147 54 1MB
Italian Pages 150
Titolo originale: The Book of General Ignorance © QI Ltd, 2006 Illustrations © Mr Bingo, 2006 The right of QI Ltd to be identified as author of this work has been asserted in accordance with Section 77 of the Copyright, Designs and Patents Act 1988 © 2007 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino www.einaudi.it ISBN 978-88-06-19060-6
John Lloyd e John Mitchinson Il libro dell'ignoranza Che cosa è verità e che cosa è semplicemente una panzana? Il libro-gioco che svela le nostre false conoscenze Traduzione di Alessandra Montrucchio Einaudi
Il libro dell'ignoranza La verità si penetra meglio con la non-conoscenza. Enrico Suso (1300-65), Dialogo della verità
Qual è la più grande cosa vivente? Un fungo. E non è neppure un fungo particolarmente raro. È probabile che abbiate un fungo del miele (Armillaria ostoyae) che cresce sul ceppo di un albero morto nel vostro giardino. Speriamo per voi che non raggiunga le dimensioni del più grande esemplare conosciuto, nella Malheur National Forest dell'Oregon. Copre 890 ettari e ha fra i 2000 e gli 8000 anni. Per la maggior parte si trova sotto terra, nella forma di un enorme intreccio di miceli (l'equivalente delle radici nei funghi) bianchi e tentacolari. I miceli si allargano tra le radici degli alberi, li uccidono e, di tanto in tanto, sbucano dal terreno come macchie innocenti di funghi del miele. All'inizio si pensava che il gigantesco fungo del miele dell'Oregon crescesse a grappoli separati per la foresta, ma ora i ricercatori hanno confermato che si tratta di un singolo organismo, il più grande del mondo, tutto interconnesso sotto terra. Confesso che nulla mi spaventa più della comparsa di funghi in tavola, specialmente in una cittadina di provincia. ALEXANDRE DUMAS
Dove si trova il posto più secco della terra?
In Antartide. Certe regioni del continente non vedono la pioggia da due milioni di anni. Tecnicamente, si definisce deserto un luogo dove cadono meno di 254 millimetri di pioggia all'anno. Il Sahara ne riceve annualmente soltanto 25. Le precipitazioni annue medie in Antartide sono più o meno le stesse, ma il 2 per cento del continente, le cosiddette Valli secche, è privo di ghiaccio e neve, e lì non piove assolutamente mai. Il secondo posto più secco del mondo è il deserto di Atacama in Cile. In alcune aree non piove da quattro secoli e le precipitazioni annuali medie ammontano a un risicato 0,1 millimetri. Questo, nel complesso, lo rende il deserto più secco del mondo, 250 volte più arido del Sahara.
Oltre che il posto più secco della terra, l'Antartide può vantare di essere anche il più umido e il più ventoso. Vi si trova il 70 per cento dell'acqua mondiale, sotto forma di ghiaccio, e la velocità dei suoi venti è la più alta che si conosca. Le condizioni uniche delle Valli secche in Antartide si devono ai cosiddetti venti catabatici (dal termine greco che significa «andare in discesa»). Questi venti si alzano quando dell'aria fredda e densa viene trascinata verso il basso dalla semplice forza di gravità, e possono raggiungere una velocità di 320 chilometri all'ora; nel processo, tutta l'umidità – acqua, ghiaccio e neve – evapora. Sebbene l'Antartide sia un deserto, le sue regioni più aride vengono definite, con una certa ironia, oasi. Le condizioni sono talmente simili a quelle su Marte che la Nasa vi ha svolto dei test per la missione Viking. Dove si trova la montagna più alta? Si trova su Marte. Il gigantesco Monte Olimpo – Olympus Mons in latino – è un vulcano ed è la montagna più alta del sistema solare e dell'universo conosciuto. Con 22 chilometri d'altezza e 624 di larghezza, è alto quasi tre volte l'Everest e così grande che la sua base occuperebbe l'Arizona o l'intera area delle isole britanniche. Il cratere misura 72 chilometri di larghezza e 3 di profondità: un'ampiezza più che sufficiente a inghiottire Londra senza problemi. Il Monte Olimpo non corrisponde all'idea di montagna che ha la maggior parte della gente. La cima è piatta – una sorta di vasto plateau oceanico senz'acqua – e i suoi fianchi non sono neanche ripidi. La loro leggera inclinazione tra il primo e il terzo grado significa che, arrampicandosi, non si suderebbe nemmeno. Di solito misuriamo le montagne in base all'altezza. Se le misurassimo in base alla grandezza, non avrebbe senso isolarne una dalla catena di cui fa parte. Se così fosse, l'Everest straccerebbe il Monte Olimpo. Fa parte della gigantesca catena dell'HimalayaKarakorum-Hindukush-Pamir, lunga quasi 2400 chilometri. Come si chiama la montagna più lunga del mondo? Mauna Kea, la vetta più alta dell'isola di Hawaii. Il vulcano, inattivo, è modesto: 4206 metri sul livello del mare. Se però lo si misura dal fondo dell'oceano fino alla cima, raggiunge i 10200 metri: oltre un chilometro più dell'Everest. Secondo la convenzione vigente per i rilievi, «la più alta» significa la montagna misurata dal livello del mare alla vetta; «la più lunga» significa la montagna misurata dai propri piedi alla sommità. Se l'Everest con i suoi 8848 metri è la montagna più alta del mondo, non è dunque la più lunga. Misurare le montagne è più complicato di quanto sembri. È piuttosto facile vederne la
vetta, ma dov'è esattamente la «base»? Ad esempio, c'è chi sostiene che il Kilimangiaro in Tanzania – 5895 metri – sia più alto dell'Everest perché si innalza direttamente dalla pianura africana, mentre l'Everest non è che uno dei tanti picchi in cima all'enorme base dell'Himalaya, condivisa dalle altre tredici montagne più alte del mondo. Altri affermano che la misura più logica sarebbe quella basata sulla distanza tra la vetta della montagna e il centro della Terra. Siccome il nostro pianeta non è una sfera perfetta ma schiacciata, l'equatore è di circa 21 chilometri più distante dal centro della terra rispetto ai poli. Questa è una buona notizia per la reputazione delle montagne più vicine all'equatore, come il Chimborazo nelle Ande, ma accoglierla significherebbe anche accettare che perfino le spiagge ecuadoriane sono «più alte» dell'Himalaya. Per quanto imponente, la catena himalayana è sorprendentemente giovane. Quando si formò, i dinosauri erano estinti da 25 milioni di anni. In Nepal chiamano l'Everest Chomolungma, «madre dell'universo». In Tibet, lo chiamano Sagamartha, «fronte del cielo». Come qualsiasi ragazzo sano, sta ancora crescendo, all'eccitantissimo ritmo di 4 millimetri all'anno. Quante mogli ebbe Enrico VIII?
Secondo noi, due. Secondo i cattolici, quattro. Il quarto matrimonio di Enrico, quello con Anna di Clèves, fu annullato. Faccenda ben diversa da un divorzio. Legalmente, significa che il matrimonio non c'è mai stato. Furono due le motivazioni dell'annullamento. Anna ed Enrico non consumarono mai le nozze; ovvero, non ebbero mai un rapporto sessuale. Il rifiuto o l'incapacità di consumare le nozze è tuttora una motivazione valida ai fini dell'annullamento. Inoltre, quando sposò Enrico, Anna era già fidanzata con Francesco, duca di Lorena. All'epoca, l'atto formale del fidanzamento era un impedimento legale a sposarsi con qualcun altro. Le parti concordarono che non aveva mai avuto luogo alcun matrimonio legale. Quindi ne rimangono cinque. Il papa dichiarò illegale il secondo matrimonio di Enrico, quello con Anna Bolena, poiché il re era ancora sposato con la prima moglie, Caterina d'Aragona. Dal canto suo Enrico, ormai a capo della nuova Chiesa d'Inghilterra, dichiarò che il suo primo matrimonio non era valido, con la motivazione legale che un uomo non poteva giacere con la vedova del fratello. Il re citava il Vecchio Testamento, definendolo «la legge
di Dio»: che al papa piacesse o no. A seconda che si dia retta al papa o al sovrano, i matrimoni scendono a quattro o a tre. Enrico annullò le nozze con Anna Bolena poco prima di farla giustiziare per adulterio. Un atto illogico, in qualche modo: se il matrimonio non aveva mai avuto luogo, difficile accusare Anna di infedeltà. Il sovrano fece lo stesso con la quinta moglie, Catherine Howard. È appurato che lei lo aveva tradito prima del matrimonio e che lo tradì durante. In quel caso, Enrico promulgò una legge speciale secondo cui l'adulterio da parte di una regina veniva considerato alto tradimento. Inoltre, fece di nuovo annullare le nozze. Arriviamo così a quattro annullamenti e a due soli matrimoni incontestabilmente legali. Esclusa l'ultima moglie, Catherine Parr (che gli sopravvisse), la signora che se la cavò a minor prezzo fu Anna di Clèves. Dopo l'annullamento, il re la ricoprì di doni e le riconobbe il titolo ufficiale di «buona sorella». Anna rendeva spesso visita a corte, e scambiava cuochi, ricette e oggetti per la casa con l'uomo che non era mai stato suo marito. Quante narici avete? Quattro. Due potete vederle; due no. Lo si è scoperto osservando come respirano i pesci: prendono l'ossigeno dall'acqua e hanno quasi tutti due paia di narici, un paio davanti per far entrare l'acqua e due specie di «tubi di scappamento» per farla uscire. La domanda è: se l'uomo discende dai pesci, dov'è finito il secondo paio di narici? La risposta è che sono migrate nella testa, o meglio in fondo alla testa, e sono diventate narici interne: le cosiddette coane, dal greco chóanē, «imbuto». Sono collegate alla gola e sono ciò che ci permette di respirare dal naso. Per arrivare là in fondo, le coane in un certo senso sono dovute partire dai denti. Per quanto sembri improbabile, alcuni scienziati in Cina e in Svezia di recente hanno trovato un pesce, il Kenichthys campbelli – un fossile di 395 milioni di anni – che rappresenta lo stadio intermedio di tale processo. Il pesce ha due buchi simili a narici fra gli incisivi. Il Kenichthys campbelli è un antenato diretto degli animali terrestri, capace di respirare sia dentro sia fuori dell'acqua. Un paio di narici gli permetteva di mangiare sui fondali bassi mentre l'altro spuntava dall'acqua, un po' come le narici del coccodrillo. Simili spazi tra i denti si possono notare anche in uno dei primi stadi di sviluppo dell'embrione umano. Quando non riescono a unirsi, il risultato è il palato leporino. Un pesce antico spiega così due misteri umani altrettanto antichi. Senza contare che le più recenti ricerche sui nasi dimostrano che usiamo ciascuna delle nostre narici esterne per rilevare odori diversi, e che respiriamo da ciascuna una differente quantità d'aria: e si crea in questo modo una sorta di stereo nasale. Vedere ciò che ci sta sotto il naso richiede uno sforzo costante.
GEORGE ORWELL
Qual è la cosa più grande che una balenottera azzurra possa inghiottire? a)Un enorme fungo b)Una piccola utilitaria c)Un pompelmo d)Un marinaio Un pompelmo. Interessante: la gola di una balenottera azzurra ha quasi esattamente lo stesso diametro del suo ombelico (che è grande più o meno come un piatto da dessert), ma è un pochino più piccola del suo timpano (che è grande più o meno come un piatto normale). Per otto mesi all'anno, le balenottere azzurre non mangiano virtualmente nulla, ma d'estate si nutrono in continuazione, e ogni giorno ingurgitano tre tonnellate di cibo. Come forse ricorderete dalle lezioni di biologia, la loro dieta consiste di crostacei minuscoli, rosei e simili a gamberetti detti krill, i quali vanno giù che è una meraviglia. Il krill arriva come su un piatto d'argento, in enormi banchi che possono pesare oltre 100000 tonnellate. La parola krill è norvegese. Deriva dal termine olandese kriel, che significa «avannotto» ma che ora viene usato per indicare sia i pigmei, sia le «galline nane». I bastoncini di krill sono stati lanciati sul mercato con un certo successo in Cile, ma la carne macinata di krill ha rappresentato pressoché un disastro in Russia, Polonia e Sudafrica a causa dei livelli pericolosamente alti di floruro. Sono i gusci del krill a contenere floruro, ma erano troppo piccoli per toglierli prima di tritare tutto. Visto lo stretto diametro della sua gola, la balenottera azzurra non avrebbe mai potuto ingoiare Giona. L'unica balena con una gola abbastanza grande da inghiottire una persona intera è il capodoglio ma, una volta dentro, l'intensa acidità dei succhi gastrici renderebbe impossibile sopravvivere a chiunque. Il caso di quel «Giona moderno», quando nel 1891 James Bartley dichiarò di essere stato inghiottito da un capodoglio e salvato dal resto dell'equipaggio quindici ore dopo, era una frode e come tale venne smascherata. Gola a parte, ogni altra cosa della balenottera azzurra è grande. Con i suoi 32 metri di lunghezza, è la più grossa creatura che sia mai vissuta, il triplo del dinosauro più grande e l'equivalente in peso di 2700 persone. La sua lingua pesa più di un elefante; il suo cuore ha le dimensioni di un'utilitaria; il suo stomaco può contenere oltre una tonnellata di cibo. Anche il suo verso è il più forte fra tutti quelli che emettono gli animali; una specie di ronzio a bassa frequenza che può essere percepito dalle altre balene a oltre 16000 chilometri di distanza. Quale uccello fa l'uovo più piccolo in rapporto alla sua taglia? Lo struzzo. Sebbene sia la cellula più grande in natura, un uovo di struzzo rappresenta meno dell'1,5 per cento del peso materno. Un uovo di scricciolo è il 13 per cento.
L'uovo più grande in rapporto alla dimensione dell'uccello è quello del kiwi maculato. Il suo uovo incide del 26 per cento sul suo peso: come se una donna partorisse un bambino di sei anni. Un uovo di struzzo pesa quanto 24 uova di gallina; per farne uno alla coque si impiegano 45 minuti. La regina Vittoria ne mangiò uno a colazione e lo dichiarò uno dei pasti migliori che avesse mai fatto. L'uovo più grande mai deposto da un animale – inclusi i dinosauri – apparteneva all'uccello elefante del Madagascar, che si estinse nel Settecento. Era dieci volte più grande dell'uovo di struzzo, con una capacità di 8 litri, ed equivaleva a 180 uova di gallina. Si pensa che sull'uccello elefante (Aepyomis maximus) si basi la leggenda del feroce roc contro cui lotta Sindbad nelle Mille e una notte. Quanto può vivere senza testa un pollo?
Circa due anni. Il 10 settembre 1945, nel paese di Fruita in Colorado, venne tagliata la testa a un giovane galletto grassoccio, che sopravvisse. Pare incredibile, ma l'accetta aveva mancato la giugulare e lasciato attaccato al collo un lembo di tronco encefalico sufficiente a farlo sopravvivere e addirittura crescere. Mike, come lo chiamavano, diventò una celebrità nazionale, fece una tournée del paese e apparve su «Time» e «Life». Il suo padrone, Lloyd Olsen, faceva pagare 25 cents per avere l'opportunità di vedere «Mike, lo straordinario pollo senza testa» in una serie di piccoli spettacoli che girarono in lungo e in largo per gli Stati Uniti. Mike compariva in scena con una testa di pollo rinsecchita che doveva passare per sua: la realtà era che il gatto degli Olsen si era pappato l'originale. All'apice della fama, Mike guadagnava 4500 dollari al mese, e ne valeva 10000. Il suo successo comportò un'ondata di simil-Mike, ovvero di polli decapitati; solo che nessuna di quelle vittime sfortunate visse per più di un giorno o due. Mike veniva nutrito e abbeverato con un contagocce. Nei due anni successivi alla perdita della testa, ingrassò di tre chili ed ebbe una vita felice, che trascorse a lisciarsi le piume e a «becchettare» il cibo con il collo. Una persona che lo aveva conosciuto bene pare abbia commentato: «Era un pollo grasso e grosso che non sapeva di non avere la testa». La tragedia avvenne di sera, nella stanza di un motel di Phoenix, in Arizona. A Mike cominciò a mancare il respiro e Lloyd Olsen si rese conto con orrore di aver dimenticato il contagocce allo show del giorno prima. Incapace di liberare le proprie vie aeree, Mike morì soffocato. Mike rimane una figura cult in Colorado e, dal 1999, nel mese di maggio Fruita lo ricorda con la giornata di «Mike il pollo senza testa».
Chi ha una memoria che dura tre secondi? Nonostante sia proverbiale, la memoria di un pesce rosso non dura pochi secondi. Una ricerca della School of Psychology all'Università di Plymouth nel 2003 ha dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio che i pesci rossi hanno una memoria che dura almeno tre mesi, capace di distinguere tra forme, colori e suoni diversi. È stato insegnato loro a spingere una leva per guadagnarsi da mangiare; quando la leva è stata tarata in modo da funzionare una sola ora al giorno, i pesci hanno imparato in fretta ad azionarla al momento giusto. Parecchi altri studi hanno dimostrato che i pesci d'allevamento possono facilmente imparare a mangiare in orari e luoghi particolari in risposta a un segnale uditivo. Se i pesci rossi, nuotando, non vanno a sbattere contro la boccia di vetro, non è perché la vedono, ma perché usano un sistema che percepisce la pressione detto organo della linea laterale. Certe specie di pesci ciechi delle caverne sono in grado di spostarsi alla perfezione nel loro habitat senza luce ricorrendo esclusivamente al proprio sistema di linea laterale. Qual è l'animale più pericoloso che sia mai vissuto? Metà degli esseri umani morti sinora, forse un numero pari a 45 miliardi di persone, è stata uccisa dalle femmine di zanzara (i maschi mordono solo le piante). Le zanzare sono portatrici di oltre 100 malattie potenzialmente mortali, tra cui la malaria, la febbre gialla, la dengue, l'encefalite, la filariosi e l'elefantiasi. Anche oggi uccidono una persona ogni dodici secondi. Sembra incredibile, ma nessuno si rese conto della pericolosità delle zanzare fino alla fine del XIX secolo. Nel 1877 un medico inglese, sir Patrick Manson – noto come «Mosquito» Manson – provò che l'elefantiasi era causata dai morsi di zanzara. Diciassette anni dopo, nel 1894, gli venne in mente che anche la malaria potesse essere causata dalle zanzare. Incoraggiò un suo allievo, Ronald Ross, all'epoca un giovane medico di stanza in India, a verificare l'ipotesi. Ross fu il primo a dimostrare che le femmine di zanzara trasmettono con la saliva il parassita plasmodio. Verificò la teoria grazie agli uccelli. Manson fece di meglio. Per dimostrare che la teoria funzionava anche con gli esseri umani, infettò il figlio con delle zanzare portate da Roma in una borsa diplomatica. (Per fortuna, dopo un'immediata dose di chinino, il bambino si riprese). Ross vinse il premio Nobel per la medicina nel 1902. Manson venne eletto membro della Royal Society e fatto cavaliere, e fondò la Scuola di medicina tropicale di Londra. Si conoscono 2500 specie di zanzare, 400 delle quali appartengono alla famiglia delle anofeli; di queste, 40 specie possono trasmettere la malaria. Le femmine usano il sangue succhiato per far maturare le uova, che depongono in acqua. Dalle uova nascono delle larve acquatiche. Quanto alle pupe di zanzara, a differenza di quasi tutti gli altri insetti sono attive e nuotano. I maschi di zanzara ronzano con un tono più alto delle femmine: possono essere
sessualmente attratti da un si naturale. Ad attirare le femmine di zanzara verso gli organismi ospiti sono l'umidità, il latte, l'anidride carbonica, il calore corporeo e il movimento. Le persone sudate e le donne incinte hanno maggiori possibilità di essere punte. Se pensi di essere troppo piccolo per contare qualcosa, prova a dormire in una stanza chiusa con una zanzara. PROVERBIO AFRICANO
Le marmotte uccidono l'uomo?
Sì. A colpi di tosse. Le marmotte sono benigni, panciuti membri della famiglia dei roditori. Sono grandi più o meno quanto un gatto e squittiscono forte quando hanno paura. Intenerisce meno il fatto che la varietà bobac, che vive nelle steppe della Mongolia, sia particolarmente soggetta a un'infezione polmonare causata dal batterio Yersinia pestis, comunemente noto come peste bubbonica. La diffondono tossendo addosso a chi si trova nelle vicinanze, infettando pulci, topi e infine l'uomo. Tutte le grandi epidemie di peste che dall'Asia orientale dilagarono in Europa arrivavano dalle marmotte della Mongolia. Si stima sia morto più di un miliardo di persone: questo rende le marmotte seconde solo alle zanzare della malaria come killer dell'uomo. Quando marmotte ed esseri umani muoiono di peste, le ghiandole linfatiche sotto le ascelle e all'inguine diventano nere e si gonfiano (tali infiammazioni prendono il nome di «bubboni»; l'origine è il greco boubon, «inguine», da cui «bubbonico»). I mongoli non mangerebbero mai l'ascella di una marmotta perché «contiene l'anima di un cacciatore morto». Le altre parti della marmotta in Mongolia sono considerate una prelibatezza. I cacciatori praticano strani rituali per stanare la preda: indossano finte orecchie da coniglio, ballano e agitano la coda di uno yak. Le marmotte catturate vengono grigliate intere su delle pietre incandescenti. In Europa, il grasso della marmotta alpina è ritenuto un toccasana contro i reumatismi. Altre specie di marmotta includono il cane delle praterie americano e la marmotta americana. Il Groundhog Day, appunto il giorno della marmotta americana, si celebra il 2 febbraio. Ogni anno, dei «guardiani» in smoking fanno uscire una marmotta nota come Punxsutawney Phil dalla sua tana riscaldata a Gobbler's Knob, Pennsylvania, e le chiedono se riesca a vedere la propria ombra. Se lei sussurra di sì, significa che l'inverno finirà nel giro di sei settimane. È dal 1887 che Phil non si sbaglia.
Oggi la peste bubbonica è ancora un pericolo – l'ultima epidemia seria si è verificata in India nel 1994 – ed è una delle tre malattie per le quali gli Stati Uniti richiedono la quarantena (le altre due sono la febbre gialla e il colera). Come muoiono i lemming? Non in un suicidio di massa, se è a questo che pensate. Sembra che l'idea del suicidio prenda origine dalle opere di alcuni naturalisti ottocenteschi, che avevano assistito (senza comprenderlo) al ciclo riproduttivo quadriennale tipico del lemming norvegese (Lemmus lemmus), caratterizzato da un processo di espansione e contrazione. I lemming hanno una capacità riproduttiva fenomenale. Una sola femmina può partorire fino a 80 piccoli l'anno. Un tempo, a causa delle improvvise impennate del loro numero gli scandinavi credevano che si generassero spontaneamente, grazie al clima. Quello che accade davvero è che gli inverni miti portano alla sovrappopolazione, che a sua volta porta a un'eccessiva necessità di nutrimento. I lemming si mettono in viaggio verso territori sconosciuti alla ricerca di cibo finché non incontrano ostacoli naturali come scogliere, laghi e mari e vi si ammassano davanti. Ma non si fermano. Si diffondono il panico e la violenza e si verificano incidenti. Ma non è un suicidio. Dal primo mito se n'è sviluppato uno secondario, ovvero che l'idea del suicidio di massa sia stata inventata nel 1958 da un documentario prodotto dalla Walt Disney, Artico selvaggio. In verità, si trattava in tutto e per tutto di un falso. Venne girato in Canada, nell'Alberta: un territorio senza sbocchi sul mare e senza lemming, che vi dovettero essere trasportati dal Manitoba, a centinaia di chilometri di distanza. Le riprese della «migrazione» furono fatte con uno sparuto numero di lemming su una piattaforma girevole coperta di neve. La famigerata scena finale – in cui i lemming si tuffano in mare mentre la voce off di Winston Hibbler recita con tono apocalittico: «È l'ultima occasione di tornare indietro, eppure vanno avanti, gettandosi tutti insieme nel vuoto» – fu creata dagli autori del film semplicemente gettando un lemming in un fiume. Ma la sola colpa di Disney fu quella di provare a ricreare una storia che esisteva già ed era ben radicata. Eccone la descrizione nel libro di consultazione per bambini più autorevole del primo Novecento, la Children's Encyclopedia di Arthur Mee, pubblicata nel 1908: Marciano dritti davanti a sé, oltrepassando colline e forre, giardini, fattorie, villaggi, entrando in pozzi e stagni di cui avvelenano l'acqua causando il tifo […] sempre avanti fino al mare, in acqua, fino alla distruzione […] è triste e terribile, ma se non avvenisse questo esodo orrendo i lemming avrebbero da tempo ridotto l'Europa a terra sterile.
Che cosa fanno i camaleonti? Non cambiano colore per mimetizzarsi con lo sfondo. Non l'hanno mai fatto; non lo faranno mai. Un'invenzione dalla A alla Z. Una
mistificazione bella e buona. Una bugia totale. Il mutamento di colore è il risultato di stati emotivi diversi. Se poi al camaleonte capita di confondersi con ciò che gli sta dietro, è un puro caso. I camaleonti cambiano colore quando hanno paura, vengono catturati o colpiscono un loro simile nella lotta. Cambiano colore davanti a un membro del sesso opposto. A volte, cambiano colore a causa di una variazione della luce o della temperatura. La pelle del camaleonte contiene diversi strati di cellule specializzate dette cromatofori (dal greco chrôma, «colore», e pherein, «portare») e contenenti ciascuna pigmenti di vari colori. Un'alterazione dell'equilibrio fra questi strati fa sì che la pelle rifletta diversi tipi di luce, rendendo i camaleonti una sorta di ruota dei colori in movimento. È strano quanto sia dura a morire la convinzione che cambino colore per accordarsi allo sfondo. La leggenda apparve per la prima volta nell'opera di uno scrittore greco minore, autore «di storie meravigliose» e biografie condensate: Antigono di Caristo, vissuto attorno al 240 a.C. Un secolo prima Aristotele, molto più autorevole di lui, aveva già collegato (con una certa correttezza) i cambiamenti cromatici alla paura; arrivati al Rinascimento, la teoria «dello sfondo» era stata quasi del tutto abbandonata. Ciononostante, il suo ritorno in pompa magna da allora fino ai giorni nostri è forse l'unica cosa che quasi tutti pensano di «sapere» dei camaleonti. I camaleonti posso rimanere perfettamente immobili per parecchie ore consecutive. Per questo motivo, e poiché mangiano molto poco, si è creduto per secoli che vivessero d'aria. Nemmeno questo è vero, naturalmente. La parola camaleonte deriva dal greco e significa «leone di terra». La specie più piccola è la Brookesia minima, lunga 25 millimetri; la più grande è la Chamaeleo parsonii, lunga oltre 610 millimetri. Il camaleonte comune si pregia del nome latino di Chamaeleo chamaeleon, che sembra una canzone. I camaleonti possono roteare e puntare gli occhi indipendentemente l'uno dall'altro, in due direzioni completamente diverse in contemporanea, ma sono sordi come campane. La Bibbia proibisce di mangiarli. Come si nascondono gli orsi bianchi?
Si coprono il naso nero con una zampa, giusto? Adorabile ma infondato, purtroppo. E non sono neanche mancini. I naturalisti hanno osservato gli orsi bianchi per centinaia e centinaia di ore e non hanno mai visto nulla a riprova del fatto che si coprano con discrezione il naso o che siano mancini. Però amano il dentifricio. Si sentono spesso raccontare i disastri compiuti dagli orsi bianchi nei campeggi artici, quando rovesciano tende e attrezzature da escursione soltanto
per ciucciare un tubetto di Pepsodent. Forse questa è una delle ragioni per cui la città di Churchill nel Manitoba ha una enorme «prigione dell'orso polare», addirittura in cemento. Qualunque orso gironzoli in città viene catturato e incarcerato. Alcuni scontano condanne di diversi mesi prima di essere rilasciati e restituiti alla comunità amareggiati, istituzionalizzati e disoccupati. Nato come obitorio di una base militare, l'edificio è ufficialmente designato come Building D-20. Può ospitare fino a 23 orsi. Gli orsi bianchi in estate non mangiano, quindi alcuni detenuti non vengono nutriti per mesi e mesi. Sono trattenuti fino alla primavera o all'autunno – stagioni di caccia, per loro –, così dopo la scarcerazione se ne vanno a pescare e non tornano a girovagare per Churchill. Il primo orso polare in cattività di cui si abbia notizia apparteneva a Tolomeo II d'Egitto (308-246 a.C.), che lo teneva nel suo zoo privato di Alessandria. Nel 57 d.C., lo scrittore romano Calpurnio Siculo descrisse gli orsi bianchi buttati nell'arena contro le foche in un anfiteatro allagato. Per catturare i cuccioli, i cacciatori vichinghi ne uccidevano e scuoiavano le madri, di cui stendevano le pelli sulla neve, e agguantavano i cuccioli quando venivano a sdraiarcisi sopra. I nomi scientifici possono essere un po' fuorvianti. Ursus arctos non è l'orso bianco ma quello bruno. Ursus naturalmente significa «orso» in latino, mentre arctos ha lo stesso significato in greco. È l'Artico a prendere il nome dall'orso, non viceversa; era la «regione dell'orso», dove vivevano gli orsi, indicata dal grande orso del cielo, la costellazione dell'Orsa Maggiore. L'orso polare è l'Ursus maritimus, l'orso del mare. Sono numerose le culture che hanno identificato la costellazione dell'Orsa Maggiore con un orso: gli ainu giapponesi a oriente, gli indiani d'America a occidente e proprio noi a metà strada. Anche se gli orsi bianchi sono letteralmente nati sotto la stella dell'Orsa Maggiore, per l'astrologia sono tutti del Capricorno, venuti al mondo a fine dicembre o inizio gennaio. L'orso bruno appartiene alla stessa specie del grizzly, termine usato per indicare gli orsi bruni che vivono nell'entroterra del Nord America. A dirla tutta, i parenti più stretti degli orsi sono i cani. Quante galassie sono visibili a occhio nudo? Cinquemila? Due milioni? Dieci miliardi? La risposta è quattro, sebbene, da dove siete seduti, possiate vederne soltanto due; e una delle due è la Via Lattea (quella in cui stiamo noi). Dato che si stima ci siano più di 100 miliardi di galassie nell'universo, comprendente ciascuna tra i 10 e i 100 miliardi di stelle, è un po' una delusione. In totale, a occhio nudo non se ne vedono che quattro dalla terra, delle quali solo la metà è contemporaneamente visibile (due in ogni emisfero). Nell'emisfero settentrionale si vedono la Via Lattea e Andromeda (M31), in quello meridionale le Nubi di Magellano, sia la Grande sia la Piccola. Alcune persone dotate di una vista eccezionalmente acuta affermano di riuscire a vederne altre tre: M33 nel Triangolo, M81 nell'Orsa Maggiore e M83 nella costellazione
Hydra, ma è molto difficile provarlo. Il numero di stelle che si suppongono visibili a occhio nudo varia tantissimo; si è però tutti concordi sul fatto che il totale sia inferiore a 10000, e di parecchio. Per la maggior parte, i software degli appassiona:i di astronomia ricorrono allo stesso database: l'elenco definisce 9600 stelle come «visibili a occhio nudo». Nessuno crede davvero a questa cifra. Altre stime variano da circa 8000 a meno di 3000. Si dice di solito che ci fossero più cinema in Unione Sovietica (circa 5200) che stelle visibili nel cielo notturno. Sul sito canadese www.starregistry.com potete battezzare una stella con il vostro nome o con quello di un amico per 98 dollari canadesi (175 se volete un certificato con tanto di cornice). Il sito elenca 2873 stelle come visibili a occhio nudo. Nessuna è disponibile, visto che hanno già tutte un nome storico o scientifico. Quali opere umane si vedono dalla luna? Dieci punti in meno se avete risposto la Grande Muraglia cinese. Nessun'opera umana, assolutamente nessuna può essere vista dalla luna a occhio nudo. L'idea che la Grande Muraglia sia «l'unico oggetto fatto dall'uomo che si vede dalla luna» è diffusissima, ma confonde «la luna» con lo spazio. Lo «spazio» è piuttosto vicino. Inizia a circa 100 chilometri dalla superficie terrestre. Da lì, si vedono molti artefatti umani: autostrade, navi in mare, ferrovie, città, campi coltivati e perfino singoli edifici. Comunque, a un'altitudine di sole poche migliaia di chilometri una volta lasciata l'orbita terrestre, non è possibile vedere alcun oggetto realizzato dall'uomo. Dalla luna – lontana oltre 400000 chilometri – quasi non si vedono neanche i continenti. E, per quanto Trivial Pursuit dica il contrario, non c'è nessun posto a metà strada da dove si veda «solo» la Grande Muraglia. Quali di queste sono invenzioni cinesi? a)Il vetro b)Il risciò c)Il chop suey d)I biscotti della fortuna Il chop suey, ovvero un piatto di riso con carne e verdura. Ci sono molte storie fantasiose sulle sue origini americane, ma è un piatto cinese. Nel fondamentale The Food of China (1988) di E.N. Anderson, il chop suey viene citato come piatto locale di Taishan, a sud di Canton. Lì lo chiamano tsap seui, che in cantonese significa «miscuglio di avanzi». La maggior parte degli immigrati in California provenivano da quella regione, da cui la precoce apparizione della specialità in America. Il vetro non è cinese: i primi artefatti in vetro risalgono all'antico Egitto, al 1350 a.C. Le
prime porcellane cinesi risalgono invece alla dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.). L'antica Cina costruì un'intera cultura sulla porcellana, ma non riuscì mai a venire a capo del vetro trasparente. A volte si ricorre a questo esempio per spiegare il fatto che i cinesi non hanno mai conosciuto una rivoluzione scientifica paragonabile a quella occidentale, che fu resa possibile dallo sviluppo delle lenti e dagli strumenti di vetro trasparente. Il risciò fu inventato da un missionario americano, Jonathan Scobie, che fu il primo a utilizzarlo per trasportare la moglie invalida per le strade di Yokohama in Giappone nel 1869. I biscotti della fortuna sono americani anche loro, per quanto siano stati inventati probabilmente da un immigrato giapponese, Makato Hagiwara, un architetto del paesaggio che fondò la Golden Gate Tearoom a San Francisco. Iniziò nel 1907 a servire delle focaccine dolci giapponesi; i ristoratori della Chinatown locale gliele copiarono e i bigliettini cominciarono a predire la sorte. Ma pazienza! L'ingegnosità cinese ci ha dato: l'abaco, l'aquilone, la balestra, il brandy, il calendario, la carriola, la carta, le carte orografiche, la cavezza, le campane, il coltro, il compasso, l'elicottero, i fiammiferi, i fuochi artificiali, la lacca, il lanciafiamme, le mongolfiere in miniatura (oggi lanterne di carta), il mulinello da pesca, i numeri negativi, l'ombrello, l'orologio meccanico, il paracadute, la polvere da sparo, la pompa da acqua, il ponte sospeso, la porcellana, la ricerca del petrolio, lo sciacquone, la seta, il sismografo, il sistema metrico decimale, gli specchi magici, le staffe, alcune tecniche di stampa e il timone. Cerca la conoscenza, fosse anche in Cina. MAOMETTO
Di dov'era Marco Polo? Era croato. Marco Polo nacque nel 1254 come Marko Pilić a Korcula, in Dalmazia, che allora era un protettorato veneziano. Probabilmente non sapremo mai se andò davvero in Estremo Oriente a diciassette anni con il padre e lo zio oppure se si limitò a registrare i racconti dei commercianti che percorrevano la Via della Seta e facevano tappa alla loro stazione commerciale sul Mar Nero. Ciò che è sicuro è che il libro sui viaggi di Marco Polo fu scritto in gran parte da Rustichello da Pisa, un autore di storie romanzesche con il quale Polo condivise la cella dopo essere stato fatto prigioniero dai Genovesi nel 1296. Polo dettava; Rustichello scriveva in francese, una lingua che l'altro non parlava. Il libro che ne risultò, e che uscì nel 1306, aveva l'intento di divertire, e diventò un best seller nell'era precedente l'invenzione della stampa. Meno sicuro il suo status di accurato resoconto storico.
Rimangono oscure le ragioni per cui fu intitolato Il Milione, ma di certo si guadagnò in fretta il soprannome di «Il milione di bugie», e Polo – ormai, un mercante ricco e di successo – era noto come «il signor Milione». È probabile che si trattasse soltanto dell'intrigante versione trecentesca di una specie di Meraviglioso libro delle meraviglie. Non è sopravvissuto nessun manoscritto originale. Si pensa che Marco Polo abbia introdotto la pasta e il gelato in Italia. In realtà, la pasta era conosciuta nei paesi arabi fin dal IX secolo, e se ne trova menzione a Genova nel 1279, venticinque anni prima che Marco Polo affermasse di essere tornato. Secondo lo storico dell'alimentazione Alan Davidson, il mito stesso non risale che al 1929, quando vi accennò una rivista americana dedicata alla pasta. Il gelato potrebbe anche essere un'invenzione cinese, ma pare improbabile che a introdurlo in Occidente sia stato Polo: non se ne trovano altri cenni fino alla metà del Seicento. Chi ha inventato il motore a vapore? a)James Watt b)George Stephenson c)Richard Trevithick d)Thomas Newcomen e)Un certo Erone d'Egitto Vince il premio Erone, qualcosa come milleseicento anni prima del motore di Newcomen nel 1711. Erone visse ad Alessandria intorno al 62 d.C., ed è più noto come matematico e ingegnere. Era però anche un inventore visionario e la sua eolipila o «palla di vento» fu il primo motore a vapore funzionante. Sfruttando lo stesso principio della gettopropulsione, una sfera metallica spinta a vapore rotolava a 1500 giri al minuto. Sfortunatamente per Erone, nessuno fu in grado di vederne le applicazioni pratiche, quindi non venne considerata che un oggetto divertente. Sorprendentemente, se solo Erone l'avesse saputo, settecento anni prima era già stata inventata la ferrovia: da Periandro, tiranno di Corinto. Chiamata Diolkos, o scivolo, correva per sei chilometri attraverso l'istmo di Corinto, e consisteva in una strada pavimentata a blocchi di calcare in cui erano incisi due solchi paralleli alla distanza di 1,5 metri. Le navi venivano caricate su delle specie di pianali che scorrevano in quelle tracce, e spinte da gruppi di schiavi che formavano una sorta di «canale sulla terraferma», una scorciatoia tra l'Egeo e lo Ionio. Il Diolkos restò in uso per millecinquecento anni, finché non cadde in rovina intorno al 900 d.C. Il principio delle vie ferrate fu quindi dimenticato per quasi cinquecento anni, finché non si ebbe l'idea di usarle nelle miniere nel XIV secolo. Lo storico Arnold Toynbee scrisse un brillante saggio in cui ipotizzava che cosa sarebbe accaduto se le due invenzioni si fossero unite e avessero creato un impero greco globale,
basato su una rapida rete ferroviaria, la democrazia ateniese e una religione di sapore buddista fondata sugli insegnamenti di Pitagora. En passant, accennava a un profeta mancato che visse a Nazaret, vicolo della Ferrovia 4. Erone inventò anche il distributore automatico – per quattro dracme si poteva ottenere un goccio di acqua santa – e un congegno portatile per essere sicuri che nessun altro bevesse il vino che ti portavi a una festa. Chi ha inventato il telefono? Gli italiani lo sanno bene. Antonio Meucci. Inventore fiorentino, bizzarro e a volte brillante, Meucci arrivò negli Stati Uniti nel 1850. Nel 1860 esibì il modello funzionante di un congegno elettrico che chiamava teletrofono. Nel 1871 registrò un caveat (una sorta di brevetto temporaneo), cinque anni prima del brevetto per il telefono di Alexander Graham Bell. Nello stesso anno, Meucci si ammalò: si era gravemente ustionato quando era esplosa la caldaia del traghetto per Staten Island. Poiché non parlava bene l'inglese e viveva grazie a un sussidio, nel 1874 non riuscì a mandare i dieci dollari necessari al rinnovo del caveat. Quando Bell registrò il suo brevetto nel 1876, Meucci gli fece causa. Mandò i suoi modelli e progetti originali al laboratorio della Western Union. Per una straordinaria coincidenza, Bell lavorava in quello stesso laboratorio. Misteriosamente, i modelli sparirono. Meucci morì nel 1889, mentre la causa contro Bell era ancora in corso. Il risultato fu che l'invenzione venne attribuita a Bell, e non a Meucci. Nel 2002, il Congresso degli Stati Uniti ha parzialmente ristabilito l'ordine approvando una delibera secondo cui occorre «onorare la vita e le realizzazioni dell'inventore italo-americano del XIX secolo, Antonio Meucci, e il suo lavoro nell'invenzione del telefono». Non che Bell fosse un impostore fatto e finito. Da giovane aveva insegnato al suo cane a dire «Come stai, nonna?»: era un modo per comunicare con lei quando stava in un'altra stanza. E fece del telefono uno strumento pratico. Come il suo amico Thomas Edison, Bell era instancabilmente alla ricerca di novità. E, come Edison, non sempre gli andava bene. Il suo metal detector non fu in grado di localizzare il proiettile nel corpo del presidente James Garfield. Sembra che a confondere il macchinario furono le molle metalliche del letto del presidente. Quanto alle incursioni di Bell nella genetica animale, a guidarle era il desiderio di aumentare i parti gemellari nelle pecore. Notò che le pecore con più di due mammelle partorivano più gemelli. Tutto quello che gli riuscì fu di avere più pecore con più mammelle. Di positivo, dette un aiuto concreto nell'invenzione di un aliscafo, l'HP4, che realizzò il primato mondiale di velocità in acqua – 114 chilometri orari – nel 1919 e lo mantenne per dieci anni. All'epoca, Bell di anni ne aveva ottantadue e rifiutò saggiamente di viaggiarci sopra. Bell si definì sempre e innanzitutto come un «maestro per sordi». Sua madre e sua
moglie erano sorde e fu lui l'insegnante della giovane Helen Keller, che gli avrebbe dedicato la propria autobiografia. Un giorno ci sarà un telefono in ogni grande città degli Stati Uniti. ALEXANDER GRAHAM BELL
Chi ha inventato lo champagne? Non i francesi. La considerino pure una sorpresa o un oltraggio: lo champagne l'hanno inventato gli inglesi. Come sa chiunque si sia fatto da solo una ginger beer, la fermentazione produce naturalmente delle bollicine. Il problema, da sempre, è tenerle sotto controllo. Gli inglesi si appassionarono al vino frizzante nel Cinquecento, quando importavano dalla Champagna barili e barili di vino giovane e fermo e vi aggiungevano zucchero e melassa per farlo fermentare. Misero a punto anche delle bottiglie di robusto vetro fuso a carbone e i tappi per conservarlo. Come mostrano gli archivi della Royal Society, di ciò che oggi viene chiamata méthode champenoise la prima testimonianza scritta si trova in Inghilterra nel 1662. I francesi vi aggiunsero raffinatezza e capacità commerciale, ma fu solo nel 1876 che perfezionarono il moderno sapore secco o brut (e anche allora fu per l'esportazione in Inghilterra). La Gran Bretagna è il miglior cliente della Francia, quanto a champagne. Nel 2004, ve ne sono stati consumati 34 milioni di bottiglie. Il che equivale a circa un terzo dell'intero mercato d'esportazione: due volte quello statunitense, tre volte quello tedesco e venti volte quello spagnolo. Il monaco benedettino Dom Pérignon (1638-1715) non inventò lo champagne: in realtà passò gran parte del suo tempo a cercare di eliminare le bollicine. La sua famosa esclamazione: «Presto, venite, sto bevendo le stelle» fu inventata per una pubblicità di fine Ottocento. Il vero lascito di Pérignon allo champagne sta nell'abile miscela di svariate qualità d'uva provenienti da vigneti diversi e nell'uso di un reticolo di fil di ferro o di canapa intorno al tappo. Una scappatoia legale permette eccezionalmente agli americani di chiamare champagne il loro spumante. Il Trattato di Madrid (1891) decretò che soltanto la regione della Champagne poteva usare quel nome. Lo riaffermò anche il Trattato di Versailles (1919), ma gli Stati Uniti firmarono una pace separata con la Germania. Durante il proibizionismo, i commercianti di vino americani approfittarono di quella scappatoia e vendettero liberamente il loro «champagne», con grande fastidio dei francesi. La coupe a forma di scodella in cui si beve a volte lo champagne non si basa su un calco del seno di Maria Antonietta. Fu realizzata per la prima volta nel 1663 (in Inghilterra), ben prima del suo regno. Finora non è stato suggerito alcun modello – e tantomeno nessuna modella – alternativo inglese.
Dove fu inventata la ghigliottina? Ad Halifax, nello Yorkshire. Il Patibolo di Halifax consisteva in due montanti di legno lunghi 4,5 metri circa, tra cui pendeva una mannaia di ferro montata su una trave maestra piombata, controllata da corda e carrucola. Gli archivi ufficiali dimostrano che su quel patibolo furono giustiziate, tra il 1286 e il 1650, non meno di 53 persone. La Halifax medievale fece la propria fortuna grazie al commercio di stoffe. Grandi quantità di tessuti di pregio venivano lasciati fuori dagli opifici, ad asciugare su delle impalcature. I furti rappresentavano un serio problema e i mercanti della città avevano bisogno di trovare un deterrente efficace. Il Patibolo e uno strumento simile usato in Scozia con il nome di The Maiden («la donzella») possono aver spinto i francesi a copiare l'idea e a inventare un nome loro. Il dottor Joseph Ignace Guillotin era un medico dotato di pietas e di modi gentili, e non gli piacevano le esecuzioni pubbliche. Nel 1789 presentò all'Assemblea nazionale un ambizioso progetto di riforma del sistema penale francese, tale da renderlo più umano. Propose un metodo meccanico standardizzato di esecuzione che non discriminava tra poveri (che venivano impiccati alla bell'e meglio) e ricchi (che venivano decapitati in modo relativamente decoroso). Quasi tutte le proposte furono respinte all'istante, ma la nozione di un congegno efficace per uccidere fece centro. Il suggerimento di Guillotin venne raccolto e perfezionato dal dottor Antoine Louis, segretario dell'Accademia di medicina. Fu lui, e non Guillotin, a realizzare il primo strumento funzionante con la sua caratteristica lama diagonale nel 1792. Addirittura, lo strumento venne chiamato per qualche tempo Louison o Louisette, dal nome del suo padrino. In qualche modo, tuttavia, il nome di Guillotin si appiccicò all'invenzione e, nonostante gli sforzi della sua famiglia, ci rimase caparbiamente attaccato. A differenza del racconto popolare, Guillotin non fu ucciso dalla macchina eponima; morì nel 1814 a causa di una cisti infetta su una spalla. La ghigliottina diventò il primo metodo «democratico» di esecuzione e fu adottato in tutta la Francia. Nei primi dieci anni, gli storici stimano che siano state decapitate 15000 persone. Solo la Germania nazista la usò per ucciderne di più: si calcola che, tra il 1938 e il 1945, siano stati ghigliottinati 40000 criminali. L'ultimo francese a venire ghigliottinato fu un immigrato tunisino, Hamida Djandoubi, per lo stupro e l'omicidio di una ragazza nel 1977. La pena di morte fu infine abolita in Francia nel 1981. È impossibile verificare con precisione per quanto tempo rimanga cosciente una testa mozzata, sempre che lo rimanga. La stima migliore è tra i 5 e i 13 secondi. Più cose vedo delle classi ricche, più capisco la ghigliottina. GEORGE BERNARD SHAW
Quanti prigionieri furono liberati grazie alla presa della Bastiglia? Sette. Il 14 luglio, anniversario della presa della Bastiglia, in Francia è festa nazionale, l'equivalente del 4 luglio negli Stati Uniti. Dai vividi quadri che ritraggono la scena, si potrebbe dedurre che centinaia di orgogliosi rivoluzionari dilagarono per le strade agitando i tricolori. In realtà, al momento dell'assedio non erano tenute prigioniere più di sette o otto persone. La Bastiglia fu assaltata il 14 luglio 1789. Poco tempo dopo, per le vie di Pairigi vennero messe in vendita delle orribili stampe in cui i prigionieri languivano in catene tra uno scheletro e l'altro: fu così che prese forma l'idea popolare di quali fossero le condizioni di vita nella prigione. Prigione lo era stata per secoli, quella fortezza risalente al XIII secolo; al tempo di Luigi XVI ospitava principalmente chi veniva arrestato su ordine del re o dei suoi ministri per reati quali la cospirazione e la sovversione. Tra gli ex detenuti d'eccezione c'era Voltaire, che proprio lì scrisse Edipo nel 1718. I sette prigionieri presenti quel giorno erano: quattro falsari, il conte di Solanges (dentro per «cattiva condotta sessuale») e due pazzi (uno dei quali era inglese o irlandese, un certo maggiore Whyte che sfoggiava un barbone lungo fino al petto e si credeva Giulio Cesare). Nell'attacco morirono cento persone, compreso il direttore del carcere: la sua testa fu portata in giro per Parigi in cima a una picca. A guardia della prigione c'era un contingente di invalides – soldati congedati per invalidità dal regolare servizio – e le condizioni erano piuttosto confortevoli per quasi tutti i detenuti, con orari di visita elastici e alloggi arredati. Un'opera del pittore Jean Fragonard ritrae un giorno di visita nel 1785: alcune dame elegantemente vestite passeggiano per il cortile insieme ai prigionieri, cui erano concessi una generosa indennità per le piccole spese, un bel po' di tabacco e di alcol, nonché il permesso di tenere animali domestici. Jean-François Marmontel, detenuto dal 1759 al 1760, scrisse: «Il vino non era eccellente, ma comunque passabile. Niente dolce: si doveva pur venire privati di qualcosa. Nel complesso, ho trovato che in prigione si mangiava benissimo». Sul diario di Luigi XVI, al giorno della presa della Bastiglia si legge: «Rien». Si riferiva al paniere della caccia. Chi ha detto: «Dategli delle brioches»? Sbagliato di nuovo. Non è stata lei. Probabilmente vi ricordate quella lezione di storia come fosse ieri. È il 1789 e la Rivoluzione francese è in atto. I poveri di Parigi sono in rivolta perché non hanno pane e la regina Maria Antonietta – con indifferenza spietata, per fare una battuta o per semplice stupidità – se ne esce con il fatuo consiglio che, invece, mangino dei croissant.
Il primo problema è che non si trattava di croissant, né di brioche nel senso odierno del termine. L'originale francese è «Qu'ils mangent de la brioche» e, secondo l'Oxford Companion to Food di Aland Davidson, «la brioche del Settecento era appena appena arricchita (da modeste quantità di burro e uova) e non molto diversa da una bella forma di pane bianco». Quindi, il commento potrebbe essere stato fatto nel tentativo di mostrarsi gentile: «Se vogliono del pane, dategli qualcosa di buono». Solo che Maria Antonietta quel commento non l'ha fatto. Era almeno dal 1760 che quella frase circolava e veniva sfruttata come prova della decadenza aristocratica. Jean-Jacques Rousseau affermava di averla già sentita nel 1740. Antonia Frazer, la biografa più recente di Maria Antonietta, attribuisce il commento alla regina Maria Teresa, moglie di Luigi XIV, il re Sole, ma c'è un esercito di gran dame settecentesche che potrebbero averlo fatto. È possibilissimo, poi, che sia stato inventato a scopi di propaganda. Un'altra storia suggerisce che sia stata proprio Maria Antonietta a introdurre i croissant in Francia dalla natia Vienna. Sembra altamente improbabile, visto che in Francia non si accenna da nessuna parte al croissant prima del 1853. È interessante che, circa alla stessa epoca, i pasticceri erranti viennesi avessero introdotto la pasta sfoglia in Danimarca, dove le eponime «danesine» erano invece note come Wienerbrød («pane viennese»). A Vienna, le chiamano Kopenhagener. Li conoscete bene gli svizzeri? a)Mangiano il biscotto arrotolato b)Mangiano i cani c)Hanno inventato l'orologio a cucù d)Non hanno un esercito Il biscotto arrotolato di pan di Spagna con la panna e la marmellata non è svizzero. La Gran Bretagna, chissà perché, è l'unico posto in cui lo chiamano swiss roll, «rotolo svizzero». In Svizzera si parla di Biscuitrolle o gâteau roulé; in Spagna di brazo de gitano, cioè di «braccio di zingaro»; e in America di jelly rolls, «rotoli di marmellata». In Italia nessuno sa cosa sia. Nonostante il famoso monologo di Orson Welles nel film di Carol Reed Il terzo uomo (1949), l'orologio a cucii fu inventato in Germania nel 1738. Gli svizzeri sono responsabili di svariati, moderni e utili contributi alla vita contemporanea, quali il rayon, il cellophane, il velcro, il cioccolato al latte e il coltellino (appunto) svizzero. Sono poi neutrali, ma non pacifisti. Ogni svizzero di sesso maschile che abbia tra i venti e i quarant'anni fa parte della milizia territoriale nazionale svizzera e a casa ha un fucile. Se gli elvetici dovessero partecipare a un conflitto, avrebbero un «esercito» di 500000 uomini. Nella Seconda guerra mondiale, le forze aeree svizzere abbatterono con
nonchalance velivoli sia tedeschi sia alleati. Resta il fatto di mangiare cani. Gli svizzeri, così sensibili e rispettosi della legge, sono gli unici europei a mangiare carne canina. Nessuno sa quanti cani finiscano sotto sale, affumicati o insaccati nei remoti villaggi alpini, ma capita di sicuro. Anche ai gatti. La loro difesa? È un modo ragionevole di riciclare un animale domestico molto amato, e poi è tutta salute. Dopo aver mangiato le parti più saporite del cane, il resto viene trasformato in lardo e usato come antitosse. Che cosa porta al collo un San Bernardo? I San Bernardi non hanno mai e poi mai portato al collo dei barilotti di brandy. La loro è una missione perfettamente astemia – a parte tutto, dare del brandy a una persona in ipotermia è un errore madornale – ma i turisti hanno sempre amato quell'idea, e quindi i cani posano coi barilotti al collo. Prima di essere addestrati come cani da soccorso montano, i San Bernardi furono impiegati dai monaci dell'Ospizio del passo del Gran San Bernardo per trasportare cibo: le dimensioni e il temperamento mansueto ne facevano delle ottime bestie da soma. Il barilotto di brandy fu l'idea di un giovane artista inglese, sir Edwin Landseer (180273), particolarmente nelle grazie della regina Vittoria. Era un rinomato pittore di paesaggi e animali, noto soprattutto per il quadro The Monarch of the Glen e per aver scolpito i leoni che circondano la base della Colonna di Nelson. Nel 1831 dipinse una scena intitolata Alpine Mastiffs Reanimating a Distressed Traveller («mastini delle Alpi che rianimano un viaggiatore in difficoltà») in cui compaiono due San Bernardi, uno dei quali porta al collo un piccolissimo barilotto di brandy, aggiunto dal pittore «per interesse». Da allora in poi, l'associazione fu appioppata ai San Bernardi in generale. A Landseer si attribuisce anche la diffusione del nome popolare di San Bernardo (e non mastino delle Alpi) dato alla razza. In origine, i San Bernardi erano conosciuti come «cani di Barry», corruzione del tedesco Bären, «orsi». Uno dei primi salvatori di vite umane era noto come «Barry il Grande»: salvò quaranta persone tra il 1800 e il 1812, ma purtroppo venne gravemente ferito dalla quarantunesima che lo aveva scambiato per un lupo, e morì nel 1814. Barry fu imbalsamato e adesso occupa la posizione più importante al Museo di storia naturale di Berna. In suo onore, il maschio più bello di ogni cucciolata all'Ospizio del San Bernardo prende il nome di Barry. A volte, il dovere dell'Ospizio di dare cibo e rifugio a chi lo chiede può rivelarsi complicato. Una notte del 1708, al canonico Vincent Camos toccò rifocillare oltre quattrocento viaggiatori. Per risparmiare manodopera, aveva un aggeggio simile a una grande ruota da criceto: un San Bernardo ci trotterellava dentro, facendo così girare gli spiedi collegati alla ruota. Si calcola che questi cani abbiano operato oltre 2500 salvataggi dall'Ottocento in poi, sebbene nessuno negli ultimi cinquant'anni. Il risultato è che il monastero ha deciso di
svenderli e rimpiazzarli con degli elicotteri. Che se ne faceva Darwin dei gufi morti? Li mangiava, anche se lo fece una volta sola. Charles Darwin era spinto da una curiosità non solo scientifica, ma anche gastronomica. Mentre alla Cambridge University studiava senza troppo entusiasmo teologia, divenne membro del «Glutton» o «Gourmet Club», il circolo dei ghiottoni o dei buongustai, che si riuniva una volta alla settimana e ce la metteva tutta per mangiare animali solitamente esclusi dai menù. Francis, figlio di Darwin, nel commentare le lettere del padre osservò che al Gourmet Club piacevano, tra l'altro, il falco e il tarabuso, ma che «il loro zelo venne meno a causa di un vecchio gufo marrone», che trovarono «indescrivibile». Col passare degli anni, Darwin si impegnò sempre di più nell'arena accademica e perse la fede in Dio, ma non perse mai il gusto per le attrattive di un menù insolito. Durante il viaggio sul Beagle, mangiò degli armadilli che, a suo dire, «sapevano e avevano l'aspetto di anatre» e un roditore color cioccolato che si rivelò «la miglior carne che io abbia mai assaggiato»; con ogni probabilità si trattava di un aguti, della famiglia Dasyproctidae, «deretano peloso» in greco. In Patagonia, si fece una scorpacciata di puma (il leone di montagna Felis concolor) e trovò che sapeva di vitello. In realtà, lì per lì credette che fosse vitello. Tempo dopo, una volta passata al setaccio l'intera Patagonia in cerca del nandù minore, Darwin si rese conto di averne già mangiato uno al pranzo di Natale, mentre era ormeggiato fuori Port Desire nel 1833. Ad ammazzare l'uccello era stato Conrad Martens, l'artista di bordo. Darwin stabilì che si trattava di un nandù maggiore, o «struzzo» come lo chiamava lui, e si rese conto del proprio errore solo quando tutti ebbero svuotato il proprio piatto: «Fu cucinato e mangiato prima che mi tornasse la memoria. Per fortuna avevamo conservato la testa, il collo, le zampe, le ali, molte delle piume più grandi e buona parte della pelle». Spedì i resti alla Zoological Society of London e il Rhea Darwinii prese il nome da lui. Nelle Galapagos, Darwin visse di iguana (Conolophus subcristatus) e, sull'isola di James, divorò alcune porzioni di tartaruga gigante. Poiché non comprendeva l'importanza delle tartarughe giganti per la teoria evolutiva che avrebbe poi elaborato, sul Beagle ne furono caricati 48 esemplari. Darwin e i suoi compagni di navigazione procedettero a mangiarli, lanciandone i gusci fuori bordo a mano a mano che finivano. Quanti sensi ha un essere umano?
Almeno nove. Il primo a elencare i cinque sensi che tutti conosciamo – vista, udito, gusto, olfatto e tatto – fu Aristotele, il quale, per quanto in gamba, di errori ne faceva parecchi. (Per dire, insegnava che pensiamo con il cuore, che le api nascono dalle carcasse imputridite dei tori e che le mosche hanno soltanto quattro zampe). C'è accordo generale su altri quattro sensi: 1. Termocezione, il senso del calore (o della sua mancanza) sulla nostra pelle. 2. Senso dell'equilibrio, determinato dalle cavità piene di liquido dell'orecchio interno. 3. Nocicezione, la percezione del dolore attraverso pelle, articolazioni e organi corporei. Stranamente non include il cervello, che non ha alcun recettore del dolore. Il mal di testa, nonostante le apparenze, non viene dal cervello. 4. Propriocezione, o «consapevolezza del corpo». Si tratta della conoscenza inconscia di dove sono le varie parti del nostro corpo senza poterle vedere né toccare. Per esempio, chiudete gli occhi e agitate il piede in aria. Continuate a sapere dove si trova in rapporto al resto di voi. Ogni neurologo che si rispetti ha la propria opinione sull'esistenza o meno di altri sensi, oltre a questi nove. Alcuni sostengono che ce ne siano fino a ventuno. Che dire della fame? O della sete? E il senso della profondità, o il significato, o il linguaggio? E il tema eternamente affascinante della sinestesia, in cui i sensi collidono e si combinano in modo tale che si può percepire la musica a colori? E il senso dell'elettricità, o perfino del pericolo incombente, quando si rizzano i capelli? Ci sono anche dei sensi che alcuni animali hanno e noi no. Gli squali hanno un'acuta elettrocezione, che permette loro di percepire i campi elettrici; la magnetorecezione rileva i campi magnetici e la usano i sistemi di navigazione di uccelli e insetti; i pesci ricorrono a eco localizzazione e «linea laterale» per avvertire la pressione; la visione a infrarossi è usata da gufi e cervi per cacciare o nutrirsi di notte. Quanti sono gli stati della materia? Tre. Facile. Solido, liquido, gassoso. In realtà sono circa 15, sebbene la lista si allunghi praticamente ogni giorno. Ecco l'ultimo frutto dei nostri sforzi: solido, solido amorfo, liquido, gassoso, plasma, superfluido, supersolido, materia degenere, neutronio, materia fortemente simmetrica, materia debolmente simmetrica, plasma di quark e gluoni, condensato fermionico, condensato di Bose-Einstein e materia strana.
Senza entrare in impenetrabili (e, quanto alla maggioranza dei risultati, inutili) dettagli, uno degli stati più curiosi è il condensato di Bose-Einstein. Un condensato di Bose-Einstein o BEC si ottiene quando si raffredda un elemento fino a una temperatura molto bassa (di solito, una minuscola frazione di grado sopra lo zero
assoluto, -273 gradi centigradi, la temperatura teorica a cui tutto smette di muoversi). Quando accade, cominciano a verificarsi delle cose stranissime. Comportamenti normalmente visibili solo a livello atomico si manifestano su una scala abbastanza grande da poterli osservare. Per esempio, se si mette un BEC in un becker, e lo si mantiene sufficientemente freddo, si arrampicherà su per le pareti e si butterà fuori dal becker, tutto da solo. Pare si tratti del futile tentativo di ridurre la sua energia (che è già al minimo livello possibile). Einstein aveva previsto l'esistenza del condensato di Bose-Einstein nel 1925, dopo aver studiato il lavoro di Satyendra Nath Bose; il condensato, però, fu ottenuto soltanto nel 1995 in America: un risultato che ha guadagnato ai suoi conseguitori il premio Nobel nel 2001. Lo stesso manoscritto di Einstein è stato riscoperto solo nel 2005. Qual è lo stato normale del vetro? Solido. Forse avete sentito dire che il vetro è un liquido che si è raffreddato senza cristallizzarsi e che si limita a scorrere meravigliosamente lento. È falso: il vetro è un vero e proprio solido. A supporto dell'affermazione che invece è un liquido, si indicano sovente le vetrate delle vecchie chiese, dove il vetro è più spesso alla base. La ragione non è che, nel corso del tempo, il vetro è colato giù, ma che i vetrai medievali a volte non riuscivano a forgiare delle lastre perfettamente uniformi. E se non ci riuscivano, preferivano mettere il vetro col bordo spesso dalla parte bassa della finestra, per ovvi motivi. La confusione sullo stato liquido o solido del vetro deriva da una lettura fuorviata del lavoro di un fisico tedesco, Gustav Tammann (1861-1938), che studiò il vetro e ne descrisse il comportamento allorché diventava solido. Osservò che la struttura molecolare del vetro è irregolare e disordinata, a differenza, per esempio, della disposizione precisa delle molecole nei metalli. In cerca di un'analogia, lo paragonò a «un liquido sovraraffreddato congelato». Ma dire che il vetro sembra un liquido non significa che lo sia. Al giorno d'oggi, i solidi vengono classificati come cristallini o amorfi. Il vetro è un solido amorfo. Quale metallo è liquido a temperatura ambiente? Non solo il mercurio, ma anche il gallio, il cesio e il francio possono tutti essere liquidi a temperatura ambiente. Poiché si tratta, essendo metalli, di liquidi molto densi, in teoria mattoni, ferri di cavallo e palle di cannone ci possono galleggiare dentro. Il gallio (Ga) venne scoperto dal chimico francese Lecoq de Boisbaudran nel 1875. Tutti
credevano che dietro al nome ci fossero ragioni patriottiche, ma gallus in latino significa «gallo» sia nel senso di «abitante della Gallia» sia in quello dell'animale da cortile, come «Lecoq». Fu il primo elemento nuovo a confermare le previsioni al riguardo che Dmitrij Mendeleev aveva tratto dalla tavola periodica. Il gallio si usa soprattutto nei chip al silicio per via delle sue particolari proprietà elettroniche. Si utilizza anche nei lettori Cd, poiché, mescolato all'arsenio, il gallio trasforma una corrente elettrica direttamente in raggio laser, il quale «legge» i dati sui dischi. Il cesio (Cs) si impiega soprattutto negli orologi atomici per definire il secondo atomico (cfr. p. 169). Inoltre, se viene a contatto con l'acqua esplode con estrema violenza. Il nome cesio significa «blu cielo», a causa delle linee di azzurro brillante che si trovano in parte del suo spettro. Fu scoperto nel 1860 da Robert Bunsen grazie allo spettroscopio che egli stesso aveva inventato insieme con Gustav Kirchhoff, colui che per primo aveva scoperto come i segnali viaggino lungo i fili del telegrafo alla velocità della luce. Il francio (Fr) è uno degli elementi più rari: si è calcolato che non ce ne siano che 30 grammi sulla terra. Questo perché è talmente radioattivo che decade rapidamente in elementi più stabili. È quindi un metallo liquido, ma non per molto: pochi secondi al massimo. Fu isolato nel 1939 da Marguerite Perey all'Institut Curie di Parigi. È stato l'ultimo elemento a venir trovato in natura. Gallio, cesio e francio diventano liquidi a temperature insolitamente basse per i metalli perché, a causa della disposizione degli elettroni, i loro atomi faticano ad avvicinarsi l'uno all'altro abbastanza da formare un reticolo cristallino. Ogni atomo se ne va a zonzo liberamente, senza venir attirato dai vicini: proprio quello che accade nei liquidi. Tra i metalli, qual è il conduttore migliore? L'argento. Il miglior conduttore sia di calore sia di elettricità è anche l'elemento con la maggiore riflettanza. L'aspetto negativo è che è caro. Il motivo per cui usiamo fili di rame negli impianti elettrici è che il rame, oltre a essere il secondo miglior conduttore, è molto più economico. Impieghi decorativi a parte, oggi l'argento si usa soprattutto in fotografia, nelle pile a lunga durata e nei pannelli solari. L'argento ha la curiosa proprietà di sterilizzare l'acqua. Ne occorrono solo quantità minime: 10 parti per miliardo. Questa caratteristica tanto particolare è nota fin dal v secolo a.C., quando Erodoto narrò che Ciro, re di Persia, viaggiava con una scorta d'acqua personale, attinta a una fonte speciale e sigillata in recipienti d'argento. Sia i romani che i greci si resero conto che i cibi e le bevande, se venivano conservati in contenitori d'argento, non si deterioravano così in fretta. Le forti qualità antibatteriche dell'argento vennero sfruttate per secoli e secoli, molto prima che si scoprissero i batteri. Questo, forse, spiega anche perché si trovano spesso delle monete d'argento in fondo ai pozzi antichi.
Un avvertimento, prima che vi mettiate a riempire d'argento i vostri boccali. Primo: l'argento ucciderà senz'altro i batteri in laboratorio, ma che faccia lo stesso nel corpo umano è controverso. Molti dei supposti vantaggi non sono provati: la Food and Drug Administration americana ha proibito alle aziende di pubblicizzare eventuali benefici sulla salute. Secondo: esiste una malattia, l'argiria, che è collegata all'assunzione di particelle d'argento diluite nell'acqua, il cui sintomo più evidente è il colore innegabilmente blu della pelle. D'altro canto, in piscina i sali d'argento sono un sostituto sicuro del cloro, e negli Stati Uniti i calzini degli atleti vengono impregnati d'argento perché i piedi non puzzino. L'acqua è un pessimo conduttore di elettricità, soprattutto l'acqua pura, che in effetti è utilizzata come isolante. A condurre l'elettricità non sono le molecole d'acqua, ma le sostanze chimiche in essa disciolte: per esempio il sale. L'acqua marina è un conduttore elettrico cento volte migliore dell'acqua fresca, ma un milione di volte peggiore dell'argento. Qual è l'elemento più denso? L'osmio o l'iridio; a seconda di come li si misura. I due metalli hanno una densità estremamente simile e spesso negli anni si sono scambiati di posto. Il terzo elemento più denso è il platino, seguito da renio, nettunio, plutonio e oro. Il piombo è molto, molto più in basso in classifica: è denso solo la metà di osmio e iridio. L'osmio (Os) è un metallo rarissimo, durissimo, color blu-argento. Lo scoprì (insieme all'iridio) nel 1803 il chimico inglese Smithson Tennant (1761-1815), che era figlio di un parroco di Richmond; fu tra l'altro il primo a dimostrare che il diamante era una forma di carbonio puro. Chiamò così l'osmio da osmē, il greco per «odore». Esso rilascia un tetrossido altamente tossico che emana un odore pungente e irritante e può recare danno ai polmoni, alla pelle e agli occhi e causare intensi mal di testa. Si è scelto il tetrossido di osmio per la rilevazione delle impronte digitali perché il suo vapore fa reazione con le infinitesime tracce oleose lasciate dalle dita, formando dei depositi neri. La sua estrema durezza e resistenza alla corrosione rendono l'osmio utile nella produzione di puntine per giradischi, aghi per compassi e pennini per stilografiche di pregio – da cui il nome commerciale: Osmiroid. L'osmio ha inoltre un punto di fusione insolitamente alto, 3054 gradi centigradi. Nel 1897, questo fatto ispirò a Karl Auer la creazione di una lampadina con filamenti di osmio che migliorasse quella con filamenti di fibre di bambù di Edison. L'osmio fu poi sostituito dal tungsteno, che fonde a 3407 gradi centigradi. Auer registrò il nome Osram nel 1906. Deriva da OSmium e WolfRAM, «tungsteno» in tedesco. Ogni anno, in tutto il mondo si producono meno di cento chilogrammi di osmio.
L'iridio (Ir) è un metallo bianco-giallognolo che, come l'osmio, è strettamente legato al platino. Il nome viene da iris, «iride, arcobaleno» in greco, per via dei tanti bei colori prodotti dai suoi composti. Anche l'iridio ha un punto di fusione estremamente alto (2446 gradi centigradi), e si usa soprattutto per fare i crogioli impiegati nelle fonderie di metalli e per indurire il platino. L'iridio è uno degli elementi più rari sulla terra (posto numero 84 su 92), ma se ne trovano quantità inverosimilmente grandi nel sottile strato geologico conosciuto come il confine K-T, depositatosi circa 65 milioni di anni fa. Per i geologi non può che essere arrivato dallo spazio, il che suffraga la teoria secondo cui fu l'impatto di un asteroide a provocare l'estinzione dei dinosauri.
Da dove vengono i diamanti?
Dai vulcani. Tutti i diamanti si formano in condizioni di immenso calore e fortissima pressione sottoterra e risalgono con le eruzioni vulcaniche. Nascono dai 160 ai 480 chilometri sotto la superficie terrestre. La maggior parte di essi si trova nella kimberlite, una roccia vulcanica, e si estrae nelle aree in cui esiste ancora un'attività vulcanica. Tutti gli altri si trovano sfusi, ripuliti della kimberlite originale. Sono venti le nazioni produttrici di diamanti. Attualmente, il Sudafrica è al quinto posto dopo l'Australia, la Repubblica democratica del Congo, il Botswana e la Russia. I diamanti sono di carbonio puro. È lo stesso per la grafite, il materiale di cui è fatta la mina delle matite, ma gli atomi di carbonio sono disposti in un altro modo. Il diamante è una delle sostanze più dure presenti in natura, con un punteggio pari aio nella scala di Mohs, mentre la grafite è una delle più morbide, con un punteggio pari a 1,5: appena più dura del talco in polvere. Il diamante più grosso che si conosca ha un diametro di 4000 chilometri e misura 1x1034 carati (2x1024 tonnellate). Si trova direttamente sopra l'Australia, a otto anni luce, nella stella «Lucy» della costellazione del Centauro. «Lucy» prende il nome da un classico dei Beatles, Lucy in the Sky with Diamonds, ma il suo nome tecnico è nana bianca BPM 37093. Il titolo della canzone deriva da un disegno del figlio di John Lennon, Julian, che ritraeva la sua amica quattrenne Lucy Richardson. Un tempo i diamanti erano il materiale più duro che si conoscesse al mondo. Nell'agosto 2005, però, in Germania alcuni scienziati sono riusciti a crearne uno ancora più duro in laboratorio. I cosiddetti nanorod aggregati del carbonio (ACNR è l'acronimo inglese), sono stati prodotti comprimendo e scaldando molecole di carbonio a 2226 gradi centigradi. Ciascuna di queste molecole comprende 60 atomi che si intrecciano a forma di pentagono o esagono; si dice assomiglino a microscopici palloni da calcio. L'ACNR è così
duro che graffia i diamanti senza alcuno sforzo. Ci sono tre cose veramente dure: l'acciaio, il diamante e conoscere se stessi. BENJAMIN FRANKLIN
Qual è il materiale più comune al mondo? a)Ossigeno b)Carbonio c)Azoto d)Acqua Nessuno dei quattro. La risposta è la perovskite, un composto minerale di magnesio, silicio e ossigeno. La perovskite è responsabile di circa la metà della massa totale del pianeta. È di perovskite che è fatto il mantello terrestre, per lo più. O così suppongono gli scienziati: finora, nessuno ne ha preso un campione per provarlo. Le perovskiti sono una famiglia di minerali che prendono il nome dal mineralogista russo che le scoprì nel 1839, il conte Lev Perovski. Potrebbero dimostrarsi il Santo Graal della ricerca sui superconduttori, quei materiali che possono condurre l'elettricità senza resistività a temperature normali. Significherebbe trasformare in realtà un mondo di treni «galleggianti» e di computer inimmaginabilmente veloci. Al momento, i superconduttori funzionano soltanto a temperature inutili perché troppo basse (la migliore, finora, sono -135 gradi centigradi). A parte la perovskite, si pensa che il mantello sia costituito da magnesio-wustite (un ossido di magnesio che si trova anche nei meteoriti) e da una piccola quantità di shistovite (da Lev Shistov, uno studente dell'università di Mosca che sintetizzò una nuova forma ad alta pressione di ossido di silicio in laboratorio nel 1959). Il mantello terrestre si trova fra la crosta e il nucleo. Generalmente si pensa che sia solido, ma alcuni scienziati credono che, in realtà, sia un liquido che si muove in modo molto, molto lento. Come sappiamo queste cose? Perfino le rocce espulse dai vulcani non vengono che dai primi 200 chilometri sotto la superficie, 660 chilometri prima che inizi il mantello inferiore. Se si inviano impulsi di onde sismiche dall'esterno verso l'interno e si registra la resistenza che incontrano, si possono calcolare sia la densità sia la temperatura della terra. I risultati si possono poi confrontare con ciò che già sappiamo sulla struttura dei minerali di cui possediamo dei campioni – prelevati nella crosta o dai meteoriti – e con quanto accade a questi minerali in condizioni di intenso calore e alta pressione. Come in altri casi scientifici, tuttavia, si tratta solo e sempre di un'ipotesi altamente plausibile.
Che odore ha la luna?
Sa di polvere da sparo, a quanto sembra. Solo dodici persone hanno camminato sulla luna, tutte americane. Ovviamente, chiusi com'erano nelle loro tute spaziali ermetiche gli astronauti non potevano davvero annusare la luna, ma la polvere lunare è appiccicosa, e quando rientrarono ne trasportarono molta con sé. Raccontarono che la polvere lunare sembrava neve, odorava di polvere da sparo e non aveva poi un sapore troppo cattivo. In effetti, è costituita più che altro da vetro di biossido di silicio, creato dalle meteore che si schiantano sulla superficie del nostro satellite. Contiene anche dei minerali: ferro, calcio, magnesio. La Nasa si avvale di un piccolo team per annusare ogni singolo pezzo dell'equipaggiamento che accompagna i voli spaziali. Questo per assicurarsi che nessun oggetto potenzialmente in grado di alterare il delicato equilibrio del clima nella Stazione spaziale internazionale entri sugli shuttle. L'idea che la luna fosse di formaggio risalirebbe al XVI secolo. La prima citazione, nei Proverbi di John Heywood (1564), dice che «la luna è fatta di formaggio verde». Si pensa che, in questo contesto, la parola «verde» significhi «nuovo», piuttosto che «di colore verde», visto che i formaggi freschi avrebbero spesso un aspetto più variegato, a chiazze: molto simile a quello della luna con tutti i suoi crateri. È la terra a girare intorno alla luna o la luna a girare intorno alla terra? Entrambe. Girano l'una intorno all'altra. I due corpi celesti orbitano intorno a un comune centro di gravità situato circa 1600 chilometri sotto la superficie terrestre. In questo modo, la terra compie tre rotazioni diverse: intorno al proprio asse, intorno al sole e intorno a questo punto. Confusi? Anche Newton sosteneva che pensare al moto della luna gli dava il mal di testa. Quante lune ha la terra? Almeno sette. Certamente la luna è l'unico corpo celeste a osservare un'orbita esatta intorno alla terra. Ora però ci sono sei nuovi asteroidi «Near-Earth» (NEA) che seguono davvero la terra intorno al sole, per quanto invisibili a occhio nudo. Il primo di questi co-orbitali a venire identificato è stato Cruithne (ha preso il nome dalla prima tribù celtica che si conosca in Britannia), un satellite largo quasi 5 chilometri
scoperto nel 1997. Compie una buffa orbita a ferro di cavallo. Da allora, ne sono stati identificati altri sei: sbrigativamente denominati 2000PH 5, 2000WN10, 2002 AA29, 2003 YN107 e 2004 GU9. Sono veramente delle lune? Molti astronomi direbbero di no, ma di sicuro sono qualcosa di più che semplici, banali asteroidi. Come la terra, impiegano circa un anno a girare intorno al sole (pensate a un circuito in cui due automobili corrono alla stessa velocità ma in corsie diverse) e, di tanto in tanto, si avvicinano abbastanza da esercitare una leggerissima attrazione gravitazionale. Perciò, che li definiate pseudolune, semisatelliti o asteroidi associati, vale la pena di guardarli, non ultimo perché alcuni di loro, se non tutti, un giorno potrebbero adeguarsi a un modello orbitale più regolare. Quanti pianeti ci sono nel sistema solare? Nove è la risposta sbagliata. Decisamente. Sono otto o dieci o forse 21. C'è chi direbbe un milione o due. Non lo sapremo di sicuro finché l'Unione astronomica internazionale non avrà finalmente preso una decisione sulla propria definizione – la si attende da tempo – di «pianeta». Nessuno pensa più che Plutone sia il nono pianeta. Anche gli astronomi più conservatori ammettono che si tratta di un pianeta per motivi più «culturali» che scientifici (tradotto: per non scombussolare la gente, non lo declasseranno). Coloro che scoprirono il pianeta nel 1930 non erano del tutto convinti; vi si riferivano come a un oggetto transnettuniano o TNO: qualcosa al confine del sistema solare, oltre Nettuno. Plutone è molto più piccolo di tutti gli altri pianeti, ed è più piccolo perfino di sette delle loro lune. Non è molto più grande neanche della sua, di luna, Caronte (nel 2005 sono state scoperte altre due lune plutoniane, più piccole). La sua orbita è eccentrica e su un piano diverso rispetto agli altri pianeti; è molto diversa anche la sua composizione. I quattro pianeti più interni sono di medie dimensioni e rocciosi; gli altri quattro sono giganti di gas. Plutone è una minuscola palla di ghiaccio, uno degli almeno 60000 oggettini simili a comete che formano la fascia di Kuiper, proprio al confine del sistema solare. Tutti questi planetoidi (inclusi asteroidi, TNO e una moltitudine di altre sottoclassificazioni) sono comunemente noti come pianeti minori. Ce ne sono 330795 già registrati, se ne scoprono 5000 nuovi al mese e si stima possano esserci quasi due milioni di corpi simili con un diametro di oltre un chilometro. Alcuni sono davvero troppo piccoli per essere considerati pianeti, ma pare che 12 di loro possano competere eccome col più quotato Plutone. Uno di essi, scoperto nel 2005 e simpaticamente noto come 2003 UB 313, in effetti è più grosso di Plutone. Altri, come Sedna, Orcus e Quaoar, non sono molto più piccoli. È probabile che finiremo per avere due sistemi. Il sistema solare, con otto pianeti, e il
sistema della fascia di Kuiper, in cui saranno inclusi Plutone e i nuovi pianeti. Questo cambiamento ha dei precedenti. Cerere, l'asteroide più grande, fu considerato il decimo pianeta dalla sua scoperta nel 1801 fino agli anni Cinquanta dello stesso secolo, quando venne declassato ad asteroide. Come volare attraverso una fascia di asteroidi? Tenete gli occhi aperti, ma è sul serio improbabile che collidiate con alcunché. A dispetto di ciò che magari avete visto in qualche brutto film di fantascienza, di solito le fasce di asteroidi sono dei posti piuttosto desolati. Molto indaffarati in confronto al resto dello spazio, ma comunque desolati. Generalmente, la distanza fra due grossi asteroidi (di quelli che potrebbero causare dei seri danni a un'astronave) è di circa due milioni di chilometri. Sebbene esistano alcuni ammassi chiamati «famiglie» che si sono formati di recente a partire da un corpo più grande, non sarebbe difficile attraversare una fascia di asteroidi. In realtà, scegliendo un percorso a caso, potreste considerarvi già fortunati se avvistaste un solo asteroide. Se accadesse, forse vi farebbe piacere dargli un nome. Oggigiorno l'Unione astronomica internazionale ha una Commissione per la nomenclatura dei corpi minori, composta da quindici persone, che controlla l'assegnazione dei nomi – fenomeno in continua crescita – ai pianeti minori. Non è una faccenda tanto seria, come dimostrano questi esempi: (15887) Daveclark, (14965) Bonk («colpo» o «scopata»), (18932) Robinhood, (69961) Millosevich, (2829) Bobhope, (7328) Seanconnery, (5762) Wanke («masturbazione»), (453) Tea, (3904) Honda, (17627) Hurnpty-dumpty, (9941) Iguanodon, (9949) Brontosaurus, (9778) Isabelallende, (4479) Charlieparker, (9007) James Bond, (39415) Janeausten, (11548) Jerrylewis, (19367) Pink Floyd, (5878) Charlene, (6042) Cheshirecat, (4735) Gary, (3742) Sunshine, (17458) Dick («cazzo»), (1629) Pecker («picchio» o «pene») e (821) Fanny.
Smith, Jones, Brown e Robinson sono tutti nomi ufficiali di asteroidi, così come Bikki, Bus, Bok, Lick, Kwee, Hippa, Mr Spock, Roddenberry e Swissair. Assegnare un nome eccentrico a un pianeta non è una novità. A battezzare Plutone nel 1930 fu Venetia Burney, una studentessa undicenne di Oxford: a colazione lo consigliò a suo nonno, e suo nonno lo disse al suo caro amico Herbert Hall Turner, professore di astronomia a Oxford. Forse 2003 UB313 finirà per chiamarsi Rupert, il nome dato da Douglas Adams al decimo pianeta nella Guida galattica per autostoppisti. Il giorno precedente la morte di Adams, avvenuta improvvisamente nel 2001, l'asteroide (18610) fu battezzato come il suo personaggio, Arthurdent. E adesso Adams ne ha uno tutto suo: (25924) Douglasadams.
Che cosa c'è in un atomo? Praticamente nulla. Gran parte di un atomo è spazio vuoto. Per farvene un'idea, immaginate che un atomo sia grande quanto uno stadio. Gli elettroni sono lassù in tribuna, ciascuno più piccolo di una capocchia di spillo. Il nucleo sta sul cerchio disegnato a centro campo, ed è grande circa come un pisello. Per secoli e secoli, si è pensato che gli atomi, all'epoca pura teoria, fossero le più piccole unità di materia possibili, da cui il termine, che in greco significa «non-diviso». Poi, nel 1897, fu scoperto l'elettrone, seguito nel 1911 dal protone. L'atomo fu diviso e il neutrone scoperto nel 1932. La questione non si chiuse lì, neanche per idea. I protoni, a carica positiva, e i neutroni, privi di carica, presenti nel nucleo sono costituiti da elementi ancora più piccini. Queste unità ancora più minuscole, i quark, hanno nomi come «stranezza» e «incanto» e non hanno forme e dimensioni diverse, ma «sapori». I satelliti più distanti del nucleo, gli elettroni, hanno carica negativa e sono così strani che ormai nessuno li chiama così, ma «cariche a densità di probabilità». Arrivati agli anni Cinquanta, si era scoperta una quantità quasi imbarazzante di nuove particelle subatomiche (oltre cento). Di qualunque cosa si trattasse, nessuno pareva in grado di andare fino in fondo alla faccenda. Enrico Fermi, il fisico italiano che vinse il premio Nobel per la fisica nel 1938, pare abbia detto: «Se riuscissi a ricordare il nome di ogni particella subatomica, sarei un botanico». Dall'epoca di Fermi, gli scienziati hanno fissato il numero di particelle subatomiche a 24. Questa, che è l'ipotesi più diffusa, è nota come il Modello standard, il che ci dà l'impressione di avere le idee chiare su cosa è cosa. Per quanto ne sappiamo, l'universo in generale è sottopopolato quanto l'atomo. Lo spazio, in media, non contiene che un paio di atomi per metro cubo. Di tanto in tanto, la gravità li organizza in stelle, pianeti e giraffe, che sembra ugualmente straordinario. Non esiste nulla eccetto gli atomi e lo spazio vuoto; tutto il resto è opinione. DEMOCRITO DI ABDERA
Qual è il componente principale dell'aria?
a)Ossigeno b)Anidride carbonica
c)Idrogeno d)Azoto L'azoto. Come sa qualunque dodicenne, costituisce il 78 per cento dell'aria. L'ossigeno è meno del 21 per cento. Quanto all'anidride carbonica, è solo 3/100 dell'1 per cento. L'alta percentuale di azoto nell'aria è il risultato delle eruzioni vulcaniche avvenute nel corso della formazione della terra. L'azoto venne rilasciato nell'atmosfera in quantità enormi, ed essendo più pesante di idrogeno o elio, rimase più vicino alla superficie del pianeta. Una persona sui 76 chili ne contiene quasi uno di azoto. Il salnitro, o nitrato di potassio (o nitro, come lo si chiamava un tempo), un composto dell'azoto, è l'ingrediente chiave della polvere da sparo, e si usa anche per trattare la carne o come conservante per il gelato e anestetico nel dentifricio per denti sensibili. La parola «azoto» deriva dal greco e significa «privo di vita». Le lattine di birra con dentro i widget, quelle capsule sensibili alla pressione, contengono azoto, non anidride carbonica. Le bollicine di azoto più piccole fanno una schiuma più liscia e cremosa. L'unico altro gas che abbia una presenza significativa nell'aria è l'argo (1 per cento). Fu scoperto da William John Strutt, Lord Rayleigh, che fu anche il primo a capire perché il cielo è blu. Dove andreste a prendere una bella boccata di ozono? Non datevi la pena di andare al mare. Il culto ottocentesco della salubre aria di mare si basava su un madornale qui pro quo. Quell'odore corroborante e salato non ha niente a che fare con l'ozono, un gas instabile e pericoloso. L'ozono venne scoperto nel 1840 dal chimico tedesco Christian Schönbein. Indagando sull'odore così particolare che caratterizza gli impianti elettrici, risalì a un gas, l'O3, che battezzò a partire dal greco «avere odore» (ózein). L'ozono o «aria pesante» incontrò i favori di quei medici ancora dominati dalla teoria dei «miasmi» come origine delle malattie, secondo cui la cattiva salute si sprigionava dai cattivi odori. L'ozono, ritenevano, era esattamente quello che ci voleva per liberarsi i polmoni dagli «effluvi» nocivi e il mare era esattamente il luogo dove trovarlo. Intorno alle «cure all'ozono» e agli «alberghi dell'ozono» (ve ne sono ancora alcuni con questo nome in Australasia) sorse una vera e propria industria. Oggi sappiamo che il mare non sa di ozono: sa di alghe marce. Non c'è alcuna prova che questo odore faccia bene o male (fondamentalmente, si tratta di composti dello zolfo). Al limite, si possono creare delle associazioni positive nel cervello che vi riporteranno alle
vacanze felici dell'infanzia. Quanto all'ozono, lo scappamento della vostra automobile, combinato con la luce solare, produce molto più ozono di qualunque cosa troviate in spiaggia. Se proprio ve ne volete riempire i polmoni, la cosa migliore sarebbe attaccarvi a una marmitta. E non sarebbe una gran buona raccomandazione. A parte procurarvi danni irreparabili ai polmoni, potreste bruciarvi le labbra. L'ozono si usa per fare la candeggina e uccidere i batteri nell'acqua potabile: un'alternativa meno nociva del cloro. Lo producono anche gli apparecchi elettrici ad alto voltaggio, come i televisori e le fotocopiatrici. Certi alberi, per esempio le querce e i salici, rilasciano ozono, potenzialmente velenoso per la vegetazione circostante. Lo strato sempre più sottile di ozono che protegge il pianeta dalle pericolose radiazioni ultraviolette ci sarebbe fatale se lo inalassimo. Si trova a 24 chilometri dalla superficie terrestre e sa vagamente di geranio. A che velocità viaggia la luce? Dipende. Si dice spesso che la velocità della luce sia costante, ma non è vero. Soltanto nel vuoto la luce raggiunge sul serio la sua velocità massima, ovvero 300000 chilometri al secondo. In qualunque altro mezzo, la velocità della luce varia sensibilmente, ed è sempre inferiore al valore che tutti conoscono. Attraverso i diamanti, per esempio, viaggia a meno della metà della sua velocità: circa 130000 chilometri al secondo. Fino a poco tempo fa, la più bassa velocità della luce registrata (attraverso il sodio a -272 gradi centigradi) era appena superiore ai 60 chilometri orari: più lenta di una bicicletta. Nel 2000, la stessa squadra dell'Università di Harvard è riuscita a portare la luce all'immobilità assoluta facendola passare in un BEC (condensato di Bose-Einstein) di rubidio. Il rubidio fu scoperto da Robert Bunsen (1811-99), il quale non inventò il becco Bunsen che da lui prende il nome. Strano ma vero, la luce è invisibile. Non si può vedere la luce in se stessa, si può vedere soltanto quello su cui va a sbattere. Nel vuoto, un raggio di luce che splenda ad angolo retto rispetto all'osservatore non è visibile. Per quanto bizzarro, anzi molto bizzarro, ha un che di logico. Se la luce in sé fosse visibile, formerebbe una specie di nebbia tra i vostri occhi e qualunque cosa abbiate davanti. Il buio è altrettanto strano. Non c'è, ma non ci si può vedere attraverso.
Che cosa sentono le falene per le fiamme? Non ne sono attratte. Ne vengono disorientate. A parte qualche occasionale incendio in una foresta, le fonti luminose artificiali esistono da un periodo di tempo brevissimo rispetto all'età della relazione tra falene, sole e luna. Molti insetti usano queste fonti luminose per orientarsi di giorno e di notte. Poiché il sole e la luna sono molto lontani, gli insetti si sono evoluti in modo tale che la luce dei due astri colpisca i loro occhi sempre secondo un certo angolo in momenti diversi del giorno o della notte, rendendoli in grado di calcolare come volare in linea retta. Poi arrivano degli esseri umani coi loro minisoli e minilune portatili, una falena vola nei dintorni e la luce la confonde. Ne deduce di doversi in qualche modo muovere secondo un tragitto curvo, perché la sua posizione rispetto al «sole» o alla «luna» – che dovrebbero stare fermi – è inaspettatamente cambiata. La falena aggiusta quindi il proprio percorso, finché la luce non le sembra di nuovo ferma. Stabilità che, con una fonte luminosa tanto vicina, è possibile soltanto continuando a volare in circolo. Quante zampe ha un centopiedi? Non cento. Sebbene sia più di un secolo che si studiano con dovizia di particolari i centopiedi, nessuno ne ha mai trovato uno con esattamente cento zampe. Alcuni ne hanno di più, altri di meno. Quello col numero di zampe più vicino a cento è stato scoperto nel 1999. Ne ha 96 ed è unico per un fatto: è la sola specie nota di centopiede con un numero pari di paia di zampe, 48. Tutti gli altri centopiedi hanno un numero dispari di paia di zampe, da 15 a 191. Quante dita ha un bradipo didattilo? Sei oppure otto. Per motivi noti solo ai tassonomisti, i bradipi in questione sono detti «a due dita» piuttosto che «a due unghie». Sia i bradipi didattili sia quelli tridattili hanno tre «dita» per zampa. I didattili si distinguono dai tridattili perché hanno due «unghie» per «mano», mentre i tridattili ne hanno tre. A dispetto delle ovvie somiglianze, i bradipi tridattili e didattili non sono parenti stretti. I didattili sono lievemente più veloci. I tridattili hanno 9 vertebre cervicali, i didattili 6. I bradipi tridattili sono dei buoni animali domestici, mentre i didattili sono cattivelli. I tridattili emettono dalle narici dei fischi acuti. Se disturbati, i didattili sibilano. Di solito, i bradipi sono i mammiferi più lenti del mondo. La loro velocità massima supera di poco gli 1,6 chilometri all'ora, ma per lo più avanzano lemme lemme, a meno di 2 metri al minuto. Dormono dalle 14 alle 19 ore al giorno e passano la vita intera appesi agli alberi, a testa
in giù. Mangiano, dormono, si accoppiano, procreano e muoiono a testa in giù. Alcuni si muovono così poco che due specie di alghe gli attecchiscono addosso, dando ai bradipi una sfumatura verdognola, utilissima tra l'altro come travestimento. Anche diverse specie di farfalle notturne e scarafaggi fanno il nido nella pelliccia del bradipo. Il metabolismo è lento pure lui. I bradipi impiegano più di un mese a digerire e urinano e defecano solo una volta alla settimana. Lo fanno ai piedi degli alberi su cui vivono, e questi cumuli nauseabondi sono romanticamente noti come «luoghi di appuntamento». Come i rettili, praticano la termoregolazione: si crogiolano al sole per scaldarsi e si ritirano nell'ombra per raffreddarsi. Questo rallenta il complesso, letargico ritmo della loro digestione. Nella stagione delle piogge, quando stanno immobili sotto le foglie per rimanere asciutti, alcuni bradipi si esibiscono nella stupefacente prodezza di morire di fame con lo stomaco pieno. «Bradipo» in spagnolo si dice perezoso, «pigro», da non confondersi con perezosa, che significa «sdraio». Quanti occhi ha un ragno lupo dagli occhi grandi senza occhi? a)Nessuno b)Nessuno, ma quelli che ha sono grandi c)Un occhio grande che non ci vede d)144 escrescenze che sembrano occhi Nessuno. L'aracnide cieco fu scoperto per la prima volta nel 1973 e l'intera popolazione vive in tre caverne estremamente buie sull'isola vulcanica di Kauai nelle Hawaii. Come altri animali che dimorano nelle caverne, si è evoluto senza aver bisogno di vedere; tuttavia, poiché appartiene alla famiglia dei licosidi, e poiché i licosidi hanno gli occhi grandi, è arrivato appunto a chiamarsi «dagli occhi grandi» (cioè, se avesse un occhio sarebbe grande). Da adulto, ha più o meno le stesse dimensioni di una moneta da 2 euro. Il suo coinquilino nonché fonte principale di nutrimento è l'anfipodo di caverna di Kauai, un piccolo crostaceo che sembra un gamberetto cieco e semitrasparente. Quanti peni ha la forbicina? a)14 b)Neanche uno c)Due (uno per le occasioni speciali) d)Fatevi gli affari vostri La risposta è c. La forbicina ne tiene uno di riserva nel caso si stacchi il primo, il che accade piuttosto di frequente.
I due peni sono fragilissimi e relativamente lunghi: poco più di un centimetro, il che equivale a dire che sono spesso più lunghi della forbicina stessa. Lo scoprirono due studiosi dell'Università metropolitana di Tokyo quando uno di loro prese per gioco l'estremità posteriore di una forbicina maschio durante l'accoppiamento. Il suo pene si staccò e rimase dentro la femmina, ma avvenne il miracolo e il maschio esibì un sostituto. In inglese, la forbicina si chiama earwig, e prende il nome dalla convinzione – diffusissima non solo in Gran Bretagna – che questi insetti striscino nelle orecchie delle persone e facciano il nido nel cervello. In anglosassone, earwig significa «creatura dell'orecchio». Il nome francese è perce-oreille («fora-orecchie»); in tedesco è Ohrwurm («verme dell'orecchio»); in turco kulagakacan («fuggitivo dell'orecchio»). Le forbicine non strisciano nelle orecchie, non più di qualsiasi altro insetto, ma Plinio il Vecchio raccomandava, in caso accadesse, di sputare nell'orecchio della persona finché la forbicina non ne fosse uscita. Non fanno assolutamente il nido nel cervello. Un'ipotesi alternativa per un nome così simile in tante lingue è che la tenaglia che fa da coda alla forbicina assomiglia all'attrezzo che si usava un tempo per forare le orecchie. Pare che questa idea sia la preferita dei popoli latini. A parte gli italiani e il loro «piccola forbice», gli spagnoli hanno due nomi per la forbicina: contraplumas (che significa anche «temperino») e tijereta (che significa anche «piccola forbice»). Una specie gigante di forbicina (8,5 centimetri di lunghezza) viveva a Sant'Elena, l'isola dell'Atlantico meridionale dove Napoleone Bonaparte trascorse in esilio i suoi ultimi anni. Forse ci vive ancora, ma l'ultima fu avvistata nel 1967. Soprannominata il «Dodo dei Dermatteri» (l'ordine cui appartengono, che significa «ala di pelle»), la sottile speranza che forse esista ancora è stata sufficiente perché nel 2005 gli ambientalisti impedissero la costruzione di un nuovo aeroporto sull'isola. Due specie di forbicine malesi si cibano esclusivamente dei secreti corporei e della pelle morta dei pipistrelli nudi.
Quali sono gli animali più superdotati? I cirripedi, una sottoclasse dei crostacei. Questi animali modesti e senza pretese hanno il pene più lungo in rapporto alla loro taglia di qualsiasi altra creatura: può essere oltre sette volte il loro corpo. Quasi tutte le 1220 specie di cirripedi sono ermafrodite. Quando un cirripede decide di essere «madre» depone le uova all'interno del proprio guscio e al contempo rilascia degli eccitanti feromoni cui reagirà un cirripede nelle vicinanze: impersonerà il «maschio» e feconderà le uova ingrossando il proprio grande pene ed eiaculando nella cavità della «femmina». I cirripedi stanno dritti sulla testa e mangiano con i piedi. Grazie a una colla fortissima, si attaccano per la testa agli scogli e agli scafi delle navi. In effetti, l'apertura che vediamo
in cima a un cirripede è il suo sedere; attraverso di essa le zampe, lunghe e delicate, catturano piccole piante e animaletti che fluttuano nei dintorni. Altre specie molto dotate sono l'armadillo dalle nove fasce (il suo pene è lungo quanto i due terzi del suo corpo) e la balenottera azzurra, il cui pene, nonostante le dimensioni relativamente modeste rispetto alla taglia, rimane comunque l'organo più grande in assoluto, con una lunghezza media che varia tra 1,8 e 3 metri e circa 450 millimetri di circonferenza. Si calcola che l'eiaculato di una balenottera azzurra sia di circa 20 litri; i testicoli che contengono lo sperma pesano circa 70 chili l'uno. I peni di balena si sono dimostrati utili. In Moby Dick di Herman Melville (1851) si racconta come la loro epidermide possa diventare una sorta di grembiule impermeabile capace di coprire tutto il pavimento, protezione ideale quando si sviscera la balena morta. Come molti altri mammiferi, le balene hanno un osso penico, il baculum o os penis. Essi, come quelli di trichechi e orsi bianchi, vengono utilizzati dagli eschimesi come pattini per le slitte o come bastoni. I baculi («verghe» in latino) dei mammiferi si usano inoltre come spille da cravatta, stecchini per girare il caffè o pegni d'amore. Sono ossa incredibilmente diverse per forma – probabile che siano le ossa più eterogenee che esistono – e servono a far funzionare le relazioni tra le varie specie di mammiferi. Gli uomini e le scimmie ragno sono gli unici primati a non averle. L'ebraico biblico ha una parola che indica il pene. Questo ha portato due studiosi (Gilbert e Zevit sull'«American Journal of Medical Genetics» nel 2001) a ipotizzare che Eva sia stata creata dall'osso penico di Adamo e non dalla sua costola (Genesi 2,21-23). Questo spiegherebbe perché maschi e femmine abbiano lo stesso numero di costole, mentre l'uomo non ha l'osso penico. Il racconto biblico afferma anche che, dopo, «il Signore Iddio richiuse la carne», e l'ipotesi è che questa sia la cicatrice (detta rafe) che percorre la parte inferiore di pene e scroto. Di che materiale è il corno del rinoceronte? Il corno di un rinoceronte non è fatto, come pensa qualcuno, di peli. È fatto di fasci molto stretti di fibre di cheratina. La cheratina è la proteina che si trova in unghie, peli e capelli umani, in artigli e zoccoli animali, nelle piume degli uccelli, negli aculei del porcospino e nelle corazze di armadilli e tartarughe. I rinoceronti sono gli unici animali ad avere un corno fatto interamente di cheratina; a differenza delle corna di bovini, pecore, antilopi e giraffe, esso non ha un'anima ossea. Il teschio di un rinoceronte morto sembra non aver mai avuto un corno; in un rinoceronte vivo, esso si ancora a un bernoccolo ruvido sulla pelle, sopra l'osso nasale. A volte il corno di un rinoceronte si disfa se viene tagliato o danneggiato, ma gli esemplari giovani possono ricostruirlo del tutto. Nessuno sa quale ne sia la funzione,
sebbene le femmine che ne sono prive non riescano a occuparsi come si deve dei piccoli. I rinoceronti sono a rischio di estinzione soprattutto per la domanda di corni. Da tempo immemorabile i corni di rinoceronte africano sono richiestissimi per i medicinali e come manici dei pugnali tradizionali in Medioriente, specie nello Yemen che, a partire dal 1970, ha importato 67050 chilogrammi di corno di rinoceronte. Se ci basiamo su un peso medio di 3 chili per corno, stiamo parlando dei corni di 22350 esemplari. Secondo una credenza errata ma dura a morire, il corno dei rinoceronti avrebbe proprietà afrodisiache. Gli erboristi cinesi dicono che non è vero; il suo effetto raffredda più che scaldare gli spiriti, e si usa come rimedio alla pressione alta e alla febbre. La parola «rinoceronte» viene dal greco rís («naso») e kerás (corno). Esistono cinque specie viventi di rinoceronte: nero, bianco, indiano, di Giava e di Sumatra. Di Giava sopravvivono solo sessanta rinoceronti, e questo ne fa la quarta specie più a rischio di estinzione dopo il delfino del Fiume Azzurro, la marmotta di Vancouver e il pipistrello delle Seychelles. I rinoceronti bianchi non sono bianchi. L'errore deriva dall'averli chiamati white in inglese («bianchi», appunto), corruzione dell'afrikaans weit che invece significa «grande». Il riferimento è alla bocca dell'animale, più che alla sua taglia: ai rinoceronti bianchi manca il labbro con cui quelli neri brucano facilmente i rami degli alberi. I rinoceronti hanno un olfatto e un udito eccellenti, ma la loro vista è molto scarsa. Di solito sono animali solitari, che si ritrovano solo per accoppiarsi. Colti di sorpresa, i rinoceronti urinano e defecano in quantità prodigiose. Quando vanno all'attacco, quelli asiatici mordono; quelli africani caricano. Un rinoceronte nero, a dispetto delle zampe corte, può raggiungere i 55 chilometri orari. Qual è il mammifero africano che uccide più uomini? L'ippopotamo. Malauguratamente, agli ippopotami piace stare al pelo delle acque dolci e poco mosse, orlate d'erba: lo stesso habitat tanto amato dall'uomo. La maggior parte degli incidenti si verifica perché un ippopotamo sott'acqua, inavvertitamente bastonato in testa da una pagaia, decide di rovesciare la barca, o perché la gente va a passeggio di notte, proprio quando gli ippopotami escono dall'acqua e si piazzano sull'erba. Essere calpestati da un ippopotamo spaventato non è un bel modo di morire. Gli ippopotami sono i membri più grossi della famiglia dei maiali, e si dividono in due specie: comune e pigmeo. Quello comune è al terzo posto dei mammiferi terrestri più grandi dopo l'elefante africano e indiano. Non molti animali sono così stupidi da attaccare un ippopotamo. Sono bestie irascibili, soprattutto quando hanno i piccoli. Per uccidere i leoni li trascinano nell'acqua profonda e li annegano, mordono e spezzano a metà i coccodrilli, trascinano gli squali fuori dall'acqua e li calpestano a morte. Tuttavia, sono strettamente vegetariani, quindi se aggrediscono è
soprattutto per autodifesa. È l'erba il loro nutrimento fondamentale. La pelle di un ippopotamo pesa una tonnellata. È spessa 4 centimetri – antiproiettile rispetto a quasi tutte le armi – e costituisce il 25 per cento del peso dell'animale. Trasuda un fluido rosso e oleoso che le impedisce di seccarsi e che, un tempo, portava la gente a credere che gli ippopotami sudassero sangue. Non lasciatevi ingannare dalla loro mole. Un ippopotamo adulto può correre più veloce di un uomo, e senza problemi. Gli ippopotami sono gli unici mammiferi, insieme alle balene e ai delfini, ad accoppiarsi e partorire sott'acqua. Possono chiudere le narici, appiattire le orecchie e stare completamente immersi fino a cinque minuti consecutivi. Hanno un fiato terrificante. Quando sembra che sbadiglino, in realtà distruggono qualsiasi cosa nelle vicinanze con un'alitosi che è un avvertimento: alla larga. Ed è un buon avvertimento: le zanne dell'ippopotamo sono aguzze, e un colpo secco delle fauci può facilmente amputare un arto. Gli ippopotami hanno solo quattro denti, d'avorio. Parte della dentiera di George Washington era in avorio di ippopotamo. Secondo l'Oxford Companion to Food, la parte più saporita dell'ippopotamo sono le sue mammelle, brasate con erbe e spezie. In mancanza delle mammelle, non sono male i muscoli del dorso, cucinati allo stesso modo. Dove vive la maggior parte delle tigri? Negli Stati Uniti d'America. Un secolo fa, c'erano circa 40000 tigri in India. Adesso ce ne sono fra 3000 e 4700. Alcuni scienziati calcolano che sul pianeta ci siano soltanto fra le 5100 e le 7500 tigri allo stato libero. D'altro canto, si pensa che soltanto in Texas ci siano 4000 tigri in cattività. La American Zoo and Aquarium Association ritiene che negli Stati Uniti ben 12000 tigri siano allevate da privati come animali domestici. Mike Tyson ne possiede quattro. In parte, la ragione che spiega l'enorme popolazione di tigri in America dipende dalla legislazione. Solamente 19 stati hanno vietato la proprietà privata di tigri, 15 non richiedono che una licenza e 16 non hanno ancora alcuna normativa al riguardo. Non costano neanche molto. Un cucciolo di tigre vale appena 1000 dollari, mentre con 3500 ci si può comprare una coppia di tigri del Bengala; per una tigre bianca dagli occhi azzurri, molto di moda, bastano 15000 dollari. Ironia della sorte, è il successo dei programmi riproduttivi adottati da zoo e circhi americani all'origine del fenomeno. La sovrabbondanza di cuccioli negli anni Ottanta e Novanta ha abbattuto i prezzi. La Società per la prevenzione della crudeltà verso gli animali calcola che, attualmente, solo nell'area di Houston ci siano 500 tra leoni, tigri e altri grandi felini allevati da privati. Le popolazioni di tigri selvatiche sono state decimate nel corso del Novecento. Negli anni Cinquanta si erano già estinte le tigri del Caspio, e quelle di Bali e di Giava
scomparvero tra il 1937 e il 1972. La tigre della Cina meridionale è quasi estinta allo stato libero, non ne restano che 30 esemplari. Nonostante gli sforzi degli ambientalisti, ci si aspetta che tutte le specie di tigri allo stato libero si estinguano entro la fine del secolo attuale. Un gatto domestico è grande più o meno quanto l'1 per cento di una tigre. Le tigri non sopportano l'odore dell'alcol. Attaccano chiunque ne abbia bevuto. E a mano a mano che invecchiano si lasciano andare: chi non le capisce? Che cosa usereste per avere la meglio su un coccodrillo?
a)Una graffetta b)Dei morsetti elettrici c)Un sacchetto di carta d)Una borsetta e)Un elastico Con dei coccodrilli sui due metri di lunghezza, per filarvela dovrebbe bastare un comune elastico. I muscoli che chiudono le mascelle di un coccodrillo o di un alligatore sono così forti da avere, quando si abbassano, la stessa forza di un camion che cade da un dirupo. Ma i muscoli che aprono le mascelle sono abbastanza deboli perché riusciate a tenergli la bocca chiusa con una mano. La differenza tecnica fra alligatori e coccodrilli è che i secondi hanno un muso più lungo e sottile, gli occhi più sporgenti e il loro quarto dente spunta dalla mascella inferiore invece di trovare alloggio in quella superiore. Inoltre, certi coccodrilli vivono nell'acqua salata; gli alligatori di solito in quella dolce. «Coccodrillo» significa lucertola e viene dal greco krokódeilos. Il primo a nominarlo fu Erodoto, che li vide crogiolarsi sui ciottoli in riva al Nilo. «Alligatore» è una corruzione dello spagnolo el lagarto das Indias, «la lucertola delle Indie». Nessuno dei due piange quando attacca e uccide. Le lacrime di coccodrillo sono un mito nato dai racconti dei viaggiatori medievale. Sir John Mandeville, nel 1356, scriveva: «In quella regione, come in tutta l'India, c'è una grande quantità di coccodrilli, i quali […] sono una specie di lunghi serpenti. […] Questi rettili uccidono l'uomo, e se lo mangiano piangendo». È ovvio che i coccodrilli hanno i condotti lacrimali, ma li svuotano direttamente in bocca, perciò all'esterno non si vede nemmeno una lacrima. L'origine della leggenda sta forse nella vicinanza tra la gola e le ghiandole che lubrificano l'occhio. Esse possono far lacrimare l'occhio per un po', quando l'animale si sforza di ingoiare qualcosa di grosso o
che non ha nessuna voglia di farsi inghiottire. Coccodrilli e alligatori non posso neppure sorridere: non hanno labbra. I succhi gastrici dei coccodrilli contengono abbastanza acido cloridrico da sciogliere il ferro e l'acciaio. D'altronde, non ci si deve affatto preoccupare degli alligatori che vivono nelle fogne urbane. Non possono sopravvivere senza la radiazione solare ultravioletta, che permette loro di elaborare il calcio. Questa leggenda metropolitana si può far risalire a un articolo uscito nel 1935 sul «New York Times», secondo il quale alcuni ragazzini avevano ripescato un alligatore in una fogna di Harlem e lo avevano picchiato a morte con dei badili. Probabilmente, l'alligatore aveva risalito una condotta dopo essere caduto da un'imbarcazione. Non dare all'alligatore del boccalarga finché non hai attraversato il fiume. PROVERBIO GIAMAICANO
Che cosa è tre volte più pericoloso della guerra? Il lavoro è un killer molto più efficiente dell'alcol, della droga o della guerra. Ogni anno muoiono circa 2 milioni di persone per incidenti e malattie legate al lavoro, in confronto alle sole 650000 che vengono ammazzate in questo o quel conflitto. In tutto il mondo, i lavori più pericolosi sono nei campi dell'agricoltura, l'industria estrattiva e le costruzioni. Secondo l'Ufficio statistiche del ministero del lavoro statunitense, nel 2000 sono morte sul lavoro ben 5915 persone, incluse quelle che hanno avuto un attacco cardiaco alla scrivania. I tagliaboschi sono risultati i lavoratori più a rischio, con 122 vittime su 100000 addetti al settore. Il secondo lavoro più pericoloso è risultato la pesca e il terzo pilotare un aereo, con un tasso di mortalità di 101 su 100000. Vi rassicurerà sapere che tutti i piloti sono deceduti in incidenti occorsi a piccoli aerei, non ai jet passeggeri. Gli operai edili e metallurgici e gli addetti a estrazione e trivellazione si sono piazzati al quarto e quinto posto, sebbene il tasso di mortalità fosse per entrambi meno della metà di quello dei taglialegna. In tutte le occupazioni, la terza causa di morte sul lavoro si è rivelato l'omicidio, con 677 lavoratori. I poliziotti uccisi erano 50, i commercianti 205. Al secondo posto le cadute, con il 12 per cento del totale. Vittime principali: costruttori e riparatori di tetti, oltre agli operai edili e metallurgici. Quanto alla causa di morte sul lavoro più comune, si trattava degli incidenti d'auto: il 23 per cento del totale. Perfino gli agenti di polizia avevano più probabilità di morire al volante che per omicidio. Il singolo lavoro specifico più pericoloso ci duole dire che è quello dei pescatori di granchi in Alaska, sul mare di Bering. Si può calcolare il rischio di morte con la scala di Duckworth, ideata dal dottor Frank Duckworth, direttore del mensile della Royal Statistical Society. Tale scala misura la
probabilità di morire come esito di una data attività. Il tipo di attività più sicura totalizza zero punti, 8 punti significa morte certa. Una mano alla roulette russa comporta un rischio di 7,2 punti. Vent'anni di scalate si impone con 6,3 punti. Le possibilità che ha un individuo di sesso maschile di essere ucciso totalizzano 4,6. Un viaggio in macchina di 160 chilometri con al volante un guidatore di mezza età sobrio si guadagna 1,9 punti: leggermente più rischioso dell'impatto distruttivo di un asteroide (1,6). Nella scala di Duckworth è particolarmente pericoloso il 5,5. È il rischio corso da un maschio di morire in un incidente d'auto o per una caduta accidentale, ma anche (maschi e femmine) passando l'aspirapolvere, lavando i piatti o camminando per strada. Nel Settecento, che cosa uccideva più marinai in una battaglia navale? Una brutta scheggia. Le palle di cannone sparate dalle navi da guerra non esplodevano (checché ne pensi Hollywood), si limitavano a squartare lo scafo, facendo sì che enormi schegge di legno volassero a gran velocità per i ponti e straziassero chiunque sul loro percorso. All'epoca, le navi della marina inglese erano spesso marce e non idonee alla navigazione. Molti ufficiali si erano comprati l'incarico e non avevano alcuna nozione su come si navigasse, combattesse e tenesse sotto controllo i propri uomini. Le ernie provocate dal maneggiare di continuo delle vele pesanti e bagnate erano talmente diffuse che la marina fu costretta a fornire le navi di trozze. Per coprire la spesa non ci fu un solo aumento salariale per un secolo. A distanza ravvicinata, una palla di cannone sui 15 chili era capace di penetrare il legno fino a 60 centimetri di profondità. Il modo migliore per evitare le schegge (a parte costruire delle navi di metallo) era usare un legno degli Stati Uniti sud-orientali, resistente alla scheggiatura. Oltre a essere uno dei legni più duri, la quercia della Virginia (Quercus virginiana) è l'albero emblema della Georgia nonché simbolo di forza e resistenza per gli stati del sud. È l'albero addobbato con lunghe ghirlande di muschio in film come Via col vento. Come si chiama la sconfitta più umiliante di Napoleone? Conigli. Waterloo fu la sconfitta più schiacciante di Napoleone, senz'altro, ma non fu la più imbarazzante. Nel 1807, dopo aver firmato la pace di Tilsit, un trattato importantissimo tra Francia, Russia e Prussia, Napoleone era di ottimo umore. Per festeggiare, suggerì che la corte imperiale si godesse un pomeriggio di caccia al coniglio. A organizzarla fu il capo di Stato maggiore, il fido Alexandre Berthier, così ansioso di fare una buona impressione a Napoleone che comprò migliaia di conigli per essere sicuro che la corte imperiale avesse selvaggina in abbondanza.
Venne il giorno della festa, iniziò la partita e i guardacaccia liberarono i conigli. Ma fu un disastro. Berthier aveva acquistato dei conigli domestici e non selvatici, i quali pensavano erroneamente che gli avrebbero dato da mangiare, non la caccia. Invece di scappare per salvarsi, avvistarono un ometto con un grosso cappello e lo scambiarono per il guardiano che portava loro del cibo. Affamate, le bestiole si precipitarono su Napoleone più veloci che potevano: ai 56 chilometri orari. I partecipanti alla battuta di caccia – ormai nel marasma più completo – non poterono far nulla per fermarli. A Napoleone non restò altra possibilità che correre via, respingendo quegli animali affamatissimi a mani nude. I conigli però non mollarono e spinsero l'imperatore fino alla sua carrozza, mentre i suoi tirapiedi li colpivano invano coi frustini. Secondo i resoconti contemporanei di quel fiasco, l'imperatore di Francia se ne andò alla chetichella, comprensibilmente abbacchiato e coperto di vergogna. Suppongo che nessuno se le sia mai prese direttamente da un coniglio. Non deliberatamente, almeno. SIR WILLIAM CONNOR
Chi si è soffiato il naso della Sfinge? La Sfinge, che in greco significa «strangolatrice», era un animale mitico con la testa di donna, il corpo di leone e le ali di uccello. Come forse avrete notato, la sua statua gigantesca, che ha 6500 anni e si trova nei pressi delle piramidi, non ha il naso. Nei secoli, molti eserciti e molti individui – inglesi, tedeschi, arabi – sono stati accusati di averglielo deliberatamente soffiato per svariati motivi, ma di solito è Napoleone a prendersene la colpa. Quasi nessuna di queste accuse è fondata. In realtà, l'unica persona che possiamo dire con certezza abbia danneggiato la Sfinge fu un religioso islamico, Sa'im al-Dahr, che venne linciato per vandalismo nel 1378. Nessuna colpa, in nessuna delle due guerre mondiali, agli eserciti inglese e tedesco: esistono immagini delle Sfinge senza naso che risalgono al 1886. Quanto a Napoleone, ci sono immagini della Sfinge senza naso del 1737: trentadue anni prima che lui nascesse, addirittura. Quando Bonaparte le posò gli occhi addosso per la prima volta – era allora un generale di ventinove anni – probabilmente il naso mancava già da secoli. Napoleone andò in Egitto con l'intento di bloccare le comunicazioni tra Inghilterra e India. Vi combatté due battaglie: la battaglia delle Piramidi (che non si svolse alle Piramidi) e la battaglia del Nilo (che non si svolse sul Nilo). Oltre che 55000 soldati, Napoleone portò con sé 155 specialisti civili noti come savants. Fu la prima spedizione archeologica professionale nel paese. Quando tornò in Francia dopo che Nelson gli ebbe affondato la flotta, l'imperatore si lasciò indietro esercito e savants, il cui lavoro proseguì. Ne scaturì la Description de l'Égypte,
il primo ritratto accurato del paese a raggiungere l'Europa. Ciò nonostante, oggi le guide egiziane alle piramidi raccontano ancora ai turisti che il naso della Sfinge fu «rubato da Napoleone» e portato a Parigi, al Louvre. La ragione più probabile della mancanza del naso è l'azione di seimila anni di vento e intemperie sul friabile calcare. Che cosa faceva Nerone durante l'incendio di Roma? Di certo non suonava la lira. L'altra accusa è che Nerone stesse cantando un brano sull'incendio di Troia mentre Roma bruciava nel 64 d.C., il che implicherebbe che proprio lui avesse appiccato il fuoco per poterlo fare. In realtà, quando esplose l'incendio lui si trovava a oltre 56 chilometri di distanza, nella sua residenza al mare. Quando gli diedero la notizia, si precipitò a Roma e si incaricò personalmente delle manovre per spegnerlo. Il sospetto che volesse distruggere Roma con il fuoco può essere nato dalla sua dichiarata ambizione di ricostruire la città. Alla fine, riuscì a scaricare la colpa sui cristiani. Quanto a ciò che Nerone fece sul serio: era un travestito che amava recitare in abiti femminili, cantare, suonare e fare orge, e uccise sua madre. Era molto fiero delle proprie doti musicali; si dice che, sul letto di morte, le sue parole furono: «Che artista perde il mondo con me!» Secondo alcuni, di solito si accompagnava con la kithara (simile alla cetra) ma suonava anche la cornamusa. Dione di Prusa Crisostomo, un greco che scriveva intorno al 100 d.C., osservò: «Dicono che sappia scrivere, scolpire statue, suonare l'aulos sia con la bocca sia con l'ascella, con una borsa sotto di essa». All'inizio del VI secolo Procopio, uno storico greco, dice che la cornamusa era lo strumento scelto della fanteria romana, mentre la tromba era usata dalla cavalleria. Nerone inventò anche il gelato (i messi portavano neve montana insaporita con il succo di frutta) e la sua avvelenatrice personale, Locusta, è il primo serial killer documentato della storia. In latino, locusta significa sia «locusta» sia «cavalletta».
Che cosa è più probabile: essere uccisi da un fulmine o da un asteroide? Per assurdo che sembri, morire a causa di un asteroide è due volte più probabile. Si calcola che un grosso asteroide (oggi noto come oggetto Near-Earth o NEO, come
abbiamo già visto a p. 45) colpisca la terra una volta ogni milione di anni. Da un punto di vista statistico, questo eventi è molto in ritardo. Si ritiene «pericoloso» un NEO che misuri più di due chilometri di diametro. L'impatto equivarrebbe a un milione di megatoni di TNT. Se accadesse, il numero di morti sarebbe superiore al miliardo, quindi le probabilità che voi personalmente moriate in un dato anno sono 1 su 6 milioni. La probabilità di venire uccisi da un fulmine in Inghilterra in un dato anno è più o meno 1 su 10 milioni, pressappoco la stessa di venire morsi da una vipera. Il fulmine è una scarica elettrica con una potenza fino a 30 milioni di volt. Raggiunge una temperatura di 30000 gradi centigradi, cinque volte più caldo della superficie solare. Un fulmine viaggia a una velocità anche di 115 milioni di chilometri orari. La corrente elettrica di un singolo fulmine è di 100000 ampere; energia sufficiente a illuminare una città di 200000 abitanti per un minuto. Un fulmine si abbatte su questo o quel punto della terra 17 milioni di volte al giorno, ovvero circa 200 volte al secondo. I fulmini sono estremamente comuni nelle zone costiere, con una frequenza di circa 2 per metro quadrato all'anno. Non sembrano fare grandi danni: l'elettricità si disperde in fretta sulla superficie del mare e si è notato che, sotto le tempeste elettriche più violente, le balene cantano tutte allegre. L'uomo, d'altronde, viene colpito da un fulmine 10 volte più frequentemente di quanto dovrebbe secondo le leggi della probabilità. I maschi sono colpiti da un fulmine 6 volte più spesso delle femmine. Dai 3 ai 6 inglesi e 100 americani all'anno vengono uccisi da un fulmine, molti di loro perché hanno addosso un qualche conduttore di elettricità: mazze da golf, canne da pesca in fibra di carbonio e reggiseni coi ferretti. Prima che sull'umanità si abbattesse la maledizione della statistica, vivevamo una vita felice, innocente, piena di allegria ed energia e informata dal buon senso. HILAIRE BELLOC
Qual era il gesto con cui gli imperatori romani ordinavano la morte di un gladiatore? Pollice in su. Né gli spettatori romani che chiedevano a gran voce la morte di un gladiatore, né gli imperatori romani che la accordavano giravano mai il pollice in giù. In realtà, quello del «pollice in giù» era un gesto che i romani non usavano affatto. Se si desiderava la morte di qualcuno, si alzava il pollice, come una spada sguainata. Se invece si voleva risparmiare la vita di uno sconfitto, il pollice veniva infilato nel pugno chiuso, come un'arma rimessa nel fodero. L'espressione latina è pollice compresso favor indicabatur, «la benevolenza si indica con il pollice in dentro». Prima che Ridley Scott accettasse di dirigere Il gladiatore, i produttori di Hollywood gli
mostrarono il quadro Pollice verso di Jean-Léon Gérôme, un artista dell'Ottocento. Nel dipinto, un gladiatore romano attende che l'imperatore giri il pollice verso il basso per sentenziare la morte. Scott fu affascinato dall'immagine, e decise su due piedi di dirigere il film. Scott non sapeva che la fonte della sua ispirazione si sbagliava della grossa. Quel quadro è l'unico e solo responsabile di una delle più grandi falsità degli ultimi due secoli, cioè che il «pollice in giù» indicasse la morte. Secondo gli storici, Gérôme fraintese il latino pollice verso, «pollice girato», e credette che significasse «pollice in giù» quando in realtà voleva dire «girato in su». Se occorressero ulteriori prove, nel 1997 fu scoperto un medaglione romano del II o III secolo d.C. nel sud della Francia. Mostra due gladiatori alla fine di un combattimento e un giudice che preme il pollice contro il pugno chiuso. L'iscrizione recita: «Quelli in piedi verranno rilasciati». Fare gesti con il pollice può essere pericolosamente ambiguo ancora oggi. In Medioriente, Sud America e Russia, il «pollice in su» è considerato un insulto molto maleducato e si è rivelato un problema in Iraq: i soldati americani non sanno se i locali stanno dando loro il benvenuto o stiano per farli saltare in aria. Desmond Morris, autore di La scimmia nuda, ha trovato una connotazione positiva del «pollice in su» nell'Inghilterra medievale, dove si usava in chiusura degli incontri d'affari. Il gesto andò incontro a nuovi orizzonti con la Seconda guerra mondiale, quando i piloti dell'aviazione statunitense lo adottarono come segnale rivolto al personale di terra prima del decollo. Infine, Ridley Scott venne a sapere dell'errore sul «pollice in giù», ma si sentì obbligato a far compiere a Commodo il gesto del «pollice in su» quando risparmia Massimo, in modo da «non confondere il pubblico». Qual è il numero della Bestia? 616. Per duemila anni, è stato 666 il simbolo del temutissimo Anticristo, di colui che verrà a dominare il mondo prima del Giudizio universale. Per molti, è un numero iellato: al Parlamento europeo, il posto numero 666 viene lasciato vuoto. Tale numero si trova nell'Apocalisse, l'ultimo e più strano libro della Bibbia: «Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d'uomo. E tal cifra è seicentosessantasei». Solo che è sbagliato, il numero. Nel 2005, una nuova traduzione della più antica copia conosciuta del Libro dell'Apocalisse ha dimostrato chiaramente che è 616, non 666. Il papiro risale a 1700 anni fa; è stato recuperato nella discarica della città di Ossirinco in Egitto e decifrato, sotto la guida del professor David Parker, da una équipe di ricerca paleografica presso l'Università di Birmingham. Se il nuovo numero è giusto, non farà piacere a chi ha speso una piccola fortuna per
evitare quello vecchio. Nel 2003, l'autostrada 666 statunitense – nota come «l'autostrada della Bestia» – è stata ribattezzata autostrada 491. L'assessorato moscovita ai trasporti si è divertito ancor meno. Nel 1999, è stato scelto un nuovo numero per la linea 666 degli autobus, sfortunatissima. Il numero 616. La controversia esiste fin dal II secolo d.C. Una versione della Bibbia in cui si citava come numero della Bestia il 616 venne stigmatizzata da sant'Ireneo di Lione (circa 130-200) come «erronea e spuria». L'amico di Karl Marx, Friedrich Engels, analizzò la Bibbia negli Scritti sulla religione (1883). Anche lui calcolò che il numero fosse 616 e non 666. L'Apocalisse fu il primo libro della Bibbia a essere scritto ed è pieno di enigmi numerici. Ciascuna delle 22 lettere dell'alfabeto ebraico corrisponde a un numero, così che qualsiasi numero può anche essere letto come una parola. Secondo Parker ed Engels, il Libro dell'Apocalisse è un pamphlet politico antiromano, crittato numerologicamente per nascondere il proprio messaggio. Il numero della Bestia (qualunque esso sia) si riferisce a Caligola o a Nerone, gli odiati oppressori dei primi cristiani, e non a un immaginario babau. La paura del numero 666 è nota come Hexakosioihexekontahexaphobia. La paura del numero 616 (lo leggete qui per la prima volta) è la Hexakosioidekahexaphobia. La somma dei numeri sulla roulette è 666. A che cosa servono le cinture di castità?
L'idea di un crociato che spranga la moglie dentro una cintura di castità e se ne va in guerra al galoppo con la chiave al collo è una fantasia ottocentesca concepita per titillare i lettori. Praticamente non c'è niente che provi l'impiego di cinture di castità nel Medioevo. Il primo disegno conosciuto risale al Quattrocento. Bellifortis, di Konrad Kyeser, è un libro sull'equipaggiamento militare dell'epoca che fu scritto molto tempo dopo le Crociate. Include l'illustrazione delle «brache di ferro» indossate dalle donne di Firenze. Nel disegno si vede chiaramente la chiave, il che suggerisce che fosse la dama e non il cavaliere a controllare l'accesso allo strumento, per proteggersi da eventuali attenzioni indesiderate da parte dei fiorentini. Nelle collezioni museali, la maggior parte della cinture di castità «medievali» si è ormai dimostrata di dubbia autenticità ed è stata eliminata dall'esposizione. Come nel caso degli attrezzi da tortura «medievali», pare che quasi tutte siano state forgiate in Germania nell'Ottocento per soddisfare la curiosità di certi collezionisti «specializzati». Il XIX secolo assistette anche a un rialzo delle vendite di cinture di castità nuove, ma non
per le donne. Secondo la teoria medica vittoriana, la masturbazione nuoceva alla salute. Se non ci si fidava che un ragazzo tenesse le mani a posto, gli si facevano indossare queste migliorative mutande d'acciaio. Il vero boom delle vendite si è però verificato negli ultimi cinquant'anni: i negozi «per adulti» approfittano del prospero mercato del bondage. Ci sono in giro più cinture di castità oggi di quante ce ne siano mai state nel Medioevo. Paradossalmente, servono a stimolare l'attività sessuale e non a impedirla. Qual era la maledizione di Tutankhamon? Non c'è mai stata. Venne inventata dai giornali. La storia della «maledizione del faraone», che avrebbe ucciso tutti quelli che entrarono nella tomba di Tutankhamon quando Howard Carter la scoprì nel 1922, fu opera del corrispondente al Cairo del «Daily Express» (ripresa poi dal «Daily Mail» e dal «New York Times»). L'articolo riportava un'iscrizione secondo la quale «Quelli che entrano nella sacra tomba verranno subito toccati dalle ali della morte». Questa iscrizione non esiste. Ce n'è una simile su un altare dedicato al dio Anubi che recita: «Sono io che impedisco alla sabbia di ostruire la camera segreta. Sono a protezione dei defunti». Mentre Carter preparava la spedizione, sir Arthur Conan Doyle – che notoriamente credeva anche nelle fate – aveva già piantato i semi di «una terribile maledizione» nelle menti dei giornalisti. Quando il finanziatore di Carter, Lord Caernavon, morì per il morso infetto di una zanzara a poche settimane dall'apertura della tomba, Marie Corelli, autrice di sensazionali best seller, la Dan Brown del suo tempo, affermò di non averlo mai avvisato di ciò che sarebbe accaduto se avesse rotto il sigillo. In realtà, entrambi riprendevano una superstizione che aveva meno di un secolo, messa in piedi da una giovane romanziera di nome Jane Loudon Webb. Il suo romanzo immensamente popolare La mummia (1828) fu l'inventore unico e assoluto della tomba maledetta con la mummia che torna in vita per vendicarsi dei profanatori. Il tema si fece strada in moltissimi altri libri – perfino Louisa May Alcott, l'autrice di Piccole donne, scrisse una storia «di mummie» – ma il suo grande momento arrivò con l'avvento della «febbre di Tutankhamon». Non si è mai trovata, in nessuna tomba egizia, nessuna maledizione. Delle 26 persone che si è asserito fossero state uccise dalla «maledizione» di Tutankhamon, un'approfondita ricerca pubblicata sul «British Medical Journal» nel 2002 ha dimostrato che solo sei morirono nel primo decennio dall'apertura della tomba; Howard Carter, di sicuro il bersaglio numero uno, visse per altri diciassette anni. Solo che questa storia non vuole saperne di sparire. Ancora nel 1970, quando la mostra degli oggetti provenienti dalla tomba fece il giro di tutto l'Occidente, un poliziotto che vi
faceva la guardia a San Francisco lamentò un leggero attacco cardiaco dovuto alla «maledizione della mummia». Nel 2005, una TAC alla mummia di Tutankhamon ha mostrato che il faraone diciannovenne era magro, alto 1 metro e 70 e con uno stupido sovramorso (cioè, l'arcata superiore dei denti si sovrapponeva troppo a quella inferiore). Più che essere stato ucciso dal fratello, sembra sia morto per una infezione al ginocchio. Che ne facevano le femministe dei loro reggiseni? No, non li bruciavano. Si potrebbe obiettare che la protesta femminista di maggior impatto della storia avvenne nel 1968 al concorso di Miss America ad Atlantic City, New Jersey. Un gruppetto di manifestanti picchettava la kermesse con slogan provocatori come «Giudichiamoci come persone» e «Non è un tesoro? Il suo corpo vale oro». Diedero la coroncina di Miss America a una pecora e quindi procedettero al lancio di tacchi alti, reggiseni, bigodini e pinzette in una «Pattumiera della libertà». Quello che non fecero fu bruciare i reggiseni. Avrebbero voluto, ma la polizia le avvisò che sarebbe stato pericoloso, su una passerella di legno. A fondare la leggenda del falò di reggiseni fu l'articolo di una giovane giornalista nel «New York Post», Lindsay Van Gelder. Nel 1992, dichiarò alla rivista «Ms.»: «Ho detto chiaro e tondo nel mio articolo che le manifestanti avevano programmato di bruciare i reggiseni, i busti e altre cose in una pattumiera della libertà… il titolista fece un passo avanti e le chiamò "le bruciareggiseni"». Il titolo bastò e avanzò. In tutta l'America i giornalisti colsero la palla al balzo senza nemmeno prendersi la briga di leggere la storia. Lindsay Van Gelder aveva creato un parossismo mediatico. Anche pubblicazioni scrupolose come il «Washington Post» furono prese in castagna. Le appartenenti al National Women's Liberation Group furono identificate come le donne che «di recente hanno bruciato indumenti intimi durante una manifestazione al concorso di Miss America, ad Atlantic City». Oggi si cita quell'evento come caso da manuale nello studio su come nascono i miti contemporanei. Di che colore è l'universo? a)Nero spruzzato d'argento b)Argento spruzzato di nero c)Verde chiaro d)Beige È ufficialmente beige.
Nel 2002, dopo aver analizzato la luce proveniente da 200000 galassie e classificata dall'Australian Galaxy Redshift Survey, alcuni scienziati americani della John Hopkins University conclusero che l'universo era verde chiaro. Non nero spruzzato d'argento, come sembrerebbe. Prendendo come punto di partenza il pantone Dulux, il colore dell'universo corrispondeva a un punto tra la salvia (Mexican Mint), il giada (Jade Cluster) e una nuance più brillante detta Shangri-La Silk, «seta di Shangri-La». Tuttavia, poche settimane dopo l'annuncio all'American Astronomica! Society, dovettero ammettere di aver sbagliato i calcoli e che l'universo, in realtà, era una sfumatura cupa di marron-grigiastro. Fin dal Seicento, alcune delle menti migliori e più curiose si sono interrogate sul perché il cielo notturno sia nero. Se l'universo è infinito e contiene un numero infinito di stelle uniformemente distribuite, dovrebbe essercene una ovunque guardiamo, e il cielo dovrebbe essere luminoso così di notte come di giorno. Questo problema è noto come paradosso di Olbers, dal nome dell'astronomo tedesco Heinrich Olbers, che lo descrisse (non fu comunque il primo) nel 1826. Ancora nessuno ha trovato una risposta soddisfacente alla questione. Forse c'è un numero finito di stelle, forse la luce di quelle più lontane non ci ha ancora raggiunti. La soluzione di Olbers era che, in passato, non tutte le stelle splendevano: qualcosa le avrebbe accese in seguito. Fu Edgar Allan Poe, nel suo profetico poema in prosa Eureka (1848), a suggerire per primo che la luce delle stelle più distanti sia ancora per strada. Nel 2003, la camera planetaria a grande campo del telescopio spaziale Hubble fu puntata sulla parte di cielo notturno che sembrava più vuota e la pellicola impressionata per un milione di secondi (circa undici giorni). L'immagine che ne risultò mostrava decine di migliaia di galassie fino a quel momento sconosciute, ciascuna consistente in centinaia di milioni di stelle, che si estendevano verso i margini incerti dell'universo. Di che colore è Marte?
Color caramella mou. O marrone. O arancione. Forse kaki a chiazze rosa pallido. Una delle caratteristiche più familiari del pianeta Marte è il suo aspetto rosso nel cielo notturno. Il rosso, tuttavia, si deve alla polvere nell'atmosfera del pianeta. La superficie di Marte è tutta un'altra storia.
Le prime immagini di Marte furono inviate da Viking I, a sette anni dal giorno in cui, com'è noto, Armstrong sbarcò sulla luna. Mostravano una desolata landa rossa disseminata di rocce, proprio come ci si aspettava. I teorici della cospirazione non mancarono di farsi venire dei sospetti: affermarono che la Nasa aveva deliberatamente manipolato le fotografie per farle apparire più familiari. Gli apparecchi sulle due sonde Viking che raggiunsero Marte nel 1976 non fecero foto a colori. Le immagini digitali vennero scattate in scala di grigio (il termine tecnico per bianco e nero) e poi fatte passare attraverso tre filtri di colore. Calibrare quei filtri per ottenere un'immagine di «vero» colore è estremamente complesso, ed è un'arte oltre che una scienza. Poiché nessuno è mai stato su Marte, non abbiamo idea di quale sia il suo «vero» colore. Nel 2004, il «New York Times» affermò che le prime foto a colori pubblicate di Marte erano un po' troppo rosa, ma gli aggiustamenti successivi avevano dimostrato che la superficie ricordava più che altro il colore delle mou. Negli ultimi due anni, a operare su Marte è stato lo Spirit, un rover della Nasa. Le ultime foto pubblicate mostrano un paesaggio marrone-verdastro, color fango, con rocce grigio-blu e chiazze di sabbia color salmone. Probabilmente, non conosceremo il «vero» colore di Marte finché non ci andrà qualcuno. Nel 1887, l'astronomo italiano Giovanni Schiaparelli disse di aver visto delle lunghe linee rette su Marte, e le chiamò canali. Il termine, invece di venir tradotto con channels, parola che può indicare anche una conformazione naturale del terreno, fu reso con canals, parola che indica delle costruzioni artificiali. Di qui si cominciò a parlare di una civiltà perduta su Marte. Si pensa che su Marte esista l'acqua, o in forma di vapore o come ghiaccio nelle calotte polari, ma da quando sono stati inventati telescopi più potenti non è mai stata provata l'esistenza dei «canali» di Schiaparelli. Cairo, o al-Qāhirah, in arabo significa Marte. Di che colore è l'acqua? La risposta abituale è che non ha colore; è limpida o «trasparente» e se il mare sembra azzurro è solo per il riflesso del cielo. Sbagliato. L'acqua è azzurra, sul serio. La sua è una sfumatura incredibilmente pallida, ma è azzurra. Lo si può vedere in natura guardando dentro un buco profondo nella neve o attraverso il ghiaccio spesso di una cascata gelata. Se si prendesse una piscina molto grande e molto bianca, la si riempisse d'acqua e ci si guardasse bene dentro, l'acqua sarebbe azzurra. Questa sfumatura azzurro pallido non spiega perché, a volte, si trasformi in un azzurro molto acceso se guardiamo direttamente l'acqua e non attraverso l'acqua. Naturalmente, il colore del cielo riflesso gioca un ruolo importante. Il mare non è poi così azzurro, in un giorno nuvoloso.
Ciò nonostante, non tutta la luce che vediamo è un riflesso sulla superficie dell'acqua; in parte viene da sotto di essa. Più impura è l'acqua, più colore rifletterà. Nelle grandi masse d'acqua come i mari e i laghi, l'acqua contiene di norma un'alta concentrazione di piante e alghe microscopiche. I fiumi e gli stagni hanno un'alta concentrazione di terra e altri solidi in sospensione. Tutte queste particelle riflettono e diffondono la luce a mano a mano che risale verso la superficie, creando alla nostra vista un'enorme variazione di colori. Ciò spiega perché capiti di vedere un Mediterraneo verde brillante sotto un bel cielo azzurro. Di che colore era il cielo nell'antica Grecia? Bronzo. In greco antico, la parola «blu» non esiste. I termini più simili – glaukós e kýanos – esprimono l'intensità relativa di luce e buio, più che un colore in sé. Omero nomina soltanto quattro colori veri e propri in tutta l'Iliade e in tutta l'Odissea, tradotti più o meno con nero, bianco, giallo-verde (riferito a miele, linfa e sangue) e rosso purpureo. Quando Omero scrive che il cielo è «bronzeo», intende dire che è brillante, radioso, lucente come uno scudo, più che «color bronzo». Nello stesso spirito, considera il vino, il mare e le greggi tutti dello stesso colore: porpora. Aristotele identificò sette toni di colore, che secondo lui derivavano tutti dal nero e dal bianco, ma in effetti si trattava di vari gradi di luminosità, non di colore. È interessante che un greco antico di quasi 2500 anni fa e le sonde della Nasa che nel 2006 hanno raggiunto Marte avessero lo stesso approccio al colore. Nella scia di Darwin, venne avanzata la teoria che i greci antichi non avessero sviluppato una retina capace di percepire i colori, ma attualmente si pensa che classificassero gli oggetti in base alle qualità e non ai colori: una parola che sembra indicare il «giallo» o il «verde chiaro» in realtà significava mutevole, fresco e vivo, e dunque veniva debitamente utilizzata per descrivere il sangue, la linfa umana. Il che non è raro come ci si potrebbe aspettare. Ci sono più lingue in Papua Nuova Guinea che in ogni altra parte del globo ma tra queste, oltre a distinguere tra luce e buio, molte non hanno nemmeno una parola per i colori. Il gallese classico non aveva termini per «marrone», «grigio», «blu» o «verde». Lo spettro dei colori aveva un'impostazione completamente diversa. Una parola (glas) copriva parte del verde: un'altra il resto del verde, tutto il blu e parte del grigio; una terza riguardava il resto del grigio e quasi tutto il marrone, o almeno una sua parte. Il gallese moderno usa la parola glas per il blu, mentre il russo non ha un unico termine per «blu». Ne ha due – goluboi e sinii – che di solito vengono tradotti con «azzurro» e «blu» ma che, per i russi, sono colori diversi e distinti, non due tonalità dello stesso colore. I linguaggi sviluppano i termini per i colori tutti allo stesso modo. Dopo il nero e il bianco, il terzo colore a ricevere un nome è sempre il rosso, il quarto e il quinto sono il
verde e il giallo (in quest'ordine o viceversa), il sesto è il blu e il settimo è il marrone. Colore per il quale il gallese continua a non avere una parola. Quanto della terra è acqua? I 7/10 della superficie terrestre sono coperti d'acqua, sì, ma l'acqua costituisce meno di 1/50 dell'1 per cento della massa del pianeta. La terra è grossa: pesa circa 6 miliardi di miliardi di tonnellate. Per la metà, tale peso è contenuto nel mantello inferiore, il massiccio strato semifuso che inizia 660 chilometri sotto la crosta. Perfino nella crosta, per acquosa che sembri, la massa terrestre è 40 volte maggiore di quella oceanica. Un esperimento giapponese riportato in «Science» nel 2002 ha ipotizzato che ci sia 5 volte più acqua disciolta nel mantello terrestre che a sciaguattare sulla superficie terrestre. Ricorrendo a pressioni di 200000 chilogrammi e a temperature di 1600 gradi centigradi, i ricercatori hanno creato 4 composti minerali simili a quelli situati nel mantello inferiore. Hanno quindi aggiunto dell'acqua e misurato quanta ne veniva assorbita. Se i giapponesi hanno ragione, la proporzione del mondo consistente in acqua va rivista e aumentata fino allo 0,1 per cento. Com'è inappropriato chiamare terra questo pianeta, quando è chiaramente oceano. ARTHUR C. CLARKE
Quando l'acqua va giù per lo scarico, in che senso gira? a)In senso orario b)In senso antiorario c)Giù dritta d)Dipende Dipende. La convinzione diffusissima che sia la forza di Coriolis, creata dalla rotazione terrestre, a far girare l'acqua a spirale è falsa. Sebbene, in effetti, influenzi fenomeni meteorologici di vasta scala e lunga durata quali gli uragani e le correnti oceaniche, la forza di Coriolis è, in ordine di grandezza, troppo debole per avere un effetto sugli impianti idraulici domestici. Il senso di rotazione dell'acqua che scende nello scarico è determinato dalla forma della vasca o del lavandino, dal senso in cui si è riempita o riempito e dai vortici che vi si formano quando ci si lava o si toglie il tappo. Se una vasca o un lavandino perfettamente simmetrico, con uno scarico minuscolo e un tappo che si potesse togliere senza turbare l'acqua, venisse riempito e lasciato così per circa una settimana, in modo da interrompere completamente ogni movimento, allora in linea di principio sarebbe forse possibile rilevare un piccolo effetto Coriolis: in senso antiorario
nell'emisfero settentrionale e in senso orario in quello meridionale. Questa storia ha ottenuto un minimo di credito grazie al fatto di essere stata inclusa nella serie di documentari Pole-to-Pole («da Polo a Polo») di Michael Palin. In un filmato girato a Nanyuki, in Kenya, un presentatore dava a intendere di dimostrare l'effetto Coriolis da un lato e dall'altro dell'Equatore, ma anche supponendo che l'effetto esistesse, tuttavia quella specifica dimostrazione mostrò il senso di rotazione sbagliato. Che cosa contengono le gobbe dei cammelli? Del grasso. Le gobbe dei cammelli non contengono acqua ma grasso, che funge da riserva energetica. L'acqua viene immagazzinata in giro per il corpo, in particolare nel flusso sanguigno, e questo permette loro di evitare la disidratazione. I cammelli possono perdere il 40 per cento del peso corporeo prima di patirne le conseguenze, e possono andare avanti sette giorni senza bere. Quando bevono, vale davvero la pena: 225 litri per volta. Ecco alcuni fatti degni di nota sui cammelli, anche se non hanno niente a che vedere con le loro gobbe. I levrieri persiani – i saluki – andavano a caccia in groppa ai cammelli. Si accucciavano sul collo e tenevano gli occhi ben aperti in cerca di cervidi, e poi saltavano giù per darsi all'inseguimento quando ne vedevano uno. Un saluki può fare salti di 6 metri partendo da fermo. Nel 1977 in Il veterinario dello zoo, David Taylor osservò che «i cammelli possono accumulare, come pentole a pressione, una tale quantità di rancore verso gli esseri umani che il coperchio improvvisamente salta ed essi ritornano guerrieri». Il cammelliere calma l'animale offrendogli il proprio mantello. «Il cammello si scatena sull'indumento. Ci salta sopra, lo strappa, lo pesta, lo fa a pezzi. Quando tutto è finito e il cammello sente di essersi liberato abbastanza, uomo e animale possono di nuovo vivere insieme in perfetta armonia». La corsa dei cammelli negli Emirati arabi uniti ha iniziato a usare dei guidatori-robot al posto dei fantini bambini tradizionali. Si è arrivati ai guidatori telecomandati in seguito al divieto di ricorrere a fantini sotto i sedici anni di età imposto dalla Camel Racing Association degli EAU nel marzo 2004. Questa legge viene regolarmente aggirata e c'è una fiorente tratta degli schiavi bambini, con bimbi anche di quattro anni rapiti in Pakistan e rinchiusi negli accampamenti arabici di cammelli. Le uniche caratteristiche necessarie a diventare fantino sono non pesare molto e saper urlare di terrore (sprona i cammelli). Il famoso versetto dei Vangeli di Matteo, Marco e Luca, «se è difficile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, è ancor più difficile che un ricco possa entrare nel regno dei cieli» potrebbe essere un errore di traduzione: una confusione della parola aramaica originale gamta, «filo robusto», con gamla, «cammello».
Ha più senso, ed è anche un pensiero confortante per i ricchi. Da chi prende il nome l'America? Forse non dal mercante e cartografo italiano Amerigo Vespucci, ma da Richard Ameryk, gallese, ricco mercante di Bristol. Ameryk fu il finanziatore principale del secondo viaggio transatlantico di Giovanni Caboto, i cui viaggi nel 1497 e 1498 gettarono le basi per le successive rivendicazioni sul Canada da parte inglese. Tempo prima Caboto si era trasferito a Londra da Genova ed Enrico VII lo aveva autorizzato a cercare terre ignote a occidente. Sulla sua piccola imbarcazione, il Matthew, Caboto raggiunse il Labrador nel maggio 1497 e diventò il primo europeo conosciuto a posare il piede sul suolo americano, in anticipo di due anni su Vespucci. Caboto tracciò la mappa delle coste nordamericane, dalla Nuova Scozia a Terranova. In qualità di principale finanziatore del viaggio, Richard Ameryk si aspettava che le terre scoperte prendessero il suo nome. L'annuario di Bristol del 1497 registrò: «… il giorno di san Giovanni [il 24 giugno], la terra d'America venne scoperta dai mercanti di Bristowe, su una nave di Bristowe chiamata Mathew». Il documento suggerisce con chiarezza che le cose andarono in questo modo. Sebbene il manoscritto originale dell'annuario non sia sopravvissuto, altri documenti contemporanei vi accennano spesso. Era la prima volta che ricorreva il termine «America» in riferimento al nuovo continente. La più antica mappa sopravvissuta a usare il nome è la grande mappa del mondo di Martin Waldseemüller del 1507, ma solo in riferimento all'America del sud. Nelle sue note, Waldseemüller ipotizza che il nome derivi dalla versione latina del nome di battesimo di Amerigo Vespucci, poiché Vespucci aveva scoperto e mappato la costa sudamericana tra il 1500 e il 1502. Da questo si deduce che Waldseemüller non lo sapesse per certo e stesse solo cercando di spiegare un nome che aveva visto su altre mappe, forse su quelle di Caboto. L'unico posto in cui si conosceva e usava il nome «America» era Bristol, non in luoghi che Waldseemüller, residente in Francia, aveva qualche probabilità di visitare. Significativamente, lo stesso Waldseemüller sostituì «America» con «Terra incognita» nella mappa del 1513. Vespucci non arrivò mai in Nord America. Tutte le prime mappe e i primi commerci erano inglesi. Né usò mai il termine «America» per la sua scoperta. C'è una buona ragione. I nuovi paesi o continenti non venivano mai battezzati con il nome, ma sempre con il cognome (si vedano la Tasmania, terra di Van Diemen, o le isole Cook). L'America sarebbe diventata «la terra di Vespucci» (o Vespuccia), se l'esploratore italiano l'avesse volutamente battezzata lui.
Quanti stati ci sono negli Usa? Tecnicamente, solo 46. La Virginia, il Kentucky, la Pennsylvania e il Massachusetts sono tutti dei Commonwealth. Questo non garantisce alcun particolare potere costituzionale. Semplicemente, alla fine della Guerra d'indipendenza scelsero di designarsi con tale parola, per rendere chiaro che loro non erano «colonie reali» tenute a rispondere al sovrano, ma stati governati dal «consenso popolare». La Virginia (dalla regina «vergine» Elisabetta I) fu uno dei 13 stati originari (da cui le 13 strisce rosse sulla bandiera americana) e il primo a dichiararsi Commonwealth nel 1776. La Pennsylvania e il Massachusetts fecero altrettanto poco dopo e il Kentucky, in origine una contea della Virginia, diventò un Commonwealth nel 1792. Esistono anche due Commonwealth americani oltremare. Nel luglio 1952, l'isola caraibica di Portorico compilò la propria costituzione, nella quale designava se stessa come Commonwealth degli Stati Uniti. Le isole Marianne settentrionali nell'oceano Pacifico fecero altrettanto nel 1975. Né Portorico né le Marianne hanno mai fatto parte degli Usa. Chi è stato il primo presidente americano? Peyton Randolph. Fu il primo dei 14 presidenti precedenti Washington del Congresso continentale, o degli «Stati d'America riuniti in Congresso generale». Il Congresso continentale era l'organismo dibattimentale che le tredici colonie avevano creato per esprimere la propria protesta contro la Corona britannica. Alla sua seconda riunione, sotto Randolph, deliberò che l'Inghilterra aveva dichiarato guerra alle colonie e, per tutta risposta, istituì l'Esercito continentale, di cui George Washington sarebbe stato nominato comandante supremo. Il successore di Randolph, John Hancock, presiedette alla dichiarazione d'indipendenza dalla Gran Bretagna, in cui il Congresso rivendicava il proprio diritto a governare le tredici colonie. A Peyton succedettero altre 13 presidenti finché, il 30 aprile 1789, un vittorioso George Washington fu designato come presidente degli indipendenti Stati Uniti d'America. La democrazia sono due lupi e un agnello che votano su cosa mangiare a pranzo. La libertà un agnello bene armato che contesta il voto. BENJAMIN FRANKLIN
Che ne faceva dei bufali Buffalo Bill? Niente. Non ci sono bufali nell'America del nord. In compenso uccise un sacco di bisonti: 4280 in meno di diciotto mesi.
In inglese, la parola buffalo, «bufalo», spesso si usa a sproposito per indicare il bisonte. Il bisonte delle praterie nordamericane (Bison bison) non è praticamente parente del genere dei bufali: il bufalo d'acqua o asiatico Bubalus e il bufalo africano Synceros. Il loro antenato comune più recente si è estinto sei milioni di anni fa. La popolazione di bisonti scese dai 60 milioni del XVII secolo alle poche centinaia di fine Ottocento. Oggi ci sono circa 50000 bisonti nelle praterie. Si allevano degli incroci di bisonti e bovini per produrre una carne che viene chiamata cattalo o beefalo, dall'unione delle parole cattle («bovino»), buffalo e beef («manzo»). I padri sono tori e le madri bisonti. Un bisonte maschio e una mucca concepirebbero dei cuccioli troppo grossi per la sicurezza della madre durante il parto. William Frederick «Buffalo Bill» Cody, cacciatore, nemico degli indiani e showman, entrò nel Pony Express – il leggendario servizio postale del West – a quattordici anni, dopo aver letto un annuncio che diceva: «Occorrono ragazzi sotto i diciotto anni, svelti, esperti cavalieri consapevoli di rischiare la morte ogni giorno: si preferiscono gli orfani. Salario settimanale: 25 dollari». Il Pony Express durò solo 19 mesi e fu soppiantato dalla ferrovia. Nel 1867, Cody venne assunto come cacciatore di bisonti che avrebbero costituito il pasto degli operai impegnati nei lavori per la Kansas Pacific Railroad. Fu in quell'occasione che totalizzò il suo stupefacente risultato. Condusse il Wild West Show, una sorta di spettacolo circense, dal 1883 al 1916, e con grande successo: durante un tour europeo, andò a vederlo anche la regina Vittoria. Alla sua morte nel 1917 – e a dispetto della guerra in corso – Cody ricevette gli omaggi del re d'Inghilterra, del Kaiser tedesco e del presidente Woodrow Wilson. Sebbene avesse espresso nelle sue volontà il desiderio di trovare sepoltura a Cody, Wyoming (città che aveva fondato lui), sua moglie affermò che si era convertito al cattolicesimo sul letto di morte e chiese che fosse seppellito al Mount Lookout, presso Denver. Nel 1948, la filiale di Cody della Legione americana offrì una ricompensa di 10000 dollari per la «restituzione» del corpo; il risultato fu che la filiale di Denver montò la guardia alla tomba, temendo che si aprisse un varco nella roccia. L'ascia di guerra non fu seppellita che nel 1968, quando ci fu uno scambio di segnali di fumo tra Mount Lookout (Denver) e Mount Cedar (Cody), mentre lo spirito di Buffalo Bill fu simbolicamente trasportato da una montagna all'altra da un cavallo bianco senza cavaliere. Qual era il vero nome di Billy the Kid? a)William H. Bonney b)Kid Antrim c)Henry McCarty d)Brushy Bill Roberts
Billy the Kid nacque come Henry McCarty a New York. William H. Bonney non era che uno dei suoi nomi falsi, quello che stava usando quando fu condannato a morte. Nato a New York, sua madre Catherine era una vedova che si stabilì con Henry e suo fratello Joe a Wichita, Kansas, nel 1870. Era un luogo selvaggio, il centro del commercio bovino. «A Wichita, – secondo un giornale dell'epoca, – le pistole sono fitte come le more». Nel novembre 1870, la città contava ormai 175 edifici e quasi 800 abitanti. La signora McCarty era molto conosciuta perché gestiva una lavanderia a mano sulla North Main Street. In seguito la famiglia si trasferì a Santa Fe, New Mexico, dove la madre di Billy sposò William Antrim, proprietario di una fattoria. Fu nei deserti del New Mexico che Billy cominciò a rubare il bestiame e a farsi un nome come pistolero. Nel 1879, con forse 17 morti sulle spalle, gli fu proposta un'amnistia dal governatore dello stato Lew Wallace, meglio ricordato oggi come autore di Ben Hur, il romanzo americano best seller del XIX secolo. Billy si costituì, poi ci ripensò ed evase. Gli fu data la caccia e venne infine ucciso da Pat Garrett nel 1881, non prima però di aver mandato a Wallace una valanga di lettere in cui lo implorava di onorare la promessa dell'amnistia. Le lettere rimasero senza risposta. Nonostante l'ordine ufficiale di esecuzione di morte, si continuò a lungo a raccontare che The Kid era sopravvissuto. Nel 1903, il successore di Wallace alla carica di governatore del New Mexico riaprì il caso per stabilire se fosse morto davvero e se meritasse l'indulto. L'indagine non si concluse mai. Nel 1950, un membro del Wild West Show del bisonticida Buffalo Bill noto come «Brushy (ispido) Bill Roberts» morì proclamando di essere in realtà Billy the Kid. Si dice che Billy the Kid sia la persona reale che più spesso è stata portata sul grande schermo; su di lui esistono almeno 46 film. Soltanto nel suo ultimo anno di vita Carty/Antrim/Bonney divenne noto con il nome di Billy the Kid. Fino ad allora, lo si conosceva semplicemente come «The Kid». Qual era il secondo nome di Mozart? Wolfgang. Il suo nome completo era Johann Chrysostomus Wolfgang Theophilus Mozart. Si faceva chiamare Wolfgang Amadé (non Amadeus) o Wolfgang Gottlieb. «Amadeus» è Gottlieb in latino e significa «che ama Dio». Ci sono altri secondi nomi memorabili: Richard Tiffany Gere, William Cuthbert Faulkner e Harry S. Truman, dove la S non significa nulla, nonostante il punto. Pare che i genitori di Truman non riuscissero a mettersi d'accordo se il figlio dovesse chiamarsi come nonno Anderson Shipp Truman o nonno Solomon Young. Per i maniaci della punteggiatura, vorremmo attirare l'attenzione sul Chicago Manual of Style: «Tutte le iniziali facenti parte di un nome dovrebbero per convenienza e coerenza essere seguite da un punto, anche se non sono abbreviazioni di nomi».
Come si chiama la capitale della Thailandia? Krung Thep. Il nome comunemente usato della città, che significa «città degli angeli» (come Los Angeles), è un'abbreviazione del nome ufficiale, che è il toponimo più lungo del mondo. Solo quegli ignoranti degli stranieri la chiamano Bangkok, un nome che i thailandesi non usano da più di duecento anni. Che gli europei (e tutte le loro enciclopedie) continuino a chiamare Bangkok la capitale della Thailandia è un po' come se i thailandesi insistessero a chiamare Billingsgate o Winchester la capitale della Gran Bretagna. Bangkok era il nome del paesino di pescatori che esisteva prima che il re Rama I vi trasferisse la sua capitale nel 1782, costruisse su quel sito una città e le cambiasse nome. Quello completo e ufficiale di Krung Thep è Krungthep Mahanakhon Amorn Rattanakosin Mahintara Yudthaya Mahadilok Pohp Noparat Rajathanee Bureerom Udomrajniwes Mahasatarn Amorn Pimarn Avaltarnsatit Sakatattiya Visanukram Prasit. In thailandese, si scrive in un'unica parola di 152 lettere. La traduzione suona all'incirca così: «Grande città degli angeli, supremo ricetto di gioielli divini, grande terra impenetrabile, grande e importante regno, capitale regale e magnifica, dotata di nove nobili gemme, la più alta dimora reale e grande palazzo, regno divino e luogo vivente degli spiriti reincarnati». La prima parte della parola Bangkok, il nome comune thailandese bang, significa villaggio. La seconda parte si suppone derivi dal vecchio termine thailandese makok, che indica un qualche frutto (le olive, le prugne o un misto di entrambe). Quindi potrebbe voler dire «il villaggio delle olive» o «il villaggio delle prugne». Nessuno propende con certezza per l'una o l'altra interpretazione, e a nessuno interessa granché. Krung Thep (o Bangkok, se insistete) è l'unica metropoli della Thailandia. È quasi 40 volte più estesa della seconda città in ordine di grandezza. Qual è la città più grande del mondo? a)Città del Messico b)San Paolo c)Mumbai (o Bombay) d)Honolulu e)Tokyo Honolulu, anche se la faccenda è un po' complicata. Per una legge dello stato hawaiano promulgata nel 1907, la città e la contea di Honolulu sono un tutt'uno. La contea include non solo il resto dell'isola di Oahu, ma anche tutte le isole Hawaii nordoccidentali, che si estendono nel Pacifico per ben 2400 chilometri. Questo significa che Honolulu copre un'area più grande di qualsiasi altra città – 5509 chilometri quadrati – sebbene abbia solo 876156 abitanti. Il 72 per cento della città consiste
in acqua di mare. La città più popolosa del mondo è Mumbai (la ex Bombay), con 12,8 milioni di abitanti che vivono in 440 chilometri quadrati: ben 29042 persone per chilometro quadrato. Se si include l'intera area metropolitana, la città più popolosa è Tokyo, con 35,2 milioni di abitanti in 13500 chilometri quadrati. Honolulu è la capitale delle Hawaii, ma non si trova sull'isola di Hawaii. Si trova su Oahu, che è molto più piccola ma molto più densamente popolata. Le Hawaii sono, tra i centri demografici più importanti, il più isolato della terra. Le isole dell'arcipelago hawaiano sono le parti emerse della più grande catena montuosa del mondo. Le Hawaii sono l'unico stato degli Usa in cui si coltiva caffè. Oltre un terzo degli ananas del pianeta viene da lì, e nelle Hawaii si ha uno dei consumi pro capite più alti al mondo di carne in scatola Spam: 7 milioni e rotti di lattine all'anno. La popolarità della carne in scatola Spam è misteriosa; è probabile che si debba alla forte presenza militare statunitense durante la guerra e al fatto che la carne in scatola è comoda in caso di uragano. Esiste anche il riso fritto Spam, un classico hawaiano. Il capitano Cook scoprì le isole Hawaii nel 1778 e le ribattezzò isole Sandwich in memoria del suo finanziatore, il conte di Sandwich. Cook venne ucciso alle Hawaii nel 1779. All'inizio dell'Ottocento le isole erano conosciute come il Regno delle Hawaii. Sebbene siano diventate territorio statunitense nel 1900, e il cinquantesimo stato nel 1959, le Hawaii sono l'unico degli Stati Uniti che ha ancora, in un angolo della bandiera, la Union Jack, la bandiera britannica. Qual è la costruzione più grande realizzata dall'uomo sulla terra? Tra le risposte sbagliate abbiamo: la Grande piramide di Cheope, la Grande Muraglia cinese e (per i secchioni) la torre Mubarak al-Kabir, in Kuwait. La nostra risposta è Fresh Kills, la discarica di Staten Island, New York, anche se ci piace parecchio l'alternativa suggerita dal comico irlandese Jimmy Carr: l'Olanda. Aperto nel 1948, il sito di Fresh Kills (dall'olandese kil, «fiumiciattolo») divenne ben presto uno dei più grandi progetti nella storia umana, e finalmente superò (in volume) la Grande Muraglia cinese in testa alla classifica delle costruzioni più grandi che l'uomo abbia realizzato. Il sito copre un'area di 12 chilometri quadrati e, quando era aperto, ogni giorno venti chiatte vi trasportavano 650 tonnellate di rifiuti ciascuna. Se, com'era nei piani, non l'avessero chiusa, la discarica sarebbe arrivata a essere il punto più alto della costa orientale. Al suo massimo, superava di 25 metri la Statua della libertà. Sotto la pressione della gente del posto, Fresh Kills è stato chiuso nel marzo del 2001, e riaperto solo per risolvere il problema dell'enorme quantità di macerie create dalla distruzione del World Trade Center. Adesso è definitivamente chiuso, e non potrà più riaprire: secondo le nuove restrizioni, non è permessa alcuna discarica entro i confini di New York. Attualmente, il sito viene spianato e preparato a ospitare una riserva naturale. Bello.
Ma esistono strutture che si estendono su aree più vaste, si potrebbe obiettare: la rete stradale statunitense, magari? Internet? La rete Gps? Fresh Kills rimane però la più grande struttura singola e coesiva. C'è sempre qualcosa di più grande o di più piccolo. ANASSAGORA
Dove si trova il posto più freddo dell'universo? In Finlandia. Nel 2000, un team dell'Università della tecnologia di Helsinki ha raffreddato un pezzo di rodio fino a 1/10 di miliardesimo di grado sopra lo zero assoluto (-273 gradi centigradi). Il radio è un metallo raro, che si usa soprattutto nei convertitori catalitici delle automobili. Il secondo posto più freddo si trova al Massachusetts Institute of Technology. Nel 2003, un team guidato da Wolfgang Ketterle ha prodotto un gas di sodio estremamente freddo. Ketterle ha vinto il premio Nobel per la fisica nel 2001 per il suo lavoro sul condensato di Bose-Einstein, un nuovo stato della materia che esiste soltanto vicino allo zero assoluto. Il suo interesse per la scienza è nato quando era bambino e giocava coi Lego. Queste temperature bassissime ottenute in laboratorio sono davvero notevoli. Anche nello spazio profondo, raramente si scende sotto i -245 gradi centigradi. L'unica eccezione conosciuta è la nebulosa Boomerang, identificata dagli astronomi australiani nel 1979. Sembra appunto un boomerang (o forse un papillon). Al centro ha una stella morente tre volte più pesante del nostro sole. Negli ultimi 1500 anni, la nebulosa Boomerang ha spruzzato gas alla velocità di 500000 chilometri orari. Proprio come il nostro respiro si raffredda quando passa attraverso la cavità orale, così il gas espulso dalla nebulosa è di due gradi più freddo dello spazio in cui si espande, e raggiunge i -271 gradi centigradi: la temperatura naturale più bassa che si sia mai registrata. La temperatura più bassa nel sistema solare, -235 gradi centigradi, misurata nel 1989 dal Voyager II sulla superficie di Tritone, una delle lune di Nettuno, al confronto è appena appena fredda; quanto alla più gelida mai registrata sulla terra, 89,2 gradi centigradi in Antartide nel 1983, è praticamente tropicale. La ricerca sulle basse temperature è importante nello studio dei superconduttori, materiali privi di resistività elettrica ma che, almeno per quanto si è scoperto finora, funzionano a temperature bassissime. Se si potranno utilizzare, i superconduttori rivoluzioneranno il mondo. Incrementeranno moltissimo la potenza dei computer, mentre ridurranno enormemente i costi dell'elettricità e le emissioni di gas serra. Forniranno trasporti senza carburante, metodologie alternative per vedere dentro il corpo umano senza ricorrere alle radiazioni e
la bomba elettromagnetica o bomba E: un'arma in grado di mettere fuori uso i componenti elettronici del nemico senza uccidere nessuno. Quando è finita l'ultima era glaciale? Ci siamo ancora dentro. I geografi definiscono era glaciale un periodo nella storia della terra in cui esistono le calotte polari. Il nostro clima attuale è quello di un periodo «interglaciale». Questo termine non significa «tra due ere glaciali». Viene usato per descrivere il periodo interno a un'era glaciale in cui il ghiaccio si ritira a causa di temperature più calde. Il «nostro» periodo interglaciale è cominciato 10000 anni fa, in quella che pensiamo essere la quarta era glaciale. Quando finirà, lo sa solo Dio; le idee sulla durata del periodo interglaciale vanno da 12000 a 50000 anni (senza tenere conto dell'influenza umana). Non si comprendono del tutto le cause di queste fluttuazioni. Tra i fattori possibili ci sono la posizione delle masse continentali, la composizione dell'atmosfera, i cambiamenti dell'orbita terrestre intorno al sole e forse perfino la stessa orbita del sole nella galassia. La «piccola era glaciale», che inizio nel 1500 e durò per 300 anni, vide la temperatura media nell'Europa scendere di 1 grado centigrado. Coincise inoltre con un periodo di scarsissima attività delle macchie solari, sebbene si discuta ancora se i due fenomeni siano collegati. In quel periodo, il ghiaccio artico si era talmente esteso verso sud che, in sei occasioni diverse, gli eschimesi raggiunsero la Scozia in kayak e gli abitanti delle isole Orcadi dovettero respingere un orso bianco che si era perso. Di recente, le ricerche condotte all'università di Utrecht hanno messo in relazione la piccola era glaciale con la peste nera. Con il declino catastrofico della popolazione europea, i campi abbandonati si ricoprirono a poco a poco di milioni di alberi. Questo avrebbe portato a un assorbimento significativo di anidride carbonica dall'atmosfera, e a un conseguente abbassamento della temperatura media per un «effetto antiserra». Chi vive negli igloo? Ormai più nessuno, probabilmente. La parola igloo (o iglú) significa «casa» in inuit. Per lo più, gli igloo sono fatti di pietre o pelli. Gli igloo fatti di blocchi di neve facevano parte dello stile di vita dei Thule, i precursori degli Inuit, e sono stati usati fino a tempi abbastanza recenti nel Canada centrale e orientale. Solo gli eschimesi canadesi, però, costruiscono gli igloo con la neve, che invece sono del tutto sconosciuti in Alaska, e anche in Groenlandia: secondo un censimento degli anni
Venti, su 14000 eschimesi che vivevano sulla grande isola artica, solo 300 ne avevano visto uno in vita loro. Oggi, ovunque si trovino, di igloo ne restano pochi. I primi visti dagli europei furono quelli in cui si imbatté Martin Frobisher sull'isola di Baffin nel 1576, mentre cercava il passaggio a nord-ovest. Un eschimese gli sparò al sedere. Per tutta risposta, gli uomini di Frobisher uccisero alcuni inuit, ne catturarono uno e lo portarono a Londra, dove fu messo in mostra come un animale. Negli anni Venti un quotidiano di Denver, in Colorado, eresse un igloo al municipio, vicino a cui erano tenute alcune renne, e assunse un eschimese dell'Alaska perché spiegasse ai visitatori che lui e gli altri pastori di renne in Alaska vivevano in case come quella. In realtà, quell'eschimese non aveva mai visto un igloo se non nei film. A Thule, nella Groenlandia nordorientale, invece, la gente del posto era talmente esperta nella costruzione di igloo da erigere grandi sale di ghiaccio per tenervi gare di ballo, di canto e di wrestling nei lunghi e bui inverni. Il resto del mondo era talmente lontano che, fino al primo Ottocento, si credettero il solo popolo della terra… Chi è un eschimese? Il termine «eschimese» copre una gamma di gruppi distinti. Eschimese descrive chi vive nelle regioni artiche di Canada, Alaska e Groenlandia. Conferito dai nativi americani cree e algonchini, il nome ha diversi significati possibili, inclusi «uno che parla un'altra lingua», «uno che viene da un altro paese» o «uno che mangia carne cruda». In Canada (dove il termine politicamente corretto è «inuit») si considera maleducazione descrivere qualcuno come «eschimese», ma gli eschimesi dell'Alaska ne sono felicissimi. In realtà, molti preferiscono «eschimese» perché di sicuro non sono inuit, una popolazione che vive soprattutto nel Canada settentrionale e in alcune zone della Groenlandia. Chiamare «inuit» i kalaallit in Groenlandia, gli inuvialuit in Canada e gli inupiaq, gli yupiget, yuplit e alutiq in Alaska è come chiamare «nigeriani» tutti i neri e «tedeschi» tutti i bianchi. Gli yupik dell'Alaska sudoccidentale e della Siberia non sanno nemmeno che cosa significhi la parola inuit. Si dà il caso che voglia dire «gente». Ancor meglio yupik: significa «persona vera». Le lingue della famiglia eschimo-aleutina sono legate tra di loro, ma non ad altre lingue. L'inuit, che se la passa benissimo, si parla nell'Alaska del nord, in Canada e in Groenlandia, dove adesso è la lingua ufficiale e si usa nelle scuole. Conosciuto anche come inupiaq o inuktitut, ha solo tre vocali e nessun aggettivo. Negli Stati Uniti, la lingua inuit è stata proibita per settant'anni. Gli eschimesi comprano i frigoriferi per evitare che il cibo si raffreddi troppo e, se devono contare oltre il 12, lo fanno in danese. Non si «sfregano il naso» per salutarsi. I più si irritano a questa idea. Il kunik è una specie di linguaggio nasale affettuoso (più che sessuale), praticato soprattutto da madri e
bambini ma anche tra sposi. In alcune lingue eschimesi si usa la stessa parola per «bacio» e «odore». Nel 1999, agli eschimesi canadesi è stato concesso un quinto del territorio nazionale (il Canada è il secondo paese più grande del mondo), che è diventato loro territorio. Il Nunavut è uno degli stati nazionali più nuovi del mondo: significa «nostra terra» in inuit. In cinque per automobile, basterebbe il parcheggio dell'aeroporto internazionale di Los Angeles a contenere tutti gli eschimesi del mondo. Ci sono più persone che usano il computer a Iqaluit, la capitale del Nunavut, di quanta ce ne sia in tutte le altre città del Canada. C'è anche il più alto tasso di suicidi rispetto a qualunque città del Nord America. L'eschimese medio è alto un metro e 62 e ha un'aspettativa di vita di 39 anni. In quanti modi si dice «neve» in eschimese? Non più di quattro. Si lascia spesso intendere che neve in eschimese si dica in cinquanta, cento o addirittura quattrocento modi. Quasi tutti i gruppi eschimesi non riconoscono che due parole equivalenti a «neve». Sembra che, tra le tante lingue del ceppo, non ci siano più di quattro radici grammaticali in totale per la neve. Le lingue eschimo-aleutine sono linguaggi agglutinanti, in cui la parola «parola» in sé è virtualmente priva di significato. I suffissi aggettivali e verbali si aggiungono come stringhe alle radici; il risultato sono dei «blocchi di parole» che assomigliano più che altro alle nostre frasi. In inupiaq, tikit-qaag-mina-it-ni-ga-a significa «lui (A) ha detto che lui (B) non sarebbe riuscito ad arrivare primo» (letteralmente «ad arrivare prima sarebbe riuscito non ha detto lui lui»). Il numero di radici fondamentali è relativamente esiguo, ma il numero di modi per qualificarle è virtualmente illimitato. L'inuit ha più di 400 affissi (elementi che si aggiungono alla fine o nel mezzo di una parola), ma un prefisso solo. Così, ci sono molte «parole derivate». Queste parole, a volte, paiono delle traduzioni inutilmente complicate di quelli che in altre lingue sono concetti semplici. Nalunaar-asuar-ta-at («la cosa con cui si comunica di solito quando si ha fretta») è un conio groenlandese del 1880 e si riferisce al telegrafo. Se, al di là delle «parole per la neve» cercaste qualcosa che distinguesse davvero le lingue eschimo-aleutine, trovereste i pronomi dimostrativi. Le lingue eschimo-aleutine – in particolare l'inupiaq, lo yupik e l'aleut – ne hanno più di 30. Ciascuna delle parole per «questo» e «quello» può prendere 8 casi diversi e c'è una quantità di modi per esprimere distanza, direzione, altezza, visibilità e contesto in uno solo di questi pronomi dimostrativi. Per esempio, in aleut hakan significa «quello lassù» (come un uccello nell'aria), qakun è «quello lì dentro» (in un'altra stanza) e uman vuole dire «quello che non si vede» (per esempio annusato, udito, sentito).
Da chi discende l'uomo? Non dalle scimmie antropomorfe. E neanche dalle scimmie in generale. Sia l'Homo sapiens sapiens sia le scimmie discendono da un antenato comune, sebbene questo tizio sfuggente non sia ancora stato trovato. È vissuto nel Pliocene, da 8 a 5 milioni di anni fa. Questa creatura discendeva da «sorcidi» arboricoli simili a scoiattoli, che a loro volta discendevano dagli «istrici» e, prima ancora, dalle «stelle marine». L'ultimo confronto tra il genoma umano e quelli del nostro parente più stretto, lo scimpanzé, dimostra che ci siamo separati molto più tardi di quanto si pensasse. Questo significa che probabilmente avevamo la possibilità di incrociarci e generare specie ibride – ormai estinte e di cui non è rimasta memoria – prima che avvenisse la separazione finale, 5,4 milioni di anni fa. Una volta Stephen Jay Gould osservò che l'Homo sapiens sapiens è un giovane ramoscello africano sull'albero rigoglioso dell'evoluzione umana. Se nulla esclude che l'uomo si sia evoluto anche altrove, la sua diffusione a partire dall'Africa resta la teoria più plausibile. Le prove genetiche suggeriscono che una delle prime popolazioni fuori dell'Africa sia stata quella delle isole Andamane, al largo della costa indiana. È rimasta isolata per 60000 anni, più a lungo degli aborigeni australiani. Oggi restano meno di 400 andamanesi. Per metà appartengono a due tribù: gli Jarawa e i Sentinelese, che non hanno quasi contatti con il mondo esterno. I circa 100 Sentinelese sono così isolati che nessuno ne ha mai studiato la lingua. Le altre lingue andamane non hanno parenti noti. Hanno cinque numeri: «uno», «due», «uno in più», «qualcuno in più» e «tutto». D'altronde, hanno 12 parole per descrivere i diversi stadi di maturazione della frutta. Gli andamanesi sono uno dei due soli gruppi tribali al mondo a non saper accendere il fuoco (gli altri sono i pigmei Aka dell'Africa centrale). Hanno invece delle complesse procedure per mantenere e trasportare in contenitori d'argilla tizzoni e ceppi che covino ancora il fuoco. Li tengono accesi da millenni, ed è probabile che a originarli siano stati i fulmini. Per quanto ci possa sembrare strano, la loro idea di Dio dovrebbe esserci familiare. La divinità suprema, Puluga, è invisibile, eterna, immortale, onnisciente, ed è il creatore di tutto tranne che del male; si riempie d'ira davanti al peccato e consola gli afflitti. Per punire gli uomini e il loro «peccato originale» scatenò un terribile diluvio. Lo tsunami del 2004 ha colpito le isole Andamane con tutta la sua forza ma, per quanto ci è dato sapere, ne ha lasciate incolumi le antiche tribù. L'anello di congiunzione da tanto tempo cercato tra gli animali e l'essere umano siamo noi. KONRAD LORENZ
Chi ha coniato l'espressione «sopravvivenza del più adatto»? Herbert Spencer. Spencer era un ingegnere, un filosofo e uno psicologo, famoso ai suoi tempi quanto Darwin. Fu il primo a coniare l'espressione «sopravvivenza del più adatto» nei Principî di biologia (1864), ispirato dalla teoria darwiniana della «selezione naturale». Darwin gli rese l'onore di usarla poi egli stesso nella quinta edizione dell'Origine della specie nel 1869, commentando: Questo principio per il quale ogni lieve variazione, se utile, si mantiene, è stato da me denominato «selezione naturale», per indicare la sua analogia con la selezione operata dall'uomo. Ma l'espressione «sopravvivenza del più adatto», spesso usata da Herbert Spencer, è più idonea, e talvolta ugualmente conveniente.
Herbert Spencer (1820-1903) era il maggiore di nove figli, e tutti gli altri morirono da bambini. Dopo aver studiato da ingegnere civile, divenne un filosofo, uno psicologo, un sociologo, un economista e un inventore. Vendette più di un milione di copie dei suoi libri mentre era ancora in vita e fu il primo ad applicare la teoria evoluzionista a psicologia, filosofia e agli studi sociali. Fu anche l'inventore della graffetta. Lo strumento venne chiamato Spilla Spencer per rilegare e venne prodotto grazie a una macchina per le allacciature a gancio modificata da un fabbricante di nome Ackermann, i cui uffici si trovavano sullo Strand di Londra. Andò bene il primo anno e rese a Spencer 70 sterline, ma poi la domanda cadde, Ackermann si sparò e l'invenzione era del tutto sparita quando, nel 1899, l'ingegnere norvegese Johann Vaaler registrò il brevetto per la graffetta moderna in Germania. Durante la Seconda guerra mondiale, le graffette furono un simbolo emotivo della resistenza norvegese all'occupazione tedesca: se ne metteva una sul risvolto della giacca, al posto degli emblemi proibiti dell'esiliato re Haakon VII. Più tardi, a Oslo venne eretta una graffetta gigantesca in memoria di Johann Vaaler. Oggi, si vendono ogni anno più di 11 miliardi di graffette, ma secondo una recente indagine soltanto 5 su 100000 clips sono effettivamente usate per tenere insieme i fogli. Per la maggior parte, servono come fiches per il poker, nettapipa, spille da balia e stuzzicadenti. Le altre cadono e si perdono, o vengono piegate e deformate nel corso di tediose o difficoltose telefonate. Chi ha inventato la penna a sfera?
a)Il signor Biro b)Il signor Bich
c)Il signor Quiet d)Il signor Loud Scrivere era un'attività perigliosa prima dell'avvento della penna a sfera. Le stilografiche andavano regolarmente intinte in un calamaio e regolarmente perdevano; quanto all'inchiostro indiano (inventato in Cina) asciugava sulla pagina con una lentezza esasperante. Il primo a riconoscere tali problemi con un brevetto registrato il 30 ottobre 1888 fu un conciatore di pelli, John J. Loud. Creò una penna con, al posto del pennino, una sferetta rotante costantemente alimentata da una riserva di inchiostro. Sebbene anche quella penna perdesse, sulla pelle scriveva molto meglio di una stilografica. Loud però non seppe sfruttare il brevetto. Se l'avesse fatto, forse parleremmo delle «loud» usa e getta invece che delle «biro». In origine, l'ungherese László Biró (1899-1985) aveva studiato medicina senza mai laurearsi. Per un po' lavorò come ipnotizzatore e pilota automobilistico, poi intraprese la carriera giornalistica. Dopo aver riflettuto sulla diversa velocità a cui si asciugavano l'inchiostro dei quotidiani e quello della sua stilografica, insieme al fratello György, un chimico, Biró creò una penna con un cuscinetto a sfera che riusciva a stendere e far asciugare l'inchiostro da stampa mentre ruotava. Era nata la biro. I fratelli registrarono il brevetto della penna a sfera in Ungheria nel 1938; emigrati in Argentina per sfuggire al nazismo, vi riregistrarono il brevetto nel 1943. Uno dei loro primi clienti fu la Raf, spinta dall'ottima resa della penna ad alta quota. Questo fece sì che il nome «biro» diventasse sinonimo di penna a sfera in Gran Bretagna. La produzione delle prime biro per la vendita pubblica iniziò nel 1945. Alla stessa epoca, Biró concesse la penna in licenza al francese Marcel Bich. Bich chiamò BiC la sua azienda e, modificando il progetto di Biró, organizzò una produzione di massa: in questo modo, si sarebbero potute vendere le penne a un prezzo incredibilmente basso. La BiC è ancora oggi il leader del mercato mondiale delle penne a sfera con vendite annuali che arrivano a 1,38 miliardi di euro. Nel 2005, è stata venduta la 100 miliardesima penna. Il modello di maggior successo, la Bic Cristal, vende 14 milioni di pezzi al giorno. In segno di rispetto nei confronti di Biró, gli argentini – che chiamano le penne birome – festeggiano la Giornata degli inventori argentini il 29 settembre, il giorno del suo compleanno. Che cosa usiamo per scrivere su una lavagna? Il gesso. Ma i «gessetti» che si usano a scuola non sono di gesso. I gessetti sono fatti di carbonato di calcio, come il corallo, il calcare, il marmo, lo scheletro umano e le lische di pesce, le lenti degli occhiali, il calcare nel bollitore e gli antiacidi in compressa come il Gaviscon o la Magnesia Bisurata Aromatic.
Il gesso è fatto di solfato di calcio. Se pensate che si tratti di una distinzione pignola, sappiate che le due sostanze sembrano simili, ma in realtà sono piuttosto diverse: non sono nemmeno costituite dagli stessi elementi chimici. Molte sostanze che paiono diverse sono costituite in effetti dagli stessi elementi chimici. Prendete del carbonio, dell'idrogeno e dell'ossigeno. Combinateli variandone le percentuali e ne nasceranno materiali enormemente diversi quali il testosterone, la vaniglia, l'aspirina, il colesterolo, il glucosio, l'aceto e l'alcol. Tecnicamente noto come solfato di calcio idrato, il gesso è uno dei minerali più largamente disponibili al mondo. Si estrae da almeno 4000 anni – l'intonacatura interna alle piramidi è di gesso – e oggi lo si utilizza in una vasta gamma di processi industriali: il più comune è il normale intonaco degli edifici. Circa il 75 per cento di tutto il gesso si usa per l'intonaco e per prodotti come il cartongesso, le tegole e il «gesso di Parigi». Il gesso è un ingrediente chiave del cemento e viene impiegato nella produzione di fertilizzanti, carta e tessuti. Una casa nuova standard negli Stati Uniti contiene più di 7 tonnellate di gesso. Il gesso di Parigi si chiama così perché nel terreno argilloso dentro e fuori la città, e specialmente a Montmartre, ci sono grandi depositi di gesso. In natura, il gesso si trova anche in forma di alabastro, un materiale bianco come la neve e translucido che si usa per fare statue, busti e vasi. L'alabastro si può tingere artificialmente di qualsiasi colore e, se scaldato, può arrivare ad assomigliare al marmo. Tradizionalmente, si credeva che l'alabastro, una volta polverizzato e trasformato in unguento, curasse i problemi alle gambe. Era normale che la gente, con uno scalpello, staccasse dei pezzi dalle statue delle chiese per fare l'unguento. Ironia della sorte, la parola gesso viene dal greco gýpsos, che significa gesso nel senso di carbonato di calcio, di «gessetto». Che cosa si fa con la celluloide?
Le palline da ping-pong e l'appretto per i colletti. La pellicola cinematografica non si fa più con la celluloide, il cui ingrediente principale è la nitrocellulosa; la pellicola moderna è di triacetato di cellulosa. Di solito, la celluloide viene considerata la prima plastica. In termini tecnici è una termoplastica, il che significa che si può rimodellare ogni volta che la si ri-riscalda. Oltre che da nitrocellulosa, è costituita da canfora. In natura la cellulosa si trova nelle pareti cellulari delle piante; la canfora viene dall'albero della canfora e ha nettamente
l'odore delle palline antitarme in cui viene spesso trasformata. La celluloide fu prodotta per la prima volta a Birmigham, in Inghilterra, da Alexander Parkes, che nel 1856 la brevettò per utilizzarla nei tessuti impermeabili. Un altro dei suoi primi impieghi fu come surrogato economico dell'avorio: per le palle da biliardo e le dentiere. La celluloide rese possibili i film grazie alla sua flessibilità. Le lastre rigide di vetro non scorrono nei proiettori. Ma è altamente infiammabile e si decompone molto in fretta, quindi è difficile immagazzinarla; oggi viene usata di rado. Quasi ovunque è stata rimpiazzata da plastiche più stabili quali l'acetato di cellulosa (fatto con la pasta di legno) e il polietilene (un sottoprodotto del petrolio). Il nitrato di cellulosa (o nitrocellulosa) fu inventato per caso nel 1846 da Christian Schönbein, colui che, sei anni prima, aveva scoperto l'ozono. Un giorno, si trovava in cucina a fare un esperimento con acido nitrico e solforico. A un certo punto, ruppe una bottiglia; per ripulire il pasticcio che aveva combinato usò il grembiule di cotone della moglie, poi lo mise sulla stufa ad asciugare. Immediatamente, il grembiule prese fuoco: Schönbein aveva scoperto il primo esplosivo nuovo dall'antica invenzione cinese della polvere da sparo. Il nuovo esplosivo prese il nome di «fulmicotone». Non faceva fumo ed era quattro volte più potente della polvere da sparo. Schönbein lo brevettò subito e vendette i diritti di produzione in esclusiva alla John Hall and Sons. L'anno dopo, la fabbrica di Faversham, nel Kent, esplose, e ventun persone rimasero uccise. Seguirono altre esplosioni mortali in Francia, Russia e Germania. Ci sarebbero voluti ancora quarant'anni perché si trovasse un uso stabile per il nitrato di cellulosa: fu quando James Dewar e Frederick Abel crearono la cordite, nel 1889. Diversi anni prima, Dewar aveva inventato il thermos. Chi ha inventato le galosce? a)Gli indios dell'Amazzonia b)Il duca di Wellington c)Charles Goodyear d)Charles Macintosh Gli indios dell'Amazzonia sanno fare da tempo immemorabile degli stivali di gomma istantanei: si immergono fino al ginocchio nel lattice liquido e aspettano che si asciughi. Gli stivali pensati per il duca di Wellington nel 1817, e che da lui prendono il nome in inglese, erano di pelle. Le prime galosce non apparvero che nel 1851, un anno prima che il duca morisse. All'inizio, nel campo dell'abbigliamento la gomma si rivelò un disastro: col caldo si scioglieva addosso, col freddo diventava dura come il marmo. Si fece un decisivo passo avanti soltanto nel 1839, quando Charles Goodyear mescolò la gomma allo zolfo, la scaldò
e ne versò per caso un pochino sulla stufa di casa. La storia di Charles Goodyear è tanto suggestiva quanto tragica. Per tutta la vita, si dibatté in una disperata povertà. Sei dei suoi dodici figli morirono di denutrizione. Tuttavia, la gomma era la sua ossessione e non smise mai di provare a migliorare la qualità di quella che chiamava «il cuoio vegetale». Il processo che aveva inavvertitamente scoperto risolse il problema della gomma, perché le diede stabilità. Nell'eccitazione, Goodyear mostrò i suoi campioni a Thomas Hancock e Charles Macintosh: due inglesi che avrebbero avuto grande successo nel commercio della gomma. Dopo aver analizzato i campioni, infatti, furono in grado di ripetere il processo e lo brevettarono nel 1843, chiamandolo «vulcanizzazione» dal nome del dio romano del fuoco. Goodyear fece causa, la perse e fu costretto per l'ennesima volta a passare un po' di tempo nella prigione dei debitori: il suo «albergo», come gli piaceva chiamarla. Morì, ancora e sempre sommerso dai debiti, ma acclamatissimo per le sue intuizioni e la sua perseveranza. Una volta scrisse: «Non si dovrebbe valutare la vita esclusivamente in termini di dollari e centesimi. Non intendo lamentarmi perché io ho seminato e altri hanno raccolto i frutti. Un uomo ha motivo di rammaricarsi soltanto quando semina e nessuno raccoglie». A quarant'anni dalla sua scomparsa, la sua immortalità fu assicurata quando i fondatori della Goodyear Rubber Company, attualmente la più grande del mondo, battezzarono l'azienda in suo onore. Il fatturato nel 2005 è stato di 19,7 miliardi di dollari. Il più grande inventore di tutti è il caso. MARK TWAIN
Il primo bug di un computer era un vero insetto?
Il termine inglese bug significa «insetto», e in effetti la risposta alla domanda è sì e no. Innanzitutto, il «sì». Nel 1947, all'Università di Harvard, il computer Mark II della marina statunitense, che se ne stava in uno stanzone senza aria condizionata, si bloccò per colpa di una falena che si era incastrata in un relè. Prima di riazionare la macchina, gli operatori rimossero il cadavere malconcio dell'insetto e lo appiccicarono accanto all'annotazione quotidiana sul logbook. La natura meccanica dell'elaboratore era ciò che lo aveva reso particolarmente vulnerabile all'interferenza dell'insetto. Quasi tutti i primi computer, ad esempio Eniac (Electronic Numerical Integrator And Computer) all'Università di Pennsylvania, erano
elettronici e sfruttavano valvole termoioniche a prova di falena. Ma è questa l'origine del termine «bug»? No. Usata per indicare un errore o un difetto in una parte della macchina, la parola «bug» risale all'Ottocento. L'Oxford English Dictionary cita un articolo del 1889 in cui Thomas Edison «aveva passato le ultime due notti in bianco alla ricerca di un bug nel suo fonografo». E a dispetto di quanto dicono molti libri e siti web, anche «de-bugging» fu usato prima che la falena causasse quel putiferio ad Harvard. Esempio, questo, piuttosto soddisfacente dell'esistenza che imita il linguaggio: una metafora che, letteralmente, ha preso vita. Chi o cosa avrebbe più probabilità di sopravvivere a una guerra nucleare? Gli scarafaggi è la risposta sbagliata. Di certo, la ragione per cui così tanti di noi persistono nella convinzione che gli scarafaggi siano indistruttibili è in sé un argomento interessante. Esistono da molto più tempo di noi (circa 280 milioni di anni) e sono quasi universalmente odiati in quanto forieri di malattie, tra l'altro difficili da controllare. Inoltre, possono vivere per una settimana senza testa. Ma non sono invincibili e, sin dalla pionieristica ricerca dei dottori Wharton e Wharton nel 1959, sappiamo che sarebbero fra i primi insetti a morire in una guerra nucleare. I due scienziati esposero svariati insetti a dosi diverse di radiazioni (allora misurate in «rad»). Mentre un uomo morirebbe se esposto a 1000 rad, i Wharton conclusero che lo scarafaggio muore a una dose di 20000 rad, una drosofila a una dose di 64000 rad e una vespa parassitaria a una dose di 180000 rad. Il re della resistenza alle radiazioni è il batterio Deinococcus radiodurans, che può tollerare una scarica di 1,5 milioni di rad, eccetto quando è congelato: allora la sua tolleranza raddoppia. Il batterio – chi lo studia lo chiama affettuosamente «Conan il batterio» – è rosa e ha l'odore di un cavolo marcio. Lo si scovò che cresceva felice e beato in un barattolo di carne in scatola sottoposta a radiazioni. Da allora si è scoperto che, in natura, lo si trova nello sterco di elefante e lama, nel pesce e nella carne di anatra irradiati e perfino nel granito antartico. La resistenza di Conan il batterio alle radiazioni e al freddo, e la sua capacità di conservare intatto il proprio Dna anche in condizioni tanto estreme, hanno portato gli scienziati della Nasa a credere che potrebbe racchiudere il segreto per trovare la vita su Marte. Qual è la parte più piccante del peperoncino? Una generazione di chef televisivi ci ha fatto credere che la parte più piccante del peperoncino siano i semi. Non è così.
È la membrana centrale cui i semi sono attaccati. La membrana contiene la concentrazione più alta di capsaicina, un composto chimico incolore e inodore che dà al peperoncino la sua piccantezza caratteristica. La piccantezza del peperoncino si misura con la scala di Scoville, ideata dal chimico americano Wilbur L. Scoville nel 1912. Nei suoi primi test, Scoville diluì svariate soluzioni di estratti di peperoncino e alcol in acqua e zucchero, poi chiese ad alcuni assaggiatori di provare le diverse concentrazioni di peperoncino finché non avessero smesso di essere piccanti. Fu quindi inventata una scala numerica a seconda della piccantezza del peperoncino. Per esempio, si dice che un peperoncino jalapeño abbia 4500 unità di piccantezza Scoville (SU), perché va diluito 4500 volte prima di perdere la propria piccantezza. Il peperoncino più piccante del mondo viene dal Dorset, sulla costa sud-occidentale dell'Inghilterra. Il Dorset Naga – naga in sanscrito significa «serpente» – di Michael e Joy Michaud deriva da una specie del Bangladesh. Nel 2005 due laboratori americani l'hanno sottoposto a dei test: ha totalizzato 923000 su. Da incendiare il palato. Anche solo la metà di un Naga renderebbe immangiabile il curry, e consumarne uno intero significherebbe farsi una bella gita in ospedale. Ciò nonostante, in quello stesso anno sono stati venduti 250000 Naga. Tanto per darvi un po' di prospettiva: la polvere pura di capsaicina rilascia 15-16 milioni di su. È così piccante che i chimici che la usano nei loro esperimenti devono lavorare in una «stanza tossica» purificata e indossare una tuta intera protettiva, con un cappuccio chiuso per non inalare. Si stima ci siano 3510 varietà di peperoncino. Da dove vengono i tulipani? Che siano di Amsterdam o di Vattelapesca, i tulipani sono un simbolo dell'Olanda famoso quanto i mulini a vento e gli zoccoli, ma non sono originari dei Paesi Bassi. L'habitat naturale del tulipano sono i terreni di montagna. Fu soltanto nel 1554 che i tulipani vennero importati da Costantinopoli (l'attuale Istanbul) in Olanda. Si possono trovare i tulipani selvatici nell'Europa meridionale, in Nord Africa e in alcune regioni asiatiche, fino alla Cina nordorientale. Il tulipano è il fiore nazionale sia della Turchia sia dell'Iran. Il nome del fiore deriva dalla parola tülbent, versione turca del termine persiano dulband, che significa «turbante». Questo a causa di quella che gli etimologi definiscono una «apparente somiglianza» tra la forma del fiore quando non è del tutto sbocciato e un turbante (o forse perché, tradizionalmente, i turchi portavano il fiore sui loro copricapi). I tulipani divennero straordinariamente popolari nei Paesi Bassi (così li dovremmo chiamare: il termine «Olanda» definisce soltanto due delle dodici province del paese), ma le storie sulla grande montatura della «tulipanomania» di inizio Seicento sono ormai trite e ritrite.
Secondo il professor Peter Garber, stratega globale alla Deutsche Bank, le terribili storie sulle tante persone rovinate dal crollo del prezzo dei tulipani provenivano da uno e un solo libro – La pazzia delle folle, ovvero Le grandi illusioni collettive di Charles MacKay, pubblicato nel 1852 – e furono il risultato di una campagna moralistica promossa dal governo olandese: lo scopo era diffondere notizie allarmistiche per scoraggiare la speculazione sui tulipani. È vero che il prezzo dei tulipani era aumentato (il bulbo delle piante di maggior valore poteva costare quanto una casa), ma ci sono molti esempi di prezzi anche più alti raggiunti in altri paesi da altre piante, per esempio l'orchidea nell'Inghilterra del XIX secolo. Garber culmina dicendo che la speculazione olandese «fu un fenomeno che durò un mese nell'uggioso inverno olandese del 1637 […] e non ebbe alcuna vera conseguenza economica». Oggi l'Olanda produce circa 3 miliardi di bulbi di tulipano all'anno, dei quali 2 per l'esportazione. Quanti crochi ci vogliono per fare un chilo di zafferano? Tra gli 85000 e i 140000. Ed è questo il motivo per cui, anche oggi, lo zafferano spagnolo di prima qualità mancha costa al dettaglio 3750 sterline la libbra (circa 10000 euro al chilo). Alcuni affreschi della Creta minoica, risalenti al 1600 a.C., illustrano la raccolta dello zafferano. Alessandro Magno si lavava i capelli nello zafferano per mantenerne il meraviglioso color arancione lucido. Era uno shampoo iperesclusivo: all'epoca, lo zafferano era raro come i diamanti, e più caro dell'oro. Nella Norimberga quattrocentesca e sotto il regno di Enrico VIII in Inghilterra, adulterare lo zafferano mischiandolo con qualcos'altro era un reato passibile della pena capitale. Gli accusati venivano bruciati sul rogo o sepolti vivi con i loro prodotti illegali. La città di Saffron Walden nell'Essex prende il nome dalla spezia: era il centro del commercio inglese di zafferano. Secondo la leggenda, tutto ebbe inizio nel Trecento, quando dal Medioriente arrivò un pellegrino con un bulbo rubato di zafferano nascosto nel bastone. Fino ad allora, la città si era sempre chiamata semplicemente Walden. Soltanto l'arrivo del tè, del caffè, della vaniglia e del cioccolato comportò il declino della sua coltivazione, anche se rimase una coltura importante in Italia, Spagna e Francia. La parola zafferano deriva dall'arabo asfar, che significa «giallo». Qual è stata la prima invenzione a rompere la barriera del suono? La frusta. Le fruste furono inventate in Cina settemila anni fa, ma soltanto con l'invenzione della fotografia ad alta velocità nel 1927 si comprese che lo schiocco della frusta era un mini bang sonico e non il rumore del cuoio che colpiva il manico. Lo schiocco della frusta è causato dalla curva che si forma nella frusta quando la si fa, appunto, schioccare. La curva viaggia lungo tutta la frusta e, poiché il cuoio si assottiglia
in una punta affusolata, mentre viaggia accelera fino a una velocità dieci volte superiore a quella iniziale. Lo schiocco si verifica quando la curva rompe la barriera del suono a circa 1194 chilometri all'ora. Il primo velivolo a infrangere la barriera del suono è stato un Bell X-1 pilotato da Chuck Yeager nel 1947. Nel 1948 raggiunse i 1540 chilometri orari a 21 900 metri d'altezza, a tutt'oggi il numero 9 nella classifica dei voli con equipaggio umano più veloci di tutti i tempi. Il record per il volo con equipaggio umano più veloce è ancora detenuto dall'X-15A, che raggiunse i 6389 chilometri orari a 31200 metri d'altezza nel 1967. La maggiore velocità a cui abbia mai viaggiato un uomo è stata toccata al rientro dell'Apollo 10 nel 1969: 39897 chilometri all'ora. Visto che la luce viaggia più veloce del suono, sarà per questo che molte persone appaiono brillanti finché non le senti parlare? STEVEN WRIGHT
Quale musica incanta di più i serpenti? Non gliene importa niente, per loro è tutta uguale. Nei numeri di incantamento dei serpenti, i cobra reagiscono alla vista del flauto, non al suono che produce. I serpenti non «sentono» davvero la musica, anche se di sicuro non sono sordi. Non hanno né l'orecchio esterno né il timpano, ma percepiscono le vibrazioni trasmesse dal terreno alle loro fauci e ai muscoli del ventre. Pare inoltre che siano in grado di rilevare i suoni trasportati dall'aria con un orecchio interno. Un tempo si pensava che i serpenti non sentissero affatto perché non reagiscono ai rumori forti; una ricerca presso l'Università di Princeton ha dimostrato che hanno un udito molto acuto. La scoperta chiave è stata quella su come funziona l'orecchio interno di questi animali. Alcuni serpenti sono stati collegati con dei fili metallici a dei voltmetri, in modo da misurare l'effetto del suono trasportato dall'aria sui loro cervelli. Sembra che il loro udito sia «sintonizzato» sulla gamma di frequenze dei rumori e delle vibrazioni creati dal movimento di animali più grossi. La musica sarebbe dunque priva di significato per loro. I cobra «incantati» si sollevano se minacciati e ondeggiano in reazione al movimento dello strumento. Se attaccano il flauto si fanno male, quindi evitano. A quasi tutti i cobra vengono tolti i denti ma, anche così, possono attaccare solo da una distanza pari al massimo alla lunghezza del loro corpo, un po' come se appoggiaste un gomito sul tavolo e colpiste il piano con la mano. Il cobra ha per natura un atteggiamento difensivo, non aggressivo.
Di cosa sono fatte le corde di violino?
Le corde di violino non sono di budella di gatto, non lo sono mai state. Questa storia venne inventata dai liutai italiani nel Medioevo, quando scoprirono che le interiora di pecora erano delle ottime corde per i loro strumenti. Siccome uccidere un gatto portava una iella tremenda, protessero la loro invenzione dicendo a tutti che le loro corde si facevano con l'intestino del gatto. La leggenda vuole che, un giorno, un sellaio di nome Erasmo, nel paesino di Salle tra i monti abruzzesi, sentì soffiare il vento tra le strisce di budella di pecora stese ad asciugare e pensò che probabilmente sarebbero state delle buone corde per il primo violino, conosciuto come violino rinascimentale. Per seicento anni, Salle sarebbe rimasto il centro della produzione di corde da violino ed Erasmo fu canonizzato come santo patrono dei fabbricanti di corde. Gli atroci terremoti del 1905 e del 1933 posero fine all'industria di Salle, ma due delle maggiori case di produzione mondiali di corde – D'Addario e Mari – sono ancora guidate da famiglie di Salle. Fino al 1750 tutti i violini usarono corde fatte in budella di pecora. L'intestino va tolto dall'animale ancora caldo, ripulito del grasso e degli scarti e ammollato nell'acqua fredda. Le parti migliori vengono poi tagliate a strisce, ritorte e raschiate fino a diventare una corda dello spessore giusto. Oggi si usa una combinazione di budella, nylon e acciaio, anche se, per lo più, gli aficionados continuano a credere che gli intestini producano toni più caldi. Richard Wagner mise in circolazione una storia truculenta per screditare Brahms, che detestava di tutto cuore. Affermò che Brahms aveva ricevuto in dono dal compositore ceco Antonín Dvořák un «archetto di Boemia ammazzapasseri», con il quale probabilmente menava colpi a casaccio sui gatti che passavano davanti alla finestra del suo appartamento viennese. «Dopo aver infilzato quelle povere bestie, – proseguiva Wagner, – le tirava in camera come un pescatore di trote. Poi ascoltava bramosamente i gemiti di agonia delle sue vittime e annotava con cura sul proprio taccuino i loro commenti ante mortem». Wagner non era mai andato a trovare Brahms, né aveva mai visto il suo appartamento; sembra poi che non esista alcuna documentazione in merito a un «archetto da passeri», tanto meno mandato da Dvorak. I gatti hanno la tendenza a morire, come quasi tutte le altre specie, in silenzio. Ciò nonostante, le voci sul felinicidio restano incollate addosso a Brahms, e svariate biografie hanno riportato l'affermazione di Wagner come un dato di fatto.
In un palazzo, da quale piano conviene buttare giù un gatto? Qualunque al di sopra del settimo. Oltre il settimo piano, l'altezza da cui cade il gatto non ha nessuna importanza: basta che gli duri l'ossigeno. Come molti animali di piccola taglia, i gatti hanno una velocità limite non mortale: nel loro caso, circa 100 chilometri orari. Una volta che sono riusciti a rilassarsi, si orientano, si allargano e si paracadutano a terra come scoiattoli. La velocità limite è il punto in cui il peso corporeo è uguale alla resistenza dell'aria e si smette di accelerare. Nell'uomo corrisponde a circa 195 chilometri orari, e viene raggiunta in caduta libera a 550 metri. Si ricordano gatti caduti dal trentesimo piano o anche oltre senza farsi male. Si sa di un gatto sopravvissuto a un volo dal quarantaseiesimo piano, e c'è perfino la testimonianza di un gatto deliberatamente lanciato fuori da un Cessna a 244 metri e sopravvissuto. Nel 1987, un articolo sul «Journal of the American Veterinary Medical Association» esaminò 132 casi di gatti caduti dalle finestre dei grattacieli newyorkesi. In media, erano volati giù dal piano 5,5. Ne era sopravvissuto il 90 per cento, sebbene molti fossero rimasti gravemente feriti. Secondo i dati, i danni subiti dai gatti aumentavano in proporzione al piano da cui erano caduti, ma solo fino al settimo. Oltre il settimo piano, il numero di danni riportati da ciascun gatto diminuiva sensibilmente. In altre parole: da più in alto cade il gatto, più possibilità ha di cavarsela. Le cadute umane più famose sono quella di Vesna Vulović, che nel 1972 cadde da 10600 metri in seguito all'esplosione di una bomba su un DC-10 delle linee aeree australiane, e quella del sergente maggiore Nicholas Alkemade, un mitragliere della Raf, che nel 1944 fu sbalzato fuori dal suo Lancaster in fiamme e cadde da 5800 metri. La Vulović si ruppe entrambe le gambe ed ebbe problemi alla colonna vertebrale; a salvarla furono il suo sedile e la cabina della toilette cui era attaccato, che attutirono l'impatto. La caduta di Alkemade fu interrotta da un pino prima e da un cumulo di neve poi. Il sergente ne uscì illeso e rimase seduto nella neve, a fumarsi tranquillamente una sigaretta. I gatti sono destinati a insegnarci che non tutto in natura ha uno scopo. GARRISON KEILLOR
Perché si è estinto il dodo? a)Lo cacciavano per cibarsene b)Lo cacciavano per sport c)Perse il proprio habitat d)Perse la competizione con altre specie Il dodo (Raphus cucullatus) ha la proverbiale e non invidiabile doppia caratteristica di
essere sia estinto, sia stupido. Originario di Mauritius, inetto al volo, diventò una facile vittima dei predatori di terra e venne sterminato in meno di un secolo dalla distruzione del suo habitat boschivo e dall'introduzione di maiali, topi e cani sull'isola. Per inverosimile che sia, il dodo apparteneva alla famiglia dei Columbidi ma, a differenza di un altro uccello estinto famoso, il colombo migratore, non veniva cacciato per cibarsene: era a malapena commestibile, tanto che gli olandesi lo chiamavano walgvogel, «uccello disgustoso». Il nome portoghese dodo è a sua volta ben poco gentile: significa «sempliciotto» e si riferisce al fatto che, non avendo paura dell'uomo, il dodo non scappava, il che ne diminuiva il valore come uccello per la caccia sportiva. Arrivati al Settecento si era ormai estinto. Nel 1755, il direttore dell'Ashmolean Museum di Oxford decise che il loro esemplare era troppo mangiato dalle tarme per tenerlo e lo diede alle fiamme. Era l'unico dodo conservato esistente. Un dipendente che assistette alla scena cercò di salvarlo, ma non riuscì a recuperare che la testa e parte di un arto. Per molto tempo, del dodo non si seppe altro che quanto suggerivano quei resti, una manciata di descrizioni, tre o quattro oli su tela e pochissime ossa. Ne sappiamo di più su certi dinosauri. Una ricostruzione molto più accurata è stata possibile soltanto a partire dal dicembre 2005, dopo il ritrovamento a Mauritius di un grande giacimento di ossa. Dall'epoca della sua estinzione fino alla pubblicazione di Alice nel paese delle meraviglie, nel 1865, il dodo cadde nel dimenticatoio. Charles Dodgson (meglio conosciuto come Lewis Carroll) insegnava matematica a Oxford e doveva averlo visto all'Ashmolean. In Alice nel paese delle meraviglie, il dodo appare nella caucus race, una «corsa» senza un inizio e una fine precisi, in cui tutti vincono un premio. Ciascuno animale corrisponde a uno dei partecipanti alla gita in barca durante la quale Dodgson raccontò la storia per la prima volta, e si dice che il dodo sia ispirato a lui. Le illustrazioni di sir John Tenniel nel libro resero famoso l'uccello, e molto in fretta. Chi infila la testa sotto la sabbia? Sbagliato. Non si è mai visto uno struzzo infilare la testa sotto la sabbia. Soffocherebbe, se lo facesse. Quando sono minacciati da un qualche pericolo, gli struzzi scappano, come qualsiasi animale con un briciolo di sale in zucca. La leggenda è nata forse dal fatto che, a volte, gli struzzi si sdraiano nel loro nido (che è un buco poco profondo nel terreno) e appiattiscono e allungano in fuori il collo per scrutare l'orizzonte e individuare eventuali guai. Se un predatore si avvicina troppo, si alzano e se la danno a gambe. Possono correre fino a 65 chilometri all'ora per 30 minuti. Lo struzzo è il più grande uccello del mondo: un maschio può essere alto fino a 2,70 metri, ma il cervello è grande come una noce, cioè è più piccolo dei bulbi oculari.
Linneo classificò lo struzzo come Struthio camelus o «cammello passero», presumibilmente perché vive nel deserto e ha il collo lungo come quello dei cammelli. In greco, struzzo si diceva ho mégas strôuthos, «il grande passero». Il mito della testa infilata sotto la sabbia venne riportato per la prima volta dallo storico romano Plinio il Vecchio. Nessun cenno da parte sua alla loro capacità di inghiottire strane cose. Per favorire la digestione, gli struzzi non mangiano solo pietre, ma ferro, rame, mattoni e vetro. Una volta, allo Zoo di Londra si è scoperto che uno struzzo aveva mangiato un metro di corda, una bobina di pellicola, una sveglia, una valvola di bicicletta, una matita, un pettine, tre guanti, un fazzoletto, alcuni pezzi di una collana d'oro, un orologio e un bel po' di monete. In Namibia gli struzzi vanno famosi per il loro debole per i diamanti. Li mangiano. Dove dormono i gorilla? In un nido. Questi primati forti e vigorosi si costruiscono un nido nuovo ogni sera (e, a volte, dopo un pranzo pesante), o per terra o sui rami più bassi degli alberi. A parte i cuccioli, a ogni nido corrisponde strettamente un solo gorilla. Non che siano delle opere d'arte: rami intrecciati, con del sofficissimo fogliame a mo' di materasso. Di solito, non ci vogliono più di dieci minuti per farne uno. Le femmine e i piccoli preferiscono dormire sugli alberi, i maschi o i «silverback» dormono per terra. Secondo alcuni resoconti, i gorilla di pianura sono fanatici dell'igiene e della «casa», mentre quelli di montagna imbrattano regolarmente il nido e dormono su un mucchio del loro stesso letame. I gorilla non sanno nuotare. Hanno 48 cromosomi, due in più degli esseri umani. Ogni anno, l'uomo mangia più gorilla sotto forma di bushmeat («carne di foresta», ovvero di animali selvatici) di quanti ve ne siano in tutti gli zoo del mondo. Qual è l'uccello più comune del mondo? Di gran lunga il pollo. Ci sono circa 52 miliardi di polli al mondo: quasi nove a persona. Il 75 per cento di loro sarà mangiato, ma per quasi tremila anni i polli sono stati allevati soprattutto per le uova. In Britannia, fino all'arrivo dei romani a nessuno era mai venuto in mente di mangiarli. Tutti i polli del mondo discendono da una specie di fagiano, il gallo rosso della giungla (Gallus gallus gallus), originario della Thailandia. Il suo parente più stretto, oggi, è il gallo da combattimento. La produzione di massa di polli e uova cominciò più o meno nell'Ottocento, e si iniziò a mangiare pollo come conseguenza della produzione di uova. Solo gli esemplari troppo vecchi per fare uova venivano uccisi e venduti per la carne. Nel 1963, la carne di pollo era
ancora un lusso. Soltanto negli anni Settanta sarebbe diventata quella preferita da tantissime famiglie. Il risultato dell'allevamento selezionato e dei trattamenti ormonali è che ora occorrono meno di quaranta giorni per avere dei polli adulti: due volte più in fretta di quanto non accadrebbe se si permettesse alla natura di seguire il suo corso. Il 98 per cento di tutti i polli allevati in qualsiasi parte del mondo – anche quelli dell'agricoltura biologica – deriva dalle razze create da tre aziende americane. Oltre la metà dei broiler (i polli da carne) mondiali sono Cobb 500, creati negli anni Settanta dalla Cobb Breeding Company. Prima del Cinquecento, nelle Americhe non esistevano polli. Vi vennero introdotti dagli spagnoli. Oltre un terzo di tutti i polli della Gran Bretagna viene prodotto da un'unica azienda scozzese, il Grampian Country Foods Group, che rifornisce le maggiori catene di supermercati ed è un sostenitore fondamentale del partito conservatore. Ogni settimana l'azienda tratta 3,8 milioni di esemplari con le sue otto, grandi integrateci chicken units (unità produttive integrate di pollo), una delle quali si trova in Thailandia. Il motto è «Bontà tradizionale». La maggior parte dei polli da carne venduti sono femmine. I broiler maschi sono galli castrati e si chiamano capponi. Oggigiorno la castrazione si effettua chimicamente, grazie a degli ormoni che portano all'atrofizzazione dei testicoli. Il termine industriale per i piedi dei polli è «zampe». La maggior parte delle «zampe» americane viene esportata in Cina, dove peraltro vivono tre miliardi di polli. I polli danesi fanno gok-gok; i tedeschi gak-gak; i thailandesi gook-gook; gli olandesi tok-tok; gli ugrofinnici kot-kot. La gallina francese e quella italiana, decisamente a un livello superiore, fanno cotcotcodet e coccodè. Una gallina non è che il modo usato da un uovo per fare un altro uovo. SAMUEL BUTLER
Da quale animale prendono il nome le isole Canarie? Dai cani. Sono i canarini a prendere il nome dalle isole (delle quali sono indigeni), non il contrario. Il nome dell'arcipelago deriva da quello latino dell'isola maggiore, che i romani battezzarono «Isola dei cani» (Insula Canaria) per via del gran numero di cani che c'erano, sia allo stato selvatico che addomesticati. Si dice che il vulcano di La Palma, nelle Canarie, potrebbe causare un collasso catastrofico della metà occidentale dell'isola, creando uno tsunami capace di attraversare l'Atlantico e colpire la costa est degli Stati Uniti otto ore dopo, con un'onda alta ancora trenta metri. Nella «lotta canaria» i contendenti si affrontano in un cerchio di sabbia detto tenero; lo
scopo è far toccare al proprio avversario la sabbia con qualunque parte del suo corpo che non siano i piedi. Non è permesso colpirsi. Lo sport è nato tra i guanci, la popolazione preispanica indigena delle isole. Il silbo gomero è un linguaggio fischiato usato nell'isola di La Gomera per comunicare tra i barranchi. Coloro che lo parlano sono detti «silbadores». Sebbene fosse originariamente un linguaggio dei guanci, è stato adattato così che i moderni silbadores, in realtà, fischiano in spagnolo. È una materia obbligatoria per gli studenti di La Gomera. I canarini appartengono alla famiglia dei fringuelli. Per secoli, le norme inglesi per l'estrazione mineraria hanno richiesto l'allevamento di un uccellino per il rilevamento di gas; i canarini furono usati a questo scopo fino al 1986, ma la formulazione non venne eliminata dai regolamenti che nel 1995. L'idea era che i gas tossici come il monossido di carbonio e il metano uccidessero gli uccelli prima di intossicare i minatori. Si prediligevano i canarini perché cantano molto, quindi si nota quando si azzittiscono e cadono. Sono solo i maschi a cantare: sanno anche imitare il telefono e altri elettrodomestici. Titti, nel cartone animato, è un canarino. Originariamente, i canarini erano di un marrone-verdastro mélange, ma quattrocento anni di incroci a opera dell'uomo hanno portato al colore giallo che ci è familiare. Nessuno ha mai generato un canarino rosso, ma una dieta di peperoni appunto rossi li rende arancioni. L'isola dei cani a Londra venne chiamata così per la prima volta in una mappa del 1588: forse perché ospitava i canili reali, anche se potrebbe semplicemente trattarsi di un insulto. È una strana concidenza che proprio lì si trovi il complesso di uffici del Canary Wharf, il «molo delle Canarie». Qual è il cane più piccolo del mondo?
Il cane più piccolo di cui si abbia notizia fu lo Yorkshire Terrier di Arthur Marples, a Blackburn. Era alto 6,5 centimetri al garrese, lungo 9,5 centimetri dalla punta del naso all'attaccatura della coda, pesava 113 grammi e morì nel 1945; Si dice di solito che la più piccola razza canina al mondo sia il chihuahua. Tuttavia, secondo il Guinness dei primati, oggi il record per il più piccolo cane vivente non è necessariamente detenuto da un solo esemplare. Dipende da che cosa si intende per «più piccolo». Il primato attuale è condiviso da un chihuahua (il più corto) e uno Yorkshire (il più basso).
Whitney, lo Yorkshire, vive a Shoeburyness, nell'Essex, ed è alto 7,3 centimetri al garrese. Il chihuahua, Danka Kordak Slovakia, è lungo 18,8 centimetri e vive in Slovacchia. Le razze canine sono più di 400 e fanno tutte parte della stessa specie. Qualunque cane può accoppiarsi e riprodursi con un altro cane. Non esiste animale al mondo con una gamma altrettanto ampia di forme e dimensioni. Nessuno sa perché. La varietà più unica che rara di cani deve molto all'intervento umano, ma il mistero è che tutte le razze canine discendono in origine dai lupi grigi. I dobermann vennero creati a partire dal pincher tedesco, dal rottweiler, dal Manchester terrier e forse dal pointer in soli trentacinque anni, apparentemente sfidando l'evoluzione darwiniana delle specie, un processo che si credeva operasse in migliaia o anche milioni di anni. Per qualche ragione sconosciuta, quando i cani si incrociano il risultato non è una media fra i due tipi: molto spesso, si ottiene qualcosa di totalmente inaspettato. Anche la nuova «razza» mantiene la capacità di riprodursi. Il chihuahua prende il nome dall'omonimo stato messicano, perché si credeva (in base all'arte tolteca e azteca) che la razza ne fosse originaria. Non ci sono però resti archeologici che possano confermare questa credenza; e attualmente si ritiene più probabile che l'animale dipinto sia un roditore. È probabilissimo che siano stati i mercanti spagnoli a importare gli antenati della razza dalla Cina, dove la pratica di rimpicciolire piante e animali ha una lunga storia. Il formaggio di Chihuahua, diffusissimo in Messico, prende il nome dallo stato, e non dal cane. Come si accoppiano i cani? I cani si accoppiano dorso contro dorso, non in stile canino. Quando vedete un cane che fa l'atto di montare e spingere, in realtà sta compiendo un gesto di dominanza. L'eiaculazione è rarissima. Ecco perché il cane del vostro vicino sembra avere una predilezione per le gambe dei bambini, quando vuole darsi da fare. Non è un fatto squisitamente sessuale: il cane stabilisce la propria posizione nel branco e sceglie per primi i più piccoli. In effetti, nell'accoppiamento il maschio penetra da dietro la femmina; poi, però, la scavalca con una zampa in modo da ritrovarsi sedere contro sedere. Fatto ciò, la punta del pene (detta bulbis glandis) si gonfia di sangue e non può più uscire. Questo fenomeno si chiama nodo. Lo scopo è ridurre al minimo la perdita di seme: un classico esempio di «competizione spermatica», o di un modo per escludere il materiale genetico di altri cani. Per un certo lasso di tempo si susseguono delle «spinte», poi arriva l'eiaculazione e il pene finalmente si sgonfia, permettendo ai cani di separarsi. A volte i novellini reagiscono male, quando si trovano «annodati». In questi casi, le spinte e i guaiti che le accompagnano sembrano la conseguenza di una lotta, più che di un idillio.
Mi domando se gli altri cani pensino che i barboncini appartengano a un bizzarro culto religioso. RITA RUDNER
Come morì Caterina di Russia? Caterina la Grande, imperatrice di tutte le Russie, morì di infarto, nel suo letto, nel 1796, all'età di sessantasette anni. È vero che, quando collassò per via dell'infarto, era alla toilette, ma fu poi accudita a letto, dove appunto morì. Non fu presa in pieno da uno stallone ben piantato che veniva sollevato sopra di lei, o per le ferite che si era procurata rompendo il vaso da notte sotto il peso del suo enorme derrière. Non c'è alcuna prova che avesse una propensione particolare per i cavalli quando era giovane, se non come animali da equitazione. L'origine di queste storie non è chiara. Forse si deve allo straordinario successo della propaganda negativa messa in atto dal figlio Paolo I, un uomo rancoroso e circondato da una corte notoriamente pettegola. O forse è colpa dei francesi, quei vigliacchi, i quali, negli anni successivi alla Rivoluzione, erano in guerra contro una coalizione di cui faceva parte anche la Russia (le storie su Maria Antonietta erano ancora peggio). Qualunque ne sia la fonte, è però verissimo che i comportamenti di Caterina davano un frisson erotico. Ebbe sul serio molti amanti, e sembra che alcuni di essi venissero «provati su strada» dalle sue dame di compagnia. Se superavano il test, veniva offerta loro una posizione onorifica e si installavano a corte. Anche uno dei lenoni di Caterina era un suo ex amante: Potëmkin, famoso per la Corazzata, il quale morì a cinquantadue anni «poiché aveva mangiato un'oca intera mentre aveva la febbre alta». Mentre le sue relazioni extraconiugali ammontano solo a undici (confermate dalla sua corrispondenza) o alle 289 citate dalle malelingue, il lascito più importante di Caterina consiste nei suoi risultati politici e culturali. Fu più lei a costruire San Pietroburgo che Pietro il Grande; riordinò la complessa giurisprudenza russa; commissionò superbi giardini; riempì le gallerie russe della grande arte europea; introdusse il vaccino contro il vaiolo e divenne la mecenate di scrittori e filosofi in tutta Europa, inclusi Diderot e Voltaire, che la chiamava «la stella del nord». La sua eredità genetica fu meno incisiva. Suo figlio, lo zar Paolo I (1796-1801), una volta portò davanti alla corte marziale e fece giustiziare un topo colpevole di aver rovesciato i soldatini con cui stava giocando. Un'altra volta citò in giudizio il proprio cavallo, cui furono comminate cinquanta frustate. A tempo debito, i suoi nobili lo assassinarono (senza processo) e Paolo fu rimpiazzato dal figlio.
Per quanto tempo, dopo la morte, crescono unghie e capelli? «Per tre giorni ancora dopo la morte capelli ed unghie continuano a crescere, mentre le telefonate si assottigliano» è stata una delle ultime e migliori battute di Johnny Carson. Unghie e capelli, però, non crescono affatto dopo la morte. È un'invenzione bella e buona. Quando moriamo, i nostri corpi si disidratano e la nostra pelle si ritira, creando l'illusione che unghie e capelli siano cresciuti ancora. L'idea deriva in gran parte dal classico di Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, e dal brano in cui il narratore Paul Bäumer riflette sulla morte dell'amico Kemmerich: Mi viene in mente che queste unghie continueranno a crescere come spettrali fungosità sotterranee, un pezzo ancora dopo che Kemmerich avrà cessato di respirare. Vedo la cosa come se l'avessi davanti agli occhi: le unghie si torcono a guisa di cavaturaccioli, e crescono e crescono, e con esse i capelli del cranio putrefatto, come l'erba su buona terra: chissà come…
Ciò nonostante, dopo la morte ne succedono di tutti i colori: il vostro corpo è pieno di vita. Batteri, scarafaggi, acari e vermi non stanno più in sé dalla gioia di un simile banchetto, e contribuiscono enormemente al processo di decomposizione. Uno dei clienti più entusiasti del vostro corpo è il «gobbo» della famiglia delle phoridae o «mosca delle bare». Questa mosca, nota anche come «mosca in fuga» per il suo volo goffo, è capace di passare tutta la vita sotto terra, in un cadavere. Le mosche delle bare sono golosissime di carne umana, e non è insolito che scavino fino a un metro nel terreno per raggiungere un feretro sepolto. Di recente, si è scelto un tipo di phoridae, genere Apocephalus, per cercare di controllare le popolazioni di formica del fuoco che imperversano nel Sud America orientale, dove arrivarono con una nave cargo brasiliana negli anni Trenta. Le mosche depositano le uova nella testa delle formiche, di cui le larve si nutrono finché non ne emergono diversi giorni dopo. Che cosa reggeva Atlante sulle spalle? Non il mondo ma la volta celeste. Atlante fu condannato a reggere il cielo da Zeus dopo la rivolta dei Titani contro l'Olimpo. Tuttavia, spesso lo si vede reggere qualcosa che sembra il globo terrestre; l'immagine più famosa è quella apparsa sulla raccolta di mappe del geografo fiammingo Mercatore. Un esame più attento rivela che quel globo rappresenta in realtà la volta celeste, non la terra. Inoltre, Mercatore in effetti aveva battezzato il suo volume con il nome non del titano, ma del mitico re filosofo Atlante di Mauritania (da cui il nome della catena montuosa), che si pensa abbia creato il primo globo «celeste» (in opposizione a quello «terrestre»). Il volume divenne noto come l'Atlante di Mercatore e, da quel momento, si usò quel nome
per qualunque raccolta di mappe. Gerardo Mercatore, figlio di un ciabattino, nacque come Gerhard Kremer nel 1512. Il suo cognome significava «mercato» in fiammingo, quindi lo latinizzò in Mercatore, ovvero «commerciante». Mercatore è stato il padre della cartografia moderna e, per opinabile che sia, il belga più importante di tutti i tempi. La sua famosa proiezione del 1569 – il primo tentativo di fornire una rappresentazione accurata del mondo, con le linee rette di latitudine e longitudine – rimane ancora oggi, per la maggior parte della gente, l'immagine più persuasiva del «mondo». Quel che è importante, è che grazie a essa si poté per la prima volta navigare secondo coordinate precise, e questo diede all'età delle scoperte le sue basi scientifiche. Oggi mappe e atlanti ricorrono di rado alla proiezione di Mercatore a causa delle sue distorsioni: nel 1989 le principali associazioni cartografiche statunitensi chiesero che fosse del tutto eliminata. Stranamente, questo non ha impedito alla Nasa di usarla per mappare Marte. Perché lo champagne ha le bollicine? Grazie non all'anidride carbonica, ma allo sporco. In un bicchiere perfettamente liscio e pulito, le molecole di anidride carbonica evaporerebbero invisibilmente, quindi si è creduto a lungo che fossero le lievi imperfezioni del bicchiere a rendere possibile la formazione delle bollicine. Tuttavia, le nuove tecniche fotografiche hanno dimostrato che tacche e solchi sono davvero troppo piccoli perché vi si attacchino le bollicine: a renderne possibile la formazione, sono le microscopiche particelle di polvere e i pezzetti di lanugine presenti nel bicchiere. Tecnicamente parlando, lo sporco/la polvere/la lanugine nel bicchiere si comportano come nuclei di condensazione per l'anidride carbonica che vi è disciolta. Secondo Moët et Chandon, in una bottiglia di champagne di medie dimensioni ci sono 250 milioni di bollicine. Le ultime parole di Čechov furono: «Da tempo non bevevo champagne». La deontologia medica tedesca dell'epoca richiedeva che, quando non c'era più speranza, il dottore offrisse al paziente un bicchiere di champagne. Il mio unico rimpianto nella vita è di non aver bevuto più champagne. JOHN MAYNARD KEYNES
Di che forma è una goccia di pioggia? Le gocce di pioggia sono sferiche, non a forma di lacrima. Nei loro processi industriali i produttori di cuscinetti a sfera e pallini di piombo sfruttano questa proprietà dei liquidi che cadono: attraverso un setaccio, il piombo fuso
viene fatto colare da una grande altezza in un liquido raffreddante, e viene fuori sferico. Le torri per la fabbricazione di pallini da caccia si costruivano all'uopo: fino al Festival di Gran Bretagna del 1951 ce n'era una vicino al ponte di Waterloo a Londra. Alta oltre 71 metri, la Phoenix Shot Tower di Baltimora (ancora in piedi) fu l'edificio più alto d'America finché, dopo la Guerra di secessione, non venne superata dal Washington Monument. Da che cosa è prodotta la gran parte dell'ossigeno presente sulla terra? Dalle alghe. L'ossigeno che rilasciano è uno scarto della fotosintesi, e la sua quantità netta è superiore a quella prodotta dagli alberi e le altre piante terrestri tutti insieme. Le alghe antiche sono anche i principali costituenti di petrolio e gas. Le alghe azzurre o cianobatteri (dal greco kyanos, «azzurro verdastro scuro») sono la prima forma di vita conosciuta sulla terra, con fossili che risalgono a 3,6 miliardi di anni fa. La classificazione delle alghe è stata a lungo incerta fra piante e batteri. Adesso sono saldamente entrate a fare parte del campo batteriologico, o meglio del regno delle monere (dal greco moneres, «singolo», in riferimento alla loro struttura unicellulare). Un'alga, la spirulina, produce 20 volte più proteine per acro della soia. Consiste per il 70 per cento di proteine (in confronto al 22 per cento del vitello), per il 5 per cento di grassi, non ha colesterolo e possiede una sfilza impressionante di vitamine e minerali. Di qui la crescente popolarità degli smoothies, specie di puré di frutta o verdura, alla spirulina. Quest'alga aiuta anche il sistema immunitario, in particolare la produzione di interferoni, che costituiscono la prima linea di difesa del corpo contro virus e cellule tumorali. I primi a riconoscere i benefici nutrizionali e salutari della spirulina furono gli aztechi, gli africani subsahariani e i fenicotteri. Le alghe potranno rivelarsi molto importanti per il futuro: possono crescere nei terreni non fertili riciclando acqua salmastra. È una coltura che non causa erosione del suolo, non richiede fertilizzanti o pesticidi e rinnova l'atmosfera più di qualsiasi altro prodotto della terra. Di che cosa erano fatte le uniformi tedesche nella Prima guerra mondiale? Di ortica. Durante la Grande Guerra, Austria e Germania si ritrovarono a corto di cotone. In cerca di un surrogato decente, gli scienziati saltarono fuori con una soluzione ingegnosa: mescolare piccolissimi quantitativi di cotone alle ortiche; nello specifico, le rigide fibre dell'ortica Urtica dioica. Senza arrivare a produrlo sistematicamente, nel 1915 i tedeschi realizzarono 1,3 milioni di chili di questo tessuto, e altri 2,7 milioni di chili l'anno successivo.
Nel 1917, dopo un breve combattimento, gli inglesi si appropriarono di due tute tedesche e ne analizzarono la composizione; con una certa sorpresa, tra l'altro. L'ortica ha in agricoltura molti vantaggi rispetto al cotone: il cotone ha bisogno di molta acqua, cresce soltanto nei climi caldi e necessita di pesanti trattamenti pesticidi se lo si deve far crescere a basso costo. Non c'è neppure alcun pericolo di essere colpiti da un proiettile rivestito d'ortica, poiché i peli urticanti – delle siringhine ipodermiche fatte di silice e piene di veleno – non vengono usate nella produzione. Non serve altro che le lunghe fibre degli steli. I tedeschi non furono certo i primi a scoprire i tanti impieghi della pianta. In tutta Europa, diversi resti archeologici rivelano come sia stata usata per decine di migliaia di anni per le reti da pesca, il cordame e le fibre tessili. Al Bottle Inn, un pub di Marshwood, Dorset, Inghilterra, si disputa annualmente un Campionato mondiale di scorpacciata di ortiche. Le regole sono rigide: niente guanti, niente anestetici per la bocca (birra a parte) e niente vomito. Sembra che il trucco stia nel ripiegare la punta della foglia verso di voi, infilarvela tra le labbra e buttarla giù con un bel sorsone di birra. Una bocca asciutta, si dice, è una bocca dolorante. Vince chi, in capo a un'ora, ha la serie più lunga di steli nudi. Il record attuale è 14,6 metri per gli uomini e circa 8 metri per le donne. Chi ha scoperto la penicillina? Sir Alexander Fleming occupa un posto bassissimo nella lista. Sono più di mille anni che i beduini in Nord Africa fanno un unguento curativo con la muffa dei bardamenti degli asini. Nel 1897, un giovane dottore dell'esercito francese, Ernest Duchesne, lo riscoprì notando che gli stallieri arabi usavano la muffa presa dalle selle bagnate per curare le piaghe da sella. Dopo accurate ricerche, egli identificò la muffa come Penicillium glaucum, la usò sulle cavie per curare il tifo e notò che distruggeva i batteri E. coli. Fu il primo impiego clinicamente testato di quella che cominciò a essere chiamata penicillina. Duchesne presentò la ricerca come tesi di dottorato, sollecitando ulteriori studi, ma l'istituto Pasteur non gli fece nemmeno sapere di aver ricevuto il lavoro: forse perché aveva solo ventitre anni ed era uno studente del tutto sconosciuto. Intervennero poi i suoi doveri militari, e nel 1912 il medico morì, ancora e sempre sconosciuto, di tubercolosi: una malattia che la sua stessa scoperta avrebbe aiutato a curare. A Duchesne fu reso omaggio postumo nel 1949, cinque anni dopo che sir Alexander Fleming aveva ricevuto il premio Nobel per la sua ri-riscoperta delle proprietà antibiotiche della penicillina. Fleming coniò il termine «penicillina» nel 1929. Per caso, si accorse delle proprietà
antibiotiche di una muffa che identificò come Penicillium rubrum. In realtà, aveva sbagliato specie. Si trattava del Penicillium notatum, come lo avrebbe correttamente identificato molti anni dopo Charles Thom. In origine la muffa venne battezzata Penicillium perché, al microscopio, i suoi rami carichi di spore sembravano dei minuscoli pennelli. In latino, pennello si dice penicillum, la stessa parola da cui deriva pencil, «matita» in inglese. In realtà, le cellule di Penicillium notatum assomigliano molto di più, e in modo molto più spettrale, alle ossa di una mano umana. Ne trovate una immagine su questo sito: http://botit.botany.wisc.edu/Toms_fungi/nov2oo3.html. Stilton, Roquefort, Danish Blue, Gorgonzola, Camambert, Limburger e Brie sono tutti formaggi che contengono penicillina. A volte si trova quello che non si cerca. ALEXANDER FLEMING
Da cosa è provocata un'ulcera gastrica? Non dallo stress e neppure dal cibo speziato. Contrariamente a decenni di consigli medici opposti, risulta che le ulcere gastriche e intestinali non siano causate dallo stress o dallo stile di vita ma dai batteri. L'ulcera è ancora relativamente comune, visto che affligge una persona su dieci. È dolorosa e potenzialmente mortale. Sia Napoleone che James Joyce morirono per le complicazioni connesse a un'ulcera gastrica. Nei primi anni Ottanta due patologi australiani, Barry Marshall e Robin Warren, notarono che un batterio fino ad allora non identificato colonizzava la parte inferiore degli stomaci di persone che soffrivano di gastrite o ulcera. Lo coltivarono, gli diedero un nome (Helicobacter pylori) e cominciarono a fare degli esperimenti. Scoprirono che, quando si eliminavano i batteri, le ulcere guarivano. Anche oggi, spesso si crede ancora che a causare l'ulcera sia lo stress. La spiegazione medica sarebbe che lo stress devia il sangue dallo stomaco, con una conseguente riduzione del suo rivestimento di mucosa protettiva, il che a poco a poco lascerebbe il tessuto sottostante vulnerabile all'acido gastrico. Risultato: l'ulcera. L'ipotesi di Marshall e Warren – ovvero che una comune condizione fisiologica, come una pustola o una contusione, potesse essere in realtà una malattia infettiva – non aveva precedenti nella medicina moderna. Marshall decise di sottoporsi in prima persona a un esperimento. Bevve una capsula Petri piena di batteri, e presto gli venne una bruttissima gastrite. Si fece il test per rilevare i batteri – il suo stomaco ne brulicava – e poi si curò con gli antibiotici. Aveva dimostrato che l'establishment medico si sbagliava. Nel 2005, la tenacia e l'intuito di Marshall e Warren sono stati ricompensati dal premio Nobel per la medicina.
L'Helicobacter pylori è presente in metà della popolazione umana, e praticamente in chiunque nei paesi in via di sviluppo. Di solito si contrae nella prima infanzia e può rimanere nello stomaco tutta la vita. Porta all'ulcera soltanto in 10, 15 infetti su 100. Ancora non ne sappiamo la causa, ma sappiamo bene qual è la cura. A che cosa servono le cavie? A pranzare. Al giorno d'oggi, non si usano quasi mai cavie per la vivisezione; si calcola però che i peruviani ne consumino 65 milioni all'anno. Si mangiano anche in Colombia, Bolivia ed Ecuador. Le parti migliori sono le guance, a quanto pare. Il 99 per cento degli animali da laboratorio è costituito da topi e ratti e come «cavie» si usano più conigli e polli che cavie vere e proprie. Ratti e topi sono più facili da manipolare geneticamente e sono un modello in grado di offrire uno spettro più ampio di condizioni umane rispetto alle cavie, che sono state vittime della ricerca soprattutto nell'Ottocento. Nel 1890, l'antitossina difterica fu scoperta grazie alle cavie, e si salvò la vita a milioni di bambini. Un'area in cui vengono usate ancora oggi è nello studio dello shock anafilattico. Sono utili anche nella ricerca nutrizionale, in quanto si tratta degli unici mammiferi (esclusi i primati) che non possono sintetizzare da soli la vitamina C e devono assorbirla dal cibo. Le cavie normali pesano mediamente tra i 250 e i 700 grammi, ma alcuni ricercatori dell'Università nazionale agraria di La Molina in Perù hanno allevato delle cavie che pesano un chilo, nella speranza che abbiano successo nel mercato d'esportazione. La carne ha pochi grassi, poco colesterolo e sapore di coniglio. In Perù, gli animali vengono tenuti in cucina per via di un'antica credenza andina secondo cui hanno bisogno di fumo, e chi pratica la medicina popolare nelle Ande usa le cavie per capire che malattie hanno le persone: si pensa che un roditore, se tenuto addosso a un malato, squittirà nel momento in cui si troverà vicino alla fonte della malattia. Nella cattedrale di Cuzco, in Perù, c'è una raffigurazione dell'ultima cena in cui Gesù e gli apostoli stanno per mangiare una cavia arrosto. Nel 2003, alcuni archeologi in Venezuela hanno scoperto i resti fossili di una creatura enorme, simile a una cavia, che visse otto milioni di anni fa. Il Phoberomys pattersoni era grande come una mucca e pesava 1400 volte più di una cavia media. Nessuno sa per certo l'origine dell'espressione guinea pig, «cavia» in inglese; l'ipotesi più probabile è che la bestiola abbia raggiunto l'Europa dal Sud America facendo scalo in Guinea, nell'Africa occidentale.
Qual è stato il primo animale mandato nello spazio?
La drosofila. Questi minuscoli astronauti furono caricati su un razzo V2 americano insieme a dei semi di mais, e sparati nello spazio nel luglio del 1946. Furono usati per testare gli effetti dell'esposizione alle radiazioni alle grandi altitudini. A quelli che lavorano in laboratorio, le drosofile piacciono moltissimo. I 3/4 dei geni conosciuti delle malattie umane hanno un corrispettivo nel codice genetico delle drosofile. Inoltre vanno a dormire ogni notte, reagiscono in modo simile all'anestesia totale e, meglio ancora, si riproducono molto più in fretta. Bastano due settimane per avere una nuova generazione intera. Per definizione, lo spazio inizia a un'altitudine di 100 chilometri. Dopo le drosofile, ci abbiamo mandato prima il muschio, poi le scimmie. La prima scimmia ad andare nello spazio fu Albert II nel 1949, che arrivò a 134 chilometri. Il suo predecessore, Albert I, era morto d'asfissia un anno prima, sotto la barriera dei 100 chilometri. Sfortunatamente, morì anche Albert II: durante l'atterraggio, non gli si aprì il paracadute. Si dovette aspettare il 1951 perché una scimmia tornasse sana e salva dallo spazio, quando Albert IV e i suoi compagni di viaggio, undici topi, riuscirono nell'impresa (anche se Albert morì due ore dopo). Di solito, le scimmie pioniere dello spazio non si distinsero per longevità, con l'onorevole eccezione di Baker, l'uistitì, che sopravvisse per venticinque anni alla missione compiuta nel 1959. I russi preferirono i cani. Il primo animale mandato in orbita fu Laika sullo Sputnik 2 (1957), che morì di stress da calore durante il volo. Vennero lanciati nello spazio almeno altri dieci cani prima che ci arrivasse un uomo, Yuri Gagarin, nel 1961. Di cani ne sopravvissero sei. Furono sempre i russi a mandare il primo animale nello spazio profondo, nel 1968. Si trattava di una testuggine di Horsfield e diventò il primo essere vivente a orbitare intorno alla luna (nonché la testuggine più veloce del mondo). Tra gli altri animali mandati nello spazio ci sono stati scimpanzé (che sopravvissero tutti), cavie, rane, gatti, vespe, scarafaggi e un pesce robustissimo, il mummichog. I primi animali giapponesi ad andare nello spazio furono dieci tritoni nel 1985. Gli unici sopravvissuti al disastro dello shuttle Columbia nel 2003 furono alcuni vermi nematodi del laboratorio interno alla navetta; vennero ritrovati fra i rottami.
Lo spazio non è affatto lontano. È a una sola ora di macchina, se avete un'automobile in grado di andare dritta all'insù. FRED HOYLE
Chi ha più vertebre cervicali, un topo o una giraffa? Ne hanno entrambi sette, come tutti i mammiferi eccetto i lamantini e i bradipi. Siccome hanno solo sei vertebre cervicali, i bradipi didattili fanno fatica a girare la testa. Gli uccelli, che di girare la testa hanno bisogno eccome per lisciarsi le penne col becco, hanno molte più vertebre cervicali dei mammiferi. I gufi ne hanno 14; le anatre 16; ma il primatista è il muto cigno, con 25. I gufi non possono girare la testa a 360 gradi, come a volte si sente dire: arrivano a 270. Ci riescono grazie alle vertebre extra, che si muovono indipendentemente l'una dall'altra grazie a dei muscoli specializzati. È una compensazione dell'impossibilità, per i gufi, di muovere gli occhi. Se vogliono cambiare visuale, devono ruotare tutta la testa. Gli occhi del gufo sono fissi in avanti perché così migliora la visione binoculare, ovvero la capacità di vedere le cose in tre dimensioni. Questo è essenziale per cacciare di notte. Gli occhi del gufo sono poi molto grandi per catturare più luce possibile. Se i nostri occhi seguissero la stessa scala, sarebbero grossi come pompelmi. Gli occhi del gufo sono più tubiformi che sferici, così la retina è ancora più grande. Gli occhi di un allocco sono 100 volte più sensibili alla luce dei nostri. Possono continuare a vedere un topo per terra anche se c'è una luce pari a quella prodotta da una candela a 500 metri di distanza. Chi è stato il primo uomo a circumnavigare il globo? Enrique il Moro. Un nome che quasi nessuno conosce: Enrique de Molucca era lo schiavo e l'interprete di Magellano. Ferdinando Magellano non completò mai il suo periplo intorno al mondo. Venne ucciso nelle Filippine nel 1521, quando non era che a metà strada. Prima Magellano visitò l'Estremo Oriente, nel 1511, arrivando dal Portogallo attraverso l'Oceano indiano. Nello stesso anno, in un mercato degli schiavi in Malesia, trovò Enrique il Moro e lo portò con sé a Lisbona rifacendo il percorso dell'andata. Enrique accompagno Magellano in tutti i suoi viaggi successivi, incluso il tentativo di giro del mondo che prese il via nel 1519. Il periplo iniziò in direzione opposta, attraverso gli oceani Atlantico e Pacifico; in questo modo, quando arrivò in Estremo Oriente nel 1521, Enrique divenne il primo uomo ad aver compiuto il giro del mondo. Nessuno sa dove fosse nato Enrique il Moro – probabilmente, da bambino fu catturato e
rivenduto come schiavo dai pirati di Sumatra – ma, quando arrivò nelle Filippine, si rese conto che gli indigeni parlavano la sua lingua natia. Dopo la morte di Magellano, la spedizione riprese la sua via e riuscì a completare la circumnavigazione sotto Juan Sebastián Elcano, il vicecomandante basco. Enrique il Moro non era con loro. Elcano si era rifiutato di onorare la promessa di Magellano di liberare Enrique dalla schiavitù, e così l'interprete fuggì e fece perdere le sue tracce. Juan Sebastián Elcano ha il merito di essere stato il primo uomo a viaggiare intorno al mondo in una volta sola. Rientrò a Siviglia nel 1522. Quattro anni prima erano salpate cinque navi, ma solo la Victoria fece ritorno. Era carica di spezie, però erano sopravvissuti solamente 18 degli originari 264 membri dell'equipaggio, decimati dallo scorbuto, dalla malnutrizione e dagli scontri con le popolazioni indigene. Il re di Spagna premiò Elcano con uno stemma che rappresentava il globo e recava il motto «Tu per primo mi circumnavigasti». Enrique il Moro è l'eroe nazionale di molti paesi del Sudest asiatico. Chi fu il primo ad affermare che la terra gira intorno al sole? Aristarco da Samo, nato nel 310 a.C., ben 1800 anni prima di Copernico. Aristarco non solo ipotizzò che la terra e i pianeti girassero intorno al sole, ma calcolò anche dimensioni e distanze relative di terra, luna e sole e comprese che il cielo non è una sfera celeste, ma un universo di dimensioni praticamente infinite. Nessuno, tuttavia, fece molto caso a lui. In vita, Aristarco andò famoso più che altro come matematico, non come astronomo. Non sappiamo molto di lui, se non che studiò al Liceo di Alessandria e che fu poi nominato dall'architetto romano Vitruvio come un uomo dalla «conoscenza approfondita della geometria, dell'astronomia, della musica e delle altre discipline». Inventò anche una meridiana emisferica. È sopravvissuta soltanto una delle sue opere, Sulle dimensioni e distanze del sole e della luna, in cui purtroppo non fa cenno alla teoria eliocentrica. La ragione per cui siamo a conoscenza della teoria è un unico accenno all'interno di uno dei testi di Archimede, che menziona le teorie di Aristarco solo per dichiararsi in disaccordo con esse. Copernico conosceva senz'altro Aristarco, perché lo accredita nel manoscritto del suo epocale De revolutionibus orbium coelestium. Tuttavia, quando il libro fu stampato nel 1514, qualunque riferimento a quel Greco visionario era sparito: a toglierlo era stato presumibilmente l'editore, preoccupato che potesse minare le pretese di originalità del libro. Di che forma era la terra secondo Colombo? a)Piatta b)Rotonda
c)A pera d)Uno sferoide schiacciato ai poli La viva voce di Colombo non disse mai che la terra era rotonda: lui pensava fosse a forma di pera e circa un quarto della sua effettiva grandezza. A dispetto della sua fama successiva, il viaggio del 1492 nasceva dall'intenzione non di scoprire un nuovo continente, ma di provare che l'Asia era più vicina di quanto si immaginasse. Colombo si sbagliava. In effetti, lui non mise mai piede sul continente americano – il posto più vicino ad esso dove sbarcò furono le Bahamas (probabilmente l'isola di Plana Cays) – ma fece giurare all'equipaggio che, se gliel'avessero chiesto, avrebbero detto di essere arrivati in India. Morì a Valladolid nel 1506 e, fino alla fine dei suoi giorni, restò convinto di aver raggiunto le coste asiatiche. C'è molta incertezza riguardo a Colombo. Per lo più, le prove indicano che era figlio di un tessitore genovese, Domenico Colombo, ma non hanno alcuna consistenza le affermazioni secondo cui sarebbe stato ebreo sefardita, spagnolo, corso, portoghese, catalano o perfino greco. La sua prima lingua era il dialetto genovese (non l'italiano) e imparò a leggere e scrivere in spagnolo (con un marcato accento portoghese) e in latino. Scrisse addirittura un diario segreto in greco. Non sappiamo che aspetto avesse, visto che non è sopravvissuto nessun ritratto autentico, ma suo figlio affermava che fosse rimasto biondo fino ai trent'anni, quando i capelli gli diventarono completamente bianchi. Non sappiamo neanche dove sia sepolto. Sappiamo però che al suo cadavere fu tolta la carne, secondo lo stile cinquecentesco per i maggiorenti, e che le sue ossa furono inumate prima a Valladolid, poi nel monastero certosino di Siviglia, poi a Santo Domingo, a Cuba, all'Avana e infine, a quanto pare, nella cattedrale di Siviglia nel 1898. Tuttavia, a Santo Domingo è rimasto un cofanetto con sopra il suo nome; ultimamente, anche Genova e Pavia hanno rivendicato di avere alcune parti di Colombo. Sono in corso i test del Dna, ma pare probabile che il luogo definitivo dove riposerà Colombo – o Columbo, o Colón (come preferiva lui) – resterà controverso come il resto della sua vita e delle sue conquiste. Il fatto che si sia riso di alcuni geni non implica che tutti quelli di cui si ride siano dei geni. Si è riso di Colombo, si è riso di Fulton, si è riso dei fratelli Wright. Ma si è riso anche del clown Bozo. CARL SAGAN
Nel Medioevo, secondo la gente che forma aveva la terra?
Non quella che pensate. Più o meno già dal IV secolo a.C., quasi nessuno in nessun luogo credeva che la terra fosse piatta. Comunque, se proprio voleste una terra piatta come un disco, vi ritrovereste con qualcosa di molto simile alla bandiera delle Nazioni Unite. La convinzione che la terra fosse piatta potrebbe perfino non essere nata prima dell'Ottocento. Galeotto fu il semiromanzesco La vita e i viaggi di Cristoforo Colombo (1828) di Washington Irving, in cui si suggerisce scorrettamente che lo scopo del viaggio di Colombo fosse provare che la terra era rotonda. L'idea di una terra piatta fu avanzata seriamente per la prima volta nel 1838 da Samuel Birley Rowbotham, un eccentrico inglese che pubblicò un volumetto di sedici pagine intitolato Astronomia zetetica: una descrizione di vari esperimenti a prova del fatto che la superficie del mare è un piano perfetto e che la terra non è un globo («zetetica» deriva dal greco zêtêin, che significa «cercare, indagare»). Oltre un secolo dopo, un membro della Royal Astronomic Society e devoto cristiano di nome Samuel Shenton ribattezzò la Universal Zetetic Society come International Flat Earth Society. Il programma spaziale della Nasa negli anni Sessanta, che culminò nell'impresa lunare, avrebbe dovuto chiudere la questione. Shenton invece non si scoraggiò. Dopo aver guardato le fotografie di una terra sferica scattate dallo spazio, commentò: «È chiaro che una foto simile possa ingannare un occhio inesperto». A quanto pareva, le missioni Apollo erano una beffa hollywoodiana sceneggiata da Arthur C. Clarke. Il numero di iscritti salì alle stelle. Shenton morì nel 1971, non prima di aver scelto il proprio successore alla presidenza della società. A prenderne le redini fu il bizzarro ma carismatico Charles K. Johnson, che trasformò l'associazione nel punto di raccolta di un eroico movimento casalingo «contro la Grande Scienza». All'inizio degli anni Novanta, il numero di iscritti era salito a più di 3500. Johnson, che viveva e lavorava nella vasta piattezza del deserto del Mojave, propose un mondo nel quale viviamo su un disco, con il Polo Nord al centro, circondato da un muro di ghiaccio alto 45 metri. Il sole e la luna hanno entrambi un diametro di oltre 50 chilometri, e le stelle sono «distanti circa quanto San Francisco da Boston». Nel 1995, il rifugio nel deserto di Johnson subì un incendio, e tutti gli archivi e le liste dei membri della società andarono distrutti. Johnson morì nel 2001, e a quell'epoca l'associazione era calata a poche centinaia di iscritti. Oggi esiste esclusivamente come forum sul web, con circa 800 utenti registrati: www.theflatearthsociety.org.
Chi ha scoperto per primo che la terra è rotonda? Le prime ad arrivarci sono state le api. Le api domestiche hanno sviluppato un linguaggio complesso per dirsi dove si trova il nettare migliore, usando il sole come punto di riferimento. Sorprendentemente, riescono a «parlarsi» anche nei giorni coperti o di notte, perché sono in grado di calcolare la posizione del sole dall'altra parte del mondo. Questo significa che possono effettivamente apprendere e immagazzinare informazioni, nonostante il loro cervello sia 1,5 milioni di volte più piccolo del nostro. Il cervello di un'ape ha circa 950000 neuroni. Un cervello umano ne ha tra i 100 e i 200 miliardi. Le api domestiche hanno una «mappa» incorporata dei movimenti del sole attraverso il cielo nel corso delle ventiquattr'ore e possono modificarla per adeguarsi molto in fretta alle condizioni locali: ogni decisione su dove volare viene presa nel giro di cinque secondi. L'ape domestica è anche più sensibile al campo magnetico terrestre di ogni altro animale. Lo usano per orientarsi e per fare i pannelli di cera dell'alveare. Se si mette vicino a un alveare una calamita potente, ne risulta uno strano favo cilindrico, diverso da qualsiasi cosa si trovi in natura. La temperatura di un alveare è la stessa di un corpo umano. Le api si sono sviluppate circa 150 milioni di anni fa, nel cretaceo, più o meno alla stessa epoca delle piante con fiori. La famiglia delle api domestiche, Apis, non apparve che 25 milioni di anni fa. Si tratta sul serio di una classe di vespa vegetariana. Le api annusano con le antenne. La regina rilascia una sostanza chimica detta «sostanza della regina» che impedisce alle api operaie di sviluppare le ovaie. Occorre la vita intera di dodici api per produrre abbastanza miele da riempire un cucchiaino da tè. Le api volano anche per 12 chilometri a viaggio, più volte al giorno. Una singola ape dovrebbe percorrere circa 75000 chilometri per produrre meno di mezzo chilo di miele, il che significa quasi due giri del mondo. Perché le api ronzano? Per comunicare. Le api usano il ronzio allo stesso modo in cui usano i movimenti o «danze»: per trasmettere informazioni. Sono stati identificati dieci suoni distinti, e alcuni sono stati collegati ad attività specifiche. Il più ovvio di questi impieghi è «fare vento» per raffreddare l'alveare. È un ronzio forte e regolare che implica 250 battiti al secondo, e viene amplificato dall'alveare stesso. Inoltre, le api emettono un ronzio più forte quando vogliono segnalare un pericolo (chiunque abbia mai avvicinato un alveare avrà notato il cambiamento di tono), seguito da una sequenza di pulsazioni a 500 battiti al secondo per annunciare il «cessato pericolo» e riportare l'alveare alla calma. L'ape regina ha una gamma di suoni particolarmente ricca. Quando nasce una nuova
regina, essa emette una specie di cinguettio più alto, detto piping o tooting. Le sue sorelle (ancora rannicchiate nelle loro celle) rispondono con un richiamo simile a un gracidio detto quarking. Errore madornale: può esserci una regina sola. Usando i «quark» come guida, per tutta risposta la regina neonata uccide le sorelle, distruggendone le celle e pungendole a morte o mozzando loro la testa. Le api usano le zampe per udire: i «messaggi» sonori nell'alveare sono comunicati dall'intensità delle vibrazioni. Tuttavia, le ultime ricerche sulle loro antenne suggeriscono che, come i recettori chimici usati per «annusare», le antenne siano coperte di dischi simili a timpani, che potrebbero essere delle «orecchie». Questo spiegherebbe perché le altre operaie tocchino con le antenne il torace dell'ape impegnata nella danza, e non l'addome che si «dimena» nella «waggle dance»: stanno ascoltando, più che vedendo, in che direzione si trova il nettare. Dopotutto, è buio in un alveare. Più controversa la questione del modo in cui ronzano le api. Fino a poco tempo fa, la teoria più accreditata era che usassero le 14 aperture per respirare che hanno lungo i fianchi (dette «stigmi») proprio come un trombettista controlla il suono del suo strumento con le labbra. Gli entomologi della University of California hanno scartato questa teoria chiudendo con cura gli stigmi. Le api continuano a ronzare. L'ipotesi più recente è che il ronzio sia in parte causato dalle vibrazioni delle ali, leggermente amplificate dal torace. Se si bloccano le ali di un'ape non si interrompe il ronzio, anche se esso cambia di timbro e intensità. Chi ha il cervello più grande in rapporto alle sue dimensioni?
a)Gli elefanti b)I delfini c)Le formiche d)L'uomo Le formiche. Il cervello di una formica costituisce circa il 6 per cento del suo peso corporeo totale: se applicassimo la medesima percentuale agli esseri umani, le nostre teste dovrebbero essere tre volte più grandi, e ci farebbero assomigliare a un fungo. Un cervello umano medio pesa 1,6 chili, cioè poco più del 2 per cento del peso corporeo. Il cervello di una formica pesa circa 0,3 milligrammi. Anche se il cervello di una formica ha solo una minima parte dei neuroni di un cervello
umano, una colonia di formiche è un superorganismo. Un formicaio di medie dimensioni con 40000 abitanti ha più o meno lo stesso numero di cellule cerebrali di una persona. Le formiche esistono da 130 milioni di anni e in giro, proprio mentre noi parliamo, ce ne sono circa 10000 trilioni. La massa totale di formiche sul pianeta è leggermente più pesante della massa totale di esseri umani. Ci sono approssimativamente 8000 specie conosciute di formiche. Esse costituiscono circa l'1 per cento di tutti gli insetti sulla terra. Si è calcolato che il numero totale di insetti nel mondo sia un quintilione (o 1000000000000000000). Le formiche dormono solo per pochi minuti al giorno e possono sopravvivere per 19 giorni sott'acqua. Una formica del legno può cavarsela per 24 giorni senza la testa. Una formica da sola non può vivere fuori dalla colonia, con o senza testa. Pare che le formiche abbiano una memoria fotografica, che le aiuta a orientarsi, e che scattino una serie di istantanee dei paesaggi. Gli scienziati non riescono a comprendere come facciano i loro minuscoli cervellini a immagazzinare così tante informazioni. Le formiche non sono più forti degli esseri umani. Anche se sono in grado di sollevare pesi molto maggiori del loro, è soltanto perché sono piccole. Più piccolo è un animale, più forti sono i muscoli in relazione alla massa corporea. Se gli esseri umani fossero grandi come formiche sarebbero altrettanto forti. Sono talmente simili agli esseri umani da suscitare imbarazzo. Coltivano funghi, allevano afidi come bestiame, inviano armate per la guerra, usano cortine chimiche di gas per confondere ed allarmare il nemico, catturano schiavi […] si scambiano informazioni senza tregua. Fanno tutto tranne guardare la televisione. LEWIS THOMAS
Quanto usiamo del nostro cervello? L'1 per cento. Oppure il 3 per cento. Spesso si dice che ne usiamo soltanto il 10 per cento. Il che, di solito, ci porta a discutere su cosa potremmo fare se solo riuscissimo a imbrigliare l'altro 90 per cento. In realtà, tutto il cervello umano viene usato, in questo o quel momento. D'altro canto, un recente studio di Peter Lennie del New York City Center for Neural Science indica che idealmente il cervello dovrebbe avere non più del 3 per cento dei neuroni che scaricano insieme alla volta, altrimenti l'energia necessaria a «resettare» ogni neurone che abbia scaricato aumenta troppo perché il cervello la potesse gestire. Il sistema nervoso centrale consiste nell'encefalo e nel midollo spinale ed è costituito da due tipi di cellule: i neuroni e le cellule della glia. I neuroni sono i processori fondamentali dell'informazione, e si scambiano input e output. Un input attiva attraverso i dendriti del neurone, che assomigliano a rami; un output esce attraverso gli assoni, che sembrano dei cavi.
Ogni neurone può avere anche 10000 dendriti, ma soltanto un assone. L'assone può essere migliaia di volte più lungo del minuscolo corpo della cellula neuronale stessa. L'assone più lungo in una giraffa raggiunge i 4,5 metri. Le sinapsi congiungono assoni e dendriti; è qui che gli impulsi elettrici si convertono in segnali chimici. Le sinapsi sembrano degli interruttori che, collegando i neuroni tra di loro, trasformano il cervello in una rete. Le cellule della glia danno al cervello la sua struttura, gestiscono i neuroni e svolgono una funzione di pulizia, visto che rimuovono i resti quando i neuroni muoiono. Nel cervello, ci sono 50 volte più cellule della glia che neuroni. In un solo cervello umano ci sono quasi 5 milioni di chilometri di assoni, un quadrilione (1000000000000000) di sinapsi e fino a 200 miliardi di neuroni. Se si disponessero i neuroni tutti uno accanto all'altro, coprirebbero 25000 metri quadrati: la dimensione di quattro campi da calcio. Il numero di vie attraverso cui si trasmettono le informazioni nel cervello è maggiore del numero di atomi nell'universo. Con un simile, sorprendente potenziale, qualunque sia la percentuale di cervello che usiamo è chiaro che potremmo tutti fare di meglio. Di che colore è il cervello? Finché siamo vivi, è rosa. Il colore è dato dai vasi sanguigni. Senza un sangue ben ossigenato (come quando lascia il corpo) il cervello umano appare grigio. A confondere le cose, circa il 40 per cento del cervello vivente è costituito dalla cosiddetta «materia grigia» e il 60 per cento dalla «materia bianca». Non si tratta di descrizioni precise dei colori effettivi, bensì – e chiaramente – di due tipi diversi di tessuto cerebrale, come si nota in sezione e se lo tagliamo a fette belle sottili. Se abbiamo cominciato a capire quali funzioni assolva ciascuna delle due parti, è grazie all'impiego delle scansioni cerebrali. La materia grigia contiene le cellule in cui si svolge il vero e proprio «trattamento» delle informazioni. Essa consuma circa il 94 per cento dell'ossigeno impiegato dal cervello. La materia bianca è un complesso lipidoproteico chiamato mielina che riveste e isola i dendriti e gli assoni che si dipartono dalle cellule. È la rete di comunicazione del cervello, atta a collegare parti diverse della materia grigia tra loro e la materia grigia in generale al resto del corpo. Una buona analogia è il computer. La materia grigia è un processore, la materia bianca è l'insieme delle connessioni. Quello che chiamiamo intelligenza richiede che lavorino entrambe, insieme e alla stessa velocità. E qui la faccenda si fa ancora più interessante. In un recente studio effettuato dalla University of California and New Mexico, si è fatta la scansione cerebrale a uomini e donne dotati di un identico quoziente di intelligenza. I risultati sono stati sorprendenti: gli uomini hanno 6 volte e mezzo più materia grigia delle donne, mentre le donne hanno quasi 10 volte più materia bianca degli uomini.
La materia bianca femminile è stata trovata in alte concentrazioni nei lobi frontali, laddove gli uomini non ne hanno affatto. È un dato significativo: si ritiene che i lobi frontali giochino un ruolo chiave nel controllo emotivo, nella personalità e nel giudizio. Le tante teorie sulle differenze tra i sessi potrebbero quindi trovare presto una giustificazione fisiologica. I cervelli di uomini e donne sembrano effettivamente connessi e configurati in modo diverso. Il risultato (l'intelligenza) è lo stesso, ma il modo in cui si produce cambia parecchio. Che effetto ha l'alcol sulle cellule cerebrali?
Buone notizie. L'alcol non «uccide» le cellule cerebrali. Fa solo crescere meno in fretta quelle nuove. L'idea che l'alcol distrugga le cellule cerebrali risale almeno al primo Ottocento e alle campagne per la temperanza, i cui sostenitori volevano il bando degli alcolici. Non ha alcuna base scientifica. Tra alcolisti e non alcolisti non è stata dimostrata alcuna differenza significativa né nel numero complessivo né nella densità dei neuroni. Molti altri studi hanno provato che bere con moderazione può, in realtà, aiutare la cognizione. Uno in Svezia, in particolare, ha dimostrato che, in alcuni topi cui era stato somministrato dell'alcol, erano aumentate le cellule cerebrali. L'abuso di alcol causa danni seri, non ultimo al cervello, ma non c'è nessuna prova che questi problemi abbiano a che fare con la morte delle cellule: è più probabile che l'alcol interferisca con i processi funzionali del cervello. I postumi di una sbronza dipendono dalla contrazione del cervello, a sua volta dovuta alla disidratazione: il cervello strattona la membrana che lo ricopre, ed è la membrana a essere infiammata. Il cervello in sé non sente nulla, neanche se ci piantate dentro un coltello. Il filtro è il solco verticale che avete sul labbro superiore e che nessuno sa come si chiami. Lascia entrare l'aria, permettendovi così di bere dalla bottiglia. Se apriste una lattina di birra in assenza di gravità, la birra ne uscirebbe tutta insieme e fluttuerebbe nell'aria sotto forma di goccioline sferiche. Ultimamente gli astronomi hanno scoperto una gran quantità di alcol nella nostra regione della Via Lattea. Questa gigantesca nuvola di metanolo ha un diametro di 463 miliardi di chilometri. Anche se quello che ci piace bere è alcol di grano (altrimenti noto come alcol etilico o etanolo) e il metanolo ci ucciderebbe, la scoperta in qualche modo
supporta la teoria secondo cui l'universo esiste perché lo possiamo bere. Quello che si dice da ubriachi è stato ben ponderato prima. PROVERBIO FIAMMINGO
Che cosa bevono i delfini? Non bevono proprio. I delfini sono come gli animali del deserto: non hanno accesso all'acqua dolce. Assumono quindi i liquidi dal cibo (soprattutto pesce e calamari) e bruciano il grasso corporeo, che rilascia acqua. I delfini sono cetacei: l'orca è il membro più grande della famiglia dei delfini. Il nome dell'orca in inglese, killer whale, è un'inversione dell'originale spagnolo ballena asesina e ha lo stesso significato, «balena assassina». Le orche hanno preso questo nome perché a volte alcuni loro branchi cacciano e uccidono balene molto più grandi. Plinio il Vecchio, poi, non ne aiutò la reputazione. Secondo lui un'orca è una belva «il cui aspetto non potrebbe essere espresso attraverso alcun'altra immagine se non quella di un'enorme massa di carne, spaventevole per i denti». I delfini hanno fino a 260 denti, più di qualsiasi altro mammifero. Ciò nonostante, inghiottono i pesci interi. Usano i denti solo per afferrare la preda. I delfini dormono spegnendo metà del cervello e contemporaneamente chiudendo l'occhio opposto. L'altra metà rimane sveglia, mentre l'occhio aperto controlla che non ci siano predatori e ostacoli, e si ricorda di risalire in superficie per respirare. Due ore dopo, le parti si scambiano. Questo comportamento si chiama «logging». I delfini lavorano per la marina statunitense fin dalla guerra del Vietnam, durante la quale resero un ampio servizio. Attualmente, la marina statunitense impiega circa un centinaio di delfini e altri trenta mammiferi marini assortiti. Negli ultimi tempi, sei leoni marini sono stati assegnati alla Task Force in Iraq. Dopo l'uragano Katrina, circolava una storia secondo cui trentasei delfini della marina, addestrati all'attacco, erano scappati e girovagavano in mare armati di dart gun caricate con frecce tossiche. Pare si trattasse di un'invenzione bella e buona; a parte tutto, i delfini «militari» non sono addestrati all'attacco, ma solo a trovare delle cose.
Qual è il cocktail preferito di James Bond? Non il vodka martini.
Uno studio accurato su www.atomicmartinis.com dell'opera completa di Fleming ha dimostrato che James Bond consuma, in media, un drink ogni sette pagine. Dei 317 drink totali, il preferito è di gran lunga il whisky: ne beve in tutto 101, tra cui 58 bourbon e 38 scotch. Ha poi una grande passione per lo champagne (30 coppe) e in un libro, Si vive solo due volte (1964), che si svolge principalmente in Giappone, Bond prova il sakè. Gli piace: ne beve 35. L'agente 007 opta per quella che si ritiene la sua bevanda preferita, il vodka martini, solo 19 volte, e beve quasi altrettanti gin martini (16, anche se quasi tutti offerti da qualcun altro). La famosa espressione «agitato, non mescolato» appare per la prima volta in Una cascata di diamanti (1956), ma non è usata da Bond fino a L'impronta del drago, Dottor No (1959). Sean Connery è stato il primo Bond dello schermo a dire «agitato, non mescolato» in Goldifnger (1964), e da allora in poi ricorre in molti film. Nel 2005, l'American Film Institute l'ha votata come una delle novanta migliori citazioni cinematografiche di tutti i tempi. La ricetta personale di Bond per il martini, presa dal primo libro, Casinò Royal (1953), è la seguente: «Tre dosi di Gordon, una di vodka, mezza di China Lillet. Versate nello shaker, agitate col ghiaccio e poi aggiungete un bel po' di scorza di limone». È l'unica volta in cui Bond beve un mix di gin e vodka. Chiama «Vesper» questo cocktail, da Vesper Lind, che nel romanzo è la sua amante nonché una spia doppiogiochista. Vesper è anche la ragazza che beve di più tra tutti i romanzi e i racconti. Perché Bond insiste sui martini «agitati»? A rigor di termini, un gin martini agitato si chiama Bradford. I puristi lo disapprovano perché l'aria che si assorbe agitando finisce per ossidare o disperdere le essenze aromatiche del gin. Il problema non sussiste però con la vodka, e agitare rende il drink più secco e più freddo. Lo stesso Ian Fleming preferiva il martini agitato, e con il gin. Per ordine del medico finì per convertirsi dal gin al bourbon, il che può spiegare la predilezione del suo eroe. Sia Fleming sia Bond erano uomini che sapevano cosa gli piaceva. Che cosa non dovreste bere, in caso di disidratazione? L'alcol va benissimo. E anche il tè e il caffè. Virtualmente, qualsiasi liquido vi aiuterà a idratarvi, anche se sarebbe meglio tenersi alla larga dall'acqua salata. Non ci sono basi scientifiche per la curiosa idea che i liquidi diversi dall'acqua causino la disidratazione. Visto che è un diuretico (cioè vi fa orinare), la caffeina provoca sicuramente una perdita d'acqua, ma in minima parte rispetto a quella incamerata bevendo del caffè. Tè, caffè, spremute e latte per bambini vanno tutti bene per reintegrare i liquidi. Ron Maughan, professore di Fisiologia umana alla University of Aberdeen Medicai School, ha preso in esame gli effetti dell'alcol, ritenuto anch'esso un diuretico, e ha scoperto che, se bevuto con moderazione, ha un impatto minimo sullo stato di equilibrio dei liquidi nella persona media.
I suoi risultati, pubblicati sul «Journal of Applied Physiology», hanno dimostrato che le bevande alcoliche con un contenuto etilico inferiore al 4 per cento, come la birra light e lager, si possono usare per scongiurare la disidratazione. L'acqua salata, d'altronde, è un emetico, perciò bevendone vomiterete. Se riuscite a non rimetterla completamente, tutta l'acqua presente nelle cellule del vostro corpo si sposterà per osmosi verso quella salata, che ha un'alta concentrazione, nel tentativo di diluirla. Questo vi disidraterà le cellule, e in casi gravi potrebbe condurre a spasmi, interruzione delle funzioni cerebrali e insufficienza epatica e renale. Che cosa contiene più caffeina: un tè o un caffè? Un caffè. A parità di peso, le foglie essiccate di tè contengono una proporzione più alta di caffeina rispetto ai chicchi di caffè. Ma una tazza media di caffè contiene circa il triplo di caffeina rispetto a una tazza media di tè, perché servono più chicchi per farla. La quantità di caffeina nel caffè e nel tè dipende da svariati fattori. Più alta è la temperatura dell'acqua, più caffeina si estrae da chicchi e foglie. L'espresso, che si prepara con dell'acqua scaldata in una caldaia pressurizzata, contiene più caffeina, goccia per goccia, del caffè preparato per infusione. La quantità di tempo in cui l'acqua rimane a contatto coi chicchi di caffè o le foglie di tè influisce sul contenuto di caffeina. Un contatto più prolungato significa livelli più elevati di caffeina. È importante inoltre il tipo di caffè o tè, dov'è cresciuto, e la tostatura del caffè o il taglio delle foglie di tè. Più scura è la tostatura del caffè, più basso è il contenuto di caffeina. Quanto al tè, le foglie giovani contengono una concentrazione maggiore delle altre. Paradossalmente, un espresso medio di 30 millilitri contiene circa la stessa quantità di caffeina di una tazza da 150 millilitri di tè. Quindi un cappuccino o un caffelatte non vi darà una dose di caffeina maggiore di una tazza di tè. D'altro canto, una tazza di caffè istantaneo contiene solo la metà della caffeina di un caffè filtrato. Se questo è caffè, per favore portatemi del tè; se è tè, per favore portatemi del caffè. ABRAMO LINCOLN
Com'è stato scoperto il teflon? Nonostante l'insistenza con cui spesso si afferma il contrario, il teflon non è stato scoperto come sottoprodotto del programma spaziale. Teflon è il nome commerciale del politetrafluoroetilene (Ptfe), o resina fluoropolimera, scoperto per un caso fortunato da Roy Plunkett nel 1938 e messo in commercio nel 1946. Mentre faceva esperimenti coi clorofluorocarburi (Cfc) usati nella refrigerazione, Plunkett scoprì che, nella notte, uno dei suoi campioni si era congelato e trasformato in un
solido biancastro e malleabile, dotato di proprietà insolite: era molto liscio, nonché resistente a virtualmente tutte le sostanze chimiche, compresi gli acidi più corrosivi. Il datore di lavoro di Plunkett, la Du Pont, trovò ben presto una quantità di impieghi per il nuovo materiale, prima nel Progetto Manhattan (il nome in codice del programma per lo sviluppo delle armi nucleari nel 1942-46) e poi in cucina. Nessuno ha saputo trovare una fonte precisa per la leggenda del «programma spaziale», se non che le missioni Apollo dipendevano tutte dal teflon come materiale isolante della cabina. Fra gli altri miti sul teflon c'è la credenza secondo cui i proiettili che ne siano rivestiti perforano qualsiasi protezione del corpo meglio di tutti gli altri; in realtà, il rivestimento in teflon riduce l'attrito all'interno della canna e non ha alcuna influenza sull'efficacia del proiettile. In ogni caso, non esiste materiale che abbia un coefficiente di attrito basso come il teflon, ecco perché funziona così bene come superficie antiaderente nelle padelle. Se è così scivoloso, come si riesce ad attaccarlo alla padella? Il processo richiede una sabbiatura per creare dei minuscoli graffi sulla superficie della padella, su cui viene quindi spruzzato un sottile rivestimento di teflon liquido che fluisce nei graffi. Il tutto viene cotto in forno ad alta temperatura, in modo da far indurire il teflon e ottenere uno strumento ragionevolmente sicuro. Poi la superficie viene rivestita con un mastice e cotta ancora una volta. Che cosa è meglio non fare venti minuti dopo aver mangiato? Nuotare, è la risposta che avrebbero dato i vostri genitori, ma non c'è nessuna prova che nuotare normalmente dopo aver normalmente mangiato sia rischioso. Le piscine non sono luoghi così pericolosi. Secondo le statistiche, avete molte più probabilità di farvi male mentre vi togliete i collant, mangiate della verdura, portate a spasso il cane o potate la siepe. E state bene alla larga da cotton fioc, scatoloni, verdure, kit per l'aromaterapia e spugne. Sono tutti oggetti che stanno diventando sempre più pericolosi. L'idea che sta alla base del famoso divieto di balneazione dopo un pasto – spesso affisso nelle piscine, ancora oggi – è che il sangue, perché collabori alla digestione, viene distolto dai muscoli e richiamato nello stomaco; in questo modo gli arti, privi di una quantità sufficiente di sangue, sono bloccati dai crampi. (In certe versioni meno sofisticate, il peso del cibo nelle budella vi fa colare a picco). Anche se vi abboffate prima di nuotare, il risultato più probabile è una fitta al fianco o un po' di nausea. Non c'è nulla di intrinsecamente pericoloso nella combinazione di cibo e acqua. Sono rischi maggiori la disidratazione, perché non si beve, o la debolezza, perché si digiuna. D'altro lato, la Royal Society for the Prevention of Accidents (RoSPA) propugna il
«buonsenso» sostenendo che c'è almeno un rischio teorico di rigurgito, e un rigurgito potrebbe dimostrarsi più rischioso in acqua che sulla terraferma. Il rapporto 2002 del RoSPA ha rivelato quali siano state nel corso di un anno le prime cause di incidenti in Gran Bretagna: Scarpe da ginnastica
71309
Collant
12003
Scatoloni
10492
Piscine coperte
8795
Cotton fioc
8751
Pantaloni
8455
Ramoscelli
8193
Aromaterapia
1301
Spugne
942 Il maggior pericolo nella vita consiste nel prendere troppe precauzioni. ALFRED ADLER
In che modo la televisione fa male alla salute? Non certo sedendosi troppo vicino a un televisore. Fino alla fine degli anni Sessanta, i televisori a tubo catodico emettevano livelli bassissimi di radiazioni ultraviolette e si avvisavano gli spettatori di sedere a una distanza di almeno 180 centimetri dagli apparecchi. Erano i bambini a correre i rischi maggiori. I loro occhi sanno adattarsi così bene ai cambiamenti a distanza che riuscivano a sedersi e guardare da molto più vicino della maggior parte degli adulti. Quasi quarant'anni fa, il Radiation Control for Health and Safety Act obbligò tutti i produttori a usare vetro piombato nei loro tubi catodici, il che rese i televisori perfettamente sicuri. Il vero danno causato dalla televisione è che induce a una vita sedentaria. In Gran Bretagna, i casi di obesità infantile sono triplicati negli ultimi vent'anni, e il fenomeno è stato collegato alla televisione. Il bambino inglese medio fra i tre e i nove anni passa 14 ore alla settimana davanti alla televisione e poco più di un'ora facendo sport o attività all'aperto. Secondo le conclusioni di uno studio apparso nel 2004 sulla rivista «Pediatrics», nei
bambini che guardavano da 2 a 3 ore di televisione al giorno il rischio di sviluppare un disturbo da deficit di attenzione (Adhd) aumentava del 30 per cento. Nel 2005, la società di ricerca Nielsen ha rivelato che nella casa media statunitense la televisione resta accesa per otto ore al giorno. Questo significa il 12,5 per cento in più di dieci anni fa, e il livello più alto da quando negli anni Cinquanta vennero misurati per la prima volta gli indici di gradimento televisivo. L'American Academy of Pediatrics calcola che, arrivati a settant'anni, gli americani avranno passato otto anni interi a guardare la Tv. Quanto bisognerebbe dormire per notte? A quanto pare, dormire otto ore per notte è pericoloso. Gli adulti che dormono otto o più ore muoiono prima di chi ne dorme soltanto sei o sette. Uno studio del professor Daniel Kripke alla University of California, che in sei anni ha coinvolto 1,1 milione di persone ed è stato pubblicato nel 2004, ha dimostrato che nei sei anni dello studio era morto un numero significativamente elevato di persone che dormivano otto o più ore (o meno di quattro) per notte. L'inglese medio dorme tra le sei e le sette ore per notte, cioè un'ora e mezza in meno rispetto ai nostri nonni. Nel 1900, una normale notte di sonno era di nove ore. Diverse prove suggeriscono che la deprivazione di sonno conduce alla perdita a breve termine del quoziente intellettivo, della memoria e della capacità di raziocinio. Leonardo da Vinci passò quasi metà della sua vita a dormire. Come Einstein, si faceva dei brevi pisolini nel corso della giornata, nel suo caso 15 minuti ogni 4 ore. Il grande lessicografo, il dottor Johnson, si alzava di rado prima di mezzogiorno. Il filosofo francese Pascal, anche lui trascorreva buona parte della giornata a letto, a sonnecchiare. D'altronde l'elefante, che ha notoriamente una vita lunga, dorme soltanto due ore al giorno. I koala dormono 22 ore al giorno, ma vivono soltanto 10 anni. Le formiche, come abbiamo visto, non dormono che per pochi minuti al giorno. La persona media impiega sette minuti ad addormentarsi. Se è in buona salute, si sveglia tra le 15 e le 33 volte per notte. Attualmente sono noti 84 disturbi del sonno, tra cui l'insonnia, la roncopatia (si russa troppo), la narcolessia (ci si addormenta durante il giorno), l'apnea (si smette di respirare mentre si dorme) e la sindrome delle gambe senza riposo. La Gran Bretagna conta 25 cliniche del sonno, affollate di pazienti. Il 20 per cento degli incidenti stradali nel Regno Unito sono causati da un guidatore che si addormenta al volante. Il modo migliore per evitare che questo accada è chiudere una ciocca di capelli nel tettuccio. Il secondo modo migliore è mangiare una mela. Stimola la digestione e fornisce energia a rilascio lento, più efficace di un caffè, il cui effetto dura poco.
Quale sarà il peggior assassino del mondo nel 2030? a)La tubercolosi b)L'Aids c)La malaria d)Il tabacco e)L'omicidio Secondo l'Organizzazione mondiale della sanità, al momento il tabacco è al secondo posto nella graduatoria delle cause di morte nel mondo. È responsabile della morte di un adulto su 10 in tutto il globo, circa 5 milioni di decessi all'anno, mentre oggi il cancro uccide 7 milioni di individui all'anno. Se le cifre continuano a crescere secondo i ritmi attuali, il tabacco – e una serie di disturbi legati al fumo – diventerà il peggior assassino del mondo entro il 2030, uccidendo 10 milioni di persone all'anno. Circa 1,3 miliardi di individui sono fumatori abituali. Metà – cioè 650 milioni di persone – saranno uccisi dal tabacco. Saranno i paesi in via di sviluppo a soffrire di più. Al giorno d'oggi, l'84 per cento dei fumatori risiede nelle nazioni a medio e basso reddito, dove il consumo di tabacco cresce regolarmente dal 1970. Per contro, negli Stati Uniti i fumatori maschi sono calati dal 55 per cento degli anni Cinquanta al 28 per cento degli anni Novanta. In Medioriente – dove la metà dei maschi adulti fuma – il consumo di tabacco è cresciuto del 24 per cento tra il 1990 e il 1997. Le conseguenze economiche del fumo nei paesi in via di sviluppo sono altrettanto disastrose delle implicazioni per la salute. In posti come il Niger, il Vietnam e il Bangladesh, le famiglie depauperate spendono un terzo in più per prodotti del tabacco che per il cibo. Non fu prima della fine degli anni Quaranta che la scienza moderna collegò i danni alla salute con il consumo di tabacco e, in Gran Bretagna, non fu prima del resoconto del Royal College of Physicians nel 1964 che il governo riconobbe pienamente il legame tra il fumo e il cancro. Ci vollero ancora sette anni perché sui pacchetti di sigarette comparissero degli avvisi. Nonostante trent'anni di prove sempre più lampanti, un adulto su 4 nel Regno Unito (13 milioni di persone) continua a fumare regolarmente (sebbene il 70 per cento di loro stia cercando di smettere). Nel 2004, il regno himalayano del Bhutan non solo ha proibito di fumare in pubblico, ma anche di vendere tabacco. È il primo paese ad averlo fatto. La risposta alla depressione è soltanto «farsi una passeggiata»? Sì. Per lo meno, è efficace quanto i farmaci.
Ultimamente, una ricerca che ha coinvolto soggetti tra i 24 e i 45 anni ha scoperto che fare esercizio per un'ora e mezza dalle 3 alle 5 volte alla settimana ha sulla depressione un effetto uguale se non migliore dei medicinali, e riduce costantemente i sintomi perfino del 50 per cento. Secondo «Science News», i placebo sono più efficaci nel curare la depressione sia dei farmaci sia dei rimedi erboristici. In una serie di esperimenti condotti tra il 1979 e il 1996, uno psichiatra di Seattle, il dottor Arif Khan, scoprì che l'erba di san Giovanni guariva il 24 per cento dei casi, l'antidepressivo Zoloft ne curava il 25 per cento, ma le caramelle di zucchero guarivano il 32 per cento dei pazienti. Uno studio più recente ha messo a confronto due antidepressivi, il Prozac e l'Efexor, con i placebo: i farmaci hanno vinto con una percentuale del 52 per cento, ma i placebo hanno totalizzato addirittura il 38 per cento. Non appena svelato l'inganno, però, le condizioni dei pazienti sono tornate rapidamente a peggiorare. Molti commentatori credono che il contesto della cura – un esperimento clinico i cui partecipanti erano seguiti con grande attenzione professionale – sia stato un fattore importante. In conclusione, pare che una combinazione di medicinali e premure personali rappresenti la cura più rapida e di maggiore durata. Anche la meditazione sembra funzionare. In un progetto di ricerca che ha coinvolto alcuni monaci tibetani consigliati dal Dalai Lama, Richard Davidson, professore di neuroscienza alla University of Wisconsin-Madison, ha chiesto ai monaci di meditare su «compassione e amore incondizionati». Il risultato è stato un pattern straordinario di onde cerebrali gamma, solitamente molto difficili da rilevare. L'implicazione sembra essere che, se allenato, il cervello può produrre da solo la dopamina che gli occorre, ovvero l'elemento chimico la cui mancanza causa la depressione. L'uso di farmaci porta il cervello a smettere quasi del tutto di produrre la propria dopamina. Se vi allenate a «essere positivi» potete ritrovare la felicità. È forse questa la ragione per cui i placebo funzionano: credere è potere. Mi sentivo triste a pensare al futuro, quindi lasciai perdere e mi misi a fare la marmellata. È sorprendente quanto ti tira su di morale tagliare arance e lavare per terra. D. H. LAWRENCE
Quale nazione al mondo ha il più alto tasso di suicidi? La Lituania, che nel 2003 ha vantato un dato sorprendente: 42 suicidi ogni 100000 abitanti. Questo significa oltre 1500 persone: più di quante ne vengano uccise dagli incidenti d'auto e il doppio di dieci anni fa. Per metterla in un contesto internazionale, i suicidi lituani battono il tasso inglese 6 a 1, quello statunitense 5 a 1, e sono circa il triplo della media mondiale. Nessuno sa perché,
ma è interessante che 7 delle nazioni nella Top Ten dei suicidi siano paesi baltici o altri ex membri dell'Unione Sovietica. Forse è per questo che la Lituania ha anche il maggior numero al mondo di neurologi. Ovunque, nei paesi baltici e non, le persone più portate a commettere suicidio sono i maschi (giovani e vecchi) che vivono nelle aree rurali. È comprensibile: chiunque abbia passato un po' di tempo in una fattoria in difficoltà sa che l'alcol, l'isolamento, i debiti, il clima e l'incapacità di chiedere aiuto (una sindrome nota agli psicologi come «helpless»), insieme al possesso di armi da fuoco e all'abitudine di tenere a portata di mano dei pericolosi agenti chimici, formano una combinazione mortale. Fanno eccezione la Cina e l'India meridionale, dove sono le giovani donne delle aree rurali quelle più a rischio. I rispettivi tassi sono 30 e 148 ogni 100000 individui. In Cina, si pensa che sia perché le giovani spose vengono spesso lasciate sole dai neomariti, i quali vanno subito a lavorare in città. In India, l'immolazione rappresenta un terzo del totale dei suicidi fra le adolescenti. In generale, i suicidi sono in aumento con un milione di decessi all'anno, uno ogni 40 secondi. Significa la metà del totale delle morti violente: oggi si uccidono più persone di quante ne muoiano in guerra. D'altro canto la Svezia, a lungo tormentata dal luogo comune «che posto noioso, si uccidono tutti», non è più nemmeno nella Top Twenty. L'esatta base storica del mito del «suicidio svedese» si perde nella nebbia della ricostruzione post bellica, ma molti svedesi ne danno la colpa a Dwight D. Eisenhower, presidente degli Stati Uniti dal 1953 al 1961, il quale usò il loro (all'epoca) alto tasso di suicidi per denigrare l'allegro, pericolosamente anticapitalistico egualitarismo della socialdemocrazia svedese. Hitler era vegetariano?
No. È una bella storia. Il peggior dittatore del Novecento, con le mani lorde del sangue di decine di milioni di persone, era troppo schizzinoso, o sentimentale, o ipocondriaco per mangiare carne. Questa storia viene regolarmene – e illogicamente – tirata in ballo ogni volta che si vuole dar contro al vegetarianismo. Peccato che non sia vera. Svariati biografi, inclusi quelli che conoscevano personalmente il Führer, documentano la sua passione per i würstel bavaresi, il pasticcio di selvaggina e (a dar retta al suo cuoco) il piccione ripieno. Era però afflitto da una flatulenza cronica, per la quale i medici gli raccomandavano di continuo una dieta vegetariana (un rimedio che sorprenderà molti vegetariani). Faceva
anche regolari iniezioni di un siero altamente proteico derivato dai testicoli polverizzati di toro. Di lì a un timballo di funghi o a uno sformato di lenticchie la strada è lunga. Né nei suoi discorsi né nei suoi scritti vi è prova del fatto che fosse ideologicamente favorevole al vegetarianismo, e non uno dei suoi luogotenenti era vegetariano. In realtà, è molto più probabile che Hitler criminalizzasse i vegetariani, insieme a esperantisti, obiettori di coscienza e altri detestati «internazionalisti». Non era neppure ateo. Ecco quanto scrive tutt'altro che ambiguamente nel Mein Kampf: «Credo di agire nel senso del Creatore del mondo: difendendomi dagli ebrei, lotto per le opere del Signore». Avrebbe usato la stessa espressione in un discorso al Reichstag nel 1938. Tre anni dopo disse al generale Gerhard Engel: «Io sono ora un cattolico come lo ero prima, e tale rimarrò sempre». Lungi dall'essere una nazione «senza Dio», la Germania nazista si rifaceva anche a certi rituali della Chiesa cattolica. I soldati di fanteria indossavano tutti una cintura con l'iscrizione Gott mit uns («Dio è con noi») sulla fibbia, ed erano regolari e diffusissime le benedizioni di truppe ed equipaggiamenti. Quale nazione ha inventato i campi di concentramento? Se pensate ancora che sia la Germania, dovete aver vissuto nelle caverne. La risposta abituale è la Gran Bretagna, perché ricorse ai campi di internamento per famiglie nella seconda guerra boera del 1899-1902. In realtà, l'idea nasce in Spagna. Gli spagnoli furono i primi, durante la guerra per mantenere il dominio su Cuba nel 1895, a pensare di «concentrare» i civili in un posto solo per facilitarne il controllo. La guerra finì con la sconfitta della Spagna, e le sue truppe cominciarono a ritirarsi dall'isola nel 1898. Gli Stati Uniti ne presero il posto: avrebbero esercitato la loro influenza militare sull'isola fino alla rivoluzione di Castro nel 1959. Gli inglesi tradussero il termine spagnolo, reconcentración, quando si trovarono ad affrontare una situazione simile in Sudafrica. La necessità di avere dei campi derivava dalla politica britannica di incendiare e distruggere le fattorie boere, la cui conseguenza era un gran numero di rifugiati. Gli inglesi decisero di radunare tutte le donne e i bambini che le truppe boere avevano lasciato a casa, onde impedir loro di rifornire il nemico. In totale, c'erano 45 attendamenti per le donne e i bambini boeri e 64 per i braccianti africani neri delle fattorie con le loro famiglie. Nonostante le buone intenzioni, le condizioni nei campi degenerarono in fretta. C'era pochissimo da mangiare, e le malattie si diffusero rapidamente. Entro il 1902, 28000 boeri (inclusi 22000 bambini) e 20000 africani erano morti nei campi: il doppio dei soldati caduti in battaglia. Poco dopo, anche i tedeschi istituirono i loro primi campi di concentramento, mentre tentavano di colonizzare l'Africa del Sud-Ovest (l'odierna Namibia). Uomini, donne e bambini delle popolazioni herero e namaqua furono arrestati,
imprigionati e costretti a lavorare nei campi. Tra il 1904 e il 1907, 100000 africani – l'8o per cento degli herero e il 50 per cento dei namaqua – morirono di fame o per le violenze subite. Oggi le Nazioni Unite lo considerano il primo genocidio del xx secolo. Quando è morto l'ultimo sopravvissuto della guerra di Crimea? Nel 2004. L'ultimo veterano della guerra di Crimea, che finì nel 1856, era Timothy, una tartaruga greca del Mediterraneo. Si pensa che alla sua morte avesse circa 160 anni e fosse il più vecchio residente del Regno Unito che si conoscesse. Timothy fu trovato nel 1854, a bordo di una nave corsara portoghese, da John Courtenay Everard della Royal Navy e fu la mascotte di svariate navi della marina fino al 1892: tra di esse, la HMS Queen durante il bombardamento di Sebastopoli nella guerra di Crimea. Poi andò in pensione, ritirandosi nel castello di Powderham, ospite di un parente di Everard, il decimo conte di Devon. Timothy aveva il motto della famiglia inciso sul ventre: «Dove sono caduto? Che cosa ho fatto?». Durante la Seconda guerra mondiale, abbandonò l'ombra del suo glicine preferito e si scavò un rifugio antiaereo sotto gli scalini del terrazzo. Lady Gabrielle Courtenay, zia dell'allora conte e guardiano di Timothy, affermò che a disturbare la tartaruga era la vibrazione delle bombe che cadevano sulla vicina Exeter. Inoltre, secondo lei Timothy era in grado di distinguere le voci, e veniva sempre quando lo chiamavano. Dopo la guerra, la tartaruga tornò al Giardino di Rose dove ogni anno andava in letargo, con un cartello che diceva: «Salve, mi chiamo Timothy e sono molto vecchio. Per favore, non toccatemi». Secondo Rory Knight-Bruce, biografo di Timothy, i pochi che avevano il permesso di prenderlo «tenevano un prode veterano dalla vista acuta il cui peso specifico era circa lo stesso di una casseruola Le Creuset di medie dimensioni». Nel 1926, i Devon decisero che Timothy doveva accoppiarsi. Si scoprì allora che, in effetti, era una femmina. Vista la sua età, preferirono non cambiarle nome, e anche se le presentarono un potenziale partner di nome Toby, Timothy morì senza lasciare eredi. Fu sepolta nella cappella di famiglia, nei possedimenti del castello. Non puoi calpestare i miscredenti quando sei una tartaruga […] tutto quello che puoi fare è lanciargli uno sguardo carico di significato. TERRY PRATCHETT
Quanti anni canini corrispondono a un anno umano? Non sette.
È impossibile trovare una sola fonte autorevole che ci aiuti a semplificare il confronto tra le età delle specie. Alcuni cani e gatti di dodici anni dimostrano capacità fisiche molto più elevate anche del più pimpante ottantaquattrenne umano, e paiono esserci delle variazioni più che significative da razza a razza. Il meglio che si può fare è applicare una formula che, per quanto approssimativa, è largamente accettata, secondo cui i cuccioli di cane e gatto maturano molto più in fretta dei bambini piccoli, con un tasso di crescita che cala notevolmente dopo due anni. Pertanto, un gatto di un anno può avere all'incirca sedici anni umani, mentre uno di quattro potrebbe essere paragonato a un uomo o una donna di trentadue, uno di otto a un sessantaquattrenne e così via. Quant'è lungo un giorno? Dipende. Un giorno è una rotazione della terra intorno al proprio asse. Non dura mai esattamente 24 ore. A sorpresa, può essere di ben 50 secondi più corto o più lungo. Questo perché la velocità della rotazione terrestre cambia continuamente per l'attrito causato da maree, clima ed eventi geologici. Nel corso di un anno, un giorno medio è una frazione di secondo più breve di 24 ore. Una volta che gli orologi atomici ebbero registrato queste discrepanze, si decise di ridefinire il secondo, che fino a quel momento era stato una frazione del giorno «solare», ovvero 1/86400 di giorno. Il nuovo secondo fu inaugurato nel 1967; questa la sua definizione: «La durata di 9192631770 periodi della radiazione corrispondente alla transizione tra due livelli iperfini, da (F=4, MF=0) a (F=3, MF=0), dello stato fondamentale dell'atomo di cesio-133». Accurata, ma non facile da dire quando si è stanchi al termine di una lunga giornata. Questa nuova definizione del secondo significa che il giorno solare si allontana gradualmente dal giorno atomico. Per questo gli scienziati hanno introdotto un «secondo bisestile» nell'anno atomico, per allinearlo all'anno solare. L'ultimo «secondo bisestile» (il settimo, da quando venne fondato nel 1972 il Tempo universale coordinato, Utc) è stato aggiunto il 31 dicembre 2005 su istruzione dell'International Earth Rotation Service presso l'Osservatorio di Parigi. È una bella notizia per gli astronomi e per quanti fra noi desiderano avere gli orologi sincronizzati con la rivoluzione della terra intorno al sole, ma è una brutta notizia per il software dei computer e per tutta la tecnologia basata sui satelliti. L'idea è stata osteggiata con forza dall'Unione internazionale delle telecomunicazioni, che ha formalmente proposto di abbandonare il secondo bisestile entro il dicembre 2007. Un compromesso possibile sarebbe aspettare finché la discrepanza tra Utc e Gmt
(Tempo medio di Greenwich) raggiungerà un'ora (tra circa 400 anni) e sistemare allora le cose. Nel frattempo, il dibattito su che cosa costituisca il tempo «reale» continua. Qual è l'animale più lungo? Non la balenottera azzurra. Spiacenti. O la medusa criniera di leone. Il Lineus longissimus, un verme, può raggiungere i 60 metri, circa il doppio della balenottera azzurra e un terzo in più della più lunga criniera di leone, ex detentrice del primato. Potreste drappeggiare un Lineus da un capo all'altro di una piscina olimpionica e avanzarne ancora un pezzo. Il Lineus appartiene alla famiglia dei vermi nemertini o Nemertea (da Nemerte, una nereide). Ne esistono oltre 1000 specie, per la maggior parte acquatiche. Ce ne sono di lunghe e sottili; anche la più lunga può avere un diametro di pochi millimetri. Secondo molte fonti, il Lineus tocca al massimo i 30 metri, una lunghezza inferiore alla criniera di leone. Le ultimissime informazioni, però, rivelano che questo verme ha una straordinaria capacità di allungarsi. Se ne sono trovati molti lunghi più di 50 metri, quando sono completamente stesi. I resti fossili dimostrano che esistono da almeno 500 milioni di anni. Il Lineus non ha un cuore – il sangue viene pompato dai muscoli – ed è l'organismo più semplice ad avere bocca e ano distinti. È un vorace carnivoro: per infilzare e tramortire i piccoli crostacei di cui si ciba, estrae un tubo sottile, appiccicoso o munito di uncini velenosi, che può essere lungo anche il triplo del corpo. Quasi tutti questi vermi stanno nelle tenebre del fondo oceanico, ma alcuni hanno colori incredibilmente vivaci. Se subiscono qualche danno, i nemertini possono rigenerarsi. In effetti, alcune specie di Lineus si riproducono frammentandosi in piccoli pezzi, ognuno dei quali diventa un verme nuovo. L'uomo […] non sa fare un verme e fa dei a dozzine. MICHEL DE MONTAIGNE
Nell'oceano, cos'è che fa più rumore?
I gamberetti. Sebbene sia la balenottera azzurra a emettere il suono più forte di ogni altro singolo animale in mare o sulla terraferma, il rumore più forte di tutti in natura è prodotto dai gamberetti. Il suono dello «strato di gamberetti» è l'unico rumore in natura a poter «cancellare» il sonar di un sottomarino, assordando gli operatori attraverso le cuffie. Da sotto lo strato non si può sentire nulla che vi stia al di sopra e viceversa. L'unica per sentire da sotto sarebbe farci passare in mezzo un'antenna. Il rumore dei gamberetti tutti insieme ammonta a ben 246 decibel spaccatimpani e, anche se lo ritariamo tenendo in considerazione che il suono viaggia 5 volte più veloce in acqua, otteniamo 160 decibel nell'aria: un frastuono notevolmente peggiore di quello di un jet durante il decollo (140 decibel) o della soglia umana del dolore. Alcuni hanno osservato che sarebbe come se tutti gli esseri umani del mondo friggessero pancetta contemporaneamente. Il rumore si deve ai trilioni di gamberetti che fanno scattare la loro unica, sovradimensionata chela tutti insieme. I gamberetti «schioccatori», appartenenti alle varie specie Alpheus e Synalpheus, si trovano nelle basse acque tropicali e subtropicali. La faccenda è ancora più interessante di quanto sembri. Un video ripreso a 40000 fotogrammi al secondo mostra chiaramente che il rumore arriva 700 microsecondi dopo che la chela si è chiusa di scatto. Il rumore proviene dallo scoppio delle bolle di vapore acqueo, non dalla chiusura in sé della chela, un effetto noto come «cavitazione». Funziona così. Di lato alla chela, c'è una piccola escrescenza che combacia alla perfezione con un solco dall'altro lato. La chela si chiude talmente in fretta da produrre un getto d'acqua che viaggia a 100 chilometri orari, cioè abbastanza veloce da creare bolle in espansione di vapore acqueo. Quando il getto rallenta, la pressione torna normale e le bolle collassano, si genera un intenso calore (fino a 20000 gradi centigradi), un forte scoppio e della luce: si tratta di un fenomeno rarissimo, la sonoluminescenza, in cui l'energia sonora si trasforma in luce. I gamberetti usano questo rumore per stordire la preda, per comunicare e per trovare un partner. Così come rovina i sonar, l'acuto, intensissimo rumore ammacca le eliche delle navi.
Perché i fenicotteri sono rosa? Perché mangiano tantissime alghe azzurre. I fenicotteri mangiano sì gamberetti, ma il loro colore dipende dalle alghe azzurre – le quali, a dispetto del nome, possono essere rosse, viola, marroni, gialle o perfino arancioni. Il nome inglese del fenicottero, flamingo, si deve proprio al loro colore acceso: come flamenco, il termine deriva da «fiamma» in latino. La bandiera rossa e bianca del Perú si ispira a loro. Ci sono quattro specie di fenicotteri. Hanno almeno dieci milioni di anni e un tempo erano di casa in Europa, America e Australia. Ora vivono in sacche isolate di Africa, India, Sud America ed Europa meridionale. Tutte le specie sono monogame. Depongono un solo uovo all'anno, che se ne sta in equilibrio su un cumulo di fango. I genitori fanno a turno per covarlo ed entrambi producono un «latte» rosso brillante, altamente nutritivo, dall'esofago, con cui nutrono i piccoli per i primi due mesi. I fenicotteri sono una delle sole due specie di uccelli a produrre latte: l'altra sono i piccioni. In cattività, se sentono il pianto di qualche pulcino i fenicotteri producono latte, anche se non sono genitori. Dopo aver lasciato il nido, essi vivono in vasti asili. Sebbene queste colonie possano ospitare più di 30000 uccelli, il fenicottero giovane viene nutrito solo dai genitori, che lo riconoscono dal pianto. Una famiglia di fenicotteri è detta «pat». I fenicotteri mangiano con la testa al contrario. A differenza degli altri uccelli, filtrano il cibo come le balene e le ostriche. Nei loro becchi si allineano file di denti che setacciano l'acqua. Il fenicottero minore (Phoeniconaias minor) ha un filtro talmente stretto da poter passare piante unicellulari con un diametro inferiore a 0,05 millimetri. La loro lingua si comporta come una pompa, e spinge l'acqua nel becco quattro volte al secondo. Plinio il Vecchio consigliava di mangiare la lingua di fenicottero, ritenendola molto gustosa. I fenicotteri dormono su una zampa sola, con metà corpo alla volta – come i delfini – mentre l'altra resta in allerta per individuare eventuali predatori. I fenicotteri possono vivere cinquant'anni. Abitano laghi inospitali, con alti livelli di sale e bicarbonato di sodio, dove l'acqua è imbevibile per gli altri animali e non cresce nulla. I loro principali predatori sono i guardiani degli zoo. Di che colore è una pantera? Non esiste «una» pantera. La parola probabilmente deriva dal sanscrito pandarah, «giallo-biancastro», che in origine si applicava alla tigre. I greci presero in prestito il termine e lo riadattarono in pánthēr, cioè «tutte le bestie». Lo usavano per descrivere tanto gli animali mitologici quanto quelli veri. Nell'araldica medievale, la pantera era ritratta come una bestia mite e multicolore
dall'odore dolcissimo. Scientificamente parlando, tutte e quattro le maggiori specie di grandi felini sono pantere. Il leone è la Panthera leo; la tigre la Panthera tigris; il leopardo la Panthera pardus; e il giaguaro la Panthera onca. Sono gli unici felini in grado di ruggire. Gli animali che di solito la gente crede siano pantere, in realtà sono leopardi neri (in Africa o Asia) o giaguari neri (in Sud America). E né gli uni né gli altri sono completamente neri. A un esame ravvicinato, sulla pelle sono ancora debolmente visibili le macchie. Questi felini sono portatori di una mutazione genetica per cui il pigmento nero della loro pelliccia domina quello arancione. Le rare «pantere bianche» sono in realtà leopardi o giaguari albini. Negli Stati Uniti, per «pantera» si intende un puma nero. Nonostante molti racconti non comprovati e ipotetici avvistamenti, nessuno ne ha mai trovato uno. Quand'è che un animale vede rosso? Il mito che i tori vadano su tutte le furie a vedere il colore rosso esiste almeno dal 1580, quando lo scrittore più in voga dell'epoca, John Lyly, scrisse: «Chi si trova davanti a un elefante non indossi colori accesi, né il rosso se si trova davanti a un toro». Il fatto è che, come i topi, gli ippopotami, i gufi e gli oritteropi, i tori sono daltonici. Sono i movimenti della muleta del torero che spingono il toro a caricare; il colore è puramente a beneficio del pubblico. I cani distinguono tra blu e giallo, ma non tra verde e rosso. Ai semafori, i cani guida decidono se attraversare è sicuro ascoltando il traffico. Da qui i suoni pigolanti ai moderni passaggi pedonali. Degli animali che vedono davvero molto bene il rosso sono i polli. I pollicoltori conoscono anche troppo bene i problemi pratici che può causare un pollo se «vede rosso». Quando uno di loro perde sangue, gli altri lo beccano come ossessi. Questo comportamento cannibalesco va tenuto sotto controllo, pena una carneficina e la rapida riduzione nel pollame dell'allevatore. La soluzione classica è quella di spuntare il becco ai polli con un coltello scaldato, in modo che non taglino e causino meno danni. Tuttavia, nel 1989 l'azienda Animalens lanciò delle lenti a contatto rosse per i polli da uova. I primi risultati furono promettenti: poiché tutto ai loro occhi era rosso ed erano più tranquilli, i polli si azzuffavano e si mangiavano meno, pur deponendo lo stesso numero di uova di prima. L'industria delle uova opera con un margine di profitto molto basso, circa l'1,6 per cento. Ci sono 250 milioni di ovaiole negli Stati Uniti, 150 milioni in sole 50 fattorie. Le lenti a contatto rosse per polli promettevano il triplo di profitti. Purtroppo, mettere le lenti ai polli era complicatissimo e richiedeva parecchia manodopera. Senza ossigeno, gli occhi degeneravano rapidamente, e i polli non ne
ricavavano che dolore e sofferenza. Sotto gli strali degli animalisti, la Animalens ritirò il prodotto. Di che colore sono le carote? Le carote non hanno rivelato la loro arancionità interiore per quasi 5000 anni. Le prime testimonianze di carote impiegate dall'uomo risalgono al 3000 a.C. in Afghanistan. Le carote delle origini erano violacee fuori e gialle dentro. Gli antichi greci e romani coltivavano l'ortaggio, ma soprattutto a scopi medicinali: la carota era considerata un potente afrodisiaco. Galeno, il famoso medico del 11 secolo, raccomandava le carote per fare aria. Fu il primo a distinguerle da una loro parente stretta, la pastinaca. Quando i commercianti arabi diffusero i semi di carota in Asia, Africa e Arabia, le carote crebbero in diverse tonalità di viola, bianco, giallo, rosso, verde e perfino nero. La primissima carota arancione spuntò in Olanda nel Cinquecento, patriotticamente coltivata in modo che si abbinasse al colore della casa reale degli Orange. Nel Seicento, gli olandesi erano ormai i principali produttori europei di carote e tutte le varietà di oggi discendono dalle loro quattro arancioni (si trattava di una mezzana precoce, una mezzana tardiva, una rossa e un'arancione lunga). Al momento sono in voga le carote non arancioni: nei negozi si trovano delle varietà bianche, gialle, rosso scuro e viola. Nel 1997, l'Islanda creò una carota al cioccolato all'interno della gamma di prodotti «Wacky Veg» (verdure buffe) destinati ai bambini. Venne ritirata otto mesi dopo. Secondo le Nazioni Unite, nel 1903 c'erano 287 varietà di carota, ma adesso non ne restano che 21, con un crollo del 93 per cento. Alcune varietà contengono una proteina che impedisce di crescere ai cristalli di ghiaccio. Estrarre questa naturale carota «antigelo» può servire a preservare i tessuti corporei a uso medico e a migliorare la conservazione dei surgelati. Domandi: che cos'è la vita? È lo stesso che domandare: che cos'è una carota? Una carota è una carota, e non c'è altro da sapere. ANTON ČECHOV
Le carote ci aiutano a vedere al buio? Non proprio. Le carote sono una buona fonte di vitamina A, la cui mancanza può condurre alla nictalopia: gli occhi si adattano con grande lentezza ai cambiamenti di luce. La retina è costituita da cellule fotosensibili, dette coni e bastoncelli. I coni colgono dettagli e colori, ma hanno bisogno di molta luce per funzionare, come se l'emulsione di una pellicola fotografica fosse «lenta». I bastoncelli non sono assolutamente in grado di
distinguere i colori ma hanno bisogno di meno luce (una specie di emulsione «veloce») e dunque sono usati per la visione notturna. Contengono una sostanza chimica fotosensibile, la rodopsina, che è l'ingrediente chiave della vitamina A. La cura più semplice contro la nictalopia è assumere più vitamina A, e la vitamina A si trova facilmente nel carotene. Le carote contengono carotene, ma ancor più le albicocche, i mirtilli e le verdure a foglia scura come gli spinaci. Accrescere una visione notturna carente è però altra cosa dal migliorare una visione notturna normale. Mangiare tante carote non vi aiuterà a vederci di più al buio: col tempo, non farà altro che rendervi arancione la pelle. Nella Seconda guerra mondiale, il colonnello John Cunningham (1917-2002) si guadagnò il soprannome «Occhi di gatto». La sua squadriglia, la 604, operava di notte. Il governo inglese incoraggiò le voci secondo cui Cunningham vedeva al buio perché mangiava tantissime carote. Si trattava di deliberata disinformazione, usata per mascherare il fatto che stava testando un nuovo (e segretissimo) sistema radar aviotrasportato. È molto improbabile che i tedeschi avessero abboccato all'amo, ma quella storia servì a convincere un'intera generazione di bambini inglesi a mangiare l'unica verdura di cui si ebbero approvvigionamenti regolari durante la guerra. Il governo però esagerò con la propaganda alle carote, che diventarono «quei tesori luminosi raccolti nella buona terra britannica». Una ricetta del 1941 per il flan di carote – «ricorda il flan di albicocche, ma ha una squisitezza tutta sua» – non ingannò nessuno. E la marmellata di carote non riuscì a trovare un posto proprio sulla tavola della colazione inglese. Tuttavia, i portoghesi adorano la marmellata di carote, il che ha spinto l'Unione Europea nel 2002 a ridefinire la carota come un frutto. Su che cosa crescono le banane?
Non esiste un albero che si possa definire «banano». Il banano in realtà è un'erba gigantesca, di cui le banane sono le bacche. La definizione di erba è «pianta dal fusto verde e non legnoso la cui parte aerea appassisce dopo la fioritura e la formazione dei semi». Questo non è sempre vero: la salvia, il timo e il rosmarino hanno fusti legnosi (anche se non ricoperti di corteccia vera e propria). Come dice la definizione, dopo la fioritura la parte dell'erba che spunta dal terreno muore con le banane, e questo dà luogo a un curioso effetto. Morto lo stelo, ne cresce uno nuovo lungo la radice, un po' più avanti del precedente. In pochi anni, sembrerà che la
pianta si sia «spostata» di un paio di metri. Le banane sono originarie della Malesia e vengono coltivate da 10000 anni. Quelle selvatiche, che si possono ancora trovare nel Sudest asiatico, contengono dei grossi semi duri e un po' di polpa. Le banane che trovate al supermercato appartengono a una varietà coltivata, scelta dagli agricoltori per la sua polpa carnosa e la mancanza di semi. La domesticazione ha prodotto piante che, sebbene diano frutti dolci e saporiti, sono sterili: non possono riprodursi senza l'intervento umano. La maggior parte delle piante di banana non fa sesso da 10000 anni. Quasi ogni banana che mangiamo si è riprodotta propagandosi grazie alla mano dell'uomo dai rami, detti sucker, di una pianta esistente, il cui materiale genetico è identico da 100 secoli. Il risultato è che le banane sono estremamente esposte alle malattie. Molte specie hanno già dovuto soccombere a infezioni parassitarie come la Sigatoka nera e la malattia di Panama, che sono resistenti ai fungicidi. A meno che non venga presto creata una varietà geneticamente modificata, le banane potrebbero estinguersi tutte. È un problema grave. Le banane sono la coltura da esportazione più redditizia del mondo. Si tratta di un'industria da 12 miliardi di dollari l'anno che nutre 400 milioni di persone, molte delle quali vivono ben al di sotto della soglia di povertà. La maggior parte delle banane viene dai paesi caldi, ma il principale produttore europeo è l'Islanda. Le banane crescono in grandi serre scaldate con acqua geotermica, solo due gradi al di sotto del Circolo polare artico. La Fyffe, la multinazionale delle banane che compra l'intera produzione annua del Belize, è irlandese. Quali di questi frutti sono bacche? a)La fragola b)Il lampone c)La pesca d)Il cocomero Si definisce bacca «un frutto carnoso che contiene diversi semi». A rigor di termini, fragole, lamponi e more non sono bacche ma «drupe aggregate»: una drupa è un frutto carnoso che contiene un solo osso o nocciolo. Pesche, prugne, pesche noci e olive sono drupe. La più grande drupa del mondo è la noce di cocco, la quale, per via della sua polpa dura, è detta «drupa fibrosa». Fragole, lamponi e more sono drupe «aggregate» perché ogni frutto è in realtà un agglomerato di drupe in miniatura: le caratteristiche escrescenze che formano more e lamponi. Ciascuna di queste drupette contiene un singolo, minuscolo seme: i pezzettini che vi si
incastrano fra i denti quando mangiate una mora. Pomodori, arance, limoni, pompelmi, cocomeri, kiwi, cetrioli, uva, frutti della passione, papaya, peperoni e banane sono tutti bacche. Anche i mirtilli sono bacche. Quali di questi frutti sono noci? a)Le mandorle b)Le arachidi c)Le noci del Brasile d)Le noci Le noci sono un semplice frutto secco con un solo seme (molto di rado due) in cui l'ovario, quando è maturo, diventa durissimo. I veri alberi da noce comprendono il noce da frutto, il noce bianco, il noce americano dei generi Eucarya e Apocarya, il castagno (ma non l'ippocastano), il faggio, la quercia, la quercia del tannino, il nocciolo, il nocciolo lungo, il carpino, la betulla e l'ontano. Arachidi, mandorle, pistacchi, noci del Brasile, anacardi, noci di cocco, frutti dell'ippocastano e pinoli non sono noci. Le noci del Brasile non sono noci ma semi. Il guscio legnoso in cui nascono (fino a 24 per guscio) cresce in cima all'albero, a 45 metri dal suolo, e se vi cade addosso può uccidervi. In Brasile, i gusci si chiamano ouricos, «porcospini». Le mandorle sono il nocciolo di quella che era una drupa carnosa. Le arachidi appartengono in realtà alla famiglia delle leguminose e crescono sottoterra. Sono originarie del Sud America, ma adesso sono largamente coltivate soprattutto in Georgia, Stati Uniti. Alcune persone sono così allergiche alle arachidi che mangiarne una quantità minima (o addirittura inalarne la polvere) può essere fatale; queste persone possono essere o no allergiche anche alle noci vere e proprie. I pistacchi sono mortalmente pericolosi. Sono compresi nella classe 4.2 del Codice marittimo internazionale per il trasporto di merci pericolose: Materie soggette ad accensione spontanea. I pistacchi freschi, se ammucchiati e posti sotto pressione, possono andare a fuoco e provocare un incendio. I pistacchi continuano ad assorbire ossigeno ed espellere biossido di carbonio anche dopo la raccolta. Questo può rappresentare un serio problema per il trasporto via mare. Se manca una ventilazione adeguata, i marinai che entrano nella stiva di un cargo possono morire per avvelenamento da anidride carbonica o per mancanza di ossigeno. L'uomo mangia pistacchi da almeno 9000 anni. Secondo una leggenda musulmana, il pistacchio era uno dei frutti portati sulla terra da Adamo quando lasciò l'Eden. Se non vi disturba puzzare di burro di arachidi per due o tre giorni, il burro di arachidi è una fantastica schiuma da barba.
BARRY GOLDWATER
Che cosa c'è dentro una noce di cocco? Non latte, ma acqua di cocco. Il latte di cocco si produce facendo bollire la «polpa» bianca del cocco insieme all'acqua e filtrando il tutto. Se poi lo si lascia bollire ancora, si ottiene la crema di cocco. Il cocco è l'unica pianta a produrre un seme che contenga un liquido. A mano a mano che la noce cresce, il seme all'interno si trasforma in una massa dolce e spugnosa detta «pomo». Da qui nasce il cotiledone, che fuoriesce da uno dei tre fori presenti a un apice del frutto. L'acqua di cocco fresco è l'ideale per curare i postumi di una sbronza. È del tutto sterile, ricca di vitamine e minerali e ha lo stesso equilibrio di sali del sangue umano (il termine tecnico è che è isotonica). Per questo la si può usare al posto di una soluzione salina e ha conosciuto un vero e proprio boom commerciale come bevanda sportiva, soprattutto in Brasile, dove attualmente è un'industria da 75 milioni di dollari. Inoltre, l'acqua di cocco fermenta in fretta e può diventare vino o aceto. L'olio di cocco si usa per curare l'Aids. Lungi dall'essere l'olio più pericolosamente grasso del mondo, ora viene venduto come quello più salutare. È ricco di acido laurico, il grasso saturo che si trova nel latte materno, e di proprietà antivirali e antibatteriche. Si è anche dimostrato che riduce il colesterolo, poiché non entra nel flusso sanguigno ma va direttamente al fegato. Alcuni impieghi meno conosciuti della palma e della noce da cocco: la DaimlerChrysler attualmente usa la buccia (o fibra di cocco) per realizzare sedili biodegradabili sui suoi camion (più elastica della schiuma plastica espansa); si liquefa la radice per fare il colluttorio e si usa una farina derivata dal guscio per lavare i motori dei jet. La prima carrozzeria automobilistica a essere realizzata in cocco è già in progettazione. Per oltre trecento anni si sono tessute le lodi della palma da cocco, considerata l'albero più utile del mondo. Nei primi testi in sanscrito ci si riferiva a essa con l'espressione kalpa vriksha: l'albero che soddisfa tutti i bisogni. Su un'isola deserta, si potrebbe sopravvivere mangiando e bevendo soltanto cocco. Chi fu a scoprire l'Australia?
Si sente ancora tirare in ballo il capitano Cook ai ritrovi conviviali (anche se raramente a quelli australiani).
Cominciamo dall'inizio: nel primo viaggio sull'Endeavour (1768-71) Cook non era capitano ma tenente di vascello. E non fu il primo europeo a vedere quel continente – fu battuto di 150 anni dagli olandesi – e neanche il primo inglese a sbarcarvi. Quello fu William Dampier, che nel 1697 fu anche il primo a prendere nota di un «grande animale che salta». Dampier (1652-1715) era capitano di marina, pirata e bucaniere. Alexander Selkirk – il modello per Robinson Crusoe – era un membro del suo equipaggio. Fece tre volte il giro del mondo in nave, inventò la prima mappa dei venti ed è citato oltre 1000 volte nell'Oxford English Dictionary per aver introdotto nella lingua inglese parole come avocado, barbecue, albero del pane, anacardo, bacchette cinesi, insediamento e tortilla. Negli ultimi anni, si è spinto molto perché fossero riconosciuti i cinesi quali primi visitatori stranieri del continente. Esistono prove archeologiche che Zhang He (1371-1435), ammiraglio della grande dinastia Ming, fosse sbarcato presso Darwin nel 1432. Senza stare a mandar giù l'intera teoria su «Zhang He che scoprì tutto il mondo» inventata da Gavin Menzies nel suo best seller 1421. La Cina scopre l'America, sembrano esserci buone probabilità che quello straordinario viaggiatore quattrocentesco (era un musulmano e un eunuco) abbia effettivamente raggiunto la costa settentrionale dell'Australia. Dopo tutto i pescatori indonesiani, che andavano pazzi per i locali cetrioli di mare (che commerciavano coi cinesi), ci erano arrivati molti anni prima dei pionieri europei. Alcune delle popolazioni aborigene settentrionali, come gli Yolngu, addirittura impararono ad andare in barca e a pescare da questi visitatori d'oltremare, prendendo da loro parole, strumenti e le solite cattive abitudini (alcol e tabacco) nel corso del tempo. Naturalmente, i veri «scopritori» sono le popolazioni aborigene, che raggiunsero l'Australia più di 50000 anni fa. Sono presenti sul continente da 20000 generazioni, in confronto alle sole otto generazioni di europei. Si tratta di un bel po' di tempo: abbastanza perché abbiano assistito ai drammatici cambiamenti del loro ambiente. 30000 anni fa, il paesaggio dell'interno australiano aveva una vegetazione lussureggiante, laghi ricchi di acqua e montagne incappucciate di neve. Che cosa significa «canguro» in aborigeno? Non significa «non so», sebbene innumerevoli siti web e trivia books (i libri di curiosità) vi dicano altrimenti e lo citino come il primo, divertente esempio di fraintendimento culturale. La vera storia è molto più interessante. Nel XVIII secolo, in Australia c'erano almeno 700 tribù aborigene che parlavano 250 lingue diverse. Il termine inglese kangaroo o gangaru deriva dalla lingua Guugu Ymithirr di Botany Bay, in cui indica il wallaroo, cioè il canguro Macropus robustus. Quando i coloni inglesi si spostarono verso l'interno, usarono quel termine per riferirsi a qualsiasi canguro vecchio o al wallaby.
I Baagandji vivevano a 2250 chilometri da Botany Bay e non parlavano il Guugu Ymithirr. Udirono quell'insolita parola in bocca ai coloni inglesi e le diedero il significato di «animale di cui nessuno ha mai sentito parlare». Siccome non ne avevano mai visto uno, con kangaroo si riferivano (piuttosto ragionevolmente) ai cavalli dei coloni. Qual è la formazione rocciosa più grande del mondo? Non è Ayers Rock. Il Mount Augustus, o Burringurrah, in una parte remota dell'Australia occidentale, è il monolito più grande del mondo, oltre due volte e mezzo più grande dell'Uluru o Ayers Rock, nonché uno dei posti meno conosciuti ma più spettacolari del nostro pianeta. Si eleva di 858 metri sull'entroterra circostante, e il suo crinale è lungo più di 8 chilometri. Non solo è più grande e più alto dell'Illuni, ma la sua roccia è molto più vecchia. L'arenaria grigia che si vede è ciò che resta di un fondo marino depositatosi 1000 milioni di anni fa. La roccia fresca sotto l'arenaria è granito risalente a 1650 milioni di anni fa. L'arenaria più antica dell'Uluru ha soltanto 400 milioni di anni. Il Mount Augustus è sacro al popolo Wadjari e prende il nome da Burringurrah, un ragazzino che cercò di sfuggire alla propria iniziazione. Gli diedero la caccia, lo infilzarono per una gamba e infine delle donne armate di bastoni lo batterono a morte. La forma della roccia rappresenta il suo corpo prostrato, sdraiato sulla pancia, con una gamba piegata contro il petto e un moncone della lancia che ne sporge. Un ultimo boccone amaro per i fans di Ayers Rock: il Mount Augustus è, appunto, un monolito, cioè un unico pezzo di roccia. Uluru no. È solo la punta di una enorme formazione rocciosa sotterranea che comprende anche i monti Connor (Attila) e Olga (Kata Tjuta). A che cosa servivano i boomerang? A mettere ko i canguri? Pensateci bene. I boomerang sono fatti per tornare indietro. Sono leggeri e veloci. Anche quelli grandi è improbabile che procurino a un canguro maschio adulto di 80 chili qualcosa di più di un gran nervoso, e se un boomerang non mette ko un canguro allora è meglio che non torni. In realtà, originariamente non erano affatto dei bastoni. Li si usava per imitare i falchi e attirare la selvaggina di penna nelle reti tirate fra gli alberi: una sorta di cane da cerca in legno e a forma di banana. Non sono neanche esclusivi degli aborigeni. Il più vecchio strumento da lancio con ritorno è stato trovato nella grotta di Olazowa nei Carpazi polacchi: ha più di 18000 anni. I ricercatori l'hanno collaudato, e funziona ancora. Ciò suggerisce che l'uso dei boomerang abbia una lunghissima tradizione: la costruzione di un simile strumento richiede una enorme perizia; è improbabile che quello rinvenuto a
Olazowa fosse un pezzo unico. I più vecchi boomerang aborigeni hanno 14000 anni. Si ricorreva a diversi tipi di strumenti da lancio anche nell'Antico Egitto, fin dal 1340 a.C. In Europa occidentale, dal 100 d.C. circa i goti usarono uno strumento da lancio con ritorno detto cateia per cacciare gli uccelli. Nel VII secolo, l'arcivescovo di Siviglia Isidoro descrisse cos'è la cateia: Questa era la cateia, che era chiamata caia da Orazio. Si tratta di un proiettile delle genti galliche molto flessibile; che, se lanciato, non vola molto lontano, per via del suo grande peso, ma dove arriva colpisce molto forte. Si può rompere solo se scagliato con molta forza. Ma se viene lanciato dal suo artefice, ritorna nelle mani di chi l'ha scagliato.
Probabilmente, se gli aborigeni australiani divennero dei grandi esperti di boomerang, fu perché non svilupparono mai la tecnica di arco e frecce. Quasi tutti usano sia i boomerang sia dei bastoni da lancio che però non tornano indietro (noti come kylies). Il primo uso che si annoveri della parola «bou-mar-rang» risale al 1822. Deriva dalla lingua dei Turuwal, una popolazione stanziata sul George's River presso Sydney. I Turuwal usavano altri nomi per i loro bastoni da caccia, mentre con «boomerang» si riferivano a quelli da lancio con ritorno. I Turuwal appartengono al ceppo linguistico dei Dharuk. Molte delle parole aborigene usate in inglese, italiano e altre lingue vengono dalle lingue Dharuk, comprese wallaby, dingo, kookaburra e koala. Cosa c'è che non va in questa immagine?
Le dimensioni del pentolone sono sbagliate. Fabbricare un pentolone di metallo a tenuta stagna così grande da contenere una persona richiede una tecnologia industriale che nell'Ottocento era nuova anche in Occidente. In realtà, era molto più probabile essere fatti a pezzettini e arrostiti, oppure affumicati e messi sotto sale per servire prima o poi da spuntino. La parola «cannibale» deriva dal fraintendimento del nome di una tribù mesoamericana, i Caribi, da parte di Colombo nel 1495. Egli raccontò di essersi imbattuto nello scenario di un festino di «canibi» abbandonato da poco dove dei pezzi di membra umane bollivano in piccoli calderoni o arrostivano sugli spiedi. Altri esploratori raccontarono di aver incontrato cannibali in Sud America, Africa, Australia, Nuova Guinea e nel Pacifico. Il capitano Cook non aveva dubbi che i maori mangiassero i nemici catturati in battaglia. Nel corso del secondo viaggio, il suo tenente di
vascello, Charles Clerke, grigliò una porzione di testa per ordine di un guerriero maori il quale, annotò Clerke, «la divorò con grande voracità e si leccò più volte le dita in estasi». L'autorevole Il mito del cannibale di William Arens (1979) sosteneva che queste storie fossero bugie razziste inventate per giustificare il colonialismo occidentale. Tra gli antropologi, la conseguenza fu un periodo di «negazionismo del cannibalismo». Tuttavia, recenti scoperte hanno portato la maggior parte degli storici e antropologi ad accettare che il cannibalismo fosse praticato da molte culture tribali, soprattutto a scopo rituale e a volte per cibarsi. L'ultima società ad ammettere il cannibalismo rituale, la tribù fore della Nuova Guinea, smise a metà degli anni Cinquanta dopo un'epidemia di kuru, una malattia cerebrale che si contrae mangiando il cervello umano e il tessuto spinale. Ci sono anche delle testimonianze archeologiche. In Francia, Spagna e Gran Bretagna sono stati trovati mucchi di resti umani macellati. Alcuni dei resti inglesi risalgono al periodo compreso fra il 30 a.C. e il 130 d.C., e questo fa pensare che la convinzione dei romani secondo cui gli antichi britanni mangiavano le persone fosse giustificata. Nell'ottobre del 2003, gli abitanti di un villaggio nelle Fiji annunciarono che avrebbero rivolto delle scuse formali alla famiglia del reverendo Thomas Baker, un missionario inglese ucciso e mangiato dai loro avi nel 1867. Avevano cercato perfino di mangiargli gli stivali, che però si erano rivelati troppo duri. Vennero restituiti alla Chiesa metodista nel 1993. In quale religione si scagliano maledizioni piantando spilli nelle bambole? Non esistono tradizioni che prescrivano di conficcare spilli nelle bambole per fare del male a qualcuno, nel vudù (noto come vodun in Benin, voudou ad Haiti e vudu nella Repubblica domenicana). Le pratiche magiche del vudù sono complesse e nacquero in Africa occidentale prima di essere esportate nei Caraibi e in America. La guarigione è lo scopo della maggior parte dei rituali. Quanto di più simile esista a una «bambola vudù» è una statuetta di legno detta bocheo (letteralmente, «figura autoritaria») che ha dei forellini in cui, scegliendo il buco adatto, si infilano dei rametti per incanalarvi l'energia curativa. La tanto leggendaria bambola vudù deriva da una figura europea tradizionalmente usata nella stregoneria e la cui origine va fatta risalire alle bambole che si usavano nell'antica Grecia come effigi protettive, le kolossoi. La bambola, d'argilla, cera, cotone, granturco o frutta, diventò un simbolo della vita del soggetto: qualunque cosa venisse fatta a lei sarebbe accaduta alla persona. Il re Giacomo I vi accenna nella sua Demonologia (1603): «A qualcun altro a quell'epoca lui [il diavolo] insegnava come creare immagini di cera o argilla: cuocendole, la persona di cui portavano il nome sarebbe stata continuamente sciolta o seccata da malattie ininterrotte».
Furono i primi coloni e proprietari di schiavi a proiettare le pratiche proibite della «magia nera» europea sul vudù, aggiungendovi il cannibalismo, gli zombie e i sacrifici umani per dar sugo ai loro racconti. E furono queste storie a catturare l'immaginario popolare e a stimolare gli appetiti di registi e scrittori: l'idea del vudù come qualcosa di oscuro e pauroso ormai era fissata. L'idea di piantare spilli nella gente e la riflessione sulla sofferenza non sono del tutto estranee alla cristianità. Alcune delle immagini controriformiste più macabre della Crocifissione lasciano ben poco all'immaginazione. Il vudù ha fatto la pace con la cristianità: le due tradizioni convivono con reciproca felicità. Secondo un modo di dire locale, «gli abitanti di Haiti sono all'80 per cento cattolici e al 100 per cento vudù». Uno è un grande sostenitore della religione finché non visita un paese davvero religioso. Allora, diventa un grande sostenitore di fogne, macchine e salario minimo. ALDOUS HUXLEY
Quanti erano i Re Magi che andarono a trovare Gesù? Qualcosa tra due e venti. Si è generalmente presunto che fossero tre perché portarono tre doni, ma è possibilissimo che fossero quattro e che uno di loro, senza regalo perché i negozi erano chiusi, avesse dovuto partecipare all'incenso. Nel Vangelo di Matteo il numero di Magi non è mai menzionato. D'altro canto, sembra che Gesù fosse non un neonato ma un bambino piccolo, che viveva in una casa e non in una stalla. Quasi tutti gli studiosi concordano sul fatto che i Magi fossero sacerdoti-astrologi di Zoroastro, ma il loro numero varia da due a venti. Fu soltanto nel VI secolo che si stabilì il numero standard di tre. La Chiesa ha iniziato da poco a far marcia indietro al riguardo. Nel febbraio 2004, il sinodo generale della Chiesa d'Inghilterra decise una revisione del Libro della preghiera comune. Il comitato stabilì che i «magi» avevano preso il nome da una traslitterazione del nome usato dai funzionari della corte persiana, e che potevano anche essere donne. «Mentre sembra molto improbabile che i funzionari della corte persiana fossero donne, non si può completamente escludere la possibilità che uno o più Magi lo fossero, – conclude il rapporto. – "Magi" è una parola che non rivela nulla su numero, saggezza o sesso. I visitatori non erano necessariamente saggi e non erano necessariamente uomini». Di dov'è Babbo Natale? A seconda di quanti anni avete, la risposta può essere: del Polo Nord, della Lapponia o della Coca Cola. Nessuna di queste risposte è esatta: Babbo Natale, come san Giorgio, è
turco. San Nicola – il vero Babbo Natale – visse e fece miracoli in quella che oggi è nota come l'assolata città di Demre, nella Turchia sud-occidentale. I suoi famosi miracoli riguardavano di solito i bambini. Una volta ne resuscitò tre che erano stati fatti a pezzi dal proprietario della taverna locale e conservati in salamoia. La gentilezza coi bambini spiega perché fosse adatto a diventare un santo natalizio, ma san Nicola è anche il patrono di giudici, prestatori su pegno, ladri, mercanti, fornai, naviganti e, strano a dirsi, assassini. Nel 1087 le ossa di san Nicola, che miracolosamente essudavano mirra, vennero trafugate da alcuni marinai. La Turchia ne sta ancora chiedendo la restituzione. Nel resto d'Europa, il benevolo san Nicola si fuse con figure mitiche più antiche e oscure: in Germania orientale è noto come Capra pelosa, Spazzacamino o Cavaliere. In Olanda è Sinterklaas, assistito dal sinistro «Pietro il Nero». L'allegro Babbo Natale della Coca Cola esisteva già prima delle note immagini pubblicitarie di Haddon Sundblom degli anni Trenta. Le sue illustrazioni, e quelle di Thomas Nast negli anni Sessanta dell'Ottocento, si basavano su una poesia scritta nel 1823 dal newyorkese Clement Clarke Moore, Una visita di san Nicola (meglio conosciuta come La notte di Natale). Moore era un autore improbabile – faceva il professore di ebraico e lingue orientali – ma sarebbe difficile esasperare l'importanza che la sua poesia ebbe nell'alimentare il mito di Babbo Natale. Essa sposta la leggenda alla vigilia di Natale e, invece dell'arcigno san Nicola, descrive un elfo rotondetto, dagli occhi scintillanti e la barba bianca, coi vestiti rossi orlati di pelliccia, e delle renne dai nomi graziosi, una slitta che atterra sui tetti e un sacco pieno di giocattoli. Divenne una delle poesie infantili più popolari di tutti i tempi. Non è chiaro quando il Polo Nord e la fabbrica degli elfi siano entrati a far parte della storia, ma nel 1927 avevano attecchito abbastanza perché i finlandesi sostenessero che Babbo Natale viveva nella Lapponia finnica, visto che nessuna renna avrebbe potuto vivere al Polo Nord, dove non ci sono licheni. L'ufficio postale ufficiale di Babbo Natale si trova a Rovaniemi, capitale della Lapponia. Babbo Natale riceve 600000 lettere all'anno. Come per vendetta contro il suo successo mondano, nel 1969 il Vaticano declassò il giorno di Babbo Natale (il 6 dicembre) da festa obbligatoria a facoltativa. Di che cos'erano le scarpette di Cenerentola?
Di pelliccia di scoiattolo. Charles Perrault, che nel Seicento scrisse la versione della storia che tutti conosciamo,
fraintese la parola vair («pelliccia di scoiattolo») nel racconto medievale da lui mutuato e la cambiò in un termine dal suono simile, verre («cristallo»). Cenerentola è una storia antica e universale. Una versione cinese risale al IX secolo e ce ne sono altre 340 e più, prima di quella di Perrault. Nessuna delle versioni più antiche fa cenno a delle scarpette di cristallo. Nell'«originale» cinese, Yeh-Shen, sono in filo d'oro e con le suole d'oro massiccio. Nella versione scozzese Rashie-Coat sono di paglia. Nel racconto francese medievale, quello adattato da Perrault, sono descritte come pantoufles de vair: pantofoline in pelliccia di scoiattolo. Secondo una fonte, l'errore vair-verre si sarebbe verificato prima di Perrault, il quale non avrebbe fatto che ripeterlo. Secondo altri, le scarpette di cristallo sarebbero state una sua idea e Perrault le avrebbe sempre intese così. L'Oxford English Dictionary afferma che vair, usato sia in inglese sia in francese almeno fin dal Trecento, deriva dal latino varius, «variopinto», e si riferisce alla pelliccia di una specie di scoiattolo «molto usata per fare orli e guarnizioni». Su www.snopes.com si legge che Perrault potrebbe non aver scambiato vair per verre perché vair «non si usava a quell'epoca». Questo pare alquanto dubbio: il termine restò ininterrottamente in uso nella lingua inglese almeno fino al 1864. Perrault era un autore appartenente all'alta borghesia parigina che arrivò a diventare direttore dell'Académie Française. I suoi Racconti di Mamma l'Oca (1697), originariamente concepiti come intrattenimento di corte e pubblicati a nome del figlio diciassettenne, ebbero un immediato successo e inaugurarono un nuovo genere letterario: la fiaba. A parte Cenerentola, tra le sue famose versioni dei racconti classici ci sono La bella addormentata, Cappuccetto Rosso, Barbablù e Il gatto con gli stivali. Se da un lato Perrault migliorò Cenerentola – aggiunse i topini, la zucca e la fata madrina -, dall'altro ne ridusse la sanguinarietà contadina. Nell'originale medievale, le sorellastre si amputano la punta e la borsite degli alluci per infilarsi la scarpetta, e dopo che il principe sposa Cenerentola il re si vendica di loro e della malvagia matrigna costringendole a danzare fino alla morte con indosso degli stivali di ferro incandescente. Molta della sanguinarietà sarebbe poi stata reintrodotta dai fratelli Grimm. Nei Tre saggi sulla teoria della sessualità, Freud afferma che le scarpette sono un simbolo dei genitali femminili. Lo sapevi che gli scoiattoli sono i guanti da forno del diavolo? MISS PIGGY
Da dove vengono le spugne vegetali? Dagli alberi. Non dal mare – sarebbero spugne marine, no? – ma dagli alberi. Le luffe (le spugne vegetali, appunto) appartengono alla famiglia delle cucurbitacee e in tutta l'Asia vengono considerate un gustoso spuntino.
La luffa aegyptiaca è una pianta rampicante annuale che cresce in fretta e produce dei bei fiori gialli e dei frutti di strano aspetto, commestibili da acerbi e molto utili da maturi. Si tratta di una pianta che può arrivare ai 9 metri d'altezza e che si arrampica su qualunque cosa incontri sulla sua strada. Probabilmente originaria dell'Africa e dell'Asia tropicali, la luffa ha attecchito dappertutto nel continente asiatico; negli Stati Uniti, è coltivata a scopi commerciali per l'esportazione in Giappone. I frutti non ancora maturi, lunghi dai 7,5 ai 15 centimetri, possono essere saltati nell'olio interi o a fette, oppure li si può grattugiare in minestre e frittate. Qualunque frutto più lungo di 10 centimetri dev'essere sbucciato, perché la scorza è amara. Se li si lascia maturare sulla pianta finché non iniziano a diventare marroni e i gambi non prendono una colorazione giallognola, le spugne vegetali sono facili da sbucciare e possono essere impiegate come spazzole per la schiena, esfolianti per la pelle o «pagliette» per le pentole. Qual è il legno più robusto? La balsa. È il legno più duro del mondo, se lo si misura secondo i tre parametri di durezza, flessibilità e comprimibilità, più robusto della quercia o del pino. Sebbene sia il legno più morbido, in botanica non è un legno dolce ma duro. «Legno duro» è un'espressione botanica che descrive le latifoglie e gran parte della caducifoglie, vale a dire le angiosperme (piante coi fiori come la balsa), in opposizione alle pinofite (piante senza fiori come il pino). È anche leggero, naturalmente, sebbene non il più leggero del mondo: quello è originario della Nuova Zelanda ed è l'alberello del whau (pronuncia «fou»), che i pescatori maori usano per fare i sugheri. Balsa significa «zattera» in spagnolo. Il legno di balsa è tarmarepellente. Che cosa vi succede se succhiate la matita?
Niente di male, a parte sentirsi dire di non farlo. Le matite non contengono e non hanno mai contenuto piombo. Contengono grafite, una delle sei forme pure del carbonio, che non è più velenosa del legno che avvolge la mina. Anche la vernice oggi è senza piombo.
La confusione nasce dal fatto che, per più di 2000 anni, si è fatta la punta al piombo per scrivere sul papiro e sulla carta. L'unica miniera di grafite pura e solida che sia mai stata trovata fu scoperta per caso nella valle di Borrowdale, contea di Cumbria, nel 1564. Era protetta da leggi rigide e guardie armate, e se ne estraeva grafite per sei settimane all'anno soltanto. Il cosiddetto «piombo nero» (come veniva ed è ancora chiamata a volte la grafite in inglese) che la miniera produceva veniva tagliato in bastoncini squadrati: erano le prime matite, che presto vennero adottate in tutta Europa. Il primo a usarle di cui si abbia notizia fu il naturalista svizzero Konrad Gessner nel 1565. Henry David Thoreau, autore di Walden, fu il primo americano a cuocere insieme con successo grafite e argilla per realizzare un «piombo» da matita, ma il grande boom commerciale arrivò nel 1827, quando Joseph Dixon di Salem, Massachusetts, presentò una macchina in grado di produrre su vasta scala delle matite a sezione quadrata di grafite, a un ritmo di 132 al minuto. Quando egli morì nel 1869, la Joseph Dixon Crucible Company era leader mondiale con una produzione quotidiana di 86000 matite a sezione rotonda. Oggi la ditta (con il nome di Dixon Ticonderoga) è ancora uno dei maggiori produttori al mondo di matite. Roald Dahl scrisse tutti i suoi libri con una matita Dixon Ticonderoga gialla di durezza media. La tipica matita gialla risale al 1890, quando Joseph Hardmuth costruì la prima nella sua fabbrica di Praga e le diede il nome del famoso diamante giallo della regina Vittoria, il Koh-i-Noor (la sovrana aveva chiamato la linea pregiata di Hardmuth «le Kohi-Noor delle matite»). Altri produttori la copiarono. In Nord America, di tutte le matite vendute è giallo ben il 75 per cento. Alla matita media si può fare la punta per 17 volte; essa può scrivere 45000 parole o tracciare una linea retta di 56 chilometri. La gomma in fondo alla matita viene tenuta ferma da un aggeggio che si chiama ghiera. Il primo brevetto fu concesso nel 1858, ma la matita con la gomma non ebbe successo nelle scuole poiché gli insegnanti ritenevano che incoraggiasse la pigrizia. In quasi tutte le matite, in realtà la «gomma» è d'olio vegetale, con una minima quantità di gomma per tenerlo insieme. Anche quello che all'apparenza è il più comune, piccolo e semplice degli oggetti, può rivelarsi complesso e grandioso come uno shuttle spaziale o un grande ponte sospeso. HENRY PETROSKI
Dov'è stata inventata la capanna di tronchi d'albero? Probabilmente in Scandinavia, 4000 anni fa. Fu lo sviluppo degli strumenti metallici nell'età del bronzo a renderla possibile. Trattandosi di un riparo rapido da costruire e durevole, le capanne erano usate in lungo e
in largo in tutta l'Europa del nord. Gli antichi greci potrebbero però accampare delle pretese al riguardo: sebbene le foreste di conifere che un tempo ornavano il Mediterraneo si siano ormai ritirate, esiste una teoria secondo cui la casa minoica o micenea a una stanza o megaron era fatta in origine di tronchi orizzontali di pino. Fu grazie ai coloni svedesi e finlandesi insediatisi nel Delaware negli anni Trenta del Seicento che la capanna di tronchi d'albero raggiunse l'America, sua patria spirituale. I coloni inglesi, per altro, costruivano le proprie case con assi e non tronchi di legno. Un museo a Hodgenville, Kentucky, espone con orgoglio la famosa capanna in cui nacque Abramo Lincoln. In realtà, essa venne costruita trent'anni dopo la sua morte, il che ricorda sgradevolmente da vicino un vecchio strafalcione scolastico: «Abe Lincoln nacque in una capanna di tronchi d'albero che si era costruito con le sue stesse mani». Nonostante questa risibile falsità, l'US National Park Service raccomanda con solennità ai turisti di non usare il flash, per non danneggiare gli storici tronchi. Nell'età della pietra, dove si viveva? Lasciatelo perdere, quel cliché. «Cavernicoli» non è il modo corretto di descrivere la gente dell'età della pietra o paleolitico. Rientra nell'atteggiamento menefreghista di un certo insegnamento scolastico nei confronti della storia precedente i romani, molto di moda alla fine dell'Ottocento. Non è assolutamente in voga tra storici e archeologi contemporanei. Gli uomini del paleolitico erano cacciatori-raccoglitori nomadi che, di quando in quando, usavano le caverne. Sono stati identificati 277 siti in Europa, tra cui Altamira in Spagna, Lascaux in Francia e Creswell Crays nel Derbyshire: ci sono pitture e resti di fuochi, cibi cucinati, rituali e funerali, ma le caverne non erano considerate delle residenze permanenti. La più antica arte rupestre europea risalirebbe a 40000 anni fa, sebbene l'età precisa sia notoriamente difficile da stabilire. I materiali usati per la pittura non sono organici, quindi non si possono datare con il carbonio. La spiegazione più convincente sulla sua funzione deriva dalle pitture rupestri più recenti, quelle dei cacciatori-raccoglitori in Africa del sud e in Australia. Qui a farle erano gli sciamani, che andavano nelle caverne, spesso buie e remote, per entrare in contatto con il mondo degli spiriti. Un'altra teoria suggerisce che si trattasse semplicemente dei graffiti di qualche adolescente paleolitico. Nella Cina settentrionale, si stima che attualmente circa 40 milioni di persone vivano in case-caverne note come yaodong. Poiché nell'8000 a.C. la popolazione umana mondiale ammontava con ogni probabilità a soli 5 milioni, ci sono otto volte più cavernicoli oggi di quanta gente d'ogni tipo non ci fosse allora. Coloro che vivono nelle caverne sono detti trogloditi, dal greco per «coloro che entrano in una cavità».
Nei tempi moderni, delle abitazioni trogloditiche sono esistite in Cappadocia, in Andalusia, in New Mexico e nelle isole Canarie. I Sassi di Matera, proclamati patrimonio dell'umanità dall'Unesco, sono abitati almeno dal Neolitico. Più che la fine, potrebbe essere l'inizio di una tendenza. Una ricerca dell'università di Bath ha dimostrato che una casa sotterranea consuma il 25 per cento di energia in meno rispetto a una casa normale. Qual è stato il primo animale domestico?
a)La pecora b)Il maiale c)La renna d)Il cavallo e)Il cane Circa 14000 anni fa, i cacciatori-raccoglitori del paleolitico, su quello che oggi è il confine tra Russia e Mongolia, impararono a richiamare e allontanare le renne dai loro enormi gruppi migratori e ad allevarle in modo da avere una propria, piccola mandria. Le renne erano delle specie di negozietti ambulanti che offrivano carne, latte e pelliccia per vestirsi. È possibile che, in contemporanea, siano stati addestrati i cani perché aiutassero ad addomesticare le renne. Oggi ci sono circa 3 milioni di renne addomesticate, per la maggior parte nelle lande desolate della Lapponia, che si estende tra Svezia, Norvegia, Finlandia e Russia. «Caribù» è il nome che si dà alla renna nell'America del nord. Deriva da xalibu, «colui che scava» nella lingua Mi'Maq (o Micmac) del Canada orientale. Le renne/caribù usano i loro grandi zoccoli per aprirsi la via scavando tra i licheni sotto la neve. I licheni forniscono alla renna i due terzi della sua alimentazione. Le renne sono nomadi e percorrono fino a 4800 chilometri all'anno, la percorrenza record tra i mammiferi. Sono anche veloci, tanto da raggiungere i 77 chilometri orari a terra e i 9,6 in acqua. Per via di un tendine che ticchetta in una zampa, un branco di renne in migrazione sembra un ritrovo di nacchere. Ecco le date in cui si calcola sia avvenuta la domesticazione degli animali principali: Renne
circa 12000 a.C.
Cani (Europa, Asia, Nord America)
circa 12000 a.C.
Pecore (Asia sud-occidentale)
8000 a.C.
Maiali (Asia sud-occidentale, Cina)
8000 a.C.
Bovini (Asia sud-occidentale, India, Nord Africa)
6000 a.C.
La domesticazione è diversa dall'ammansimento. Implica l'allevamento selettivo. Gli elefanti si possono ammansire, ma non addomesticare. Da dove vengono i tacchini? Sebbene originari del Nord America, i tacchini domestici che allietavano le tavole dei Padri Pellegrini erano arrivati insieme a loro dall'Inghilterra. I primi tacchini raggiunsero l'Europa negli anni Venti del Cinquecento, prima portati in Spagna dal natio Messico e poi venduti in tutto il continente dai mercanti turchi. Ben presto diventarono uno dei piatti preferiti delle classi agiate. Nel 1585, il tacchino in Inghilterra faceva ormai parte della tradizione natalizia. Gli allevatori del Norfolk si diedero da fare per ottenere una nuova varietà di quell'uccello selvatico, più docile e con un petto più ampio. Il Norfolk Black e il Bianco d'Olanda, razze inglesi, vennero reintrodotte in America, e la gran parte dei tacchini domestici che si consumano oggi negli Stati Uniti ne sono i discendenti. A partire dal tardo Cinquecento, ogni anno i tacchini inglesi cominciarono a coprire i 160 chilometri che separavano il Norfolk dal Leadenhall Market di Londra. Era un viaggio che durava tre mesi; gli uccelli indossavano degli speciali stivaletti di pelle a protezione delle zampe. A occuparsi di un branco di 1000 tacchini erano di solito due braccianti, che si servivano di lunghi bastoni di salice o nocciolo con un pezzo di stoffa rossa legato ai capi. I grandi branchi che, nelle settimane prima di Natale, andavano a Londra dal Norfolk o dal Suffolk provocavano dei veri e propri ingorghi stradali. Nonostante in inglese vengano chiamati turkeys, i tacchini non hanno niente a che fare con la Turchia. In Inghilterra li si chiamava «polli turchi» per via dei commercianti che li vendevano. Il mais, anch'esso originario del Messico, viene chiamato «granturco» per la stessa ragione. Nella maggioranza degli altri paesi – Turchia inclusa – i tacchini hanno preso il nome dall'India, forse perché gli spagnoli lo portarono dalle «Indie» (così veniva chiamata l'America). Solo i portoghesi sono andati vicini alla verità battezzando il tacchino perù. Per definire questo gallinaceo, i nativi americani usavano la parola furkee; questo, almeno, secondo i Padri Pellegrini, anche se a quanto pare nessuno è riuscito a scoprire da quale lingua algonchina derivi. In lingua Choctaw si chiama fakit, termine basato sul verso dell'uccello. Perfino la scienza sembra indecisa su come chiamarlo. Il nome latino Meleagris gallopavo si traduce letteralmente «faraona pollo pavone» e sembra una scommessa linguistica. I tacchini sono gli animali più grandi a poter fare figli senza fare sesso: il risultato di
queste nascite verginali è una prole costituita da soli maschi, e invariabilmente sterili. Quasi tutte le lingue scrivono il gloglottio del tacchino come glu glu o kruk kruk. In ebraico, però, fanno mekarkerim. Chi nacque per Immacolata Concezione?
Maria. Molti non-cattolici ne saranno sorpresi: l'Immacolata Concezione si riferisce alla nascita della Vergine Maria e non alla nascita verginale di Gesù. Non a caso, viene spesso confusa proprio con il dogma della nascita verginale, grazie a cui Maria restò incinta di Gesù per mezzo dello Spirito Santo. Secondo il dogma dell'Immacolata Concezione, a Maria venne concessa l'immunità di ogni sospetto di peccato nel momento in cui fu concepita. Purtroppo, la Bibbia non fa alcun cenno a questo evento. Soltanto nel 1854 esso sarebbe diventato un dogma ufficiale della Chiesa cattolica. Molti teologi credono che tale dogma non sia necessario, in quanto Gesù redimerebbe chiunque anche se non ci fosse. La nascita verginale è un dogma centrale della Chiesa, ma questo non significa che non sia controverso. Ne parlano esplicitamente i vangeli di Luca e Matteo ma non quello di Marco, più antico, e nemmeno le ancora più antiche lettere di san Paolo. Proprio san Paolo, nella Lettera ai romani, afferma chiaramente che Gesù era «nato dalla stirpe di Davide secondo la carne». Sappiamo poi che neppure i primi ebrei cristiani, i cosiddetti nazareni, credevano nella nascita verginale. Gli elementi «sovrannaturali» presenti nella storia della vita di Gesù si sarebbero gonfiati a mano a mano che la nuova religione assorbiva le idee pagane per attrarre più persone. La nascita verginale non faceva parte della tradizione ebraica. Tuttavia, Perseo e Dioniso nella mitologia greca, Horus in quella egizia e Mitra, una divinità persiana il cui culto era popolare quanto quello cristiano, erano tutti «nati da vergini». Gesù nacque in una stalla? No. Non secondo il Nuovo Testamento. L'idea che Gesù sia nato in una stalla è una deduzione che deriva esclusivamente dal vangelo di Luca, secondo cui Cristo venne deposto «in una mangiatoia». Né la Bibbia accenna alla presenza di animali alla Natività. Naturalmente, abbiamo tutti ben presente la scena del presepe che vediamo nelle chiese e nelle scuole, ma stiamo parlando di mille anni prima che fosse inventato.
Si attribuisce a san Francesco d'Assisi la creazione del primo presepe, nel 1223, in una caverna nelle colline sopra Greccio. Mise un po' di fieno su una roccia piatta (visibile ancora oggi), vi posò sopra un neonato e aggiunse le sculture in legno di un bue e un asinello (ma niente Giuseppe, Maria, Re Magi, pastori, angeli o aragoste). Quante pecore c'erano sull'arca di Noè? Nella Bibbia, il brano che ci interessa è Genesi 7,2, dove Dio dice a Noè: «D'ogni animale mondo prendine con te sette paia, il maschio e la sua femmina; degli animali che non sono mondi un paio, il maschio e la sua femmina». Le bestie «immonde» sono l'estesa gamma di animali che agli ebrei era (ed è) proibito mangiare: maiali, cammelli, procavie delle rocce, camaleonti, anguille, lumache, furetti, lucertole, talpe, avvoltoi, cigni, gufi, pellicani, cicogne, aironi, pavoncelle, pipistrelli, corvi, cuculi e aquile. Gli animali «mondi» (commestibili) comprendono pecore, bovini, capre, antilopi e locuste. Quindi c'erano quattordici pecore sull'arca, non due come si insegna a catechismo. Lo conferma anche la Bibbia Douay-Rheims, l'autorevole versione cattolica della Vulgata latina pubblicata nel 1609: «Di tutte le bestie pulite sette e sette, il maschio e la donna prendono». Quindi sembra proprio che sull'arca ci fossero 14 pecore. I rabbini medievali persero un bel po' di tempo a dibattere se i pesci fossero stati lasciati ad arrangiarsi da soli col Diluvio, o se Noè li portò doverosamente a bordo dell'arca in un acquario. A metà Cinquecento, il grande geometra Johannes Buteo calcolò che l'arca di Noè avesse uno spazio utile di 350000 cubiti, dei quali 140000 occupati dal fieno. Il diluvio ci fu sul serio, però. Nelle culture di tutto il mondo esistono più di 500 miti intorno a un diluvio. L'uomo si è evoluto nel corso dell'ultima era glaciale. Verso la sua fine, a mano a mano che la temperatura saliva, ci furono grandi e catastrofici innalzamenti del livello del mare a causa dello scioglimento delle calotte glaciali. Si pensa che la storia di Noè descriva la scomparsa del delta di Tigri ed Eufrate sotto il golfo Persico. La terra, di cui c'era un'improvvisa penuria, non poteva più sostenere le società di caccia e raccolta, e così, per la prima volta, l'uomo fu costretto a trasformarsi in agricoltore. Gli aborigeni, la cui cultura e tradizione orale risale all'ultima era glaciale, possono nominare e localizzare montagne che 8000 anni fa, allo scioglimento delle calotte, diventarono sottomarine. Ogni verità scientifica passa attraverso tre stadi. Prima, dicono che è in conflitto con la Bibbia. Poi dicono che è già stata scoperta. Infine dicono di averci sempre creduto. LOUIS AGASSIZ
Dove si tennero le prime Olimpiadi moderne? A Much Wenlock, Shropshire, nel 1850. Vi si svolgevano ogni anno delle gare che avrebbero ispirato al barone Pierre de Coubertin l'organizzazione delle Olimpiadi di Atene nel 1896: «Much Wenlock è una città nello Shropshire, una contea ai confini con il Galles, e se i Giochi Olimpici che la Grecia moderna non è finora stata in grado di resuscitare sopravvivono ancora oggi è grazie non a un greco, ma al dottor W.P. Brookes». Brookes credeva che un rigoroso programma di allenamento fisico avrebbe aiutato le persone a essere dei cristiani migliori tenendole lontano dai pub. La sua conoscenza delle Olimpiadi antiche gli ispirò la fondazione della Much Wenlock Society for the Promulgation of Physical Culture nel 1841. La prima manifestazione degli annuali «Giochi Olimpici di Brookes» si tenne nel 1850; c'erano dei piccoli premi in denaro per corsa, salto in lungo, calcio, lancio degli anelli e cricket. A poco a poco si aggiunsero altre discipline, come la corsa con la carriola a occhi bendati, la corsa dei maiali e una giostra medievale. I vincitori venivano incoronati d'alloro e insigniti di medaglie con incisa Nike, la dea greca della vittoria. La fama delle Olimpiadi di Wenlock si diffuse rapidamente, e i giochi cominciarono ad attirare concorrenti da tutta la Gran Bretagna. Ne giunse notizia anche ad Atene, tanto che re Giorgio I degli Elleni mandò una medaglia d'argento da mettere in palio. Intenzionato a resuscitare le Olimpiadi su scala internazionale, nel 1865 Brookes fondò la National (British) Olympic Association, di cui organizzò i primi giochi al Crystal Palace di Londra. Senza sponsor, fu snobbato dagli sportivi più importanti del momento. Nel 1888 Brookes cominciò a corrispondere con de Coubertin. Nel 1890, il barone si recò ai giochi di Wenlock e piantò una quercia che ancora oggi si può vedere in paese. Quando tornò a casa, era deciso a riportare in vita le antiche Olimpiadi, e per questo fondò nel 1894 il Comitato olimpico internazionale. Grazie alla ricchezza, al prestigio e alle conoscenze politiche che poteva vantare, de Coubertin riuscì dove Brookes aveva fallito. E organizzò le prime Olimpiadi moderne ad Atene, nell'estate del 1896. Il dottor Brookes era morto l'anno prima, a ottantasei anni. Ancora oggi, ogni anno si tengono in suo onore i giochi di Wenlock. Perché una maratona è lunga 42,195 chilometri?
Per comodità della famiglia reale inglese. Alle prime tre Olimpiadi moderne, la maratona si correva su una distanza che, da edizione a edizione, variò tra i 40 e i 42 chilometri circa. Nel 1908, le Olimpiadi si tennero a Londra: la linea di partenza fu messa davanti a una finestra del castello di Windsor, da cui metà della famiglia reale poteva seguire la corsa, e il traguardo di fronte al palco reale al White City Stadium, dove l'altra metà della famiglia reale aspettava l'arrivo. Tale distanza
era di 42,195 chilometri, d'allora in poi la lunghezza standard di una maratona. L'origine della corsa risale a un messaggero greco di nome Filippide, che coprì di corsa la distanza da Maratona ad Atene per riferire la vittoria degli ateniesi sui persiani nel 490 a.C. Secondo la leggenda popolare, subito dopo aver comunicato la notizia morì. È un racconto eroico, ma fa acqua da tutte le parti. Pochissimi maratoneti muoiono dopo la corsa, e agli antichi corrieri greci veniva regolarmente chiesto di correre avanti e indietro. Questa versione della storia apparve per la prima volta oltre cinquecento anni dopo, nell'opera dello storico romano Plutarco (45-125 d.C. circa), il quale chiama Eucles il corridore. A quanto pare, Plutarco si confonde con il racconto su Filippide, molto più antico, fatto da Erodoto, il quale era nato sei anni dopo la battaglia e il cui resoconto è il più vicino agli eventi che abbiamo. Secondo Erodoto, Filippide corse da Maratona a Sparta (246 chilometri) per chiedere aiuto contro i persiani. Gli spartani erano al colmo di una festa religiosa, così Filippide tornò indietro e gli ateniesi dovettero combattere i persiani da soli. La loro fu una vittoria clamorosa: persero 192 uomini contro i 6400 persiani. Filippide non morì. L'ultra-running è la disciplina in cui rientra ogni corsa che sia più lunga di una maratona. Nel 1982, l'American Ultra-running Association rifece il vero percorso di Filippide (come concordato da un consulto di esperti greci) e nel 1983 lo battezzò Spartathlon. Il primo vincitore fu una leggenda moderna: il fondista greco Yannis Kouros. Attualmente, Kouros detiene ogni record mondiale dai 200 ai 1600 chilometri. Nel 2005, ha rifatto il tragitto completo di Filippide: andata e ritorno da Atene a Sparta, di corsa. Di dove sono i cappelli detti «panama»?
Dell'Ecuador. Apparvero per la prima volta in Europa e Nord America all'inizio dell'Ottocento, ed erano detti «panama» perché venivano esportati attraverso gli spedizionieri di stanza a Panama. In Inghilterra, la famiglia reale li scelse come copricapi estivi ideali, ed essi divennero ben presto accessori indispensabili per lo sport e le occasioni mondane all'aperto. Quando nel 1901 morì la regina Vittoria, in suo onore si aggiunse la fascia nera. Nelle Americhe, i cappelli erano una dotazione standard che si dava agli uomini impegnati nello scavo del Canale di Panama. Quando, nel 1906, il presidente Theodore Roosevelt vi fece visita, fu fotografato con un panama addosso. La fama del cappello era assicurata. Le sue origine sono antiche: sulla costa ecuadoriana sono state rinvenute delle statuette
di ceramica con dei curiosi copricapi che risalgono al 4000 a.C. Alcuni archeologi credono che le capacità di tessitura necessarie per fare un panama siano state acquisite grazie all'incontro con le popolazioni polinesiane del Pacifico, famose per la loro tela di lino. I primi spagnoli erano così spaventati dall'aspetto traslucido di quella stoffa che credevano fosse pelle di vampiro. I cappelli moderni risalgono al XVI secolo, e sono realizzati con le fibre intrecciate della palma di panama, un albero alto 30 metri detto jipijapa o toquilla (il nome scientifico è Carludovica palmata). Se ne producono soprattutto nelle città di Cuenca, sebbene i modelli più fini arrivino da Montecristi e Biblian. Il tempo necessario a produrre un panama può variare enormemente. La toquilla si può raccogliere per cinque soli giorni al mese, durante l'ultimo quarto lunare, quando la fibra della palma trattiene meno acqua, così che diventa più leggera e facile da tessere. Un abile tessitore può ricavare una fibra sottile come fosse un filo di seta. Si può confezionare un cappello di scarsa qualità in poche ore, ma uno di altissima qualità, o superfino, può richiedere cinque mesi di lavoro, prima che sia terminato e venduto per 1000 dollari. Nel 1985 la Conran Foundation nominò il panama tra i «cento migliori design di sempre» in occasione di una mostra al Victoria and Albert Museum di Londra. Lo stato dell'Ecuador prende il nome dal termine spagnolo per «equatore». Oltre che di cappelli, è il maggior esportatore mondiale di banane e legno di balsa per i modellini di aeroplano. Che cosa fa impazzire gli spermatozoi umani? Il profumo di mughetto. Sembra che gli spermatozoi dispongano di «nasi» con cui orientarsi verso l'ovulo femminile. I ricercatori hanno fatto svariati esperimenti con diverse fragranze floreali e il mughetto è arrivato primo: ha fatto svirgolare gli spermatozoi tutti nella stessa direzione e a una velocità doppia del normale. La ricerca fu condotta alla Ruhr-Universität in Germania nel 2003. Gli studiosi scoprirono una nuova proteina spermatica, hOR17-4, che si comporta come un recettore dello spermatozoo, esattamente allo stesso modo in cui i sensori proteici posti nel naso rilevano gli odori. Poi testarono il nuovo «naso» degli spermatozoi su centinaia di composti chimici, molti dei quali usati per riprodurre le essenze floreali nei profumi in commercio. Uno di questi, il bourgeonal, si usa per creare l'odore di mughetto. Ha due effetti sensazionali sul comportamento degli spermatozoi: ne raddoppia la velocità e ne cambia la nuotata casuale in movimento diretto. La maggiore rapidità sembra derivare dall'hOR17-4, che aumenta lo «scodinzolio» degli spermatozoi. Attualmente si ricorre al bourgeonal nelle cure per la fertilità, al fine di trovare il campione di nuoto del mondo spermatico.
Chi è stato l'americano più pericoloso della storia? J. Edgar Hoover? J. Robert Oppenheimer? George W. Bush? È probabile che sia stato Thomas Midgely, un chimico di Dayton, Ohio, che inventò sia i clorofluorocarburi sia il piombo additivo per la benzina. Nato nel 1889, Midgely era un ingegnere. Agli inizi della carriera scoprì per caso che, aggiungendo iodio al cherosene, un motore «batteva in testa» leggermente meno. Ma «leggermente» non gli bastava. Quindi imparò da zero la chimica e, per oltre sei anni, rimase sulla tavola periodica alla ricerca della soluzione perfetta. Nel 1921, la trovò. A quel punto, la ditta per cui lavorava si era fusa con la General Motors, bramosissima di aggiungere alla benzina per automobili quella scoperta che non batteva in testa. Era il piombo tetraetile. La benzina etilica trasformò il mondo moderno. Solo che era tossica, e per settant'anni avrebbe pompato nell'atmosfera miliardi di tonnellate di piombo, avvelenando migliaia di persone a partire dallo stesso Midgely (anche se lui lo avrebbe sempre negato). C'è chi pensa sia stato il suo senso di colpa per la benzina col piombo a spingerlo a sviluppare un'alternativa sicura ad agenti chimici nocivi come l'anidride solforosa e l'ammoniaca usati per la refrigerazione. La sua scoperta del diclorofluorometano – il primo freon – richiese tre giorni. I Cfc sembravano la soluzione perfetta: stabili, atossici, vantaggiosi. Sfortunatamente, oggi sappiamo che distruggono lo strato di ozono e, dal 1987, la loro produzione è stata internazionalmente bandita. Comunque lo si giudichi, Midgely era un uomo straordinario. Registrò 171 brevetti, amava la musica e scriveva poesie. Peccato che le sue invenzioni fossero letali. A cinquantun anni contrasse la poliomelite e perse l'uso delle gambe. Ultima ironia della sorte, l'imbracatura che aveva progettato per aiutarsi ad alzarsi e stendersi sul letto una mattina si ingarbugliò e, nella lotta che ne seguì, l'uomo più pericoloso d'America si strangolò per sbaglio. Aveva cinquantacinque anni. Qual è il contributo più duraturo dato dalla Croazia al mondo degli affari? La cravatta. Hrvat in croato significa proprio «croato» ed è da qui che viene la parola «cravatta». Croazia vuole dunque dire «terra della cravatta». Nel XVII secolo, Luigi XIII di Francia impiegò un reggimento di mercenari croati nella guerra dei Trent'anni. Della loro divisa faceva parte un fazzoletto da collo grande e dai colori vivaci grazie al quale i croati divennero famosi. Quello stile vistoso ma pratico fece scalpore a Parigi: nella capitale, l'abbigliamento militare era ammiratissimo. Sotto Luigi XIV, il fazzoletto venne rimpiazzato da un più sobrio steinkirk mollemente annodato al collo, ma fu soltanto quando i dandy (o «macaroni», così erano noti) reintrodussero il morbido fazzoletto a fine Settecento che i modi caratteristici di annodarlo divennero popolari, e il nome comune cambiò allora in «cravatta». La marcia inarrestabile della cravatta nel corso del XX secolo ne ha fatto l'accessorio de
rigueur per gli uomini in qualsiasi occupazione non sia estremamente informale. La Bremer Communication, una società statunitense di consulenza d'immagine, ha diviso l'ormai onnipresente abbigliamento «business casual» in tre livelli: base, standard e manageriale. Solo al livello base non è richiesta la cravatta, e si raccomanda di ricorrere a un abbigliamento base esclusivamente in «quei giorni in cui si hanno pochi contatti con i clienti o si è coinvolti in un'attività informale». Alla fine degli anni Novanta, due ricercatori della Cambridge University, con l'ausilio di alcuni modelli matematici, scoprirono che si possono fare 85 nodi diversi a una cravatta normale. In aggiunta ai quattro nodi più famosi, ne trovarono altri sei che producevano dei risultati esteticamente gradevoli. Perché fu inventata la lavastoviglie? Non per facilitare il compito di lavare i piatti. Il suo scopo principale era circoscrivere i danni causati dalla servitù, più che fungere da strumento che potesse risparmiare un po' di lavoro. La prima, vera lavastoviglie meccanica fu inventata nel 1886 da Josephine Garis Cochran (1839-1913) di Shelbyville, Illinois. Era figlia di un ingegnere civile e, da parte di madre, pronipote di quel John «Crazy» Fitch che aveva inventato il battello a vapore. Donna in vista dell'alta società, moglie di un commerciante e un politico, il suo più grande problema nella vita era preoccuparsi delle sue preziose porcellane (appartenevano alla famiglia fin dal XVII secolo) e delle cameriere che gliele rovinavano. Questo la mandava su tutte le furie e, così dice la storia, una sera licenziò la servitù, lavò lei stessa i piatti, si rese conto che era un lavoro impossibile e giurò che, se non l'avesse fatto nessun altro, l'avrebbe inventata lei una macchina che lavorasse al posto suo. Quando, nel 1883, suo marito William morì lasciandole un mare di debiti, Josephine passò ai fatti. Con l'aiuto di un amico ingegnere, progettò la macchina nella legnaia. Era rudimentale e ingombrante, ma funzionava. C'era una versione più piccola a pedale e una più grossa a vapore. La seconda, capace di lavare e asciugare 200 piatti in 2 minuti, fece scalpore all'Esposizione universale di Chicago nel 1893, tanto da vincere il primo premio come «miglior costruzione meccanica per durabilità e adattabilità alla propria linea di lavoro». A 250 dollari l'una, però, le lavastoviglie erano troppo care per l'uso domestico; ne furono comunque vendute abbastanza ad alberghi e ristoranti per mantenere in affari la Cochran Crescent Washing Machine Company fino alla morte di Josephine, avvenuta nel 1913. Tra il 1850 e il 1865, negli Stati Uniti erano state progettate altre lavastoviglie meccaniche (tutte, pare, da donne), ma nessuna funzionava bene. Una macchina di legno a manovella fu inventata e brevettata nel 1850 da Joel Houghton. Nel 1870, Mary Hobson ottenne il brevetto per una lavastoviglie, brevetto che però anche in quel caso conteneva la parola «miglioramento». La lavastoviglie elettrica fece la sua prima apparizione nel 1912; il primo detersivo unicamente per lavastoviglie (il Calgon) nel 1932; la prima lavastoviglie automatica nel 1940; tuttavia, non arrivò in Europa che nel 1960.
Il lavoro casalingo può ucciderti, se fatto bene. ERMA BOMBECK
A che cosa serve un vomitorium? Vomitorium, nonostante derivi dal latino vomere, che significa proprio «vomitare», non indica il luogo dove i romani rigettavano i loro pasti. Era il nome dell'ingresso o l'uscita di un anfiteatro e oggi è ancora usato in tal senso in alcuni stadi sportivi. I vomitoria del Colosseo a Roma erano progettati benissimo: addirittura, si diceva che l'anfiteatro, capace di ospitare almeno 50000 spettatori, potesse riempirsi in 15 minuti. (C'erano 80 ingressi a pianoterra, 76 per il pubblico normale e 4 per la famiglia imperiale). Lo scambio tra un'uscita e una camera speciale per vomitare sembra un errore recente. Oxford English Dictionary indica in Aldous Huxley il primo a usare a sproposito il termine nel romanzo umoristico Passo di danza (1923), e gli affianca il commento «erron.». Lewis Mumford, in La città nella storia (1961) rimescolò ulteriormente le carte dicendo che le uscite prendevano il nome dalle stanze in cui i buongustai vomitavano «per tornar poi sui loro lettucci abbastanza liberati da poter ingurgitare altro cibo». Il problema di questa teoria è che nessuno scrittore romano ne parla mai, né si sono trovate delle stanze speciali adibite a questo scopo. Di sicuro i romani vomitavano di proposito. A quanto pare, nei tempi antichi vomitare rientrava nella normale esperienza di un buon pasto. Cicerone, nel Pro Rege Deiotaro (45 a.C.), dice a Giulio Cesare «dopo cena hai detto di voler vomitare», e altrove ipotizza che il dittatore facesse uso di emetici. Ma dove vomitavano, se non c'era un locale apposta? Secondo alcune fonti, in strada e in giardino; secondo altre, sul tavolo. Nelle sue Lettere a Lucilio, il filosofo romano Seneca scrive: «Quando ci adagiamo a mensa, uno [schiavo] deterge gli sputi; un altro, curvo sotto i divani, raccoglie gli avanzi dei banchettanti ubriachi». Nella Consolatoria a Livia, sua madre, Seneca collega questa consuetudine alla decadente ricerca del nuovo e dell'esotico: «Vomitano per mangiare, mangiano per vomitare e non si degnano nemmeno di digerire quei cibi che cercano in tutto l'universo». Qual è la specie animale più coraggiosa? Il piccione viaggiatore, che ha ricevuto più della metà di tutte le Dickin Medals for Animai Bravery che siano mai state assegnate. L'onoreficenza fu istituita nel 1943 in Gran Bretagna dalla signora Maria Dickin, fondatrice del People's Dispensary for Sick Animals (Pdsa). Tra il 1943 e il 1949 il Pdsa diede 54 medaglie Dickin a 32 piccioni, 18 cani, 3 cavalli e un gatto. Ultimamente sono stati assegnati altri riconoscimenti, tra i quali soprattutto quelli a due cani guida: salvarono i loro padroni conducendoli giù per oltre settanta piani del World Trade Center l'11 settembre 2001. Per tutta la durata della Seconda guerra mondiale, si ricorse ai piccioni viaggiatori ogni volta che si interrompevano le comunicazioni o in caso di attacco. Uno dei primi a vincere
la medaglia Dickin fu Winkie, che era su un aereo quando il velivolo si schiantò. Winkie riuscì a scappare e a tornare dal suo padrone in Scozia. Dall'aspetto sporco e inzaccherato del piccione, il suo padrone poté calcolare a grandi linee per quanto avesse volato e, grazie a questa informazione e alle ultime coordinate note dell'aereo, l'equipaggio venne salvato. Pochi anni dopo, un piccione di nome Gustav fu dato al corrispondente di guerra Montague Taylor e affrontò un viaggio di oltre 240 chilometri per consegnare il reportage sullo sbarco in Normandia. Gustav fece una brutta fine dopo la guerra: stavano ripulendo la piccionaia e gli si sedettero addosso per sbaglio. Nel 1942, allo scienziato comportamentista B.F. Skinner venne l'idea di usare dei piccioni per guidare le armi. I piccioni venivano addestrati a guadagnarsi una ricompensa in cibo beccando l'immagine di una nave. Tre di loro furono poi messi sull'ogiva di un missile: una volta lanciati, avrebbero visto la nave attraverso uno schermo e l'avrebbero beccata, innescando un meccanismo correttivo collegato al sistema di guida del missile. Più la nave si avvicinava, più appariva grande sullo schermo e più i piccioni beccavano: un attimo prima di colpire il bersaglio ed essere cancellati dalla faccia della terra, sarebbero stati inondati di granaglie. Il sistema funzionava bene nelle simulazioni, ma la marina alla fine evitò di metterlo in pratica. Il lavoro svolto sulla tecnologia della guida per mezzo di piccioni non andò comunque sprecato del tutto: per un po', la guardia costiera statunitense usò i piccioni per guidare gli elicotteri di recupero. Gli uccelli venivano addestrati a beccare dei punti arancioni, il che significava poterli utilizzare nella ricerca dei giubbotti di salvataggio arancioni in mare aperto: la vista degli uccelli era 10 volte più acuta di quella dei piloti. Che cosa succede se tagliate a metà un lombrico? Ottenete le due metà di un verme morto, di solito. A volte la parte con la testa sopravvive, ma non si possono ricavare due vermi da uno. Alcune specie di vermi possono rigenerare delle parti amputate, a seconda di quanti segmenti del corpo hanno perso, e altre si disfano della coda per sfuggire ai predatori, ma la parte senza testa morirà sempre e comunque, e così succederà alla testa se non ha mantenuto abbastanza corpo. L'agonia delle parti amputate può andare avanti per ore ed essere facilmente scambiata per un fermento vitale. L'idea che entrambe le parti diventino un verme sembra essere nata allo scopo di fare star zitti i bambini. È un peccato che nessuno trovi il tempo di dirvi che non è vero se non quando siete adulti. Il nastro che c'è a un terzo della lunghezza del corpo di un verme non è la «giuntura» da cui cresce il «verme nuovo». Si chiama ditello ed è responsabile della secrezione del muco appiccicoso e chiaro che riveste il verme. C'è un platelminte d'acqua dolce detto planaria che vanta una straordinaria capacità di rigenerazione quando viene danneggiato. T. H. Morgan (1866-1945), genetista americano e premio Nobel, scoprì che un pezzo di planaria lungo 1/279 dell'originale poteva
rigenerarsi in una planaria di dimensioni normali, e che una planaria divisa in senso sagittale o trasversale si rigenera in due individui separati. Dov'è più probabile che vi sorprenda una grandinata? Nelle Highlands occidentali del Kenya, in Africa. In termini di media annuale, la città keniota di Kericho è più soggetta alla grandine di qualunque altra parte del mondo: ne cade per 132 giorni su 365. In confronto, la Gran Bretagna ha una media di 15 giorni all'anno di grandine, e la zona che ne è maggiormente afflitta negli Stati Uniti, le Montagne Rocciose orientali, ne fanno un'esperienza media di 45 giorni. Non si capisce appieno che cosa provochi l'abbondanza di grandine. Kericho è la patria delle piantagioni di tè keniote, e nel 1978 uno studio dimostrò che lo strame delle piante di tè si mescolava nell'atmosfera e agiva come un nucleo intorno al quale si sviluppavano i chicchi di grandine. Un'altra teoria è che la responsabile del fenomeno potrebbe essere l'elevata altitudine della regione, poiché la conformazione del terreno provoca un grande sollevamento d'aria calda che condensa velocemente. Questo, e la breve distanza tra la zona di ghiacciamento (circa 5 chilometri più in su) e la terra, riduce la possibilità che i chicchi di grandine si sciolgano. I chicchi di grandine hanno un diametro medio di circa mezzo centimetro, ma possono diventare abbastanza grandi da ammaccare la carrozzeria delle automobili, mandare in frantumi le serre e persino ferire le persone. Il più grande chicco di grandine che si ricordi negli Stati Uniti aveva un diametro di 18 centimetri, una circonferenza di circa mezzo metro e pesava quasi mezzo chilo. Cadde sul retro di una casa ad Aurora, Nebraska, nel giugno 2003. Non rientrava nella scala usata negli Stati Uniti per descrivere i chicchi di grandine, che parte da «pisello» e sale progressivamente fino a «palla da softball», passando per «pallina di naftalina», «noce» e «tazza da tè». Il chicco di grandine di Aurora aveva le dimensioni di un piccolo melone e aveva colpito il terreno a una velocità di 160 chilometri all'ora. La grandine costa ogni anno agli Stati Uniti un miliardo di dollari in danni a proprietà e coltivazioni. Una grandinata che colpì Monaco di Baviera nel luglio del 1984 causò danni per un miliardo e mezzo di marchi tedeschi ad alberi, edifici e veicoli a motore in un solo pomeriggio. Agli alberi fu strappata la corteccia e vennero distrutti interi campi coltivati. Oltre 70000 edifici e 250000 macchine subirono dei danni e più di 400 persone rimasero ferite. Tuttavia, la peggior grandinata del mondo si verificò nella provincia di Gopalganj in Bangladesh, il 14 aprile del 1986. Certi chicchi pesavano più di un chilo e restarono uccise almeno 92 persone. In verità, il brutto tempo non esiste, esistono solo diversi tipi di bel tempo. JOHN RUSKIN
Che cosa c'è di interessante nella nascita di Giulio Cesare? Non si sa quasi nulla della nascita di Giulio Cesare, se non che, diversamente da quanto asserito in innumerevoli opere di consultazione, non avvenne per parto cesareo. Non che operazioni del genere all'epoca non si facessero, ma comportavano sempre la morte della madre, ed è noto che la madre di Cesare, Aurelia, visse piuttosto a lungo. L'idea che egli fosse nato per parto cesareo non appare in nessuna fonte a lui contemporanea, ed è menzionata per la prima volta in epoca medievale. È probabile che la confusione sia iniziata con Plinio il Vecchio, il quale, nella Storia naturale (77 d.C. circa), afferma che il primo Cesare era nato «del taglio cesareo praticato alla madre». Questo può benissimo essere vero, ma non si trattava di quel Cesare che conosciamo con il nome di Gaio Giulio Cesare. Secondo la consuetudine romana dei tre nomi, Gaio era il nome «di battesimo», Giulio significava che apparteneva al ramo «Cesare» della gens «Julia», quindi nessuno sa quanti Cesari ci fossero già stati. Né sappiamo esattamente che cosa voglia dire «Cesare», e nessuno dei possibili significati si adatta al nostro uomo. C'è il «taglio» di Plinio da caedere; o caesaries, cioè «capigliatura» (ma lui perdeva i capelli); o caesius, che significa «verdastro» (ma lui aveva gli occhi neri) o anche «elefante» (dal fenicio, forse attribuito a un avo giuliano che ne aveva ucciso uno). I romani pronunciavano «Cesare» Kaiser (che, a tutt'oggi, in tedesco significa imperatore e che, come zar in russo, in definitiva deriva da Cesare). Tutti gli imperatori romani dopo Giulio e fino ad Adriano si sarebbero chiamati «Cesare». La Ceasar Salad non c'entra nulla, comunque. Fu inventata da Cesare Cardini in un ristorante italiano a Tijuana, in Messico, nel 1923. In che anno è finita la Seconda guerra mondiale? Nel 1990. Anche se le vere e proprie ostilità si conclusero con la resa giapponese firmata il 2 settembre 1945, la Guerra fredda mise i bastoni fra le ruote a una risoluzione formale legale. Nel 1950, furono ratificati i trattati di pace con Italia, Romania, Ungheria, Bulgaria e Finlandia. Tutti gli Alleati tranne l'Unione Sovietica firmarono un trattato con il Giappone nel 1951. L'Austria dovette aspettare il '55 per tornare a essere uno stato sovrano. La Germania fu invece divisa tra le potenze occidentali e l'Unione Sovietica, e non fu ratificato alcun trattato di pace con quella che nel 1949 era diventata la Repubblica democratica tedesca. Quindi è stata la prima celebrazione della riunificazione tedesca, avvenuta il 3 ottobre 1990, a segnare la fine ufficiale della Seconda guerra mondiale. Gli Stati Uniti hanno dichiarato formalmente guerra solo 11 volte: 2 contro la Germania, 2 contro l'Ungheria (nel 1917 contro l'impero austroungarico, e nel 1942) e una contro Romania ('42), Bulgaria ('42), Italia ('41), Giappone ('41), Spagna (1898), Messico (1898) e Regno Unito (1812).
La guerra del Vietnam e le due campagne irachene non sono state precedute da dichiarazioni di guerra formali; si è trattato di «impegni militari autorizzati dal Congresso». Grazie al War Powers Act (Risoluzione dei poteri di guerra) del 1973, al presidente è stata data l'autorità di schierare le truppe (di una certa entità ed entro certi limiti di tempo) senza una dichiarazione formale. Le dichiarazioni formali piacciono poco, perché legittimano regimi non riconosciuti o impopolari. La guerra in Corea non fu né dichiarata formalmente né approvata dal Congresso e, sebbene le ostilità siano cessate nel 1953, non è mai stato firmato un trattato di pace con la Corea del Nord. La guerra più lunga combattuta dagli Stati Uniti fu quella contro gli Apache, che durò 46 anni e terminò nel 1886 con la resa di Geronimo allo Skeleton Canyon, New Mexico. La guerra è il sistema scelto da Dio per insegnare agli americani la geografia. AMBROSE BIERCE
Un virus è un germe? Sì, «germe» è un termine informale per definire qualsiasi agente biologico che provochi una malattia all'organismo che lo ospita, e quindi copre sia i virus sia i batteri. Virus e batteri sono piuttosto diversi. I virus sono parassiti microscopici, troppo piccoli per avere cellule o perfino un metabolismo proprio. La loro crescita dipende interamente dall'ospite. Ogni cellula dell'ospite infettato diventa una fabbrica capace di produrre migliaia di copie del virus invasore. Il comune raffreddore, il vaiolo, l'Aids e l'herpes sono infezioni virali e si possono curare con un vaccino, ma non con gli antibiotici. I batteri sono organismi semplici ma cellulari, i più numerosi di tutti. Ce ne sono circa 10000 specie che vivono dentro e sul corpo umano – una persona in salute ha 10 volte più cellule batteriche che cellule umane – e costituiscono circa il 10 per cento della massa magra. Per la grande maggioranza sono benigni, e molti addirittura benefici. Le malattie batteriche comprendono il tetano, la febbre tifoidea, la polmonite, la sifilide, il colera, le intossicazioni alimentari, la lebbra e la tubercolosi e si possono curare con gli antibiotici. La parola «germe» deriva dal latino germen, che significa «germoglio» o «gemma». Nel 1871 fu usata per la prima volta al fine di descrivere un microrganismo nocivo; soltanto nel 1875 Robert Koch dimostrò che l'antrace era causato da un particolare tipo di batterio. Trentacinque anni prima, Ignaz Semmelweis, un medico ungherese, aveva allestito presso l'Ospedale generale di Vienna il primo reparto d'igiene. Aveva notato che la mortalità fra le donne povere assistite dalle ostetriche era tre volte inferiore a quello delle donne più benestanti assistite dai medici. Ne concluse che fosse questione di pulizia: i medici passavano direttamente dall'obitorio alla maternità senza lavarsi le mani. Quando espose ciò che aveva intuito, i suoi colleghi respinsero la sua teoria, incapaci di credere a ciò che non potevano vedere. In questi ultimi anni, tuttavia, è la stessa igiene a trovarsi sotto esame. Sembra davvero
che l'uso indiscriminato di agenti antibatterici possa avere degli effetti collaterali nocivi, permettendo invece ai batteri che sopravvivono di mutare in specie ancora più virulente. Inoltre il nostro sistema immunitario, privato dei batteri e dei parassiti contro cui ha combattuto per migliaia di anni, tende a reagire troppo, il che ha comportato una decisa impennata delle malattie allergiche come l'asma, il diabete e le artriti reumatiche. Ciò nonostante, le malattie infettive continuano a uccidere più persone di qualsiasi altra cosa e l'8o per cento di esse si trasmette per contatto. Gli igienisti consigliano quasi tutti di lavarsi regolarmente le mani con la buona, vecchia saponetta: è il modo migliore e più sicuro di rimanere in salute. Da dove vengono i segni di uguaglianza? Dal Galles. Questo elemento fondamentale della matematica non è stata un'invenzione dei greci, dei Babilonesi o degli Arabi, ma della piccola città costiera di Tenby nel Galles del Sud. Qui, nel 1510, nacque l'astronomo e matematico Robert Recorde: un bambino prodigio che salì alla ribalta quando divenne prima medico reale di Edoardo VI e della regina Maria, e poi ispettore della Zecca reale. Fu anche un autore prolifico, e scrisse una sfilza di popolari manuali di matematica, tra i quali il più famoso è The Whetstone of Witte («la pietra per affilare l'ingegno», 1557). Recorde non solo fece conoscere l'algebra agli inglesi; per la prima volta, adottò il segno di uguaglianza =. La ragione per cui Recorde scelse due trattini paralleli è molto pertinente: «Perché non possono esserci più di due cose uguali». Ci volle del tempo perché il simbolo prendesse piede: nel XVII secolo, || e ae (da «aequalis») erano altrettanto usati. Un'invenzione di Recorde che non attecchì fu il suo termine per definire i numeri all'ottava potenza, come 28=256. Zenzizenzizenzic si basava sul tedesco zenzic, una versione dell'italiano censo cioè «quadrato» (perciò significava: «x quadrato, quadrato e ancora quadrato»); detiene comunque il record per la parola con il maggior numero di zeta. Nonostante la sua destrezza coi numeri, Recorde era meno bravo quando si trattava di soldi. Il suo scarso discernimento politico lo portò a inimicarsi il conte di Pembroke, il quale gli richiese il pagamento di un debito per l'allora astronomica cifra di 1000 sterline. Recorde si ritrovò sul lastrico e morì nella prigione per i debitori insolventi di King's Bench a Southwork, a quarantotto anni. Chi è l'uomo più vecchio della Bibbia? Enoch, il padre di Matusalemme, tanto che è ancora vivo. Ha 5387 anni, settimana più, settimana meno. Matusalemme non arrivò che a 969 miseri anni. Matusalemme è diventato famoso grazie al fatto di essere l'uomo più vecchio mai vissuto; tuttavia, secondo la Bibbia, non era tanto più anziano del nonno Iared, che arrivò
a 962. La linea diretta dei discendenti di Adamo fino al Diluvio (con le rispettive età) è questa: Adamo (930); Seth (912); Enos (905); Kenan (910); Maalaleel (895); Iared (962); Enoch (365); Matusalemme (969); Lamech (777); Noè (950). Sebbene tutti questi personaggi fossero anormalmente vecchi, tutti loro tranne uno morirono in modo normalissimo. Fa eccezione il misterioso Enoch, che era un ragazzino di soli 365 anni quando «Dio lo prese». Enoch non è mai morto: cosa di cui non può vantarsi nemmeno Gesù Cristo. Nel Nuovo Testamento, san Paolo ripete la storia dell'immortalità di Enoch nella Lettera agli ebrei. «Per fede Enoch fu rapito perché non vedesse la morte; e non fu più trovato, perché Dio lo aveva portato via; infatti prima che fosse portato via ebbe la testimonianza di essere stato gradito a Dio» (Ebrei 11,5). Il filosofo francese Cartesio credeva che ogni essere umano avrebbe potuto vivere quanto i patriarchi biblici – circa mille anni – ed era convinto di essere sul punto di svelare il segreto quando morì nel 1650, a cinquantaquattro anni. Il dottore mi ha detto che fare jogging può farmi vivere più a lungo. Credo che avesse ragione. Mi sento già più vecchio di dieci anni. MILTON BERLE
Da che cosa deriva la parola «assassino»? Non da hashish. La voce più autorevole a sostenere che la setta religiosa medievale dei cosiddetti Assassini faceva uso di hashish per assistere ai piaceri che li attendevano dopo la morte è il notoriamente inaffidabile Marco Polo. La gran parte degli studiosi islamici optano ormai per un'etimologia più convincente: hašīšiyyūn, cioè fedeli all'asās, il «fondamento» della fede. Essi erano, letteralmente, dei «fondamentalisti». Ha senso, se fate caso a quali fossero le loro occupazioni più importanti. Gli AlHashishin o Nizariti, come si chiamavano tra loro, furono attivi per 200 anni. Erano musulmani sciiti, e il loro scopo era rovesciare il califfo sunnita (una sorta di sovrano musulmano). Gli Assassini consideravano il regime di Baghdad decadente, ridotto a fantoccio dei turchi. Vi suona familiare? La setta fu fondata nel 1090 da Hasan ibn al-Sabbāh, un filosofo mistico, innamorato della poesia e della scienza. Gli Assassini si sistemarono ad Alamut, una fortezza impenetrabile nelle montagne a sud del Mar Caspio che ospitava un'importante biblioteca e splendidi giardini. Fu però la strategia politica di Hasan a dare fama alla setta. Egli decise che avrebbero potuto esercitare un'enorme influenza usando una semplice arma: il terrore. Vestiti da mercanti e da religiosi selezionavano e uccidevano le loro vittime in pubblico, di solito alla preghiera del venerdì, dentro la moschea. Non erano esplicitamente delle missioni «suicide», ma quasi sempre gli attentatori rimanevano uccisi. Riuscirono benissimo in ciò che si erano prefissati: eliminarono sistematicamente tutti i
principali leader del mondo musulmano e distrussero con efficacia qualunque possibilità di organizzare una comune difesa araba contro le Crociate occidentali. A sconfiggerli fu infine, per ironia della sorte, esattamente ciò che sconfiggeva i loro avversari. Nel 1256 Hulagu Khan raccolse il più grande esercito mongolo che si fosse mai visto. I mongoli marciarono verso ovest e distrussero il centro di potere degli Assassini ad Alamut, prima di mettere a ferro e fuoco Baghdad nel 1258. Allora Baghdad era la più bella e civilizzata città del mondo. Morì un milione di civili, e finirono tanti di quei libri nel Tigri che il fiume diventò nero d'inchiostro. Da quel momento, la città sarebbe rimasta un cumulo di rovine per centinaia di anni. Hulagu spazzò via califfi e assassini. Portò l'Islam in Egitto e poi se ne tornò a casa, dove morì, in perfetto stile mongolo, nel corso di una guerra civile. Con cosa si fa il caffè? Coi semi di caffè, non con i chicchi. In realtà, il caffè è un frutto. Quelli che chiamiamo «chicchi» ne sono i semi, botanicamente parlando. L'albero di caffè produce un fiore bianco e delicato, simile al gelsomino, che dura soltanto pochi giorni. Ai fiori succedono dei frutti detti «ciliegie del caffè», le quali quando giungono a maturazione prendono un colore rosso acceso. La buccia della ciliegia è amara, ma la polpa è dolcissima, con un vago sapore d'uva. Dentro a svariati strati ulteriori ci sono due semi verde-bluastri. La pianta del caffè è un sempreverde che cresce fino a un'altezza di 6 metri, ma viene potato a 2,5-3 metri. I raccoglitori possono raccogliere 50-100 chilogrammi di ciliegie del caffè al giorno. Solo il 20 per cento di tale quantità è costituito dal vero e proprio seme. Ci vogliono circa 2000 ciliegie di Coffea arabica per produrre mezzo chilo di caffè tostato. Poiché ogni ciliegia contiene due semi, il vostro mezzo chilo di caffè nasce da 4000 «chicchi». Nel 5-10 per cento dei casi, in qualunque raccolta di caffè, la ciliegia contiene un seme solo. In inglese, si chiama peaberry e ha un aroma decisamente diverso, più forte del normale. Non bevo mai caffè a pranzo. Trovo che mi tiene sveglio nel pomeriggio. RONALD REAGAN
Che cosa è Quite Interesting? L'ignoranza è simile ad un delicato frutto esotico; toccatelo e la sua freschezza è sfiorita. OSCAR WILDE
QI sta per «Quite Interesting», Quantomai Interessante. Non pretendiamo di essere Quantomai Giusti. Se avete risposte migliori a qualunque nostra domanda, o se avete delle domande nuove da proporre, ci piacerebbe conoscerle.
Online ci trovate su www.qi.com/books, altrimenti siamo al nostro caffè letterario, all'indirizzo The QI Building, 16 Turl Street, Oxford. Questo libro è un distillato dei tentativi di molti individui di capire il mondo che li circonda, ma è in debito soprattutto con la squadra di ricerca del QI, un gruppo di persone ad alto tasso di curiosità, bassa soglia di noia e una certa arte nel porre domande difficili. Dobbiamo dei ringraziamenti speciali a Piers Fletcher, Justin Gayner, Chris Gray, James Harkin, Mat Coward, Justin Pollard, Garrick Alder, Molly Oldfield e Dan Schreiber. Hanno formato il miglior team di domande da pub al mondo. Inoltre, tanto di cappello alla professionalità e al gusto dei nostri editori Julian Loose, Stephen Page e dei loro colleghi alla Faber&Faber; ai nostri partner di produzione, Sarah Chaloner, Beatrice Gay e la squadra del Talkback Thames; e a Mark Freeland e Peter Fincham alla Bbc, per aver avuto il coraggio delle loro idee. Una volta, John Le Carré disse con rammarico che «vedere i propri libri trasformati in film è come vedere i propri buoi trasformati in dadi per brodo». Tenendolo bene a mente, dovremmo ringraziare le centinaia di scienziati, filosofi, storici, inventori, santi e visionari di cui noi abbiamo stagliuzzato, scremato, bollito e mantecato l'opera originale per fare il libro che avete in mano proprio in questo momento.