ad esserne

avvelenato sarebbe lo scorpione che lo porta (16).

Tanto più che l'inconsistenza teoretica dei Manichei veniva

ad accoppiarsi ad una sregolatezza di costumi che faceva fremere

Agostino, il quale, proprio per sfuggire ad una vita da lui giudi-

cata indegna, aveva abbracciato la pensosa via della religione e

della filosofia. Li ho studiati per nove anni, egli dirà nel De Mori-

bus Ecclesiae et Manichaeorum, li ho ascoltati e nessuno degli

Eletti mi si è rivelato che non fosse sorpreso in peccato flagrante

o sospetto contro i precetti di Cristo o contro i precetti dei loro

stessi insegnamenti.

Neppure Fausto, il celebratissimo, l'ammiratissimo vescovo

manicheo, riuscì a chiarire i suoi dubbi, anzi i suoi colloqui con

lui riuscirono, semmai, a dargli ancora più la convinzione che la

verità fosse ben lungi dalla fonte cui egli si era rivolto. Agostino

lo trovò dapprima un uomo amabile e un gentile parlatore, ma la

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delusione non tardò a venire. Come potevano, egli si chiede (17),

spegnere la mia sete le tazze preziose dell'ornatissimo coppiere?

Di queste cose ormai le mie orecchie erano piene, né le giudicavo

migliori perché più eloquenti, né giudicavo saggio lo spirito di

costui, solo perché possedeva un volto composto e un elegante

parlare. Dal canto suo Fausto, sollecito del proprio interesse, si

guardava bene dall'avventurarsi in discussioni dalle quali non si

sarebbe potuto tirare fuori e dalle quali non sarebbe potuto fa-

cilmente tornare indietro (18). L'unica cosa positiva in Fausto

era la tranquilla accettazione e confessione della propria igno-

ranza. Né egli aveva pudore di confessarla, in quanto possedeva

perfetta coscienza dei limiti della propria preparazione. E non

(16) De moribus Ecclesiae catholicae, et de moribs Manichaeorum, l. II,

cap. VIII, col. 1350, P.L., Migne, 32.

(17) Confessiones, l. V, cap. VI. col. 710.

(18) Ibtd., cap. VII, col. 711.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 17

agiva come certi ciarlatani i quali pretendono convincere il pros-

simo senza dir nulla. Appunto per questo Agostino prese ad

amarlo, giacché giudicava più bella la modestia d'un animo, che

schiettamente si apre, che non le stesse cognizioni che desiderava

imparare (19). Tra Agostino e Fausto si intesse dunque un rap-

porto d'amicizia, che da parte di Agostino, però, non aveva per

base alcuna stima intellettuale. Svanito quindi l'ardore con cui si

era applicato allo studio delle dottrine dei Manichei, e perduta

la speranza di venirne a capo con l'aiuto di altri maestri, dal mo-

mento che il più famoso di tutti si era rivelato incapace di risol-

vere le numerose difficoltà che lo turbavano, tuttavia continua a

vivere con Fausto, in quanto ambedue erano uniti dallo stesso

amore per la letteratura. Leggeva in sua compagnia o quei passi

che Fausto desiderava rileggere, o quelli che Agostino riteneva

più adatti al proprio temperamento. Per il resto, ogni suo tenta-

tivo di progredire nella conoscenza degli elementi della dottrina

manichea, cadde del tutto (20).

Quest'amicizia a poco a poco si allentò, per rompersi del

tutto dopo alcuni anni, allorquando Fausto, che era stato in pro-

cinto d'essere condannato a morte dal proconsole africano, prese

la penna contro la Chiesa, vituperandone i principi fondamentali.

Allora Agostino, il quale nel frattempo aveva già ricevuto il bat-

tesimo cristiano, comporrà contro di lui un trattato, confutando il

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suo pensiero in 33 punti : « Noveram ipse hominem quemadmo-

dum eum commemoravi in libris Confessionum mearum. Hic

quoddam volumen edidit adversus rectam christianam fidem, et

catholicam veritatem. Quod cum venisset in manus nostras, lec-

tumque esset a fratribus; desideraverunt, et jure claritatis per

quam eis servimus flagitaverunt, ut ei responderemus. Hoc ag-

grediar nunc in nomine atque adjutorio Domini et Salvatoris no-

stri Jesu Christi, ut omnes qui haec legent, intelligant quam nihil

sit acutum ingenium et lingua expolita, nisi a Domino gressus

hominis dirigantur. Quod multis etiam tardioribus et inva-

lidioribus occulta aequitate divinae misericoridae praestitum est,

cum multi acerrimi et facundissimi, deserti adjutorio Dei, ad hoc

(19) Ibid.

(20) Ibid.

18 ANNA ESCHER DI STEFANO

velociter et pertinaciter currerent, ut a veritatis via longius

aberrarent » (21).

Tuttavia, malgrado la delusione subita, ancora qualcosa man-

cava alla sua conversione al cristianesimo. Gli era necessaria una

base sicura per prestare fede alle verità cristiane. E questa base

egli la trovò nell'autorità della Chiesa Cattolica (22). Vedremo

poi quanta importanza avrà il principio di autorità nello svolgi-

mento del suo pensiero. Il sacrificio dei martiri, la semplicità e in-

sieme la profondità delle Scritture, che ora egli vedeva con nuovi

occhi, lo conquistarono definitivamente al Cristianesimo. Le Epi-

stole di S. Paolo gli indicarono la via che cercava da tanto tempo,

e che non aveva trovato presso i grandi della letteratura pagana e

della filosofia. Egli osserva che nelle pagine così celebri di questi

grandi non aveva trovato nulla, poiché Dio aveva nascosto la ve-

rità ai sapienti e ai veggenti e l'aveva manifestata ai piccoli (23).

Ma questa verità ancora non si era rivelata a lui completa-

mente. Egli si accosta dunque a quei filosofi che maggiormente

erano rispondenti alla sua mutata spiritualità. Plotino, Porfirio,

Mario Vittorio e Manlio Teodoro accendono nel suo animo un

« incredibile incendium », rivelandogli il mondo sotto un nuovo

aspetto : la materia invece di rappresentare l'unico modo del

reale, gli si viene rivelando come solo una parte, un aspetto di

esso, lasciando in primo piano i valori spirituali, le idee eterne e

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assolute, riposte in Dio, dal cui grembo esse si riflettono nell'uni-

verso sensibile, nell'anima individuale.

Pertanto « l'antagonisme brutale des manichéens, la guerre

inexpiable du bien e du mal se résolvait en un tout harmonieux;

le mal, au lieu d'ètre la manifestation hideuse d'une essence per-

verse, n'avait plus qu'une existence relative, occasionnelle, et se

résotbait dans la perspective de l'ordre total. L'àme, dégagée des

fatalités physiques, se voyait redevenir libre, maitresse de sesdé-

(21) Contra Faustum Manichaeum, l. I, cap. I, col. 207, P.L., Migne, 42.

(22) Così Agostino commenta il suo bisogno di trovare appoggio nella

Chiesa : « Sed de me quid dicam, qui jam catholicus christianus eram? quae

nunc ubera, post longissimam sitim pene exhaustus atque aridus, tota avi-

ditate repetivi, eaque altius flens et gemens concussi et expressi, ut id

manaret quod mihi sic affecto ad recreationem satis esse posset, et ad

spem reducendam vitae ac salutis » (De utilitate credendi, cap. I, coli.

66-7).

(23) Confessiones, l. VII, cap. XXI, col. 1748.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 19

cisions faite pour répondre à sa vocation céleste, c'est-à-dire, en

d'autres termes à l'appel de ses origines » (24).

Questo, l'insegnamento che i platonici trasmettevano ad Ago-

stino, spazzando d'un sol colpo tutte le cristallizzazioni dei pre-

giudizi antichi, insegnamento che così commenta il De Plinval :

« Logique, harmonieuse, optimisye, elle elle répondait trop bien

à ses désirs intimes; il lui accorda aussitòt une adhésion fervente,

mais plus enthousiaste peut-ètre que réfléche. On comprend que

plus tard, de sang-froid, il ait voulu en vérifier les bases en cher-

chant particulièrement en quoi de tels principes demeuraient

valables, mème à l'encontre des Académiciens » (25). Tanto più

che egli aveva conosciuto solo parzialmente la dottrina cristiana,

e quindi, man mano che la sua conoscenza si approfondisce, la ve-

rità incominciava a farsi luce nel suo spirito.

L'adesione al platonismo rappresenta pertanto soltanto la fase

preparatoria della sua successiva conversione al cristianesimo, da

cui lo tengono ancora lontano anche delle ragioni di ordine inte-

riore, psicologico, dei conflitti intimi, delle preoccupazioni carnali,

delle reticenze, delle lotte, che gli impediscono di comprendere

pienamente l'altissima spiritualità cristiana, sebbene cominci di

già a sentirne la potente attrazione. Nei libri platonici egli aveva

infatti notato l'assenza dell'onnipotenza e della saggezza di Dio

ordinatore, e il concetto della redenzione ad opera di Cristo. Inol-

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tre l'influenza dottrinale si univa e si potenziava con l'influenza

emotiva suscitata dagli inni sacri, come possiamo desumere dalla

lettura delle Confessioni.

Così, quasi insensibilmente, il neoplatonismo lasciò il posto

al definitivo trionfo del Cristianesimo.

Nell'autunno del 380 Agostino lascia l'insegnamento e si pre-

para a ricevere il battesimo, ritirandosi in una villetta di Cassi-

ciaco, un ameno luogo della Cisalpina, ai confini della Liguria, in-

sieme alla madre Monica, al fratello Navigio, al figlio Adeodato,

ai cugini Lastidiano e Rustico, agli amici Alipio, Licenzio e Tri-

gezio. Qui egli compose le sue prime opere (26), che sono una te-

stimonianza del nuovo orientamento della sua spiritualità : il Con-

(24) De Plinval, op. cit., p. 29.

(25) Ibid.

(26) Nel 380-1 aveva però già composto, come abbiamo già detto, il De

pulcro et apto.

20 ANNA ESCHER DI STEFANO

tra Academicos (27), il De beata vita (28), il De Ordine (29), i So-

liloquia (30). I soggetti fondamentali in esse dibattuti erano prin-

cipalmente d'impostazione gnoseologica, tendenti a precisare se

lo scopo della filosofia fosse una investigatio o una inventio della

verità.

Ricevette il battesimo dalle mani di S. Ambrogio, nella notte

del sabato santo del 387.

Agostino ha ora una missione da compiere : la diffusione della

dottrina cristiana nella sua patria. Ed appunto per questo egli,

dopo la morte della madre, tornerà a Tagaste, dove, venduti i po-

(27) A proposito della genesi di quest'opera Agostino dice nelle Re-

tractationes : « Cum ergo reliquissem, vel quae adeptus fueram in cupi-

ditatibus hujus mundi, vel quae adipisci volebam, et me ad christianae vi-

tae otium contulissem; nondum baptizatus, contra Academicos vel de Aca-

demicis primum scripsi, ut argumenta eorum, quae multis ingerunt veri in-

veniendi desperationem, et prohibent cuiquam rei assentiri, et omnino

aliquid, tanquam manifestimi certumque sit, approbare sapientem, cum eis

omnia videantur obscura et incerta, ab animo meo, quia et me movebant,

quantis possem rationibus amoverem. Quod miserante atque adjuvante

Domino factum est» (Retractationum libri duo, l. I, cap. I, col. 585, P.L.,

Migne. 32).

(28) Contemporaneamente compone il De beata «ita, in cui prende

in esame il concetto di felicità, chiedendosi se essa possa risiedere nella

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soddisfazione dei sensi, o nell'appagamento dell'anima. Riguardo que-

st'opera S. Agostino dice : « Librum de Beata Vita, non post libros de

Academicis, sed inter illos ut scriberem, contigit. Ex occasione quippe ortus

est diei natalis mei, et tridui disputatione completus, sicut satis ipse in-

dicat. In quo libro constitit inter nos, qui simul quaerebamus, non esse

beatam vitam, nisi perfectam cognitionem Dei » (Retractations, l. I, cap. II,

col. 588).

(29) « Per idem tempus, inter illos qui de Academicis scripti sunt,

duos etiam libros de Ordine scripsi, in quibus magna questio versatur,

utrum omnia bona et mala divinae providentiae ordo contineat. Sed cum

rem viderem ad intelligendum difficilem, satis aegre ad eorum perceptio-

nem, cum quibus agebam, disputando posse perduri: de ordine studendi

loqui malui, quo a corporalibus ad incorporalia potest profici » (Retractio-

nes, l. I, cap. III, col. 588).

(30) « Inter haec scripsi etiam duo volumina secundum studium meum

et amorem, ratione indagandae veritatis, de his rebus quas maxime scire

cupiebam, me interrogans, mihique respondens, tanquam duo essemus, ratio

et ego, cum solus essem; unde hoc opus Soliloquia nominavi, sed imper-

fectum remansit; ita tamen ut in primo libro quaereretur, ut utcumque

appareret, qualis esse debeat qui vult percipere sapientiam, quae utique

non sensu corporis, sed mente percipitur; et quadam ratiocinatione in libri

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 21

chi beni che possedeva e distribuitone il ricavato ai poveri, visse

per circa tre anni, dedicandosi alla preghiera, e allo studio, in-

sieme ai suoi amici Alipio ed Evodio, e al figlio Adeodato (31).

La forza dell'adesione di S. Agostino al cristianesimo è soprat-

tutto visibile nelle Confessioni, le cui invocazioni a Dio sono

quanto di più suggestivamente potente la sua penna abbia scritto.

Signore — egli dice — hai spezzato le mie catene e a te of-

frirò un sacrificio di lode. Ti lodi il cuor mio, Ti lodi la mia lingua

e tutte le mie ossa dicano: O Signore, chi è simile a Te? Lo di-

cano e Tu rispondimi e dì alla mia anima : Sono io la tua salvezza.

Ah, quale ero stato mai in passato? Che cosa non ebbero di male

le mie azioni, e se non queste, le mie parole, e se non le parole, la

mia volontà? Ma Tu, o Signore, buono e misericordioso, guardan-

domi nella profondità della mia morte, con la Tua destra sgom-

brasti dal fondo del mio cuore quella sentina di corruzione, poi-

ché non volli ciò che prima volevo e presi a volere ciò che Tu

vuoi. Dov'ero io stato mai nei luoghi trascorsi e da quali bas-

sezze, da quale profondità recondita traesti in un istante il mio

libero arbitrio, sicché sottoponesti il mio capo al tuo giogo soave

e le mie spalle al tuo peso leggero, o Gesù Cristo, o mio aiuto,

o mio Redentore? Quanto mi tornò subito soave la privazione di

ogni soavità dei vani piaceri; quei piaceri che prima temevo di

perdere e che allora godevo di abbandonare! Eri Tu, o vera e

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somma soavità, che li scacciavi da me; li scacciavi ed entravi Tu

al loro posto, Tu più dolce d'ogni voluttà, Tu il cui piacere non

è della carne e del sangue; Tu più chiaro d'ogni luce, più intimo

d'ogni segreto, più sublime d'ogni cuore a chi non si crede sublime

fine colligitur, ea quae vere sunt immortalia esse. In secundo autem, de

immortalitate animae diu res agitur. et non peragitur » (Reractationes, l. I,

cap. IV, col. 589). I Soliloqui contengono le più belle invocazioni di Ago-

stino a Dio : « Deus universitatis conditor, praesta mihi primum ut bene

te rogem. deinde ut me agam dignum quem exaudias, postremo ut liberes.

Deus per quem omnia, quae per se non essent, tendunt esse. Deus qui ne

id quidem quod se invicem perimit, perire dimittis. Deus qui de nihilo

mundum istum creasti, quem omnium oculi sentiunt pulcherrimum. Deus

qui malum non facis, et facis esse ne pessimum fiat.... Deus per quem

universitatis etiam cum sinistra parte perfecta est. Deus a quo dissonantia

usque in extremum nulla est, cum deteriora melioribus concinunt. Deus

quem amat omne quod potest amare, sive sciens, sive nesciens.... Te invoco,

Deus veritas, in quo et a quo et per quem vera sunt, quae vera sunt

omnia » (Soliloquiorum, l. I, cap. I, coli. 869-70; P.L., Migne, 32).

(31) Adeodato morirà da lì a non molto, nel 388, appena diciassettenne.

22 ANNA ESCHER DI STEFANO

in se stesso. Già l'animo mio si era liberato dalle mordenti brame

dell'ambizione e dell'avarizia e da quell'avvoltolarmi e cacciarmi

le unghia nella scabbia delle libidini e cantavo verso di Te, o

chiarezza mia e mia ricchezza, a Te, mia salvezza, Signor mio,

Dio mio (32).

Nel 391 Agostino viene ordinato prete. Egli si trovava ad Ip-

pona ed ascoltava una predica del vescovo Valerio, il quale illu-

strava la sua necessità di avere un coadiuvatore. La folla, rico-

nosciuto Agostino, lo trascina dinanzi al vescovo chiedendo, entu-

siasta, che egli fosse il prescelto.

Questa esaltazione popolare può sembrare strana, e si potrebbe

pensare che in realtà l'ordinazione sacerdotale di Agostino fosse

stata preparata. Ma non abbiamo alcun dato per affermarlo, e

d'altra parte le cronache ecclesiastiche del tempo recano più di

un esempio di ordinazione sacerdotale fatta senza alcuna regola,

ma solo per accondiscendere ai desideri di una folla entusiasta ed

acclamante.

Agostino si dedicò con molto zelo al nuovo compito, e, tra le

sue iniziative, forse la più importante fu quella della divulga-

zione del monachesimo.

Solo dopo quattro anni dall'ordinazione sacerdotale fu consa-

crato vescovo, ed alla morte di Valerio ne divenne il successore.

Riguardo l'anno esatto in cui cominciò l'episcopato di Ago-

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stino vi sono opinioni differenti; sebbene la maggior parte degli

studiosi consideri come anno di inizio il 395; altri, come il Guzzo,

pone questa data nel 396: ad ogni modo è accertato che nel 397

Agostino era sicuramente successo a Valerio.

E' durante i primi anni dell'episcopato che la polemica contro

gli eretici in genere e contro i Manichei in particolare raggiunge

il suo acme. Egli scrive una storia generale delle eresie, De Hae-

resibus. Contro i Manichei, scrive i due libri del De moribus Ec-

clesiae catholicae (33), il Liber de duabus animabus (34), gli Acta

(32) Confessiones, l. IX, cap. I, col. 763.

(33) « Jam baptizatus autem cum Romae essem, nec ferre tacitus pos-

senti Manichaeorum jactantiam de falsa et fallaci continentia vel abstinen-

tia, qua se ad imperitos decipiendos, veris Christianis, quibus comparandi

non sunt, insuper praferunt, scripsi duos libros; unum de Moribus Eccle-

siae Catholicae; alterum de Moribus Manichaeorum » (Retractationes, l. I,

cap. VII, coli. 591-2).

(34) « Scripsi adhuc presbyter contra Manichaeos de Duabus Anima-

bus, quarum dicunt unam partem Dei esse, alterarti de gente tenebrarum.

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IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 23

seu disputatio contra Fortunatum manichaeum (35), il Liber con-

tra Adimantum, manichaei discipulum (36), il Liber contra epi-

stola™, manichaei quam vocant « Fundamenti » (37), i tre li-

bri del De libero arbitrio (38), il Contra Faustum mani-

chaeum libri XXXIII (39), il De actis cum Felice manichaeo libri

quam non condiderit Deus, et quae sit Deo coeterna; et has ambas animas.

unam bonam, alterarti malam, in uno nomine esse deliranti istam sci-

licet malam, propriam carnis esse dicentes, quam carmem etiam dicunt

gentis esse tenebrarum : illam vero bonam, ex adventitia Dei parte, quae

cum tenebrarum gente conflixerit, atque utramque miscuerit: et omnia qui-

dem bona hominis illi bonae animae; omnia vero mala illi malae animae

tribuunt » (Retractationes, l. I, cap. XV, col. 608).

(35) « Eodem tempore presbyterii mei, contra Fortunatum quemdam

Manichaeorum presbyterum disputavi, qui plurimum temporis apud Hip-

ponem vixerat, seduxeratque tam multos, ut propter illos ibi eum delecta-

ret habitare. Quae disputatio nobis altercantibus excepta est a notariis, ve-

luti Gesta conficerentur; nam et diem habet. et consulem. Hanc in librum

memoriae mandandam conferre curavimum. Versatur ibi quaestio unde

sit malum ex libero voluntatis arbitrio; ilio autem naturam mali Deo

coaeternam persuadere moliente » (Retractationes, l. I, cap. XVI, col. 612).

(36) « Eodem tempore venerunt in manus meas quaedam disputationes

Adunanti, qui fuerat Manichaei discipulus. quas conscripsit adversus Le-

gem et Prophetas, velut contraria eis evangelica et apostolica Scripta de-

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monstrare conatus. Hiis ergo respondi, verba ejus ponens, eisque reddens

responsionem meam » (Retractationes, l. I, cap XXII, coli. 618-9).

(37) t Liber contra Epistolam Manichaei, quam vocant Fundamenti

principia ejus sola redarguit; sed in caeteris illius partibus annotationes

ubi videbatur, affixae sunt, quibus tota subvertitur, et quibus commo-

nerer, si quando contra totam scribere vacavisset » (Retractationes, l. II,

cap. II, col. 631).

(38) « Cum adhuc Romae demoraremur, voluimus disputando quaerere

unde sit malum. Et eo modo disputavimus, ut si possemus, id quod de hac

re divinae auctoritati subditi credebamus, etiam ad intelligentiam nostram,

quantum disserendo opitulante Deo agere possemus, ratio considerata et

tractata perduceret. Et quoniam constitit inter nos diligenter ratione di-

scussa, malum non exortum nisi ex libero voluntatis arbitrio; tres libri quos

eadem disputatio peperit, appellati sunt, de Libero Arbitrio » (Retracta-

tiones, l. I, cap. IX, col. 595).

(39) « Contra Faustum manichaeum blasphemantem Legem et Pro-

phetas, et eorum Deum, et incarnationem Christi; Scripturas autem Novi

Testamenti, quibus convincitur, falsatas esse dicentem, scripsi grande opus,

verbis ejus propositis reddens responsiones meas. Triginta et tres dispu-

tationes sunt; quas etiam libros cur non dixerim? Nam etsi sunt in eis

aliqui perbreves, tamen libri sunt. Unus vero eorum, ubi a nobis adversum

ejus criminationes, Patriarcharum vita defenditur, tantae prolixitatis est,

24 ANNA ESCHER DI STEFANO

duo (40), il Liber de natura boni cantra manicaeos (41), il Liber

contra Secundinum manichaeum (42), il De utilitate credendi (43),

il De Genesi contra Manichaeos (44).

Contro i Donatisti scrive il Psalmus contra partem Donati, il

Contra epistulam Parmeniani, il De baptismo contra donatistas,

il Contra litteras Petiliani, il Ad catholicos epistola contra donati-

stas, il Contra Cresconium grammaticum partis Donati, il Liber

de unico baphismo contra Petilianum, il Sermo ad Caesareensis

Ecclesiae plebem Emerito praesente habitus, il De Gestis cum

Emerito liber unus, il Breviculus Collationis cum Donatistis, il

quantae nullus fere librorum meorum » (Retractationes, l. II, cap. VII.

col. 632).

(40) « Contra manichaeum quemdam nomine Felicem, praesente po-

pulo, in ecclesia biduo disputavi. Hipponem quippe venerat, eumdem semi-

naturus errorem; unus enim erat ex doctoribus eorum, quamvis ineruditus

liberalibus litteris, sed tamen versutior Fortunato. Gesta sunt ecclesiastica,

sed inter meos libros computantur » (Retractationes, l. II, cap. VIII, col.

633).

(41 « Liber de Natura Boni adversus Manichaeos est, ubi ostenditur

naturam incommutabilem Deum esse ac summum bonum, atque ab ilio

esse caeteras naturas sive spirituales sive corporales, atque omnes in quan-

tum naturae sunt, bonas esse; et quid vel unde sit malum, et quanta mala

Manichaei ponant in natura boni, et quanta bona in natura mali, quas na-

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turas finxit error ipsorum » (Retractationes, l. II, cap. IX, col. 634).

(42) « Secundinus quidam, non ex eis quos Manichaei electos, sed ex

eis quos auditores vocant, quem ne facie quidem novefam, scripsit ad me

velut amicus, honorifice objurgans quod oppugnarem litteris illam haere-

sim, et admonens ne facerem, atque ad eam potius sectandam exhortans,

cum ejus defensione, et fldei catholicae reprehensione. Huic respondi; sed

quia in ejusdem opusculi capite non posui quis cui scriberet, non in epistolis

meis, sed in libris habetur » (Retractationes, l. II, cap. X, col. 634).

(43) « Jam vero apud Hipponem regium presbyter scripsi librum de

Utilitate credendi, ad amicum meum quem deceptum a Manichaeis, adhuc

eo errore noveram detineri, et irridere in catholicae fidei disciplina, quod

juberentur homines credere, non autem quid esset verum certissima ratione

docerentur » (Retractationes, l. I, cap. XIV, col. 605).

(44) « Jam vero in Africa constitutus, scripsi duos libros de Genesi con-

tra Manichaeos. Quamvis enim in superioribus libris quidquid disputavi,

unde ostenderem Deum summe bonum et immutabilem creatorem esse om-

nium mutabilium naturarum, nec ullam esse naturam malam sive sub-

stantiam, in quantum natura est atque substantia, adversus Manichaeos no-

stra invigilaret intentio; isti tamen duo libri apertissime adversus eos editi

sunt in defensionem veteris legis, quam vehementi studio vesani erroris

oppugnant » (Retractationes, l. I, cap. X, col. 599).

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 25

Post Collationem ad Donatistas liber unus, il Contra Gaudentium

Donatistarum episcopum libri II, il Sermo de Rusticiano subdia-

cono a Donatistis rebaptizato et in diaconum ordinato, ecc.

Contro i Pelagiani scrive il De peccatorum meritis et remis-

sione, il De spiritu et littera, il De natura et gratia ad Timasium

et Jacobum contra Pelagium, il Liber de perfectione justitiae ho-

minis, il Liber de gestis Pelagii, il De gratia Christi et de peccato

originali, il De anima et ejus origine, il De nuptis et concupi-

scentia, il Contra duas epistulas pelagianorum, il Contra Julianum,

haeresis pelagianae defensorem, l'Opus imperfectum contra Julia-

num, il De gratia et libero arbitrio, il De correptione et gratia, il

Liber de praedestinatione sanctorum.

Contro gli Ariani : il Liber contra sermonem arianorum, la

Collatio cum Maximino arianorum episcopo, i Duo libri contra

eumdem Maximinum arianum, ecc.

Durante l'episcopato la vita di Agostino fu quanto mai labo-

riosa; i molteplici scritti ci attestano la sua attività, insieme alla

massima cura che egli ebbe sempre nell'adempiere al suo compito

di vescovo di Ippona.

Dopo la caduta di Roma, avvenuta nel 410 per mano dei Goti,

l'Africa accolse molti profughi, ed Agostino, oltre ad organizzare

i soccorsi, aiutò questi uomini con parole di fede e conforto, si

prodigò soprattutto al risollevamento degli spiriti, all'aiuto morale

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di cui questi uomini avevano grande bisogno.

La sua eccezionale attività di filosofo, di scrittore e di vescovo

si chiuse solo con la morte, avvenuta nell'agosto del 430.

Capitolo Secondo

LA DOTTRINA

La dottrina di Agostino risulta dall'incontro, nella sua spiri-

tualità, della filosofia greca con la visione cristiana della vita.

In essa i motivi più significativi e le aspirazioni più sentite della

grecità, uniti al meglio della speculazione patristica antecedente,

trovano il loro testamento spirituale, filtrati attraverso il calore

della sua personalissima visione della vita, in tal modo acqui-

stano tutta una loro coloritura particolare. Il pessimismo della

dottrina ellenica, il suo profondo senso dell'interiorità, la co-

scienza del dramma dell'esistenza imperniato sui rapporti tra in-

dividuo e individuo e tra individuo e Dio confluiscono nel suo

pensiero, costituendo la trama su cui la sua incessante ricerca

speculativa opera e costruisce.

Questi, dunque, i motivi da cui Agostino prende le mosse, ar-

ricchendoli di un significato e di una potenza mai prima rag-

giunti.

I problemi logici e gnoseologici, che nella speculazione greca

si erano conclusi in chiave scettica, tornano a presentarsi alla

mente di Agostino, riproponendo quelle domande, a cui ancora

non si era saputo dare una risposta : che cosa possiamo conoscere

e in qual modo? E' possibile giungere alla certezza?

Egli affronta per la prima volta questo problema nel Cantra

Academicos, libro che rimarrà fondamentale per la comprensione

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della sua indagine gnoseologica. La filosofia della Nuova Acca-

demia aveva negato la possibilità di giungere alla certezza : « er-

rat quisquis non solum rem falsam, sed etiam dubiam, quamvis

vera sit, approbat» (1). La sapienza, per il saggio, non consiste

nel possesso della verità, ma nella sua ricerca, giacché «videri

(1) Contra Academicos, l. III. cap. XIV, col. 951.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 27

posse sapienti probabilium rerum se consecutum esse sapien-

tiam » (2). Però Agostino ribatte che dalla stessa constatazione del

dubbio nasce come conseguenza inoppugnabile la verità sull'esi-

stenza dell'io. Né alcun argomento degli Accademici può aver

valore contro quest'affermazione, quand'anche si affermasse che

nessuno è nel vero e tutti sbagliano, giacché colui che sbaglia deve

pur esistere, in quanto, in caso contrario, non potrebbe sbagliare.

Dunque, se sbaglia esiste.

Questa constatazione è il primo baluardo contro la demoli-

trice critica scettica : se non vedi quello che io dico — ammonisce

Agostino (3) — o se dubiti che sia vero, vedi almeno che non du-

biti di dubitarne, e se è certo che ti trovi nel dubbio, cerca donde

sia certo. La coscienza dell'esistenza della verità, coscienza rive-

lataci dall'attestato del mio io, ci porta ad indagare l'origine di

questa verità e quale sia il suo fondamento. La sua sede non può

certo esser riposta nei sensi, in quanto questi possono darci delle

conoscenze probabili, ma non certe : « sunt enim qui ista omnia,

puae corporis sensu accipit animus, opinionem posse gignere confi-

tentur, scientiam vero negant » (4).

Il problema dell'importanza che Agostino attribuisce ai sensi

è uno tra i più dibattuti del pensiero del Santo. Alcuni, come il

Martin (5), diminuiscono l'importanza che la sensazione ha nel

sistema agostiniano. Altri, come ad es., il Kaelin (6), negano del

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tutto questa importanza. Altri invece, fra cui il Boyer (7), met-

tono l'accento proprio su di essa, poiché i sensi costituiscono un

elemento necessario all'intelletto nella scoperta della verità.

Al di sopra dei sensi vi è l'intelletto. Infatti la mente umana,

che giudica delle cose visibili, riconosce d'essere migliore di que-

ste cose stesse (8). Per cui l'intelletto, servendosi delle idee che

(2) Ibid., l. III. cap. III, col. 937.

(3) De vera religione, cap. XXXIX. col. 154.

(4) Cantra Academicos, l. III, cap. XI, col. 948.

(5) Jules Martin, S. Augustin, Paris, 1901, p. 273.

(6) Kaeun, Die Erkenntnisslehre des hi. Augustinus, Sarnen, 1920.

p. 40.

(7) Charles Boyer, Sant'Agostino, Bocca, Milano, p. 39.

(8) De diversis Quaestionibus, q. 45, n. I, col. 28, P.L., Migne, t. XL:

« Mens enim humana de visibilibus judicans, potest agnoscere omnibus

visibilibus se ipsam esse meliorem. Quae tamen cum etiam se propter de-

fectum profectumque in sapientia fatetur esse, mutabilem, invenit supra

se esse incommutabilem veritatem : atque ita adhaerens post ipsam, sicut

28 ANNA ESCHER DI STEFANO

in esso sono riposte, costituisce il metro valutativo delle cose, sia

in campo logico, sia gnoseologico, sia etico.

Sull'intelletto ha il predominio la volontà, che tra le varie

immagini mentali sceglie di volta in volta quelle corrispondenti

agli oggetti sensibili : « Detracta specie corporis quae corporaliter

sentiebatur remanet in memoria similitudo ejus, quo rursus vo-

luntas convertat aciem, ut inde formetur intrinsecus, sicut ex cor-

pore objecto sensibili sensus extrinsecus formabatur. Atque ita

fit illa trinitas ex memoria, et interna visione, et quas utrumque

copulat voluntate. Quae tria cum in unum coguntur, ab ipso coactu

cogitatio dicitur» (9).

L'autore di queste idee è l'uomo? Donde egli prende i predi-

cati che attribuisce ai diversi esseri quando li definisce esistenti,

buoni, belli, ecc.? Nessuna cosa egli potrebbe definire buona, se

già non sapesse cosa significhi bontà; bello se non sapesse cosa

significhi bellezza, ecc., se già, insomma, non ne possedesse il con-

cetto. L'anima inoltre adopera principi logici, articolantisi tutti

attorno al principio di non-contraddizione (10), i principi della

dictum est, Adhaesit anima mea post te (Psal., LXI, 9); beata efficitur, intrin-

secus inveniens etiam omnium visibilium Creatorem atque Dominum; non

quaerens extrinsecus visibilia, quamvis coelestia: quae aut non inveniun-

tur, aut cum magno labore frustra inveniuntur, nisi ex eorum quae foris

sunt pulchritudine, in veni a tur arti f ex qui intus est, et prius in anima su-

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periores, deinde in corpore inferiores pulchritudines operatur » (De div.

Quaest., cap. XLV, coli. 28-9).

(9) De trin., l. XI, cap. III, col. 988.

(10) Contra Academicos, l. III, cap. X, col. 946: «Certum enim habeo,

aut unum esse mundum, aut non unum; et si non unum, aut finiti numeri,

aut infiniti. Istam sententiam Carneades falsae esse similem doceat. Item

scio mundum istum nostrum, aut natura corporum, aut aliqua providentia

sic esse dispositum; eumque aut semper fuisse et fore, aut coepisse esse mi-

nime desiturum; aut ortum ex tempore non habere, sed habiturum esse fi-

nem; aut et manere coepisse, et non perpetuo esse mansurum: et innu-

merabilia physica hoc modo novi. Vera enim ista sunt disjuncta, nec simi-

litudine aliqua falsi ea potest quisquam contundere. Sed assume aliquid, ait

Academicus. Nolo: nam hoc est dicere, Relinque quod scis, die quod ne-

scis. Sed pendet sententia. Melius certe pendet quam cadit: nempe plana

est; nempe jam potest aut falsa, aut vera nominari. Hanc ergo me scire dico.

Tu qui nec ad philosophiam pertinere ista negas, et eorum sciri nihil posse

asseris, ostende me ista nescire: die istas disjunctiones aut falsas esse,

aut aliquid commune habere cum falso, per quod discerni omnino non

possint ».

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 29

matematica (11) e possiede la certezza scaturiente dalla stessa esi-

stenza del dubbio. Giacché Agostino dice che chi capisce d'essere

in dubbio, ha almeno la certezza di star dubitando, e quindi è

certo del vero. Chiunque perciò dubita che esista la verità, ha in

sé il vero, e non v'è vero senza la verità. E' necessario dunque

che non dubiti più della verità colui che ha già per un motivo

qualsiasi dubitato. Dalla certezza di dubitare e pensare germina la

certezza di vivere, e di non dover emettere temerariamente giu-

dizio alcuno. L'intelletto infatti quando si volge a scrutare se

stesso, per scoprire la verità, comprende d'essere una mente che

esiste, vive ed intende. Quindi chi intende vive ed è. E così sa

di volere, come sa che non può volere chi non è e chi non vive.

Sa anche di ricordare, e insieme sa che nessuno potrebbe ricor-

dare, se non fosse e non vivesse. Due dunque di queste tre cose,

la memoria e l'intelligenza, contengono la notizia e la scienza di

molte cose, mentre con la volontà fruiamo o usiamo soltanto di

loro. Gli uomini dubitarono se principio della vita, della memoria,

della scienza, del volere, del pensiero, della scienza fosse l'aria,

il cervello, il sangue, gli atomi, però nessuno v'é che possa dubi-

tare di vivere, di ricordare, di intendere, di volere, di pensare e di

sapere. Poiché anche se dubita vive, se dubita ricorda, se dubita

vuol esser certo, se dubita, pensa, se dubita, sa di non sapere, se

dubita giudica di non dover temerariamente acconsentire. Quindi

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chi dubita sa che qualcosa esiste, perché se nulla fosse, di nulla

dubiterebbe (12).

Abbiamo detto dunque che queste verità sono riposte nel-

l'anima; come può essa averle create, se è soggetta all'errore? Il

ragionamento non può creare le verità eterne, ma può solo sco-

prirle. Quindi esse, prima d'essere scoperte, debbono esistere in

(11) Ibtd., col. 947: «Credo enim jam satis liquere quae per somnium

et dementiam falsa videantur, ea scilicet quae ad corporis sensus pertinenti

nam ter terna novem esse, et quadratimi intelligibilium numerorum, necesse

est vel genere humano stertente sit verum. Quanquam etiam pro Ipsis sensi-

bus multa posse dici video, quae ab Academicis reprehensa non invenimus.

Credo enim sensus non accusari. vel quod imaginationes falsa furentes pa-

tiuntur, vel quod falsa in somnis videmus. Si enim vera vigilantibus atque

sanis renuntiarunt; nihil ad eos. quid sibi animus dormientis insanientisque

confingat ».

(12) De trin., l. IX, cap. X, coli. 980-1.

30 ANNA ESCHER DI STEFANO

sé (13). Ed è per questo che anche gli empi hanno la capacità di

affissare lo sguardo sulle cose eterne, e sanno con ragione biasi-

mare o lodare la condotta degli uomini. Con quali regole esprime-

rebbero essi questi giudizi, se non con quelle secondo cui essi

sanno che ciascuno dovrebbe vivere, anche se poi, a conti fatti,

essi vivono in maniera diversa? E dove vedono queste regole? Non

certamente nella loro natura, dato che queste non si possono ve-

dere che con la mente; e si sa che le loro menti sono mutevoli,

mentre queste regole sono immutabili. Né possono essere state

coniate dalla loro mente, dato che la loro mente è ingiusta. Dove

sono scritte dunque queste regole, in base a cui anche l'empio

può giudicare cosa sia giusto o ingiusto? Dove sono scritte se non

nel libro di quella luce che si chiama verità, in cui riposa ogni

legge giusta, quella stessa che parla al cuore dell'uomo? (14).

Esiste dunque una verità inattaccabile dallo stesso dubbio

scettico, verità per mezzo di cui l'anima giudica, e che riposa nel

grembo di Dio. L'anima infatti è consapevole di non giudicare le

cose per mezzo di una norma che essa stessa ha creato, e riconosce

che la natura di quella verità a norma della quale giudica, e di

(13) De vera religione, l. I, cap. XXXIX, col. 155.

(14) De trin., l. XIV, cap. XV. Inoltre Agostino dice nel De magistro:

(cap. 11, col. 1216): a De universis autem quae intelligimus non loquentem

qui personat fores, sed intus ipsi menti praesidentem consulimus veritatem,

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verbis fortasse ut consulamus admoniti. Ille autem qui consulitur, docet, in

interiore nomine habitare dictus est Christus (Ephes., III, 16, 17), id est

incommutabilis Dei Virtus atque sempiterna Sapientia : quam quidem omnis

rationalis anima consulit, sed tantum cuique panditur, quantum capere

propter propriam, sive malam sive bonam, voluntatem potest ». Ibid., col.

1217: «Curii vero di iis agitur quae mente conspicimus, id est intellectu

atque ratione, ea quidem loquimur quae praesentia contuemur in illa in-

teriore luce veritatis, qua ipse qui dicitur homo interior illustratur et frui-

tur: sed tunc quoque noster auditor, si et ipse illa secreto ac simplici oculo

videt; novit quod dico sua contemplatione, non verbis meis. Ergo ne hunc

quidem doceo vera dicens, vera intuentem; docetur enim non verbis meis,

sed ipsis rebus, Deo intus pandente, manifestis: itaque de his etiam inter-

rogatus respondere posset ». Cfr. inoltre Rctract., l. I, cap. XII, col. 602;

l. I, cap. VIII, col. 594; Ep. 144, P.L., Migne, 33, coli. 590-1; Ep. 166, coli.

724-5; Serm. 23, cap. II, P.L., Migne. vol. 38, coli. 155-6; De peccatorum me-

ntis et remissione, l. I, cap. XXV, P.L., Migne, vol. 44, coli. 129-31; Sottl.,

l. I, cap. VIII, col. 877; De Genesi ad litteram, l. XII, cap. XXXI, De civ.

Dei, l. X, e. II, P.L., Migne, vol. XVI, col. 279; De Trin., l. XII, cap. XV.

col. 1011; Retr., l. I, e. VIII, col. 598.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 31

cui non può in nessun modo esser giudice, è superiore alla pro-

pria natura : questa verità è il sole interiore che risplende diret-

tamente nell'anima (15).

Nell'eterna verità, dunque, per la quale tutto è stato fatto, ve-

diamo la forma secondo la quale siamo, e per la quale noi retta-

mente operiamo; e, concepita la vera nozione delle cose, la rite-

niamo in noi come verbo, e parlando la generiamo interior-

mente (16).

Questa presenza, attraverso la grazia illuminante, di Dio in

noi è dunque il sottofondo mistico che costantemente accompagna

tutte le proposizioni del pensiero agostiniano.

Di questa teoria sono state date interpretazioni diverse.

Secondo una interpretazione panteistica, Dio sarebbe la ra-

gione universale, immanente delle cose. Interpretazione infon-

data, in quanto S. Agostino ha ripetutamente chiarito il suo pen-

siero in proposito. Nelle Ritrattazioni, ad es., dice : « Scripsi adhuc

presbyter contra Manichaeos de Duabus Animabus, quarum di-

cunt unam partem Dei esse, alteram de gente tenebrarum, quam

non condiderit Deus, et quae sit Deo coeterna; et has ambas ani-

mas, unam bonam, alteram malam, in uno homine esse delirant:

istam scilicet malam, propriam carnis esse dicentes, quam carnem

etiam dicunt gentis esse tenebrarum : illam vero bonam, ex adven-

titia Dei parte, quae cum tenebrarum gente conflixerit, atque

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utramque miscuerit : et omnia quidem bona hominis illi bonae

animae; omnia vero mala illi malae animae tribuunt. In hoc libro

illud quod dixi, Nullam esse qualemcumque vitam, quae non

eo ipso vita est, et in quantum omnino vita est, ad summum

vitae fonte-m principiumque pertineat (Cap. 1, n. 1), ita dixi, ut

tanquam creatura ad Creatorem pertinere intelligatur, non autem

de ilio esse tanquam pars ejus existimetur » (17). E sempre nelle

Ritrattazioni : « Hoc sane concusse retinendum esse non dubito,

Deum nobis non esse istum mundum, sive anima ejus ulla, sive

nulla sit. Quia si ulla est, ille qui eam fecit, est Deus noster: si

autem nulla est, nullorum Deus po test esse iste; quanto minus

noster? Esse tamen spiritualem vitalemque virtutem, etiam si non

sit animai, mundus; quae virtus in Angelis sanctis ad decorandum

(15) De vera religione, capp. XXXI e XXXIX.

(16) De trin., l. IX, cap. VII, col. 967.

(17) Retractationes, l. I, cap. XV. col. 608.

32 ANNA ESCHER DI STEFANO

atque administrandum mundum Deo servit, et a quibus non in-

telligitur; rectissime creditur. Angelorum autem sanctorum no-

mine, omnem sanctam creaturam spiritualem, in Dei secreto at-

que occulto ministerio constitutam nunc appellaverim; sed spi-

ritus angelicos sancta Scriptura nomine animarum significare non

solet» (18).

Vi è poi una interpretazione ontologistica, secondo la quale noi

conosceremmo immediatamente e intuitivamente in Dio le idee

eterne (19). Ma anche a questo proposito Agostino, sebbene a

volte alcune sue frasi potrebbero far indurre in errore (20), ha

chiaramente espresso il proprio pensiero.

Egli dice ad es., nel De trinitate : « Est etiam quo moveri ple-

rique solent, quia scriptum est, Et locutus est Dominus ad Moy-

senfacie ad faciem sicut quis loquitur ad amicum suum : cum

paulo post dicat idem Moyses, Si ergo inveni gratiam ante te,

ostendemihi temetipsum manifeste, ut videam te; ut sim inveniens

gratiam ante te, et ut sciam quia populus tuus est gens haec : et

paulo post iterum dixit Moyses ad dominum, Ostende mihi ma-

jestatem tuam. Quid est hoc in omnibus quae supra fiebant, Deus

videri per suam substantiam putabatur, unde a miseris creditus

est, sed per seipsum visibilis Filius Dei; et quod intraverat in ne-

bulam Moyses, ad hoc intrasse videbatur, ut oculis quidem populi

ostenderetur caligo nebulosa, ille autem intus verba Dei tanquam

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ejus faciem contemplatus audiret et quomodo dictum est, Locutus

(18) Ibid., cap. XI, col. 602.

(19) Non accettano questa interpretazione: M. Grabmann, Der pòttli-

che Grand menschlicher Wahreitserkenntniss nach Augustinus und Tho-

mas, Miinster in W., 1924; M. Blondel, Le XV centenaire de la mort de

S. Angustili, in Revue de Métaphysique et de Morale, 1930; G. Sestili,

Augustini phìlosophia pro existentia Dei, in Misceli., agosto, n. 2, 1931; R.

Jolivet, Dieu, soleil des esprits, Paris, 1934; A. Masnovo, L'ascesa verso

Dio in S. Agostino, Milano, 1931; E. Gilson, Introduction à l'étude du S.

Augustin, Paris, 1943.

(20) Agostino dice ad es. nelle Confessioni: «Et pervenit ad id quod

est, in ictu trepidantis aspectus. Tunc vero invisibilia tua. per ea quae

facta sunt, intellecta conspexi; sed aciem figere non evalui: et repercussa

infirmitate redditus solitis, non mecum ferebam nisi amantem memoriam,

et quasi olfacta desiderantem quae comedere nondum possem » (l. VII, cap.

XVII, col. 745). E altrove: «Noli quaerere quid sit veritas; statim enim se

opponent caligines imaginum corporalium et nubila phantasmatum, et per-

turbabunt serenitatem, quae primo ictu diluxit tibi, cum dicerem, Veritas »

(De Trin., l. VIII, cap. II, col. 949).

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IL MANICHEISMO IN 8. AGOSTINO 33

est Dominus ad Moysen facie ad faciem sicut quis loquitur ad

amicum suum : et ecce idem dicit, Si inveni gratiam ante te,

ostende mihi temetipsum manifeste? Noverat utique quod corpo-

raliter videbat, et veram visionem Dei spiritualiter requirebat.

Quid est autem, Ostende mihi temetipsum manifeste, ut videam

set Moyses, utcumque ferendi essent stulti, qui putant per ea

te; nisi, ostende mihi substantiam tuam? Hoc autem si non dixis-

quae supra dieta vel gesta sunt, substantiam Dei oculis ejus fuisse

conspicuam : cum vero hic apertissime demonstretur, nec deside-

ranti hoc fuisse concessum; quis audeat dicere per similes formas,

quae huic quoque visibiliter apparuerant, non creaturam Deo ser-

vientem, sed hoc ipsum quod Deus est cuiusquam oculis apparuisse

mortalium? Et id quidem quod postea Dominus dicit ad Moysen,

non poteris videre faciem meam, et vivere : non enim videbit

homo faciem meam et vivet » (21).

(21) De trin., l. II, cap. XVI, coli. 862-3. E altrove: « Quem secundum

naturarci qua Deus est, nemo hominum vidit, nec videre potesti sed po-

terit aliquando, si ad illum numerum hominum pertinet, de quibus dictum

est, Beati mundo corde, quoniam, ipi Deum videbunt (Matth., v 8) ». (Con-

tra Maximinum, l. II, cap. XII, col. 768). E nel De ordine : « Haec autem

disciplina ipsa Dei lex est, quae apud eum flxa et inconcussa semper ma-

nens, in sapientes animas quasi transcribitur » (De ordine, l. II, cap. VIII,

col. 1006). E anche nei Soliloqui : « Te invoco. Deus veritas, in quo et a

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quo et per quem vera sunt, quae vera sunt omnia. Deus sapientia, in quo et a

quo et per quem sapiunt, quae sapiunt omnia. Deus vera et summa vita-

Deus intelligibilis lux, in quo et a quo et per quem intelligibili ter lucent,

quae intelligibiliter lucent omnia » (Soliloquia, l. I, cap. I, col. 870). Cfr.

anche De Trin. : « In illa aeterna ventate, ex qua temporalia facta sunt om-

nia formam secundum quam sumus, et secundum quam vel in nobis, vel in

corporibus vera et recta ratione aliquid operamur, visu mentis aspicimus:

atque inde conceptam rerum veracem notitiam, tanquam verbum apud nos

habemus, et dicendo intus gignimus » (De trin., l. DC, cap. VII, col. 967).

A proposito del valore da assegnare a questi passi, il Boyer osserva : « la

visione diretta è riservata per l'altra vita » : « tunc autem facie ad fa-

ciem ». L'importanza di questa testimonianza viene da ciò che mentre Ago-

stino vi ripete che vediamo in Dio le cose intelligibili (« lumen... in quo

videntur quae oculis carnalibus non videntur »), lo spiega egli stesso affer-

mando che in questa vita non vediamo Dio che attraverso le sue immagini

(« in speculo nisi imago non cernitur »). Per conseguenza, quando anche i

i testi agostiniani che parlano di visione di Dio in ogni conoscenza intel-

lettuale fossero più numerosi di quel che sono, si dovrebbero tutti inten-

dere secondo il senso accuratamente dichiarato qui dal loro autore » (op.

cit., p. 103).

34 ANNA ESCHER DI STEFANO

Riguardo a questa interpretazione il Gilson obbietta che, in-

nanzitutto, l'espressione « vedere le idee » in Dio è in Agostino

soltanto una metafora, di cui egli si serve per esprimere l'ine-

sprimibile, non intendendo certo dire che si può accedere alle ve-

rità mediante un rapporto corporeo: «mino quodam eodemque

incorporali modo adhaerere », per cui bisogna vedere in questo

rapporto soltanto la dipendenza ontologica dell'intelletto da Dio.

Inoltre se veramente noi potessimo vedere le idee in Dio, do-

vremmo avere analogamente la capacità di vedere Dio. Ora, è

troppo evidente, osserva il Gilson, che noi Dio non lo vediamo,

tant'è vero che cerchiamo faticosamente le prove della Sua esi-

stenza. A ciò si aggiunge che se noi conoscessimo le idee in Dio,

conosceremmo parimenti le cose materiali che di quelle idee sono

copie, senza aver bisogno di percepirle. Ora è un fatto evidente,

che l'illuminazione non ci dispensa dalla conoscenza sensibile,

necessaria perché noi possiamo accedere alla verità. Dunque, con-

clude il Gilson, vi deve essere collaborazione tra intelletto umano,

sensi corporei e illuminazione divina (22).

L'interpretazione tomistica, invece, rigetta la comunicazione

intuitiva, affermando che la nostra capacità di conoscere è un'im-

magine o partecipazione e riflesso della luce divina, per cui le

leggi della nostra ragione sono una similitudine di quelle della

divina verità. L'uomo non conosce dunque in maniera diretta le

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idee eterne, non è a contatto immediato con la luce della ragione

divina, ma conosce attraverso la naturale capacità conoscitiva

della sua mente, e la sua visione è mediata. Tesi, che in fondo è

quella del Grabmann, il quale rifiuta l'interpretazione dell'intui-

zione immediata, ed è invece del parere che l'individuo, oltre l'at-

tività naturale del suo intelletto e la luce che da esso deriva, ha

bisogno di un'altra luce, derivante direttamente da Dio, che dia

alla sua conoscenza il carattere di universalità e necessità. Il Ca-

pone-Braga è del parere che optare per queste interpretazioni sia

mal porre il problema, in quanto lo si vuol vedere attraverso dot-

trine posteriori, sviluppatesi in altro clima culturale. Egli è del

parere che per Agostino Dio, come unità degli intelligibili, sia

conosciuto e compreso dall'individuo, mentre l'essenza di Dio è

inconoscibile e ci si può elevare ad essa solo mediante l'eccezio-

nale stato dell'estasi. Il Boyer, invece, è del parere che la dottrina

(22) E. Gilson, op. cit., p. HO.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 35

cosiddetta tomistica non fu mai professata da Agostino, ma da

alcuni filosofi del XIII e XIV secolo. Egli dal canto suo pensa che

« la conoscenza umana, manifestatamele certa ed assoluta, non

può trovar la ragione di se stessa e dei suoi caratteri se non nelle

Idee eterne che sono la medesima essenza divina, la Luce immor-

tale, la Verità sussistente. Essa è dunque congiunta a questa vera

e prima Luce e ne riceve l'influsso, cioè l'illuminazione, la quale

non è soltanto un lume aggiunto ad un altro lume, ma è costi-

tutiva dell'intelletto stesso e per conseguenza è causa prima e

attuale di tutte le operazioni intellettive. In virtù di questa illu-

minazione interna, l'intelletto giudica il sensibile e tutte l'espe-

rienza umana, scoprendovi quella partecipazione alle idee divine

che pure si trova in ogni ente esistente fuori di Dio; e giudicando

nello stesso tempo che le perfezioni apprese con l'esperienza ed

anche la sua propria luce sono tali per partecipazione, risale a

Dio fonte dell'essere e della verità» (23). L'intelletto pertanto è

unito alla verità dal vincolo della partecipazione, e la sua visione

è effetto della divina illuminazione (24).

Anche il Portaliè rigetta la tesi scolastica, giudicandola in-

sufficiente : « si on s'en tenait là, il faudrait dire que saint Augu-

stin n'aurait jamais touché au problème de la connaissance, qui

parait cependant avoir été là préoccupation de sa vie entière.

Toutes ses rèponses se réduiraient à ceci: Nous savons, parce

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que tout savoir est une image des idées divines, et parce que Dieu

nous a donné l'intelligence pour savoir. Mais cela dit, tout le pro-

blème reste : en quoi consiste cette intelligence donnée par Dieu,

et comment arrive-t-elle, finie et créée, à percvoir la vérité éter-

nelle? Platon répond : réminiscence; Aristote et l'Ecole : effet de

l'abstraction; d'autres : idées innées dépòt mysterieux des vérités.

Mais Augustin n'aurait rien dit. Tout son livre Du maitre inté-

rieur consisterait à dire : « Dieu a créé notre raison » (25). Rimane

infine l'interpretazione, secondo cui Dio affida alla nostra anima le

verità eterne che ci permettono la conoscenza del mondo esterno.

Questa è la tesi del Portaliè, il quale afferma che l'anima nostra

non può pervenire alla verità intellettuale senza un influsso mi-

sterioso di Dio, che non consiste nel mostrarsi lui stesso a noi,

(23) Ch. Boyer, op. cit., pp. 122-3.

(24) Ibid.

(25) Portaliè, op. cit., coli. 2335-6.

36 ANNA ESCHER DI STEFANO

ma nel produrre nell'anima nostra come un'immagine di queste

verità che determina la nostra conoscenza. In linguaggio scola-

stico, cioè, la funzione che gli aristotelici attribuiscono all'intel-

letto agente, il sistema agostiniano lo attribuisce a Dio. Dio, cioè,

imprimerebbe nella nostra anima le verità eterne, permettendoci

così di conoscere. Le idee non sono innate, come negli angeli,

ma prodotte successivamente nell'anima, che verrebbe a cono-

scerle dentro di sé (26). Bisogna, però, avverte il Portalié, « e se

garder de confondre cette explication avec l'averroisme qui attri-

buait la connaissance elle-mème à une intelligence séparée.

D'après les Arabes, Dieu ou la rasion universelle supplée non seu-

lement l'intellectus agens, mais l'intellectus possibilis, et toute

la connaissance se ferait en moi sans moi » (27).

Il Gilson non è d'accordo con questa interpretazione, e ob-

bietta che il Portalié è in tal modo ritornato alle tesi di Guillaume

d'Auvergne e di R. Bacone (28). Nemmeno il Boyer è d'accordo

col Portalié, sostenendo che l'influenza dell'illuminazione sullo

spirito non si può concepire come una trasmissione di idee già

fatte: E' verosimile, si chiede il Boyer, che un pensatore del

valore di Agostino, il quale ha detto ripetutamente che Dio ri-

spetta l'attività delle sue creature (29), abbia poi ammesso un tale

occasionalismo, per cui Dio, invece di dare all'intelletto la capa-

cità di formare le idee, ve le pone bell'e fatte? Tanto la lettera

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che lo spirito dei testi non si accordano con questa passività del-

l'intelletto creato. Vero è che Agostino parla spesso di verità im-

pressa nella mente, dice che l'intelletto è toccato dalla luce supe-

riore, che Dio è il nostro Sole, di immagine lasciata dal sigillo, ma

queste espressioni significano solo che la nostra conoscenza di-

pende principalmente dall'influsso divino, senza per questo ri-

chiedere che questo influsso sia immediato ed unico. Per cui, se-

condo il Boyer, il Portalié, dando la prova della sua argomenta-

zione, dimostra soltanto la falsità dell'interpretazione ontologi-

stica (30). Al che il Gilson, di rimando : « c'est parfaitement juste;

(26) Ibid.

(27) Ibid.

(28) E. Gilson, op. cit., p. 117.

(29) De civitate Dei, l. VII, cap. XXX, col. 220 : « Sic itaque admini-

strat omnia quae creavit, ut etiam ipsa proprios exercere et agere motus

sinat ».

(30) Ch. Boyer, op. cit., pp. 114-5.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 37

mais il n'en résulte pas du tout que l'illumination augustinienne

ait pour fin de produire un intellecte agent comme celui que le

thomisme nous accorde. L'homme augustinien a un intellect qui

produit ses concepts et regoit de Dieu leur vérité: ni intellecte

agent thomiste, ni Dieu intellect agent » (31). E conclude : « Saint

Augustin exclut de l'illumination divine tout concept d'origine

empirique dans un concept. Lorsqu'il cite des cas de notions qui

relévent de l'illumination divine, les premiers qui lui viennent à

la pensée sont: la justice, la casteté, la foi, la vérité, la charité,

la bonté, et autres du mème genre, qui portent sur de pours in-

telligibles. Là où l'intellect applique l'illumination divine à des

concepts sensibles, comme celui d'are, ou d'homme, ce n'est pas

pour en définir le type nécessaire, qu'aucune expérience sensible

ne saurait nous révéler. L'expérience, non l'illumination, nous ap-

prend ce qu'est un are, un homme; l'illumination, non l'expérience,

nous apprend ce qu'un are parfait ou un homme achevé doivent

ètre» (32).

Anche sulla presenza delle idee nell'anima si sono formulate

diverse ipotesi. E' stata messa avanti, fra le altre, un'interpreta-

zione basata sulla reminiscenza, che naturalmente mette in evi-

denza gli influssi che Agostino avrebbe ricevuto da Platone; remi-

niscenza che si porta dietro la preesistenza dell'anima. Ora, però,

in nessun testo di Agostino si trova espressa questa teoria. Se-

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condo il Gilson tuttavia, Agostino, pur non esprimendo decisa-

mente questa tesi, adopera nelle sue prime opere vocaboli come

oblio e reminiscenza con lo stesso significato che possedevano nella

dottrina platonica : « il donc très difficile de savoir si, à cette épo-

que, Augustin se ralliait a cette conception ou s'il employait déjà

ces termes au sens proprement augustinien d'une réminiscence

sans préesistence que nous aurons plus tard à definir » (33). Que-

sti addentellati, però, anche per il Gilson, sono da localizzarsi

soltanto nelle prime opere del Santo.

Sono stati anche studiati i probabili influssi di Aristotele su

Agostino, e ci si è chiesto se quest'ultimo ammetta un processo

epagogico che dal sensibile faccia scaturire, mediante l'astrazione,

le idee universali. Per il Gilson gli elementi delle due dottrine

(31) E. Gilson, op. cit., p. 117.

(32) Ibid., p. 123.

(33) Ibid., p. 94.

38 ANNA ESCHER DI STEFANO

sono troppo differenti perché possano instaurarsi dei parallelismi.

Giacché se è vero che tanto in Aristotele che in Agostino l'uomo

è incapace di avere alcuna idea delle cose materiali senza il soc-

corso delle sensazioni, è però pur vero che il concetto di sensa-

zione è molto diverso nei due sistemi. Essa per S. Agostino è

un'azione che l'anima esercita, per Aristotele è una passione che

subisce, e la diversità di questo punto di partenza porta come con-

seguenza una divergenza anche finale sul concetto stesso del pro-

cedimento di astrazione (34). Questa difficoltà di conciliare astra-

zione e illuminazione è stata messa chiaramente a punto dall'ec-

cellente opera del Gilson, il quale osserva come, per risolvere

questo problema siano state tentate tutte le vie: si è considerato

Dio come intelletto agente, si è soppresso l'intelletto agente a van-

taggio del solo intelletto possibile, si sono fusi i due intelletti,

identificando l'intelletto agente con la stessa illuminazione di-

vina (35). Soluzioni, «qui pourront toutes se réclamer d'Augustin

précisément parce qu'il n'a soutenu aucune d'elles » (36).

Ma a mio parere, nessuna di queste interpretazioni ha colto

il vero significato della teoria agostiniana, il cui substrato riposa

sulla mortalità naturale dell'anima, che diventa immortale solo

per l'intervento della Grazia divina, la quale la solleva al grado

soprannaturale e quindi la divinizza. Questa tesi è affermata dal-

l'Ottaviano, il quale giustamente osserva che l'anima, come tutti

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gli enti creati, è mutevole, cioé soggetta al divenire : quindi le

proprietà della necessità, universalità e immutabilità, che costi-

tuiscono la certezza e fondano la scienza, non appartengono in

proprio ad essa, cioè non sono sue proprietà né possono provenire

dall'oggetto esterno, anch'esso mutevole e in divenire (37). E' ne-

(34) « L'abstraction aristotélicienne est, par définition, une abstraction

à partir du sensible aristotélicien. or ce sensible implique à son tour l'exi-

stence d'un pian commun à l'àme et aux choses, qui permette aux choses

d'agir sur l'àme et de la modifier. L'àme sensitive aristotélicienne. en tant

précisément que sensitive, n'est pas supérieure au corps sensible en tant

que sensible, et c'est ce qui permet au corps d'agir sur l'àme en y introdui-

sant l'espèce dont l'àme tirerà l'intelligible par voie d'abstraction ». (Ibid.,

p. 113.

(35) Ibid., p. 117.

(36) Ibid.

(37) « Sed memento, cum transcendis, ratiocinantem animam te tran-

scendere. Illuc ergo tende, unde ipsum lumen rationis accenditur. Quo enim

pervenit omnis bonus ratiocinator. nisi ad veritatem? cum ad seipsam ve-

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 39

cessarlo dunque che l'anima si elevi al piano divino e acquisti in

tal modo ipso facto con l'immortalità i principi universali e ne-

cessari che fondano la scienza e che essa di suo non possiede. In

questa trasfigurazione metafisica risiede il significato della illumi-

nazione agostiniana; e nella dottrina della mortalità di diritto

dell'anima sta il residuo manicheo e scettico del pensiero di Ago-

stino. La capacità di fondare la scienza universale e necessaria è

il corrispettivo logico-gnoseologico della soprannaturalizzazione

dell'anima, e quindi della sua immortalità in sede metafisica. L'a-

nima, quindi, come dice l'Ottaviano, vede in Dio il pegno della sua

salvezza dall'abisso del nulla, la garanzia della sua immortalità o

eternità, l'oggetto della sua felicità. Da qui quel profondo eude-

monismo, quella profonda sete di felicità che caratterizza, come

ben mette in evidenza l'Ottaviano, tutta la filosofia di Agostino e

che costituisce la molla profonda della sua psicologia, per cui l'esi-

genza teoretica e l'esigenza pratica si saldano insieme e si com-

pletano sulla base di Dio illuminante e beatificante (38).

La teoria agostiniana, continua l'Ottaviano, cade però in un

circolo vizioso : fonte e garanzia della certezza è Dio, ma, ove si

voglia dimostrare in sede filosofica la sua esistenza, bisogna far

ritas non utique ratiocinando perveniat, sed quod ratiocinantes appetunt,

ipsa sit. Vide ibi convenientiam qua superior esse non possit, et ipse con-

veni cum ea. Confltere te non esse quod ipsa est: siquidem se ipsa non

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quaerit; tu autem ad ipsam quaerendo venisti, non locorum spatio, sed

mentis affectu, ut ipse interior homo cum suo inhabitatore. non infima

et carnali, sed summa et spirituali voluptate conveniat. Aut si non cernis

quae dico, et an vera sint dubitas. cerne saltem utrum te de iis dubitare

non dubites; et si certum est te esse dubitantem, quaere unde sit certum;

non illic tibi, non omnino solis hujus lumen occurret, sed lumen verum

quod illuminat omnem hominem venientem in hunc mundum (Joan. I, 9)...

Deinde regulam ipsam quam vides, concipe hoc modo: Omnis qui se du-

bitantem intelligit, verum intelligit, et de hac re quam intelligit certus

est, de vero igitur certus est. Omnis igitur qui utrum sit veritas dubitat, in

seipso habet verum unde non dubitet; nec ullum verum nisi veritate ve-

rum est. Non itaque oportet eum de veritate dubitare, qui potuit unde-

cumque dubitare. Ubi videntur haec. ibi est lumen sine spatio locorum et

temporum, et sine ullo spatiorum talium phantasmate. Numquid ista ex

aliqua parte corrumpi possunt. etiamsi omnis ratiocinator intereat, aut

apud carnales inferos veterascat? Non enim ratiocinatio talia fecit, sed in-

venit. Ergo antequam inveniantur, in se manent, et cum inveniuntur nos

innovant » (De vera religione, cap. XXXIX, coli. 154-5).

(38) C. Ottaviano, Metafisica dell'Essere parziale, Rondinella, Napoli

1954, p. 60.

40 ANNA ESCHER DI STEFANO

appello ad una certezza come fondamento che la garantisca, piut-

tosto che esserne garantita. A meno di richiamarsi ad un'espe-

rienza immediata di Dio, presente in se stesso nella mente : Ago-

stino parla infatti di un contatto diretto di Dio con l'anima umana,

come caso particolare dell'onnipresenza di Dio alle cose. Ma ciò

ci conduce fuori della filosofia, nel pieno terreno della mistica (39).

Alla base del problema dell'illuminazione sta perciò un altro

grosso, combattutissimo problema, quello di Dio. Tutta l'uma-

nità, volontariamente o no, consapevole della sua parzialità e fi-

nitezza, anela al trascendente : Che potrò mai dire, si chiede Ago-

stino, O Signore Dio mio, se non ch'io ignoro donde sia qua ve-

nuto in questa vita, che non so chiamare se vita mortale, o morte

vitale? Dimmi, o Dio, dì a me supplicante, dì misericordioso a me

misero, se la mia infanzia succedette a qualche età già morta, o

se non fu preceduta che da quella che io vissi nelle viscere di

mia madre. Cosa mai vi fu prima di questa vita? Forse ch'io fui

in un altro luogo? Perché non ho nessuno che me lo dica, né mio

padre, né mia madre, né l'altrui esperienza, né la mia memoria.

Può forse qualcuno essere artefice della propria creazione? Ma

da quale altre fonte potrebbe derivare la nostra esistenza e la

nostra vita, se non da Te, in cui l'essere e il vivere si identificano,

essendo Tu l'Essere sommo e la Somma Vita? (40).

Tuttavia la voce interiore (41) non basta a dare una risposta

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soddisfacente alle esigenze dell'intelletto, che richiede prove logi-

camente e filosoficamente dimostrabili (42).

Queste, le prove che Agostino porta per dimostrare l'esistenza

di Dio:

a) La mutabilità e la contingenza delle cose create, per cui

è necessaria l'esistenza di un Essere superiore che dia loro la

vita (43).

(39) Ibid., p. 61.

(40) Ibid., p. 117.

(41) Confessiones, l. I, cap. VI, nn. 9-10, col. 664.

(42) Per Agostino la verità dell'esistenza di Dio è talmente evidente

che l'ateismo è impossibile : « Haec est enim vis verae divinitatis, ut crea-

turae rationali jam ratione utenti, non omnino ac penitus possit abscondi »

(In Johan. evang., e. 17, col. 106, P.L.. Migne, 32).

(43) A proposito della dimostrazione dell'esistenza di Dio, il Gilson

osserva : « Du point de vue de la philosophie moderne, la preuve de l'exi-

stence de Dieu est l'une des ambitions les plus hautes de la métaphysique;

nulle tàche n'est plus difficile, à tei point que certains l'estiment impossi-

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 41

b) L'ordine, la finalità e la bellezza dell'universo, che pre-

sumono l'esistenza di un Autore che possieda la perfezione di que-

sti attributi (44).

e) Il consenso del genere umano (45).

d) La necessità di una verità eterna e immutabile (46).

bile. Aux jeux, de Saint Augustin et de ceux quo s'insipreront plus tard de

se pensée, prouver l'existence de Dieu semble au contraire une tàche si

facile qu'il est à peine nécessaire de s'y mployer » (Gilson, op. cit. p. 11).

(44) «Ecce sunt coelum et terra: clamant quod facta sint; mutantur

enim atque variantur. Quidquid autem factum non est, et tamen est, non

est in eo quidquam quod ante non erat, quod est mutari atque variari.

Clamant etiam quod seipsa non fecerint: Ideo sumus, quia facta sumum;

non ergo eramus antequam essemus, ut fieri possemus a nobis. Et vox di-

centium est ipsa evidentia. Tu ergo, Domine, fecisti ea qui pulcher es, pul-

chra sunt enim; qui bonus es. bona sunt enim; qui es, sunt enim. Nec ita

pulchra sunt, nec ita bona sunt, nec ita sunt, sicut tu conditor eorum,

cui comparata, nec pulchra sunt, nec bona sunt, nec sunt. Scimus haec,

gratias tibi. Et scientia nostra scientiae tuae comparata, ignorantia est »

(Confessiones, l. II, cap. IV, col. 811). E sempre nelle Confessioni: «Inter-

rogavi terram. et dixit, Non sum; et quaecumque in eadem sunt, idem con-

fessa sunt. Interrogavi mare et abyssos, et reptilia animarum vivarum et

responderunt : Non sumus Deus tuus; quare super nos. Interrogavi auras

flabiles, et inquit universus aer cum incolis suis: Fallitur Anaximenes;

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non sum Deus. Interrogavi coelum, solem, nullam, stellas; neque nos su-

mus Deum quem quaeris, inquiunt. Et dixi omnibus iis quae circumstant

fores carnis meae: Dixistis mihi de Deo meo quod vos non estis, dicite

mini de ilio aliquid. Et exclamaverunt voce magna ; Ipse fecit nos » (Ibid.,

l. X, cap. VI, col. 783).

(45) « Tu itaque. Domine Deus meus, qui dedisti vitam infanti, et cor-

pus, quod ita ut videmus instruxisti sensibus. compegisti membris, figura

decorasti, proque ejus universitate atque incolumitate omnes conatus ani-

mantis insinuasti; jubes me laudare te in istis et confiteri tibi, et psallere

nomini tuo, Altissime (Psai., XCI, 2) : quia Deus es omnipotens et bonus,

etiamsi sola ista fecisses, quae nemo alius potest facere, nisi tu. une, a quo

est omnis modus; formosissime, qui formas omnia, et lege tua ordinas

omnia» (Zbtd., l. I, cap. VII, col. 666).

(46) L'uomo non può ignorare Dio e « si tale hoc hominum genus est,

non multos parturimus : quantum videtur occurrere cogitationibus nostris,

perpauci sunt; et difficile est ut incurramus in hominem qui dicat in corde

suo, non est Deus; tamen sic pauci sunt, ut inter multos timendo hoc dicere,

in corde suo dicant, quia ore dicere non audent. Non ergo multum est quod

jubemur tolerare; vix invenitur: harum hominum genus est qui dicant

in corde suo: non est Deus» (Enarr. in Psalm. 52, cap. II, col. 613, P.L.,

Migne, 36). Però, « exceptis enim paucis in quibus natura nimium depra-

vata est, universum genus humanum Deum mundi hujus fatetur auctorem.

42 ANNA ESCHER DI STEFANO

Dio, pertanto, è concepito come « causa sustinendi, ratio in-

telligendi, ordo vivendi» (47); in Lui si assommano tutte le per-

fezioni : Egli è la Bellezza, in quanto regola il bello; è la giusti-

zia, in quanto regola il giusto. In Lui concorrono l'infinità, l'im-

mutabilità (48), l'eternità (49). Tuttavia la nostra mente non è

capace di definire positivamente la natura divina : « Cum enim

dempsero de humana scientia mutabilitatem, et transitus quosdam

a cogitatione in cogitationem, cum recolimus, ut cernamus animo

quod in contuixtu ejus paulo ante non erat, atque ita de parte in

partem crebris recordationibus transilimus; unde etiam ex parte

dicit esse Apostolus nostram scientiam (I Cor. XIII, 9) : cum ergo

haec cuncta detraxero, et relinquero solam vivacitatem certae

In hoc ergo quod fecit hunc mundum coelo terraque conspicuum, et ante-

quam imbuerentur in fide Christi, notus omnibus gentibus Deus » (In Johan.

Evang., cap. XVII, col. 1910). Pertanto solo i puri di cuore e di mente sen-

tono in sé Dio : « IUud saltem tibi certum est, Deum esse. Etiam hoc non

contemplando, sed credendo inconcussum teneo. Si quis ergo illorum insi-

pientium, de quibus scriptum est: Dixit insipicns in corde suo, non est Deus

(Psai., 52; 1), hoc tibi diceret, nec vellet tecum credere quod credis, sed co-

gnoscere utrum vera credideris; relinqueresne hominem, an aliquo modo,

quod inconcussum tenes, persuadendum esse arbitrareris; praesertim si ille

non obluctari pervicaciter, sed studiose id vellet agnoscere? » (De lib. arb.,

l. II, cap. II, col. 1242).

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(47) « Itaque si rationalis vita secundum seipsam judicat, nulla jam

est natura praestantior. Sed quia clarum est eam esse mutabilem, quando

nunc perita, nunc imperita invenitur; tanto auem melius iudicat, quanto

est peritior, et tanto est peritior quanto alicujus artis vel disciplinae vel

sapientiae particeps est: ipsius artis natura quaerenda est... Nec jam

illud ambigendum est, incommutabilem naturarti, quae supra rationalem

animam sit, Deum esse; et ibi esse primam vitam et primam essentiam, ubi

est prima sapientia. Nam haec est illa incommutabilis veritas, quae lex

omnium artium recte dicitur, et ars omnipotentis artificis. Itaque cum se

anima sentiat nec corporum speciem motumque judicare secundum seip-

sam, simul oportet agnoscat praestare suam naturam ei naturae de qua

judicat, praestare utem sibi eam naturam, secundum quam judicat, et de

qua judicare nullo modo potest » (De vera religione, capp. XXX-XXXI,

coli. 145-47).

(48) De civit. Dei, l. VIII, cap. IV, col. 228.

(49) « Sed aliae quae dicuntur essentiae sive substantiae, capiunt acci-

dentia. quibus in eis fiat vel magna vel quantacumpue mutatio: Deo au-

tem aliquid ejusmodi accidere non potest; et ideo sola est incommutabilis

substantia vel essentia, qui Deus est, cui profectio ipsum esse, unde essentia

nominata est, maxime ac verissime competit. Quod enim mutatur, non

servat ipsum esse; et quod mutari potest etiamsi non mutetur, potest quod

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 43

atque inconcussae veritatis una atque aeterna contemplatione

veritatis una atque aeterna contemplatione cuncta lustrantis; imo

non relinquero, non enim habet hoc humana scientia, sed pro

veribius cogitavero; insinuatur mihi utcumque scientia Dei : quod

tamen nomen, ex eo quod sciendo aliquid non atet hominem, po-

tuit esse rei utrique commune » (50).

E quand'anche noi riuscissimo in certo qual modo a concepire

la Sua natura non sapremmo esprimerla : « Verius enim cogitatur

Deus quam dicitur, et verius est quam cogitatur » (51).

Al mondo delle cose finite, invece, appartengono le categorie

dello spazio e del tempo. Cos'è il tempo? si chiede Agostino; se

nessuno me lo domanda, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo do-

manda, non lo so più (52). Il tempo implica il concetto di durata,

e questa è definibile in termini di brevità e lunghezza, tuttavia

questi stessi termini non possono essere applicati alla nozione del

tempo, giacché questo, sia come presente, che come passato, che

come futuro non può dirsi né breve né lungo : come può dirsi

infatti breve o lungo ciò che non è più o ciò che non è ancora? (53).

fuerat non esse: ac per hoc illud solum quod non tantum non mutatur,

verum etiam mutari omnimo non potest, sine scrupulo occurrit quod ve-

rissime dicatur esse » (De trin., l. V. cap. III, col. 912).

(50) e Nec tu tempore tempora praecedis, alioquin non omnia tempora

praecederes. Sed praecedis omnia praeterita celsitudine semper praesentis ae-

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ternitatis; et superas omnia futura, quia illa futura sunt, et cum venerint,

praeterita erunt; tu autem idem ipse es, et anni tui non deficiunt (Psal.,

CL, 28). Anni tui nec eunt nec veniunt; isti autem nostri et eunt et veniunt,

ut omnes veniant. Anni tui omnes simul stant, quoniam stant; nec euntes

a venientibus excluduntur, quia non transeunt: isti antem nostri omnes

erunt, cum omnes non erunt. Anni tui dies unus; et dies tuus non quotidie,

sed hodie, quia hodiernus tuus non cedit crastino; neque.enim succedit

hesterno. Hodiernus tuus aeternitas; ideo eoaeternum genuisti, cui dixisti,

Ego hodie genui te (Psal. II, 7; Hebr. V. 5). Omnia tempora tu fecisti, et

ante omnia tempora tu es; nec aliquo tempore non erat tempus » (Confes-

sione*, l. XI, cap. XIII, col. 815).

(51) De divers. quaest., l. II. q. II, col. 140.

(52) De trin., l. VII, cap. IV. col. 939. E altrove : « Si comprehendis,

non est Deus » (Serm., cap. CXVII. col. 663); « Deus ineffabilis est, facilius

dicimus quid non sit quam quid sit » (In Ps., LXXXV, n. 12, col. 1090);

« Omnia possunt dici de Deo, et nihil digne dicitur de Deo » (In Evang. Joa.,

cap. XIII, col. 1495).

(53) t Quid enim est tempus? Quis hoc facile breviterque explicaverit?

Quia hoc, ad verbum de ilio proferendum, vel cogitatione comprehenderit?

Quid enim familiarius et notius in loquendo commemoramus quam tem-

44 ANNA ESCHER DI STEFANO

Ammettiamo, ad es., che si possa definire lungo il passato; ma

sorge una domanda : il passato fu lungo quando era già passato, o

quando era ancora presente : evidentemente quando era ancora

presente, in quanto « tunc enim poterat esse longum, quando erat

quod esset longum; praeteritum vero jam non erat; unde nec lon-

gum esse poterat quod omnino non erat. Non ergo dicamuc, Lon-

gum fuit praeteritum tempus; neque enim inveniemus quid fuerit

longum, quando, ex quo praeteritum est, non est. Sed dicamus,

Longum fuit illud praesens tempus quia, cum praesens esset, lon-

gum erat. Nondum enim praeterierat, ut non esset, et ideo erat

quod longum esse posset. Postea vero quam praeteriit simul et

longum esse destituii, quod esse destitii » (54). E il presente può

essere definito breve o lungo? Neanche esso, in quanto il presente

non è costituito né da un anno, né da un secondo, giacché « quid-

quid ejus avolavit, praeteritum est, quidquid ejus restate futu-

rum» (55), ma «quod in nullas jam vel in minutissimam mo-

mentorum partes dividi possit» (56), e precisamente in ciò che

« nullum habet spatium » (57) : e pertanto l'istante nella sua pun-

tualità non può dirsi né lungo né breve. Ma allora cos'è il tempo?

Non è un'estensione dei corpi, ma dell'animo, il quale giudica il

passato come memoria, il presente come visione, il futuro come

attesa : « Quod autem nunc liquet et claret, nec futura sunt nec

praeterita. Nec proprie diceretum, Tempora sunt tria, praesens

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de praeteritis, praesens de praesentibus, praesens de futuris. Sunt

enim in anima tria quaedam, et alibi ea non video: prasens de

praeteritis memoria, praesens de praesensibu contuitus, praesens

de futuris exspectatio » (58).

pus? Et intelligimus utique cum id loquimur, intelligimus etiam cum alio

loquente id audimus. Quid est ergo tempus? Si nemo ex me quaerat, scio;

si quaerenti explicare velim, nescio » (Confessiones, l. XI, cap. XIV, col. 816).

(54) « Duo... illa tempora, praeteritum et futurum, quomodo sunt,

quando et praeteritum jam non est, et futurum nondum est? Praesens

autem si semper esset, praesens, nec in praeteritum transiret; jam non es-

set tempus, sed aeternitas. Si ergo praesens, ut tempus sit, idea fit quia

in praeteritum transit; quomodo et hoc esse dicimus, cui causa ut sit illa

est, quia non erit; ut scilicet non vere dicamus tempus esse, nisi quia ten-

dit non esse ». (Ibtd.).

(55) Ibtd., cap. XV, col. 816.

(56) Ibid., col. 817.

(57) Ibtd.

(58) Ibtd., cap. XX, col. 819. L'Ottaviano fa una critica acuta della

soluzione agostiniana : « La nozione di durata lunga o breve come stato

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 45

Il mondo fisico oltre a distendersi nelle forme dello spazio e

del tempo, presenta altre caratteristiche, fra le quali la più evi-

dente è quella di essere composta da materia e forma. La materia

è elemento amorfo, che ha bisogno del connubio necessario con

la forma per assumere un qualsiasi aspetto. Non che, mette in

guardia Agostino, la materia informe fosse nel tempo prima delle

cose formate, ma insieme fu concreato e ciò che fu fatto e ciò donde

fu fatto. In un primo tempo infatti Agostino confessa che non gli

riusciva di pensare di poter sottrarre una qualche reliquia di

forma dall'oggetto, onde poter arrivare all'informe; infatti gli sem-

brava più facile negare l'esistenza di ciò che posse privo di forma,

anziché pensare qualche cosa che fosse tra la forma e il nulla. Per

questo motivo Agostino cessò di interrogare il suo spirito, orien-

tato verso la corpulenza delle immagini, e fece invece attenzione

ai corpi stessi, considerandone attentamente quella mutabilità per

cui cessano di essere quello che prima erano per cominciare ad

essere quello che non erano. E in tal modo cominciò ad intrave-

dere come il trapasso da forma a forma avvenisse attraverso qual-

che cosa di informe, e non attraverso il nulla.

Però, a questo punto, un altro problema si affacciava alla

mente di Agostino: cos'è questa mutabilità delle cose, che ha la

d'animo lungo o breve, cioè come memoria lunga o breve, attenzione lunga

o breve, in ciascuna delle quali l'animo si distenda, implica una petitto

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principii, poiché la memoria lunga si compone di diversi momenti, i quali

a loro volta si dividono in passato che non è più (come stato d'animo che

fu), in presente inesteso e in futuro che non è ancora (come stato d'animo

che fu), in presente inesteso e in futuro che non è ancora (come stato

d'animo che sarà). E così per l'attesa lunga, nonché per l'attenzione che

dura. Dice Agostino di quest'ultima : « Et quis negat praesens tempus

carere spatio, quia in puncto praeterit? Sed tamen " perdurat " attentio,

per guani pergat abesse quod aderit » (Ibid., cap. XXVIII, col. 824); ma

come può il presente durare, se durare implica una successione di istanti,

e quindi un rinnovato dividersi dell'attenzione o presente in passato pre-

sente e futuro, spostando all'infinito il problema? Se il presente è « un

punto », come Agostino stesso dice? In altri tempini. la durata rimane

inspiegata. Il problema di render ragione del mondo come possa darsi una

durata lunga o breve che non si divida subito in passato che non è più,

futuro che non è ancora e presente inestesso, cioè che non svanisca del

tutto come durata, è insoluto » (C. Ottaviano, Metafisica dell'essere par-

ziale, Rondinella, Napoli. 1954, pp. 430-1).

46 ANNA ESCHER DI STEFANO

capacità di ricevere tutte quelle forme in cui le cose si mutano;

questo quid è forse l'anima? o il corpo? o un aspetto dell'anima o

del corpo? E Agostino risponde che, se avesse potuto, avrebbe ri-

sposto che essa è niente e qualche cosa, cioè qualcosa che è e non

è allo stesso tempo. Questo quid non può avere esistenza auto-

noma, ma è sempre concreato con la forma.

La soluzione di Agostino evidentemente non regge, in quanto

questo « quid » dall'ibrida posizione tra l'essere e il nulla, la cui

realtà viene ad identificarsi con quella della forma, in che modo

può assolvere il ruolo di spiegare il mistero della mutevolezza delle

cose? Piuttosto, bisogna forse più giustamente pensare, che Ago-

stino non volesse offrire una soluzione, una spiegazione del pro-

blema, ma che le sue parole volessero essere soltanto un atto di

umiltà, un riconoscimento di questo mistero che avvolge le cose.

Secondo Agostino il mondo fu creato non nei sei giorni de-

scritti dal Genesi, ma in un solo istante (59). Il mondo così creato

(59) Agostino esclude l'interpretazione letterale della Genesi : « Hujus

autem aetatis quasi vespera, quae utinam nos non inveniat, si tamen

nondum coepit, illa est de qua Dominus dicit: Putas cum veniet Filma

hom. inveniet fidem super terram (Lue. XVIII, 8)? Post istam vesperam

fiet mane, cum ipse Dominus in claritate venturus est: tunc requiescent

cum Christo ab omnibus operibus suis ii quibus dictum est, Estote pe-

fecti, sìcut Pater vester qui in coelis est (Matt., V, 48). Tales enim faciunt

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opera bona valde. Post enim talia opera speranda est requies in die

septimo, qui vesperam non habet. Nullo ergo modo verbis dici potest

quemadmodum Deus fecerit, et condiderit coelum et terram et omnem

creaturam quam condidit: sed ista expositio per ordinem dierum sic in-

dicat tanquam historiam rerum factarum, ut praedicationem futurorum

maxime observet » (De Genes. cantra Manica., l. I, cap. XXIII, col. 193).

E altrove : « Quarto die luminaria facta sunt, de quibus dicitur, et sint in

diebus: quid ergo volunt tres dies transacti sint luminaribus? Aut cur ista

erunt in diebus, si etiam sint istis dies esse potuerunt? An quia evidentius

productio illa temporis et morarum intervallum motu istorum luminarium

distingui ab hominibus potest? An ista dierum et noctium enumeratio ad

distinctionem valet inter illam naturam quae facta non est, et eas quae

factae sunt: ut mane nominaretur propter earum speciem factarum; ve-

pera vero propter privationem? Quia quantum attinet ad illum a quo facta

sunt, speciosa atque formosa sunt: quantum autem in ipsis est, possunt

deficere, quia de nihilo facta sunt; et in quantum non deficiunt, non

est eorum materiae, quae ex nihilo est sed ejus qui summe est, et illa

facit esse in genere et ordine suo... Si dies istos consideres, quos ortus

solis occasusque distingui!, non iste quartus, sed fortasse primus est dies;

ut eo tempore putemus ortum esse solem, quo factus est, et donec cae-

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 47

non presentava però quella varietà e complessità con cui ora si di-

spiega sotto i nostri occhi, ma conteneva soltanto la distinzione

tra terra, cielo ed acqua; di tutto il resto c'erano soltanto le ra-

gioni seminali, che poi si sarebbero dispiegate attraverso i tempi,

secondo la loro specie : le cose erano contenute virtualmente nei

loro numeri, che poi si sarebbero risolti con la virtù del tempo,

come conviene a ciascuno. Come in un grano, dice Agostino (60),

si trova in modo invisibile tutto quanto poi sorgerà col tempo nel-

l'albero, così è da pensare che il mondo, allorché Dio creò insieme

tuttte le cose, ebbe in sé quanto fu fatto in lui e con lui, allorché

fu fatto il giorno : non solo il cielo col sole e la luna e gli astri,

la cui forma è permanente nel loro moto circolare, e la terra e gli

abissi, i cui moti sono vari, e di cui le parti inferiori sono legate

all'altra parte del mondo, ma anche quelle cose che l'acqua e la

terra produssero virtualmente e casualmente, prima che con la

durata dei tempi apparissero come le vediamo in quelle opere che

Dio compie fino ad oggi (61).

A questo proposito ben dice il Boyer : « Un evoluzionismo es-

senziale e profondo rimane in questa visione del mondo. L'origine

di ciascun vivente va ricercata al di là del primo individuo e al di

là del primo seme della sua specie. La ragione seminale è una

tera sidera fierent, occidisse. Sed qui intelligit et solem alibi esse, cum

apud nos nox est, et noctem alibi esse, cum sol apud nos est, dierum

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istorum enumerationem sublimius indagabit » (De Genesi ad litt., cap. XII,

col. 235; e cap. XIII, col. 237). E conclude: «Post eam conditionem a suis

operibus requievit, non condendo aliquid amplius » (De gen. ad litt., l. V,

cap. IV, col. 325).

(60) Ibid., l. V, cap. XXIII, col. 338.

((61) Il Boyer rileva che la nozione di ragione seminale a volte si av-

vicina a quella di un seme ordinario, mentre a volte richiede l'intervento

speciale di Dio per attuare lo scopo verso cui è indirizzata. Inoltre la ra-

gione seminale si applica non solo alla produzione di un ente, ma anche ai

diversi stati di un ente, anche completo e perfetto, relativamente ai suoi

stati seguenti, per cui non si tratta di un seme qualsiasi, ma di virtualità

e causalità non solo attive, ma anche passive, in tal modo l'universo si in-

dirizza verso nuove forme, delle quali possiede già le cause (op. cit., p. 74).

Tuttavia il Boyer non pensa che ciò chiuda il sistema agostiniano in un

determinismo, in quanto i movimenti degli esseri liberi rimangono liberi, e

inoltre e solo determinato il corso ordinario delle cose, e Dio interviene

soltanto per inclinare certe cause a degli effetti, di cui è stata prevista la

possibilità, ma non predeterminata la produzione. (Ibid., pp. 74-5).

48 ANNA ESCHER DI STEFANO

causa più remota e più nascosta del seme. E' una disposizione e

una virtù inserita da Dio nelle cose, al primo momento della crea-

zione e tale da produrre, sotto l'influsso almeno conservativo e di-

rettivo di Dio e attraverso l'intreccio delle attività dell'ambiente,

in un tempo determinato, il primo seme o il primo individuo di

una delle specie che oggi osserviamo » (62). Però queste parole

del Boyer non debbono farci pensare che lo studioso propenda per

la teoria evoluzionistica, in senso strettamente scientifico. Infatti

il Boyer precisa : « Sarebbe illudersi il pretendere di trovare nei

testi agostiniani la concezione di Lamarck e di Darwin, e cioè

l'evoluzione delle specie. Una tale ipotesi non poteva neppure

venirgli in mente : egli ignorava l'immensità dei tempi trascor-

si sulla terra prima dei secoli della storia e non aveva a sua

disposizione altro che l'esperienza costante degli uomini che

vedono una specie nascere da un'altra. Ed è questa esperienza

che esprimeva col dire : « Da un grano di frumento non nasce una

fava » (63). Anche il Portaltè si pone questo problema : « S'il s'agit

d'évolution athée ou d'évolution matérialiste sans àme, la question

serati ridicule, tant le róle de Dieu et de l'àme est au centre de

toute la cosmogonie et anthropologie augustinienne. Mais il est

une évolution théiste qui a pu, non sans quelque apparence, se

réclamer du docteur d'Hippone. En niant si catégoriquement les

créations sucessives n'a-t-il pas admis que le créateur a doté la

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matière d'une puissance de différenciation et de transformation

graduelles qui constitue l'évolutionnisme?... Augustin n'a pas cru

possible la transformation; mais, affirmant la fixité des espèces, il

n'admet pas que " d'un mème principe primitif ou d'un mème ger-

me, puissent sortir diverses réalités " (Martin, Saint Augustin,

p. 314). Augustin exige, pour la formation de l'univers l'interven-

tion divine immédiate, distincte du concours. Sans doute Dieu ne

crée plus, pais son action directe est parfois nécessaire pour sup-

pléer à l'impuissance des énergies cosmiques, pour amener, au

moment voulu, tel ou tel germe à son plein dévéloppement » (64).

(62) Ch. Boyer, op. cit., p. 73.

(63) Ibid., p. 72.

(64) Portaliè, op. cit, coli. 2353-4. Tesi che si accorda con quanto

aveva già affermato il Martin : « Saint Augustin voit, dans l'univers actuel,

un développemeny ininterrompu, une perpétuelle réalisation de principes

primtifs; c'est par là qu'il explique la création d'Adam et la formation

d'Eve. Il a écrit aussi plus d'une phrase qui s'entendrait fort bien au sens

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 49

Anche l'uomo è stato creato in un solo istante, dapprima « caro

humana erat pulvis aut limus, sed tamen aliquid erat unde illa

fieret, quae nondum erat » (65). Ciò per quanto riguardava il corpo;

per quel che riguardava l'anima, il problema si presentava ben più

complesso ed arduo, in quanto l'anima non poteva essere stata

creata allo stato di ragione seminale, giacché ciò avrebbe compor-

tato il problema del dove porre questa ragione. Certo non nel

limo, in quanto l'anima non poteva avere per origine la materia.

Non rimaneva che lo spirito : ma qual'è la definizione di questo

spirito, che ha per compito di portare in sé il germe dell'anima?

La conclusione logica, data l'insostenibilità di questi tentativi, era

che l'anima non avesse per sede alcunché, né avesse alcuna pro-

venienza, ma venisse ad informare il corpo, una volta che questo

fosse stato creato da Dio. I numerosi passi mostrano quanto si sia

tormentato in proposito il pensiero di Agostino (66).

La spiritualità dell'anima per Agostino è dimostrata dalla spi-

ritualità delle sue idee e dalla conoscenza in genere, che ha la sua

sede nell'anima. Essa è immortale, sia per la sua spiritualità, sia

perchè viene concepita come sede della verità e quindi come la

verità è immutabile ed eterna (67). Le facoltà dell'anima sono tre :

«révolution. Mais, d'ailleurs, saint Augustin n'est Augustin n'est pas un

naturaliste. Il a meditò en philosophe sur la constitution de l'univers, et il

est arrivé à concevoir que l'influence toujours actuelle de l'action divine

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amène, au moment voulu, tei ou tei germe à son plein développement. Si

cela seul signifie évolution, saint Augustin a été évolutionnistè. Et au con-

traire, si évolution implique trasformation, c'est-à-dire si elle implique que

d'un mème principe primitif, ou d'un mème germe, peuvent sortir diverses

réalités, saint Augustin n'a pas cru possible un tei mode d'évolution » (J.

Martin, Saint Augustin, Alcan, Paris, 1907, pp. 313-4).

(65) De Genes. ad litt., l. VI, cap. XV.

(66) De Genes. ad litt., l. X; le Epistulae, CLXIII, n. 5-11, ad Afarcel-

linum; CLXIV, ad Ewodium, n. 20; CLXVI, ad Hieronymum; CXC, ad Opta-

tum; Cont. duas epist. Pel., l. III, n. 26; Cont. Julian., l. V, n. 17; Op. imperf.

cont. Julian., l. II, n. 178; l. IV, n. 104.

(67) Cfr. De quantitate animae, cap. XIII, col. 1047, e coli. 1065-8; De

immortalitate animae, cap. VI, col. 1025. L'immortalità dell'anima è inoltre

dimostrata dall'inesauribile desiderio che ha l'uomo d'essere felice : « Cum

ergo beati esse omnes homines velint si vere volunt, profecto et esse im-

mortales volunt: aliter enim beati esse non possent. Denique et de immor-

talitate interrogati, sicut et de beatitudine, omnes eam se velle respondent.

Sed qualiscumque beatitudo, quae potius vocetur quam sit, in hac vita

quaeritur, imo vero fingitur, dum immortalitas desperatur, sine qua vera

50 ANNA ESCHER DI STEFANO

la memoria, l'intelligenza e la volontà, differenti tra loro, ma co-

stituenti un'unità inseparabile. Agostino scrive : Io ricordo di

avere memoria, intelligenza e volontà; intendo di intendere, di

volere e di ricordare; e voglio volere, ricordare ed intendere (68).

Esaminando poi l'uomo nella sua unità senza distinzione di

anima e di corpo, Agostino distingue l'uomo prima del peccato e

l'uomo dopo il peccato. L'uomo prima del peccato era dotato di

doni e privilegi straordinari; egli era esente da morte, aveva la

possibilità di «posse non mori», in contrapposizione al «non

posse mori » degli eletti; egli era esente dalle sofferenze corpo-

rali, dalla concupiscenza, inoltre aveva impressa in sé l'immagine

di Dio; era dotato della perfetta libertà, cioè di quella libertà che

tende naturalmente verso il bene, aveva cioè la facoltà di « posse

non peccare » in contrapposizione al « non posse peccare » degli

eletti.

L'uomo dopo il peccato perdette la somiglianza con Dio, la

libertà perfetta, in cambio della quale gli rimase il libero arbi-

trio; fu destinato alla morte e fu sottoposto alle tenebre dell'igno-

beatitudo esse non potest... Nemo autem male vult immortalitatem, si ejus

humana capax est Deo donante natura: cujus si non capax est, nec beati-

tunis capax est. Ut enim homo beate vivat, oportet ut vivat » (De trin.,

l. XIII, cap. VIII, coi. 1022). Cfr. anche De cìvit. Dei, l. XIV, cap. XXV,

col. 133: «Hoc enim natura expetit, nec plene ac perfecte beate erit, nisi

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adepta quod expetit ».

(68) Il Mancini (La psicologia di S. Agostino, Napoli 1919, p. 122), il

Marcos Del Rio (El compuesto umano, segun S. Agustin, Escoriai, 1931) il

P. Girolamo De Parigi (De unione animae cum corpore in doctrina s. Au-

gustine Acta hebdomadae augustinianae thomisticae, Taurini-Romae, 1931,

pp. 217-312) ammettono l'unione sostanziale dell'anima col corpo, tenendo

fede a quanto esplicitamente Agostino dice : « homo est substantia, ratio-

nalis constans anima et corpore » (De cura pro mortuis gerenda, cap. III,

P.L., Migne, XXX, col. 595), e così pure « non enim in mente homo et in

carne non homo » (Sermo CLIV, cap. X, col. 839). Il Martin invece ob-

bietta che non si può conciliare l'unione sostanziale dell'anima col corpo

col concetto che il corpo e l'anima possano reciprocamente agire l'uno sul-

l'altra. Il Boyer propende per questa interazione e unione sostanziale, met-

tendo soprattutto in evidenza la collaborazione dell'immagine sensibile nella

formazione delle idee; corpo e anima non sono due sostanze indipendenti e

complete, presa ognuna per sé: il corpo, è vero, con le sue concupiscenze,

è spesso un impedimento, però lo stato perfetto dell'uomo, conclude il

Boyer, non è la separazione dal corpo, ma è uno stato in cui il corpo perfe-

ziona l'uomo ed è l'elemento indispensabile per il conseguimento della sua

felicità (op. cit., pp. 145 e sgg.).

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 51

ranza e dell'errore. Da questo abisso lo salvò Gesù Cristo, Dio e

Uomo allo stesso tempo; che espiò per lui i suoi peccati, renden-

dolo meritevole della grazia divina. La Grazia gli restituisce quel-

l'immagine divina che Dio aveva impresso nella sua anima; inol-

tre cancella il peccato originale e dà alle sue azioni quel merito

cui prima non aveva diritto.

Agostino difese il valore della Grazia soprattutto nella pole-

mica contro Pelagio, ed a questo proposito egli esaminò il pro-

blema della predestinazione. Il genere umano dopo il peccato ori-

ginale non è che massa dannata; esso è destinato alla perdizione.

Dio avrebbe potuto abbandonare l'uomo, volontariamente colpe-

voile, al proprio destino, ma invece la Sua infinita misericordia

fece sì che alcuni fossero liberati e diede a questi i mezzi neces-

sari per salvarsi. Il motivo che portò Dio alla liberazione soltanto

di alcuni tra gli uomini dalla massa damnata resta un mistero.

Questo problema ne faceva germinare un altro, non meno in-

teressante e complesso, quello del male. Come possono conciliarsi

gli aspetti negativi del reale con l'azione causatrice di Dio? Mani-

chei da una parte e Pelagiani dall'altra, si contendevano la solu-

zione del problema e gli scritti di Agostino hanno per costante

scopo la preoccupazione di dare una risposta tanto a se stesso

quanto agli eretici. Per Agostino il male non è una sostanza, come

per i Manichei, ma un concetto negativo, una privazione. Questa,

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nel campo etico, porta per conseguenza il peccato: quel movi-

mento di avversione, che riconosciamo essere il peccato, implica

una deficienza, che ha la sua origine dal nulla e non certo da

Dio (69). Dio, cioè, crea l'individuo libero, in possesso di una

facoltà discriminatrice tra bene e male, con la conseguente re-

sponsabilità morale che questa facoltà comporta. Quindi se l'indi-

viduo inclina verso il male, la colpa non deve ascriversi a Dio, ma

a lui stesso (70).

(69) De lib. arb., l. II, cap. XX, col. 1270.

(70) Agostino distingue il male in metafisico, fisico e morale. Il male

metafisico non esiste, perché altro non è che un « defectus boni »; il male

fisico viene giustificato col concetto dell'armonia universale, alla quale si

sacrifica la perfezione del particolare; il male morale, cioè il peccato, è

l'unico male realmente esistente; esso ha come sua origine la volontà li-

bera, che è causa del peccato non positivamente ma negativamente, giac-

ché il male è non essere.

52 ANNA ESCHER DI STEFANO

Il concorso della libera azione degli uomini costituisce la

Storia. Essa è fatta dagli uomini che sono, però, in certo qual

senso, strumenti di un disegno divino, che volge anche il male in

bene, per cui ogni cosa, ogni elemento, anche se per sé manche-

vole, viene a confluire nella grandiosa armonia del tutto: la città

terrena è la condizione dell'instaurarsi della città di Dio.

* * •

Il pensiero di Agostino come quello di tutti i grandi della

storia, è stato in maniera diversa valutato ed interpretato.

Per il Boyer il carattere particolare della filosofia agostiniana

è il suo continuo ricorrere a Dio, la costante preoccupazione di

dimostrare la necessità dell'esistenza di Dio per spiegare l'esi-

stenza, la natura, l'intelligibilità, il fine degli esseri dell'esperienza :

«E' certo un fatto impressionante che un ingegno così alto abbia

sentito con tanta forza attraverso il mondo sensibile come attra-

verso il mondo dell'anima l'esigenza di una suprema realtà, im-

mutabile, perfetta e fonte di ogni cosa. Raramente la dipendenza

del creato dal Creatore è stata percepita con tanta evidenza e con

tanta pienezza come dal vescovo d'Ippona. Se egli considera la

terra nella sua bellezza e nella sua fecondità, sente una voce che

dice : « io non mi sono fatta, m'ha fatta Iddio »; se egli cerca donde

viene la certezza e l'assolutezza, cioè la verità dei nostri giudizi,

scopre sopra di sé la luce della prima e sussistente Verità; se vuole

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appagare il desiderio del cuore umano, non trova altro oggetto

che Dio, e per sostenere ed illuminare l'azione degli esseri razio-

nali non vede altro che la legge eterna che nella mente divina

tutto regge e tutto ordina » (71). Per il Boyer, il mezzo di cui Ago-

stino si serve per quest'ascesa a Dio è quello dell'introspezione

psicologica, e il fine è quello di instaurare una filosofia dell'azione,

in modo da raggiungere quella carità che ci fa desiderare e amare

Colui che poi vedremo e che ci darà la gioia della Verità. Per cui

teocentrismo, psicologismo e attivismo sono i tre caratteri che,

per il Boyer, danno all'agostinismo una figura originale. Il Martin,

invece, mette in evidenza tre caratteri della filosofia agostiniana,

il rapporto tra Dio e l'uomo, il ruolo che in essa occupa la diffe-

renza tra la conoscenza intellettuale e la conoscenza delle cose este-

(71) Ch. Boyer, op. cit., pp. 241-2.

--.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 53

riori, e il profondo senso del mistero. «Nous sommes faits pour

Dieu, et, dans quelque condition que nous puissons vivre, nous

cherchons quelque chose de plus parfait; notre destiné mortelle

ne nous suffit pas: cet enseignement paraitra toujours juste et

fera toujours une profonde impressione... Saint Augustin avait

vu que nous avons au moins deux modes de connaissance : la con-

naissance intellectuelle ou spéculative ou métapsysique, et la con-

naissance des choses exteérieures, la physique ou la science, n'a

aucun rapport nécessaire avec la connaissance intellectuelle.

C'était là une una constatation de très grande importance, que la

postérité a méconnue... Enfin, saint Augustin a eu, surtout, le

sens du mystère; il a su et il a dit qu'au delà des explications

doctrinales les plus justes, l'intelligence réclame quelque chose de

plus parfait et qu'elle ne peut jamais y parvenir » (72).

Il Gilson, di contro ai critici che tendono a negare al pensiero

di Agostino l'impronta filosofica, afferma : « L'objection fondamen-

tale qu'on lui oppose est d'ètre en contradiction avec la notion de

philosophie, mème chrétienne. Qui dit phil Sophie dit reche che

purement rationelle, c'est-à-dire fondée sur des principes qui ne

relèvent que de la seule raison; tel que nous venons de le décrice,

au contraire, l'augustinisme exige que la raison prenne son point

de départ dans la révélation. Dans la mesure où il exprime les

tendances profondes de la doctrine, le fameux Credo ut intelligam

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manifesterait cette confusion fondamentale, puisqu'il donne pour

une méthode philosophique ce qui est la méthode par excellence

de la théologie. C'est cette dernière science, en effet, qui part nor-

malement des données de la révélation pour en explorer le con-

tnu à l'aide de la raison; ma là mème, elle accepte consciemment

de se situer sur un pian différent de celui du philosophe et de ne

pas confondre son oeuvre avec la sienne; au • contraire, viciée

qu'elle est par cette confusion primitive des genres, la doctrine de

saint Augustin s'est disqualifiée une fois pour toutes comme phi-

losophie; d'un mot la notion mème de p/iilosophte augustinienne

impliquerait contradiction » (73). Inoltre il Gilson mette anch'egli

in evidenza il carattere dinamico di questa filosofia, che costante-

mente rifiuta di separare la speculazione dall'azione (74).

(72) J. Martin, op. cit., pp. 390-4.

(73) E. Gilson, op. cit., p. 317.

(74) E il Gilson precisa : « Non que l'on puisse parler d'un primat quel-

conque de l'action dans l'augustinisme; tout au contraire, nous avons vu

54 ANNA ESCHER DI STEFANO

Anche per il Portaliè la dottrina agostiniana è essenzialmente

teologica, e si accentra sul concetto di Dio. Non che lo studioso

neghi l'esistenza di una filosofia agostiniana, ma vuole solo met-

tere in evidenza come essa sia intimamente legata alla teologia :

« Il y a donc une philosophie de saint Augustin. Mais chez lui,,

elle est si intimement liée à la theologie, que l'on ne peut les sé-

parer. Augustin n'est pas un homme que l'on puisse couper en

deux. Il y a jamais eu pour lui qu'une vérité, et cette vérité il la

saisit, il l'embrasse de toute son àme, elle est pour lui comme une

émanation de Dieu et devient la loi de son ètre » (75). Il Portaliè

inoltre precisa che la dottrina di Agostino è essenzialmente catto-

lica, opposta al protestantesimo, per cui sono arbitrari i tenta-

tivi di alcuni studiosi, i quali fanno di Agostino un precursore

della Riforma; ma sono altrettanto arbitrari i tentativi di quegli

altri critici, che, al contrario, fanno di Agostino un fondatore del

cattolicesimo. Il Reuter ad es., oppure lo Schaff, o il Dorner, o

l'Harnack. Quest'ultimo ad es. afferma che Agostino ha esercitato

su tutta la vita interiore della Chiesa, vita religiosa e pensiero

religioso, una influenza assolutamente decisiva (76).

Il De Plinval, infine, vede nella filosofia agostiniana una nota

decisamente spiritualistica (77) : « La doctrine d'Augustin est spi-

que saint Augustin subordonne expressément l'action à la contemplation.

Ce qui est vrai, c'est d'abord que, comme l'homme tout entier doit partici-

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per à la recherche. Tout l'augustinisme est une ascension vers Dieu, et

heureux son ceux qui s'élèvent vers lui par la parole et les pensées, mais

bienheureux ceux dont ce sont la vie et les actes mémes qui chantent le

Cantique des Degrés : beati ergo qui factis et moribus cantant canticum gra-

duimi! Or la caractéristique de l'augustinisme sur ce point est précisément

qu'il refuse le titre de philosophie vraie à toute doctrine qui, montrant

ce qu'il faut faire, ne nous en donne pas la force. Dès lors, la sagesse chré-

tienne mérite seule le nom de philosophie, parce qu'elle seule permet aux

vues de la contemplation de se traduire concrètment en actions » (op. cit.,

p. 319).

(75) Portaliè, op, cit., col. 2322.

(76) Harnack, Das Wesen des Christentums, 1900, p. 154.

(77) Il De Pljnval altrettanto decisamente respinge ogni definizione

esistenziale : « Sans doute, sous l'influence d'une lecture trop exclusive

des Confessions, a-t-on parfois exagéré le caractère « existentiel » de la phi-

losophie d'Augustin. C'est à tort que l'on a cru devoir le primat dans sa

penseé au sentiment de l'inquiétude. Au rebours de ce qu'ont pensé Jas-

pers et les existentialistes de notre temps, pour qui la prise de conscience

de l'angoisse serait l'unique et ultime réponse d'une expérience de la vie.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 55

ritualiste. Au dessus du domaine limité auquel s'en tiennent le

positivisme, le marxisme, le « phénoménologisme », elle élève no-

tre esprit et le porte plus loi que la science; elle nous montre

quelque chose au delà de l'horizon, plus loin que les frontières

auxquelles s'arrète l'expérience matérielle. Elle nous rappelle que

les bases et les conditions du vrai relèvent d'un ordre supérieur

exempt de variations et de vicissitudes; que nos connaissances

positives sont précisément les «dérivées» de cette valeur immua-

ble et éternelle et que les principes de notre action les póles ma-

gnétiques du eBau et du Bien se trouvent dans une sphère sous-

traite aux débilités et aux contingences de la nature humaine; que

notre pensée n'a de valeur et de garantie qu'en la Pensée di-

vine» (78).

l'inquiétude augustinienne n'exprime d'un moment d'ailleurs singulièrement

émouvant, de la réaction de l'homme. Mais, quels que soient les tristesses

de la vie ou les pressentiments de l'au-delà, c'est plutòt le sentiment ou,

mieux le sens du bonheur qui reste en nous comme une notion indéstructi-

ble au fond de l'àme humaine: vestige possible d'une joie perdue, espoir

d'une joie future, regret au besoin, aspiration promesse, c'est le bonheur

qui fait tout le prix de la vie » (De Plinval, op. cit., p. 220).

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(78) Ibid., pp. 228-9.

Capitolo Terzo

IL MANICHEISMO

La storia dei secoli dall'XI al XIV è caratterizzata dal presen-

tarsi nel campo religioso, e, conseguentemente, politico e sociale,

del problemi degli scismi e delle variazioni dottrinali, che furono

denominate col termine di eresie; abbiamo, cioé, un fiorire di dot-

trine che, come dice il Michel nel Dictionnaire de théologie catho-

lique, si oppongono immediatamente, direttamente e contraddit-

toriamente alla verità rivelata da Dio e proposta come autentica

dalla Chiesa.

La prima di queste eresie è la gnosi, caratterizzata da infil-

trazioni interpretative orientali nell'ancor incerto insegnamento

cristiano. Essa, come dice il Buonaiuti, è « il tentativo grandioso

di tradurre l'annuncio della salvezza cristiana in termini di me-

tafisica, e di diluire l'entusiasmo rivoluzionario suscitato dalla

speranza della Parousia, nella visione astratta di un lentissimo

processo di reintegrazione, attraverso il quale si compie l'elezione

degli elementi spirituali dispersi nel mondo, in vista di un loro

completo riassorbimento nel Plèroma » ( 1).

La nostra conoscenza su questa deviazione dottrinale è molto

relativa, e ben lontana dall'essere esauriente, poiché gli scritti gno-

stici furono distrutti dalla Chiesa, e il nostro attuale unico mezzo

di informazione è data dalle notizie riportate nelle opere degli

scrittori antignostici: Franco, Ippolito, Filastrio, Epifanio, Teodo-

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reto, che costituiscono pertanto una fonte attendibile fino ad un

certo punto (2).

(1) Buonaiuti, Storia del Cristianesimo, l. I, p. 98.

(2) A questo proposito, invece, il Duprè Theseider osserva : « Come

fonte d'informazione, certo, non sono molto soddisfacenti: soprattutto per-

ché non lavorano in modo sistematico, non citano le loro fonti, non ten-

gono separate tra loro le varie scuole e sette, non distinguono i vari periodi.

Ma non si deve misurarli con il metro moderno: le nostre esigenze eri-

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 57

La più importante eresia anteriore al Concilio di Nicea è,

però, il manicheismo, che per il Duprè Theseider non è neppure

un'eresia del cristianesimo, ma qualcosa di fondamentalmente

estraneo ad essa, seppure con molti elementi derivati (3). Egli è

del parere si tratti di una delle grandi religioni dell'antichità,

come il buddismo e lo zoroastrismo, per cui la sua azione negativa

nei riguardi del Cristianesimo agì solo all'esterno e non come

lievito interiore. Secondo il De Beausobre, invece, i Manichei

hanno molti punti in contatto con le dottrine della maggior parte

dei padri della Chiesa, e mostrano delle affinità con gli errori delle

antiche sette, e i principi del loro sistema, e teologici e filosofici,

sono derivati dalla teologia e dalla filosofia orientale (4). Noi

siamo del parere che il De Beausobre accentui troppo la relazione

tra il manicheismo e il cristianesimo, soprattutto per quel che ri-

guarda le contraddizioni e gli errori riscontrabili nel manicheismo,

tuttavia è innegabile, contrariamente a quanto afferma il Duprè

Theseider, una evidente relazione e dipendenza.

La dottrina manichea sorse nella parte meridionale della Ba-

bilonia. Il Messina mette in evidenza come questa fosse un ter-

reno fecondo di concezioni religiose e il punto di incontro dei

popoli più diversi. Aramaici, persiani e giudei vivevano gli uni

accanto agli altri e la loro fiorente attività commerciale attirava

mercanti greci e indiani, romani e cinesi. C'erano i cultori degli

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astri, ma anche i seguaci di Zarathustra. I Giudei, attaccati alla

religione dell'Antico Testamento, vi avevano una potente e florida

colonia, che contava almeno sette secoli di esistenza, traendo la

stiche non rispondono alle consuetudini di quei tempi e del resto le stesse

critiche si possono muovere a testi ben più tardi e vicini a noi. Inoltre è

da tener presente che essi non sono storici né vogliono esserlo, ma sono

polemisti, apologeti : nel migliore dei casi non esporranno gli elementi sui

quali non si può facilmente discutere o addirittura quelli che si potrebbero

anche approvare, ma solo quei punti che si prestano alla polemica e alla

demolizione. Insomma il loro quadro della gnosi è deformato, si, ma non

volutamente e non in modo irriconoscibile, è incompleto, ma non ad arte.

Lo prova il fatto che recentemente è stato ritrovato un testo gnostico, e si

è visto che Ireneo in uno dei suoi capitoli lo aveva riassunto con suffi-

ciente esattezza » (E. Duprè Theseider, Introduzione alle eresie medievali,

Patron, Bologna, 1953, pp. 29-30).

(3) Duprè Theseider, op. cit., p. 39.

(4) De Beausobre, Histoire crittque de Manichée et du Manicheisme,

Bernard, Amsterdam, 1734, p. XVI.

58 ANNA ESCHER DI STEFANO

sua origine dai prigionieri deportati da Nabuchodonosor. Pullu-

lavano poi sette minori, come quella dei battisti, i quali cercavano

la salvezza nelle frequenti abluzioni. Né mancavano i cristiani,

che si erano rapidamente diffusi in Mesopotamia, da cui avevano

tratto origine gli gnostici, che avevano diluito il loro cristianesimo

in speculazioni fantasmagoriche, svuotando la dottrina di Cristo da

ogni contenuto storico (5).

In questo ambiente nacque Mani, verso l'anno 551 dell'era dei

Greci, cioé verso il 239, 240 dell'era cristiana, come testimonia la

Cronaca di Edessa di un autore dall'incerta nazionalità, forse

siriaco o mesopotamico (6). Tuttavia questa data non è accettata

da tutti i critici e le divergenze di opinione in proposito sono note-

voli. La maggior parte delle testimonianze antiche, e per conse-

guenza le interpretazioni moderne, sono invece d'accordo sulla na-

zionalità di Mani, che viene designata come persiana (7). Il suo

primo nome fu Corbicius; secondo gli Atti Latini, o Cubricus (8),

(5) Giuseppe Messina, Cristianesimo, Buddhismo, Manicheismo, Ruf-

folo, Roma, 1947, pp. 221-222.

(6) Il De Beausobre osserva che non ci sono ragioni molto forti per

considerare falsa la testimonianza della Cronaca d'Edessa, sebbene essa

sia in contraddizione con ciò che dicono gli Atti di Archelao, secondo cui

Mani avrebbe avuto più di sessant'anni allorquando Sapor lo fece mettere

in prigione. Sapor morì verso il 271-272, e allora non aveva che 32 o 33

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anni, quindi evidentemente, conclude il De Beausobre, Mani, se fosse ve-

ramente stato di senssant'anni, non poter essere nato verso il 240, ma tren-

t'anni prima. Ad ogni modo, osserva lo studioso francese, non ci sono mo-

tivi sufficienti per accettare questa anzicché l'interpretazione della Cronaca

di Edessa, tanto più che quest'ultima è confermata da quanto racconta

Severo d'Aschomin nella sua Historia Patriarcharum Alexandrinorum, che

ci dice come Archelao, in un incontro avuto con Mani verso il 375, aven-

dogli chiesto che età avesse, ebbme come risposta : trenta cinque anni. E ciò

confermerebbe la tesi della Cronaca d'Edessa.

(7) Il De Beausobre osserva : « Cela est certain, s'ils ont entendu par

là qu'il étoit né Sujet des Rois de Perse. Mais s'ils ont voulu dire, qu'il

étoit de la Province de Fars, ou de Perse, ou de celle de Caldèe, qui est

souvent confondue avec celle de Babylone, cela paroìt confirmé par les

Actes d'Arcélaus, où cet Evéque reproche à Manichèe de ne savoir que

son Caldaique : ce qui suppose qu'il Fa cru Caldéen » (op. cit., p. 66).

(8) Il De Beausobre suppone che tanto Corbicius quanto Cubricus

siano degli errori, e che queste due parole siano una corruzione di Carcu-

bius: «ni Corbicius, ni Cuubricus n'ont point un air Orientai; cependant,

si ce sont des noms de notre Hérésiarque, ils doivent ètre Caldéens. Babylo-

niens, puis qu'il étoit de ce Pays-là » (op. cit., p. 67).

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 59

secondo gli Autori Greci, e Urbicus, secondo Agostino. Archelao ci

parla della vita di Mani, e per quanto riguarda la sua dottrina,

ci informa che egli non fu né il primo né il solo a costituirla. L'au-

tore e il capo della setta, secondo Archelao, fu un certo Schythien,

del tempo degli Apostoli, uno di quei numerosi apostati che, desi-

derando arrogarsi un primato, sostituirono nei loro scritti l'errore

alla verità. Questo innovatore introdusse due principi contrari,

che egli traeva, come tutti gli altri dualisti, da Pitagora, ammet-

tendo il loro antagonismo, e tutto ciò che da questo derivava.

Scythien era della razza dei Saraceni, e dopo aver sposato una

schiava dell'alta Tebaide, decise di andare ad abitare in Egitto,

venendo a contatto qui con la saggezza del suo popolo. Dalle te-

stimonianze lasciate da coloro che lo conobbero, sappiamo che

ebbe molto talento e ricchezza. Alla sua morte un suo discepolo,

Terebinthe, che aveva scritto per lui quattro libri, « I misteri », « I

principi », l'« Evangelo », il « Tesoro », raccoglie i suoi beni e fugge

in Babilonia. Qui si vanta d'essere in possesso di tutta la saggezza

degli Egiziani, cambia quindi il suo nome in Buddha, pretende

d'esser nato da una vergine, e d'esser stato nutrito da un angelo

sulle montagne. Nonostante le accuse di Parcus e Labdacus, che

lo tacciano di menzogna, egli sbandiera la sua dottrina su ciò che

era esistito prima dei tempi, parla della sfera, e dei due luminari,

della maniera in cui le anime lasciano i corpi e li riprendono, della

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guerra ingaggiata contro Dio, cercando in tal modo di farsi pas-

sare per un profeta, ma non riesce a farsi altri discepoli all'in-

fuori di una vecchia donna. Un mattino, essendo salito su un'alta

terrazza, si mette ad invocare alcuni nomi, conosciuti soltanto dai

sette eletti, per fare non si sa quale rito o sacrificio. Su ordine di

Dio, trasmesso ad uno Spirito, egli fu precipitato dalla sommità

dell'edificio, e giacque inanime. Mossa da pietà, la vecchia lo

seppellisce, ma ben presto si rallegra della sua morte, sia perché

rimane padrona di tutti i suoi beni, sia perché vedeva di maloc-

chio i suoi artifici. Rimasta sola, prende con sé un servo, e preci-

samente un bambino di sette anni chiamato Corbicius (9), che essa

affranca e fa istruire. Cinque anni più tardi, essa muore, lascian-

(9) Il De Beausobre ritiene che anche la condizione di servo che Ar-

dei Greci calunniare gli eretici, presentandoli sotto le vesti meno accet-

chelao attribuisce a Mani sia sbagliata, e si basa sul fatto che era costume

tabile.

60 ANNA ESCHER DI STEFANO

dogli i suoi beni e, tra le altre cose, gli lascia i quattro libri scritti

da Scythien. Questi libri erano brevi, ed essi non contenevano che

poche righe. Corbicius seppellisce la sua padrona, poi, mettendo a

profitto l'eredità che gli aveva lasciata, va ad abitare al centro del

paese, nel quartiere del re di Persia. In seguito egli cambia nome

e si fa chiamare Mani (10).

(10) Si pensa che egli abbia preso il nome di Mani per l'affinità che

aveva con termine Maneis, significante furia, furore. Infatti S. Agostino

osserva che i Manichei derivavano da un persiano di nome Mani, sebbene

i suoi discepoli, quando la sua pazza dottrina cominciò ad essere predicata

in Greca, preferirono chiamarlo Manicheo, per evitare che il nome Mani

suonasse come pazzo (De haeres., n. 46, col. 34). Il De Beausobre osserva:

« Manichéeétant Assyrien, ou Chaldéen, on a cherché l'étymologie de son

nom dans la langue chaldaique. St. Epiphane l'a dérivé de Man, ou Mana.

qui veut dire dans cette Langue un Vase, un Instrument, un Habit. Il

semble qu'Archélaus fait allusion à cette signification du nom de Manès,

lorsq'il lui dit dans la Dispute de Cascar, Vous ètes un Vase, un Instru-

ment de l'Antechrist. Encore n'en ètes-vous pas un Instrument honorable.

mais un sale, un indigne Instrument. Il semble aussi que S. Ephrem ait eu

cette idée dans l'esprit, lorsq'il dit, que le Démon couvrit Manès de son

propre Vetement, afin de se servir de lui comme d'un Instrument, d'un

Ministre, qui lui appartenoit et de publier par sa bouche ses propre Ora-

cles » (op. cit., p. 70). Secondo Cirillo di Gerusalemme, invece, il termine

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Mani significherebbe discorso, eloquenza, ma non c'è alcuna prova che

attesti l'attendibilità di questa versione, tanto più che Mani, in una lettera

scritta a Marcello si lagna proprio d'esser privo d'eloquenza. Il sapiente

Pearson deriva Mani da Min, che significa eretico. Ma ribatte giustamente

de De Beausobre che questa interpretazione è errata per il semplice mo-

tivo che fu Mani stesso a scegliersi questo nome, e non è attendibile che

egli stesso si definisse eretico. Nemmeno attendibile secondo il De Beau-

sobre l'intrpretazione di Thomas Hyde, secondo cui Mani significherebbe

Pittore, giacché è vero non che il termine Mani significasse pittore, ma

che solo che quest'appellativo gli fosse stato concesso dai Persiani. L'unica

accettabile è invece per il De Beausobre l'interpretazione dell'arcivescovo

Usser, il quale aveva notato che Sulpicio Severo aveva chiamato Mane

un re d'Israele, termine che proviene da Manaem, il cui significato è Para-

cleto. Consolatore. Secondo Agostino, infine: «...et per dominum vestrum

Manichaeum; qui Manes lingua patria vocabatur; sed vos ut apud Graecos

nomen insaniae vitaretis, velut declinato et prolongato nomine, quasi fu-

sionem addidistis, ubi amplius laberemini. Sic enim mihi quidam vestrum

exposuit, cur appellatus sit Manichaeus, ut scilicet in graeca lingua tan-

quam manna fundere videretur; quia Graece fundi xéslv dicitur: ubi quid

egeritis nescio, nisi ut expressius vobis somniaretis insaniam. Neque enim

addidistis in parte priore nominis unam litteram, et agnosceretur manna;

sed addidistis in posteriore duas syllabas, non appellantes Mannichaeum,

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 61

Egli assimila soprattutto il contenuto dei quattro libri, recluta

tre discepoli, chiamati Thomas, Addas ed Hermas, che diventano

complici suoi, allorquando egli traduce i quattro libri e vi ag-

giunge numerose favole, simili ai racconti delle nonne. Egli mette

dunque su questi libri il suo proprio nome, dopo aver cancellato

quello del suo predecessore, come se essi fossero stati scritti sol-

tanto da lui. Dopo egli invia i suoi discepoli con gli scritti

nei principali luoghi della provincia, in tutti i villaggi e i paesi,

per conquistare adepti. Thomas volle andare in Egitto, e Addas

in Scitia. Solo Hermas preferì rimanere con lui... Al loro ritorno

i messaggeri raccontano al Maestro che ovunque fossero andati

si erano visti esecrare da tutti, e soprattutto dagli adoratori di

Cristo. Mani e i suoi discepoli, allora, procuratisi i libri dei Cri-

stiani, li fanno copiare e Mani quindi li studia per metterli al

servizio del suo dualismo. Egli critica certi dettagli, ne modifica

altri, e prende loro solamente il nome di Cristo, al quale egli af-

fetta di tenere, al fine di far cessare l'orrore e l'avversione che

provocavano in tutti i luoghi i suoi discepoli. Dopo egli invia que-

sti ultimi a predicare i loro errori così camuffati (11).

Questa dunque la presentazione della vita e della dottrina di

Mani secondo Archelao. L'Alfaric però obbietta che sebbene que-

sta narrazione sia stata ammessa senza riserva dalla maggior parte

degli autori cristiani, che hanno scritto contro i dogmi di Mani,

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sed Manichaeum; ut nihil aliud vobis tam prolixis et vanis sermonibus

suis nisi insaniam fundere sonaret. Saepissime juratis et per Paracletum,

non sane illud quem Christus discipulis promisit et nisi; sed per eum ipsum

ut latine nomen ejus interpreter, insanifusorem » (Contra Faustum mani-

chaeum, l. XIX, cap. XXII, col. 361). Agostino dice inoltre altrove : « Mani-

chaei a quodam Persa exstiterunt, qui vocabantur Manes : quamvis et

ipsum, cum ejus insana doctrina coepisset in Graecia praedicari. Mani-

chaeum discipuli ejus appellare maluerunt, devitantes nomen insaniae. Unde

quidam eorum quasi doctiores, et eo ipso mendaciores, geminata N littera.

Mannichaeum vocant, quasi manna fundentem » (De Haeresibus, cap. XLVI,

col. 34). Interpretazione seguita dai moderni, e soprattutto dal Tillemont.

Solo il De Beausobre osserva : « Je veux croire, que quelque ignorant de

Manichéen a dit à St. Augustin ce qu'il nous rapporte : Je ne doute pas

mème que ce mauvais mot ne fùt goùté des Latins, qui n'entendoient pas

la langue graeque. Mais les habiles Manichéens n'avoient garde d'avan-

cer une si ridicule étymologie. qui auroit été siflée par les Grecs, car il

eùt follu dire Manichéeus Mannichoos et non pas Manichaios » (op. cit.,

p. 74).

(11) Acta Archelai, 51-54.

62 ANNA ESCHER DI STEFANO

influenzando perfino gli autori moderni, tuttavia esso ad un esame

più attento si rivela inverosimile. Infatti se Scythien fosse vis-

suto al tempo degli apostoli, Terebinthe, avrebbe dovuto essere

più vecchio di Mani, che è presentato nel corso della stessa opera

come un contemporaneo di Probus. Ora egli muore mentre an-

cora viveva l'eretico, che già ha sette anni, quando la vedova lo

prende con sé.

Mani stesso non- ha potuto tradurre le opere che la sua pa-

drona aveva ereditato senza possedere aliJKno due lingue. Tut-

tavia, secondo l'opinione di Archelao, egli non avrebbe conosciuto

né il greco, né il latino, né l'egiziano, ma solamente il caldaico.

Inoltre i quattro libri di Schythien non sarebbero stati composti

che di poche righe : ma come un autore iniziato alla saggezza de-

gli Egiziani avrebbe potuto essere così poco prolisso? Tuttavia,

conclude l'Alfaric, « le recit des Acta n'en est pas moins instructif.

Il montre que dans le milieu où l'ouvrage a paru on connaissait

seulement quatre grands écrits de Mani. Et il nous fournit sur

cette tétrade d'utiles renseignements » (12).

Inoltre uno storico arabo An Nadim ci riferisce in termini ben

diversi la vita di Mani : Mani, egli dice, era figlio di Fouttak Bàbak

ben Abi Barzàm e proveniva dalla famiglia degli Askanidi. Suo

padre, invece, era originario di Harmadàn. Da qui egli si reca in

Babilonia, e precisamente a Ctesifonte. In questo paese si trovava

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il tempio degli idoli. Un giorno dal fondo del santuario una voce

gli disse : « Fouttak, non mangiare carne, non bere vino, e tienti

lontano dalle donne ». Per tre giorni consecutivi la stessa voce

si fa sentire da lui in diverse riprese. Dopo averci riflettuto su,

Fouttak raggiunse le persone della contrada di Dastou Meisàn,

conosciute sotto il nome di Moughtasilas, coloro che si purificano.

Quando sua moglie fu incinta di Mani e l'ebbe partorito, ebbe

su di lui dei bei sogni, lo vide in dormiveglia come preso da qual-

cuno che lo portava in aria e lo riportava giù. L'assenza durava

a volte un giorno o due... Più tardi il padre di Mani, allontanan-

dosi, lo portò in un luogo dove aveva dei parenti. Malgrado la sua

giovinezza, Mani vi fece conoscere le sue saggie parole. Dopo

avere compiuto il suo dodicesimo anno, ricevette, secondo la sua

stessa testimonianza, delle rivelazioni dal Re del Paradiso della

(12) Prosper Alfaric, Les écritures manichéennes, Nourry, Paris,

1919, p. 7.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 63

Luce, cioé, secondo la sua stessa espressione, dal Dio Altissimo.

L'angelo che gliele portò, si chiamava Eltawam, ciò che vuol dire

in nabateeno « il compagno ». Questo angelo gli disse : abbandona

questa comunità. Non appartieni ai suoi adepti. Il tuo compito con-

siste nel regolare i costumi e raffrenare i piaceri. Ma, a causa della

tua giovinezza, il tempo non è ancora venuto per te di entrare in

scena. Quando Mani ebbe compiuto il suo ventiquattresimo anno,

l'angelo Eltawam tornò a lui e gli disse : Il tempo è ora venuto

per te di apparire in pubblico e di proclamare la tua propria dot-

trina. Le parole che l'angelo Eltawam gli indirizzò, sono le se-

guenti : Salute a te, Mani, dalla parte mia e da parte del Signore

che mi ha a te inviato e che ti ha scelto per il Suo messaggio. Egli

ti ordina di darti al tuo insegnamento, di annunciare la gioiosa

promessa della verità che viene da lui e di darti ad essa con tutto

lo zelo possibile. Mani, raccontano i suoi discepoli, fece la sua ap-

parizione pubblica il giorno dell'avvento e dell'incoronazione di

Sapor, figlio d'Ardaschìr. Era una domenica, il primo giorno del

Nisan, e il sole era nell'ariete. Aveva due compagni che cammi-

navano al suo seguito, e seguivano la sua dottrina. L'uno si chia-

mava Simeone e l'altro Zaccheo. Al suo ritorno, riprende An Na-

dim, spinse Filouz, il fratello di Sapor, figlio di Ardaschir, ad ac-

cettare la sua dottrina. Filouz fece dei passi per farlo incontrare

con suo fratello Sapor. Quando Mani entrò dal re, dicono ancora

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i suoi discepoli, portava sulle spalle come due lampade brillanti.

Sapor, scorgendolo, gli testimoniò un'altissima stima, e lo guardò

con una considerazione più grande. Si era ripromesso di arrestarlo

e ucciderlo. Ma quando se lo trovò dinanzi, fu intimidito, lo com-

plimentò, si informò dello scopo della sua visita, e gli manifestò

la sua intenzione di convertirsi. Mani gli chiese, fra le molte altre

cose, che in Persia e nelle altre parti del regno, i suoi discepoli

fossero rispettati e potessero andare dove volevano. Saper acce-

dette a tutte le sue richieste (13).

Una lettera scritta da Mani a Marcello è invece indicativa

per quanto riguarda una conoscenza più diretta della personalità

dell'eretico (14). In essa egli si nomina apostolo di Gesù Cristo, e

(13) Fluegel, op. cit., p. 85.

(14) Secondo l'Alfaric l'Epistola a Marcello è stata senza dubbio fab-

bricata dall'autore degli Acta Archelai. Il suo destinatario è un personag-

gio irreale. Egli rassomiglia singolarmente ad un personaggio dallo stesso

64 ANNA ESCHER DI STEFANO

dice d'essere stato inviato da Dio per riformare il genere umano e

liberarlo dagli errori in cui era piombato. Infatti egli osserva

che gli uomini senza discernimento credono che il Bene e il Male

provengano da una medesima causa, ammettono un solo principio

di tutte le cose, non ammettono alcuna differenza tra la Luce e

le Tenebre, tra l'Uomo interiore e l'Uomo esteriore, ingiuriando

in tal modo la bontà di Dio, in quanto Dio stesso disse per bocca

di Matteo che un albero buono non può produrre dei frutti cattivi

e un albero cattivo dei frutti buoni. I cristiani, secondo Mani,

hanno fatto di Cristo il creatore di Satana e l'autore delle sue

malvagie azioni, e hanno abbassato il Cristo al ruolo di uomo,

facendo di lui il figlio di una donna chiamata Maria, nascendo dal

suo sangue e dalla sua carne, venendo al mondo con tutte le spor-

cizie che accompagnano la nascita (15). Mani inoltre rifiutava

l'apporto della Fede, definendola credulità, celebrando invece l'im-

portanza della ragione, con cui si può e si deve spiegare ogni cosa.

Questa caratteristica della dottrina manichea ci è attestata anche

da Agostino, il quale afferma che Mani pretendeva aver ricevuto

dallo Spirito Santo la scienza «de initio, de medio et de fine » (16),

nome che è apparso già negli Acta Petri. Egli era conosciuto da Mani a

causa della grande reputazione che si era acquistato in una circostanza

manifestamente leggendaria, riscattando 7700 prigionieri che erano stati

arrestati dalla guarnigione del paese, una notte in cui questa gente pre-

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gava in pieno campo. La lettera stessa è molto povera di idee. Essa non

fa che incominciare una conferenza teologica che non ha seguito; ed è

troppo intimamente legata al racconto degli Acta per non essere come essi

una pura finzione. Tuttavia alcune sue espressioni sono dello stile mani-

cheo più puro. Forse essa si è inspirata a qualche lettera autentica (Alfa-

ric, op. cit., p. 74).

(15) De actis cum Felice manich., l. I, cap. VI, col. 523.

(16) De utilitate credendi, cap. I, col. 66. Il frammento manicheo di

Touen houang ci precisa quali siano i tre principi di cui Agostino parla

nella disputa con Felice : « Nel momento anteriore non vi è ancora i cieli

e le terre, esistono solamente, divise l'una dall'altra, la Luce e l'Oscurità.

La natura della Luce è la saggezza, la natura dell'oscurità è la stupidità. In

tutto il loro movimento e in tutto il loro riposo, non v'è caso alcuno in cui

queste due potenze si scontrano. Nel momento mediano, l'Oscurità ha in-

vaso la Luce. Essa si dà libero corso per cacciarla. La Chiarezza viene,

entra nell'oscurità e si impiega tutt'intera a respingerla. Per la grande ca-

lamità, si ha il disgusto (che fa che ci si voglia) separare dal corpo; nella

dimora infiammata, si fa il voto per il quale si cerca di fuggire. Si stanca

il corpo per salvare la natura (luminosa). La santa dottrina è fortemente

stabilita. Se si facesse del falso il vero, chi oserebbe ascoltare gli ordini

IL MANICHEISMO IN V. AGOSTINO 65

e « terribili acuctoritate separata, et mera et simplici ratione, eos,

qui se audire vellent, introducturos ad Deum, et errore omni libe-

ra turos » (17).

Riguardo gli scritti di Mani, abbiamo una testimonianza di

Epifanio, per quanto non si sappia quanto attendibilità possano

presentare le sue parole. Egli ci dice che Mani ha pubblicato di-

versi libri, e in particolare, « I Misteri di Manicheo », « II Tesoro »,

« Il Piccolo Tesoro », l'« Astrologia ». Un'antica formula greca di

abiura ci parla di quattro scritti : « L'Evangelo vivente », il « Te-

soro della Vita », « I Misteri », e « La Pragmateia ton Panton »,

enumerazione questa che concorda con quella di Archelao. S. Ago-

stino nella sua disputa contro Felice ci parla di cinque autori, e

sembra con ciò non volesse intendere cinque autori diversi, ma

cinque diversi libri, che poi Timoteo di Costantinopoli, nel VI se-

colo segnalerà come « l'Evangelo vivente », « Il tesoro della vita »,

« I libri dei Misteri », « I principi » e il « Trattato dei Giganti ». Una

formula di abiura del tempo di Photius enumera l'Evangelo vi-

vente, il « Tesoro della vita », « I Misteri », il libro delle « Cose na-

scoste » e i « Memorabili ». E verso il 1000, infine, Birouni ci dà

un'ultima serie : « L'Evangelo », « Lo Shàpourakòn », il « Tesoro

della vivificazione », il « Libro dei Giganti », e i « Misteri ». An

Nadim, invece, ci parla dei « Misteri », dei « Giganti », dei « Pre-

cetti », di « Shàpourakàn », della « Vivificazione », di « Farakma-

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tija»; e una lacuna nel testo fa pensare che egli avesse enume-

rato una settima opera, che si pensa possa identificarsi con

l'« Evangelo ».

Di questi libri, a parte la notevole discordanza che si trova

nella loro enumerazione, la nostra conoscenza è limitata, in quanto

gli antichi cercarono di distruggere le testimonianze della dottrina

(ricevuti?). Bisogna ben discernere e cercare le cause che liberano. Nel

momento posteriore, l'istruzione e la conversione sono compiute. Il vero

e il falso sono ritornati ciascuno alla sua radice. La luce dal suo lato è

ritornata alla grande Luce, l'Oscurità all'Oscurità. I due Principi sono ri-

costituiti » (Chavannes e Pelliot, op. cit., pp. 114-116).

(17) Contra Faustum manich., 1. XIII, cap. XVII, col 293. E il De

Beausobre : « et quoiqu'elle ne fùt pas entendue en Occident avec un gran

soin, comme des Monumens précieux des travaux, et de la Foi de leurs

Péres. Mar la méme raison, des Chrétiens qui ne savoient pas l'Hébren,

gardoient néanmoins avec respect les Originaux du Vieux Testament » (op.

cit., p. 425).

66 ANNA ESCHER DI STEFANO

manichea. Si sa con certezza, però, che essi erano scritti in di-

verse lingue. Alcuni furono scritti in persiano, sia perché l'eresia

era nata in Persia, sia perché ce ne dà testimonianza Agostino :

« Itane persicis libris jubes me credere, qui Hebreis me discis non

credere? » (18). L'eresia, però, ben presto si propagò nelle Provin-

cie della Mesopotamia e della Siria, per cui molti libri manichei

furono scritti anche in siriaco. Per la stessa ragione si ebbe anche

una produzione in greco e in latino. S. Agostino ci dice però

d'aver visto solo un'opera di Adimante e l'Epistola del Fonda-

ili) E' molto probabile che Agostino alluda all'Epistola del Fonda-

mento allorquando nel De morìbus Manichaeorum osserva che fu proposto

agli eletti manichei di vivere secondo la lettera di Mani. Questo partico-

lare, dice l'Alfaric (op. cit., p. 55), spiegherebbe perché l'opera non sia

menzionata tra le prime raccolte degli scritti maggiori dell'eretico, in

quanto essa faceva parte del volume delle Epistole. Anzi per l'Alfaric essa

si identificherebbe con la settima delle Lettere di Mani, menzionate da

An Nadim, e che si intitolerebbe, « la grande Epistola a Fouttak ». Infatti

questo nome, che era quello del padre di Mani, appare in greco, nel testo

antimanicheo, sotto la forma di Patekios, che sembrerebbe corrispondere

a quel certo Patticius cui è indirizzata l'Epistula Fundamenti (Alfaric,

op. cit., p. 59). Secondo il Cumont, l'Epistula Fundamenti, è identificata

ordinariamente con "^ xSv xeqpaXaòojv gtgXos, nominata nella lista delle opere

manichee da Timoteo e dalla Formula d'abiura. Tuttavia il titolo che

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il Fihrist dà a quest'opera, « Libro dei precetti per gli uditori e precetti

per gli eletti », sembra indicare piuttosto un trattato esponente le regole

della vita morale e religiosa ad uso delle due classi di fedeli, gli uditori

e gli eletti. Inoltre essa non è, come l'epistola latina, una lettera indiriz-

zata ad un personaggio determinato, in risposta ad una questione precisa.

Al Cumont sembra invece probabile che essa occupi il primo posto nella

collezione sacra delle epistole di Mani, cui il Fihrist dà il titolo di

« Sendschreiben von den betden Principien », cioè della luce e delle te-

nebre (Cumont, Recherches sur le manichéisme, vol. I, Lamertin, Bruxel-

les, 1908, pp. 4-5). L'Epistula Fundamenti, come viene citata da Agostino,

mostra notevoli variazioni col testo siriaco tramandatoci da Teodoro. Il

Cumont osserva in proposito che l'Epistula ha subito « dans la version

dont se sert St. Augustin un véritable remaniement. Les noms barbares

ont été remplacés par de vagues « vertus » ou puissances, et les génies

cosmiques, vivant et agissant dans la grande épopèe de Mani, sont deve-

nus de pàles abstractions sans personnalité. Nous avons affaire sans doute

à une traduction latine édulcorée d'une traduction où déjà l'esprit philo-

sophique grec avait altréré la pensée religieuse du prophète babylonien et

le goù hellénique corrigé discrétement les écarts de son imagination orien-

tale» (Cumont, op. cit., p. 6).

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 67

mento (19), di cui ci riporta numerosi brani, e anche l'inizio del

Tesoro di Mani, che però non riporta nel testo originale (20), seb-

bene ce ne tramandi molti passi (21). Agostino inoltre ci informa

che fu molto numerosa la produzione letteraria dei discepoli di

Mani, di Adimanto, Agapio, Fausto, ecc. Il De Beausobre è del

parere, però, che egli non la conoscesse in maniera diretta. Ciò

che per il critico conferma questa ipotesi è il fatto che egli non

cita queste opere nelle sue dispute. Se egli avesse letto i libri della

setta, li avrebbe allegati, per giustificare e confermare le accuse

che rivolgeva loro, mettendo in contraddizione gli autori l'uno con

l'altro, rilevando le assurdità che vi avrebbe scoperto : « en un

mot, il n'est pas possible qu'il n'eùt tiré de grands avantages des

Livres des Manichéens contra les Manichéens mèmes. Or ne l'a-

yant pas fait, c'est, à min gré, une preuve certaine qu'il ne les

avoit jamais lùs. Il n'est pas possible aussi qu'il n'y eùt trouvé

des réponses à ses Objections, ce qui l'auroit engagé à les refu-

ter» (22). Ciò viene confermato, secondo il De Beausobre, da

quanto Agostino dice nella polemica con Fausto : « Voi mi alle-

gherete forse qualche libro di Mani, in cui egli dice che Cristo

non è nato da una Vergine ». E ancora : « Voi mi allegherete forse

qualche altro libro che porta il nome di un Apostolo, in cui Si

dice che Cristo non è nato da Maria ». Questi « forse » fanno pen-

sare al De Beausobre che Agostino non avesse letto né i libri di

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Mani, né gli Apocrifi dei Manichei. La principale ragione, secondo

il critico, è da ricercare nel fatto che essendo questi libri scritti

in persiano, siriaco, greco, il nostro Agostino non era in grado

(19) Il De Beausobre spiega in tal modo questa mancanza di citazioni:

e Quoiqu'il ensoit S. Augustin ne connossoit guére les Livres de la Secte,

soit parce qui n'étant qu'Auditeur, les Elùs ne les lui communiquoient pas:

ou parce qu'étant jeure et ayant bien d'autres vues que de devenir Archè-

vèque des Manichéens d'Afrique, il négligeoit cette lecture. Plein d'esprit,

et d'ambition, appliqué à l'étude de la Litérature Romaine, qui pouvoit

seule lui acquérir une réputation et une fortune brillante, il n'étoit pas

d'humeur à lire des Ecrits obscurs, des Versions barbares faites sur du

Persan, ou sur du Syriaque pour connoitre à fond les Mysteres de la plù-

part des Livres des Manichéens, dont il ne nous reste presque que les ti-

tres » (De Beausobre, op. cit., p. 426).

(20) De natura boni, cap. XLJV; De Actis cum Felice manich., cap. I,

14, ecc.

(21) De Beausobre, op. cit., p. 436.

(22) Ibid., p. 437.

68 ANNA ESCHER DI STEFANO

di leggerli (23). Ma l'accusa del De Beausobre ci appare del tutto

infondata. Non si può accusare Agostino di non aver letta alcuna

opera manichea, sia perché egli ne cita spesso dei brani, molte

volte riportando addirittura testualmente il testo, sia perché egli

dimostra evidentemente di conoscere i principi e gli assunti della

dottrina manichea, come attestano le sue frequenti contesta-

zioni, e le sue precise accuse. Oltre tutto sarebbe stato ben strano

che Agostino in nove anni non avesse letto niente della fede che

professava.

In ogni caso dalla ricostruzione che ci è possibile fare delle

opere manichee, possiamo riscontrare che queste si avvalevano di

uno stile molto semplice, affinché, loro dicevano, la verità non si

mostrasse più avvolta dal miracolo o dall'immagine, ma potesse

esser vista faccia a faccia (24).

Le notizie che noi sappiamo sui manichei provengono dalle

citazioni e dalle informazioni lasciateci dai polemisti cristiani e

non cristiani, e da alcuni manoscritti manichei scoperti a Tour-

fan (25).

Alessandro di Lycopolis, alla fine del III secolo, nel suo vo-

lume «I dogmi dei Manichei» (26), ci dà alcune notizie interes-

(23) Ci riferisce Agostino : « Hoc enim quasi proprium atque praeci-

puum auctoris sui laudibus tribuunt, quod dicunt illa quae ab anti-

quis figurate in libris divina mysteria posita sunt. huic qui ultimus ven-

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turus erat, solvenda et demonstranda esse servata : et propterea post istum

jam neminem doctorem divinitus esse venturum, quia nihil iste per alle-

gorias et figuras dixerit, cum et antiquorum quae talia fuerant aperiret,

et sua enodate manifesteque monstraret » (Cantra epistulam manichei, cap.

XXIII, col. 189). E altrove : « Tu vero praecipue Manichaeum ob hoc prae-

dicas quod non ad talia dicenda, sed potius ad solvenda ultimus venerit:

ut et figuris antiquorum apertis, et suis narrationibus ac disputationibus

evidenti luce prolatis, nullo se occultaret aenigmate. Addis eam praesum-

ptionis huius causam quod videlicet antiqui, ut figuras hujusmodi vel vide-

rent, vel agerent, vel dicerent, sciebant istum postea venturum, per quem

cuncta manifestarentur : iste autem, qui sciret post se neminem ad futu-

rum, sententias suas nullis allegoricis ambagibus texeret » (Contra Fau-

stum, l. XV, cap. VI, coli. 308-9).

(24) Per la rassegna della bibliografia manicheo ho seguito le indica-

zioni fornite dall'ALfAric.

(25) P. G. XVIII, coli. 409-448, ed. Fr. Combefis, 1672, e Collezione

Teubner, Leipzig, 1895, ed A. Brinkmann.

(26) Acta Archelai, P. G., X, coli. 1405-1528. Ed. Zacagni, 1698, C.C.S.E.

Berlino, ed. Breeson. Di quest'opera l'Alfaric ci riferisce il contenuto:

« Son oeuvre constitue une sorte de drame théologique en quatre actes.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 69

santi sulle scritture antiche e nuove, e sul manicheismo, che egli

sembra conoscere in maniera precisa. Al IV secolo risalgono gli

Acta Archelai, il cui autore è incerto, e viene da alcuni identifi-

cato con un certo Hegemonius (27). Anche al IV secolo apparten-

gono le opere di Ephrem (28), un autore siriaco, che poté leggere

nella loro lingua originale le opere manichee, lasciandocene un

interessante resoconto. Anche due contemporanei di Ephrem, Ci-

rillo di Gerusalemme (29) e Serapione di Tmuis (30), ci sono

utili per la ricostruzione del pensiero manicheo. E così pure l'opera

di un vescovo, Trrus di Bostra (31), che inoltre ci riporta una

parte dell'opera di Serapione, creduta smarrita fino a poco tempo

fa. Abbiamo, quindi, sempre nel IV secolo, Epifanio, con un trat-

tato « Contro le Eresie », che però non rivela una conoscenza di-

retta, e quindi la sua importanza per noi è molto limitata. Lo

stesso si può dire per altri autori latini dello stesso periodo, come

Ilario, Ambrogio, Gerolamo, ecc. Fra questi spicca soltanto Vit-

torino, con il suo trattato « Contro i due Principi », ma la sua te-

stimonianza difetta di precisione.

D'abord un certain Turbo, disciple de Mani, est envoyé par lui à Kanshkar

en Mésopotamie, auprès de Marcellus, un chrétien influent qu'il a mission

de convertir et il lui expose la foi nouvelle. Sur la demande de Marcellus,

l'hérésiarque lui-méme va bientót le rejjoindre et il engagé une discussion

publique avec Archlaus, l'évèque du lieu, par qui ilest très vite confondu. Il

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s'enfuit alors jujsque dans le bourg de Diodore, où, sur la demande d'un

prètre du mème nom qui l'entend exposer ses erreurs, Archelaus vient ou-

vrir avec lui un nouveau tournoi, le réfute une seconde fois et l'obblige

à retourner en Perse. Enfin, l'évèque de Kashkar raconte la vie de Mani

et à cette occasion il fait l'histoire de ses écrits » (Alfaric, op. cit., p. 112).

(27) J. e E. Assemani, Sancti Ephrem opera omnia quae exstat graece,

syriace, latine, Roma. 1732-1746, 66 voli. Cfr. anche Th. J. Lamy, S. Ep-

fraem Hymni et Sermones Molines, 1882-1902; ed anche C. W. Mitcheix,

S. Ephraim's Prose, Londres, 1912.

(28) P.G., VI, coli. 20-35.

(29) P.G., XV, coli. 900-924.

(30) Trrus di Bostra, I, 31, e III, 120; Cfr. A. Brinkmann, Serapion

von Tmuis, in « Sitzungsberichte » dell'Accademia delle Scienze di Berlino,

1894, pp. 479-491; ed. Galland, Paris, 1779; ed. Migne, P.G., XVIII, coli.

1069-1264; ed. P.A. de Lagarde, Titi Bostreni, quae ex opere contra Mani-

chaeos edito in codice Hamburgensi servata sunt graece, Leipzig, 1859;

P.A. de Lagarde, Titi Bostreni contra Manichaeos libri quatuor syriace,

Leipzig, 1859).

(31) P.L., vol. XXXII, coli. 1345-1378.

70 ANNA ESCHER DI STEFANO

Di ben altra importanza è invece la testimonianza di Agostino,

che affronta i Manichei principalmente ne « I costumi dei Mani-

chei » (32), « Sulla Genesi contro i Manichei » (33), « Sulla vera

religione » (34), « Sull'utilità di credere » (35), « Sulle due anime

contro i Manichei » (36), « Contro Fortunato, monicheo » (37), « Con-

tro Adimanto, discepolo di Mani » (38), « Contro l'Epistola di Mani,

detta del Fondamento » (39), « Contro Fausto » (40), « Contro Fe-

lice » (41), « Sulla natura del bene contro i Manichei » (42), « Con-

tro Secondino manicheo » (43), e infine in molti capitoli delle

« Confessioni », in numerosi sermoni e in molti passi di altre sue

opere, che noi riporteremo alla fine del nostro lavoro.

Di una notevole importanza è anche l'opera di Evodio, amico

di Agostino, vissuto nel V secolo, che scrisse « Contro i Mani-

chei» (44), riportando numerose citazioni dell'Epistola del Fon-

damento e del Tesoro. Sulla scia di Agostino, ma con un atteggia-

mento molto meno originale è il papa Leone. Di qualche aiuto ci

sono le Formule latine d'abiura, che i Manichei convertiti dove-

vano recitare (45).

Molto meglio informato è Teodoro, vescovo di Cyr (46), con

il suo « Riassunto delle favole eretiche », la cui data di pubblica-

zione si colloca tra il 451 e il 458. L'Alfaric è del parere che egli

espone i principi del credo manicheo in maniera troppo precisa,

cosa che porta a pensare che egli abbia utilizzato un'opera della

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setta. Tuttavia egli non ne cita e non ne menziona espressamente

nessuna (47). Altri autori di minore importanza, appartenenti al

(32) P.L., vol. XXXIV, coli. 173-220.

(33) P.L., vol. XXXIV, coli. 121-172.

(34) P.L., vol. XLII, coli. 63-92.

(35) P.L., vol. XLII, coli. 93-112.

(36) P.L., vol. XLII, coli. 11-130.

(37) P.L., vol. XLII, coli. 129-172.

(38) P.L., vol. XLII, coli. 173-206.

(39) P.L., vol. XLII, coli. 207-518.

(40) P.L., vol. XLII, coli. 519-552.

(41) P.L., vol. XLII, coli. 551-572.

(42) P.L., vol. XLII, coll. 572-602.

(43) P.L., vol. XLII, coli. 1139-1153.

(44) P.L., XLII, coli. 1153-1156 (10 articoli); P.L., vol. LXV, coli. 23-30

(21 articoli).

(45) P.G., vol. LXXXIII, coli. 377-381.

(46) Alfaric, op. cit., pp. 166-7.

(47) P.G., vol. LXXXVI, coli. 20-24.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 71

VI secolo sono Severo d'Antiochia, Eustachio, Timoteo di Costan-

tinopoli (48).

Al VI secolo appartengono anche le Formule greche di abiura,

che, nonostante gli inevitabili travisamenti, ci danno delle utilis-

sime informazioni sulla setta (49).

Visse nel VII secolo l'anonimo della « Dottrina dei Padri sul-

l'incarnazione del Verbo », scritto tra il 662 e il 679, e che riporta

alcuni brani dell'Epistola di Mani. Abbiamo anche Anastasio (50),

che fa un raffronto tra la dottrina monofisita e quella manichea.

Nell'VIII secolo abbiamo Giovanni Damasceno, con il suo

« Dialogo contro i Manichei » (51), e una « Discussione di Gio-

vanni l'ortodosso con un manicheo », in cui non vi è però al

cuna citazione. Maggiore è invece l'importanza di Teodoro bar

Khòni (52), che ci parla della vita di Mani e ci tramanda una

raccolta di opinioni blasfeme sostenute dai manichei. Al IX secolo

appartiene Niceforo, patriarca di Costantinopoli, con «Contro

Eusebio » (53), « Contro Epifanide » (54) e « Contro gli Iconocla-

sti» (55), che ci riporta dei brani delle lettere di Mani. Abbiamo

infine Pietro di Sicilia, e Phottus (56).

Questi, gli autori che ci hanno tramandato il pensiero della

dottrina manichea. Ora, riunendo i frammenti sparsi nelle opere

di Agostino, e completandoli in quelle parti dove questi vengono

meno, con quelli attinti dalle opere degli altri polemisti, cer-

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chiamo ora di ricostruire la dottrina manichea.

(48) Cfr. quanto dice l'Alfaric : « Les grands écrìts de la secte pros-

crite s'y trouvent indiqués. Plusieurs méme y sont brièvement caractérisés.

Et les dogmes fondametaux du Manichéisme y sont aussi rappelés avec des

détails précis et suggestifs, qui semblent puisés à bonne source, malgré

les altérations que leur ont fait subir des copistes distraits et ignorants »

(op. cit., p. 118).

(49) P.G., vol. LXXXIX, 102, 106, 120, 192, 218, 253, 290, ecc.

(50) P.G., vol. XCIV, coli. 1503-1584.

(51) P.G., voi. XCVI, coli. 1319-1336.

(52) H. Pognon, Inscriptions Mandaites des coupes de Khonabir, Paris,

1819; F. Cumont, Recherches sur le Manichéisme, l. I, Bruxelles, 1908.

(53) Contro Eusebio, cap. 21, 4, 42, presso Pitra, Spicil. Solesm., I,

405-406, 433, 444.

(54) Contro Epifanide, cap. 21, 29, presso Pietra, op. cit., IV, pp. 359-360,

376, 378.

(55) Contro gli Iconoclasti, Bibl. nat., mss. greci, Fondo Coslin, 93,

fol. 215 r°.

(56) P.G., vol. dV, coli. 1305-1349.

72 ANNA ESCHER DI STEFANO

Agostino inizia la propria ricostruzione della cosmologia ma-

nichea con queste parole di Mani rivolte a Patticio : Ascolta in-

nanzi tutto quali cose fossero prima della creazione del mondo,

e in che modo sia pattuito il prezzo affinché tu possa conoscere la

natura delle luci e delle tenebre (57).

In origine, racconta Mani, vi furono due sostanze, divise tra

di loro. Teneva il regno della luce il Dio Padre, perpetuo nella

sua santa stirpe; magnifico nella virtù, vero per la sua stessa na-

tura, sempre felice nella sua propria eternità, e contenente in sé

la sapienza e i sensi vitali, per mezzo dei quali egli comprendeva

anche le dodici membra della luce, che sono le ricchezze affluenti

del suo regno. In ognuna delle sue membra sono nascosti mille

infiniti e immensi tesori. Lo stesso Padre, sovrano nella sua gloria,

e incomprensibile nella sua grandezza, possiede uniti a sé i beati

e gloriosi secoli, di cui non si può stimare né il numero, né l'esten-

sione. Poiché il Santo e illustre Padre e Genitore non mancava

di nulla; nel suo insigne regno non vi era niente di indigente o di

infermo. Parimenti questo splendidissimo regno fu fondato sopra

la lucida e beata terra, che da nessuno può esser mossa o di-

strutta (58).

Agostino, però, non ci informa quali siano le membra di Dio.

Noi invece ricaviamo la loro enumerazione da Teodoro bar

Khóni, vescovo di Kashkar, che ci informa come al di fuori del

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Padre si trovino cinque dimore : l'intelligenza, la ragione, il pen-

siero, la riflessione, la volontà (59).

(57) Al che Agostino obbietta : « Jam incredibilia et falsa omnino pro-

posuit. Quis enim credat ante constitutionem mundi ullum proelium fuisse

commissum? Et tamen si est credibile, modo nos non credere, sed cogno-

scere venimus. Nam qui dicit Persas et Scythas ante multos annos secum

bellasse, rem dicit eredibilem; meam tamen quam vel auditam vel lectam

possumus credere, non expertam comprehensamque cognoscere. Cum ergo

istum repudiarem, si tale aliquid diceret; non enim ea pomisit, quae coge-

ret credere, sed quae possem sine ulla ambiguitate cognoscere: quomodo

eum non repudiabo, quando non modo incerta dicit, sed etiam incredi-

bilia? Sed quid? si aliquibus rationibus ea perspicua et cognita faciet?

(Cantra epistulam manichaei, cap. XII. col. 182).

(58) Ibid.

(59) Il Cumont ci informa a proposito delle cinque dimore di Dio, che

il termine siriaco di cui si serve Mani aveva già prima di lui un duplice

significato. Esso stava ad indicare dimora, abitazione, ma anche veniva

usato per designare la gloria o la maestà divina; il termine, cioè, è passato

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 73

Ma in una parte di quell'illustre e santa terra, continua Ago-

stino, vi era la terra profonda delle tenebre, immensa nella sua

grandezza, nella quale abitavano i corpi ignei, generi pestiferi.

Qui infinite tenebre, emananti dalla stessa natura, con i propri

prodotti. Altrove acque velenose e torbide con i loro abitanti. Più

all'interno venti terribili e veementi con il loro principe e con i

loro padri. E poi nuovamente la regione ignea e corruttibile con

i suoi duci. Allo stesso modo vi era dentro la gente caliginosa e

piena di fumo, in cui abitava l'immane principe e capo di tutti,

avente attorno a sé innumerevoli principi, dei quali egli era la

mente e l'origine. Questi erano le cinque nature della terra pesti-

fera (60), le tenebre, l'acqua, i venti, il fuoco, il fumo (61).

da una significazione materiale ad una astratta : « plus loin ces " demer-

res " sont assimilées à des " mondes " ou des " siècles " ou des " éons ",

car le mot employé ('àlam) signifie tout cela... On doit donc regarder les

les cinq ' demeures " du Pére comme étant en méme temps ses cinq attri-

buts ou, pour emprunter ce terme à la philosophie greque, ses cinq hy-

postases : l'intelligence, la raison, la pensée, la réflexion, la volonté » (Cu-

mont, op. cit., pp. 9-10).

(60) Cantra epistulam manichaei, cap. XV, col. 184. Al che Agostino

obbietta : « Dicit enim, juxta unam partem ac latus; nec dicit quam par-

tem, vel quod latus, dextrum an sinistrum. Sed quodlibet eligant, illud

certe manifestum est, non dici unum latus, nisi ubi est et alterum latus.

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Ubi autem vel tria vel plura sunt latera, aut figurae ambitus intelligitur

undique terminatus, aut si ex aliqua parte in immensum patet. ex iis tamen

quae latera dicuntur, necesse est finiatur. Dicant ergo, ex alio latere, vel

ex aliis lateribus, quid adjungebatur terrae lucis, si ex uno latere erat

gens tenebrarum? Non dicunt: sed cum praemuntur ut dicant, infinita

dicunt esse alia latera terrae illius quam lucis vocant, id est, per infinita

spatia distendi, et nullo fine cohiberi. Nec intelligunt jam non esse latera.

quod quibusvis tardis ingeniis apertissimum est. Tunc enim essent latera,

si finibus suis terminarentur. Quid ad me, inquit, si non sint latera? Sed

cum diceres, juxta unam partem ac latus, aliam quoque partem sive par-

tes, et aliud latus sive latera cogebas intelligi » (Contra epistulam mani-

chaei, cap. XX, col. 187).

(61) Agostino infatti dice : « Ho parlato di queste cose affinché la smet-

tiate una buona volta di ripeterci che la terra nella sua immensa esten-

sione e profondità sia un male; un male la mente che erra per la terra.

un male i cinque antri degli elementi, uno pieno di tenebre, uno di acque,

uno di venti, un altro di fuoco, e un altro ancora di fumo; un male gli

animali nati in ciascuno di questi elementi: i serpenti nelle tenebre, i pesci

nelle acque, gli uccelli nei venti, i quadrupedi nel fuoco, i bipedi nel

fumo » (De moribus manichaeorum, l. II, cap. IX, col. 1351).

74 ANNA ESCHER DI STEFANO

Il Re delle tenebre, però, infrange i limiti del proprio regno

e progetta di salire verso il paese della luce, sconvolgendo così

l'ordine delle cose. Allora le cinque dimore divine ebbero paura.

Ma il Padre della grandezza, dopo aver riflettuto, pensò di non

inviare nessuno di esse alla guerra, poiché esse erano state create

per la tranquillità e la pace, ma di andare egli stesso alla guerra

contro il Dio delle tenebre (62). Evocò quindi la Madre di Vita, la

Madre di Vita evocò l'Uomo Primitivo e l'Uomo primitivo evocò

i suoi cinque figli, come un uomo che riveste l'armatura per il

combattimento. Un angelo chiamato Nahashbat lo precedeva te-

nendo nella mano la corona di vittoria. L'Uomo primitivo proiettò

dinanzi a sé la sua luce e vedendola il Re delle Tenebre rifletté

e disse : ciò che ho cercato lontano l'ho trovato accanto a me (63).

Si inizia così la lotta, e, poiché, dopo alterne vicende, alla fine la

vittoria stava per rimanere in mano al dio delle tenebre, l'uomo

primitivo si dette egli stesso come alimento con i suoi cinque figli

ai cinque figli delle tenebre, come un uomo che, avendo un ne-

mico, mescola in un pasticcio un veleno mortale e glielo dà. Quando

i figli delle tenebre li ebbero mangiati, l'intelligenza fu tolta ai

cinque dei risplendenti ed essi divennero, a causa del veleno dei

figli delle tenebre, simili ad un uomo morso da un cane arrab-

biato o da un serpente (64). Le cinque specie di demoni — dice un

(62) Teodoro, in Cumont, op. cit., pp. 13-14. E in Agostino: «Lucis

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vero beatissimae pater sciens labem magnam ac vastitatem, quae ex te-

nebris surgeret, adversum sua sancta impendere saecula, nisi aliquid exi-

mium ac praeclarum et virtute potens numen obponat, quo superet simul

ac destruat stirpem tenebrarum, qua extincta perpetua quies lucis incolis

pararetur » (De natura boni, cap. XLII, col. 565).

(63) Teodoro, in Cumont, op. cit., p. 18. Al che Agostino obbietta: A

chi la si vuol dare ad intendere che nel regno delle tenebre, privo d'ogni

luce, gli animali avessero la vista così ferma, così acuta, anzi così incre-

dibile, che in mezzo alle loro tenebre scorgessero la purissima luce dei re-

gni di Dio, tanto cara a voi e la mirassero e la contemplassero e se ne

compiacessero e l'amassero, laddove i nostri occhi dopo la mescolanza

della luce, dopo la mescolanza di Dio sono diventati così impotenti, che

nelle tenebre non vediamo nulla e non possiamo reggere alla vista del sole

e distolto lo sguardo, andiamo cercando gli oggetti che vedemao prima. (De

moribus manichaeorum, l. II, cap. IX, col. 1352).

(64) E in Agostino: « Aut projicite jam libros Manichaei, quibus te-

stibus credidistis lucem pugnasse cum tenebris, quae lux ipse Deus erat;

et ut posset ligare lux tenebras, prius esse lucem a tenebris devoratam,

et ligatam, et inquinatam, et dilaniatam: quam vos manducando recreatis.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 75

manoscritto manicheo ritrovato in Cina (65) — aderirono ai cin-

que corpi luminosi come la mosca che si attacca al miele, o come

l'uccello che è trattenuto dal vischio, o come il pesce che ha in-

ghiottito l'esca. Allora l'Uomo Primitivo, ripresa la ragione, indi-

rizzò a sette riprese una preghiera al Padre della Grandezza. Que-

sti evocò come seconda creazione l'Amico delle Luci, l'Amico delle

Luci evocò il Gran Ban, il Gran Ban evocò lo Spirito Vivente.

Questi fa sorgere dalla sua intelligenza l'Ornamento di Splendore,

dalla sua ragione il grande Re d'Onore, dal suo pensiero Adams-

Luce, dalla sua riflessione il Re di Gloria e dalla sua volontà il

Portatore.

Essi vanno nella terra delle tenebre e vi trovano l'Uomo Pri-

mitivo e i suoi figli. Allora lo Spirito Vivente lo chiama ad alta

voce e l'Uomo Primitivo riesce a sganciarsi dalle strettoie del

Re delle tenebre e si eleva insieme allo Spirito Vivente verso la

et solvitis, et purgatis, et sanatis, ut vobis merces retribuatur, ne cum illa

quae liberali non potuerit, in globo aeterno damnemini » (Contra Fau-

stum, l. XIII, cap. XVIII, col. 293). Ed egli inoltre dice: Al fine di imbri-

gliare e frenare la sostanza malvagia, sempre bollente di sommo furore,

una parte di Dio venne a mescolarsi con essa, e in tal modo dalle due na-

ture commiste insieme del bene e del male fucostruito il mondo. Se non

che la parte divina si purifica ogni giorno e si restituisce alle sue sedi, ma

esalando dalla terra e tendendo verso il cielo, si imbatte nei tronchi degli

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alberi, perché questi con le loro radici si sprofondano nella terra, e così

feconda e fa prosperare tutte le erbe e tutti gli alberi donde gli animali

prendono l'alimento, e se si accoppiano imprigionano nella carne questa

parte divina, la deviano dal suo corso e l'inceppano, gettandola in mezzo

agli errori e ai dolori (De moribus manichaeorum, l. II, cap. XV, col. 1361).

Il Cumont a proposito di questa mescolanza dell'intelligenza con la na-

tura demoniaca osserva : « Le symbolisme est ici transparent et la signi-

fication de ce mythe n'a pas échappé aux commentateur grecs. En toutes

choses se mélent les principes bienfiants sont retenus captifs dans l'épais-

seur de la matière impure comme l'àme humaine l'est dans sa prison cor-

porelle. Car le monde est un grand ètre animé et l'homme un microcosme:

l'esprimt domine parfois en nous la chair, mais plus souvent la corruption

qui l'entoure l'aveugle et le pervertit. De méme. l'àme divine de l'univers

a prétendu dompter les puissances ténébreuse et s'en faire obéir " comme

d'une bète sauvage qu'une parole magique fait coucher "; mais elle mème,

déchue de sa puissance, s'est souillée à leur contact, " comme s'infecte le

contenu d'un vase malpropre " » (op. cit., p. 19).

(65) Chavannes e Pelliot, Un traité manichéen retrouvé en Chine,

nov. die. 1911, (Paris), p. 515.

76 ANNA ESCHER DI STEFANO

Madre di Vita (66). Tuttavia i cinque elementi rimangono prigio-

nieri del mondo delle tenebre. Il manoscritto di Pechino definisce

questo mondo come la farmacia in cui i corpi luminosi guariscono,

e nello stesso tempo la prigione dove i demoni oscuri li incate-

nano (67).

Lo Spirito vivente ordina allora a tre dei suoi figli di ucci-

dere, togliere la pelle agli Arconti, figli delle Tenebre, e di por-

tarla alla Madre di Vita, la quale ricopre il cielo delle loro pelli,

e fa così undici cieli. Essi gettano i loro corpi sulla terra delle te-

nebre, fanno otto terre, e i cinque figli dello Spirito Vivente sono

iniziati ognuno al loro lavoro. E' l'Ornamento di Splendore che

trattiene i cinque dei risplendenti per le reni, e al di sotto delle

loro reni i cieli furono distesi (68). E' il Portatore che, inginoc-

chiato, sostiene le terre. Quando i cieli e le terre furono fatti,

il Gran Re d'Onore si sedette nel mezzo del cielo e montò la

guardia per custodire tutti (69).

(66) Il manoscritto di Pechino li denomina il Vento Puro e la Madre

Eccellente. Agostino, invece, nel ContraFaustum (l. XX, cap. IX, col. 375)

chiama lo Spirito Vivente, « Spiritus potens ». Lo Chavannes e il Pelliot

ci riferiscono che esso probabilmente era identificato dai Manichei con lo

Spirito Santo, in quanto viene nominato in una trinità dopo il padre della

luce e il figlio della luce. Che i Manichei abbiano riconosciuto la trinità,

ci è attestato da Fausto, il quale dice : « Noi serviamo una sola e mede-

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sima divinità dotto il triplice appellativo di Padre onnipotente, di Cristo

suo Figlio e dello Spirito Santo » (Contra Faustum, l. XX, cap. II, col. 369).

E anche Fortunato osserva : « unam fidem sectantes hujus Trinitatis, Pa-

tris, Filii et Spiritus Sancti» (Contra Fortunat., disp. I, col. 114). Agostino

stesso riconosce che « nunquam dicere ausi sunt Manichaei Patrem, Filium

et Spiritus Sanctum, nisi unius esse substantiae (Opus imperf., l. V, cap.

XXX, col. 1468).

(67) Chavannes e Pelliot, art. cit., p. 515.

(68) La versione di Agostino è un po' diversa : « Illum enim dicis ca-

pita elementorum tenere, mundumque suspendere; istum autem genufixo,

scapulis validis subbajulare tantam molem, utique ne ille deficiat » (Son-

tra Faustum, l. XV, cap. V, col. 307).

(69) Teodoro, in Cumont, op. cit., p. 26. Agostino dice : « Et spiritum

potentem de captivis corporibus gentis tenebrarum, aut potius de mem-

bra dei vestri victis atque subjectis, mundum fabricantem; et splendite-

nentem, reliquias eorundem membrorum dei vestri habentem in manu,

et caetera omnia capta, oppressa, inquinata plangentem; et Atlantem ma-

ximum subter humeris suis cum eo ferentem, ne totum ille fatigatus abjiciat,

atque ita fabula vestra velut in tapete theatrico ad illius ultimi globi

catastolium pervenire non possit » (Contra Faustum, I. XX, cap. LX, col. 375).

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 77

Allora lo Spirito Vivente scoprì le sue forme ai figli delle

Tenebre, purificò una certa quantità della luce che essi avevano

assorbita, togliendola ai cinque dei risplendenti, e fece il Sole, la

Luna, e oltre questi vascelli, le stelle (70). Lo Spirito Vivente fece

le ruote del Vento, dell'Acqua e del Fuoco (71); discese e le formò

al di sotto (della terra), accanto al Portatore. Il Re di Gloria pose

su di esse un letto (72), affinchè esse salissero su questi Arconti

che erano soggiogati sulle terre, e affinché esse servissero i

cinque dei risplendenti, temendo che questi potessero bruciare a

causa del veleno degli Arconti. Allora la Madre di Vita, l'Uomo

Primitivo e lo Spirito Vivente si misero a pregare e ad implo-

rare il Padre della Grandezza; il Padre della Grandezza li sentì e

creò come terza creazione il Messaggero. Il Messaggero evocò do-

dici vergini (73) con i loro vestiti, le loro corone e le loro abitu-

(70) Agostino ci informa che la luna è costituita da acqua buona e il

sole da fuoco buono (De haeres., XCVI, col. 35). « Sed Patrem quidem ipsum

lucerei incolere credimus summam ac principalem, quam Paulus alias inac-

cessibilem vocat (Tim. VI, 16): Filium vero in hac secunda ac visibili luce

consistere; qui quoniam sit et ipse geminus, ut eum Apostolus, novit, Chris-

tum dicens esse Dei virtutem et Dei sapientiam (I Cor., I, 24); virtutem

quidem ejus in sole habitare credimus, sapientiam vero in luna : necnon

et Spiritus sancti, qui est majestas tertia, aeris hunc omnem ambitum se-

denti fatemur ac diversiorium; cujus ex viribus ne spirituali profusione, ter-

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ram quoque concipientem, gignere patibilem Jesum, qui est vita ac salus

bominum, omni suspensus ex Ugno » (Contra Faustum, l. XX, cap. II,

col. 369).

(71) e Itane tu facie ad faciem vidisti regnantem regem sceptrigerum,

floreis coronis cinctum, et deorum agmina, et splenditenentem magnum,

sex vultus et ora ferentem, micantemque lumine; et alterum regem honoris,

Angelorum exercitibus circumdatum; et alterum adamantem heroam bel-

ligerum; dextra hastam tenentem, et sinistra clypeum; et alterum gloriosum

regem tres rotas impellentem, ignis, acquae, et venti » (Ibid., l. XV, cap. VI.

col. 309).

(72) Il vocabolo è di significato oscuro.

(73) Nel manoscritto ritrovato in Cina si parla di dodici grandi reami,

formati dai cinque elementi luminosi e dai cinque membri spirituali del-

l'Inviato della Luce, più Khróstag e Padvakhtag. (Chavannes e Pelliot,

art. cit., p. 543). In proposito Agostino dice : « Per quos etiam duodecim

membra luminis sui comprehendit regni videlicet proprii divitias affluen-

tes. In unoquoque autem membrorum ejus sunt recondita millia innumera-

bilia et immensorum thesaurorum » (testo di Mani, Contra epistulam Fun-

dam », cap. XIII, coli. 182-3). E nel Contra Faustum (l. XV, cap. V, col.

307-8 : « Sequeris enim cantando, et adjungis duodecim saecula floribus

78 ANNA ESCHER DI STEFANO

dini. La prima fu la Regalità, la seconda la Saggezza, la terza la

Vittoria, la quarta la Persuasione, la quinta la Purezza, la sesta

la Verità, la settima la Fede, l'ottava la Pazienza, la nona l'Onestà,

la decima la Bontà, l'undicesima la Giustizia, la dodicesima la

Luce (74). Allorché il Messaggero venne verso questi vascelli, cioè

a dire il Sole e la Luna, incaricò tre servitori di farli camminare

e ben tosto essi giunsero in mezzo al cielo. Allora incaricò il

Grande Ban di costruire una terra nuova e le tre ruote da mon-

tare (75). Quando i tre vascelli si trovarono in mezzo al cielo, il

Messaggero, che era bello nelle sue forme, infiammò di concupi-

scenza gli Arconti di entrambi i sessi, mostrandosi a ciascuno di

loro come un bellissimo contrapposto del loro sesso (76).

Anche Agostino ci riporta un frammento manicheo che ri-

guarda la liberazione delle particelle di luce dalle tenebre. Questo

felice Padre, che ha i vascelli luminosi per residenza e per abi-

tazione, porta soccorso con la sua clemenza abituale alla sua so-

stanza vitale, per liberarla dai suoi legami empii, dalle sue dif-

ficoltà e dai suoi tormenti. Con un segnale invisibile egli trasfi-

gura quelle delle sue virtù che si trovano nella nave brillante e le

fa apparire alle potenze avverse che sono state poste nelle di-

verse regioni del cielo. Poiché queste ultime potenze hanno i due

sessi, maschio e femmina, egli ordina alle dette Virtù di apparire

l'una sotto forma di giovanotti completamente nudi alla opposta

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stirpe delle donne, le altre sotto forma di ragazze sprovviste di

ogni velo all'opposta stirpe dei maschi. Sa bene che tutte queste

potenze nemiche, in seguito alla loro concupiscenza mortale e del

tutto immonda, si lasceranno facilmente prendere e ridurre in

schiavitù dall'apparizione di queste forme meravigliose, e fini-

ranno così per lasciarsi andare. Voi non dovete ignorare infatti,

che questo felice padre è tutt'uno con queste stesse virtù, alle quali

dà di volta in volta, per un motivo ineluttabile, l'aspetto di gio-

vanotti e quello di ragazze. Le impiega come altrettanti strumenti

convestita, et canoribus plena, et in faciem patris flores suos jactantia.

Ubi et ipsos duodecim magnos quosdam deos profiteris, ternos per quatuor

tractus, quibus ille unus circumcingitur ».

(74) La enumerazione è pressocché identica nel manoscritto cinese.

(75) « Alius rotas ignium, ventorum, et aquarum in imo versat, alius in

coelo circumiens radiis suis, etiam de cloacis membra dei vestr^ colligit »

(Ibid., l. XX, cap. X, col. 376).

(76) Teodoro, in Cumon , op. cit., pp. 27-38.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 79

di combattimento che gli permettono di realizzare i suoi progetti.

Queste virtù divine, così drizzate dinanzi alla gente infernale e

abituate ad eseguire allegramente e facilmente il loro programma

nel momento stesso in cui l'hanno concepito, riempiono i navigli

luminosi. Non appena la ragione domanda loro di apparire ai ma-

schi, queste sante virtù si fanno vedere sotto l'aspetto di ragazze.

D'altra parte, quando esse arrivano dinanzi alle donne, abbando-

nando il loro aspetto di ragazze, si mostrano sotto l'aspetto di

giovanotti interamente nudi. Dinanzi a questa visione attraente,

le cattive Potenze raddoppiano d'ardore e di concupiscenza. Il le-

game dei loro pensieri detestabili si rilassa immediatamente

l'anima vivente che restava chiusa nelle loro membra, trovandosi

liberata sfugge e si mescola all'aria purissima. Essa vi si purifica

completamente. Poi essa sale sui navigli luminosi che sono stati

preparati per imbarcarla e condurla alla sua patria. Le scorie che

conservano la lordura della gente nemica scendono in piccole parti

col fuoco e il calore e si mescolano agli alberi, alle piante e a tutte

le sementi colorandosi di tinte diverse. Così sulla grande e bril-

lante nave, le figure dei giovanotti e delle ragazze appaiono alle

potenze contrarie stabilite nel cielo che hanno una natura ignea,

e in seguito a questa apparizione attraente, fanno rilasciare e scen-

dere sulla terra, con il calore, la porzione di vita che si trova nella

membra di ciascuno di esse» (77).

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Gli Arconti cominciarono nel loro desiderio a restituire quella

luce che avevano assorbita, togliendola ai cinque dei risplendenti.

Ma il peccato che si era mescolato assieme alla Luce negli Arconti

venne fuori contemporaneamente ad essa e nella stessa propor-

zione. Il Messaggero, nascondendo la propria apparenza, separò la

Luce dei cinque dei riplendenti e il peccato che era con essi. Il pec-

cato, uscito dagli Arconti, ricadde su di loro, ma essi non lo rice-

vettero, come un uomo che abbia orrore del proprio sputo. Allora

questo peccato cadde sulla terra, metà sulla parte umida, e metà

sulla parte secca. (La prima) si cambiò in una bestia orribile simile

al Re delle Tenebre. Adams-Luce fu inviato contro di essa, le

diede battaglia e la vinse. La capovolse sul dorso, la colpì al cuore

con la propria lanciia, spinse il proprio scudo sulla sua bocca, mise

uno dei suoi piedi sulle sue coscie e l'altro sul suo petto. Il pec-

(77) De natura boni, cap. XLIV, col. 568.

80 ANNA ESCHER DI STEFANO

cato, che era caduto sulla parte secca si mise a germinare sotto la

forma di cinque alberi (78).

Per quanto riguarda la Luce che, liberatasi dagli Arconti,

sale in parte pura al cielo, ed in parte resta macchiata, Agostino

dice : « Id vero, quod adversi generis maculas portat, per aestus

atque calores particulatim descendit atque arboribus ceterisque

inficitur... quod vero resederit, laxatum deducitur in terram per

frigora et cunctis terrae generibus admiscetur » (79).

Le figlie delle Tenebre erano gravide di loro propria natura.

In seguito alla bellezza delle forme del Messaggero che esse ave-

vano veduta, esse abortirono e i loro feti caddero sulla terra e

mangiarono i germogli degli alberi (80). Gli aborti tennero con-

siglio tra di loro e si ricordarono della forma del Messaggero che

essi avevano vista e dissero : dov'è la forma che noi abbiamo vista?

Ashaqloun, figlio del Re delle Tenebre, disse agli aborti : datemi

i vostri figli e le vostre figlie e io vi farò una forma come quella

che voi avete vista. Quelli glieli portarono e glieli diedero. Ma

egli mangiò i maschi e diede le femmine a Namrael, sua compa-

gna. Namrael e Ashaqloun si unirono insieme; Namrael concepì

(78) « Ubi nihilominus Manichei evertit errorem, qui et grana et her-

bas et omnes radices ac frutices gentem tenebrarum dicit creare, non

Deum; et in eis formis atque generibus rerum Deum potius credit alligari,

quam horum aliquid operari » (Contra Faustum, l. XXIV, cap. II, col. 475).

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(79) De natura boni, cap. XLIV, coli. 568-9.

(80) « ... In quibus erant etiam feminae aliquae praegnantes : quae, cum

caelum rotari coepisset, eamdem vertiginem ferre non valentes, conceptus

suos abortu excussisse; eosdemque abortivos fetus et masculos et feminas de

caelo in terram cecidisse, vixisse, crevisse, concubuisse, genuisse. Hinc

esse dicunt originerei carnium omnium, quae moventur in terra, in aqua,

in aere » (Contra Faustum, l. VI, cap. VIII, col. 235). Erano animali così

robusti di corpo, dice altrove Agostino, che i loro feti abortivi, dopo che di

questi, secondo la vostra setta, fu costruito il mondo,, quantunque caduti

in terra dal cielo, pure dite che non poterono morire (De morìbus Mani-

chaeorum, l. II, cap. IX, col. 1351). Essi, continua Agostino, quantunque

precipitati dal cielo in terra, poterono nondimeno vivere e generare e con-

giungere insieme, come quelli che ritenevano il primitivo potere ricevuto

nel concepimento prima che avvenisse la mescolanza del bene e del male.

Infatti negli animali nati dopo questa mescolanza voi riconoscete quelli che

ora vediamo debolissimi e facilmente cedevoli alla corruzione; ma chi può

più credere più oltre a queste aberrazioni, se non chi nulla vede, o, per non

so quale incredibile consuetudine e dimestichezza con voi, s'incaponisce

contro ogni peso di ragione! (Ibid., col. 1353).

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 81

e partorì da Ashaqloun un figlio al quale diede il nome di

Adamo; concepì e partorì una figlia alla quale diede il nome di

Eva (81).

Gesù il Luminoso si accostò all'innocente Adamo e lo risvegliò

da un sonno di morte, in modo che egli fu liberato da molti spi-

riti. Come un uomo giusto, che trova un uomo posseduto da un

demonio terribile e che lo placa con la sua arte, così era Adamo

allorché questo amico lo trovò immerso in un sonno profondo : lo

risvegliò, lo fece muovere, lo tirò fuori dal sonno, scacciò il de-

mone seduttore e incatenò lontano da lui la possente Arconte fem-

mina. Allora Adamo si esaminò lui stesso e seppe chi era. Gesù

mostrò ad Adamo i padri residenti nelle altezze del cielo, e la

sua persona esposta a tutto, ai denti della pantera e ai denti del-

l'elefante, divorata dai voraci, inghiottita dagli ingordi, mangiata

dai cani, mescolata ed imprigionata in tutto ciò che esista, legata

al fetore delle tenebre. Gesù lo fece stare in piedi e lo fece cibare

all'albero della vita. Allora Adamo guardò e pianse. Alzò forte-

mente la voce come un leone ruggente, si strappò i capelli, si

batté il petto e disse : « Maledizione, maledizione al Creatore del

mio corpo, a colui che vi ha legato la mia anima, e ai ribelli che

mi hanno asservito » (82).

(81) Il ms. di Pechino ci informa dell'origine dei due sessi con altre

parole: «Quando il demone dell'odio, il maestro della cupidigia, vide ciò,

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ne concepì dei sentimenti di rabbia e di gelosia; fece allora le forme dei

due sessi, il maschio e la femmina, al fine di imitare i due grandi vascelli

luminosi, che sono il Sole e la Luna, di sconfiggere e di turbare la natura

luminosa, in modo che essa montasse sui battelli d'oscurità, che, condotta

da essi, entrasse negli inferi, che essa trasmigrasse nelle cinque condizioni

d'esistenza, che subisse tutte le sofferenze e che in definitiva le fosse dif-

ficile essere liberata » (Chavannes e Pelliot, art. cit., pp. 533-4).

(82) Teodoro, in Cumont, op. cit., pp. 39-49. Queste parole riassumono

la valutazione d'insieme dell'eresia manichea da parte di Agostino : « ... Et

alia innumerabilia pariter inepta et insana, nec pingendo aut sculpendo,

nec interpretando demonstratis : et ea, cum omnino nulla sint, creditis et

colitis; et insuper Christianis fide non ficta pias mentes mundantibus tan-

quam temere credulis insultatis. Ut enim multa non quaeram, quibus haec

ostendantur omnino non esse, quia subtilius sublimiusque tractare de mundi

fabrica, etsi mihi difficile non esset, certe nimis longum est; hoc dico :

si ista vera sunt. Dei substantia commutabilis est, corruptibilis, coinquinabi-

lis. Hoc autem credere, plenum est sacrilegae insaniae. Illa igitur omnia

vana sunt, falsa sunt, nulla sunt. Proinde vos Paganis istis, qui vulgo noti

sunt. et antiquitus fuerunt, et in reliquiis suis jam nunc erubescunt, pror-

82 ANNA ESCHER DI STEFANO

Con questo grido di dolore si conclude la descrizione mani-

chea. Ed è questa conclusione a rendere ancora più drammatica la

realtà dell'uomo, il quale sente di dover maledire per le proprie

miserie non il tentatore, il dio delle tenebre, ma Colui che nu-

trendolo con l'albero della vita, gli diede la possibilità di conoscere

la propria miseria, e Colui che, creandolo, legò la sua anima e

quanto vi era in lui del regno della luce alla miseria del corpo, e

alla materia, frutto degli osceni aborti delle Arcontesse genitrici

di male.

sus deteriores estis, quod illi colunt ea quae dii non sunt, vos autem omnino

quae non sunt » (Contra Faustum, l. XX, cap. IX, col. 375). Agostino critica

in ogni sua parte la dottrina manichea. I punti che egli confuta sono:

a) Il problema della priorità della fede sulla ragione.

b) Il problema del male.

e) Il problema della sostanza di Dio e della sua immutabilità e in-

corruttibilità.

d) Il problema della apostolicità di Mani e della sua identificazione

con lo Spirito Paracleto.

e) Il problema della verginità di Maria.

/) Il problema dell'umanità di Cristo.

g) Il problema della concordanza del Vecchio col Nuovo Testamento.

h) Il problema morale.

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Su questi punti si soffermerà la rimanente parte del nostro lavoro.

Capitolo Quarto

RAGIONE E FEDE

Per Agostino i mezzi che la divina Provvidenza offre al-

l'uomo per la comprensione delle cose, sono l'autorità e la ra-

gione.

L'autorità rappresenta la constatazione dell'impossibilità di

una conoscenza diretta di ogni cosa, e la necessità di usufruire a

volte della testimonianza altrui : « Sicut ergo de visibilibus quae

non videmus eis credimus qui viderunt... de invisibilibus, quae

haec a nostro sensu exteriore remota sunt, iis non oportet credere,

qui haec in illo incorporeo luminose disposita didicerunt vel ma-

nentia contuentur» (1). Essa da un punto di vista strettamente

razionale è insufficiente (2), ma ha bisogno dell'aiuto della ra-

gione. Per cui la ragione segue l'autorità basandosi su determinate

argomentazioni; e la verità, già conosciuta e chiara, diventa a sua

volta somma autorità.

Il modo con cui la divina Provvidenza si interessa ai singoli

uomini e all'intero genere umano ci è rivelato dalla storia e dalle

profezie; e la comprensione di essa e degli avvenimenti in cui

essa si manifesta, sia passati che futuri, si ha più mediante il

credere che l'intendere. Naturalmente tocca a noi discernere a

(1) De civ. Dei, l. XI, cap. III, col. 518.

(2) Cfr. De libero arb., l. I, cap. III, coli. 1224-5 : t Quid, si quispiam

nos exagitet, exagerans delectationes adulterii. et quaerens a nobis cur hoc

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malum et damnatione dignum judicemus; num ad auctoritatem legis con-

fugiendum censes hominibus, jam non tantum credere, sed intelligere cu-

pientibus? Nam et ego tecum credo, et inconcusse credo, omnibusque po-

pulis atque gentibus credendum esse clamo, malum esse adulterium: sed

nunc molimur id quod in fidem recepimus, etiam intelligendo scire ac te-

nere firmissimum. Considera itaque quantum potes, et renuntia mini, qua-

nam ratione adulterium malum esse, cognoveris ».

84 ANNA ESCHER DI STEFANO

quali uomini o a quali libri dobbiamo credere per seguire il vero

culto di Dio. La prima questione che si presenta è se si debba cre-

dere a coloro che ci invitano al culto di molti dei, oppure a quelli

che ci invitano al culto di un solo Dio. Naturalmente nessuno du-

biterà che si debba seguire coloro che ci invitano al culto di un

Dio solo, giacché così come nell'ordine naturale è maggiore l'au-

torità di uno solo, che tutto riporta all'unità, e tra gli uomini non

v'é alcuna potenza nella moltitudine, se questa non è consen-

ziente, così per la religione l'autorità di coloro che conducono

all'unità, deve essere più grande e deve godere di un credito mag-

giore. Posta questa differenza, ora si tratta di vedere a chi si

debba credere, prima di iniziare un ragionamento sulle cose di-

vine; giacché nessuna autorità umana può anteporsi alla ragione

di un'anima pura che è giunta alla chiara intelligenza della verità.

Ma l'orgoglio è un grosso impedimento per il raggiungimento di

questa verità, quell'orgoglio che crea gli eretici, gli scismatici, i

circoncisi secondo la carne, gli idolatri. Tuttavia anche costoro

hanno la loro funzione, giacché, se essi non ci fossero, la ricerca

della verità sarebbe più lenta (3).

Di quest'orgoglio si erano macchiati i Manichei. Mi imbattei,

dice Agostino, in uomini superbi, carnali, cialtroni, che avevano

nella loro parola i tranelli del diavolo e la composizione di un

certo vischio risultante dalle sillabe del nome di Dio e di Cristo

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Signore, e dello Spirito Paracleto nostro consolatore. Avevano

sempre in bocca questi nomi, ma essi non erano che voci, ché il

(3) De vera rei., cap. XXV, col. 142. A proposito dell'utilità che, nono-

stante tutto, rappresentano le eresie, cfr. anche : « Sed quoniam verissime

dictum est, Oportet multas haereses esse, ut probati manifesti fiant inter

vos (Cor., XI, 19); utamur etiam isto divinae providentiae beneficio. Ex his

enim hominibus haeretici fiunt, qui etiamsi essent in Ecclesia, nihilominus

errarent. Cum autem foris sunt, plurimum prosunt, non verum docendo,

quod nesciunt; sed ad verum quaerendum carnales, et ad verum aperien-

dum spirituales catholicos excitando. Sunt enim innumerabiles in Ecclesia

sancta Deo probati viri, sed manifesti non fiunt inter nos, quamdiu impe-

ritiae nostrae tenebris delectati dormire malumus, quam lucem veritatis

intueri. Quapropter multi, ut diem Dei videant et gaudeant, per haereticos

de sommo excitantur. Utamur ergo etiam haereticis non ut eorum appro-

bemus errores, sed ut catholicam disciplinam adversus eorum insidias as-

serentes, vigilantiores et cautiores simus, etiamsi eos ad salutem revocare

non possumus » (De vera rei., cap. VIII, col. 129). Cfr. anche Ibid., cap. VI,

coli. 127-8.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 85

loro cuore era ben lungi dal vero. Verità, verità, gridavano sem-

pre, ma in essi non ve ne era ombra (4).

E Agostino affronta il problema degli argomenti su cui ri-

posa la fede cattolica in contrapposizione alla fede manichea :

«multa sunt alia quae in ejus gremio me justissime teneant. Te-

net consensio populorum atque gentium : tenet auctoritas mira-

culis inchoata, spe nutrita, charitate aucta, vetustate, firmata :

tenet ab ipsa sede Petri apostoli, cui pascendas oves suas post

resurrectionem Dominus commendavit, usque ad praesentem

episcopatum successio sacerdotum : tenet postremo ipsum Catho-

licae nomen, quod non sine causa inter tam multas haereses sic

ista Ecclesia sola obtinuit, ut cum omnes haeretici se catholicos

dici velint, quaerenti tamen peregrino alicui, ubi ad Catholicam

conveniatur, nullus haereticorum vel basilicam suam vel domum

audeat ostendere. Ista ergo tot et tanta nominis christiani charis-

sima vincula recte hominem tenent credentem in catholica Eccle-

sia, etiamsi propter nostrae intelligentiae tarditatem vel vitae me-

ritum veritas nondum se apertissime ostendat. Apud vos autem,

ubi nihil horum est quod me invitet ac teneat, sola personat ve-

ritatis pollicitatio : quae quidem si tam manifesta monstratur, ut

in dubium venire non possit, praeponenda est omnibus illis rebus,

quibus in Catholica teneor; si autem tantummodo promittitur, et

non exhibetur, nemo me movebit ab ea fide quae animum meum

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tot et tantis nexibus christianae religioni astringit» (5).

La pretesa razionalità dei Manichei non era altro che orgo-

glio, le loro spiegazioni dell'universo nient'altro che fantasie. La

delusione per Agostino fu tanto più grande, in quanto egli si era

convertito al manicheismo proprio perché attratto dalla promessa

di poter arrivare mediante la sola ragione alla scoperta della Ve-

rità. La disillusione della scoperta lo fece arrivare alla conclu-

sione che, dato che la ragione non riesce ad assolvere il ruolo che

le è stato assegnato, bisogna farla precedere dall'autorità.

Agostino smise così di correre dietro a vane parvenze, alle

chimere spacciate per realtà, e a poco a poco dalle tenebre venne

fuori la luce : « Intravi, et vidi, qualicumque oculo animae meae

supra eumdem oculum animae meae supra mentem meam, lucem

incommutabilem, non hanc vulgarem et conspicuam omni carni :

(4) Conf., l. III, cap. VI, coli. 686-7.

(5) Contra epistulam Manichaei, cap. IV, col. 175.

86 ANNA ESCHER DI STEFANO

nec quasi ex eodem genere grandior erat, tanquam si ista multo

multoque clarius claresceret, totumque occuparet magnitudine. Non

hoc illa erat, sed aliud, aliud valde ab istis omnibus. Nec ita erat

supra mentem, sicut oleum super aquam, nec sicut coelum super

terram, sed superior, quia ipsa fecit me, et ego inferior, quia factus

sum ad ea. Qui novit veritatem, novit eam; et qui novit eam, novit

aeternitatem. Charitas novit eam... Et cum te primum cognovi, tu

assumpsisti me, ut viderem esse quod viderem, et nondum me esse

qui viderem. Et reverberasti infirmitatem aspectus mei, radians

in me vehementer, et contremui amore et horrore; et inveni longe

me esse a te in regione dissimilitudinis » (6).

E così «gradatim a corporibus ad sentientem per corpus ani-

mam; atque inde ad ejus interiorem vim, cui sensus corporis exte-

riora annuntiaret: et quousque possunt bestiae; atque inde rursus

ad ratiocinantem potentiam ad quam refertur iudicandum quod su-

mitur a sensibus corporis. Quae se quoque in me comperiens mu-

tabilem, erexit se ad intelligentiam suam; et abduxit cogitationem

a consuetudine, subtrahens se contradicentibus turbis phantasma-

tum, ut inveniret quo lumine aspergeretur, cum sine ulla dubi-

ta tione clamaret incommutabile praeferendum esse mutabili; unde

(6) Conf., l. VII, cap. X, col. 742. Questo passo è stato diversamente inter-

pretato : l'Harnack (op. ctt., p. 81) lo giudica uno dei più significativi tra quelli

che narrano la conversione di Agostino; lo Scheel (Die Anschauung Au-

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gustins iiber Chrìsti Person, p. 20) definisce il problema intimo che in esso

si agita, una visione interiore, mentre il Noerregaard (Augustins religiose

Gennembrud, p. 67) la definisce una visione estatica, e il Thimme (Augu-

stins geistige Entwicklung in den ersten Jahren nach seiner Bekehrung,

Berlin, 1908, p. 16), una « vereinzelter Anschauung ». Il Misch, (Gesch. der

Autobiographie, I, p. 431), invece non pensa si possa parlare di visione, e

così pure il Mausbach (in Theoi. Revue, 1923, p. 364): il Girgensohn (Der

seelische Aufbau des religiosen Erlebens, p. 630), e il Billicsch (in Theoi.

Studien d. eost. Leogesell, n. 30, 1929, p. 80); I'Eibl propende per un'intui-

zione di tipo platonico (Augustinus und die Patristik, p. 289), e PHessen

(Die unmittelbare Gotteserkenntnis nach dem hi. Augustinus, Padeborn,

1919, p. 82) parla di una conoscenza intuitiva di Dio; e il Galli, infine

(Saggio sull'analisi psicologica dell'atto di fede in S. Agostino, in S. Ago-

stino, Pubblicazione commemorativa del XV centenario della sua morte.

Vita e Pensiero, Milano, 1931, p. 189) crede che la luce di cui Agostino

parla sia l'illuminazione che si fa nella mente umana : « Egli qui parla di

luce in senso metaforico. Benché Agostino neghi di intendere in senso fi-

gurato la illuminazione, tuttavia egli se ne serve per opporsi al materia-

lismo manicheo che concepisce Dio come una luce corporea e sensibile ».

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 87

nosset ipsum incommutabile, quod nisi aliquo modo nosset, nullo

modo illud mutabili certo praeponeret. Et pervenit ad id quod

est, in ictu trepidantis aspectus » (7), per poter arrivare finalmente

alla conclusione : « si non potes intelligere, crede ut intelligas;

praecedit fides, sequitur intellectus, ergo noli quaerere intelligere,

ut credas, sed crede ut intelligas » (8).

Numerosi i passi in cui Agostino ci parla di questo processo

attraverso cui dai legami del senso si arriva alla fede, sostenuta

dall'intelligenza. Fin dalla sua prima opera, il Contra Academicos,

Agostino affronta questo problema : « Nulli autem dubium est ge-

mino pondere nos inpelli ad discendum, auctoritatis atque ratio-

nis. Mihi autem certum est nusquam prorsus a Christi auctori-

tate discedere : non enim reperio valentiorem. Quod autem subti-

lissima ratione persequendum est; ita enim jam sum affectus, ut

quid sit verum, non credendo solum, sed etiam intelligendo ap-

prehendere impatienter desiderem; apud Platonicos me interim

quod sacris nostris non repugnet reperturum esse confido » (9).

Il problema è affrontato più ampiamente nel De ordine. In que-

st'opera Agostino afferma che la via che l'uomo può seguire,

quando lo turba la oscurità delle cose, è duplice : da una parte ia

ragione, dall'altra l'autorità. La filosofia si basa sulla ragione, tut-

tavia essa non induce a disprezzare i misteri del reale, ma indica

la via per cercare di comprenderli, tentando di scoprire quale sia

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il primo principio di tutte le cose, l'intelletto e l'onnipotenza di

Dio, e il motivo per cui Egli, sebbene cosi grande, si sia degnato

di assumere e portare per noi un corpo della nostra stessa natura;

donde l'anima abbia origine, che cosa faccia quaggiù, come operi

lontano da Dio, sino a qual punto sia mortale, e in qual modo si

dimostri la sua immortalità l'ordine che regna nell'universo, ecc.

In che rapporto stanno l'autorità e la ragione? Nel tempo

viene prima l'autorità, ma nella realtà ha precedenza la ragione.

Ora, sebbene l'autorità dei buoni sembri essere più acconcia ad

una moltitudine inesperta e la ragione più adatta alle persone

colte, tuttavia, siccome nessun uomo diventa sapiente senza es-

sere stato prima ignorante, e nessun ignorante sa come egli si

debba presentare ai suoi insegnanti e con qual genere di vita

(7) Coni., l. VII, cap. XVII, col. 745.

(8) In Joann. Traci., cap. XXIX, col. 1630.

(9) Contra Academicos, l. III, cap. XX, col. 957.

88 ANNA ESCHER DI STEFANO

egli possa prepararsi alla scienza, ne consegue che a tutti quelli

che desiderano imparare quali sono i beni grandi e misteriosi, sol-

tanto l'autorità può dischiuderne le porte. Chiunque avrà seguito

i precetti di un'ottima vita, può imparare quanto ragionevoli siano

quelle cose che gli aveva prima accettato fideisticamente, senza

comprenderle, e cosa sia la stessa ragione, e quale il principio del-

l'universo. In questa vita solo pochi possono arrivare ad un tal

grado di conoscenza, e anche nell'altra vita nessuno può progre-

dire al di là di essa. Coloro che invece si accontentano della sola

autorità e costantemente si dedicano ai buoni costumi e perse-

guono retti desideri, e o sdegnano le discipline liberali, o non

possono essere istruiti in esse, non si possono chiamare veramente

beati finché vivono tra gli uomini, sebbene essi credano che ap-

pena avranno lasciato questo corpo, quanto più o meno bene si

comporteranno nella vita, tanto più o meno facilmente saranno

liberati.

L'autorità può essere sia divina, che umana; ma la vera, sicura

e somma autorità è la divina. Naturalmente non si debbono defi-

nire come segni dell'autorità divina le divinazioni o le profezie,

ma ciò che non solo trascende ogni umana facoltà indirizzata verso

i segni sensibili, ma guida lo stesso uomo e gli mostra fino a qual

punto essa si sia abbassata per lui; gli comanda inoltre di non farsi

trattenere dai sensi, ma di ascendere fino all'intelletto, dimo-

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strando ciò che essa possa fare quaggiù e il perché lo fa. Infatti

è necessario che l'autorità divina ci insegni coi fatti la sua po-

tenza, con l'umiltà la sua clemenza e coi precetti la sua natura;

tutte cose che ci sono trasmesse, in modo più profondo e solido

dalle sacre verità cui siamo iniziati, e in cui la vita dei buoni assai

facilmente si purifica, non per tortuosità di dispute, ma per l'au-

torità dei misteri. L'autorità umana, invece, molto spesso si in-

ganna, tuttavia hanno più probabilità di esser creduti coloro che

enunciano prove delle loro dottrine, e non vivono in modo di-

verso da come affermano nei loro insegnamenti. E costoro saranno

ancora più stimati se, avendo dei beni di fortuna, li usano sag-

giamente (10).

Il rapporto tra fede e ragione viene affrontato però in maniera

più ampia e decisa sopratutto nel De utilitate credendi.

(10) De ordine, l. II, cap. V e cap. IX. coli. 1001 e 1007.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 89

I Manichei, dice Agostino, inveiscono contro coloro che cer-

cano di arrivare alla comprensione della fede cattolica seguendo

innanzitutto l'autorità, anzicché la ragione. Mentre, invece, dal

canto loro promettono di mettere da parte il terrore dell'autorità

e con la sola e semplice ragione liberare da ogni errore coloro che

li vogliono udire e così condurli fino a Dio, di eliminare cioè ogni

superstizione, facendo precedere la ragione alla fede. Però, ben

presto, nonostante la sicurezza con cui bandivano queste idee, essi

dimostrarono di essere molto più abili e loquaci nel confutare gli

altri, anzicché essere fermi e sicuri nella dimostrazione delle loro

idee (11). Inoltre, esser credente non significa esser credulo, giacché

mentre il primo presta fede per incapacità di distinguere il vero

dal falso, il secondo crede solo a ciò che presenta dei motivi di credi-

bilità. Tanto più che il credere è un fattore necessario della vita so-

ciale : l'amicizia, ad es., esige che l'amico creda all'amico, e anche

per i figli è necessario credere ai genitori : « nam quis insanus eum

culpandum putet, qui eis officia debita impenderit quos parentes

esse crediderit, etiamsi non essent? Quis contra non exterminan-

dum judicaverit; qui veros fortasse parentes minime dilexerit,

dum ne falsos diligat metuit? » (12). Gli esempi potrebbero essere

numerosissimi, e tutti varrebbero a dimostrare che non esisterebbe

più alcun vincolo nell'ambito della società umana, se si dovesse

credere solo a ciò che riusciamo a comprendere mediante la ra-

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gione. Anche colui che ci rivela la religione compie un atto di

fede; infatti, malgrado sia peggior cosa rivelare la religione ad

un indegno che credere a chi la rivela, pure colui che la trasmette

crede nella sincerità di intendimenti di chi ascolta. Ed allora, dice

Agostino : « nonne est aequius ut etiam tu credas mihi, cum tu be-

neficium, si aliquid veri teneo, sis accepturus, daturus ego? » (13).

Certo sarebbe meglio conoscere le verità supreme mediante la ra-

gione, dimostrarne razionalmente la validità e la fondatezza, ma

non tutti ne sono capaci : bisogna allora negare la religione a tutti

coloro che non sono forniti di un'intelligenza aperta? O non è piut-

tosto preferibile condurli gradatamente, passo per passo, fino al-

l'altezza della comprensione dei misteri? Ma nessuno potrà com-

prendere queste verità, se prima non crederà di esser capace di

(11) De utilitate credeneli, cap. II, col. 68.

(12) Ibìd., cap. XII, col. 84.

(13) Ibid., cap. X, col. 81.

90 ANNA ESCHER DI STEFANO

comprenderle. Del resto, anche a coloro che riescono a penetrare

con la ragione i misteri divini non nuocerà seguire la via di coloro

che hanno cominciato facendo precedere la fede alla ragione. Men-

tre, qualora non lo facessero, sarebbero di cattivo esempio per tutti

gli altri. Esortazione, questa, a quell'equilibrio di orgoglio e umiltà

cui deve improntarsi la vita. Non bisogna né scoraggiarsi, né ar-

dire troppo : non scoraggiarsi, per poter più facilmente riuscire,

non ardire troppo per non rimanere a mani vuote, dopo essersi

bruciate le ali.

Ma a questo punto sorge una difficoltà: lo stolto come può

conoscere ciò che è saggio? Lo stolto, infatti, è proprio colui che

non riconosce la saggezza, non la discerne, né la possiede. Infatti

per poter attraverso alcuni segni conoscere una realtà, bisogna

conoscere la realtà stessa, di cui quelli sono i segni: ma lo stolto

ignora la saggezza, giacché il suo occhio interiore non riesce a

penetrarla, e finché l'ignora, non può riconoscerla : « non potest.

quamdiu stultus est, quisquam certissima cognitione invenire sa-

pientem, cui obtemperando tanto stultitiae malo liberetur» (14).

Ma è Dio che, col suo aiuto, ci libera da questa immensa difficoltà,

tanto più che se non si dovesse credere a nulla, non crederemmo

neppure che esista la religione, e quindi non la cercheremmo. Ma

se la cerchiamo, vuol dire che crediamo nella sua esistenza, per

cui è sempre su un atto di fede iniziale che costruiamo la nostra

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ricerca.

La religione, dice Agostino, cui dobbiamo credere, è quella

che presenta maggiori motivi di credibilità, e questa religione è

quella rivelata da Cristo; infatti essa si poggia sulla testimonianza

delle genti convertitesi ai misteri della Chiesa cattolica : « Cur

non igitur apud eos potissimum diligentissime requiram, quid

Christus praeceperit, quorum auctoritate commotus, Cristum ali-

quid utile praecepisse jam credidi? » (15).

E gli eretici hanno torto se affermano che non si deve cre-

dere neanche a Cristo, se prima non se ne è dimostrata la ragione :

«Nam id adversus nos pagani quidam dicunt, stulte quidem, sed

non sibi adversi, nec repugnantes. Hos vero quis ferat ad Christum

se pertinere profiteri, qui nisi apertissimam rationem stultis de

(14) Ibid., cap. XIII, col. 86.

(15) Ibid., cap. XIV, col. 87.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 91

Deo protulerint, nihil credendum esse contendunt? At ipsum vi-

demus quantum illa, cui et ipsis credunt, docet historia, nihil prius,

neque fortius, quam credi sibi voluisse : cum illi nondum essent

idonei, cum quibus ei res esset, ad divina percipienda secreta » ( 16).

Tanto più che la verità delle parole di Cristo ci è dimostrata

dai miracoli con cui Egli operò. Cristo coi miracoli si acquistò l'au-

torità, con l'autorità meritò la fede, con la fede radunò attorno

a sé la moltitudine dei fedeli, con l'appoggio di questa moltitudine

ottenne vetustà, e con la vetustà consolidò la religione, «quam

non solum haereticorum ineptissima novitas fraudibus agens, sed

nec gentium quidem veternosus error violenter adversans, aliqua

ex parte convelleret» (17).

La divina Provvidenza, conclude Agostino, servendosi dei va-

ticini dei Profeti, dell'umanità e della dottrina di Cristo, dei viaggi

degli Apostoli, delle accuse, delle croci, del sangue, della morte

dei Martiri, della vita ammirabile dei Santi, e in tutte queste cose,

secondo l'opportunità dei tempi, dei miracoli che accompagnano

lo splendore di così nobili imprese e virtù, ha saputo inculcare i

principi della fede alla massa ignorante, per cui non soltanto po-

chi dotti oggi disputano, ma la moltitudine degli uomini e delle

donne seguono i principi della temperanza, della castità, della libe-

ralità, e in una parola il disprezzo per questo mondo, e indicano

l'asilo in quella Chiesa che, nonostante lo schiamazzo di cui la cir-

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condano gli eretici, ha raggiunto il più alto grado di autorità, arri-

vando ad ottenere il consenso esplicito del genere umano (18).

E qui si innesta l'accanito dibattito sulla precedenza o no della

fede sulla ragione. Il Gilson giudica questo problema molto com-

plesso anche perché espresso con una terminologia imprecisa, per

cui esso, sebbene sia chiaro nelle sue tesi generali, tuttavia è

diffìcile da seguire nei suoi dettagli. Per il Gilson la ricerca ago-

stiniana dei rapporti tra ragione e fede comporta tre momenti :

preparazione alla fede per mezzo della ragione, atto di fede, intel-

ligenza del contenuto della fede. La ragione è la condizione della

stessa possibilità della fede; essa è l'elemento che ci rende crea-

ture fatte ad immagine e somiglianza di Dio, per cui disprezzare

(16) Ibid., col. 88.

(17) Ibid.

(18) Ibid., cap. XVII, col. 91.

92 ANNA ESCHER DI STEFANO

la ragione, equivale a disprezzare in noi la stessa immagine di-

vina (19).

Per il Gilson, la fede agostiniana, presa nella sua essenza è

nello stesso tempo adesione dello spirito alla verità soprannatu-

rale e abbandono dell'uomo alla grazia di Cristo. Elementi che

non possono separarsi, in quanto l'adesione dello spirito alla ve-

rità di Dio presuppone l'umiltà, ma l'umiltà presuppone a sua volta

un abbandono in Dio, che è nello stesso tempo un atto di fede, di

amore e di carità. Se dunque si considera la vita spirituale nella

sua concreta complessità, colui che aderisce a Dio per mezzo della

fede non sottomette semplicemente il suo spirito alla lettera delle

formule, ma piega la sua anima e il suo essere all'autorità di Cri-

sto, che ci dà l'esempio della saggezza e i mezzi per conquistarla.

Intesa così, per il Gilson la fede è purificatrice e illuminatrice.

Essa cerca, ma è l'intelletto che trova, per cui « intellectus merces

est fidei » (20). Però, siccome il fine della filosofia è il possesso

della saggezza beatificante, e la ragione da sola non è capace di

conquistarla è necessario che intervenga la fede. Qui, dunque,

conclude il Gilson, non si trova messa in questione l'esistenza

della ragion pura o la legittimità del suo operare, ma la sua capa-

cità di farci conoscere Dio e la beatitudine mediante le sue sole

risorse (21). Il Gilson, dunque, cerca di conciliare fede e ragione,

ed egli afferma che in Agostino, lungi dall'esservi la pretesa di

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accettare senza prove ciò che si tratta di provare, v'é invece la

costante preoccupazione di codificare i risultati della sua espe-

rienza personale; per cui la speculazione agostiniana non è che

una esplorazione razionale del contenuto della fede. Ma, conclude il

Gilson, il problema che maggiormente interessa non è stabilire una

linea di demarcazione tra ragione e fede. Per Agostino la questione

si pone tutt'intera nell'ambito della fede. Infatti, anche quando

Agostino parla di intelligenza, egli pensa sempre ai risultati d'una

attività razionale di cui la fede apre l'accesso, cioè egli pensa a

quell'unità indivisibile che è l'intelligenza della fede: «L'histoire

pure ne saurait aller plus loin. On peut regretter, en philosophie,

qu'Augustin n'ait pas posé le probleme autrement, mais c'est ainsi

qu'il a posé. Une philosophie qui veut ètre un vrai amour de la

(19) Gilson, op. cit., pp. 33-4.

(20) In Joan. Evang., cap. VI, col. 1630.

(21) Gilson, op. cit., p. 41.

IL MANICHEISMO IN 3. AGOSTINO 93

sagesse, doit partir de la foi, dont elle sera l'intelligence. Une re-

ligion qui se veut aissi parfaite que possible, doit tendre vers

l'intelligence à partir de la foi. Ainsi entendue, la vrai religion ne

fait qu'un avec la vraie philosophie, et, à son tour, la vraie phi-

losophie, ne fait qu'un avec la vraie religion. C'est là ce qu'Au-

gust en nomme " philosophie chrétienne ", c'est-à-dire, telle qu'il

l'entend, une contemplation rationnelle de la révélation chré-

tienne, et tout ce que nous allons étudier dans, son oeuvre, à com-

mences par sa théorie de la connaissance, relève ce cet ordre de

considérations » (22).

Da un angolo visuale diverso viene invece considerato il pro-

blema dal Galli, che osserva come Agostino giunge a conoscere

Dio, mediante un processo in cui la ragione ha un compito fon-

damentale e centrale. L'atto di fede ha cioè il suo fondamento in

un processo intellettuale : « Bisogna tener distinta la funzione

dell'intelligenza avanti l'atto di Fede e la sua funzione negli altri

momenti dell'atto stesso. L'intelligenza si porta sulle ragioni na-

turali che noi abbiamo per credere; e perciò si parla della ragione

naturale, mossa dalla grazia di Dio, ma senza lumi speciali. Dopo

l'atto di Fede invece l'intelligenza si porta sulla Fede stessa che

l'illumina e la trasforma generando quella conoscenza delle cose

soprannaturali alle quali Agostino dà il nome di sapientia. L'in-

telligenza che precede è di ordine naturale, l'intelligenza che segue

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è di ordine soprannaturale e divina » (23).

La tesi del Galli si inserisce in certo qual senso nella tesi del

Portaliè. Secondo lo studioso francese non si può parlare di una

priorità della fede sulla ragione, ma piuttosto di un'intelligenza

intima della verità rivelata, per cui è la ragione che precede e

accompagna l'adesione dello spirito. Per il Portaliè la ragione in-

nanzitutto deve mostrare non la verità intima delle affermazioni

della testimonianza, ma i titoli in base a cui si deve credere ad

essa (24). Quale non sarebbe stata, continua il Portaliè, lo stupore

(22) Ibid., pp. 46-7.

(23) Galli, op. cit., p. 191.

(24) Portaliè, op. cit., col. 2338. Vari passi delle opere di Agostino

sembrano confermare la tesi del Portaliè : « Attendant hic, et verba ista

perpendant, qui putant ex nobis esse fidei coeptum, ex Deo esse fidei sup-

plementum. Quis enim non videat, prius esse cogitare quam credere? Nul-

lus quippe credit aliquid, nisi prius cogitaverit esse credendum. Quamvis

enim raptim, quamvis celerrime credendi voluntatem quaedam cogitationes

94 ANNA ESCHER DI STEFANO

di Agostino, se gli si fosse detto che la fede deve fermare gli

occhi sulla testimonianza, sotto pena di diventare scienza! Se gli

si fosse parlato di una fede d'autorità, che desse il suo assenso

senza alcun motivo atto a provare il valore della testimonianza!

Come sarebbe infatti possibile per lo spirito umano accettare una

testimonianza senza motivo, senza un motivo conosciuto? Agostino

al contrario, lungi dall'aver paura della parola della scienza e

della visione, esige l'una e l'altra : « pourvu que l'objet en soit

seulement le témoignage » (25).

Quando invece il nostro sguardo si appunta verso il mistero,

allora la fede precede la ragione : « Dès que le témoignage divin

est connu, la raison s'arréte au seuil du mystère, sans retarder sa

foi jusqu'à ce qu'elle ait mieux compris le mystère? Elle n'at-

tendra mème pas, pour croire, qu'on ait résolu toutes les ques-

antevolent, moxque illa ita sequatur, ut quasi conjunctissima comitetur;

necesse est tamen ut omnia quae creduntur, praeveniente cogitatione cre-

dantur. Quanquam et ipsum credere, nihil aliud est, quam cum assensione

cogitare ». « Non enim omnis qui cogitat, credit; cum ideo cogitent pleri-

que, ne credant: sed cogitat omnis qui credit, et credendo cogitat, et co-

gitando credit » (De praedest. sanct., P.L. Migne, 44, cap. II, coli. 962-3). E

nel De vera relig. (cap. XXIV, col. 141): « Quamobrem ipsa quoque animae

medicina, quae divina providentia et ineffabili beneficentia geritur, gra-

datim distincteque pulcherrima est. Distribuitur enim in auctoritatem

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atque rationem. Auctoritas fidem flagitat, et rationi praeparat hominem.

Ratio ad intellectum eognitionemque perducit. Quanquam neque autori-

tatem ratio penitus deserit, cum consideratur cui sit credendum; et certe

summa est ipsius jam cognitae atque perspicuae veritatis auctoritas».

E nella Epistola CXX (P.L. Migne, cap. I, col. 453): « Absit, inquam, ut

ideo credamus, ne rationem accipiamus si ve quaeramus; cum etiam credere

non possemus nisi rationales animas haberemus, Ut ergo in quibusdam

rebus ad doctrinam salutarem pertinentibus, quas ratione nondum percipere

valemus, sed aliquando valebimus, fides praecedat rationem, qua cor mun-

detur, ut magnae rationis capiat et perferat lucem hoc utique rationis est.

Et ideo rationabiliter dictum est per prophetam: Nisi crediderts, non intel-

ligetis ».

(25) Portaliè, op. cit., col. 2339. Cfr., ad es., Epist. CXLVII (cap. III,

col. 600) : « Constat igitur nostra scientia ex visis rebus et creditis : sed in

iis quae vidimus vel videmus, nos ipsi testes sumus; in his autem quae cre-

dimus, aliis testibus movemur ad fidem, cum earum rerum quas nec vi-

disse nos recolimus, nec videmus dantur signa vel in vocibus, vel in litte-

ris, vel in quibusque documentis, quibus visis non visa credantur ».

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 95

tions. C'est après avoir era, que le fidèle cherchera les explica-

tions plus ou moins approximatives du dogme» (26).

In realtà, però, noi crediamo che sia una precedenza più appa-

rente che reale, in quanto anche nel caso del mistero la ragione

precede la fede, giudicando inconoscibile, appunto « un mistero »,

ciò su cui ha fatto convergere il suo sguardo. Noi non potremmo

parlare di mistero, cui la fede aderirebbe, se non l'avessimo valutato

tale, se cioè non avessimo già usato la nostra attività razioci-

nante, anche se, però, con una conclusione negativa. Quindi in ogni

caso la ragione precede la fede, sebbene a volte non riesca a chia-

rire in termini dimostrabili tutto ciò che viene a costituire l'oggetto

del suo studio.

(26) Portaliè, op. cit.. col. 2339. Cfr. De lib. arbit. (l. II, cap. II, col.

1243) : « Nisi enim aliud esset credere, et aliud intelligere, et primo cre-

dendum esset, quod magnum et divinum intelligere cuperemus, frustra pro-

pheta dixisset. Nisi credideritis, non intelligetis (Isai., VII, 9, sec. LXX). Ipse

quoque Dominus noster et dictis et factis ad credendum primo hortatus

est, quos ad salutem vocavit ». Enarratia in Psal. CXVIII, sermo XVIII, col.

1552 : « Propter hos igitur interiores oculos quorum caecitas est non in-

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telligere. ut aperiantur, et magis magisque serenentur ».

Capitolo Quinto

IL PROBLEMA DEL MALE

Agostino era passato attraverso il dualismo manicheo, che

partendo dal riconoscimento di un Dio del male, contrapposto ad

un Dio del bene, aveva fatto risalire al primo la spiegazione di

tutti gli elementi negativi del reale, credendo in tal modo di aver

risolto lo spinosissimo problema (1).

Agostino evidentemente non poteva acquetarsi alla soluzione

manichea, sia perché contrastante con i principi della religione

cristiana, sia perché, anche soltanto da un punto di vista stretta-

mente razionale, essa non poteva sostenersi, in quanto l'ammis-

sione di due potenze, ambedue infinite e onnipotenti, non era filo-

soficamente sostenibile. Era necessario pertanto la riduzione del

dualismo divino al monismo, il quale, però, non venisse a fare

tutt'uno con la realtà empirica, ma venisse contrapposta a questa

da un rapporto creazionistico. Dio non si identifica con le cose,

ma è il creatore delle cose, e tutto dipende da Lui : « nulla autem

res obtinet integritatem naturae suae, nisi in suo genere salva

sit » (2). Ma ciò veniva a riportare in primo piano il problema

dell'esistenza e del perché del male, della possibilità, cioè, di con-

ciliare da una parte Dio, che per sua essenza è, e non può non

(1) Agostino confessa che il problema circa l'origine del male lo ha

tormentato fin dalla giovinezza, e la speranza di risolverlo fu anzi il mo-

tivo principale che lo spinse ad entrare nella setta dei Manichei : « Eam

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quaestionem moves, quae me admodum adolescentem vehementer exercuit,

et fatigatum in haereticos impulit, atque dejecit. Quo casu ita sum afflictus,

et tantis obrutus acervis inanium fabularum, ut nisi mihi amor inveniendi

veri opem divinam impetravisset, emergere inde, atque in ipsam primam

quaerendi libertatem respirare non possem » (De libero arbitrio, l. I. cap.

II, col. 1224).

(2) De vera religione, cap. XVIII, col. 137.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 97

essere, somma bontà e perfezione, e la realtà delle cose finite,

parziali e contingenti : « Onde questo mio volere il male e non

volere il bene? si chiede infatti Agostino. Chi ha posto e seminato

in me questa piantagione di amarezza, se tutto quanto sono, è

stato creato dal mio Dio, che è soavissimo? » (3).

I Manichei avevano risolto il problema — come abbiamo già

accennato — ammettendo l'esistenza di un Dio delle tenebre, dal

quale derivava tutto ciò che è male. Secondo i Manichei, infatti,

il male aveva una realtà propria che, in quanto tale, richiedeva una

sua causa e una sua spiegazione.

Ma Agostino comprendeva come la soluzione manichea fosse

ben lontana dalla verità; egli riteneva per certo che non era vero

quanto affermavano i Manichei, verso i quali, anzi confessa di

aver sentito una estrema ripugnanza, poiché vedeva come nel cer-

care l'origine del male, essi si mostrassero pieni di malizia, pre-

ferendo pensare la sostanza divina come passibile di male, anzic-

ché la loro sostanza umana quale operatrice del male (4).

Ammettere il male come un principio realmente esistente,

come facevano i Manichei, voleva dire annullare la bontà divina.

Non rimaneva dunque che negare il male.

Che cosa è il male? I Manichei rispondevano dicendo che in

ogni genere di cose il male consiste nel contrario della loro na-

tura. Se non che, risponde Agostino, se teniam fermo questo prin-

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cipio, cade l'eresia manichea, poiché se il male è il contrario della

natura, segue necessariamente che nessuna natura è cattiva, men-

tre invece loro sostenevano che il male è una certa natura o so-

stanza (5).

Quanto si oppone alla natura, e tende a distruggerla, è suo ne-

mico. E poiché la natura, « nihil est aliud, quam id quod intelli-

gitur in suo genere aliquid esse. Itaque ut nos jam novo nomine

ab eo quod est esse, vocamus essentiam, quam plerumque substan-

tiam etiam nominamus » (6), il male è ciò che si oppone all'essere

e tende al non essere. Conseguentemente, essendo Dio l'autore di

tutte la natura e sostanza, non essendo il male una sostanza, non

(3) Confessiones, l. VII, cap. III, col. 735.

(4) lbid.

(5) Cfr. Contra Epistulam Manichaei, 3, 4.

(6) De moribus Ecclesiae catholicae et Manichaeorum, l. II, cap. II,

col. 1346.

98 ANNA ESCHER DI STEFANO

se ne può fare risalire a Lui l'origine. E infatti come potrebbe

essere che chi è la causa, per cui tutte le cose esistono, sia nel

tempo stesso la causa per cui non esistono, cioè manchino all'es-

sere e tendano al non-essere?

Inoltre i Manichei stessi cadono in contraddizione; infatti in

che modo quel loro popolo delle tenebre, che loro riconoscono come

male sommo, sarà contrario alla natura, quando loro stessi lo chia-

mano natura e sostanza? «Si enim contra se facit, ipsum esse sibi

adimit: quod si perfecerit, tunc demum perveniet ad summum

malum. Non autem perficiet, quia eam non modo esse, verum

etiam sempiternam esse vultis » (7). Quello che i Manichei defi-

niscono sostanza, non può dunque essere sommo male.

I Manichei, inoltre, possono essere confutati anche se inten-

dono per male tutto ciò che nuoce. Quello che nuoce priva di

qualche bene la cosa cui nuoce, perché se non la privasse di qual-

che bene, non le nuocerebbe affatto. Ma tra quella gente, che i

Manichei suppongono essere il sommo male e dove il bene in

nessun senso esiste, non è possibile nuocere a cosa alcuna. Se,

come i Manichei affermano, esistono due nature, il regno della

luce e il regno delle tenebre, e se affermano che il regno della

luce sia il regno di Dio, al quale attribuiscono una natura semplice,

in modo che in Lui non coesistano cose l'una inferiore all'altra,

per ciò stesso, essi sono costretti a confessare che questa natura,

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che loro affermano sia il sommo bene, è immutabile, incorrutti-

bile e inviolabile, cioè è ciò di cui nulla è più eccellente, e nulla

può nuocere a questa natura. Ma se nuocere nel significato ma-

nicheo significa privare di qualche bene, evidentemente appa re-

chiaro che non si può nuocere né al regno delle tenebre, dove

non esiste alcun bene, né al regno della luce, perché è inviolabile :

dunque a chi nuocerà quello che i Manichei chiamano male? (8).

Nell'ambito dell'insegnamento cattolico, invece, il bene sommo

è tale per sé, per natura ed essenza proprie, mentre il bene per

partecipazione è la creatura, la cui natura può subire privazioni,

e in questa privazione consiste appunto il male. Infatti la natura

che può essere privata con suo danno di qualche bene, non è il

sommo male, né il sommo bene, in quanto essa è buona non per

essenza, ma per partecipazione.

(7) Ibid.

(8) Ibid., cap. III, col. 1347.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 99

Né per male si può intendere la corruzione, in quanto essa è

sì, contraria alla natura delle cose, ma non esiste in se stessa, ma

nella sostanza che si corrompe, non essendo la corruzione una

sostanza. La cosa dunque che soggiace alla corruzione, non è un

male : tutto quello che si corrompe perde in integrità e perfezione;

la cosa dunque che non ha perfezione da perdere, non si può cor-

rompere, è solo un bene partecipato. Del pari, ciò che si corrompe,

in qualche modo si perverte, e ciò che si perverte esce dall'or-

dine; ma l'ordine è un bene, dunque quando si corrompe non è

privo di bene, e perciò può essere attaccato dalla corruzione. Di

modo che quella gente tenebrosa, se mancava di qualche bene,

nulla ha che la corruzione le possa togliere (9).

Quindi tutto ciò che si corrompe volge al non essere. Ma la

divina bontà non permette che le cose arrivino fino a questo segno,

e le ordina in maniera che siano disposte secondo una grada-

zione, a secondo la quantità di essere di cui manca. Per questo

anche le anime ragionevoli, nelle quali è potentissimo il libero

arbitrio, quando mancano, sono ordinate nei gradi inferiori della

creazione, ognuna nel posto che le compete.

Dunque non si reggono le favole dei Manichei sul bene e sul

male, la loro concezione del male che permea la terra in tutta la

sua immensa estensione e profondità, che incombe sulla mente,

che va errando per la terra; non si regge la loro concezione dei

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cinque elementi, uno pieno di tenebre, un altro di acque, un terzo

di venti, un quarto di fuoco, un quinto di fumo; degli animali nati

in ciascuno di questi elementi : le serpi nelle tenebre, i pesci nelle

acque, gli uccelli nei venti, i quadrupedi nel fuoco, i bipedi nel

fumo. Queste sono tutte vane e stolide favole, che nessuna ade-

renza hanno con la vera realtà (10).

Pertanto la natura, in quanto tale, per Agostino non è che

bene; se infatti noi togliamo ad essa tutto ciò che è spregevole,

rimarrà tutto ciò che è buono, ma se togliamo tutto ciò che è

buono, non ci rimane che il nulla (11). Quindi tutti gli esseri sono

buoni, perché Colui che li ha creati è sommamente buono; ma

(9) Ibid., cap. V, col. 1348.

(10) Ibid., l. II, cap. IX, col. 1351.

(11) Contra epistulam quam dicunt fundamenti, cap. XXXIII, col. 199,

P.L. Migne, 42

100 ANNA ESCHER DI STEFANO

siccome non sono, come il Creatore, sommamente buoni e immu-

tabili, il bene che in essi si trova è suscettibile di aumento o di

diminuzione (12). Questa diminuzione è la corruzione. Quindi,

replica Agostino, coloro che hanno gli occhi della mente aperti e

non sono né annebbiati né turbati da una dannosa mania di vana

vittoria, comprendono facilmente che ciò che si corrompe e muore

è un bene, quantunque la corruzione e la morte siano per sé un

male. Sono buone tutte le cose contro le quali la corruzione si

schiera e quelle cose contro le quali la corruzione si schiera

rimangono corrotte (13). Il male, dunque, non appartiene alle

cose, ma alla errata inclinazione con cui noi ci rivolgiamo alle

cose, cioè all'uso che facciamo della nostra volontà. Infatti il

primo vizio dell'anima ragionevole consiste nel far ciò che la

somma e intima volontà proibisce di fare. Fu questo il motivo

per cui Adamo fu espulso dal paradiso, e fu costretto a lasciare

le cose eterne per le temporali, l'abbondanza per la povertà, la

forza per la debolezza. Dunque, non il bene sostanziale per il male

sostanziale, giacché nessuna sostanza è un male, ma il bene eterno

per i beni temporali, il bene spirituale per i beni carnali, il bene

intellettuale per il bene sensibile, il bene sommo per il bene in-

fimo. L'anima dunque pecca quando ama beni di ordine inferiore,

per cui è il peccato in sé che è un male, non quella sostanza che

si ama peccando (14).

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Il male non è certo tale perché viene condannato dalla legge,

ma viene condannato dalla legge in quanto è male, tanto più che

la legge non ha una capacità valutativa infallibile, come dimostra

il fatto che essa a volte condanna uomini che hanno vissuto ret-

tamente, come la morte degli apostoli testimonia. Ciò avviene in

quanto si tratta di una legge temporale, la quale, anche se giusta,

(12) Enchirìdion, l. I, cap. XII, col. 237.

(13) De vera Religione, cap. XIX, col. 137.

(14) Ibid., cap. XX, col. 138: «Non ergo arbor illa malum est, quae in

medio paradiso piantata scribitur. sed divini praecepti transgressio. Quae

cum consequentem habet justam damnationem, contingit ex illa arbore,

quae contra vetitum facta est, dignoscentia boni et mali : quia cum suo

peccato anima fuerit implicata, luendo poenas, discit quid intersit inter

praeceptum quod custodire noluit, et peccatum quod fecit; atque hoc modo

malum, quod cavendo non didicit, discit sentiendo; et bonum quod non

obtemperando minus diligebat, ardentius diligit comparando » (Ibid., col.

138).

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 101

tuttavia può essere rettamente mutata nel tempo. La legge su-

prema, invece, ha un potere infallibile, e infatti in base ad essa i

cattivi meritano d'essere miseri, ed i buoni beati. Essa, in base

a cui è giusto che tutto sia ordinatissimo, è una legge immutabile

ed eterna, perché nessuna violenza, nessun caso, nessuna defi-

cienza delle cose potranno mai far sì che non sia giusto che tutte

le cose non siano ordinatissime. Anche l'uomo è sottoposto alla

legge eterna, che gli comanda di non amare le cose temporali, ma

di dirigersi solo verso le eterne. Il non seguire la cose eterne dà

luogo appunto al male. Il male pertanto non è una sostanza, ma di-

pende dall'uso che noi facciamo del libero arbitrio della volontà.

A questo punto, però, una domanda si impone : se noi non

avessimo avuto il libero arbitrio, non avremmo potuto fare il

male; non sembra allora che, dato che Dio ci ha dato il libero

arbitrio, Egli possa essere considerato responsabile dei nostri pec-

cati? Agostino ribatte che per rispondere a questa domanda basta

considerare che Dio ha dato all'uomo il libero arbitrio affinché egli

se ne servisse per vivere rettamente. Giacché, dato che l'uomo non

avrebbe potuto agire rettamente se non volendo, era necessario

che egli possedesse una volontà libera. La punizione di Dio che

segue al peccato è appunto la punizione diretta all'uso malvagio

della libertà, adoperata per uno scopo diverso da quello per cui

essa era stata concessa. Ciò che invece non è fatto con la libera

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volontà non è né peccato, né opera meritoria. E perciò sarebbe

ingiusto tanto il castigo come il premio.

Però, se il libero arbitrio è stato dato per il bene, se la volontà

è stata data per agire rettamente, perché ci si indirizza al male?

Tutto quello che è lodevole nella natura delle cose, sia esso degno

di grande o di piccola lode, indubbiamente si deve riferire a Dio,

in quanto da Lui derivano tutti i beni, giacché tutte le cose che

sono, sia quelle che intendono e vivono e sono, sia quelle che vi-

ci 5) « Neque enim fidem putabarri Dei gratia praeveniri, ut per illam

nobis daretur quod posceremus utiliter; nisi quia credere non possemus,

si non praecederet praeconium veritatis : ut autem praedicato nobis Evan-

gelio consentiremus, nostrum esse proprium, et nobis ex nobis esse arbi-

trabar » (De praedistatione sanctorum, cap. III. col. 964). E arrivava così

alla conclusione che « nostrum est enim credere et velle, illius autem dare

credentibus et volentibus facultatem bene operandi per Spiritum sanctum,

per quem charitas diffunditur in cordibus nostris (Prop. 61), verum est

quidem, sed eadem regula, et utrumque ipsius est, quia ipse praeparat vo-

102 ANNA ESCHER DI STEFANO

vono e sono, vengono tutte da Dio. Tra questi beni è anche la libera

volontà (15). Così come Dio ci ha dato gli occhi per vedere e non

è colpa sua se noi li usiamo male, analogamente ci ha dato la

volontà perché la usassimo nel suo senso più giusto, ed è colpa no-

stra se non la usiamo rettamente. Si deve quindi piuttosto condan-

nare chi la usa male, anzicché affermare che Colui che ce l'ha data

non avrebbe dovuto darcela. Quindi : « voluntas adhaerens com-

muni atque incommutabili bono, impetrat prima et magna homi-

nis bona, cum ipsa sit medium quoddam bonum. Voluntas autem

aversa ab incommutabili et communi bono, et conversa ad pro-

prium bonum, aut ad exterius, aut ad inferius, peccat. Ad pro-

prium convertitur, cum suae potestàtis vult esse; ad exterius, cum

aliorum propria, vel quaecumque ad se non pertinent, cognoscere

studet; ad inferius, cum voluptatem corporis diligit: atque ita

homo superbus, et curiosus, et lascivus effectus, excipitur ab alia

vita, quae in comparatione superioris vitae mors est; quae tamen

regitur administratione divinae providentiae, quae congruis sedi-

bus ordinat omnia, et pro meritis sua cuique distribuit» (16).

Ora, se ogni bene proviene da Dio, e non vi è alcuna natura

che non sia da Dio, il male è un moto defettivo e ogni difetto è

una mancanza e un non-essere. Dunque nessuna cosa può piegare

la mente alla libidine, se non la volontà stessa. Dobbiamo con-

cludere che la ragione del moto con cui la volontà abbandona il

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bene immutabile per il mutabile, appartiene solo all'anima, che,

per conseguenza è colpevole. Infatti qualsiasi disciplina utile ci

insegna che se riproviamo e freniamo questo moto, indirizziamo

la nostra anima dai bene caduchi al bene eterno.

Però anche i peccatori hanno la loro ragion d'essere, in quanto

tutto quello che fa Dio è sempre dettato dalla legge del meglio, e

niente c'è che avrebbe potuto esser creato in maniera diversa da

quella che è: «Illud quoque moneo caveas, ne forte non dicas

quidem melius fuisse ut non essent, sed dicas aliter fieri eas de-

buisse. Quidquid enim tibi vera ratione melius occurrerit, scias

fecisse Deum tanquam honorum omnium conditorem. Non est

autem vera ratio, sed invida infirmitas, cum aliquid melius fa-

ciendum fuisse cogitaveris, jam nihil aliud inferius velie fieri,

luntatem; et utrumque nostrum, quia non fit nisi volentibus nobis » (Re-

tractationes, l. I, cap. XXVIII, coli. 621-2).

(16) De libero arbitrio, l. II, cap. XIX, col. 1269.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 103

tanquam si perspecto coelo, nolles terram factam esse; inique

omnino » (17).

Ma si potrebbe obbiettare : se la nostra miseria concorre alla

perfezione dell'universo, sarebbe mancato qualcosa a questa per-

fezione, se si fosse stati sempre beati. E dato che l'anima non

cade in miseria se non peccando, anche i nostri peccati sono neces-

sari alla perfezione dell'universo. Come può dunque Dio punire

giustamente quei peccati che, qualora mancassero, verrebbero a

portare come conseguenza un danno alla perfezione del creato?

A questa obbiezione Agostino risponde che alla perfezione del-

l'universo sono necessari non i peccati e le miserie, ma le ani-

me (18). Di modo ché è turpe il peccato volontario, ed è giusto

che venga punito per ristabilire l'ordine e il decoro dell'universo,

in modo che il disonore del peccato venga lavato dalla pena del

peccato.

La nostra ignoranza, causata in noi dal peccato di Adamo non

scusa la nostra tendenza al peccato. Si chiede : se Adamo ed Eva

peccarono, che abbiamo fatto noi miseri per nascere nell'oscurità

dell'ignoranza? E Agostino risponde che a nessun uomo è vietato

chiedere utilmente ciò che inutilmente ignora, e di confessare in

tutta umilità la propria debolezza, perché chiedendo e confessando

lo soccorra Colui che non erra.

Dunque, anche se noi nasciamo ignoranti, impotenti e mortali,

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piacque a Dio che nella nascita dell'uomo apparisse la giustizia del

punitore e la misericordia del liberatore. L'anima non è colpevole

di ciò che ignora naturalmente, e che naturalmente non può cono-

scere, ma di quello che non ha cercato d'imparare, e di ciò che

rettamente avrebbe potuto fare secondo la facoltà datale (19).

(17) Ibid., l. III, cap. V, col. 1277.

(18) « Cum autem non peccantibus adest beatitudo, perfecta est uni-

versitas. Cum vero peccantibus adest miseria, nihilominus perfecta est

universitas. Quod autem ipsae non desunt animae, quas vel peccantes se-

quitus miseria, vel recte facientes beatitudo, semper naturis omnibus uni-

versitas plena atque perfecta est. Non enim peccatum et supplicium pec-

cati naturae sunt quaedam, sed affectionens naturarum, illa voluntaria, ista

poenalis. Sed voluntaria quae in peccato fit, turpis affectio est. Cui prop-

terea poenalis adhibetur, ut ordinet eam, ubi talem esse non turpe sit,

et decori universitatis congruere cogat, ut peccati dedecus emendet poena

peccati » (Ibid., l. III, cap. IX, col. 1284).

(19) « Si etiam nunc, si ignoranza veri et difficultas recti naturalis

est homini, unde incipiat in sapientiae quietisque beatitudinem surgere, nul-

104 ANNA ESCHER DI STEFANO

Le due conseguenze del peccato originale sono la concupi-

piscenza e l'ignoranza. Gli interpreti di Agostino discutono per sa-

pere se la concupiscenza sia peccato originale, o una conseguenza

di esso. Il Portaliè sostiene che ne è l'effetto. Se si confrontano i

testi, afferma il critico francese, si arriva alla conclusione che la

concupiscenza non è che uno degli effetti del peccato originale;

non si tratta di mettere avanti delle ipotesi, ma di tener conto di

tutti i testi e di armonizzarli. Agostino stesso ci avverte che la con-

cupiscenza è il peccato originale, come l'ignoranza o la stessa

morte, e ciò in virtù d'una metonimia che identifica gli effetti con

la causa. Tant'è vero che i più fedeli discepoli di Agostino del Me-

dio Evo definivano il peccato originale sia per mezzo dell'igno-

ranza, che per mezzo della concupiscenza. Inoltre, continua il Por-

taliè, Agostino ha sostenuto sempre con energia queste due as-

serzioni : 1) che la concupiscenza resta tutt'intera dopo il batte-

simo; 2) che tuttavia il peccato originale è totalmente cancellato.

E infatti protesta contro i Pelagiani che gli rimproverano di non

affermare questa distruzione. Ora, se il peccato originale non è

la concupiscenza, come potrebbe essere distrutto, se la concupi-

scenza rimane sempre la stessa? Si deve dunque concludere che la

concupiscenza non è il peccato, ma un annesso, un effetto del pec-

cato, anche se Agostino non ha in proposito adoperato una termi-

nologia molto esatta. E il Portaliè conclude: «si la non-imputa-

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tion de la concupiscence détruit absolument tout le péché, la con-

cupiscence restant, c'est que le péché consistait, non dans cette

concupiscence, mais dans l'imputation morale de cette concupi-

scence » (20).

Il Kors, invece, si chiede come il Portaliè sia potuto giun-

gere a questa conclusione, dato che Agostino sostiene e si esprime

nettamente in senso contrario (21). Il Gilson, al contrario, sostiene

che il Portaliè ha ragione : « Il y à cela une raison de principe : la

concupiscence est un désordre; si Dieua créé l'homme suujet à la

concupiscence, on ne voit plus de différence essentielle entre l'état

de nature voulu par Dieu et l'état de nature déchue. Il y a, en

lus hanc ex initio naturali recte arguit: sed si proficere noluerit, aut a

profectu retrorsum relabi voluerit, jure meritoque poenas luet » (Ibid.,

cap. XXII, col. 1303).

(20) Portaliè, op. cit., col 2395.

(21) J. Kors, cit. in Gilson, op. cit., p. 196.

^

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 105

outre, des textes formeles en ce sens, que J.-B. Kors aurait dù

discuter avant de condamner l'interprétation contraire... La con-

cupiscence è donc un dérèglement consécutif à l'orgueil de la vo-

lonté qui, lui, est le péché originel dans son essence » (22).

L'unico responsabile del peccato è l'uomo. Infatti, sebbene

Agostino pensi che tutto proceda da Dio, nega che egli possa es-

sere l'autore del male morale. Tuttavia sorge spontanea di nuovo

la domanda : se i peccati sono fatti dalle anime create da Dio, e se

le anime a loro volta sono state create da Dio, come mai Egli non

è responsabile d'aver creato delle anime capaci di peccare? Noi

sappiamo, dice Agostino, che tutte le cose sono possibili a Dio,

sia quelle che Egli compie con la sua sola volontà, sia quelle che

Egli stabilì di poter fare con la cooperazione della volontà delle

sue creature. E perciò anche quello che da Lui non è stato fatto, ha

nella potenza di Dio la causa per cui può esser fatto, e nella

sua sapienza la causa per cui non è stato fatto (23). Affermano i

Manichei che Dio ci viene in aiuto per i meriti di quella natura

buona che è in noi; e i Pelagiani, invece, per i meriti della nostra

buona volontà. I primi dicono : Dio deve questo alle opere dei suoi

membri, e gli altri dicono : Dio lo deve, alle virtù dei suoi servi.

E nell'un caso e nell'altro l'aiuto di Dio è qualcosa di dovuto, non

di gratuitamente concesso (24). A ciò Agostino ribatte che noi

siamo fatti, formati e creati per le opere buone che non facciamo

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noi, ma Dio (25). Ma come questa grazia opera, si chiede il Pel-

luzza? La grazia è efficace, agisce cioè infallibilmente sulla vo-

lontà dell'uomo, perché suscita in lui opportunamente il libero de-

terminarsi al bene con quel tesoro di benefici interiori ed esteriori

eh essa apporta e che sono d'altronde conosciuti da Dio come ef-

ficaci; oppure perché porta in se stessa un influsso tale della onni-

potenza divina, che fa piegare liberamente la volontà d'ogni crea-

tura ragionevole da quella parte che Dio vuole?

(22) E. Gilson, op. cifc, p. 196.

(23) De spiritu et littera, cap. V, col. 204.

(24) Contra duas epist. Pelag., LII, cap. XXII, col. 573.

(25) De grafia et libero arbitrio, cap. VIII. col. 893. La grazia non è

comune a tutti, « communis est omnibus natura, non gratia. Natura non

putetur gratia; sed et si putetur gratia. ideo putetur gratia quia et ipsa

gratis concessa est » (Sermo XXVI, cap. IV, coli. 172-3). Infatti la grazia

propriamente detta non è quella per cui mezzo è sorta tutta l'umana na-

tura, ma è una Grazia, per così dire, più grande, con cui Dio non ha

creato gli uomini, ma li ha reso suoi fedeli (Sermo XXVI. cap. V, col. 173).

106 ANNA ESCHER DI STEFANO

Agostino introduce in questo modo il problema : « La que-

stione del libero arbitrio è difficile a discernersi, in quanto, allor-

ché si difende il libero arbitrio, sembra si neghi la grazia di Dio,

e quando si proclama la grazia di Dio sembra si neghi il libero

arbitrio. Il problema fa perno su tre elementi : la possibilità, la

volontà, l'azione. Ora tanto la possibilità, la quale è nell'uomo an-

che quando non vuole e non opera il bene, quando la stessa vo-

lontà e azione cioè la nostra decisione a volere e ad operare il

bene, sono una grazia di Dio, talmente che senza di essa non è

possibile volere e operare il bene (26).

E nella Disputatio con Felice precisa : « ad confitendum ve-

rum de libero arbitrio, plus in eo voluit natura humana... quam

fabula sacrilega quam sibi ipse confixit» (27), cioè è la stessa

natura umana che ci attesta l'esistenza del libero arbitrio. Per

Agostino sapere ed esser libero sono proposizioni che si equival-

gono : tutto ciò che noi conosciamo con scienza, egli dice, lo cono-

sciamo per ragione, tuttavia anche la ragione è annoverata tra

le cose che noi conosciamo con essa. Infatti possiamo usare con

la libera volontà tutte le altre cose, ma possiamo usare anche la

libera volontà per se stessa : perché la volontà, quando usa le al-

tre cose, in certo modo usa anche se stessa, come la ragione, co-

noscendo le altre cose, conosce anche se stessa. E così pure la

memoria non solo comprende le cose che ricordiamo, ma anche

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ci permette di ricordare di avere una memoria. La volontà del-

l'uomo, dunque, aderendo al bene comune ed immutabile per-

mette all'uomo di conquistare i primi beni, pur essendo essa sol-

tanto un bene medio. La volontà, invece che non aderisce al bene

comune e immutabile, ma si rivolge al bene proprio, o esterno, o

inferiore, pecca (28).

Però, obbiettiamo noi, esser convinti d'essere liberi, non si-

gnifica spiegarne il perché. La convinzione soggettiva, cioè, non

ha niente a che fare con la esistenza reale e oggettiva di una cosa.

Se così non fosse, tutti i sogni di un visionario sarebbero realtà.

Il problema, insomma, si riduce in questi termini: la infalli-

bilità della grazia implica soltanto la prescienza divina o abolisce

(26) Francesco Pellxjzza, La causalità della grazia efficace nel pen-

siero di S. Agostino, in S. Agostino, Vita e Pensiero, Milano, 1931, p. 171.

(27) De gratia Christi, l. I, cap. XLVII, coli. 383-4.

(28) Disputatio cura Felice manichaeo, l. II, cap. III, col. 538.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 107

il libero arbitrio dell'uomo, per cui tutto verrebbe ad essere con-

dizionato da Dio?

Alcune frasi di Agostino convalidano la prima ipotesi, altre

frasi, l'altra. Ad es., Agostino dice : « Con la sua interna ed occulta,

ammirabile ed ineffabile potestà Dio opera nei cuori degli uomini

non solo le vere rivelazioni, ma anche la buona volontà» (29). E

altrove : « Siamo noi sì a volere, ma è Dio che opera in noi il

nostro volere : siamo noi ad operare, ma è Dio che opera in noi il

nostro operare, secondo la buona volontà. Tutto ciò è necessario

credere ed affermare; la religione e la verità ci inducono a que-

sta umile e sottomessa confessione e ad attribuire tutto a

Dio » (30). Infatti il Signore non disse che l'uomo avrebbe appreso

la sua via, o l'avrebbe tenuta, o avrebbe camminato per questa

via o un'altra espressione simile, dalla quale si sarebbe potuto in-

tendere che l'aiuto viene sì dato da Dio, ma soltanto a quell'uomo

che ha già la buona volontà, in maniera che l'uomo prevenga con

la sua volontà il beneficio col quale Dio dirige i suoi passi ad

apprendere, tenere o camminare nella sua via e meriti questo

dono di Dio per la sua volontà antecedente. Invece egli disse :

Dal Signore vengono diretti i passi dell'uomo e vorrà la sua via,

affinché con ciò intendessimo che la stessa buona volontà, con la

quale incominciamo a voler credere è un dono di Colui che per

prima cosa dirige i passi nostri affinché vogliamo. Non disse in-

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fatti la Scrittura « Dal Signore sono diretti i passi dell'uomo per-

ché volle la di lui via », ma disse : sono diretti e vorrà. E dunque

non perché volle sono diretti, ma perché sono diretti, volle (31).

In un altro passo, invece, Agostino dice : Dio, con gli incitamenti

della illuminazione della mente agisce a farci volere e credere sia

esternamente, con le esortazioni del Vangelo, i cui comandamenti

agiscono in qualche modo ammonendo la debolezza dell'uomo a

ricorrere con la fede alla grazia giustificante; sia internamente,

non essendo in potere dell'uomo quel che viene nella sua mente,

benché il consentire o il non consentire appartiene alla di lui

volontà. E poiché Dio agisce in tal maniera con la creatura ragio-

nevole perché essa crede in Lui, e non potendo d'altronde essa

credere cosa alcuna con libero assenso, se non ci sia l'esortazione

(29) De libero arbitrio, l. II, cap. XIX, col. 1268.

(30) De gratin Christi, l. I, cap. XXIV, col. 373.

(31) De spiritu et littera, cap. XXXIV, coli. 240.

108 ANNA ESCHER DI STEFANO

o la chiamata a cui credere, certamente Dio dà all'uomo lo stesso

voler credere, e in tutte quante le cose lo previene con la sua

misericordia. Il consentire poi alla chiamata di Dio o il non ac-

consentirvi, come si è detto, è proprio della volontà. La qual cosa

non solo, secondo Agostino, non infirma quel che si è detto, « che

cosa hai che non hai ricevuto? », ma anzi lo conferma. Infatti

l'anima non può ricevere o possedere questi doni di cui si parla,

se non acconsentendo. Ed appunto per questo quel che possiede

e quel che riceve è di Dio, sebbene ad essa appartenga l'atto del

ricevere e del possedere (32).

A questo proposito il Gilson pone un'obbiezione : Se la Gra-

zia precede le opere e i loro meriti, essa non è il risultato d'una

nostra acquisizione, ma il segno d'una elezione (33) : ma qual'è la

causa di questa elezione? Il problema è tanto più difficile a risol-

versi, osserva il Gilson, in quanto questa elezione implica una

scelta, e una scelta suppone dei motivi : ora possono questi motivi

essere forniti dalle creature? La gratuità della Grazia sembra

escludere la possibilità stessa d'una elezione. La sola maniera di

uscire dalla difficoltà è, secondo il Gilson, l'ammettere che l'ele-

zione divina non si fondi su una giustizia che l'uomo conosce, in

base alla quale non è l'elezione che precede la giustificazione, ma

è la giustificazione che precede l'elezione (34).

(32) De dono perseverantiae, cap. XIII, col. 1013.

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(33) Ep., 217, n. 3: «Si enim Deus miseretur, etiam volumus: ad

eamddem quippe misericordiam pertinet ut velimus. Deus enim est qui

operatur in nobis et velie et operari, pro bona voluntate. Nam si quae-

ramus utrum Dei donum sit voluntas bona, mirum si negare quisquam

audeat. At enim quia non praecedit voluntas bona vocationem, sed vocatio

bonam voluntatem, proterea vocanti Deo recte tribuitur quod bene volu-

mus, nobis vero tribui non potest quod voeamur » (De diversis quaest ad

Simplic, l. I, q. II, col. 118).

(34) De civit. Dei, l. V, cap. IX, coli. 150-1. « Neque enim ideo peccat

homo, quia Deus illum peccaturum esse praescivit: imo ideo non dubitatur

ipsum peccare, cum peccat quia ille, cujus praescientia falli non potest.

non fatum, non fortunam, non aliquid aliud, sed ipsum peccaturum esse

praescivit. Qui si nolit, utique non peccat: sed si peccare noluerit, etiam

hoc ille praescivit » (De civit. Dei, l. V, cap. X. col. 153). « Quid enim est

verius, quam praescisse Christum, qui et quando et quibus locis in eum

fuerant credituri? Sed utrum praedicato sibi Christo a se ipsis habituri

essent fidem, an Deo donante sumpturi, id est, utrum tantummodo eos

praescierit, an etiam praedestinaverit Deus, quaerere atque disserere tunc

necessarium non putavi. Proinde quod dixi, « Tunc voluisse hominibus ap-

N

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 109

Ma il problema così si sposta senza scomparire : qual'è infatti

il motivo di questa giustificazione? Né si può rispondere sia la

fede, in quando la fede è il cominciamento della Grazia, è già un

frutto di essa, e pertanto presuppone la giustificazione che le si

chiede di chiarire (35). Né si può giustificare con la prescienza di-

vina, che con la grazia ricompensa i buoni per le opere meritorie

che faranno, e punisce i cattivi; in quanto, precisa il Gilson, la

grazia è la sola causa responsabile dei meriti. E in tal caso, ag-

giungiamo noi, la grazia non sarebbe gratuita, ma meritata, giac-

ché la bontà delle azioni che l'uomo compie, determinerebbe l'ele-

zione. Può forse costituire una risposta la correlazione tra l'ap-

pello di Dio e l'adesione da parte della buona volontà dell'uomo?

Ma si arriverebbe alla conclusione che, se è vero che la buona vo-

lontà non potrebbe nulla senza la grazia, questa sarebbe condi-

parere Christum, et apud eos praedicari doctrinam suam, quando sciebat

et ubi sciebat esse qui in eum fuerant credituri : « potest etiam sic dici,

Tunc voluisse hominibus apparere Christum, et apud eos predicari doctri-

nam suam quando sciebat et ubi sciebat esse qui electi fuerant in ipso

ante mundi constitutionem » (De praedest. sanct., cap. IX, col. 974).

(35) « Haec est autem, ut de operum meritis nemo glorietur, de quibus

audebant Israelitae gloriari, quod datae sibi legi servissent, et ex hoc

evangelicam gratiam tanquam debitam meritis suis percepissent, quia legi

serviebant. Unde nolebant eamdem gratiam dari Gentibus, tanquam indi-

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gnis nisi Judaica sacramenta susciperent. Quae orta quaestio in Apostolo-

rum Actibus solvitur. Non enim intelligebant, quia eo ipso quo gratia est

evangelica operibus non debetur: alioquin gratia jam non est gratia (Rom.

XI, 6). Et multis locis hoc saepe testatur, fidei gratiam praeponens operi-

bus, non ut opera exstinguat. sed ut ostendat non esse opera praeceden-

tia gratiam, sed consequentia : ut scilicet non se quisque arbitretur ideo

percepisse gratiam, quia bene operatus est; sed bene operari non posse,

nisi per fidem perceperit gratiam. Incipit autem homo percipere gratiam,

ex quo incipit Deo credere vel interna vel externa admonitione motus ad

fidem» (De diversis quaest. ad Simpi., l. I, q. 2, col. 111).

(36) « Non ergo secundum electionem propositum Dei manet, sed ex

proposito electio: id est, non quia invenit Deus opera bona in hominibus

quae eligat, ideo manet propositum justificationis ipsius; sed quia illud

manet propositum justificationis ipsius; sed quia illud manet ut justificet

credentes, ideo invenit opera quae jam eligat ad regnum coelorum. Nam

nisi esset electio, non essent electi, nec recte diceretur; Quis accusabit ad-

versus electos Dei (Rom. VIII, 33)? Non tamen electio praecedit justifica-

tionem, sed electionem justificatio. Nemo enim eligitur, nisi jam distans

ab ilio qui rejicitur. Unde quod dictum est. Quia eligit nos Deus ante mundi

constitutionem (Ephes. I, 4); non video quomodo sit dictum, nisi praescien-

tia » (Ibid., col. 115).

110 ANNA ESCHER DI STEFANO

zionata dal consenso della nostra volontà (36). Il problema è dun-

que non soltanto quello di sapere perché l'elezione di Dio scel-

ga una o piuttosto un'altra creatura, ma anche di sapere perché

alcuni rispondono all'appello e altri no. A ciò per il Gilson, si

può rispondere solo in questo modo (37) : se Dio crea delle circo-

stanze in cui prevede che la nostra libera scelta si deciderà in

questa maniera anzicché in un'altra, Egli ottiene infallibilmen-

te da noi, senza modificare il nostro volere, quegli atti liberi che

la sua giustizia e la sua saggezza volevano ottenere, ma nello stes-

so tempo sottomette la nostra volontà all'influenza di quella gra-

zia alla quale Egli sa che la nostra volontà acconsentirà. In tal

modo la volontà, per il Gilson, non cessa d'esser libera. Quando

dunque Dio vuol salvare un'anima, gli è sufficiente scegliere sia

le circostanze esteriori in cui essa si troverà, sia le grazie alle

quali la sua volontà dovrà trovarsi sottomessa. Quanto agli altri

uomini, Dio potrebbe appellarli alla stessa maniera, ma non lo

fa, perché « bien qu'il y ait beaucoup d'appelés, peu sont élus »

(38). La grazia agostiniana, per il Gilson, può dunque essere irre-

(37) « Nemo enim credit, qui non vocatur. Misericors autem Deus vo-

cat, nullis hoc vel fidei meritis largiens; quia merita fidei sequuntur voca-

tionem potius, quam praecedunt. Quomodo, enim, credent, quem non au-

dierunt? et quomodo audient sine praedicante (Rom. X, 14)? Nisi ergo vo-

cando praecedat misericordia Dei, nec credere quisquam potest, ut ex hoc

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incipiat justificari, et accipere facultatem bene operandi. Ergo ante meri-

tum gratia » (Ibid.).

(38) « Illa etiam verba si diligenter attendas. Igitur non volentis ne-

que currentis, sed miserentis est Dei; non hoc Apostolus propterea tantum

dixisse videbitur, quod adjutorio Dei ad id quod volumus perveniamus; sed

etiam ex illa intentione qua et alio loco dicit, Cum timore et tremore ve-

stram ipsorum salutem operamini; Deus enim est qui operatur in vobis

et velie et operari, pro bona voluntate (Philipp. II, 12, 13). Ubi satis ostendit

etiam ipsam bonam voluntatem in nobis operante Deo fieri. Nam si prop-

terea solum dictum est, Non volentis neque currentis, sed miserentis est

Dei, quia voluntas hominis sola non sufficit ut juste recteque vivamus,

nisi adjuvemur misericordia Dei; potest et hoc modo dici, Igitur non mi-

serentis est Dei, sed volentis est hominis, quia misericordia Dei sola non

sufficit, nisi consensus nostrae voluntatis addatur » (Ibid., coli. 117-8). « Cum

procul dubio, si homo ejus aetatis est ut ratione jam utatur, non possit

credere, sperare, diligere, nisi velit, nec pervenire ad palmam supernae

vocationis Dei, nisi voluntate cucurrerit (Philipp. III, 14). Quomodo ergo

non volentis, neque currentis, sed miserentis est Dei, nisi quia et ipsa vo-

luntas, sicut scriptum est, a Domino praeparatur (Prov,, VIII, 35, sec LXX)?

Alioquin si propterea dictum est, Non volentis, neque currentis sed mise-

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 111

sistibile senza essere costrittiva, « car ou bien elle s'adapte au

libre choix de ceux qu'elle a décidé de sauver, ou bien, transfor-

mant du dedans la volonté à laquelle elle s'applique, elle la fait

se délecter librement de ce qui lui répugnerait sans elle. La pré-

destination divine n'est donc que la prévision infaillible de ses

oeuvres futures, par laquelle Dieu prépare lez circostances et les

gràces salutaires à ses élusva (39). La predestinazione divina per

il Gilson, non è dunque che la previsione infallibile di quelle ope-

re future per mezzo delle quali Dio prepara le circostanze e le

grazie salutari ai suoi eletti (40).

Se dunque Dio salva alcuni e non altri, lo fa in nome d'una

equità i cui motivi ci sono sconosciuti (41). L'ultima parola di

rentis est Dei, quia ex utroque flt, id est, et voluntate hominis, et miseri-

cordia Dei, ut sic dictum accipiamus, Non volentis, neque currentis, sed

miserentis est Dei, tanquam diceretur, Non sufficit sola voluntas hominis,

si non sit etiam misericordia Dei: non ergo sufficit et sola misericordia

Dei, si non sit etiam volutas hominis » (Enchiridion, cap. XXXII, coli. 247-8).

(39) Gilson, op. cit., p. 202. Dice Agostino : « An forte illi qui hoc modo

vocati non consentiunt, possent alio modo vocati accomodare fidei volun-

tatem, ut et illud verum sit, Multi vocati, pauci electi; ut quamvis multi

uno modo vocati sint, tamen quia non omnes uno modo affecti sunt, illi soli

sequantur vocationem, qui et capiendae reperiuntur idonei... Ad alios autem

vocatio quidem pervenit; sed quia talis fuit qua moveri non possent, nec

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eam capere apti essent vocati quidem dici potuerunt, sed non electi; et non

jam similiter verum est: igitur non miserentis Dei, sed volentis atque

currentis est hominis: quoniam, non potest effectus misericordiae Dei

esse in hominis potestate, ut frustra ille misereatur, si homo nolit; quia si

vellet etiam ipsorum misereri, posset ita vocare, quomodo illis aptum esset,

ut et moverentur et intelligerent et sequerentur » (De divers. quaest. ad

Simplician., l. I, cap. II. col. 118).

(40) Gilson, op. cit., p. 202.

(41) « Haec est praedestinatio sanctorum, nihil aliud : praescientia sci-

licet, et praeparatio beneficiorum Dei, quibus certissime liberantur, qui-

cumque liberantur Caeteri autem ubi nisi in massa perditionis justo divino

judicio relinquuntur? ». Ubi Tyrii relieti sunt et Sidonii, qui etiam cre-

dere potuerunt, si mira Illa Christi signa vidissent? Sed quoniam ut crede-

rent non erat eis datur, etiam unde crederent est negatum. Ex quo apparet

habere quosdam in ipso ingenio divinum naturaliter munus intelligentiae,

quo moveantur ad fidem, si congrua suis mentibus vel audiant verba, vel

signa conspiciant: et tamen si Dei altiore judicio, a perditionis massa non

sunt gratiae praedestinatione discreti, nec ipsa eis adhibentur vel dieta di-

vina vel facta, per quae possent credere, si audirent utique talia vel vide-

rent » (De dono perseverantiae, cap. XIV, col. 1014).

112 ANNA ESCHER DI STEFANO

Agostino è dunque un'umile accettazione del mistero. Ma l'uo-

mo, dopo tutto ciò, può definirsi libero? Si può conciliare la no-

stra possibilità di peccare con la prescienza divina? Infatti se

Dio conosce che l'uomo peccherà, è necessario che l'uomo pecchi,

e quindi, se è necessario, non vi è libero arbitrio nel peccare, ma

piuttosto inevitabile e fissa necessità. Per cui, o si deve negare

che Dio conosca tute le azioni future, o si deve confessare che noi

pecchiamo necessariamente e non liberamente. Ma Agostino si ri-

bella alle conclusioni cui lo porta questa riflessione, e ribadisce

che nulla è in nostro potere quanto la nostra volontà. Infatti, così

come moriamo e invecchiamo necessariamente e non volontaria-

mente, e non siamo tanto folli da affermare che lo vogliamo con

la nostra volontà, alla stessa maniera, benché Dio conosca la no-

stra volontà futura, non segue che noi non vogliamo con la no-

stra volontà. Infatti, così come Dio non influisce sull'uomo, quan-

do si indirizza verso il bene, analogamente non influisce quando

egli commette il male : « ecce jam non nego ita necesse esse fieri

quaecumque praescivit Deus, et ita eum peccata nostra praescire,

ut manet tamen nobis voluntas libera, atque in nostra posita po-

testate » (42). Per cui, secondo Agostino, alla prescienza divina ap-

partiene il non ignorare nulla di tutto quello che sarà fatto, e

alla sua giustizia il punire il peccato fatto liberamente, in modo

che, come con la sua prescienza non costringe a farlo, così con il

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suo giudizio non permette che venga fatto impunemente.

Ma si può conciliare l'efficacia della grazia con la libertà?

Per il Gilson niente impedisce che la grazia si applichi vit-

toriosamente alla volontà, senza alterarne la libertà. Si ammette

senza difficoltà, dice il Gilson, che l'uomo agisce liberamente al-

lorquando disprezza il dono divino della Grazia per gettarsi nel

peccato. Ma sarebbe un errore credere che l'esser soggiogati dai

(42) « Quapropter cum dando et accipiendo inter se hominum societas

connectatur, dentur autem et accipiantur vel debita vel non debita; quis

non videat iniquitatis argui neminem posse, qui quod sibi debetur, exegerit?

nec eum certe, qui quod ei debetur, donare voluerit? hoc autem non esse

in eorum qui debitores sunt, sed in ejus cui debetur arbitrio? Haec imago,

vel, ut supra dixi, vestigium negotiis hominum de fastigio summo aequi-

tatis impressum est. Sunt igitur omnes homines una quaedam massa pec-

cati, supplicium debens divinae summaeque justitiae, quod sive exigatur,

sive donetur, nulla est iniquitas » (De diversis quaest. ad Simpi., l. I, cap.

II, coli. 120-1).

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 113

sensi abolisca in noi il libero arbitrio (43), di cui, anzi, esso è una

manifestazione. Il diletto del peccato che mi tenta non è una cosa

che si aggiunge alla mia volontà, per trarla verso il basso, ma è

la stessa spontaneità del mio pensiero che trascina la mia volontà

al male : Analogamente è libero il nostro tendere al bene, anzi so-

lo ora esso è veramente libero (44) : « Ce qu'il faut comprendre,

c'est qu'en agissant sur la volonté la gràce ne respecte pas seule-

ment le libre arbitre, mais qu'elle lui confère encore la liberté.

La liberté (libertas) n'est en effet que le bon usage du libre arbi-

tre (liberum arbitrium); or, si la volonté reste toujours libre, au

sens de libre arbitre, elle n'est pas toujours bonne, et n'est par

conséquent pas toujours libre, au sens de liberté» (45).

La Grazia, pertanto, restaurando in noi l'amore di Dio, ci ren-

de il dominio del corpo e delle cose materiali. Essa, per il Gilson,

ben lontana dall'abolire la volontà, la libera rendendola

buona (46).

Anche il Portaliè pensa che libertà e grazia in Agostino non

siano in contraddizione tra loro. Prima di ogni decreto divino di

creare il mondo — dice il Portaliè — la scienza infinita di Dio

presenta a lei stessa tutte le grazie e le serie diverse di grazie

che egli può preparare per ogni anima con il consenso o il rifiuto

che seguirebbe in ogni circostanza, e ciò nei milioni e milioni di

combinazioni possibili. Il nostro mondo attuale, con tutta la sua

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storia da Adamo fino all'ultimo giudizio, non è che uno delle mi-

gliaia e dei milioni di mondi che Dio poteva realizzare. In mez-

(43) De libero arbitrio, l. III, cap. III, col. 1275).

(44) « Regnant ista bona si tantum delectant, ut ipsa teneant animum

in tentationibus ne in peccati consensionem ruat. Quod enim amplius nos

delectat, secundum id operemur necesse est: ut verbi gratia occurrit forma

speciosa feminae et movet ad delictationem fornicationis : sed si plus de-

lectat pulchritudo illa intima et sincera species castitatis, per gratiam quae

est in fide Christi, secundum hanc vivimus et secundum hanc operamur »

(Epist. ad Gai., XLIX, coli. 2140-1). « Manifestum est certe secundum id

nos vi ere quod sectati fuerimus; sectabimur autem quod dilexerimmus :

si tantunmdem utrumque diligitur, nihil horum sectabimur; sed aut timore,

aut inviti trahemur in alterutram partem » (Ibtd., LIV, col. 2142).

(45) « Ecce unde liberi, unde condelectamur legi Dei : libertas enim

delectat. Nam quamdiu timore facis quod justum est, non deus te de-

lectat. Quamdiu adhuc servus facis, te non delectat: delectet te, et liber

es » (In Joan. Evang., XLI, col. 1698).

(46) Gilson, op. cit., p. 212.

8

114 ANNA ESCHER DI STEFANO

zo a questi mondi ce ne sono alcuni dove tutti si salverebbero, de-

gli altri dove tutti si perderebbero e degli altri in cui dannati ed

eletti sono mescolati. Per ogni uomo in particolare vi è nel pen-

siero di Dio un numero illimitato di storie possibili, alcune, storie

di virtù e di salute, altre storie criminali di dannazione, e Dio sarà

libero, scegliendo tale mondo quale sede di grazia, di determina-

re la storia futura e il destino finale di ogni anima. Ecco la scien-

za che, secondo Agostino, precede e rischiara la scienza di Dio.

Questa scienza che gli presenta le diverse maniere per salvare

Giuda, non è la scienza della visione la quale non contempla che

le cose future, ma un'altra scienza, qualsiasi sia il nome che le

si vuole dare, il cui oggetto comprende le risposte condizionali di

ogni volontà ad ogni richiamo di Dio. Senza questa scienza non

si comprenderà né Agostino né la predestinazione (47). Inoltre la

grazia efficace opera sì infallibilmente, ma giammai per un im-

pulso irresistibile : sotto la sua azione la volontà resta padrona

di se stessa (48).

Però noi a queste conclusioni obbiettiamo : Se alla creatura

appartiene soltanto l'accipere e Yhabere, essa è passiva, non po-

tendo rifiutare la misericordia che Dio le accorda. Né la volontà

può ribellarsi ad essa, cioè può rifiutare il suo assenso, dato che

Agostino dice che è Dio stesso che condiziona nell'uomo lo stesso

voler credere. Se dunque l'uomo è costretto a credere, come può

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rifiutare la misericordia, dato che l'accettazione di essa è essen-

zialmente un atto di fede? In breve, siamo in pieno determinismo,

e, in tal modo la libertà e la moralità vengono a cadere del tutto.

Perché l'adesione spirituale sia meritoria è necessaria la libera ac-

cettazione dell'individuo. Com'è chiaro, questa libera accettazio-

ne non esiste se Dio con la sua illuminazione agisce sulla nostra

mente, determinando in essa il voler credere. Evidentemente la

reazione al razionalismo manicheo ha portato Agostino su un pia-

no troppo estremo, ben lontano dalla retta interpretazione della

dottrina cristiana. L'uomo dal cuore impuro non è colpevole di

esser tale, se « l'Onnipotente dirige nel cuore degli uomini il mo-

vimento della loro volontà, in modo tale che Colui che non sa

volere assolutamente nulla d'ingiusto opera per mezzo di essi quel-

lo che per loro mezzo vuole operare, in modo da inclinare le lo-

(47) Ibid., pp. 209-212.

(48) Portaliè, op. cit., col. 2399.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 115

ro volontà da quel lato che vuole, sia al bene per la sua miseri-

cordia, sia al male; e ciò secondo il giudizio suo, ora manifesto, ora

occulto, ma sempre giusto » (49).

Appunto perciò non siamo d'accordo con quanto afferma il

Pelluzza, secondo cui le parole di Agostino « non mirano ad af-

fermare che qualche volta, per giusto castigo di Dio, il peccatore

incorre in nuovi peccati, frutto e pena dei peccati precedenti » (50).

Che l'influsso divino ci sia, è chiaramente indicato dal fatto

che Agostino dice che è Dio stesso che si serve per un suo im-

perscrutabile disegno della volontà degli uomini, incanalandola o

verso il bene o verso il male. Se il volere o il non volere dipen-

dono da Colui che vuole o non vuole, e se anche di coloro che

fanno quello che Dio non vuole, Dio fa quel che vuole, se le uma-

ne volontà non possono opporre resistenza alla volontà di Dio da

cui dipende tutto ciò che sta in cielo e in terra (51), dove va a

finire il libero arbitrio? E torniamo a chiederci, è concepibile mo-

ralità senza libertà? Evidentemente, no.

Dunque alla domanda se le parole di Agostino inchino pre-

scienza divina o determinismo, non si può rispondere che opta-

no per quest'ultimo : « Anche le nostre volontà vanno incluse nel-

l'ordine delle cause, il quale ordine è certo riguardo a Dio ed è

contenuto nella sua prescienza, giacché le umane volontà sono le

cause delle opere umane. E in tal caso Colui che prevede tutte le

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cause delle cose, non può certamente ignorare tra queste cause le

nostre volontà, che previde essere le cause delle opere nostre » (52).

Evidentemente non si tratta solo di prescienza, ma anche di

determinazione, dato che l'opera di Dio non si arresta ad una co-

(49) Ibid., col. 2388.

(50) De gratia et libero arbitrio, cap. XXI, col. 907 e 909.

(51) F. Pelluzza, op. cit., p. 174.

(52) De correptione et gratia, cap. XIV, coli. 942-3 : « Sic enim velie

seu nolle in volentis aut nolentis est potestate, ut divinam voluntatem non

impediat, nec superet potestatem. Etiam de his enim qui faciunt quae non

vult, facit ipse quae vult... Non est itaque dubitandum, voluntati Dei,

qui in coelo et in terra omnia quaecumque voluit fecit (Psai. CXXXIV, 6) ».

« Horum si quisquam perit, fallitur Deus : sed nemo eorum perit, quia

non fallitur Deus. Horum si quisquem perit, vitio humano vincitur Deus:

sed nemo eorum perit, quia nulla re vincitur Deus » (De correptione et

gratia, cap. VIII, col. 924).

116 ANNA ESCHER DI STEFANO

noscenza degli atteggiamenti umani, ma interviene per indiriz-

zarli.

Una conseguenza del problema del male è il problema ri-

guardante l'esistenza di due anime.

I Manichi, dopo aver notato che nell'uomo le forze del bene e

quelle del male spesso sono in contrasto, ne deducevano che due

sono le anime di cui egli g formato. Scrive Agostino nelle Confes-

sioni: Periscano dalla faccia tua, o Dio, come in realtà periscono,

quei millantatori e seduttori di anime, i quali, avendo notato nelle

nostre deliberazioni la presenza di due volontà, affermano l'esi-

stenza in noi di due anime di natura diversa, l'una buona, l'altra

cattiva. Essi sì che sono tristi, fin tanto che professano codeste tri-

sti idee. Mentre essi anche saranno buoni, se professeranno idee

conformi a verità e a questa assentiranno, così che ad essi possa

dire l'apostolo : foste un tempo tenebre, ma ora siete luce nel

Signore (53).

Anche in questo caso la polemica agostiniana, si basa preva-

lentemente su elementi psicologici : « Io quando stavo deliberan-

do di servire senz'altro al Signore Dio mio, come avevo disposto

da un pezzo, ero io che volevo, io che non volevo : ero proprio

io che né volevo pienamente, né rifiutavo pienamente. Perciò lot-

tavo con me stesso e mi straziavo da me stesso; e per quanto lo

strazio avvenisse contro la mia volontà, tuttavia esso non rive-

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lava la presenza di un'altra anima di natura diversa, sebbene un

castigo della anima mia. Dirò, anzi, che non io, ero la causa di

quello strazio, ma il peccato che abitava in me, in pena di un altro

peccato commesso più liberamente da Adamo, del quale ero un

figlio » (54).

Non di due anime distinte quindi si tratta, ma di diverse va-

lutazioni della volontà da cui l'anima è trascinata.

I Manichei portavano come prova della evidenza della loro

teoria, l'esempio di quell'uomo che è incerto se andare ad una

adunanza di manichei o a teatro; e vedevano in questa incertezza

la lotta tra l'anima buona, che desiderava andare alla riunione, e

l'anima cattiva che voleva invece trascinare l'uomo a teatro. Ma,

dice Agostino, questo, giudizio non è obbiettivo, poiché un cri-

stiano che si trovi a dare il suo parere su questo stesso esempio

(53) Confessiones, l. VIII, cap. X, col. 759.

(54) Ibtd.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 117

dirà che le anime che si combattono interiormente a quell'uomo

sono ambedue cattive: «Se uno di noi deliberi e fra due volontà

contrastanti sia in dubbio se avviarsi a teatro o alla nostra chie-

sa, non forse si troveranno anch'essi temporaneamente a rispon-

dere? Infatti o ammetteranno ciò che non vogliono fare, che la

volontà che mena alla nostra chiesa sia la buona, come accade in

coloro che, istruiti nei suoi ministeri vi si recano e vi si tratten-

gono, o dovranno pensare che in uno stesso uomo ci sono due na-

ture tristi e due anime tristi in lotta tra loro. E allora non sarà

vero quello che sogliono affermare, che l'una è buona e l'altra è

triste. Oppure si convertiranno alla verità e non negheranno che

quando uno delibera, un'anima sola è quella che fluttua tra vo-

lontà diverse » (55). Se fosse esatta la teoria manichea sulla esi-

stenza di due anime, queste anime non sarebbero più due, ma

molteplici. Infatti Mani, confondendo i due concetti di volontà e

anima, deve necessariamente affermare che in noi vi sono tante

anime quante volontà diverse : « Quando per esempio, uno deli-

beri se debba togliere la vita ad un uomo adoperando il veleno e

il ferro, se debba usurpare questo o quel fondo non suo, non po-

tendo usurparli entrambi, se i suoi quattrini debba spenderli con

prodigabilità, per comperarsi il piacere, o custodirli avaramente,

se debba recarsi al circo o al teatro, qualora nello stesso giorno si

dia spettacolo nell'uno e nell'altro; oppure (aggiungo un terzo caso)

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a rubare in casa altrui, avendo l'opportunità di farlo, oppure

(aggiungo un quarto caso) a commettere un adulterio, se n'ab-

bia il mezzo. Suppongo, naturalmente che tutte queste possibilità

concorrano nel medesimo istante e tutte eccitino ugualmente il

desiderio, pur non potendosi effettuare tutte ad un tempo. In tale

condizione ben quattro volontà in lotta tra loro fanno strazio del-

l'anima : Ma, che dico quattro? Potrebbero essere anche più in

tanta abbondanza di cose che appetiscono. Non per questo i Ma-

nichei sogliono affermare l'esistenza di altrettante anime di so-

stanze diverse » (56). Lo stesso si potrebbe dire per le volontà

buone : « Domando, infatti loro se sia bene cercare il loro diletto

nella lettura dell'apostolo e nel canto raccolto di un salmo e nel

ragionare intorno al Vangelo. Alle singole domande risponderan-

no: sì. O allora? Se codeste cose mi attirino tutte quante ugual-

(55) Ibid.

(56) Ibid., col. 760.

118 ANNA ESCHER DI STEFANO

mente in una volta, non si avrà a dire che diverse volontà si divi-

dano il mio cuore, mentre delibero a qual partito debbo appi-

gliarmi? » (57).

Ma evidentemente la confutazione di Agostino non è valida

nei termini in cui egli l'ha espressa, in quanto i Manichei non han-

no detto che l'uomo possiede tante anime quante diverse valuta-

zioni questa ha, ma soltanto che in lui vi sono due anime, una del

bene e l'altra del male, che stanno a simboleggiare il bivio in cui

l'uomo si trova ogni qualvolta la voce del bene e la voce del male

chiamano contemporaneamente.

Piuttosto si potrebbe obbiettare ai Manichei, che, se si am-

mettesse la dualità delle anime, si verrebbe a perdere l'unità

dell'uomo, intaccando conseguentemente la sua stessa possibilità

di vivere e di agire.

I Manichei affrontano quindi il problema dell'origine di que-

ste due anime, e fanno risalire a Dio soltanto l'anima del bene.

Ma, obbietta Agostino, nessuna vita può esistere che sia estra-

nea a Dio, poiché Dio è la vita stessa. Quindi, quest'anima non

viene da Dio, non ha vita, e pertanto cessa di essere anima; o

vive, e allora Dio ne è l'autore ed essa non può appartenere alla

natura del male. Dice Agostino : « Si lux quae sensus percipitur

Deum habet auctorem, ut fatentur Manichaei, multo magis ani-

ma quae solo intellectu percipitur» (58). Se i Manichei ammet-

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tono che la luce fu creata da Dio, a maggior ragione devono am-

mettere che fu creata da Lui anche l'anima, poiché questa per

quanto possa esser partecipe della natura del male è sempre su-

periore per la sua spiritualità alla luce, che, percepiamo coi sensi :

«vitiosae animae quanquam damnandae quomo do huic luci quae

in genere suo laudanda est, antecellant » (59).

I Manichei portano a conferma della loro tesi il passo della

Scrittura che dice : « Vos propterea non auditis quia ex Deo non

estis; vos ex patre diabolo estis » (60). Ma è scritto anche : « Om-

nia per ipsum facta sunt et sine ipso factum est nihil » (61). Ma

anche in questo caso i Manichei cadono in errore di interpreta-

zione. Infatti « ex Deo non estis » si riferisce all'uomo peccatore,

(57) Ibid.

(58) De duabus animabus, cap. V, col. 96.

(59) Joan., VIII, 47 e 44.

(60) li., I, 3.

(61) De duabus animabus, cap. VII, col. 100.

-.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 119

in quanto Dio è vita, ma « vita in peccatis in comparatone justae

vitae mors appellata sit » (62), quindi l'uomo « vivus ex Deo... pec-

cator non ex Deo » (63).

A questo errore di interpretazione si aggiunge un altro errore

di valutazione, in quanto i Manichei affermano che l'anima cat-

tiva non fa il male di sua volontà, ma è costretta a farlo dalla sua

stessa natura. Ma l'anima che pecca senza il concorso della volon-

tà, l'anima che pecca anche quando non vuole peccare, in realtà

non pecca affatto. Il peccato è volontà di compiere il male, e se

questa volontà viene a mancare, il peccato non sussiste più. Per

cui dalla tesi manichea si giunge all'assurda conclusione che la

anima, cattiva, che è essenzialmente male, non pecca (64).

Nell'incertezza dell'anima che deve decidere se seguire il be-

ne o il male si deve vedere, conclude pertanto Agostino, non una

lotta tra due anime distinte, ma tra due volontà: E' la medesima

anima che vuole con volontà non integra e piena questo o quel-

lo, e prova uno strazio doloroso, mentre prepone quello in forza

della verità e non depone questo in forza della consuetudine (65).

(62) Ibid.

(63) L'insostenibilità di tale dottrina è stata rilevata anche dal Terzi:

« Questa dottrina è quanto mai assurda, perché la mescolanza di questi

due generi diversi di anime, appartenenti l'uno alla sostanza del Bene,

l'altro alla sostanza del male, presuppone la corruttibilità e violabilità della

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sostanza del sommo Bene e la possibilità di conoscere e il desiderio di pos-

sedere Dio da parte della sostanza del male... Anche l'utilità del penti-

mento, che da nessuno è messa in dubbio, prova che la dottrina manichea

delle due anime è assurda. Il pentimento presuppone che già si sia com-

piuto il male e che si abbia la buona volontà di operare bene. Ma finché

coi Manichei si pone l'origine del male in un'anima malvagia che sia

della stessa sostanza del male e si ammette che oltre quest'anima malva-

gia vi sia in noi un'anima buona, che sia della stessa sostanza di Dio, cioè

iDo stesso, bisogna negare qualsiasi possibilità di pentimento in noi. L'a-

nima malvagia che è della stessa sostanza del male non può pentirsi, per-

ché non può volere il bene; alla sua volta nemmeno l'anima buona, che

è Dio stesso perché la sostanza del bene o Dio non può volere il male »

(Terzi, op. cit., pp. 31-36).

Capitolo Sesto

IL PROBLEMA DELLA SOSTANZA DI DIO E

DELLA SUA IMMUTABILITA' ED INCOR-

RUTTIBILITA'

Il problema sulla natura di Dio è uno tra i più oscuri e con-

troversi della problematica manichea, e, in generale, di tutta la

storia del pensiero. In proposito il De Beausobre osserva che nien-

te vi è di più evidente dell'esistenza di Dio, e niente di più oscu-

ro della Sua natura. Tutti gli sforzi dello spirito umano non ser-

vono che a convincere dell'ignoranza dell'uomo su questo sog-

getto (1).

La natura di Dio, secondo Mani, è una Luce eterna, intelli-

gente, purissima; priva di qualsiasi ibrido miscuglio con la tene-

bra. Concezione, questa, che noi troviamo già in sistemi antece-

denti, come in quello di Zoroastro, o in quello dei filosofi del-

l'India o della Grecia, e anche presso i filosofi cristiani, che si

sono spesso compiaciuti di fare accostamenti tra Dio e la Luce.

Il problema investe la natura di questa Luce, se cioè si tratti

di una Luce spirituale o corporea, materiale o soprannaturale, cor-

ruttibile o incorruttibile. Un frammento manicheo dice che il Fi-

glio della Luce suprema fa vedere chiaramente quale sia la sua

(1) « Il n'y a rien de plus évident, que l'existence d'un Dieu, ni rien

de plus obscur que sa Nature. Tous les efforts de l'Esprit humain ne ser-

vent qu'a le convaincre de sa faiblesse et de son ignorance sur ce sujet :

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Elle fuit, pour ainsi dire, devant ceux qui la cherxhent, et lors qu'ils pen-

sent en approcher, elle s'enfonce dans une obscurité, où il est impossible

de la suivre. De là tant de diversité de sentints entre les plus habiles Philo-

sophes sur la Nature Divine: Les Chrétiens eux-mèmes ne furent point

d'accord là-dessus, la Revélation étant plus attentive à nous instruire des

Perfections de Dieu, que de son essence, parce que ce sont ces Perfections,

qui servent à régler notre obeissance, t notr cult » (M. De Beausobre, op.

ctt., pp. 465-6).

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 121

essenza allorquando, chiedendo i Giudei di conoscerlo, Egli pas-

sò in mezzo a loro senza esser visto, poiché la forma materiale che

aveva preso in Lui la figura della carne, non poteva esser vista

né toccata. Se dunque il Figlio della Luce viene considerato im-

materiale, a maggior ragione sembrerebbe che questo attributo

debba esser dato al Padre.

Ora, cosa ci ha lasciato la testimonianza agostiniana su que-

sto argomento?

Agostino, ricordando il periodo del suo traviamento mani-

cheo, dice che allora gli sembrava turpe soprattutto credere che

Dio avesse figura di carne umana, e fosse limitato, come gli uo-

mini, dal contorno di membra corporee; e poiché quando voleva

pensare al suo Dio, soleva pensare ad una massa corporea, in

quanto gli pareva che nulla esistesse che non fosse tale, questo

era il più grave errore di cui egli si accusa (2). E confessa inol-

tre che in quel periodo egli non era in grado di distinguere e se-

parare il sensibile dall'intelligibile, il carnale dallo spirituale, poi-

ché non glielo consentiva né l'età, né la disciplina, né la consue-

tudine (3). Io ignoravo, dice Agostino, che Dio è spirito, che Egli

non ha membra in lungo e in largo, che il Suo essere non è rap-

presentato da una massa : poiché la massa della parte è minore

del tutto, e, posto che sia infinita, nella parte limitata da un de-

terminato spazio è minore, che là dove è infinita, e non può es-

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ser tutta dappertutto come lo Spirito, come Dio (4).

Per Agostino, dunque, il dio manicheo è una Luce materiale.

Interpretazione, questa, contestata dal De Beausobre, il quale os-

serva innanzitutto che non si tratta di un lume metaforico, ma di

un lume vero, che è contemplato nel cielo dagli spiriti immortali,

e che fu visto dagli Apostoli allorquando il Signore venne trasfi-

gurato in loro presenza : essi poterono vederlo, in quanto Dio

aveva dato ai loro occhi una proprietà soprannaturale : « tel est

le vrai sentiment de Manichée; mais il faut bien se donner le gar-

de de le taxer d'hérésie, à moins qu'on ne veuille envelopper dans

la mème accusation un grand nombre de Péres Grecs, qui ont crù,

(2) Confea., l. III, cap. VII, col. 688.

(3) Ibid.

(4) Ibid., col. 689.

122 ANNA ESCHER DI STEFANO

comme lui, que les disciples du Seigneur virent sa Divinité sur la

Montagne» (5).

In secondo luogo, quand'anche fosse vero che per Mani Dio

è una luce corporea, bisognerebbe tuttavia prendere questo con-

cetto nel suo significato filosofico : « L'Hérésiarque n'a jamais crù

que la Divinté pùt souffrir, quoiqu'elle se trouve dans des lieux

de souffrance, la Matiére n'ayant aucune action sur elle. Il est vrai

seulement qu'il a nié l'immensité substantielle de la Divinité, et

qu'il a crù la Nature Divine étendue et corporelle. C'est aussi

l'idée qu'en avoit. S. Augustin pendant son Manicheisme. Il la

croyoit repandue soit dans le Monde, soit hors due Monde, dans

des Espaces infinis, parce qu'il ne pouvoit concevoir une Substan-

ce, qui n'eùt ni lieu, ni extension. Pour bien juger de l'erreur de

Manichèe sur la nature de Dieu, il faut se transporter au tems où

il a vécu. Si on ne se place dans ce point de vue, quand on exa-

mine les opinions des Anciens, on ne sauroit en juger d'une ma-

niére équitable» (6). Tanto più che per ben giudicare dell'errore

dei Manichei sulla natura di Dio osserva il De Beausobre (7) bi-

sogna trasportarsi nel tempo in cui Mani è vissuto. Solo così si

potrà giudicare in maniera imparziale «on revèt un esprit de ri-

gueur pour les uns, qu'il faut aussitòt dépouiller pour les autres,

variations, dont je tàche de me préserver autant qu'il m'est pos-

sible» (8). Infatti per il De Beausobre gli stessi dottori cristiani

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(5) De Beausobre, op. cit., p. 470. Stabiliti questi fatti, osserva il De

Beausobre, tiriamone le conseguenze. In primo luogo, allorquando i Padri

della Chiesa hanno detto che Dio è una Luce incorporea, non hanno avan-

zato niente che Mani non avesse già detto. Ma l'« incorporeo » di cui par-

lano i Padri della Chiesa non esclude affatto la visibilità, né per conse-

guenza del tutto la corporeità. Vi sarebbe una contraddizione manifesta se

si dicesse che gli occhi corporei possono percepire un Essere puramente in-

telligibile, che non ha assolutamente alcuna estensione, e di cui per con-

seguenza l'occhio non può ricevere alcuna immagine. In secondo luogo i

Padri hanno riconosciuto che la Natura divina è invisibile agli occhi cor-

porei a meno che Dio non li fortifichi in maniera soprannaturale, e non li

elevi ad una perfezione che essi normalmente non posseggono. E ciò è

precisamente, per il De Beausobre, quello che anche Mani ha detto (De

Beausobre, op. cit., p. 472).

(6) De Beausabre, op. cit., p. 473.

(7) Ibid.

(8) Ibid.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 123

non sono affatto d'accordo sulla natura divina, e anzi molti di

loro, secondo lo studioso, credettero ad un Dio corporeo (9).

A questo punto, però, noi obbiettiamo che non si tratta di giu-

stificare o condannare la dottrina manichea, ma di comprenderne

i principi, per cui, quand'anche si potesse dimostrare che il con-

cetto della sostanza del dio manicheo era condiviso anche da fi-

losofi cristiani, ciò non verrebbe ad escluderne la corporeità, ed

è questo invece quello che a noi interessa precisare.

Agostino afferma nelle Confessioni : « io credevo, o Signore,

mio Dio e mia verità, che tu fossi un corpo lucente e immenso, ed

io una particella di quel corpo» (10), tesi materialistica, che, se-

condo Agostino, poteva senz'altro esser confutata da un argomen-

to di Nebridio, che chiede ai Manichei cosa avrebbe potuto fare

a Dio quella non so quale popolazione delle tenebre, che gli so-

gliono contrapporre da parte della massa contraria, se non Dio non

avesse voluto combattere con essa : Gli avrebbe forse nociuto? In

tal caso Egli sarebbe stato violabile e corruttibile. Non avrebbe

potuto nuocergli in nulla? E allora sarebbe venuto meno ogni

motivo di combattere e di combattere con esito tale che una por-

zione di Dio, anzi un Suo membro o germoglio della stessa Sua

sostanza, s'era mescolata alla potenze avverse e nature da Lui non

create, e per opera loro s'era corrotta e mutata in peggio, conver-

tendo la propria abitudine in miseria, tanto, da aver bisogno

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d'aiuto per poter esserne tratta fuori e purgata. Questa Sua por-

zione costituiva l'anima, alla cui schiavitù, contaminazione e cor-

ruzione doveva recar soccorso il Suo Verbo, libero, puro e incor-

rotto: anch'esso però corruttibile, perché procedente da un'unica

e medesima sostanza. E Nebridio conclude osservando che se i

Manichei avessero risposto che la sostanza divina era incorrutti-

bile, sarebbero risultate false ed esacrabili tutte le altre afferma-

zioni; se, invece, corruttibile, questa stessa affermazione si sareb-

be presentata senz'altro bugiarda o abominevole» (11).

Però, Agostino stesso ammette che quando si parla coi Mani-

chei bisogna intendersi di quale Dio si parla, poiché essi ammet-

(9) A questo proposito il De Beausobre cita le parole di Tertulliano, il

quale osserva : « Quis enim negabit, Deum esse corpus, et si Deus Spiritus

est? Spiritus etiam corpus sui generis, in sua effige » (Tertull., Adv.

Praz., cap. VII).

(10) Conf., l. IV, cap. XVI, col. 706.

(11) Conf., l. VII, cap. II. col. 734.

124 ANNA ESCHER DI STEFANO

tono l'esistenza di due divinità, l'una buona, l'altra cattiva : « quod

si dicitis colere vos et colendum arbitrari Deum a quo factus est

mundus, non tamen eum esse quem Veteris Testamenti commen-

dat auctoritas; impudenter facitis, qui alienum animum atque sen-

tentiam quam bene atque utiliter acceperimus, male interpretari

conamini, frustra omnino » (12). Solo che, come diremo in seguito,

bisogna precisare cosa i Manichei intendono quando parlano di

due diverse e opposte divinità.

Un'altra questione importante riguardo la sostanza di Dio

per i Manichei è se essa sia immanente rispetto al mondo, e

quindi identificantesi panteisticamente con esso, oppure trascen-

dente.

Il Martin è un sostenitore della tesi panteistica (13), e così

pure il Cumont. Quest'ultimo afferma : « la théologie manichéen-

ne, qui est un panthéisme dédoublé, concoit Dieu comme rem-

plissant ces espaces tout entiers: ils sont, comme dit le Fihrst,

ses « membres », ses parties, bien qu'ils soient aussi « en dehors

de lui ». Quoique ayant une existence distincte de lui, ils partici-

pent de sa substance» (14). E anche nella Disputa d'Archelao ri-

troviamo sostenuta la medesima tesi : « Se noi supponiamo, dice

questa, che non vi sia alcun punto che non sia pieno della divinità,

quale posto resterà per collocarvi la creatura? Ove sarà il Fuoco?

dove saranno le tenebre? Li metteremo forse in Dio? Ciò è assur-

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do, poiché egli stesso ne sarebbe tormentato» (15). «Il mondo,

si aggiunge nella Disputa, è come un vaso: se la sostanza divina

riempie tutto questo vaso, come sarebbe possibile mettervi qual-

cosa di più, a meno che essa non sia già una parte di ciò che la

riempie? Ma dove si potrebbe mettere, se non vi è alcun luogo al

di fuori del vaso? » (16).

E sembra che anche Agostino sia stato dello stesso parere, da-

te le molteplici accuse che egli scaglia in proposito ai Manichei.

Agostino discute su quest'argomento soprattutto nell'Epistola

(12) De Moribus Ecci. et Manich., l. I, cap. X. col. 1317.

(13) J. Martin, op. cifc, p. 123 : « Il (Agostino) avait rencontré deux

ibis la doctrine de l'identification, chez les Manichéens d'abord, puis chez

les philosophes ».

(14) Franz Cumont, Le Manichéisme, vol. I, Lamertin, Bruxelles, 1908,

p. 9.

(15) Acta Disp. Arch., p. 66.

(16) Ibid.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 125

Fundamenti : « Ita autem fundata sunt ejusdem splendidissima

regna supra lucidam et beatam terram, ut a nullo unquam aut

moveri aut concuti possint » (17). E chiede se questa terra di

cui Mani parla fu fatta o generata da Dio o se è coeterna a Lui;

dopo molte tergiversazioni Felice, uno dei discepoli di Mani, si de-

cide per il terzo caso, affermando cioè che la terra è coeterna a

Dio; affermazione, che, insieme alla altre sullo stesso tenore, ha

dato adito alla supposizione dell'identità manichea della sostan-

za divina con quella del mondo. E che Agostino creda alla ve-

ridicità di quest'affermazione e alla sua reale rispondenza con i

principi professati dai Manichei, è dimostrato dal numerosi passi

in cui egli rimprovera loro questa concezione. Nel Cantra Fau-

stum; ad es., osserva che se l'anima fosse veramente la stessa so-

stanza di Dio, ne conseguirebbe che la sostanza di Dio si corrompe

e si viola. E altrove osserva che se Dio fosse l'anima del mondo,

non resterebbe niente che non fosse una parte di Lui, mentre è

evidente che quest'affermazione è empia e sacrilega, poiché calpe-

stando anche col piede qualche cosa, si calpesterebbe una parte di

Dio, e uccidendo un animale, si ucciderebbe una parte di Dio (18).

A parte il fatto (19) che è assurdo pensare che Dio possa tor-

mentare le sue stesse membra, condannandosi ad un patimento

eterno. Io vi domando, chiede infine Agostino ai Manichei (20),

donde provenga tutto l'universo. E voi non potete trovare alcuna

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risposta a meno che non si ammetta che esso sia stato creato dal

nulla. Ma se voi non volete ammettere che il Padre, per mezzo del

Figlio e dell'amore dello Spirito Santo ha creato dal nulla tutto

l'universo che è buono in se stesso, ma sempre inferiore al Crea-

tore ed infine, mutevole, voi siete costretti a profferire parole sa-

crileghe : Dio, direte voi, ha generato da se stesso qualche cosa

che non è uguale al Suo principio generatore, che può anzi essere

assoggettato alla vanità. Orbene se la cosa generata è uguale a

Dio, sono tanto Dio, che la creatura mutevoli, affermazione questa

evidentemente empia : « Si autem timueris dicere mutabilem

Deum, quia revera magna est et apertissima impietas; dixeris

etiam creaturam esse incommutabilem, ut eam parem facias

(17) Contra Epist. Fundamenti, cap. XIII, col. 183.

(18) Contra Fort, disp. I, col. 116.

(19) Contra Faustum, l. XXII, cap. VIII, col. 414.

(20) Contra Secundin., cap. VIII, col. 584.

126 ANNA ESCHER DI STEFANO

Creatori, et unius eiusdemque substantiae : rursus tibi tua epi-

stola respondebit» (21).

Ora, soprattutto quest'ultimo brano che abbiamo riportato ci

mostra ove riposa l'errore di Agostino. La riluttanza da parte ma-

nichea ad ammettere che il Padre abbia creato l'universo, non de-

ve farci concludere, come invece fa il Martin, per una elimina-

zione del rapporto creazionistico tra Dio e il mondo, e per una

identificazione dei due termini. I Manichei non volevano far ri-

salire a Dio la creazione del mondo per il semplice motivo che es-

si non credevano che dalla Luce purissima potesse derivare il

mondo delle tenebre, la cui origine era piuttosto da addebbitare

al Principio del male. Oltre tutto, lo stesso pessimismo, lo stesso

dramma che avvolge l'universo manicheo avrebbe dovuto mostra-

re l'inammissibilità di una sua identificazione col Dio del bene.

Infatti noi sappiamo dalla testimonianza di Teodoro bar Khóni

che il dio del male gettò i corpi degli Arconti sulla terra e con le

loro ossa formò le montagne, con la loro carne le terre. E abbiamo

visto che anche Agostino ci testimonia come «spiritum potentem

de captivis corporibus gentis tenebrarum... mundum fabrican-

tem» (22).

Dunque l'interpretazione pantestistica sostenuta da Agostino

e dai critici che lo seguono è del tutto insostenibile.

Agostino, dopo aver criticato la tesi manichea che il mondo

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sia della stessa sostanza di Dio, conclude prendendo partito con-

tro la tesi manichea di un Dio antropomorfico. Infatti è stolto

credere che Dio possa essere contenuto nello spazio, per immenso

che si supponga, ed è empio pensare che lui stesso o parte di Lui

si muova o passi da un luogo ad un altro. E così pure che qualche

parte della Sua sostanza o natura possa soffrire in qualche modo

cambiamento o conversione. E avviene purtroppo che ci sono dei

fanciulli che si rappresentano Dio in figura di uomo, tale imma-

ginandoselo realmente. Ma gli altri, al lume della propria ragione,

vedono che la maestà di Dio rimane immutabile e inviolabile non

solo rispetto al corpo umano, ma al di sopra dello stesso intel-

letto (23).

(21) Ibìd.

(22) Contra Faustum, l. XX, cap. IX, col. 375.

(23) De Moribus Eccles., l. I, cap. X, col. 1318.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 127

Ma l'accusa di antropomorfismo non si può rivolgere nemme-

no essa contro i Manichei. Tant'è vero che essi lanciano la stessa

accusa contro il Vecchio Testamento a proposito dell'uomo, fatto

secondo la dottrina cristiana, ad immagine e somiglianza di Dio.

Ed è inammissibile che essi accusassero i loro avversari di un er-

rore da loro stessi commesso.

Ma in che rapporto sta il mondo con Dio?

La difficoltà di una derivazione dell'universo, con il suo ba-

gaglio di male e di miserie, dal Bene supremo è vista anche da

Agostino.

Collocai, egli dice, al cospetto del mio spirito tutta quanta la

Tua creazione, tutto quanto possiamo vedere in essa come terra,

mare, aria, stelle, alberi, animali, mortali; e tutto quanto in essa

non vediamo, come il firmamento che è in alto e tutti gli angeli e

gli esseri suoi spirituali, ma come se fossero anche questi dei cor-

pi, collocati ognuno in un dato luogo, a secondo l'ordine creato

dalla mia immaginazione. E dicevo: Ecco la creazione di Dio. Dio

è buono e superiore di gran lunga alle cose da Lui create. E, buo-

no com'è, non ha potuto creare che cose buone. Ma allora donde è

il male e come si è insinuato nelle cose? Quale la sua radice, la

sua semenza? O piuttosto il male non esiste affatto? E allora per-

ché temiamo e scansiamo ciò che non esiste? Ché, se temiamo a

vuoto, il timore stesso è un male, che punge e tormenta senza un

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motivo il nostro cuore, anzi un male tanto più grave, in quanto

non esiste ragione di temere e tuttavia temiamo. Perciò o il male

che si teme esiste, o il fatto stesso del temere è un male. Donde

dunque il male, se Dio, buono, ha fatto tutte le cose buone? Egli,

bene maggiore, anzi bene sommo, ha creato, è vero, dei bene mi-

nori : tuttavia creatore e creature, sono buoni, Donde, dunque, il

male? Forse la materia con cui Dio creò le cose era in qualche

parte cattiva, ed egli, nel darle ordine e forma, vi lasciò una parte

che non convertì in buona? Perché questo? Forse era impotente a

cambiarla e a mutarla, egli che è onnipotente? Infine, perché di

quella materia volle egli creare qualche cosa, e non piuttosto,

con la stessa onnipotenza non la ridusse al nulla? Oppure avreb-

be quella potuto esistere contro la sua volontà? O se esisteva ab

aeterno, perché durante gli infiniti secoli trascorsi la lasciò a

lungo in quello stato e dopo tanto tempo gli piacque creare di es-

sa qualche cosa? Piuttosto, se improvvisamente sorse in Lui la

128 ANNA ESCHER DI STEFANO

volontà di fare qualche cosa, avrebbe dovuto impiegarla per ri-

durre quella materia al nulla, in modo che esistesse Lui solo,

sommamente ed infinitamente buono. O se non era bene che Egli

buono, non costruisse e creasse nulla di buono, avrebbe dovuto

toglier via e ridurre al nulla quella materia ch'era cattiva e pre-

pararne della buona con cui formare l'universo. Perché, se non

avesse potuto far nulla di buono senza il concorso di quella ma-

teria da Lui creata, non sarebbe stato onnipotente (24).

Il mondo, infine, può avere due origini : o Dio l'ha creato dal

niente o lo ha fatto dalla propria sostanza. Ma ammettere questa

ultima ipotesi significherebbe ammettere che la sostanza divina

può subire cambiamenti, può diventare finita e soggetta a tutte le

alterazioni, e perfino alla distruzione : cosa evidentemente as-

surda. Dio non può cambiare, poiché se così fosse non potrebbe

che diventare sempre migliore, cosa impossibile, in quanto Dio è

già perfetto. Quindi non potendo ammettere questa seconda ipo-

tesi, e cioè che Dio abbia creato il mondo dalla propria sostanza, bi-

sognerà ammettere la prima, e cioè che Dio ha creato il mondo dal

nulla.

Scrive Agostino nel « Contra Secundinum Manìchaeum » :

« Quopropter cum abs te quaero, unde sit facta universa creatura,

quamvis in suagenera bona, creatore tamen inferior, atque illo in-

mutabili permanente ipsa mutabilis; non invenies quid respon-

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deas, nisi de nihilo factam esse fatearis » (25).

Dio è onnipotente, il che vuol dire che non ha bisogno di

alcun mezzo per creare ciò che vuole, quindi « omnia quae Deus

fecit per Verbum et Sapientiam suam de nihilo fecerit» (26). Tu

parlasti, dice Agostino nelle Confessioni, e il cielo e la terra fu-

rono fatti, Tu li facesti nella tua parola (27). Il mondo dunque è

stato creato dal nulla e non dalla sostanza divina, e la frase « facia-

mus hominem ad immaginem et similitudinem nostram » (28) si

deve intendere non nel senso che Dio sia formato della stessa so-

stanza materiale della quale è costituito l'uomo, ma nel senso che

l'uomo era stato creato prima del peccato simile a Dio; ma dopo

(24) Confes., l. VII, cap. V, col. 737.

(25) Contra Secundinum, cap. VIII, col. 584.

(26) Contra Fortunatum, disp. I, col. 117.

(27) Confes., l. XI, cap. V, col. 812.

(28) Gen.,-1. 6.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 129

il peccato di Adamo l'immagine di Dio nell'uomo si è deformata e

solo mediante la grazia egli ha potuto riacquistare la sua in-

tegrità.

Agostino, come prova della tesi che il mondo fu fatto dal

niente, oltre le dimostrazioni fatte, che mirano a soddisfare la ra-

gione, cita anche un passo del Vangelo, che sostenendo lo stesso

concetto, dà alla tesi di Agostino anche il consenso dell'autorità :

« Ipse iussit, et facta sunt; ipse mandavit, et constituta sunt » (29).

Dunque dal nulla Dio fece tutte le cose e non essendo queste

cose della stessa natura divina, Dio è puro spirito. Ma come con-

cepire allora la natura divina, si chiedono i Manichei? Agostino

risponde che di Dio niente altro si può dire, se non che Egli è.

Ed infatti Agostino non pretende spiegarci esattamente la natura

di Dio. Egli anzi sostiene che la maniera migliore di conoscerlo,

sia l'ammettere di non conoscerlo affatto. Possiamo solo con si-

curezza affermare che Dio non è qualcosa di sensibile. Egli è la

verità, e gli attributi che più gli si confanno sono quelli dell'infi-

nità, immutabilità ed eternità; poiché Dio è la pienezza dell'essere

e per conseguenza in Lui non è concepibile alcun divenire o mu-

tamento (30).

(29) Psai., CXLVIII, 5.

(30) Secondo Agostino la ricerca di Dio non è possibile se non spro-

fondandosi nella propria interiorità; non filosoficamente Agostino cerca

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Dio, ma attraverso un processo mistico. O, per essere più precisi, nella ri-

cerca agostiniana della sostanza divina convergono ad un tempo filosofia

e religione, ricerca speculative e fede. Agostino ha saputo conciliare la

trascendenza di Dio necessaria alla sua immutabilità e incorruttibilità,

con la presenza di Dio in noi. Il Terzi, dopo aver parlato della soluzione

che Agostino dà a questo problema, dice : « Questa è la meravigliosa ri-

sposta data da un pensatore cristiano ai Manichei, che pensavano che la

sostanza divina fosse corrotta da una natura a cui si era mescolata... Ma

Agostino non nega che Dio sia intimo alle creature, perché superando il

materialismo manicheo, concepisce Dio come spirito. Perciò Dio è onni-

presente in tutte le creature e specialmente nella mente dell'uomo, la quale

è illumiinata da Dio Verità. Dio pensato come spirito è rispetto alla mente

umana Verità immutevole ed eterna. Ora Dio Verità è sì intimo alla mente

umana, ma la trascende, perché è quella luce eterna di Verità, la quale

rende possibile alla mente di giudicare le cose del mondo esterno rivela-

tele dalla percezione sensibile. Se la mente erra, l'errore è proprio della

mente umana, la quale è distratta dalle cose sensibili. Ma se la mente

e Dio fossero della stessa sostanza, come pensavano i Manichei, Dio sarebbe

soggetto ad errare e a peccare. Dio-Verità è sì presente nell'intelligenza

130 ANNA ESCHER DI STEFANO

La concezione di un Dio sommamente buono la ritroviamo

però, anche nei Manichei. Ed appunto una riconferma del fatto che

i Manichei non volessero far risalire la creazione del mondo a Dio,

o peggio, identificassero il mondo con Dio, la ritroviamo nella

loro concezione di un Dio delle tenebre, con cui essi salvavano

ad un tempo la perfezione divina e l'aderenza al reale. Nella

Epistilia Fundamenti Mani sostiene che i due regni del bene e

del male sono uniti in una loro parte : « juxta unam vero partem ac

latus » (31), e poi aggiunge che infiniti sono i lati del regno della

luce, i quali non posseggono confini. E questo ci dimostra, ancora

una volta, che Mani non intendeva identificare la finitezza, e dun-

que il mondo, con Dio.

A questo punto è necessario chiarire il problema sul rap-

porto che i Manichei ponevano tra Dio, luce purissima e le due

potenze del bene e del male.

I Manichei hanno adorato un solo Dio, o due dei, l'uno del

bene e l'altro del Male? Agostino affronta la questione nel Contro.

Faustum (32). Credete, in due dei o in uno solo? chiede egli al

maestro manicheo. Fausto risponde : non ve n'é che uno solo. E

Agostino ribatte : ma perché mai allora supponete due principi,

l'uno del bene e l'altro del male? E Fausto : è vero che noi suppo-

niamo due principi, ma questi fanno capo ad un solo Dio. Infatti

i due principi sono l'uno la materia, o demone, e l'altro la luce.

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Ma con ciò noi non vogliamo dualizzare la divinità. Ora se voi

pretendete che ciò comporti l'affermazione di due dei, voi per lo

stesso motivo, pretendete anche che un medico, che tratti della

salute o della malattia, tratti di due tipi di salute, o che un filo-

sofo, che discorra del bene o del male, dell'abbondanza e della

povertà, sostenga che vi siano due beni, o due abbondanze. Per-

tanto, come sarebbe assurdo designare ciò con due stessi nomi,

analogamente è assurdo assegnare il nome di Dio alla mate-

ria, che non ha niente in comune con Dio: «Nec diffiteor,

etiam interdum nos adversam naturam nuncupare Deum, sed non

hoc secundum nostram fidem, verum juxta praesemptum jam in

umana, ma non si identifica con essa, perché la trascende. Così pure Dio

è presente in tutte le creature, perché è la Vita della loro vita, ma è nello

stesso tempo, oltre tutto ciò in cui pure è presente » (Terzi, op. cit., p. 102).

(31) Contra Epìstulam Fundamenti, cap. XII.

(32) Contra Faustum, l. XXI, cap. I, col. 387.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 131

eam nomen, a cultoribus suis, qui eam imprudenter existimant

deum » (33). Però, nonostante questa difesa, Agostino insiste nel

dire che si è soliti udire parlare nelle dispute manichee di due

dei : « Duos quidem deos in vestris disputationibus solemus audire,

quod etsi primo negasti, tamen paulo post etiam ipse confessus

es, quasi rationem reddens cur hoc dicatis » (34).

Sembra però che in questa controversia la ragione stia dalla

parte di Fausto, sia perché egli esplicitamente afferma che la dot-

trina manichea si basa su un Dio unico, e non si vede per quale

motivo egli avrebbe dovuto mentire, né lo si può accusare di non

conoscere i principi basilari della setta di cui egli era uno dei

più apprezzati vescovi; sia perché i termini stessi del problema

sono una conferma delle sue parole. Infatti, mentre i Manichei de-

finiscono la natura divina infinitamente perfetta, felice, causa di

tutto il bene, definiscono al contrario la materia come imperfe-

zione, male, e miseria. I Manichei, come ben dice il De Beausobre,

non potevano certamente riunire sotto l'idea comune della divi-

nità due sostanze, di cui l'una ha tutte le perfezioni possibili e

l'altra tutte le imperfezioni opposte. Ciò che costituisce l'essenza

divina è l'unione delle perfezioni naturali e delle perfezioni mo-

rali. Mani invece non dà alla materia nessuna delle perfezioni

naturali delle divinità, e le rifiuta tutte quelle perfezioni morali,

senza di cui niente resta di Dio (35).

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Però Agostino obbietta che, poiché Mani attribuisce alla ma-

teria una esistenza di per sé, «ergo quod verus Deus facit, id est,

elementorum, corporum animalium qualitates et formas, ut cor-

pora, ut dementa, ut animalia sint, hoc vos dicitis nescio quem

alterum facere, quolibet eum nomine vocitetis recte dicimini er-

rore vestro deum alterum inducere » (36). A questa istanza di Ago-

stino il De Beausobre risponde che Agostino si è sbagliato pen-

sando che i Manichei attribuiscano a « io non so quale altro Dio »

il potere di convertire la materia in elementi. Essi credevano la

materia non solamente eterna, ma eternamente distinta in fuoco,

acqua, terra, aria, e la stessa necessità che le ha dato l'esistenza,

le aveva dato le modificazioni delle parti. Ben lungi gli antichi dal

(33) Ibid., col. 388.

(34) Ibid., cap. II, col. 389.

(35) De Beausobre, op. cit, p. 491.

(36) Contra Faustum, l. XXI, cap. IV, coli. 390-1.

132 ANNA ESCHER DI STEFANO

credere che la formazione dei corpi fosse un'operazione propria

della divinità, essi la credevano del tutto indegna, in quanto i

corpi rappresentavano la sede delle passioni, delle malattie e

della morte. Tant'è vero che Platone nel Timeo rappresenta il Dio

supremo come il creatore delle anime, mentre la funzione di dar

forma ai corpi mortali è affidata agli dei inferiori, suoi mini-

stri (37). Inoltre Agostino stesso ha creduto che gli angeli che ap-

paiono ai patriarchi si fossero rivestiti di corpi umani, di cui essi

furono l'anima per qualche tempo. E i Magi d'Egitto, assistiti dai

dèmoni, secondo Agostino, avevano formato rane e serpenti : i

Manichei non dicevano che il demone avesse creato il mondo, ma

lo credevano soltanto l'autore degli animali malvagi, di quelle

speci d'animali che gli antichi teologi immaginavano fossero stati

creati dopo il peccato, per punire il peccatore (38). E il De Beau-

sobre conclude che i Manichei avessero supposto una Potenza che

potesse dar vita e sentimento ad una materia morta e insensibile,

le avrebbero effettivamente attribuito un'operazione propria di

Dio. Ma essi non hanno dato alla potenza delle tenebre che il po-

tere di formare corpi d'animali, « et du reste il est certain, qu'il

n'a reconnu qu'un seul Dieu, qu'un seul Etre souverainement Par-

fait, quoiqu'il ait été assez aveugle, pour donne à la matiére par

soi-mème qui n'appartient qu'à Dieu» (39). Essi pertanto non

hanno mai servito più dei.

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Ma l'obbiezione del De Beausobre non regge. Infatti questa

natura di cui si serve il dio del male, o l'ha creata lui stesso, e

allora egli è evidentemente dio, con poteri eguali a quelli del

dio del bene. O è stata creata dal dio del bene. In questo caso o

essa è buona, e allora il demone è più potente del dio della Luce,

in quanto ha la capacità di mutare ciò che questi ha già stabi-

lito, volgendolo verso disegni opposti, sostituendo cioè al bene

primitivo il male. O invece questa natura è cattiva, e allora in

primo luogo si viene a contraddire uno dei capisaldi della dot-

trina manichea, che cioè dal dio del bene non possa provenire

altro che bene; in secondo luogo, si riproporrebbe conseguente-

mente il problema della concordanza tra questa materia cattiva

e Dio; e in terzo luogo verrebbe a scomparire la necessità della

(37) De Beausobre, op. cit., pp. 493-4.

(38) Ibid., p. 495.

(39) Ibid., p. 496.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 133

presenza del dio del male, in quanto ché la natura cattiva avrebbe

già una sua causa. Non rimane dunque che ammettere che que-

sta natura sia amorfa, e che il demone se ne serva per darle vita

e fare sorgere gli animali cattivi. Ma questa, come il De Beausobre

stesso l'ha definita, è un'operazione propria della divinità, ha dun-

que la potenza delle tenebre dei Manichei ed ha funzioni pretta-

mente divine. Non si tratta dunque di un solo dio, ma di due dei.

Inoltre per i Manichei, secondo l'interpretazione del De Beau-

sobre, il demone aveva la facoltà di dar vita solo agli animali

malvagi. Ma un animale non è un malvagio in sé, singolarmente

considerato, ma in relazione al punto di vista con cui lo si guarda.

Quindi allora è possibile pensare che ogni singolo animale, a se-

condo della differente valutazione, sia da un lato creatura della

luce e dall'altra creatura delle tenebre?

Inoltre si potrebbe obbiettare a Mani, che afferma che il dio

delle tenebre è « ingenitus et non creatus » (40), che solo Dio è

immortale e infinito, e che ammette due dei infiniti, è lo stesso

che negar loro l'infinità.

Ma quali attributi Mani ha dato al suo Dio, inteso come Luce

corpore e tenuissima?

Questa è la definizione che di Dio da Fausto : « Summum et

verum Deum, utrum sit finitus nec ne, si quaeritur de hoc boni et

mali contrarietas breviter poterit edocere; quandoquidem si non

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est Malum, profecto infinitus est Deus. Habet autem finem; si

malum est, non igitu rinfinitus est. Illic non esse mala incipiunt,

ubi honorum est finis » (41). Altri attributi che i Manichei danno

alla loro sostanza sono « beatus », « lucidus », « incorporeus », « spi-

ritualis », « illustris » et « sanctus ». Questo dunque è il dio per i

manichei « Pater in sua sancta stirpe perpetuus, in virtute magni-

ficus, natura ipsa verus, aeternitate propria semper exultans, con-

tinens apud se sapientiam et sensus vitales... in sua laude praeci-

puus... copulata habet sibi beata et gloriosa saecula neque numero,

neque prolixitate aestimanda, cum quibus idem Sanctus atque il-

lustris Pater et genitor degit, nullo in regnis ejus insignibus aut

indigente, aut ejusdem infirmo constituto. Ita autem fundata ejus

sunt splendidissima regna supra lucidam et beatam terram, ut a

nullo unquam aut moveri aut concuti possint» (42). Brano

(40) De Fide, cap. II, col. 114.

(41) Contra Fawtum, l. XXVI.

134 ANNA ESCHER DI STEFANO

che mostra come il dio manicheo abbia molte caratteristiche

cristiane, fra cui anche la onnipotenza. Infatti Fortunato dice

ad Agostino : « Dico quod nihil mali ex se proferat Deus

omnipotens, et quod quae sunt incorrupta maneant, uno ex

fonte inviolabili orta et genita» (43). Quindi sono false le

accuse mosse ai Manichei, tendenti a negare il carattere di

onnipotenza della loro divinità. Però questa accusa potrebbe

essere mossa da un lato diverso, e precisamente non negando

che i Manichei abbiano considerato il loro dio onnipotente,

ma facendo osservare che questa onnipotenza affermata dai ma-

nichei, è più verbale che reale, in quanto Dio non ha la capacità

di assoggettare ai suoi voleri la malvagità della materia, quindi

la sua azione è definita, limitata dalla presenza del demone. Si

ripete in campo metafìsico quello che abbiamo notato in campo

gnoseologico, quando cioè i Manichei sono stati costretti ad affer-

mare la finitezza del concetto di Dio, che poneva i suoi limiti là

dove aveva inizio la materia : Dio non poteva essere infinito se

c'era il male : « illic enim esse mala incipiunt, ubi honorum est

finis » (44). I Manichei avevano infatti affermato che una parte

di Dio era rimasta presa nel popolo delle tenebre e contaminata.

E Agostino risponde : Che cosa avrebbe potuto fare a te quella

non so quale popolazione delle tenebre, che ti sogliono contrap-

porre da parte della massa contraria, se tu non avessi voluto com-

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battere con essa? T'avrebbe nociuto? In tal caso tu saresti stato

violabile e corruttibile. Non ti avrebbe potuto nuocere in nulla?

(42) Cantra epist. Fundamenti, cap. XII, coli. 182-3.

(43) Contra Fortunat., disp. II, col. 121.

(44) Per il De Beausobre l'errore dei Manichei « seroit de mettre au

rang des choses impossibles une chose, qui ne le seroit pas; de trouver de

la contradiction, ou il n'y en a point. C'étoit là précisément Perreur des

Manichéens. Nous croyons que la Création de rien est possible: c'est-à-

dire, que nous croyons que Dieu peut faire exister des substances qui

n'existoient pas: qu'il n'a pas seulement la pouvoir de créer des modes

dans la substance: mais qu'il peut créer la substance mème. Malheurese-

ment les Manichéens étoient prévenus en iaveur de l'erreur générale, qui

avoit de tout temps régné dans le monde; c'est que la création de rien

est hors de3 choses possibles. E ayant une fois posé ce principe, ils ne

croyoient pas óter à Dieu un pouvoir réel, en niant qu'il pùt faire quel-

que chose de rien, parce que l'impossible n'est point objet de puissance.

Voilà la cause de leur erreur. Mais au reste la toute puissance de Dieu étoit

un article de leur créance » (op. ctt., p. 512).

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 135

E allora veniva meno ogni motivo di combattere e di combattere

con esito tale che una tua porzione anzi un tuo membro o germo-

glio della tua stessa sostanza, s'era mescolata alle potenze avverse,

a nature da te non create, e per opera loro s'era corrotta e mutata

in peggio, convertendo la propria beatitudine in miseria, e aveva

bisogno d'aiuto per poter esserne tratta fuori e purgata... Con-

cludendo : se coloro affermavano che tu, cioè la tua sostanza,

per cui sei, era incorruttibile, risultavano false ed esecrabili tutte

le altre affermazioni; se invece, corruttibile, questa stessa affer-

mazione si presentava senz'altro bugiarda e abominevole (45). E

quest'osservazione di Agostino mette in piena luce il sottofondo

insostenibile della divinità manichea.

(45) Conf., 1- VII, cap. II, col. 734. Queste qualità negative erano non

un attributo che i Manichei davano alla loro divinità, ma una conseguenza

che Agostino ricavava dalla soluzione del problema del male dei Manichei.

Tant'è vero che, in nessun luogo, si trova una esplicita dichiarazione ma-

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nichea sulla corruttibilità di Dio, ma, anzi, solo dichiarazioni contrarie.

Capitolo Settimo

IL PROBLEMA DELLA APOSTOLICITA' DI

MANI E DELLA SUA IDENTIFICAZIONE

CON LO SPIRITO PARACLETO

Mani ha lasciato scritto che a tredici anni, il terzo del regno

di Ardaschir ebbe una rivelazione divina, rinnovatasi nel suo ven-

ticinquesimo anno di età. In seguito a ciò, abbandonò la sua pri-

mitiva fede, che lo aveva fatto aderire alla setta dei Moughtosilas,

facendosi profeta di una nuova dottrina. Egli — dice l'Alfaric —

si presentava come il Paracleto promesso dal Salvatore, come l'ul-

timo apostolo di Cristo, colui che doveva sostituire alla scienza

parziale e confusa dei tempi passati, la piena e serena visione

della verità divina (1).

Mani infatti crea tutta una sua gerarchia, dividendo i propri

fedeli in dodici apostoli, settantadue discepoli o vescovi, e poi

in preti, diaconi, e infine uditori. I fedeli, poi, complessivamente

sono distinti nelle due grandi categorie di eletti ed uditori (2).

Agostino ci informa che tutti i Manichei erano molto devoti e os-

sequenti verso il credo prestabilito dai loro libri sacri. Essi si

(1) Alfaric, op. cit., p. 21.

(2) Agostino ci informa sulla distinzione dei proseliti di Mani nel De

Haeres., XLVI : « Nam his duabus professionibus, hoc est Electorum et

Auditorum, Ecclesiam suam constare voluerunt» (col. 35). E più oltre

(Ibid., col. 38), con maggiore precisione : « Propter quod etiam ipse Mani-

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chaeus duodecim discipulos habuit, ad instar apostolici numeri, quem nu-

merum Manichaei hodieque custodiunt. Nam ex Electis suis habent duo-

decim, quos appellant magistros, et tertium decimum principem ipsorum:

episcopos autem septuaginta duos, qui ordinantur a magistris; et presbyteros,

qui ordinantur ab episcopis. Habent etiam episcopi diaconos. Jam caeteri

tantummodo Electi vocantur: sed mittuntur etiam ipsi qui videntur idonei,

ad hunc errorem, vel ubi est, sustentandum et augendum; vel, ubi non

est, etiam seminandum ».

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 137

riunivano tutte le domeniche per recitare le loro preghiere e

cantare i loro inni, e per studiare e comprendere i loro libri sacri,

che poi leggevano ai fedeli (3), spiegando loro i passi oscuri. Gli

eletti, che Agostino chiama catharistae (3), erano obbligati ad un

severo tenore di vita, per non inquinare la purezza della luce

che portavano in sé. Essi non dovevano bestemmiare, spergiu-

rare, mangiar carne, bere vino, far lavori manuali, usare denaro.

Non dovevano inoltre uccidere alcun uomo, alcuna bestia, né dan-

neggiare alcuna pianta (4). Dovevano astenersi dalla procreazione,

in quanto questa serve solo a perpetuare il regno delle tenebre (5).

Gli uditori, invece dovevano solo ubbidire alla morale comune,

o dei dieci comandamenti; era loro proibita l'idolatria, la menzo-

gna, l'avarizia, l'omicidio, l'adulterio, l'eterodossia, il dubbio in

materia religiosa, l'oblio delle preghiere liturgiche. Tolleranza

questa, che però, come i Manichei tenevano a sottolineare, era

(3) « Ac per hoc sequitur eos, ut sic eam etiam de semine humano,

quemadmodum de aliis seminibus quae in alimentis sumunt, debeant mandu-

cando purgare. Unde etiam Catharistate appellantur, quasi purgatores,

tanta eam purgantes diligentia ut se nec ab hac tam horrenda cibi turpi-

tudine abstineant » (Ibid., col. 36).

(4) « Nec vescuntur tamen camibus tanquam de mortuis vel occisis

fugerit divina substantia, tantumque ac tale inde remanserit, quod jam

dignum non sit in Electorum ventre purgari. Nec ova saltem sumunt, quasi

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et ipsa cum franguntur exspirent, nec oporteat ullis mortuis corporibus

vesci, et hoc solum vivat ex carne, quod farina, ne moriatur. excipitur. Sed

nec alimonia lactis utuntur quamvis de corpore animantis vivente mul-

geatur sive sugatur: non quia putant divinae substantiae nihil ibi esse

permixtum, sed quia sibi error ipsi non constat. Nam et vinum non bi-

bunt, dicentes vel esse principium tenebrarum : cum vescantur uvis : nec

musti aliquid, vel recentissimi, sorbent » (Ibid., coli. 36-7).

(5) « Quarum inter se pugnam et commixtionem, et boni a malo pur-

gationem, et boni quod purgari non poterit. cum malo in aeternam dam-

nationem, secundum sua dogmata asseverantes. multa fabulantur, quae

cuncta intexere huic operi nimis longum est. Ex his autem suis fabulis

vanis atque impiis coguntur dicere, animas bonas, quas censent ab ani-

marum malarum naturae scilicet contrariae commixtione liberandas. ejus

cujus Deus est esse naturae. Proinde mundum a natura Dei factum, confi-

tentur quidem, sed de commixtione boni et mali, quae facta est, quando

inter se utraque natura pugnavit. Ipsam vero boni a malo purgationem

ac liberationem, non solum per totum mundum et de omnibus ejus elemen-

tis virtutes Dei tacere dicunt, verum etiam Electos suos per alimenta quae

sumunt » (Ibid., col. 34-35).

138 ANNA ESCHER DI STEFANO

semplicemente provvisoria (6). Gli uditori inoltre dovevano ser-

vire gli eletti. Solo questi ultimi, dopo morti, si sarebbero ricon-

giunti alla luce, mentre gli altri avrebbero dovuto reincarnarsi

fino alla completa purificazione (7). Gli Eletti dunque sarebbero

saliti in cielo nella loro patria felice, le anime degli uditori sareb-

bero state condannate a passare da un corpo all'altro, e quelle dei

peccatori, schiave della materia, sarebbero state condannate a pre-

cipitare nell'inferno. Il giorno in cui tutti gli spiriti avessero

acquistata la loro piena libertà, e avessero raggiunto il loro sog-

giorno, il mondo sarebbe stato abbandonato dall'Ornamento di

Splendore che lo sostiene a Nord, e da Atlante, che a sud lo regge

sulle spalle (5). Le stelle quindi sarebbero cadute, e le montagne

sarebbero precipitate negli abissi tenebrosi dell'inferno (6). In tal

modo il Bene e il Male, ritornati al loro primitivo stato, sarebbero

rimasti separati da una barriera eterna (7).

« Quando la morte, dice Mani, si avvicina ad un Veridico,

l'Uomo Primitivo invia un Dio luminoso sotto la forma del sag-

gio Conduttore, il quale tre altri dei scortano con il vaso dell'ac-

qua, l'abito, le bende, la corona, il nimbo e che anche la Vergine

accompagna, simile all'anima di questo giusto. Contemporanea-

mente appare il Demonio della cupidigia e della concupiscenza,

insieme ad altri demoni. Appena il Veridico li scorge, chiama a

proprio soccorso gli Dei, che hanno l'aspetto del Saggio Condut-

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tore e i tre altri Dei. Questi gli si avvicinano. Non appena i De-

moni se ne accorgono, si voltano per fuggire. Quelli prendono il

Veridico, lo rivestono della corona, del nimbo e dell'abito, mettono

nella sua mano il vaso dell'acqua, e salgono con lui sulla Colonna

di Lode alla sfera della Luna, verso l'Uomo Primitivo e verso Nah-

(6) « Monent etiam eosdem Auditores suos, ut si vescuntur carnibus,

animalia non occidant, ne offendant prineipes tenebrarum in coelestibus

colligatos, a quibus omnem carnem dicunt originem ducere: et si utuntur

conjugibus, conceptum tamen generationemque devitent, ne divina sub-

stantia quae in eos per alimenta ingreditur, vinculis carneis ligetur in prole.

Sic quippe in omnem carnem, id est, per escas et potus venire animas cre-

dunt. Unde nuptias sine dubitatione condemnant et quantum in ipsis est,

prohibent» (Ibtd, col. 37).

(7) t Animas Auditorum suorum in Electos revolvi arbitrantur, aut fe-

liciore compendio in escas Electorum suorum, ut jam inde purgatae in nulla

corpora revertantur. Caetera autem animas et in pecora redire putant, et

in omnia quae radicibus flxa sunt atque aluntur in terra ». (Ibid.).

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 139

naha, la Madre dei Viventi, fino al posto dove egli si trovava da

principio nel Paradiso della Luce. In questo tempo il suo corpo

resta giacente, in modo che il Sole, la Luna e gli Dei luminosi gli

tolgano le Forze, cioè a dire l'acqua, il fuoco, e il vento leggero;

così egli si eleva fino al Sole e diviene un Dio. Il resto del suo

corpo, non essendo ormai che Tenebre, è gettato nell'inferno.

Quando la morte si avvicina all'uomo militante, ben disposto per

la Religione e la Giustizia, che protegge l'una e l'altra, come i

Giusti, gli Dei già menzionati gli appaiono e così pure i Demoni.

Egli li chiama al proprio soccorso e cerca una mediazione propizia

in ricompensa delle buone opere che ha compiuto e della difesa

che ha dato alla Religione e ai Veridici. Anche lui viene liberato

dai Demoni. Ma egli resta nel mondo come un uomo che vede in

sogno degli spettri e che cade nell'immondizia e nel fango. Egli

resta in questo stato fino a che il suo spirito si sia liberato, e fino

a che egli pervenga all'appuntamento dei Veridici e rivesta

il loro abito dopo una lunga serie di sviamenti (8), Quando la

morte appare all'uomo peccatore, sul quale la Cupidigia e la Con-

cupiscenza hanno messo la mano, i Demoni gli si accostano, lo af-

ferrano, lo torturano e gli fanno vedere gli spettri. Anche gli dei

sono là, come l'abito menzionato. L'uomo peccatore crede che essi

siano venuti per salvarlo. Ma essi non sono lì che per prostrarlo

con i rimproveri, per fargli ricordare le sue azioni e convincerlo

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dell'errore che egli ha commesso trascurando di sostenere i Veri-

dici. Allora egli erra senza tregua nel mondo, afflitto dai tor-

menti, fino al giorno in cui questo stato cesserà ed egli sarà get-

(8) I Manichei negano la resurrezione della carne, in quanto ciò im-

plicherebbe un perpetuarsi della materia, fonte di male. Ammettono, però,

la trasmigrazione delle anime: argomento questo, dice il De Beausobre,

molto comune fra quei popoli la cui religione non riconosce l'immortalità :

f dogme très commun parmi les Nations, qui en ont reconnu l'Immorta-

lité. Il enseigna donc. qu'elles passent d'un Corps dans un autre, mais que

celles, qui sont pas purifiées par un certain nombre de révolutions sont li-

vrées aux Démons de l'Air, pour en ètre tormentées et domtées: Qu'après

cette rude pénitence, elles sont revoyées en d'autres Corps, comme dans

une nouvelle Ecole, jusqu'à qu'ayant acquis le degré de purification suf-

fisante, elles traversent la Région de la Matiére, et passent dans la Lune.

Lorsq'elle en est remplie, ce qui arrive quand toute sa surface est illu-

minée, elle s'en décharge entre les bras du soleil qui les remet à son tour

dans ce lieu, que les Manichéens appelloient la Colonne de la Gioire » (De

Beausobre, op. rit., p. XXXI).

140 ANNA ESCHER DI STEFANO

tato nell'inferno insieme a questo mondo. Tali sono, disse Mani,

le tre vie in base alle quali le anime degli uomini vengono sud-

divise. Una di esse conduce al Paradiso, ed è la via dei Veridici.

Un'altra va nel mondo e nei suoi terrori, ed è la via dei custodi

della religione e dei benefattori del Veridico. La terza conduce

all'inferno, ed è la via degli uomini peccatori » (9). Successiva-

mente, trattenendosi sulla sorte che attende i giusti, Mani, nel

brano che segue, ce li mostra trionfatori dei demoni e dei pec-

catori : « L'Uomo Primitivo viene allora, dice Mani, dal mondo

della Stella Polare, il Messaggero di Salute dall'Est, il Grande

Architetto dal Sud, lo Spirito Vivente dall'Ovest. Essi osservano il

nuovo edificio, che è il nuovo Paradiso. Contemporaneamente essi

girano attorno all'Inferno, e guardano nelle sue profondità. Al-

lora i Giusti vengono dal Paradiso verso questa Luce, per gettarsi

in essa. Essi si affrettano all'appuntamento degli dei e si affol-

lano attorno a questo inferno. Poi gettano i loro sguardi sui pec-

catori che si girano e si rigirano, errando qua e là e sprofondando

sempre più in questo Inferno, incapace di nuocere mai ai Veridici.

Quando i peccatori vedono i Veridici, intercedono presso di loro e

si gettano umilmente ai loro piedi. Ma quelli non rispondono se

non in termini d'accusa, che non giovano per nulla ai supplicanti.

I peccatori non ottengono altro che l'accrescimento del loro rim-

pianto, del loro dolore e della loro prostrazione. Tale sarà la loro

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sorte eterna » ( 10).

E altrove Mani, più particolareggiatamente profetizza ai pec-

catori: «Coloro che, per amore del mondo, si sono lasciati sviare

dalla loro prima via luminosa, che sono diventati nemici della

Santa Luce, che si sono armati apertamente per la rovina dei santi

elementi, che si sono sottomessi allo spirito del fuoco, che hanno,

inoltre, con le loro persecuzioni afflitta la santa chiesa e i suoi

Eletti, osservatori dei precetti celesti, saranno esclusi dalla bea-

titudine e dalla gloria del santo regno. Poiché essi si sono lasciati

dominare dal male, persevereranno in questa stessa radice del

male e si vedranno interdire la terra pacifica e le regioni immor-

tali. Ecco ciò che capiterà loro per essersi talmente attaccati alle

opere malvagie da essersi stornati dalla vita e dalla libertà della

(9) Fluegel, Mani, Seine Lehre und seine Schriften, Brockhaus, Leip-

zig, 1862; pp. 100-1.

(10) Fluegel, op. cit., pp. 101-2.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 141

santa Luce. Essi dunque non potranno essere ricevuti in questi

regni pacifici, ma saranno inchiodati su questo orribile globo al

quale, d'altra parte, è necessario dare una guardia. Così queste

anime aderiranno alle cose che avranno amato. Resteranno ab-

bandonate a questo globo tenebroso. E si saranno attirate questo

castigo con la loro colpa, non essendosi preoccupate di informarsi

sulla sorte che le attendeva e di evitarla allorquando se ne donava

loro l'occasione» (11).

Durante la vita, invece, il fedele, come An Nadim, uno sto-

rico arabo, ci informa, deve ubbidire oltre ai comandamenti che

abbiamo già esposto, anche al precetto delle quattro o sette pre-

ghiere. Il fedele, cioè, dopo essersi frizionato il corpo, rivolgendosi

verso la grande luce e prosternandosi, pronuncia queste parole :

« Benvenuta sia la nostra guida, il Paracleto, il Messaggero della

Luce; Benvenuti siano i suoi angeli e lodate siano le sue armi

luminose ». E dopo essersi di nuovo levato e inginocchiato, conti-

nua : « Glorioso e luminoso Mani, nostra guida, radice della no-

stra luce, ramo dell'onestà, il grande Albero, tu sei la nostra unica

salvezza ». E, prosternandosi per la terza volta : « Io mi prosterno

e lodo con cuore puro e lingua sincera il grande Dio, il padre

della Luce ». E dopo una quarta prostrazione : « Io lodo e invoco

tutti gli dei, tutti gli angeli luminosi, tutte le luci e tutti gli eser-

citi che sono davanti al grande Dio ». E prosternandosi per la

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quinta volta : « Io invoco e lodo gli eserciti e gli Dei luminosi, che,

con la loro saggezza, vincono sulle tenebre, le rigettano e le do-

mano ». E su questo tenore continuano le preghiere del fedele,

intercalate da prostrazioni (12).

Una convalida della coscienza profetica che Mani aveva della

propria missione non viene offerta soltanto dalla suesposta cata-

logazione delle ricompense e delle punizioni con le quali sarà re-

golata la vita ultraterrena, ma anche dalla necessità che Mani

sente di indicare quali testi dovranno essere ritenuti veridici e

quali invece apocrifi o interpolati. E' seguendo questo principio

informatore, che Mani rigetta il Vecchio Testamento, consideran-

dolo opera dell'uomo e non degno d'essere attribuito alla divinità,

in quanto nessuno appiglio esso forniva alle sue rivelazioni, men-

tre accoglie gran parte del Nuovo Testamento, che attraverso una

(11) De fide cantra Manich., cap. V, coli. 1141-2.

(12) Alfaric, op. cit., p. 125.

142 ANNA ESCHER DI STEFANO

particolare interpretazione poteva offrire un appoggio dottrinale

ai capisaldi di quella che lui considerava la vera religione. E'

sempre in base ad uguale valutazione interpretativa che egli acco-

glie nel numero dei libri partecipanti alla verità opere di profeti

e filosofi soprattutto orientali. La strana predilezione di Mani per

l'Oriente non è dal suo punto di vista una valutazione arbitraria,

in quanto, seppure egli ammette per ogni popolo l'esistenza di

saggi e di filosofi e di profeti, tuttavia giudica vicini alla verità

coloro che più si scostarono dalla dottrina giudaica, che aveva in

sé assai poco di verità, e che per quel poco che ne aveva, egli ri-

teneva fosse debitrice dei primi padri del genere umano, vissuti

in Oriente ed istruiti da angeli del Signore (13). Ma nessun testo

Mani accoglie come vero a priori, in quanto la sua verità sarà

confermabile solo dopo che venga confrontata con quella della

propria religione, e per ciò soltanto lui, illuminato dal Paracleto,

potrà dire di ogni testo quanto partecipi della verità.

Ma questa missione profetica che Mani si attribuisce, in che

modo deve essere valutata? In proposito abbiamo numerose e, a

(13) A questo proposito osserva il De Beausobre (op. cit., p. 252):

€ C'est qu'il recut la plùpart des Ecrits du Nouyeau Testament, ce n'étoit

néanmoins qu'autant qu'ils s'accordoient avec ses prétandues Révélation,

et avec sa fausse Science. Autrement il s'inscrivoit en faux contre nos

Evangiled, assurant qu'ils n'étoient point l'ouvrage des Disciples de J.

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Christ, ou qu'ils avoient été corrompus. Pour le Vieux Testament, il le

regordoit comme une compilation de Livres, composez par des Hébreux, et

pour les Hébreux seulement, remplis d'Ordonnances qui n'étoient pas di-

gnes de la Divinité, de fables et de superstitions Judaiques ». E altrove

osserva : « Manichèe, ayant nié l'inspiration et l'autorité des Prophètes

des Hébreux, s'anvisa de leur opposer d'autres Prophèted, dont les Orien-

taux prétendoient avoir les Livres. Il supposa donc, que Seth, Enoch, et

d'autres Patriarches, ayant été instruits par les bons Anges, avoient trans-

smis à tous leurs Descendans les Verites qu'ils en avoient apprises. Que

ces Instructions s'étoient conservées, soit dans des Livres qui subsistoient

encore, soit dans les Ecoles des Philosophes Orientaux, de qui tous les

autres avoient appris la sagesse: Manichèe supposa de plus que, la raison

divine éclairant tous les Esprits, qui ne mettent point d'obstacles à ses

lumiers, toutes les Nations avoient eu leurs Prophètes: Que l'Eglise chré-

tienne, étant composée de Gentils, elle devoit écouter ses propres prophètes,

et non ceux des Hébreux qui n'avoient pas été envoyez pour elle. Par-là

il transferoit à des Prophètes inconnus l'autoriit', dont il dépouilloit les

véritables Prophètes, et cela parce qu'il trouvoit dans les premiere de quoi

confirmer ses fausses hypotheses et ses fables » (Ibid., p. XII).

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 143

volte, anche discordanti testimonianze, sulle quali dobbiamo ba-

sarci per emettere il nostro giudizio. Già i discepoli stessi di Mani

si dividevano in due schiere. Una parte di essi afferma che egli

non disponeva del potere di fare miracoli e racconta che egli in-

segnava come il dono dei miracoli si sia ritirato dal mondo con il

Cristo e i suoi discepoli. L'altra parte sostiene che egli possedeva

questo dono e che il re Sapor cominciò a creder in lui per essere

stato insieme a lui elevato nelle regioni superiori ed esser rimasto

con lui nell'aria tra terra e cielo; in altri termini, per aver consta-

tato uno dei suoi miracoli. E' questa parte dei suoi discepoli che

aggiunge anche che egli aveva l'abitudine di sfuggire al proprio

ambiente per salirsene in cielo, dove restava alcuni giorni, ritor-

nando quindi tra i suoi (14).

Uno storico arabo, Ibn Al-Mourtadà, ci informa che Iazdan-

bacht affermava in un suo libro che il primo dei profeti era stato

Adamo, poi Seth, e quindi Noè; egli aggiungeva che Budda era

stato inviato in India, Zaratustra in Persia, Gesù in Occidente e

che infine era venuto Mani, il Paracleto, come guida dei giusti.

Gli Acta Archelai ci riferiscono che Mani, esponendo la sua

dottrina ai ventidue discepoli che lo avevano accompagnato a

Kaskhar, esordisce affermando d'essere il Paracleto promesso da

Gesù. Altrove Archelao identifica esplicitamente Mani con lo

Spirito Santo : « Nullus Haereticorum ausus est Deum se praedi-

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care, aut Christum, vel Paracletum, sicut iste, qui aliquando qui-

dem de Seculis disputat, aliquando de Sole, tanquam major fit

eorum. Omnis enim, qui de aliquo exponit, quomodo factus fit,

majorem se et antiquiorem ostendit esse, quam est ille de quo

dixit» (15). Al che il De Beausobre ribatte, che, per lo stesso mo-

tivo, si dovrebbe incolpare Mosè, solo perché egli ci parla della

creazione (16). Anche Eusebio (17), basandosi su una frase di

Mani, che afferma che sull'esempio di Cristo vuol scegliere due

discepoli di cui essere il Maestro, ci dice che Mani ha voluto con-

traffare Gesù e passare per lui, definendosi Paracleto, ovvero Spi-

rito Santo. Testimonianza confermata da Teodoro (18), e da Abul-

(14) K. Kessler, Mani, Forschungen iiber die manichàische Religion,

Reimer, Berlin, 1889, pp. 322-3.

(15) Acta Disp. Arch., p. 66.

(16) De Beausobre, op. cit., p. 255.

(17) Eusebius, Historìa Ecci., l. I, cap. VII, p. 31.

(18) Teodoro, Haer. Fab., l. I, cap. ult.

144 ANNA ESCHER DI STEFANO

pharage (19); quest'ultimo dice che Mani «se ipsum Messiam

nominavit». E così pure due autori del IX° secolo Photius (20) e

Petrus Siculus (21), ci tramandano una formula greca in cui si

dice che Scytien era Dio Padre, Budda il figlio di Dio, e Mani lo

Spirito Santo e che i Greci avevano inserito questa frase nella

in cui si dice che Zoroastro, Budda e Cristo e Mani e il Sole non

erano che una sola ed unica persona. Il fatto che i Greci impo-

nessero ai Manichei di abiurare a questi principi potrebbe farci

pensare che essi fossero dei capisaldi della loro dottrina, però, se-

condo il De Beausobre questa supposizione sarebbe solo una grossa

ed evidente calunnia, tant'è vero che le frasi su cui essa si basa

non si trovano in alcun autore antico, ma sono appoggiate soltanto

dalla testimonianza dei Greci del Medio Evo e sono contrastanti

col dogma dei Manichei che riconosce Cristo per figlio unico di

Dio, che è ben lontano dal definire Zoroastro, riformatore della

loro religione, e che non dubita che Budda e Mani siano stati de-

gli uomini, e che il Sole non fosse una creatura, composta dal-

l'unione delle particelle di Luce che avevano conservato la loro

purezza (22). Inoltre il De Beausobre si chiede come sia possibile

che Mani avesse potuto operare questa identificazione di sé con

Cristo e lo Spirito Santo, se nel sistema manicheo questi due ter-

mini sono considerati distinti. Per cui rimane incomprensibile

come Mani avesse voluto farsi credere tanto l'uno che l'altro : « la

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verité est que dans le stile de quelque anciens Docteurs Ecclesia-

stique, qui ont vécu avant le Concile de Nicée, mais qui ne sont

point taxes d'Héresie, le Christ et le St. Esprit sont la méme Per-

sonne : et c'est-là ce qui a causé l'erreur d'Eusébe, de Théodoret,

de Suidas, et d'Abulpharage mème » (23). La spiegazione del De

Beausobre è molto ingegnosa, ma lascia perplessi, in quanto è per

lo meno piuttosto strano che questi autori rigettassero come una

accusa a Mani un principio da loro stessi professato, o professato

da autori della loro stessa fede. Piuttosto dobbiamo dire che la

sacrilega identificazione attribuita a Mani rimane ingiustificata in

quanto questi autori non allegano alcuna prova per convalidare

(19) Abulpharage, Dynast., p. 82.

(20) Photius, Contra Manich. repullul., l. I, p. 47.

(21) Petrus Siculus, Historia Manich., p. 22.

(22) De Beausobre, op. cit., p. 254.

(23) lbid., p. 255.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 145

ciò che dicono, né le scoperte recenti autorizzano noi a prendere

partito in loro favore in questa controversia.

Anche Agostino affronta specificatamente il problema e ci dà

numerosi particolari su questo argomento, informandoci che Mani

disse, riferendosi alla propria dottrina: «Ecco le parole salutari

che provengono dalla sorgente eterna e viva. Chiunque le intenda

e cominci a credervi scamperà per sempre alla morte e gioirà della

vita eterna e gloriosa » (24). E altrove in maniera più precisa

afferma che Mani diceva d'essere unito al Paracleto in unione per-

sonale. Tuttavia l'affermazione di Agostino ci sembra, in verità

più dettata dal desiderio di difendere la propria fede, mettendo

per contrasto in cattiva luce l'avversario, che da una serena va-

lutazione. Infatti Fausto stesso dichiara che lo Spirito comunicato

agli Apostoli non poteva essere il Paracleto, in quanto esso non

aveva insegnato tutte le verità, conformemente alla promessa del

Signore, e che pertanto loro aspettavano il Paracleto. Questa pro-

messa trova invece la sua attuazione nella predicazione di Mani,

che era venuto ed aveva insegnato per mezzo della sua predica-

zione il principio, il medio e la fine di tutte le cose, cioè il pre-

sente, il passato, e l'avvenire. Tuttavia, nonostante il possesso di

questa scienza divina, Mani non viene giudicato un essere diverso

dagli altri, egli è sempre fatto di carne e di anima, ed è nato come

gli altri da un uomo e da una donna (25). Per cui non è

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valida la domanda di Agostino : « Si caro humana, si concu-

bitus viri, si uterus mulieris non potuit inquinare Spiritum

Sanctum, quomodo potuit uterus virginis inquinare Dei Sapien-

tiam? » (26). Tanto più che Mani in nessuna lettera si professa Pa-

racleto e Spirito Santo, ma soltanto Apostolo di Cristo, come

dimostrano le sue lettere a Menoch (27), la lettera del Fonda-

(24) Contra Epist. Manich., cap. XI, col. 181. La stessa citazione è ri-

portata nel De actis cum Felice Man., l. I, cap. I, col. 519.

(25) « Sed tamen quaero, cum Pater et Filius et Spiritus sanctus, vobis

etiam confitentibus, non dispari natura copulentur, cur hominem susceptum

a Spiritu sancto Manichaeum, non putatis turpe, natum ex utroque sexu

praedicare; hominem autem susceptum ab unigenita Sapientia Dei, natum

de virgine credere formidatis? » (Cantra Epist. manich., cap. VII, col. 177-8).

(26) Ibid.

(27) Contra Faustum, l. XIII, cap. IV, col. 283 : « Manichaeus enim

vester non fuit propheta venturi Christi: apostolum quippe ejus se dicit,

impudentissima quidem fallacia; nam constat non solum post Tertullia-

10

146 ANNA ESCHER DI STEFANO

mento (28), e quella scritta a Marcello (29). A questo proposito

Victor di Vita (30) racconta che, trovandosi tra i Manichei

d'Africa, fu trovato un individuo a nome Clementiano, un mo-

naco manicheo che aveva scritto sul femore : « Manichaeus, Disci-

pulus Christi Jesu ». E ciò conferma come i Manichei riconosces-

sero questo solo titolo al loro maestro. Infatti, osserva giustamente

il De Beausobre, sarebbe per lo meno strano che egli volesse dis-

simulare ai suoi discepoli ciò che voleva far credere a tutta la

terra (31). Tanto più che le uniche prove che noi abbiamo che at-

testino la identificazione di Mani col Paracleto sono le parole dei

suoi accusatori, ed evidentemente queste non bastano.

Agostino stesso non afferma sempre con la stessa decisione

questa identità. Abbiamo infatti le sue parole ad Onorato, un

manicheo, con cui egli lo accusa di aver voluto mettere nel nu-

mero degli apostoli Mani, e di aver creduto che lo Spirito Santo

fosse sceso tra loro per suo mezzo : « Tu sai, egli dice, che i Ma-

nichei cercando di far passare la persona del loro fondatore tra

il numero degli apostoli, dicono che per mezzo di lui è venuto a

noi lo Spirito Santo, che il Signore promise ai discepoli di man-

num, verum etiam post Cyprianum hanc eresiam exortam. Omnes tamen

ejus epistolae ita exordiuntur Manichaeus apostolus Jesu Christi. Huic vos

de Christo quare credidistis? Quem nam testem vobis sui apostolatus ad-

duxit? nomenque ipsum Christi, quod non scimus nisi in regno Judaeorum

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in sacerdotibus et regibus institutum. ut non solum ille aut ille bono. sed

universa ipsa gens totumque regnum propheta fieret Christi christianique

regni, cur iste invasit cur usurpavit, qui Prophetis Haebreis vos vetat

credere, ut vos falsi Christi fallaces discipulos falsus et fallax apostolus

laciat? ».

(28) « Quaero enim, cur epistolae hujus principium sit, Manichaeus

apostolus Jesu Christi; et non sit, Paracletus apostolus Jesu Christi. Si

autem missus a Christo Paracletus Manichaeum misit, cur lego, Manichaeus

apostolus Jesu Christi? et non potius, Manichaeus apostolus Paracleti? Si

dicis ipsum esse Christum, qui est etiam Spiritus Sanctus, contradicis ipsi

Scripturae, ubi Dominus ait. Et alium Paracletum mittam vobis (Joan,

XTV). Si autem Christi nomen ideo recte positum putas, non quia ipse est

Christus, qui et Paracletus, sed quia ejusdem sunt ambo substantiae; id

est, non quia unus est, sed quia unum sunt: poterat et Paulus dicere, Pau-

lus apostolus Dei Patris; quia dixit Dominus, Ego et Pater unum sumus

(Id., X, 30) ». (Contra Epist. Manich., cap. VI, col. 177).

(29) Acta disp., p. 6.

(30) Victor Di Vita, De per/. Vandai., l. II, p. 21.

(31) De Beausobre, op. cit., p. 265.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 147

dare » (32). Però con queste parole Agostino stesso dimostra come

i Manichei non identificassero Mani con lo Spirito Santo, ma

che lo considerassero soltanto un apostolo. Le stesse formule di

abiura del VI" secolo non accennano a questa identificazione :

« Quicumque adventum Spiritus Paracleti in Mane venisse cre-

dit » (33); e ancora : anatema a chiunque « credit Manem si ve Ma-

nichaeum, Sanctum habuisse Paracletum » (34); a chiunque « cre-

dit in eum spiritum Paracletum venisse credit » (35), in cui si

parla di una discesa del Paracleto o dello Spirito Santo in Mani,

ma non di una identificazione. Il De Beausobre non riesce per

questo motivo a capire come mai Agostino fosse su questo punto

in dubbio e non sapesse se « hunc Paracletum esse manichaeum,

vel in Manichaeo » (36) : « Or comment est ce que S. Augustin,

après neuf ans de Manichéisme, pouviut ètre en doute, si nos Hé-

rétiques croyent leur Maitre, une Personne divine, ou un homme

divinement inspiré? Peut-on s'imaginer, que ce Pére ignoràt, quelle

étoit leur véritable Créance sur un article qui étoit la base de

leur Hérésie? Un habile homme sera-t-il chrétien neuf ans, sans

savoir ce que les Chrétiens pensent de la Personne de J. Christ?

S'ils le croyent un simple homme, qui n'est Fils de Dieu que par

les dons miraculeux, que le St. Esprit lui a conférez : ou s'ils le

croyent une Personne divine qui a revètu la Nature humaine » (37).

Ma l'obbiezione di Agostino va più in là di quanto il De Beausobre

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non dica, in quanto Agostino, basandosi su quanto dice il Van-

gelo, contesta a Mani non soltanto la sua identificazione con lo

Spirito Santo; ma anche il titolo di apostolo. Infatti il nome di

Mani non è citato nel Vangelo tra gli apostoli e gli apostoli che

furono nominati posteriormente sono Mattia, che prese il posto

del traditore Giuda, colui che « postea Domini voce de coelo vo-

catus sit » (38), cioè Paolo. E siccome « scripturis credendum est...

quae robustissima auctoritate firmatae sunt » (39), Mani diceva

(32) De utilit. credendi, cap. III.

(33) M. Fabricius, Operae Hippolyti, vol. II, p. 202.

(34) Ibid., p. 203.

(35) Ibid.

(36) Cantra Faustum, l. XIII, cap. XVII, coi. 282.

(37) De Beausobre, op. cit., p. 267.

(38) De actis cum Felice man., l. I, cap. I, col. 519.

(39) Cantra epistulam manica., l. I, cap. IX, col. 180.

148 ANNA ESCHER DI STEFANO

arbitrariamente, secondo Agostino, tanto di essere lo Spirito Para-

cleto, quanto l'Apostolo di Cristo.

Di queste due accuse noi crediamo che solo la seconda sia

giusta, mentre crediamo la prima del tutto infondata, e gli stessi

tentennamenti di Agostino al riguardo ce ne danno la prova. La

seconda accusa è invece indubbiamente vera, in quanto è certo che

Mani si sia arrogato il titolo di Apostolo di Gesù Cristo e nessuna

testimonianza e, soprattutto la posizione eterodossa di Mani, pos-

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sono farcelo considerare come un messaggero della parola divina.

Capitolo Ottavo

IL PROBLEMA DELLA VERGINITA' DI MARIA

Gli Acta Archelai ci tramandano l'opinione di Mani riguardo

questo argomento. « Io mi guarderei bene, dice Mani, dall'ammet-

tere che nostro Signore sia disceso nelle parti genitali di una

donna. Egli stesso dichiara d'esser disceso dal seno del Padre» (1).

« Chiunque mi conosce, conosce colui che mi ha inviato » (2). « Io

non sono venuto a compiere la mia volontà, ma la volontà di colui

che mi ha inviato » (3). « Io non sono stato inviato » (4). E Mani

cita molte altre frasi analoghe, come testimonianza del fatto che

Cristo sia venuto tra noi, senza nascere come noi. Infatti egli cita

quel passo in cui Cristo, essendogli stato detto che sua madre e i

suoi fratelli lo aspettavano, rispose con tono di rimprovero : « Chi

è mia madre e chi sono i miei fratelli? ». Al che nel De Fide (5)

(1) Ioh., I, 18 e III, 13.

(2) Matt, X, 40; Lue, X, 16; Ioh., XIII, 20.

(3) Ioh., VI, 38.

(4) Matt., XV, 24.

(5) Quest'opera sembra non si possa attribuire ad Agostino, ma ad un

suo imitatore, forse a quell'Evodio di cui parla il titolo. Dice l'Admo-

nitio che fa da prefazione all'opera : « Augustino in ante editis tribuitur,

sed falso uti probant Bellarminus, Vindingus, et alii. Non enim recensetur

inter illius opuscula, nec in Retractationibus, nec in Possidii Indice. Stilus

quoque ab Augustiniano diversus est, ac debilior disputandi ratio. Sed

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Augustinum tamen imitari auctor studuit, ejusque non modo sensus, sed

ipsa interdum verba ex eo praesertim libro qui de Natura boni contra Ma-

nichaeos scriptus est, expressit. In antiquis codicibus reperitur proximo

loco post Augustini Tractatum de Fide et Symbolo, interjecta annotatione,

quae in Fossatensi annorum octingentorum codice sic habet: Explicit in

Christo Jesu Filio Dei Tractatus Aurelii Augustini episcopi de Fide catto-

lica, Incipit adversus Manichaeos : ubi spectata vocum interpunctione haud

facile definias an ille de Fide catholica Tractatus appellatur qui explicit,

an qui incipit. Atque inde factum putamus ut liber subsequens tribueretur

150 ANNA ESCHER DI STEFANO

si obbietta : « Ac eos potius in hunc affectum computavit, qui fa-

cerent voluntatem Padrem ejus? Quia exemplo suo jam docebat

negandos esse terrenos parentes propter Deum. Opera enim di-

vina facienti terremus affectus obstrepere non debebat. Nam si

propterea non habebat matrem, quia negavit matrem; nec Petrus

et caeteri apostoli habebant patres, quia monuit eos, dicens : « Et

patrem ne vocaveritis nobis super terram; unus est enim Pater

vester qui in coelis est (Id. XXIII, 9). Quod ergo eos monuit de

patre terreno hoc de matre prior fecit. Hoc ergo dicimus, Sapien-

tiam Dei suscipiendo hominem non esse coinquinatam; sed miseri-

corditer ob hominum salutem hominem suscepisse, ut fieret, sicut

Apostolus dicit, Mediator Dei et hominum homo Christus Jesus

(I Tim., II, 3) » (6).

Se voi volete che Maria sia stata la madre di Cristo, continua

Mani, dovete ammettere che essa gli ha dato dei fratelli. Li ha

avuti da Giuseppe o dallo Spirito Santo? Se essa li ha avuti dallo

Spirito Santo noi dobbiamo ammettere più Cristi. Se essa li ha

concepiti senza di Esso, bisogna, senza alcun dubbio, riconoscere

che dopo la venuta dello Spirito Santo e di quella di Gabriele,

questa Vergine castissima si sia unita a Giuseppe. Vedete come

sono differenti, egli continua, le parole di Gesù. A colui che gli

ha detto : « tua madre ti aspetta fuori », egli chiede : « chi è mia

madre? », mentre quando un altro gli dice : « Tu sei il Cristo,

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figlio del Dio vivente », egli lo dichiara felice e benedetto da

Dio (7). Se il secondo ha detto il vero, conclude Mani, il primo

Augustino, et de Fide inscriberetur. Verum isthaec inscriptio praecedenti

libro bene conveniebat, non subsequenti, et eam ad praecedentem perti-

nere indicant alii Mss. codices in quibus est accuratior interpunctio; maxime

vero vitustissimus Corbeiensis, cujus auctoritate hunc librum Evodii Uza-

lensis episcopi esse Sirmondus in Historia Praedestinatiana, cap. I, dicit.

Quippe ab illa quae praecedenti libro apponitur clausola. Explicit in Do-

mino Christo Filio Dei Tractatus Aureli! Augustini de Fide catholica, re-

lieto septem circiter versuum spatio vacuo, exhibetur seorsim in alterius

folii capite titulus subsequentis libri, hunc in modum : Incipit ejusdem

contra Manichaeos. Utrum ejusdem. utrum sancti Euvodii ignoratur. Cor-

beiensi codici consentit Colbertinus, aliique nonnulli manuscripti eamdem

de auctore Augustino et Evodio dubitationem praeferentes » (Admonitio

al De Fide contra Manichaeos, Evodio tributus, P.L., Migne, vol. XLII.

coli. 1139-40).

(6) De Fide contra Manichaeos, cap. XXV, col. 1146.

(7) Matth., XVI, 16.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 151

si è sbagliato, e l'errore ricade su colui che scrive. In realtà il fi-

glio di Dio è disceso tutto formato e si è completamente trasfor-

mato in uomo. Come dice Paolo, egli era « esteriormente simile ad

un uomo» (8). Dopo, quando ha voluto, ha dato a questa umanità

la forma e l'aspetto del Sole. Se voi dite, dice Mani rivolgendosi

ai cristiani, che Cristo ebbe questa umanità solamente da Maria

e che Egli ha ricevuto lo Spirito nel battesimo, voi giudicate la

sua filiazione come acquisita, non come naturale... Inoltre, se voi

pensate che « simile ad un uomo » significhi uomo reale, biso-

gnerà allora che anche lo Spirito che è apparso « simile ad una

colomba» (9), non sia stato che una colomba normale (10)..

A queste affermazioni Agostino ribatte. E' necessario, quando

crediamo a qualche cosa materiale che abbiamo letta o udita,

senza averla mai vista, « fingat sibi aliquid animus in lineamentis

formisque corporum, sicut occurrerit cogitanti, quod aut verum non

sit, aut etiam si verum est, quod rarissime potest accidere : non hoc

tamen fide ut teneamus quidquam prodest, sed ad aliud aliquid

utile, quod per hoc insinuatur. Quis enim legentium vel audentium

quae scripsit apostolus Paulus, vel quae de illo scripta sunt, non

fingat animo et ipsius Apostoli faciem, et omnium quorum ibi no-

mina commemorantur? Et cum in tanta multitudine hominum

quibus illae Litterae notae sunt, alius aliter lineamenta figuram-

que illorum corporum cogitet, quis propinquius et similius cogi-

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tet, utique incertum est» (11). La fede, cioè, non ci impone di

credere quale siano la faccia o i lineamenti di coloro di cui le Scrit-

ture parlano, ma ci impone di credere soltanto che essi così hanno

vissuto per grazia di Dio, e hanno operato secondo il modo come

la Scrittura testimonia (12). Infatti noi non deduciamo le sem-

(8) Phil., II, 7.

(9) Matt., III, 16; Me, I, 10; Le, III, 22.

(10) Acta Archelai, p. 50.

(11) De trinitate, l. VIII, cap. IV, col. 951.

(12) Il posto principale che la fede occupa nell'adesione a questo pro-

blema è precisato nel Sermo CCXV : « Nativitatem itaque Dei ex Deo nec

cogitare poteris, nec narrare : credere tantum tibi permittitur, ut salvus

esse possis; sicut Apostolus dicit: Credere enim oportet qui ad Deum ac-

cedit, quia est, et quaerentibus eum mercedis redditor erit (Hcbr., XI, 6).

Si vero nativitatem ejus secundum carnem, quam pro nostra salute di-

gnatus accepit, scire desideras; audi. et crede natum de Spiritu sancto ex

Maria Virgine. Quanquam et hanc ipsam nativitatem ejus quis enarrabit?

Quis enim digne aestimare potest Deum propter homines nasci voluisse,

152 ANNA ESCHER DI STEFANO

bianze di Maria dalla verginità con cui essa, incorrotta nello stesso

parto, generò il figlio di Dio, ma soltanto che nostro Signore Gesù

Cristo sia nato da una vergine chiamata Maria (13). Che cosa sia

vergine, e nascere e il nome proprio non lo crediamo, ma lo sap-

piamo. Mentre se il viso di Maria sia proprio quello che imma-

giniamo allorché parliamo o ci ricordiamo di essa, non lo sap-

piamo affatto, né lo crediamo. Perciò è necessario : « forte talem

habebat faciem forte, non talem: forte autem de virgine natus

est Christus, nemo salva fide Christiana dixerit» (14).

I Manichei giudicano falso il dogma della verginità di Maria

anche basandosi su una frase delle Scritture, che definisce Cristo

«factum de muliere » (15). I Manichei osservano che, poiché non

è detto « ex virgine », ma « de muliere », evidentemente vien ne-

sine virili semine virginem concepisse, sine corruptione peperisse, et post

partum in integritate permansisse? Dominus enim noster Jesus Christus

uterum virginis dignatus intravit, membra feminae immaculatus implevit,

matrem sine corruptione fetavit, a se ipso formatus exivit, atque integra

genitrìcis viscera reservavit; ut eam de qua nasci dignatus est, et matris

honore perfunderet, et virginis sanctitate. Quis hoc cogitat? quis enarrat?

Ergo et hanc nativitatem ejus quis enarrabit? Cujus enim mens ad cogi-

tandum, cujus ad enuntiandum lingua sufficiat, non solum quod in prin-

cipio erat Verbum, non habens ullum principium; verum etiam quod Ver-

bum caro factum est, eligens virginem quam sibi faceret matrem, faciens

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matrem quam servaret et virginem... Tantum quippe Dei donum nec et-

tari possumus, quoniam sumus ad ejus enarrandam magnitudinem parvuli;

et tamen laudare compellimur, ne tacendo remaneamus ingrati. Sed Deo

gratias, quia id quod competenter non potest dici, potest fideliter credi »

(coli. 1073-4).

(13) Il concetto della verginità di Maria è enunciato anche nel De Ge-

nesi : « Renovari autem hominem per Jesum Christum Dominum nostrum,

cum ipsa ineffabilis ac incommutabilis Dei Sapientia plenum totum que

hominem suscipere dignata est, et nasci de Spiritu sancto et virgine

Maria» (cap. I, col. 221). E nel Sermo CLXXXVI: «Gaudeamus fratres:

laetentur et exultent gentes Istum diem nobis non sol iste visibilis, sed

Creator ipsius in visibilis consecravit; quando eum pro nobis visibilem

factum, a quo invisibili et ipsa creata est, visceribus fecundis et genitali-

bus integris Virgo Mater effundit. Concipiens virgo, pariens virgo, virgo

gravida, virgo feta, virgo perpetua. Quid miraris haec, o homo? Deum sic

nasci oportuit, quando esse dignatus est homo. Talem fecit illam, qui est

factus ex illa. Antequam enim fieret, erat: et quia omnipotens erat, fieri

potuit manens quod erat. Fecit sibi matrem, cum esset apud Patrem: et

cum fieret ex matre, mansit.

(14) Galat., IV, 4.

(15) De fide, contra Manichaeos, cap. XXV, col. 1145.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 153

gata la verginità. Affermazione cui l'autore del De Fide risponde

dicendo che essi non comprendono «quod consuete dictum est sit

secundum proprietatem linguae Scriptutatum, sicut de Eva dic-

tum est, Formavit eam in mulierem (Cren. II, 22) antequam vel

ostenderetur viro. Quamvis Maria non incongrue propter partum

dicitur mulier : virgo vero, quod virilem nescierit conventionem,

neque pariendo virginitas ejus corrupta sit. Quod autem Angelus

et Elisabeth dixerunt Mariae, Benedicta tu inter mulieres (Lue,

I, 42) : nulla quaestio est, quia revera benedictaest virgo inter

mulieres. Sed ne dicatis, Sicut Angeli apparuerunt, sic haberet

corpus, ne de femina nasceretur. Quod si vobis dicatur, Ubi legi-

stis Christum in carne venisse? Nonne dicturi estis, In Evangelio?

Respondetur ergo vobis, ibi striptum est, Christum natum de vir-

gine. Sed solita foeditate dicetis Scripturam falsam esse» (16).

Agostino affronta il problema soprattutto nell'« Opus imper-

fecti contra Julianum». Giuliano afferma: «Verum ut illi infen-

sus Iovianus arguitur, it vobis comparatus absolvitur. Quando

enim tibi vobis comparatus absolvitur. Quando enim tibi tantum

prudentium censura donabit, ut te cum Joviani merito compo-

nat? Ille quippe dixit boni esse necessitatem; tu, mali: ille ait

per mysteria homines ab errore cohiberi; tu vero, nec per gratiam

liberari : ille verginitatem Mariae partus conditione dissolvit; tu

tu ipsam Mariam diabulo nascendi conditione transcribis: ille

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meliora bonis aequat, id est, integritatem connubio; tu vero com-

mixtionem conjugii mobidam vocas, et castitatem foedissimae rei

collatione depretias : nec gradum inter haec addis; sed genus

omne commutas, non utique bono virginitatem, sed malo praefe-

rens » (17). Ma Agostino, rifiutando l'accusa di manicheismo che

Giuliano gli aveva lanciato, risponde : « non trascribimus diabolo

Mariam conditione nascendi; sed ideo, quia ipsa conditio solvi-

tur gratia renascendi » (18). Questa risposta è stata molto di-

scussa dai critici, e il Portaliè fa un paragone fra le due interpre-

tazioni possibili di questo testo. La prima viene formulata in que-

sti termini : « Noi non sottomettiamo Maria al demone per la legge

della nascita, e ciò perché la garanzia della rigenerazione l'ha

(16) Opus imperfectum contra Julianum, l. IV, cap. CXXII, col. 1417.

(17) Ibtd., col. 1418.

(18) Cit. in Portaliè, op. cit., p. 2375.

154 ANNA ESCHER DI STEFANO

preservata da questa triste legge » (19). Ammesso questo signifi-

cato, ne consegue che Maria non è mai stata schiava del demone,

e l'obbiezione di Giuliano cade. La seconda interpretazione in-

vece può essere riassunta in questi termini : « Noi non sottomet-

tiamo Maria al demone, perché nata nel peccato, secondo la legge

generale di tutta la nascita, essa ne è stata liberata dalla grazia

della rigenerazione » (20). In tal modo sparisce l'immacolata con-

cezione, ma nello stesso tempo, per il Portaliè, molte difficoltà :

« 1) La madre di Dio è messa assolutamente allo stesso livello di

tutti gli altri uomini, il cui peccato originale è stato concellato; non

c'è neppure una indicazione sul momento della sua giustificazione :

cosa diviene questa categoria a parte, accanto al Cristo nella dot-

trina di Agostino? 2) Inoltre, si attribuisce al grande Dottore una

contraddizione nella stessa frase : le parole non trascribimus, ne-

gano ogni schiavitù del demonio, mentre immediatamente dopo

gliela si accorda. Agostino direbbe letteralmente : « noi non sotto-

mettiamo Maria al demonio, e ciò perché essa è realmente la sua

schiava nascendo, ma più tardi essa è rigenerata ». Starà al lettore

decidere, conclude il Portaliè, se questa interpretazione sia verosi-

mile. D'altra parte sembra che Agostino faccia eccezione solo

per Gesù Cristo. Ma se si approfondisce meglio il suo pensiero, si

vede che Agostino tratta unicamente della trasmissione di diritto

del peccato originale, trasmissione che agisce su tutti coloro che

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discendono da Adamo per generazione naturale, e in questo senso

Cristo è il solo esente. Maria non è esente di diritto, ma di fatto,

in virtù della redenzione di Colui che è esente di diritto (21).

(19) Ibid.

(20) Ibid.

(21) « Excepta itaque sancta virgine Maria, de qua propter honorem

Domini nullam in Patre. Quomodo Deus esse desisteret, cum homo esse

coepit, qui genitrici suae praestitit ne desisteret virgo esse, cum peperit?

Proinde quod Verbum caro factum est, non Verbum in carnem pereundo

cessit; sed caro ad Verbum, ne ipsa periret, accessit : ut quemadmodum

homo est anima et caro, sic esset Christus Deus et homo. ... Denique qui

Filius Dei generanti est coaeternus semper ex Patre. idem filius hominis

esse coepit ex Virgine » (col. 999). E nell'Epistola CXXXV1I : « Ipsa enim

magnitudo virtutis ejus, quae nullas in angusto sentit angustias, uterum

virginalem, et per eamdem etiam corpus humanum, totumque omnino ho-

minem in melius mutandum, nullo modo in deterius mutata coaptavit;

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 155

L'opinione del Portaliè sembra trovare conferma in altre

espressioni del santo, che fanno proprio pensare che Agostino

avesse giudicato privo del peccato originale solo Cristo. Ad es., in

un brano del De natura et gratia (22), Agostino ha cura di preci-

sare la santità della vita della Vergine, sottolineandone l'assoluta

assenza di peccati, ma non fa alcun cenno alla santità della sua

nascita. Impressione, questa, confermata da un passo del De Ge-

nesi ad litteram (23), in cui Agostino dice chiaramente che Maria,

pur essendo stata concepita nel peccato, tuttavia generò senza

peccato. Evidentemente, se Agostino avesse giudicata anche Maria

priva del peccato originale, lo avrebbe a questo punto messo in

evidenza.

nomen humanitatis ab eo dignanter assumens, divinitatis ei largiter tri-

buens. Ipsa virtus per inviolatae matris virginea viscera, membra infantis

eduxit, quae postea per clausa ostia membra juvenis introduxit » (cap. II,

col. 519).

(22) De trinitate, l. VIII, cap. V, col. 952. Cfr. anche : « Excepta itaque

sancta virgine Maria, de qua propter honorem Domini nullam pror-

sus cum de peccatis agitur, haberi volo quaetionem : unde enim

scimus quid ei plus gratiae collatum fuerit ad vincendum omni ex parte

peccatum, quae concipere ac parere meruit. quem constat nullam ha-

buisse peccatum? hac ergo Virgine excepta. si omnes illos sanctos

et sanctas, cum hic viverent, congregare possemus et interrogare utrum

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essent sine peccato, quid fuisse responsuros putamus? utrum hoc quod

iste dicit, an quod Joannes apostolus? Rogo vos, quantalibet fuerint in

hoc corpore excellentia sanctitatis, si hoc interrogari potuissent, nonne una

voce clamassent. Si dixerimus quia peccatum non habemus, non ipsos de-

cipimus, et veritas in nobis non est? An illud humilius responderent for-

tasse, quam verius? Sed huic jam placet, et recte placet, « laudem humili-

tatis in parte non ponere falsitatis ». Itaque hoc si verum dicerent, habe-

rent peccatum; quod humiliter quia faterentur, veritas in eis essent: si

autem hoc mentirentur, nihilominus haberent peccatum, quia veritas in

eis non esset » (De natura et gratia, cap. XXXVI. col. 267).

(23) « Et quid incoinquinatius ilio utero Virginis, cujus caro etiamsi

de peccati propagine venit, non tamen de peccati propagine concepit: ut

ne ipsum quidem corpus : Christi ea lex severit in utero Mariae, quae in

membris posita corporis mortis. repugnat legi mentis? quam sancti patres

coniugati refrenantes, non quidem nisi quousque licebat in concubitum

relaxerunt; nec tamen tantummodo quousque licebat. ejus impetum pertu-

lerunt. Proinde corpus Christi quamvis ex carne feminae assumptum est,

quae de illa carnis peccati propagine cobcepta fuerat. tamen quia non sic

in ea conceptum est, quomodo fuerat illa concepta, nec ipsa caro peccati,

sed similitudo carnis peccati » (De Genesi ad litteram, l. X, cap. XVIII,

col. 122).

Capitolo Nono

IL PROBLEMA DELLA UMANITA' DI CRISTO

Io cercavo, dice Agostino (1), di procacciarmi la forza che mi

consentisse di godere di Dio. E non avrei potuto trovarla se non

mi fossi stretto al mediatore tra Dio e gli uomini, all'uomo Cristo

Gesù, che è Dio, al di sopra di tutte le cose create, benedetto nei

secoli, Colui che solo può dire di sé : io sono la via, la verità, e

la vita. Egli si fece carne, affinché noi riuscissimo a capire la sua

sapienza. Per ciò egli si costruì un'umile casa col nostro fango, per

guarire l'orgoglio e alimentare l'amore, in modo che, sospinti da

eccessiva fiducia in noi stessi, non avanzassimo troppo oltre, ma

piuttosto diventassimo deboli, vedendo debole davanti ai nostri piedi

la divinità, partecipe della nostra veste umana, e, spossati, ci la-

sciassimo cadere sopra di essa, ed essa, sorgendo, ci sollevasse. La

grandezza di quest'umiliazione non appartiene al libro di nessun

altro popolo, non ai libri degli epicurei, degli stoici, dei manichei,

dei platonici. Dovunque si incontrano anche ottimi precetti di

costume e di educazione, ma questa umiltà non si incontra. La

via dell'umilità viene solo da Cristo (2). Quella stessa umiltà in-

compresa dai pagani, i quali si chiedono come si possa onorare

un Dio che è nato, un Dio che fu crocifisso (3).

I Manichei, infatti, negavano anch'essi l'incarnazione reale di

Cristo, poiché secondo loro era impossibile che Dio potesse ri-

vestire il suo corpo col disonore della materia. E negavano per-

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tanto che Dio potesse liberarsi, e che potesse soffrire, che fosse

morto e resuscitato. Tutto ciò avvenne solo in apparenza, ma nella

sua essenza reale Cristo, dicono i Manichei, non fu mai uomo, ma

(1) Confess., l. VII, cap. XVIII, col. 745.

(2) Enarr. in Ps., XXXI, 18, col. 270.

(3) Ibid., XCIII, 15, col. 1203.

V

IL MANICHEISMO DJ S. AGOSTINO 157

solo Dio. Fausto cita a conferma di questa tesi passi dello stesso

Vangelo, che sarebbero contrastanti con la teoria dell'umanità di

Cristo. Ad es. : « Jesu Christi filii Dei » (4) : frase in cui il con-

cetto di Cristo, figlio di Dio, esclude, secondo Fausto, la sua uma-

nità, poiché i due concetti sono antitetici. « Beati pauperes spi-

ritu, beati mites, beati pacifici, beati puro corde, beati qui lugent,

beati qui esuriunt, beati qui persecutionem patiuntur propter ju-

stitiam » (5) : secondo Fausto questo passo dimostrerebbe che Dio

non è uomo : in quanto non è detto « beati cui confessi fuerint me

natum » (6). E ancora « Ite, docete omnes gentes, baptizantes eos

in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti, et docentes eos ser-

vare omnia quae mandavi vobis» (7), anche in questo caso il

convalidamento della tesi manichea consiste nel fatto che non

leggiamo: «docentes eos quia sim natus » (8).

Per convalidare questa tesi i Manichei portano a testimo-

nianza anche le parole di S. Luca, che disse che lo Spirito Santo

discese su Gesù, sotto una forma corporea a somiglianza di co-

lomba. Analogamente Gesù prese la forma esteriore, concludono

i Manichei pur rimanendo Dio. Ma Archelao obbietta all'eresia

manichea: « risponde termi, Manichei; se voi dite che Cristo non

è nato da Maria, ma che egli è sembrato uomo, benché non lo fosse

in effetto e questo per mezzo della virtù che era in lui: ditemi,

su chi lo Spirito Santo discese come una colomba? Ditemi ancora

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chi è colui che fu battezzato da Giovanni? Poiché se egli era già

perfetto, se egli era già il figlio di Dio, se egli era la virtù, lo

Spirito non poteva entrare in lui, come un regno non può entrare

in un altro regno » (9). E Mani a sua volta risponde : « Se voi dite

che colui che è nato da Maria è semplicemente un uomo, e che

egli ha ricevuto lo Spirito mediante il battesimo, se ne deduce che

egli è divenuto figlio di Dio progressivamente per accrescimento,

e non che egli lo fosse già per natura » (10).

(4) Marc, I, 1.

(5) Matth., V, 3-10.

(6) Contra Faustum, l. V, cap. III, col. 221.

(7) Matth., VII, 21.

(8) Contra Faustum, l. V, cap. III, col. 221.

(9) Acta Disput., p. 90.

(10) Acta Disp., p. 91.

158 ANNA ESCHER DI STEFANO

Agostino dal canto suo oppone ai passi citati da Fausto e che

in verità non erano gran ché di aiuto alla debolezza dei suoi

argomenti, altri passi che ben più chiaramente attestavano l'uma-

nità di Cristo, di quanto non facessero i primi per la tesi contra-

ria : « Amen, amen dico vobis quia venit hora et nunc est, quando

mortui audient vocem Filii Dei, et qui audierinent, vivent. Sicut

enim Pater habet vitam in semetipso, sic dedit et fìlio vitam ha-

bere in semetipso, et potestatem dedit ei judicium facere quia fi-

lius hominis est» (11). E Agostino aggiunge per sottolineare

quanto è detto nel Vangelo : « Dixit " vocem Filii Dei audient ", et

dixit, "quia filius hominis est"» (12).

A questi passi Agostino ne aggiunge altri che attestano la di-

vinità e l'umanità di Cristo : « Hic est Filius meus dilectus, in

quo mihi complacui » (13). «Ecce virgo accipiet in utero et pariet

filium, et vocabunt nomen ejus Emmanuel (14), quod est inter-

pretatum, nobiscum Deus» (15). «Cum autem venit plenitudo

temporis, misit Deus filium suum, factum ex muliere, factum sub

lege » ( 16). « Memor esto Christum Jesum resurrexisse a mortuis

ex semine David, secundum evangelium eum » (17). Agostino chia-

risce il suo pensiero sull'incarnazione del Verbo nell'Enchiridion,

in un capitolo contro gli Apollinaristi : « Perché è così che il

Verbo si è fatto carne; non nel senso che la divinità si sia tra-

sformata in carne, ma che si è rivestita di carne. Per la parola

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carne, intendiamo l'uomo. E' una metonimia per cui si prende la

parte per il tutto; ed è in questo senso che S. Paolo disse (18) :

dalle opere della legge, nessuna carne sarà giustificata dinanzi a

Dio» (19).

Infatti non è lecito dire che il Verbo, fattosi carne, abbia

preso soltanto una parte dell'umanità : « egli la prese perfetta, ma

esente da ogni macchia di peccato. L'incarnazione non era il risul-

tato dell'unione di due sessi e della concupiscenza carnale; non

(11) Joan., 25-27.

(12) Contra Faustum, l. V, cap. IV, col. 222.

(13) Matth., VII, 21.

(14) Jsai., XI, 10.

(15) Matth., I, 23.

(16) Galat., VI, 4.

(17) Tim., II, 8.

(18) Enchiridion, cap. XXXIII, col. 249.

(19) Rom., III, 20.

"

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 159

aveva contratto verun peccato che avesse bisogno di essere can-

cellato per mezzo della rigenerazione spirituale; ma era tale come

doveva essere concepita nel seno di una Vergine, non per la con-

cupiscenza, ma per la fede della madre... E così Gesù Cristo, Figlio

di Dio, è allo stesso tempo Dio e uomo. Dio, prima del tempo;

uomo, nel tempo. Dio, perché è il Verbo di Dio, ed il Verbo era

Dio; uomo, perché il corpo e l'anima ragionevole si sono uniti al

Verbo nell'unità di una sola persona. Come Dio, il Verbo e il Pa-

dre sono una cosa sola; come uomo, il Padre è maggiore di Lui.

Siccome era Figlio unico di Dio, non per grazia, ma per natura,

si è fatto Figlio dell'uomo, per essere pieno di grazia. In poche

parole : Dio e uomo fanno un solo Cristo. Ed è per questo che

essendo già in natura Dio, non considerò questa sua eguaglianza

con Dio come una rapina, ma abbassò se stesso, assumendo la

forma di schiavo, ma senza perdere o diminuire la sua natura di-

vina » (20).

Agostino confessa umilmente, con quella umiltà di cui Cristo

è stato il primo maestro, di non aver capito nemmeno lui, in un

primo tempo, l'arcano significato delle parole « il Verbo si fece

carne », di non aver compreso che Dio era sceso, uomo tra uomini,

per insegnare l'umiltà, guarire l'orgoglio, e alimentare l'amore.

Solo dopo aver molto meditato, aveva compreso che Cristo

aveva mangiato e bevuto, dormito e camminato, che si era ralle-

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grato e addolorato e aveva tenuto discorsi con anima e intelligenza

da uomo (21) : uomo, però, che rimaneva sempre Dio (22).

(20) Enchiridion, cap. XXXIV, col. 249.

(21) E invero, dice Agostino (Confess., l. XIX, cap. XIX), il muovere

o il non muovere le membra seconda la volontà e il provare e non

provare un sentimento e il manifestare, per mezzo di segni, concetti

pieni di senno o rimanere in silenzio : tutto questo è proprio di un'anima

e di un'intelligenza mutabile. Chè se poi questi atti tramandati sul suo

conto non fossero veri, anche tutto il resto pericolerebbe; investito dal

sonetto del mendacio, e in quegli scritti non rimarrebbe nessuna salvezza

di fede al genere umano. Ma dacché si tratta di fatti veri, io in Cristo ri-

conoscievo l'uomo interamente, non soltanto un corpo d'uomo, o una anima

senza intelligenza congiunta ad un corpo.

(22) « Homo verus, Deus verus. Deus et homo totus Christus : hoc est

catholica fides. Qui negat Deum Christum, photinianus est; qui negat ho-

minem Christum, manicaeus est; qui confitetur Deum aequalem Patri Chri-

stum et hominem verum... catholicus est » (Sermo, XCII, col. 573). « Nem-

pe ex quo esse homo coepit, non aliud coepit esse homo quam Dei Filius;

160 ANNA ESCHER DI STEFANO

L'uomo, infatti, si era reso figlio dell'ira, di quell'ira della

quale sta scritto : Tutti i nostri dì si dileguano e per il tuo sdegno

veniamo meno; i nostri anni come il ragno si travagliano (23). Di

quell'ira di cui Giobbe disse : L'uomo nato da donna breve tempo

vive, e dell'ira divina ripieno. Di quell'ira alla quale Nostro Si-

gnore alludeva quando disse : « Chi crede nel Figlouolo ha la

vita eterna; ma chi non crede al Figliuolo non vedrà la vita, ma

l'ira di Dio dimora su di lui » (24).

Come conseguenza del peccato originale, essendo gli uomini

avviluppati in quest'ira divina, aggravata ancora dalle colpe per-

sonali, tutti avevano bisogno di un Mediatore che li riconciliasse

con Dio, calmasse la sua ira con un sacrificio straordinario, del

quale tutti i membri della Legge antica erano solo come un'ombra.

E questo è appunto il significato delle parole dell'Apostolo : Giac-

ché, se essendo nemici, siamo stati riconciliati a Dio per la morte

di suo Figlio, tanto più, riconciliati, saremo salvati nella vita di

Lui (Rom., V, 10). Avevamo dunque bisogno di un Mediatore af-

finché egli ci riconciliasse con Dio e noi fossimo capaci di ricevere

lo Spirito Santo, e così da nemici che eravamo di Dio, diventas-

simo figli suoi, perché tutti coloro che sono guidati dallo Spirito

di Dio, sono figli di Dio (Rom., ViIl, 14) (25).

La dimostrazione della necessità di un Mediatore, dice Ago-

stino, richiederebbe un discorso assai lungo. A ciò si aggiunge

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che il linguaggio umano non potrebbe mai innalzarsi alla subli-

mità di questo mistero. Con quali parole infatti si potrebbe spie-

gare l'arcano significato di queste parole : « Il Verbo si fece carne

ed abitò fra noi» (Ioa., I, 14), e farci credere in Gesù Cristo,

Figlio unico di Dio Padre onnipotente, nato per opera dello Spi-

rito Santo dalla Vergine Maria? In quanto così il Verbo si è fatto

carne, non trasformandosi in carne, ma rivestendosi di carne (26).

Egli è rimasto uguale al Padre, essendo sempre un solo e mede-

simo Cristo. Ma, come Verbo, non è la stessa cosa che uomo. Verbo,

et hoc unicus, et propter Deum Verbum, quod ilio suscepto caro factum est,

utique Deus ut quemodum est una personna quilibet homo, anima scilicet

rationalis et caro, ita sit Christus una persona, Verbum et homo » (Ettcht-

rtdion, cap. XXXVI, col. 250).

(23) Ps., LXXXIX, 9.

(24) Enchiridion, cap. XXXIII, col. 248.

(25) Ibid., coli. 248-9.

(26) Ibid., cap. XXXIV, col. 249.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 161

è uguale al Padre; uomo, è inferiore a Lui. Il Figlio unico di

Dio è in sé la stessa persona del Figlio dell'uomo, è anche in sé

Figlio di Dio. Dio e uomo non sono due Cristi, non sono due figli

di Dio, ma un solo e unico Figlio di Dio. Come Dio, non ha prin-

cipio; come uomo ne ha avuto uno. Questo Verbo di Dio, questo

unico Figlio di Dio, questo Figlio dell'uomo, questo Dio e uomo

tutto insieme, è Gesù Cristo Signor Nostro (27).

E' in questo mistero, conclude Agostino, che la grazia di Dio

appare in tutta la sua grandezza ed evidenza. Infatti, che diritto

aveva la natura umana unita al Verbo, per meritar un sì sublime

onore, quello cioè di essere unita in modo sì meraviglioso al Fi-

glio di Dio in unità di Persona? Quale santa volontà, quali risolu-

zioni, quali opere buone avevano preceduto in quest'uomo, per

meritare di diventare una sola e medesima persona con Dio? Prima

di quest'unione divina, era forse già stato uomo, ed era forse per

i suoi meriti verso Dio che gli fu concessa una grazia sì ineffa-

bile? Ma, appena fatto uomo, era Figlio di Dio, Figlio unico di

Dio, Dio egli stesso per la sua identità col Verbo che è Dio, il

quale, assumendo la natura umana, si fece carne. E così, come

nell'uomo l'unione dell'anima ragionevole col corpo fa una sola

persona con una natura umana, così pure Cristo, cioè l'unione del

Verbo, coll'umanità, è una sola Persona. Ma in che modo la na-

tura umana ha potuto ricevere una gloria così grande, una gloria

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gratuita, in quanto non è stata preceduta da alcun merito, ma

soltanto opera della grazia di Dio, affinché gli uomini, conside-

rando con fede questo ineffabile sacrificio, comprendessero d'es-

sere stati giustificati dai loro peccati, in base a quella stessa grazia

che ha di Gesù Cristo un uomo esente da ogni peccato? Il mi-

stero di questa grazia è espresso nelle parole con le quali l'An-

gelo salutò Maria, annunciandole il divino parto: Io ti saluto, o

piena di grazia; e, poco dopo: Tu hai trovato grazia presso Dio

(Lue, I, 28-29). Se questa Vergine fu piena di grazia, se trovò gra-

zia presso Dio, fu perché doveva essere la Madre del suo Signore,

o meglio, del Signore di tutti gli uomini (28).

Certo Dio avrebbe potuto scegliere un altro mediatore (29)

tra sé e gli uomini, prendendolo non dal genere di Adamo, che col

(27) Ibid., cap. XXXV, coli. 249-50.

(28) ibid., XXXVI, col. 250.

(29) A proposito del ruolo di mediatore che Agostino attribuisce a

Cristo, il Portaliè osserva : « D'abord ce n'est point la personne du Verbe,

11

162 ANNA ESCHER DI STEFANO

suo peccato aveva imprigionato se stesso, ma giudicò fosse meglio

assumere il genere di colui che era stato vinto, per poter vincere

il nemico dello stesso genere umano. E volle che fosse concepito

da una vergine per mezzo dello spirito e non della carne, elimi-

nando qualsiasi desiderio sessuale. Per cui, la concupiscenza con

cui vengono concepiti tutti coloro che portano il peccato origi-

nale, non vi ebbe alcuna parte; e in tal modo la vergine, pur senza

giacere con un uomo, ma soltanto mediante la fede (30), fu fe-

condata, affinché colui che sarebbe nato dal grembo del primo

uomo, portasse con sé l'impronta del suo genere, ma non del pec-

cato originale. Cristo dunque nasceva non dal contagio del pec-

cato, ma per essere la medicina del peccato. Nasceva uomo, ma

senza alcuna macchia di peccato né presente, né futuro. In quanto,

sebbene la carnale concupiscenza dei genitali possa essere casta-

mente usata nel matrimonio, tuttavia ha in se stessa dei moti

involontari, che mostrano chiaramente come essa « vel nullam se

in paradiso ante peccatum esse potuisse, vel non talem fuisse si

fuit, ut aliquando resisteret voluntati » (31). L'uomo, invece, sente

oggi questa legge che ripugna alla ragione, e, mediante i suoi

allettamenti lo spinge all'accoppiamento, anche senza alcuna ra-

gione di procreazione, di modo che, se cede ad essa, si sazia, pec-

cando. Se invece non cede, si frena, non acconsentendo : e queste

due cose, evidentemente, non potevano esistere in paradiso prima

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del peccato. Allora l'onestà non produceva niente di indecoroso,

né la felicità era turbata. Era quindi necessario che non esistesse

mais la nature divine qu'il veut exclure du róle de médiateur. Comme le

mot Christus désigne la personne du Verbe subsistant en deux natures

absolument indépendantes l'une de l'autre, il se demande quelle est celle

des deux, humaine ou divine, qui peut et doit poser les actes de sati-

sfaction et d'expiation: or il est évident que ces actes ne sont point du

ressort de la nature divine. Mais la nature humaine à son tour n'agit point

sans étre comme informée par la personne du Verbe. C'est donc bien

l'Homme-Dieu qui apaise le Pére et nous sauve » (op. cit., col. 2367).

(30) Questa immensa fede di Maria viene ribadita anche nel Sermo

CCXV (col. 1074) : « Nam et ipsa beata Maria, quem credendo peperit,

credendo concepit. Cum enim promisso sibi Alio, quaesisset quemadmodum

fieret, quoniam virum non cognosceret; utique solus ei modus cognoscendi

atque pariendi notus erat, quem quidem ipsa experta non fuerat, sed ex

aliis feminis natura frequentate didicerat, ex viro scilicet et femina ho-

minem nasci ».

(31) De trin., l. III, cap. XVIII, col. 1032.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 163

questa concupiscenza carnale quando la vergine concepì il suo

bambino, in cui nulla fu trovato degno di morte, e che tuttavia fu

ucciso dall'autore della morte, che restò a sua volta vinto dal-

l'autore della vita. Il vincitore del primo Adamo, che teneva nel

suo pugno tutto il genere umano, doveva essere vinto dal secondo

Adamo, e lasciare il genere cristiano liberato dall'umano crimine

per mezzo di colui che non era nato dal crimine, benché fosse

dello stesso genere, affinché l'autore stesso dell'inganno fosse vinto

dal medesimo genere che aveva ingannato. E tutto ciò fu fatto non

perché l'uomo si levasse in superbia, ma perché « qui gloriatur,

in Domino glorietur ». Chi fu vinto era solamente uomo, e perciò

rimase sconfitto; ma chi vinse era uomo e Dio. E perciò il nato

dalla vergine vinse, poiché non era guidato da Dio, come gli altri

santi, ma era lo stesso Dio (32).

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(32) Ibid., l. XIII, cap. XVIII, coli. 1032-3.

Capitolo Decimo

IL PROBLEMA DELLA CONCORDANZA

DEL VECCHIO COL NUOVO TESTAMENTO

Agostino affronta infine il problema della difesa del cristia-

nesimo sul piano di una delle critiche più aspre che i Manichei

abbiamo ad esso rivolto : la critica alle Scritture.

Perché infierite con tanta ignoranza ed empietà, egli chiede

loro, perché tentate malvagiamente di corrompere con i vostri

ragionamenti le anime inesperte? L'Antico e il Nuovo Testamento

hanno un solo Dio. E se vorrete considerarli attentamente,

comprenderete come essi concordino in tutto. Ma poiché molte

cose sono scritte in forma umile, la più adatta e accessibile agli

spiriti semplici, e altre in maniera simbolica, in modo che gli

animi si esercitino nella ricerca del vero, e godano nella sua sco-

perta, allora voi abusate dei mirabili disegni dello Spirito Santo

per ingannare i vostri uditori, usando la grossolanità del vostro

cervello intossicato dal pasto velenoso di fantasmi corporei. Ma

ascoltatemi una buona volta e considerate senza ostinazione le

parole del profeta : Luminosa e incorruttibile è la sapienza, e ciò

si vede facilmente da quelli che l'amano, e si trova da quelli che

la cercano. Ella previene coloro che la bramano, affinchè si mostri

loro. Chi andrà in cerca di lei, non avrà da stancarsi, trovandola

assisa alla sua porta. Chi per amore di lei veglierà, sarà ben pre-

sto sicuro, perché ella va attorno cercando persone degne, e per le

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strade dolcemente si lascia vedere, e va loro incontro con ogni

sollecitudine. Poiché il suo vero principio è il desiderio della di-

sciplina. Il desiderio della disciplina è la dilezione; e la dilezione

e l'osservanza delle sue leggi è la purezza perfetta. E la purezza

avvicina a Dio. Così l'amore della sapienza conduce al regno di

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 165

Dio (1). E voi contro siffatte cose non cessate ancora di latrare?

E il fatto che esse siano così oscure e tutt'ora incomprese, non è

forse un segno evidente del loro alto e ineffabile contenuto? Vo-

glia Iddio che possiate comprendere quanto vi ho detto! Ridereste,

quanto meno, delle vostre storielle e dei vostri vani fantasmi, e

con infrenabile slancio, con sincero amore e con fede saldissima,

andreste tutti a rifugiarvi nel seno santissimo della Chiesa cat-

tolica (2).

I Manichei infatti sostenevano che nel Vecchio Testamento

fossero interposti passi, mediante i quali il Re delle Tenebre cer-

cava di oscurare la verità e di evitare l'elevazione dell'uomo, ov-

vero la liberazione della luce. Ciò permetteva ai seguaci di Mani

di considerare come falsi tutti quei passi che in qualche modo

smentissero le loro teorie. Essi miravano, da una parte alla critica

vera e propria di alcuni passi delle Sacre Scritture, e d'altra parte

a mettere in contrasto il Vecchio e il Nuovo Testamento, per di-

mostrare la falsità del primo.

Nel « De genesi contra Manichaeos » Agostino difende l'origi-

nalità delle S. Scritture verso per verso, e comincia dal primo :

« In principio creavit Deus coelum et terram » (3).

Dicono i Manichei : Se Dio in principio fece il cielo e la terra,

cosa faceva prima? Non implica questo una localizzazione e defi-

nizione nel tempo dell'infinito atto divino? La difficoltà, dice Ago-

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stino, è dovuta alla particolare forma mentis umana, che non può

concepire alcuna cosa, senza presupporre per ciò stesso, il tempo

in cui inquadrarla. Infatti l'espressione « in principio tempori-

bus» (4), con cui il Genesi designa la creazione del cielo e della

terra, non ci deve far pensare ad un inizio nel tempo, giacché il

tempo prima della creazione del mondo non esisteva affatto : « et

ideo antequam faceret tempora, non erant tempora» (5), ma piut-

(1) De moribus Ecclesiae catholicae et Manichaeorum, l. I, cap. XVII,

coli. 1324-5.

(2) Ibid.

(3) Gen., I, 1.

(4) De Genesi contra Manichaeos, l. I, cap. II, col. 174.

(5) Ibid. Cfr. anche : « Sed etsi in principio temporis Deum fecisse coe-

lum et terram credamus, debemus utique intelligere quod ante principium

temporis non erat tempus. Deus enim fecit et tempora: et ideo antequam.

faceret tempora, non erant tempora. Non ergo possumus dicere fuisse ali-

quod tempus quando Deus nondum aliquid fecerat. Quomodo enim erat

tempus quod Deus non fecerat, cum omnium temporum ipse sit fabricator?

166 ANNA ESCHER DI STEFANO

tosto ci deve orientare verso un'interpretazione simbolica. Cioè,

anziché dare a quel principium un significato temporale, è neces-

sario considerarlo come identico al Verbo, per mezzo di cui furono

fatte tutte le cose (6).

Proprio per negare il carattere della temporalità all'azione

creatrice di Dio, Agostino nega che questa si sia svolta in sei

giorni, affermando che le parole del Vecchio Testamento debbono

interpretarsi in senso simbolico (7). Dio creò la realtà in un solo

istante (8) e « fecit quae futura essent, ut non temporaliter faceret

temporalia, sed ab eo facta currurent tempora » (9).

Et si tempus cum coelo et terra esse coepit, non potest inveniri tempus quo

Deus nondum fecerat coelum et terram. Cum autem dicitur. Quid ei placuit

subito sic dicitur, quasi aliqua tempora transierint, quibus Deus nihil

operatus est. Non enim transire poterat tempus, quod nondum fecerat

Deus; quia non potest esse operator temporum, nisi qui est ante tem-

pora » (Ibid., coli. 174-5).

(6) « His respondemus, Deum in principio fecisse coelum et terram,

non in principio temporis, sed in Christo, cum Verbum esset apud Pa-

trem, per quod facta et in quo facta sunt omnia (Joan., I, 1, 3,) » (Ibid.,

col. 174).

(7) « Quanquam ergo sine productione temporis faciat Deus, cui su-

best posse cum volet; ipsae tamen naturae temporales motus suos tempo-

raliter peragunt. Ita ergo fortasse dictum est, Et facta est vespera, et

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factum est mane dies unus, sicut ratione prospicitur ita fieri debere aut

posse, non ita ut fit temporalibus tractatibus. Nam in ipsa ratione opera-

tionem contemplatus est in Spiritu Santo, quo dixit, Qui manet in aeter-

num creavit omnia simul (Eccl., XVIII, 1): sed commodissime in ilio libro,

quasi morarum per intervalla factarum a Deo, rerum digesta narratio est,

ut ipsa dispositio, quae ab infirmioribus animis contemplatione stabili vi-

deri non poterat, per hujusmodi ordinem sermonis exposita quasi istis ocu-

lis cerneretur » (De Genesi ad litteram, cap. VII, col. 231).

(8) « Neque enim et ipsa gradibus attingit, aut tanquam gressibus per-

venir Quapropter quam facilis ei efficacissimus motus est, tam facile Deus

condidit omnia; quoniam per illam sunt condita: ut hoc quod nunc vide-

mus temporalibus intervallis ea moveri ad peragenda quae suo cuique

generi competunt, ex illis insitis rationibus veniat, quas tanquam semina-

liter sparsit Deus in ictu condendi, cum dixit, et facta sunt; mandavit, et

creata sunt (Psai., XXXII, 9) ». (Ibid., l. IV. cap. XXXIII, coi. 318). E anche

« Imo vero et prius atque posterius per sex dies quae commemorata sunt

facta sunt, et simul omnia facta sunt; quia et haec Scriptura, quae per me-

moratos dies narrat opera Dei, et illa quae simul eum dicit fecisse omnia,

verax est; et utraque una est, quia uno Spiritu veritatis inspirante conscri-

pta est » (Ibid., cap. XXXIV, col. 319).

(9) Ibid., cap. XXXV, col. 320.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 167

«Terra autem erat invisibilis et incomposita » (10).

I Manichei osservano che Dio non poteva fare in principio il

cielo e la terra, dato che la terra era già invisibile e incomposita.

Poiché essi « volunt Scripturas divinas prius vituperare quam

nosse, etiam res apertissimas non intelligunt» (11).

Ora è chiaro, dice Agostino, che Dio fece sì il cielo e la terra,

ma questa, prima che Egli ne differenziasse le parti, si presen-

tava « invisibilis et incomposita », cioè in maniera del tutto in-

forme (12).

(10) De Genesi contra Manicheos, l. I, cap. III, col. 176.

(11) Ibid.

(12) « Ego vero, Domine, si totum confitear tibi ore meo et calamo meo,

quidquid de ista materia docuisti me, cujus antea nomen audiens et non in-

telligens narrantibus mihi eis qui non intelligerent, eam cum speciebus

innumeris et variis cobitabam; et idea non eam cogitabam; foedas et hor-

ribiles formas perturbatis ordinibus volvebat animus, sed formas tamen; et

informe appellabann, non quod careret forma, sed quod talem haberet, ut,

si appareret, insolitum et incongruum aversaretur sensus meus, et contur-

baretur infirmitas hominis. Verum autem illud quod cogitabam, non pri-

vatione omnis formae, sed comparatione formosiorum erat informe: et sua-

debat vera ratio, ut omnis formae qualescumque reliquias omnino detra-

herem, si vellem prorsus informe cogitare; et non poteram. Citius enim non

esse censebam, quod omni forma privaretur, quam cogitabam quiddam

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inter formatum et nihil, nec formatum nec nihil, informe prope nihil. Et

cessavit mens mea interrogare hinc spiritum meum plenum imaginibus

formatorum corporum, et eas pro arbitrio mutantem atque variantem; et

intendi in ipsa corpora, eorumque mutabilitatem altius inspexi, qua desi-

nunt esse quod fuerant, et incipiunt esse quod non erant; eumdemque tran-

situm de forma in formam per informe quiddam fieri suspicatus sum, non

per omnino nihil; sed nosse cupiebam. non suspicari. Et si totum tibi con-

fiteatur vox et stilus meus, quidquid de ista quaestione enodasti mihi, quis

legentium capere durabit? Nec ideo tamen cessabit cor meum dare tibi

honorem et canticum laudis de iis quae dictare non sufficit. Mutabilitas

enim rerum mutabilium ipsa capax est formarum omnium in quas mutan-

tur res mutabiles. Et haec quid est? Numquid animus? Numquid corpus?

numquid species animi vel corporis? Si dici posset, Nihil aliquid, et, Est

non est, hoc eam dicerem; et tamen jam utcumque erat, ut specie caperet

istas visibiles et compositas » (Confessiones, l. XII, cap. VI, coli. 827-8). E

altrove : « Et tamen hoc paene nihil, in quantum non omnino nihil erat... »

(Ibid., cap. XV, col. 834); « illud autem prope nihil erat, quoniam adhuc

omnino informe erat; jam tamen erat quod formari poterat » (Ibid., cap.

VIII, col. 829). A questo proposito il Gilson osserva : « Dieu a créé la

Terre, c'est-à-dire une matière absolument informe. Par ces mots, on ne

veut pas signifier que Dieu ait d'abord créé une matière pour la revétir

168 ANNA ESCHER DI STEFANO

La materia viene definita come cielo e terra, non perché que-

sti vi fossero già (13), — infatti è scritto che il cielo fu fatto

dopo — ma perché essi vi erano potenzialmente contenuti, «quasi

semen coeli et terrae, cum in confuso adhuc esset coeli et terrae

materia; sed quia certum erat inde futurum esse coelum et ter-

ram, jam et ipsa materia coelum et terra appellata est» (14).

Ma a questo punto noi obbiettiamo: che caratteri può avere

questa materia del tutto informe di cui parla Agostino? E' conce-

pibile un quid «prope nihil», che non possieda alcuna specifica-

zione? Se essa si differenzia dalla forma, deve pure avere, in quanto

materia, una sua determinazione, e allora non la si può certo con-

siderare amorfa (15).

reste dans le temps, puisque tout fut créé simultanément, mais elle la pré-

cède dans l'ordre de la causalité. La voix n'existe pas à part des mots

articulés, qui en sont pour ainsi dire la forme, et pourtant elle s'en distin-

gue et les sopporte; de méme, la matière créée par Dieu sous le nom de

Terre, sans ètre antérieure à ses formes dans le temps, les précède néan-

moins comme condition de leur subsistance. Ainsi complétement vide de

formes, elle ne saurait ètre le théàtre de ces variations distinctes sans le

quelles nous avons vu que le temps est impossibile; pas plus que le Ciel,

c'est-à-dire des Anges, la matière première ne relève donc de l'ordre du

temps; elle ne compte pas dans le nombre des jours de la création » (Gil-

son, op. cit, p. 258).

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(13) « Quemadmodum si semen arboris considerantes, dicamus ibi esse

radices, et robur et ramos, et fructus, et folia; non quia jam sunt, sed quia

inde futura sunt » (De Genesi contra Manichaeos, l. I, cap. VII, col. 178).

(14) IbW.

(15) A questo proposito dice I'Ottaviano: «Tanto più che l'opposi-

zione della materia prima e della forma sostanziale è opposizione di qua-

lità radicalmente eterogenee, in quanto funge come opposizione di materia

a spirito. Nella coppia materia-forma, cioè già nei componenti come tali del

sinolo, che cosa è la forma quale parte essenziale dell'ente materiale, a cui

la materia si oppone, se non spirito? E quindi la materia prima, se è ap-

punto materia e non spirito, ha una forma propria, la forma o qualità di

materia opposta alla forma o qualità di spirito... La materia informe,

quindi, intesa non come mostruosa confusione di varie forme, ma come ele-

mento privo del tutto di forme, diventa qualcosa tra il « fomatwn » e il

« nihil », cioè « nec formatum nec nihil », addirittura « prope nihil ». Ma il

prope nihil è il nulla. E se la si volesse riportare al concetto astratto di

mutabilitas come « capax formarum omnium, in quas mutantur res muta-

biles », sfumerebbe sempre come elemento reale (sia corporeo che spiri-

tuale), riducendosi ad un'astrazione contraddittoria, cioè ad un « nihil ali-

quid » o ad un « est non est » in ogni caso all'assurdo. Il concetto di un

elemento assolutamente informe nasce manifestamente da un inganno dei

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 169

Inoltre questa materia informe ha, per Agostino, in potenza

tutte le cose. Ma è concepibile la nozione di potenza? Essa era

già stata usata da Aristotele per risolvere il problema del divenire,

evitando cosi lo spinoso passaggio dal nulla all'essere : « Potens

enim est, quod primo potest, propterea quod contingit operari :

utputa aedifkativum, quod potest aedificare; et visivum, quod po-

test videre; et visibile, quod potest videri... Dico autem hoc, quod

eo quidem homine, qui actu jam est, et frumento, et vidente, prior

tempore est materia, et sperma, et visivum, quae potentia quidem

homo et frumentum et videns sunt, actu Vero nondum » (16). Ari-

stotele aveva anche posta la riduzione della potenza alla materia :

« Materia est potentia, quia progredì potest ad speciem : quum

vero actu, tunc in specie est » (17). Or qui, dice I'Ottaviano, si pone

il problema : ha senso parlare della potenza come di un modo

di essere intermedio tra l'atto o essere e il nulla o non essere? Il

principio del terzo escluso nega la possibilità di una via di mezzo

tra essere e non essere. E' infatti evidente, continua l'Ottaviano,

che la nozione di potenza è tratta, per l'aspetto fisico di essa dalla

fisica, per cui noi vediamo ad es. il legno diventare cenere; e per

l'aspetto attivo dalla biologia, per cui vediamo ad es. il seme di-

ventare pianta, o diciamo che l'energia del braccio solleva un

peso. Ambedue gli aspetti sono stati trasportati senz'altro in sede

metafisica, intendendo questi processi come passaggi dalla potenza

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all'atto : il legno diventa cenere, perché ha la potenza di diventare

cenere, ossia perché la cenere è in esso in potenza, ecc. Ora è

manifesto, dice l'Ottaviano, che una siffatta trasposizione si ri-

duce, in sostanza, ad una spiegazione del fenomeno con se stesso,

idem per idem : noi non sappiamo in quale modo e mercè quale

occulto processo metafisico il legno diventi cenere e il seme di-

venti pasta, ecc. Assumere il fatto per spiegazione significa non

dare una spiegazione del fatto. E' facile equivocare qui tra la

mera possibilità logica, per cui ciò che è era « possibile », con la

sensi e della fantasia, che nel progressivo acuirsi dell'intuizione sensibile

inducono a considerare ad un certo punto, venuta meno la capacità rap-

presentativa dell'immaginazione come amorfo e informe quanto in sé è an-

cora differenziato. L'assolutamente indifferenziato non è che il nulla » (C.

Ottaviano, Metafisica dell'essere parziale. Rondinella, Napoli, 1954. pp. 335

e 338).

(16) Aristotele, Metaph., XIII, cap. 8, 2-3, pp. 569-70.

(17) Ibid., VIII, cap. 8, 8, p. 570.

170 ANNA ESCHER DI STEFANO

possibilità reale, che determina il fenomeno all'atto di essere o

all'essere in atto, cioè con la spiegazione del fenomeno stesso. La

possibilità reale, la potenza è un duplicato inesistente della pos-

sibilità logica. In definitiva conclude l'Ottaviano, o la potenza è

essere, e allora è atto e non c'è movimento; o è non essere, e allora

non è affatto e non c'è movimento. Non si vede come essa possa

essere un modo di essere, anteriore all'essere o atto, cioè diverso

dall'essere o atto : diremo forse che l'essere è anteriore a se stesso

e l'atto anteriore all'atto? E dire che ciò che precede l'essere è un

modo di essere non significa nulla, perchè un modo di essere an-

teriore all'essere non è che il nulla (18).

«Et tenebrae erant super abyssum» (19).

Ma allora, dicono i Manichei, Dio prima che creasse la luce,

era nelle tenebre? Sono essi nelle tenebre dell'ignoranza, esclama

Agostino, poiché non comprendono la Luce nella quale Dio era

prima che facesse questa luce che noi percepiamo coi sensi : « et

ideo istum solem, quem pariter non solum cum bestiis majoribus,

sed etiam cum muscis et vermiculis cernimus, illi sic colunt ut

particulam dicant esse lucis illius in qua habitat Deus » (20). Essi

non intendono la diversità della luce divina, che è « lumen ve-

rum» e non illumina tutti gli uomini, ma soltanto «pura corda

eorum qui Deo credunt » (21) : Dio è luce, luce di verità; quella

stessa luce che sentono nell'anima tutti coloro che hanno il dono

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della fede e «ab amore visibilem rerum et temporalium se ad

ejus praecepta implenda convertunt » (22). Però, tutti gli uomini,

se vogliono, possono possedere questa luce, poiché essa illumina

tutta l'umanità.

Inoltre Dio disse : E la luce sia; ma non perché le tenebre fos-

sero qualcosa, avessero una propria esistenza, in quanto esse sono

soltanto assenza di luce, così come il silenzio è assenza di ogni

suono, la nudità assenza di ogni vestimento, ecc. Per cui le do-

mande « dove erano queste tenebre sopra l'abisso, prima che Dio

facesse la luce? Chi le aveva create? o, se nessuno le aveva create,

(18) C. Ottaviano, op. ctt.. pp. 285-6.

(19) De Genesi contra Manichaeos, l. I, cap. III, col. 176.

(20) Ibid.

(21) Ibid.

(22) Ibid.

V

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 171

esse erano forse eterne? » sono sciocche e dipendono dalla corporea

visione che i Manichei hanno delle cose : « quia ipsi fabulis suis

decepti crediderunt gentem esse tenebrarum, in qua et corpora et

formas et animas in illis corporibus fuisse arbitrantur, ideo putant

quod tenebrae aliquid sint: et non intelligunt non sentiri tene-

bras, nisi quando non videmus, sicut non sentitur silentium, nisi

quando non audimus. Sicut autem silentium nihil est, sic et te-

nebrae nihil sunt. Sicut autem isti dicunt gentem tenebrarum

contra lucem Dei pugnasse; sic potest et alius similiter venus di-

cere, gentem silentiorum contra vocem Dei pugnasse. Sed illas va-

nitates modo non suscepimus refellere atque convincere » (23).

« Et Spiritus Dei superferebatur super aquam » (24).

I Manichei interpretano questo verso nel senso che l'acqua

contenesse lo spirito di Dio; essi « totum conantur perversa mente

pervertere, et excaecantur malitia sua » (25). Se ad es., noi di-

ciamo « superfertur sol super terram » (26), non vogliamo certo

intendere che la terra contenga il sole, ciò nonostante, dice Ago-

stino, non allo stesso modo « Spiritus Dei superferebatur super

aquam... sed alio modo quem pauci intelligunt... per potentiam in-

visibilis sublimitatis suae » (27). I Manichei obbiettano inoltre

come potesse esistere quest'acqua, dato che non è scritto che Dio

l'abbia creata. Ma Agostino osserva che dicendo che Dio creò il

cielo e la terra,.si vuole intendere che Egli creò tutto l'universo, e

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quindi anche l'acqua : « ideo autem nominibus visibilium rerum

haec appellata sunt, propter parvulorum infirmitatem, qui minus

idonei sunt invisibilia comprehendere » (28).

« Et dixit Deus, fiat lux. Et facta est lux. Et vidit Deus lucem

quia bona est» (29).

I Manichei ribattono : o Dio non conosceva la luce o non co-

nosceva il bene. E Agostino risponde : « Miseri homines, quibus

displicet, quod Deo placuerunt opera sua, cum videant etiam ho-

minem artificem, verbi gratia, lignarium fabrum, quamvis in com-

paratione sapientiae et potentiae Dei pene nullus sit, tamen tam

(23) Ibid., cap. IV, col. 177.

(24) Ibid., cap. V, col. 177.

(25) Ibid.

(26) Ibid.

(27) Ibid.

(28) Ibid., col. 178.

(29) Ibid., cap. IV, col. 176.

172 ANNA ESCHER DI STEFANO

diu lignum caedere atque tractare dolando, asciando, planando

vel tornando atque poliendo quosque ad artis regulas perducatur,

quantum potest, et placeat artifici suo. Numquid ergo quia placet

ei quod fecit, ideo non noverat bonum? Prorsus noverar intus

in animo, ubi ars ipsa pulchrior est, quam illa quae arte fabrican-

tur. Sed quod videt artifex intus in arte, hoc foris probat in opere,

et hoc est perfectum quod artifici suo placet. Vidit ergo Deus lu-

cevi quia bona est : quibus verbis non ostenditur eluxisse Deo in-

solitum bonum, sed placuisse perfectum» (30). A Dio, infatti,

niente può essere sconosciuto; Egli tutto conosce, ché se qualche

cosa ignorasse, non sarebbe Dio.

« Divisit Deus inter lucem et tenebras et vocavit Deus diem

lucem et tenebras vocavit noctem » (31).

Qui non vien detto, contrariamente a quanto pensano i Ma-

nichei, che Dio abbia fatto le tenebre. Infatti, le tenebre — come

abbiamo già detto — niente sono in sé, esse non esistono, come

non esiste il silenzio. Tuttavia, così come noi distinguiamo il

suono dal silenzio, allo stesso modo possiamo distinguere la luce

dalle tenebre. Il versetto pone in evidenza soltanto che Dio fece

una discriminazione tra la luce e le tenebre. E quindi l'accusa

manichea, cade.

« Facto est «esperà, et factum est mane dies unus » (32).

Dicono i Manichei : « Quasi a vespera dies coeperit » (33). Ma

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le due frasi indicano una successione di tempo, dice Agostino.

«Non intelligunt operationem illam qua lux facta est, et divisum

est inter lucem et tenebras, et vocata est lux dies, et tenebrae nox,

hanc ergo totum operationem non intelligunt ad diem pertinere :

post hanc autem operationem tanquam finito die facta est ve-

spera. Sed quia etiam : nox ad diem suum pertinet, non dicitur

transisse dies unus nisi etiam nocte transacta cum factum est

mane : sic deinceps reliqui dies computantur a mane usque in

mane» (34).

« Et dixit Deus, germinet terra herbam pabul, ferentem semen

secundum suum genus et similitudinem, et lignum fructiferum

(30) Ibid., cap. VIII, col. 179.

(31) Ibìd., cap. IX, col. 180.

(32) Ibid., cap. X, col. 180.

(33) Ibid.

(34) Ibid.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 173

faciens fructum, cujus semen sit in se secundum suam similitudi-

nem. Et sic est factum » (35).

Dio, dicono i Manichei, comandò all'erba e all'albero frutti-

fero di nascere dalla terra, ma chi comandò a tante erbe velenose

e spinose che danneggiano i pascoli, e a tanti alberi, che non pro-

ducono alcun frutto? (36).

I Manichei, insomma, presentano la solita domanda concer-

nente la conciliazione tra Dio, eminentemente buono e giusto,

creatore di tutte le cose, e le cose create, che non sempre sembrano

rispondere ad un canone di giustizia e perfezione.

Agostino supra questa obbiezione ricorrendo al peccato origi-

nale, in conseguenza del quale la terra fu maledetta; è da questa

maledizione che hanno origine le erbe velenose e gli alberi in-

fruttiferi (37).

« Et dixit Deus, fiant sidera in firmamento coeli, sic ut luceant

super terram, et dtvidant inter diem et noctem et sint in signa, et

in tempora, et in dies, et in annos, et sint in splendorem in fir-

mamento coeli, sic ut luceant super terram. Et sic est factum. Et

fecit Deus duo luminaria, majus et minus : luminare majus in in-

choationem noctis, et stellas. Et posuit Mas Deus in firmamento

(35) lbid., cap. XIII, col. 182.

(36) « Quid opus erat ut tam multa ammalia deus faceret, sive in

aquis, sive in terra, quae hominibus non sunt necessaria? multa etiam per-

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niciosa sunt et timenda. Sed cum ista dicunt non intelligunt quemadmodum

omnia pulchra sunt conditori et artifici suo qui omnibus utitur ad guber-

nationem universitatis, cui summa lege dominatur » (lbid., cap. XVI,

col. 185).

(37) e Herbae autem venenosae ad poenam, vel ad exercitationem mor-

talium creatae sunt; et hoc totum propter peccatum, quia mortales post

peccatum facti sumus. Per infrutuosas vero arbores insultatur hominibus,

ut intelligant quam sit erubescendum sine fructu honorum operum esse in

agrp Dei, hoc est in Ecclesia; et timeant ne deserat, eos Deus, quia et ipsi

in agris suis infructuosas arbores deserunt, nec aliquam culturam eis adhi-

bent. Ante peccatum ergo hominis non est scriptum, quod terra aliud pro-

tulerit nisi herbam pabuli et ligna fructuosa: post peccatum autem vide-

mus multa horrida et infructuosa de terra nasci, credo propter eam causam

quam diximus. Sic enim dicitur ad primum hominem postequam peccavit:

Maledicta erit terra tibt in omnibus operibus tuis; in tristitia et gemitu

edes ex ea omnibus diebus vitae tuae: Spinas et tribulos ejtciet libi, et

edes pabulum agri tui; in sudore vultus tui edes panem tuum, donec rever-

taris in terram, de qua sumptus es; quia terra et, et in terram ibis » (lbid.,

cap. XIII, col. 182).

174 ANNA ESCHER DI STEFANO

coeli, sic luceant super terram et praesint diei et noeti, et dividant

inter diem et noctem. Et vidit Deus quia bonum est. Et facta est

vespera, et factum est mane dies quartus » (38).

Se il sole, la luna e le stelle sono stati fatti il quarto giorno,

i primi tre giorni non esistevano, e quindi non esistevano neanche

il giorno e la notte.

A questa obbiezione Agostino risponde che gli astri non sono

che dei segni per riconoscere il giorno e distinguerlo dalla notte;

giorno e notte poi hanno una loro vita, a prescindere dalla luna,

dal sole o dalle stelle.

E lo stesso si può dire per la frase : « Et sint in signa et in

tempora». Infatti, secondo l'interpretazione manichea, i primi tre

giorni sarebbero stati senza tempo. Per Agostino, invece, le stelle

servono a distinguere i tempi e a permetterne agli uomini la co-

noscenza.

« Et dixit Deus, ejiciant aquae reptilia animarum vivorum et

volatilia volantia super terram sub firmamento coeli. Et sic factum

est. Et fecit Deus cetos magnos, et omnem animam animalium et

serpentium quae ejecerunt aquae secundum uniuscuiusque genus

et omne genus volatile pennatum secundum genus » (39).

E così dall'acqua provengono non soltanto gli animali che

vivono in essa, ma anche quelli che volano nello spazio; cosa per

i Manichei evidentemente contraddittoria (40). Ma questo spazio,

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ribatte Agostino, « cum aquis soleri deputari » (41). Infatti sulla

vetta dell'Olimpo, che per l'altitudine non è circondata da nubi,

né vi soffia il vento, si dice che non vi siano neanche uccelli, per

cui « non itaque immerito non solum pisces et caetera quae in

aquis sunt animalia, sed etiam aves de aquis natas esse, fedelissima

Scriptura commemorat; quia per istum aerem volare possunt, qui

de maris et terrae humoribus surgit» (42).

(38) Ibid., cap. XIV, coli. 182-3.

(39) Ibid., cap. XV, col. 184.

(40) « Hic solent reprehendere, quaerentes vel potius calumniantes,

quare animalia non solum ea quae in aquis vivunt, sed etiam ea quae in

aere volitant, et omnia pennata de aquis nata scriptum sit. Sed sciant

omnes quos haec movent, istum aerem nebulosum et humidum in' quo aves

volant, a doctissimis hominibus qui haec diligenter inquirunt, cum aquis

solere deputari » (Ibid.).

(41) Ibid.

(42) Ibid.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 175

Non si può certo definire scientifica la spiegazione di Agostino;

essa, però, non è in mala fede, dettata dallo specioso desiderio di

giustificare ancora una volta la Scrittura, ma è ingenuo frutto

della mentalità del suo tempo.

« Et dixit Deus : Faciamus hominem ad imaginem et similitu-

dinem nostram; et habeat potestatem piscium maris et volatilium

coeli, et omnium pecorum et ferarum et omnis terrae, et omnium

reptilium, quae super terram repunt » (43).

I Manichei ribattono vivacemente che questa frase è un in-

sulto alla grandezza di Dio, e chiedono se Dio abbia mani, e denti

e barba. Agostino risponde che la Scrittura si esprime in maniera

simbolica, « cum Deus insinuetur audientibus parvulis » (44). E

ciò viene detto non solo nel Vecchio Testamento, ma anche nel

Nuovo. La « similitudo » di cui parlano le Scritture non riguarda

il corpo, ma lo spirito, così come in base allo spirito l'uomo è su-

periore agli altri animali : appunto per questo non importa che

molte fiere riescano ad uccidere o a molestare l'uomo. A questo

punto, però, Agostino, invece di ribadire che si tratta di una supe-

riorità spirituale e non fisica, afferma che la similitudine di cui

parla la Scrittura non ha come secondo termine l'uomo nel suo

stato attuale, ma l'uomo prima del peccato originale, in seguito al

quale esso fu condannato alla morte, e perse quella perfezione

che rivelava la somiglianza con Dio : « Sed si damnatio ejus tan-

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tum valet, ut tam multis pecoribus imperet : quamvis enim a

multis feris propter fragilitatem corporis possi occidi, a nullis

tamen domari potest, cum ipse tam multas et prope omnes domet :

si ergo haec hominis damnatio tantum valet, quid de regno ejus

cogitandum est, quod ei renovato et liberato divina voce promit-

titur?» (45).

« Masculum et feminam fecit illos; et bene dixit eos Deus

dicens, crescite et multiplicamini, et generate et replete ter-

ram » (46).

La congiunzione si deve intendere in maniera spirituale o car-

nale? Prima del peccato, risponde Agostino, la congiunzione era

casta, dopo carnale.

(43) Ibid., cap. XVII, col. 186.

(44) Ibid.

(45) Ibid., cap. XVIII, col. 187.

(46) Ibid., cap. XIX, col. 187.

176 ANNA ESCHER DI STEFANO

-I

Quest'argomento della proibizione manichea del matrimonio

e della procreazione come fonte di male, lo ritroviamo nel « De

moribus Ecclesiae catholicae et Manìchaeorum » e nel « Contro,

Adimantum». In quest'opera Agostino riferisce che, secondo i

Manichei, sarebbe contraddittoria la frase del Vangelo « omnis qui

reliqueit domum, aut uxorem, aut parentes, aut fratres, aut filios

propter regnum coelorum, centies tantum accipiet in hoc tempore,

et in futuro saeculo possidebit vitam aeternam » (47), con ciò che

è scritto nella Genesi.

Ora è chiaro, risponde Agostino, che il Vecchio Testamento

non può affermare la dissolubilità del matrimonio; esso, retta-

mente inteso, vuol significare che l'uomo deve abbandonare la

moglie, i parenti ecc., solo nel caso che questo sia necessario per

il regno dei cieli. Ma non sempre lo è. Infatti, dice l'apostolo : « si

quis fidelis habet uxorem infedelem, et haec consentit habitare

cum illo, non dimittat eam » (48).

« Requies diei septimi per allegoria-m » (49).

I Manichei deridono la testimonianza del Vecchio Testamento,

secondo cui Dio, creato il cielo e la terra e fatte tutte le cose,

riposò il settimo giorno, santificandolo. E chihedono perché mai

Dio avesse bisogno di riposo : forse perché il lavoro dei giorni pre-

cedenti lo aveva stancato? E mettono quel versetto in correlazione

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con quest'altro del Nuovo Testamento : « Pater meus usque nunc

operatur» (Joan., V, 17), cercando di mostrare come essi si con-

traddicano. Ma i Manichei, ribatte Agostino, cadono nella stessa

visione materialistica di coloro cui Dio si rivoltò perché non os-

servavano il giorno di riposo, « illi enim carnaliter exsecrando,

et isti carnaliter observando, sabbatum non noverunt» (50). I

Manichei non comprendono come Dio abbia voluto dire che siamo

noi a dover usufruire del riposo, dopo aver compiuto il nostro la-

voro, santificando così il sabato.

Questa critica viene ripresa nel Contra Adimantum, in cui

Agostino aggiunge che la frase «in septimo requievit ab eisdem

omnibus operibus quae fecerat » (51) non si deve intendere nel

senso che Dio cessò del tutto la Sua opera, ma nel senso che non

(47) Matth., XIX, 29; Marc, X, 29-30; Lue. XVIII, 29-30.

(48) I Cor.,, VII, 12.

(49) De Genesi contra Manichaeros, l. I.

(50) Ibìd.

(51) Contra Adimantum, l. I, cap. II, col. 131.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 177

continuò la creazione, pur continuando la sua opera di « admi-

nistratio ».

E' scritto nella Genesi che Dio maledisse Caino fratricida e lo

condannò a lavorare la terra che gli avrebbe dato solo sterili frutti.

Dicono i Manichei che ciò è contrario al passo del Vangelo, in

cui è detto che il Signore parlò così ai suoi discepoli : « Nolite co-

gitare de crostino, non crastinus dies ipse cogitabit sibi. Respi-

cite volatilia coeli, quia non seminant, neque metunt, neque col-

ligunt in horrea » (52). Come se Caino, che merita quella pena, po-

tesse essere paragonato ai discepoli di Cristo, e come se dalla sua

colpa potesse derivarne una pena anche per essi.

« Sed non prius quod spirituale est, sed quod animale, sicut

scriptum est : Factus est primus Adam in animam viventem, no-

vissimus Adam in spiritum vivificantem » (53).

I Manichei osservano riguardo a questo passo che la natura

di Dio dovrebbe interpretarsi come mutevole « ne forte si proba-

retur his testimoniis animam factam esse, non deessent qui dice-

rent spiritum hominis non esse factum, et ipsum arbitrarentur

esse naturam Dei, et in ipsum dicerent partem Dei esse conver-

santi, cum illa insufflatio Dei facta est. Quod sana doctrina simili-

ter respuit, quia et ipse spiritus hominis cum aliquando errat, et

aliquando prudenter sapit, mutabilem se esse clamat: quod nullo

modo de natura Dei fas est credere. Non autem potest majus si-

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gnum esse superbiae, quam ut dicat se humana anima hoc esse

quod Deus est, cum adhuc sub tantis vitiorum et miseriarum moli-

bus gemat » (54).

« Propter hoc relinquet homo patrem et matrem, et adhae-

rébit uxori suae; et erunt duo in carne una» (55); « Ego autem dico

in Christo et in Ecclesia» (56); « Ego a patre exivi, et veni in hunc

mundum» (57).

Non che, naturalmente, Dio sia contenuto in alcun luogo, ma

soltanto che Egli si fece carne, e scese tra gli uomini. Cosa che non

porta un mutamento nella natura di Dio, ma soltanto implica l'as-

sunzione di una natura inferiore. Cristo non apparve in tutta

(52) Matth., VI. 34, 26.

(53) I Cor., XV, 44-46.

(54) De Genesi contra Manichaeos, l. II. cap. VIII, col. 202.

(55) Ibid., cap. XXIV, col. 215.

(56) Ibid.

(57) Ibid.

12

178 ANNA ESCHER DI STEFANO

quella dignità con la quale siede presso il Padre, in quanto il

cuore degli uomini non era abbastanza puro da esser degno di ve-

derlo.

Agostino confuta infine le tesi dei Manichei riguardo il male,

la prescienza divina, la necessità del peccato, concludendo che il

serpente di cui parla la profezia, è il veleno degli eretici, e non

già, come questi pensano, Cristo. Infatti nessuno ha mai promesso

con più iattanza dei Manichei la scienza del bene e del male (58),

iattanza che abbiamo visto rivelarsi nelle accuse rivolte al Vec-

chio Testamento.

Il « De Genesi contra Manichaeos » così si conclude e la cri-

tica rivolta alle interpretazioni manichee viene ripresa nel Con-

tra Adimantum (59), in cui ci occuperemo naturalmente solo di

quei passi che non coincidono con quelli del De Genesi contra

Manichaeos.

Sono in contrasto, secondo l'opinione manichea, i seguenti due

passi : « Honora patrem tuum et matrem tuam » (60). « Ibo pri-

mum ut sepeliam patrem meum; respondit : sine mortuos, mortuos

tuos sepeliant; tu autem veni, et annuntia regnum Dei» (61).

Il rispetto ai parenti, risponde Agostino, è un comandamento

di Dio, ciò nonostante quando questo è di impedimento al divino

amore, allora bisogna saper rinunziare anche agli affetti più cari,

per un amore che supera di gran lunga ogni cosa umana, e che

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ci eleva al di sopra della nostra stessa natura.

Nel Vecchio Testamento troviamo scritto : « Ego sum Deus

zelans, tribuens filiis tertiae et quartae generationis parentum pec-

cata qui me oderunt » (62); e nel Vangelo : « Non solum septies

peccanti fratri dimittanedum sed etiam septuagies septies » (63),

(58) « Sed nihil vehementius istos designat et notat, quam quod dicit

serpens : Non morte moriemini: sciebat enim Deus quoniam qua die ede-

ritis, aperientur oculi vestri. Sic enim isti credunt, quod serpens ille

Christus fuerit, et deum nescio quem gentis tenebrarum, sicuti affirmant,

illud praeceptum dedisse confingunt, tanquam invideret hominibus scien-

tiam boni et mali» (Ibid., cap. XXVI, col. 217).

(59) Adimanto era uno dei migliori discepoli di Mani, vissuto intorno

al 400, e autore di uno scritto polemico in cui si mettono in rilievo alcune

contraddizioni tra il Vecchio e il Nuovo Testamento: proprio a questo

scritto si riferisce l'opera di Agostino.

(60) Exod., XX, 5.

(61) Lue, IX, 59-60.

(62) Exod., XX, 5.

(63) Matth., XVIII, 22.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 179

frasi che, secondo i Manichei, si escludono a vicenda. Eppure, dice

Agostino, se io chiedessi loro quale Dio non punisce i propri ne-

mici, senza dubbio li vedrei turbarsi, giacché essi stessi sosten-

gono che Dio prepara un eterno carcere alla gente delle tenebre.

Dio, in quanto giustizia infinita deve condannare i peccatori. Ma

bisogna distinguere quali siano degni di condanna, dice Ago-

stino, « qui in eadem perversitate parentum perseverare volue-

runt» (64) ed anche «qui eum oderunt, non qui ei per poeniten-

tiam reconciliantur » (65). Cioè saranno condannati coloro che

persevereranno nei peccati dei padri e coloro che odieranno Dio,

non quelli che si pentiranno e per mezzo della penitenza potranno

di nuovo acquistare la grazia divina.

E' scritto nell'Antico Testamento : « Oculum per oculo, denterà

per dente » (66). I Manichei osservano che queste parole si appon-

gono allo spirito di tutta la predicazione di Gesù, che proclamava

l'abolizione della vendetta, e insegnava agli uomini la legge del-

l'amore : « Audistis quia dictum est antiquis, oculum pro oculo,

dentem pero dente; ego autem dico vobis, non resistere inalo; sed

si quis te percusserit in maxillam, praebe UH et alteram; et qui-

cumque voluerit tecum judicio contendere, et tunicam tuam au-

ferre, dimitte ilH et palliam » (67).

Agostino spiega la diversità di intendimenti delle due conce-

zioni togliendo alla prima frase quel valore assolutamente vendi-

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cativo che di solito le si attribuisce, e considerando la frase « ocu-

lum pro oculo, dentem prò dente » come una limitazione che Dio

diede all'uomo per frenare la sua sete di vendetta. Scrive Ago-

stino : « Nam quoniam primo carnales homines ardebant multo

amplius se vindicare, constitus est eis primus lenitatis gradus, et

injurias acceptae mensuram nullo modo dolor vindicantis exce-

deret» (68).

Abbiamo poi la seguente frase : « Ne adoraveritis deos alie-

nos » (69), che secondo i Manichei sarebbe contraria al concetto

di Dio come « Pater justus ». Agostino commenta questa loro opi-

nione con una sola frase, che basta però a farci sentire l'assur-

(64) Contra Adimantum, l. I, cap. VII, col. 138.

(65) Ibid.

(66) Earod., XXI, 24.

(67) Matth., V, 38^0.

(68) Contra Adimantum, l. I, cap. VIII, col. 139.

(69) Exod., XX, 5.

180 ANNA ESCHER DI STEFANO

dita dell'affermazione manichea : « Quasi non sit dicendus Deus

justus nisi nos deos alienos adorare permittat» (70).

« Non est manducandum sanguinem, quod anima sit carnis

sanguis » (71).

I Manichei oppongono questo passo a quello del Vangelo :

« Non esse timendos eos qui occidunt corpus, animae autem nocere

non possuntì> (72), e a quanto dice l'apostolo Paolo: a Quia caro

est sanguis regnum Dei non possidebunt » (73), e cioè che non si

debbono temere coloro che uccidono il corpo, giacché costoro non

possono nuocere all'anima. I Manichei pensano che se l'anima non

è che sangue (74), è falso ciò che è detto dal Vecchio Testamento

e dall'apostolo Paolo, poiché considerata esattamente la prima

frase, si dovrà ammettere sia che gli uomini possano nuocere al-

l'anima, sia che l'anima non potrà far parte del regno di Dio. A

questa calunnia bisogna rispondere — dice Agostino — chiedendo

ai Manichei di mostrare in qual luogo del Vecchio Testamento

sia scritto che l'anima sia sangue. In quanto se ciò non è detto

dell'anima umana, non riguarda noi sapere se l'anima della pecora

possa essere uccisa o possa possedere il regno dei cieli. L'errore

dei Manichei è ancora una volta errore di interpretazione; infatti

se dovessimo intendere letteralmente che il sangue è anima, ne

verrebbe come conseguenza che anche gli animali hanno un'anima;

e allora o consideriamo delitto uccidere e bastonare gli animali, o

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dobbiamo ammettere che non è delitto uccidere l'uomo e persino

gli stessi parenti. Questi sono gli assurdi cui porta l'interpretazione

letterale della frase : « non est manducandum sanguinem, quod

anima sit carnis sanguis ». Ma ad un più attento esame non sfug-

girà che la parola sangue è solo un segno per indicare l'anima;

uno di quei segni che spesso ricorrono nelle S. Scritture, come ad

es. dove è scritto : « Petra autem erat Christus » (75).

(70) Contra Adimantum, l. I, cap. XI, col. 142.

(71) Deut., XII, 23.

(72) Matth., X, 28.

(73) I Cor., XV, 50.

(74) « Si sanguis anima est, quomodo homines potestam in eam non

habent, cum de sanguine multa faciant, sive excipientes et canibus vo-

lucribusque in escam proponentes, sive effundentes, aut coeno lutoque mi-

scentes? Haec enim et alia innumerabilia sine difficultate homines de san-

guine possunt facere » (Contra Adimantum, l. I, cap. XII, col. 143).

(75) ld., X, 4.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 181

In quanto poi alla frase di Paolo, Agostino si preoccupa che

possa essere interpretata come contraria alla resurrezione dei

corpi; preoccupazione ingiustificata, poiché se in sé il corpo è cor-

ruttibile e mortale, dopo la resurrezione sarà incorruttibile e im-

mortale.

E' scritto nel Deuteronomio : « Saecundum desiderium animae

tuae occide, et manduca omnes camera, juxta voluptatem quarti

dedit tibi Dominus. Cave autem ne sanguine-m manduces; sed e/-

funde tanquam aquam super terram-h (76). Ed in altra parte è

scritto : « Ne graventur corda vestra cruditate, et vinolentia et

curis saecularibus » (77). E l'Apostolo dice : « Bonum est non man-

ducare carnem neque habere vinum » (78). E altrove : « Non po-

testis mensae Domini communicare, et mensae demoniarum » (79).

Il fine dei Manichei è di dimostrare falso il primo passo, poiché

è contraddittorio al loro precetto di non mangiare carni di ani-

mali; mentre secondo la loro interpretazione, il secondo conferme-

rebbe l'esattezza della loro proibizione. Ma ciò che si condanna

nel secondo passo non è contrario al primo; infatti l'immodera-

tezza che vi si disapprova non è quella « juxta voluptatem quam

dedit tibi Dominus » (80), che è « modestam atque natura-

lem » (81), ma l'« immoderatam verocitatem », che costituisce il

vizio. Inoltre l'Apostolo dice che non bisogna mangiare carne e

bere vino, non perché stimi ciò immondo, come invece dicono i

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Manichei, che negano che Dio sia il creatore di quelle cose, ma

« esse ab eis temperandum, cum per offensionem accipiuntur, id

est, cum aliquis infirmus putat sibi ab omnibus carnibus tempe-

randum, ne incidat in carnem immolatiam; et ideo eum qui man-

ducai potest arbitrari in honorem idolorum id facere, et ex eo

graviter offendi : cum ipsa immolatitia caro, si ex fide a nesciente

accipiatur, neminem maculet » (82).

« Si aure audieris vocem meam, et facies quaecumque prae-

cipio tibi; odero odientes te; et contristabo contristantes te; prae-

cedet te angelus meus, et adducet te ad Amorrhaeum, et Pherza-

(76) Deut, XII, 15-16.

(77) Lue, XXI, 34.

(78) Rom., XIV, 21.

(79) / Cor., X, 21.

(80) Contra Adimantum, l. I, cap. XIV, col. 149.

(81) Ibid.

(82) Ibid., col. 150.

182 ANNA ESCHER DI STEFANO

eum, et Chananaeum, et Jebusaeum, et Gergesoeum; et occidetis

illos. Deos eorum ne adoraveritis, neque feceritis opera ipsorum;

sed eversione evertite illos et delete eorum memoriam » (83).

I Manichei osservano che queste parole contrastano con quella

legge di amore, che viene sintetizzata nella frase del Vangelo :

« Ego autem dico vobis : Diligite inimicos vestros, benedicite iis

qui bovis maledicunt, et benefacite iis qui vos oderunt, et orate

pro iis qui vos persequuntur » (84). Ma i due passi sono solo ap-

parentemente contrastanti, giacché Dio disse sì che bisognava

amare tutti gli uomini, amici e nemici, ma non comandò di amare

i demoni e di adorarli.

«Si aure audierus vocem Domini Dei tui, benedictus es in

agro tuo, benedictus es in prato to, benedictus* fructus ventris tui,

et fructus terrae tuae, et geberationes jumentorum tuorum, et

armentum bonum tuorum, et grex ovium tuarum; benedictus es

in introitu tuo et egressu » (85). Quanto è scritto nel Deuteronomio

sembra ai Manichei contrario al passo seguente : « Si quis vult me

sequi, abneget semetipsum sibi, et tellate crucem suam, et sequa-

tur me. Quid enim prodest homini, si totum mundum lucretur,

animae autem suae detrimentum patiatur? Aut quam dabit homo

commutationem pro anima sua? » (86). Cristo disse che noi dob-

biamo abbandonare tutto per seguire Dio, poiché niente vi è nel

mondo che possa equiparare la beatitudine dell'anima; ma, dice

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Agostino, anche i premi temporali ci sono stati promessi e non

bisogna dimenticare che Cristo ha detto: «Nolite jurare neque

per coelum quia tronus eius est, neque per terram, quia scabellum

pedum meorum » (87), e quindi le cose terrestri non devono es-

sere considerate come indegne, poiché la terra è « scabellum pe-

dum » di Dio.

A questa spiegazione Agostino aggiunge che « ager, pra-

tum, ecc. » possono anche intendersi in senso spirituale; ed a mag-

gior ragione, in questo caso, l'obbiezione manichea non ha valore.

Sarebbero anche contraddittori i seguenti passi : « Ego sum

qui divitia do amicis meis, et paupertatem inimicis meis » (88),

(83) Exod., XXIII, 22-24.

(84) Matth., V, 44.

(85) Deut., XXVIII, 1-6.

(86) Matth., XVI, 24 e 26.

(87) Matth., V, 35.

(88) Contra Adimantum, cap. XIX. col. 163.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 183

e « beati pauperes spiritu, quoniam ipsorum est regnum coelo-

rum » (89). Ma, dice Agostino, è anche scritto nel Vangelo « Beati

mites quoniam ipsi haereditate possidebunt terram » (90). E quindi

i « mites » che come tali possono chiamarsi amici di Dio, posse-

deranno la terra. A parte ciò quelle ricchezze di cui si parla nel

passo citato dai Manichei, non hanno significato di ricchezze tem-

porali, ma anzi queste ultime in diverse parti delle scritture sono

disprezzate. Agostino elenca a dimostrazione di quanto ha detto

diversi di questi passi: «melius est modicum justo, super divi-

tias peccatorum multas » (91); « bonum mihi lex oristui, super

millia auri etargenti » (92); « judicia Dei vera justificata in idip-

sum, desiderabilia super aurum et lapidem pretiosum mul-

tum» (93); «Beatus vir qui invenit sapientiam, et immortalis qui-

videt prudentiam. Melius est enim illam mercari quam auri et

argenti thesauros. Pretiosior est autem lapidibus optimis, non re-

sistit illi ullum malum; bene nata est omnibus appropinquanti-

bus ei, et eis qui considerant diligenter. Omne autem pretiosum

non est illi dignum » (94); « propter hoc optavi, et datus est mihi

sensus, et invocavi, et venit in me spiritus sapientiae. Et praeposui

illam regnis et sedibus, et honestatem nihil esse duxi ad compara-

tionem ipsius. Nec comparavi illi lapidem pretiosum : quoniam

omne aurum in comparatione illius arena est exigua, et tanquam

lutum aestimabitur argentum ad illam» (95).

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E' scritto : « Si ambulaveritis in lege, et praecepta mea custo-

dieritis; dabo pluvias tempore suo, et producet terra fructos suos,

et arbores poma, et vindemiae tuae messibus succedent, et satio

vindemiis; et saturabimini, et sedebitis in pace in terra vestra, et

dormietis, et non erit qui vos terreat : et perdam omnem belluam

ex terra vestra : et persequimini inimicos vestros, et cadent ante

vos in gladio : et insequentur quinque ex vobis centum, et centum

ex vobis persequentur decem milia, et concident inimici vestri

ante vos in gladio; et veniam, et benedicam vos, et multiplicabo

bos, et disponam vos. Manducabitis vetus quod inveteravit et proi-

(89) Matth., V, 3.

(90) Contra Adimantum, cap. XIX, l. I. col. 163.

(91) Psal., XXXVI, 16.

(92) Psal., CX, VII, 72.

(93) Psal., XVIII, 10.

(94) Prov., III, 13, 15.

(95) Sap., VII, 7, 9.

184 ANNA ESCHER DI STEFANO

cietis vetus ante novum » (96). I concetti espressi in questo passo

sarebbero contrari alle parole del Signore : « Nolite portare au-

rum, neque argentum, neque numnos in zonis vestris; non peram

in via, neque duas tunicas, neque calceame ta, neque virgani; di-

gnus est enim operarius mercede sua » (97). Ma tutto ciò che è

nominato nel primo passo deve essere inteso in senso spirituale,

non solo, ma il possedere ricchezze non costituisce una colpa, la

colpa consiste nell'amare le ricchezze e nel porre in esse le pro-

prie speranze, infatti l'apostolo Paolo dice, scrivendo a Timoteo :

« Divitibus hujus saeculi praecipe, non superbe sapere, neque spe-

rare in incerto divitiarum, sed in Deo vivo, qui prestat nobis omnia

abuntanter ad fruendum: Benefaciant; divites sint in operibus

bonis, facile tribuant, communicent, thesaurizent sibi fundamen-

tum bonus in futurum, ut apprehendant veram vitam » (98).

Sarebbero poi contrari i passi dove è detto : « De hominem

quem lapidari Deus jussit, qui sabbato inventus est ligna colli-

gere » (99), e « Dominus in Evangelio ubi hominis manum aridam

sanavit die sabbati » (100). Ma Dio fece opera divina e non umana,

né d'altra parte si può dire che «ab otio recessit qui jussit et

factum est» (101).

E' scritto presso Salomone : « Imitare formicam, et intuere

diligentiam ejus, quia ab aetatis tempore usque ab hiemen colli-

gitis sibi alimonios» (102). Questo passo contrasta con la frase:

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«Nolite cogitare de crastino» (103). Ma i Manichei non capiscono

che la frase deve essere intesa nel suo significato spirituale, e cioè

che non dobbiamo amare le cose temporali e che dobbiamo avere

fiducia nella provvidenza divina; ed essa non è in contrasto con

il detto di Salomone, poiché tale detto va inteso nel senso che

come la formica raccoglie in estate, perché possa cibarsi in in-

verno, allo stesso modo il cristiano deve nella tranquillità «quae

significat aestas» (104), fare provvista della parola di Dio, affinché

(96) Levit, XXVI, 3, 10.

(97) Matth., X, 9, 10.

(98) Ttm., VI, 17, 19.

(99) Num., XV, 35.

(100) Matth., XII, 10, 13.

(101) Contra Adimantum, l. I, cap. XXII, col. 167.

(102) Prov., VI, 6, 8.

(103) Matth., VI, 34.

(104) Contra Adimantum, l. I. cap. XXIV, col. 168.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 185

possa di questa vivere nella difficoltà e nelle tribolazioni, « quae

hiemis nomine significanti»: » (105).

Secondo Adimanto poi la frase : « Ego sum Deus qui facio

pacem, et constituo mala» (106), è contradditoria in se stessa, poi-

ché sono opposti i concetti espressi in «qui facio pacem et con-

tituo mala ». Ma in questa frase si deve vedere insieme la bontà

e la severità di Dio, bontà e severità che sono in Dio contempo-

raneamente in grado infinito e senza contraddizione. Anche l'apo-

stolo Paolo dice : « Vides ergo bonitatem et severitatem Dei; in

eos quidem qui ceciderunt severitatem; in te autem bonitatem, si

permanserit in bonitate: alioquin et tu excideris, et illi si non

permanserit in incredulitate, inserentur. Potens est enim Deus

iterum inserere illos» (107).

Abbiamo inoltre un ultimo punto controverso : « Maledictus

omnis qui in ligno pependerit» (108), e «si vis perfectum esse,

vende omnia quaecumque possides, et divide pauperibus, et tolle

crucem tuam, et sequere me» (109). I Manichei non sono stati

molto felici nella scelta di questi brani, infatti l'unico accenno

alla frase precedente potrebbe essere quel « tolle crucem tuam »

ed è chiaro il significato differente delle due frasi.

Nel De Moribus ecclesiae cathólicae et Manichaeorum tro-

viamo un passo che si può considerare la conclusione di Agostino

su questa polemica antimanichhea. Avrei potuto meglio discu-

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tere — egli dice — per singoli capi e dimostrare le cose che mi

sono scese nell'animo, a magnificare ed esaltare le quali, il più so-

vente mancano le parole; ma finché voi latrate, non è il caso di

farlo. Non fu detto invano: Non date ciò che è santo ai cani.

Non vi offendete. Anch'io mandai latrati e fui un cane, allorché

mi si trattava, e giustamente, non col cibo che istruisce, ma con

la sferza che batte. Se foste animati da quella carità, di cui ora

appunto si parla, o se pur lo sarete quando che sia nella misura

che richiede l'importanza che ha la verità di essere conosciuta :

siavi propizio Dio, e vi faccia vedere come la fede cristiana, che

conduce alle somme vette della sapienza e della verità, non si

(105) Ibid.

(106) Isaia, XLV, 7.

(107) Rom., XI, 22-23.

(108) Dcut., XXI, 23.

(109) Matth., XIX, 21.

186 ANNA ESCHER DI STEFANO

trova fra i Manichei, né in alcun altro luogo fuori della disciplina

cattolica. Questo infatti desidera l'Apostolo Paolo, quando dice :

A questo fine piego le mie ginocchia dinanzi al Padre del Signor

Nostro Gesù Cristo, da cui tutta la famiglia e in cielo e in terra

prende il nome, affinchè conceda a voi, secondo le ricchezze della

sua gloria, che siate fortificati per mezzo del suo spirito nell'uomo

interiore; che Cristo abiti nei vostri cuori per la fede, affinchè

voi radicati e fondati nella carità, possiate con tutti i santi com-

prendere qual'è l'altezza e la lunghezza e la larghezza e la pro-

fondità; ed intendere anche la carità di Cristo che supera ogni

scienza, affinchè siate ripieni di tutta la pienezza di Dio (110).

Invita quindi i Manichei ad aprire gli occhi e ad osservare

l'armonia dei due Testamenti così nel rivelare come nell'inse-

gnare.. Anche il Vangelo spinge all'amore di Dio, quando dice :

«Domandate, cercate, picchiate»; e Paolo, quando scrive: «affin-

ché essendo voi radicati e fondati nella carità, possiate compren-

dere»; e il profeta quando attesta che la sapienza si può cono-

scere da coloro che l'amano e la cercano. Le due Scritture sono

d'accordo nell'indicare la salvezza dell'anima e la vita della beati-

tudine, e i Manichei, invece, non fanno che accanirsi contro di

esse (111).

E con questo accorato invito si chiude l'invocazione di Ago-

stino: «Brevi dicam quod sentio: audite doctos Ecclesiae catho-

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licae viros tanta pace animi, et eo voto quo vos ego audivi; nihil

opus erit novem annis quibus me ludificastis. Longe omnino,

longe breviore tempore quid intersit inter veritatem vanitatem-

que cernetis» (112).

(110) De moribus Ecclesiae catholicae et Manichaeorum, l. I, cap.

XVIII, col. 1325.

(Ili) Ibtd., col. 1325-6.

(112) Ibid. Cfr. inoltre: « Quamobrem adestote animis, Manichaei. si

qui forte illa superstitione ita tenemini, ut evadere aliquando possitis. Ade-

store, inquam, sine pertinacia sine studio resistendi: nam aliter vobis per-

niciosissimum est judicare: certe enim nemini dubium est, nec aversi vos

ita estis a vero, ut non intelligatis, si diligere Deum et proximum, bonum

est, quod negare nemo potest; quidquid in his duobus praeceptis pendet,

vituperari jure non posse. Quid ergo in iis pendeat, ridiculum est si a me

quaerendum esse putas; ipsum Christum audi, audi, inquam Christum, audi

Dei Sapientiam: In his, inquit, duobus praeceptis tota Lei pendet, et om-

nes Prophetae (Matt., XXII, 40). Quid hoc loco potest dicere impudentis-

sima pertinacia? Non hoc Christum dixisse? At in Evangelio verba ejus

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 187

In questo problema, forse meglio che in tutti gli altri che

Agostino affronta nel campo della critica al manicheismo, si ma-

nifestano le sue capacità critiche, poiché numerose sono le diffi-

coltà da superare. Nel De Genesi contra Manichaeorum e nel Can-

tra Adimantum si rispecchia inoltre la profonda conoscenza che

Agostino ha delle S. Scritture, che egli difende con il lume della

ragione e con quell'amore che egli mette in tutto ciò che riguarda

il suo Dio.

Molto lontano ci appare ora quel periodo della vita di Ago-

stino, in cui egli, leggendo la Bibbia, la considerò degna solo del

proprio disprezzo, giudicandola secondo i dettami delle teorie

grammaticali e letterarie di cui allora era imbevuto. Ben altra ma-

turità di spirito ha raggiunto ora Agostino, e gli scritti suoi di

questo periodo ne sono una prova.

iste conscripta sunt. Falsum esse scriptum? Quid hoc sacrilegio magis im-

piumi reperiri potest? quid ista voce impudentius? quid audacius? quid

sceleratius? Simulacrorum cultores, qui Christi etiam nomen oderunt, nun-

quam hoc adversus Scripturas illas ausi sunt dicere... » (Ibid., l. I, cap.

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XXIX, col. 1335).

Capitolo Undicesimo

IL PROBLEMA MORALE

Agostino si chiede : in che modo ho da cercati, o Signore?, e

vede come la ricerca di Dio si identifichi con la stessa ricerca della

felicità. Per cui la domanda si sposta : in che modo debbo cercare

la felicità? Si deve cercare per mezzo della memoria, come se

essa fosse un bene posseduto e poi dimenticato? O come, si trat-

tasse di cosa ignota, sia per non averla conosciuta mai, sia per

averla dimenticata in maniera tale da non ricordare nemmeno di

averla mai conosciuta? (1). Tutti, senza dubbio, vogliono essere

felici; non v'é alcuno che non sia d'accordo con questa afferma-

zione (2). Per cui aspirare alla vita felice, volere la vita felice,

la vita felice bramare, rimpiangere, perseguire, è proprio di tutti

gli uomini, siano essi buoni o cattivi. E infatti chi è buono, per

questo è buono, per essere felice; e chi è cattivo, non sarebbe cat-

tivo se non sperasse di poter essere con ciò felice (3). Ma gli uomini

dove l'hanno conosciuta? Dove l'hanno vista? Indubbiamente gli

uomini la posseggono in qualche modo, se vi sono coloro che sono

felici perché l'hanno di già; e coloro che non lo sono perché vi

sperano, mentre vi sono alcuni che non la posseggono né in effetto

né nelle speranze. Ma anche costoro, se si chiedesse loro se vo-

gliono essere felici, risponderebbero senza esitare di sì : cosa che

non potrebbe accadere se non ne possedessero già nella memoria

il concetto. Eppure con nessun senso del corpo, dice Agostino, ho

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io veduta o udita o odorata o gustata o toccata la mia gioia, ma

l'ho provata dentro nella mia anima quando ho gioito, e la sua

nozione è rimasta impressa nella mia memoria, talché sono in

(1) Confessioni, l. X, cap. XX, coli. 791-2.

(2) De morìbus Ecclesiae Catholicae et Afanich., l. I, cap. III, col. 1311.

(3) Sem., CL, cap. III, col. 809.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 189

grado di rievocarla, quando con un senso di repugnanza, quando

con un senso di rimpianto, secondo la diversità delle cose delle

quali mi ricordo d'aver gioito. Perché anche le cose turpi m'hanno

inondato, un tempo, di gioia, che ora, al ricordarmente, detesto e

maledico, mentre rievoco con desiderio quell'altra gioia di cui

mi hanno colmato le buone ed oneste, che non sono per avventura

più presenti. Anzi per questo il rievocare quella mia gioia passata

mi riesce triste (4).

Dove, dunque, e quando ho io provato la felicità, per ricordar-

mene e amarla e desiderarla? (5). Né questo desiderio di felicità

è riservato a pochi eletti, anche se gli uomini sono in disaccordo

sul modo di essere felici. Soltanto l'empio non la conosce, egli

non sa cosa significhi gioire in Dio, di Dio e per Dio, che è l'unica

vera felicità (6). La verità dunque coincide col possesso di Dio :

il camino dell'uomo a Dio, iniziatosi con il colloquio dell'uomo con

la propria anima, culmina con il possesso della verità e della fe-

licità. E poiché Dio è verità immutabile, perpetuità stabile, incor-

ruttibile... quando vedremo faccia a faccia quello che ora ve-

diamo come attraverso uno specchio, in enigma, allora con ben

altro, ineffabilmente altro sentimento diremo: è vero... E perché

senza nessuna modestia e con perpetuo diletto vedremo il vero,

lo vedremo con evidenza certissima, accesi dall'amore della stessa

verità e ad essa stringendoci in dolce e casto amplesso, amplesso

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incorporeo, con tale voce anche lo loderemo... Or codesta vita dei

santi anche i loro corpi trasformati in stato celeste e angelico così

riempirà... che da quella contemplazione... della verità nessuna

corruzione... li distrarrà (7).

E quando, dice Agostino, mi sarò stretto a te con tutto il mio

essere, non sentirò più da nessuna parte dolore e travaglio, e viva

sarà la mia vita, tutta quanta piena di te. Tu sollevi in alto colui

che riempi di te. Io invece, poiché non sono ancora pieno di te,

sono ora di peso a me stesso... Gioie di cui dovrei piangere contra-

stano dentro di me con dolori di cui dovrei gioire : né so da qual

parte stia la vittoria. Ahimé, abbi di me pietà, o Signore. Ma le tri-

(4) Confess., l. X, cap. XXI, coli. 792-3.

(5) Ibid.

(6) Ibid., cap. XXII, col. 793.

(7) Serra., CCCLXII, cap. XXVII.

190 ANNA ESCHER DI STEFANO

stezze contrastano dentro di me con gioie buone: né so da qual

parte stia la vittoria. Ahimé, abbi di me pietà, o Signore.

Ahimé! Ecco io non nascondo le mie piaghe. Tu sei il medico,

io sono il malato; tu sei misericordioso, io sono un infelice.

Non è forse tentazione la vita umana sopra la terra? Chi mai

vorrebbe molestie e difficoltà? Tu vuoi che le si sopportino, non

che si amino. Nessuno ama ciò che sopporta, sebbene ami di sop-

portarlo. Per quanto, infatti, gioisca nel sopportare, tuttavia prefe-

rirebbe non aver nulla da sopportare.

Nell'avversità desidero la prosperità, nella prosperità pavento

l'avversità. C'è posto tra questi due estremi, dove la vita

umana non sia tentazione? Povere prosperità del mondo, per uno,

anzi per due versi insidiate : dal timore dell'avversità e dal cor-

rompersi della gioia. Misere avversità del mondo, rese più amare

per due, anzi per tre motivi : per il desiderio della prosperità, per

la durezza stessa dell'avversità e per il timore che questa abbia

il sopravvento sulla pazienza. Chi vorrà negare che la vita umana

sia una tentazione senza respiro alcuno? (8).

La moralità in tal modo viene a congiungersi con la metafi-

sica. Il mezzo che permette all'uomo di conoscere e possedere il

vero bene è la saggezza.

Anche la sapienza viene intesa dagli uomini in maniera di-

versa.

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Coloro che militano credono di essere sapienti, mentre quelli

che disprezzano la milizia e coltivano i campi, giudicano ciò sa-

piente; coloro che sono astuti nel far denaro credono di esser sa-

pienti, e chi disprezza le cose temporali, dirige la sua attenzione

verso lo studio di se stessi e di Dio, e crede che questo sia il solo

vero compito degno d'essere perseguito.

E così chi non vuol darsi a questo studio e si dedica a consul-

tare gli uomini per imparare il governo giusto delle cose umane,

si crede sapiente, e chi si dedica alle cure delle cose terrene e

divine, crede di tenere la palma della sapienza.

Le opinioni sono differenti, in quanto la maggior parte degli

uomini non percorre la via che conduce alla felicità, pur confes-

sando di voler giungere solamente ad essa. Essi desiderano il bene

e fuggono il male, ma seguono diverse opinioni perché ad ognuno

sembra buona la propria. Quindi in quanto tutti gli uomini desi-

(8) Confess., l. X, cap. XXVIII, coli. 795-6.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 191

derano una vita felice non errano, ma errano in quanto ognuno

sceglie una propria vita per arrivarci.

E quanto più si erra, tanto meno si sa, e tanto più si è lontani

dalla verità del sommo bene. Quindi come è certo che noi vo-

gliamo essere felici, così è ugualmente certo che vogliamo essere

sapienti, poiché senza sapienza nessuno è beato. Abbiamo detto

che noi desideriamo la felicità, in quanto ne possediamo già la

nozione, allo stesso modo sono concetti universali il bene e la sa-

pienza (9).

La luce della sapienza non è soggettiva, ma è una per tutti

coloro che sanno. Infatti, così come il vero che ognuno vede con la

propria mente è comune a tutti alla stessa maniera, tutti sono

d'accordo nel giudicare l'incorruttibile migliore del corruttibile,

l'eterno del temporale, l'inviolabile del violabile. Ora tutte queste

regole di virtù appartengono alla sapienza, giacché quanto più

uno si serve di loro per vivere, tanto più vive ed agisce sapiente-

mente. Dunque le regole della sapienza sono vere ed immutabili

come le regole dei numeri (10).

Ma la sapienza e il numero sono la medesima cosa, oppure

uno dei due è subordinato all'altro? La stessa Scrittura attesta

che essi sono la medesima cosa. I numeri, infatti, trascendono la

nostra mentre e posseggono una verità immutabile. Ma poiché po-

chi possono sapere, mentre gli stolti possono numerare, gli uomini

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ammirano la sapienza e disprezzano il numero.

I dotti e gli studiosi, invece, quanto sono lontani dalle mi-

serie della terra, tanto più contemplano il numero e la sapienza,

giudicandoli una sola verità, ed hanno caro tanto l'uno che l'altra

e fissando lo sguardo in questa trascendente verità, non solo di-

sprezzano l'oro e l'argento per i quali gli uomini lottano, ma arri-

vano anche a disprezzare se stessi.

La verità è una ed immutabile per tutti gli esseri; essa non si

può dire che sia mia e tua e di qualche altro uomo, ma appare a

tutti allo stesso modo come una luce segreta.

(9) Cfr. De vera relig., cap. XXXIX, coli. 154-5.

(10) Il numero regna ovunque sovrano. Infatti, se si guarda il cielo,

il mare, e tutte quelle cose che brillano sopra, o strisciano sotto o volano,

o nuotano, si vedrà che esse hanno forme in quanto hanno numeri: se

questi si togliessero loro, esse non sarebbero più nulla. Per cui esse in

tanto sono, in quanto sono numerate. Anche gli artisti si servono del nu-

mero per la creazione delle loro opere.

192 ANNA ESCHER DI STEFANO

Questa verità non può essere formazione della nostra mente,

né può essere uguale od inferiore ad essa, giacché se fosse infe-

riore, noi avremmo la facoltà di giudicarla e quindi non potremmo

servirci di essa per giudicare le altre cose. La prima caratteri-

stica della verità è dunque quella di essere indipendente dal no-

stro spirito. Né la verità potrebbe essere uguale alla nostra mente,

sennò sarebbe mutevole al pari di questa. Quindi, dato che non è

inferiore né uguale alla nostra ragione, non può che sserle su-

periore.

Chi riesce ad abbracciare la verità può definirsi beato. La vera

felicità, infatti, non consiste nell'appagamento dei sensi (11).

E poiché attraverso la verità si conosce e si possiede il Sommo

Bene, la verità si identifica con la Sapienza (12).

Colui che ha ricondotto tutte le sue conoscenze all'unità vera

e certa, comprende che è necessario non soltanto credere, ma an-

che contemplare e comprendere ciò che è divino. Colui, invece,

che è schiavo delle passioni ed aspira soltanto a cose effimere, o

che invece, anche fuggendo tutto ciò e vivendo castamente, non

sappia cos'è il nulla, la materia informe, ignora la natura del corpo,

lo spazio, il tempo, il movimento, l'eternità, l'esser né in un luogo

né in un altro, il non essere mai e l'essere sempre, costui, igno-

rando queste cose, non solo si smarrirà nelle discussioni intorno

a Dio, che si conosce meglio quando si sa di non conoscerlo, ma

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non saprà mai niente intorno alla sua stessa anima. Più facil-

(11) « Promiseram autem, si meministi, me Ubi demonstraturum esse

aliquid quod sit mente nostra atque ratione sublimius. Ecce tibi est ipsa

veritas: amplectere illam si potes, et fruere illa, et delectare in Domino

et dabit tibi petitiones cordis tui (Psal., XXXVI, 4). Quid enim petis am-

plius quam ut beatus sis? Et quid beutius eo qui fruitur inconcussa et in-

commutabili et excellentissima ventate? » (De libero arbitrio, l. II, cap.

XIII, col. 1260).

(12) De libero arbitrio, l. II, cap. XII, col. 1259: «Imo vero quoniam

in veritate cognoscitur et tenetur summum bonum, eaque veritas sapientia

est, cernamus in ea, teneamusque summum bonum, eoque perfruamur.

Beatus est quippe qui fruitur summo homo. Haec enim veritas ostendit

omnia bona, quae vera sunt, quae sibi pro suo captu intelligentes homines,

vel singula, vel plura eligunt, quibus fruantur. Sed quemadmodum illi qui

in luce solis eligunt quod libenter aspiciant, et eo aspectu laetificantur; in

quibus si qui forte fuerint vegetioribus sanisque et fortissimis oculis prae-

diti, nihil libentium quam ipsum solem contuentur, qui etiam caetera qui-

bus infirmiores oculi delectantur, illustrai » (Ibid., cap. XIII, col. 1260).

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 193

mente invece conoscerà queste cose chi abbia compreso i numeri

semplici e intelligibili.

Infatti (13) la misura stessa dell'ordine è unità nella verità

eterna; questa misura non è estesa nello spazio, né è variabile nel

tempo, ma trascende ogni localizzazione spaziale e temporale.

Senza di essa l'estensione di una massa non si ridurrebbe all'unità,

né l'estensione del tempo potrebbe essere sottratta alle deviazioni,

né potrebbe esistere alcuna cosa. Essa è l'unità, senza estensione,

né per il finito né per l'infinito, e non mutabile né per il finito

né per l'infinito, la sua ragion d'essere riposa nella verità suprema.

Poiché (14), l'uomo è fatto ad immagine e somiglianza di Dio,

ha la possibilità di volgere lo sguardo verso la verità, a patto na-

turalmente che si sottragga al dominio dei sensi. Ma anche nella

stessa carne noi troviamo un monito che ci avvisa come si possa

riporre in essa la beatitudine della vita, e ciò non perchè la natura

del corpo sia un male, ma perché colui che potrebbe raggiungere

il proprio bene, si accententa dell'amore di un bene inferiore.

L'anima (15) dunque deve affissare il suo sguardo verso l'alto;

solo in questo modo realizzerà la sua moralità. Deve risalire cioè

dalle cose visibili alle invisibili, dalle temporali alle eterne e co-

struire la vita dell'uomo nuovo sulla vita dell'uomo vecchio. In

base al comportamento dell'uomo sulla terra è delineata la sorte

degli stolti e dei saggi (16). A chi fa cattivo uso dei preziosi doni

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della mente anzicchè indirizzarla verso la contemplazione e l'amore

delle cose spirituali, saranno riserbate le tenebre. Chi si compiace

della lotta, sarà lontano dalla pace e impigliato tra somme diffi-

coltà. Chi vuole aver sete e fame e sentire l'ardore della libidine

e stancarsi per mangiare e bere con piacere, unirsi carnalmente,

dormire, costui ama l'indifferenza che è il principio dei dolori più

grandi : costui sarà condannato a trovarsi là dove è pianto e stri-

dore di denti. Vi sono poi molti che amano tutti questi vizi in-

sieme, e che spendono la loro vita nelle contese, nei cibi, nelle

bevande, nei piaceri sensuali, nel sonno e nell'abbracciare con la

loro immaginazione tutti quei fantasmi che raccolgono con tale

(13) De vera religione, cap. XLIII, col. 159.

(14) Ibid., cap. XLIV, col. 159.

(15) Ibid., cap. LII, coli. 166-7.

(16) Ibid., cap. LIV, col. 169.

13

194 ANNA ESCHER DI STEFANO

genere di vita, nel fissare secondo le illusioni di queste regole

superstiziose e empie.

A costoro vengono legati mani e piedi e saranno condannati

alle tenebre. Chi invece usa i cinque sensi per credere alle opere

di Dio, per alimentare l'amore di Dio, e con l'azione e la contem-

plazione dare la pace alla propria natura e conoscere Dio, costui

entra nella gioia del Signore. Per cui chi si affida alle cose visibili,

non può avere un'intelligenza atta a contemplare l'Eterno, ma può

averla chi loda Dio come autore delle cose sensibili, e a Lui ne

dà prove con la fede, lui attende con la speranza, lui cerca con

la carità (17).

(17) Tra i doveri particolari interessa la nostra indagine soltanto la

dottrina di Agostino sul matrimonio e sulla guerra. Il primo argomento è

affrontato in vari luoghi, ma soprattutto nel De Moribus Ecclesiae et Ma-

nichaeorum. Egli si serve delle parole dell'Apostolo per esprimere il pro-

prio pensiero : « Tutto mi è permesso, ma non tutto conviene : tutto mi è

permesso, ma io di nessuna cosa sarò schiavo. Il cibo per il ventre, e il

ventre per i cibi; ma Dio distruggerà quello e questi. Il corpo non per la

fornicazione, sebbene per il Signore, e il Signore per il corpo. Ma Dio ri-

suscitò il Signore e con la sua possanza risusciterà noi. Non sapete che i

vostri corpi sono membra di Cristo? Togliendo dunque le membra di Cri-

sto, le farò sembra di meretrice? Non sapete voi che chi si congiunge con

una meretrice, diviene con essa un solo corpo? Perciò i due, sta detto, sa-

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ranno una sola carne. Ma chi è unito al Signore, è un solo spirito con lui.

Fuggite la fornicazione. Qualunque altro peccato che l'uomo commette, è

fuori del corpo; ma chi commette fornicazione pecca contro il proprio

corpo. Non sapete voi che le vostre membra sono tempio dello Spirito

Santo che abita in voi e che è stato dato a voi da Dio, e che non siete di

voi stessi? Giacché siete stati compratia caro prezzo, glorificate e portate

Dio nel vostro corpo. Di quello che poi voi mi avete scritto, è bene per

l'uomo non toccar donna; ma per evitare la fornicazione, abbia ognuno la

sua moglie, e ognuna il suo marito. Alla moglie renda il marito quello che

deve, e similmente la moglie al marito. La moglie non ha facoltà sul pro-

prio corpo, ma il marito; e similmente il marito non ha facoltà sul proprio

corpo, ma la moglie. Non vi defraudate l'un l'altro, se non forse di consenso

per qualche tempo, tanto per applicarvi all'orazione; e di nuovo tornate

a stare insieme, perché non vi tenti satana a causa della vostra inconti-

nenza. E questo io dico per concessione, non per comando. Per questo

bramo che tutti gli uomini stiano conme; ciascuno però ha il suo dono da

Dio, chi in un modo e chi in un altro ». (De Moribus Ecclesiae, l. I, cap.

XXVI, coli. 1343-4). E Agostino così commenta queste parole dell'Apostolo:

« Non vi pare che l'Apostolo abbia mostrato ai più forti qual'è il massimo,

e il più vicino a questo ai deboli? Poiché quando disse: Bramo che tutti

gli uomini siano come me, fece comprendere che il massimo fosse appunto

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 195

Queste tre virtù, coadiuvate dalla prudenza, dalla forza, dalla

temperanza e dalla giustizia, costituiscono la base della morale.

Lo spirito, una volta ricevute le prime impressioni « della

fede che opera per la carità », è capace di indirizzarsi verso una

vita santa e giungere così alla contemplazione della verità su-

prema, la cui ineffabile bellezza può essere compresa solo dai cuori

puri e perfetti (18).

L'unione delle tre virtù teologali è indissolubile. Infatti si può

credere quello che non si spera, ma come sperare quello che non

si crede? Chi è quel cristiano che non crede ai castighi riservati

agli empi? Eppure, lungo dallo sperarli, li teme e li fugge quando

ne sente la minaccia. E' timore e non speranza. Un poeta distinse

bene questi due casi, quando scrisse : « Lasciate al timore un rag-

gio di speranza. La Fede può avere per oggetto tanto il bene come

il male, perché si può credere al bene come al male; ma non per

questo si può dire che la fede sia cattiva. Essa ha per oggetto il

passato, il presente e il futuro. Infatti, crediamo che Gesù Cristo

non toccar donna. A questo massimo poi s'avvicina la castità coniugale,

che sottrae l'uomo alla devastatrice fornicazione. Significò forse per que-

sto che coloro che usano del matrimonio debbono essere infedeli? Tutt'al-

tro, in quanto, anzi, è santificato il marito infedele per la moglie fedele,

la moglie infedele per il marito fedele : altrimenti i vostri figliuoli sareb-

bero immonti, e ora son santi » (Ibid., col. 1344). E hanno torto i Manichei

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che affermano che il matrimonio è lecito ai catecumeni, e non lecito ai fe-

deli (Ibid.).

Il problema della guerra è invece affrontato da Agostino soprattutto

nel De «vitate Dei e nella Quaestio in Heptateuchum. Mentre i Manichei

rifiutavano la legittimità della guerra, accusando le Scritture di approvarla,

Agostino invece ne giustifica la necessità, giacché ogni popolo ha diritto

di defèndere contro l'oppressore la propria esistenza e la propria libertà.

Egli giustifica anche la guerra offensiva, a patto, però, che essa serva a

riparare una precedente offesa subita. Negli altri casi la guerra, simbolo

di sopraffazione e di ingiustizia e all'onore ce ne offre un luminoso esem-

pio. In ogni caso, però, nella guerra si deve evitare la ferocia, il piacere

di nuocere, la crudeltà della vendetta, ecc. Invece sono grandi e degni di

gloria quei guerrieri non solo coraggiosissimi, ma, e ciò cerita una lode

più grande, fedelissimi, i quali con le loro fatiche e i loro pericoli, con la

protezione e l'aiuto di Dio, trionfano di un nemico indomito, e danno la

piete alla repubblica e alle Provincie rappacificate. Ma più glorioso è

uccidere la guerra stessa con la parola che non gli uomini con il ferro e

conquistare o ottenere la pace con la pace, che non con la guerra (Epistola,

CCXXIX, n. 2, col. 1020).

(18) Enchiridion, cap. V, col. 233.

196 ANNA ESCHER DI STEFANO

sia morto, e ciò concerne il passato; crediamo che sia seduto alla

destra del Padre, e ciò riguarda il presente; crediamo che verrà

per giudicare i vivi e i morti, e ciò si applica al futuro. La nostra

fede si estende tanto alle cose nostre personali, quanto a ciò che

ci è estraneo. Così ciascuno di noi crede che è non è sempre esi-

stito e che ha avuto un principio, e lo stesso crede non solo degli

altri uomini suoi simili, ma anche di tutte le altre creature.

Al contrario, la speranza si estende soltanto alle cose buone

e future e che riguardano esclusivamente colui che spera. Dun-

que la fede e la speranza, avendo un oggetto che li distingue, deb-

bono essere denominate diversamente. Eppure queste due virtù

hanno un punto di convergenza comune : ambedue si riferiscono a

cose invisibili. Ecco perché nell'Epistola agli Ebrei, della quale

tanti illustri apologisti hanno invocata la testimonianza, la

Fede viene definita : Convincimento delle cose che non si vedono.

Eppure, quando un uomo dice di poter prestar fede ad un fatto

che ha potuto conoscere non da parole, da testimonianze o da prove

fornite da altri, ma dall'evidenza stessa delle cose che ha avuto

sotto i propri occhi, non lo si potrebbe rimproverare se si espri-

messe in questo modo, né gli si potrebbe dire : « tu hai visto, dun-

que non hai creduto», ciò che potrebbe fare concludere che sa-

rebbe contraddittorio dire che una cosa potrebbe essere creduta

senza che prima sia caduta sotto i sensi. Ma per noi la Fede ha

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un senso più preciso : noi ne conosciamo l'esistenza dalla testimo-

nianza delle divine Scritture.

L'Apostolo disse lo stesso della Speranza : Quando quel che

si spera, si vede, codesto non è più speranza; perché chi già vede

una cosa, che spera più? ma se speriamo quel che non vediamo,

allora aspettiamo con pazienza. Dunque, avendo la Fede nei beni

futuri, noi abbiamo la speranza. Ma essa si deve accoppiare anche

alla carità, se no, sarebbe inutile : la speranza è inseparabile dal-

l'amore. Infatti, come dice S. Giacomo: I demoni credono e tre-

mano. Hanno la fede, ma non hanno né speranza né amore; cre-

dendo, tremano di veder realizzato ciò che forma l'oggetto della

nostra speranza e del nostro amore. Ecco perché l'Apostolo ap-

prova ed esalta la Fede operante per mezzo dell'amore, e sotto

quest'aspetto, indissolubilmente unita alla speranza. Dunque

l'amore suppone la speranza, come questa suppone l'amore ed

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 197

ambedue sono inseparabili dalla fede (19). Quando si domanda

se qualcuno è buono, non si domanda cosa creda o speri, ma se

ama davvero; colui che ha per fine il bene, deve necessariamente

dirigere verso lo stesso fine la sua fede e la sua speranza. Chi non

ama, crede inutilmente, quand'anche fosse vero ciò che crede; an-

che la speranza sarebbe vana senza l'amore, quand'anche tendesse

verso i beni eterni. E' dunque necessario che nella sua fede e

nella sua speranza il cristiano abbia per oggetto ciò che può es-

sere accordato alla sua preghiera, cioé quelle cose che può amare.

Quantunque non si possa sperare davvero senza amare ciò che si

spera, a volte si può amare una cosa al cui possesso è impossibile

giungere. C'è chi spera la vita eterna come fine di tutte le proprie

aspirazioni, ma senza amare il bene senza del quale non si può

arrivare alla vita eterna. La fede cristiana tanto raccomandata

dall'Apostolo, quella fede cioè che opera per mezzo dell'amore,

quella fede che nel suo amore, domanda di possedere ciò che non

ha; che cerca per trovare, che piaccia affinché venga aperto; è que-

sta la fede che unita all'amore ottiene e adempie le prescrizioni

della legge. Perché senza il dono di Dio, cioè senza lo Spirito

Santo, che è carità nei nostri cuori, la legge, da sé sola, può ordi-

nare, ma non ci aiuta all'adempimento di ciò che comanda; la

legge può rendere prevaricatore colui che la trasgredisce perché

non c'è ignoranza che lo scusi, e perché le concupiscenze della

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carne signoreggiano ove manchi l'amore (20).

Dopo aver precisato cosa intenda Agostino per moralità, pas-

siamo a studiare le critiche che su questo piano egli muove ai Ma-

nichei. Egli incomincia con l'invitare a misurarsi con gli anacoreti

e i cenobiti cristiani, che non si sono limitati a lodare la più se-

vera castità, ma che l'hanno abbracciata è praticata con amore co-

stante. E a misurarsi in generale con tutti i vescovi, i sacerdoti, i

ministri dei sacramenti divini, la cui virtù è degna di grandissimo

elogio, in quanto essi l'hanno saputo conservare integra, pur vi-

vendo in mezzo a coloro di cui devono sopportare e sanare i vizi :

« con questi, o Manichei, misuratevi, se potete; questi, se ne avete

il coraggio, vilipendete senza mentire. Ai loro digiuni, paragonate

i vostri digiuni, alla castità la castità, al vestire il vestire, al vitto

il vitto, alla modestia, la modestia, alla carità la carità, e, ciò

(19) Ibid., cap. VIII, col. 235.

(20) Ibid., cap. CXVII, coli. 286-7.

198 ANNA ESCHER DI STEFANO

che più importa, alle loro leggi le vostre. Vedrete subito quale

distanza corra tra la loro ostentazione e la sincerità, tra la via

diritta e l'errore, tra la fede e la falsità, tra il vigore e la gon-

fiezza, tra la felicità e la miseria, tra l'unità e la scissura, tra le

lusinghe della superstizione e il porto della religione... Conosco

molti che adorano sepolcri e pitture; molti che con lusso sfacciato

si ubriacano sopra i morti e banchettano ai cadaveri, e seppelli-

scono se stessi sopra i sepolcri, e i loro eccessi del mangiare e del

bere vengono imputati alla religione. Molti che a parole hanno

rinunziato al mondo, e vogliono intanto essere schiacciati sotto

tutte le grandezze di questo mondo, e schiacciati, gioire. E nessuna

meraviglia che in tanta moltitudine di popoli non manchino al-

cuni, la cui vita licenziosa vi offra il pretesto di ingannare gli in-

cauti e alienarli dalla salute cattolica, laddove voi che potreste

essere contati all'incirca sulle dita, vi trovate in gravissimo im-

barazzo, quando vi si chiede se esista uno solo tra i vostri eletti

che pratichi le regole che difendete con irragionevole supersti-

zione (21).

La dottrina morale dei Manichei non aveva addentellati teo-

retici, non poneva in discussione problemi d'ordine speculativo,

non si chiedeva ad es. che ruolo potesse avere la volontà nell'adem-

pimento dell'azione, e fino a che punto essa non fosse condotta e

indirizzata dall'istinto. Essa si limitava ad una funzione precetti-

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stica, indicando una serie di comandi e divieti, sulla cui norma il

fedele manicheo doveva regolarsi. La base della morale manichea

poggiava sull'osservanza dei tre sigilli: quello della bocca, delle

mani e del senso. Ma non basta che l'uomo nella bocca, nelle mani

e nel senso sia casto e innocente, osserva Agostino, in quanto egli

potrebbe peccare con gli occhi, con l'udito o con l'odorato, po-

trebbe prendere qualcuno a calci, e magari ucciderlo : di che sarà

colpevole costui dato che non ha peccato con la bocca, né con le

mani, né col senso? Ma quando si parla di bocca, ribattono i Ma-

nichei, noi intediamo tutti i sensi che risiedono nel capo; quando

di mani, intendiamo riferirci ad ogni azione che l'uomo può com-

mettere; quando si parla di senso, alludiamo ad ogni piacere

sensuale. Ma Agostino non rimane convinto da questa osserva-

zione, e infatti dice: E le bestemmie a cosa appartengono, alla

bocca o alle mani? La bestemmia, infatti, è azione della lingua.

(21) De moribus Ecclesiae, cap. XXXIV, coli. 1341-2.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 199

Pertanto se tutte le azioni si comprendono in una sola specie,

perché l'azione dei piedi la includete nelle mani, e quella della

lingua la escludete? Forse perché la lingua significa qualche cosa

mediante le parole, volete considerarla disgiunta da quell'azione

cattiva non destinata a significare? Ma allora come definirete

colui che pecca significando alcunché per mezzo delle mani, cosa

che avviene ad es., quando scriviamo, ovvero accenniamo a gesti

sconvenienti? Così avrà peccato esclusivamente con le mani e

dunque il suo peccato non può essere imputato né alla bocca, né

alla lingua. Non vi accorgete come il desiderio di novità, insepa-

rabile dall'errore, vi afferra per la gola? Il vero è che in questi tre

sigilli, che voi esaltate come una classificazione di nuovo genere,

non riuscite a includere la purgazione di tutti i peccati (22).

A dire il vero, però, le obbiezioni di Agostino ci sembrano un

po' troppo formalistiche, in quanto egli cerca di mettere in evi-

denza come la classificazione manichea non possa sodisfare la pur-

gazione di tutti i peccati. Ma i Manichei con i tre segni non in-

tendevano catalogare soltanto quei peccati che venivano compiuti

dall'organo corrispondente, ma in generale qualsiasi atteggia-

mento moralmente riprovevole dell'individuo. Essi rappresenta-

vano soltanto un simbolo, che stesse ad indicare per il fedele il

divieto di cadere in qualsiasi peccato del senso. Per cui le obbie-

zioni di Agostino che cercano di cavillare sulla catalogazione, in

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relazione ad un sigillo o ad un altro, di un determinato peccato,

colgono soltanto la superfice di ciò che i Manichei intendevano

dire, ne imbarazzano soltanto l'espressione verbale, ma non sono

delle obbiezioni che riescono a scardinare alla base la loro dot-

trina morale. Le sue stesse accuse rivolte alla corruzione degli

eletti manichei, il rimpoverare loro d'indugiare nei bagni o di

abbandonarsi a passatempi riprovevoli sono fuor di luogo, in

quanto ché l'accettabilità di una dottrina non deve essere misurata

dal modo in cui i suoi fedeli la praticano, tanto più che egli stesso

ha detto che la Chiesa non deve essere vilipesa per il malcostume

dei cattivi cristiani. Per cui quell'ammonimento che egli loro ri-

volgeva, invitandoli a smetterla con un linguaggio denigrante la

Chiesa cattolica con la mira speciosa di condannare costumi di

(22) De moribus Manichaeorum, cap. X, col. 1353.

200 ANNA ESCHER DI STEFANO

uomini, che anch'essa condanna e si studia ogni giorno di correg-

gere come figli cattivi (23), potrebbe benissimo essere indirizzato

verso di lui. In realtà avremmo preferito che egli non si fosse fer-

mato alla critica al costume di singoli uomini, ma che fosse sceso a

scardinare più in profondità i precetti su cui questo costume si ba-

sava, mostrandone non l'inadempienza da parte dei suoi fedeli,

ma l'inconsistenza teoretica e la mancanza di basi speculative,

senza di cui nessuna morale, degna di questo nome, può erigersi.

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(23) De moribus Ecclesiae, cap. XXXIV, col. 1342.

CONCLUSIONE

Questo nostro lavoro si è proposto in primo luogo di rico-

struire la dottrina manichea, quale si è venuta enucleando dalle

opere di Agostino. Abbiamo infatti cercato di dare una sistema-

zione organica a tutte le citazioni riguardanti il manicheismo

sparse nelle opere di Agostino, integrandole qua e là, dove l'ap-

porto agostiniano risultava lacunoso, con il pensiero di altri po-

lemisti, onde presentare organicamente il corpo del sistema ma-

nicheo, ricostruendo la sua cosmogonia, la cui veste, come abbiamo

potuto vedere e come osserva il Cumont, è di una stravaganza

splendida, tra la gigantomachia e l'Apocalisse, e ricostruendo pa-

rimenti la sua morale, in cui l'austerità dei principi si abbina

stranamente alla scabrosità degli argomenti e dei miti. Appunto

per questo abbiamo aggiunto alla fine del lavoro una appendice

comprendente tutti i passi riguardanti il manicheismo, in modo

da possedere in una sintesi sistematica tutto il complesso del ma-

teriale offerto dalle opere agostiniane.

In secondo luogo abbiamo cercato di dare una valutazione del

pensiero di Agostino nei confronti del manicheismo, onde mettere

in luce fino a qual punto l'interpretazione agostiniana fosse ade-

rente allo spirito della dottrina manichea. La testimonianza di

Agostino infatti potrebbe essere tra le più attendibili, dato il lungo

periodo da lui trascorso come uditore della setta, in cui conobbe

direttamente e praticò i dogmi manichei. Il pericolo della testi-

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monianza agostiniana, pertanto, come mette in luce il De Beau-

sobre, non risiede in un travisamento dovuto al tempo trascorso

dai fatti di cui si parla, ma si annida in un altro motivo, cioè al

desiderio di difendere il pensiero cristiano, desiderio che potrebbe

portarlo, sia pure involontariamente, a deformare, a vedere sotto

una luce diversa, un angolo visuale spostato, i fatti. Questo ti-

more sembrerebbe trovare conferma nell'accusa che i Manichei gli

r

202 ANNA ESCHER DI STEFANO

lanciarono, rimproverandogli di aver presentato Mani come un

Annibale o un Mitridate.

Ora, è vera quest'insinuazione? E, in caso affermativo, fino a

qual punto? La risposta a questa domanda è quanto mai com-

plessa, perché se è certo che l'atteggiamento di Agostino è sempre

dettato dal più severo senso di imparzialità, a volte il suo ardore

polemico, l'amore per il suo Dio lo trascinano verso interpretazioni

inesatte. Appunto per questo noi non siamo d'accordo con quei

critici che fanno di Agostino un severo ricostruttore del Mani-

cheismo, né con coloro che gli negano del tutto l'attendibilità.

Agostino è troppo cristiano per poter freddamente e imparzial-

mente parlare a noi di una setta i cui principi disprezzava, tanto

più in quanto anch'egli aveva commesso l'errore di aderirvi, ma

è nello stesso tempo troppo buon cristiano per deformarli a ra-

gion veduta.

A questo proposito il De Beausobre chiede ad Agostino come

mai egli abbia potuto aderire ad una setta dove si insegnavano

delle cose abominevoli, come abbia potuto difendere questa setta

contro i cattolici. E non importa, osserva il De Beausobre, che egli

fosse un uditore e non un eletto, in quanto Agostino stesso ci

dice (1) che queste queste nefandezze si trovano nel VII libro del

Tesoro, nefandezze che i Manichei praticano, dicono, credono. Per

cui, il De Beausobre conclude : « St. Augustin ne les ignoroit donc

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pas quand il étoit Manichéen : et de là il s'ensuit, ou que ce Pére

a été depuis l'àge de XIX ans jusqu'à XXVIII un homme sans rai-

son, sans conscience, sans discernement, capable d'entendre, de

lire, de croire les blasphèmes les plus injurieux à la Divinité: ou

que ces blasphèmes ne s'entendoient point, ne se croyoient point

parmi les Manichéens, et qu'ils ne se lisoient point dans le Livre

du Thréor, comme en effet ils n'y étoient pas » (2). Ma l'accusa

del De Beausobre è senza alcun fondamento, nel senso che egli

crede di prendere in fallo Agostino con delle parole che invece il

santo ha ripetutamente rivolto a se stesso. Agostino non ha mai

negato di considerare immorali e abominevoli i nove anni tra-

scorsi nella fede manichea : basti pensare alle Confessioni che co-

stituiscono tutto un atto di auto accusa. Quanto al fatto che nel

Tesoro non vi fosse contenuto ciò che Agostino dice, non abbiamo

(1) De natura boni, cap. XXXXIV.

(2) De Beausobre, op. cit., p. 236.

IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 203

prove sufficienti per negarlo, e dunque fino a quando non si pre-

senteranno prove contrarie, la parola di Agostino rimane l'unica

valida e attendibile.

Per cui ad Agostino non si può rimproverare il suo atteggia-

mento generale, ma si possono muovere delle critiche per que-

stioni particolari, come ad es. quella riguardante la dualità delle

anime, l'interpretazione panteistica del dio manicheo, la identifi-

cazione di Mani con lo Spirito Paracleto, ecc., nelle quali cade in

inesattezze ed errori, sia di critica, che di ricostruzione storica.

Possiamo concludere dunque che la testimonianza di Agostino sul

Manicheismo è quasi sempre attendibile, eccetto alcuni travisa-

menti interpretativi, dovuti non alla mala fede, ma alla sua pas-

sionalità polemica e all'amore per la sua religione.

Ci siamo infine soffermati anche sui maggiori problemi del

sistema agostiniano, per mettere in luce fino a qual punto l'espe-

rienza manichea avesse lasciato in lui le sue tracce. Agostino in-

fatti è stato accusato di non essersi affatto distaccato dalla con-

cezione manichea. Da Giuliano d'Eclano che fra l'altro lo accusa

di traducianesimo, fino al Terzi, che afferma come nello svolgi-

mento agostiniano riaffiora il naturalismo primitivo della conce-

zione manichea (3) si è tentato di porre degli addentellati più o

meno forti tra Agostino e la suddetta eresia. Ma anche in questo

caso la posizione più giusta, secondo noi, non è quella estremista :

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non si può cioé fare di Agostino un manicheo, né d'altronde pre-

tendere che la sua esperienza presso la setta non facesse sentire la

sua influenza anche dopo che egli se ne distaccò. La filosofia di

Agostino, quale si viene delineando fin dagli scritti del 386 è

frutto di un ripensamento ortodossamente cattolico, anche se qua

e là affiorano delle infiltrazioni manichee, come ad es. nella dot-

trina dell'anima, nel problema del male, ecc.

Speriamo d'essere riusciti nell'intento di puntualizzare in ma-

niera precisa e chiara questi tre scopi, che ci siamo prefissi nella

redazione di questo nostro lavoro. Nel qual caso la nostra fatica,

almeno per noi, non sarà stata inutile (4).

(3) Terzi, op. cit., p. 87.

(4) Purtroppo non abbiamo potuto pubblicare, per motivi economici,

l'appendice contenente tutti i passi latini, riguardanti i Manichei, desunti

desunti dalle opere di Agostino. Essa sarà pertanto materia di una nostra

prossima pubblicazione.

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INDICE

Pagg.

Cap. I. - La vita 7-25

Cap. II. - La dottrina 26-55

Cap. III. - Il Manicheismo 56-82

Cap. IV. - Ragione e fede 83-95

Cap. V. - Il problema del Male 96-119

Cap. VI. - Il problema della sostanza di Dio e della

sua immutabilità ed incorruttibilità . . 120-135

Cap. VII. - Il problema della apostolicità di Mani e

sua identificazione con lo Spirito Paracleto 136-148

Cap. VIII. - Ii problema della Verginità di Maria . . 149-155

Cap. IX. - Il problema della umanità di Cristo . . 156-163

Cap. X. - Il problema della concordanza del Vecchio

col Nuovo Testamento 164-187

Cap. XI. - Il problema morale 188-200

Conclusione 201-203

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Bibliografia 204-218

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PUBBLICAZIONI

DELL'ISTITUTO UNIVERSITARIO DI MAGISTERO

DI CATANIA

Serie Filosofica: Saggi e Monografie

1. - Carmelo Librizzi, Lo spiritualismo religioso nell'Età del Risorgi-

mento italiano, 1955, pp. 300.

2. - Giuseppe Fichera, Il problema del cominciamene logico e la categoria

del divenire in Hegel e nei suoi critici, 1956, pp. 166.

3. - Pasquale Mazzarella, Il pensiero di G. Scoto Eriugena, Saggio inter-

pretativo, 1957, pp. 180.

4. - Domenico D'Orsi, Lo Spirito come Atto puro in G. Gentile, 1957,

pp. 446.

5. - Anna Escher Di Stefano, La filosofia di A. Schopenhauer, Saggio in-

terpretativo, 1958, pp. 206.

6. - Giuseppe Fichera, Validità della logica aristotelica, 1958, pp. 98.

7. - Giuseppe Fichera, Crisi e valori, e altri saggi, 1958, pp. 138.

8. - Matteo Iannizzotto, Saggio sulla filosofia di Coluccio Salutati, 1959,

pp. 150.

9. - Massimo Rocca, Le incertezze della scienza moderna, 1959, pp. 222.

10. - Luigi Ambrosi, La psicologia dell'immaginazione nella storia della

filosofia, 1959, pp. XII-426.

11. - Ermenegildo Bertola, San Bernardo e la teologia speculativa, 1959,

pp. 154.

12. - Ignazio Vitale, L'armonia prestabilita in Leibniz, 1959, pp. 88.

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14. - Francesco Romano, Il pensiero filosofico di Piero Martinetti, 1959,

pp. 144.

15. - Salvatore Nicolosi, Il a De Provtdentia » di Sinesio di Cirene, 1959,

pp. 226.

16. - Carmelo Ottaviano, Critica dell'idealismo, 3* ediz., 1960, pp. 226.

17. - Carmelo Librizzi, La morale di Aristotele, 1960, pp. 106.

18. - Adriana Bertozzi, Saggi sul pensiero antico, 1960, pp. 80.

19. - Luciano Trudu, Saggi filosofici vari, 1960, pp. 100.

20. - Anna Escher Di Stefano, Il Manicheismo in S. Agostino, 1960, pp. 220.

Serie Filosofica: Testi e Documenti

1. - I Frammenti dei Presocratici, tradotti da Quintino Cataudella,

vol. 1°, Da Orfeo a Melisso, 1958, pp. 244.

Serie Filosofica: Testi e Traduzioni

1. - S. Anselmo d'Aosta, Il Proslogion, le Orazioni e le Meditazioni, Intro-

duzione e testo latino di F.S. Schmitt, trad. italiana di Giuseppe San-

dri, 1959, pp. 294.

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PUBBLICAZIONI

DELL'ISTITUTO UNIVERSITARIO DI MAGISTERO

DI CATANIA

Serie Letteraria: Saggi e Monografie

1. - Angelica Escher, Le favole simboliche di Goethe e di Novalis, 1956,

pp. 138.

2. - Francesco Corsaro, Sedulio poeta, 1956, pp. 282.

3. - Enrico Turolla, Poesia e poeti dell'antico mondo, Saggi critici, 1957,

pp. 348.

4. - Carlo Cordiè, Saggi e studi di letteratura francese, 1957, pp. 316.

5. - Angelo Morelli, Poesìa e critica poetica d'oltre Manica, 1958, pp. 128.

6. - Antonino Gandolfo, Benedetto Croce critico dei contemporanei, 1958,

pp. 104.

7. - Emilio Bodrero, Poesie e prose in Italiano di scrittori stranieri, 1958.

pp. 130.

8. - Salvatore Santangelo, Saggi danteschi, 1959, pp. 164.

9. - Gino Raya, Un secolo di bibliografia verghiana, 1960, pp. 266.

10. - Lylia Loce-Mandes, L'ideale educativo del Pascoli, 1960, pp. 94.

11. - Giulio Natali, Fronde Sparte, Saggi e Discorsi, 1960, pp. 268.

V

Serie Letteraria: Testi Critici

1. - AuRELn Augustini, Psalmus cantra Partem Donati, Intr., testo cri-

tico, trad. e note a cura di Rosario Anastasi, 1957, pp. 108.

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