Il conoscitore di segreti: una biografìa intellettuale di Grazia Marchianò
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Zitiervorschau

Elémire Zolla

Il conoscitore di segreti Una biografìa intellettuale di Grazia Marchianò

Rizzoli

Quando un uomo se n'è andato per sempre, porta un segreto con sé: come a lui, proprio a lui — sia stato possibile, in senso spirituale, vivere. Hugo von Hofmannsthal

Due parole preliminari

Poco dopo la morte di Elémire Zolla, occorsa a Montepulciano il 29 maggio 2002, la Encyclopedia ofReligion pubblicata da Macmillan m'invitò ad allestire per la seconda edizione, in programma nel 2004, un profilo dello scrittore in 1200 parole, oltre allo spazio per la bibliografia ragionata e la ricezione critica. Nella lettera che mi conferiva l'incarico, mi si invitava a illustrare «le vite» di Elémire Zolla: una richiesta che mi colpi per la sua strana esattezza, come se chi scriveva fosse perfettamente al corrente di quello che tante volte qui, in Italia, era parso un vezzo dello scrittore la confessione, cioè, di aver vissuto svariate vite in una, morendo alla vecchia identità ogni volta che se ne foggiava una nuova. Fu l'inaspettato uso al plurale della parola «vita» che mi diede il coraggio necessario a «raccontare» Zolla in 1200 parole.* Seppure lo spazio qui a disposizione sia molto maggiore, non per questo è stato più agevole il compito di scavare la personalità dello scrittore per chi ha avuto la ventura di condividere almeno un paio di quelle sue vite e un fascio di esperienze intellettuali incancellabili. Dopo aver montato e smontato svariate versioni del manoscritto nel tentativo di adeguarlo a un modello di biografia standard, se mai ne esiste uno, mi sono persuasa che la sola via percorribile nel mio caso era di immergere lo sguardo quanto più a fondo nei mondi mentali di Zolla, nelle idee ripide e, in più d'un * Encyclopedia ofReligion, a cura di Lindsay Jones, Macmillan, New York, voi. 1 4 ,

pp. 9984-9987.

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caso estreme, che hanno tramato i suoi scritti e deciso in gran parte degli andamenti scoscesi della sua vita unica e multipla. Nelle stanze in cui, da una stagione all'altra del dopo Zolla, prendeva forma II conoscitore di segreti in un affastellio vertiginoso di carte, cartelle, fascicoli, raccoglitori d'archivio e materiali di corrispondenza provenienti da ogni dove, venivano a lambirsi due maree cartacee, due fiotti distinti di attenzione a quel che Zolla scrisse, pensò, dichiarò pubblicamente o confidò a bassa voce in privato. Da una parte le recensioni, gli articoli di giornalisti, intervistatori, studiosi e autori che, a loro volta, hanno commentato i suoi libri, criticato le sue idee, dialogato con lui in modo diretto e indiretto in una gamma assai ampia di atteggiamenti e posizioni, costruttive e distruttive, osannanti e ingiuriose ma tiepide quasi mai, competenti e attente più o meno, a seconda di un insieme di fattori legati all'aria del momento, alle convinzioni personali, alla preparazione culturale e alla correttezza di chi si firmava, come accade in tutti i casi nei quali le idee di un autore e la sua opera non passano inosservate e suscitano sentimenti e reazioni che blande e concilianti non possono essere. Dall'altra parte le lettere, talune di molte pagine, dattiloscritte o vergate a mano accanto a un numero incalcolabile di messaggi, biglietti, cartoncini e cartoline provenienti da gente di ogni tipo, età e condizione sociale, che ha acquistato i libri di Zolla o li ha presi in prestito da un amico, li ha letti, è tornata a rileggerli consumandoci gli occhi, ne è stato provocata, scombussolata, toccata nell'intimo, costretta a fare i conti con una parte di sé che l'indifferenza, la pigrizia mentale, la disattenzione, la negligenza hanno tenuto in ombra e che un pensiero, una battuta dello scrittore, una parola scambiata fortuitamente con lui hanno istigato a snidare. Molte di queste persone e le schiere di studenti nella cui vita si è materializzato, a un certo punto, un contatto con ciò che ha detto, pensato e insegnato Elémire Zolla, quante volte scavalcando reticenze, timidezze e una palese soggezione, hanno preso la penna in mano per confessare che le idee espresse nei suoi libri, gli orizzonti straniami dischiusi lì dentro o a viva voce li hanno toccati nel profondo. Di qui l'onda schietta di gratitudine auten-

tica, l'ansia spontanea di riconoscere quanto le parole dello scrittore siano state una fonte di consapevolezza, una guida e una luce nel labirinto della vita. Dare un conto minuzioso di questi fiotti di attenzione all'opera di Zolla, distinti e non mescolabili, scaturiti da esigenze e motivi senza rapporto o vicinanza gli uni con gli altri era un'impresa che sebbene avessi preso inizialmente in considerazione, non è stata affrontata riconoscendo che in fin dei conti è rinviabile e probabilmente può attuarla meglio una persona diversa da chi ha condiviso gli ultimi venticinque anni della vita di Zolla, avendone segnata la propria in maniera incancellabile. Il libro si compone di due parti. La prima, Sprazzi di una biografia scancellata * percorre quattro successive stagioni della vicenda intellettuale di Zolla. In inglese una esposizione di questo tipo, intesa a cogliere lo spirito del vissuto dello scrittore piuttosto che attenersi ai fatti minuti, sarebbe una story, non una history. La seconda pane, Scritti di quattro stagioni, aduna una scelta di testi zolliani antichi, intermedi e recenti raggruppati in sei sezioni: Saggi letterari, Scritti sulfurei, Nuove terre cieli nuovi, Scritti zodiacali, Appunti sulfuturo, Epifanie. La sezione antologica è dunque opera esclusiva dell'ingegno di Zolla, il frutto del suo formidabile talento e di un grande spirito messi a dimora in un'opera postuma. Una parola ancora sul titolo. Perché intitolare questo libro II conoscitore di segreti ì Forse che Elémire Zolla ebbe conoscenze riservate, esoteriche di nome e di fatto, così speciali e pericolose da tenerle per sé o sussurrare, eccezionalmente, a pochissimi? Può darsi, ma allora a che prò far luce su di esse se già non lo ha fatto lui? Il motivo del titolo è un altro, e la spiegazione è addirittura banale. I segreti, di cui Zolla scrisse e parlò sono sotto la vista di tutti, nitidi e squadernati come un libro aperto. Senonché gli occhi della maggioranza di noi divagano, sono disattenti, guardano senza vedere, ricorrono volentieri a lenti altrui da indossare e gettar via per infor* Il saggio che pubblicavo su «Viator», anno VI, 2002 (pp. 11-22), s'intitola Elémire Zolla: Sprazzi di una biografia interiore. Si trattò di un intervento a ridosso della morte di Zolla dove la mia commozione era palpabile. A distanza di tempo vi scorgo prefigurato il profilo intelletuale tracciato nella Parte prima del presente volume.

carne subito altre. In certi casi le stesse lenti ci restano appiccicate l'intera vita, e con la nebbia o il buio conviviamo senza problemi. Allenarci con le sole nostre forze a scrutare il visibile al punto da rasentare qualche volta l'invisibile - come Zolla ha fatto ininterrottamente, senza risparmio, nelle più sbrigliate direzioni, non è da tutti e, in fin dei conti, è meglio così. Quanto a lui, molti dei suoi segreti, è vero, li ha carpiti leggendo, e s'è trattato a volte di libri scovati chissà dove, composti in lingue poco note ai più; altri di quei segreti li ha catturati viaggiando in luoghi magari distanti da quelli che si bazzicano abitualmente, ascoltando persone che forse è raro incontrare sotto casa, nella redazione di un giornale o nei corridoi universitari. D'altra parte di libri, viaggi e incontri è piena oramai la vita di ciascuno e tanto più si avvia a esserlo in quel futuro alle soglie di cui Zolla ragionava lietamente negli ultimi anni. Sicché, viene di pensare, non sono tanto gli spostamenti nello spazio fisico, le letture sulla carta o sul video del computer, gli incontri prevedibili o imprevisti a dispensare occasioni di conoscenza, ma il modo nel quale ci si rapporta ad essi, si fanno filtrare e lievitare dentro di noi, suscitano connessioni, dischiudono orizzonti al di là dell'ovvio, istigano a dubitare e ad accendere nuove domande, senza porre limite alcuno alla fame e alla sete di cercare, indagare, apprendere, ricordare, dedurre, analizzare, argomentare, immaginare ma anche contemplare, meditare, coltivare il silenzio, espandere la consapevolezza, crescere dentro - quali che siano le circostanze in cui ci si trovi a vivere, nella buona e nella mala sorte come si diceva un tempo. I segreti conosciuti da Zolla e disseminati nei suoi libri attingono a questa crescita, alla somma di dolore e gioia che gli è costata, all'intima persuasione che il bene della conoscenza non sta nella capacità di rispondere a un quesito ma nello sforzo di affrontarlo fino in fondo. Questo è stato il presupposto e la ragion d'essere del mestiere di scrivere in cui si identificò la sua vita.*

* Nel saggio su Pinocchio riportato in Epifanie (Parte seconda), a un certo punto scriveva: «In vernacolo, ridendo, conviene esporre le cose più inaccessibili».

Parte prima Sprazzi di una biografìa scancellata

Una vita per la scrittura

Le aure via via incontrate [...] col tempo formano tra loro strane costellazioni e le intreccia un filo invisibile: la biografìa di un uomo. Dai Quaderni Ci sono persone che nascono, si direbbe, per lasciare una traccia, una testimonianza viva del loro passaggio. Essa può consistere nelle azioni compiute, quando l'energia s'è tutta concentrata nel fare e nell'agire, ma può anche imprimersi in ciò che quelle persone hanno pensato e, quando si tratta di scrittori, nelle pagine che hanno scritto. I pensieri, infatti, vivono e si imprimono secondo leggi proprie, e anche la loro sparizione obbedisce a un destino autonomo. Per evitare che essi vengano dimenticati si può dar loro una spinta a restare presenti, a influire in quella parte del mondo della vita che si chiama cultura. Questo libro postumo di Elémire Zolla (1926-2002) vuole essere una porta di accesso al suo pensiero rivisitato negli scritti di una vita abbastanza lunga da affacciarsi sul ventunesimo secolo. Un pensiero notoriamente non facile da assimilare perché colmo di conoscenze in cosi tanti campi (storia, letteratura, mitologia, simbologia, filosofia, religioni, esoterismo e altro ancora), da paralizzare chi è sprovvisto degli strumenti intelletuali necessari ad accostare opere erudite come le sue. Uno degli argomenti ricorrenti dei critici di Zolla, sia in vita,

sia in morte, fu il carattere altezzoso dei suoi scritti, difficili da masticare se non a piccole dosi aiutandosi con un dizionario e una enciclopedia a portata di mano. Un'obiezione che Zolla liquidava in quattro e quattr'otto affermando che la difficoltà è inversamente proporzionale alla volontà e alla tenacia con cui ci si applica a capire. Una risposta che suonava un tantino minacciosa a chi non è abituato ad associare la nozione di proporzionalità all'impegno personale, né ha mai pensato che comprendere per davvero comporta una trasformazione interiore. Altre volte si era limitato a sorridere, senza dir nulla, e anche in quel caso si restava interdetti. Cosa c'era dietro quel muto sorriso? In una delle ultime interviste rilasciata a Doriano Fasoli nel salotto di casa a Montepulciano,1 Zolla volge al suo interlocutore lo sguardo remoto e cortese di chi sorride alla vita con distacco. Oramai i giochi sono conclusi e tutto è chiaro: le forze che agiscono in noi e ci rendono succubi o padroni (molto di rado) del nostro destino sono le stesse che intrecciano gli eventi storici, che scatenano lutti e tripudi, che spingono alla santità e all'abiezione, che s'incanalano in quello che si chiama correntemente il bene e il male. Forze gigantesche, terrificanti, misteriose: da dove scaturiscono infatti odio e amore, bellezza e turpitudine, luce e tenebra dentro di noi? Forze tuttavia che si possono ammansire non appena ci si applichi a scrutarle indefessamente alla loro radice. Chiunque coi mezzi che può, con le occasioni che la vita gli offre, può farlo e intanto impara a guardarsi d'attorno con attenzione, e quanto maggiore è l'attenzione, tanto più aumenta la sorpresa di trovarsi catapultati proprio qui, di essere proprio «noi» con questa faccia, con questi modi, con questi ricordi, aspettative, rimpianti e paure che ci prendono alla gola. Nella conversazione con Fasoli lo sguardo di Zolla abbracciava tutto questo e lo scavalcava: dell'atteggiamento sprezzante, protervo, vagamente tenebroso che era stato il suo nell'età delle battaglie ideologiche quando il suo impegno d'intellettuale in rotta con l'industria culturale e il sistema che la regge si era arroventato nella disputa, l'invettiva, il sarcasmo, non restava traccia. Parlò di svariati argomenti: il significato del martirio cristiano, la statura di Nietzsche nel pensiero

del Novecento, gli incontri determinanti con lo storico delle religioni rumeno Ioan Petru Culianu (1950-1991) e l'etnomusicologo tedesco Marius Schneider (1903-1982). Poi la conversazione virò sul tema dell'aura, che era stato al centro di uno dei libri più popolari di Zolla negli anni Ottanta, Aure? sullo sciamanesimo al quale s'era accostato dal tempo del primo viaggio di ricerca tra gli indiani d'America;3 sulla realtà virtuale e gli effetti prodotti sulla gente da tecnologie capaci di alterare il quadro ordinario del mondo; infine sulla lettura, sul ruolo che la pratica indefessa del leggere ebbe nella sua vita e nella costruzione di se stesso come scrittore. Intanto, nella stanza dove avveniva l'intervista, l'occhio della telecamera indugiava sulle tracce visibili dei viaggi da un capo all'altro compiuti dallo scrittore: statuine cinesi di immortali, un suonatore di liuto indiano con il capo sormontato da un grazioso baldacchino azzurro, piccole vasche colme di ciottolini secchi come minuscoli giardini zen, un koto' per bambini accanto a una fotografìa che ci ritrae in Thailandia, stoffe sgargianti drappeggiate attorno a diagrammi buddhisti del cosmo. Sul cielo a volta del salotto, le figure affrescate dei quattro venti nell'atto di scoccare la freccia nelle quattro direzioni e al vertice del soffitto Borea che rapisce Orizia, traendola al mondo degli dèi. Nel suo neutro sguardo circolare sull'antica sala la telecamera carpiva lembi e memorie della vicenda di un uomo indecifrabile, una vicenda nella quale il principio e la fine, culla e tomba venivano, ora, mitemente a coincidere. Questo libro aspira a far luce sulla coincidenza degli opposti nella vita, nel pensiero e nell'opera saggistica5 di Elémire Zolla. Se molti dei suoi scritti, soprattutto quelli che videro la luce tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Settanta del Novecento, sono stati bollati come elitari per l'erudizione di cui sono farciti e pericolosi per le tesi controcorrente sostenute dall'autore in maniere recise e accanite, qui si portano argomenti che aiutano a rettificare questo giudizio e l'idea, in parte sbagliata, che un cibo di sapore raffinato spiaccia a palati rozzi, a stomaci che digeriscono pietre. Ciò non è del tutto vero o almeno ha cessato di esserlo da quando molta gente ha sentito l'anelito a camminare nella vita in

un modo più accorto e consapevole proprio come fece Zolla seppure, rispetto a lui, con una lucidità e un accanimento presumibilmente meno feroci. Dare un nome a questo anelito non è semplice visto che non si identifica nei vecchi concetti di «verità», «fede», «armonia» o «bellezza» — sebbene in ognuno di essi quell'anelito che viene dal profondo si rispecchi in parte. Certamente comporta una crescita interiore, una ricerca genuina di equilibrio e quiete, il risveglio di quello che un tempo si chiamò «intelletto d'amore». In questo caso una lettura non preconcetta dell'opera di Elémire Zolla può essere d'immenso aiuto. Occorre però prima liberarla delle concrezioni che l'hanno ossificata facendole dire quel che non ha detto, con l'aggravante che lo scrittore non si prese mai seriamente la briga di contestare i fraintendimenti. Sapeva che sarebbe stato uno spreco di tempo a vuoto. E per lui, il tempo era un capitale che doveva rendere il massimo. Se lo si sciupava correndo appresso a fisime, a rettifiche inconcludenti, era davvero un peccato mortale, una auto-condanna senza appello visto che la vita è un prestito provvisorio e dipende solo da noi che .cosa farne. I critici che si erano occupati dei suoi libri, i giornalisti che lo avevano via via intervistato disponevano di un repertorio di etichette prêt-à-porter, appiccicate al nome e al cognome come ritornelli: «filosofo strano e inquietante», «maestro scomodo», «turista metafìsico», «chierico vagante e cercatore di aure», «glossatore di archetipi», «psicopompo», «intellettuale eterodosso», «alchimista della felicità», «Zolla degli spiriti» e via dicendo. Quanto agli eventi e agli accidenti della vita privata, poiché era persuaso che ricordarli senza distorcerli fosse impossibile, evitò di stendere memorie, anzi con ogni cura si allenò a cancellare l'identificazione con l'io personale. «Da sempre m'è apparso una menzogna l'io» scriveva nel 1994 ne Lo stupore infantile. «A guardare con attenzione, quell'ammasso d'impressioni casuali si sbriciolava e molte, diverse persone potevano essere addebitate, in parte vere, in parte no.» Un'indole disciplinata ma ribelle a qualsiasi intimidazione, una inflessibilità intellettuale che fu pagata a caro prezzo, una mente sistematica incline all'esoterico, un senso spiccato della bellezza e una febbre divorante di conoscenza

sono tratti preliminari a un ragguaglio di necessità frammentario sulle stagioni di una vita nella quale sofferenza e gaudio, indigenza e benessere, solitudine e affiatamento con pochi affini, si allacciano dal principio alla fine. Un profilo stilato da lui stesso per la scheda contenuta nell'edizione originale del 1963 de I mistici dell'Occidente, cattura in dieci righe quel che lo scrittore volle raccontare di sé al tempo in cui la malattia polmonare - che lo assillerà per il resto dei suoi giorni - l'aveva riacciuffato a trentasei anni, immobilizzandolo a letto per mesi. «Elémire Zolla» si legge «è nato nel 1926 aTorino, i nonni avevano avuto per patria la Cornovaglia, il Kent, la Lombardia e l'Alsazia. La sua vita non annovera avvenimenti degni di nota; ora vive a Roma. Il suo romanzo Minuetto all'inferno uscì nel 1956, ed ebbe il premio Strega opera prima. Ha scritto un libro di saggi L'eclissi dell'intellettuale, uscito nel 1959, insieme a due antologie {Imoralisti moderni t La psicanalisi, edizione Garzanti). Ha scritto anche molti saggi letterari sparsi su riviste (i più recenti trattano lo stile di Melville e la filosofia di Kafka).» Tre anni prima, nel 1960, la rivista «Il Paradosso»6 aveva condotto un'inchiesta sulla generazione dei nati negli «anni difficili» del Ventennio: che cosa leggevano e che ne pensavano della politica intellettuali e scrittori cresciuti sotto il Regime come Italo Calvino, Rossana Rossanda, Antonio Banfi, Giovanni Baget Bozzo, Franco Fortini, Ruggero Zangrandi, Mario Rossi e, tra loro, il controverso autore di L'eclissi dell'intellettuale, preso di mira per le sue tesi ferocemente antimoderne. Le parole di Zolla in quell'occasione trasudavano il fastidio di chi si trovi costretto a rimestare tra cianfrusaglie abbandonate in una cantina malsana e buia. «Non posso rispondere alla domanda sulla vita politica» aveva detto «perché non ne ho esperienza di sorta. Dinanzi agli apparati politici provo i sentimenti di cui parla Pasolini nella poesia sulla festa dell'"Unità".» Qualche concessione in più l'aveva fatta sulle letture della sua adolescenza. «Nel 1939 avevo tredici anni; anche se si fanno mo-

strc di pittura infantile e si pratica da qualche parte l'educazione progressiva, non so se convenga portarvi a visitare una nursery» aveva dichiarato spazientito. Frequentavo la scuola fascista con l'animo di Alice fra le bestie e le cane da gioco. Il mio bagaglio? Dovrei copiare l'elenco della biblioteca di casa e di quella d'un circolo di Torino. Le preferenze che avevo da ragazzino? La storia d'Europa di Croce e Eanima dell'uomo sotto il socialismo di Oscar Wilde. L'abitudine di confinare le letture dei fanciulli ai libri per l'infànzia è nevrotica, ha la stessa funzione della fasciatura del cranio presso ceni africani. Non mi fu imposta. In un altro autoritratto che risale allo stesso anno, l'infanzia è rievocata come un piccolo paradiso: Dove non pendevano minacce, dove liberamente m'aggiravo fra mobili dignitosi e persone che s'ingegnavano a esserlo. Ero curato e quasi ignorato, a interessarmi erano i quadri (mio padre era pittore), i discorsi (la mia presenza non imponeva censure), le musiche (mia madre era pianista), i libri che presto cominciai, se non a capire, a leggere. Quel paradiso terrestre si spostava, secondo i capricci di mio padre, da Londra a Parigi, sicché la noia non poteva, nemmeno essa, insinuarsi, e di quando in quando tutto allegramente mutava, la lingua del mondo «di fuori» diventando quella di mia madre (inglese) o di mia nonna (francese) o di mio padre (italiano). Poi di colpo, un giorno orrendo, fui cacciato dal paradiso, anche se in apparenza tutto restava intatto. Mi portarono a vivere, stavolta definitivamente, a Torino, un giorno della guerra d'Etiopia. Ricordo l'uscita dalla stazione, mi trovavo in una città dove tutto procedeva tetramente a rilento, dove a ogni passo s'incrociavano uomini in divise stravaganti e per giunta armati, e infine dove una frotta di marmocchi vestiti da soldati, muniti di moschetti camminavano indrappellati, al comando d'un uomo pallido, isterico, bestemmiarne. Ne fui mosso a riso, senonché, domandato a mio

padre se quello fosse uno dei fascisti dei quali avevo udito più volte parlare, mi fu risposto che ormai ero in Italia e ci conveniva non fare discorsi politici in pubblico. Allora mi scese addosso una nube nera che non s'è più dissipata, e le cose presero ad andare di male in peggio né accennano a migliorare. Inutile raccontare ciò che mi avvenne dopo i dieci anni (la scuola pubblica già conuene tutti i mostri di cui la vita sarà prodiga), poiché la sciagura è noiosa, anche se cambia aspetto, ora presentandosi come penuria, ora come idiozia imperante, ora come malattia. Perché questo racconto? Perché spiega come mai almeno alla penuria ed all'idiozia sovrana io stenti ad acconciarmi, restandomi fitto in mente il ricordo di uno stato indenne da quelle maledizioni. Spiega anche perché io scriva: non credo che il male sia tutto inevitabile. Questo è quanto posso fornire come «contributo alla critica di me stesso». Inutile stare a narrare altri episodi biografici, tanto più che i fatti di per se stessi, specie quelli occorsi a me, non hanno interesse e procuro di non farne provvista. Inoltre mi pare sconveniente parlare di sé medesimi salvo che questo sia un modo abbreviato di discorrere di altra cosa. E allora perché quell'inizio biografico? Per dire che se i rapporti umani fossero sciolti dal bisogno nonché dagli idoli economici e resi leggeri, attenti, intatti, indifferenti, la dolcezza di vivere non sarebbe impensabile.7 Trentanni più tardi, in un brano dedicato a un torinese sui generis quanto lui, Guido Ceronetti, l'evocazione di se stesso acquistava toni sognanti quasi da «C'era una volta...»: Vivevo isolato, sbrigando in fretta le scuole, ignorando compagni e professori per quanto potevo, adagiato a leggere per ore e ore, vagando a lungo attraverso le strade miserelle di Torino, sempre in cerca d'un tratto di vita memorabile, nel quale alla fin fine nemmeno speravo. Sentimento costante era il vago incantesimo per il semplice fluire del tempo, che di quando in quando riusciva a comprimersi e a fermarsi in una sfera raggiante, dorata. Osservavo con curiosità non troppo intensa l'abitudine che gli altri avevano di considerarsi un punto d'imputazione, un carico di responsabi-

lità e di doveri, una persona. Io non m'ero mai visto altro che come un convegno temporaneo, fluttuante, trasognato di impressioni. Ciò che davvero mi costituiva era l'entusiasmo che provavo per certe opere. Le leggevo e rileggevo: Tao-te Ching, Alice, la vita del Buddha. Altre letture viceversa le tenevo a distanza, mi infastidivano quasi quanto il mondo circostante (come i romanzi di Dickens cosi carichi di odiosa compassione). Qualche rara volta parlai di ciò che provavo e vivevo, a qualche donna che mi piaceva, per i profumi, la pelle morbida, gli occhi scintillanti, per una sua parvenza d'attenzione amorosa.8 Infine soccorre il profilo che Zolla allestì per XAutodizionario degli scrittori italiani nel 1989. S'era alle soglie di un decennio, l'ultimo della sua vita, colmo di viaggi e nuovi libri, e l'occasione servì a rattoppare un'immagine passabilmente estesa di se stesso, in modo da non doverci tornare più sopra se non conversando a tu per tu con qualcuno, abbandonandosi al piacere di raccontare come fu che toccando l'età matura si stupisse di esserci ancora, e remando nelle acque della vecchiaia avesse gioito come mai prima. Nacque aTorino il 9 luglio 1926. Suo padre, Venanzio, era nato in Inghilterra da padre lombardo e madre alsaziana; aveva studiato pittura, dedicandosi alla maniera di Whistler, dipingendo dame in kimono, venendo quindi in Italia, con la moglie inglese e stabilendosi a Torino, dove aveva un gruppo di allievi (fra loro era anche Argan). La madre, Bianche Smith, sapeva suonare ogni strumento, ma preferì l'organo. Zolla crebbe isolato nella casa paterna, parlando naturalmente inglese, francese e italiano, studiando in seguito il tedesco e lo spagnolo. Dipingeva e suonava il pianoforte. Messo a scuola, imparò l'arte di fingere, di occultare i sentimenti, disprezzò quanti gli stavano d'attorno. Non incontrò se non fascisti in Italia; lo sollevava l'espatrio frequente, il soggiorno in Inghilterra o a Parigi. Cominciò a leggere fitto; a scuola riuscì facilmente. Fu in Italia durante la guerra, uno dei rari periodi di quieta ricchezza

per suo padre; notò che a poco a poco la gente diventava meno fascista. Ricorda l'arrivo degli alleati a Torino, esattamente come l'aveva immaginato da dieci anni. Segui la facoltà di Legge a Torino, che aveva qualche professore capace, e anche qualche sperimentatore di sciocchezze strutturalistiche. A ventidue anni si ammalò di tisi e fu per morire; durante la malattia scrisse un romanzo, che usci nel 1956: Minuetto all'inferno (Einaudi) ed ebbe il premio Strega opera prima. Aveva parecchio stampato negli anni precedenti, sulla rivista «Letterature moderne» di Flora e «Il pensiero critico» di Cantoni, in seguito sullo «Spettatore italiano» e infine a partire dal 1957, su «Tempo Presente». Erano saggi sui maggiori autori del Novecento, che egli tentava di riunire in una specie di luogo ideale, distante dalle contaminazioni politiche; escluse la presenza, fra loro, di Joyce.9 Gli scrissero Eliot e Thomas Mann, per consentire. Nel 1957 si trasferì a Roma, dove per breve tempo ebbe parte nella redazione di «Tempo Presente». È di allora un nuovo romanzo, Cecilia o la disattenzione (Garzanti). La raccolta dei suoi saggi, in parte ispirati alla Scuola di Francoforte, L'eclissi dell'intellettuale (Bompiani 1959, premio Crotone), ebbe parecchie riedizioni e traduzioni. Era una negazione, destinata a non poter essere generalmente accettata, di tutto il sistema dell'industria culturale, nel quale si rifletteva la tendenza del pensiero nato dopo il capovolgimento hegeliano. L'opera formulava il sottinteso invito ad abbandonare il mondo quale è stato conformato dal potere di questo pensiero: i maggiori autori degli ultimi due secoli sono stati capaci di questo esodo. L'anno dell'uscita di quel libro era cruciale: Zolla fu anche chiamato a insegnare all'Università di Roma, specie per intervento di Mario Praz, e incontrò Cristina Campo, con la quale visse fino alla mone di lei nel 1977. Uscirono varie opere negli anni successivi, specie un'antologia, Imistici dell'Occidente (Garzanti 1963). La tradizione mistica era qui documentata come il luogo segreto dove si era affermata nei millenni l'uniformità permanente di una metafisica immutevole, negazione radicale del mondo in quanto tale, ancor prima che esso assumesse l'aspetto moderno. Presso Bompiani uscirono i saggi succes-

sivi: Storia del fantasticare e Le potenze dell'anima. Nel 1966 Zolla vinse il concorso a cattedra e andò nel 1967 a insegnare a Catania, per passare quindi a Genova, dove rimasefinoal 1974, insegnando oltre a letteratura angloamericana anchefilologiagermanica. Nel 1968 da un viaggio nel Sudovest degli Stati Uniti ricavò una storia dell'immagine dell'Indiano, I letterati e lo sciamano (Bompiani 1969). L'opera ebbe una risonanza notevole negli Stau Uniu.10 Il periodo che andò dal 1968 al 1980 vide Zolla isolato e aborrito in Italia dalla classe che aveva afferrato il potere; egli si dedicò a viaggi in India, in Indonesia, in Corea e soprattutto in Iran. A poco a poco, dopo la pubblicazione di Che cos'è la tradizione (1971) e della vasta dissertazione alchemica Le meraviglie della natura (1975), cessarono i rapporti con Bompiani. Rimase viva però, in qualche modo, la collaborazione al «Corriere della Sera».11 Zolla tornò con notevoli opposizioni a insegnare all'Università di Roma nel 1974.12 Cominciò a scrivere in inglese. Uscì in Inghilterra e in America Archetypes (1981), seguito da TheAndrogyne (1981). Dopo il 1980 in Italia mutò la situazione politica, l'opposizione a Zolla parve in gran parte dissolversi. Egli sposò nel 1980 Grazia Marchianò. Riprese a scrivere in italiano e uscirono presso Marsilio Aure (quattro edizioni, 1985), L'amante invisibile (premio Ascoli Piceno, 1987), Archetipi (Premi Isola d'Elba e Mircea Eliade, 1988), Verità segrete esposte in evidenza (1990). Aveva diretto dal 1969 al 1983 una rivista, cui fece collaborare gli autori che gli parvero in qualche modo salvarsi dalla generale decadenza, «Conoscenza religiosa» (La Nuova Italia),13 e in quel periodo formulò la metafisica esposta in Archetipi-, essa gli parve il dono che poteva lasciare, soluzione rigorosa e pacificante d'ogni questionefilosofica,capace di salvare dall'influsso delle ideologie moderne e di far partecipare alla gioia che dalla maturità in poi egli sentì pervadere la sua vita.14 Un uomo che ha vissuto nei libri che ha scritto non può che essere incontrato lì dentro, con la trepidazione di chi si prepara a un cammino di cui ignora il punto d'arrivo, curioso di quel che potrà accadere. Un viaggio dentro i pensieri e il destino di un uomo che

alla domanda «Perché scrivi?» un giorno aveva risposto: «Lo scrittore vero scrive perché scrive, ha il fine in ciò che fa come lo fa, in modo che non può tollerare di rifare, senza nessun rapporto con le finalità generali dell'esistenza, con le convenienze dell'economia, della politica, della moralità o dell'immoralità».15 «Scrivere» aveva aggiunto «è un atto che si profila sul nulla, un modo di affermare, descrivere, meditare che si è sempre associato all'ispirazione e sempre gli si è unita una pretesa infinita o nessuna pretesa. Naturalmente esistono altre attività, retoriche calcolate, che con lo scrivere spesso non hanno rapporto, anche se ne hanno tutti i caratteri materiali.»16 Nel Conoscitore di segreti sì è tentato di offrire i filtri occorrenti a scrutare il singolare edificio a più piani che fu la mente zolliana, una mente sfaccettata come un cristallo, porosa come una spugna, così incurante del limite da riuscire a spostare i confini della coscienza sempre più addentro, molto, molto al di là dei recinti dell'io-persona, fino a rasentare lo stato di consapevolezza imperturbata che lo scrittore non smise di inseguire fino all'ultimo istante. Dice la tradizione lamaista che se il morto, udendo scrosci, ululati, sussurri, «sarà preso da sgomento, paura, attrazione, rimarrà loro vittima, loro larva martoriata, brandello di psiche infetta e contagiosa. Chi fin da vivo seppe che tutto ciò era illusione, ne uscirà viceversa indenne [...]» si legge in un presàgo passo di Le meraviglie della natura. Introduzione all'alchimia.17 Negli scritti dell'altro ieri così come in quelli più recenti, l'immagine di questa vasta casa mentale - «terra-cielo» come si usa dire in Toscana di dimore indipendenti - si delinea nitida nei caratteri generali, e ne affiorano anche i tratti scoscesi di un'indole attratta dagli antipodi: bellicosità e mansuetudine, fervore e impassibilità, freddezza glaciale e caritatevolezza, ossequio alla norma e spirito di ribellione, cautela nei rapporti umani ordinari e ardimento nella cognizione degli estremi, amore dell'immobilità e invincibile richiamo all'esodo, acutissimo senso storico e consapevolezza della forza del destino, attrazione all'arcaico e voglia gioiosa di sondare il futuro. Ognuno dei libri di Zolla, quali ne siano l'occasione estrinseca e

il tema dominante, è una ricerca e una dissertazione sui rapporti intimi e fondanti tra l'essoterico (l'appariscente tangibile) e l'esoterico che lo anima, lo muove e ne costituisce il fiderò nascosto. «In ogni società» scriveva negli anni Novanta «esiste uno strato esoterico. È lì che negli ultimi secoli si sono celate, elaborate e preparate per la conquista del mondo essoterico le varie dottrine.» E portava l'esempio del liberalismo, che fu covato dai Rosacroce, del socialismo e del comunismo costruiti in certe logge fin dal diciottesimo secolo; «e il fascismo ugualmente si celò in certe logge dalla fine del secolo XIX».18 D'altra parte l'esoterico (alla lettera il «più interno») è anche semplicemente la zona in ombra di noi stessi; la si rasenta ogni momento e quando affiora, un'esperienza più piena della vita ci fa trasalire. Di queste zone d'ombra Zolla si è occupato caparbiamente, scrutandole anzitutto in se stesso e poi nei testi letterari e poetici di Oriente e Occidente, nelle credenze e nei riti delle civiltà indigene, nei meandri della follia e nei recessi dello stato mistico, nelle idee religiose e nei sistemi di pensiero antichi e moderni. Con padronanza enciclopedica lo ha fatto inforcando lenti specialistiche a seconda del contesto storico e culturale osservato, e ciò non facilita certo la navigazione attraverso i suoi scritti. Qui si propone una tra le svariate rotte possibili adottando la procedura, tutta zolliana, di comprimere il ragguaglio biografico, con qualche concessione in più sul periodo formativo a Torino, ed espandere l'esame della personalità interiore dello scrittore sullo sfondo di alcuni temi che innervano la sua opera attraverso sette decenni del Novecento. I primi due sono l'antropologia dell'uomo infelice formulata al tempo della battaglia anti-moderna negli anni Sessanta, e l'individuazione, che risale allo stesso periodo, della mistica come vertice e norma dell'esperienza umana. Il terzo tema ha il suo epicentro nel trattato sull'alchimia composto alla metà degli anni Settanta. La poetica dell'esodo, del viaggio vissuto come una rivelazione di archetipi domina gli scritti, anche inglesi, degli anni Ottanta, e in quelli del decennio successivo sono nevralgici i temi del sincretismo e della realtà virtuale. Infine l'approdo al concetto di mente naturale apre la strada alla rievoca-

zione di un mito universale: la discesa e l'ascesa dell'anima attraverso i piani dell'essere in Catabasi e anastasi, l'ultima opera pubblicata in vita.19 Come fiaccole in un campo di notte questi temi lampeggiano tutti insieme negli scritti sul destino e lo zodiaco che solcano obliquamente l'opera zolliana. La loro parziale raccolta è posta nella sezione antologica accanto a: Saggi letterari, Scritti sulfurei, Nuove terre cieli nuovi, Appunti sulfuturo e Epifanie. Ogni gruppo di testi è preceduto da una nota introduttiva, ma a proposito di Scritti sulfurei e Epifanie una parola va spesa subito. Sono titoli che vorrebbero stenografare due tratti marcatamente agli antipodi della prosa zolliana: la carica urticante, intimidatoria degli scritti anti-moderni e lo scorrere placido, illimpidito dei testi sgravati dall'intento polemico. Sono timbri discordanti che nell'opera dello scrittore cosi come nella sua vicenda personale a un certo punto hanno cessato di stridere. Nell'ultima parte di questa biografia si è tentato di metterlo in luce. Nella dialettica intellettuale tra «apocalittici» e «integrati», di cui ragionava il giovane Umberto Eco nei primi anni Sessanta,20 l'opera di Zolla, che un critico nel 1967 si compiaceva di definire «una macchia necessaria nel nostro panorama d'idee e di scritture»,21 costituisce un «caso» senza precedenti, tutto da studiare.

I primi trent'anni a Torino 1926-1956

Nel teatro Kabuki sovente, all'aprirsi del sipario, si è abbagliati da uno sventolio di stoffe dai colori smaglianti, crudi. Gli attori entrano, vestiti di panni color pastello e proprio lo sfondo sgargiante, che s'annulla, dà un risalto a ogni sfumatura. Volgarità e dolore Il 1926, anno dellaTigre nel calendario zodiacale cinese, fu teatro in Italia di avvenimenti abbaglianti come lo sventolio di stoffe nei drammi giapponesi di cui scriveva Zolla in Volgarità e dolore nel 1962. Curiosamente nell'una e nell'altra data le ultime due cifre sono invertite e chi è portato a notarlo può liberamente immaginare che anche i numeri nell'immensa distesa da zero a infinito si accostino tra loro come attori sulla scena, recitando però ruoli difficili da decifrare nella commedia umana. Nel 1926 Benito Mussolini subisce tre attentati; vengono approvati provvedimenti per la sicurezza del regime che decretano lo scioglimento dei partiti e di ogni associazione ostile al fascismo; l'annullamento dei passaporti; la soppressione della stampa contraria al regime; l'istituzione del Tribunale speciale che, in via amministrativa, giudicava sui reati di spionaggio, incitamento alla guerra civile, ricostituzione e propaganda di partiti disciolti. Il confino di polizia diviene operante e Antonio Gramsci è spedito a Ustica. Espatriano in Svizzera Treves e Saragat; Nenni e Turati

fuggono, rispettivamente, a Parigi e in Corsica. Per attentati ai membri della famiglia reale e al capo del governo è stabilita la pena di morte. Piero Gobetti e Giovanni Amendola muoiono in seguito alle ferite causate dagli squadristi. Il fascio littorio è dichiarato emblema di Stato. L'Opera nazionale Balilla inquadra obbligatoriamente i ragazzi tra gli otto e i dodici anni, e dai dodici ai diciotto nelle fila degli avanguardisti. Tra quelle fila è lecito immaginare taluno abbastanza sconsolato da immedesimarsi nel protagonista del dramma futurista citato su «Minerva. Rivista delle riviste», il quindicinale romano di cui il giovane Zolla farà golosa incetta molti anni dopo. La scena è occupata da un solo attore che in un crescendo, lapidariamente, grida: «Spero!» (Atto I); «Sparo!» (Atto II); «Spiro!» (Atto III). Fuori d'Italia eventi di pari spicco si annoverano nel 1926: in Polonia il colpo militare del generale Pifeudski; l'ascesa al trono imperiale di Hirohito in Giappone; la formazione di leghe comuniste in Cina orchestrate da Mao Tse-tung tra i contadini dello Hunan; la guerra civile in Nicaragua innescata dalla rivolta liberale e l'immediato intervento degli Stati Uniti. Ma il 1926 è anche l'anno in cui è stampata a Leningrado Biosfera di Vladimir Vernadskij, l'opera che annuncia e precorre la teoria ecologica nota come Ipotesi Gaya. Sempre nel 1926 viene compiuto il primo esperimento di trasmissione televisiva, il comandante Nobile sorvola il Polo Nord, e un pastore svizzero, Felix Grosser, in una sua memoria su una rivista di storia delle religioni1 dà il via a una querelle che coinvolgerà il fior fiore dei classicisti europei quando gli scavi nella villa di Paquino Proculo a Pompei porteranno alla luce un'iscrizione latina in cinque parole: SATOR AREPO TENET

OPERA ROTAS.

Quelle cinque parole inscritte in un quadrato, possono essere lette indifferentemente dall'alto in basso, dal basso in alto, da sinistra a destra e viceversa. Il motivo è che quattro di esse - «sator», «rotas», «Arepo» e «opera» - sono a specchio, e la quinta situata al centro, «tenet», è palindroma, cioè speculare di se stessa. Sicché la scritta: «Il contadino Arepo governa con fatica le ruote (dell'aratro)» si prestava a congetture che vanno molto al di là del signifi-

cato letterale. Nel modo in cui era costruito, il blocco faceva pensare a un quadrato magico e Grosser nel 1926 vi scorse «l'anagramma del Pater noster ripetuto due volte o di due A O (alfa e omega)». Così scriveva Elémire Zolla in un articolo sotto pseudonimo quarantanni dopo.2 E mentre segnalava che esemplari identici del quadrato magico erano stati rinvenuti in Mesopotamia, in Inghilterra e in Cappadocia, avanzava l'ipotesi che la formula latina potesse nascostamente riferirsi alla visione del profeta Ezechiele tratto al cielo su un carro di fuoco le cui ruote «potevano muoversi in quattro direzioni, senza aver bisogno di voltare nel muoversi» {Ezechiele I, 15-16). Si tornerà più avanti sull'ipotesi avanzata in quella occasione da Bernardo Trevisano, pseudonimo che Zolla adottò nei primi anni del periodo romano firmando con quel nome un fascio di articoli sul «Giornale d'Italia». L'ombra del quattrocentesco Bernardo Trevisano, conoscitore di segreti metallurgici, continuò ad aleggiare sugli scritti zolliani di alchimia pubblicati in seguito seppure il vero motivo dell'identificazione con l'alchimista del Quattrocento non venne mai esplicitato. Fu dunque durante il quinto anno del Regime che a Vincenzo Venanzio Zolla ( 1880-1961 ), pittore di radici vigevanesi, nato a Colchester (Inghilterra), e a Bianche Smith (1885-1951), un'inglese del Kent, nacque un secondo figlio, Venanzio Elémire, sedici anni dopo la primogenita Eda Doris. Il parto, il 9 luglio 1926 avvenne a casa in via Massena 85, alle 10,15 del mattino mentre un eclissi parziale di sole offuscava il cielo a Torino.3 Il primo ritratto a carboncino di Elémire, così chiamato dal padre in omaggio al romanziere francese Elémir Bourges,4 è datato 13 luglio, quattro giorni dopo la nascita. Il piccolo, visto di profilo, se ne sta ad occhi chiusi raggomitolato su se stesso. Venanzio Zolla, diplomatosi all'Accademia Albertina di Belle Arti a Torino e allievo di Vincenzo Grosso, in quegli anni ha uno studio avviato di maestro d'arte. Dipinge ritratti, paesaggi e nature morte alla maniera degli impressionisti e le avanguardie non lo interessano. Frequenta pittori, come Domenico Buratti, di tempra forte e riservata quanto la sua

ed è sempre sul punto di piantare tutto e correre per mostre a Londra o Parigi. Uno dei libri più annotati della sua biblioteca privata, L'arte cortese di crearsi nemici5 fece epoca a Londra a fine Ottocento per la spregiudicatezza con cui un pittore eccentrico e spavaldo come James Abbott McNeil Whisder aveva impugnato le dichiarazioni diffamatorie sul suo scarso talento artistico da parte di Ruskin, il pittore e celebre critico, durante un chiacchieratissimo processo a Londra senza risparmio di colpi dall'una e dall'altra parte. Il libro che aduna gli atti della gustosa controversia nell'edizione originale Heinemann del 1908, fittamente annotato e colmo di disegnini in punta di penna di Venanzio Zolla, non deve essere sfuggito all'occhio penetrante del figlio Elémire negli anni in cui prendeva coscienza del sistema di mosse alla base della partita della vita. Venanzio Zolla, a quanto risulta, fu un marito e un padre quanto meno distratto. Di natura indocile, protervo, agnostico, meticoloso e bohémien, non s'illudeva su ciò che può concedere un'esistenza ancorata al capriccio dei mercanti d'arte e all'uggia dei doveri familiari, e ai suoi congiunti badava il minimo necessario. Bianche, sua moglie, era una donna impettita, orgogliosa, incline, nelle situazioni sgradevoli, a barricarsi in un tetro silenzio piuttosto che dar sfogo ai suoi sentimenti (pare che da bambina fosse stata sonnambula). Adattarsi a parlare una lingua non sua in una città che non le andò mai a genio, e trovarsi a quarantanni a mettere al mondo un secondo figlio, per di più gracile e di salute cagionevole, forse non era il massimo delle sue aspirazioni. Per fortuna, suonava bene l'organo e il pianoforte. Dava lezioni nel salotto di casa e la sera, in qualche cinema cittadino, accompagnava al pianoforte le proiezioni dei film muti. Talvolta portava con sé Elémire. Acquattato nella sala in penombra, le vicende sullo schermo sottolineate dai passaggi al piano lo ammaliavano ma un istinto suggeriva al bambino di non farsi catturare, di prendere le distanze. Lo studio di Venanzio Zolla, al piano superiore dell'appartamento di via Pesaro dove la famiglia era andata ad abitare, è un via vai di modelle, acquirenti, mercanti e la parlata torinese dai toni melliflui e aspri s'incide nell'orecchio del piccolo Elémire. Il padre ritto al cavalletto, la pipa spenta di traverso in

bocca, asseconda i movimenti della mano con ogni muscolo del corpo, ma è dal polso a scatti impercettibili che germogliano le pennellate e a poco a poco nasce il quadro. Giù da basso le allieve della mamma incespicano con le dita sugli esercizi di Czerny al pianoforte; il bambino, cheto cheto, ama sedersi non visto dietro la porta: verrà il momento in cui l'onda dei suoni lo avvolgerà in un abbraccio trepido, colmo di lacrime, ma lui imparerà a essere il guardiano piuttosto che lo schiavo della propria commozione. L' Omaggio a Chopin - avrebbe poi ricordato - sembra parlare della tenebra che pervade il corridoio. Una tenebra che la luce, pur penetrando fin 11, non dissipa. [...] In qualche modo capisco che devo prestarmi a patire gli esitando, le note puntate del tempo rubato, non devo oppormi alle lacrime, soltanto così potrò gettarmi nello scintillante tripudio di accordi che scandisce la marcia dei seguaci di Davide, simile a quella dei puttini danzanti sotto l'orologio dorato sul camino. Sul tavolo del salotto, sotto le rose, accanto alle ciambelle, la teiera mostra un argento spento, appannato dal tempo. Mentre mia madre sta suonando, il tè intride l'acqua e le toglie la crudezza. Tutto si sacrifica, le foglie di tè, la luce, le superfici brillanti, i suoni che debbono reggersi come uccelli sospesi, isolati fuor del tempo [...] Delle foglie di tè resta l'essenza, della voce il nucleo; il pedale è usato appena appena [...] la luce non deve erompere [...] il mio cuore è libero di espandersi nello spazio enorme che così si apre, può diventare fiero, incurante. Inoltre, poiché tutto attorno a me si ritrae, imparo a compormi.6 Alle elementari nell'Istituto Ferrante Aporti, il ritegno instillato in casa fa di lui uno scolaro modello. L'unica intemperanza sarebbe stata il lancio di una lavagna sulla testa di un compagno sospettato di averlo tradito preferendogli al gioco qualcun altro. Quando Elémire ha nove anni, Venanzio Zolla, con una decisione repentina che scombussola la famiglia, liquida i suoi affari a

Torino e s'installa a Londra. A cinquantacinque anni la Royal Academy gli apre le porte, dipinge, espone e vende fitto, ma l'inverno 1936 è duro e insieme alla polmonite si becca un'anemia perniciosa. All'arrivo della primavera la soluzione più ovvia sarà fare marcia indietro. Prosciugati i risparmi fino all'ultima goccia, come nulla fosse rimetterà su casa e studio a Torino. A Maidstone, nel Kent, i genitori di Bianche hanno una casa con un piccolo frutteto. Elémire vi trascorre qualche mese e accanto al nonno si trova bene. Non ha niente da fare e al vecchio si accompagna volentieri. I silenzi e le parole del nonno ritmano le ore della giornata e il bambino le assapora momento per momento in una ronda senza strappi, uniforme. Una di queste trasognate memorie affiorerà in un elzeviro sul «Corriere della Sera» intitolato Lezione di verità nella stagione in cui il Premio Strega attribuito al primo romanzo e il rumore suscitato dalla prima opera saggistica di critica sociale, avevano fatto di Zolla lo scrittore più in vista, corteggiato e poco dopo detestato, nei circoli intellettuali della capitale. Senonché quell'elzeviro pare scritto da tutt'altra persora rispetto al saggista che aveva sfidato l'establishment dichiarando una guerra senza quartiere all'industria culturale e al progressismo moderno. Lezione di verità, nel contenuto e nel tono, è la cronaca della giornata trascorsa da un bambino che impara a riconoscere i sapori delle mele che il nonno gli porge. La maschera del narratore cinico, del moralista invelenito, in questo brano è deposta, e ne affiora una creatura imbozzolata nella quiete, docile all'insegnamento impartito con naturalezza dal vecchio, decisa a respingere tutto ciò che di brutale e sgangherato filtra dal mondo di fuori. È un brano letterario di squisita bellezza che introduce, meglio di qualunque descrizione, nello spazio interiore del protagonista immerso nel ricordo di sé bambino. Il vecchio coglie una mela grassa, la mostra al fanciullo, aiutando l'occhio a posarsi sulla superfìcie, tracciandone la forma col dito. Proprio l'imbarazzo per la lentezza del gesto è una forza che costringe il fanciullo a seguire il tocco del dito sulla scorza, ruvida quasi al punto di raggrinzirsi.

Mentre il fanciullo mangia la fetta tagliata dalla mela che con tanta meticolosità era stata prima considerata, il vecchio gli dice: «È una mela cotogna», e s'incammina verso un altro albero, spiccandone un altro frutto, mostrandolo dopo averlo lustrato sulla manica affinché restituisca limpidamente tutta la luce che può; dice: «Una mela limoncella», invitando a paragonare i sapori, la cui diversità appare straordinaria al fanciullo perché non s'aspettava di scoprirla, avendolo il vecchio preparato all'esercizio del gusto con quello degli occhi, usando cioè d'una finta, tanto che insensibilmente il palato si apprestava a emulare l'attenzione della vista, nella misura in cui non era chiamato con un ordine a prodigarsi. La differenza appare ancora più vasta, come fra due case o due ore della giornata, perché nulla ha distratto il fanciullo, non una parola superflua né un sorriso di ingiunzione o esortazione, e neanche un soffio d'aria, essendo molto silenzioso il tramonto alla villa. Il vecchio procede nel verde diventato, col progredire della sera, un grigio granuloso, ripetendo i gesti di prima a spiegare la varietà di altri meli. Passare nello stesso attimo dall'agra e rossa lazzcruola alla renetta, il cui sugo è più serrato che aspro, dà una sorpresa come piegare per una strada e vedere un paesaggio insospettato, o come volgersi dalla conversazione con una persona ad altra di qualità opposta e della stessa natura. È come oltrepassare un confine ignorato fino a prima, a prova che l'avventura promessa da una qualsiasi frontiera non è che la ripetizione grossolana di avventure possibili all'interno del limite (dentro la villa, dentro di noi), tanto che per laricchezzadi ciò che può presentarsi nella aiuola dove ci si trova (quando siano favorevoli il silenzio e una voce amica, vecchia, indifferente a ogni effetto) si trascurano le provocazioni del mondo di fuori, cessa la curiosità fredda e tetra per ciò che avviene nei tratti della vicina campagna dove cresce il luppolo e dove vagano, alla raccolta, sguaiati cittadini venuti apposta, la domenica, pagati dai birrai (dicono che l'odore del luppolo, soave quand'è disperso per l'aria, sia forte come un fermento quando si raccoglie nelfittodelle piante e dia la confusione e demenza della ebbrezza). Ma se il fanciullo rientrando nell'aria un poco più fresca e severa della casa dopo il tepore dell'orto dove il sole ristagna, seguendo il

vecchio verso la poltrona, [...] si sente di una potenza sconosciuta dianzi, di una potenza che stringe in fascio le facoltà acquistate nel breve passeggio serale, ciò avviene perché egli ha, in questo momento, ereditato dal vecchio, e proprio la gioia più rara che quegli abbia acquisito nella sua vita. Il fanciullo è tornato a sdraiarsi sul tappeto come a leggere, e presto legge davvero, poiché avrà l'intera vita per assortire le varie cose apprese in quest'ora che il vecchio ha innestato con cosi capricciosa apparenza nella giornata, quasi a renderla insieme singolare e quotidiana. Nella memoria il fanciullo comincia, senza avvedersene (per il suo bene, poiché a esserne coscienti si impedisce un'opera cosi tortuosamente delicata), a comprendere che soltanto facendo leva si agisce virilmente. [...] Più tardi questo insegnamento si ramificherà, ma forse soltanto quando la pelle comincerà a ispessirsi come quella del vecchio; si esprimerà anche a questo modo: «Non è facendo leva su ciò che ti proponi principalmente che otterrai un effetto, come il pittore non ribadisce quest'ombra, ma schiarisce quella luce, non incupisce questo verde, ma stempra quel giallo all'angolo opposto del quadro. Così non t'illuderai che quando provi disagio, insofferenza d'un aspetto della tua o dell'altrui vita, basti modificare quel sintomo, ma saprai di dover spezzare tutta una costellazione occultamente maligna, poiché non sarà un lavoro che ti attedierà, ma tutto l'insieme della tua esistenza che ti ha orientato ad accettare quel lavoro, non sarà mai quella donna o quell'amico che ti riusciranno dannosi e che basterà allontanare, ma l'errore, la falsa persuasione con cui hai giustificato l'accostarti a loro [...]». La cosa più semplice e più difficilmente esprimibile che il vecchio aveva comunicata al fanciullo era un'altra. I raccoglitori di luppolo, le cui voci s'udivano portate dal vento, erano pervasi dalla stessa vita che animava, come un fuoco covato da braci, la dimora del vecchio e del fanciullo, ma in quelli il fuoco era aspro, come chiuso efischiarnein un ceppo ancora bagnato. [...] Se mai li si accostava e li si ascoltava, si sorprendeva che erano senza gioia, tanto più quanto atrocemente ridanciani, tetramente privi di riguardi l'uno per l'altro, sicché mai avrebbero neanche potuto indugiare

ad assaporare una mela per coglierne la natura singolare, ma soltanto per divorarla, incorporarla, né avrebbero posto attenzione ad una mela se non per comprarla o venderla con vantaggio. [...] La loro vita era più triste della mone, senza quiete perché priva di quella facoltà assai affine all'amore che distingue con cura l'anima di una mela da quella di una diversa mela. Senza volere essi mentivano, cioè non erano capaci di denominare con pazienza, nulla aggiungendo o non dando alcun colore; dovevano infatti, come allettati da un turpe piacere, ingrandire, rimpicciolire, come specchi deformanti, ogni cosa di cui dessero ragguaglio. Così attraverso il paragone del vecchio con quegli altri anziani immodesti, che raccoglievano il luppolo, il fanciullo, come lui stesso avrebbe saputo di lì a qualche decennio, scopriva che il vecchio, portandolo sotto i meli, gli aveva insegnato a dire la verità.7 Ai raccoglitori di luppolo evocati in quella pagina si sarebbero sostituite in seguito, nella percezione adulta della vita, entità più complesse e minacciose: il sistema coi suoi ingranaggi, la società con le sue trappole, le sue ipocrisie ben mascherate e occorrerà escogitare tattiche di aggiramento, evasioni strategiche. Il saggio Invito all'esodo, di poco posteriore all'elzeviro sul «Corriere della Sera»,8 mette in chiaro i motivi di una decisione che, a Roma, verso i trentacinque anni diverrà irrevocabile: uscire «dal giro della ruota», balzare contro corrente, saltar via. Torniamo intanto a Torino. Tra la prima infanzia e i vent'anni quando la tubercolosi minacciò di condurlo rapidamente a morte, Elémire Zolla (d'ora in poi sarà indicato spesso con le iniziali) ebbe modo di aprire gli occhi quanto basta sulle afflizioni della vita per decidere di prendere misure radicali al riguardo. L'ingresso nelle configurazioni del mondo era una faccenda delicata. Comportava rischi, tormenti, azzardi e una preparazione meticolosa era necessaria su tutti i fronti. All'origine delle smisurate conoscenze di EZ ci fu la percezione nitida, inappellabile che senza il sostegno di un ingente sapere la battaglia personale della vita, ingaggiata in circostanze sfavorevoli, aveva scarse probabilità di essere vinta.

Negli anni della scuola dell'obbligo,9 è uno studente deciso a trarre il massimo dalle ore spese sui libri. L'inglese e il francese, parlati in casa come l'italiano, lo spingevano a tuffarsi in altre lingue, lo spagnolo e il tedesco saranno le prime. In certi periodi, ogni mese dell'anno scandiva l'affondo in una distinta letteratura. Gennaio: portoghese; febbraio: turca; marzo: spagnola; aprile e maggio: scandinava e via di seguito. Due, tre volte alla settimana c'erano le soste in certi caffè frequentati dal padre dove una saletta apposita offriva un assortimento di periodici non italiani. Alla radio le voci bene impostate degli speaker della BBC lo proiettavano fuori delle strade mortalmente rettilinee di Torino, delle aule impettite e grigie dell'ateneo sabaudo dove s'era iscritto alla facoltà di Legge. All'inizio l'entusiasmo per quella scelta non era stato straripante. Però ci si trovava e in men che non si dica la decisione salomonica fu presa: avrebbe frequentato tutti i corsi che gli fossero garbati nell'intero ateneo. Incominciò da Lettere e Filosofia e le lezioni delle materie filosofiche furono le più seguite, nessuna esclusa. Anni dopo, con gusto, ricorderà certe private conversazioni con un eminente professore di teoretica preoccupato che quel giovanotto, dietro l'abituale sarcasmo, nascondesse la reticenza di chi non osa affrontare i turbamenti di un forte peccare. «Beva!», «Vada a ballare!» lo aveva incitato tra un rinvio a Novalis e una citazione di Schelling.10 I corsi di storia e letteratura lo catturavano blandamente. Infatti fin da bambino, con un puntiglio che persino al padre, notoriamente indifferente a quanto il figlio pensasse o facesse, non era sfuggito, si era passato a tappeto la storia mondiale di popoli, epoche e Paesi, e lo stesso era accaduto per le letterature dei cui testi si era pasciuto direttamente. Senonché l'ingresso negli studi giuridici fece scattare nella sua mente connessioni alle quali difficilmente avrebbe badato senza la lettura di talune dispense e un tirocinio piuttosto speciale assieme agli studenti di psichiatria. Sul tavolino della stanza in via Pesaro, accanto ai testi di storia e fenomenologia del diritto, presero posto le dispense di medicina legale di Mario Carrara e di psichiatria forense di Carlo

Ferrio. Queste ultime (ridotte oggi a larve di carta) iniziano dalla definizione, in corso allora, di amenza: «sconvolgimento tumultuario dei processi ideativi e della percezione, capace di disorientare la personalità e ottenebrare la coscienza anche fino a spegnerla». Gli studenti prendevano appunti sulla dinamica di ogni caso illustrato dal professore, e lo stesso avveniva nel corso delle visite ai reparti dell'Opera Pia Ospedali Psichiatrici e della Piccola Casa del Cottolengo dove, accanto a pazienti affetti da gravi malformazioni fìsiche, erano ricoverati oligofrenici, epilettici, dementi dei tipi più disparati. Molte delle sue osservazioni EZ le annotava in margine alle dispense, e chi si trovi a sfogliarle sessantanni dopo è come se piombasse di punto in bianco in un girone infernale dove echeggiano urla, si biascicano monologhi a voce atona, rimbombano «passi musicali», stormiscono «alberi parlanti», spuntano dalle pareti «fiori animati» ed eserciti di gendarmi, mostri, pigmei ammiccano dal soffitto a testa in giù. L'ideorrea (flusso verbale incontrollato) di un paziente incline a esprimersi in francese, era stata annotata parola per parola: «"Che cosa c'è? Hm!" guarda un angolo buio. "Les dieuxencage! Ily a des Dieux là dedans!Ils ont lespieds dans les espaces. Qu'est-ce qu'ils ont diti Une peau d'hippopotamepour la Tsarineì Va' a farti monaca! Les capucins! Mia moglie è trattata come una schiava, anzi come un tritone [...]"».11 «In momenti di occasionale lucidità» annotava EZ «certi pazienti tendono ad attribuire i loro deliri a una coercizione misteriosa. Una frase come: "Satana mi tormenta ma io niente" può essere mormorata senza intermissione per giorni, mesi, a volte anni. «Un ricoverato rimugina: "Angelo Nosso dubita o meglio crede che l'uomo sia provvisto d'anima deducendo la sua teoria dagli esperimenti sulle Alpi. Baccelli al contrario ammette la vita come produzione della forza muscolare. Preferisco il secondo".» In margine a un vecchio articolo della «Rivista sperimentale di freniatria e di medicina legale» del 1889 EZ, evidentemente at-

tratto dall'aspetto linguistico della malattia mentale, trascriveva: «Il 30% dei paranoici fabbrica neologismi, e al 90% si tratta di sostantivi. Alcuni esempi: "Ape di coscienza", "Calabrone salvatore", "Alveatico". A proposito di quest'ultimo termine un degente nel manicomio di Imola aveva fornito il seguente ragguaglio: "C'è una nube che avvolge la testa del malato e lo trasforma in un altro mercé la conquitescenza mirtica dell'alveari«)".»12 La retrocopertina delle Lezioni di psichiatrìa forense è lacerata in più punti ma la trascrizione della lettera ai genitori di un'ebefrenica si legge ancora: Torino, 12 maggio 1950 Nella riunione di costì possiamo avere sul saggio di questi mesi la conclusione, su questo fermato incosciente da voi genitori, se avrò risposta in proposito mi unirò alle vostre riconoscenze, che vi premono e così saremo sugli affari nostri senza disturbi continuamente. Certa che la più degna vi sarà da guida per la mia conoscenza vi aspetto. Un'altra annotazione riguarda un malato che «si tratteneva dal distribuire elemosine temendo di diffondere veleno». Costui era persuaso che «zappando squarciasse il seno alla Madonna; quando gettava la fiocina nel fiume gli pareva di sollevare dal fondo le sue creature e di veder galleggiare le loro viscere». Negli anni in cui lo psichiatra Mario Tobino stilava il diario poi rielaborato ne Le libere donne di Magliano (1953) il problema se la follia - per citare le sue parole: «sia solo un misfatto della società, frutto di storte leggi e non invece una solenne misteriosa tragedia» - si affacciava titubante, svestito della prepotenza che avrebbe assunto decenni dopo con la crociata Basaglia. Tra le storie narrate con mano felice in Per le antiche scale una, in particolare, illustra in maniera perfetta le atmosfere dell'epoca in cui EZ assorto negli studi giuridici, bazzicava con gusto Psichiatria. Riguarda il caso del Federale A.

Nel bel mezzo di una solenne adunata — racconta Tobino — il Federale A. di punto in bianco aveva scoperto il vuoto universale, il nulla assoluto e in perfetta conseguenza, l'irrealtà del Duce. In maniera sommessa il Federale era stato accolto nel manicomio circondariale sotto la diretta sorveglianza del direttore, il Dottor Anselmo. Nel suo diario quotidiano il dottore registrava le condizioni, peraltro tranquillissime, di quel paziente speciale, il tenore dei dialoghi con chi, clandestinamente, lo andava a visitare, una volta il suo Vice, un'altra volta la moglie. Un giorno che costei andò a trovarlo: «Il federale appena la scorse immediatamente si animò apostrofandola: "Figurati se esisti, tu! Non ci sono i grandi, sono meno che foglie secche, non esiste il Duce e tu ti presenti che non sei nemmeno una larva"». «Ma, Riccardo!?» e sul volto le si impietrì il ghiaccio della delusione.13 L'impassibilità che nemmeno i santi, i liberati in vita, possiedono stabilmente, per molti psicopatici - EZ si convinceva - è la norma, e nella botte di ferro di silenzi o discorsi senza capo né coda, stanno al sicuro. In un appunto in margine alle dispense di medicina legale annotava: «La psichiatria tratta le difese dal male mentale formulate dalla diagnosi, quindi il gioco linguistico sovrammesso ai gesti o alle parole [...] pietrificati, sottratti al loro fluire e assunti nel sistema, nel complesso di distinzioni del diagnostico». L'interesse per la malattia mentale faceva presagire che l'argomento della tesi di laurea sarebbe rientrato in quella materia. Ma così non fu per due ragioni. La prima, coercitiva, era stata la tubercolosi. Dei lunghi, stremanti, reiterati soggiorni in ospedale14 sopravvive una traccia nella vicenda di ricovero, delirio e coma vissuta da Lotario Copardo, il protagonista di Minuetto all'inferno. Per oltre tre anni la ferocia della tisi scombussolò la vita di EZ e gli studi universitari subirono un arresto. Solo quando le sue condizioni migliorarono, la tesi di laurea fu portata a termine in una materia però estranea alla medicina legale. Nella sessione straordinaria dell'anno accademico 1952-1953, la matricola di

giurisprudenza n. 15077 discuteva una tesi dal titolo: Le compensazioni private egli affari di reciprocità nel diritto commerciale (relatore il prof. Paolo Greco).15 Come mai la scelta dell'argomento, presumibilmente affrettata, cadde sul diritto commerciale? Sebbene non sia dato accertarlo con precisione, un episodio ricordato in famiglia può offrire un curioso indizio. Viene qui riferito con un accenno di affabulazione. Un giorno Venanzio Zolla trova Elémire alle prese con gli scartafàcci giuridici nella sua stanza. Per una volta la curiosità lo arresta sulla soglia e in inglese, com'era solito fare in particolari occasioni domestiche, domanda al figlio: «Ragazzo mio t'inzeppi la testa di questa roba, che utile te ne aspetti? Per quanto mi riguarda, so una cosa sola: perdi, vinci, mercanteggi, tiri sul prezzo, è la vita. Un pittore ci fa l'abitudine. Tu, è evidente, sei portato all'astrazione, ti pasci di teorie... Vuoi sapere la teoria mia? Eccola: la convenienza. E che vantaggio si trae ad applicarla? Tenere a bada le truffe». EZ, come d'abitudine, l'aveva ascoltato in silenzio, appuntandosi a mente le battute. Un pomeriggio di tre anni dopo padre e figlio s'incrociano in casa di nuovo. «Mi sono laureato stamattina» dice Elémire distrattamente. «Ah sì, e in che?» replica il padre con lo stesso tono distratto. «Diritto commerciale.» «Vale a dire?» «Oh! Niente di speciale» minimizza lui. «Immagina Tizio che incarica Caio di far credito a Mevio e resta truffato. Quali sono le implicazioni in materia di diritto commerciale. Tutto qui, un'amenità.» Nessuno saprà mai se la scelta di quell'argomento per la tesi di laurea fu influenzata dalla lezioncina sulla convenienza e la truffa ammannitagli dal padre quella volta. È pur vero che, almeno prima di cadere malato, i corsi del professor Greco erano stati frequentati con assiduità, e al giudizio del docente erano state sottoposte alcune tesine. Una di esse, sul tema della censura, battuta in tre pagine su una portatile, sopravvive tra le carte di allora. In

margine al primo foglio a sinistra, l'annotazione a matita del professore è ancora nitida: «Molto bene. Specialmente la seconda parte. Il principio è formalmente un po' involuto, a differenza della seconda parte, cha ha la immediatezza che l'argomento e il tono richiedono». Qui e là il lavoretto anticipa posizioni che acquisteranno spiccato rilievo nel ciclo saggistico di critica sociale nel periodo compreso tra il 1959 e il 1971.1 passi della tesina che prefigurano temi di punta di L'eclissi dell'intellettuale sono stati evidenziati in corsivo. È pensabile un'abolizione della censura o della persecuzione dell'oscenità? È difficile rispondere di si: le offese alla sensibilità sono cocenti quanto le offese al corpo, assai più, anzi. Già è scarsa l'efficacia delle leggi poste a difesa del civile decoro, poiché bisognerebbe essere vissuti imbozzolati in riguardose famiglie e convivenze eccezionali per non essere stati lesi infinite volte dall'oscenità, dal turpiloquio di prammatica nelle convivenze di massa. Riesce difficile immaginare che oggi negli eserciti, nelle fabbriche, negli uffici si sia liberi dall'oppressione del turpiloquio di cui parlò con cosi sublime accoramento il colonnello Lawrence in The Mint. Guai se almeno molto di lontano non soccorresse il pallido appoggio della legge, per cui almeno in certi luoghi si è garantiti dal dilagare del linguaggio e dei modi teppistici. Ma la sensibilità sociale è unfantasma, difficile da definire, pretesto d'ogni arbitrio, specie in ragione del vizio borghese diritenereche certe cose siano lecite o meno a seconda del momento (lecito inveire contro una recluta, illecitoripeterele stesse parole dinanzi alla propria madre). [...] Ciò che desta sgomento è l'applicazione della censura o del sequestro a opere d'arte o che si propongono di esserlo. È chiaro che soltanto in una società migliore si potrebbe sperare di fare a meno dell'opera dei tutori della legge, già oggi non si può restare non offesi da certi cartelloni pubblicitari, specie di film. Ma ciò che indigna è che la censura non ha mai perseguitato la volgarità offensiva con il fervore con cui s'accanisce contro le opere d'arte. Ifilmpiù abietti circolano senza difficoltà, i bambini vengono abi-

tuati a lazzi ripugnanti, a violenze oscene senza che alcuno li difenda purché lo spettacolo non minacci di farli ragionare, criticare, giudicare. È ilgiudizio dunque che si vuole estirpare, non l'oscenità. Quest'ultima questione avrà ampio sviluppo nell'ultima parte di Volgarità e dobre dove a proposito della «critica come gesto», Zolla scriveva: Principio della critica è il gesto di gioia, di orrore, di riverenza che l'opera suscita. Critica è rispondenza, antifona, cioè pane dell'opera stessa, sua prosecuzione, pertanto crescita del testo originario. Critica negativa è l'indifferenza, il silenzio, e tanto è negativa la critica che prodiga elogi ma non manifesta passione quanto quella che freddamente mostra le mende dell'opera. Critica positiva è tanto quella fetta di improperi e denigrazioni, che sono gesti d'allarme e scongiuro, quanto quella che appassionatamente riverisce a mani giunte sotto specie di lodi (p. 161 dell'edizione originale Bompiani 1962). Gli studi giuridici erano andati di pari passo con imperterriti, straripanti esercizi letterari, e il motivo è semplice: in assenza di alternative alla vita che conduceva, abbandonarsi ai piaceri della scrittura in camera sua era l'unico modo di evadere da fermo. Ogni altro piacere al confronto gli appariva scialbo, un analogo in perdita. L'esordio ufficiale a ventun anni era stato con un libro filosofico di 200 pagine, Saggi di etica e di estetica, pubblicato nel 1947. La tipografìa delle Edizioni Spaziani si trovava proprio accanto all'abitazione di via Pesaro. Lo stile cincischiato, un tantino pedante, evocava arti intorpiditi, ali che stentano ad aprirsi, occhi disawezzi a bagni di luce ma presto uno stile letterario sarebbe emerso in un romanzo «satanico» non solo nel titolo, concepito a ridosso dell'attacco di tisi mentre la madre, anch'essa malata, si avviava a morire.16 Di Minuetto all'inferno, dell'inspiegabile fortuna che arrise a quel romanzo, e dei racconti di poco posteriori, si dirà fra poco. Intanto vale la pena riferire l'occasione che fece

venire a galla un tema tra i più indigesti e spinosi del pensiero di Zolla: l'idea di persona. Un'idea che elaborata, riconfigurata in mille maniere rimase centrale fino agli ultimi anni. In un testo del 1995, L'inganno del nome, si legge: «La persona è "fatta" del nome proprio, sorge originariamente come trovata stregonesca».17 Un'affermazione che gli studi antropologici confermano in pieno, senonché si stenta a farla propria e soprattutto da parte cattolica suscita accanite obiezioni: è mai possibile smentire che «io» sono e resto me stesso da quando nasco fino all'ultimo respiro? Ma EZ lo sconfessava: quante volte aveva scorto d'attorno «corpi che mutavano facilmente di padrone, che nascondevano una parte segreta a loro stessi: un cibo bastava ad alterarli o un goccio di liquore». Nel corso della vita svariate «persone» si erano avvicendate dentro di lui. «Chi ero io?» si domandava ne Lo stupore infantile: Potevo dar ordine alle lacrime di accalcarsi alle palpebre, alle risate di scuotermi il petto e tuttavia rimanere indifferente, lontano. Una passione sembrava a tratti dominante, ma dentro di me sapevo che mai lo era. Così sentivo piene di sentimenti ascoltando la musica, vibravo come un fuscello al trepido vento dei tempi rubati, piangevo calde lacrime, eppure non ero propriamente io a ferio. Era una mia parvenza. Ma era anche una parvenza l'osservatore freddo e distante. Osservava in me lo scorrere di una coscienza che non ero io, era anzi nitidamente distinta da me quale mi conoscevo e quale apparivo. Non era né me né fuori di me [...]. E quanto ai sentimenti e ai pensieri che mi si facevano incontro, che via via affioravano, fino a qual punto erano veramente miei? [...] M'accorsi ben presto che potevo appassionarmi a una compagna o anche a una persona adulta o a un gioco. Potevo perderci la testa e ritornare in me dopo un certo tempo. Ma chi ero io? L'entusiasta o l'osservatore? Lo stregato o colui che notava il rapimento e l'ebbrezza?18 In seguito la meditazione su questo arcano s'era estesa al rapporto tra la persona e il suo nome, un nome che, una volta ricevuto, le aderisce come un sigillo.

«Nelle civiltà d'Occidente il battesimo» rifletteva «accompagna il conferimento del nome; l'immersione più o meno metaforica nelle acque in condizioni di nudità è una riconvocazione della prima fase cosmogonica: ci si reimmerge nel puro suono di acque correnti, frusciami, nell'origine sonora dell'universo visibile e contemporaneamente si riceve la denominazione: si nasce nella parola che ci denoterà.» D'altra parte, fuori dell'Occidente cristiano l'annuncio che la persona è una maschera del vuoto era attecchito in una terra, l'India, predisposta ad accoglierlo. E dall'India drappelli di monaci buddhisti si erano irradiati «a divulgare la notizia nell'Asia centrale, in Cina, in Giappone e ancor oggi una vasta parte dell'umanità riceve il loro insegnamento».19 Se la convinzione che l'io-persona sia una parvenza aveva preso radici fin dalla fanciullezza, curiosamente erano stati gli studi di giurisprudenza a mettere lo scrittore su quella strada molto prima d'incrociare la teoria buddhista. Il primo indizio documentato di un esplicito interesse alla teoria della persona risale al 1948, esattamente un mese e mezzo prima del ricovero all'ospedale San Giovanni Battista Città di Torino per tubercolosi bilaterale diffusa. Nella primavera di quell'anno il «Times Literary Supplement» aveva pubblicato un esteso articolo sul concetto di «persona», quasi una monografìa, del teorico del diritto H. C. Dowdall.20 Poco dopo al giornale era pervenuta una lettera da Torino firmata Elémire Zolla. Attraverso una ricognizione storica dello sviluppo dell'idea di persona, con tanto di riferimenti che spaziavano da Plotino a Hume a Pufendorf a Vico, lo studente di giurisprudenza sosteneva che «persona» lungi dall'essere una realtà ontologica, è piuttosto una contingentpractical construction: an institution («un costrutto contingente che risponde a fini pratici: una istituzione»). Colpito dal tenore della lettera che il giornale inglese pubblicava il 23 ottobre, Dowdall replicava con una disquisizione imperniata sui nessi tra il concetto di persona nel diritto arcaico e il dramma greco-romano dove gli attori indossavano maschere. Questo ragionamento non solo accoglieva la tesi di EZ ma in so-

stanza la rafforzava. Intanto un altro storico del diritto, P. W. Duff, interveniva sulle pagine del «Times Literary Supplement» con proprie argomentazioni e il risultato fu che tutti quegli interventi (di Dowdall, Duff, Zolla e la replica di Dowdall a costui) furono riuniti e pubblicati in un libriccino che Dowdall ebbe la gentilezza di inviare al giovane torinese con una dedica.21 C'è poi dell'altro. Un mucchio di annotazioni rinvenute in un vecchio quaderno toccano un punto specifico del trattato di Hans Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, un'opera fondamentale pubblicata in Germania nel 1934,22 uscita in italiano da Einaudi nel 1952. Poiché EZ si era laureato quell'anno, è fortemente probabile che il testo l'avesse letto tempo addietro nell'edizione originale. Gli appunti riguardano in particolare il paragrafo 25 della parte IV che contiene una minuta analisi delle nozioni di persona «fisica» e «giuridica». Un esame a fronte del testo di Kelsen e degli appunti aiuta a ricostruire la genesi della posizione zolliana sull'argomento. Kelsen sostiene che mentre per la teoria tradizionale del diritto «persona fisica» è l'uomo, secondo la dottrina da lui elaborata la persona fisica non è che «l'espressione unitaria personificata delle norme che regolano il comportamento di un essere umano». In questo senso la «persona» è un artificio. Nella misura in cui la «persona fisica» è il punto centrale d'imputazione di ciò che si definisce uomo, l'uomo è una realtà naturale e di conseguenza la «persona fisica» viene a essere «una rappresentazione ausiliare della conoscenza giuridica». Quanto alla «persona giuridica» Kelsen la vede come l'espressione unitaria di un complesso di norme [...] che regola il comportamento d'una pluralità di uomini. A volte essa è personificazione di un ordinamento parziale come sarebbe lo statuto d'una società [...] altre volte è la personificazione d'un ordinamento giuridico totale che costituisce una comunità giuridica comprensiva di tutte le comunità parziali e che di solito è rappresentata dalla persona dello stato.

Riguardo poi al significato ideologico dell'antinomia tra individuo e comunità, Kelsen ragiona così: «Se la "persona" intesa come personificazione di un complesso di norme [...] crea un'unità organica [...] allora viene anche risolta l'apparente antinomia fra individuo e comunità; un'antinomia che intrappola la filosofia sociale tradizionale quando afferma che l'individuo è un tutto e nello stesso tempo una parte della comunità. [...] Col dissolvere il così detto diritto soggettivo squarciando il velo della personificazione nelle sue tante forme di manifestazione, la dottrina pura del diritto» conclude «viene ad essere liberata da ogni giudizio di valore etico-politico diventando così, nei limiti del possibile, "un'analisi esatta della struttura del diritto positivo"».23 In un saggio del 1960 dove esaminava alcune posizioni della scuola scettica del diritto americano Zolla era lapidario: «La norma nasce con la pietrificazione della vita [...]. Jus scriptum è maledizione, ma una volta che si sia affermato, ineluttabile».24 E poco oltre sentenziava: «Non basta togliere le grucce al malato perché cammini, tuttavia le grucce restano il segno della sua malattia e perciò da aborrire». Il tema della malattia come mortificazione sarà ripreso in Volgarità e dolore in forma di domanda: «Che cosa si può dire dal letto di morte d'un ospedale? Solo un moribondo di pessimo gusto potrebbe fingersi nel raccoglimento d'un intérieur quando in realtà si trova in un immondezzaio o in una macchina per selezionare i rifiuti della società disinfettata».25 Nelle sue fasi d'assalto e latenza la tisi era stata un'esperienza di trasformazione, l'adito a una percezione acuita dell'esistenza. Guardarsi da fuori come se quel corpo madido, ansimante fosse di un altro aveva prodotto su di lui l'effetto di una catarsi: A taluno - avrebbe annotato anni dopo - capita un giorno dell'esistenza di accorgersi che tutto è una farsa, specie gli onori, la stima di cui si gode, l'opinione che gli altri hanno di noi, e anche noi di loro, e di noi stessi. Tutto ciò che solitamente esalta e fa tremare è precario, ridicolo. Che liberazione, scoprirlo! Di colpo si buttano via le grucce a cui ci appoggiamo: il rispetto al-

trui, il rispetto di noi stessi. Tutto il miserabile amor proprio ci scrolliamo di dosso. Da ora in poi nessuno ci ricatterà più, andiamo sciolti, leggeri ormai. Vorremmo andare da tutti a rivelare la buona novella: «Puoi vivere senza la stima altrui e la tua. Lascia stare l'immagine di te stesso!». Ma se, ingenui, lo facciamo, avremo delle sgradevoli sorprese. Ci verrà domandato: «Cioè posso rubare, uccidere?». È dunque questo il desiderio che si agita nel cuore comune? Allora si sta zitti. Meglio che tutti camminino curvi sotto il peso della propria immagine, del rispetto di sé, se quel peso li trattiene dal delitto. Ma sarà vero che li trattiene? C'era stato poi il secondo passo. Per il giocatore in erba - e di fronte alla vita quale giovane non lo è? - un certo numero di giocate preliminari simulate è una tentazione incoercibile, e poiché nelle vene di EZ scorreva inchiostro da scrittore, quelle giocate di prova furono narrazioni. I primi racconti, ambientati a Torino e Venezia, le città più familiari della sua giovinezza, esalano atmosfere surreali, e tetri, gonfi di malinconia sono gli orizzonti in cui si muovono i personaggi: la misera portiera dello stabile in via dei Martiri in attesa di un evento memorabile che poi le accadrà davvero; Ignazio, il ragazzetto attratto in un villino dove consumerà una fine senza scampo accanto a una derelitta uscita di testa; Marco, lo speziale veneziano che dopo aver addestrato il suo gatto a «scrivere» con gli zampini anneriti di polvere di carbone, un giorno nei segni tracciati dall'animale legge il presagio dell'imminente sciagura. Visita angelica in via dei Martiri, L'Africa nel cortile e. Marco e il gatto Mammoni sono esercizi narrativi che Zolla da giovane praticò per sondare il limbo che si stende tra l'inferno e il purgatorio della commedia umana. Basta affacciarsi alla soglia di quel trittico di storie, e la sensazione di apnea prende alla gola: Volge all'argento il grigio delle nuove case in via dei Martiri di queste giornate di primo inverno e ancor più paiono esse deserte d'ogni vita. Vita non è ceno il rapido saluto o lo squallido discorrere dei vicini quando accada d'incontrarsi, quando saranno, le

loro parole, tediosi elenchi d'informazioni quanto costa riscaldare nei vari modi, con nafta o con carbone, con legna o con gas, come s'installa questa stufa o s'impiantano intercapedini, oppure, e peggio, rimestano i brandelli d'impressione che sulle retine stampò la televisione la sera dianzi, o fra uomini accertano sorti di partite di calcio, variazioni di paga o contributi, oppure, a modo di facezia ripetono, al caso di una parola pronunciata, le pubblicità rimate dei prodotti. Incipit di Visita angelica in via dei Martiri ***

Tre scalini menavano alla porticella del villino, coronata da una vecchia insegna rossa: Reale Società Assicurazioni. Qui Ignazio sedeva, aspettando Isidoro, Genesio, Apollonia che a uno a uno scendevano dalle umide ventose mansarde. Ignazio aveva nove anni e come più anziano li capeggiava, ed attorno a lui si sentivano stretti a difesa dalla banda dei ragazzi che dominavano i giardini del rione armati difiondee cerbottane, ma soprattutto temibili perché portavano un fazzoletto stretto al ginocchio o attorno alla testa, come a significare che erano i feriti che potevano ferire, anzi dovevano [...]. Incipit di L'Africa nel cortile

Dapprima le braccia e le gambe di Marco si dimenarono, tentando di spingerlo a galla, poi da qualche recesso della sua mente che il panico non aveva toccato fu impartito, serafico e perentorio, un ordine: si abbandonò tutto all'acqua fredda. E in quell'attimo vasto, in cui la mente raccoglie in un baleno tutti i pensieri prima di svanire, si consolò di aver tratto Mammone in salvo dai marinai sicché anche Marco poteva diventare l'uno. Ma prima che il verde gelo dell'acqua si chiudesse su di lui un baleno svelò l'occhio nero del frate o della Mora,figliadi Turco [...]. Chiusa di Marco e il gatto Mammone

Disposte cronologicamente tra Minuetto all'inferno e il secondo romanzo Cecilia o la disattenzione, quelle calligrafie narrative servirono Il per lì a svelenire certi dèmoni uggiosi di cui disfarsi al più presto. Scopertamente sono gli esiti di lucidi, spietati affondo in certi abissi torinesi di normale abiezione nascosti agli occhi della gente dabbene per il semplice fatto che gli occhi della gente dabbene, a differenza di quelli di uno scrittore, non s'attardano su megere che d'inverno si corazzano il petto con fogli di giornale, su cartomanti che alla porta del proprio miserabile alloggio inalberano la scritta: «Sonnambula autorizzata» (sic!) ; su fanciulli intisichiti che succhiano la minestra da un coppo di cartone; su portinaie allenate a captare variazioni impercettibili nei manierismi quotidiani della squallida turba che popola il caseggiato. Nel caso di Minuetto all'inferno, i personaggi agiscono come ostaggi di sbadati umori, e così basso all'orizzonte è il sole della vita da far pensare a un esorcismo: per liberarsi del male accumulato il narratore evoca un succubo e lo delega a compiere un rito. I suoi officianti, in un cielo surreale che incombe su Torino al tempo finale del Regime, sono il (un) Dittatore, attorniato da insolenti scherani, e il suo complice, Satana, circondato a sua volta da una corte di diavolacci proni ai suoi ordini. A un livello ulteriore di lettura il romanzo, al pari dei racconti di quel periodo, è un'iniziazione al senso occulto dell'esistenza. Che la sua vita, e la vita in generale, fosse un gioco di dadi retto dal destino, Zolla lo aveva creduto da sempre, ma era anche persuaso che il giocatore non è un burattino, uno zimbello del fato purché la sua arte di vivere si affini al punto da piegare la sorte all'intensità dell'intento, rettificandola. «La sorso fortuna» scriveva nel 1963 «è l'elemento che collega fato umano e divinità superiore, perché critica oggettivamente il destino, mette in continuo subbuglio, è simboleggiata dal sistro, invita a non riposare nel mondo.»27 Un giorno, mentre era intento a limare certi dialoghi di Minuetto all'inferno, una strana sensazione lo prese alla gola. S'era visto catapultato in un luogo senza contatto con gli spazi abituali, però riconoscibile e paradossalmente familiare. Aveva valicato i ventìcinque

anni, la madre era appena morta e la spossatezza polmonare, questa volta, c'entrava in parte. Stava leggendo Jean Santeuil, il romanzo incompiuto del giovane Proust e il senso di straniamento avvertito poc'anzi divenne tangibile non appena gli occhi gli caddero su un giro di frase: «In quanto al regno dello spirito, egli lo immaginava come sovrapposto alla terra, ma senza che dalla terra vi penetrasse mai nulla, eccetto i profumi, la pietà, la corruzione, la malinconia e i gatti».28 Trasalì come se lo spirito del personaggio proustiano si fosse immedesimato nel suo. Quel passo figura in calce alla Parte seconda di Minuetto all'inferno. Esattamente tre anni prima che L'eclissi dell'intellettuale facesse di Zolla il saggista più scomodo sàia page del periodo precedente il Sessantotto, nell'estate 1956 Minuetto all'inferno, del tutto inaspettatamente, ottenne il Premio Strega per l'opera prima. Esumare dagli archivi dello scrittore certi documenti sul «caso» Minuetto può valere la pena trattandosi di una pagina di storia della letteratura italiana del tempo, tra le più sapide e amene. Quando il dattiloscritto atterrò sui tavoli dell'Einaudi in via Biancamano a Torino, passò e ripassò per le mani di lettori eccellenti come Italo Calvino, Carlo Frutterò, Carlo Fenoglio e in primis Elio Vittorini, direttore della collana per la narrativa «I gettoni».29 A parer suo Minuetto all'inferno non solo abbondava delle pecche tipiche di un romanzo d'esordio ma era l'espressione intollerabilmente insana di una poetica decadente, arcaica e presuntuosa. «Non so, francamente» dichiarava nel risvolto di copertina «che cosa valga questo romanzo "satanico" di Elémire Zolla. Mi ricorda da un lato il Pavese più torbido, e da un altro la narrativa "mitteleuropea" del patriota triestino Silvio Benco.» Nel carteggio tra Frutterò e Vittorini, lo scrittore siciliano confessava che al contatto con una sottospecie di letteratura che ama sataneggiare «io precipito in uno stato di allergia e non so nemmeno distinguere tra creature e aborti nella sua proliferazione». Nella sua replica a Vittorini, Frutterò ammetteva:

[Il romanzo] non convince neanche me, ma insisto nel non ritenerlo indegno dei Gettoni [...] Ha diversi capitoli buoni, e le sue numerose ingenuità e falle non sono quelle di un dilettante da giornaletto di provincia. [...] Sia ben chiaro io non faccio il paladino di Zolla per ragioni personali; ma, a pane il fatto certissimo che ci farà causa (è un esperto in materia) e che la perderemo, non vedo la ragione di trattarlo cosi male, quando pubblicargli il romanzo non costerebbe, riconoscilo, neanche a te, un terribile sacrificio ideologico. Ti prego con tutte le forze - concludeva - di ripensarci. La risposta di Vittorini fu categorica: Non sono d'accordo. Trovo lo Zolla decisamente inferiore a tutti i libri che tu citi [...] sono degli effettivi «gettoni». Mentre lo Zolla è solo cupamente fantasticante: un incubo puramente libresco [...]. In ogni modo non dico che non lo voglia pubblicare. Ho detto e ripeto che vorrei scrivere all'autore per dirgli della brutta impressione che mi ha fatto rileggere il suo manoscritto e per cercare di convincerlo a ritirarlo, a non commettere l'errore di rendersene responsabile in pubblico. Questo è tutto. Doppiato il solstizio dell'inverno 1955, le posizioni dei pianeti sulle sorti di Minuetto sono mutate. Vengono allestiti i dati biografici su Zolla e il 24 gennaio Vittorini scrive a Calvino: «Nel risvolto per lo Zolla non farò che dir male di me. Niente di lui». Passa la primavera e il 5 giugno una nota a mano, frettolosa, annuncia: «Usciti Guerra e Zolla, la tipografìa è in riposo e non bisogna lasciargliela».30 Si arriva all'estate, e ciò che accadde a Roma la sera della premiazione, lo rievocava Maria Bellonci, madrina dello Strega, tredici anni dopo: «Quel 1956 [...] con Guido Alberti, sempre sollecito verso i giovani, pensammo di dare un premio anche ad un'opera prima che ebbe questo carattere originale: la giuria era composta dai vincitori dello Strega. Vinse Elémire Zolla col suo primo romanzo Minuetto all'inferno, libro che sorprese tutti, oscillante

fra una specie di realismo magico e un moderno razionalismo; e cosi proponemmo un nome che ha oggi un suo singolare colore nel saggismo italiano.»31 Quella sera la ruota della fortuna, ciecamente, girò a favore del giovane «in abito scuro, timido, ma che si assicura intelligentissimo»,32 e il Premio Strega, arrivatogli tra capo e collo, diede una sterzata fatidica all'asse della sua vita.

Il periodo romano 1957-1991

Il coraggio che davvero difende è quello conforme all'etimo: un grande cuore, una psiche ordinata e forte perché sottomessa allo spirito. Il satanismo1 1. Bozzetti di vita quotidiana Lasciata Torino con immenso sollievo, EZ s'immerse nel mondo culturale della capitale: era il 1957. Nella società letteraria e accademica romana strinse amicizie senza legarsi a gruppi di nessun tipo. Era un chierico vagante, un intellettuale senza portafoglio, un uomo deciso a giocarsi la vita con un capitale costituito dalla sua sola mente, «la più svanente, esasperante delle crete», avrebbe annotato nei Quaderni. Abitudinario, meticoloso e frugale nella vita quotidiana, si piegava alle cose solo in base a un ordine interiore ma anche secondo l'estro del momento, consapevole che un'occasione lasciata andare è persa per sempre. Chi volesse immaginare il giovane Zolla all'inizio del periodo romano, che durò trentaquattro anni, è agevolato dall'articolo di un saggista napoletano, all'epoca collaboratore de «Il Mattino», Luigi Compagnone, che ritrasse lo scrittore nel suo rifugio a un passo dal Tevere dove aveva abitato per qualche anno dopo la separazione dalla prima moglie. Il matrimonio nel 1958 con la scrit-

trice Maria Luisa Spaziarli conosciuta molti anni prima a Torino, s'era logorato e sciolto dopo pochi mesi.2 L'articolo s'intitola Esclusi dalgiro ed è colmo di una delicatezza insolita nel mondo di chi scrive in pubblico. Nel quartiere Prati venne incontro a Compagnone l'alta e opaca facciata di un caseggiato costruito — scriveva — come si usa oggi: tale, da farti disperare che dentro vi abitino e vivano uomini non ancora ridotti a larve e bruchi ammassati, nelle loro catalessi serali, dinanzi a schermi televisivi [...]. Ma come di 11 a poco fui entrato nella casa, subito m'accorsi d'essere venuto in un territorio a sé stante, in uno spazio dove qualcosa impediva alla volgarità la pur minima intrusione. Una casa di poche stanze [...] povera, si, ma come si può dirlo della cella di un monaco [...] il tavolo e il mobile, il letto e qualche quadro alla parete, i libri sul comodino, le carte con gli appunti [...] la profonda grazia spirituale del padrone di casa aveva trasformato gli oggetti, le pareti, la casa, a sua immagine e somiglianza.3 Negli appartamenti romani in cui EZ abitò dopo quello di via Pannini, l'impronta sarebbe rimasta identica. Penombra, silenzio, un aleggiare d'essenze profumate, il brontolio dell'acqua in bollore per il tè, alle pareti riproduzioni di icone senza valore commerciale ma di straordinaria forza iconografica. Talune stavano poggiate sui ripiani di mobiletti che lo scrittore, con un moto improvviso di alacrità manuale, si buttava a laccare di squillanti rossi di Cina finché la tetraggine dell'aspetto iniziale non era fiaccata. Poi i gatti: una buffonesca, contegnosa banda di cinque o più felini, imperterrita nella ricerca di un piacere sottile condiviso col padrone a graffietti e moine, sbadigli sontuosi, scorribande in spalla, sonni indisturbati sulla pancia di lui sdraiato a scrivere. Ore che gocciavano lente senza che il suono del telefono forasse il silenzio, dialoghi a voce smorzata, i vasetti di miele sul vassoio accanto alle tazze da tè, scatoline di cibo lambite da linguette troppo appagate per mordicchiare più di tanto 11 dentro. Da quando s'era installato a Roma lavorando nella redazione di «Tempo Presente» e poi docente di prima nomina all'Università

La Sapienza,4 EZ aveva avuto l'accortezza di stendere una cortina invisibile tra il suo mondo e il mondo di fuori. Le cautele di un funzionario dei servizi segreti, lui le aveva adottate spontaneamente all'unico scopo di sigillare la vita privata, eppure non c'era nulla di più esposto alla luce del sole del suo tran tran quotidiano. Incapace di condurre automobili, si muoveva volentieri a piedi a un ritmo che non tollerava soste fuorché davanti a vetrine di erboristerie, mobilia asiatica e delicatezze esotiche. Nelle passeggiate verso sera amava attardarsi nelle librerie. Le rastrellava periodicamente anche nei posti più fuori mano e di richiamarlo ai limiti dell'orario di chiusura non c'era verso. Spesso le catture più ghiotte avvenivano all'ultimo minuto con la saracinesca calata a metà: a braccia colme, a passo veloce riguadagnava la via di casa. Nelle sue camminate era fortunato: quante volte una sorte imperscrutabilmente benigna aveva provveduto a sventare incontri sgraditi! Negli anni la rete di strade percorse ogni giorno aveva incluso Piazza Sant'Anselmo sui fianchi dell'Aventino, dove s'era acquartierato accosto alla casa di Cristina Campo, la scrittrice (al secolo Vittoria Guerrini) cui fu legato fino alla morte di lei avvenuta nel gennaio 1977.5 L'appartamento in via Merulana dove andammo a vivere nel 1979 aveva il vantaggio di essere vicino a La Sapienza dove Zolla teneva lezione regolarmente alle tre del pomeriggio. Gli studenti, gli assistenti e chi andava a visitarlo erano ricevuti in una stanzetta in via Magenta; successivamente in uno studio più ampio in viale Castro Pretorio, colmo di libri e cimeli dei viaggi tra gli indiani d'America. Prima che io gli facessi da autista sulla vecchia Ford, lo scarrozzavano in facoltà allieve devotissime, alla guida di automobiline che a strattoni e sussulti fendevano impavide il traffico romano. Alle testate cui aveva collaborato nei primi anni, 6 gli articoli battuti a macchina erano consegnati con una puntualità ineccepibile. Se li scriveva a mano, non c'era interpunzione, tratto di lettera che non fosse precisato con minuzia da calligrafo e l'occhio che scorreva la pagina indugiava volentieri su quel nome e cognome allacciati nella firma in un arpeggio elegante e deciso.7

Gli inviti a cena in casa di letterati amici erano stati inizialmente un'abitudine concessa a se stesso e a chi l'accompagnava, con distaccato piacere. In quegli interni romani di trasandata bellezza, una vena salottiera, il gusto tutto inglese della conversazione sono tono spumeggiava in battute fulminee, e non c'era argomento sul quale le posizioni degli interlocutori non venissero arpionate con una consumatissima destrezza dialettica. Sapeva vincere con la noncuranza di chi avrebbe trovato sommamente triviale approfittare del disagio altrui, e i toni di una voce bellissima temprata nel sussurro e nella declamazione erano dosati come quelli di un cantore provetto. Vestito solitamente di scuro, indossava capi modesti non potendosi permettere niente più di una bella cravatta, ma la minima trasandatezza o un minuto di ritardo agli appuntamenti erano aborriti quanto l'incostanza nelle relazioni di amicizia alle quali teneva moltissimo.8 Ai dati estrinseci sugli anni romani che inclusero la stagione dei viaggi fuori d'Europa ripercorsa nel capitolo 4, e sul periodo finale a Montepulciano dove ci trasferimmo non appena Zolla, al compimento dei sessantacinque anni, lasciò l'insegnamento universitario, c'è poco da aggiungere rispetto ai ragguagli diretti dello scrittore citati nel primo capitolo. Da una biografìa che EZ volle scancellata è lecito però far affiorare circostanze ed elementi che aiutino a scrutare la sua personalità, la cifra di un uomo che verso la fine della vita lietamente confessava: Sono stato sempre alieno dalle imposizioni marxiste o fasciste, la mia mente ha spaziato senza impedimenti. Perciò da sempre sono vissuto nell'orizzonte che oggigiorno ci circonda in maniera nitida e visibile. Dice René Clair: il chiavistello del futuro garantito dal marxismo è saltato, il tempo ci è restituito, profondo e profuso, senza segnaletica coatta. L'immersione nel passato, l'amore dell'arcaico non sono più l'obbrobrio che sembrarono, bensì occasione di libertà. Il futuro si dilata in enigma, in possibilità sconfinate. La vita torna perciò alle sue dimensioni proprie, che sono enormi, esplorabili senza posa e tuttavia, aggiungo, strutturate da archetipi eterni.9

2. La mediazione intellettuale In un articolo sul teatro di Bertolt Brecht apparso nel 1956, Zolla osservava che nei drammi brechtiani è raggiunta la fusione totale del sistema critico e della passione umana. Quando il momento storico è tale che «il personaggio non si raggiunge più attraverso la partecipazione affettiva, soltanto rischiosamente rivivendone la malattia è dato di plasmarlo».10 Sopra al titolo dell'articolo campeggia la riproduzione della leggendaria carretta di Madre Coraggio nell'allestimento del Berliner Ensemble, la compagnia di teatro diretta da Bertolt Brecht. Sia l'incedere dolente del carro su ruote che paiono di pietra, sia il passo appena citato squarciano la vista sulla tempestosa stagione che Zolla si accingeva a traversare poco dopo i trent'anni. Anche nel caso del momento storico che indovinava di piombo sentiva che soltanto «rischiosamente rivivendone la malattia» avrebbe potuto comprenderlo fino in fondo. Che si trattasse di una battaglia intellettuale da combattersi senza alleati su cui contare, gli fu chiaro da subito. Occorreva utilizzare le più affinate risorse dell'ingegno critico per riconoscere gli impulsi che determinano i cambi di rotta negli andamenti del sistema, i fermenti in grado di minarlo dall'interno in una miscela di parossismo e scaltrezza, caso e causalità. «Alla mia parete» recita il Liederóxzto nell'articolo sul dramma brechtiano «è appeso un intaglio giapponese / maschera d'un cattivo dèmone; coperto di lacca dorata. / Compassionevole vedo / le gonfie vene della fronte, che dicono / quanto sia faticoso essere cattivo.»11 Forse non è sbagliato congetturare che la «cattiveria» profusa da Zolla negli scritti di critica sociale del primo periodo romano fosse una tattica attinta al metodo che Theodor Wiesengrund Adorno (1903-1969) propugnava ne La dialettica negativadopo averlo messo in pratica nelle opere precedenti. Opere che Zolla conobbe e commentò assai prima che divenissero testi di culto in Italia.12 Quel che Horkheimer e Adorno dal loro esilio in America avevano stigmatizzato nel maggio del 1944, cioè che esiste

un totalitarismo nascosto sia nel fascismo sia nel capitalismo,13 fu per il giovane Zolla una istigazione a battere la strada della dialettica negativa, in vista però di raggiungere un obiettivo che dalla filosofia della scuola di Francoforte si allontanava a perdita d'occhio. In un saggio sulla rivista romana «Elsinore» uscito nella primavera 1964, EZ denunciava il carattere parassitario della filosofìa di Adorno in termini che non lasciano dubbi sulla propria presa di distanza dalla dialettica negativa pur essendo persuaso che una critica radicale della società di massa e, a monte di essa, dell'ideologia illuminista, fosse l'unica tattica efficace date le circostanze. L'idolatria progressista, l'industria culturale, la mistificazione, l'interesse smodato per il corpo, l'abbassamento del soggetto sociale a una stupidità impudente e intontita sono temi che innervano la Dialettica dell'illuminismo quanto gli scritti zolliani di critica sociale tra il 1959 e il 1971, e sviluppi convergenti assumono gli excursus di Adorno e Zolla sull'opera di Sade e il sadismo.14 C'è però una differenza di fondo nella visione dei due pensatori, e una lettura attenta del saggio su «Elsinore» aiuta a coglierla. Adorno - scriveva Zolla - adotta un metodo invincibile [...] non prospetta un punto di vista di contro a un altro, ma critica il porsi d'un punto di vista in genere. La sua forza sta nel non concedersi mai punto di vista, nello sfruttare bensì quello dell'avversario, nell'adottare il sistema che ne promana dimostrandone o l'interna contraddittorietà o l'inconciliabilità con la concretezza. [...] Questo metodo della negatività assoluta si potrebbe chiamare parassitismofilosofico,né il termine ha di necessità un tono deprecatorio, essendo noto che il mondo vegetale è parassita della terra, come l'animale del vegetale, come l'uomo degli altri parassiti (d'altra parte la macchina, parassita dell'uomo, sta vendicando piante e bestie).15 Deprecabile piuttosto è il fatto che vietandosi di ammettere una filosofìa che non sia esclusivamente demolitrice, Adorno è come «un guerriero che rifiutasse di considerare la guerra in funzione

della pace». Persuaso che la spiritualità non sia altro che un tipo di merce e dunque un'arma di intontimento e dominio, Adorno disconosce l'anelito a scavalcare la contingenza storica, il bisogno nell'uomo di darsi un fine soprannaturale, esclude che ci siano istanze che si sottraggono a patteggiamenti e compromessi suggeriti dalla ragione calcolante. Per intendere il senso della solitaria battaglia intellettuale che rese a EZ una moneta ancipite: su una faccia la fama letteraria e un'istantanea fortuna critica, sull'altra l'ostinata avversione dell'establishment culturale fino ai primi anni Ottanta - come riconosceva lui stesso nell'Autodizionario degli scrittori italiani- occorre meditare a fondo sulla coesistenza nel pensiero di Zolla di due istanze parimenti imperiose. L'istanza eretica, di colui che sceglie di stare dalla parte contraria, di andare controcorrente, consapevole del prezzo che tale scelta comporta. E l'istanza metafisica, che però condusse Zolla su sponde lontane da una metafìsica intesa alla maniera occidentale. Nel senso più vasto - scriveva negli anni Ottanta - la metafisica è ben più che un linguaggio, è un'esperienza che trasforma [...]. È proprio questa metamorfosi intima e totale che definisce il metafisico [...]. Egli estirpa ogni identificazione con la sua persona sociale e storica, non si riconosce nell'individuo che sembra essere, nato da certi genitori in certa data, con un suo carico di ricordi. Il metafisico si identifica con l'essere come tale. Lo esprimerà talvolta nei secoli dicendo «Sono figlio del cielo e della terra» o, come affermava Guerin Meschino, «sonofigliodel sole e della luna». L'istanza eretica spinse il giovane Zolla a collocarsi fuori del giro allo scopo - inconcepibile per chi unicamente «nel giro» si sente al sicuro - di serbarsi libero di indignarsi, di «individuare le cause di una rovina abbastanza prossima di una società basata sulla distruzione della natura», dichiarava in Che cos'è la tradizione. Il passo di San Nilo Abate messo in calce a L'eclissi dell'intellettuale - «Colui che si disperde nella moltitudine ne torna crivel-

lato di ferite» - la dice lunga sulla disposizione dello scrittore alla vigilia della sua battaglia anti-moderna. 16 D'ora in avanti la sua parola si sarebbe caricata di furia, avrebbe provocato, suscitato sdegno, attizzato avversione quanto più impassibile si sarebbe conservato nell'intimo. Era un programma che aveva preso forma tempo addietro sui banchi della facoltà di Legge a Torino quando s'era affacciato sui paradossi del diritto, sui labirinti della malattia mentale. Certe somiglianze tra la struttura della norma giuridica e la patologia mentale avevano dissuaso i suoi studi dal prendere stabile residenza in quei distretti, ma l'impronta causídica, la percezione abbagliante dell'assurdo erano rimasti, e l'apparato di fondo degli interventi a voce e degli articoli, pubblicati a raffica su riviste e quotidiani, resta quello di una requisitoria allestita con una pars destruens e una pars construens. L'eclissi dell'intellettuale, il capofila degli scritti polemici, prese forma sullo schema di un ciclo di trasmissioni radiofoniche al terzo programma della RAI incentrato sui temi: «Industria e letteratura», «Erotica di massa», «Le regressioni della droga», «La decadenza della persuasione». Ridar vita ai clamori che quel libro, ristampato nel giro dei primi mesi quattro volte, suscitò all'epoca è manifestamente impossibile. Una vicenda che scosse, impermalì, esasperò una compagine intellettuale avvezza a passare ogni questione, atteggiamento o punto di vista al filtro di un'insindacabile polarizzazione politica. Che il pensiero sia il «padrone» piuttosto che il «servo» che esegue la polarizzazione era (e rimane) una considerazione del tutto estranea al codice in uso. Zolla lo denunciò e con una delle sue caratteristiche torsioni dialettiche ricorse una volta, si era nel 1963, alla figura hegeliana del «figlio del padrone»17 per additare un uomo la cui libertà interiore gli ingiunge di resistere alla forza e stravolgerne le abiette regole. «Il guerriero» aveva scritto ne L'eclissi dell'intellettuale «deve temprarsi, respingere la paura, e se veramente vuol essere forte, anche l'odio. Il giocatore, una volta calcolata la situazione agisce meccanicamente, con un gesto stereotipo, e può permettersi di vivere una vita interiore tutta abbandonata a se stessa.»

Tempo dopo gli era capitato di occuparsi di una nuova edizione del Bhagavadgttà, il poema epico indiano dove Arjuna, in procinto di combattere, si macera nel dubbio se sottomettersi alla logica implacabile della battaglia. Il cocchiere accanto a lui lo esorta a «osservare le alterne vicissitudini come se non ci riguardassero (o addirittura come se fossimo noi a divinamente volerle!). [...] Se mai si acquista un tale distacco» rifletteva EZ «si diventa partecipi di ciò che è immutevole, eterno, e le nostre vicende, anzi la nostra stessa persona, ci appariranno come vesti, che indossiamo o buttiamo. Le cose visibili manifestano delle essenze che si ritrarranno un giorno nell'infinita possibilità, per svanirci o per ridiscenderne sul piano della manifestazione visibile: impariamo a vedere questo manifestarsi e riassorbirsi senza giudicare, senza commuoversi, senza che s'increspi la nostra mente». «L'eclissi dell'intellettuale entusiasmò e indispettì come mai prima era capitato nel nostro mondo culturale per un libro di saggi» scriveva Giuseppe Tedeschi in un ragguaglio sull'opera di Zolla fino al 1969.18 Il primo a occuparsi autorevolmente àt\YEclissi dell'intellettuale era stato Eugenio Montale dalle pagine del «Corriere della Sera». Egli intravedeva in Zolla la tempra di «uno stoico che onora la ragione umana e che sente la dignità della vita come un supremo bene. È un uomo che non si mette "al di sopra" della mischia, ma che vuol restare ad occhi aperti. E finché esisteranno uomini così fatti la partita non sarà del tutto perduta».19 A sua volta, Guido Piovene, recensendo Volgarità e dolore, la seconda opera zolliana del ciclo anti-moderno, osservava che: «Vi sono libri che devono la loro forza alla maniera con la quale è condotta l'analisi, al suo movimento, alle luci che accende sul proprio cammino. Qualunque sintesi li falsa».20 Due anni dopo, nel 1964, era la volta di Storia delfantasticare, un libro costruito come un trittico sulle origini dello stato fantastico e i suoi esiti nelle letterature moderne, nel surrealismo e nelle avanguardie. L'esizialità della fantasticheria era posta in evidenza soprattutto nell'opera di Kafka, dove si esprime una poetica agli antipodi di quella di Joyce. Se in Kafka - commentava Elena Croce recen-

sendo Storia delfantasticare - Zolla coglie «colui che di fatto ci ha aiutato come nessuno a individuare i moderni travestimenti di Satana», Joyce al contrario rappresenta per Zolla «l'apoteosi del fantasticare».21 L'avversione per l'autore di Ulisse, manifestata da EZ in svariate occasioni,22 ha una sostanza etica ed estetica insistentemente messa a nudo nel componimento giovanile Joyce e la moderna apocalisse, qui riportato tra i Saggi letterari, Parte seconda. Tra il 1959 e il 1971 lo scrittore licenziò quattordici volumi 23 e cinque di essi, nel giro dei primi quattro anni, erano stati delle antologie: Imoralisti moderni (co-curata con Alberto Moravia), La psicanalisi-, l'edizione commentata delle Opere di Sade e di una scelta di scritti di Emily Dickinson {Selected Poems and Letteria. Infine Imistici dell'Occidente, una monumentale raccolta di testi di contemplativi pagani e cristiani, di cui ci occuperemo fra poco. Le prefazioni a Confessioni e immaginiti Franz Kafka, a L'età del jazz di Fitzgerald,24 innumerevoli lavori di americanistica tra i quali spiccano i volumi Le origini del trascendentalismo e l'edizione di ClarelÒi Herman Melville,25 oltre a uno sciame di interventi e articoli pubblicati dalle più varie parti, compongono una bibliografia a tal punto ingente e diversificata che si stenta a ricondurre alla penna di un unico autore. Una sola spiegazione rimane plausibile: la vita di Zolla si svolgeva su due piani. Quanto più turbinosa era la ridda degli impegni quotidiani, tanto più sigillato e assorto era il tempo trascorso al tavolo di scrittura. Da quando a ventidue anni, a tu per tu con la tisi, aveva deciso di «non» credere alla propria morte imminente sulla base di un semplice ragionamento: se muoio per davvero non ci sarà più un io a esaminare la questione, intanto vedo fin dove posso spingermi al di là di me stesso e può darsi che ce la faccia, a trentasei anni la ricaduta nella malattia polmonare l'aveva posto al medesimo bivio. Però questa volta il nemico non era più solo la tisi, e fu la spinta incontenibile ad affrontare quella più dura sfida a rianimarlo dal profondo.

3. La svolta silenziosa Nel 1962 un ampio saggio concepito come introduzione a un'antologia di testi di contemplativi pagani e cristiani, I mistici dell'Occidente, documenta una svolta senza ritorno nella prospettiva intellettuale e spirituale dello scrittore. La ricaduta della malattia polmonare lo sequestra a letto per mesi, e la visione interiore si allarga: «Ascendiamo il monte Ventoso della storia e guardiamo il disegno da quella grande altezza: i particolari non si discernono più, vediamo alternarsi ciclicamente l'una all'altra civiltà fondate sul commento d'un testo sacro tremendo e fascinoso, che non tanto è letto e giudicato quanto legge e giudica chi lo accosti, e civiltà prive d'un testo, apparentemente fondate sul culto della critica».26 I mistici dell'Occidente che raduna e traduce in un tomo di settecento pagine lo giudicano nel nudo silenzio di un soave rigore, e la sua persona intellettuale è messa in questione radicalmente. Lo stato mistico come norma dell'uomo è riconosciuto come la pietra di volta di un sistema che d'ora in poi si richiamerà ai valori perenni della tradizione; prescriverà la liberazione dal sonnambulismo coatto dell'industria culturale e della società di massa; definirà Yanatomia spirituale dell'uomo nell'insieme delle civiltà religiose della terra. Circolò inizialmente l'Introduzione a I mistici anche in un fascicoletto autonomo di una novantina di pagine dalla copertina in cartoncino grigio. Una rarità editoriale assieme al volantino contenuto nell'edizione originale Garzanti dove Zolla esponeva un profilo di sé perfino più smunto di quelli che abbiamo letto in precedenza.27 Per niente laconica era invece la descrizione dell'antologia. E se le ristampe Rizzoli 1976 (in sette piccoli volumi) e Adelphi 1997 (in due volumi di circa 2000 pagine), la riprofilano in modi diversi, qui è trascritta nella versione originale: È probabile che questa antologia, nella quale Elémire Zolla ha raccolto testi religiosi di tutti i tempi e di tutte le letterature, sia unica al mondo. Dai testi orfici al biblico-platonico Filone, da Seneca a Plutarco, dai testi ermetici a Giamblico, sulla fine della ci-

viltà classica: i Padri della Chiesa, Clemente d'Alessandria, Tertulliano, Origene, Evagrio, Agostino; il medioevo occidentale e bizantino; e la grande rinascita del pensiero religioso nel secolo XI e XII, Pier Damiani, S. Bonaventura, Gioacchino da Fiore, Hildegarde von Bingen, Mathilde von Magdeburg, S. Francesco e i Manichei. Poi, mentre si avvicina l'età moderna, le diverse tradizioni nazionali: la mistica tedesca, da Boehme fino a Lutero, Silesius e Athanasius Kircher; i puritani inglesi, John Donne e Fludd; la quasi ignota fioritura italiana, da S. Caterina da Genova alle correnti neoplatoniche, a S. Veronica Giuliani e Bartolomeo Cambi; Calvino, S. Francesco di Sales, Pascal, Bossuet e Pierre de Caussade; S. Ignazio, S. Teresa e S. Giovanni della Croce. Verso la metà del secolo XIII questa grande tradizione si esaurisce e si spegne: un mondo sembra morire di colpo. Taumaturghi greci e Padri della Chiesa, cabbalisti e francescani, gesuiti e protestanti sono vicini e solidali nelle pagine di questa antologia. Il lettore moderno può leggerla a frammenti e brani, cercandovi la sparsa quintessenza intellettuale e morale dell'Occidente; ma può anche leggerla come un unico, immenso libro, scritto dall'umanità in un solo respiro. Accanto a testi famosissimi, pagine di grandi scrittori ignoti, neppure registrati nelle enciclopedie. Un'ampia introduzione precede la scelta: notizie e commenti agevolano la lettura. Quell'«ampia introduzione» in otto paragrafi è un trattatello capitale non tanto per spicco di dottrina visto che l'erudizione è un sale scialato ovunque negli scritti zolliani, e neppure perché un'antologia così concepita ha forse un unico precedente ne Le confessioni estatiche raccolte da Martin Buber e pubblicate in Germania nel 1921. Il punto è un altro. In quelle pagine meditate allo spasimo ma che paiono scritte di getto, sono prefigurate le vie maestre dell'opera futura. Esse fanno capo ad almeno quattro temi di fondo che innervano gli scritti zolliani tra il 1968 e l'anno della morte, e indicarli uno per uno è un passo necessario per inquadrare il pensiero dello scrittore alla luce di quanto verrà esposto nei prossimi

capitoli. Il primo tema riguarda la ricostruzione di una morfologia spirituale unitaria nelle culture del mondo antico, i cui tratti extrastorici e metafisici saranno delineati in una sequenza di opere che da Lepotenze dell'anima e Che cos'è la tradizione culmina ne La filosofia perenne: l'incontro tra le tradizioni d'Oriente e d'Occidente. Su questa stessa traiettoria vanno situate le indagini sulla «diversità» (otherness) indigena, sciamanica e orientale, riconoscibile quest'ultima nel pensiero e nelle pratiche estatiche e religiose sufi, induiste, buddhiste e taoiste esplorate dallo scrittore nella stagione degli esodi fuori dell'Occidente (capitolo 4). L'esito complessivo di queste indagini a partire da Iletterati e b sciamano e nell'insieme degli scritti apparsi sulla rivista «Conoscenza religiosa», è stato la revisione radicale dell'idea superbamente etnocentrica della minorità spirituale delle civiltà indigene, e l'avvio di una riflessione sistematica sul lascito spirituale dell'Oriente non cristiano al mondo moderno. Opere erudite come Le tre vie, e divulgative come Aure e La nube del telaio. Ragione e irrazionalità, tra Oriente e Occidente, per non parlare delle ricerche promosse dallo scrittore nell'ambito accademico dei cultural studies («studi culturali») sono una pietra miliare nel faticoso, osteggiato acquisto di una visione unificata della spiritualità umana che scavalca barriere e pregiudizi etnici, ideologici e religiosi. Il terzo tema di fondo, perfino più temerario dei due precedenti, che Zolla impostò nella lontana introduzione a I mistici dell'Occidente con sviluppi ininterrotti fino alle ultime opere, è il recupero di una visione della natura e del mondo vivente - la biosfera secondo Vernadskij, il mondo zodiacale secondo Zolla—anteriore alla rivoluzione scientifica; e la riscoperta gioiosa di una conoscenza nutrita degli apporti dei saperi tradizionali, astrologia, alchimia, botanica, musica, giacché «ogni tratto dell'alchimia — scriveva nel taccuino preparatorio a Le meraviglie della natura. Introduzione all'alchimia-corrisponde a un tratto analogo in ognuna delle altre scienze e qui nasce l'interpretazione alchemica dei miti e delle Scritture». Il quarto tema di fondo, non meno ripido dei precedenti, è al centro del trattato sugli Archetipi, dove gli intrecci nelle vicende della storia e della politica, e gli stessi fattori che scatenano l'immaginazione artistica e poetica sono situati

e interpretati in una griglia di modelli o «schemi unificanti, carichi di energia emotiva e simbolica». Gli influssi di questi modelli primari, che Zolla solo in parte ammise di ricondurre alle idee platoniche e agli archetipi junghiani, sono pienamente riconoscibili nelle dinamiche storiche e nei processi dell'immaginazione creativa. L'intramontata presenza dell'archetipo impersonato da Dioniso, emblema nel mito greco della mania erotica e bacchica, era messa in luce dallo scrittore nella vasta introduzione a II dio dell'ebbrezza. Antologia dei moderni dionisiaci. Ci si domanderà: com'è possibile che una serqua così fitta di temi sia già prefigurata nella Introduzione a I mistici dell'OccicUnteì

Per trascendere il mondo - affermava nel testo a un certo punto bisogna che il mondo ci sia, per attingere il sovrannaturale è necessario che ci si rappresenti il naturale. Perciò le due mediazioni attualmente preliminari a ogni conoscenza mistica saranno prima la critica del bisogno falso, del consumo coatto, della repressione della natura, poi la configurazione della propria vita nell'ordine anteriore alla modernità.

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È un «programma» al quale lo scrittore si attenne con scrupolo scandendo l'Introduzione a I mistici in due parti. La prima, assai breve, che nella versione originale occupava il primo di otto paragrafi, verte sulle «cattive definizioni» dello stato mistico. Poiché essa non figura nell'edizione Adelphi riveduta del 1997, la si è collocata in questo volume, nella Parte seconda, tra gli Scritti sulfurei, il luogo più adatto ad accogliere una critica corrosiva del «falso» misticismo. La seconda parte, che nella riedizione Adelphi ammonta a una novantina di pagine, fornisce una mappa dei fattori e delle condizioni che propiziano secondo Zolla l'unico tipo di esperienza interiore, appunto la contemplazione, capace di schiudere alla mente i piccoli e i grandi segreti dell'esistenza sui quali una filosofia non sorretta dall'ardore contemplativo non può che stazionare alle periferie. In un crescendo dialettico l'argomentazione culmina nel com-

mento a ventiquattro immagini di antiche mappe celesti e di una strepitosa carta del cielo raffigurata su un tamburo sciamanico. Se per ipotesi I mistici dell'Occidente fosse stata l'ultima opera curata dallo scrittore sopraffatto dalla tisi a trentasei anni, non c'è dubbio che nelle pagine di avvio all'antologia è racchiusa in nuce la circolarità di un pensiero completo fin dall'inizio accordato ai temi di fondo sommariamente sopra enunciati. In un elzeviro pubblicato una trentina d'anni dopo, quella cifra di completezza si compendiava in un semplice giro di frase:

Ciò che ha vita e cade, ciò che dà vita e sale [...]. L'uomo parte da un oggetto campito nello spazio, la cui immagine [...] provoca un movimento nell'interiorità; questo via via si trasforma nell'immagine fantastica, nella valutazione, nella ragione, che si eleva in intelletto e quindi in mente (il noùsàei Greci) per trasfondersi infine nella «luce che illumina e rapisce», divinizzando, in quanto è Dio. Il Salmo 82 proclama: «Io ho detto: voi siete dèi». 29

Sostenere che il misticismo è «un ritorno della tradizione in senso proprio, ricordo involontario di cosa sepolta», e che il fatto stesso di raccoglierne le esili tracce è la prova che ciò avviene nel momento in cui una civiltà accecata dalla propaganda e dalla libido dei consumi ha indotto nel soggetto storico l'oblio dei beni spirituali, tutto ciò negli anni Sessanta suonò a tal punto allarmante e molesto da spingere a giudicare Zolla non più solo una «macchia» nel panorama culturale italiano secondo il critico menzionato nel primo capitolo, ma «un satana, l'Avversario» come riportava Guido Ceronetti in un articolo apparso su «L'espresso» nel 1971.30 Prima di compiere una ricognizione, seppure veloce, delle imprese avviate da Zolla nel periodo che precede gli esodi fuori dell'Occidente, è opportuno toccare un punto lasciato in sospeso a proposito del «nemico» dal profondo con cui lo scrittore si misurò dalla prima giovinezza.

Tra gli scritti letterari dei primi anni Cinquanta spicca una monografìa apparsa su «Letterature moderne», la rivista diretta da Francesco Flora che aveva accolto svariati saggi letterari di Zolla della prima stagione. Si intitola Thomas Mann e consiste in un profilo accurato della personalità dello scrittore austriaco scrutata attraverso il dramma interiore di Leverkùhn nel Doktor Faustus. Il patire di Leverkiihn secondo Zolla proviene da un eccesso d'intelligenza. Un'intelligenza di portata estrema, osservava, «è tutt'altro dall'intelligenza mezzana, piegata al servizio della potenza, desiderosa solo di trovare un porto sicuro, di risolvere il mondo in un sia pur faticato acquisto». D'altra parte un'intelligenza estrema porta con sé una maledizione. Essa significa distacco, impossibilità di porsi in comunione: Leverkiihn emanava quasi una fisica sensazione di gelo, la sua presenza recava una ventata di freddo. Sarebbero agevoli — proseguiva — i confronti con il Faust goethiano (anche in esso si trattava di rappresentare un punto d'arrivo dell'intelligenza), e colmo di sapienza goethiana è tutto il libro. Ma il Fausti Mann ha un carattere nuovissimo, egli è si saturo di disciplina morale, da non essere più se non prontezza fredda, gusto della costruzione fine a se stessa, della parodia. Un uomo simile - si domandava EZ nei suoi trent'anni — ha delle vie dischiudibili alla sua opera?31 A Torino e nel primo periodo romano, quel quesito era stato anche un quesito personale. Se l'era posto e riposto mentre si dava alla narrativa, alla critica sociale, alla denuncia dei vizi nazionali, alla fustigazione del progressismo moderno. Poi, a grado a grado, i rovelli, il ricorso all'invettiva, la pratica del sarcasmo coatto erano cessati, e il dramma del Doktor Faustus che. aveva paventato e in parte vissuto, si era sbiadito come un sogno scacciato dal soffio di un sentimento nuovo. Quando fu pronto a nominarlo, non lo chiamò spiritualità o fede - giacché «spesso s'invocano i valori dello spirito per opprimere coloro che dovrebbero portare lo spi-

rito»; e neppure struggimento amoroso. Infatti: «Solo chi creda di dover ricevere mercede per i propri sospiri può addolorarsi vedendoli ignorati o respinti; allora la ripulsa sarà giusta punizione della stortura» ( Volgarità e dolore). «Quiete» sarebbe parola più adatta però: «le parole sono sempre ostaggi; appena concesse al mondo profano, subito questo ne fa reti, gabbie» scriverà in Verità segrete esposte in evidenza. Piuttosto, se ci si convince che: «Chi perde ciò che possiede acquista un nuovo tipo di possesso, quello della sua perdita»,32 una parola diversa affiorerà alle labbra, il nome di un senumento che nel cuore di un uomo d'intelligenza estrema stenta a fiorire. Quella parola è affetto, l'affetto che «tramuta e redime»: un'epifania.33

4. Verso un «nuovo» illuminismo «Si è responsabili del potere che ci è assegnato, il quale è inevitabilmente trascurabile quanto a efficacia storica, ma immenso in se stesso, tanto da non potersi nemmeno sperare di esercitarlo interamente, poiché si estende su tutti i pensieri e le immagini che affiorino alla nostra mente.» Questo brano ricorre nel saggio che vide la luce nel 1964 sulla rivista romana «Elsinore».34 S'intitolava Per un nuovo illuminismo ed era il fulcro della prima di due lezioni che EZ tenne l'anno dopo a Venezia, alla Fondazione Cini, nell'ambito del ciclo «Arte e cultura nella civiltà contemporanea». Il tema della seconda lezione era stato «Le macchine e il fantasticare», argomento al centro dell'opera Storia delfantasticare pubblicata quello stesso anno. Dal 1959 ogni settembre all'isola di Saii Giorgio i Corsi Internazionali di Alta Cultura diretti da Vittore Branca (m. 2004) richiamavano studiosi, studenti e gente comune disponibile a intendere la cultura come una georgica dell'animo (l'espressione è di EZ), e la mediazione intellettuale come una sua insostituibile prerogativa. Il dibattito sulle «due» culture, l'umanistica e la scientifica, animato da Charles P. Snow nei primi anni Cinquanta, esigeva un lifting meno ambiguo di quello timbrato McLuhan quando il so-

ciologo canadese aveva espresso sulla società mediatica il seguente giudizio: il nostro è un mondo nel quale «non ci si domanda più se venga prima l'uovo o la gallina perché sembra che la gallina sia un'idea dell'uovo per ottenere più uova».35 Se si è disposti ad ammettere che la gallina sia un ¿¿¿»dell'uovo, questo, aveva detto EZ, è un ragionamento a occhio e croce platonico col quale il «mondo» di cui parlava McLuhan non può esimersi dal fare i conti. E, a proposito della smisurata fascinazione esercitata dagli idoli moderni, il progresso, la scienza, l'azzeramento dei valori spirituali, ammoniva con un piglio da predicatore, attingendo a un passo dell'Antico Testamento, un sorso del profeta Geremia: «Gl'idoli sono simili ad uno spauracchio in un campo di cocomeri: non possono parlare [...]. Gl'idolatri con una cosa accendono il fuoco ed in quella stessa cosa hanno fiducia, dottrina di vanità! [...]. Io so, o Signore, che la via dell'uomo non è in suo potere, né è dato all'uomo che cammina di dirigere i propri passi (GeremiaX, 5-23)». «Per religione costituita» aveva aggiunto «s'intende un edificio sociale fondato sulla riverenza interiore collettiva verso un oggetto non esauribile mediante discorsi dialettici; tale oggetto si denomina diabolico se il suo culto ha come effetto turbamenti e rovine, divino se viceversa procura la pace, l'accettazione e la trasformazione del dolore, l'adeguamento a forme esteticamente armoniose.»36 Impercettibilmente il pubblico in ascolto s'era diviso in due schiere. La prima, risentita per le bordate contro la scienza (e lo scientismo) accusati di dispensare una moneta il cui luccichio da una faccia, il progresso visibile, impedisce di scorgere il regresso sull'altra. La seconda schiera s'era astenuta dal prendere posizione. La percezione che l'oratore facesse intravedere orizzonti sorgivi, liberi dai dogmi del progressismo moderno, fu avvertita di netto e uno spiraglio a un ascolto senza pregiudizio si apri. Riletti dopo tanto tempo certi passaggi della lezione veneziana vibrano ancora della forza trascinante che li aveva pervasi:

Esiste un assurdo alla radice della scienza moderna: come può lo spirito umano porsi a giudice di un processo cosmico di cui si ritiene il prodotto? Si spezzò con Cartesio la possibilità d'una educazione simbolica diretta dell'uomo: dopo di lui tocca prima criticare l'imperio delle scienze moderne, quantitative, cioè ridurle ai loro limiti se ci si vuole disporre a riacquistare le nozioni tradizionali. La scienza moderna è fondata su un sacrificio che la religiosità tradizionale non può non giudicare satanico: l'ablazione della spiritualità, cioè della capacità di leggere come simboli di verità trascendenti tutte lefigurestoricamente visibili o udibili. 37

Oggi è stato impiantato in tutti il riflesso condizionato onde ci si domanda, dinanzi ad ogni problema, se esso abbia un aspetto sociale, divulgativo [...], ovvero se esso non sia «condannabile» in quanto riservato a pochi e solerti, se non sia «d'élite», e vengono in malafede confusi i giusti e i dotti con i satrapi o con i liberti ambiziosi di distinzioni sociali. 38

Nell'ultima parte della conferenza EZ aveva citato lo storico della scienza Giorgio de Santillana, uno studioso «agli antipodi di Bertrand Russell e, in genere, dell'epistemologia moderna». «Fintanto che la scienza sarà viva e non sterile» aveva detto de Santillana «dovrà presentare ciò che presentava la metafisica.» E aggiungeva: «Fermi sapeva troppo del neutrino per considerarlo un mero accorgimento contabile».39 In precedenza Zolla aveva chiamato in causa Marius Schneider, specialista di un campo, l'etnomusicologia, lontano da quello di de Santillana. Eppure ambedue gli studiosi invocavano una rieducazione simbolica dell'uomo moderno, una scienza capace di metaforeggiare. C'erano altri a sostenerlo? - s'era domandato lo scrittore guardandosi attorno. Perché non radunarli? Scoccava il 1966 e l'incarico conferito a Zolla da un istituto di cultura romano gli offrì l'occasione per tentare l'impresa.

5. Il convegno sui valori permanenti nel divenire storico Nel cuore antico della capitale un palazzo patrizio attorno al 1966 si era animato di un fervore insolito. Una targa segnalava all'ingresso la sede dell'Istituto Accademico di Roma,40 e le iniziative che l'Istituto promosse nel giro di un triennio furono avviate in una sala al primo piano, su un tavolo ingombro di carte ma ordinarissimo al quale sedeva un signore sui quarantanni, intento a fare e raccogliere telefonate, a ricevere i visitatori facendo loro capire con garbo che ogni parola da spendere nei minuti a disposizione doveva andare a segno senza spreco. Nel ruolo che l'Istituto Accademico conferì allo scrittore tra il 1966 e il 1968, egli non perse tempo. Progettò l'allestimento di un Dizionario dei simboli inesistente in Italia. Un'impresa erudita che si sarebbe detta inadatta a incidere sugli andamenti culturali del momento. Ma Zolla illustrando il progetto, mostrava che non era così. Dopo aver menzionato i precedenti più autorevoli di dizionari del genere nelle principali lingue europee41 e delle maggiori riviste e collezioni di simbologia fuori d'Italia,42 scriveva:

È indubbiamente ancora un fenomeno di avanguardia culturale la netta percezione di una fase remota della civiltà umana, per nulla inferiore alla civiltà scientifica moderna quanto a capacità di organizzazione metodica dei dati dell'esperienza, intendendo per «esperienza» non solo i fenomeni esteriori dell'uomo ma anche quelli interiori, gerarchicamente organizzabili attorno a una percezione dei piani sovratemporali dell'essere. Questa conoscenza del mondo arcaico è certamente agevolata dalla nuova antropologia di Lévi-Strauss e dalla conseguente confutazione del mito d'un universo prelogico primitivo. Ma è anche l'apporto di calcoli astronomici come quelli di un Hoyle ad avviarci verso una prova inoppugnabile della fioritura d'un pensiero scientifico almeno databile al 7000 a.C., al tempo delle grandi costruzioni megalitiche ed è singolare che siano stati i calcolatori elettronici ad aiutare tali ricostruzioni di archeologia culturale. [...] Il linguaggio della scienza arcaica fu un linguaggio simbolico, e il simbolo in tale con-

testo ha la duplice funzione di indicare operazioni scientifiche e stati interiori di minore o maggiore vicinanza all'intuizione dell'essere assoluto.43 Nel progettare il Dizionario dei simboli e un ciclo di conferenze preparatorie a un convegno internazionale in programma nell'ottobre del 1968, Zolla non agiva da solo. Lo affiancavano i membri del comitato scientifico dell'Istituto Accademico, e non si trattava di persone qualsiasi ma di un gruppo di intellettuali e docenti universitari decisi a offrire un'alternativa al lassismo e allo scollamento dei valori cristiani in atto nel tessuto sociale italiano di quegli anni. Tra loro spiccavano storici come Paolo Brezzi, esperti di etica e scienze politiche come Sergio Cotta e Augusto Del Noce, filosofi come Michele F. Sciacca, drammaturghi come Diego Fabbri, linguisti come Giacomo Devoto. Nel fascicolo di presentazione toccò a Sergio Cotta illustrare gli scopi e le attività dell'Istituto Accademico per il triennio 1966-1968. Nelle sue 68 pagine, quel fascicolo, ora introvabile, documenta un momento delicato nella vita culturale del Paese, forse poco noto alla generazione dei nati negli anni Ottanta, nipoti di quella cui Zolla appartenne. E non è meno diffìcile mettere oggi le mani sul trio di vecchi volumi, due a cura dell'Istituto Accademico e uno pubblicato da Vallecchi, che contengono gli Atti del convegno sui valori permanenti nel divenire storico, e i testi delle conferenze preparatorie tenute a Palazzo Torlonia sotto la sommessa supervisione di EZ. Quei testi sono raccolti in un volume rilegato in tela avorio di circa 200 pagine. Sul dorso un'etichetta in cuoio a lettere dorate reca tra la cima e la base, con le iniziali dell'Istituto e le date 1967-1968, i nomi dei sette conferenzieri: Giorgio Diaz de Santillana, Jean Servier, Mircea Eliade, Hans Sedlmayr, Michele F. Sciacca, Paolo Brezzi, Giacomo Devoto.44 La diffusione in Italia delle opere di questi studiosi avvenne in gran parte per iniziativa di Zolla nelle collane di Boria, Rusconi, La Nuova Italia, in ampio anticipo su linee editoriali che molti anni dopo consacrarono autori come John Ronald Reuel Tolkien, Giorgio Diaz de Santillana e Herta von Dechend, Marius Schnei-

der, Joshua A. Heschel, John Epes Brown, Seyyed Hossein Nasr, Amadu-Hampàté Bà per non parlare di Pavel Florenskij. Se La colonna e ilfondamento della verità usci in prima edizione mondiale da Rusconi nel 1974, lo si deve a Zolla che non appena intercettò un testo di Florenskij su un vecchio numero della rivista del Patriarcato di Mosca e ne fu conquistato, convinse Alfredo Cattabiani (m. 2003), allora direttore dei Saggi Rusconi, a pubblicare l'opera maggiore di Padre Florenskij. Altri suoi testi furono pubblicati su «Conoscenza religiosa» nel fascicolo 2,1977, e lo stesso anno EZ curò per Adelphi il magnifico saggio sull'icona Le porte regali traducendolo dal russo. I motivi che ispirarono il convegno internazionale del 1968 erano illustrati da Sergio Cotta nella prima parte del fascicolo dell'Istituto Accademico. Una visione dell'uomo soffocata dallo storicismo, dall'evoluzionismo e da uno scientismo indifferenti a una filosofia dei valori, scriveva Cotta, era smentita dai recenti studi antropologici che rintracciavano «la presenza nell'uomo di caratteri e di strutture costanti sotto il variare delle forme e dei simboli. Da questo fervore di studi emerge una rappresentazione dell'uomo che non è né tutto realizzato dall'origine, né tutto costruito (e costruibile) dalla storia, ma un uomo che è initium creaturae nel pieno e ricco senso di questa espressione scritturale». Gli intellettuali che alle soglie del Sessantotto gravitarono attorno all'Istituto Accademico furono d'accordo nell'individuare quel dato fondante in una originarietà dell'essere che si manifesta nel farsi della storia. Il tema del convegno: «I valori permanenti nel divenire storico» era dunque un appello a esplorare la permanenza e la trasformazione dei valori umani non come un dilemma tragico ma come una relazione carica di fiducia e potenzialità positiva. L'inaugurazione in Campidoglio il 3 ottobre 1968 avvenne sotto la presidenza di Eugenio Montale. Luigi Pareyson nella prolusione di apertura denunciò lo svuotamento di una cultura impedita di riconoscere valori nei quali affiori una presenza originaria e profonda: «Il problema è di distinguere [...] fra ciò la cui na-

tura e il cui valore si esauriscono nella storicità, e ciò la cui storicità è apertura e tramite all'essere, e quindi sua sede e apparizione».45 La seconda parte della relazione di Pareyson toccava in esteso il concetto di tradizione, vista come «l'opposto della rivoluzione perché la rigenerazione ch'essa richiede è di tutt'altra natura di quella propugnata dalla rivoluzione, avendo un carattere originario e ontologico mentre quest'ultima ha solo un carattere secondario e temporale». Tra il 3 e il 5 ottobre46 presero la parola John Epes Brown, Germaine Dieterlen, Gilbert Durand, Jean Servier, Marius Schneider, Eric Voegelin, Cyrill von Korvin Krasinski tra vari altri. Studiosi che nei rispettivi campi avevano dischiuso aspetti della cathédrale engloutie evocata da Giorgio de Santillana nella sua relazione, un mondo di conoscenze sommerse che Zolla si avviava a portare alla luce nella rivista «Conoscenza religiosa» fondata alla Nuova Italia nel 1969. Gli Atti del convegno romano ebbero due edizioni: la prima, a cura dell'Istituto Accademico, è un volume di 497 pagine. Ai testi nelle lingue originali segue la versione italiana.47 L'altra edizione, Eternità e storia, fu pubblicata da Vallecchi nel 1970.

6. «Lume non è se non vien dal sereno»: la quarta parte dell'uomo Lepotenze dell'anima - l'opera in cui Zolla, allora quarantaduenne, gettava le basi dell'antropologia spirituale cementata nell'insieme degli scritti avvenire—vedeva la luce poco prima dei lavori del convegno per il quale aveva profuso tante energie dietro le quinte del suo ufficio di segretario generale dell'Istituto Accademico. La bandella originale dell'edizione Bompiani enunciava in modo chiaro la materia e gli intenti dell'autore. Poiché è quasi impossibile recuperarla, scorriamola con diligenza.

Zolla offre in questo libro una «anatomia spirituale» dell'uomo: egli mostra cioè come le diverse culture e religioni hanno risposto alla domanda: quali sono le facoltà spirituali dell'uomo? Ma poi-

ché il suo interesse non è puramente storico bensì metafisico le varie civiltà (classica, ebraica, egiziana, indiana, buddhista, oltre al cristianesimo) vengono esaminate con metodo morfologico, extrastorico, giungendo a riconoscere una fondamentale unità del genere umano, dai primitivi al cristianesimo. Da questa indagine dipendono però anche conseguenze di ordine più immediato e quasi pratico: infatti la consapevolezza della complessità umana, delle «potenze dell'anima», è condizione per definire ciò che costituisce l'unità degli uomini, è possibilità di parlare in senso rigoroso di concetti come «spirito» o «destino», ed è infine avviamento a una vita felice. Un pensiero di Simone Weil citato in calce («Non c'è niente di più importante che il concetto dei piani sovrapposti della coscienza, di cui l'ultimo è superiore alla psicologia»)48 conduce il lettore al cuore del problema esaminato nella prima parte del libro: l'antropologia dell'uomo infelice. Secondo Zolla l'infelicità del soggetto moderno ha alla sua radice una penuria spirituale cresciuta a mano a mano che una credenza e un culto si sono imposti tacitamente. La credenza è che l'uomo consista esclusivamente di tre parti: corpo, ragione e anima, alle quali sono stati tributati culti distinti. Il materialismo rispetto al corpo; lo scientismo rispetto alla ragione, e l'irrazionalismo rispetto all'anima o psiche. I riflessi dell'uomo moderno sono stati condizionati al punto «da trasformare la sua interiorità in una replica fedele di quel triangolo carcerario»: una condanna a vita. Zolla cosi argomentava:

Il corpo, la psiche e la ragione si nutrono soltanto di parvenze in divenire, di storia, ma la ragione, adoprando le mere regole della coerenza, dovrebbe pur concludere che è insensato asserire: «Tutto è contingente» (con le varianti: «Tutto è nella storia», «Tutto diviene»), perché nel tutto si dovrebbe includere anche questa proposizione che, non potendo essere assoluta né eterna, impone la smentita di se stessa. Inoltre la ragione deve riconoscere di rifarsi a dei princìpi di coerenza di per sé evidenti, per esempio

che una cosa non può essere esistente e inesistente nel contempo. Tali princìpi o assiomi non sono dimostrabili, essendo la fonte delle dimostrazioni, ma non sono nemmeno irrazionali, perché, se lo fossero, non potrebbero impartire una razionalità di cui sarebbero privi; saranno perciò a dirsi sovrarazionali. Occorre dunque postulare l'esistenza di un piano più elevato della ragione e dell'anima, il piano dell'intuizione intellettuale: la «quarta» parte dell'uomo. Quando Dante dice: «Lume non è, se non vien dal sereno / che non si turba mai» (ParadisoYJX., 64-65), intende il piano sovrarazionale che la ripartizione moderna ha disinvoltamente obliterato. Con una concordia che non può essere casuale «le quattro parti» precisava «si ritrovano in tutte le tradizioni che non postulino la preminenza dello stato bestiale». Nella storia della filosofia cristiana basterà retrocedere all'età della Scolastica per avvedersi che la triade moderna è stata amputata di una quarta parte: l'intelletto. Denominazioni alternative di intelletto- ricordava EZ - sono: spirito nel senso di atto del respirare, giacché «esso sta alla ragione come il respiro agli esseri viventi»; lume della ragione, nel senso che la ragione è messa al suo servizio; oppure anche sapienza perché «come assaporando (latino sapere) essa afferra il suo oggetto in modo immediato». Inoltre non sfugge alla mente tradizionale che l'uomo, come sosteneva Platone, può solo ricordare i princìpi dell'intelletto, non crearli. Non appena affiori il ricordo che esiste una quarta parte dell'uomo, questa presa di coscienza è sufficiente a far riemergere l'idea sopita e modernamente perseguitata, di «intelletto d'amore». Da quel punto in poi ridiventa possibile prefigurare e configurare un'antropologia dell'uomo felice, felice nel senso di orientare deliberatamente la sua vita al conseguimento dei fini nei quali consiste il valore non caduco di vivere. Simili ragionamenti erano un palese invito a intendere il risveglio all'intelletto d'amore come una prerogativa intrinseca alla natura spirituale dell'uomo, non un privilegio riservato a un'élite arroccata su una «torre d'avorio». E sulla torre d'avorio come

luogo eletto dell'interiorità invece che immagine di selezione sociale, lo scrittore in più di un'occasione si era soffermato. Inutilmente, giacché i suoi interlocutori non erano affatto disposti a riconoscere una differenza così sottile.49 Proprio agli inizi del 1968 il «Corriere della Sera» aveva invitato due intellettuali «fuori del coro» a dare un giudizio sull'ora presente. Un filo diretto era intercorso tra Giorgio Vigolo e EZ,50 e la lettera che i due scrittori si erano scambiata apparve in Terza pagina il 25 febbraio sotto il titolo interrogativo: Disprezzare il nostro tempo?

C'è un limite, senza dubbio — ragionava Vigolo - entro cui si deve accettare il nostro tempo, se non altro per viverci e, meglio ancora, per capirlo, per esprimerlo in ciò che ha di più segretamente sofferto e soffocato, in ciò cui aspira dal profondo e che né gli scienziati né ifilosofiné i politici possono dargli [...]. Ci vuole — proseguiva — un coraggioso anticonformismo o diciamo anche una scintilla prometeica di ribellione per contrapporre alla stasi del tempo attuale «soluzioni inattuali, oggi appena intraviste, forse ancora impensabili distintamente, come sono impensabili i fiori in una notte polare». Zolla rispondeva:

Caro Vigolo, accettare non è approvare. Accettare il proprio tempo (ma il proprio destino, non il tempo di tutti e di nessuno) è un ovvio dovere; approvare consuetudini, ideologie, istituzioni soltanto perché del proprio tempo è del narcisista («se ci vivo io!») o dell'atterrito («forse se lo approvo non mi farà troppo male») e comunque dello stolto (non si comprende perché l'essere nostre contemporanee le nobiliti). L'avvenire «buono» sarà imprevedibile? La tua metafora delfioreinconcepibile tra i ghiacci è certamente bella ma parzialmente veritiera, poiché le stesse norme che reggono i cristalli delle nevi dispongono i petali attorno alla corolla [...], dunque anche su una banchisa si possono conoscere le uniche forme possibili che qualunque realtà futura dovrà assumere, se sarà armo-

nica e non cancerosa. Cosi è dell'uomo: che potrà essere ogni suo concepibile futuro se non una distanza minore o maggiore dal punto di perfezione, che non è nel tempo né del tempo? [...] L'assolutamente nuovo, staccato dall'idea permanente della perfezione, quale tutti i tempi hanno coltivato o represso, è il puro inferno. Ed è anche una premessa di molte truffe: «Signori il futuro non è forse una cambiale in bianco? Eccovela, firmate» è il discorso di tutte le avanguardie e dei progressisti. I «tempi», il «progresso» non sono concetti chiaramente definibili e nella misura della loro incertezza, se ne appropriano, proclamandosene i rappresentanti, le canaglie. Rammenti Goethe? A proposito di ciò che chiamava «quello schifoso fantasma, lo spirito dei tempi», scrisse: «Ciò che per lo più si chiama spirito dei tempi, il più delle volte non è che lo spirito di lorsignori». Chi come te - concludeva - conosce i dileni reali e tradizionali non fantasticherà certo di ipotetici futuri ma accetterà il suo individuato destino senza esitare a disprezzare il suo tempo. La prima cosa con la delicatezza del tuo Hölderlin, la seconda col vigore divertito del Belli. Il (tuo anche lui) Elémire Zolla. La lettera scambiata tra i due scrittori è un piccolo documento d'epoca. Rispecchia due diversi modi d'intendere e giudicare quel cruciale momento storico: pervasa d'inquietudine ma non chiusa alla speranza la presa di posizione di Vigolo, recisa e tassativa quella di Zolla. Nel 1998 EZ confessava: «Ero a quel tempo sfiorato, impensierito dalla depravazione circostante, tanto da volerla fugare; raccattai ciò che nella storia dell'Occidente poteva apparire limpido e fermo e ne feci il centro d'un mandala, nel quale tutto si rischiarasse e il disordine allentasse la presa». Questo brano ricorre nelle pagine d'avvio alla riedizione Adelphi 1998 di Che cos'è la tradizione, l'opera che nel 1971 chiudeva il ciclo degli scritti anti-moderni con un'indagine nitida e appassionata sul concetto più preso di mira dall'ideologia pro-

gressista in quegli anni: la Tradizione. Quanti fiumi di parole sono corsi contro e a favore di essa - come se la persistenza o la sparizione della «memoria» (questo, e non altro, realmente significa «tradizione») fosse appesa al filo del vilipendio o dell'ossequio nei confronti di ciò che si vuole atavico o immerso nel divenire storico. In India l'adesione o il ripudio della tradizione assunse una virulenza persino maggiore che nell'Occidente ebraico-cristiano, tuttavia senza mai mettere in discussione il volto della memoria tradizionale, che 11 è duplice. Intesa come éruti (alla lettera: ciò che è stato udito), la tradizione è il lascito di verità incorruttibili affidate alle formule sacre (mantra) di cui i maestri spirituali posseggono la chiave di esperienza interiore. Intesa come smrti (alla lettera: ciò che viene trasmesso), la tradizione è sottoposta alla stessa legge di contraddizione, tradimento e falsificazione che vale per le cose di questo mondo. In ultima analisi le due anime della tradizione, l'incorruttibile e la caduca, esprimono gradi diversi del manifestarsi del dharma (la legge cosmica) negli smisurati cicli del tempo.51 Zolla percepì con chiarezza la differenza, e la formulazione che ne diede in Che cos'è la tradizioneè conforme alla nozione indiana, seppure il tono adottato allora nel contrapporre a una civiltà custode delle verità tradizionali (la civiltà del «commento») una civiltà immersa nel gioco delle forze mondane (la civiltà «della critica») sia carico di un'esasperazione indubbiamente manichea di cui egli stesso si sarebbe in seguito pentito. Infatti nel 1998 confessava: «Pagai un prezzo, oggi me ne dispiace; l'orrore fu maggiore della volontà di ignorare i dualismi». Questi accenni aiutano a percepire il travaglio vissuto dallo scrittore negli anni che precedono la stesura in inglese del trattato sugli Archetipi, l'opera, s'è detto, che accanto a Le potenze dell'anima e Che cos'è la tradizione costituisce una pietra di volta nell'edificio speculativo di Zolla. Quando nel 1998 Che cos'è la tradizione veniva ristampato da Adelphi, una domanda era stata posta all'autore: «Che cos'è la tradizione inizia con la citazione petrarchesca dell'ascesa al monte Ventoso della storia. Cosa vediamo da lassù?».

Aveva risposto: «Dipende. C'è il momento in cui dall'alto di un monte si contempla la campagna circostante in modo perfetto perché la distanza si fa enorme e quindi ci si vede legati a tutto ciò che ci circonda. C'è anche il momento in cui le nebbie offuscano tutto e forse è il momento più perfetto, perché tutto sta al di là della nebbia». «E le nebbie possono essere identificate con le epoche storiche?» «Sono il momento in cui si va al di là dell'epoca storica, in cui l'epoca storica può essere una qualunque, non importa. Quando all'improvviso io mi trovo in mezzo a una campagna, e la nebbia mi circonda e mi separa... potrei essere al momento in cui si scontrano le truppe di Annibale con quelle dei romani, posso essere l'altro ieri... vado oltre la segmentazione storica, oltre la divisione fra presente passato e futuro.» «È un velo che si apre?» «Eh si, un velo provvidenziale, che copre le illusioni della storia.»52

7. Una conoscenza «religiosa» Verso la fine del 1968 Federico Codignola, figlio del proprietario della Nuova Italia a Firenze, il senatore Tristano, andò a trovare EZ all'Aventino, e inaspettatamente gli propose: «Vuoi fare una rivista? Te la pubblica mio padre». Fu un'avventura eccitante ma faticosissima. Per cominciare, i testi degli autori non italiani - ed erano la maggior parte - bisognava tradurseli da sé; ogni fascicolo di oltre cento pagine, quando non si trattava di numeri doppi, andava costruito dall'a alla zeta, e la cadenza trimestrale non lasciava margini. Le ore che lo scrittore trascorreva in treno tra Roma e Genova, dove aveva sulle spalle la direzione dell'Istituto di Lingue e Letterature straniere alla facoltà di Magistero,53 erano utilizzate fino all'ultimo minuto per le traduzioni. La corrispondenza con gli autori, la stesura dei propri testi,54 gli editoriali e tutto il resto, avvenivano in un tempo che suppliva alla brevità con la condensazione, e c'era

da scommettere che l'ora in cui i materiali dovevano essere consegnati al corriere romano della Nuova Italia, era raggiunta con ampio anticipo. L'editoriale del primo numero di «Conoscenza religiosa» contiene una vibrata denuncia del turbamento e della sete di autentica spiritualità in quello specifico momento storico. È un testo programmatico che merita di essere conosciuto al di là della cerchia dei lettori dell'indimenticabile rivista. È noto — affermava Zolla — che Dio ci si presenta sotto la maschera del povero. È meno noto che questo povero è assai difficile a riconoscere essendo povero colui dal quale istintivamente si distoglie lo sguardo oppure sul quale sifissauno sguardo che non vede nella misura stessa in cui si finge o crede umanitario [...]. Il povero di oggi non è fàcile a riconoscersi perché è colui che disturba i nostri pregiudizi più radicali. Il sapiente Dogon, Alce Nero erano certamente poveri fra i poveri, la loro sapienza chi poteva non deriderla 0 compatirla o non volerla preservare sono la vetrina di un museo? Soltanto uno sguardo religioso poteva vedere quella povera sapienza come un raggio dello Splendore. E soltanto una straordinaria attenzione può vedere dietro la maschera del giovine dagli occhi vitrei e dalle mani tremanti, dalle vesti che cupamente simulano uno spirito di libertà e che ripete i vecchi motti del libertinismo europeo [...] può vedere, si dice, la vera faccia, che è supplichevole e miserabile e sta chiedendo qualcosa di inimmaginabile, per lui e per la torma che lo circonda [...]. Per quanto paia incredibile, egli sta chiedendo un lembo di quella sapienza che tutto nella civiltà moderna cospira a reprimere. Egli sta mostrando a che cosa conduce la repressione dell'essenza religiosa dell'uomo [...]. La rivista che si presenta si propone di [...] offrire i testi che aiutino a uscire da una cultura che non osa nemmeno affrontare la dialettica dell'illuminismo. Gli strumenti stessi della cultura dominante, di qualsiasi posizione od obbedienza essa sia, sono virtualmente distrutti: le alme madri sono diventate le «vecchie da segare», le lugubri Befane dei carnevali tecnocratici [...]. È certo che 1 loro figli avevano appreso soprattutto il disprezzo della cono-

scenza sapienziale che pure era custodita sotto il logoro mantello dei selvaggi. E verso quei selvaggi tutt'al più guardavano con l'occhio del libertino settecentesco. E come sempre chi reprime si reprime. Chi ferisce sta amputando la propria sensibilità. Chi rifiuta di vedere si sta accecando. L'Occidentale potrà ritrovare nella nozione dell'Essere che egli ha represso, il momento di stupore, di estasi intellettuale, di libertà e di conoscenza col quale qualcuno come lui udì una frase come «sono chi sono» in un passato che la repressione ha reso leggendario? Forse si è spiegato - concludeva - perché sarebbe buffo dire che questa rivista è dedicata all'etnologia, anche se pubblicherà testi etnologici; che è dedicata alla teologia, visto che non avrà motivo di pubblicare pagine teologiche che siano disgiunte dall'esperienza del divino e rispondano al puro e degno bisogno di ordine razionale entro un sistema; dire che è dedicata all'ecumenismo, essendo i suoi fini distinti da un'amabile amministrazione dei rapporti di buon vicinato tra le confessioni. 55

Il primo dei testi ospitato nel fascicolo inaugurale, La meraviglia, era di Abraham Joshua Heschel, il cabbalista e teologo ebreo che dedicò a Zolla l'edizione italiana di Passione di verità. Seguivano La simbologia della danza di Marius Schneider; Conoscenza dell'uomo negro dell'etnologo Marcel Griaule; Prolegomena allo studio del testo biblico di Heinrich W. Guggenheimer; una silloge di poesie di indiani d'America; l'Ode a Terminus di W. H. Auden a cura di Carlo Izzo; Galerie religieuse di Djuna Barnes, e il poema Missa romana di Cristina Campo. 56 Di ogni autore il cui testo compariva per la prima volta, erano forniti un profilo e una scheda bibliografica. La messe di informazioni era più doviziosa quando si trattava di un autore sconosciuto in Italia e ciò accadde spesso. Il sodalizio tra i collaboratori della rivista durò quattordici anni e se con l'uscita dal mondo di «Conoscenza religiosa» nell'annata 1983, gli studiosi e i poeti che le diedero vita, dileguarono, le idee instillate nelle 7000 pagine dei suoi sessantasette fascicoli hanno resistito ben oltre l'età delle battaglie intellettuali di Zolla e la sua stessa vita.

Non erano stati in pochi a chiedersi e a chiedergli: se la conoscenza impartita nella rivista non è confessionale, in che senso allora è religiosa?. In quegli anni e da allora in poi, Zolla non risparmiò occasione per stigmatizzare la distanza tra un'adesione confessionale e l'apertura a una dimensione e a un'esperienza del sacro che si pone al di là delle barriere tra i singoli credo. In questo senso è necessario chiarire che Zolla fu e rimase un intellettuale laico. Laico nel senso che il fenomeno religioso, la presenza di un senso del divino impresso come uno stampo nella mente umana, fu indagato come un problema epistemologico prima che esistenziale, e il perno attorno al quale ruotò fu la natura profonda del credere, quali che siano le individuazioni dell'atto di fede nella storia dei processi culturali. Questo per Zolla era stato un problema urgente non perché lo riguardasse in persona, dato lo scarso rilievo che era disposto a concedere alle urgenze «personali», ma perché la situazione storica all'epoca lo imponeva. La critica radicale che lo scrittore formulò negli anni Sessanta alla resa deliberata della Chiesa di Roma alla svolta progressista statuita dal Concilio Vaticano II, va letta in questa luce.57

8. Uno pseudonimo colmo di segreti Torniamo indietro di qualche anno. Nel triennio 1965-1967 sul quotidiano di Roma «Il Giornale d'Italia» prese a comparire una firma mai vista prima. Era di un articolista che una volta su dieci, inaspettatamente, intingeva la penna nel miele al posto del fiele. Gli habitué del quotidiano curiosavano ogni volta in Terza pagina se gli toccava la purga o l'elisir, e risulta che dietro la firma di Bernardo Trevisano, o le iniziali B. T., si nascondesse anche un'autrice assai prossima allo scrittore, come segnalava lo stesso Zolla nel 1987 recensendo l'opera di Cristina Campo Gli imperdonabili,58 Ma gli articoli schedati nell'archivio di Zolla e appresso elencati sono opera sua. Tra l'I gennaio e il 28 settembre 1966 c'era stata una serie di el-

zeviri sui segni dello zodiaco da Capricorno a Scorpione. L'affondo nello spirito astrologico avveniva dalla parte di una compiuta filosofia del destino che pareva beffarsi allegramente degli argomentucci «ci credi?», «non ci credi?» che la lettura o l'ascolto alla radio dell'oroscopo quotidiano suscitano immancabilmente. Che l'astrologia sia un sapere con un sostrato matematico antichissimo e velato non ha nulla a vedere con la trivialità degli oroscopi ordinari. La mente di Zolla, incoercibilmente attratta dal velame, con la scienza velata per eccellenza s'era trovata a casa, e gli scritti astrologici attraverso le stagioni della vita si erano infìttiti fino a comporre un corpo di prose a sé stanti, esaminate nel capitolo Esodi nell'altrove: il destino e lo zodiaco e in parte raccolte negli Scritti zodiacali. Prima però di arrivarci, un paio di dilemmi chiedono di essere sciolti. Il primo riguarda l'identità di Bernardo Trevisano. Chi era costui? Alla luce delle scarne notizie storiche, si fronteggiano due ipotesi: che il Trevisano fosse un patrizio così chiamato perché originario della marca trevigiana o che venisse da Treviri in Germania. Senonché i trattati di alchimia annoverano Bernardo tra i maestri dei segreti del primo Rinascimento. Nato nel 1406, avrebbe avuto facoltose sostanze di cui a un certo punto si sarebbe sbarazzato, non prima di aver svolto transazioni finanziarie in quel di Rodi dove visse per qualche tempo. Seguace del pensiero di Aristotele ed esperto di medicina galenica, in tarda età sarebbe divenuto padrone dell'Arte lasciando, tra altri scritti, un'opera sulla «filosofia naturale dei metalli», e un trattato di filosofia ermetica nel quale campeggia la favola di un re rigenerato alla fonte della Vita, trasparente allegoria dei procedimenti mercuriali di trasformazione e «redenzione» alchemica della materia. Amico di Tommaso da Bologna, che fu medico personale di Carlo Vili re di Francia, Bernardo gli indirizzò una epistola dove esprimeva gratitudine per il dono «grandissimo» di una pietra da lui ricevuta (la pietra filosofale?), che lo ripagava degli erculei tentativi compiuti nelle segrete operazioni dell'arte.59 Perché nel periodo in cui collaborò a «Il Giornale d'Italia» EZ si firmasse Bernardo Trevisano rimane senza una chiara risposta.

Più di un indizio fa pensare alla forte attrazione dello scrittore per uno dei protagonisti della «letteratura dei segreti» fiorita in Europa in età pre-moderna. Il nome dell'alchimista del primo Quattrocento può essere stato lo schermo dietro il quale, un po' per celia un po' sul serio, lo scrittore riparò la sua vocazione all'esoterico in un tempo tra i più negati a tollerarla.60

9. Cronologia ragionata degli articoli zolliani a firma di Bernard Trevisano o siglati B. T. su «Il Giornale d'Italia» La serie inizia con il pezzo su due colonne Le opere di Guénon (8 novembre 1965), a proposito di alcune edizioni italiane a cura della «Rivista di studi tradizionali» cui faceva capo a Torino la casa editrice omonima. 61 L'I 1-12 novembre era la volta di L'urlo delprofeta e il sorriso dell'ex ufficiale inglese sulla versione italiana presso Guanda di una raccolta di poesie di uno tra i maggiori letterati del nostro tempo, «il migliore, senz'altro in Inghilterra», Robert Graves.

Egli si fece conoscere da noi prima della guerra quando Bompiani stampò le sue biografie dell'imperatore Claudio, ma non ha mai riscosso una gran fortuna [...]. Purtroppo - segnalava - Longanesi stampò col titolo La dea bianca una raccolta di scritti vari, assai divertenti ma per lo più frivoli, usurpando il titolo del grande trattato The White Goddess, il monumento cui forse più saldamente s'affida la fama di Robert Graves: si tratta di una decifrazione delle antichissime scritture celtiche del popolo gallese, note come Mabinogium, dove l'autore mette a frutto un'erudizione che copre tutto il campo delle mitologie e delle letterature. Da quell'opera erano citati brani ai quali Zolla si sarebbe richiamato vent'anni dopo ne L'amante invisibile, cesellando il tema della dama di sogno nelle religioni, nella letteratura e nella legittimazione politica.

Il 2-3 dicembre era la volta del pezzo Un'arte per camminare a proposito del libro di Karlfried von Durckheim Hara, centro vitale dell'uomo, pubblicato in Francia da La Colombe. Risale a quel tempo, se non a prima, l'abitudine di EZ di raccogliere con cura tutto quanto nella tradizione dello zen giapponese concerne l'arte di «conoscere la Fonte».

Colui che abbia spostato nel ventre il suo baricentro - osservava nell'articolo - ha una capacità di prendere decisioni all'istante, fulmineamente, perché tale facoltà è sempre legata ad uno stato di apparente abbandono. L'unico che in Occidente abbia lasciato una trattazione perfetta di questo tema è Heinrich von Kleist nel suo teatro di marionette (ne usci anni addietro - segnalava - una versione nelle edizionifiorentineFussi). E dopo aver elencato gli errori fondamentali che si possono commettere durante gli esercizi per acquistare hara concludeva: «La respirazione diventerà perfetta quando [...] tutto il corpo sarà imperniato sul suo centro addominale; allora finalmente l'uomo [...] non ondeggerà più fra la passività e un controllo volontaristico delle proprie emozioni. Lascerà affiorare in se stesso ciò che è impersonalmente naturale». Proseguivano nell'ordine: Le delusioni d'un utopista sul discepolo ribelle di Darwin Samuel Butler (16-17 dicembre), e La via antica dei fiori sull'opera omonima di Gusty L. Herrigel, appena tradotta presso Scheiwiller.

A chi scrive - confessava Trevisano a un ceno punto - capitò un giorno, a un congressofilosofico,di accostare un invitato giapponese, domandandogli, dato il tenore del suo intervento, se non fosse per caso un seguace di Heidegger. Il giapponese sorrise e rispose evasivamente. E soltanto dopo qualche tempo, quando il discorso si fu orientato su tutt'altro binario, avvertì che il suofilosofareera fondato sulla lingua giapponese. In quell'intervallo fra domanda e risposta egli aveva lasciato ramingare il mio pensiero e Io aveva interrotto al momento giusto: sì, il metodo heideggeriano si sprofondava

nella radice linguistica, ma il senso era tratto dalla struttura del giapponese e non del tedesco. Poi egli mi annunciò che se volevo saperne di più m'avrebbe parlato alla presenza del suo maestro. L'indomani ebbi una lezione di filosofia tradizionale in un caffè, con il maestro seduto immobile e silenzioso al vertice d'un triangolo che egli formava con due discepoli intenti a impartirmi l'insegnamento, consultandosi con lui prima d'ogni frase, con rapidi inchini del capo, come a sapere se il loro tono era giusto, se stavano dicendo troppo, se io sembravo all'immobile osservatore abbastanza attento. Guastai tutto con occidentale malagrazia, ponendo delle domande. Era un'offesa: come dire che essi non intendevano benissimo i miei bisogni, le mie capacità e la giusta gradazione. Mi sovvenni di Mosé e Aronne nel racconto biblico: il primo faceva tenere dal secondo i rapporti col popolo, per osservare meglio e non distruggere la propria immagine contemplativa e ieratica, per agire senza agire. Il 3-4 gennaio 1966 era la volta di un fondo su sei colonne dal titolo La cattiva coscienza delle parole attorno al predominio moderno dell'orizzontalità nella concezione dello spazio e nella scelta delle metafore linguistiche. Quelli erano gli anni in cui il filosofo Hans Blumenberg veniva coniando il nome di una nuova scienza, la metaforologia, e Zolla, alias B. T., nel riportare con ampiezza le indagini raccolte sull'ultimo numero della rivista parigina «Triades», sottolineava l'abuso di metafore celebranti l'orizzontalità: si parla - notava - di «ampi» scambi di pareri, di «vasti» poteri, di «estese» consultazioni, si «allargano» i campi d'indagine, si «ampliano» i problemi, gli orizzonti eccetera e non si parla mai o di rado di «alte» o «sublimi» o «elevate» concezioni. In un altro articolo, Ilpalazzo difumo pubblicato col suo nome su «La fiera letteraria» (17 marzo 1966), EZ si diffondeva sull'argomento anticipando quelli che, due anni dopo, sarebbero stati i temi al centro di Le potenze dell'anima: il corpo come fonte di metafore e l'albero lessicale dell'interiorità. Vediamo di che si tratta. Per indicare l'anima-scriveva in quel testo - esiste in tutte le lingue una catena o albero lessicale dell'interiorità il cui primo anello è il respiro. Sia il tedesco Geist (spi-

rito) che l'inglese ghost provengono dal sanscrito heda-s, l'ira divina, «e l'ira è designata come un gonfiarsi anch'esso del respiro». Di qui il dipanarsi di «una raggiera di cose o atti connessi: i polmoni, gli strumenti a fiato, il mantice, il gonfiarsi, l'otre, il cuscino, il guanciale, la vescica, il tumore, il mucchio, l'eccesso, il pieno e il troppo, l'orgoglio, il bioccolo, la polvere, la nuvola, il vapore, il calore (dilatante), la nebbia, la pioggia e la rugiada, il fumo, l'oscurità, la fuliggine, il vento, il freddo, l'eccitazione irosa 0 addirittura folle, la fretta e l'avidità e infine, ultimo anello della catena o ultima foglia dell'albero, a seconda della similitudine che si elegga, l'anima o vita o ragione».62 1 pezzi apparsi nelle settimane successive trattavano del pensiero di Frithjof Schuon, il discepolo di René Guénon ( 13-14 e 24-25 gennaio), e del ritmo magico nella poesia di Pound (27-28 gennaio). Tra febbraio e marzo l'ermetico Bernardo si occupava del diritto all'opposizione sancito in taluni ordini monastici, della salvaguardia della liturgia tradizionale intrapresa da «Una voce», l'associazione di ferventi cattolici anti-modernisti per la quale s'era strenuamente impegnata Cristina Campo; dei segreti dello zen e del taoismo, della poesia di Montale, del metodo strutturalista di V. J. Propp applicato ai racconti di magia e altro ancora. Via via che di settimana in settimana si snodava il rosario degli articoli, un mutamento sottile si poteva percepire, come se l'attenzione dell'autore inizialmente focalizzata sul presente si dirigesse sempre più indietro nel tempo e sempre più lontano nello spazio, ad esempio nell'esame delle pitture rupestri nelle grotte paleolitiche e dei cardini celesti nelle architetture tradizionali in India, in Egitto, in Cina. E non è casuale che nello stesso periodo, dietro lo schermo del Trevisano, Zolla ponesse mano a un fascio di articoli di astrologia tracciando i caratteri dei dodici segni dello zodiaco. Per offrirne un assaggio, l'analisi di sei di essi incluso il Cancro, il suo segno natale,63 è riportata negli Scritti zodiacali (Parte seconda). Nel frattempo un altro articolo firmato Trevisano usciva l'8 settembre 1966. Era una corrispondenza da Pompei e Ercolano

sulle tracce di tre misteriosi «oggetti»: il segno di croce dissepolto da una casa a Ercolano, che aveva suggerito a Amedeo Maiuri la congettura della presenza di ebrei convertiti al tempo dell'eruzione; l'enigmatica scritta «Sodom Gomor» rinvenuta su un muro a Pompei, e il cosiddetto quadrato magico graffito sullo stucco di una colonna della palestra e nel portico della casa di Paquino Proculo. Se ne fece cenno nel capitolo 1 a proposito della struttura della formula latina Sator /Arepo / Tenet I Opera / Rotas, che si può leggere al contrario: Rotasi Opera / Tenet!Arepo /Sator. L'ipotesi di Zolla era che le rotas dell'aratro del contadino Arepo fossero una metafora delle ruote del carro di fuoco su cui fu tratto al cielo il profeta Ezechiele (Ezechiele I, 4-28). La congettura era così esposta nell'articolo: «Arepo sarebbe l'uomo incaricato da Dio di spargere carboni ardenti su tutti coloro i quali non abbiano in fronte il segno che li distingue per "coloro che soffrono dell'abominazione'' (il segno della T, che nell'alfabeto ebraico più antico era una croce). Il carro di Ezechiele potrebbe essere dunque una specie di ruota della fortuna che appone laT sulla fronte dei giusti e colpisce gli empi. Sarebbe dunque un'iscrizione ebraica o cristiana, adatta alla Pompei flagellata». EZ riportava poi le interpretazioni ufficiali del quadrato magico, quella del pastore Grosser, che risale - s'è detto - al 1926, e del Carcopino, ritenuta la più attendibile in una ridda di ipotesi senza soluzione.64 Poco dopo l'incontro con l'enigma del quadrato magico, Bernardo Trevisano usciva di scena, riacquattandosi negli incunaboli donde lo scrittore l'aveva esumato in un tempo di svolta della sua vicenda intellettuale.

10. Il salto del salmone Verso la metà degli anni Settanta la svolta era segnata da un'opera che fa da spartiacque tra il ciclo di scritti anti-moderni dove domina il sarcasmo, la perorazione indignata, e quello nel quale il difensore della Tradizione, eretico nell'intimo ma anche

per il gusto squisito di provocare, scopre le sue carte confessando i veri amori - l'alchimia, la conoscenza dei segreti, gli archetipi, il sincretismo, l'Oriente e le vie di accesso all'esperienza metafìsica - in un crescendo di ricerche, esperienze e incontri filtrati nelle corrispondenze di viaggio, nella serie di ricerche pilotate alla Sapienza dove aveva preso servizio alla fine del 1974,65 nelle conversazioni in pubblico e nei libri via via usciti dagli editori Marsilio, Adelphi, Mondadori, Einaudi e Tallone alle soglie della vecchiaia. Il testo che fa da spartiacque tra il primo e il secondo periodo romano è Le meraviglie della natura. Introduzione all'alchimia, ristampato più volte da Marsilio fino all'edizione riveduta postuma del 2005. In quest'opera dottissima ma priva di cipiglio erudito dove lo stile canta, lo sciamano e il metafìsico, il maestro dei poteri e l'illuminato s'incontrano nella figura del vecchio alchimista ritratto al vivo nella Prefazione.

Un giorno a Isfahan un vegliardo dall'aspettofreschissimo(disse di avere novantacinque anni), scrutando lo scrittore con occhi arguti, gli aveva domandato: «Che se ne fa delle erbe?» «Voglio mettermi a studiare alchimia.» «Ma, allora provi a modificare il suo corpo, per cominciare. Rinunci alla carne. Si cibi dei latticini della sua mucca o della sua capra. Deve prenderne cura lei stesso e così la sua essenza le sarà restituita come quintessenza.» 66

«Essenza», «quintessenza»: parole impegnative ormai fuori uso. Ma non facciamoci intimorire solo per questo! Immaginiamo di trovarci nei panni di un sempliciotto, una persona di scarsa istruzione, ad esempio la massaia descritta con garbo da Pavel Florenskij in una delle Lettere di La colonna e il fondamento della verità: la sua domestica.

Un giorno, mentre la donna sfaccenda per casa, lui a bruciapelo le domanda: «Che cos'è il sole?».

Lei: «Il solicello». Lui: «Suvvia che cosa è?». Lei: «Ma per l'appunto, il sole!». Lui: «E perché risplende?». Lei: «Così: il sole è il sole e cosi risplende. Guarda un po', cosi è, il solicello...». Lui: «Ma perché?». Lei: «Dio mio, Pavel Alexandrovic! Come faccio a saperlo, io? Lei è istruito, sapiente, e io sono ignorante». 67

È un esempio calzante. Accostare il pensiero di Zolla, lo s'è detto, non è facile; ci vogliono una buona dose di medcolosa attenzione, tenacia, docilità e il gusto di affidarsi al ritmo suadente delle parole. Tra il suono e il senso si aprono varchi, scorciatoie che portano a catturare immagini esalate dalle zone profonde della coscienza dello scrittore. L'incontro con quelle immagini più trasparenti di altre, non lascia dubbi: vibra 11 dentro una nota diversa come se l'anima e il destino di chi scrive affiorassero senza veli in un nodo che solo la morte può sciogliere. Un paio di metafore, entrambe acquatiche, carpite in due opere distanti vent'anni l'una dall'altra, offrono una scorciatoia per cogliere in un sol colpo un aspetto centrale dell'indole di Zolla e un tratto inconfondibile della sua biografia. La prima metafora s'incontra in un passo di Che cos'è la tradizione. «L'uomo» affermava «ha bisogno di certezze, di un centro su cui ruotare come un pianeta intorno al sole. Egli è assai simile alle carpe che godono e s'irrobustiscono ad avere una pietra posata al centro del loro specchio d'acqua, intorno a cui volgere giri su giri armoniosi.»68 La pietra metaforica attorno alla quale il pensiero di Zolla ha ruotato è un prisma a molte facce e ognuna di esse, nel corso del tempo, ha inalberato, per così dire, una diversa parola-chiave. Negli anni dello sgretolamento sistematico dei valori, deflagrato nel Sessantotto, la parola-chiave era stata «tradizione»: l'unico punto d'appoggio, dichiarava, per chi voglia sottrarsi all'inquinamento morale e alla pianificazione totalitaria, comportati dal progressismo moderno. Dieci anni dopo, la parola-chiave campita al-

l'inizio del trattato sugli Archetipi era «esperienza metafisica», espressione di uno stato unificato della mente e della coscienza, il più prossimo immaginabile a una liberazione in vita. Avvertiva tuttavia che «esperienza metafìsica», al pari del termine equivalente indiano samàdhi, «è soltanto un nome, che va periodicamente verificato, subito sostituito per poco che l'uso lo alteri, che la forza denotativa si spenga». Infatti, verso fine secolo, la pietra di certezza acquistava una terza denominazione, quella di «mente naturale». Nel primo capitolo de Lafilosofiaperenne è definito «mente naturale» lo stato di una mente che ha recuperato la spontaneità originaria, alleviata del proprio peso, percettiva al massimo, capace di comunicare, come si dice in Giappone, col «gioco della pancia», una mente in cui «tutti i fenomeni si presentano non nati», e si ridesta il bodhicitta, lo spirito del risveglio. Una mente siffatta è l'antenata della mente dominata dalla ragione strumentale, calcolante e dualistica, centrata sull'Io avido e solipsistico. Una filosofia fondata sul concetto di mente naturale fu formulata, sosteneva, «sin dai primordi [...]; in Occidente nel pitagorismo e via via nei secoli (è) affiorata in modo compiuto o parziale, sempre comunque costretta a mascherarsi dietro le persuasioni dominanti».69 Nella fase conclusiva del pensiero zolliano i concetti di tradizione, esperienza metafisica e mente naturale trovarono stabile terreno di accoglienza nel contesto del sincretismo, visto da EZ come l'orizzonte filosofico nel quale s'annodano e al quale affluiscono tutti quegli insegnamenti e quelle correnti di pensiero che nonostante le diversità culturali intrinseche a una civiltà planetaria fanno capo a una soggiacente e unanime metafisica unitaria. 70 La seconda trasparente metafora ricorre in Verità segrete esposte in evidenza, e non c'è immagine più adatta a rispecchiare l'indole dello scrittore e l'andamento solitario del suo cammino intellettuale. Ogni vita — scriveva in quel libro — comporta una invisibile interiorità, che ne è la sostanza. Per coglierla, occorre un aggiramento delle apparenze sensibili, un balzo controcorrente quale fa il sal-

mone, simbolo vivente della conoscenza nelle Scritture norrene. L'aggiramento, il salto porta dal piano dei participi passati a quello dei presenti, dall'esperienza vissuta alla creazione vivente. Rispetto al mondo della natura si sviluppa in noi una sensibilità alle cause formali plasmatrici. Rispetto al mondo morale passiamo dallo stato di sudditi o di ribelli alle prese con norme, alla libera, ironica, giocosa, esoterica possibilità di norme; dal mondo animato all'animante, dall'attuato all'attuante e possibile. 71

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Ciò che rende sui generisi orma, di Zolla nel pensiero del secondo Novecento non può essere messo in più limpida evidenza che nella metafora della carpa attratta da una pietra al centro di uno specchio d'acqua, e del salmone che balza contro la corrente. Coi mezzi che il suo tempo gli rese disponibili, scrivendo, insegnando e parlando a gola spiegata, Zolla indicò nella tradizione, nell'esperienza metafisica e nella mente ritornata alla naturalezza spontanea la pietra che incardina valori umani universali, espressione di una filosofia perenne nel flusso del divenire storico. Una linea di pensiero e di azione che non potè che situarsi contro corrente, ponendosi agli antipodi degl'idoli e delle voghe dominanti nell'epoca. La adottò deliberatamente e serenamente, plasmandosi attorno una vita simile a quella di certi contemplativi zen, catafratti al mondo nonostante l'inosservanza di voti o regole, e l'energia cui attinse fu di tipo taoista, costruita sul non-fare: «le cose, andava ripetendo, non si fanno, accadono a partire da certi movimenti del cuore».73 Ma facciamo un passo indietro. Nell'anno in cui uscivano I mistici dell'Occidente, la «Rivista di Estetica» pubblicava un ampio saggio zolliano, Invito all'esodo, alcuni brani del quale sono riportati negli Scritti sulfurei. In una nota di suo pugno sulla copertina del fascicolo, lo scrittore annotava: saggio rifiutato da «Nuovi Argomenti», «il Mondo» e «Paragone». Evidentemente le argomentazioni porte in Invito all'esodo, erano state ritenute inaccoglibili dai responsabili delle tre testate che pur in altre occasioni avevano ospitato scritti di Zolla. Taluni di quegli argomenti venivano esaminati una decina di

anni dopo dal critico Elio Lombardo in una recensione dal titolo esplicito: Elémire Zolla e la fuga perfetta. A volo d'uccello ma in modo tutt'altro che superficiale Lombardo scrutava l'opera zolliana fino a Che cos'è la tradizione, al culmine del primo periodo romano. Una singolare immagine campeggia all'inizio del pezzo di Lombardo. Questa volta non si tratta di pesci ma di bruchi di una certa specie di tarma (Cnethocampa processionea). Quando di notte escono dal nido in cerca di cibo, i brucolini descrivono una strana giostra simile a una collana rotante: «Vanno in fila indiana» scriveva Lombardo «e ciascuno tocca con il proprio capo il retro dell'animale che lo precede [...]. Ogni insetto subito secerne un filo setoso che, unito a quello prodotto dai compagni, tesse un sottile nastro, cui tutta la schiera in cammino aderisce». Il cerchio intrecciato dai bruchi è un'immagine altrettanto eloquente delle metafore pescate in Che cos'è la tradizione e. Verità segrete esposte in evidenza. E se nell'esame degli scritti zolliani nel complesso si può tacitamente ricorrere a un criterio cronologico, come s'è fatto finora per un'utilità immediata di esposizione, si compie però un torto verso un pensiero strutturato come un mandala le cui linee di fuga confluiscono al centro, rastremandosi nel punto più interno. Questo centro intimo e segreto, grembo e tomba dove il frastuono della vita è inawertibile, la filosofia indiana equipara al luogo nel quale il pensiero argomentante, non più arrovellato, approda a una riconciliata visione unitiva. Dal principio alla fine l'opera zolliana traccia e ritraccia questo andamento mandalico. A Zolla - sottolineava Lombardo - molto preme insistere su una «vita radicata nell'essere e resa spaziosa da quel canto di lode che l'antica filosofia indiana afferma capace di liberare tutte le creature, facendole crescere ed espandere».74

11 .Le ajfinità elettive In uno dei tanti volumi editi da Rusconi nei primi anni Settanta che recano la sua introduzione, EZ tratteggiava con un semplice

paragone il dono della quiete costante alla quale si applicò a conformare l'intera sua vita. «Rettamente vede» aveva scritto «soltanto colui che sappia rendersi impersonale e quieto, cosi l'acqua può rispecchiare soltanto se è immobile, senza turbamento.»75 Due áspera dell'indole dello scrittore, in apparente contrasto l'uno con l'altro, gettano luce sulla sua biografia intellettuale. Da qualche rara ammissione diretta risulta che EZ ebbe cara l'immobilità, la condizione più adatta alla creatività del pensiero, all'impianto della quiete interiore, alla lucida penetrazione dei segreti. Una coscienza immota sviluppa l'arte del distacco e nel suo caso il primo personaggio da cui staccarsi, ora lo sappiamo, era stato lui stesso. Fin da bambino aveva appreso a osservare i movimenti della coscienza, a non identificarsi con quell'«ammasso di impressioni casuali» in cui scopri consistere l'io. Aveva visto che nel flusso della coscienza ci sono delle brecce, bastava infilarle e viaggi strepitosi si potevano compiere senza spostarsi d'un millimetro. C'era poi la volontà tetragona di andare al fondo delle cose, l'ansia sconfinata di apprendere, la ricerca di un gaudio, una quieta ebbrezza in cui incerchiare la vita. Questo, forse, era il primo segreto attinto ai mistici, da tenersi ben stretto. Ma non perdeva di vista che la conquista della quiete costante era una battaglia da combattersi a tu per tu con nemici assai più insidiosi di quelli riconoscibili nel mondo là fuori dove i giochi della vita obbediscono a regole alla fin fine poco complicate. Quella deducibile dal comportamento di un cane da guardia quando si accosta la proprietà del padrone era una di esse. Dopo tutto, abbaiando, il cane è leale e se levi le tende non ha motivo di attaccarti, ma quanto subdolo, ingannevole, pieno di trabocchetti è il confronto con un pensiero molesto o di bassa lega. L'ordine di sloggiare può andare a effetto, ma scorie si accumulano nei paraggi e il sistema per ridurle in cenere non funziona a dovere quasi mai. L'altro tratto caratteristico della sua indole era stato in parte favorito dal sentirsi per nascita ed educazione non del tutto inglese, accidentalmente italiano, un intellettuale di diaspora in un tempo al quale aveva sentito di appartenere solo per certe affinità di mente e di cuore con spiriti come il suo, attratti dagli antipodi,

vetta e abisso, roccia e onda. E indubbiamente un capitolo a parte della vita di Zolla riguarda gli incontri con uomini e donne di conoscenza che senti intimi e affini indipendentemente dal fatto di averli incontrati di persona, nel caso di Marius Schneider, Heschel o I. P. Culianu; di aver navigato nei loro scritti come accadde con Melville, Yeats o Pasternak, o ancora per averli riconosciuti quali speciali fratelli d'anima, incomparabilmente più amici che amici di carne, come fra poco vedremo. Tra gli affini del secondo gruppo un posto a sé lo hanno Herman Melville (1819-1891) e Pavel A. Florenskij (1882-1937?). A proposito dell'autore di Moby Dick, il romanzo cui Zolla dedicò nel I960 il memorabile saggio Melville e l'abbandono dello zodiaco, qui accolto tra gli Scritti zodiacali (Parte seconda), una volta aveva confessato:

Fra i grandi mi tiene inesorabilmente avvinto Herman Melville. Lo capii all'improvviso, per un'illuminazione subitanea, che avevo vent'anni. Da allora lo rileggo quasi completamente ogni due o tre anni e ogni volta mi trovo di fronte a un testo inatteso, con rinvìi ad autori sempre nuovi [...]. Quando egli incominciò a scrivere, già aveva imparato tutto della vita, era stato a bordo di mercantili, baleniere, navi da guerra, aveva soggiornato fra indigeni ancora intatti nelle isole Marquesas. Conosceva tutta la torva umanità delle navi. Era svezzato, sapeva parare ogni colpo, era stato ferito nell'intimo. Frammezzo alle nefandezze, aveva conosciuto l'amicizia più blanda, aveva tenuto colloqui profondi con marinai conoscitori verso per verso di Shakespeare e quei dialoghi erano valsi più d'ogni insegnamento [...]. Per pagine e pagine dopo il brano citato, il volto umano di Melville acquistava rilievo via via che i suoi romanzi erano descritti ad uno ad uno, da Typee{ 1846) a Mardi (1849) a Moby Dick{ 1851) a Pierre (1852), a The Confidence Man (1857) e il poema Clarel (1876), versato da EZ in italiano nel 1965, infine il postumo Billy Budd, stampato due anni prima che Zolla nascesse, quando Melville cominciò ad essere letto. «È uno studio» scriveva «sulla

regalità nella sua essenza; come esibizione di innocenza e maestà [...] cui deve seguire il sacrificio rituale. L'ufficiale infame che accusa d'insubordinazione Billy ha l'occhio velato di lacrime: egli è necessario al rito. E tutto avviene con pochissime parole. Superflui i vocaboli, quando si tocca l'archetipo.»76 Nel caso di Pavel Florenskij, l'archetipo che nel cuore di EZ fece scoccare la scintilla dell'amore fraterno fu la Sapienza dissimulata sotto un manto di mansueta carità. In Uscite dal mondo lo confessava alla fine del brano dedicato a Florenskij nella sezione che accoglieva i profili di altri tre russi straordinari: Grigorij Rasputin, Nikolaj Roerich e Georges Gurdjieff. «Non so» scriveva EZ «se ho fatto bene a divulgare le mie annotazioni su Florenskij. Incontrarlo forse fu un evento da tacere? In lui le stesse idee erano apparse, riunendosi, svolgendosi in steli e foglie di pensieri, come in me oggigiorno. Va da sé [...] dentro di lui s'era incastonato ciò che in me aveva lasciato una tenuissima impronta, ma tanto più l'essenziale identità mi sbalordì, specie nel semibuio davanti a certe iconostasi lambite da vaghi riflessi d'oro [...] mentre i noti corali mi staccavano dall'anima, gettandola in lacrime, come un cencio, lontano.»77 Le affinità elettive di EZ furono d'altronde anche di un terzo tipo, e il momento in cui ci si avvia ad accompagnare lo scrittore nei suoi viaggi lontano da Roma, è il più appropriato a evocarle. In una di quelle sue confessioni in pubblico che tante volte avevano fatto trasalire i lettori della Terza pagina del «Corriere della Sera», per quanto erano disarmate e vibranti, una volta era affiorata la figura di un amico, uno col quale lo scrittore aveva condiviso ore perfette e immobili, stagliate nella memoria al punto che «in seguito non ebbe più motivo di domandarsi quale fosse il senso della vita». Era accaduto un giorno, sotto la canicola, durante un viaggio nel Nuovo Messico e questa ne è la fuggitiva immagine: Il mio amico sommerso nel materno vapore della pianura come un'alga spugnosa in una tenera laguna [...] s'era sentito investire dalle secche folate cariche dell'odore dipinon esalato dal legno d'al-

tare di una chiesina a San Antonio [...] L'attimo di sbucare nella piazza non trascorre [...] tutto è simultaneo fuor del tempo. 78

Chi era l'amico? Non altri che il suo doppio di sogno, un gemello la cui esistenza interiore - confessava - «è una perpetua danza di ore elette, vissute si nel passato, però mai trascorse». E rammentava che un'altra volta l'amico aveva evocato assiduamente certi sguardi, specie di animali. «Quello di una tartaruga che vidi rispondergli affettuosamente, col suo rauco soffio raspante, la bocca spalancata e protesa.» Oppure un tramonto a Mashad quando «la chiamata alla preghiera ondula nell'aria [...] e fra le colonnine d'un alto loggiato sporgono i lunghi corni ricurvi a lanciare il loro barrito di poche note al sole calante. Mashad-. "visione"; shahidr. "testimone"».79 Immedesimarsi nel «diverso», sia esso una persona, un animale, un personaggio d'invenzione o una figura di sogno, ed essere al tempo stesso il testimone imperturbato dell'emozione che attanaglia il cuore, tutto questo, che è cosi difficile da esprimere in parole, fa trapelare un terzo tratto caratteristico dell'indole di EZ, l'incoercibile spinta all'esodo conoscitivo, all'esplorazione di orizzonti mentali e geografie culturali ai margini dell'ecumene, di tutto quanto esorbita il «sistema» e lo contesta nel profondo. La ribellione al culto della forza, di qualsiasi segno, lo aveva messo inconfondibilmente, sempre dall'altra parte, e l'epoca in cui visse gli procurò occasioni a non finire di meditare sui segreti della forza - sia essa esercitata da un regime totalitario, un clero, una corporazione accademica, una cerchia iniziatica, un potentato nutrito del mito di una superiorità qualsivoglia, succube di una tirannia foss'anche solo di conformismo mondano. Lui nei salotti, a tavola, in mezzo alla gente ci stava benissimo, però era fulmineo nel far perdere le tracce. Aveva il garbo distaccato di chi si concede a dosi minime, irremovibile nel vietare che l'armonia, la compattezza del suo essere venissero scioccamente violate. Era troppo preso a pedinare i princìpi che reggono le cose, a scrutare il fondo dell'anima, a intercettare nel limo germinante le spinte verso la luce, e le risorse di una consumata pe-

rizia letteraria erano mobilitate affinché quei doni abbondanti si posassero sulla pagina. Nei suoi peripli della mistica pagana e cristiana, delle pratiche estatiche nelle culture sciamaniche dell'America indigena e in Asia, dell'alchimia vista come metafora del processo spirituale di morte e resurrezione, della gnosi, della cabbala, degli esoterismi di Oriente e Occidente Elémire Zolla era stato ardito come solo uno che ha visto in faccia la propria morte sa esserlo in pieno. Domandandosi perché il Talmud accosti teschio e fallo, aveva compreso che la cognizione degli antipodi si ottiene al prezzo di traversare la notte dell'anima, e se la sete di sapere sconfigge la paura, l'accesso alla camera segreta dove gli antipodi si toccano non è negato. Ma ci sono segreti che nemmeno la cognizione degli antipodi può largire a meno che non si sprigioni un fervore dal cuore, il calore dell'affetto che tramuta e redime. Quell'ardore effuso dal cuore Dante e i poeti stilnovisti l'avevano chiamato «foco», «intelletto d'amore», «lume» di ragione nel senso che la ragione senza quel lume è cieca, invidiosa e trista come una donna sterile. Lui l'aveva intuito da bambino che la casa della vita ha la sua pietra di volta nell'intelletto d'amore. La lezione impartitagli dal nonno a Maidstone racchiudeva una sottile verità: le piantine nell'orto, soprattutto le più stenterelle vanno assecondate a nutrirsi di luce. Cresceranno, e quando viene il tempo daranno mele di ogni tipo. Penetrandone i distinti sapori il bambino apprenderà a riconoscerle. Così per tutto il resto nel corso della vita: dolori, piaceri, rovesci, fortune, onde che si abbattono sulla chiglia. La mente calcolante si abbarbica al passato. Il cuore pulsa nell'attimo e non ha domani su cui contare.

Esodi

Il viaggio che mai si pensi d'intraprendere si vorrà soltanto se si vuole con esso tutte le condizioni e conseguenze che comporta [...]: così si è fuori del capriccio insulso, del mondo informe dei desideri. Volgarità e dolore 1. Esodi di vari tipi Esodo è una parola che Zolla ebbe sulle labbra costantemente, non solo quando il costo di esistere era stato più esoso. Il vantaggio di essere scrittore, non era cosa da poco. Con penna e quaderno, poteva imbastire esodi di ogni sorta, e i racconti giovanili, ai quali s'è accennato all'inizio, erano stati il primo banco di prova. È un tale miracolo inventare storie, scolpire caratteri, iniettare velleità, ricordi, passioni in personaggi cui dare un nome, un aspetto, un destino, il potere di dannarsi o redimersi: meraviglia dell'esodo narrativo! C'era stato poi l'esodo linguistico. Una lingua sconosciuta è come una muraglia altissima. Senza appigli vai giù e per risalire occorre un sistema. Alle prese con l'italiano mentre frequentava le elementari, Elémire da bambino si era costruito in un quaderno un repertorio completo di verbi, avverbi, aggettivi e modi di dire. Una memoria prodigiosa e la ripetizione tenace ad alta voce gli avevano fatto espugnare in men che non si dica la cittadella lin-

guistica. Adulto, l'esodo in lingue remote lo aveva spronato a scrutare che cosa si cela dietro geroglifici, ideogrammi, sillabe effuse dalla gola profonda come il mantra OM, radici nei cui significati originari riconobbe lo jato ancestrale tra il fausto e l'infausto, il puro e l'impuro, la lode e la deprecazione.1 Le rune e lo zodiaco, un vasto saggio pubblicato nel secondo numero di «Conoscenza religiosa»,2 aveva accolto i risultati di ricerche pronte a dirigersi dalla filologia germanica, la disciplina che aveva insegnato all'Università di Genova, nelle mitologie scandinave tanto familiari a Tolkien. Quando s'era inerpicato dall'inglese all'anglosassone s'era accorto che la serie canonica delle ventiquattro rune {«runa» aveva spiegato «vuol dire mistero, segno, mormorio, scongiuro») corrispondono a due a due, quali poli positivi e negativi, alle stazioni dello zodiaco.

Tutt'insieme una runa - scriveva in quel saggio - era un mistero e una conoscenza, un segno e un effetto, una lettera alfabetica e un numero, un aspetto del cosmo e una divinità. Le rune erano la segnatura degli oggetti, la loro forma essenziale e sintetica, la formula della loro energia specifica: del loro ritmo. Ritmo identico e dunque medesima runa hanno tutti gli svariati oggetti d'una serie o catena dall'uguale vibrazione; una particolare stella, un minerale, una bestia, una divinità, una pianta, una parte dell'uomo, partecipando a una certa forma ritmica, vengono designati, evocati da una figura runica corrispondente. Il sistema era stato interpretato traducendo la serie canonica delle ventiquattro rune del poema norreno e le ultime cinque che sono soprannumerarie ma «possono rientrare nell'ordine se si fanno coincidere con una runa canonica». Dopo le antiche lingue nordiche s'era accostato al sanscrito, e quattordici trattati estratti dal corpo delle Yoga Upanisad erano stati raccolti e commentati in un fascicolo speciale di «Conoscenza religiosa».3 Quei testi esponevano una fisiologia sottile del corpo umano paragonabile a quello che in botanica è la fo-

glia «vista» da Goethe quando visitò il giardino botanico di Palermo e da quella visione restò folgorato. La foglia conteneva «i princìpi plasmatori, le cause esemplari, finali e formali di ogni pianta materiale». Più avanti lo studio delle etimologie era stato una pratica ininterrotta, e nella sua biblioteca allestita con estro eclettico la zona riservata ai dizionari e ai trattati di linguistica è tra le più ingenti e preziose.4 La disposizione allo studio delle lingue l'aveva reso padrone anche di quelle apprese in età adulta, come nel caso del russo quando s'era cimentato col saggio sull'icona di Pavel Florenskij Le porte regali. A chi gli domandava come avesse preso forma la traduzione di Ikonostas confessava di non saperlo: la sua mente e il suo cuore si erano affiatati al punto che quel testo per lui non aveva avuto più segreti. In Iran dove s'era recato annualmente prima della caduta di Reza Pahlavi nel 1978, gli era stato facile esprimersi in persiano adeguandosi ai modi, perfino ai motti di spirito che fioccavano nelle conversazioni con l'autista di piazza o le sue guide improvvisate nei quartieri, nelle case di preghiera di Isfahan e Shlraz. La felicità di abbandonarsi al diverso, assorbirlo da tutti i pori, affratellarselo, lo inebriava. Forare Io spazio che su di noi hanno incurvato secoli e secoli avrebbe poi confessato in Uscite dal mondo — è l'atto più bello che si possa compiere. Quasi nemmeno ci rendiamo conto delle nostre tacite obbedienze e automatiche sottomissioni, ma ce le possono scoprire, dandoci un orrore salutare, i momenti di spassionata osservazione, quando scatta il dono di chiaroveggenza e libertà, e per l'istante si è padroni, il destino sta svelato allo sguardo. Per mantenersi in questo stato occorre non avere interessi da difendere, paure da sedare, bisogni da soddisfare; si raccolgono i dati, si dispongono nell'ordine opportuno e, al di là dei recinti dove si sta rinchiusi, si spalanca l'immensa distesa del possibile.

Gli articoli di viaggio pubblicati sul «Corriere della Sera» per oltre trent'anni e sul Domenicale del «Sole 24 ore» tra il 2000 e la primavera del 2002 (un fascio di essi è raccolto nella sezione Nuove terre cieli nuovi della Parte seconda), provano senza bisogno d'altri riscontri che nella otherness, la «diversità» culturale dai mille volti, EZ s'era trovato a casa più che a casa sua. L'esodo geografico aveva fatto di lui un antropologo sui generis, assiduo a convegni - dalla Finlandia all'Ungheria agli Stati Uniti al Canada - dove indigenisti, etnologi, esperti di culture sciamaniche scoprivano che le discipline da loro insegnate nelle università e nelle accademie assumevano nelle indagini di quell'italiano dal perfetto accento britannico uno spessore inaudito. L'ammirazione e il desiderio sincero di strappargli notizie sui campi che avevano creduto di conoscere a menadito erano palpabili, e raramente un'ombra d'invidia si frapponeva fra loro e lui. Lo stesso era avvenuto ai simposi di filosofia, religioni comparate, medicina tradizionale e filosofia — dall'Iran a Sri Lanka all'India alla Corea a Taiwan al Giappone. Nel 1989 un invito della Japan Foundation lo aveva immerso testa, braccia e mani in certi esperimenti di realtà virtuale poi descritti in Uscite dal mondo, scoprendo che la plasticità della mente nipponica, pronta a svuotarsi e ricolmarsi ogni volta con efficiente leggerezza, permette allo slancio nel futuro delle tecnologie giapponesi di convivere con la persistenza di valori atavici nel corpo sociale. Bastava inoltrarsi di pochi metri nei ridotti di certi templi fuori mano, di giardinetti ritagliati nel bel mezzo del frastuono urbano e l'esodo dall'uno all'altro antipodo aveva luogo di schianto. Il viaggio accompagnato da un sentimento di abbandono colmo di meraviglia fugava dal corpo ogni senso di fatica rendendolo vigoroso e scattante. Una colazione di primo mattino accompagnata da laute tazze di forte tè nero era la sferza sufficiente a resistere fino a sera senza bisogno d'altro cibo o bevanda. Svuotata la mente di ogni abituale legame o affetto, munito di una valigetta contenente scarsissimi effetti personali, la stagione degli esodi geografici era iniziata nel 1968 quando un invito del

Dipartimento di Stato americano gli aveva consentito di ritagliarsi un itinerario ad hoc nelle riserve indiane del Sud-Ovest. Lì nell'abbaglio di un sole implacabile aveva visto vecchie bocche versare in giovani orecchi i segreti di una civiltà sciamanica e di una religione della terra estesa all'intero mondo vivente. I documenti consultati in biblioteca gli avevano squadernato la vista sul volto nascosto di una letteratura che negli ultimi tre secoli era stata imperniata senza scampo sull'uomo bianco. S'era accorto che le fattezze di quel volto nascosto erano indiane, e lui non aveva fatto che ridisegnarle con l'intensità trepida del pittore che sa di avere il tempo contato per catturare un lampo, un chiaroscuro presto svaniti. Il frutto di quel viaggio, I letterati e lo sciamano segnò una svolta negli studi di americanistica, e nei corsi di varie università degli Stati Uniti l'opera fu adottata per molti anni.5 Quali furono i motivi di tanta fortuna critica? I più cospicui li aveva colti lo storico delle religioni rumeno I. P. Culianu in un articolo su «History of Religions», la rivista fondata da Mircea Eliade all'Università di Chicago dove il 21 maggio 1991, lo stesso giorno dell'assassinio di Rajiv Gandhi, una mano ignota feriva mortalmente l'appena quarantenne Culianu (1950-1991). La recensione si basava sul testo della riedizione Marsilio de I letterati e lo sciamano, arricchita di un nuovo capitolo dove Zolla aggiornava la materia con un'indagine sull'opera controversa dello scrittore-antropologo Carlos Castañeda e di nuovi emergenti autori indiani. Senonché per un utile avvio ai ragionamenti dello studioso rumeno, è bene calarsi nella materia del libro al modo in cui prese forma in quel primo viaggio americano sulla scia dell'incontro fortuito con due indiani incrociati in una strada di Santa Fe nel Nuovo Messico. La schietta confessione delle loro esperienze di «diversi», oggetto di ordinario disprezzo da pane dei Bianchi, era stato per EZ il punto di partenza di un affondo nei documenti consultati in svariate biblioteche locali sui rapporti tra il bianco e l'indigeno nella storia americana e la sua letteratura negli ultimi tre secoli. Era una ricerca, si commentò in America,6 che poneva in discussione i fondamenti stessi di una parte della nostra storia, e che raggiungeva la massima evidenza nel ricchissimo materiale di no-

tizie rare, di autori ignoti, di citazioni straordinarie, che EZ introduceva nel suo discorso. Un discorso che culminava nel capitolo sui ragguagli indiani forniti da indiani, ove per la prima volta emergeva una sorprendente letteratura, più sacra che profana, con cui le vittime consegnavano agli oppressori le loro verità e i loro ritmi. La conclusione, per l'autore, aveva il profondo sapore di una parabola; con gli indiani, infatti, i falsi progressisti «bianchi» mostravano di aver sterminato la parte migliore di se stessi. La prefazione zolliana alla prima edizione trasuda l'asprezza caratteristica della sua prosa negli anni del primo periodo romano: «L'idea del progresso» affermava senza mezzi termini «ha giustificato, promosso (e rimosso dalla coscienza) l'eccidio, che fu ora fisico ora spirituale, a seconda dell'occasione. Ha anche riatteggiato come le conveniva l'immagine dell'Indiano, quando non ne ha inibito la visione». Sicché la ricostruzione di questa immagine è stata non tanto «una storia quanto una morfologia». Infatti «la materia è rimutata e svariata dai tempi, ma le sue forme persistono [...] eclissandosi spesso soltanto per riemergere». Ad esempio, se l'ideologia del libertinismo filosofico ha impresso oggi alle cose la sua forma certamente più diffusa «essa non plasma forse già certe visioni secentesche del mondo aborigeno?». E non è forse vetusta «la tradizione d'una ipocrita benevolenza illuministica che atteggia in particolari forme gli Indiani?». C'è stata però - riconosceva poco dopo - una scoperta straordinaria negli ultimi tempi: «gli oppressi medesimi parlano, sia pure ancora attraverso mediatori; si forma una letteratura indiana». Nell'interpretazione di Culianu,7 la «scoperta» che Zolla menziona era stata in gran parte proprio opera sua. Infatti ne I letterati e lo sciamano il dominio della materia storico-letteraria viene a sposarsi secondo lo studioso rumeno con un tipo di interpretazione e intelligenza critica ignoto ai metodi dell'antropologia culturale corrente. La curva ermeneutica del disprezzo, della tolleranza, della benevolenza, del rispetto, dell'attenzione, infine della reverenza verso le civiltà indigene d'America - che aveva scandito in questa precisa sequenza l'atteggiamento dei ricercatori americani

- per la prima volta nel libro di Zolla era scavalcata di netto, e un approccio inedito alla «diversità» indigena era compiuto dall'autore. Nella «nuova» ermeneutica zolliana Culianu scorgeva operante un approccio illuminato dal cuore: in inglese intelligence out oflove, un'espressione del tutto equivalente a quello che la Scolastica cristiana definisce «intelletto d'amore», la facoltà spirituale che Zolla ne Le potenze dell'anima aveva denunciato rimossa nella coscienza moderna. Era stata non l'arida ragione critica ma il lume di cui Dante dice che non si turba mai (Paradiso XIX, 64-65) a pilotare lo scrittore nelle zone sommerse della letteratura americana portando alla luce l'integra bellezza e la portata spirituale del filone indigeno. Una tesi ardita, quella di Culianu, che ha avuto scarso riscontro nella pur attenta ricezione de Iletterati e lo sciamano in Italia, sia al tempo della prima edizione che della successiva.8 Ma la fortuna del libro in America dipese da fattori più contingenti. Il progressismo a oltranza che negli inquieti anni Sessanta spadroneggiava negli ambienti intellettuali radicali della costa adantica, aveva colto nel filone imbroccato da Zolla l'anticipazione di un proficuo cambio di rotta, tutto pro-indigeno negli studi letterari e in quella che di 11 a poco sarebbe diventata una disciplina di gran seguito, l'etnopoetica. In Italia le ricerche accademiche promosse da Zolla in ambito americanistico dagli anni Settanta in poi aprivano la strada a un terreno vergine dal forte taglio antropologico, comparativo e interdisciplinare.9 Ma il «caso» che all'inizio della stagione degli esodi costituì I letterati e lo sciamano, suggerisce di andare un po' più a fondo nell'approccio col mondo indigeno dello scrittore, un approccio notevolmente distante, come ora vedremo, da quello del principe indiscusso della ricerca etnologica nel Novecento: Claude Lévi-Strauss.

2. Tristi tropici perché? Risale agli articoli giovanili, pubblicati aTorino, l'apertura vivacissima di Zolla sul portato simbolico delle culture indigene e del folklore popolare.10 Credenze, miti, riti e cerimonie dei popoli che

Lévi-Strauss, in una celebre battuta, aveva definito «assenti alla storia», esprimevano agli occhi di Zolla idee raffinate e complesse, certamente formalizzabili in un'algebra strutturale secondo il metodo lévi-straussiano, a scapito tuttavia, ritenne Zolla, di un intendimento che destasse l'osservatore a riconoscere nell'osservato concezioni di portata universale cui non occorre una presenza nella «storia», l'uso della scrittura o una consuetudine dialettica per filtrare nei pensieri e negli atti della vita quotidiana. Vediamo ad esempio in che modo Bernardo Trevisano descriveva la forma e la funzione del calumet, la pipa sacra indiana in un articolo dell'aprile 1966 uscito sul «Giornale d'Italia». Il calumet ha quattro nastri pendenti a significare le quattro pard dell'universo, uno nero designa l'Occidente dove vivono le forze che concedono la pioggia, uno bianco il Settentrione donde spira il vento purificatore, uno rosso per l'Oriente dal quale sprigiona la luce, e dove si leva la stella del mattino, uno giallo per il Sud, donde giunge la primavera e la forza delle crescite. Ma i nastri stringono una piuma d'aquila, la quale sta a mostrare come essi formino una sol cosa: l'Uno, il Padre verso il quale i pensieri dovrebbero salire con volo d'aquila. All'imbocco della pipa sta un lembo di pelle di bisonte, simbolo della terra. Prima di cominciare il rito della sacra fumata l'Indiano saluta cielo, terra, i punti cardinali, e poi medita sul tabacco, il quale rappresenta lo spirito umano che si deve elevare e disperdere fuggevole nel cielo, sacrificando; quindi egli medita sul fuoco che divora il tabacco, emblema di Dio, sul tabacco stesso che è l'uomo e sulla pipa che è lo spazio cosmico. La circolarità — sottolineava B. T. — era la forma cui l'Indiano riconduceva ogni cosa: la propria tenda, la cerchia delle tende, a imitazione e celebrazione dei venti che vorticano a tromba, della terra che è tonda, del cielo che s'incurva come una sfera, dei nidi degli uccelli. In tal modo, tutte le forme statiche dell'esistenza si trovano determinate da un archetipo concentrico materiale o mentale; centrato sul suo io qualitativo o totemico, quasi impersonale, l'Indiano tende all'indipendenza e perciò all'indifferenza

nei confronti del mondo esterno; egli si circonda di silenzio come entro un cerchio magico, e questo silenzio è sacro perché trasmette influssi celesti [...]. Di qui una indifferenza dell'Indiano nomade verso le strutture stabili dello spazio: egli rifugge da dimorefisse,di pietra, e perfino dalla scrittura, la quale condenserebbe, pietrificherebbe il fluire silenzioso dello spirito. «La civiltà europea, nelle sue forme sia dinamiche che statiche» osservava ancora «è invece fondamentalmente sedentaria e cittadina, sta ancorata nello spazio e vi si stende quantitativamente, laddove l'Indiano d'America rappresenta un Abele ucciso dal Caino europeo fabbricatore di città», e citava in proposito le parole di Benjamin Franklin: Li chiamiamo selvaggi perché i loro costumi divergono dai nostri che ci illudiamo essere la perfezione della civiltà, ed essi pensano altrettanto dei loro [...]. Avendo pochi bisogni artificiali, hanno molto agio di coltivar l'anima in vista della conversazione. Il nostro modo di vivere laborioso essi lo stimano basso e servile al paragone, e l'istruzione in base alla quale noi ci valutiamo essi la considerano frivola e vana.11 Quattro anni dopo, la Terza pagina del «Corriere della Sera», sotto l'immagine di un ridente ragazzino nambikwara, la narice adorna di un bastoncino piumato, accoglieva l'elzeviro zolliano: Parenti ai tropici, dal sottotitolo: «L'algebra mitologica di LéviStrauss applicata ai costumi di una tribù del Mato Grosso».12 Una pagina importante perché mette in luce la distanza tra la prospettiva alla base dell'antropologia spirituale zolliana e quella dell'etnologia ufficiale che ha in Lévi-Strauss uno dei suoi indiscussi maestri. Nel 1938 Lévi-Strauss aveva dimorato tra i Nambikwara amazzonici per parecchi anni documentando la sua ricerca nella Vita familiare degli Indiani Nambikwara (trad. it. Einaudi 1970). I complicati rapporti di parentela erano stati formalizzati in diagrammi di un'algebra «forse più pomposa che necessaria», cornilo

meritava EZ, riconoscendo d'altra parte all'etnologo di aver sottolineato in maniera impeccabile gli equilibri di forze, le formule di autorità, le più minute consuetudini, tanto che si esce dalla lettura perfettamente informati di tutto, salvo - rilevava - «dell'essenza della vita dei Nambikwara, del loro segreto religioso: della loro intimità». Un'osservazione che la maggior parte dei ricercatori sul campo troverebbe illecita non rientrando minimamente nello statuto dell'indagine etnologica la ricerca di un'essenza nell'identità culturale di un gruppo o di un singolo individuo. Senonché Zolla era e rimase convinto che l'essenza di un individuo o di un gruppo, la maniera inconfondibile di rapportarsi alle proprie radici e concezioni ataviche esemplate nei riti e nei miti, è un dato reale, concreto e pienamente documentabile, solo se lo si accosti con un atteggiamento di profonda apertura e simpatia umane, ponendo domande che in molti casi esorbitano dai repertori etnologici consueti ma che vanno tuttavia al cuore delle credenze indigene, di un'idea del mondo nella quale il singolo individuo situa se stesso e il gruppo al quale appartiene. L'esempio porto da EZ nel suo articolo era il seguente: I Nambikwara concepiscono tre tipi di forze soprannaturali: in primo luogo la potenza del nande, astratta si ma calata in oggetti e in sostanze; poi spiriti attivi sotto forma di animali soprannaturali o seminaturali, infine il fulmine, con il quale è possibile, in certe condizioni, avere rapporti personali [...]. Questo - affermava - è il lato della mentalità nambikwara che Lévi-Strauss chiama metafìsico e irrazionale contrapponendolo all'altro «razionale e positivo». Senonché, e qui sta l'obiezione di Zolla, «basta l'aggettivazione ("razionale", "irrazionale"), per capire come mai i capitoli dedicati da Lévi-Strauss alla vita religiosa dei Nambikwara sono così smunti e insignificanti». Se la struttura in cui egli ha deciso di incastellare i fatti rituali e le confidenze degli indigeni intorno ai rapporti con l'invisibile è vista come qualcosa di «irrazionale» e perciò trascurabile, è chiaro «che

i fatti tenderanno a eclissarsi e le confidenze ad arrestarsi di fronte all'etnologo nella stessa misura in cui invece sciamarono attorno a Griaule o alla Dieterlen alle prese con le forme del pensiero mitico, dei riti e dei costumi dei Dogon del Mali africano».13 Secondo Zolla, che la metafisica sia «irrazionale» non solo è una contraddizione in termini ma un pregiudizio del tutto dannoso ai fini dell'indagine, sia essa etnologica, storica o d'altro genere. E nell'articolo immaginava che se Lévi-Strauss avesse accostato la vita di Bisanzio o d'una città medievale d'Europa «ignorandone quasi del tutto la vita mistica e il pensiero metafìsico, costruendosi soltanto modellini algebrici della struttura corporativa, delle attività economiche, dei rapporti fra i membri delle famiglie», ebbene, «il suo stupore non sarebbe stato diverso». All'autore di Tristi tropicie di tante altre opere che hanno avuto il merito «di gettare tra le anticaglie i boriosi storicismi», non si può tuttavia chiedere, concludeva EZ, di corredare il suo sistema di idee con una metafìsica. «Troppe resistenze dovrebbe superare in se stesso, troppo solo si ritroverebbe [...]. E poi per fare quest'ultimo passo gli ci vorrebbe un animo molto più asciutto, diafano, robusto.»14 Riscandire gli aggettivi: asciutto, diafano, robusto riferiti all'atteggiamento dell'etnologo chino sui Nambikwara con l'apertura dell'osservatore illuminista, aiuta a comprendere meglio quel che sostenne Culianu quando, a proposito dell'approccio di Zolla alla diversità indigena, parlò del risveglio in lui dell'intelletto d'amore. Una digressione si rende a questo punto necessaria.

3. Una otherness dai tanti volti Nella personalità del «conoscitore di segreti» la polarità del «diverso» illuminata dall'intelletto d'amore, occupa un posto peculiare e centrale. Esso andrebbe valutato non solo attraverso l'esame degli scritti antropologici, ma ripercorrendo passo passo l'itinerario che condusse lo scrittore a misurarsi con la natura del

«diverso» in un insieme enciclopedico di discipline e saperi depositato nell'intera opera. Nella prima fase di militanza critica, marcatamente influenzata dai pensatori della Scuola di Francoforte, otherness per Zolla fu il mondo dei valori tradizionali che al culmine del ciclo storico moderno l'industria culturale, la società di massa, le stesse gerarchie della Chiesa romana prone alla sirena modernista, confissero in una esautorata clandestinità. Otherness, ancora, nello scavo della vita contemplativa tra i mistici pagani e cristiani fii il luogo nel quale il solitario, l'ebbro di Dio prendono scandaloso rifugio. Nelle opere posteriori a Che cos'è la tradizione, otherness sì fece immagine dell'orientamento più bistrattato della filosofia occidentale, il sincretismo che il saggio omonimo del 1990 prospettava come l'apertura del pensiero senza pregiudizio sull'unità profonda tra sistemi di pensiero e fedi storicamente e culturalmente separati ma non inconciliabili.15 Otherness, nondimeno, significò per Zolla la tradizione del segreto custodita dagli alchimisti, dai cultori della medicina tradizionale, dai cabbalisti e i maestri di trafile esoteriche — trafile alle quali peraltro non si associò mai. Per chiarire meglio questo punto, aggiungeva: «Non voglio certo staccare dai maestri ai quali ci si sia legati: desidero togliere di mezzo una condizione giuridica: l'accettazione da parte di un maestro dalla prospettiva: quella esoterica, dove non può spadroneggiare alcun sistema giuridico».16 Come a dire, la normatività giuridica vista come un vincolo e un obbligo ineliminabili nella vita essoterica, sia almeno risparmiata a chi veleggia nella otherness esoterica. Infine, negli scritti a partire da Uscite dal mondo, otherness significò lo slancio verso esperienze di realtà virtuale col sollievo di scorgervi la possibilità di una liberazione dalla tirannia della materia e dal culto dell'io-persona. In una corrispondenza con Giampiero Comolli, di cui ci occuperemo più avanti, Zolla affermava che la realtà virtuale è una tale rivoluzione «perché non esiste una sola esperienza per noi fondamentale e perfino sacra che non si possa trasporre in un programma di realtà virtuale». Molto

si discusse negli anni Novanta sul plauso zolliano per le tecnologie informatiche e gli esperimenti di realtà virtuale. Un plauso ritenuto non solo incoerente in colui che negli anni Sessanta aveva infierito contro la macchina, il cinematografico, le avanguardie e l'abuso dei media, ma eticamente sventato. Si tornerà più avanti sul famigerato argomento.17 Intanto ulteriori, sorprendenti aspetti della otherness inseguita da Zolla vanno messi in luce.

Esodi nelXaltrove-, il destino e lo zodiaco

Bisogna abbandonare ogni concetto noto [...] ignorare ogni conoscenza morta per trovare ciò che vive e dà vita. Bisogna che si muoia per rinascere, che si sia divinità solari. Cioè che si viva come il sole attraverso lo zodiaco. Melville e l'abbandono dello zodiaco Quando il richiamo di un altrove perfino più eccentrico degli orienti geografici, guadagnò terreno nella sua mente, un'idea gli si configurò come pietra angolare della casa della vita, la pietra attorno alla quale ruotano le singole esistenze: l'idea di destino. Ne sortirono pagine intarsiate nel corpo dell'opera ma nel contenuto e nel tono inconfondibilmente a parte rispetto agli altri scritti zolliani. Quelle pagine emanano una luce diversa, tenue come il cielo al crepuscolo, simile al mite bagliore della Via Lattea. L'erudizione che rende scoraggiante l'incontro con l'opera di Zolla, negli scritti sul destino e lo zodiaco, si stempera e, se non tutto se ne afferra, resta una traccia, un'eco che ritorna; dietro il peso del sapere s'intravede la nostalgia di un'innocenza che solo gli occhi di un bimbo possono riflettere o quelli di un vecchio nei quali il film della vita scorre a ritroso e le prove che un tempo l'avevano sopraffatto, ora, nelle acque del ricordo, fluttuano disancorate. Chi ha letto il fulgido racconto di un narratore giapponese morto quando Zolla era bambino, Miyazawa Kenji (1896-1933), Una

notte sul treno della via lattea, ha assaporato l'atmosfera straniarne che impregna gli Scrìtti zodiacali raccolti nella Parte seconda. ***

Deve esserci stata una prima volta in cui lo scrittore aveva puntato «lo sguardo appassionato al nereggiare della notte, spiccando dai puntini luminosi le figure tradizionali, leggendo nella loro disposizione celeste la realtà che ci circonda sulla terra». Senza fallo quella volta ci fu se un giorno aveva confessato: «Cosi mi lasciai trasportare nel mondo delle metafore che sonnecchiano nel nostro inconscio: la scintilla di Venere vespertina corrisponde al tremito amoroso, quella di Venere mattutina o Lucifero all'audacia che si paga col sacrificio e via elencando i barlumi celesti e i modelli della sorte». Al tempo degli esodi dall'Occidente, l'incontro forse più memorabile lo aveva avuto coi sacerdoti astrologi zoroastriani: Essi amano ricordare nella loro storia l'apparizione nel 603 a.C. di Saturno, Giove e Marte nello stesso segno zodiacale, che doveva provocare la nascita di Cosroe, mentre riproponendosi nel 543 a.C. annunciava la caduta di Babilonia. E citano Avicenna, che in un poemetto a noi pervenuto predice con nitore l'invasione mongola, il sacco di Bagdad, l'assassinio del Califfo e infine la vittoria degli Egiziani sui Mongoli nel 1260, in base alla congiunzione di Giove e Saturno in Capricorno mentre io - precisava EZ - potrei citare il De coincidentia astronomica di Pierre d'Ailly, sorbonardo del secolo XV che dalla congiunzione di Saturno e Giove prevista per il 1789 deduceva la Rivoluzione francese e il crollo della monarchia.1 Che il destino decida dei nostri passi, assegni di nascere e morire a un dato momento, impartisca diseguali gioie e dolori gli era stato chiaro da sempre pur sapendo, evidentemente, che il sistema in cui stiamo prevede che si facciano scelte, si prendano decisioni, si dica si, no o si resti incerti in un raggio di autonomia simile a quello dell'attore che nel dramma ha il ruolo assegnato, non uno diverso.

Si pensi a che cosa fu il romanzo in antico: «I romanzi dell'epoca alessandrina» annotava in una lontana pagina «sono narrazioni di viaggi, di natali occultati, espongono traversie e accidenti che alla fine vengono inevitabilmente corretti dal destino o fato, il quale celebra la sua vittoria con il riconoscimento dei personaggi separati per caso ma fatalmente uniti. Il romanzo antico, assai poco sollecito della verosimiglianza, è in realtà una sorta di consolazione, con cui si rassicurava l'uomo (esposto dal crollo delle comunità alla perdita del suo destino) che questo avrebbe trionfato, che l'essenza era permanente e l'accidente temporaneo. Consolazione non fraudolenta, perché in fondo la vita non ha comunque senso se resa priva di forma, se non trova un punto di fuga prospettica rispetto al quale ogni avvenimento diventi significativo. Di qui l'importanza delle coincidenze (l'ultimo a scoprirla fu Pasternak) nonché della morte: l'ultimo attimo concesso per ravvisare la propria forma predestinata e trovar pace [,..]».2 «Un'altra fonte di consolazione» aveva aggiunto «erano stati i ritratti degli antenati: volti dipinti, non migliorati, non alterati in modo alcuno, visti da un estraneo attentissimo, costretto dalla natura stessa della sua opera alla purezza di sguardo: il pittore. Il bambino che contemplava quei volti dipinti e, perché morti, innocenti, d'una potenza fatta di mera saggezza, imparava a trattare con i suoi impulsi più radicali e con le persone alle quali quegli impulsi l'avrebbero legato, con la stessa pace che vigeva in quei suoi dialoghi impossibili con le figure primordiali, i cui tratti erano carichi di tutti i significati che potevano nascondersi nei dialoghi con persone vive.» Passi come quelli citati, risalgono a epoche e occasioni diverse della vita di Zolla ma per quello che dicono e il modo in cui lo dicono, appaiono simultanei come se i lembi dei primi e degli ultimi, sottratti al dazio del tempo, finissero col congiungersi. Se si insiste a volerli situare in un ordine cronologico, il momento giusto è attorno al 1960. Nell'agosto di quell'anno usciva su «Paragone», la rivista diretta da Roberto Longhi, un saggio corposo

come un romanzo sul capolavoro di Melville Moby Dick-. Melville e l'abbandono dello zodiaco. Il 27 marzo 1962 e il 16 aprile 1963 era la volta di due articoli: Il destino e la fortuna e II destino, pubblicati rispettivamente sulla «Gazzetta del Popolo» e il «Corriere della Sera». Nella Introduzione a I mistici dell'Occidenteì paragrafi quarto e settimo e il brano sui colori, trattano diffusamente dello zodiaco.3 Proseguendo negli anni, toccò ali 'alter ego letterario di EZ, Bernardo Trevisano, firmare sul «Giornale d'Italia» la serie dei segni zodiacali da Capricorno a Sagittario. E dileguato che fu Bernardo sullo spartiacque del periodo romano, la voce narrante di Le meraviglie della natura. Introduzione all'alchimia subentrava a illustrare le fasi del processo alchemico secondo la disposizione per sette o dodici dello zodiaco filosofale. Il saggio Le rune e lo zodiaco che si è citato nel capitolo precedente, riportava a sua volta ricerche di archeoastronomia condivise da Margarete Riemschneider e Margarete Lochbrunner, le due studiose tedesche assidue collaboratrici della rivista fino al 1980. Quell'anno, in un articolo su «Sette», il supplemento del «Corriere della Sera», Zolla esordiva con una noterella biografica e un presagio: Un giorno del 1968 a New York, entrai da Mason's, una libreria dalle pani di Madison Avenue. Il libraio mi squadrò duramente, fece capire che il tipo di libri che cercavo non gli garbava. Dopo un po' capii che gli garbava fin troppo: stava soltanto inscenando la farsa cui nessuno buon newyorkese rinuncia, la scenataccia che prelude alla confidenza. Prima che uscissi, con l'aria di chi mette a parte d'una congiura, mi spifferò: «Si segni quel che le dico. Gliela dò al cento per cento. Fra dieci anni, di psicanalisi si parlerà sì e no. Ci sarà soltanto A - S T R O - L O - G I A » . Dalla soglia sussurrai: «Anche le mie fonti lo confermano».4 Non stava scherzando. Tutte le volte in cui s'era imbattuto in qualcosa che l'aveva interessato, di 11 a dieci anni, quel qualcosa finiva sulla bocca di tutti. Era accaduto con le opere di Adorno, Horkhei-

mer, Marcuse, McLuhan, Lévi-Strauss, commentate da Zolla assai prima che la loro fama toccasse lo zenit negli anni Sessanta. Ma nel caso dell'astrologia la previsione che sarebbe dilagata in forma epidemica era altrettanto facile quanto prevedere lo scotto che avrebbe pagato, visto che «i concetti più rari divulgandosi, prendono un'aria balorda», sentenziava. Nel trattato sugli archetipi, c'è poco nei temi che ruotano attorno al concetto indiano di samadhi o esperienza metafisica che non rinvii a una teoria del destino coronata, in capo al libro, dalla visione della rosa. L'anno dopo, il 1982, era la volta del saggio II cielo scritto pubblicato su «FMR», la rivista diretta da Franco Maria Ricci,5 e un analogo sfolgorio di immagini siderali guarniva la Introduzione a Le dimore del cielo. Archeologia e mito delle costellazioni di Giuseppe Maria Sesti.6 E mentre il rosario dei segni zodiacali si riscandiva in Uscite dal mondo, un fastoso volume di Allemandi, Cercare il cielo accoglieva il saggio introduttivo Osservazioni del cielo? Rinvii svariati al tema del destino si scaglionano da un decennio all'altro. Nel capitolo iniziale de La nube del telaio accenni al nesso tra ordo, l'ordine-che-lega e ordior, l'atto-che-abbindola, introducono il tema della tessitura che la concezione arcaica descrive come un sortilegio. Senonché le sorprese nell'opera di Zolla non finiscono mai. Si suole associare il culmine del tormento all'istante in cui il filo della vita è reciso? Ebbene lui invitava piuttosto a riflettere «sulla botta spietata che ci fu sferrata alla nascita, quando subimmo il contraccolpo terrificante dell'aria che ci gonfiava i polmoni, del latte che scorreva per la prima volta nella gola e ci fecero ressa d'attorno i pollini della stagione, l'atmosfera invernale, primaverile, estiva o autunnale. Questo trauma primario non è forse un sigillo fetale?».8

1. Definizioni del destino All'astrologia inizialmente Zolla aveva prestato scarsa attenzione. In seguito, aveva preso a interessarsi al dottor Ernst Bernhard, lo psicanalista tedesco (1896-1965) che era stato discepolo di C. G. Jung.

Nel suo studio romano - ricordava EZ - si rifugiavano a farsi modellare personaggi che stimavo, e la prima mossa nell'accostare un cliente, era di cavarne l'oroscopo. La cura si serviva di quello schema per orientarsi, trovare soluzioni, indirizzare. Si può dire che tutta la terapia era già implicita in quel disegno del carattere, delle capacità, del destino. Il metodo di Bernhard ricalcava puntualmente quello junghiano. Non serviva a stabilire dei fatti, ma a individuare una conformazione del destino e che cosa è più consono al destino del variare di stagioni in cielo da un capo all'altro dell'anno? Se poi alle 12 costellazioni si combinano i 7 pianeti, si riesce a definire con precisione ogni sorte. Almeno, cosi pareva a Bernhard e ai suoi clienti.9 Jung aveva intuito che gli archetipi si possono esprimere in modo adeguato mercé le combinazioni astrologiche. Studiando il gruppo dei clienti di Bernhard, EZ si era persuaso che senza un'idea di destino poco o nulla vale la vita e di essa, senza il sistema astrologico «non posso nemmeno cominciare a parlare in maniera articolata». Ne era scoccata una definizione secca come lo schiocco di una pallina da ping pong: «Il destino è il nesso misteriosamente necessario tra il carattere d'un uomo e gli eventi che gli si costellano intorno». Ricamandoci sopra aveva aggiunto: L'idea di un destino sbalestra fuori delle nostre categorie ordinarie, implica una connessione fra il mondo interiore e gli accadimenti esteriori, trascende la semplice morale, perché comprende anche l'inconscio, si rivela in tutta la sua sconcertante realtà quando ci accadono sincronismi. È qualcosa di ceno e di concreto, ma si può cogliere ed esprimere soltanto poeticamente, o in musica o dipingendo un ritratto.10 A proposito delle ricerche statistiche sulla validità dell'astrologia, si era documentato sul caso dei coniugi Michelle e François Gauquelin: Cominciarono a raccogliere dati, proponendosi di fornire la smentita decisiva dell'astrologia, di dimostrare statisticamente

che a uguale oroscopo non corrisponde uguale sorte. I loro numeri cominciarono però a ballare davanti ai loro occhi, prendendosi gioco di loro; invece di smentite, venivano fuori conferme dell'astrologia. Risultò ben probabile la presenza di Marte e Saturno nell'ascendente o in medio coeli tra medici, di Giove fra attori e soldati, della Luna fra scrittori e politici. Ma i dati più sconcertanti concernevano i campioni sportivi; invece della rata probabile del 12% per i nati con Marte in ascendente, fu accertato il 22%, che ha una probabilità su 5 milioni di prodursi. Naturalmente le polemiche prò e contro l'accertamento sono state interminabili. Ma anche futili, perché si scambia la categoria sociale e sociologica «campione sportivo» per l'essenza di un destino.11 In altre parole, un oroscopo non procura informazioni su fatti socialmente, esteriormente definibili. Gli oroscopi di Dante o Goethe, che erano nati ambedue sotto i Gemelli, sono come «carte geografiche, cieli squadernati su cui cogliere il segreto della loro sorte [...]. L'occhio poetico può scorgere verità che non si svelano all'uomo legato alla lettera dei fatti».12 E fin dove arriva la gittata dell'occhio clinico? Se n'era occupato in un articolo che risale al 1962 riferendo il caso che aveva incoraggiato lo psicologo Lipot Szondi a formulare una propria, empirica teoria del destino. Una coppia si presenta da Szondi, la giovane donna è inquieta, tormentata da dolori alla testa, di notte non piglia sonno, di giorno è intimidita. Poi, la serie di sintomi particolari: non riesce, scrivendo, a formare la «k», è tentata di buttarsi in una fontana. Una prima cura allevia i mali, ma per poco; lo squilibrio non è stato corretto, ella comincia a sospettare di aver avvelenato il bambino, il marito, gli ospiti e piangendo dice di ricevere di quando in quando le visite di una vecchia afflitta dalle medesime ossessioni. Il marito svela che la vecchia è sua madre, che suo padre e uno zio della moglie erano cugini, e quello zio s'era invano proposto di farli incontrare e sposare quando erano adolescenti. La moglie s'era sposata la prima volta a diciotto anni per interesse, divor-

ziando quasi subito; dopo aveva incontrato lui e questa volta le nozze erano state ispirate dall'amore. Però l'amore, a distanza di cinque anni, stava riscuotendo il suo prezzo: le ossessioni che denunciavano la natura segreta del vincolo. Secondo Szondi è una stessa tendenza ereditaria, dalle manifestazioni diverse a seconda dell'occasione, che ora annoda vincoli d'amore, ora isola nell'ossessione. Due persone — spiega - possono appartenere alla stessa costellazione psicologica di tipo epilettoide e l'uno diventa un Caino brutale, attaccabrighe, assassino, mentre l'altro reprime in sé Caino e diventa Abele che vive i suoi parossismi come fantino, ferroviere, spazzacamino, pompiere, fornaio e spesso homo sacer. Così il destino d'un uomo che appartiene alla costellazione schizoide può pigliare forme differenti, l'uno riducendosi ad un mero schizofrenico, l'altro soffrendo di una nevrosi ossessiva, il terzo diventando un fanfarone paranoico o un inventore. Taluni si comportano per tutta la vita come degli eccentrici o come intellettuali che riflettono soltanto su sistemi, la logica pura e le matematiche. Altri diventano vagabondi e abbandonano la famiglia e la comunità errando laceri e sporchi per anni interi, finché un giorno muoiono di fame e di freddo in un fossato o di tisi in un ospedale. Scavando negli archivi parrocchiali Szondi si era reso conto che persone i cui antenati s'incontrarono (nell'amore, nel delitto, nel lavoro) tendono a riunirsi molto più di quanto richiederebbe la legge di probabilità. Se si porta nel sangue la propensione a scegliere le persone con cui avere rapporti per attrazione o per opposizione, «grazie ad un acconcio sistema di perforazione di schedine - osservava EZ in margine al rapporto su Szondi e la sua scuola — non dovrebbe essere impossibile escogitare una macchina per impostare il proprio destino, da nutrirsi con una dieta mista di informazioni, cioè combinando quelle stanate dagli uffici di ricerche araldiche con i risultati delle analisi chimiche e dei test psicologici».13 E a proposito del capitano Ahab che nel capolavoro di Melville, Moby Dick, «voleva costruire una carta delle migrazioni dei capodogli con precisione statistica, sì da poter finalmente andare

diritto allo scopo, ammazzare la balena inconfondibile, distruggere ogni traccia di natura», rifletteva che «poche imprese di oggi sono dissimili».14 Dieci anni dopo, in un commento al Goethe di Pietro Citati, osservava che nel cielo natale dello scrittore tedesco è dominante Mercurio: il dio delle premonizioni e del destino: Mercurio trasvola, non si sofferma ed è questa una delle grandi qualità del libro: non cede ai ricatti di Saturno, dio cosi potente oggigiorno. Non si lascia mai imprigionare, Mercurio, e anzi riesce perfino a trovare un accomodamento con Saturno e un'intesa con tutti gli dèi planetari. Che sia d'accordo con Venere, è evidente dallo stile, tuttavia non si lascia mai trascinare nelle vertigini di Venere. Con Venere allestisce i suoi corteggiamenti e della dèa osserva tutte le astuzie: infatti una delle parti più gustose del libro è la descrizione degli abbigliamenti: congiunzioni di Venere e Mercurio.15 Passi come quest'ultimo e i precedenti, attivano nel lettore un dinamismo psichico, spronano a domandare: se il cielo che squaderna oggi la scienza non ha nulla a vedere col cielo zodiacale, c'è un piano di realtà nel quale situare un cielo del genere? Quante volte parlando in pubblico, lo scrittore era stato messo di fronte a domande simili e spesso la resistenza, l'ostilità erano state palpabili. Come la volta in cui aTorino, al termine della conferenza per l'Associazione Culturale Italiana nel 1990, un padano inviperito lo aveva affrontato con queste parole: «Professor Zolla, ci vuol dire di grazia che cosa sono gli archetipi?». Come nulla fosse, sprizzante allegria per l'occasione che veniva a taglio, aveva risposto: Archivuol dire origine e «tipo» viene dal greco typtein = battere, coniare. Quindi «archetipo» è la forma impressa sulla materia delle cose come un sigillo. Archetipi sono anche i punti dell'orizzonte, da due: Oriente-Occidente, in sufinoalle 24 ore, ossia i 24 punti toccati dal sole nel suo giro, che possono essere ancor più

ravvicinati pareggiando i giorni del giorno più lungo ovvero l'Anno. Questo, a sua volta, si restringe a trentasei o a dodici, e se l'uomo si distende come una ruota toccando la testa coi piedi, le stazioni solari equivarranno alle membra umane: la testa-Ariete toccherà i piedi-Pesci, e via via arretrando. Laflora,la fauna, le singole minime cose sono cellule di organismi più vasti. Per capire la forma specifica, il tipo, bisogna risalire all'archetipo che l'ha tipizzata. E vuol sapere qual è l'archetipo del viaggio? Ma è l'esodo, l'egira. Quando ci si muove viaggiando sulla terra l'archetipo è il pellegrinaggio, e l'archetipo del pellegrinaggio è l'estasi.16 Scrosciarono applausi in teatro quella sera. Acquattata nel via vai della folla mi divertivo a catturare battute, lembi di commenti in un registro esteso tra la giubilante approvazione e l'astio più protervo. A un certo punto riconobbi la voce padana: «Toccare coi piedi la testa: testa-coda! Uhm! Il troppo è troppo!» sentii il tizio brontolare tra sé e sé mentre a passo dignitoso guadagnava l'uscita. Torniamo allo zodiaco. L'occhio nudo, al quale un tempo si schiudevano gli zodiaci, è uno strumento ormai angusto e impedito, sosteneva EZ, e se ci si porta entro la scienza odierna occorre scordarsene. Non stava esortando a obliare le ricchezze favolose del passato astrologico, ma ad acquisire le cognizioni tutte nuove che «oramai ci si offrono e ci conducono tra altri misteri». E incitava a riprendere la questione basilare: si contempla il cielo, ma che cosa si scorge? Le onde luminose o fotoni i quali colpiscono la retina sono una frazione cosi esigua delle vibrazioni oscillanti tutt'attorno, che rivelazioni cruciali si sottraggono alla nostra attenzione. In genere la nostra vista è minima rispetto a quella degli animali. Che cosa mai vediamo, rispetto a un'aquila sospesa sopra il paese? Non soltanto le sue diottrie svergognano le nostre, miserande al paragone, ma nel suo tessuto oculare si schiudono anse, fovee che

permettono la selezione d'un campicello e la discesa dell'attenzione su di esso fino alla massima prossimità. In tempi arcaici ci si avvedeva delle capacità eccezionali che spettavano alle specie animali e il proposito umano primario era di immedesimarsi trasfondendosi nella loro identità; si invocava questa metamorfosi osservando con cura, agognando con intensità, fino a cadere in deliquio e ricevere l'allucinazione di essere uniformi a loro. Lo sciamano volava allora come un'aquila, spingeva lo sguardo arditamente all'intorno, con furia aquilina. Ma non è soltanto questione di appurare il raggio del visibile. Ormai si sa che la parte sostanziale dell'universo ci elude. Non si tratta dei raggi ultravioletti da una banda, e di quelli che si succedono fino alle onde radio, dall'altra. Esiste una materia oscura, che si sottrae a qualsiasi sondaggio, e già nel 1933 Fritz Zwicky la scopriva osservando il complesso di galassie della Vergine, misurando la velocità del moto di ciascuna per un verso, valutando la luce che ne emanava per l'altro. Risultò che la massa dell'insieme era maggiore di quella delle componenti: una forza di gravità straordinaria, nata da una materia oscura invisibile ma presente, tratteneva nel suo spazio l'insieme di galassie.17 Di nuovo se il padano l'avesse sentito parlare così, avrebbe borbottato: «Questo qui non sta al tema: aquile, diottrie, sciamani, materia oscura, galassie. Il troppo è troppo!». Nella Introduzione a Le dimore del cielo di G. Maria Sesti lo scrittore confessava: Più e più volte ho fatto l'esperienza di culture ritrose e segrete che luminosamente si palesavano, non appena mi impadronivo del loro sistema zodiacale. Per anni mi aggirai, irrimediabilmente estraneo, nel mondo delle saghe nordiche. Per quanto leggessi, la prosa islandese arcaica e l'anglosassone continuavano a rimanermi inaccessibili, enigmatiche e brutali. Non mi parlavano che di gesta bieche, di dure e monotone fùrie; nel ricordo ne echeggiavano soltanto torve canzoni

di guerrieri ubriachi rimbombanti per desolate aule di pietra, ululati di venti e di lupi su grigi ghiacci interminabili. Una lugubre, opaca terribilità: una povera cosa;finchéincominciai a riflettere un giorno sulle rune, le lettere dell'alfabeto nordico, che non sono semplici segni, ma simboli, ciascuna, d'un aspetto della vita. Provai a disporle sul cerchio dello zodiaco, e risultò che ogni paio di rune esprimeva esattamente i significati di un segno zodiacale. Allora tutta l'arcaica letteratura islandese e anglosassone mi si dischiuse, le molteplici anime dei personaggi svelarono le loro profondità. Le saghe mi offrivano ormai cammini percorribili, luoghi ospitali, semplicemente perché mi era adesso familiare il loro zodiaco, cui potevo riferire i miti e le cosmogonie, le opere quotidiane, le esperienze interiori, gli dèi. Lo stesso m'accadde con le letterature celtiche d'Irlanda, del Galles, di Bretagna, tutt'altro che lugubri, anzi meravigliosamente deliranti, ma proprio perciò d'una irriducibile lontananza: esotiche; le leggevo divertito ma impartecipe. Tuttavia anche queste letterature mi diventarono familiarmente intellegibili allorché imparai da Robert Graves a situare sullo zodiaco gli ogam, le rune celtiche. Allora le più folli e arruffate fiabe si svelarono per limpidi racconti simbolici, per trasposizioni di esperienze interiori in narrazioni fantastiche.18

2. Giochi cosmici In certi raccoglitori dell'archivio, plasticati in verde cupo e rosso, blocchi di appunti e disegni autografi giacciono in custodie trasparenti, ordinate per anno. In una cartella datata 1970 mi ero imbattuta in una serie di schizzi di giochi infantili accanto ai quali erano accuratamente trascritte cantilene e ninnenanne, e la sensazione che i giochi dei bambini e le ninnenanne entrassero alla grande nel tema zodiacale era stata nettissima. Sono giochi tradizionali dell'area mediterranea europea, noti un po' a tutti per avervi partecipato da piccoli sulla ghiaia che sfrigolava sotto i piedini. Forse non sapevamo e non abbiamo insegnato ai nostri figli che quei giochi hanno squadrature cosmiche. La mano di Zolla le

aveva tracciate disponendo accanto a ogni gioco la sua filastrocca: l'albero di cuccagna, il nascondarello, il salto della corda, la mosca cieca, il saltaranocchia, i quattro cantoni, le belle statuine: «son d'oro e d'argento, costano cinquecento, uno due tre». Oppure Maria Giulia in mezzo alle bambine in cerchio: «Maria Giulia, di dove sei venuta? Alza gli occhi al cielo. Fa' un salto. Fanne un altro. Fa' la riverenza. Fa' la penitenza. Ora in su ora in giù. Dài un bacio a chi vuoi tu». Non ebbe dubbi: nei rimari del buon tempo antico, c'era una chiave per accedere ai territori del Grande Paesaggio. Marius Schneider che per un periodo si era dedicato allo studio delle ninnenanne iberiche, aveva compreso di trovarsi dinanzi a «una specie di Antologia Palatina o un repertorio di haiku, che comprende distici fulminei, come questa turpiloqua apocalissi delle mamme di Galizia: " Garrotati in culo creperanno i vecchi, /E noi due, bambino, si resterà soli!". E canzonette allegre dall'eros franco e spicciativo, come questa della mamme asturiane: "Ho Giovannino mio nel letto, / Oggi, bel galante, non si può. / Dormi, bambinello dell'anima mia, IE tu torna domani alle tre"».19 Nelle loro conversazioni romane Zolla e Schneider20 erano tornati di frequente su un punto cruciale: quelle ninnenanne servivano a iniziare i bambini ai misteri dell'anno, davano lezioni di geografìa zodiacale, erano sacre cantilene, scongiuri contro i morti maligni perambulantes in tenebris, composizioni mitologiche solenni «scadute a svenevoli blaterazioni soltanto con l'evo moderno». In una ninnanna si culla il bambino invitandolo a identificarsi con Lucifero: Luciferìno dell'alba, dormi Se il bambino dormisse Nella sua culla lo scaglierei Coi piedini al Sole E lafaccina alla Luna. Uccellin che sull'ulivo canti

Non mi destare il bambolino! Ha sonno il bambinello. Che cosagli daremo? Calor di lumachina, che mette corni. Verrà la Lupa, la Regina Mora A cercare ipiagnucolosi! La ninnananna, insegnava EZ, descrive il periplo dall'uno all'altro segno, nella notte, sotto la luna nuova, attraverso l'inverno. Brilla in cielo Venere vespertina: la ninnananna ne fa una controfigura della Vergine zodiacale, e dice al pargolo che Lei gli sta dando la buona notte di lassù, affinché con tal viatico le forze del giorno e della notte si pareggino ed egli slitti nel sonno. Ora il bambino addormentato scenderà nella parte infera del Grande Paesaggio, buia landa palustre, canneto lungo il mare di tenebra. Fa la traversata nella culla che è una bara che è un pesce: sul mare egli salpa, scorre, vola. La ninnananna descrive la navigazione proponendo i simboli del vortice, della spirale, del nicchio, della conca. L'immagine d'un uccellino che canta da un ulivo o da un mandorlofioritosegna il termine del tragitto. Si entra nel purgatoriale mare di fuoco, fretum febris avanti l'alba, tempo onirico di carnevale. A questo punto la ninnananna parla d'un «calor di lumachina» che fa crescere le corna. E in forma di Lumachina fa la sua prima carnevalesca apparizione, Madre Natura. La cantilena prepara il Luciferino dell'alba alle apparizioni successive, e lo mette in guardia: se non fa la nanna da bravo, se la vedrà piombare addosso come Lupa o feroce Regina Mora scortata dal suo losco manutengolo, El Coco. Ma se il bimbo si cala buonino nel sonno e fa i sogni che deve, metterà cornetti luciferini e un bel di sarà lui, lassù sulla Montagna meridiana e solstiziale, il cocco di Madre Natura.21 Le madri del vecchio Occidente - era stato il suo commento non avevano fatto altro che insegnare ai pargoli in culla l'arte di librarsi in quei paesaggi onirici.

3. L'abbandono e lo zodiaco: a proposito di Moby Dick «Nell'abbandono l'unica regola è il momento presente. L'anima vi è leggera come una piuma, fluida come l'acqua, semplice come un fanciullo.» Nel memorabile saggio sul capolavoro di Melville del 1960, la parola chiave «abbandono» ricorre otto volte in quaranta pagine. Pare il rintocco di campana che affiori da un mondo sommerso, l'immenso mare d'acqua nel quale la nave maledetta del capitano Ahab s'inabissò sfracellandosi contro la balena bianca. Nel romanzo marino di Melville Zolla raccolse lo stesso segnale captato nel capolavoro di Pasternak, Il dottor Zivago, un segnale simile alla luce intermittente di un faro nella notte. Quel faro illumina due dimensioni del tempo agli antipodi: il tempo diurno della storia nella tregenda di Zivago e Lara Fèdorovna quando in Russia anche le betulle sanguinavano, e il tempo notturno del mito nell'epopea melvilliana della baleniera suicida. Nei due romanzi EZ aveva scorto versioni cozzanti dell'abbandono: y

nel Dottor Zivago l'abbandono dei due amanti ¿/destino - in una resa che però più lucida, intemerata e mansueta non poteva essere; in Moby Dick l'abbandono dello zodiaco - cosi recita il titolo del saggio zolliano - ossia il distacco da una concezione della vita affidata al volere del cielo una volta riconosciuta l'impotenza dei piani fondati sul «libero» arbitrio umano. In un articolo pubblicato lo stesso anno in cui uscivano i saggi sui capolavori di Melville e Pasternak, EZ citava un passo di Nietzsche: «Poiché fui stanco del cercare / Imparai il trovare. / Poiché un vento mi avversò / Navigo ad ogni vento».22 Una mente abbandonata è agli antipodi del fatalismo. La vigilanza e l'attenzione la rendono fluida e quieta mercé la chiarezza. Una mente siffatta - scriveva nella Introduzione a I mistici dell'Occidente— assomiglia al vellum Gedeonis, il vello che nel deserto si conserva umido e nella palude secco, simbolo di creatività e distacco dal mondo, di una critica intesa come opposizione feconda. È una mente immersa nel proprio cielo. I taoisti lo chia-

mano il «cielo interiore», invisibile e sottile, anteriore alla nascita, prossimo all'uno. Sta di casa «a due pollici e quattro decimi sotto l'ombelico», assicurava Pao-p'u tzu (283-343).23 Melville e l'abbandono dello zodiaco e gli altri scritti zodiacali, sono solchi tracciati nel pensiero profondo dello scrittore di cui è futile sondare la genesi, un «come» e un «quando» legati a occasioni di lettura - come l'incontro coi romanzi d'avventura di Melville, o circostanze estrinseche della vita quali quelle offerte dagli esodi in un altrove fisico o mitico incastrato in una mente immersa nel proprio cielo. Si può tentare beninteso di passare in rassegna alcune di queste idee configgendo la punta del compasso proprio sul saggio sul Moby Dick. Il lucido abbandono è una di esse. Un'altra è l'innocenza, l'innocenza straziata. La balena arpionata dal capitano Ahab, dal marinaio Stubb e il resto della ciurma nelle gelide, remote acque dell'oceano, è il simbolo vivente di quella che per Zolla è la massima fonte d'orrore: l'innocenza straziata, «la dimostrazione dell'impossibilità di vivere, della assoluta disumanità della vita; ma è anche la dimostrazione della necessità di vivere di là dalla catena di colpe, addossandosele tutte, consumandole col proprio sacrificio sì da infrangere in un punto la catena del male invece di propagarlo ritorcendolo». Un altro simbolo dell'innocenza straziata, che è tutt'uno con la disgrazia senza peccato è l'agnello: esso «sta completamente fuori della forza perché la subisce senza partecipare alle sue leggi». Una contemplazione senza turbamento della disgrazia incolpevole, dell'oltraggio smisurato inflitto al mondo della vita dai balenieri a caccia nell'oceano o dai macellatori di agnelli diviene una fonte inesauribile di pensieri sulla forza immane che cavalca persecutori e perseguitati. La si chiama destino, ma assegnarle questo nome piuttosto che un altro, non scioglie l'enigma che alla mente arrovellata si presenta senza soluzione, a meno di sciogliere lo spasmo che deforma il pensiero giacché di uno spasmo, di un'orrida smorfia si tratta fino a quando non ci si risolve a fare come il marinaio dell'altro romanzo d'awen-

tura di Melville, Mardi: «Ho viaggiato senza carta, con il compasso e con lo scandaglio non avremmo trovato queste isole di Mardi. Chi si butta con coraggio getta tutte le gómene e allontanandosi dalla brezza comune, che vale per tutti, gonfia le vele con il suo fiato».24 È il lucido, intemerato abbandono, lontano anni luce da una resa supina, la soluzione additata da Zolla negli scritti sul destino e lo zodiaco. «La ricerca della verità come scoperta» scriveva nel saggio sul Moby Dick «vuole che si sia soli dinanzi al mondo, l'illuminazione non è collettiva, per sua natura. Bisogna abbandonare ogni concetto noto, bisogna ignorare ogni conoscenza morta per trovare ciò che vive e dà vita. Bisogna che si muoia per rinascere [...], cioè che si viva come il sole attraverso lo zodiaco.»25 ***

I brani che si sono riportati offrono un'immagine inedita del conoscitore di segreti: un conoscitore eretico giacché nei suoi scritti contravvenne all'antica norma di tacere di ciò su cui è azzardato e talora devastante aprire gli occhi sebbene si tratti di segreti coi quali ognuno di noi convive, arrivando, qualche volta, perfino ad accorgersene sotto una sollecitazione qualsiasi. Può essere la vista di un cane che trotterella sigillato in un mondo di cui così poco filtra all'esterno; di un ippocastano fasciato di nebbia o squassato dal vento; degli occhi di un cucciolo che ancora non sanno guardare; di un cero che arde nella penombra; di una vecchia che incespicando su un viottolo in salita pare allungare di chilometri i pochi passi dall'uscio di casa. In simili situazioni la scopertura dei segreti avviene senza patente alcuna di conoscenza o pedaggio di studi avanzati. Tra un conoscitore di segreti e io che «non so», la differenza in quei frangenti s'azzera, e una festevolezza commossa si fa strada dentro di me per scordarmene però quasi subito, non appena il ritmo di un vivere non più percepito come un dono, è ripristinato. Non così era stato per lui. Che la festa della vita non finisse

mai, Zolla lo aveva creduto, vissuto e affermato tenacemente, nella buona e nella cattiva sorte, in stato di benessere e in malattia, e quando sorella Morte gli si mise al fianco alle prime luci di quel mattino, nessuno spasimo, non un'ombra di resistenza l'avevano accolta.

L'approdo: i lembi si congiungono

La vocazione al segreto non ha niente a vedere con la vita sociale, eppure è aggiogata alla vita sociale: è lo scotto che deve versare per potersi divulgare. Talvolta si sottrae: gli anacoreti, gli uomini del biasimo, i pazzi di Dio, i manichei. I mistici - ci sono pattuizioni d'ogni genere. Ma proprio ciò che li rende accetti è il germe della loro rovina. Dai Quaderni

Nell'India tradizionale gli stadi della vita di un uomo sono regolati su un modello metafìsico: la rescissione dei legami mondani e il perfezionamento della propria natura intrinseca sono la mèta verso la quale in età avanzata tutto deve convergere. È un principio acquisito nei secoli e non è un segreto per nessuno. La segretezza sta nel processo di effettivo distacco. Tra un'esotericità cullata come un privilegio settario, corporativo, e un'immersione in ciò che è «più interno» - nel senso letterale del termine «esoterico» — la differenza è la stessa del proverbio: «tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare». Attaccarsi alla giacca il distintivo: «iniziato patentato» o atteggiarsi come se quel distintivo ci fosse davvero, è un vezzo puerile che ha poco a spartire con l'approdo all'esoterico che Zolla visse effettivamente dopo averne esplorato le dinamiche scrutandole dentro di sé, incontrando persone che

della conoscenza esoterica ebbero fondata esperienza, incrociando anche a un passo da casa luoghi colmi d'aura, inebrianti come un elisir. Sull'elisir c'è un testo breve del 2001, e chi lo ha letto ha potuto accostare, una volta ancora, la concezione zolliana sul fulcro esoterico dell'esistenza. Elisir - scriveva - proviene dall'arabo al-iksir, a sua volta tratto dal greco xerón, «secco», e designò la pietra filosofale, ovvero mondata di ogni liquidità, vertice della materia, che si concentra in essa sopra la natura, offrendosi come raccolta massima di vitalità, terapeuticità, quindi fulcro d'ogni guarigione, da sanare ogni malanno e redimere qualsiasi colpa. Ma a parte i procedimenti di laboratorio alchemico cosi evocati, la parola rappresenta il fulcro dove si congiungono alto e basso, cieli e terra. Anzi dove si stabilisce alla perfezione il loro rapporto. Senonché: che cosa è la relazione fra l'uomo ed il cosmo, fra l'io e la natura? Talmente importante è questa domandina perché ne dipende la fusione tra i due estremi, che alla fin fine è l'estasi o sommo bene, la loro confusione inestricabile, in cui si avvincono e distruggono a vicenda in un meraviglioso trionfo di morte e resurrezione. Ha tanti sinonimi questa sintesi suprema o elisir, è il sommo nepente, il sangue del Graal, il gioiello che elargisce ogni desiderio: sorso di paradiso, cibo soprannaturale.1 Nella limpida calma di una visione alla quale nulla è più da aggiungere, la domanda sulla relazione uomo-cosmo, io-natura era colmata in pagine il cui andamento non assomiglia certo a quello di una lezione accademica. Da tempo il professor Zolla era sceso di cattedra, o forse non c'era mai salito nel senso consueto, e a chi s'informava sulla sua carriera accademica, soleva rispondere: «Ho fatto il docente universitario per quarantanni e lo Stato mi ha pagato per questo. Qualche centinaio di studenti si è laureato e addottorato con me. Tutto qui». Proviamo a immaginare che un giorno dicesse a lezione:

Il tutto vede le parti con un solo sguardo, mentre la parte non vede il tutto se non per aspetti diversi e successivi. Per questo la divinità è la simultanea totalità degli aspetti successivi. Onde la sua visione è unica, e non si attua in successione.2 La classe, normalmente distratta, s'era fatta attenta. Qualcuno voltandosi al compagno seduto dietro, aveva lanciato uno sguardo interrogativo: «Che sta dicendo?». Intanto il professore aveva proseguito a parlare, e quasi nulla restava tra le pareti dell'aula, dell'eco di quella sentenza: «Il tutto vede le parti con un solo sguardo, mentre la parte non vede il tutto». Che Zolla parlasse per sé, è vero e falso allo stesso tempo. Falso - perché citava e argomentava dentro lo schema di una meditata lezione accademica. Vero - perché l'origine e la mèta del suo parlare scavalcavano il tema della lezione. Chi s'era voltato a domandare: «Che sta dicendo?» aveva ragione, sebbene spiegare perché non avesse tono non sia poi cosi facile. ***

Cronologicamente il distacco dallo stile di vita che dai trenta anni in poi era stato il suo, avviene nel 1991 quando Zolla lascia l'insegnamento universitario, l'abitazione romana e l'oramai assottigliata compagnia di gatti in via Merulana e ci si ritira, lui e io, tra vecchie mura fasciate di nebbia nel borgo di Montepulciano (il toponimo, curiosamente, ha la rarità di contenere tutte e cinque le vocali dell'alfabeto italiano e, quanto alla cittadina, ci sono in realtà due Montepulciano e quella sotterranea è un tracciato di cunicoli, noto a pochissimi e quasi inaccessibile). In una visita allo scrittore riportata nel «Sole 24 ore» al valico del 2000, Giovanni Santambrogio compiva senza saperlo un atto simmetrico a quello di Luigi Compagnone quarantadue anni prima, quando aveva incontrato EZ nel piccolo appartamento romano dove allora abitava.

La casa di Zolla a Montepulciano in cima alla collina - Santambrogio annotava - è al centro di un fino reticolo di ripide viuzze e di portici ad altezza d'uomo. Ogni stanza dell'abitazione reca segni d'Oriente, luoghi in cui ha viaggiato e dove ha dialogato con il buddhismo, l'induismo, il taoismo. Un delicato profumo di essenze accentua la diversità della vecchia abitazione da quelle adiacenti, tutte con i tetti in cotto, lefinestrepiccole e le porte in legno. Dentro, l'Oriente scandisce le ore; fuori, si erge maestosa la facciata manierista della chiesa di Santa Lucia, opera di Flaminio del Turco. Il colore della pietra s'infiamma ai raggi del sole per sfumare in un bianco sensibile alle minime rarefazioni della luce. È questo spettacolo che tiene compagnia a ogni lavoro di Zolla. La piccola scrivania sta proprio di fronte alla «finestra-palcoscenico». Poco distante e poco sopra si apre la piazza di San Francesco con il suo portale gotico. Dal pulpito ricavato nella facciata avrebbe predicato San Bernardino da Siena, l'infaticabile oratore degli inizi del '400 che attraeva le folle e convertiva anche i cuori di pietra.3 Quasi ogni giorno che non fosse nevoso si svolgeva, immancabile, la passeggiata di Zolla su per gli erti vicoli o giù, verso il prato di San Biagio, accosto al piccolo cimitero storico che nell'abbraccio dei cipressi a Montorio avrebbe poi accolto le sue spoglie. I poliziani che incrociavano l'anziano signore che a passo cadenzato, basco e impermeabile bianco, faceva la sua passeggiata accanto alla moglie, lo salutavano col cenno di riguardo riservato a uno straniero di passaggio. In effetti, da bambino fino all'ultimo giorno, lui non smise di considerarsi un outsider, un ospite tollerato, uno che aveva accolto il disagio di esistere in un secolo empio come una scommessa, e scavando nei segreti della storia e dell'animo umano, infaticabilmente, aveva cercato di restare senza macchia dichiarandolo anche, indifferente alle prevedibili, velenose reazioni a destra e a manca. Sui versanti della critica sia laica sia cattolica l'attenzione al pensiero e all'opera dello scrittore conobbe picchi di estremo favore agli inizi della carriera letteraria e di tendenziosa avversione fino agli anni Ottanta. Nell'ultimo

decennio della vita, mentre gli piovevano addosso riconoscimenti di vario genere,4 il pendolo fra i due estremi aveva finito con lo stabilizzarsi su posizioni di intimidito rispetto nonostante isolati tentativi di affibbiare comunque a EZ un'etichetta di parte: secondo alcuni, sarebbe stato membro di una non meglio precisata banda di neognostici assieme al rumeno Emile Cioran e a Guido Ceronetti. In quel caso semmai, l'anatema gli aveva fatto perfino piacere. E in un servizio del «Corriere della Sera» sui Nuovi eretici: lafede trasversale, dopo un prologo sulla denominazione antica di gnosi, era intervenuto affermando: «Sotto l'episcopato del cardinale Siri si pubblicò per qualche anno a Genova una rivista diretta da Baget Bozzo dove erano colpiti dell'accusa di gnosi quasi tutti gli scrittori moderni, dal Leopardi in poi. Una particolare furia vi dettava anatemi antignostici contro di me; mi confesso lusingato».5 E, sempre nello stesso articolo, più avanti scriveva: Chi voglia divertirsi a scorrere tutti coloro che con un briciolo di ragione si possono denominare gnostici, dai primi secoli cristiani a oggi, potrà leggere la cronaca fedele che ne tracciò Culianu [...]. In una noterella apparsa su L'umana avventura (Jaca Book, inverno primavera 1990-91), lo studioso rumeno prendeva lo spunto da un esilarante articolo di Ceronetti che elencava gli gnostici nuovi: oltre a me, Cioran e lui stesso. Quindi rammentava che nell'800 Eugen H. Schmitt e il femminista Ottfried Eberz salutavano la gnosi come verità suprema; seguì, discepolo di Heidegger e di Bultmann, Hans Jonas, che improvvisò un attacco alla gnosi come rifiuto del mondo. Voegelin individuò nella gnosi il sostrato micidiale del marxismo. Un discepolo di Heidegger, Taubes, idolo dei sessantottini tedeschi, riconobbe nella gnosi la dottrina distruttiva della storia, da salutare con amore. Per Luciano Pellicani infine gnostici sarebbero i rivoluzionari [...]. In breve, a compendio di migliaia di pagine, Culianu concludeva: «O si rinuncia all'etichetta di "gnosticismo moderno" o tutto può sembrarci gnostico». Sia un marxista che me - terminava EZ liquidando così l'argomento.6

Tra il 1990 e il 2002, quattordici nuove opere avevano visto la luce, e Discesa all'Ade e resurrezione nell'autunno del 2002, era stata l'ultima. In quella dozzina d'anni gli editori Adelphi e Marsilio avevano provveduto alla ristampa dei libri zolliani che erano stati una pietra miliare nella saggistica italiana del secondo Novecento: la monumentale antologia I mistici dell'Occidente, I letterati e lo sciamano, Che cos'è la tradizione, Le meraviglie della natura. Introduzione all'alchimia e le due opere in inglese Archetipi e L'androgino, tradotte anche in spagnolo e giapponese.7 Tra i nuovi titoli: una monografìa su Ioan Petru Culianu e il dittico La luce e La scoperta del sacro in America; il trattato Le tre vie sul tantrismo indù e buddhista; lidio dell'ebbrezza, dotta antologia sulle tracce del Dionisismo nelle letterature moderne. E ancora La nube del telaio. Ragione e irrazionalità tra Oriente e Occidente, La filosofia perenne, Uscite dal mondo e Lo stupore infantile-, infine Un destino itinerante dove sono raccolte quelle conversazioni tra Oriente e Occidente con Doriano Fasoli menzionate all'inizio. Va detto che nei primi anni Ottanta era stato Marsilio il primo editore a infrangere il tabù sugli scritti di Zolla avviando la pubblicazione di una serie di libri che oggi si ricordano tra i suoi più belli: Aure? L'amante invisibile, Verità segrete esposte in evidenza, e la versione dall'inglese di Archetipi, ristampati più volte in edizione economica. Negli anni Novanta, la ristampa delle vecchie opere in contemporanea all'uscita delle nuove, offriva una visione globale delle tappe e degli snodi di un itinerario intellettuale troppo esuberante per venire incasellato alla maniera solita. L'itinerario di uno studioso di stampo antico, temprato a un'autodisciplina che lo rendeva incurante ai richiami del mondo esterno, teso alla conquista di un sapere dal quale traeva il piacere più elevato e sottile per lui concepibile. Dei temi che lo seducevano diventava temporaneamente lo schiavo, docile a qualsiasi servizio per umile e meccanico che fosse. I suoi quaderni sono colmi di trascrizioni dei passi degli autori studiati, di schizzi che inchiodano dettagli essenziali all'interpretazione di un'immagine. Si prenda il caso della doppia stesura, inglese e italiana, de L'amante invisibile? Il tema della sposa-di-sogno presente nelle più diverse tradizioni dall'A-

frica all'Estremo Oriente: un partner femminile o maschile a seconda del sesso di chi sogna, le cui visite ricorrenti, i cui doni inaspettati, i cui messaggi entrano alla grande nella vita intima di un uomo o di una donna senza apportare disagi al ménage quotidiano (o al contrario suscitando incidenti di vario tenore!), lo aveva incapricciato al punto da sfociare in un'indagine a tutto campo, e il primo brogliaccio intitolato Spose esposi celesti è 11 a testimoniarlo. Consiste in un dattiloscritto di 137 pagine più due di indice non numerate. Un tocco di bellezza sul frontespizio lo procura una striscia di carta di riso incollata al fondo, dove una ciotola votiva con otto grossi pomi è fiancheggiata dalle silhouette di due dàkinì (creature semidivine del pantheon indù) danzanti. Siamo nella fucina del fabbro-scrittore. Lì il tema, questo tema (ossia l'erotica sciamanica nelle religioni, nella letteratura e nella legittimazione politica), si coagula in associazioni fulminee d'idee che scavalcano le comuni frontiere disciplinari. S'immagini un clown imprigionato in un sacco senza aperture da cima a fondo. Tenta di divincolarsi come può, ora sbattendo il capo contro l'apice superiore, ora scalciando e perdendo l'equilibrio coi piedi impediti, ora sferrando pugni vani nella stretta che lo soffoca. Zolla sapeva che il sapere è come il sacco del clown: va lacerato affinché la scrittura, anche la più erudita, ruscelli come una melodia. Cesellare il tema della Dama di sogno nei suoi risvolti letterari, mitologici, estetici, erotici, onirici, etnologici, mistici, religiosi comportava una mobilitazione a tutto campo giacché un andamento per pure astrazioni sarebbe stato come per il pittore di icone limitarsi alla campitura di fondo, vietando alle immagini di assumere forma. Sul retro di quasi ogni pagina dattiloscritta, incollato sul lembo superiore sinistro sta un foglio di carta velina dove schizzi sapienti e veloci tratteggiano parvenze della Dama in una griglia immaginale globale. Sfilano accenni di statuine baulé, sagome di madonne protocristiane, veneri sireniformi a cavallo di leoni marini, la Dama erta sul Pesce, issata sul Cigno mentre la freccia scoccata da un Eros infante sta per raggiungerla. Sotto allo schizzo, preciso, immancabile - il riferimento alla fonte iconografica. In questo caso: «Revue belge d'archéologie et de l'histoire

de l'art» (tomo XXIII, 1954, pp. 3-20), cui si accompagna l'appunto: «Amore ferisce la Dama che bagnandosi nelle acque scosta il velo della terrestrità "ovvero mangia il cuore del suo fedele all'equinozio di primavera"». Uno sguardo a volo d'uccello nella fucina del fabbro-scrittore, rende la sposa-di-sogno una figura un tantino più prossima, quasi scaturita dal nostro stesso sognare, e l'erudizione dispiegata nel testo a man salva, ci paralizza di meno. D'accordo, non molto si fisserà nella memoria della baldanzosa scorreria attraverso miti e credenze tramandati nella letteratura mondiale, ma il tuffo a capofitto ci ha procurato la gioia di lambire una gestazione colma, vibrante e arcana. Zolla mobilitava scrivendo molteplici e cospiranti funzioni mentali. Da scenografo del pensiero, pensava per immagini, suoni, odori e impronte tattili: nella sua scrittura l'ascesi intellettuale si accompagnava a un pieno sentire.10 #*#

Per approssimarci almeno un poco all'identità autentica del conoscitore di segreti, bisognerebbe riappropriarsi di un'accezione del termine «letteratura» ormai dismessa ma che, nel suo caso, è la più appropriata. Zolla è stato uomo di lettere al modo in cui lo furono i calligrafi della Cina T'ang cultori del taoismo esoterico, gli studenti di logica buddhista allenati alle più sofisticate argomentazioni dialettiche,11 gli affiliati di una tariqa persiana, i pii talmudisti dediti in segreto all'estasi contemplativa, i pensatori sincretisti del Rinascimento italiano, gli eruditi del Seicento europeo esperti di alchimia ed esoterismo, i protagonisti dei Grand Tours oltre il Mediterraneo che tra il diciottesimo e il ventesimo secolo diedero una spallata decisiva all'etnocentrismo europeo. Zolla fu un letterato in tutte queste accezioni, un esploratore di orienti mentali, che è qualcosa di diverso da un orientalista nel senso corrente del termine. Nei suoi viaggi, le cui mète privilegiate - a parte gli Stati Uniti che visitò molte volte - erano state l'Iran pre-Khomeini, l'India del tempo di Indirà Gandhi, Bali e l'Indonesia, l'Egitto e Israele, Sri Lanka e la Corea, la Birmania, Taiwan, il Giappone e Hawaii, la

singolarità di una mente ecumenica e un'erudizione sterminata suscitavano invariabilmente nei suoi interlocutori associazioni mentali con umanisti d'altri tempi, una curiosa mescolanza di anacoreta e dotto nei panni di un forbito gendeman dal perfetto accento oxoniense che per nessuna ragione al mondo avrebbe rinunciato a una prima colazione molto britannica e al tè pomeridiano. I primi a riconoscerlo per un disertore penetrato nel bush accademico da terre incognite erano stati gli assistenti alle cattedre di Letteratura angloamericana e Filologia germanica di cui Zolla era stato titolare all'Università La Sapienza di Roma, a Catania, a Genova e di nuovo a Roma 1, dove negli anni Ottanta aveva avviato un prestigioso dottorato in letterature comparate.12 La seconda categoria di perplessi sull'identità di EZ furono gli editori di cui negli anni era stato un consigliere eccellente introducendo in Italia autori poi divenuti famosi da J. R. R. Tolkien a Ananda K. Coomaraswamy, a Nisargadatta Mahàràj per non parlare di Djuna Barnes, Carlos Castañeda, loan P. Culianu. E quanto ai lettori di «Conoscenza religiosa», la rivista che diresse nel periodo della contestazione sessantottesca e del brigatismo rosso, essi videro in Zolla un maestro di conoscenza appartato e inflessibile nel reprimere qualsiasi tentativo di affibbiargli un ruolo di guida spirituale.13 L'altra categoria di intellettuali in contatto con la natura ermetica dello scrittore, furono con Roberto Calasso, Federico Codignola, Susanna Bergamo, Bianca Tallone e gli altri editori dei suoi libri, i redattori delle riviste e delle pagine culturali dei quotidiani che per oltre mezzo secolo accolsero saggi, articoli e elzeviri di Zolla: da «Tempo Presente», la rivista romana diretta da Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte, a «Elsinore», che ebbe tra i suoi direttori Gaspare Barbiellini-Amidei, a «il Mondo» diretto da Mario Pannunzio, al «Corriere della Sera» dove tra gli interlocutori più assidui c'era stato Cesare Médail, autore di uno schietto profilo di EZ ne Le piccole porte, il libro pubblicato da Médail poco prima della morte (2005); infine, a partire dall'anno 2000, il Domenicale de «Il Sole 24 ore» dove la prima domenica di giugno del 2002 Riccardo Chiaberge disponeva che uscisse, oramai postumo, l'ultimo articolo firmato dallo scrittore.14

S p r a z z i di u n a b i o g r a f i a s c a n c e l l a t a ***

Quando aveva compiuto sessantacinque anni un dono cartaceo inaspettato gli era piovuto in mano La religione della terra. Quell'opera era stata il frutto della mia amabile cospirazione con amici studiosi di vari Paesi e tra loro I. P. Culianu, decisi a festeggiare il compleanno di Elémire quel 9 luglio 1991. In casa, nei mesi precedenti, non era trapelato nulla e quando il libro si materializzò, lui ne fu visibilmente sorpreso. Si prese assieme un tè, il modo consueto di dare il benvenuto a un nuovo libro. Accomodato in poltrona, lesse d'un fiato i dieci saggi e la mia introduzione vergando immediatamente altrettante cartoline di ringraziamento indirizzate ai coautori e l'undicesima a Maurizio Rosenberg, l'editore del libro. L'assenza totale di commenti sulla parte introduttiva mi lasciò un tantino perplessa. Un po' per celia un po' sul serio azzardai: «Non scriveresti una cartolina anche a me?». «Ma via!» sbottò col tono di un nonno rivolto alla nipotina monella «ti sei scordata che la gioia sta tutta nel donare senza aspettarsi nulla?» E mi tornò alla mente il passo di Volgarità e dobre dove, a proposito di due che si amano, aveva affermato: Già è dubbio che mai possa esserci amore che non sia quello reciproco, di cui due persone s'accorgano insieme, che è venuto a insediarsi tra loro, apparizione miracolosa. Se non è reciproco sarà da dirsi devozione, o trasalimento che spinga a sacrificio e assistenza. Ma pretendere che i propri rapimenti amorosi echeggino con favore nell'amato è l'opposto dell'amore, non dedizione gioiosa ma esazione calcolante. Solo chi creda di dover ricevere mercede per i propri sospiri può addolorarsi vedendoli ignorati o respinti, allora la ripulsa sarà la giusta punizione della stortura. Quel passo, la prima volta che lo lessi senza ancora conoscere EZ, mi era parso altero, di una durezza eccessiva e privo di carità. Tempo dopo, studiando i testi dell'advaita Vedànta indiano m'ero imbattuta in un dialogo filosofico delle più antiche Upanisad, la

Brhadàranyakà II, 4. È una conversazione tra un vecchio maestro, Yäjnavalkya e la moglie Maitreyl. Costei è una donna devota, avida di sapere ma il suo cuore è una gemma imperfetta, perciò scambia l'amore per una forma di possesso e teme la morte. Un giorno che quei pensieri la assillano più del solito, si decide a interrogare Yäjnavalkya e le sue risposte, se possibile, la turbano ancora di più. Trascrivo i passaggi essenziali del dialogo con qualche aggiustamento e una minima spiegazione sui termini àtman e Brahman che vi ricorrono spesso, dove per Brahman la scuola del Vedänta advaita (non-duale) intende l'essere-che-è-tutti-gli-esseri, la realtà universale, e per àtman, l'individuazione del Sé cosmico nel sé che è (in) ognuno di noi, di cui la persona che ci costituisce è lo strato superficiale e accidentale. - Maitreyl: «Che cosa ne sarà di me quando sarò scomparsa? Per favore, mio caro, rispondi!». -Yäjnavalkya: «O Maitreyl, Maitreyl che quesito è mai questo! Se però tieni davvero a saperlo, ascolta ciò che dico e meditaci su: sappi che non è per l'amore al marito che il marito è caro ma per amore all 'dtman (l'essere) che è (in) lui; e non è per l'amore alla sposa che la sposa è cara, ma per l'amore ali'àtman (l'essere) che è (in) lei. [...] Ed è per l'amore al Brahman (il Sé universale) che tutto è amato, ed è al Sé che tutto ritorna. Ricordalo bene! «È l'àtman dentro di noi che bisogna contemplare, che bisogna conoscere, su cui bisogna meditare. Vuoi davvero sapere come lo si conquista? «È con la mente illuminata che si conquista l'àtman. E come si ottiene una mente illuminata? Ascolta... ciò che ti dico e non scordarlo: "Cosi come non si sente il suono di una conchiglia a meno di prenderla in mano e accostarla all'orecchio, cosi come una presa di sale che si getta in acqua non c'è modo di riprenderla e tuttavia, ovunque si raccolga dell'acqua, vi si trova il sale, egualmente avviene con questo Essere illimitato, infinito, disciolto nell'oceano della coscienza, coscienza di se stesso a se stesso. Negli elementi da cui emerge, in quegli stessi si riassorbe, giacché alla morte, sappi, la coscienza cessa"».

- Maitreyl: «Sono molto turbata ad apprendere che la morte porta via la coscienza!». — Yàjnavalkya: «Maitreyl, non parlo per turbarti ma per istruirti: là dove c'è dualità, l'uno odora l'altro, l'uno vede l'altro, l'uno ode l'altro, l'uno parla, pensa all'altro, l'uno conosce l'altro; ma allorché tutto rientra nel Grande Essere, che ne è più dell'uno e dell'altro, dell'attore e dell'atto e della discriminazione tra l'uno e l'altro?».15 Perché ho citato questo dialogo? Perché la teoria esposta da Yàjnavalkya sull'amore che è vero amore quando trascende la soggettività degli amanti e nulla rivendica, sembra echeggiare quasi alla lettera il passo di Zolla letto poc'anzi. Non l'alterigia o l'assenza di carità gli avevano suggerito i pensieri che m'erano parsi spietati, ma una conoscenza adamantina del gioco di forze su cui si regge il sentimento amoroso.

1. Uscire dal mondo «Uscire dallo spazio che su di noi hanno incurvato secoli e secoli è l'atto più bello che si possa compiere. Quasi nemmeno ci rendiamo conto delle nostre tacite obbedienze e automatiche sottomissioni, ma ce le possono scoprire, dandoci un orrore salutare, i momenti di spassionata osservazione, quando scatta il dono di chiaroveggenza e libertà e per l'istante si è padroni, il destino sta svelato allo sguardo.»16 Cosi inizia l'opera che inaugura l'ultima stagione creativa nella vita del conoscitore di segreti, il tempo in cui la pietra di certezza inizialmente denominata tradizione e poi esperienza metafisica, ora si chiama mente naturale, una mente «annegata nella natura che è l'eterno presente», affermerà nel 1999. Per l'immagine di copertina di Uscite dal mondo EZ aveva suggerito una pittura murale thailandese, un gioiellino di sincretismo all'acqua di loto! Vi si vedono infatti dei personaggini agghindati alla moda di un estenuato Settecento europeo accorrere a mirare il prodigio di un gigantesco loto emerso da uno stagno.

Il fiore è cinto da una margherita di palustri erbette in un paesaggio che ricorda i fondali pointillisti di Bosch: un piccolo capolavoro di ibridismo pittorico d'età coloniale. Quando il libro prese a circolare, le congetture sul significato del titolo furono più d'una: «uscite» nel senso del femminile plurale o piuttosto «uscite» all'imperativo? E ancora: si tratta di un vaticinio, un congedo annunciato o è la trascrizione di un sogno psichedelico? Per di più è solo una coincidenza che il titolo originale dell'ultima opera di I. P. Culianu pubblicata da Mondadori come I viaggi dell'anima. nel 1991, Out ofthis World, sia l'esatto corrispettivo di «Uscite dal mondo»? Non è curioso che i due autori, quasi contemporaneamente, avessero pensato d'intitolare i loro libri in modo identico? Curioso si, ma non inspiegabile. Sia sul piano intellettuale che della vita privata, la soglia dell'ultimo decennio del Novecento era stata per entrambi un giro di boa. Dopo anni trascorsi tra l'Italia e l'Olanda da chierico vagante, Culianu, professore all'Università di Chicago e erede intellettuale di Mircea Eliade, nel 1990 si sentiva alle stelle. Nel cassetto, anzi nella memoria del computer (che di lì a poco gli venne sottratto), gli appunti sui prossimi libri erano una miniera, i suoi corsi alla Divinity School magnetizzavano assieme a frotte di studenti una fauna di gente bizzarra, prontissima a farsi un'ora di aereo da chissà dove per ricevere insegnamenti trasversali su sètte gnostiche, Apocalissi, esoterismo e stregoneria - gente che non saprai mai se rema contro il sistema o a modo suo, lo sostiene alla maniera bizzarra, dissipata e mondana consueta in epoche da tardo Impero. A metà strada tra il mago balcanico e una testa d'uovo, glaciale e accalorato Culianu, a piccoli colpi bene assestati si stava facendo strada nelle zone alte del mondo accademico, aveva appena fondato «Incognita», una prestigiosa rivista di studi interdisciplinari pubblicata da Brill,17 era a un passo dall'ottenere la cittadinanza americana e stava per risposarsi, felicemente, una seconda volta. Un episodio premonitore accadde nell'agosto 1989 a Montepulciano, prima che Zolla e io andassimo ad abitarci. Culianu, la fidanzata americana Hillary Wiesner, EZ e io, si era seduti a un

tavolino del caffè di Piazza Grande. E mentre Giovanni affondava i denti con gusto in una pizza fumante, gli venne di rovesciare le pupille all'indietro come faceva tutte le volte in cui voleva per pochi istanti ritrarsi in se stesso. Lo sentimmo esclamare: «Chissà fin dove riuscirò ad affacciarmi nel prossimo secolo!». E prendendo tra le sue le mani della fidanzata, aggiunse: «È così bizzarro immaginarmi vecchio!». Zolla lo riguardò sorridendo, si strinse nelle spalle e disse a sua volta: «Devo ricordare proprio a te la battuta di Cioran?». «Come no, il mio compatriota!» rispose Culianu. «E qual è?» «Padrone di tutti gli errori, posso finalmente esplorare un mondo di apparenze, di enigmi leggeri!» Con quella citazione a memoria, che faceva propria, EZ incoraggiava l'amico a saltar via dalla stretta del tempo lineare, a vivere ogni istante come se il futuro non esistesse, al modo che era stato esattamente il suo da quando aveva vent'anni. E Culianu, che al valico dei quarantanni era vicino effettivamente a sparire, il salto outofthis worldcome un postumo di se stesso, lo aveva fatto davvero nel suo ultimo libro. In che modo? Viaggiando nella mente, accidentalmente la propria, scoprendo che la pluralità dei mondi concepita da Giordano Bruno, il pensatore che tra gli italiani aveva studiato più a fondo, 18 era cosmica e insieme mentale o piuttosto cosmica in quanto mentale. I lettori de I viaggi dell'anima hanno potuto constatare che out ofthis wor¿/significa contestualmente molte cose riferite all'esplorazione di quelli che Culianu chiamò gli iper-spazi mentali dopo aver esaminato un immenso repertorio di stati alterati di coscienza ed esperienze estatiche nella storia antica e moderna e nelle tradizioni indigene esperienze di limite che riteneva non a torto alla radice dell'affabulazione religiosa, mitica e poetica o, in parole zolliane, della «fede in un sistema di metafore». Là dentro, nella nostra testa ininterrottamente si configurano i costrutti che puntellano l'idea, il lògos del mondo - idea di cui è parte la credenza che una realtà «oggettiva» esista davvero. Senonché la nuda, intimante presa di coscienza che il senso del mondo è pane anch'esso dell'affabulazione mentale condusse

Culianu, alle soglie della morte, a una disincantata percezione dell'assurdo, affine a quella che aveva suggerito a J. L. Borges le sue mirabolanti storie di eternidad. In una di esse si legge: Rimasi a guardare quella semplicità. Pensai, probabilmente ad alta voce: Questo è lo stesso di trent'anni fa [...]. Immaginai quella data: epoca recente in altri paesi, ma ormai remota da queste mutevoli pani. Forse un uccello cantava e provai per lui un affetto piccolo, della grandezza di un uccello; ma è più probabile che in quel vertiginoso silenzio non ci fosse altro rumore che quello, anch'esso intemporale, dei grilli. [...] Mi sentii morto, mi sentii percettore astratto del mondo: confuso timore imbevuto di scienza che è la massima chiarezza della metafisica. Non supposi, no, di aver risalito le presuntive acque del tempo; piuttosto mi sospettai in possesso del reticente o assente senso dell'inconcepibile parola eternità [...].19 Essere postumo di se stesso è un'esperienza che nelle circostanze della vita ordinaria non accade lucidamente quasi a nessuno, ma nell'invenzione borgesiana di storie di eternidad dove qualunque delle maschere dell'io può essere indossata a piacere, tutto è possibile: provenire dal futuro, morire una o più volte e ritrovarsi nella stessa pelle, ricordare quel che s'ignorava di sapere o fingersi l'inimmaginabile fino a convincersi che la «mente» forse è qualcosa di più di un congegno dalle prestazioni in fin dei conti prevedibili. Uno dei primi libri pubblicati da Culianu in Italia, una raccolta di saggi sulla gnosi che uscì a Messina nel 1981, aveva il titolo latino di Iter in silvis (itinerari nella selva).20 Alla luce di quanto sarebbe successo, quel titolo conteneva la previsione che il suo cammino, stroncato a quarantanni, sarebbe stato non una serie di balzi contro-corrente aña maniera del conoscitore di segreti, ma un vagabondaggio tortuoso nel fìtto di un bosco, colmo di incognite. Infatti dieci anni dopo, il «dentro» di iter in silvis si capovolgeva nel «fuori» di out ofthis ivorld. In entrambi i casi la metafora era stata azzeccata.

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Zolla, da parte sua, una volta sgusciato via dagli obblighi accademici, si sentiva, nonostante l'ispessirsi delle malattie, come rigenerato sia dentro che fuori. Gli esperimenti computeristici passati sotto il nome di realtà virtuale lo avevano galvanizzato, e in una memorabile conferenza alla Società Scientifica Socrea a Milano, nel marzo 1990, confluita in Uscite dal mondo (nel capitolo Lo scopo della vita), aveva sondato gli orizzonti di un «futuro alle porte» congetturabile attorno al 2030-2040. L'aveva fatto baldamente, sondando ipotesi scientifiche, consultando ingegneri esperti di informatica dagli Stati Uniti al Giappone, indossando anche il buffo elmetto e i sensori in uso nei primi esperimenti di realtà virtuale - se ne trova traccia negli Appunti sul futuro raccolti nella Parte seconda. Esperienze dal vivo, congetture, riflessioni su aspetti e questioni dalle quali, secondo il fisiologo Ruggero Pierantoni, autore di un articolo-stroncatura pubblicato su «Leggere» nell'ottobre 1994,21 un conoscitore di mistici segreti, per eclettico che sia, avrebbe dovuto assennatamente tenersi alla larga, per non rischiare di bruciarsi le alucce inadatte a incauti sorvoli sui grevi terreni di scienze che non barano. Sta di fatto che EZ ribelle come al solito, non aveva obbedito all'ingiunzione di tacere su ciò che aveva attinto a fonti, peraltro, coralmente riverite, e sull'onda dei ragguagli dagli USA e dal Giappone s'era sbrigliato in inseguimenti di visioni e trasvolate virtuali «fin dove il computer potrà allestire e la fantasia condurre». «Credo si sia all'inizio di una storia meravigliosa - annunciava entusiasta nel 1991 - Yadvaita Vedànta e la liberazione sono prossime a diventare esperienze disponibili. Questo capovolgerà la condizione umana, farà accostare al fine supremo della vita numeri sempre più ampi di uomini». E alla domanda, che cosa era mutato dagli anni in cui componeva le dolenti note di avvio ai Mistici dell'Occidente, rispondeva che rispetto ad allora: «Le condizioni si sono modificate in modo sconvolgente e per molta parte stupendo: è liquidata la follia marxista e perciò l'inimicizia per principio verso la mistica e l'intenzione di eliminarla». E ag-

giungeva: «Mi pare che se oggi ci si apre alla verità mistica ed esoterica (lascio da parte se si debba dire e oppure ó), l'orizzonte non sia più una singola fede, ma l'insieme delle fedi, cioè la possibilità stessa di avere fede in un sistema di metafore».22 «Un sistema di metafore?» gli era stato domandato con qualche apprensione: «Che cosa intende quando definisce le fedi delle metafore?». Zolla aveva sorriso mitemente con l'aria di volersi esimere da una risposta. Ma chi lo interrogava, aveva insistito e lui allora s'era deciso a un chiarimento che qui tento di riassumere in poche parole, poiché aiuta a capire un tantino meglio l'itinerario intellettuale dello scrittore in certi snodi che apparvero sconcertanti e indecifrabili ai critici attenti del suo pensiero, il cui numero, col passare del tempo, si va assottigliando. «Siamo avvezzi» aveva detto EZ «ad associare la fede alla credenza religiosa, e "credo", "non credo" sono dichiarazioni che ci impegnano nel profondo. Tuttavia la questione della fede andrebbe esaminata in una prospettiva più vasta indagando a monte delle specificazioni che assume l'atto di fede, e che sono dei più vari generi, etici, estetici, politici e appunto religiosi. La fonte del credere, del credere in sé e per sé è un'energia d'intensità straordinaria, e una delle sue maggiori caratteristiche è che la si può orientare a volontà in ogni direzione: verso noi stessi, la nostra stirpe, la società, lo Stato, gli interessi, gli affari, gli affetti oppure verso le sfere astratte, le teorie filosofiche, i sistemi di pensiero che ci confezionano un'idea di realtà con tutti i significati spesso contradditori di cui viene vestita o svestita. «Ho passato la vita» aveva aggiunto «a esplorare le credenze radicate nelle più svariate culture e civiltà, ed è stato inevitabile che le concezioni che ho sentito più affini e convincenti siano state quelle, come le indiane, che aprono la mente a interrogarsi sulle proprie dinamiche e suscitano la coscienza a rispecchiarsi in se stessa. Gli effetti di una ininterrotta pratica mentale di questo genere sono grandiosi: si cessa di essere gli ostaggi dei nostri pensieri, credenze e sentimenti, la nostra automatica identificazione è cessata, siamo saltati

al di là del credere e del non credere, liberi, imperturbabili e sereni. Questa per me» aveva concluso «è l'unica esperienza di libertà in vita che ci venga accordata dal sistema che ci regge.» Il plauso di Zolla per gli orizzonti dischiusi dagli sviluppi dell'intelligenza artificiale e l'accesso a esperienze di realtà virtuale va inquadrato nella prospettiva indicata poc'anzi nella sua risposta alla domanda su che cosa mai intendesse con l'espressione abbastanza sibillina, del sistema di metafore che ci abita e di cui saremmo gli ostaggi. Nel momento in cui l'intelligenza robotica diventerà prevalente al punto da dirigere in futuro l'intelligenza umana, come sosteneva Hans Moravec nei primi anni Novanta,23 l'intera prospettiva dell'uomo muterà: con adeguate manipolazioni sul cervello, essa potrà addirittura spostarsi «ad un corpo nuovo» affermava entusiasta EZ «dello stile, del colore, del materiale che ti sarai scelto» (L'argomento è sviluppato nel brano II reale illusorio: una diversa recita nella sezione Appunti sulfuturo, Parte seconda). E aggiungeva: C'è chi sostiene come fece il Pomponazzi, che senza un corpo l'uomo cessa di essere individuato; ma il pensiero, virtù organica della fantasia e dei sensi, nel caso della nostra operazione si salva interamente e riceve in seguito informazioni sensibili a volontà. Ci sarà piuttosto da domandarsi quanti potrebbero guardare alla trasposizione in macchina della propria mente come a un fine auspicabile. Credo che il loro numero sia più alto di quanto possa sembrare: non è un isolato Moravec quando contempla con gusto quella prospettiva. Resta una questione più seria: si è certi che sia eccelsa la parte ineffabile e non verbalizzabile della mente? Io sento — concludeva — che gli amori più fervidi, le risoluzioni più tragiche rifiutano le nomenclature e le opere più eminenti si compiono in silenzio, ineffabilmente. Ma la mia sensazione non è condivisa da tutti e molti si sbarazzerebbero volentieri della parte tacita alla quale dò tanto spicco. Oso aggiungere: credo che molti non possiedano questo angolo indicibile della persona.24

Tra coloro che sono privi di questo «angolo indicibile della persona» e ne vanno fieri, si possono tranquillamente annoverare uomini di scienza, onesti e appassionati del loro mestiere, come il citato Pierantoni, confusi tra milioni e milioni di uomini e donne toccati dalla grazia di una concreta aderenza alle «cose come stanno»: che si battano a volerle cambiare per il meglio o coltivino il proprio campicello in perfetta buona fede, la differenza non è poi così grande. Non coltivano una «mente eroica» alla maniera superbamente arrischiata da Zolla secondo taluni dei suoi critici malevoli;25 non compiono né commissionano arcigni studi sul Superuomo nelle letterature moderne nell'inconfessa«) tentativo, chissà, di approssimarcisi;26 sono indenni dal delirio «Fermate il mondo, voglio scendere», pennellato nel titolo dell'articolo di Pierantoni; si guardano bene dal pensare l'infanzia «luogo ideale dove si cela l'Unità ed estasi da cui ogni sentimento promana» e tanto meno si domandano se l'incanto della puerizia possa per caso assaporarsi nella conoscenza senza dualità, nella rievocazione della natura vista da Goethe, oppure alla maniera indicata all'esordio de Lo stupore infantile, il libro che reca in copertina l'immagine della coppia di amanti celesti in volo verso il sole e, all'interno, quella di Kukai fanciullo,27 adagiato in preghiera su un vezzoso flore di loto - immagini inequivocabilmente agli antipodi di una concreta aderenza alle «cose come stanno». Ora però che il conoscitore di segreti è sceso dal treno della vita, vale la pena domandarsi in che cosa consista quell'angolo indicibile della persona di cui s'incaponì a fornire indizi e prove, con conseguenze curiosamente duplici, come notavo all'inizio. Da una parte, suscitando stizze, moti di scherno, ironie e talvolta vere e proprie ondate di avversione sulle pagine di influenti giornali e in certi circoli che contano nel Paese; e d'altra parte annoverando migliaia di lettori che i suoi libri hanno arricchito interiormente, nei quali hanno intravisto mondi conoscitivi più vasti e mondi che sono stati aiutati a scoprire dentro di sé, ci si sono specchiati e hanno compreso che «spiritualità è la capacità di leggere come simboli di verità trascendenti tutte le figure storicamente visibili o udibili»; che la conoscenza tende all'amore ma

«finché resti conoscenza non vissuta interiormente, legata alle sole parole, è un acquisto sterile, che non giova a portare la mente nel cuore». Per aiutare a riconoscere Xangolo indicibile della persona, Zolla esaminò ogni sorta di fonti e testimonianze mistiche, religiose, filosofiche, mitologiche, etnologiche, esegetiche, artistiche e poetiche, commentandole, mettendo in luce l'esistenza di una planimetria simbolica e spirituale unitaria, propria della costituzione umana e dunque universale. Ogni sistema religioso, incluso l'ebraismo e il cristianesimo nel suo nocciolo mistico ed esoterico, affermava nel 1999, possiede un impulso unitivo ineffabile, e questa è la premessa di un intendimento unificante. Egualmente filosofie sorte e formulate in Paesi diversi additano la medesima visione unitaria della mente e del cosmo cui Leibniz, Bacone e prima di loro Agostino Steuco diedero il nome di «filosofia perenne». «Tuttavia» precisava poco dopo, «unificare Israele, Cristianità e Islam col mondo antico, significa chiuderci in confini angusti: India, Cina, Giappone e tutto lo stuolo di coloro che fino al Novecento si credeva di poter denominare "primitivi" debbono entrare nell'orbita e permearci.» E se l'attenzione si estende all'«intreccio di tutte le migrazioni di popoli che si sono intersecate per le varie pianure, "l'arte dell'universo, lentamente, acquisterà un profilo • " unitario .» 2 8 Nel 1977 l'uscita del primo volume della magnifica trilogia di Giorgio Colli La sapienza greca101 aveva sollecitato lo scrittore a riflettere sul tema centrale di quell'opera. La sapienza - osservava - non è la capacità di rispondere a ogni quesito, ma è lo sforzo di affrontare un quesito fino in fondo. Ad esempio: Come è nato il tutto? Come posso vederlo come un'unità, abbracciarlo, identificarmici? Queste domande sono il presupposto della conoscenza sapienziale, la quale ad esse possa rispondere, e non necessariamente a parole (se mai parla, lo fa in versi, cantando), bensì con gesti, sguardi, urla,

scatenando un vortice di danza. Al culmine non si esprime neanche più visibilmente: allucina, fa sfolgorare luci e risuonare voci nel segreto dell'interiorità, oppure neanche questo fa, ma lascia dilagare nel cuore la pace profonda della beatitudine.30 Nei Detti e fatti dei Padri del deserto che Cristina Campo aveva curato con l'amico fiorentino Piero Draghi, si legge che un giorno era stato domandato all'abate Agatone: «Che cosa è meglio: l'ascesi corporale o la custodia della mente?». Il sant'uomo aveva risposto: «Gli uomini sono come gli alberi; il lavoro del corpo ne è il fogliame e la custodia della mente ne è il frutto: ora, tutti gli alberi che non danno frutto, sta scritto saranno tagliati e gettati nel fuoco. In vista dei frutti, dunque, bisogna sorvegliare quello che accade in noi, vale a dire, custodire la nostra mente».31 E questo, Zolla aveva compreso, è il primo passo per aprirsi all'esperienza metafisica. In Archetipi l'aveva paragonata al mare in cui dolcemente naufraga il Leopardi dell' Infinito e della Vita solitaria, senonché, osservava, «Leopardi non trasse da quei momenti tutto ciò che avrebbe potuto, non li seppe porre al centro dell'esistenza come rivelazioni dell'essere rispetto alle apparenze semplici e illusorie».32 Nell'India tradizionale, qualcun altro l'aveva fatto e in un brano dell'Editoriale per il decennale di «Conoscenza religiosa», l'esperienza metafisica era descritta nei termini di uno che l'ha vissuta e vuole condividerne una stilla seppure in forma di inadeguate parole. Una dopo l'altra—scriveva - si susseguono le percezioni, le immagini, le riflessioni, ora in un tumulto affannoso ora distesamente, ma la vita non è tutta qui, può non essere così angusta: si può osservare questa diversa molteplicità senza identificarsi, senza dire che quei movimenti sono «miei», fino a non partecipare più, diventando puri testimoni; questa è l'esperienza metafisica. [...] La parola — aggiungeva — è un tramite imperfetto, una danza può essere più propizia, o un mandala, o un diagramma, un'icona, uno

sguardo. Tutto ciò è dato per scontato da molti. Come è dato per scontato che l'esperienza metafìsica sia superiore ai dilemmi del bene e del male: chi in essa si installa vede notte e giorno, male e bene come chi sta su un cocchio e guardi le ruote vorticanti, i loro mozzi fusi in uno. [...] La pura luce di questa verità — aveva concluso — ha lambito negli ultimi anni molti cuori come nel cupo passato non avveniva.33 Scorrendo questi enunciati viene di pensare a una mente pervenuta alla radice; non è un placebo di comodo la quiete che la avvolge ma l'esito di un cimento durato l'intera vita. Ne Le tre vie, un libro che alla metà degli anni Novanta, quando uscì, non fu meditato quanto meritava, quel cimento che era stato intimo e personale, era descritto nei termini di un testo canonico, lo Yogavasistharàmàyana, di cui Zolla riportava il seguente passo capitale: Quando la liberazione è turbata e si disperde negli oggetti molteplici, si chiama mente; quando è persuasa d'una sua intuizione, si chiama intelligenza; quando, stoltamente, si identifica con una persona, si chiama io; quando, invece d'indagare in maniera coerente, si frammenta in una miriade di pensieri vaganti, si chiama coscienza individuale; quando il movimento della coscienza, trascurando l'agente si protende al frutto dell'azione, si chiama fatalità; quando si attiene all'idea «L'ho già visto prima» in rapporto a qualcosa di veduto o non veduto, si chiama memoria; quando gli affetti di cose godute in passato persistono nel campo della coscienza anche se non si scorgono, si chiama latenza inconscia; quando è consapevole che la molteplicità è illusoria, si chiama sapienza; quando, in direzione opposta, si oblia nelle fantasie, si chiama impura; quando si trattiene nell'io con le sensazioni, si chiama sensibilità; quando rimane non manifestata entro l'essere cosmico, si chiama natura; quando suscita confusioni fra realtà e apparenza, si chiama illusione; quando si discioglie nell'infinito, si chiama liberazione: pensa «sono legato» e c'è l'asservimento, pensa «sono libero» e c'è la libertà.34

Meditare questo passo non è privo di effetti nel profondo della coscienza. Affacciati sul bordo di noi stessi, ci avvediamo che la domanda «chi sono?» rimbalza su di noi come un'eco e si trasforma nella constatazione: «sono quello che penso». Se penso: «sono legato», c'è l'asservimento; se penso «sono libero», c'è la libertà. Ciò vale per ogni altro oggetto mentale: la persona, la società, la natura, il mondo, la vita o l'aldilà. La mente, andava ripetendo EZ, è una cera plasmabile, un organo le cui prestazioni si possono contrarre o espandere a volontà fino a raggiungere una pienezza inaudita, la pienezza di una «mente naturale».

2. Una mente naturale Nell'ultima stagione del suo itinerario intellettuale la pietra di certezza attorno alla quale il pensiero di Zolla ha ruotato prendeva il nome di «mente naturale». Di che mente si tratti l'aveva intuito almeno da quando a proposito della percezione del cielo dell'uomo arcaico (esaminata ne II destino e lo zodiaco), aveva affermato che essa doveva provenire da una mente simile a quella che i taoisti e i buddhisti descrivono come mente spontanea, mente genuina, mente in equilibrio, mente originaria, nonmente, mente imperturbata - sulla base del significato duplice e coincidente dei termini cinesi benxin, zixin = «mente-cuore» (giapponese kokoró). Parrà un paradosso ma in una mente del genere non c'è niente di metafisico! Zolla ne scrive come di una condizione di pienezza totale, nei sensi, nelle emozioni, nello scatto vigile e vitale di un'intelligenza adunata alle cose e in questo senso, poco o più che umana. Eppure una pienezza siffatta è a tal punto religiosa da fargli esclamare a un certo punto: «Siamo tutti enti passivi, l'animazione è Dio!». Era accaduto nell'agosto 1990, all'indomani di una memorabile dichiarazione del pontefice Giovanni Paolo II, e non c'è luogo più adatto di questo a rievocarlo:

All'inizio di quest'anno — Zolla scriveva — Giovanni Paolo II dichiarò che nell'uomo freme un alito di Dio e poi stupì tutti aggiungendo che esso vibra anche negli animali. «Tu gli mandi il tuo soffio ed essi sono creati» dice il Salmo 104, aggiungendo: «E torna nuova la faccia del mondo». È un salmo tra i più incantevoli: raffigura il Dio d'Israele che si veste della natura. «Natura» non esiste nel pensiero ebraico, la parola stessa è un imprestito arabo. Dio è la natura, essendone la forza attiva. Ravvolto di luce come in un manto I cieli srotola come un tappeto Fabbrica con l'acqua i suoi terrazzi Per suo carro piglia le nubi Remiga alato di vento Fa suoi angeli le burrasche Suoi corrieri i bagliori difuoco. Così la stupenda versione di Ceronetti - commentava EZ - ci restituisce la respirazione ampia e poi sconvolta e poi rasserenata di chi contempla l'azione di Dio tutt'intorno. Lo sgomento per l'ordine miracoloso, per le incredibili regolarità. E per la presenza degli animali: i passeri, la cicogna appollaiata in cima all'edificio, gli stambecchi in cima alle montagne, le lepri fra i sassi, i leoni ruggenti, la balena con cui Dio gioca nel mare. Tutti respirano con la stessa forza con cui respira l'uomo, a imitazione di Dio. II Salmo 104 — e così terminava - invita a estendere la fratellanza, la vera sensibilità al di là di noi stessi, agli animali più vari della terra, del cielo e delle acque e allo spirare dei venti e alfioriredei campi.35 I taccuini preparatori di Uscite dal mondo traboccano di esultanza e stupore per l'intelligenza misteriosa e impeccabile che regge il mondo vivente. Chi ha insegnato alle api a costruire con tanta sapienza — si domandava - chi orienta gli uccelli migranti sul quadrante dei cieli, chi incastra le orbite stellari l'una nell'altra? Non sarà forse la stessa intelligenza che splende lassù a portare vigore nei campi? Ogni pianeta non corrisponde forse a una pianta? Al sole il «gira-

sole», alla luna la lunaria - i nomi stessi ci parlano ancora di queste corrispondenze. Un tempo si sentiva che dietro, dentro a queste cose materiali operava una mente sola.36 Forse lo yoga - rifletteva - le arti marziali, l'allenamento meditativo all'attenzione spassionata e ininterrotta, lo stesso impulso che ci spinge a mormorare una preghiera sono tracce residue di una pienezza venuta meno; la pienezza di chi si riconosce parte intrinseca del mondo vivente, suo complice e alleato dalla roccia all'ameba, dall'oceano al cielo.37 «Tutta la civiltà sciamanica» si legge in Uscite dal mondo «è un tentativo di assimilarsi al mondo animale, e quando Bodhidharma introdusse il ch'an (o zen) a Shao Lin nel 527, insegnò ai discepoli l'imitazione fedele delle fiere, fino all'identificazione con le gru trasformandoli in campioni di lotta. In Occidente Orfeo è il capostipite di chi s'accosta alle bestie e ne trae profitto, osservando le loro menti libere dal nostro scoppiettio d'immagini e pensieri, i loro ingegni schietti. Dioniso, e in India Siva, sono emblemi di ciò che muore e rinasce dalla terra che è "tutti i semi"(panspermid).» «Sciamano», «sciamanesimo» sono termini che fino a qualche tempo fa suonavano ostici e nebbiosi, le esperienze estatiche del guaritore indigeno appartenendo al mondo sigillato di una «diversità» etnico-religiosa del tutto estranea alla cultura del soggetto storico occidentale moderno. Senza essere un etnologo di professione e con criteri di approccio al mondo indigeno ben diversi, come s'è visto, da quelli dell'etnologia corrente, Zolla studiò lo sciamanesimo, in specie la tradizione estatica femminile in Corea, e da storico delle idee inquadrò il fenomeno sciamanico nel contesto della fenomenologia religiosa in un modo, in questo senso, non dissimile da Mircea Eliade. Nell'ultimo decennio della vita, mentre tesseva l'elogio della mente naturale, accordata ai ritmi del mondo vivente come quella dello sciamano, EZ sentì l'esigenza di rivisitare vaste zone della letteratura moderna scorgendovi all'opera lo spirito tutto sciamanico di Dioniso, il dio trace dell'invasamento estatico, dell'ebbrezza panica e bacchica.

Nella introduzione a lidio dell'ebbrezza è rievocato un incontro con Dioniso nella campagna greca: Camminavo per i campi, m'ero inoltrato in un boschetto ed ero felice come quando ci s'inoltra in un contado leggiadro, ma a distanza di tempo nemmeno me ne ricordo, dei caratteri di quel contado. In Grecia, specie nell'Attica, sono i profumi che riempiono l'attenzione, la sfidano con la loro varietà che nemmeno si riesce a fermare con parole. Sono i sentori di quei fiori e quelle erbe che soltanto su suolo greco allignano e giungono nuovissimi alle narici, appena si sia usciti da Atene, sull'Imetto. Arrivai a una casetta davanti alla quale un gruppo d'uomini stava degustando il vino nuovo e mi osservarono con attenzione. Finalmente il più anziano mi pregò di partecipare, con un tono dove mi parve di sentire la forza, di cosi remote origini, dell'ospitalità. Infatti, i volti seri e benevoli mi diedero la sensazione di quel rito arcaico. Il mio greco miserello bastò, ci si senti accomunati. Prima che me n'andassi, quattro si alzarono a danzare dignitosamente la lenta danza greca in tondo. Ci salutammo in silenzio.38

3. Comesi concilia una mente naturale con la realtà virtuale. Note su un carteggio Zolla-Comolli Nel 1992, poco dopo la pubblicazione di Uscite dal mondo, la rivista «Aut Aut» accoglieva una lettera scambiata tra EZ e Giampiero Comolli, lo scrittore e gran viaggiatore che nei decenni è stato tra i più assidui a registrare l'evoluzione del pensiero di Zolla fino agli ultimi enunciati oltre il 2000. 39 Nella sua lettera, Comolli esponeva in semplici, schiette parole quel che la lettura di quel libro aveva smosso in lui sullo sfondo dell'intera opera dell'anziano scrittore. Un'amabile, confidenziale resa dei conti attraverso pensieri, domande, dubbi affiorati dal profondo e che di «personale» hanno solo il veicolo verbale, non l'essenza. Nella prima parte della lettera, Comolli individuava le tesi por-

tanti di Uscite dal mondo in tre punti nevralgici. Li riassumo in parole mie, trascrivendo le righe iniziali, letterariamente assai belle: Caro Zolla, una benefica sensazione di limpida euforia, di sottile, eterea ebbrezza, ha accompagnato pagina dopo pagina la mia lettura di Uscite dal mondo. Sicuramente questa particolare gioia del testo — per cui sembra di respirare a ogni passo un'aria di ultraterrena libertà — è dovuta anzitutto al tema del libro: un «pellegrinaggio» di epoca in epoca, di luogo in luogo, alla ricerca delle più disparate vie d'uscita dalle sottomissioni che il mondo ci impone, per raggiungere invece un'estatica purezza. Ma il singolare sentimento, diciamo cosi, di «felicità celeste» che il libro ci dona, non deriva soltanto dal fatto che qui ci si occupa dei vari e molteplici itinerari verso la beatitudine suprema. È la scrittura stessa di questo libro infatti, il suo stile «cosmico» - per dirlo in una parola - a costituire di per sé uno strumento di liberazione: c'è in Uscite dal mondo (ancor più che in opere precedenti) una trasmutazione della lingua in canto sospeso fra questo e l'«altro» mondo, un uso della scrittura, come se questa fosse un rito di passaggio per affacciarsi sull'aldilà. Il lettore avverte che il ritmo della frase adombra un inaudibile ritmo dell'Infinito, e così avvertendo intrasente la presenza dell'Infinito proprio attraverso il libro, che quindi si rivela essere una nuova, ulteriore porta di uscita dal mondo.40 A questo preambolo che è un ottimo avvio alla lettura del libro, segue l'individuazione dei punti nevralgici nella tesi di Zolla che, a mia volta, semplifico. Il primo è che proprio qui, in questa vita, si possa raggiungere una liberazione o elevazione spirituale che ci tramuti e ci rinnovi talmente nel profondo che le traversie e le gioie incontrate sul nostro cammino siano accolte, le une e le altre, come opportunità preziose egualmente accidentali e transitorie. Infatti ogni cosa è legata a tutte le altre, e la configurazione specifica e generale del quadro del mondo dipende in ultima analisi dalla nostra mente.

Il quesito di Comolli, in realtà duplice, era dunque il seguente: posto che lo scopo precipuo della vita consista in una simile liberazione o elevazione spirituale, dobbiamo pensare che i mezzi efficaci a raggiungerla dipendano interamente da noi, dalla nostra volontà e capacità di svilupparla, o sono da intendersi piuttosto come «strumenti angelici» che qualcuno venuto in nostro soccorso ci dispensi amorevolmente «come una grazia»? Ma allora: che c'entra col cimento di elevarsi con le proprie forze o mercé un aiuto «esterno», la realtà virtuale? L'intreccio tra i due quesiti è talmente importante sia in rapporto al pensiero di Zolla, sia in sé e per sé, che si rende necessario un piccolo sforzo di attenzione in più. Senza fare riferimenti espliciti alla teoria buddhista del risveglio e dei mezzi efficaci per accedervi, che alcune scuole fanno dipendere da aiuti «esterni», altre dallo sforzo individuale, e che talune ritengono ottenibile in modo graduale e altre istantaneo, Comolli sollecitava Zolla a pronunciarsi su questo punto non solo per comprendere quale delle due strade EZ ritenesse a suo giudizio più percorribile, ma anche per venire a capo del plauso incondizionato dello scrittore per gli esperimenti di realtà virtuale. C'è dunque un legame tra la concezione zolliana e quella buddhista dell'insostanzialità dell'io, cosi tanto in linea con la teoria emergente della non-differenza tra reale e virtuale? «Per favore risponda!» - domandava Comolli e la sua insistenza pareva echeggiare quella di Maitreyl, l'interlocutrice nel dialogo upanisadico prima esaminato. Nella sua risposta, Zolla riaffermava la natura rivoluzionaria della realtà virtuale «perché non esiste una sola esperienza per noi fondamentale e perfino sacra che non si possa trasporre in un programma di realtà virtuale»; e quanto alla liberazione in vita, riteneva che «il dischiudersi di una realtà esoterica è possibile anche senza la figura del maestro», propendendo, implicitamente, per la via «solitaria» piuttosto che per la via «amorevole» avvicinabile alla concezione della Grazia cristiana. Leggendo e rileggendo questo carteggio, ho l'impressione che le risposte di Zolla abbiano sedato solo in parte i quesiti di Co-

molli, quesiti che possono essere urgenti non solo per lui. E la circostanza che lo scrittore non possa più prenderli in esame mi sollecita, sulla fine di questo itinerario introspettivo, a tentare un'interpretazione alla luce di quel che ho intimamente appreso e compreso del suo pensiero e non certo per addossarmi un compito palesemente improprio. Non posso che farlo alla maniera che mi è divenuta congeniale da quando per le vie dell'Asia mi è accaduto d'incontrare sui libri e dal vivo certi conoscitori di segreti, simili a EZ, stupefacenti e indecifrabili da quanto erano rocciosi e fluidi al tempo stesso, in costante intimità con gli antipodi. Lo svariare dei toni dallo sferzante al soave, dall'apocalittico all'irenico, dal plumbeo al gaudioso negli scritti zolliani collocati nella Parte seconda, esalta questa intimità con gli antipodi in maniera direi inequivocabile. Una volta, sfogliando un libro di Anagarika Govinda La via delle nuvole bianche: un buddhista in Tibet, tradotto in italiano lo stesso anno, il 1981, in cui Archetipi usciva a Londra e in contemporanea a New York,41 m'imbattei in un passo che mi fece riflettere: «Ci sono montagne» scrive Lama Govinda42 «che sono soltanto montagne e ci sono montagne che hanno personalità. La personalità di una montagna non è soltanto una strana forma che la rende diversa dalle altre, proprio come un viso con una strana sagoma o azioni strane non fanno di un individuo una personalità. La personalità consiste nelpotere di influenzare gli altri, e questo potere è dovuto alla risolutezza, all'armonia e allafocalizzazione su un punto delcarattere»{coisìvo mio). Ecco un paragone adeguato — mi sorpresi a pensare. Nella personalità di EZ tutti e tre quegli aspetti: la risolutezza, l'armonia e la focalizzazione su un punto del carattere sono presenti a un grado spiccato, e la domanda del tutto pertinente posta da Comolli se uno stato di «liberazione in vita» sia pensabile come un risveglio solitario, ottenuto con le proprie forze, senza soccorso di guide spirituali o per grazia divina, non poteva che suscitare la risposta effettivamente ottenuta, e ribadita da Zolla altre volte: «Credo che immergendosi nello studio della concezione buddhista della pietà si emerga guariti dal bisogno di porre antitesi».43

L'antitesi: ciò che si oppone, che è antinomico e inconciliabile. Zolla nel suo percorso intellettuale ha affrontato l'antitesi senza risparmio occupandosi di problemi di critica sociale, di dialettica storica, di etica ed estetica ma anche sfidando l'antitesi sul suo proprio terreno negli ambiti della logica classica, aristotelica, buddhista e talmudica (un minimo assaggio di un botta e risposta talmudico è riportato nel brano Israele: Sfat e cento cancelli in Nuove terre cieli nuovi, Parte seconda). Si rese conto che l'affondo buddhista nelle figure, negli intrichi e nei trabocchetti della logica, poteva diventare, come di fatto è avvenuto nelle celebri scuole dialettiche mahàyàna, un metodo che nel conseguire la padronanza dell'antitesi sfociava nel suo superamento, rimodellando una mente imperniata sulla vacuità, liberata dalla sudditanza al cozzo degli antipodi, una mente per la quale la differenza tra natura e artificio, reale e virtuale è letteralmente inconsistente in quanto vuota, priva di realtà ontologica. Un ragionamento di Nàgarjuna, uno dei massimi pensatori indiani e sistematore del buddhismo mahàyàna (II secolo d.C.), illustra questo punto in termini perfettamente aderenti alle discussioni di fine secolo sulle prospettive dischiuse dagli esperimenti di realtà virtuale: «Come un uomo artificiale - afferma Nàgarjuna dice di no ad un altro uomo artificiale occupato in qualcosa (impedendogli di farla), e un uomo magico, creato da un mago, dice di no ad un altro uomo magico, creato dalla sua stessa magia, il quale è occupato in qualcosa (impedendogli appunto di farla) [...] - cosi appunto la mia enunciazione, seppure vuota, può logicamente negare la natura propria di tutte le cose».44 Tornando al quesito di Comolli: «che c'entra la via di liberazione con la realtà virtuale», pare evidente che il punto di contatto per Zolla sia la nozione buddhista di «vacuità» e il conseguente azzeramento di una differenza logica e ontologica tra «reale» e «virtuale». Ciò che Zolla sostiene in Uscite dal mondo e nel primo capitolo de La filosofia perenne implica, ribadisco, un metodo radicale di trasformazione interiore del tipo di quelli impartiti nelle trafile esoteriche buddhiste, taoiste e anche cristiane, come nel caso della pratica ortodossa di sincopare la pre-

ghiera sulla ininterrotta ripetizione del Nome divino. Sia la disciplina meditativa che una prolungata esperienza di cocente dolore vissuta come una sfida, costituiscono per se stesse uno degli «accorti mezzi» grazie al quale la mente arrovellata si spiana, si arrende lucidamente alla quiete, e poco importa se la fonte che la largisce è chiamata fede, sapienza, grazia o è piuttosto il soccorso compassionevole («amoroso» nelle parole di Comolli) di una guida spirituale. Nel saggio Esoterismo e fede, pubblicato su «Conoscenza religiosa», che ora si può rileggere,45 Zolla definiva la fede: «una capacità di autoallucinarsi o di sostanziare in certo modo la percezione», e la annoverava tra gli «accorti mezzi» accanto all'arte, alla ginnastica sacra, all'etica e alla filosofia. Per la seconda volta, in poche righe, incontriamo questa espressione. Di quali «accorti mezzi» si tratta? L'uomo, ritiene Zolla, è una creatura duttile, e quando la capacità di credere è coltivata e sviluppata a dovere, è come esercitare e irrobustire un arto fisico: chi vi si sarà allenato otterrà di disporre della fede invece che trovarsi nella situazione in cui è la fede a disporre di lui. Un ragionamento indubbiamente scabroso giacché mette in discussione concezioni inveterate sia per il credente sia per colui che non si riconosce tale, sfidati entrambi a pensare la fede come un'energia che, attivamente o in potenza, dispone di noi a meno di non riuscire a disporne noi stessi. Anche la premessa, formulata nel paragrafo iniziale di Esoterismo efede e la conclusione cui Zolla perviene, non sono facili da accogliere. La premessa è che «ogni vita ha un nucleo esoterico» nella misura in cui «ogni essere vivente fa supporre un'intelligenza che lo plasma. Le sue molecole ne recano la formula in codice, e questa rinvia a una forma formante e informante. Gli antichi parlavano della causa formale che informa di sé ogni essere vivente; a noi càpita di poterne leggere la scrittura. Ma mentre decifriamo il codice biologico, non osiamo più immaginare l'interna intelligenza codificatrice; essa è come divenuta irraggiungibilmente interna, nota a pochi e diffamata: esoterica. [...]»

In altre parole: sia le scienze che le vie della conoscenza metafisica hanno un nucleo esoterico, senonché mentre nel primo caso l'esotericità è un addentramene non solo ammesso ma coltivato e incentivato, nel secondo caso è categoricamente sbandita, sospettata di ogni pericolosa nequizia. Zolla inoltre non esitava a sostenere che «l'oggettività in sé e per sé è un'ubbia. La fede dell'osservatore seleziona e conforma il reale. La fede non è soltanto la sostanza di ciò che siamo ma anche della natura quale ci appare. Non è dato dimostrare una differenza tra la percezione della realtà e un'allucinazione collettiva costante e durevole: sono infatti la stessa cosa».46 Che la fede sia allo stesso tempo «la sostanza di ciò che siamo» e una deliberata allucinazione, è un assunto che sconcerta fino a quando non si venga scalfiti dal pensiero che la vita, nella fortuna e nella sciagura, è una palestra nella quale allenarci alla cognizione e al superamento degli antipodi.

4. Congedi È venuto il momento di accennare a taluni accorgimenti praticati da Zolla negli scritti dell'ultimo decennio della sua vita. Forse «accorgimenti» non è la parola giusta ma per il momento non ne trovo una migliore. Sta di fatto che dagli anni Novanta in poi non c'è opera che all'epilogo non accenni a un commiato, una presa di congedo lasciata cadere con noncuranza come una goccia d'inchiostro sbavata su un calligramma. Ogni volta, in quelle sommesse parole, è presagita un'uscita dal tempo. In Uscite dal mondo, la cornice del commiato è il padiglione erboso di un monaco birmano presso il quale il capo della polizia locale si è recato in visita con la sua famigliola. «Il tempo» scrive EZ «subisce un arresto. La mente liberata comincia a rimbalzare tutt'attorno al trono centrale e sfavillante tra le colonne, al divampare delle luci variegate, allo sfilio di vecchie fotografìe sopra il colonnato: ricordi del monaco, nel 1943 pilota di spitfire nel Nevada.»

Il monaco mostra allo scrittore la camminata meditativa e lui commenta: «Basterà che tutta la mia attenzione scenda di schianto nel piede e avverta con sgomento la terra [...]. Mi si mette a lato e posa lentamente per terra un piede appena deviato, quindi l'altro, simmetrico, accompagnandoli via via con le necessarie parole: Scende. Si posa. S'alza. «Il monaco adesso torna dove stava e da un fascio ben composto estrae un libro stampato nel 1979 a Santa Cruz: Joseph Goldstein, The Experience oflnsight. A naturai unfolding. Mentre trascrivo rioccupa il suo posto accanto alla famigliola. Dopo un cenno, chiusi gli occhi, recita ad alta voce un canto, mentre i tre tengono la fronte poggiata per terra. Adesso tutt'e quattro salutano, restituisco il libro, mi accomiato». A sua volta Le tre vie si chiude sull'aspetto più prezioso del lascito spirituale indiano al mondo, il combattimento meditativo: «Il patrimonio intellettuale indù» scrive EZ «negli ultimi tre secoli, s'è giusto sfiorato; danze, dottrine tantriche sono appena appena riemerse. Per ottenebrare ogni cosa, hanno svolto la loro parte il regime del silenzio che ha sempre imperato su ogni insegnamento nonché le guerre di sterminio. La storia dell'India infine per tanta parte rimane congettura e le sue date sono supposizioni. Eppure, ramingando per foreste, indagando angoli dimenticati di templi, percorrendo torridi, umidi, tenebrosi vicolacci, raccogliendo confidenze, Il ancora può capitare l'incontro con un qualche barbaglio del passato remoto, che si tramuta». Il capitolo finale de La nube del telaio s'intitola esplicitamente: Congedo, e un paio di passi da Robert Frost rinviano alle immagini del ruscello di luce e della ruota del tempo: «Tu ti puoi spingere indietro per un ruscello di luce al cielo»; «E questa rapidità ti fu data non per affrettarti né soprattutto per andartene dove vuoi. Ma perché nella smania di spendersi del tutto a te spetti invece il potere di fermarti». Egualmente con un congedo prende avvio l'ultimo paragrafo de Lafilosofia perenne, dove Zolla, dopo oltre un trentennio, torna

a esaminare il pensiero di Sade e il sadismo. Se nei primi anni Sessanta, la lucida, glaciale follia del Marchese era stata scrutata nell'edizione delle Opere47 e Zolla vi aveva scorto i prodromi dei totalitarismi moderni - una congettura che nel contesto della battaglia anti-moderna dello scrittore era apparsa, all'epoca, provocatoria e tendenziosa - sulla fine del secolo aveva sentito l'esigenza di «svelare il tema effettivo» di quelle riflessioni iniziali su Sade. Ne risultò un riesame decantato dei fattori che avevano innescato gli eventi nel decennio 1968-1978. L'impulso nacque in Cina e vi portò la massima rovina, avventandosi su tutto ciò che rimanesse di civile in quel paese. Qualche scrittore è emerso a raccontarlo, Jung Chang e Acheng fra loro. Questo scatenamento puramente sadico fu ricevuto con simpatia e lode in America e in Europa. Esse ne ricevettero ben presto l'urto in casa, che produsse, almeno in Germania e in Italia, una guerra civile [...]. Con rigore sadico fu esclusa ogni pretesa morale di famiglia o Stato, per non dire ogni ricordo d'un universo etico. Questo denudamento paradossalmente accomuna i due opposti, sadismo e quietismo mistico. Ma come, incalzava, poterono scendere tra le folle i pensieri abbastanza rari di Sade? La risposta era fornita alle pagine 281 e seguenti: L'arma che consenti di scaraventare torme nel Sessantotto - scandiva EZ — fu una scoperta dei medici di guerra americani, che durante il secondo conflitto mondiale si trovarono alle prese con il trauma della battaglia, da risanare mercé la terapia di gruppo, alla quale si può allenare un animatore [...]. L'animatore deve eccitare l'emergenza della psiche di gruppo e dovrà farla riaffiorare ad ogni incontro [...]. Dovrà aspettarsi, in un convegno terapeutico psicanalitico, correnti aggressive dirette contro di sé (i transfert negativi), ma per lo più le spinte aggressive insorgono fra i componenti del gruppo e danno forza alla discussione, a lui toccherà soltanto incanalarle o smorzarle [...]. Dovrà incitare sempre all'intervento (al goingaround), non si stancherà di ricordare che è

11 per aiutare e che tutti sono presenti per fare uno «scambio di esperienze», senza imporre nessuna opinione [...]. Una volta stabilito il clima propizio, doserà l'uso della seconda persona plurale, che elimina ogni angoscia e quello della prima persona singolare (come a dire: «Non sei più noi, sei semplicemente tu») [...]. La gente — osservava - tende a partecipare perché l'impegno allevia il senso di colpa e l'ansia sempre presenti, mentre la sensazione di appartenere al gruppo dà conforto e tepore, vi si è tutti uguali e le piccole frustrazioni non tolgono di mezzo questa unione. Uno dei primi trattati sull'arte usci dalla Free Press di Glencoe nel 1962: Group Psychotherapy. Il manipolo di animatori addestrati che si formò in tutte le città del mondo, specie nelle università, potè scatenare — cosi concludeva — l'immensa deflagrazione.48 Pochi sanno che della raccolta di saggi Discesa all'Ade e resurrezione uscita da Adelphi a pochi mesi dalla morte, esiste una versione succinta, Catabasi e anastasi, pubblicata da Tallone nel 2001. Nei mesi successivi, l'imminenza dell'edizione milanese aveva spinto Zolla ad aggiungere nuove parti e su quelle bozze si chinò fino all'ultimo. Nella Nota al testo osservavo che «i temi che avevano stregato la sua mente nel corso della vita, all'epilogo vengono a esigere anche dal cuore la quota dovuta». Catabasi e anastasi descrive ed esorcizza il dramma della sparizione della coscienza in una sequela di tradizioni misteriche dall'estremo Occidente all'estremo Oriente, dalla celtica alla taoista. Ma in questa occasione i segreti che in esse s'annidano sono squadernati senza veli da chi sa di non avere oramai tempo davanti. Nell'orizzonte del libro si staglia il tema di un esodo d'altra specie, il «viaggio» intrapreso dall'anima una volta sciolta dal corpo fisico. La direzione del cammino è duplice: all'ingiù, in greco katàbasis, e all'insu, anàstasiso anàbasis. Nel suo insieme il cammino equivale a un periplo completo dei regni cosmici: inferi, terra, atmosfera, cielo, e il periplo sigilla e riscatta la vicenda terrena, fugace ma decisiva, della creatura di carne. Se l'anastasi nella prospettiva cristiana è vista come una resur-

rezione del corpo e dal corpo, il taoismo vi scorge piuttosto la fase in cui la creatura mortale, trasumanando, porta a compimento il proprio destino celeste. Il punto nel quale i retaggi di Oriente e Occidente s'incontrano è esplorato nel capitolo: Sapienza celtica di Merlino. Attraverso la mitobiografia del druida Merlino ricostruita alle fonti, Zolla dimostrava che fili invisibili annodano il Santo Graal, incardinato al cuore esoterico dell'Occidente a temi analoghi dell'esoterismo taoista, indigeno e sciamanico dove vasi, zucche, coppe, recipienti di forma uterina, svolgono un ruolo di spiccata magnitudine simbolica. L'edizione Adelphi di Discesa all'Ade e resurrezione, arricchita degli ultimi scritti, ha un andamento ansante, concitato, all'ultimo respiro. Adesso, ciò che resta da dire non ammette rifacimenti, non tollera dilazioni o rinvìi, e una cavalcata di immagini attraverso la storia e i miti di Oriente e Occidente s'abbatte fulminea all'epilogo: I Magi dei Medi erano stati paralleli ai brahmani indù, ai leviti d'Israele, avevano praticato il culto del fuoco e venerato Zoroastro; dalle loro meditazioni doveva emergere Zurvan, Tempo-Destino supremi. Da esso originò il bòn e si stabili in Tibet, sostituendo il culto dei re; insegnò il culto dell'Uomo bianco e dell'Uomo nero, fonte delle costellazioni, dei poteri infernali, di peste e tribolazione, da cui doveva forse evolversi in un seguito di secoli l'idea evangelica del Signore del secolo, dio di quest'epoca di transito {Seconda lettera ai Corinti IV, 4). Mentre il fiume sterminato delle parole contenute nei libri zolliani si avviava alla foce, un piccolo manipolo di parole, come obbedendo a un ordine silenzioso, si radunava a pennellare una figura esalata dal nucleo intimo e segreto della mente dello scrittore, la figura dell'«uomo celeste alto come la stella polare, aperto a tutte le forze del cosmo, svuotato, amputato della testa, diventa puro specchio dell'universo [...]. Conoscente e conosciuto allora si fondono, infine non hanno più nome né forma, si stringono e si esprimono nell'uno che è tutti i numeri».49

5 . 1 lembi si congiungono Se il racconto di questa biografìa scancellata prese avvio a Torino nell'altro secolo quel 9 luglio 1926 quando il sole nel cielo del mattino si eclissò per un poco, non è fuori luogo immaginare che all'epilogo lo scrittore ripercorra le vecchie strade dell'infanzia l'anno in cui il padre moriva: il 1961.50 Da questo colle dove è stata distrutta la vecchia chiesa chiara e modesta si ode Torino: un rombo che, affinandosi, s'incupisce. La cupola di vapore sopra la fungaia delle case grandina un riverbero lattiginoso; quand'ero bambino queste afe ferme erano più rare. In città da poche ore, già mi mortifica una patina di fuliggine sui polsini, il torace intorpidito pesca con cautela l'aria greve di detriti industriali. Non è cresciuta in bellezza, la città, da quando ero bambino; non è più dato di contemplare la facciata medievale di Palazzo Madama, laggiù, senza essere offesi dal bronzo delle statue e se la facciata barocca si leva ancora gioiosa accanto al vicino trionfo del duomo, le incombe addosso un grattacielo fascista, il lacchè tiene a briglia il suo antico signore. Che vado mai cercando nell'intreccio della veduta? Laggiù non sono ormai quei caffè, misteriosi vestiboli affacciati a via Po, adorni di soffitti dipinti, di velluti rossi, di specchi incorniciati [...]. Poco resta oltre a blocchi di cemento irti di antenne televisive come le baite di corni di bue, a negozi nichelati: una scacchiera di bare metalliche. Né, spingendo lo sguardo alla periferia avvolta di bruma calda, posso riconoscere con l'usata letizia due punti, le case, a me care, di due pittori oggi morti, mio padre, Venanzio Zolla e il suo amico Domenico Buratti. Alla minuta descrizione della casa di Buratti e della vista dal balcone al quale l'anziano pittore si affacciava notando con mestizia i cambiamenti di toni e atmosfere tutt'attorno, via via che il tempo passava, seguiva l'evocazione della figura paterna nella casa di via Pesaro in cui EZ aveva vissuto fino al 1956 assieme agli altri membri della famiglia.

Mio padre abitava una casa così squallida da non potersi dire, né triste, né tetra, né torva, era di qua d'ogni sentimento. La strada che vi conduceva, un acciottolato fra nudi muri scorticati sui quali si indovinava la traccia dello stampino con cui i fascisti incatramavano la faccia del loro padrone, e accanto si vedevano sgorbi di bambini desolati, cerchi con due croci e un taglio di bocca sopra corpi quadrati, e, attorno, stelle o nomi o ingiurie o oscenità. DubufFet, Mirò. Dal suo balcone, d'estate, mio padre dipingeva quella strada, ed era tutta un dilagare di luce cremosa rotta da accese vampe; d'inverno la dipingeva da dietro i vetri: muri marroni, celesti o bruni, coltri di neve affioranti dalla nebbia pervasa di fumo, come vellutate gobbe di bestie affogate nella mota. Non aveva avuto agi, aveva dovuto dipingere per denaro. Passi per via San Pietro in Vincoli e odi salire dalle grate del Cottolengo un concertato di voci agoniche e fatue; così udivi nello studio i committenti: «Perché mai così grigi i suoi quadri? Viviamo in un'epoca solare, in Italia». «Vorrei che si distinguesse la faccia delle figure nello sfondo», «Ci metta una pecorella», «Perché ha la faccia triste e pallida questa donna? Di tristezza ce n'è già abbastanza», «Mi piacciono i nudini, ma con un velo qui e la faccina un po' vergognosa». Mio padre si celava dietro il fumo della sigaretta, aveva imparato a non tentare di spiegare che quanto è calcolato è laido, a coloro che vivevano calcolando. Per distrarsi dai loro discorsi talvolta li disegnava in fretta, tenendo nascosto il foglio in grembo, fermandoli nella smorfia con cui chiedevano allegria. Come spiegare a costoro che il pittore distrugge la natura guardandola, la risolve in un reticolo di rapporti fra intensità di luce, fra forme? Poi risorgerà, se la grazia assiste, se si è immersi in completo silenzio, la stessa natura. Talvolta, per ritrovare l'oasi, sempre più remota del mondo circostante, egli tentava scorciatoie: le scomposizioni di piani di cui parlava Buratti, le geometrie, ma tosto gettava via i puntelli, tornava alla verità; alla mezzatinta accennata nell'angolo destro in alto che trasforma tutto l'angolo sinistro in basso. Sia lui che Buratti avevano studiato all'Accademia Albertina, ai primi del secolo. La bottega del maestro è per il giovane apprendista simile a ciò che sono, per l'uomo in genere, la famiglia, la classe sociale, qualcosa che

tocca viverefinoall'estremo, svolgerefinoalle conseguenze che distruggono ogni forma creata. Quando cessa l'apprendistato si forma il vuoto, guai a chi allora rabbrividisce e si afferra ad una qualsiasi immagine di se stesso che gli venga offerta dalla società o dalla pigrizia o dalla tradizione. Soltanto accettandolo il vuoto tenebroso (avete mai pensato al buio?) si ottiene l'invenzione, e ci si accorge che questa altro non è se non il ritorno al centro immobile d'ogni pittura della nostra civiltà in estinzione: ai classici. Spontaneità e tradizione non esistono divise l'una dall'altra. Per vie così opposte — EZ rifletteva — i due pittori erano giunti in cene opere allo stesso centro, cercando la purezza antica o accettando la lotta estenuante con gli artifici moderni, poco importa; l'essenziale era la fede non discorsiva in certe velature, in certi baffi di fuliggine dei grandi, inattingibili maestri. Raro viaggio a ritroso nei secoli, testimoniato da pochi quadri, a cogliere qualcosa di quelle precisioni imponderabili. Tali improvvisi lampi si erano manifestati, in due punti di questa città. Se ne serberà qualche ricordo? Non è una domanda che abbia importanza. 51

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Quarantanni dopo la visita a Torino sul filo della memoria, Zolla riesponeva l'idea confittagli dal padre e mai abbandonata, della pittura come arte che vince la morte. Il testo è il penultimo della sezione Epifanie nella Parte seconda.

6. Oro incenso e mirra Il 28 maggio 2002, il primo pomeriggio assolato e tiepido aveva incoraggiato una breve passeggiata. Da Montepulciano a Pienza undici chilometri di curve ondulate che accompagnano con dolcezza lo sguardo tra colli e filari, e anche se la distanza è scarsa, si entra in un'aura diversa. Posteggiai l'automobile al fontanile accanto alla Pieve di Cor-

signano, sotto Pienza. Un luogo incantevole, tufaceo e arcano, imbozzolato in una solitudine che i rari visitatori increspano appena nel pigro svolìo dei colombi padroni ai piani alti della torre. Elémire amava di tanto in tanto riosservare le figure scolpite sull'architrave a fronte e sulla porticina laterale. La loro danza nella pietra l'aveva descritta minutamente in Verità segrete esposte in evidenza, e tanto bene gli s'era impressa nella memoria che a riguardarla gli occhi erano quasi superflui. Al centro dell'architrave una sirena impugna le proprie pinne divaricate, ostentando l'inguine bene inciso, come dicesse che varcando la soglia del tempio, si entra, si torna nel suo grembo. Figure di donna che mostrano il sesso sono comuni nelle chiese arcaiche d'Irlanda, una sovrasta l'ingresso della chiesa di Leighmore. Lo stesso spirito fece scolpire una ragazza che ostentava l'inguine sopra Porta Tosa a Milano. Buttava in faccia ai pellegrini la sua promessa, il suo vanto di fertilità e in mano stringeva una daga e una serpe: minacciava di punta i fantasmi della morte e della sterilità, teneva in pugno il simbolo del rinnovamento e della medicina [...]. A Corsignano [...] la sirena bifida non è sola sull'architrave. Alla sua sinistra un'altra sirena suona una ribeca mentre un drago le pigia le fauci aperte sull'orecchio, come dardeggiandovi la lingua. Alla destra invece una danzatrice dalla gonna pieghettata poggia una mano sulfiancoe l'altra protende in alto, come nel flamenco; una compagna le stringe l'avambraccio sollevato, e intanto afferra con l'altra mano un drago che le preme le fauci sull'orecchio [...]. Il sistema di metafore degli antichi dava per scontato che i vortici della danza evocassero i genii delle acque. Nonno nelle Dionisiache descrive Sileno (si amò giocare su «sileni» e «sirene») che diventa una fiumana nell'empito del ballo [...]. Le cosmogonie arcaiche, presenti ai costruttori romanici, pongono all'inizio del tempo la pura sonorità, narrano che dall'abisso del nulla emersero iritmipossenti e fondamentali: affiorarono i draghi. Grazie alla mediazione del desiderio, alla forza inesorabile che avvince a un grembo di sirena, quei puriritmisonori assunsero una veste di carne, crearonofiguredi danza. I due versanti del nostro architrave deno-

tano dunque, rispettivamente, l'invisibile e il visibile. [...]. Nella cosmogonia l'invisibile precede il visibile, nella conoscenza religiosa il processo si rovescia. Il desiderio, doloroso o estadco, congiunge i due opposti, suscita l'illusione cosmica. La sirena romanica non è dunque, come si è spesso creduto, un ammonimento a schivare gl'inganni delle maliarde; non per lezioncine di morale si sprecò il tufo [...]. 52

Cosi aveva scritto tredici anni prima, e per imbeversi ancora della danza di pietra s'era mosso quel 28 maggio lentamente da casa, e si dirigeva ora alla soglia sul fianco della Pieve, affacciata sulla vai d'Orda ebbra di luce. Rientrando da quella passeggiata, aveva annotato un commento su un foglietto che trovai poi deposto nella pagina di Verità segrete in cui è descritta la Pieve di Corsignano. Quel commento è il seguente: «A lato una porticella introduce al luogo dove si celebravano le messe. Su di esso si stende una pietra che offre tre nicchie introduttive. Mostrano i re magi recanti l'oro, l'argento e la mirra. Il sole è l'oro, la luna l'argento, la mirra olezzante sarà Venere dalla quale si partiva per calcolare i cicli del tempo. «I tre fondamenti dell'esistenza sono protesi alla stella che sfolgora a destra su un altro terzetto di nicchie: la prima mostra un angelo che tutela l'annuncio ai pastori, la seconda un consimile angelo che ingloba il pargolo sotto il soffio dell'asino e del bove; infine appare, senza tutela angelica, l'enorme Risorto. La stella che dardeggia sulle nicchie ricapitola la triade metafìsica di annuncio, nascita e resurrezione. «A sinistra la colonna mostra una serie di circoli all'incontro di due linee che s'intersecano, in cima sta un animale, cavallo o bove. A riscontro, a destra, c'è invece soltanto l'arricciarsi di una pianta dopo una scena di scontri tra fiere. Un leone risponde al cavallo della sinistra, sulla base a destra figura una partoriente». L'occhio allenato dello scrittore aveva colto ancora una volta lo sfolgorare del simbolo nel simboleggiato, e le parole erano rifluite ad affermarlo poco prima che i fattori che avevano costituito tutto il suo essere: respiro, pensieri, memorie, immagini si dissolvessero nell'immensa marea che stava montando.

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A chi mi ha seguito sin qui nell'evocazione distaccata e al tempo stesso partecipe (un paradosso, per me, difficile da evitare!) di una vita in cui lo spirito di ribellione e una carica formidabile di spiritualità affrancata dall'osservanza religiosa si sono congiunti in un nodo indissolubile, vorrei partecipare una riflessione tutta personale. L'opera di Zolla scrittore e pensatore trae il suo più originale valore dall'idea da lui arditamente ribadita che le antiche vie di conoscenza di Oriente e Occidente e la sapienza indigena possiedano le chiavi di accesso per l'uomo di ogni latitudine a una realizzazione piena e completa di se stesso all'interno di una società planetaria fruitrice di sempre maggiori e unificanti benefìci tecnologici. Questo è l'aspetto secondo me più fecondo del lascito intellettuale zolliano per coloro che si sentono pronti a riceverlo e a condividerlo coi loro compagni di strada.

Postilla Esistono, com'è fàcile immaginare, dei cartoni preparatori a Sprazzi di una biografia scancellata. «Cartoni» è parola che si addice a un dipinto realizzato alla vecchia maniera piuttosto che a uno scritto digitato al computer. Ma in questo caso è il termine adatto giacché le pagine stipate a centinaia nella camera di scrittura sono l'embrione della creatura di carta che è ora in mano, un embrione colmo di tutte le sostanze vitali che hanno irrorato il futuro libro. Barlumano ogni tanto in quei cartoni pagliuzze d'oro, frasi pescate dagli scritti editi e inediti di Zolla, e dispiace non dare l'occasione di condividerle a chi è giunto sin qui. Ad esempio questa: Come una pianta cresce secondo le leggi della vegetazione così cresce un uomo, obbediente alla vocazione del suo organico destino (ofato o stella), mentre le singole occasioni, i rovesci o contrattempi, le avversità sono opera dellafortuna. Questa corrisponde alle disarmonie nel volgersi celeste delle stagioni, alle tempeste, alle eclissi. Essa rien-

tra nella provvidenza generale, perché la sua funzione è di richiamare l'uomo alla precarietà insegnandogli l'indifferenza verso le venture, gli accidenti della vita, instillandogli la consapevolezza della possibile sciagura nella prosperità e viceversa, perciò essa è strumento divino [...]. O questa, che coglie in essenza che cos'è lo stile: Lo stile: quel sale chepreserva dalla corruzione i concetti, l'unica loro difesa dalla trasformazione in motti, in un vaniloquio gergale [...]. Oppure quest'altra, vibrante di rimprovero: Piuttosto che uscire dalla tua gabbietta colma di cianfrusaglie, rivedi i conti! Credi che si possa giungere a un saldo? Aggiungi, togli alla lista? Aspetta, ti faccio una mancanza e la dovrai aggiungere, non sarai mai alla fine. Un giorno,farse,a pochi, capita che capiscano: la gabbietta è aperta, i conti sono numeri immaginati e scribacchiati a caso, i saldi sifanno sulle tombe e si buttan dentro e chi lifa è una creaturina misera misera, che l'esistenza soffia via, l'inesistenzarivelaper il niente che è. 0 l'appunto su un foglietto a mano inserito nei Quaderni all'ultima ora: Il tempo è... quest'essere immaginario proteso a inghiottire le varietà di cibo, delle pupille, delle orecchie, delle narici, dei polpastrelli, della pelle, della gola... Rammento ciò che avvenne, mi prospetto l'avvenire... e questo mi offre ilperno su cui avvolgere passato efuturo... il senzatempo, l'eterno presente. 1 cartoni preparatori del Conoscitore di segreti compongono un affresco di gran lunga più esteso e stratificato di questo. A leggerlo come un racconto occorrerebbero molte notti passate a veglia accanto alla fiamma crepitante d'un focolare in pieno inverno.

Note

1. Una vita per la scrittura

1. E. Zolla e D. Fasoli, Un destino itinerante. Conversazioni tra Oriente e Occidente, Marsilio, Venezia 1995. 2. E. Zolla, Aure: i luoghi, i riti, Marsilio, Venezia 1985 e successive edizioni. 3. E. Zolla, I letterati e lo sciamano, Bompiani, Milano 1969; Marsilio, Venezia 1989 e successive edizioni. 4. Strumento tradizionale giapponese a tredici corde. 5. L'opera narrativa consiste nei romanzi Minuetto all'inferno (Einaudi, Torino 1956, Aragno, Racconigi 2004 a cura di G. Marchiani)) e Cecilia o la disattenzione (il cui primo capitolo usciva su «Tempo Presente», n. 2, febbraio 1959 retrodatando dunque la stesura del romanzo pubblicato da Garzanti nel 1961), nonché qualche decina di racconti sparsi tra le riviste dell'epoca. Marco e il gatto Mammone (che apparve sul quotidiano di Torino «Gazzetta del Popolo», 7 gennaio 1962, ma che in realtàrisalea vari anni prima) è ripubblicato per gli ottantanni dalla nascita dello scrittore in Elémire Zolla dalla morte alla vita, a cura di G. Marchianò, «Viator», nuova serie, 2005-2006. 6. «Il Paradosso», n. 23-24,1960. 7. Ritratti su misura, a cura di E. F. Accrocca, Sodalizio del Libro, Venezia 1960, pp. 442 s. 8. Unti con Guido Ceronetti, «Bloc notes», 28-29 novembre 1993. 9. Si veda il saggio Joyce o l'apoteosi del fantasticare, «Elsinore», n. 4, marzo 1964. Risale invece al 1952 Joyce e la moderna apocalisse, accolto tra i Saggi letterari nella Parte seconda del presente volume. 177

10. The Writerandthe Shaman. A Morphology ofthe American Indian, trad. di R. Rosenthal, Harcourt Brace Jovanovich, New York 1973; esistono anche una traduzione francese e spagnola. Sulla ricezione critica negli USA si veda Nota 5 del capitolo 4. 11. La collaborazione di Zolla al «Corriere della Sera», durata dal 1958 al 2000, era rievocata da Cesare Médail in Zolla e il «Corriere», «Caffè Michelangelo», Firenze, n. 3,2003, nella sezione del fascicolo dedicata a Elémire Zolla, a cura di E. Gatta. 12. Il provvedimento di trasferimento dalla facoltà di Magistero dell'Università di Genova all'Università La Sapienza di Roma quale titolare della seconda cattedra di Letteratura angloamericana è in data 30 ottobre 1974. Le opposizioni più accanite vennero da ordinari sia laici sia cattolici alleati nell'impedire la chiamata di un accademico le cui idee notoriamente anti-moderne ne facevano il «nemico» per una volta comune. Il francesista Giovanni Macchia fu nel novero di risicata maggioranza che votò a favore. 13. Tutti gli scritti zolliani apparsi sulla rivista sono raccolti e commentad in E. Zolla, Conoscenza religiosa. Scritti 1969-1983, a cura di G. Marchianò, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2006. 14. Autodizionario degli scrittori italiani, a cura di E Piemontese, Leonardo, Milano 1989. La bibliografia zolliana indicata alle pp. 439 s. che cessava col 1990, era aggiornata al 2002 nell'Omaggio allo scrittore a cura di G. Marchianò, «Viator», anno VI, 2002, pp. 24-35, e «Idea Viva», Buenos Aires, n. 14,2002, pp. 52-54. 15. Domande rivolte a 109 scrittori, a cura di F. Camon, «Nord-Est», Padova, n. 6,1989. 16. Ibidem.

17. L'opera segna il commiato di Zolla dalla fase «negativa» di critica antimoderna. Ristampata da Marsilio tre volte durante la vita dello scrittore, è stata ripubblicata dall'editore veneziano nel 2005, a cura e con un'introduzione di G. Marchianò. Trad. sp. Paidós, Barcelona 2003. 18. Nella Presentazione de II Bosco sacro, percorsi iniziatici nell'immaginario artistico e letterario, a cura di E. Zolla e M. Maymone Siniscalchi, Bastogi, Lecce 1992. Si veda nello stesso volume «In principio era l'esoterismo» intervista rilasciata a D. Crocco. 19. Nelle edizioni Alberto Tallone, Alpignano 2001. Arricchita degli ultimi saggi e intitolata Discesa all'Ade e resurrezione, l'opera usciva postuma presso Adelphi, Milano 2002.

U. Eco, Opera aperta, Bompiani, Milano 1962. 21. Nell'articolo non iìrmato Due saggisti, a proposito di E. Zolla e U. Eco, in «Letteratura italiana», n. 79, anno II, 11 aprile 1967, Fratelli Fabbri Editori, Milano. 20.

2.1 primi trent'anni a Torino

1. L'articolo s'intitolava Ein neuer Vorschlagzur Deutungder Satorformele usci in «Archiv fur Religionswissenschaft», n. 29, 1926, pp. 165-169. Del quadrato magico si occuparono da allora con rinnovate ipotesi archeologi e studiosi eminenti come A. Maiuri e J. Carcopino. Un vaglio accurato delle interpretazioni è in SatorArepo Palindrome criptografica cristiana, a cura di M. C. Sacchi ZafFarana, Premessa di Gianfranco Ravasi, Tallone, Pinerolo 1998. 2. Intitolato Custodita in un «qttadrato magico» una parte del mistero di Pompei? A firma di Bernardo Trevisano, pseudonimo di EZ, «Il Giornale d'Italia», 8-9 settembre 1966. 3. Il cielo natale di Elémire Zolla è esaminato da F. Frigerio, lo studioso esperto di astrologia genetliaca in Elémire Zolla dalla morte alla vita, cit., sezione Analisi. 4. Nato a Manosque in Provenza nel 1852, muore presso Parigi nel 1925, un anno prima della nascita a Venanzio Zolla del figlio Elémire. Giornalista, fondatore della «Revue des chefs-d'oeuvre» (1881-1886), è autore di vari romanzi tra i quali Les oiseaux s'envolent et lesfleurs tombent{Gli uccelli volano via e ifioricadono), e La nrf(Lz nave, pubblicato in due parti tra il 1904 e il 1922). 5. The Gentle Art of Making Enemies, Heinemann, London 1890, fu ristampato tre volte nel giro di pochi anni. Il volume nella biblioteca di casa Zolla è dell'edizione del 1906. Fu un dono al pittore della moglie Bianche nel Natale 1908, come si legge nella dedica a penna: To VenanziofromBianche, Christmas 1908. L'arte cortese di crearsi nemici, a cura di E. Bilardello, è pubblicato nelle Edizioni Novecento, Palermo 1988. 6. Il brano ricorre ne Lo stupore infantile, Adelphi, Milano 1994, capitolo L'infanzia assassinata.

7. Lezione di verità, «Corriere della Sera», 30 marzo 1962. Sul melo e i suoi caratteri nel capitolo II settenario di Le meraviglie della natura. Introduzione all'alchimia (Bompiani, Milano 1975) Zolla annota: «Gioviale è il melo: ha la corteccia macchiata di giallo, dalla stessa tintura amara degli acini d'uva e delle foglie di primula; i suoi corimbi ver-

deggiano a primavera, in estate spargendosi di petali rosei prima e poi bianchi [...]. Il melo e i suoi pomi sono simboli di giovinezza e imperio; segnato dagli acini è il pentagramma, lafigurastessa che Venere disegna nelle suerivoluzionicelesti, e la mela è anche un simbolo erotico: Venere abbinata a Giove». In nota EZ rinvia a G. Ruhtenberg, Der Apfelals Chiffreccc. in DieDrei, Stuttgart, settembre 1970. 8. Invito all'esodo usciva su «La rivista di Estetica», anno II, maggio-agosto 1963. I primi sette paragrafi sono riportati negli Scritti sulfurei, Parte seconda. 9. Le pagelle negli anni di corso al Regio Ginnasio Cesare Balbo documentano i risultati di un adolescente disciplinato, versatissimo nelle materie umanistiche, poco incline all'eserciziofisicoe piuttosto indifferente alle lezioni di religione. 10. Si tratta delfilosofoLuigi Pareyson (1918-1991), professore di Teoretica all'Università di Torino, uno dei maestri della Scuola Italiana di Estetica. 11. Verso lafinedel saggio Joyce e la moderna apocalisse (in Scritti sulfurei, Parte seconda), EZ sovrappone quasi alla lettera la logorrea dello psicopatico ai bisticci verbali ricorrenti in Finnegan's Wake mostrandone l'inconsistente differenza. 12. Pubblicata a Reggio Emilia. Fascicoli XV, 1889, pp. 352-393 e XVI, 1890, pp. 1-35. 13. M. Tobino, Per le antiche scale. Una storia, Mondadori, Milano 1972. Il passo citato è a p. 131 della ristampa Rizzoli, Milano 2003. 14. Dopo una polmonite contratta all'età di sei anni, la tubercolosi esplode nell'inverno 1948 dopo che EZ, al compimento dei vent'anni, è riconosciuto inabile al servizio militare per deficienza toracica. Una benefattrice si accolla le spese di trasporto in automobile del malato all'ospedale Le Molinette per i trattamenti di pneumotorace. La TBC si rimanifesta in maniera virulenta nell'autunno del 1950. 15. Rilegata in tela rossa e dattiloscritta su fogli di velina, la tesi si compone di 135 pagine suddivise in tredici capitoli, corredati di schemi e diagrammi, quattro appendici e la bibliografia. Sullo sfondo della trattatistica di diritto amministrativo, sono esaminati «i problemi complessi che sorgono intorno alla natura giuridica degli affari di reciprocità e delle compensazioni private». Nella Premessa EZ spiega che il criterio adottato è di far precedere «la parte costruttiva» dell'esposizione da «una critica delle diverse soluzioni» alle questioni in materia di regime vincolistico, e conclude: «Confidiamo che questo procedimento giovi a snellire una trattazione che altrimenti verrebbe di continuo sviata

dall'insorgere di problemi incidentali, dalla necessità via via di eliminare costruzioni diverse che possano proporsi, dall'opportunità di esaminare lo stato della dottrina sui singoli problemi dogmatici». Un metodo argomentativo che lo scrittore metterà costantemente in pratica nelle opere di critica sociale del primo periodo romano e al quale continuerà ad attenersi in futuro. 16. Bianche Smith Zolla, sofferente da anni di malattia coronarica (al tempo chiamata coronante), muore al San Giovanni Battista Città di Torino il 24 luglio 1951. Nella Introduzione alla ristampa di Minuetto all'inferno la cui iniziale stesura precede di quattro anni la pubblicazione nel 1956 (1951-52 è la data posta dall'autore in fondo al testo), mi soffermo sull'indole di Bianche e il probabile influsso del suo temperamento malinconico e schivo sul secondogenito Elémire. A proposito di un cartone da lui dipinto della madre anziana scrivevo: «Le labbra si stringono in una piega dura, di riluttante sopportazione, e s'indovina tra le sopracciglia il solco della malinconia che Elémire sulla fronte delle donne, di tutte le donne via via incontrate, avrebbe aborrito» (p. 11, Aragno 2004). Nei primi anni Cinquanta lo scrittore prese gusto a dipingere, e all'Esposizione Nazionale d'arte al Valentino nella primavera del 1953, accanto a svariate opere del padre figura una sua tela: Composizione di ellissi. 17. L'inganno del nome, «Anterem», n. 50, giugno 1995, pp. 42 s. 18. Lo stupore infantile, Adelphi, Milano 1994, pp. 23 s. 19. L'inganno del nome, cit.

20. H.C. Dowdall, The Word «Person», «The Times Literary Supplemento, 8 maggio 1948. 21. A penna sulla copertina: To Dr. E. V. Zolla with complimentsfromH. C. DowdalL II libriccino di 20 pagine: SpecialArticle and Correspondence on the Word «Person» also Correspondence on the Words «Community» and «Society», The Shenval Press, London, è custodito nell'archivio dello scrittore. 22. Hans Kelsen, nato a Praga nel 1881, redasse nel 1920 il progetto della costituzione austriaca. Dopo aver insegnato all'Università di Vienna riparò a Ginevra e successivamente negli Stati Uniti. Gli elementi principali della teoria giuridica kelseniana sono esposti da Renato Treves nella Introduzione all'edizione italiana dei Lineamenti di dottrina pura del diritto (Einaudi, Torino 1952). 23. Ivi, p. 94. Il capitolo si intitola La dissoluzione dell'idea dipersona. 24. Lo scetticismo giuridico, «Rassegna Italiana di Sociologia», anno I, n. 4, ottobre-dicembre 1960.

25. 26.

Bompiani, Milano 1966, III ed., p. 150. Visita angelica in via dei Martiri usci su «Tempo Presente», anno II, n. 2, febbraio 1957, e fu pubblicato in inglese nel semestrale diretto da Saul Bellow «The Noble Savage», n. 4,1961 ; LAfrica nel cortile era accolto nell'antologia L'amore in Italia, Sugar, Milano 1961, pp. 273-337. In una versione accorciata dal titolo Giuditta era stato pubblicato su «il Mondo», 30 settembre 1958; Marco e ilgatto Mammone era comparso il 7 gennaio 1962 sul quotidiano di Torino «Gazzetta del Popolo», si veda anche Nota 5 del capitolo 1. La versione integrale è nella sezione dei tesd zolliani del fascicolo speciale Elémire Zolla dalla morte alla vita, «Vìator», cit. Un altro racconto, Veio, un cane, La minestra, usci su «Paragone», n. 154, 1962. 27. Nella Introduzione a I mistici dell'Occidenteripubblicatoda Adelphi, Milano 1997. 28. EZ lesse il Jean Santeuilnell'edizione in tre volumi di Gallimard 1952 (Collection «Bianche»), con la prefazione di André Maurois. 29. Nell'archivio di Zolla il carteggio tra i lettori eccellenti all'Einaudi che giudicarono il romanzo consiste di otto fogli spillati e li precede il testo delrisvoltovittoriniano. Si veda in proposito la mia Introduzione alla ristampa di Minuetto all'inferno (Aragno 2004), pp. 16-18 e la Nota 14. 30. Gli stralci delle lettere intercorse sono tratti dal carteggio citato alla nota precedente. 31. M. Bellonci, Come un racconto gli anni del premio Strega, Club degli Editori, Milano 1969. 32. Ivi, p. 47. Volgarità e dolore,

3. Il periodo romano

1. E. Zolla, Il satanismo, «Conoscenza religiosa», n. 4,1970, p. 397. 2. La separazione avviene a pochi mesi dal matrimonio celebrato con rito civile in Campidoglio. Zolla otterrà il divorzio dopo un'estenuante vertenza giudiziaria durata oltre un ventennio. 3. L. Compagnone, Esclusi dal giro, «Il Mattino», anno LXXII, n. 1. 4. Dopo la libera docenza ottenne l'incarico di Lingua e Letteratura angloamericana nel 1960 per intervento di Mario Praz. L'ordinariato fu conseguito nel 1967 e la prima destinazione fu l'Università di Catania dove insegnò per un anno, per poi passare all'Università di Genova.

5. Il sodalizio della scrittrice con Elémire Zolla profilato da Cristina De Stefano in Belinda e il mostro. Vita segreta di Cristina Campo (Adelphi, Milano 2002), è una ricostruzione attinta a testimonianze di persone dell' entourage di Vittoria Guerrini. Ne risulta un'immagine della vicenda e dello stesso Zolla molto alterata, di cui lo scrittore silenziosamente si rammaricò. Dopo questo spiacevole episodio, un tacito accordo con mio marito mi fece astenere dal far parola delle confidenze da lui ricevute sui risvolti umani e letterari della vicenda Zolla-Guerrini. 6. Le principali erano state «Nuova Antologia», «Il pensiero critico», «Lo Spettatore italiano», «Studi Americani», «Elsinore», «Il Punto», «La Fiera letteraria», «il Mondo» e svariati quotidiani tra cui i romani «Telesera», «Il Giornale d'Italia», «Il Messaggero», e «La Nazione» a Firenze. 7. La calligrafìa dello scrittore è analizzata da E. Bracci Testasecca in Elémire Zolla dalla morte alla vita, cit., sezione Analisi. 8. Più di una volta una certa facilità all'abbaglio lo indusse a scambiare per schietti sentimenti che nei suoi confronti non erano tali. Sarebbe fùtile, e non conforme allo spirito di questo ragguaglio, esplicitare nomi e circostanze. 9. Da un appunto autografo. 10. L'emancipazione della commedia, «Notiziario», Einaudi, anno V, n. 9, settembre 1956. 11. Ivi, p. 5. 12. Come documenta Stefano Cochetti in Mythos und «Dialektik der Aufklärung», Haim Verlag, Königsberg 1985. 13. Come si evince dalla Premessa degli autori alla I edizione dell'opera (trad. it., Einaudi, Torino 1966): «Nelle condizioni attuali anche i beni materiali diventano elementi di sventura. Se la loro massa, per mancanza del soggetto sociale, dava origine, nel periodo precedente, in forma di sovrapproduzione, a crisi dell'economia interna, essa produce oggi, che gruppi di potere hanno preso il posto e la funzione di quel soggetto sociale, la minaccia internazionale del fascismo: il progresso si capovolge in regresso». 14. Si vedano a raffronto l'Excursus II: Juliette, o illuminismo e morale in Dialettica dell'illuminismo, e i testi zolliani: Sade («Aut Aut», n. 41, settembre 1957) e II sadismo (in II Marchese di Sade, Le Opere, scelte e presentate da E. Zolla, Longanesi, Milano 1961). l'i. Adorno fra metacritica e metafìsica, «Elsinore», n. 5, aprile 1964, ristampato in «Ethica», vol. IX, 1970. All'analisi de La musicologia di T. W. Adomo, è dedicato il saggio omonimo, «La rivista di Estetica», anno II, settembre-dicembre 1957.

16. Strali variamente acuminati si abbatterono sull'autore di L'eclissi dell'intellettuale ad ogni occasione per oltre un ventennio sulla stampa nazionale. Nel novero degli arcieri accanto a Ennio Flaiano cui si deve la battuta: «E sia ben chiaro che tra Elémire Zolla e la folla preferisco la folla», spiccano nella persistenza Valerio Riva (m. 2004) e Beniamino Placido. Unafilippicadi quest'ultimo su «Civiltà delle Macchine», n. 1-2, gennaio-aprile 1977, pp. 62-70, s'intitolava, concordemente alla frase di Flaiano, Gli intellettuali e le masse. Preferisco la falla. 17. Nella Introduzione il mistici dell'Occidente, Garzanti, Milano 1963. 18. «Dette l'avvio a lunghe serie di indagini e teorizzazioni [...] stimolò i più disparati interventi di letterati, sociologhi, uomini di cultura [...] sul torpore e l'incubo dell'uomo-massa; il suo vitalismo nevrotico e insensato, automatico e truce; il rapporto tra uomo e collettività, tra uomo e cultura, tra uomo e avvenire.» G. Tedeschi, Gli itinerari spirituali di Elémire Zolla, «Vita e pensiero», anno LII, n. 1, gennaio 1969. 19. E. Montale, Odradek, «Corriere della Sera», 7 agosto 1959. 20. G. Piovene, Giudicano la civiltà d'oggi un inferno senzafinestre,«La Stampa», 12 febbraio 1962. 21. E. Croce, Storia del fantasticare, «il Mondo», 1 settembre 1964. 22. Valga per tutte le risposte a F. Giordano nell'intervista: Joyce? Io lo stronco, «Mondo Operaio», 3 marzo 1991, pp. 107- 111. 23. I loro titoli sono: L'eclissi dell'intellettuale, Bompiani, Milano 1959; La psicanalisi, Garzanti, Milano 1960; Imoralisti moderni (co-curato da A. Moravia), Garzanti, Milano 1960; Il Marchese di Sade, Le Opere, scelte e presentate da E. Zolla, Longanesi, Milano 1961; Emily Dickinson, SelectedPoems andLetters, a cura di E. Zolla, Mursia, Milano 1961; Volgarità e dolore, Bompiani, Milano 1962; I mistici dell'Occidente, Garzanti, Milano 1963; Le origini del trascendentalismo, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1963; Storia del fantasticare, Bompiani, Milano 1964; Herman Melville, Clarel, Prefazione e traduzione di E. Zolla, Einaudi, Torino 1965; Nathaniel Hawthorne, Settimio Felton o l'elisir di lunga vita, a cura di E. Zolla, Neri Pozza, Vicenza 1966; Le potenze dell'anima, Bompiani, Milano 1968; Iletterati e lo sciamano, Bompiani, Milano 1969; Che cos'è la tradizione, Bompiani, Milano 1971. 24. F. Kafka, Confessioni e immagini, Prefazione di E. Zolla, Mondadori, Milano 1960; F. Scott Fitzgerald, L'età del jazz, Prefazione di E. Zolla, Il Saggiatore, Milano 1960. 25. Cit. nella Nota 23.

Il passo ricorre in Che cos'è la tradizione, Bompiani, Milano 1971 (Adelphi 1998 e 2003), l'opera che chiude il ciclo degli scritti sociali anti-moderni del primo periodo romano. 27. Introduzione a Imistici dell'Occidente, cit., pp. 1-96. 28. Nel paragrafo La mistica come iniziazione della Introduzione, Adelphi, 2 voli., Milano 1997, p. 26. 29. Dieci gradini verso la luce, «Corriere della Sera», 20 gennaio 1996. 30. In Com'era bello ilpeccato pagano, in occasione dell'uscita di Che cos'i la tradizione, Bompiani, Milano 1971. 31. Thomas Mann, «Letterature moderne», n. 2, marzo-aprile 1953, II paragrafo, pp. 149 s. 32. Invito all'esoeio, «La rivista di Estetica», anno II, maggio-agosto 1963. 33. Epifanie^. il titolo sotto il quale è raccolto l'ultimo gruppo di prose zolliane nella sezione omonima, Parte seconda. Si vedano in proposito la Premessa e la Nota introduttiva alla detta sezione. 34. Per un nuovo illuminismo, «Elsinore», n. 8-9, settembre-ottobre 1964. 35. MNotal,p. 19. 26.

3 6 . Per un nuovo illuminismo, Arte e cultura nella civiltà contemporanea,

Quaderni di San Giorgio, 29, Sansoni, Firenze 1966. 37. Ivi, pp. 307 s. dove ricorrono i due passi precedenti a questo. 38. Ivi, p. 316. 39. Ivi, p. 324. 40. L'Istituto Accademico di Roma era sorto nel 1965 sotto la presidenza dell'onorevole Pietro Campilli. Nel 1966 d'intesa con le Fondazioni Olivetti e Giorgio Cini promosse il convegno internazionale sulle Fondazioni culturali che creò le premesse a una prima revisione delle norme fiscali relative agli enti di cultura in Italia. Confinianaloghi a quelli dell'Istituto Accademico, era stata fondata in quegli anni l'Unione Italiana per il Progresso della Cultura (U.I.P.C.) con sede in Piazza Campitelli. 41. Il Diccionario de símbolos tradicionales ¿i). E. Cirlot, l'Introduction au monde des Symboles di G. de Champeaux e D. S. Sterckx o. s. b., Die Welt der Symbole di D. Forstner e Inbild des Kosmos di P. Rech, ancora inediti in Italia nel 1966. 42. «Antaios» diretta da Mircea Eliade e Ernst Jiinger, «Symbolon» diretta da Benno Schwabe, e la serie dei XXXIV volumi degli «Eranos Jahrbücher» di C. G. Jung pubblicatifinoad allora.

43. Le circostanze favorevoli a realizzare l'allestimento del Dizionario dei simboli non furono immediate e dovettero passare anni prima che il progetto prendesse forma: in «Conoscenza religiosa», n. 2, 1977; nel testo della voce Simbologia firmata da Zolla sull'Enciclopedia Italiana Treccani nel 1982 (voi. VI), e nei lavori del Convegno «Numeri e figure geometriche come base della simbologia», promosso da Zolla a Roma al Consiglio Nazionale delle Ricerche, nel giugno 1978. Gli Atti sono nel fascicolo omonimo di «Conoscenza religiosa», n. 1-2, 1979. 44. Giorgio Diaz de Santillana: «Per un incontro tra umanesimo e scienza» (30 giugno 1966); Jean Servier: «Aldilà dello scientismo» (26 maggio 1967); Hans Sedlmayr: «Architettura, semantica e simbolo» (1 luglio 1967) ; Mircea Eliade: «L'iniziazione ed il mondo moderno» (30 settembre 1967). Accanto a loro il linguista Giacomo Devoto sul tema «La parola italiana» (17 marzo 1967); il filosofo Michele E Sciacca su: «Verità e storia in Vico» (26 gennaio 1968) e lo storico Paolo Brezzi su: «Il fatto storico cristiano nell'interpretazione di Vico» (8 maggio 1968). 45. Nella sezionefilosoficaintervennero Michele F. Sciacca: «Storicismo o storicità dei valori?»; Sergio Cotta: «L'esperienza giuridica e i valori permanenti» e Augusto Del Noce: «Contestazione e valori». Nelle sezioni scientifica e di scienze religiose, Giuseppe Moruzzi e Paolo Brezzi sui temi: «Percezione visiva e simbologia» e «I valori religiosi nel divenire storico»; e nella sezione estetica, Carlo Cassola e Diego Fabbri, rispettivamente su: «Cultura e poesia» e «Spirito creativo e simboli». 46. L'elenco completo dei relatori annovera Henri Baruk, John Epes Brown, Herta von Dechend, Giorgio Diaz de Santillana, Germaine Dieterlen, Gilbert Durand, Cari Philip Hentze, Marie E. P. Kònig, Padre Cyrill von Korvin Krasinski, Thomas Molnar, Hector Alvarez Murena, Seyyed Hossein Nasr, Marius Schneider, Christian Norbert Schulz, Hans Sedlmayr, Jean Servier, Théophile Spoerri, Eric Voegelin, Wladimir Weidlé, Dominique Zahan. 47. I valori permanenti nel divenire storico, Istituto Accademico di Roma, 1969. 48. S.Weil, La connaissancesurnaturelle, Gallimard, Paris 1952. 49. Divenuta stigma di superbo isolamento, turris eburnea nel contesto devozionale cristiano riferito a Maria Vergine, è all'origine immagine di spontaneità e gioiosa accettazione del destino. Zolla lo precisa nel dialogo con un giornalista collocato nella Parte seconda tra i brani di Scritti sulfurei col titolo appunto La torre d'avorio. In Verità segrete esposte in evidenza (Marsilio, Venezia 1990), capitolo Esoterismo e fede, Turris eburnea è «simbolo di scampata socialità, emblema di conoscenza religiosa che non subisce ma illumina ogni fede, massimo peri-

colo per ogni forza politica che miri alla Totalità». Si veda la voce omonima nel Lessico zolliano. 5 0 . Disprezzare il nostro tempo? Rispondono Elémire Zolla e Giorgio Vigolo,

«Corriere della Sera», 25 febbraio 1968. All'indomani della morte di Giorgio Vigolo, eccellente traduttore di F. Hòlderlin (si veda il volume delle Poesie con un saggio introduttivo, Einaudi, Torino 1958), Zolla dedicava un articolo: La donna soprannaturale («Corriere della Sera», 16 gennaio 1983) a La Virgilio, il romanzo di Vigolo che risale al 1921 (pubblicato dall'Editoriale Nuova nel 1983). Nella protagonista EZ scorgeva i caratteri della donna-di-sogno che si accingeva a tratteggiare ne L'amante invisibile (Marsilio, Venezia 1986). 51. Sono grata all'indologo Gian Giuseppe Filippi dell'Università Ca' Foscari per l'utile scambio di vedute sull'argomento. 52. M. Perilli, Dialogo con Elémire Zolla, «AIUEO», n. 6,1998. 53. Titolare della cattedra di Letteratura angloamericana, tenne contemporaneamente l'insegnamento di Filologia germanica, avviando allo studio approfondito dei testi primari dell'antica letteratura scandinava laureandi che poi si rivelarono studiosi di grande talento, come nel caso della scandinavista Gianna Chiesa Isnardi. In quattro anni di intensissima attività didattica e diricerca,Zolla costruì da zero una scuola di giovani specialisti in letterature comparate e culturalstudies mettendoli in grado di affrontare con rigorefilologicoe intelligenza ermeneutica temi unificanti e complessi come quello del «Superuomo e i suoi simboli nelle letterature moderne» su cui Zolla scriveva in L'equivocazione deliberata e l'idea di superuomo, «Settanta», anno V, settembre-dicembre 1974. Il progetto fece capo a sei volumi pubblicati da La Nuova Italia, Firenze, tra il 1971 e il 1979. Sul magistero zolliano all'Università di Genova si veda il saggio di Angelica Palumbo, Elémire Zolla: l'iniziazione allaricerca,«Studi Europei». Annali del Dipartimento di Studi sulla Storia del Pensiero Europeo «Michele Federico Sciacca», Università di Genova, Leo S. Olschki, Firenze, X, 2002. Anche le riflessioni di Pier P. Ottonello in La realtà dei simboli, «Nuova Antologia», n. 2016, dicembre 1968 e nell'opera Ontologia e mistica, Marsilio, Venezia 2002. 54. I testifirmatie siglati da Zolla su «Conoscenza religiosa» tornano ad essere disponibili nel volume E. Zolla, Conoscenza religiosa. Scritti 19691983, cit.

55. Sullaricezionecritica della rivista nella stampa nazionale, si veda la mia Introduzione al volume citato alla Nota precedente. 56. Negli anni successivi altri testi di Cristina Campo impreziosirono i fascicoli della rivista. Nel n. 1,1977, in mone di lei, EZ pubblicava lo stupendo Diario bizantino e altre poesie.

57. Tra gli intellettuali cattolici che misero in guardia sui pericoli di sincretismo, gnosticismo e aristocraticismo insiti nella visione religiosa zolliana, è da annoverare accanto a Sergio Quinzio, Vittorio Messori. Si veda l'intervista a EZ: Più che il Gesù della storia mi interessa il Cristo del mito, «Jesus», maggio 1984 e nel volume Inchiesta sul Cristianesimo, Mondadori, Milano 1987. Tra il 1966 e il 1967 Zolla fu in prima linea nel contestare lo spirito e la lettera delleriformedeliberate dal Concilio Ecumenico Vaticano II in materia di liturgia e soppressione del latino (si vedano gli articoli ne «La Fiera letteraria», 10 febbraio e 31 marzo 1966), e l'«adeguamento» della Chiesa ai nuovi tempi (nei componimenti La visione dello storico delfuturo e II neolassismo conciliare collocati negli Scritti sulfurei, Parte seconda). Una infuocata polemica in materia, sulla quale nel giugno 1966 intervenne a favore delle posizioni conservatrici di Zolla Monsignor Domenico Celada, allora direttore della rivista della Cappella Musicale Pontificia, fu quella che oppose Zolla a Adriana Zarri, ampiamente riferita su «La Fiera letteraria». Il 16 febbraio 1967 una tavola rotonda sulla «Cultura dopo il Concilio» promossa dall'Unione Italiana per il Progresso della Cultura metteva a confronto l'intransigenza di Zolla con le posizioni più morbide di Arturo Carlo Jemolo e Sergio Cotta. Ne riferiva ampiamente Gino de Sanctis in Pluralismo culturale, Quaderni dell'U.I.P.C., 17,1967. Le interfacce del problema «Zolla e la materia religiosa» andrebbero affrontate separatamente col concorso collegiale di storici, teologi ed esperti di cristianesimo e religioni non cristiane. 58. Ne La verità in uno stile, «Corriere della Sera», 15 novembre 1987, Zolla menzionava due pezzi di Cristina Campo apparsi su «Il Giornale d'Italia» con lo pseudonimo di Trevisano nel corso del 1966, ossia La silenziosa isola della Trappa e l'elzeviro sul Martyr de Saint Sébastien di G. D'Annunzio, di cui era pubblicato uno stralcio a fianco della recensione a Gli imperdonabili, Adelphi, Milano 1987. 59. Un'edizione abbastanza recente dell' Opera chimica di Bernardo Trevisano è pubblicata a Parigi da Guy Trédaniel, Editions de la Maisnie, 1976. Minute notizie su Bernardo, qui semplificate allo stremo, erano fornite dal compianto amico Paolo Lucarelli, l'alchimista e storico dell'alchimia improvvisamente deceduto nel 2005. 60. Il sincretismofiorentinodel Quattrocento, il saggio pubblicato su «Nuova Antologia», n. 2188, ottobre-dicembre 1993, è uno dei testi fondamentali per accostare la dimensione sincretista e metafisica del pensiero di EZ. 61. A René Guénon era dedicato Benvenuti nell'arca dell'inconscio, l'ultimo articolo di Zolla pubblicato sul Domenicale de «Il Sole 24 ore» il 2 giugno 2002 nella stessa pagina in cui era annunciata la morte dello scrittore e ne scriveva, brevemente, Giulio Busi.

62. Le potenze dell'anima, Bompiani, Milano 1968, p. 53. 63. Si veda Nota 3 relativa al capitolo 2. 64. Si veda Nota 2 relativa al capitolo 2. 65. I due maggiori progetti di ricerca nei quali, come a Genova, Zolla coinvolse un gruppo di giovani studiosi attivi presso la sua cattedra dal 1975, furono un'enciclopedia sulla letteratura del Novecento Americano: I Contemporanei, 3 voli., Lucarini, Roma 1981 -1983, e una vasta ricerca di taglio comparativo sul tema: L'esotismo nella letteratura angloamericana, di cui l'editore Lucarini a Roma pubblicò tre volumi ( 1981 -1982) e Liguori a Napoli il quarto, nel 1987. 66. Dalla Prefazione, pp. 9 s. della ristampa Marsilio, Venezia 2005. 67. P. Florenskij, La colonna e ilfondamentodella verità, II Lettera: Il dubbio, trad. it, Rusconi, Milano 1974. 68. Il passo ricorre alla p. 21 (Adelphi 2002). Nel 1998, la prima ristampa Adelphi sollecitava Umberto Galimberti a riflettere negativamente sulla sua utilità in La tradizione inutile di Elémire Zolla, «La Repubblica», 26 marzo 1986. A proposito della metafora dell'uomo-carpa il filosofo scriveva: «[...] La storia non è una faccenda di carpe, è una faccenda di uomini. Gliela vogliamo lasciare agli uomini la storia invece che alla "pietra posata al centro dello specchio d'acqua" intorno a cui girano le carpe?». E proseguiva sostenendo che se oggi la civiltà della critica «pare estinta», ciò non è accaduto «per merito della Tradizione e neppure per colpa degli intellettuali, ma perché nella storia prepotente si è affacciato quello che Emanuele Severino chiama "il convitato di pietra", che non è la pietra intorno a cui girano le carpe, ma la tecnica [...]». «Ripubblicare nel 1998 Che cos'è La tradizione— concludeva il professor Galimberti significa allora rieditare un libro non solo inutile per le ragioni che abbiamo cercato di esporre, ma un libro che non coglie neppure lontanamente nel segno il senso del nostro tempo che è sempre meno tempo dell'uomo.» Sarebbe fàcile replicare, utilizzando gli stessi argomenti del recensore, che la metafora della carpa si addice proprio a illustrare il caso dell'attrazione irresistibile dell'uomo novecentesco per il «convitato di pietra»: la tecnica; e quanto al concetto di «uomo», anche senza spingersi a definirlo alla maniera di EZ (si veda la voce nel Lessico zolliano), esso si prospetta assai meno granitico di quanto Galimberti sembra dare per scontato, se non «prematuro» addirittura! 69. Lafilosofiaperenne, Mondadori, Milano 1999, p. 10. 70. Il sincretismo è ripubblicato nel volume E. Zolla, Conoscenza religiosa. Scritti 1969-1983, cit. Sullo stesso tema si veda il primo capitolo di Verità segrete esposte in evidenza, cit.

71. Gli antichi testi delle mitologie e cosmogonie islandesi e norvegesi.

72.

Verità segrete esposte in evidenza, nel capitolo Esoterismo efede a p. 154 della ristampa Marsilio 2003. 73. Si veda G. Marchiani», a cura di, La religione della terra, Introduzione, Red, Como 1991. 74. E. Lombardo, Elémire Zolla e la fuga perfetta, «La Nuova critica», I-II, 1972. 75. Introduzione a W. I. Thompson, All'orlo della storia, trad. it., Rusconi, Milano 1972. 76. Noi stregatiper sempre dall'incubo ¿#Moby Dick, «Corriere della Sera», 27 settembre 1991. 77. Uscite dal mondo, Adelphi, Milano 1992, sezione Dalla Russia. 78. Ore elette, «Corriere della Sera», 29 novembre 1975. 79. Dai Taccuini di viaggio: Iran, 1976. Il passo è tratto dal secondo brano citato in In Iran tra isufi (Nuove terre cieli nuovi, Parte seconda).

4. Esodi

1. La linguistica e il sacro, fascicolo speciale, «Conoscenza religiosa», n. 1-2,

1972. Disponibile in E. Zolla, Conoscenza religiosa. Scritti 1969-1983, cit. Gli esiti della ricerca sulla linguistica e il sacro erano illustrati altresì ne II sacro e il linguaggio, «Incontri culturali», Roma, n. 17,1972. 2. La prima versione di Le rune e lo zodiaco, rielaborata in Uscite dal mondo, uscì in «Conoscenza religiosa», n. 2,1969 e si può ora rileggere in E. Zolla, Conoscenza religiosa. Scritti 1969-1983, cit. La versione inglese, The Runes and the Zodiac era pubblicata in «Sophia Perennis», II, 2, Teheran 1976, Kraus-Nedeln, Liechtenstein, e successivamente in «Celtic Dawn», nn. 3,4,1989, Thame, Oxford. 3. Yoga Upanisad, fascicolo speciale, «Conoscenza religiosa», n. 1, 1973. In E. Zolla, Conoscenza religiosa. Scritti 1969-1983, cit. 4. La biblioteca zolliana a Montepulciano consiste in qualche migliaio di volumi che abbracciano tutti i campi di studio dello scrittore. Vi si scorgono le sue predilezioni per la linguistica, l'etnologia, la mistica, le religioni mondiali: la cristiana e l'ebraica in particolare, le letterature e le filosofie di Oriente e Occidente, l'iconografia artistica e la simbologia, l'esoterismo, l'alchimia, la medicina e la farmacopea tradizionali e un gran numero di trattati di patologia e psichiatria. Rari i pezzi d'antiquariato non rappresentando per lui oggetti da collezione.

5. The Writer and the Shaman. A Morphology of the American Indian

usciva da Harcourt Brace Jovanovich, New York 1973 per la traduzione di R Rosenthal (già autore della versione dell 'Eclissi dell'intellettuale, Funk & Wagnalls, New York 1968). Nel 1974 il Book Review Digest dava conto dell'ingente numero di recensioni tra le quali quella di Vine Deloria Jr. sul «Boston Sunday Herald Advertiser» (2 marzo 1974); di A. H. De Rosier, «Annual of American Academies», luglio 1974; di Guy Davenport nell'opera The Geography of Imagination, 1981; di Peter Nabokov, «New York Review of Books», 27 settembre 1984. Si veda in proposito la voce «Elémire Zolla» a cura di G. Marchianò, in Encyclopedia of Religion, a cura di Lindsay Jones, Macmillan, New York, voi. 14, pp. 9984-9987. 6. Si veda Nota precedente. 7. I. P. Culianu, The Construction of the Other, «History of Religions», vol. 30, n. 3, 1991. Ulteriori osservazioni su I letterati e lo sciamano ricorrono nella recensione di Culianu a Verità segrete esposte in evidenza, «Incognita», vol. 1,2 1990. 8. Per non risalire a quanto se ne scrisse al tempo della prima edizione, basta limitarsi alle riflessioni dell'americanista Fernanda Pivano sulla ristampa dell'opera, Indiani d'America, cultura respinta, «Corriere della Sera», 30 aprile 1989. Esse toccano la condanna di Zolla dell'atteggiamento del Bianco americano verso l'indigeno e l'apologia dell'opera di Castañeda ma non i motivi di fondo che suggerivano a Culianu di vedere giustamente all'opera, nell'approccio di Zolla con la otherness, l'intelletto d'amore. Sull'apertura all'intelletto d'amore il rinvio opportuno è al capitolo omonimo di La nube del telaio, Mondadori, Milano 1996. Più vicino alla chiave interpretativa di Culianu si mostrava Hervé Cavallera nell'articolo su I letterati e lo sciamano, in «Problemi della pedagogia», nn. 4-5,1989. 9. Di questo aspetto del lascito zolliano, oltre a quanto indicato alla Nota 53 relativa al capitolo 3, tratta in esteso Fedora Giordano dell'Università di Torino in: Zolla e gli Indiani d'America, Atti del Convegno Gli orienti del pensiero di Elémire Zolla: 1926-2002, Centro Pannunzio, Torino, 16 novembre 2002, pubblicati in Elémire Zolla dalla morte alla vita, «Viator», cit. Sull'edizione aggiornata de Iletterati e lo sciamano, F. Giordano riferiva in La vittoria dello stregone, «L'informatore librario», n. 3, marzo 1979. 10. Vale la pena di citare: Arte popolare, uscito in «Itinerari», Genova, n. 13, giugno 1955, dove sono prefigurati alcuni temi di fondo dell' Eclissi dell'intellettuale, allora vicino a vedere la luce, e Cantipopolaripiemontesi, in «Letteratura», Roma, n. 29, settembre-ottobre 1957. Nel recensire la

raccolta omonima pubblicata da Einaudi e introdotta da G. Cocchiaia, il giovane Zolla si concedeva sull'indole piemontese annotazioni deliziose. Ad esempio: «La rassegnazione è certamente l'operazione psicologica repressiva fondamentale che sta dietro al cantore popolare piemontese, una rassegnazione cupa, di stampo quasi germanico, che scorge dietro ogni manifestazione di vita l'ombra del patibolo, che vive sotto l'incubo dellagiustissia [...]. Un popolo sempre oppresso dalle guerre, dalla coscrizione, non sa incantarsi allo spettacolo della vita, e i suoi radi incanti subiscono una deformazione, saranno sentimentalistici (così tutta contaminata da un senso di doveroso vincolo coniugale, non disperata veramente, ma lacrimosa è la chiusa della Bela Cecilia che datasi invano al capitano per salvare il marito condannato, rifiuta l'offerta di matrimonio del boja d'Imi mari)». E più oltre: «Nelle lezioni piemontesi è insistita la scena quasi gioiosa della fucilazione ed è aggiunto il tratto cannibalico che anche in altri canti militari si fa sentire [...]: l'assurdità di una condizione disumana viene vinta regredendo alle immagini antichissime dei sacrifìci cannibalici che davano un valore sovrannaturale all'olocausto [...]». «La fantasia piemontese quando s'accende» si legge poco dopo «non ha limiti di verosimiglianza (basti pensare al più popolare romanzo dell'Ottocento piemontese, Don Pipita l'asilé, che s'impernia su questa folle trovata: l'osteria di don Pipéta viene chiusa perché vi si tengono discorsi poco devoti; don Pipéta torna dopo anni e anni dalla Francia, e intanto nella sua bottega il vino è diventato aceto, sicché egli si mette a far l'acetaio).» E conclude: «Quando il Piemonte fu investito dai lumi, non a caso la sua più lucida mente, il conte Radicati di Passerano ne fu. abbacinato e nell'esilio londinese scrisse la Philosophical Dissertation upon Death, dove conduceva la sua critica liberatrice addirittura all'esaltazione del suicidio; lumeggiava il cuore segreto del suo popolo». 11. Il calumet, «Il Giornale d'Italia», 18 aprile 1966. Il passo di Benjamin Franklin è tratto dall'opera di F. Schuon Hehaka Sapa (Payot, Paris 1954) alla quale Trevisano rinvia. 12. Parenti ai tropici, «Corriere della Sera», 29 marzo 1970. 13. Il testo fondamentale sulla cosmogonia dogon di M. Griaule è Dio d'acqua, uscito a Parigi nel 1966, capofila delle ricerche sul campo di G. Dieterlen, G. Calame-Griaule e altri africanisti della scuola griauliana. Fu tradotto da Garzanti nel 1972. Su «Conoscenza religiosa», n. 1, 1969 Zolla pubblicava il saggio di Griaule: Conoscenza dell'uomo negro. 1 4 . Parenti ai tropici, cit.

15. Il saggio era pubblicato con lievi modifiche nel capitolo 1 di segrete esposte in evidenza, cit.

Verità

16. Nella corrispondenza intercorsa con Giampiero Comolli: A proposito ¿/'Uscite dal mondo, «Aut Aut», n. 250, luglio-agosto 1992, esaminata più avand nel capitolo La mente naturale. 17. Si veda capitolo 6, paragrafo 3. 5. Esodi nell' altrove: il destino e lo zodiaco

1. Un'altra Persia, «Corriere della Sera», 5 marzo 1975. 2. Salvo casi specificamente indicati, i passi di EZ citati in questo capitolo, attingono al fondo dei taccuini manoscritti dai quali lo scrittore trasse materia per articoli e pubblicazioni. 3. Nota 2 del paragrafo La mediazione deve essere impossibile, p. 55 della riedizione Adelphi 1997, voi. I. 4. Leggi l'anima nel cielo, «Sette», 4 ottobre 1980. Si veda La nube del telaio, Mondadori 1996, capitolo IV. 5. Il cielo scrìtto, «FMR», n. 19,1982.

6. Introduzione a G. Maria Sesti, Le dimore del cielo. Archeologia e mito delle costellazioni, Novecento, Palermo 1987. 7. Cercare il cielo, Allemandi, Torino 1994. Testi di P. L. Bassignana, C. Frugoni, Plinio, G. Ravasi, E. Zolla. 8. Leggi l'anima nel cielo, cit.

9. Mitobiografia, a cura di H. Erba-Tissot (trad. it., Adelphi, Milano 1969), ricostruisce l'opera clinica di E. Bernhard attraverso i quaderni e gli appunti da lui dettati ad amici e allievi. 10. Terapia perpsiche, «Corriere della Sera», 5 novembre 1969. 11. Tarocchi, specchio magico del mondo, «Corriere della Sera», s.d. 12. Il destino e lafortuna, «Gazzetta del Popolo», 27 marzo 1962. 13. Ibidem.

14. Melville e l'abbandono dello zodiaco, in Scritti zodiacali, Parte seconda. 15. In «Il Dramma», 9 settembre 1970. 16. Dai Taccuini preparatori ad Archetipi, trad. it., Marsilio, Venezia 1988. 1 7 . Leggi l'anima nel cielo, cit.

18. Introduzione a G. M. Sesti, Le dimore del cielo, cit. 19. Dai Taccuini.

20. L'attenzione di Zolla all'opera di Marius Schneider (1903-1982) è stata ininterrotta e colma di frutti. Nel recensire sul «Corriere della Sera» (23 agosto 1976) Pietre che cantano (trad. it., Arché, 1976), un testo fondamentale accanto a II significato della musica (Rusconi 1970), che Zolla introdusse e in parte tradusse sotto lo pseudonimo di Bernardo Trevisano, lo scrittore affermava: «Rari sono i libri che possono cambiare la vita di chi li legge, questo è uno di essi. Chi sappia cavarne tutte le deduzioni, vede in modo nuovo la storia, ascolta altrimenti i suoni della natura e la musica, guarda diversamente le cose. Intanto le guarda con l'orecchio: impara a coglierne il ritmo, la vibrazione essenziale [...]». Alla morte dell'etnomusicologo tedesco, Zolla accoglieva nel n. 1, 1983 di «Conoscenza religiosa» limito del mondo primordiale e l'armonia delle sfere, ultimo dellafittaserie di saggi ospitati sulla rivista dai primi anni Settanta. Il loro elenco è negli Indici a cura di M. Canale di E. Zolla, Conoscenza religiosa. Scritti 1969-1983, cit. Gli studi di Schneider sulle ninnenanne iberiche risalgono al periodo delle ricerche folkloriche in Spagna negli anni Quaranta donde sorti il trattato fondamentale El origen musical de los animales simbolos en la mitologiay la escultura antiguas (tiad. it., Adelphi 1986). 21. Dai Taccuini. 22. Virtù dell'attenzione, «Gazzetta del Popolo», Torino, 20 luglio 1960. 23. Introduzione a Imistici dell'Occidente, cit. 24. Noi stregati per sempre dall'incubo di Moby Dick, cit. 2 5 . Melville e l'abbandono dello zodiaco, cit.

6. L'approdo: i lembi si congiungono 1. L'elisir i n II fenomeno religioso oggi: Tradizione, mutamento, negazione, a

cura di R. Cipriani e G. Mura, Urbaniana University Press, 2002. Anche in «Euntes Docete», LIV/2, nuova serie 2001. 2. Si veda Solo ilpittore vince la morte in Epifanie, Parte seconda. 3. G. Santambrogio, A chi porre le domande ultime, «II Sole 24 ore», Speciale 2000, p. VIII. 4. I premi Città di Roma, Ascoli Piceno, Isola d'Elba e Mircea Eliade alla fine degli anni Ottanta; e con sua sorpresa il titolo di Grande Ufficiale al merito della Repubblica sotto la presidenza di Luigi Scalfaro nel giugno del 1996.

5.

Un anatema che mifa onore, «Corriere della Sera», 30 aprile 1993.

6. Ibidem.

7. Archetypes, Alien & Unwin, London, Harcourt Brace Jovanovich, New York 1981; trad. sp. Monte Avila, Caracas 1983; trad. giapp. Hosei University Press, Tokyo 1985. La Prefazione di Zolla all'edizione giapponese compare nella ristampa Marsilio del 1988. The Androgyne, Thames & Hudson, London 1981, Cross Road, New York 1982; trad. giapp. Heibonsha Publishers, Tokyo 1988; trad. sp. Debate, Madrid 1990. 8. Una recensione di Aure afirmadi Masolino d'Amico, compariva su «The Times Literary Supplement», 13 marzo 1987. Trad. sp. a cura di V. Gomez i Oliver, Paidós, Barcelona 1997. 9. Due capitoli della versione originale inglese sono rispettivamente pubblicati in «New Observations», New York, n. 64, gennaio-febbraio 1989, e in «Seshat», Studies in memory ofElémire Zolla, London, n. 6, Spring 2003. 10. G. Marchianò, Nota al testo, L'amante invisibile, Marsilio, Venezia 2003. 11. In un appunto a mano si legge: «Nella logica indiana l'analogia è esplicita perché essa si propone la liberazione dall'errore teoretico come premessa dell'esperienza metafisica, e in tal caso è piti prossima alla logica stoica che all'aristotelica». 12. Si trattò del primo dottorato in Scienze letterarie (Letterature comparate) avviato in Italia, e Zolla ne fu uno degli ideatori. Tra i giovani addottorati sotto la sua diretta guida si distinsero la sanscritista Vincenzina Mazzarino e la germanista Eleonora La Velia. Le loro memorie sull'insegnamento ricevuto da EZ sono in Elémire Zolla dalla morte alla vita, cit., sezione Testimonianze accanto a quelle di Lidia Valli, laureatasi con Zolla, e dei professori Nuccio d'Anna e Fabrizio Frigerio, che seguirono i corsi diretti da EZ all'Istituto Ticinese di Alti Studi a Lugano (1970-1973). 13. Si veda la mia Introduzione a E. Zolla, Conoscenza religiosa. Scritti 19691983, cit.

14. Si intitola Benvenuti nell'arca dell'inconscio, e Zolla vi recensiva la raccolta di appunti di René Guénon, a cura di A. Grossato, «Il Sole 24 ore», 2 giugno 2002. 15. Brhadàranyakà Upanisad, Seconda lettura, IV, in Upanisad antiche e medie, a cura di P. Filippani-Ronconi, Boringheri, Torino 1960.

16. Lafilosofiaperenne, Mondadori, Milano 1999. 17. Di «Incognita. International Journal for Cognitive Studies in the Humanities», pubblicata da Brill, Leida, uscirono quattro fascicoli: 1, e I, 1 1990, e II, 1 e II, 2, 1991, prima dell'assassinio del professor Culianu all'Università di Chicago il 21 maggio 1991. Tra i membri del Comitato d'onore della rivista accanto a Elémire Zolla, Moshe Idei, Edgar Morin, Alien G. Debus, Jacques Le Goff, Michel Meslin e tra i membri del Comitato scientifico di cui mi onoro di aver fatto parte, Lawrence E. Sullivan, Gherardo Gnoli, Elizabeth Fox Genovese e Ithamar Grunewald. 18. Si rinvia a Eros e magia nel Rinascimento, l'opera che usciva in italiano nel 1987 con una prefazione di Mircea Eliade (Il Saggiatore, Milano). Tra gli specialisti in Italia dell'opera di Culianu si annovera Roberta Moretti alla quale si devono indagini che inquadrano le concezioni sul mito e la storia dello studioso rumeno e la sua produzione narrativa. Si veda R Moretti, I. P. Culianu e il «Linguaggio della creazione», «Viator», anno VII, 2003; La conferenza di Assisi su Mircea Eliade, Progetto editoriale sulla vita e l'opera dil. P, Culianu, «Viator», anno Vili, 2004; e il saggio I. P. Culianu storico delle idee: esempi di metodologia ermeneutica i n Religion, Fiction, and History: Essays in Memory ofIoan Petru Culianu, voli. 2, Nemira, Bucarest 2001, l'opera a cura dello storico rumeno Sorin Antohi che contiene un rendiconto mondiale di culianistica con i contributi degli italiani Casadio, Eco, Filoramo, Marchiani) e Zolla. 19. Storia dell'eternità'm]. L. Borges, Tutte le opere, a cura di D. Porzio, voi. I, Mondadori, Milano 1984. 20.1. P. Culianu, Iter in silvis. Saggi sulla gnosi e altri studi, acura di G. Sfameni Gasparro, Edizioni Sfameni, Messina 1981. 21. R Pierantoni, Fermate il mondo, voglio scendere, «Leggere», n. 64, ottobre 1994. Nel prendere di mira l'opera zolliana Lo stupore infantile, uscita da Adelphi quell'anno, ilfisiologosi produce in una beffarda filippica contro lo scrittore, colma di facezie e di scoperti attacchi perfino alla sua attendibilità di studioso. 22. Nel corso di una conversazione con Giorgio Israel su mito e razionalità, a cura di G. Lelli sulla rivista «Prometeo». 2 3 . I n Fanciulli della mente: l'avvenire dell'intelligenza robotica e umana,

Harvard University Press 1991. Lo scienziato era allora responsabile del Mobile Robot Laboratory della Carnegie Mellon University, USA.

2 4 . Uscite dal mondo, cit.

25. Nell'articolo Come si fabbrica una mente eroica: Amosov, Aristotele e i cervelli artificiali {«Corriere della Sera», 30 ottobre 1979), EZ rifletteva sugli orizzonti dischiusi dalla robotica in anni ancora lontani dalle diatribe sulla realtà virtuale. 26. Il riferimento è al progetto di ricerca diretto da Zolla all'Università di Genova (si veda la Nota 53 relativa al capitolo 3). Sull'opera in sei volumi riferiva Claudio Gorlier in II superuomo non ha tempo, y. il cristiano deve saper congiungere la tristezza per il peccato con una gioia serenissima, stato troppo complesso perché venga afferrato dalla turba carnevalesca. Non a caso nella III domenica di Quadragesima si legge l'epistola paolina dove si raccomanda di evitare la turpitudine, il vaniloquio, la scurrilità, sostituendole piuttosto con la resa di grazie. È questo uno dei punti dove il divario tra i riti cristiani e pagani sopravviventi è irrimediabile, e per le coscienze più rozze anche in tempi del tutto cristiani il segno dei Pesci non è stato mai vissuto secondo lo spirito liturgico, ma soltanto secondo quello pagano. L'unico nesso fra le due religioni è materiale: la Quaresima coincide con il sacrificio del re per burla o dell'orso o orco o della vecchia o orca (nel folklore italiano si parla di «segare la vecchia») degli antichi, che era anch'esso luttuoso. Ma per i pagani, almeno per i degenerati fra loro, si trattava di affliggersi dopo aver festeggiato in modo scurrile; un puro contraccolpo psichico.

Gli articoli sul Toro, il Cancro, la Vergine, lo Scorpione, il Capricorno e i Pesci, afirmadell'eteronimo Bernardo Trevisano, uscirono su «Il Giornale d'Italia» nel corso del 1966 nelle seguenti date: 22-23 aprile, 22 giugno, 15-16 settembre, 27-28 settembre, 19-20 gennaio e 18-19 febbraio.

Melville e l'abbandono dello zodiaco Sappi, Qualsiasi cosa avvenga; Si confermerà ancora La caduta d'Adamo. Un seguito Ci sarà, che ora si vede in germe. Miriadi in ruoli di pigmei, Abbassati all'uguaglianza; Nel compiacimento delle arti materiali Può esserci una civica barbarie; L'uomo fatto ignobile, brutale Dalla scienza popolare, ateo Perché approssimativo [...] H. Melville, Clarel-Bethlehem Diversissime, salvo all'aspetto, la poetica dei romantici e la poetica dell'associazione mitica di Melville. La prima fu propriamente edonistica, degustava il sogno come evasione dal reale, come isola tutelata, intérieur dentro all' intérieur borghese, fine a se stessa; l'associazione mitica di Melville è un modo di conoscenza. È una rèverie romantica il passo della Berenice di Poe dove il protagonista si perde nella contemplazione stuporosa: «Meditare per lunghe ore con attenzione concentrata intorno a qualche puerile artificio del margine o della composizione tipografica d'un libro; restare interamente assorto, la maggior parte del giorno, su un'ombra bizzarra obliquamente proiettata su damaschi polverosi, su un pavimento tarlato; perdermi per un'intera notte a fissare la fiamma palpitante di una lampada o le braci rosseggiami del camino; ripetere con monotonia qualche banale parola, ripeterla tanto e tanto che il suono finisce col non avere significato; perdere ogni sentimento di moto e di esistenza in un vuoto assoluto, ostinatamente protratto». Si ponga a confronto la meditazione di Melville sopra un esemplare di teratologia del gabinetto di curiosità del dottor Cutycle in White Jacket.

Era la testa d'una donna matura, dall'aria singolarmente dolce e docile, ma piena d'un dolore divorante, inappagabile. Si sarebbe detto il volto di qualche badessa volontariamente separata, per un delitto inconfessabile, dalla società umana, che facesse una vita torturata di penitenza senza speranza, tanto la testa era meravigliosamente triste e pietosa, da far piangere. Ma al primo sguardo non erano tali emozioni ad affiorare. L'occhio e l'anima atterriti erano inchiodati, affascinati, agghiacciati dalla vista di un orrido corno, rugoso come quello d'un ariete che dalla fronte gettava ombra sul viso. Poi, continuando a guardare, la fascinazione agghiacciata da tale orrore s'attenuava a poco a poco, il cuore si fendeva per la tristezza nel contemplare quei tratti invecchiati, d'un pallore livido e cenerognolo. Il corno pareva il segno d'una maledizione abbattutasi su qualche peccato misterioso, concepito e commesso prima che lo spirito fosse entrato nella carne. Il peccato pareva imposto e non volontariamente cercato, prodotto di necessità impietose della predestinazione; piegava il peccatore sotto il peso d'una disgrazia senza peccato. Melville coglie allo stato nascente i sentimenti che scaturiscono dalla contemplazione e lasciandoli apparire nella loro nudità ne decifra il significato simbolico: la disgrazia senza peccato che si lega però nella sua essenza oscura all'idea di peccato. A Poe basta che la contemplazione lo distragga, essa ha i caratteri del vizio. Poefìssalo sguardo per assopirsi deliziato, Melville per conoscere. A Poe erano consentanei e diletti Tennyson, Longfellow, Béranger, egli amò il cantilenato e l'orecchiabile; Melville amò la prosodia irta e il recitativo. A Poe sarà consentanea la paura, a Melville il tremore. La poesia dev'essere un sogno airy andfairy-like per Poe; per Melville il sogno rivela forme fluttuanti che prima bisogna osservare passivamente per poi gettare l'arpione su quella che simboleggia la realtà, come è detto in Mardr.

Sogni! Sogni! Sogni dorati; interminabili e dorati, come le fiorite praterie che si estendono dal rio Sacramento nelle cui acque fu tessuta la doccia di Danae, praterie come circolari eternità foglie di

giunchiglia spezzate; e i miei sogni sono simili ai mufloni, che pascolano all'orizzonte, e per tutto il mondo; e tra loro irrompo con la mia lancia, per trafiggerne uno prima che tutti si perdano in fuga. I sogni si stendono come Ande e Alpi e oceani, per Sicilie assolate e Antartici diacci, «ma sotto di me, all'Equatore, la terra palpita e pulsa come un cuore di guerriero; finché non so più se sia io stesso. E la mia anima sprofonda negli abissi e saetta verso i cieli [...] Come una fregata sono pieno di mille anime [...] SI molte anime sono dentro di me. Nelle mie bonacce tropicali quando la mia nave giace trasognata sulla riva dell'eternità, parlano ad una ad una poi tutte insieme». Cosi il ritrarsi nel sogno è un ritrovare il mondo dentro di sé; e ci si cala in sé per «creare il creativo» come Melville scriverà, sempre in un altro punto di Mardi (dove sotto il nome di Lombardo s'intende Shakespeare):

Quando il gran Lombardo si dispose alla sua opera, non sapeva che cosa ne sarebbe venuto. Non si costruiva secondo piani; continuava a scrivere e cosi facendo arrivò sempre più in fondo a se stesso, come un risoluto viaggiatore che si addentra per foreste ingannevoli, infine compensato delle sue fatiche. «A suo tempo» scrisse nella sua biografia: «uscii in spaziosa, serena, aprica regione di profumi dolci, uccelli cinguettanti, piante selvagge, risate canagliesche, voci profetiche. Eccomi infine arrivato» gridai, «Ho creato il creativo» [...] e aveva accanto a sé il suo lembo di vello. II vellum Gedeonu, l'elisir di vita, cioè la creatività, la felicità: si attingono dopo un viaggio rituale, dopo il difficilis transitus. Quali le condizioni? L'abbandono anzitutto; ma l'abbandono non basta, se ci si ferma a questo punto si è nella sterile fantasticheria, nell'accumulo di frantumi, nella concentrazione maniaca e compiaciuta di Poe. Si deve lasciar campo alle associazioni di immagini e di idee, ma a patto di riconoscere in esse il simbolo vi-

tale (bisogna precipitarsi nella mandria con la lancia in pugno e trafiggere uno dei mufloni prima che la visione scompaia). Lo strumento per farlo sarà l'analogia che congiunge ordini di fatti diversi, apparenze sensibili e verità ideali. A questo punto non si è più se stessi, persone singole, ma un coro di voci: la molteplicità dell'universo riaffiora dentro di noi. Questo non è più un gusto del fantastico, dell'aereo, del sognante, sibbene una ricerca delle analogie che conduce alla radice della creatività. Guai però a compiere l'operazione con animo impuro, cioè volendone trarre una consolazione. È questa impurità che Melville rimprovera al trascendentalismo emersoniano, che pure voleva scovare in ogni tratto del reale un'analogia che consentisse di trascenderlo. Perciò si irrita a affermazioni consolatorie come questa del saggio di Emerson, The Poet: «Usiamo i difetti e le deformazioni per un sacro fine, cosi esprimendo la nozione che i mali del mondo sono tali soltanto per 1'"occhio maligno", e replica (nelle note marginalia)-. "Che cosa intende quest'uomo? Se il signor Emerson viaggiando in Egitto vedesse affiorare su di sé i segni della peste - lo considererebbe una vista maligna o no? E se maligna, sarebbe il suo occhio malvagio perché la vede maligna, o piuttosto, sarebbe maligno il suo sentimento che usa l'occhio?"». La volontà di trovare consolazione e di ricevere edificazione, è contraria alla premessa dell'abbandono. La conoscenza per miti non si ottiene facendo intervenire la volontà di trasfigurare. Le analogie peraltro non sono arbitrarie, poiché una tradizione mitologica già le porge al contemplatore. Cosi avviene per ogni contemplazione, che certe immagini religiose mitiche trasmesse dalla tradizione riaffiorino involontariamente. Ad un uomo «marino», cioè sciolto dalla tradizione della sua terra questo equivarrà a lasciar giocare tutte le tradizioni mitiche d'ogni tempo e popolo. Già i trascendentalisti usarono dei miti indù e il Gòrres fra i romantici tedeschi mirava a creare una sorta di pantheon che comprendesse tutti i miti della terra. Eclettica sovrapposizione? No, purché si tenga fermo il principio dell'abbandono: i miti riaffioreranno inevitabilmente, mai si dovranno giustapporre per intellettuale volontà di conciliazione [...].

***

«Non permettere che alcun fatto resti tale» è il preceno segreto di Melville e se in Carlyle e nella poetica dei metafisici o nelle consuetudini dei predicatori puritani che sollecitavano (con Jonathan Edwards) a scorgere negli accadimenti images ofshadows of divine things (ancorché la logica puritana ritenesse di credere alla natura meramente ornamentale dei simboli), si hanno dei paralleli, tuttavia il bisogno di trasformare in una continua estasi generatrice di visioni e di associazioni simboliche le realtà visibili, scaturisce autoctono dall'animo naturalmente religioso di Melville. Religioso in senso proprio s'intende chi ha subito la morte e ha avuto il dono della rinascita, chi è risuscitato da visioni e patimenti infernali: l'oltraggio smisurato della vita a bordo d'una nave è una scaturigine di pensieri simbolici, poiché non l'orgoglio, non la volontà di vivere, non la capacità di naturale oblio bastano a fornire la forza necessaria per patire una tale crocifissione. Valgano le parole d'un monaco della Tebaide, l'abate Evagrio nella sua operetta Su vani pensieri maligni raccolta nella Philokalia-. «Attraverso lunghe osservazioni abbiamo scoperto che la differenza tra i pensieri che sono degli angeli e quelli degli uomini e quelli ancora che vengono dai dèmoni sono come segue: quelli degli angeli procurano di scoprire la natura delle cose e il loro significato spirituale, ad esempio, a qual fine l'oro fu creato e perché sta sparso come sabbia nelle valli della terra e 11 scoperto con grande fatica e sforzo? Come mai quando è scoperto viene lavato nell'acqua, messo nel fuoco e poi giunge nelle mani degli artisti che ne foggiano per la casa di Dio un candelabro, un incensiere, vasi dai quali per grazia di Dio non beve più il re di Babilonia, ma nei quali un Cleofa reca un cuore bruciante per tali misteri (Luca XXTV, 32). Il pensiero dei dèmoni questo non conosce né comprende, ma svergognatamente suggerisce soltanto l'acquisto dell'oro materiale predicendo il piacere e la gloria che se ne trarranno. Quanto al pensiero umano esso non procura di possedere né è curioso di sapere che cosa simboleggi l'oro ma introduce nella mente una nuda immagine dell'oro, senza passione o cupi-

digia. Se un uomo esercita la mente in conformità con questo esempio, scoprirà che lo stesso ragionamento vale per altri oggetti».

II Ethdlassa tès ghenéseos sjmbolon. Il primo capitolo di Moby Dick comincia con una dichiarazione non umana, ma angelica. Cali me Ishmael: chiamami Ismaele, non già mi chiamo Ismaele. Non ha importanza il nome del protagonista-narratore, ma ciò che egli simboleggia. Ismaele è l'uomo che si sa dotato di una superiorità non riconosciuta dal mondo: il primogenito di Abramo è un bastardo cacciato nel deserto, fra altri reietti; là impara a sopravvivere a questa morte, in perfetta solitudine, indurito contro le avversità. L'Ismaele di Melville decide di imbarcarsi, ha poco denaro e nulla che lo trattenga a terra. È in uno stato di irritazione e inquietudine; la noia è un sintomo di squilibrio e di pietrificazione delle passioni, un corteggiamento della morte, talché l'accidia e l'ira sono unite nell'animo di Ismaele come nella stessa palude Stigia gli accidiosi sono arruffati e gli iracondi dritti in piedi con sembiante offeso. Nell'accidia il sole par fermo, le fonti vive dell'animo sono seccate. Bisogna affondare nell'acqua per rialzarsene. Drìving off spleen, regulating circulation è il proposito di Ismaele. I pretesti per la partenza, povertà e mancanza di amici, sono occasioni e non cause, per chi non si voglia puro meccanismo. Che cosa è soggettivamente il destino oggettivo della povertà? Un fermo tedio che chiede la morte. Tedio espresso da «una piega amara della bocca» e da «un novembre nell'anima», umido e piovigginoso. La pioggia è simbolo dantesco di peccato, di contrappasso per il peccato, cioè per l'intoppo, la mancanza di fede. Imbarcarsi: my substitute for pistol and ball, un suicidio dissimulato, una morte rituale [...]. L'acqua attira: se si percorre un viottolo in campagna menerà di certo ad una polla o a un ruscello, un uomo è tratto come da un

magnete verso le acque, poiché l'acqua e la meditazione sono sposate per sempre. E un pittore che cosa rappresenterà in un paesaggio arcadico? Un ruscello che incatena gli occhi del pastore. E perché il mare era sacro ai Persiani, perché Nettuno era fratello di Giove, perché Narciso, non potendo appagarsi della vista blanda e tormentosa di se stesso nell'acqua, ci si gettò? Nelle acque dei mari noi cerchiamo quell'immagine. Ismaele s'imbarcherà come marinaio e non come passeggero. Non perché ami la fatica, anzi tiene in abominio tutti i «lavori rispettabili». Non ne farebbe alcuno: al più potrebbe fare il cuoco di bordo. Melville non lascia allo stato naturale, immediato l'immagine del cuoco, ma la media e interpreta. Non piace cucinare la selvaggina, ma l'atto si può osare grazie al rispetto e alla riverenza che lo mediano: gli Egizi, attraverso le loro meditazioni sulla selvaggina cucinata, giunsero a costruire quegli enormi forni che sono le piramidi. Luoghi di morte e rinascita, simili a montagne. Così Ismaele accetta il decreto del fato che lo manda su una baleniera, illudendosi di voler cercare magari la balena. Decreto insensato? Egli è assegnato ad una parte tragica: all'esercizio di stoicismo necessario per sopportare la schiavitù, gli ordini degli ufficiali, l'indegnità di ricevere pagamento per la sua fatica. Quale il disegno del destino? [...]. All'inizio di un mutamento dell'anima, osserva Jung, appaiono sogni e segni di animali: serpe, uccello, cavallo, lupo, leone, drago. In un secondo momento a queste immagini degli istinti che si debbono affrontare succede una serie diversa: cella, incavo, profondità di acque, mare. A questi seguiranno fuoco, armi, strumenti, a significare che si sta operando la trasformazione. Il momento cruciale evocherà nel sogno, e nella realtà significante, i simboli dell'ermafrodito, del transito periglioso, della sospensione, dell'aleggiare o nuotare, dell'albero che connette cielo e terra. La rinascita ed il nuovo equilibrio meridiano saranno indicati da circoli, quadrati, fiori, ruote, soli o, nelle forme negative, da reti e carceri. Siamo subito, ad apertura del Moby Dick, nella cerchia dei simboli del secondo momento [...].

L'acqua che cinge l'universo, l'Oceano, è un circolo, simbolo dell'eternità che è fruizione immediata di cose infinite, stato divino (Borges ricorda che è la lettera prima dell'alfabeto ebraico, Yalef, radice, fonte d'ogni cosa, cioè esistenza per la quale vale il principio che regola i numeri transfiniti: il tutto non è maggiore di ciascuna delle parti) [...]. L'acqua che può zampillarci dentro è un'immagine di libertà, di felicità. Ma può anche essere simbolo di angoscia poiché ogni simbolo è bifronte. L'uomo che si è chiuso nella sua volontà tenendo a bada come bestie pericolose i suoi istinti, sentirà l'urgere delle acque interiori come una minaccia [...].

Ili Il secondo capitolo del Moby Dick trasporta dal «novembre nell'anima» al dicembre che segna la partenza da terra, dal mese dei moni al mese della rinascita. Qui non domina l'immagine dell'acqua ma quella del vento che è tanto la «prova dell'aria» dopo la «prova dell'acqua» quanto un'immagine di critica sociale, come sarà nella poesia di Bertolt Brecht: «Di queste città resterà solo chi le attraversa ora, il vento! La casa colui che banchetta fa beato: ché egli la vuota». La città di mare dove giunge Ismaele è ventosa e nera come sarà la Londra descritta in Israel Potter, città di Dite, pullulìo di fiammelle agitate nell'oscurità. Spira un vento gelido nella città dove Lazzaro trema di freddo e vorrebbe le fiamme dell'inferno piuttosto di sentirsi inazzurrare le mani al vento gelido [...]. Ismaele cerca ospitalità alla Locanda dello Sfiatatoio e all'entrata ravvisa un quadro indecifrabile, dipinto forse da qualche pittore del tempo della persecuzione delle streghe che si fosse proposto di delineare il caos. Massa nera schiumosa, lievito e melma: forse the hreaking up ofthe iceboundstream of Time. Ancor qui un oggetto, il quadro astratto. Bisogna interpretarlo abbandonandosi alle associazioni: caos primigenio, poltiglia, massa nerastra. Non basta, si deve «fare un involontario giuramento in sé di scoprirne il significato». Seguono altre associa-

zioni: il mare sconvolto dall'uragano, la lotta dei quattro elementi. Ed ecco l'illuminazione: il fiume del tempo congelato che si rompe. Immagine di affrancamento: «Una volta che questo si scopre, il resto è chiaro»; è il padre-leviatano stesso che cozza contro una nave. Liberazione è distruzione, si rischia di morire al momento della rivelazione. Infatti chi, leggendo le parole, poniamo, di Pierre de Caussade, non s'allarma? Affidarsi allo spirito che «spira dove vuole e non sai dove vada né di dove venga?». Senza leggi, senza certezze? E se il Dio tradisce, se ci si trova nel male? Se il padre in noi non è conciliato con noi? L'acqua di vita si scioglie dalla presa del ghiaccio e appaiono le immagini di strumenti, s'è visto, segno di passaggio ad una fase ulteriore; la locanda dello sfiatatoio ha una collezione di arpioni, di mazze e lance. Per dormire nella taverna Ismaele dovrà acconciarsi ad un compagno di letto, dopo il vento glaciale troverà ristoro e tepore ma a una condizione che gli ripugna, poiché detesta non poter dormire nella sua pelle. Ismaele dovrà dormire con il selvaggio Quiqueg, che adora un idoletto grottesco in forma di feto. Dovrà subirne l'abbraccio quasi maritale. Ricorda che da bambino veniva confinato a letto per punizione (solitudine imposta dalla madre) e che una volta dovette aspettare parecchio per risorgere e gli parve che una mano si posasse sulla sua sopra la coperta, infondendogli terrore. Cosi il braccio di Quiqueg lo cingerà: la mano sovrannaturale dell'infanzia, il braccio innaturale della prova iniziatica si fondono. Dopo gli strumenti appare l'ermafrodito, segno della terza fase. Ismaele e Quiqueg formano una coppia, innaturale; sono elementi diversi: il nero e il bianco, il selvaggio e il civile, l'inconscio ed il conscio. Quanto sia palese l'accenno all'innaturalità della situazione è superfluo dire (Ismaele ricorda le sculacciate dell'infanzia, Quiqueg reca un arpione) [...]. Per Ismaele il passaggio alla vita vivente, alla liberazione è facilitato dalla sua capacità di affrontare il suo inconscio, pur fra i mille

terrori che questo comporta. Egli deve conciliarsi con ciò che si nasconde in lui, con la sua infanzia; con la mano spettrale che s'immaginò di sentire posata sulla sua un giorno dell'infanzia, a profondità terrificanti della sua memoria. Egli dovrà conciliarsi con ciò che lo sgomenta, lo atterrisce, lo disgusta e che pertanto mostra di essere parte di lui da lui ricacciata e osteggiata, dovrà, dinanzi ad essa, evitare di darsi sentimento di sorta. [...] Vincere la paura non significa solo affrontare l'ignoto, abbandonare la città, ma anche smantellare le difese interiori, le corazze che si sono indossate a difesa del mondo, sciogliersi dalla paralisi e dai gesti di allarme. Allora crollano le paure del nuovo e dello strano e dello straniero, si ravvisa proprio in ciò che ha ripugnato ciò che attrae. Si è liberi di «accordarsi ai magneti», si è acquistata la virtù dell'abbandono; le acque del tempo sono state sciolte, il gelo è stato vinto dal fuoco [...]. La prima tappa dell'iniziazione di Ismaele è compiuta, egli si è sciolto dalla noia, dalla paura, dal risentimento e dal rispetto sociale, ha vinto le anchilosi e le coazioni, ha inserito nel suo cielo mitico anche i miti di Quiqueg (l'idolo, gli usi delle isole del Sud)

IV A preparare Ismaele e il lettore a questo disgelo del fiume del tempo c'era stato un intermezzo: la predica di padre Mapple nella cappella dei balenieri, il sermone sul Libro di Giona. Dapprima il pastore aveva fornito una spiegazione devozionale comune: Giona non aveva, per ubbidire a Dio, disubbidito a se stesso. Poi aveva dischiuso il significato riposto del mito: rifiutarsi di predicare a Ninive e cercar l'imbarco per Tarsis significa non aver capito la virtù dell'abbandono e del rifiuto d'ogni consolazione: «Guai a colui che tenta di versar olio sulle acque quando Dio le fermenta in burrasca! Guai a colui che tenta di piacere invece di atterrire! Guai a colui che in questo mondo non corteggia il diso-

nord». Nel poema Clarel il canto di Sodoma riproporrà questa idea del male: Sodoma è inghiottita nella terra oggi mefitica perché in essa vissero peccatori, ma la loro colpa «non fu tutta carnale» [...]. Mansuetudine e tremore nel cuore ci vuole per affrontare il rischio di vivere secondo l'ispirazione, cioè disponendosi a rispettare i segni di Dio che il destino offra, a essere abbeverati dalle acque di vita. Questo l'insegnamento che Ismaele riceve a terra, sicché quando s'imbarca per la crociera gli sarà agevole comprendere (capitolo XXIII) che «nel porto c'è sicurezza, comodità, focolare, cena, coperte calde, amici, tutto quanto è caro al nostro stato mortale. Ma in quel vento di burrasca, il porto, la terra, sono il pericolo più crudele per la nave [...] che precipita per amor della salvezza perdutamente nel pericolo: il suo unico amico è il suo nemico più accanito [...] verità intollerabile [...] che ogni pensare serio e profondo è soltanto l'intrepido sforzo dell'anima per mantenere la libera indipendenza del suo mare mentre i venti selvaggi della terra e del cielo cospirano a gettarla sulla costa servile e traditrice. Ma siccome nell'assenza della terra soltanto sta la suprema verità senza rive, infinita come Dio, così meglio è perire in quell'abisso ululante che essere vergognosamente sbattuto sottovento, anche se in ciò fosse la salvezza». I contenuti nuovi che affiorano dall'inconscio sono rischiosi, sono vivi perché ambigui. Ma proprio perché ci si difende da essi, hanno un carattere tremendo e pauroso. Proprio perché non ci si è purificati dalla paura e dalla sua compagna astuzia, dal panico che detta il gesto di offesa e di difesa nonché dall'obbedienza alle norme della comunità proprio perciò il contatto con le acque di vita è fonte di orrore e sgomento. Segue alle due rivelazioni, la verbale e discorsiva di padre Mapple e la reale e tangibile di Quiqueg, un interludio giocoso, che potrebbe apparire insensato. I due compagni dioscuri stanno in una locanda dove si mangia solo pesce, dove tutto è fishy: che significa, proprio del pesce, scivoloso, viscido; dove si mangiano telline, clams, che rendono tutto clammy, appiccicoso, umidiccio.

Tali bisticci insistiti significano che la convivenza con il nobile selvaggio, le esperienze che toccano in virtù dell'abbandono alla propria natura sono tali da far rabbrividire, raccapricciare la sensibilità neurotica. In antico nei riti misterici ampia parte avevano i serpenti sacri, che si dovevano attorcere attorno al neofita: lubrichi animali, pelli viscide e umidicce che si sopportano soltanto quando interiormente ci si sia sciolti dai ribrezzi difensivi, dal panico pauroso. Quando non serpenti, sangue e strida. La scuola della spontaneità, dell'imprevedibilità, della naturalezza, può produrre un uomo capace di pensare untraditionally and independently, «ricevendo tutte le impressioni dolci e selvagge, fresche dal seno virginale, volonteroso e confidente della natura», imparando un linguaggio «ardito, nervoso e alto» [...].

V La nave Pequod sulla quale s'imbarcano i due amici è simbolo della società. La società è rappresentata dalla nave quando se ne vuole indicare il carattere instabile dissestato, sennò sono la città o il giardino a costituirne l'immagine. Ora il Pequod è un'azienda azionaria; coloro che tengono il potere sono pochi (nel caso: Bildad e Peleg), e la loro mente utilitaria ama rivestire di ipocrite ragioni lo spietato sfruttamento. Sono mandatari d'una folla di piccoli risparmiatori e a quelli rispondono della loro amministrazione efferata, fredda, frutto dell'avarizia spinta all'impersonalità. Ma chi dirige l'azienda non risponde al meccanismo dell'avarizia, l'imprenditore e tecnico rappresenta qualcosa di diverso dal capitalista. Colui che comanda il Pequod, la società aziendale e utilitaria, è Ahab. Egli salpa il giorno di Natale, quando le linfe cominciano a risalire i calami delle piante; viene paragonato a Perseo, l'eroe solare per eccellenza, e naviga verso i mari caldi, deciso a circumnavigare il globo, come il sole. È il sole, o l'eroe solare della nuova società. Che cosa lo rode e spinge innanzi? Non il guadagno, non l'avventura per se stessa e nemmeno un impulso mitico. È la ricerca della

balena bianca. Ma che significa? È, la balena, la materia che la baleniera trasforma in merce, ma Ahab ha trasformato la produzione in un fine a sé [...]. Ahab è la produzione fine a se stessa, fatta dio. Egli «fatica inconsciamente» di continuo, anche quando pare riposarsi a fumare la pipa. Non ha bisogno delle istituzioni consuete del rispetto, della fedeltà, delle maniere consacrate (dei residui feudali, familiari non ha infatti strettamente bisogno la società borghese), ma «non trascurava le forme e le usanze essenziali [...]» e «dietro a queste forme si mascherava, adoprandole per altri e più privati fini che non quelli cui esse dovevano in legittimo servire». Ahab inganna con una parvenza di rispetto verso le forme consacrate di vita, come lo Stato borghese. Ahab stringe in suo potere la società soprattutto grazie ai discorsi esaltati e alla distribuzione di liquore. L'artificio del rispetto gerarchico ereditato da altre forme sociali è indispensabile («per questo i veri princìpi dell'impero di Dio sono trattenuti dal prender parte ai comizi elettorali, lasciando i più alti onori agli uomini che si rendono famosi più per la loro infinita inferiorità a quel pugno di uomini scelti dal Divino Inerte, che non per la loro indubbia superiorità al morto livello della massa»). Ahab, ridotto ad un ronzio di meccanismi vitali al servigio della sua ossessione è però anche profondamente ferito. La produzione fine a se stessa è simboleggiata dal suo inguine offeso che non gli impedisce di procreare, dalla ferita per fuoco che lo solca in viso. Eroi claudicanti sono nella mitologia i maestri del fuoco, Odino, Edipo. In genere nella mitologia classica sono gli eroi appartenenti al draconteum genus, che perseguono una saggezza solare ma sono legati ancora alla terra paludosa (e quindi incapaci di camminare scioltamente). Ahab è legato al fuoco, ma non al fuoco come oggetto di contemplazione pura sibbene al fuoco che brucia, al fuoco che incendia. Il fuoco che non dà luce ma arde e consuma è non già Febo ma Fetonte, ed è legato a un'idea del sacrificio cruento e barbarico più che all'idea dell'illuminazione umana e solare [...].

Ahab usa dello stesso intruglio magico dei dittatori: rispetto verso un minimo di consuetudini avite, invito al disprezzo e all'esaltazione fredda mediante discorsi isterici. Il dilemma fra l'odio e la pietà e l'ossequio che infierisce nel cuore di Starbuck è lo stesso che ha dilaniato il cuore dei buoni borghesi europei nelle dittature. L'obbedienza da giocatore o da meccanico di Stubb e Flask è la stessa che ha fatto marciare gli eserciti totalitari. Il rapporto dei capitani d'industria Peleg e Bildad con Ahab (che pare condurre una crociera per loro conto ma in realtà agisce al di fuori del loro calcolo economico) si riproporrà fra gl'industriali e i dittatori. La ciurma cerca tuttavia la festa, che tolga all'obbrobrio quotidiano del lavoro alternato da scoppi di isteria durante le adunate in coperta. Ma come possono conoscere l'abbandono festivo le masse? Melville compone la scena stupenda della notte di baldoria sul castello di prua [...]. Un marinaio francese esorta il mozzo negro idiota, Pip, a suonare il suo tamburello affinché tutti possano ballare. È l'inizio del divertimento dell'èra industriale, macabra finzione di allegria. You havegot to bavefuri whetheryou like it or not. L'idiota rifiuta, ma il marinaio francese imperversa, e a furia di esortazioni la ciurma si mette a ballare. Invano risuonano echi di nostalgia per le vere feste, che vogliono un palchetto solido, la terra ferma sotto i piedi. Bisogna darsi vena, si strappino i sonagli, si faccia frastuono, ci si stordisca nella finzione della festa! [...]. È il principio dell'industria del divertimento per voyeur; il pagano risponde evocando le danze religiosamente ordinate delle sue donne ignude: Holy nakedness ofour dancinggirls, irrevocabilmente perduta innocenza e solennità, rituale celebrazione smarrita da chi è ridotto alla scurrilità disperata. La tempesta riporta all'opera i marinai, per affrontarla l'unico fuoco disponibile è l'alcol distribuito da Ahab. Il battesimo del fuoco che segue al battesimo dell'acqua è il grog, ignis ex aquis alla misura della ciurma. La tecnica di comando di Ahab è, come si è detto, quella del dittatore dell'èra totalitaria [...].

Starbuck osa domandare quale profino si trarrà dalla crociera contro Moby Dick, dalla produzione esasperata e Ahab dice: «tu hai bisogno di una parola un po' più profonda». Per la massa è sufficiente l'eccitazione magnetica, il giusto dosaggio di fùria artificiosa, di droghe tollerate (il grog) e di rispetto verso gli usi generali [...].

VI Ismaele è stato cancellato, la sua persona è sparita, basta il suo sguardo attento a ciò che avviene attorno a lui, capace di non frapporre alcun vapore importuno fra sé e la realtà sociale nella quale è calato, il microcosmo-Pequod. Ismaele cede il suo posto alle cose stesse: il segreto per arricchire vertiginosamente. Gli compare quindi tutto il reale in un guscio di noce: la nave (non la città o il giardino), la società che si esprime massimamente nella società per azioni cioè nella combinazione dell'avarizia e della frode, onde in nome di una moltitudine di miseri risparmiatori un gruppo di despoti esperti del calcolo minuzioso e sopraffatore regge la comunità ridotta ad azienda. Ma chi incarna lo spirito dell'azienda-società è Ahab, colui che magnetizza la massa degli sradicati, che rimesta nel crogiolo di tradizioni smozzicate e di felicità infrante [...]. Il groviglio delle responsabilità inestricabili della nuova società industriale è creato, è un meccanismo simile alle macchine di cui si serve: «la mia ruota dentata s'adatta a tutte le loro varie ruote... io mi precipito infallibilmente!», Ahab è stato falciato da Moby Dick: la natura in lui è ferita, alienata e per placare il dolore della mutilazione, per far cessare il rovello «inconscio» quando non palese, egli agisce; (capitolo XLI): «il suo intelletto naturale, che era stato un agente vivente, divenne uno strumento vivente» [...]. Il rapporto fra il potere economico e il delirio ideologico è così chiarito: «È abbastanza probabile che lungi dal perdere fiducia a motivo dei sintomi così foschi nella sua attitudine ad un altro viaggio di caccia, la gente calcolatrice di quell'isola prudente fosse

invece incline all'idea che proprio per quelle ragioni lui era anche meglio indicato e assettato per un'impresa cosi piena di furore e ferocia».

La natura in antico veniva riverita, oggi viene aggredita senza ritegni, ogni traccia di divinità, cioè di inconoscibilità è in essa sparita. Come l'uomo si atteggia a domatore di circo con i suoi istinti e li tiene a bada con la frusta della volontà così si atteggia a domatore della natura la quale pertanto diviene incrocio di ruote, gioco di elementi da sfruttare e nulla più. Quale il colore della balena, della natura? Il bianco. Quali le associazioni del color bianco, del candore? Melville le elenca con minuzia, le incarnazioni ora tremende ora benigne del «mutismo e dell'universalità», della sconfinata estensione, del «mistico cosmetico, il gran principio della luce». Il capitolo sul candore è insieme un incantesimo e una litania: una compiuta operazione di conoscenza per simboli. La conoscenza per figuras s'avvicina assai di più delle definizioni logiche a spiegare un universo appassionato, un cosmo vivente, e «una rivelatrice pantomima d'azione» superiore ad «un domestico capitolo di parole». Quale il metodo seguito da Ahab per dominare la natura? Egli deve sottrarle la sua qualità essenziale, l'imprevedibilità. Perciò costruisce una complessa carta delle migrazioni dei capodogli, come una rete statistica e induttiva che dovrebbe delimitare, rendere prevedibile la natura mediante «ragionevoli congetture, quasi certezze». L'arma dello scienziato e tecnico moderno è il concetto di probabilità e di media statistica. Ma per dominare la natura, osservava Hegel, l'uomo deve dare in pasto se stesso. Così Ahab sente nel sonno aprirsi abissi d'angoscia. La loro causa? La razionalità stessa che si converte nel suo contrario, nel terrore senza fondo. «Il principio o spirito eterno vivente in lui» veniva nella veglia «impiegato dalla ragione discriminante come suo veicolo o agente esterno», nel sonno pigliava la

sua rivincita diventando un avvoltoio che è la creatura stessa che egli ha creato [...]. Ahab ha rinunciato a intravedere di là dell'orrore meccanico il fulgore, o almeno il barlume dell'orfica pace, della Tahiti o regione delle cose che risplendono, perfette nel mondo esterno e «più perfette» nel fondo dell'anima. Ha convertito tutto l'universo in forza, rinunciando al lume naturale, e la forza è pura immaginazione, poiché esclude il momento contemplativo, che sta fuori della forza. Il processo lavorativo diviso per specialità è lo sfruttamento dell'oggetto naturale spogliato di tutti i suoi attributi simbolici, privato della sua aura, non più contemplato ma solo modificato; una balena sfruttata a modo è un esempio capitale. Non a caso molti capitoli del Moby Dick sono dedicati a tale descrizione, ma mossa da riverenza, poiché: «Oh Natura e tu anima umana! Come le vostre analogie si distendono oltre quanto è dicibile! Non il minimo atomo si muove o vive nella materia, che non abbia il suo sottile riscontro nello spirito!». Il lavoro per Melville è liturgia, decifrazione di simboli nelle operazioni materiali. La testa fragrante di spermaceti non è analoga al regno delle idee platoniche, affogarvi non è rischioso quanto calarsi nella contemplazione? La parte più preziosa della balena, è lo spermaceti profumato, l'essenza libera dell'universo, l'acqua di vita, che mette in stato di benigna estasi o grazia. Ma tali operazioni paiono inessenziali a Ahab, nulla lo impegna fuorché l'operazione massima, l'uccisione. Egli è simile al re Ahab del Libro dei Re, che a dispetto dei prodigi di Elia sul monte Carmelo (Elia vi fa scaturire acqua e accendervi fuoco), è legato al culto di Baal. Quale il dramma segreto di Ahab? Lo dice egli stesso in un monologo {Tramonto), che nessuno della ciurma gli contrasti il passo, che tutti s'adattino come ruote d'un meccanismo: il dramma del dittatore. Ma Ahab è insieme il dittatore e l'uomo per eccellenza moderno, scisso dalla natura e di ciò che ha coscienza, salvo che, come Baudelaire, esalta la sua jattura come

segno di elezione: «Oh! C'era un tempo che come l'aurora nobilmente m'incitava, così il tramonto mi portava sollievo. Ora non più. Questa bella luce non rischiara più me: ogni bellezza mi è angoscia dacché non posso più goderla. Dotato della percezione superiore mi manca la bassa potenza di godere: sono dannato cosi nel modo più sottile e perverso» [...]. Per Ahab invece la natura è soltanto l'ostacolo contrapposto all'io, una maschera di cartone da trafiggere. La natura egli la sente soltanto nell'urto, nell'opposizione della sua forza alla forza della natura (che non è propriamente una forza, poiché non ha una coscienza che per contrasto la faccia apparire forza). Starbuck vive a metà fra il mondo della comunione, del rispetto e della riverenza per la natura ed il nuovo mondo meccanico di Ahab, è diviso fra odio e obbedienza verso il suo capo. Ma proprio per la sua qualità mezzana gli è consentita la pietà, lo smarrimento partecipe della sventura che Ahab vive interamente, porta alle ultime conseguenze [...].

VII Si avvicina la stagione dell'Equatore, Ahab sta misurando la latitudine mentre il sole imperversa: «la nudità immutata dei raggi è simile agli splendori insopportabili del trono di Dio» dice una frase che par tratta dallo Zohar. Ahab sta con «il suo strumento da astrologo all'occhio», mentre il Parsi dell'equipaggio fissa il sole «soggiogato, con una terrestre apatia» [...]. Ahab è un adoratore del fuoco che non vuole più dirigersi secondo il corso zodiacale del sole determinato dal quadrante o gnomone. Egli adora il fuoco infernale e non il celeste. Gli eroi solari delle mitologie rappresentano il superamento della natura palustre, matriarcale, che appare «fangosa» all'uomo civile. Apollo, Ercole, Mitra sono compiuti eroi solari mentre Dioniso è una conciliazione dell'acqua col fuoco, della vita animale e naturale ed estatica con la conoscenza. Il passaggio dal matriarcato alla solarità olimpica è rappresentato da eroi claudicanti

come Edipo. Il contatto col fuoco è ambivalente, può essere contatto con una furia suicida o con una purezza contemplativa, e i personaggi zoppi, segnati dal fuoco rappresentano il carattere sinistro del contatto [...]. Ciò che danna Ahab è la sua adorazione puramente demoniaca del fuoco, il suo ripudio del sole, la sua rinuncia a guidare il suo corso sulla posizione del sole nello zodiaco [...]. Le dodici categorie-simboli dello zodiaco sono abbandonate da Ahab, e si avvera la maledizione che Shakespeare presagiva per l'uomo che avesse abbandonato l'asse che non vacilla, il firmamento, nella famosa allocuzione di Ulisse nel Troilus and Cressida; il potere, universale lupo, divorerà tutto e poi divorerà se stesso, poiché nulla riconoscerà che abbia valore eterno, nemmeno le orbite degli astri e le favole che sono connesse ai dodici segni e celebrate negli anni liturgici, nell'opera agraria. Su quell'ordine non dirigerà il suo corso.

VIII In Moby Dick è raffigurato l'uomo nuovo, che non è come Ahab, demoniaco, l'uomo che il mezzo ha trasformato in fine: il maestro d'ascia che rifa la gamba di legno ad Ahab, uomo d'una stolidezza senz'anima, preparato in tutto, indifferente a tutto, per il quale i denti sono pezzetti d'avorio, le teste bozzelli di gabbia, gl'individui argani, lui stesso una ruota che emette un ronzio quando parla, il suo stesso corpo una garitta. In Mardi era descritta, apparenza sensibile che è simbolo della stortura onde si divide mezzo da fine, la fabbrica inglese ottocentesca. I pellegrini che cercano la felicità in terra (cioè Yillah la donna angelicata), giungono a Do minora, l'Inghilterra: Muovendo i nostri passi verso la valletta, ruggente per le rocce, scorgemmo un torrente che scendeva dai monti. Ma prima che quelle acque giungessero al mare, pagavano un tributo di vassalle. Piegate per condotti e fossi, spingevano grosse ruote, dando vita a

diecimila zanne e dita, la cui presa non c'era forza che reggesse, e il cui tocco era tuttavia morbido come vellutata zampa di gattino. Con brutale potenza trasportavano ingenti pesi, simili a proboscidi che abbattono ippopotami eppure sentono i battiti d'una tarma. Da ogni versante d'attorno, spingendo fuori a ogni giro meravigliosi parti, incessanti come i cicli che ruotano in cielo. Alto mormorava il telaio, volteggiava come folgore il volano, ruggiva rossa la tetra foggia, risuonava incudine e mazza, ma non si vedeva un mortale. «Olà, mago! Esci dall'antro!» Ma sordi furono i fusi, come i muti che sordamente servono il sultano. «Poiché siamo nati, vogliamo vivere!» leggemmo su una bandiera purpurea che scherniva le nubi purpuree, all'avanguardia d'una torma dai berretti rossi, che corse dinanzi a noi allora usciti dalla valletta. Ne seguivano altre; nere o macchiate di sangue: «Mardi appartiene all'uomo». «Abbasso i proprietari di terre.» «Adesso è la volta nostra.» «Viva i diritti! Morte ai torti!» «Pane, pane!» «Approfittate della marea prima che si ritiri!» Sono pagine scritte nel 1848. La torma è guidata da tre maschere, che la menano verso i palazzi, ma badano a disperderla fra fossi e selve, sicché possa essere assalita e rotta dalle guardie del re. Lo strumento giganteggia; si evoca il suo creatore ma invece compare la turba degli uomini impazziti per i suoi effetti. Chi è il mago? La risposta vien data da Melville nella novella The BeliTower, dove si narra del grande artefice leonardesco Bannadonna che crea un congegno perfetto destinato a rovinargli addosso. È una novella che ha elementi figurativi quali solo il surrealismo riproporrà nei suoi paesaggi di frantumi accampati nei deserti (e non a caso doveva essere Max Ernst a illustrare Mardi). Che cosa è il peccato di Bannadonna? Lo stesso del dottor Rappaccini di Hawthorne, l'aver ridotto la scienza a empietà sperimentale.

Come creò Bannadonna il suo congegno meccanico, il suo Golem? Badando a «risolvere la natura, a insinuarsi furtivo in lei, a intrigare di là da lei, a procurare che qualcun altro la riducesse in mano sua?». No. «Questo non era stato il suo fine; bensì senza chiedere favori ad altri elementi o esseri, da solo rivaleggiare con lei, superarla, dominarla. Si piegava per conquistare. Per lui il senso comune era teurgia; il macchinario miracolo; Prometeo il nome eroico del macchinista e l'uomo il vero Dio.» Il mago è lo scienziato moderno, che non badò a solve natureo stealinto hersecondo la «sottile idea dei visionari metafisici per cui fra le forze meccaniche più sottili e la più grezza vitalità animale si può scoprire un germe di somiglianza», e nemmeno a intrigue beyondher ovvero a operare come gli alchimisti secondo le affinità fra il mondo interiore dell'uomo e quello esteriore, e tanto meno a procure someone to bindheràót a sollecitare l'intervento di Dio come i sanguine theosophists. Il vero mago è il filosofo del senso comune borghese, John Locke. Per lui l'uomo è una tabula rasa, che riceverà con mortuaria purezza, con passività di mummia l'impronta delle sensazioni. Quale il modello d'una tale rappresentazione dell'uomo? Melville lo indica nel Tartarus ofMaids-. la carta che esce da una cartiera in una desolata valletta inglese è la poltiglia rimescolata da ragazze intisichite, ed esce bianca, pronta a qualsiasi uso, dalla loro sofferenza, come sperma per matrici [...]. La macchina non è più il simbolo rotante dell'eterna pace ma una ruota che dirama ad altre ruote il suo movimento, è ruota e linea infinita insieme: simbolo di morte vivente. Questo videro Blake e Melville. La natura diventa il mezzo dell'affermazione dell'uomo, l'uomo si riduce a mezzo dei fini oscuri della natura. Come liberarsi? La questione era anche biografica, in Melville. Cioè era la sua stessa vita in questione: che senso aveva aver subito, dopo i rovesci di fortuna dovuti alle crisi della prima industrializzazione dell'America, la più turpe miseria, l'essersi dovuto imbarcare su navi orride infestate dalle ciurme di sradicati brutali, l'avere poi scorto la

fulgida bellezza delle isole del Sud, oasi di grazia e di gioia nel mondo dominato dallo spirito commerciale (oasi che Engels nell'Origine della famiglia additerà come mèta e ritorno dell'umanità dopo la fase comunista), per poi tornare ancora una volta all'obbrobrio della vita sulle baleniere, l'aver dovuto affrontare ancora la solitudine e miseria in patria? Erano prove che l'avevano maturato? Ma allora quali insegnamenti erano chiusi in quei simboli? I trascendentalisti potevano insegnare a distogliersi dalla turpe realtà nuova immergendosi nella panica natura, ravvisando simboli dell'armonia universale in ogni particolare, anche nei più triviali (nel fumo del sigaro il ritmo di espansione e ritrazione, di emanazione e ritorno al centro), Melville rifiuta con sdegno la facilità di questa ricetta. Come si può cancellare il dolore con la contemplazione? Afferrare i simboli necessari era sua missione, ma non consolarsi o consolare. Doveva comprendere, non cercare ristoro. Che cosa significa una nave che veleggia verso le balene? Che cosa significa l'industria dello sfruttamento della balena in mano agli imprenditori quaccheri del Nantucket? Che cosa significa essere uccisi sul lavoro? Che cosa spinge gli uomini a quell'impresa? Non gli bastava la conoscenza discorsiva, le formule filosofiche e dileggiò i filosofi in Mardi. Né gli bastava la soluzione politica dei mali, il credo democratico, dileggiato parimenti. Che senso aveva il tempo se non esisteva un punto archimedico fuori di esso? E quale poteva essere un tal punto se non l'eternità? Quindi tutto ciò che in terra esiste deve essere figurazione dell'eternità e del tentativo di attingerla. Tutto ha un senso solo se posto in rapporto con l'illuminazione. ***

Quale l'orizzonte in cui si muove l'uomo? L'orizzonte che cinge il mare: «ondulato come il vasto serpente dalle mille pieghe che avvolge il globo» è cioè il serpente che si morde la coda, l'uroboros, la compiutezza: Dio che è circonferenza il cui centro è in ogni luogo. La sfera è simile alla coscienza nel cui ambito si muove l'uomo, e Melville in Mardi si dichiara

«intento all'essenza delle cose, il mistero che sta oltre, agli accenni di pianto che troppo riso ridesta, a ciò che sta sotto l'apparenza, alla perla preziosa che sta dentro la ruvida ostrica [...]. C'è un mondo di meraviglie entro la sfera della coscienza spontanea [...] un mistero nell'ovvio e tuttavia un'ovvietà nel mistero». «In un ritiro impenetrabile dorme l'universo, rotondo, cinto dallo zodiaco, cerchiato dall'orizzonte, avvolto dal mare, fasciato di scogliere, inchiavardato da monti, annidato fra pergole, recinto da regalità, serrato nelle proprie braccia, stretto fra sé [...], polpa fra scorza e scorza, scintilla più segreta del rubino, seme fra nidi di succo nell'arancia dalla scorza dorata, regale rosso nocciolo della femminea pesca; inspirata sfera delle sfere.» Melville rinuncia al pensiero discorsivo del suo tempo e alla narrazione realistica (o meglio, direbbe Borges, nominalistica) e si abbandona all'associazione sui simboli. La prima contemplazione dello zodiaco è in Marcii-. Come il sole per divino influsso ruota per l'eclittica, infilando Cancro, Leone, Pesci e Acquario, cosi per mistico impulso sono mosso a questo progresso veloce fra gli atolli, cintura di bianche scogliere attorno a Mardi. Lettore, ascolta! Ho viaggiato senza carta; con il compasso e con lo scandaglio non avremmo trovato queste isole di Marcii. Chi si butta con coraggio getta tutte le gomene; e allontanandosi dalla brezza comune, che vale per tutu, gonfia le vele con il suo fiato. La ricerca della verità come scoperta vuole che si stia soli dinanzi al mondo, l'illuminazione non è collettiva, per sua natura. Bisogna abbandonare ogni concetto noto, bisogna ignorare ogni conoscenza morta per trovare ciò che vive e dà vita. Bisogna che si muoia per rinascere, che si sia divinità solari. Cioè che si viva come il sole attraverso lo zodiaco. Questa è la radice della saggezza secondo YEpinomis di Platone. Ahab configge all'albero (capitolo XCIX) un doblone equadoriano, dell'Equatore o cinta della terra, con uno zodiaco che cinge tre monti.

Ciascun membro della ciurma interpreterà come potrà. Il sole è come il vetro del mago che rispecchia il contemplante ed il suo periplo nell'anno attraverso i segni significa che l'uomo non deve vivere in pace ma nella sofferenza, poiché è nato nelle doglie. Stubb, che è l'uomo ridotto a giocatore, che accetta la vita come partita, leggerà nello zodiaco la vicenda dell'uomo generato nella libidine dell'ariete, spinto avanti dalla cornata del toro, straziato fra i gemelli virtù e vizio, ma assalito alle spalle mentre si dibatte fra i due dal granchio o Cancro, che trascina indietro a dove il leone assesta una zampata e dà un morso; la vergine ristora con il primo amore, ma con la bilancia la felicità ch'ella ha largito si mostra mancante, e allora lo Scorpione ferisce e l'arciere saetta e l'acquario inonda finché si trova pace mortale fra i pesci. Ma non è certo questo, giocoso e macabro, lo zodiaco che irraggia dai tatuaggi del puro selvaggio Quiqueg. Ma Quiqueg non saprebbe mai ormai più interpretare i segni che porta tatuati sul corpo. Nessuno sulla nave, cioè nella società, sa che cosa sia il destino dell'uomo: lo zodiaco è diventato privo di senso. La perdita dello zodiaco è la perdita che grava sull'uomo per la colpa di Bannadonna: di Newton e di Locke. La bestemmia di Stubb che dileggia il destino dell'uomo segnato nei cieli con bravata di giocatore è assai più tremenda della bestemmia di Ahab che battezza il suo arpione in nomine diaboli.

«Paragone», n. 128, agosto 1960.

Appunti sul futuro

L'inoltrarsi comporta certi rischi: molte certezze storiche ci sembreranno una fila di cartoni da teatro, e svaniranno per lasciarci a tutta prima in un gran buio [...]. D'altronde questo sgomento bisognerà presto o tardi affrontarlo comunque, perché l'idea progressista della storia è già stata confutata. La cattedrale inghiottita d'un'età dell'oro, scientifica e religiosa, è riemersa agli occhi degli studiosi... Introduzione a Marius Schneider, Il significato della musica Ogni mistica delle ère future, da ogni parte della terra, nel Tao-te Chingtiovz. tutti i suoi principi e le sue certezze. Ma anche la saggezza mondana trova in queste pagine deliziose le sue verità segrete. Dai Taccuini Nota introduttiva Nel dicembre del 1992 si svolse a Orvieto un convegno internazionale su un tema che, al di là degli aspetti tecnici noti agli allora pionieri in materia, scatenò nei primi anni Novanta infuocati dibattiti sulle implicazioni di un avvento ritenuto socialmente pericoloso dai più, neutro secondo taluni e seducente oltre ogni dire

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per pochissimi tra i quali Zolla, attorniato quella volta da sociologi come Alberto Abruzzese, ingegneri informatici come Vittorio Fagone, fdosofi come Mario Perniola, artisti tedeschi e italiani e molti altri (gli Atti sono raccolti in Realtà virtuale: nuovi linguaggi dell'arte, a cura di Ribes Veiga, Elart, Orvieto 1992). I sei testi radunati in Appunti sulfuturo mettono in piena luce riflessioni, congetture e previsioni di Zolla, sull'effetto globale che potrà scaturire dagli usi e gli abusi della realtà virtuale nel secolo XXI. «La concezione meccanicistica» andava ripetendo «sarà cancellata. Si dovrà accedere a un'intelligenza formale a partire dal principio d'informazione. Il senso dell'io si verrà stemperando. Ma in gioco non ci sarà soltanto l'indurito io occidentale, bensì anche il concetto di "realtà". L'idea riverita di "concretezza" non sarà più la suprema istanza.»

Il reale illusorio: una diversa recita Attorno al 2030 sarà sovranamente dominante l'intelligenza robotica, cosi rapida rispetto all'umana che si avvia a esserne guidata. L'uomo apparirà svelato in tutta la tardità e goffaggine che gli sono proprie. Ogni enunciato verbale è destinato a essere sviluppato in tutti i sensi possibili; si stanno preparando in Giappone programmi computeristici logici e rettoria che potranno esplorare l'intero arco delle deduzioni a partire da qualsiasi affermazione e sapranno anche rivestire i discorsi con tutti i colori previsti da Ermogene di Tarso. L'uomo sarà così allontanato dalle attività dove il suo impero sembrava incrollabile; la parola sarà manipolata, il culto del verbo computerizzato: liquidato. Potrebbe costituire uno stupendo vantaggio, se sussistessero menti in grado di concentrarsi sullo scopo massimo, decise a raggiungere la condizione dell'uomo liberato, quale fu tante volte definito e descritto nella letteratura vedantica. Se tutte le possibilità finora aperte saranno dimesse, altro non dovrebbe rimanere all'uomo che incamminarsi sulla via che finora barlumava sul filo dell'orizzonte e sembrava quasi irraggiungibile. L'intera forza della sua mente a questo punto dovrebbe volgersi all'idea del liberato in vita, nel quale il sonno è presente nel pieno della veglia, perché hanno cessato di affiorargli dentro multicolori, insidiosi, confusi i desideri e per questo verso egli dorme, tuttavia è un testimone degli eventi e per questo verso è pienamente desto. Non indugia sul passato, non si tormenta dell'avvenire, non permane nel presente: sfiora le apparenze della realtà come incessanti illusioni, momenti di un infinito inganno. Così neutrale e lieto egli vive, come i tanti perfetti maestri vedantini anche recenti, da Ramana Maharshi a Nisargadatta Mahàràj, alle cui opere incantevoli e semplicissime periodicamente torniamo per assaporare questa massima possibilità dell'uomo. Ci si domanda: sarà dato di approfittare della dominazione totalitaria dell'intelligenza robotica per dedicarsi esclusivamente a questo scopo supremo?

A chi stia aggrappato ai valori umani consueti nell'Occidente, l'avvento dell'intelligenza robotica dovrebbe dare brividi di raccapriccio. Sparirà ogni spazio dove l'ingegno umano possa sopravvivere e celebrarsi: non durerà la diagnosi intuitiva del medico, né la dialettica dell'avvocato, né la cura del narratore e nemmeno la capacità argomentativa del filosofo, la robotica avocherà a sé ogni professione. Ma Hans Moravec va ben al di là di queste discussioni, approda alla realtà che si inaugurerà nel 2030 e immagina per allora il chirurgo che aprirà il cranio a chicchessia per simulare su un programma di computer via via le funzioni proprie delle varie sezioni cerebrali [...]. Alla fine tutte le funzioni dell'intera area cerebrale saranno trascritte. Il corpo allora morirà e Moravec immagina di dire all'uomo in procinto di farsi così trasferire la mente in un programma: «La tua prospettiva sarà trasferita a un corpo nuovo, dello stile, del colore, del materiale che ti sarai scelti». L'uomo dovrebbe poter diventare dunque abbastanza prossimo all'immortalità, la sua mente figurerà in un programma di dove potrà attingere, volendo, a fonti sensibili eventualmente diverse da quelle che ci sono familiari. Roger Penrose ha reagito sostenendo che non sappiamo ancora nulla delle modalità di coesistenza di una fisica newtoniana einsteiniana di contro a una fisica quantica nel funzionamento del cervello; pare infatti che l'occhio sia in grado di registrare anche un solo fotone, che operi dunque entro la fisica quantica. Finché il combinarsi delle due fisiche distinte nel cervello non sarà formulato e spiegato, non sarà dato di simulare su un computer la mente umana. Non credo che l'obiezione debba arrestare le previsioni di Moravec, ma si potrebbe anche limitarsi all'altra novità che egli esamina a fondo e che chiama «occhiali magici»: sono elementi che forniscono a chi li indossi un programma televisivo che si sostituisce alla normale percezione. Programmi a questo fine già si assiepano all'Ufficio brevetti di Washington. Già si usano gli occhiali magici per allenare i piloti alla guerra aerea e li si vede uscire

dalla cabina in cui hanno affrontato le avventure simulate, pallidi come cenci. Un'Università americana offre occhiali magici a chi voglia comprare case disegnate alla sua Facoltà di architettura; esse si visitano (ovvero: se ne visitano le prospezioni computerizzate) e nel farlo è anche dato di suggerire le proprie modifiche al progetto aprendo finestre e usci, spostando infissi. Queste simulazioni totali del reale alleneranno a capire l'illusorietà dell'esperienza stessa. Potranno offrire tutto ciò che si possa mai desiderare, vicende soavi e pacificanti oppure sconvolgenti e tremende oppure le due alternate. E torna l'interrogativo: da questa varietà infinita di simulazioni, non dovrebbe scattare alla fine la nascita d'un uomo liberato? La fonte degli stimoli si dovrebbe placare, tanta sarà la libertà di scelta, la facilità d'ogni appagamento e si dovrebbe arrivare al momento della riflessione e meditazione che capovolga il gioco. Credo sarà possibile inoltrarsi in tutti i possibili viaggi, reali e immaginari, godere di tutti i diletti e al loro culmine queste esperienze dovranno rovesciarsi in una liberazione totale. O mi illudo pensando che questo sia un destino aperto a tutti? Forse i più saranno ricacciati indietro a piaceri sempre più stanchi, tortuosi, disperati e incattiviti e soltanto pochi otterranno la liberazione? Il reale illusorio, «Technology Review», n. 24, agosto 1990.

La macchina profetica di Primo Levi Lenta lenta si va scaglionando la bibliografia della realtà virtuale, con pochissime opere per ora e spesso con un'ostentazione di puerilità da lasciare allibiti. Eppure un primo contributo, quasi impeccabile, uscì addirittura nel 1966, prima di ogni esperimento a me noto, nel racconto intitolato Trattamento di quiescenza, compreso nelle Storie naturali ài Primo Levi. Non stupirà coloro che avevano già misurato le straordinarie facoltà di Levi. Nel 1985, egli arrivò a descrivere tre eventi di laboratorio non riproducibili in maniera meccanica, ma possibili, vale a dire: tre prove della realtà alchemica. Levi aveva segnalato d'aver veduto due volte su migliaia di casi essiccarsi una palla di resina semifusa a 65 gradi centigradi, aveva osservato un filo di rame smaltato dentro al forno che non cedeva lo smalto a schegge, bensì in forma di elica dal passo regolare; una volta aveva versato in un mulino i componenti d'uno smalto tra sferette d'acciaio, che divennero dei pentagono-dodecaedri (questi straordinari rilievi si trovano nell'articolo Riprodurre i miracoli, comparso sulla «Stampa» il 15 settembre del 1985). Il raccontino descrive una macchina costituita da un casco che trasmette sensazioni visive, auditive, tattili, olfattive, gustative e dolorose e «inoltre le sensazioni per così dire interne, che ognuno di noi allo stato di veglia riceve dalla propria memoria». Rispetto ai caschi attuali che trasmettono sensazioni, questo immaginato da Levi trasmette a livello nervoso. Non è un'allucinazione né un sogno perché, finché dura il nastro della programmazione, «non è distinguibile dalla realtà». Levi si rendeva conto che questa macchina sarebbe stata l'ultimo passo dopo gli spettacoli e le comunicazioni di massa: somma soddisfazione dell'età anziana, a cui sarebbe aperta una ricchezza di esperimenti sconfinata, ma anche ausilio didattico per lo studio della geografia e delle scienze naturali. Si sarebbero compilati programmi con esperienze di aviatori, esploratori, subacquei, seduttori e seduttrici. Il protagonista del raccontino fa provare ad un amico una partita di calcio, «con l'onda di allegrezza nel sangue, e poco dopo il

sapore amaro della scarica di adrenalina» e soprattutto gli fa riprovare la sensazione di lievità e prontezza della gioventù. Quindi mostra una serie di viaggetti ed esperimenti di grossi eventi naturali, registrad a partire dall'insieme di sensazioni e pensieri d'un artista. Tutto avviene con un'immediatezza sorprendente: si è concentrati in un punto come proiettili, con un corpo agile e docile e si dispone di una programmazione che sconcerta: violenza, guerra, sport, autorità, ricchezza sono alcuni dei temi proposti; si potrà subire o scatenare un pestaggio, si potrà essere provocati in modo crudele e perseguitati a sangue oppure si potrà interpretare la parte attiva e crudele, andando fino in fondo all'odio e alla collera. C'è anche l'esperienza erotica, sulla quale è superfluo intrattenersi: basta menzionare la possibilità di provare le esperienze del sesso opposto al proprio. «Credo che nessun teologo ci troverebbe nulla da ridire: chi commette peccato non è mica lei» dice il protagonista all'amico. A questo punto ci si è spinti su un limite temibile. Quando l'amico si ritrova a essere sconvolto da un seduttore e getta uno sguardo nello specchio per vedersi nella forma d'una donna incantevole, in un attimo di disperazione tenta di strapparsi il casco. Esisterà la serie delle programmazioni chiamata «effetto Epicureo», fondate sul fatto che la cessazione di uno stato di sofferenza o di bisogno concede il massimo di piacere: sono centoni di fame o di sete placata, di dolori interrotti. Inoltre si estende la serqua delle gioie, che fanno affiorare il dubbio: non saranno forse diserzioni, solipsismi, vizi solitari? Ma si avranno di queste remore a settanta o ottant'anni? Il protagonista «illustrò poi brevemente i nastri [...] a fascia blu (salvataggi, sacrifici, esperienze registrate su pittori, musici e poeti nel pieno del loro sforzo creativo) e i nastri a fascia gialla, che riproducono esperienze mistiche e religiose di varie confessioni». Infine segue la serie nera: esperienze costruite ex novo, onda su onda, come si combina la musica sintetica: vite di neonati, psicopatici, idioti, animali. Una di queste l'amico vuole provare: vola nella notte sulle Alpi udendo gli scrosci di torrenti, le sferzate del

ventaccio, la pressione delle correnti addosso al corpo e alle ali. Sente soltanto ciò che gli si agita dentro di norma allorché si rammenta senza parole di dover fare qualcosa in certa direzione, entro un paesaggio stampato chiaramente nella fantasia. Scorge una lepre e raccoglie le ali, precipita, finché a ridosso dell'animaletto ristende le ali e si blocca, traendo fuori gli artigli. Segue l'eccidio. Ma perché non provare una sequenza all'incontrano? Alla conclusione del raccontino Levi annota che nella realtà virtuale non ci potrà essere assuefazione, perché, se si agirà sulla memoria si potrà accendere una memoria d'accatto. Fra un programma e l'altro il protagonista rilegge l'Ecclesiaste, unico libro che trovi ancora degno di meditazione: parla dell'iterazione infinita dell'esperienza, non v'è nulla di nuovo sotto il sole, soltanto l'eterno ritorno. Alla fine si sente confluire nella persona di Salomone sazio di sapienza e di giorni accanto alla sua regina nera. Ma Salomone era com'era per una lunghissima vita piena di opere e di colpe, mentre il protagonista è già il frutto di incalcolabili registrazioni e si avvia perciò verso la morte già sperimentata tante volte sui nastri. Levi aveva colto tutto ciò che gli era concesso. Ciascuno potrà arrancare verso il punto cui egli si portò nel 1966. Potrà forse immaginare l'andare oltre? Credo che, avendo percorso i sentieri innumerevoli dell'esplorazione sciamanica, qualche estensione sia lecita. Forse forse avendo acquisito la libertà di concezione che si dischiude a partire dallo stato di liberazione teorizzato da Indù e Buddhisti, qualche orizzonte diverso si profila. Ma Levi era pervenuto ai limiti dell'Occidentale. Un miracolo di Primo Levi profeta della realtà virtuale, «Corriere della Sera», 1 giugno 1993.

La presenza virtuale disincarnerà la mente Atsushi Aiba, direttore della rivista «Shiso» e direttore all'editrice Iwanami, mi domandò il motivo per cui mi trovavo in Giappone e gli risposi che volevo sapere dove ci si spingesse nella ricerca sulla realtà virtuale. Fui sconcertato dal lampeggiare dei suoi occhi, da uno scatto gioioso della mano: mi confessò che toccavo la sua passione maggiore; prevedeva che l'editoria si dovesse inoltrare al di là della produzione di libri. Aiba aveva appena pubblicato un sistema multimediale sui monasteri del Ladakh e i loro mandala, ma si stava prodigando ora nella preparazione della prima realtà virtuale per l'Iwanami. Me ne parlò con precisione esultante: avrebbe fatto vivere l'esperienza di un sommo mistico buddhista, Kùkai, di quando sostava in una caverna giapponese, incerto se recarsi in Cina. Sognò che gli si manifestava il pianeta Marte. Lentamente questo gli si accostò, fino a scivolargli nella bocca. Una visione breve, forse, sarebbe stata pronta fra tre anni. Avevo appunto pensato e anche scritto che il buddhismo avrebbe potuto accogliere la realtà virtuale e quale ambiente più di quello giapponese poteva essere propizio? Qui le stanze delle case tradizionali, anche le più riservate e care, sono sempre e soltanto una momentanea illusione; si fa scivolare una parete di carta e tutto cambia da cima a fondo. Un'apertura sotto il livello dell'occhio dà sul verde del minuscolo giardino, ma sembra di scorgere un'immagine di selva: la vita è un contesto di parvenze. Ci si congedò con un lieto «Fra due o tre anni!». Mi recai al laboratorio d'un giovane professore del Dipartimento di informatica all'Università di Tokyo, Michitaka Hirose, dove mi fu presentata la schiera di ragazzi che manovravano un parco di computer. Il più raccomandato dal professore era quello che aveva inventato la creta virtuale, mi fu mostrata. Un accavallìo di montagnole dove si poteva intervenire con una specie di mouse per modellare. Mi si mostrò anche l'elmo che s'indossa per entrare in una realtà virtuale e per continuare altresì a vedere la realtà ordinaria o per sovrapporre la prima alla seconda: un chi-

rurgo potrà farsi squadernare sul corpo del paziente le figure rivelate dalle risonanze magnetiche, un ingegnere potrà scorgere le tubature sepolte sotto un edificio. Ma il progetto che più alletta Michitaka è la realtà virtuale in cui si fa viaggiare la luce a una velocità ridotta, sperimentando così tutti gli effetti einsteiniani: lo spazio si deforma e gli oggetti in movimento si rastremano; l'educazione alla fisica diventa diretta, visibile e tangibile. Mi assicura che la realtà virtuale accrescerà l'intelligenza negli anni Novanta. I piccoli problemi si moltiplicano e risolvono di fùria, già al simposio di Tsukuba del novembre 1992 si era notato che nel trasferimento di realtà lontane alla presenza dell'osservatore, lo spazio percorso produce alterazioni, i movimenti della testa si comunicano con ritardi che finiscono col frastornare e nauseare: s'è scoperto che basta accogliere il messaggio entro una capsula che generi una realtà virtuale. Mi porta in tutt'altra direzione l'incontro con Hayura Ito ai laboratori Fujita; per lui l'impegno è di produrre esserini immaginari dotati d'intelligenza e sentire. Li chiama charlottes, non dice perché. Hanno un loro ritmo di vita, alternano razionalità e istinto nel comportamento, sono in grado di comunicare con noi e forse di aiutarci. Per comunicare con loro, si può parlare, ma anche fare cenni. «Eccogliele», mi dice Hayura e vedo dei corpicini tondi che a prenderli in mano paiono pesare fino a venti chili, programmati a seguire l'ideale giapponese: sono intelligenti, spiritosi e fortemente socievoli, capaci d'intonarsi al ritmo dell'osservatore e di mettersi a cantare se gli si agita dinanzi il braccio come direttori d'orchestra. La società dei telefoni lavora a creare ambienti virtuali dove più persone si ritrovano a manipolare oggetti a tre dimensioni, senza più usare gli occhiali. Per ora si mira a collegare docenti e allievi, si fanno fare spese a un mercato virtuale, si aiutano i paralitici a muoversi e districarsi, ma nulla vieta di andare oltre: penso a quando si sarà forniti di una molteplicità di braccia come divinità indù o giapponesi.

La persona più affascinante tra tutti i giovani (nessuno mi pare al di sopra dei trent'anni), nei quali mi sono imbattuto errando fra grandi aziende, università e centri di ricerca autonomi, fu certamente un venezuelano, volto latinamente modellato, gesti gentili, l'occhio quieto e pronto. Si chiama Tijerino, lavora al centro di ricerche ATR accanto a Kyoto. La sua carriera di studi fu esemplare. Cominciò a frequentare università americane, in Arizona prima e quindi in California, dove si laureò. Capì che il futuro forse non si stava più preparando là dove si trovava e studiò per un anno, per dodici ore al dì, il giapponese. Si trasferì quindi a Osaka, dove ebbe il suo titolo di studio. Fu subito assunto qui all'ATR, gli si mise fra le mani tutto ciò che desiderava. Con lui posso gettare lo sguardo ai margini più remoti: il suo progetto finale è di combinare un gioco di specchi che circondi lo spettatore delle immagini sgranate dal computer, mentre un sistema di campi magnetici gli fa provare le sensazioni tattili e un sistema stereofonico gli fa udire i suoni della scena virtuale. Nel futuro ci si sarà spogliati degli strumenti che oggi ci aduggiano, si entrerà nella stanza della realtà virtuale e la si vivrà esattamente come l'ordinaria. Tijerino conclude: «La telepresenza disincarnerà la mente». Nell'impero dei segni, «Corriere della Sera», 3 novembre 1993.

Esperienze di mondi plurali Con la realtà virtuale si schiude davanti a noi un nuovo mondo che recupera quella dimensione di spiritualità che l'Occidente aveva tentato di comprimere mediante operazioni materialistiche e meccanicistiche, nonostante le invocazioni spesso disperate e ammonitrici dei suoi mistici medievali e moderni. Quale influsso avrà la realtà virtuale sulla condizione dell'uomo? Io credo che gran parte della giornata entro il 2030 sarà assorbita dall'uso di questa tecnologia. Essa dominerà sia l'informazione che l'intrattenimento, e i viaggi saranno compiuti per realtà virtuale e l'intrattenimento assumerà per noi aspetti ancora inconcepibili; immagino, inoltre, che avrà pieno sfogo il desiderio di lotta e di sopraffazione che ora già colma i prodotti nei negozi di videoprogrammi. Nella realtà virtuale, credo, si arriverà alla radice masochistica e sadica dell'istinto per cui si potrà sfogare in pieno il desiderio e anche la passione di tortura per la sofferenza. Ciò che mi preme di più è cogliere l'effetto globale; l'uomo sarà modificato in virtù dello spostamento costante da una realtà ordinaria a una pluralità di realtà virtuali cosicché il primato, l'assolutezza della realtà concreta crollerà. Anche se molti temono appunto questo aspetto, io invece ritengo che questa trasmutazione umana sia accettabile con il risultato che il senso dell'Io si stempererà avvicinandoci, noi abitanti dell'Occidente, all'idea dell'Io che prevale in Oriente. Guardiamo, ad esempio, i giapponesi: essi ricevono per tanta parte un'educazione buddhista la cui prima mira è di estirpare il senso dell'Io perché l'Io buddhista è un'illusione, essendo formato da una serie di cause fortuite e risultando composto da elementi variabili e mutevoli. Di questa labilità dell'Io, occorre avvedersi, accrescerne la consapevolezza, sentirsi aggregati in un mutamento costante senza un fondamento, una radice, esenti quindi da una personalità. La lingua giapponese stessa favorisce questo tipo di apprendimento. Naka Masao, nel suo libro Ich-Darstellung im

Deutschen undjapanischen (Stuttgart, Urachhaus, 1988), si chiede perché un giapponese non parli mai di sé come Io e risponde affermando che egli, sentendo il dettato divino nel suo cuore ed essendo Dio non il centro del mondo ma semplicemente articolandosi in una pluralità di dèi, è pura molteplicità, «portatore dell'azione solare». L'Io giapponese si può paragonare al nostro «si» impersonale, che si usa per concentrare l'attenzione su un'azione e su uno stato, lasciando sullo sfondo il soggetto; infatti in giapponese spesso la frase «io vado a casa» si dice semplicemente «andare a casa». In una mente cosi conformata cadono quindi ovvie le parole dell'educazione buddhista dell'Io da eliminare, da ignorare, parole che irrompono invece come una rivelazione violenta, come un oltraggio, nella mente di un occidentale, la cui lingua l'ha condotto a comprimere le fuggevoli sensazioni interiori in un'essenza incrollabile che egli addirittura proietta nell'eternità, se ancora crede nella religione avita. Alla saggezza di Hume che negava la sussistenza dell'Io, nella storia filosofica d'Europa si sovrappose la complicata costruzione kantiana che ristabilì il dominio dell'Io, addirittura dell'Io trascendentale. Credo perciò che nella realtà virtuale possa entrare con estrema facilità un giapponese, mentre un occidentale attraverserà un periodo di tragico adattamento dal momento che non potrà più illudersi di essere lo stesso nell'esperienza virtuale e in quella reale. Accanto all'indurito, artificioso Io occidentale, cadrà anche il concetto di realtà come siamo soliti considerarla, annessa all'idea di concretezza; infatti la realtà assumerà una pluralità di volti, moltiplicandosi senza tregua e cancellandosi come «suprema istanza della vita». Ora, se guardiamo indietro nella storia, ci accorgiamo che tutta l'arte illusionistica moderna, a partire dall'arte medievale e più precisamente dalla configurazione bizantina dell'icona, è un tentativo di pervenire al completo inganno, ad una realtà virtuale, accessoria di quella visibile e udibile quotidianamente. D'altra parte, le caverne scolpite e colorate erano destinate a racchiudere

un'allucinazione; l'idolo, un abbaglio, una vertiginosa simulazione, contro la quale si misero in guardia gli ebrei e gli arabi. Entrando nel gran salone delle figurine del Museo di Bali e raggiungendo quelle immaginette ancora intrise di tinte vivaci ed incantevoli, ci coglie un'esultanza comparabile a quella che poteva cogliere l'antico spettatore di fronte alle statue multicolori della Grecia classica, ben altra da quel gelo trasognato tipico del Neoclassicismo. D'altra parte quando la Chiesa d'Oriente fissò l'icona canonica, mirò a deviare da un'allucinazione volgare per indurre l'astante ad una visione conoscitiva e teologica. La Chiesa di Roma tradì il dettato conciliare e avviò la riforma illusionistica o, come dicevano i Greci, «carnale», dando il via a un processo che doveva concludersi alla fine dell'Ottocento, con la mone dell'illusione. Ma a quali punti si spingesse, al culmine della Controriforma, la volontà di suggestionare, si può comprendere osservando celti monumenti, ceni monti sacri dell'Italia settentrionale, come il santuario di Crea, nel Monferrato, dove incombono sulla testa del fedele trecento statue sospese alla volta, con gli angeli e i santi in festa attorno agli sforzi vertiginosi di Gesù, della Vergine, del Padre e della Colomba svettante. Potrebbe la Chiesa riprendere quest'arte simulatrice? In realtà, non appena ci guardiamo alle spalle, l'ultimo tentativo di simulazione fu compiuto con il filmetto di Pasolini {Il vangelo secondo Matteo) esibito ai padri conciliari, con la sua biografìa del Cristo a metà tra Chiesa e Urss. Non credo che la vita di Gesù sia riproducibile in realtà virtuale, né che sia tollerabile al di fuori dell'alone oratorio; non credendo che trasmetta il messaggio salvifico, non credo neppure che la realtà virtuale possa essere usata oggi dalla Chiesa cattolica. Non ritengo inoltre che le religioni aniconiche possano impedire lo sviluppo della realtà virtuale, dal momento che questa non è idolatria ma esperienza. Con l'irruzione della realtà virtuale la modalità tradizionale di fare spettacolo è destinata a scomparire: il teatro, che si è sforzato in epoca recente di coinvolgere nella rappresentazione gli spetta-

tori, troverà nella realtà virtuale l'appagamento totale e, quindi, morirà. D'altronde anche il cinema, che già Huxley immaginava si dovesse spingere sino all'illusione più totale, con sussulti e folate di odori, si estinguerà di fronte alla forza immaginifica della realtà virtuale; e cosi parimenti la televisione. Non credo che ci sia un futuro virtuale per le religioni esistenti; mi pare, invece, molto probabile che delle esperienze mistiche sciamaniche possa essere fornita una riproduzione efficace. Si pensi, per esempio, a ciò che si potrebbe realizzare in realtà virtuale con la consulenza di sciamani praticanti, grazie alla quantità di materiale filmico custodito al Centro Culturale di Seul in Corea del Sud. La sciamana coreana ha mantenuto intatta una tradizione che risale alla preistoria: le sue allucinazioni sono talmente rigorose, benché ella le possa variare a piacimento, che potrebbero essere riproducibili alla perfezione in un programma di realtà virtuale [...]. Si potrebbe pensare che le ricerche sulla cosiddetta intelligenza artificiale abbiano qualche connessione con la realtà virtuale e che, tutto sommato, la scienza non riuscirà mai a rendere disponibili tutti gli aspetti della realtà; non vedo, tuttavia, un rapporto organico tra intelligenza artificiale e realtà virtuale, nel senso di dipendenza della seconda dalla prima. Il solo rapporto esistente tra i due fattori è che entrambi introducono un nuovo modo di pensare in senso formalistico; eppoi, ammesso che la scienza possa modellizzare solo parte della realtà, questo non intaccherebbe le possibilità di applicazione della realtà virtuale e l'espansione, forse illimitata, della stessa. Alcuni critici della realtà virtuale sostengono che essa creerà in futuro una società atomizzata, costituita da individui sradicati dal loro contesto sociale, e che ciò potrebbe inaridire le nostre sensazioni, le nostre passioni, con il risultato di produrre un mondo popolato da robot, da morti viventi. Personalmente concordo sul fatto che diminuiranno radicalmente i rapporti sociali, ma in ciò non vedo controindicazioni. La realtà virtuale prospetta sicuramente un estraniamento dell'uomo dalla società solamente per il fatto che tale esperienza è essenzialmente individuale; le relazioni

umane si potranno conservare solo nel momento in cui si comunicheranno le esperienze virtuali agli altri. Inoltre, non è vero che la realtà virtuale è diversa da quella quotidiana, in quanto anch'essa è percepibile attraverso i sensi, è «concreta», e quindi non può inaridire le nostre sensazioni perché ha la stessa valenza dell'altra, anzi ne è un arricchimento. Altro quindi che mondo di zombie! Ci aspetta un mondo di creativi. Un'altra preoccupazione potrebbe concernere le modificazioni che necessariamente avverranno nella cultura, nell'arte, nella letteratura, in tutte quelle scienze umanistiche che finora hanno prosperato. Anche in questo caso, non credo che ciò sia necessariamente negativo. Le discipline umanistiche svolgeranno un ruolo molto minore, alcune di esse forse spariranno, come spariranno gli spettacoli, il teatro, il cinema, il turismo, addirittura, perché sarà la realtà virtuale a farci sognare, immaginare, viaggiare. Dal punto di vista antropologico alcuni critici rilevano che il mondo occidentale può produrre una realtà virtuale, per cosi dire, solamente di matrice occidentale, in quanto questa tecnica è espressione delle nostre categorie culturali, e quindi, in gran parte, irriproducibili in un'altra cultura, come d'altronde sono irriproducibili in modo perfetto le esperienze sciamaniche orientali o addirittura quelle animali. Il relativismo culturale, comunque lo si voglia intendere, pone degli ostacoli diffìcilmente superabili ad una visione del mondo integrata sulla quale si basa in definitiva la realtà virtuale. Non mi pare, tuttavia, che questa obiezione di natura filosofica, antropologica e linguistica, intacchi il concetto stesso di realtà virtuale, ossia la costruzione di nuovi tipi di realtà come arricchimento delle nostre capacità percettive. D'altronde è assai discutibile negare, come fa il relativismo, la possibilità di avere esperienze simili, o addirittura identiche, in culture diverse, e, in secondo luogo, il problema della organizzazione culturale di un dato percettivo è lo stesso sia che si parli di realtà quotidiana che di realtà virtuale. In definitiva, mi sembra che queste obiezioni di carattere filosofico non siano pertinenti al tema trattato; in un certo senso la

questione della realtà virtuale non merita di essere esaminata da un punto di vista filosofico, perché non è niente altro che un ampliamento della nostra capacità di fare esperienze concrete. Virtuale e reale indicano e significano, perciò, la stessa cosa. La realtà virtuale, in Natura, cultura, mente, a cura di S. Adami, M. Mar-

cucci e S. Ricci, Franco Angeli, Roma 1996, pp. 57-64.

Stati Uniti d'America: 2030 È andata a finire che una certa parte della vita e certe giornate fra le più intense e trasognate sono trascorse in America. Quelle folate di realtà intensa e densissima che mi hanno modellato le ricevetti nei villaggi indi o spagnoli del Nuovo Messico, inebriato dall'odore del deserto, meravigliato per l'ordine metafisico che intuivo nei villaggi secolari; nello scatenamento di fantasia lungo certi viali assolati della California; sulla riva del Pacifico, in parchi stillanti dello stato di Washington; nei villaggi Amish, identici a quelli bernesi del secolo XVII in Pennsylvania. Ma una valutazione fredda e perentoria delle circostanze la ebbi allo State Department di Washington, negli uffici delle tante Università calate nella verzura. E certe prospettive di borghi infami a perdita d'occhio, l'ubriaco vomitante sotto l'insegna del prestito su pegni, il bellimbusto che lancia la sua intesa tra il fetore di cucine turpi, diedero un'informazione minuziosa sulle basi della civiltà americana. Fu Ostrogorsky a spiegare come sulla malavita si regga l'edificio, come ogni banda assoldi il suo mast-head: l'idealista blaterante che copre il sopruso sistematico. Un orrore, eppure non saprei invocare un reggimento preferibile. Un'ossessione della legge che quasi strozza, eppure non so suggerire altro ad un occidentale. Questa costruzione in cui culmina l'Occidente, è forse in declino. La sua potenza militare verrà via via a servire sempre meno. Il primato finanziario è già svanito. L'industria ha tentato di fermare l'evolversi della tecnica, ha procurato di arrestare l'automazione, ma così facendo ha sigillato la vittoria giapponese. Alla depressione attuale l'America non può che sperare di reagire alla maniera dell'amministrazione Roosevelt. L'immenso paese dovrà scendere a un rango minore, trovando un'intesa difficile (forse impossibile) con i popoli finora oppressi. Nel 2030 sarà stabilita negli Stati Uniti, ma forse retta da mani giapponesi, la realtà virtuale. Quell'apertura su una molteplicità di realtà equivalenti e in contrasto fra loro, che fu il sogno degli ul-

timi anni Sessanta, quella liberazione che fu tentata e mancata con l'LSD, si offrirà in maniera sana e impeccabile. L'umanità americana sarà forse la prima a essere tramutata interamente, diventerà l'avanguardia librata al di sopra della realtà comune. Fin qui l'occhio si può spingere, ma la storia: l'imprevedibilità, il rischio di follia e di tirannide cingono stretto stretto l'uomo, nel futuro come nel passato. Che cosa ho ricavato dal restare a ridosso della realtà americana durante una vita? Ho scampato il pericolo di farmi mai guidare dalle vecchie idee, dai rimasugli di passato che allignano in Europa. Le follie del Novecento, comunismo e fascismo, in America non attecchirono mai; in un certo senso l'occhio rivolto all'America può indagare il fondo metafisico costante, senza mai subire deviazioni. Quelli che inventano la realtà, 1992.

«Il Gazzettino», Venezia, 11 settembre

Per una mistica futura Un pensiero di Naropa è rimasto finora recluso entro il buddhismo. Sarà cruciale comprenderlo quando la distinzione tra realtà reale e realtà virtuale sarà meno drastica e intimante di oggi: «L'immagine sacra non è un essere e nemmeno un non essere perché si ha la visione di una cosa che è tuttavia vuota di realtà. Nonostante l'assenza d'un ente reale, qualcosa tuttavia appare, come màyà\ come sogno o magia. Benché non vi sia una sostanza reale, ben si vede tuttavia che questo qualcosa nasce, e come la gemma dei desideri, ha il potere di adempiere alle aspettative di infinite creature». Su questo fondamento si potranno ripresentare sentimenti e eventi tradizionali della vita mistica. Non si ergeranno attorno ad essi mura invidiose, non voleranno sarcasmi, non si scateneranno esecrazioni morali. La loro via resterà sgombra. La mistica del futuro potrà d'altra parte rifarsi a forme sopravviventi ai margini del mondo attuale come il taoismo t'ai chi, Io yoga, il buddhismo vajra, lo dzog-chen, il ch'an e lo zen, le infinite versioni dello sciamanesimo emergenti del mondo. Eclissi e riemersione della mistica, «AM: Rivista della Società Italiana di Antropologia Medica», 3-4, ottobre 1997.

Epifanie

Nella nostra civiltà c'è un triplice spiraglio del divino: nella scienza che deve essere pura per poter essere utile in seguito, nella bellezza cui si sia ancora per avventura sensibili e nella disgrazia più profonda che non si sopponi per aderire a una forza, ma per essere crocifissi. Che cos'è la tradizione Nota introduttiva Ci sono parole, anche d'uso corrente, vestite di luce. «Epifania» che significa in greco «apparizione» è una di queste. La si associa alla venuta dei Magi a Betlemme per adorare il Divino Bambino, e la festa che le corrisponde, il 6 gennaio, è tra le più solenni del calendario cristiano. Ma non è necessario appoggiarsi al credo cristiano per cogliere le risonanze del tema epifanico che annuncia l'esistenza di ponti sottili tra ciò che ha vita e cade e ciò che dà vita e sale— come scrisse una volta Zolla a proposito di un antico testo cabbalistico. Quando le parole e le frasi di uno scrittore gettano ponti di questo tipo, cessano di essere parole e frasi e diventano portenti visibili: epifanie. Come figure in un caleidoscopio, le prose accolte in quest'ultima sezione aggrumano temi cangianti e disparati - dalla Pentecoste alle combinazioni impresse nel nome di 505

Laura, la donna angelicata dal Petrarca; dal golem, il «doppio» arcano dell'uomo nell'immaginario ebraico, all'androgino rivisitato nel mito greco e indiano, a Pinocchio, il burattino emblema di metamorfosi; dalle luminescenze peciose nei dipinti di Strindberg al duende evocato dal più dionisiaco dei poeti spagnoli, Garcia Lorca; dal culto bengalese di sahaja, personificazione della vampa erotica al di là del desiderio, all'idea di una conoscenza senza dualità, alla pittura vista come l'arte che vince la morte e infine al mare tremendo e mite nel quale EZ, sulle orme di Hofmannsthal, immaginò la foce della vita.

Un ardore fattosi lode: a proposito di un romito inglese Nacque Richard Rolle poco prima o pochissimo dopo il 1300 a Thornton Dale nello Yorkshire, da gente misera, ma si mostrò cosi pronto d'ingegno che il prete suo maestro di scuola gli pagò gli studi a Oxford. Tornò dai suoi a diciannove anni, e già aveva deciso di staccarsi dal mondo. Era una vocazione che non lo conduceva in un Ordine, ma lo spingeva verso i boschi e la solitudine, alla vita eremitica che andava ormai scomparendo in Inghilterra. Dovette scappar di casa perché i suoi lo credettero pazzo. Andò vagabondando ed un giorno, a Dalton, entrato in chiesa, fu riconosciuto dai figli d'un suo compagno di studi di Oxford, lo squire del luogo. Fu invitato a predicare e commentò le parole di San Paolo sui gemiti inenarrabili coi quali lo Spirito prega nell'uomo. Lo fece con tale forza da guadagnarsi i parrocchiani ed il loro capo. Ebbe in casa di costui una cella e potè, così protetto come in un bozzolo, cominciare la lenta opera di purificazione e di metamorfosi, che durò quattro anni e tre mesi e raggiunse l'apice. Egli scoprì l'efficacia del nome di Gesù come giaculatoria e della posizione seduta, della quale sempre torna a parlare (questa d'una stazione abbandonata eppure eretta, perpendicolare al suolo, come di un re sul trono, è l'unica prescrizione della setta za-zen, che significa appunto «sedere zen»: le spalle sono del tutto rilasciate, il peso del corpo cade su un punto vicino all'ombelico, si è senza turbamento e vigili, concentrati, senza sforzo). Fu assalito dai dèmoni, e una volta, narra la Vita del suo ufficio, lo visitò la forma d'una donna da lui dianzi vagheggiata, e lo avvicinò, ed egli non poteva muoversi, ed ella lo stava avvolgendo, quando egli riconobbe in lei il demonio e subito gettò i suoi pensieri nel dolore tremendo della morte del Cristo, invocò il sangue sparso sulla croce, e di colpo si sciolse dalla paralisi e fu salvo. La purificazione lo condusse finalmente alla «apertura della porta», come egli la chiama, quindi alle tre fasi successive, calor, canor, dulcor com'egli le chiamò: un calore perfino fisico, un ardore contemplativo che ridondava nel corpo stesso, poi uno sciogliersi in canto e infine una dolcezza soave. Più tardi questi momenti divennero in

lui tre abiti costanti, alternamente prevalendo l'uno o l'altro. La successione delle tre fasi è come una smaterializzazione, onde si passa dal puro calore o fuoco che è l'essenza di ogni cosa, al puro suono e di 11 all'ineffabile, amorosa origine. Cosi nella cella d'una casa dello Yorkshire, grazie alla semplice ascesi mentale [...], egli ripercorre la via immemoriale, a ritroso, verso l'Inizio, la Creazione, che è pur indicata in ogni teoria del sacrificio, attraversa i tre stadi della pura luce, del puro suono, dell'ineffabile pienezza.1 Il senso d'un calore anche fisico e l'audizione d'un canto di cori vicini e invisibili sono accadimenti frequenti negli annali della vita mistica, ma come per quasi ogni verità di quest'ordine si rischia d'essere fraintesi a divulgarli. I mistici inglesi successivi, l'autore di The Cloud ofUnknowing e Hilton, insegneranno a sospettare dell'ardore sensibile. Ciò che distingue Rolle fra i mistici d'Occidente è la sua teoria dei suoni interiori salvifici, i quali rendono intollerabile ogni musica esteriore e audibile. Nel Melum egli dice che «calpestando il male egli procura di essere fatto perfetto dal canto».2 Fu censurato per questa dedizione alla musica catartica interiore ed egli si lamentava nel suo contorto latino. «Non credunt quod capior ad Carmen canorum, autscriberem constanter in modo mirabile de cantu cantatesi, eppure come dice la bella versione inglese delle sue proteste, « the Magnificent Majesty mode me miraculous in mind through music»: la mirabile Maestà lo rese di mente miracolosa attraverso la musica. Ma altre censure cominciano a tormentarlo [...]; si tenta di indurlo in chiacchiere sperando di sorprenderlo in eresia. Lo si accusa probabilmente di disubbidienza, o almeno di sottrarsi alle condizioni in cui vige l'obbedienza. Egli difende con asprezza i diritti della vita eremitica del rapporto «dal solo al Solo», come di1. Sulle cosmogonie si veda M. Schneider, Le basi storiche della simbologia musicale in «Conoscenza religiosa», 3 settembre 1969. 2. La mistica comparata avrebbe in Rolle un caso d'elezione: egli scoprì via via, in termini indiani, la via del mantra«Gesù!», Xasanao posizione giusta, il calore o tapas ed infine lo sabdayoga, «unione del suono» o anahid «suono assoluto». Per i paralleli con altri mistici occidentali, vedi l'ultimo capitolo in E. Zolla, Lepotenze dell'anima, Bompiani, Milano 1968.

ceva Plotino, e osserva che ormai si vuol vivere in comunità perché non si gode più della conversazione angelica. E osa incalzare: non si è santi perché si ubbidisce ai superiori, ma perché si procura d'ubbidire a Dio solo. La diffidenza verso Rolle durò a lungo se il romito suo discepolo Thomas Basset attorno al 1400 lo difende ancora dall'accusa di voler rendere il fedele giudice di se stesso. Eppure non c'è nulla in comune fra Rolle e i Lollardi, egli non pronuncia eresie, la sua rivendicazione della solitudine eremitica, dei gradi di calor, canor, dulcor, non è una proclamazione del libero esame. Cosi le sue traduzioni dei Salmi non sono esortazioni a improvvisare un'esegesi, ma moduli che egli offre per giungere come lui all'estasi. Il loro inglese è delizioso, soltanto i sommi traduttori di Giacomo I eguaglieranno quella melodicità. Rolle fu lontano dalle eresie quanto la beata Angela da Foligno, che gli è molto affine per il disdegno delle insidie settarie e la singolarità delle esperienze.

Introduzione a Richard Rolle, Canto d'amore, a cura di E. Zolla e M. Castino, Esperienze, Fossano 1970.*

* La pagina interna bianca del libriccino reca una dedica autografa in latino a Vittoria (Cristina Campo).

Non c'è cima senza fondo La leggenda insegna che Elsa, la vergine calunniata, e l'intero Brabante furono salvati da Lohengrin. L'eroe volle che restasse ignoto il suo nome e con saggio candore i Brabantini si dissero che da lui proveniva loro la serenità e questo bastava. Elsa invece non resistette, domandò all'eroe il nome e l'origine, ed egli dovette abbandonare lei e il Brabante. Così fu di questo libro felicemente anonimo, che anonimo sparse molte soavità nei cuori e per tanti tramutò il pianto dell'afflizione nel dono delle lacrime. Nel Medioevo si stava agli effetti d'un'opera, senza interrogazioni curiose, filologiche, avvocatesche, e all'anonimato si rimediava, semmai, con un nome d'autore illustre qualsiasi. Non còsi la Cristianità umanistica; dinanzi a questo libro non si diede pace, confrontò testimonianze, scrutò le patine di pergamene e la qualità di sbiaditi inchiostri per estorcerne un nome, una residenza, una data. Ma via via, quanto più venne affinandosi e arruffandosi l'indagine, di tanto s'affievolì l'influsso, immenso, dell'opera. L'autore aveva pur voluto rimanere oscuro. Come il gaudente soltanto dietro lo schermo d'una bautta corre all'avventura con agio perfetto, è prudente che chi voglia confidare verità mistiche si occulti, non denudi il volto, non sveli il sigillo dei suoi limiti umani. Il libro pure ingiunge di non cercare chi l'abbia composto. All'ordine si disubbidì, si tentò di ricostruire la psicologia di chi forse era riuscito a non averne più una, prima d'accingersi a insegnare agli altri come si fa a liberarsi dell'io; si volle accertare l'ambiente, le tendenze sociali che influirono su chi se ne era strappato; ci s'impuntò ad appurare l'epoca precisa in cui era vissuto chi aveva trasceso il suo tempo per confondersi con uno qualsiasi e con ognuno dei momenti esemplari dell'eone cristiano. Tant'è, le attribuzioni spaziano fra il primo millennio e il secolo XV. L'ultimo ragguaglio sull'indagine interminabile è di Albert Ampe (L'Imitation deJésus-Christ et son auteur, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1973), il quale di suo propone come data di composizione il 1370 circa.

L'attribuzione più remota aggiudica l'opera a San Basilio (cosi un manoscritto del 1482). In Francia, in Italia, in Boemia si osò indiziare come autore San Bernardo, finché si notò che nel testo è citato il posteriore San Francesco. Un traduttore francese nel 1538 insinua che l'autore fosse Ludolfo di Sassonia. Molti si ostinarono a ficcare il libro fra le opere di Jean Gerson (m. 1426), [...] quel Gerson cancelliere della Sorbona, dov'era succeduto al suo maestro Pierre d'Ailly (lo stesso d'Ailly che nel De concordantia astronomiae prevedeva per il 1789 [...] la rivoluzione francese: «il y aura grands, nombreux et étonnants changements dans le monde, prìncipalement dans la Loi et la Religion»). Cene dottrine particolari sul discernimento degli spiriti, sull'arte di distinguere le ispirazioni diaboliche, naturali e soprannaturali, sono comuni all'Imitazione e al Gerson (come anche al d'Ailly). Ma come scambiare il melodico stile, opulento nell'aggettivazione, ornatamente addottrinato, del Gerson con quel nudo ricalco del Libro dei Proverbi che è l'Imitazione^ Un'altra attribuzione emerse quando il Caietano a Genova si trovò fra le mani un testo ascritto a Gersen, abate di Santo Stefano a Vercelli tra il 1220 e il 1245. Ancor oggi s'insiste a prò di questo oscuro benedettino. Ma l'attribuzione più convincente è pur sempre stata quella a Tommaso da Kempis. Tommaso nacque a Kempen presso Dusseldorf nel 1379 o 1380. Entrò nel 1398 nella comunità di pii copisti raccolta da Florent Radewijns a Deventer. Erano costoro ispirati a Gerard Groot, l'amico di Ruysbroeck (c'è chi ha voluto attribuire a Groot il brogliaccio su cui si sarebbe poi rifinita XImitazione). Nel 1399 Tommaso si offriva oblato al convento dei canonici regolari di Zwolle, dove avrebbe preso gli ordini nel 1413 o 1414. Fu proprio dell'ambiente della nuova devozione fiamminga, cui Tommaso appartenne, il disinteresse per le squisitezze dottrinarie, a prò del metodo mistico pratico, inculcato con periodi brevi di due membri (raccolti da ogni fonte: i cosiddetti apiario)-, rit-

mando queste asciutte frasi, o sprofondandosi in una di esse, ci si affrancava dal delirio raziocinante, avvocatesco, delle vecchie dispute. L'anno in cui Tommaso si aggregò alla comunità, moriva Gerhard Zerbolt di Zutphen, maestro di esercizi spirituali, che lasciava la sua Riforma interiore o le potenze dell'anima e le sue Ascensioni spirituali-, era uno d'una pleiade, di cui i più prossimi a Tommaso sono Henri Mande e Gerlac Petersz o Pettersen, del tutto staccato, quest'ultimo, dal linguaggio scolastico, librato in patetici colloqui con Dio. Nel 1741 Tommaso concluse la sua vita, che era trascorsa tutta daustrata, preservata da ogni contaminazione di avvenimenti esterni. Oltre a molte ascetiche, egli lasciò alcune opere squisitamente mistiche: il Soliloquio, ì'Hortulus rosarum, la Vallis liliorum, la Cantica, il De elevatione mentis e vite di santi, fra cui quella di Liduvina di Schiedam, amata da Gòrres e da Huysmans, quando essi, evasi dal loro secolo, cercarono riparo nei giardini spirituali del Medioevo. Nel 1441 sta di fatto che Tommaso autografò una copia dell'/mitazione soggiungendo: finitus et completus. Ma la prima attribuzione a lui nel suo ambiente data dal 1428. C'è chi non ne è del tutto persuaso. Il mondo in cui questo libro era lettura di tutti ormai è scomparso. Ripenetrarvi fra non molto sarà altrettanto arduo come ripristinare con la forza d'una retta fantasia, per esempio, una scena di uomini dal berretto a punta che in cima ad un colle etrusco scrutino, con estatica attenzione, in un fegato violaceo, liscio e palpitante, il cosmo e il destino. Vanno infatti impallidendo, dileguando via via che la morte falcia le ultime vive memorie, le scene che bisognerebbe rievocare intorno alle pagine di questo libretto. Scene un tempo quotidiane - come il canto virile che si alza a vespro verso le buie materne volte d'una cattedrale o il delicato fruscio di sai fra l'uno e l'altro rintocco della campana - giova riconvocare nell'orecchio; il mite sapore di cibi certosini giova

immaginare ancora sul palato; e rivedere con l'occhio monache dal volto celato in perpetuo dal cappuccio nero, esalanti da dietro una grata la loro compassione per i viventi nel mondo per citare brandelli a caso di quel che era un vivido arazzo, inghiottito dalla corruzione e dalla morte ormai al pari dei delicati riti isiaci o delle messe nestoriane delle steppe asiatiche, dei riti manichei, tutti ormai riassorbiti nel cielo delle forme formanti donde erano calati in forme formate e visibili, forse destinati in nuovi eoni a riassumere forme caduche o forse viceversa a rimanere, ormai, nell'eterica, intangibile perfezione dell'infinita possibilità. Sulla Roma cristiana oggi si rimormorano i versi di Baldesar Castiglione dedicati alla pagana:

Superbi colli, e voi sacre ruine Ch '1 nome sol di Roma ancor tenete, Ahi che tante reliquie miserande avete Di tant'anime eccelse e pellegrine! Eppure chi saprà far sua \Imitazione, potrà cantare con Isaia, LVIII:

Ricostruiamo le rovine antiche e Tu farai risorgere le fondamenta dei secoli trascorsi, Ti chiameranno «Restauratore delle rovine», «Colui che rende riabitate le strade». Che cosa può cogliere delle pagine di questo libro un lettore d'oggi? Esse andavano soprattutto lette in celle o passeggiando per chiostri, perciò vi si inculca impunemente l'obbedienza, la conformità a comunanze impegnate nella pura contemplazione. Chi nel mondo le leggeva, si trasportava per un momento in quei nudi silenzi. Certo poco ne esala oggidì, rispetto alle amorose rispondenze che vi scopriva il lettore antico, cui ancora era accessibile il refrigerio di sacri silenzi. A lui certo non dava fastidio quel rammen-

tare i tormenti infernali in tono di minaccioso monito e rimbrotto (resta da vedere chi sia puerile: colui che rifiuta queste minacce o chi se ne serve e sa che accoglierle è profitto). Sicuramente tuttavia il lettore d'oggi, se sarà attento, scoprirà qui tesori che gli sono ben necessari. Può impararvi una conoscenza religiosa che gli illuminerà dall'alto l'anima, quell'anima o psiche la quale oggi i più sottili poeti esplorano come cieche talpe, palpandone le viscide pareti, misurandone a carponi i camminamenti, nemmeno immaginandosi che esiste un mondo superiore all'anima, un cielo da cui la si può scorgere come da una specola: lo spirito. A passare dall'anima allo spirito insegna questo libro, non alla maniera complessa e argomentante di certe altre opere di Tommaso da Kempis, bensì mercé un miracolo: uno stile di assoluta accessibilità. E dire che il trapasso dall'anima allo spirito è un concetto fra tutti difficilissimo. Quasi nessun moderno è capace di coglierlo. Come non afferrarlo però nell'esposizione di queste pagine (III, 33), là dove esse invitano a notare quel fermo e puro occhio dell'intenzione (intenzione di purità e chiarezza interiore), quell'occhio che contempla, grazie all'intenzione incrollabile, la propria psiche oscillante e mutevole? Altrove questo libro tenta di destare la stessa conoscenza dello spirito, distinto dall'anima, proponendo quello che potrebbe essere un perfetto koan: «Dove sei tu quando non sei presente a te stesso?». Forse avverrà che il lettore d'oggi impari la soavità dell'ordine e della precisione nell'uso di parole che la pratica religiosa dell'ultima fase cristiana ha coperto di melma sentimentale. Eccone ripristinato il significato luminoso: per «purezza» nell'Imitazione s'intende «ciò che fa sì che non si cerchi consolazione dalle creature»; per «carità» e «amore» s'intende un sentire che vuole restare libero da ogni affetto mondano «per non essere impedito nel vedere l'interiorità correndo verso Dio»: un levarsi sopra se stessi per colmo di stupore e meraviglia e gratitudine. La magia nera delle parole della tribù qui è esorcizzata; le contaminazioni di sacro e profano qui sono bandite. E quali profitti non raccoglieranno coloro che metteranno in serbo certe massime,

come: «se cercherai in qualche cosa te stesso diventerai arido»; «abbi i beni temporali per uso, gli eterni nel desiderio»; «chi si gloria fuor di Dio, del Principio delle cose, non potrà riposarsi in allegria, né allargare il cuore, ma sarà impacciato e angustiato». Il libro è ascetico prima che mistico, eppure addita sobriamente alle gioie spirituali, a quel pleroma&i cui le voluttà terrestri e le delizie note al mondo profano sono offuscati frantumi. Per avvicinare a tali gioie, suggerisce in uno scorcio operazioni vertiginose: se tu vedessi tutte le cose dinanzi, sarebbe vana visione. I segreti magici taoisti del non agire eccoli in un guscio di noce, esposti da questo libro che un tempo andava per le mani di tutti, là dove suggerisce: «mettiti sempre in fondo e ti sarà data la cima, perché non c'è cima senza fondo». Oh candido Nietzsche, convinto, come un illuminista qualsiasi, che questa esoterica dottrina fosse una morale di schiavi! In una vignetta dell'Amphitheatrum sapientiae aeternae, il secentesco libro di figure alchemiche di Khunrat, si vede il Ricercatore che insegue un coniglio bianco che s'è infilato in una buca del terreno da cui si passa ai regni arcani e mistici. Per schiere di morti questo libro fu - e forse sarà per nuovi lettori ancora - un tal coniglio bianco, fecondo, fulmineo mediatore.

Introduzione a YImitazione di Cristo, Rizzoli, Milano 1958.

La Pentecoste e il mondo moderno

Èpossibile rivivere la Pentecoste nel mondo moderno? Sì, ad un patto difficile a tenere: a patto di cominciare con l'irridere tutto ciò su cui il mondo moderno si fonda, su tutte le idee che il mondo moderno ama. Se siete da tanto, cominciamo a rievocare ciò che accadde nell'anno 33 in Gerusalemme. Ma come pensare di riviverlo? Con un'analisi storica? Non andremmo molto lontano usando soltanto gli strumenti dello storico. Ancora: è questo un avvenimento che la storia giudica o un evento che giudica la storia? È compreso dalla storia o comprende in sé la storia? È storia o fonte di storia? Affacciamoci su questa città [Assisi], ma con quale animo? Quello di chi raccoglie notizie per un'autorità civile che vuol essere ragguagliata? Il vostro rapporto suonerebbe come quelle poche frasi dello storico latino: «gli Ebrei hanno tumultuato spinti da un tal Cristo o Cresto». Se vi muove la vera curiosità, o la vanagloria del dotto, vedrete semplicemente delle folle in pellegrinaggio, un certo agitarsi attorno a dei predicatori improvvisati. I santi trassero il miele di una letizia ineffabile da questa Gerusalemme di Pentecoste, una gioia che vorrebbero dall'aldilà trasmetterci, per poco che li volessimo ascoltare. Noi diremo dunque: voglio andarci, perché desidero comporre nella fantasia il quadro di ciò che avvenne, sapendo che i santi della Cristianità da quel quadro trassero ciò che li rese sapienti, forti, incrollabili, ispirati. Se quel quadro ci apparirà nitido, avremo in dono un senso di gloria, qualcosa di più della letizia.

Nel tempio di Gerusalemme: riti e simboli Siamo in maggio: in tutto il mondo si celebrano i raccolti; nel tempio di Gerusalemme si celebra un rito, si offrono due pani,

fatti con il frumento nuovo a Colui che ha donato il sole, la terra e la vita a quei pani. Cinquanta giorni prima, a Pasqua, sono stati offerti invece pani azzimi, senza fermento, e pani d'orzo, non di frumento; ora invece si offre, si consacra una pasta fermentata. Un grande simbolo si cela nel lievito: simile a un seme, racchiude qualcosa della potenza creativa, rappresenta meglio fra tutti gli emblemi del mondo, dunque il Creatore, ma è anche un simbolo duplice e pericoloso. Ci può essere una fermentazione che non è quella della creatività, venendo da colui che odia la creatività. Cinquanta giorni prima, per rispettare questa simbologia dei fermenti, si era evitato di usare il lievito nel pane, consumandolo azzimo, cotto sotto le ceneri, quasi a simbolo di penitenza. Quel fermento che cinquanta giorni prima era aborrito, ora è religiosamente usato; fermento e fervore vengono dalla stessa radice; fuoco, spuma e fermento sono simboli equivalenti. Si medita dunque oggi in Gerusalemme sul lievito visibile e quello che invisibilmente pervade la città. Osserviamo: si sacrificano due agnelli, il sacerdote agita sopra e sotto di essi due pani che scuote avanti e indietro, in su e in giù. Quell'andare avanti e indietro dei pani rappresenta la benedizione dei quattro punti cardinali, simboleggia lo spazio intero e l'ordine dello spazio, quindi la bellezza del mondo. Quel sollevarli e abbassarli significa Colui cui appartengono cielo e terra, cioè l'origine e l'originato, l'angelico e il visibile, il segreto e il manifesto. Quel sacerdote agita quei pani per fermare i venti e le rugiade nuove, cioè per simboleggiare la difesa che la lode di Dio offre per riparare il delicato frutto dello spirito che in noi ora dovrebbe granire, come è granito il frumento. Quasi non c'è fine alle spiegazioni simboliche... cinquanta giorni prima era stata celebrata la Pasqua che significa «passaggio» e se da un lato si celebrava il passaggio dall'Egitto al deserto del Sinai, si intendeva altresì celebrare il passaggio dalla vita carnale alla spirituale, dalla prigionia del mondo alla libertà della solitudine. Ad ogni Pentecoste tutti celebravano il grano e il lievito, la rivelazione e le leggi che permettevano di santificarsi, il cibo materiale e il sovrasostanziale. Se avessimo interrogato un mistico [...] ci avrebbe spiegato

che l'uomo è simile ad una candela: il corpo è il cero, lo stoppino l'anima e la fiamma lo spirito.

In attesa della Pentecoste I discepoli e la Vergine da pochi giorni erano stati abbandonati dal Maestro che si era lasciato sacrificare come un agnello, dopo aver insegnato una celebrazione particolare della Pasqua, del passaggio. Sarebbe stato altrettanto sconvolgente il mutamento della Pentecoste? I discepoli si erano dunque ritirati a pregare, colmi d'incertezza e assillati da interrogazioni; dal Maestro avevano avuto spiegazioni ma restavano a cospetto di enigmi insondabili. Tutta la storia della loro fede avita era confermata e capovolta. L'intensità di gioia e di sgomento di quei giorni dobbiamo farla nostra, in certa misura, se vogliamo intendere quel che avvenne dopo. Essi recitavano la preghiera insegnata dal Maestro, ma quel regno dovevano invocare e nel contempo non pensarci [...]. Infine giunge l'ora terza di stamattina. Ed ecco quel fragore del Sinai fu di colpo riudito e cominciò a soffiare un vento veemente. Dio — dice la Scrittura - apparve sul Sinai come fornace, qui invece appaiono lingue di fuoco, o apparizioni simili a lingue di fuoco, e calano sui discepoli. In questo quadro leggiamo la teoria della Grazia. Se il sole è la fornace cosmica, emblema del Padre, la luce e il calore sono la sua sostanza. Ma la partecipazione a questa sostanza ci è comunicata come qualcosa che è destinata individualmente a noi: il nostro destino è sempre singolare; lo Spirito si effonde sull'uomo singolo, anche se propiziato da preghiera comune. Coloro che sono accorsi al boato osservano sgomenti quegli uomini che, travolti da un'ebbrezza divina, esultano. Alcuni s'accostano con devozione, altri dicono: «costoro hanno bevuto vin dolce, cioè nella Palestina di allora, vino pepato». Quanti di noi stanno dall'una e quanti dall'altra parte? Quanti di noi direbbero: «hanno bevuto vin dolce!»? Quanti di noi vorrebbero, viceversa, mettersi in ginocchio ed ascoltare? Ci

vuole molta umiltà ed audacia per non esclamare: «sono ubriachi» invece che: «hanno conosciuto di schianto verità tali, hanno capito di colpo tali cose che non stanno più nel loro corpo, bruciano, radicalmente diversi dai poveri esseri umani travolti dalle loro comuni esultanze. Che io lo impari da loro!». Pochi sanno dire cosi. Nella calca di Gerusalemme così dissero tremila persone!

In quell'ora si svelò il Mistero della Trinità In quell'ora terza, dice la liturgia greca, si svelò il mistero della Trinità, solo allora si compì la rivelazione completa: «Noi tutti» proclama maestosamente, alla nona ora «sui quali la grazia deificante ha soffiato dall'alto, divenuti folgoranti, splendenti, tutti trasformati da un mutamento inaudito e magnifico, contemplando la sapienza uguale di forza e indivisa, glorifichiamo l'essenza del triplice irraggiare».

«Porziuncola», Assisi, nuova serie 502, n. 7, agosto-settembre 1972, pp. 220 s. Testo della conferenza per la serie «Appuntamenti dello spirito», Sala Francescana di Cultura, Assisi, maggio 1972.

L'azione profana di oggi fu sacrale nei primordi Ogni cosa si spiega ritraendola alle sue origini, e all'inizio di ogni opera umana scopriamo un rito, sicché l'esclamazione di Faust si salva purché completata: «All'inizio fu l'azione rituale». E quale azione oggi profana non fu infatti sacrale nei primordi? L'agricoltura stessa si dice nascesse dalla costumanza di posare primizie votive sui tumuli e di farvi immolazioni che ingrassavano il terriccio; le piante cosi disseminate e nutrite dalle onoranze funebri spuntavano quasi come una risposta dei morti. L'opera agraria che ne sorse fu tutta sacerdotale e le tradizioni contadine ne recano qualche esile traccia. Il primo allevamento del bestiame non fu economico ma zoolatrico; la sensitività talvolta vaticinante dell'anima belluina destava meraviglia e le capacità che hanno le bestie di accettare senza retour sur soi mème iì primo destino e la loro pratica dell'orazione (poiché ancora Tertulliano nel De Oratìone affermava che le bestie pregano) inducevano a tributar loro un culto. Ma perfino le astuzie della caccia, la quale nei primitivi suscita pene e pentimenti placati soltanto in virtù di cerimoniali espiazioni, furono originariamente riti che imitavano l'andatura e il timbro degli animali con un'emulazione religiosamente amorosa o almeno simpatica che ne penetrava il segreto, ne coglieva il ritmo (il nome segreto), offrendo un irresistibile specchio alla loro anima. Nei riti dionisiaci che tuttora si perpetuano nelle campagne della Tracia era consuetudine tempo addietro richiamare dai monti con certi canti il capro che l'anno prima era stato messo in libertà e che accorreva come risucchiato nel vortice delle musiche e dei balli, quasi offrendosi in olocausto. Tuttora in Spagna usa indurre le colombe a calarsi in volo scagliando con la fionda una pietra da cui pendono certe carte le quali vibrano con un suono consentaneo alle colombe; rito originariamente d'omaggio, certamente all'origine dell'arte dei frombolieri iberici lodati da Cesare. Tuttora si incanta il serpente con il tamburo in Marocco, ed in India con il flauto, né dovrebbe essere impossibile scoprire negli

Abruzzi qualche superstite serparo esperto nelle seduzioni del fischio rituale. La storia dell'amore dell'uomo per le bestie è delle più tristi, poiché è quella d'una mimesi culturale che si corrompe fino a diventare adescamento di cacciatore. Si narra spesso che i santi impetrino nuovamente il totemico, rituale rapporto con le belve, e d'altronde la santità è appunto la restaurazione delle origini; un tempo ci si dilettava di dipingere Elia col suo corvo, San Girolamo col leone, San Francesco dinanzi agli uccelli o al lupo, Sant'Antonio che parla ai pesci. Soltanto la singolare gravitazione verso la rapacità dei moderni fa adoprare qualunque ritrovato per fini utilitari: ai Cinesi non venne fatto di usare la polvere pirica se non per i fuochi d'artificio delle loro celebrazioni né d'impiegare la bussola se non per i riti di geomanzia; i mulini in Giappone furono adibiti dapprima soltanto a far girare le macine da preghiera. E quale lavoro non imitò una cosmogonia? La tessitura, la fusione dei metalli furono imprese sacrali, in cui ogni gesto rinviava a processi paralleli e scambievoli di purificazione interiore, i loro canti di lavoro erano nel contempo inni liturgici e le loro macchine erano sacre suppellettili. Come non esistette in antico un lavoro non contemplativo cosi nemmeno era concepito un gioco fine a se stesso. Presso alcune tribù dell'Equador il gioco dei dadi tuttora è un'evocazione dei morti, e il gioco del pallone fu presso gli antichi messicani un culto in cui le squadre dei celebranti dovevano scoprire dalla sorte se stavano impersonando l'una o l'altra persona del Serpente piumato, ed era ancora una cerimonia ecclesiastica nel Medioevo europeo, nella cattedrale di Auxerre. E ciò che oggi è macelleria fu immolazione ieratica, ciò che è matrimonio fu ierogamia, ciò che è gara fu riesumazione religiosa della lotta perenne tra gli opposti, ciò che è guerra o azione in giudizio fu tenzone cerimoniale e ordalia, la ginnastica e gli esercizi acrobatici. Nello stato primordiale per l'uomo conta la quiete interiore non deturpata da passioni personali o collettive, da immagini arbitrarie o da futilità, poiché per esperienza egli sa che ripulendo l'anima fino a renderla specchiante, si acquista preveg-

genza, giustizia (quale arte di assegnare a ogni cosa il suo luogo naturale), indifferenza regale. Impetrare la quiete è il sommo bene, di fronte al quale ogni diverso proposito diventa trascurabile; quando si imponga inevitabilmente il bisogno d'occuparsi di altra cosa l'uomo tradizionale la inquadrerà in modo da non esserne sopraffatto, e cosi la guerra diventerà esercizio ascetico, la caccia sarà esercitata con riverenza verso le vite che tocchi sopprimere, il raccolto stesso impegnerà ad atti di omaggio verso le forze vegetali. Il miglior mezzo per tenersi in uno stato di equilibrio perfetto è la contemplazione del tutto sicut in principio etnuncet semper e la sua ricapitolazione perpetua, perciò ogni manufatto umano nello stato primordiale deve presentarsi alla contemplazione e ripetere simbolicamente il modello del cosmo quale struttura di piani digradanti dall'essere al divenire. Di queste verità ci si è accorti abbastanza di recente, grazie all'opera di Bachofen nel secolo scorso e all'audace Frobenius, ma anche per merito di certi inglesi: Tylor nel 1871 credette di contribuire alla dogmatica e apologetica dell'evoluzionismo con Primitive Culture, ma veniva soprattutto notando quante cose d'apparenza trascurabile della vita quotidiana fossero fossili dall'augusto passato, come la raganella o la trottola, antichi strumenti sacri. Nel 1912 poi, Murray intrattiene sulla nascita liturgica della tragedia e Cornford sulla consimile scaturigine dei gioci olimpici e nel 1923 Goitein riconosce la forma integra di ciò che oggi sono gl'istituti giuridici nelle ordalie e infine nel 1927 Scott Buchanan (in Poetry and Mathematics) osa discernere dietro ogni giudizio sintetico, e dunque dietro ogni pensiero scientifico, la procedura sacrale dell'agone, con i suoi momenti: lo sparagmóso lacerazione, Yanagnórisis o riconoscimento, e l'epifania infine della nuova idea. L'azione profana di oggifu sacrale nei primordi, «Corriere della Sera», 15 settembre 1966.

La sapienza primordiale Capita, a chi studi la letteratura mistica, di intravedere una storia del tutto opposta a quella evoluzionistica, dei manuali, delle concioni e, di conseguenza, dell'opinione comune: invece di movimenti lineari o di spirali (reculs pour mieux sauter) che si snodano verso un futuro sempre più confortevole, il divenire si configura come un caleidoscopio dove un numero noiosamente uguale di vizi contrasta, sotto vesti via via diverse, la successione di stupendamente uguali vocazioni, all'estasi o semplicemente all'impassibilità. Queste pigliano forme, si valgono di simboli analoghi fra loro nel tempo e nello spazio senza che nessi storici, trasmissioni documentabili giustifichino tale loro perennità: identico nel volgere dei millenni il santo, identico il suo avversario, la storia si vanifica in un'eterna lotta dello stesso eroe con un Proteo multiforme quanto immutevole. A voler delineare comunque una storia, essa appare allora semmai come un moto calante da un Eden dove la comunità intera aspira all'estasi e al rito e vive con empito i suoi simboli, come una vicenda digradante di corruzione in traviamento fino ai moderni mondi industriali. Emblema della storia sarà dunque non già il Titano che scali l'Olimpo spezzando a una a una le proprie catene e via via strappando a Giove le armi, bensì piuttosto il granchio freneticamente retrogrado. Questa visione della storia universale presso i conformisti passa per un'allucinazione, una febbre che coglierebbe l'incauto il quale osi esplorare una regione infida, contro la quale la cultura ufficiale, giudiziosa, non manca di porre in guardia: il mondo dei mistici per la cultura moderna è infatti un quartiere culturale malfamato, la parola stessa «mistico» passa per un termine spregiativo, perfino più di «torre d'avorio» (locuzione nella quale soltanto un uomo di un rigore e una indipendenza straordinari oggi saprebbe riconoscere un altissimo fine e una lode quale soltanto la Madre di Dio merita in pieno). Eppure tutti gli antichi, da Confucio a Platone, nutrirono la certezza d'un Eden primordiale che oggi sembra, ai più, malfa-

mata. Sembra, forse per poco tempo ancora, poiché da molti e diversi punti di partenza si torna ad approdarvi e si riconosce la follia della vessatoria fede evoluzionistica, rifiuto positivistico da lasciarsi ai Teilhard de Chardin. Nella storia delle religioni il saccheggiato e poco citato Wilhelm Schmidt mostrò come tutti i dati si chiarissero se si postulava una Rivelazione primordiale. Nella storia della musica Curt Sachs avviò quegli studi di etnomusicologia che Marius Schneider ha condotto al punto in cui riaffiora il postulato di una sapienza primordiale perfetta. Nella etnologia è avvenuto che tutti coloro i quali abbiano indagato a fondo un qualche popolo fossile, abbiano visto riemergere sotto i loro occhi il cosmo ordinato e perfetto delle origini (è di questi giorni il volume di G. C. Griaule Etimologie et langage, sulla teologia vissuta del Verbo presso i Dogon). Nella paleontologia Koenig mostra come questa riscoperta si imponga, una volta che ci si sia affiancati dai pregiudizi positivistici e si cessi di misurare la eccellenza intellettuale dell'uomo sulla qualità tecnica dei suoi manufatti. In questo momento è proprio dal luogo dove sembrava volersi arroccare lo spirito dell'evoluzionismo che giungono i più confortanti messaggi: la storia della scienza diventa la via d'accesso più diretta alla sapienza, alla metafìsica primordiale grazie alla «cosmologia arcaica» che Giorgio de Santillana sta lentamente edificando con l'aiuto di alcuni collaboratori che si è saputo scegliere nel Massachusetts Insti tute of Technology (un sinologo, un astronomo eccetera). Il mese scorso egli ha esposto, in una conversazione all'Istituto Accademico di Roma, questa sua esperienza, con graziosa semplicità: «Io sono storico della scienza - svolgo quindi un'attività considerata rispettabile - ma mi sono abbandonato alla fuga nelle antiche età, all'indietro, e da storico del pensiero greco che fui per qualche tempo — si sta sempre bene in Grecia - mi sono ritirato piano piano verso i millenni avanti Cristo. Le mie ricerche sul pensiero scientifico mi spinsero più in là della Grecia, e mi trovai in ambienti molto meno familiari e naturali - la Grecia è un pochino casa mia — ma mi ci spinsi perché cercavo quale fosse l'origine di questa nuova cosa nel mondo, che è il pensiero scientifico. E quando mi guardai attorno là dove ces-

sano i documenti scientifici strettamente detti, mi trovai in regioni dove si parlava senza alcun costrutto dal punto di vista scientifico. Si chiamava allora, questa roba, materiale mitico e religioso. La parola "religioso" concede spesso ai dotti di non aver da cercarne il senso, e al traduttore di mettere insieme parole in libertà, purché abbiano un certo senso poetico, aulico. Ma mi colpirono anche nei cosiddetti Primitivi certi discorsi che dimostravano un costrutto effettivo che, seppure incomprensibile, si riallacciava certamente anche alla mitologia greca. E fidando nell'idea che questa gente non erano dei sempliciotti o dei visionari come qualche volta i traduttori li facevano apparire e appoggiandomi alle grandi ricerche dell'etnologia culturale - in questo soprattutto i tedeschi mi hanno aiutato, perché gli americani sono rimasti un pochino troppo fissi all'antropologia - andai avanti, e ci vollero anni di schedatura e di ricerche critiche, ma via via era come se vedessi emergere un continente sommerso - come la cathédrale engloutie di Debussy, di cui ancora si sentono le campane sotto l'acqua. Era un continente nel tempo, non già nello spazio, era il mondo che conosciamo, ma attraverso millenni scomparsi - diciamo almeno fino al 7000 avanti Cristo». De Santillana cita Cocteau: «puisque ces mystères nous dépassent, tâchons de nous enfaire l'organisateur», e ricorda come in questa nostra generazione una pleiade di studiosi si sono messi all'opera: «nomi come Hartner, van den Waerden, von Dechend, Needham, Werner, Marius Schneider, forse provenienti da tutto l'orizzonte della cultura». Infatti Marius Schneider sta completando, anche lui, una monumentale Cosmogonia. Una naturale convergenza di studi va determinando quella che l'ultimo grande metafisico europeo, René Guénon, chiamava la Tradizione e la sua «scienza sacra». Nel volume da poco uscito presso Sansoni, Le origini del pensiero scientifico, de Santillana parla della «grande costruzione arcaica» [...] su cui già si era posata la polvere quando i Greci entrarono in scena. Tuttavia qualcosa di essa sopravviveva nei riti tradizionali, nei miti e nelle fiabe che nessuno più capiva. Presa alla lettera, essa fu il lievito dei culti sanguinari con cui si propiziava la

fertilità, basati sulla fede in un'oscura forza universale di natura ambivalente, fonte al contempo del bene e del male, datrice di vita e di morte. I suoi motivi originali riscoperti riecheggiarono, conservati quasi integralmente, nel pensiero assai più tardo dei Pitagorici e di Platone». La teoria del sacrificio qui adombrata, l'unica all'altezza degli studi migliori viene a dar ragione al polemista settecentesco antivichiano, il Finetti, con postuma giustizia. In un colloquio dell'Unesco nel dicembre scorso de Santillana forniva altri accenni dell'astronomia arcaica, base del primordiale pensiero metafisico, per il quale il fine supremo di ogni indagine doveva essere la conciliazione dell'uomo e del fato, poiché tale era il semplicissimo fine che le scienze hanno smarrito del tutto nell'evo moderno. L'uomo dei primordi pensava non già secondo concetti rigidi ma secondo «schemi come la eclittica con le sue costellazioni, le stazioni degli astri, le zone celesti, certi miti-chiave, questa strana uranogeografia dove si connettono cielo e terra sotto la dominazione dei signori planetari dall'inesorabile corso. Ma è anche un legame fra l'armonia e gli astri, l'armonia e le unità di misura, i principii supremi di esattezza che si denominarono maat in Egitto e ria ovvero rito in India. "Fra la musica degli zufoli rituali e il calendario, affermò un principe cinese, la combinazione è cosi precisa che non ci passerebbe un capello." E così l'alchimia fu combinata con l'astrologia, e poi la astromedicina, le piante, i metalli, gli alfabeti, i giochi sapienti come gli scacchi, i quadrati magici come quello che sussiste nella Malinconia di Dùrer, il microcosmo combinato col macrocosmo. «Il tutto non già disposto come un sistema logico, ma come una fuga musicale, come deve essere un vero organismo chiuso [...]. Ce ne resta il numero e il ritmo, l'incidenza del momento unico, del tempo giusto, il kairós dicevano i Greci, che decide fra essere e non essere: poiché ci fu un tempo in cui il giusto era innanzitutto l'esattezza, e il peccato era l'imprecisione.» «Corriere della Sera», 5 agosto 1966.

Il duende ignoto ai filosofi I quadri dell'Occidente che attraevano come sortilegi gli Indù furono le scene di baccanali. Ricolmano ancor oggi i musei dell'India. Era come se i signori di quella terra intatta percepissero l'emozione nascosta, la giga taciuta dell'occidentale. Non è mai stata una religione apertamente praticata il dionisismo. Nell'antichità fu condannato dai senati, esplose periodicamente, fu nascosto; forse ebbe la sua giornata trionfale con Nerone. Il cristianesimo tentò di rubargli date (il 25 dicembre), miti (Cristo-vite), sapori (la coppa del sangue eucaristico) per seppellirlo in eterno. Ma la storia europea lo vede riaffiorare: il suo fremito lo s'indovina a ogni scarto dell'Ordine cristiano. E guai, quando ricompare: getta nella transe, spinge all'assassinio. Tuttavia, non si estirpa. La poesia ne è fatalmente pervasa. Nella Spagna ancora vastamente preservata dall'industria splendette il più scatenato seguace di Dioniso, l'addensarsi di sussulti, vertigini, deliri e dionisiache conoscenze che fu Lorca. Con la successione fluviale delle sue metafore travolse e ammutolì chi lo udì e lo lesse, esse gli zampillavano gloriose, auliche, erudite, gitane e aristocratiche; scaturivano da esperienze ancora trepide: convegni esaltati, danze tradizionali, incontri con piante, canti popolari carichi di tutte le civiltà che alimentarono la Spagna, da Bisanzio all'Arabia, ricordi di libri squisiti. La memoria di Lorca era effervescente; lasciandoci contagiare dalle sue espansioni, dalle sue scoperte incessanti, esultiamo, diventiamo lucidi ed ebbri: la nostra mente si distoglie dalla realtà quotidiana, si insedia nella meraviglia. Lorca illimpidisce e stordisce. Offre un bicchiere di vino pregiato. Credo che ci sia un corrispettivo di Lorca abbastanza sicuro: la recitazione dei canti vedici dopo l'ingestione del soma. A poco dalla morte di Lorca, nel 1939, l'identica tremenda esaltazione si ripresentò in un giovane italiano intriso di letture russe, Tommaso Landolfì, che scriveva il suo capolavoro, una perfetta riemersione dionisiaca, La pietra lunare.

Reputo il saggio sul duende fra i massimi del secolo. È di fatto un trattato solenne intorno a un vocabolo dei più ricchi della lingua spagnola. In Andalusia designa un incanto inesprimibile e colmo di mistero, nella parlata quotidiana denota una fonte di inquietudine interiore, ma in antico anche un particolare broccato, oltre al folletto. Tutte queste accezioni confluiscono nella creatura effigiata da Lorca, il quale tuttavia nulla s'inventa ad arbitrio: la trae dal limo que todos conocemos, que todos ignoramos. Questo trattato parte dall'interrogazione: «Chi è l'ispiratore angelico che insieme ci solleva e ci fa patire?». La posero alcuni nel nostro secolo, come Rilke e modestamente Benjamin e con la massima profondità Brjusov. Essa presuppone una superba letteratura, che nella prima metà del secolo non era nota a molti, quella russa sullo sciamanesimo. Chi appunti lo sguardo dentro di sé scorge nebbie e ombre; il poeta in quella confusione ravvisa invece membra e volti squadrati da un'intensissima luce, paesaggi interni: vicende che echeggiano miti, fiabe immemoriali, sicché soltanto un poeta può descrivere con quella folla anche il duende ignoto ai filosofi (benché il custode di Socrate appartenesse alla stirpe). Il poeta vede verginalmente e raffigura con fedeltà. Esclude dalla visuale l'angelo, e la musa, configge lo sguardo nel profilo elusivo del duende, che s'installa en las últimas abitaciones de la sangre. Si scarta la fragranza di violette della poesia settecentesca (Lorca pensava forse a Pope? Alla sua proliferazione di spiriti?). Si toglie di mezzo la cerchia di Dio, sia la brutale eremitica sia la rarefatta mistica. Ciò che avvince Lorca, su cui egli si fissa è la mano di Goya che traccia i bitumi sulla muraglia: chi è che la dirige, se non il duendeì È lui che infonde uno sgomento come quello che dovette pervadere il cuore malinconico del pittore. Lorca sempre insegue lo spirito elusivo osservando i negri antillani che durante i riti per Santa Barbara (di fatto la Jansà yoruba), si stracciano le vesti: il duende li afferra. Il duende entra in gioco nella lotta di Giacobbe, lo azzoppa e ne fa Israele. Santa Teresa è trafitta col dardo dal duende, corriamo subito al sorriso sublime dell'angelo

berniniano. Un soave sogghigno, una risata sommessa. Il duende lede con una ferita inguaribile, l'uomo deve inventare la cura. Santa Teresa è enduendada dal duende. Duendear. Introduzione a F. Garda Lorca, Il duende. Teoria e giuoco, Semar, Roma 1996.

Un pezzo di legno chiamato Pinocchio In molte tradizioni è di prammatica esporre gli archetipi supremi in forma domestica, dimessa, puerile. Perciò l'europeo non capi la profondità delle favole che si raccontavano fra le tribù d'Africa e d'America, soltanto ora svelate per quel che sono: sistemi metafisici e cosmogonici. Si ricorre all'occultamento del sacro sotto cenciosi, impolverati ammanti perché null'altro consente altrettanto bene di sfuggire alla profanazione. È questa la formula che ne garantisce la conservazione più sicura, che ne affida la custodia alle vecchie e ai bambini. È un trucco meraviglioso perché massimo ostacolo alla comprensione reale e operativa della sapienza trascendente e dunque ostacolo principale dinanzi all'entrata del regno degli archetipi è la superbia intellettuale. Mai il superbo si chinerà a scrutare con amore una realtà dimessa e nemmeno egli giungerà mai a sospettare che essa possa essere deliberata, come l'abbigliamento da mercante del califfo Harun ar-Rashid nelle Mille e una notte. Questo del travestimento nella più modesta delle forme è un archetipo fra i maggiori. In verità è nientemeno che l'archetipo stesso dell'Incarnazione del divino. Lo Harun ar-Rashid del novellino arabo, il principe in costume di mercante ha origine nella notte della fiaba arcaica e iniziatica: è il rospetto-principe, è ancor presente nel duca shakespeariano di Misura per misura. Questo archetipo è la chiave che c'introdurrà nel mondo di archetipi che è Pinocchio. L'aspetto è di un raccontino quasi quasi in vernacolo, con ammicchi puerili, capitomboli da circo, pervaso di popolaresca bonarietà. Passeranno oltre, di certo, i superbi. O faranno mostra della loro boria, del loro vezzo preferito, sociologico o psicanalitico che sia, accanendosi sulla oralità borghesotta che a loro parrà l'essenza del modesto intrattenimento pedagogico. Era ciò che da loro si voleva. Resterà il pubblico degl'innocenti. Gli unici ai quali valga la pena di schiudere il regno degli archetipi. In vernacolo, ridendo, conviene esporre le cose più inaccessibili. Rabelaisianamente.

Lo sapeva Tolstoj. Il suo Pierre Besuchov frequenta esoteristi addottrinati, ma la sapienza gli sfugge fino al giorno in cui gliela mostra a rozzi e buffi proverbi e a gesti il contadino Platon Karataev. Le figure «eterne» sono in buona parte presenti in Pinocchio. Quella del burattino simbolico innanzi tutto. Quella della donna beatificante o Vergine Sapienza: la farina collodiana continua la tradizione di Beatrice e di Laura con sommo onore. Quella degli aiutanti e degli avversari soprannaturali che accompagnano o ostacolano il cammino dell'iniziazione. Quella del prologo nei cieli. Il demiurgo in molte tradizioni è un falegname e marionettaio. In sanscrito si dice sutra-dhara che vuol anche dire regista o architetto. La miseria e buifonaggine ovvero la caduta del mondo proviene in molte tradizioni arcaiche da un contrasto fra il Demiurgo cosmico e il Padre Celeste, contrasto che è narrato anche nelle cosmogonie gnostiche. Una delle versioni più squisite è il preludio del Pinocchio. L'archetipo della morte e della rinascita quasi dappertutto e sempre torna a vestirsi della forma simbolica d'un inghiottimento nel ventre della balena o delle sofferenze dell'asino o infine del serpente verde che atterrisce ma ha il segreto della rinascita. Oso pensare che questo simbolo fosse suggerito a Collodi dalla versione che ne diede Goethe nella fiaba inclusa negli Intrattenimenti di emigrati tedeschi. Anche il serpente verde di Goethe deve fatalmente schiattare ed è contornato di fuochi fatui come in Collodi da lucciole. L'allegoria goethiana concerne i misteri alchemici e monetari dell'oro. La moltiplicazione dell'oro tangibile, della moneta non è un fatto di natura, ma una suggestione mefistofelica. Ciò che davvero si moltiplica è un altro oro. Questo in soldoni non aurei l'insegnamento goethiano. Uguale è quello del Collodi. Il serpente verde è il vero custode della trasmutazione e della rinascita. È un simbolo immemoriale. Compare in Claudiano, simbolo dell'eternità nell'antro della Natura, e di tutti i terrori che attendono chi voglia liberarsi dai limiti e dai ceppi, rinascere, appunto. Che Pinocchio proprio di questo tratti, Collodi fa dichiarare al

suo burattino mentre si deve acconciare a fare il cane da guardia: «Oh, se potessi rinascere un'altra volta!...» (capitolo XXI). Non può pertanto Pinocchio sfuggire alle classiche prove dell'acqua col naufragio, del fuoco presso il pescatore, dell'aria durante il volo del colombo o spirito. Non credo si trovi un episodio del Pinocchio che non si possa rintracciare in quel curioso mondo che è l'iconografia alchemica. Il paese dei barbagianni? È quello che si attraversa per andare nell'Eterna Sapienza, c'informa la prima vignetta dell'Amphitheatrum sapientiae aeternae di Khunrat. Il campo di cui favoleggiano il gatto e la volpe? Che Collodi chiama proprio il «campo benedetto» o «campo dei miracoli?» Lo trovate nel Mutus liber, il capolavoro dell'alchimia secentesca francese. E la formula per far crescere gli zecchini? È esattamente quella per rigenerare l'oro in alchimia. Due secchi d'acqua di fontana e una presa di sale: l'acqua della fons juventutis e un grano di sale della sapienza. Quello stesso sulla cui fabbricazione c'intrattiene Goethe in Poesia e verità. Pinocchio peraltro non è soltanto una rassegna di figure squisitamente ed esotericamente simboliche, ma contiene suggerimenti sottili su come si opera per attuare in sé il loro archetipo, per liberarsi da se stessi, dalla propria natura di burattini utopisti, ricercatori di soluzioni umane, per rompere cioè i propri limiti. Il primo suggerimento è di frequentare i morti. Una morta. La fatina è una morta. È la femminilità eterna, epurata di ogni traccia temporale. È l'idea della vergine matrice del cosmo come forza che dà nutrimento e forma al cosmo, plasmando, misurando, riparando. Per liberarsi della presa delle forze cosmiche vedendone la fine e il principio e la ragione, la matrice che le comprende, Collodi dà un suggerimento: «Imparate a vedere la fata nel sogno». Non diversamente Dante o Petrarca. Non diversamente Apuleio. Che altro distingue Lucio uomo da Lucio asino se non la consuetudine di vedere Iside in sogno?

A chi volesse saperne di più da un moderno, suggerirei di leggere le novelle di William Butler Yeats. Perché di operazioni interiori precise si tratta, non di frasi graziose. Ma come sapere se chi parla di tali cose che si possono chiamare, con proprietà di aggettivazione, abissali, parla per abbondanza di cuore e per esperienza? Conosco un solo reagente. Che dal tesoro del cuore estragga vibranti di vita, nuovi, estatici simboli degli eterni archetipi - simboli che lascino stranamente trasognati, come dei déjà vu, come delle visioni intraviste e introvabili, chiaramente non di questo mondo. Ebbene quando mai altri hanno come il Collodi scostato all'improvviso la cortina del mondo quotidiano per svelarci in un estatico istante una capretta di lana turchina ritta su uno scoglio in un mare sconvolto? Solenne, strana incarnazione della Fata o Sapienza, essa non può nascere che da una verace conoscenza. ***

Questa non è che una serie di cenni agli archetipi che Collodi aiuta a intuire. Uno, il primo, vorrei estendere un poco. Quello del Burattino. L'archetipo agi fortemente su Kleist, cui dettò il saggio sul teatro di marionette, e sul Goethe delle pagine sul teatro di marionette nel Wilhelm Meister. La fonte occidentale più probabile è Marco Aurelio: «Ricordati che colui che tira ifiliè questo Essere celato in noi, è Lui che suscita la nostra parola, la vita nostra, è Lui l'Uomo... cosa ben più divina delle passioni che ci rendono simili a marionette e nient'altro». Identificarsi con quest'uomo è la mèta spirituale. Il burattino e l'asino sono versioni equivalenti del medesimo archetipo: la fatica della vittoria sulla condizione puramente naturale e meccanica. L'una usata da Marco Aurelio, l'altra da Apuleio al medesimo fine. Collodi adoperò entrambe, faticosa vittoria! Collodi mostra come per ottenerla si deve rinunciare a ogni

fede nelle istituzioni umane, liberarsi interamente dall'illusione della giustizia e dall'utopia. Nel mito norreno della creazione l'uomo è un pezzo di legno. Lo animano gli dèi. Il legno è in greco la materia: hyle. Marionetta in greco è thauma e Platone nel Teeteto gioca sulla parola dicendo che inizio del filosofare è thaumàzein, meravigliarsi. Il legno - la meraviglia - l'inizio del cammino iniziatico, questa sapienza e questi bisticci platonici non ci danno forse l'avvio di Pinocchio,? Cosi la conclusione dell'aurea operetta non è forse una reminiscenza del Fedro, dove si osserva che il più eccelso movimento, dunque la più alta vita, è quello autonomo, opposto al movimento del burattino. La città indù delle marionette di legno, rammentata da Coomaraswamy nel suo saggio Puppet-Complex, è governata dall'unico essere cosciente; Coomaraswamy mostra come quel re e quella città sono analoghe al re del Graal e alla fortezza del Graal e come quel personaggio coincide con l'essere misterioso per eccellenza, perché intimo a noi più di noi stessi, di cui parla Dante nel I del Paradiso dicendo che «questi nei cor mortali è permotore» e anche che «questi la terra in sé stringe». La sua vita è irriferibile, perciò di Pinocchio non più marionetta ma liberato in vita, non c'è niente da dire. Miti arcaici e mondo domestico nelle avventure di Pinocchio, Fondazione Nazionale Carlo Collodi, Pescia 1976.

Volere la gioia non le sue occasioni: breve storia del golem Può l'uomo rientrare nel ventre di sua madre e nascere di nuovo? Giovanni 3,4

La prima volta che incontriamo il golem egli è una mera parola, e si trova (unica volta in tutta la Scrittura) al verso 16 del Salmo 138 (139 del testo ebraico): «I Tuoi occhi videro il mio golem e nel Tuo libro erano scritti tutti i giorni a me destinati prima che ne esistesse uno», dove il sostantivo golem richiama il verbo che significa «avviluppare, piegare» e dovrebbe perciò tradursi «cosa ravvolta in se stessa, ancora informe» e si è interpretato quindi come «embrione»; il melodico San Girolamo non si spinge a identificare così recisamente l'oggetto su cui si erano posati ai primordi del tempo, nel mondo delle forme formanti, gli occhi di Dio, ma traduce, come sempre, genialmente: Imperfectum meum viderunt oculi tui, et in libro tuo omnes scribentur. Dies formabuntur, et nemo in eis. Il golem per la Volgata è l'Imperfetto, il non sviluppato, l'esistenza che precede l'essenza, la confusione che implica l'ordine e così avanti, di analogia in analogia. Dopo questa prima comparsa nella storia ritroviamo le tracce della parola e delle idee che se ne sprigionano nel trattato Sanhedrin del Talmud babilonese, a pagina 38b, che contiene varie ricette per dibattiti con gli gnostici dualisti, dopo che il paragrafo precedente aveva dato indicazioni per confutare i sadducei (i quali credevano, da assurdi umanisti, che Adamo avesse concreato insieme a Dio l'universo). Si afferma, per bocca di Rabbi Meir, che il passo dove compare il golem nel Salmo 138 va interpretato in rapporto ad un altro luogo della Scrittura (Zaccaria IV, 10), dov'è detto che gli occhi di Dio scorrono per tutto l'orbe. Poiché, arguisce Rabbi Meir, si parla in ambo i passi degli occhi di Dio, l'uno spiega l'altro; ancora oggi si argomenta a questo modo, tra i giuristi, che hanno per Dio la trascendente mente del legislatore e per Scrittura i codici. Ne deriva, per chi segua questo culto della lettera (o dello spirito che gioca con la lettera?), che Dio raccolse da tutto l'orbe la terra

scelta per creare Adamo, la polvere eletta d'ogni contrada (da burlone, il Bacher, ha sostenuto che perciò, essendo tutti tratti dalla stessa terra, gli uomini sieno uguali: ma le terre sono di natura diversissima, come ben sa ogni accorto zappatore). Dopo i detti di Rabbi Meir viene riferito questo, di Rabbi Johanan bar Hanina: «Il Giorno fu di dodici ore. Nella prima la polvere (di Adamo) venne raccolta; nella seconda ne fu fatto un golem; nella terza furono estese le membra; nella quarta (gli) venne infuso lo spirito [...]». Nello stesso trattato talmudico (a pagina 65b) si parla delle pratiche di evocazione dei mora, in commento al passo midrascico che dice: «Colui che domina uno spirito familiare (o spirito guida) è l'evocatore (o ventriloquo) che fa uscire la voce dall'ascella, mentre lo stregone parla con la bocca; i due vanno lapidati. Chi s'informa di loro è ammonito». Il dominatore di uno spirito {baalofy bruciava incenso e agitava le braccia come ali, talvolta invece di un invisibile incantava una bestia, magari un serpente o uno scorpione o una vespa; lo stregone usava ossa o teschi, digiunava in un cimitero affinché calasse in lui uno spirito capace di svelargli il futuro. In questo contesto viene riferito che, rompendo in lagrime, Rabbi Aqiba esclamò: «Quanto più dovrebbe essere esaudito colui che digiuni affinché su di lui si posi lo Spirito Puro!». Ma ahimè i nostri peccati l'hanno cacciato via da noi, come è detto: «I vostri peccati hanno stabilito una separazione fra voi ed il vostro Dio» (Isaia, LDQ. Ravà, intorno a questo passo di Isaia (che San Gerolamo con la solita perfezione traduce: iniquitates vestrae diviserunt inter vos et Deum vestrum), viene citato dopo Aqiba per aver detto, estendendo il pensiero racchiuso in quelle lagrime: «Se i giusti volessero, potrebbero (vivendo una vita di assoluta purezza) essere creatori, poiché è detto: Ma i vostripeccati vi hanno distinto dal vostro Dio. Ravà creò un uomo e lo mandò a Rabbi Zera. Rabbi Zera gli parlò ma non ne ebbe risposta, talché gli disse: "Sei creatura di stregoni, torna alla tua polvere"». «Rabbi Hanina e Rabbi Osciaia passavano ogni sera di sabato a studiare il Libro della creazione mediante il quale crearono un vitello grasso e lo mangiarono.»

La non grande distanza che separa i due passi talmudici ci invita a collegarli e a desumerne questo dicorso: chi si purifica può mettersi nella condizione di Dio al momento della creazione del mondo formato, può raggiungere (come qualunque mistica insegna) il piano non formale della manifestazione, o, almeno, il trapasso da quello al mondo delle forme. Quell'accenno al vitello sarà stato un modo scherzoso di alludere a riti particolari e ai risultati interiori che ne scaturivano? L'altro accenno, all'uomo o roboto o golem senza loquela, ancora non abitato dal Verbo (cioè dallo spirito, che gli verrà infuso soltanto alla quarta ora del giorno, mentre già adesso possiede l'anima, visto che cammina) può significare che uno stato di estasi il quale non provochi la manifestazione del Verbo non ha valore (potrebbe anche darsi però che Ravà volesse dare una buffa e sarcastica dimostrazione per assurdo della inanità dell'idea di Aqiba, ma questa ipotesi non c'interessa). E così il golem ci porta al suo luogo di manifestazione e di nascita in quanto metafora mistica: i riti cabbalistici segreti (di cui ci parla il sagace suo storico Gershom Scholem in ZurKabbala und ihrer Symbolik, Ziirich 1960). Nel secolo XII un cabbalista, citato da Scholem, interpreta la produzione del vitello da parte dei due rabbini del Talmud come un modo di dire che l'estasi derivante dai riti non dev'essere volta a nessun fine pratico: la creazione del golem (cioè il portarsi meditando sul piano della seconda ora del Giorno, agli albori del cosmo) è un modo di entrare nei segreti della creatio continua. Nel decimoterzo secolo i cabbalisti tedeschi parlano di due mistici, i quali crearono un uomo sulla cui fronte figurava la parola verità (emet) e che disse loro: «Dio non solo creò Adamo, e quando volle che Adamo morisse, scancellò ì'alefin prima lettera di emet e allora egli rimase met (morto). Ecco che cosa dovete fare con me, e non creare un altro uomo, se no il mondo soccomberà all'idolatria [...]» (Scholem cita dal Sefer Ghematrìa). Quale sarà stato il senso di questa aggiunta? Un divieto di proiettare, in stati di estasi, una sorta di angelo o sosia o doppio che potesse far scordare l'unico ultimo fine, Dio? Comunque, era nato il mito dell'uomo creato dall'uomo, l'homunculus e anche

era stabilito il divieto di vagheggiarne l'idea. Se si osasse passare dal simbolo mistico alla realtà si ucciderebbe Dio, poiché la formula completa, informa un altro testo (ancor esso scovato da Scholem) era Iahvé Elohim Emet, «Dio Verità»; a estirpare Yalef dell'ultima parola, si ha la formula cosi celebrata nello sciocco secolo XX: «Dio è morto»; e cosi, a furia di meditare su quella parola del Salmo, nel secolo XIII si era giunti a capire che l'uomo, qualora voglia creare artificialmente la vita, uccide la presenza di Dio suscitando l'idolatria. Nei rituali dei cabbalisti medievali si usava mimare la creazione, simboleggiarla, soffiando svariate qualità di terra sopra l'acqua d'una coppa, e recitando varianti del Nome di Dio (cioè toccando con la mente le varie modalità della manifestazione): al termine della prima parte del rito veniva «creato il golem», ovvero si accedeva alle soglie del mondo informale, degli embrioni, delle virtualità, ossia per usare la terminologia scolastica, si giungeva alla congiunzione dell'intelletto attivo e dell'intelletto possibile. Poi si compiva lo stesso rito all'inverso, riportando il golem al suo fango, cioè, facendo calare nella manifestazione lo spirito dai limiti della manifestazione. La solitudine nel mondo del pensiero è sempre un'illusione e non v'è un punto in una tradizione che non corrisponda ad un altro simile in un'altra, diversissima. Il rito cabbalistico del golem ha un corrispettivo nel rito dikshà dei brahmani, durante il quale un uomo viene trasformato in embrione: gli si versa addosso dell'acqua che simboleggia il seme, poi lo si fa entrare in un riparo che sta per la matrice, lo si avvolge d'una veste che rappresenta l'amnio. Nelle pratiche esoteriche buddhiste le evoluzioni cabbalistiche hanno un altro corrispettivo: durante i riti shugendo ci si concentra sull'embrionalità, la si evoca, ci si identifica con essa e il sacerdote indossa un cappellone bianco simboleggiarne la placenta (cosi narra Carmen Blacker in Initiation in the Shugendo, Atti del convegno di storia delle religioni nel volume Initiation, a cura di C. Blacker, Leiden 1965). Verso il Rinascimento il golem comincia a essere creato, secondo certi testi, «in un vaso», il che fa pensare alla storta alchemica e consente a Scholem di supporre che per questa via si

giunga all'homunculus di Paracelso, che Goethe ambienterà nel secondo Faust, con caratteri dissimili dagli originari. Verso la fine del secolo XVII in Germania si diffonde la versione materiale di questa storia mistica: si favoleggia che certi ebrei sappiano creare golem, roboti che eseguiscono i lavori domestici (impresa attribuita anche a Sant'Alberto Magno) e nel 1808 Jakob Grimm narra la leggenda ormai popolare del golem roboto magicamente vivificato da Rabbi Low di Praga, che cresce a dismisura fino a minacciare coloro che se lo sono plasmato. Il golem diventa il punto di partenza per una variante del mito dell'apprendista stregone, uno dei più antichi del mondo, già ripreso da fonti egizie da Luciano di Samosata nel Philopseudes. Sotto questo aspetto il golem diventa un facile simbolo della tecnica moderna e viene sfruttato da Achim von Arnim e da Hoffmann (e da Mary Shelley col suo Frankenstein, ambientato in Germania). Nei primi anni del ventesimo secolo infine il destino di questa parola ebraica s'incontra con quello di un giovane banchiere di Praga, Gustav Meyrink. Era nato a Vienna nel 1868 da un'attrice Marie Mayer, che affermava di discendere dai nobili Meyrink; l'amante da cui le era nato era il ministro del Württemberg, Friedrich Carl von und zu Varnbiiler. Il figlio naturale crebbe con la nonna materna ad Amburgo, frequentò il ginnasio a Monaco e s'iscrisse quindi alla scuola di commercio di Praga, dove a vent'anni cominciò la sua carriera di banchiere. Un matrimonio inconsulto, un duello con un ufficiale che gl'insidiava la moglie, una penosa dichiarazione da parte del giurì d'onore, che lo definiva, a causa della sua nascita irregolare, nichtsatisfaktionsfiihig, una breve incarcerazione, aiutarono a stroncargli l'attività bancaria, con suo gran vantaggio, poiché lo costrinsero a scrivere per il «Semplicissimus» i suoi racconti, poi raccolti in vari volumi e, tutti insieme, nel Wachsfigurenkabinett {Il gabinetto dellefiguredi cera). Fra essi ve n'era uno in cui si celava in noce il futuro Golem: Die Pflanzen des Dr. Cinderella. La Praga delle giovanili sciagure era diventata per Meyrink un emblema di orrori e, appena le fortune letterarie glielo consentirono, l'abbandonò; ma da essa trasse lugubri nutrimenti fino all'ultimo,

e non a caso. Nella città aleggiava un passato, forse rievocato nelle conventicole occultistiche, che lo affascinava: quel Rinascimento durante il quale alla corte di Rodolfo II erano convenuti i maghi di tutta Europa. Si attribuiscono al gabinetto di amuleti e fetìcci dell'imperatore alcuni oggetti tuttora in parte preservati nei musei della città, che Gertrude von Schwarzfeld ha diligentemente descritto (Pragals Esoterìkerzentrum. Von Rudolf II bis Kafka e Magica aus der Zeit Rudolf II, pp. 344 e 478 di «Antaios», B. IV, 1963); un prisma di vetro racchiudente una macchia nera in forma di demonio, forse adibito agli stessi usi della celebre boccia di cristallo di John Dee (uno degli ospiti dell'imperatore) preservata nel British Museum, due mandragole tedesche, ovvero radici con barbe in simiglianza di prolissi capelli, detti Alraune (da Runa) che paiono uomini scimmieschi e informi, golem. Già Hildegarde von Bingen informava che erano, tali radici, abitate dal demonio. Esse avevano fama di afrodisiache e anche, per gli eccitati, di sedative. S'aggiunga allo strumentario rituale dell'imperatore una campana di bronzo con figure alchemiche quale un androgino simbolo della trasmutazione. Rodolfo era un carattere assai simile a un personaggio del Golem (assai diverso dal tiranno macilento e brutale raffigurato nell'ultimo romanzo di Meyrink), che i rapporti del nunzio pontificio descrivono in preda a possessioni, mesmerizzato, ridotto a medium, tentato di suicidio. La cabbala era lo studio preferito della corte, dove il Pistorius, medico ebreo convertito, intrinseco di Rodolfo, raccolse per la prima volta le opere cabbalistiche fino ad allora sparse e difficilmente rintracciabili. Questo ambiente comincia a tingersi di vago illuminismo con il Comenius e poi con Franz Anton Sporck (1662-1738): i due continuano a tener le fila dei rapporti fra l'Inghilterra e Praga, cominciati con l'arrivo di John Dee alla corte absburgica. L'alchimista e botanico amico di Goethe, Kaspar von Sternberg continuò questa tradizione rudolfina fino alla sua morte, avvenuta nel 1838. Rilke che ascolta voci di trapassati e chiede all'angelo di dettargli i versi è figlio di questa Praga; di Kafka è superfluo discorrere, e Kubin risentì della tradizione sia pure soltanto per gli aspetti più cupi e superficiali.

Nel 1915 esce Der Golem, le duecentomila copie sono vendute in pochi anni, Meyrink raggiunge una popolarità che ovviamente non placa i critici avversi, offesi dall'aggressività delle sue figurazioni, dal pedale sempre tenuto basso. Egli aveva ormai scoperto i suoi motivi vitali, che non cessò di riatteggiare nei romanzi successivi, Lafaccia verde (1916), dove si abbandonò alle perorazioni dottrinali quasi incurante della narrazione, La Notte di Valpurga (1917), Il domenicano bianco (1921) e infine L'angelo della finestra d'Occidente, l'ultimo libro, la storia di John Dee, l'ispiratore, a detta d'alcuni, del Prospero shakespeariano. Meyrink morì nel 1932; s'era convertito al buddhismo. Scholem lo tratta con sufficienza, da scarso conoscitore della cabbala (ma invero a lui pare che neanche Buber la capisse del tutto bene) e da seguace della Blavatsky, cosa che in verità non era affatto, anzi, aveva combattuto spiritismo e teosofia fin dai primi scritti. Se si va a esaminare le teorie sparse nei suoi romanzi invero ci si accorge che egli ebbe a un dipresso la stessa erudizione esoterica, alchemica e variamente mistica di Cari Gustav Jung il quale sfruttò come psicoterapia l'identico patrimonio di nozioni che Meyrink adibì all'allestimento dei suoi romanzi. Certamente, se si va a paragonare la prosa del Golem con quella sensitiva e sublime e mondana dei racconti di fantasmi di Henry James, o con quella sontuosa e lapidaria della narrativa iniziatica di Yeats, o con quella puntigliosamente sarcastica di Borges o con quella palladiana dell'Andreas di Hofmannsthal, anch'esso materiato di esotismo, Meyrink mostra una fretta esiziale nella scelta delle metafore, un gusto delle cose più grandi del vero da adolescente. Però quasi si vuol ritirare queste riserve se si pensa a quale puerilità domini negli epigoni del genere. In breve, Meyrink è un ottimo petit maitre, intrattiene invece di incantare. Ma l'intrattenimento che ci offre è pieno. A disegnarne la genealogia letteraria non si finirebbe mai, poiché da un lato c'è la vena rosacrociana che comincia con i romanzi dell'ultimo Godwin e s'arricchisce anche dell'opera postuma di Hawthorne, dall'altro il romanticismo di Novalis, certe figurazioni di Hoffmann (come Der Sandmann) e di Jean Paul (come Der Komet oder Nikolaus Markgraf),

di Arnim e Brentano, i romanzi esoterici di Balzac e di Gérard de Nerval. Ma è meglio fermarsi, poiché volendo si potrebbe scrivere una storia che ingloberebbe perfino le lotte magiche e le calate nel mondo sotterraneo della Gerusalemme liberata o La tempesta shakespeariana. Ragguardevoli concetti Meyrink sbrogliò coll'aria di condurci per una Praga abitata da personaggi dickensiani o hoffmanniani, che poi si svelano per altrettanti casi clinici di Jung o di Lipot Szondi avanti la lettera. I suoi personaggi hanno un destino malato, come quel personaggio di cui Jung parla nella Psicologia del transfert, il quale aveva la fobia delle scalinate, e la superò una volta sola nella vita, allorché, durante dei tumulti di piazza, cercò scampo di corsa su per la scalinata del tribunale, dove lo raggiunse una pallottola. Pochi emergono dall'intreccio di fatalità onde antenati o estranei del passato li sospingono in un senso o nell'altro e fascinazioni indecifrabili li tengono prigionieri; fra quei pochi figurano, nel Golem, il vecchio Hillel e forse, alla fine del romanzo, Pernath. Costoro sono perfettamente destati dal sonno agitato della vita quotidiana, hanno individuato le mani che tessono l'ordito della loro esistenza. Purtroppo Meyrink non mostra il lento emergere della coscienza del destino al modo di Hofmannsthal, come un affinarsi delle percezioni, come un comprendere che la verità sta nelle sfumature, ma al contrario, per rompere la rete delle illusioni quotidiane egli sceglie la via dell'esasperazione; le intuizioni dei suoi personaggi sono sempre clamorose, la loro estasi è titanica, la loro attenzione un'obnubilazione terrificante nella cui tenebra lividi lampi svelano mostruose scene simboliche; la conoscenza avviene per vertigine e nausea, in corridoi e stanze e vicoli che sono quelli stessi di Kafka. Tutto questo apparato ci comunica a modo suo alcune antichissime dottrine: che l'io non è una sostanza indipendente, ma un luogo, dove i morti o altre invisibili quanto penetranti forze si muovono. Gli illuminati di Meyrink sono coloro che, dinanzi ad ogni movimento della loro anima, si pongono la domanda: «che cosa provoca in me questo sentimento, questa idea?». E inoltre sanno che qualora si desideri una risposta veramente

profittevole, bisogna correggere la domanda cosi: «chi sta muovendo questi impulsi, queste figure in me?». I Greci, anche Socrate, rispondevano parlando di dèmoni (o di mani, o di eroi, o di dèi, o di Erinni). Gli orientali di vite precedenti con il loro carico di debiti da scontare. I cristiani di 8 angeli o di spiriti impuri o di anime purganti o di santi. L'anima è una cosa rapinabile, incarcerabile, trasformabile in roboto succube d'altri se lo spirito non vigila reiterando quel costante interrogativo; nella Notte di Valpurga Meyrink mostra come le opinioni pubbliche siano soprattutto opera incantantoria: l'uomo comune è simile a quella figura del Voodoo, lo zombie, un cadavere di cui s'impadronisce chi vuole (cioè chi conosca le formule). Il pensiero conta, diceva lo Zanoni di Bulwer-Lytton, le azioni ne sono l'ombra, una conseguenza senza grande importanza, alla quale non si deve badare, i fatti sono illusori, l'unico peccato è nutrire un desiderio vago e fluttuante invece di rappresentarsi nella mente con somma precisione ciò che si vuole, e bramarlo con ogni fibra del cuore. A chi si lamenta il saggio Hillel domanda se abbia davvero bramato ciò che gli manca. Per giungere a uno stato di indipendenza, cioè per sapere che cosa davvero si vuole, per liberarsi da tutte le suggestioni, ci si deve rendere alieni alle passioni e alle ideologie. Per farlo, insegna questo romanzo, bisogna incontrarsi col proprio doppio, con la propria proiezione, ovvero vedersi come un estraneo: un golem. Occorre, secondo La notte di Valpurga, volere la gioia, laddove l'uomo comune vuole le occasioni della gioia. Purtroppo Meyrink indicava, per inoltrarsi su questo itinerario, tutte le «vie della mano sinistra» che affascinano gli animi vaganti e incerti, ignari di avere nella mistica cristiana tutto ciò che possa mai occorrere, senza le distrazioni e le approssimazioni dell'esotismo. L'esotismo infatti rende incerti nell'uso di questo strumento delicato che è il linguaggio (e non c'è verità senza filologia), abitua a scosse programmaticamente violente una sensibilità che avrebbe bisogno di procedere soavemente. Meyrink cadde nei tranelli di certe metafore alchemiche (le nozze fra la parte sessuale che si ha nell'apparenza e la controparte che ci completerebbe, la congiunzione di

animus e anima), di certe interpretazioni materiali delle pratiche éivaitiche simbolicamente erotiche e vagheggiò una utilizzazione dell'odio violento, da esasperare, secondo l'ultimo romanzo, mediante la fornicazione con l'essere detestato; proposito da fantasticatore adolescente che non sappia che farsi dei propri istinti ingombranti e disordinati e ne sia nel contempo abbastanza fiero. Nel Golem il tema dell'odio da sfruttare a fini di alchimia spirituale campeggia, ed anche, separatamente, il tema dello stupro. Del resto a guardare bene anche in Yeats parecchio di queste fantasticherie sadiche che si vorrebbero solennizzare con l'esoterismo affiora, e lo stesso Musil ne era pervaso (il suo Moosbrugger, le sue coppie tristaniche alla ricerca della ricomposizione dell'ermafrodito sono di diverso stile ma della stessa materia dei personaggi meyrinkiani). Il delirio erotico guastava le migliori intuizioni del Novecento e impediva di capire ciò che la dottrina dei santi d'Occidente poteva cosi facilmente offrire, a patto, beninteso, di rispettarne le premesse ascetiche. Respinta questa strada, l'europeo con velleità esoteriche, che difficilmente può naturalizzarsi in una tradizione diversa dall'ereditaria, cade in un satanismo alla buona, viene affascinato dal bricà brac, si dà all'antiquariato esoterico, al collezionismo etnologico, arreda la stanza dei giochi magici per una sottospecie di enfants terrìbles. Prefazione a G. Meyrink, Ilgolem, trad. it., Bompiani, Milano 1966.

Un nero più nero del nero nei dipinti di Strindberg Strindberg a lungo fu il drammaturgo degli strazi più cupi, delle tetre maledizioni, si limitava a raccogliere fedelmente, digrignando i denti, i gemiti e le grida che salivano dal carcere delle famiglie, dei ranghi sociali. Venne però un momento nella vita in cui i suoi occhi, arrossati dal pianto del dolore e della rabbia, presero una impietrita fissità, cominciarono a stringersi, ad appuntarsi verso fuggevoli, larvali apparizioni o verso certi subitanei, spettrali squarci della realtà. La sua eloquenza funeraria e a volte tribunizia allora tacque, egli ora sussurrava interrogazioni stralunate, domandava in un rauco soffio: «Che cos'è l'improvviso raccapriccio che ci stringe quando per la prima volta passa accanto, ancora ignota, la donna che molto ameremo e infinitamente disprezzeremo? Che sarcastica mano larvale ci sta così comprimendo il cuore? Che cos'è quell'impronta che l'essere fatidico ha stampato nell'aria della stanza? È come quando un cielo notturno stilla le sue siderali luminescenze su del nitrato d'argento; come quando una mescolanza d'acqua, di solfato di rame, di ferro, di doridrato d'ammoniaca lasciato all'aria della notte, fa emergere alla superficie della tinozza un sottilissimo iridato grasso metallico: l'aurea anima nascosta di quel miscuglio [...]». Fino alla soglia della cinquantina, Strindberg aveva conficcato con rabbia, disgusto e pena tali il suo sguardo nelle fisionomie umane, nelle solide cose del mondo, che per forza tanta furia forsennata doveva dissolversi: tutto gli si tramutò, andando verso i cinquantanni, in un banco di nebbia sterminata, nel quale continuavano ad agitarsi, con mani protese nella minaccia e nella supplica, le note, sciagurate creature di prima, ma spoglie del loro nitido sembiante, ormai meri grumi o groppi di fibre vibranti, elettriche, ora striate di lampi improvvisi, ora avvolte da vortici di foschia; misere, pure anime cattive e inermi. Strindberg entrò così nel regno degli esseri di pura psiche disincarnata; ebbe accesso al mondo sottile, immaginale delle energie plasmatrici. Taluni raggiungono questo piano dell'essere in virtù di estasi

serafiche, che svelano segreti delle anime, danno premonizioni. Aprì viceversa il varco a Strindberg l'esasperazione dell'orrore. Egli fu spinto fin lì da tormenti allucinanti. Non sulle ali di un inno, ma per la forza dell'urlo egli poté inoltrarsi fra quelle forze insondabili che annodano i destini, ravvisando gli uomini oramai come larve che agitano tentacoli di nebbia. A questo punto, qui giunto, al torbido Strindberg è dato di scorgere limpidi spiragli di luce di là delle cortine, dalle coltri di nera foschia; istanti di luce e conoscenza. Così ci ha lasciato poesie quiete e sapienti come la descrizione della rosa ermetica, prose esoteriche, tripudiami referti di esperienze alchemiche, leggiadre scene di teatro e infine un pugno di quadri turneriani. Spesso in essi tutto dipende dall'angolazione, dalla distanza da cui si guardano ed ecco, le loro colate catramose, le nere rocce, i neri marosi, le nere nubi aggrovigliate, si iridano e sorridono in un grande barbaglio di ilare luce. Il mondo è trasceso nell'i/? verdoyante, nei mondi fatati così intravisti, la soglia verso l'aldilà della libera gnosi è spesso simboleggiata da candide cataratte di acque spumeggianti. Spesso i giochi pittorici sono festosi, tali che sarebbero piaciuti alla corte di Rodolfo II, come quando si capovolge un paesaggio e la scogliera diventa il profilo del pittore. Strindberg talora scrive sul rovescio dei quadri il commento essoterico ed esoterico: nelle masse bituminose insegnando a ravvisare la «Notte della gelosia» e nei cieli bianchi la luce di Ormuzd. Il quadro in cui il velo della materia sembra squarciarsi si intitola Golgota. Ma è la materia pittorica stessa che incanta. Lo spessore pecioso Strindberg lavora stupendamente, talvolta seccandone la grassezza con polvere di gesso, talvolta stendendolo non col pennello soltanto, né soltanto raschiandolo con la spatola, ma tempestandolo con la puntina d'un coltello [...]. La sua pittura fu una propaggine della sua alchimia. L'effetto pittorico si ottiene come quello alchemico ma s'imbrocca gratuitamente, per elargizione istantanea, immotivata, per inesplicabile coincidenza. Strindberg ebbe un laboratorio a Parigi, dove lavorò assidua-

mente secondo una visione della materia che era stata, non tanto più di un secolo prima, di Newton e di George Berkeley. Dal punto di vista della chimica moderna egli si allucinava sui metalli. Né più né meno che visto dalla bassezza della psichiatria positivista, egli era un folle. Così per l'uomo d'ordine svedese era un laido mestatore. Egli dichiara esplicitamente che per lui la materia è sempre un'esistenza istantanea, dipende dal dato momento. Dalla data temperatura, dalla data pressione. Per lui il piombo, di peso atomico 207, può attenuarsi col calore a 200 e diventa perciò mercurio, che ha appunto quel peso atomico; con temperature più alte giunge a 107 e diventa perciò, per lui, argento. Egli dichiara: «So benissimo che quasi ogni argento è cavato da minerale di piombo, ma sono convinto che il piombo si trasmuta in argento e che si fabbrica dall'argento ogni volta che lo si ricava dal minerale di piombo». Che cosa succede a vedere così i fenomeni chimici, benché si sappia benissimo ciò che qualunque chimico sa? Succedono fatti alchemici, come quelli che Strindberg riferisce. Succedono fotti analoghi a quelli che accaddero a Newton, quando scoprì che le stellette del regolo di antimonio, fuse con argento e poi amalgamate con mercurio, formano una specie di «trappola per lo spirito della vita», per la semente dell'oro della luce. Il Dobbs ne ha scritto un libro capitale (pubblicato dalla Cambridge University Press nel 1975), interpretando i protocolli di laboratorio di Newton e suggerendo che Newton vedesse dei composti metallici instabili che gli sembrarono il seme luminoso, aureo e aurifero. E vada per la formula di Dobbs, che metterà in pace il cuore dei chimici. Succede come a George Berkeley, il quale verificò che l'acqua di catrame, usata dagli Indiani d'America, era una panacea e scrisse su di essa il suo capolavoro di metafìsica, nel quale dimostrava che nelle resine vegetali del catrame si celava il seme stesso della luce. Facendo esperienze del genere la vita si modifica. Si cominciano a capire certi fatti insoliti. Si vede fra l'altro nella natura ciò che Strindberg dipinse. A Strindberg divenne chiara, fraterna la sapienza di popoli arcaici. Egli ci lasciò un racconto sulla nascita

di Mosé, che è una straordinaria riesumazione dell'Egitto faraonico, specie nelle pagine dedicate alle piramidi. L'occhio alchemico svelò a Strindberg che esse hanno la figura stessa del sale marino guardato attraverso una stilla di rugiada; l'allume, il sale dell'argilla, del fango nilotico è anch'esso fatto di piramidi; se alla piramide si toglie il vertice, ecco la forma dello zolfo emergente dalle calci; piramidi dai vertici scheggiati si vedono nelle felci e nel cristallo di rocca; tutti questi componenti fanno del Nilo il sangue e dei monti la carne del mondo, e tutti sono piramidali. A contatto diretto, libero, amoroso con piombo, cristalli, oli, peci, Strindberg aveva imparato a vedere le segnature che avevano già visto i sapienti arcaici e ancora, tra i grandi del '700, Newton e Berkeley: le stesse rivelazioni erano arrise a lui al di là, cioè al dentro, della materia, del «nero più nero del nero». L'alchimia di Strindberg, in Immagini delpianeta Strindberg, a cura di L. Codignola, F. C. Crispolti eT. Rangstròm, Edizioni La Biennale di Venezia, 1981.

Serpente uomo serpente donna Molti di coloro che sciamano per l'India cercano l'iniziazione tantrica. La religiosità fra tutte disprezzata, e occultata da secoli, sembra dover riemergere, nella pudica India moderna, richiamata alla ribalta da europei e americani che ne implorano gli insegnamenti. Chi non abbia altre porte a cui bussare, può andare a Poona, dove Rajneesh la offre liberamente.* Chi fosse tentato di disprezzarla, perché cosi distante (da ciò che è educato a riverire o meno) come religione, rifletta: si trova identica come «via della folgore» (vajrayànd,) nel buddhismo e nel taoismo, com'è insegnato ancora oggi a Taiwan e a Hong Kong. I metodi, le dottrine coincidono dunque in tutta l'Asia centrale e orientale, fra popoli lontanissimi, e le origini paiono essere, in India, prearie. Quando in un qualsiasi mercatuccio indiano, si vede il pifferaio agganciare alla sua lieve sinuosa melodia il pitone ondulante, si assiste a un rito isolato e degradato della religione tantrica. In essa il flautista suona per sollevare un cobra: è la prova che possiede la scienza dei ritmi, anche quelli che reggono il corpo dell'uomo. Gli esercizi degli adepti fanno sì che si senta adergersi la sensazione della propria spina dorsale come un serpente che s'innalzi sciogliendo una spira dopo l'altra. Il flauto a questo punto ha un effetto erotico, come si vede dai flautisti e dai loro eccitati ascoltatori sulle pareti dei templi indù. Sui vasi greci si vede il satiro eccitato al suono del flauto: non era stato in India Dioniso? Eppure non correrei troppo nell'identificare come erotico, semplicemente, questo effetto. Sembra una gran novità della nostra fisiologia, l'aver constatato che durante il sogno l'uomo è sessualmente eccitato, ma credo che gli antichi lo sapessero già. Che cosa può mai significare la raffigurazione di uomini come stecchiti per terra e itifallici, sulle pareti di certe grotte preistoriche, se non il sogno sacro ottenuto nella grotta? Ed Ermete, perché mai dovrebbe essere itifallico, se non è dio della fecondazione né dell'erotismo? È però il dio del sogno. * Il maestro indiano Rajneesh, in seguito chiamato Osho, moriva a Poona nel 1990.

Se il taoismo tantrico e anche altre forme tantriche prescrivono uno stato di apparente eccitazione, è perché vogliono porre il praticante in uno stato di sogno, di sogno guidato, di immaginazione attiva. Egli pratica con una compagna, reale o immaginaria, perché deve porsi in uno stato apparentemente (strano uso dell'avverbio, lo so) erotico. I testi a volte proscrivono l'atto erotico durante il rito. Nella versione buddhista avviene questo: si sogna deliberatamente (altro strano avverbio, dopo quel verbo) magari aiutandosi col suono del flauto, che dall'osso sacro alle narici due canali s'intrecciano nel corpo, come due serpenti, a sinistra rosso e femminile, freddo, lunare, a destra bianco e maschile, solare. Se nel rito si enunciano delle sillabe sacre o mantra, le vocali vengono dalla corrente femminile, le consonanti dalla virile. Stimolando la corrente o serpente virile, l'uomo teso alla liberazione mistica raggiunge la Compassione per tutti gli esseri senzienti, una calda misericordia. Stimolando l'opposta corrente o serpe femminile, raggiunge l'abbandono, la quiete: il senso del vuoto universale. S'è menzionato Ermete: ecco il suo caduceo. Finché i due serpenti sono scissi, si è vittime del trascorrere delle illusioni (il samsàra), si trascorre dalla passione violenta all'indifferenza. Il tantrika vuole la fusione, l'accoppiamento dei due opposti, grazie a cui essi diventano Compassione e Vuoto. Per farlo, stimola un altro sogno. Immagina che questa fusione o conoscenza liberatrice (bodhicitta) sia qualcosa di visibile, un grumo candido all'altezza dell'ombelico. Per smuoverlo, ha bisogno di caricarsi di energia femminile e lo fa imbevendosi delle attrattive della sua compagna, assorbendone la magia, lo snodo della spirale con cui la donna attira l'uomo come la terra riarsa beve gorgogliando la pioggia. Il tantrika sogna che la sua femminilità, così rafforzata, si compone con quel grumo, crea in lui, nel suo ombelico, un embrione androgino. Come una fiamma questo sale, come l'asta del caduceo fra i due serpenti, su, splendendo, nel cuore e su fino alla cima del cranio. Ora c'è stata l'immacolata concezione, l'equilibrio assoluto delle due forze, la completa beatitudine.

Questa talvolta traspare. In un suo nuovo amabilissimo libro ( Compassion Yoga, Alien & Unwin) John Blofeld racconta una variante cinese di questi esercizi: ci si rappresenta Tara, una divina fanciulla verde, e quando essa è presente, ossessiva alla mente, la si contrae, fino a farne un pollicino di fulgido smeraldo, si fa entrare nel cranio, scendere dentro nel cuore. Adesso è la volta del sognatore di contrarsi fino a diventare... lei; lei e lui sono adesso tutt'uno, un gioiello verde accecante. Quindi entrambi in quel bagliore scompaiono, sono nel vuoto, liberati. C'è, dice Blofeld, chi serba Tara nel cuore il giorno intero, andando per le sue semplici faccende: è diventato lei, né uomo né donna: la faccia stessa di certi vecchi monaci cinesi finisce così col somigliare alla dea della Compassione (che d'altronde in Tibet è il Buddha della Compassione). Oso confessare un sospetto che mi è venuto studiando queste ricette cinesi per l'immaginazione pia e androginica. Che i Greci avessero misteri simili, di cui ci parlerebbero a sciarade i miti? Ercole è contaminato. Ermete (sempre lui) lo vende schiavo, in espiazione, alla regina Omfale (che vuol dire Ombelica) e per lei Ercole ammazza un serpente che ha inghiottito chi ha osato deridere i sacri eunuchi della Madre degli Dèi (delle energie sottili). Allora Omfale lo libera ed egli è adesso metà maschio e la notte feconda Omfale, e metà femmina e di giorno fila tutto vezzoso, travestito da ancella. Alla fine della prova è di nuovo puro. Sarà soltanto un'insulsa favoletta? Oppure: Tiresia vede due serpenti accoppiati, col bastone colpisce la femmina e femmina diventa il maschio e viceversa. Oppure si dice che Tiresia era una ragazzina che Apollo, dio della sapienza, volle possedere. Ella chiese in cambio di conoscere la musica (il suono malioso con cui comincia la pratica?), ma poi non si diede al dio, che (per dispetto?) la convertì in maschiotto. Come tale indispettì Giunone, che lo riconvertì in giovinetta ma Giove ne rifece un maschio. Fu la volta d'un dispetto di Nettuno, per cui Tiresia ridivenne uomo ed ebbe modo di indispettire Venere, che lo mutò in vecchierella. Ma la canuta Tiresia innamora Aracno e Venere non ne può più, fa di lei un sorcio (animaletto profetico,

che abbandona le navi che fanno acqua, cavalcatura in India del dio dell'intelligenza) e di Aracno una donnola. Alla fine Tiresia è stato tutto, è tutto, perciò sa tutto. Sa perfino troppo. Sa come finirà Narciso (dal fiore si ricava un unguento per il mal d'orecchi), invano amato dalla povera Eco che diventa un'eco, un riflesso, e poi da un pederasta, che ne muore. Diana allora strega lo sdegnoso, che si vede nell'acqua e muore per amore del suo riflesso. Non ha saputo conciliare in sé i due opposti, i due riflessi corrispettivi, l'uomo e la donna. Tiresia vede anche la tremenda verità su Edipo. Il padre di Edipo, Laio, ha attratto il malanno della sfinge su Tebe, perché ha rapito un ragazzo. La sfinge è la donna: ha faccia di donna, corpo di leone, coda di serpe, ali d'aquila. Tutti gli opposti sono conciliati in lei, tutti i tempi e le stagioni. Pone la domanda fatale: «Chi è che ha quattro, poi due, poi tre piedi, e più ne ha più è debole?». Edipo, che viene dall'aver ammazzato il padre, che ha osato insultare lui, suo figlio e riflesso, capisce l'enigma e risponde alla donna: «L'Uomo». Sa distanziarsi tanto da capire che l'uomo è un mutar di stato nel tempo, un riflesso della sfinge ovvero che lei è un riflesso di lui e viceversa. Ha superato la prova di Narciso. Edipo sposa la madre e quando Tiresia gli spiega che cosa ha fatto, si strappa gli occhi. Diventa cieco, quindi veggente. Come Tiresia, accecato da Atena, la Sapienza, per averla vista nuda, come Edipo ora vede che cosa egli stesso ha fatto uccidendo e abbracciando via via i propri riflessi, i propri opposti. «Corriere della Sera», 4 marzo 1980.

Laura, l'aura, l'aria, lauro Ogni sciamano ha la sua donzella che ha l'aspetto d'una cerva con corna [...]. Ivan Coleo sciamano siberiano Per sapere chi fosse la Laura del Petrarca occorre conoscere ciò che per la sapienza antica fosse l'aria: l'elemento che modellava il macrocosmo e che nell'uomo assumeva forma di fantasia e intelletto. Il Campanella scrisse: «L'aria per la luce vede, per i moti ode, per i vapori odora, per la tenuità gusta e per la comprensione e caldo e freddo tocca, patisce doglia e piacere, e senza organi tutta sente e consente», concludendo che l'aria in noi, gli spiriti vitali e fantastici, se sono sottili possono apprendere ciò che «è nell'aria» fuori di noi, con meravigliosi presentimenti e profezie. I cabbalisti dicevano (Zohar, I 24b) che l'aria è l'emanazione clemente (hesed) della divina sapienza (hokmah), che si manifesta come conoscenza e soavità: grazia. Suo opposto è l'acqua, emanazione severa e giudicatrice, aspra e violenta {ghevurah) e fra aria e acqua media il fuoco nel mondo, nell'uomo il cuore, emanazione diretta dell'unità ineffabile o corona dell'essere; e di dove scende nel cuore fisico l'impulso a battere e ritmare, se non dalla fonte stessa dell'essere? Questo fuoco-cuore è detto armonia o bellezza {tiferei). Nel gioco degli elementi trasposti all'umano l'aria è dunque la grazia, la sapienza; in termini metafìsici: la relativa unione della creatura all'assoluto; mentre l'acqua o rigore o Legge ne è la relativa separazione. La concezione è incarnata nel rito bizantino dal velo che avvolge il calice e la patena, detto «aria» o talvolta nube, simbolo del Sudario su cui s'impresse il corpo del Cristo. L'aria, dice la Liturgia, è l'ala di Dio, la grazia che tutela dai nemici, il dono della pace: è il velo che copre le cose più sacre e soltanto coprendosene le spalle il diacono le può toccare, dopo che ha «deposto ogni sollecitudine mondana e misticamente è divenuto un cherubino». Il sacerdote agiterà quel velo sulle offerte a simboleggiare la calata dello Spirito Santo o il terremoto che segui la morte

del Cristo, chiuse le porte ai non iniziati, che non intenderebbero quest'ulteriore trasposizione metaforica. Dirà Paracelso nella Generazione degli elementi che l'aria è la dimora degli altri elementi e li separa come una muraglia da ciò che è immortale ed eterno, come una cinta di mura la città dalla campagna, come una diga l'acquitrino dal suolo secco, come il guscio l'uovo dal mondo esterno, come la pelle e il corpo animale dal cosmo. L'aria è separatrice, Mediatrice, Nutrice, fa spirare i venti, precipitare le piogge, rifulgere gli astri, fiorire le terre, ardere il fuoco, come una catena che tutto compagini e stringa invisibilmente. Nell'uovo il pulcino non tocca il guscio ma sorbisce l'albume, così le creature non attingono il limite dell'aria, ma ne assorbono l'essenza come un intangibile albume, manifesto, quasi tangibile nel verdeggiare della vita. In questo albume nuotano, volano la terra e i corpi celesti: esso è forte quanto sottile, tende a chiudersi su se stesso come una sfera. Insegnano i cabbalisti che questa forza della grazia, dell'aria si manifesta a un uomo dotato di immaginazione temprata e sottile come una presenza angelica femminile che lo assiste e, dice il Cordovero, questa donna angelica lo aiuterà a provvedere talvolta alla donna di carne che il destino gli assegni. La concezione era anche dei metafìsici iranici e dei cantori del Graal in Europa. Nell'amor cortese una donna offre al cuore gentile uno specchio della possibile perfezione angelica, è l'aria del suo spirito: come potrà l'innamorato non sforzarsi di assomigliare a quell'immagine che vede riflessa negli occhi amati e amanti e sente negli spiriti da quelli emananti? Cosi per parte sua egli offre alla sua donna un'immagine altrettanto trasfigurata. L'uno e l'altra incontrano negli occhi l'un dell'altra se stessi non come sono ma come furono in origine nella mente di Dio, idee di Dio, ovvero: scorgono negli occhi amati il loro completamento, la metà di se stessi che andò perduta nel turbine tenebroso e ubriacante dell'incarnazione. Da quell'ubriacatura l'amor cortese li ridesta; dal momento in cui i loro occhi si sono intrecciati — come i due serpenti sul caduceo — sulla linea di congiunzione dei loro sguardi, essi vivono in una veglia perenne e i tormenti amo-

rosi e le insonnie servono come prove ascetiche a tenere la mente agguerrita e tesa ad assomigliare all'immagine ideale. Talvolta, come presso i poeti arabi, e alcuni provenzali, forse un comune umano corteggiamento offre lo spunto alla nobilitazione spirituale, e naturalmente le corti d'amore esigeranno che in tali casi la donna sia sposata affinché i provvidi strazi non si estinguano in una conclusione terrestre e giuridica. Altra volta i lamenti, le esaltazioni dell'amore saranno soltanto le metafore di un trasporto mistico, questo suscita l'apparizione femminile di cui parla il cabbalista, il neoplatonico dell'Iran, il sufi arabo di Spagna; apparizione fatale nello spirito di un uomo che abbia educato la sua fantasia veemente a mai fantasticare: egli percepirà l'idea divina che nel mondo è l'aria, nei cieli è la grazia e la sapienza, che è l'involucro del mondo visibile, come figura di donna. Talvolta forse l'intuizione intellettuale dell'idea e la visione innamorante d'una creatura di carne si saranno combinate nel destino d'un metafìsico amante. Quando l'esperienza di certe idee che tutto abbracciano e spiegano dà una gioia sì intensa da apparire sullo schermo d'una depurata fantasia come donna ideale, non è molto importante sapere se un essere reale ha fissato per un momento nella realtà i tratti dell'immagine visionaria e simbolica. Si narra del poeta sufi che pregò la sua donna di non accostarsi un giorno che nella mente ne aveva stampata l'immagine perfetta. Non è detto che narrando un tale episodio un maestro sufi non desideri far sorridere. La tradizione della Donna-Sapienza è quasi universale. Emergere dalla pelle d'asino, sentire di vivere un destino per lui intessuto, fu per il Lucio di Apuleio tutt'uno con la riverenza, intensa come nessuno dei suoi precedenti amori carnali, ma purissima, per la tenue aria delle notti pervase dal soave splendore lunare. E gli apparve l'immagine di quell'aria: Iside. Di questo gioco fra intelletto e fantasia è tramato il canzoniere di Petrarca, diario spirituale degli incontri con l'Aria della Grazia, con l'impalpabile brezza della confidenza con Dio, come dice la metafora araba. Questa brezza si può definire per esclusione. È tutto ciò che nell'esperienza del divino - tremenda e fascinosa e

soave — non può essere calato senza tradimento nelle giuridiche precisioni della teologia mistica, con ciò che è ineffabile e aereo e segreto, che è tuttavia il fondamento d'ogni discorso teologico vivente, è ciò che nessuna istituzione visibile potrà mai offrire o essere, e di cui nemmeno conviene parlare apertamente poiché lo intende chi lo prova, il «cor gentile»: affinato, senza scoria. Fine del poeta dirà il Petrarca è di vedere e dire la «verità delle cose» in modo da allontanare gli insulsi. E l'ineffabile tema egli chiamerà aura o pietra o fenice o piombo o Saturno o, soprattutto, alloro: chi provi vertigine dinanzi a questo ruotare di metafore, ricordi che di un'idea vertiginosa si tratta. Come il Cristo su Pietro-Pietra, Petrarca giocò soprattutto sul nome Laura. In greco laura è pietra, rupe forata (monte segato, Mon Salvato); è la rupe attraversata da una strada; la miniera di Laurion fece ricca Atene, era «la fonte d'argento, il tesoro della terra» di Eschilo; essa offriva col piombo argentifero, ocra e cinabro il minerale solare. Laura è l'aura o l'aria, lo spirito di sapienza; è l'auro, il metallo solare o, infine, il lauro, femminile in latino, la pianta della profezia, della verginità, del genio o angelo custode. Infine Petrarca aggiunse ai bisticci la sciarada: è l'aureo crine, simbolo dell'etere che avvolge il cielo come la chioma il capo. I sacerdoti egizi giocavano allo stesso modo componendo geroglificamente la loro difficile sapienza. La melodia struggente del verso petrarchesco mostra che questi giochi sono l'unico modo di parlare dell'indicibile, questi scambi vertiginosi e quasi folli sono narrati con la voce più intensa, più dolcemente trepida che si possa udire, con la serietà più intima e verace. Laura è dunque l'aria: L'aura, che '1 verde lauro et l'aureo crine soavemente sospirando move, fa con sue viste leggiadrette et nove l'anime da' lor corpi pellegrine. [...] CCXLVI Ma Laura è anche l'alloro, le cui foglie hanno, dice Dioscoride, virtù riscaldante ed emolliente: le virtù stesse della caldoumida

aria (se ne può assaggiare il sapore nel tè di alloro, versando su 4 grammi di foglie e 8 di fiori d'arancio, 200 grammi d'acqua bollente). Laura è l'alloro che nelle Metamorfosi di Ovidio Fedro bacia, gridandole: «Se non mi puoi essere sposa, sarai l'albero d'Apollo!». E ogni albero dalla vasta chioma è simbolo dell'aria, come informa Eraclide Pontico ne\VAllegoria d'Omero, poiché in esso l'aria s'impiglia, si agita e mostra. Che cosa fu il caduceo se non un ramo d'alloro con cui si celebrava la rinascenza primaverile promossa dalla nuova aria? L'alloro è pianta solare e ignea i cui rami sfregati fanno scintille, e storna i fùlmini. Quale sempreverde, l'alloro è la fama (l'aura) perenne e la fama trionfa d'ogni altro umano bene, tutto in questo mondo essendo vento di fama. I colombi, simboli dello Spirito, si cibano di foglie d'alloro per risanarsi. Rami d'alloro si accendevano per ipnotizzarsi sul loro crepitare e intravedere, con mente cosi assorta e abbandonata, il futuro; più il crepitio era fitto, più gli antichi ne traevano auspici favorevoli. Fra i Romani la laureavano perciò gl'imperatori e i poeti a segno di trionfo, libertà, veracità, pace, misericordia e purezza. Gli attributi dei Cesari furono i doni del lauro, dell'aria o sapienza; Pax, Hilaritas, Clementia, Benignitas, Fortuna. L'alloro infine non cresce nei luoghi irrigui e non è pieno di fuoco? Era la pianta di Esculapio come il serpente ne era l'animale, l'amante dei luoghi ricchi di acque. Il fuoco in cielo è Apollo, Sole; sottoterra è oro; l'alloro simboleggia anche questo alchemico commutarsi di solarità in metallo perfetto. Le litanie alla Vergine si diranno lauretane nel secolo del più vivo petrarchismo. Laura è l'aura impregnata di fuoco, lo spirito che plasma la materia, la Sapienza: «uno spirto celeste, un vivo sole / fu quel ch'i' vidi» (XC); Laura è la teofania. Narra la leggenda che Petrarca ripete: Amore colpi Apollo con una freccia d'oro e Dafne, la ninfa acquatica, con una freccia di piombo. Apollo perciò l'inseguiva tutto infiammato, mentre ella - plumbea - lo fuggiva, finché non fu convertita in alloro, la pianta profumata dal succo aspro e pungente, mediatrice fra il sole e l'acqua. L'interpretazione alchemica è ovvia. Dalle miniere di Laurion si cavava il piombo argentifero e il cinabro; la plumbea

Diana, fredda e umida e il caldo Sole minerale. L'opera metallurgica sugli schisti cristallini e calcarei del monte Laurion bene illustrava il racconto mitologico. Vi si cela altresì una allegoria botanica poiché soltanto in forma di pianta le forze plasmatrici dell'acqua si possono impregnare di fuoco. La pietra filosofale, che muta il piombo in oro, racchiude le virtù dell'acqua lenitiva e del fuoco esaltante. Anche l'amore umano deve mutarsi da greve piombo in oro (in biacca e quindi in minio?), da acqua corrente, fuggitiva come il piombo fuso, in pianta di veggenza e di purificazione dall'aspro sapore. L'amore della difficile sapienza divina somiglia dunque a quello che legò Apollo a Dafne: la sapienza non riama l'amatore ma anzi gli impone l'ascesi, per lei l'amore sta sotto il segno di Saturno, del greve piombo, salvo nell'attimo dell'estasi unitiva, secondo quanto spiegò il cabbalista e dottore petrarchesco Leone Ebreo, commentando i versi: Tal or m'assale in mezzo a tristi pianti un dubbio: come posson queste membra da lo spirito lor viver lontane? Ma rispondemi Amor: Non ti rimembra che questo è il privilegio degli amanti, sciolti da tutte qualitati humane? Laura è dunque fra i pianeti Saturno, è il dio decrepito della conoscenza che appare in lei come una figura femminile incantevole, che ispira la conoscenza mistica come un'aura pietrificante e beatifica, quella stessa aura che spirava dal verde alloro (o Dafne) incantando Apollo, e pietrificava il cuore del Petrarca, come Medusa pietrificò Atlante, il «vecchio mauro», «quando in selce transformollo» (CXCVII), o, in un'altra poesia lo lacera come i cani di Diana straziarono Atteone che osò mirar nuda al bagno la dèa, cosi come Petrarca narra d'aver sorpreso Laura, la somma Sapienza, da restarne estatico, tramortito (i cani di Diana sono, spiegherà il Bruno, i «pensieri delle cose divine», i quali «divorano questo Atteone facendolo sciolto dalli nodi de' perturbati sensi»). Laura raggela, impietrisce il suo amante. È come un piombo, il

metallo del freddo Saturno, dio della sapienza che riduce in pietra il cuore, ma a pietra non di malvagità bensì Pietra filosofale, cioè di filosofia. La pietra, spiegò Dante nel Convivio, della divina essenza, della «cagion di tutto», cioè del contentamento in ciascuna condizione di tempo, e «dispregiamento di quelle cose, che gli altri fanno lor signori»; amare la filosofia è «amar sua pace», è un impietrarsi nella pace, nell'amore della sapienza. Nelle Rime petrose, alla XLIII canzone, Dante annuncia d'essere giunto al punto del cielo ove Venere scompare e domina Saturno, e nel Convivio spiega che dove domini l'amore della sapienza ogni altro s'oscura e spegne: come stregato dal cupo, ascetico Saturno: Io son venuto al punto de la rota che l'orizzonte, quando il sol si corca, ci partorisce il geminato cielo, e la stella d'amor ci sta remota per lo raggio lucente che la 'nforca sì di traverso che le si fa velo; e quel pianeta che conforta il gelo si mostra tutto a noi per lo grand'arco nel qual ciascun di sette fa poca ombra: e però non disgombra un sol penser d'amore, ond'io son carco, la mente mia, ch'è più dura che petra in tener forte immagine di petra. [...] La pietra filosofale o sapienza è un gelo mortale e insieme la potenza massima di vita; il cuore s'impietra nel contemplare questo mistero che sfida l'intelletto:

[...] Canzone, io porto ne la mente donna tal eh', con tutto ch'ella mi sia petra, mi dà baldanza, ond'ogni uom mi par freddo:

si ch'io ardisco a far per questo freddo la novità che per tua forma luce, che non fu mai pensata in alcun tempo. Rime, XLV Cioè la Divina Commedia, opera della pietra e della Rosa. All'amore che muove le stelle Dante dice: Ed io, che son costante più che petra in ubidirti per beltà di donna, porto nascoso il colpo de la petra con la qual tu mi desti come petra che t'avesse innoiato lungo tempo, tal che m'andò al core ov'io son petra. E mai non si scoperse alcuna petra o da splendor di sole o da sua luce, che tanta avesse né vertù né luce che mi potesse atar da questa petra [...] Ivi Dura come una pietra, appare la Sapienza, e cela la sua vita celeste all'uomo, che nell'ammirarla e amarla diventa, rispetto a ogni altro desiderio, di pietra: la Pietra filosofale, Beatrice, colpisce d'amore l'uomo fino al suo cuore che è felicemente di pietra, apatico dinnanzi a tutto ciò che sia mondano. Così Laura (l'aura del sacro) converte il cuore del Petrarca in pietra:

[...] L'ombra sua solo fa '1 mio cor un ghiaccio, et di bianca paura il viso tinge; ma li occhi ànno vertù di farne un marmo. CXCVII La somma Sapienza non è qualcosa che si possa accostare impunemente: essa fa misurare l'altezza imperscrutabile dei cieli e la

profondità misteriosa degli abissi, schiude una vista cui non regge il cuore di carne. È una conoscenza che può volgersi al serafico o al luciferico: dirà il Petrarca alla Vergine che l'inizio del suo percorso mistico fu insidiato dalla possibilità di diventare una pietra non filosofale, ma stillante vanità:

Medusa et l'errar mio m'àn fatto un sasso d'umor vano stillante: Vergine, tu di sante lagrime e pie adempì '1 meo cor lasso, ch'almen l'ultimo pianto sia devoto, senza terrestro limo, come fu '1 primo non d'insania vóto. CCCLXVI L'amore della difficile Sapienza è assai simile a una passione profana interminabile, sospirosa e attraversata di pericoli mortali. Come dagli Stilnovisti e dal Petrarca, ispirati al biblico libro della Sapienza, questo amore fu cantato dai poeti dell'Islam; Ibn 'Arabi dalla Mecca, nel 1215, scioglieva consimili lamenti, parlando della Sapienza come di «colei che è selvaggia, con cui non c'è intimità» perché la contemplazione del divino è un'estinzione di ogni tratto sensibile. Essa è selvaggia e sdegnosa perché, come essenza spirituale, è inaccessibile all'anima che la brama, è simile, oltre che ad un gelo saturnino, ad un fuoco. L'uomo spirituale agogna a immergersi in questo fuoco donde spira l'aria sacra e solare: [•••]

Di mia morte mi pasco, et vivo in fiamme: stranio cibo, et mirabil salamandra [...] CCVII Si soffre di non essere tramutati in fuoco, invano dice il Petrarca, «L'aura mia sacra al mio stanco riposo / spira si spesso [...]» (CCCLVI). Laura è l'oro alchemico, cioè il seme dell'oro, la luce, la sa-

pienza divina; microcosmicamente è un'aura interiore, una psiche impregnata del fuoco sottile dell'estasi, che raggela il cuore di carne:

[...] Tra le chiome de l'òr nascose il laccio, al qual mi strinse, Amore; et da' begli occhi mosse il freddo ghiaccio, che mi passò nel core, con la vertù d'un sùbito splendore [...] LEK Ma Laura è come Proteo, ogni forma assume, il ghiaccio e il fuoco insieme. A volte il Petrarca muta d'allegoria, mostrando invece della delicata pianta d'alloro, una candida cerva, sacra a Diana triforme, le cui corna sono dorate. Le corna del cervo si rinnovano come le foglie dell'alloro, contengono dunque la virtù dell'immortalità, hanno virtù trasmutatoria. L'occhio spirituale discerne cioè, nelle bozze sulla cervice del cervo, la pregnanza d'una forma formante d'insolita veemenza, capace di modellare e rimodellare senza tregua la serrata, durissima sostanza del corno; è sacro il corno sempre ricrescente, perché sta all'intersezione del mondo invisibile, delle forze formanti immortali, delle idee, col mondo sensibile. Dove altrove questo nesso è altrettanto chiaro? Forse soltanto nei semi, nei quali appunto è pregnante, tesa e potente l'invisibile idea formatrice della specie. La sensazione che un corno di cervo in eterno rinnovamento, o un seme in procinto di modellare una pianta potevano dare in antico all'occhio spirituale, si può forse ricostruire in noi osservando lo spettacolo numinoso d'un insetto immobile e fremente al momento della muta. Non stupisce dunque che la cerva petrarchesca dalle corna d'oro (come a dire: il forno alchemico animale che in cima secerne, evapora il principio puro, animante dell'oro), che una tal cerva si aggiri per naturale consonanza fra ombre

[...] ove l'aura si sente d'un fresco et odorifero laureto [...] CXXIX

È la cerva o il cervo totem del greco Aristeo, poi di Sant'Eustachio o di Sant'Uberto, o di re Artù, l'assai citata nei testi alchemici, simbolo della luce che brilla fra le tenebre mondane: seguendola si raggiunge quella Laura dei Celti, la fata Morgana, come canta Erasmo da Valvasone nella Guerrafragli angeli buoni egli angeli malvagi-. La nobil Cerva che di sé non face Copia ad alcun di tarda mente e china, E per la qual si ottengon spade ed armi Fatate al mormorar di dolci carmi. Qui giunti, si può svelare una fonte assai ignota del Petrarca. Le confraternite e corporazioni di cacciatori studiati da Grimm avevano nel Medioevo loro riti, parole di passo e, come i molti mestieri che sollevavano a contemplazione le loro pratiche manuali, certi miti, per lo più salomonici. Allorché un cacciatore ne incontrasse un altro nella foresta, si svolgeva questo dialogo rituale fra loro— Dimmi, buon cacciatore, dove lasciasti la bella e gentile donzella? — La lasciai sotto un albero maestoso e andrò a raggiungerla. Viva la donzella biancovestita che ogni mattina mi augura fortuna e prosperità! Ogni giorno la rivedo allo stesso luogo e quando cado ferito, mi guarisce, e mi suol dire: - Auguro al cacciatore felicità e salute: che egli possa trovare un buon cervo — Altra volta il Petrarca, variando ancora i simboli, parla di Laura fenice: [...] Una strania fenice, ambedue l'ale di porpora vestita, e '1 capo d'oro [...] CCCXXIII La fenice si rinnova anch'essa, incendiandosi, emblema dell'uomo che misticamente viva nel fuoco, nella pura estasi intellettuale, nella fonte delle germinazioni; essa sta sospesa come monile alla Sapienza, all'aura sacra, all'anima redenta:

Questa fenice de l'aurata piuma al suo bel collo, candido, gentile forma senz'arte un sì caro monile, ch'ogni cor addolcisce, e '1 mio consuma: forma un diadema naturai ch'alluma l'aere d'intorno; e '1 tacito focile d'Amor tragge indi un liquido sottile foco che m'arde a la più algente bruma. [-.] Fama ne l'odorato et ricco grembo d'arabi monti lei ripone et cela, che per lo nostro ciel sì altera vola. CLXXXV Dall'alloro alla fenice. La sequenza è già presente, come trapasso dall'alloro al pavone, nel sogno della madre di Dante narrato dal Boccaccio nella Vita di Dante (XXV): Dico adunque che la madre del nostro poeta, essendo gravida di quella gravidezza, della quale esso poi a tempo debito nacque, dormendo, le parve nel sonno vedere sé essere al piè d'uno altissimo alloro, allato a una chiara fontana, e quivi partorire un figliuolo, il quale le pareva pascersi delle bacche che dallo alloro cadevano, e bere disiderosamente dell'acqua di quella fontana; e da questo cibo nudrito, le parea che in piccol tempo crescesse e diventasse pastore, e nella vista grandissima vaghezza mostrasse d'aver delle fronde di quello alloro, le cui bacche l'avevan nutricato, e sforzandosi d'aver quelle, avanti che ad esso giunto fosse, le parea che egli cadesse; e, aspettando ella di vederlo levare, non lui, ma in luogo di lui le parea vedere un bellissimo paone esser levato [...] Non è una semplice sequenza di allegorie della poesia e della fama; il pavone boccaccesco è la fenice stessa del Petrarca. Come non è mera allegoria del poetare, nel Canzoniere, la variazione costante sull'alloro che è aria impregnata di fuoco, che è la psiche

retta e pervasa dallo Spirito, che infine diventa puro Spirito: cerva dalle corna d'oro, fenice solare. La vicenda allegorica culmina nel Canzoniere nella «morte di Madonna Laura», con la trasposizione in cielo dell'alloro, rapito dagli dèi per essere piantato nei campi Elisi, come Petrarca narrerà nelle Egloghe, simbolo del passaggio al di là del limite dell'aria, nell'Empireo di fuoco, o anche del passaggio dalla vita attiva alla contemplazione, e anche, nella vicenda di purificazione mistica, della cessazione d'ogni consolazione sensibile, con cui si conclude la prima fase dell'elevazione e della divinizzazione. Infatti il Petrarca incontra Laura all'ora e al di della morte di Cristo, cioè morendo al mondo: Era il giorno ch'ai sol si scoloraro per la pietà del suo factore i rai [...] III Cosi nella liturgia bizantina l'aer si agita sul calice a significare la morte del Cristo e la calata dello Spirito. Ma il Cristo dopo il triduo risorge e Laura muore: incomincia una nuova fase mistica. La morte di Laura: [...] fu per mostrar quanto è spinoso calle, et quanto alpestra et dura la salita, onde al vero valor conven ch'uom poggi. XXV Cosi nei versi di cosi struggente amabilità del Canzoniere si cela un monumento eroticamente atteggiato alla Tradizione metafisica e mistica, in cui come nei testi d'ogni tempo si parla della Parola creatrice, del significato che emerge dal caos terreno come d'una luce d'Ariete, un vento primaverile, emergente dall'oscurità invernale. Di questa Parola-Luce-Vento è madre l'Aurora, cioè l'intelletto vergine; la metafora dell'Aurora già compare ai primordi della storia nei Veda, dal fondo della storia emerge questa metafora dell'illuminazione e della divinizzazione, l'Aurora Musis amica-.

Quand'io veggio dal ciel scender l'aurora co' la fronte di rose e co' crin' d'oro, Amor m'assale, ond'io mi discoloro, et dico sospirando: Ivi è Laura ora. CCXCI Le fanciulle ateniesi recavano una verga simbolica segno dell'Ariete celeste trionfante in terra, dell'Aurora dell'anno, alla festa di Primavera: l'eiresione; era un ramo d'ulivo, ma potè esserlo anche dell'affine alloro, altrettanto solare, e combustibile. Era coperta di lana (eiros) la verga di primavera, carica dei frutti novelli, e ad essa si parlava come a una divina fanciulla, come i contadini di Roma parlarono nell'analoga stagione ad Anna Perenna, il loro Cibo d'Immortalità in forma di ninfa. Ad Atene si levarono canti a Laura-Eiresione «che porta i fichi e i pani». Tutti i beni più preziosi recava Eiresione ad Atene sotto il segno dell'Ariete, la cui lana lo copriva, all'Aurora dell'anno. Ancor oggi permane nel rametto dell'ulivo pasquale. Dal fondo della storia provengono le metafore petrarchesche, né sono avvolte soltanto dal profumo delle origini nostre, ma appartengono ad ogni popolo, a ogni terra dove si sia vagheggiato di diventare divini. Con quale stupore non ritroveremo questa metafìsica, in queste immagini, tra le dense foreste tropicali dell'America, ascoltando le soavi leggende e osservando le delicate costumanze dei Guarani! Fra loro il lauro (insieme al cedro e alla cannella) è l'albero cosmico e parlante, le cui ceneri miste a miele purificano (anche l'eiresione ateniese di anno in anno si inceneriva, come ancor oggi il rametto pasquale): perciò anche Laura Fenice deve rinascere dalle sue ceneri; l'anima dell'alloro guarani si dice sia pura soavità, come Laura. È l'albero dell'eroe solare, del protosciamano, dell'Apollo guarani. Con il suo legno si fabbrica l'urna in cui è deposto lo scheletro dei morticini, oggetto di culto da cui si ricavano responsi divinatori. In certe stagioni dall'albero poi stilla la linfa che sulle foglie s'imbeve di virtù rinnovatrice, aurorale. È anche detto verga del Creatore, asse del cosmo, tramite

dell'acqua di vita: «della pioggerella in cui si bagnano i morti «lo refrigerio dell'eterna ploia», diceva Dante. Da una sua foglia sempreverde, si narra fra i Guarani, fu creato il cervo dalle corna sempre rinnovellate. La ragione del caleidoscopio dei paragoni, della vertigine metaforale alchemica petrarchesca troveremo anch'essa nel mondo ancora primordiale. Nei linguaggi mitici sciamanici la ridda e lo scambio delle metafore è spinta al colmo, la sua esasperazione fa parte della sobria ebbrezza che si vuole indurre. Talché se profondamente si vuol sapere chi e che cosa sia Laura, ci si inoltri nelle foreste del Paraguay e avendo occhi per vedere i lauri, e accanto ad essi la cannella e i cedri odorosi, e orecchie per intendere gli abitatori ancora per avventura intatti, ancora pervasi della Tradizione che pure animò i nostri antenati, esso apparirà la chiara dottrina e la passione di cui è animato il Canzoniere, e si comprenderà perché le Muse, che sanno coprire e svelare la verità, apparvero ad Esiodo per rivelargliela e in ricordo gli diedero un ramo d'alloro. Chi era Laura?, «Prospettive Settanta», anno V, luglio-agosto

46 s.

1974, pp.

Sahaja: come espandere l'amore Sfugge all'attenzione dei più la mirabile storia del pensiero bengalese rinascimentale. È basato sull'idea di sahaja, che significa «naturale» e suo fine è raggiungere una condizione in cui si espande al massimo l'amore, la sostanza più intima dell'essere. Legioni di cantori giravano per il paese cantando l'amore in tutte le sue forme ed erano anche filosofi e tantristi. Tra loro il massimo fu forse Caitanya. Per lui al centro profondo dell'uomo ribolle un'esultanza rovente, che una disposizione distratta, comune lascia fremere celata nel proprio intimo senza mai liberarla, ma se mai si fa emergere alla luce, divampa e stringe in un fascio vibrante tutti i sentimenti possibili, portando alla follia amorosa, al massimo di vita. Bisogna indurre alla liberazione di questo centro compresso e nascosto. I seguaci di Caitanya altro non fecero che esortare a questo atto terribile e decisivo. Fra di loro Rupa Goswami scrisse un'opera grandiosa, Il nettare marino della devozione, nella quale quell'esultanza segreta dell'uomo si fonde col culto della bellezza, divampa e avvolge di una beatitudine dove non sussistono più desideri, a cui tutto è attratto e magnetizzato. Ogni atto o gesto che possa suscitare questa fiamma va eseguito: si coltivano pensieri divini, si eseguono danze, s'innalzano canti, si lascia che le lacrime fluiscano, che il corpo si contorca, si levano urla, si sbadiglia, si soffia, si ride. Il trattato Ujjivala-mlamani racconta questa spirale d'ascensione, mostra il trapasso all'erotismo, che tramuta in gioia i dolori, fino a che il senso del tempo resta smarrito e ci si dimentica di noi stessi, s'impazzisce. A questo termine non esistono più dubbi, sono sgominate le incertezze. Il rapimento estetico è stato essenziale per arrivarci. In India la fusione dell'esteticità nel vortice di gioia liberatrice rimane un dato costante e certo. Quanto si è lontani dalle nostre attenuazioni della commozione artistica, dalle nostre paure dello sfrenamento totale, che releghiamo nei monasteri o nei manicomi. Questo retroscena si riflette nell'opera d'uno studioso d'arte indiana, morto nel 1982, Calambur Sivaramamurti, attento in

particolare all'affinità fra opera letteraria e rappresentazione figurativa, ad esempio alle trasposizioni dal teatro di Kàlidàsa, a statue e pitture. È uscito dalla Utet di Torino il suo tentativo di riassumere la storia dell'arte indiana e di alcune sue propaggini: India, Ceylon, Nepal, Tibet. Nella breve premessa Oscar Botto parla della diffusione delle forme artistiche indù fino in Cambogia e nell'Indonesia come di un parallelo al dilagare della leggenda di Rama e addita anche, come massimo pregio di Sivaramamurti, il rispecchiamento delle dottrine di Coomaraswamy sul carattere extratemporale dell'arte indiana, che fin dai primordi comporta una dottrina estetica legata alla metafìsica vedantica. L'opera incomincia infatti citando un classico: «La bellezza delle forme e la dolcezza della melodia commuove anche il più gioioso, aumentando la gioia»; l'arte s'innesta in un processo di esultanza che ha per fine la follia, è un'offerta e un'adorazione degli dèi, una rappresentazione delle loro dimore ideali, che forniscono i modelli supremi agli artisti. In India vige la suddivisione dei nove temi: erotico, comico, quieto (adatti a ornare le case), eroico, terrificante, spaventoso, disgustoso, prodigioso o commovente (per templi o sale reali). Per ciascuno di essi si scagliona una gamma di situazioni tipiche, forme dolci e iridescenti per l'erotica; deformità e goffaggini (come le scimmie che sradicano le piante per misurarne le radici e sapere come innaffiarle) per il comico; separazioni e rinunce (il romito che vieta la caccia al re) per il commovente; il sorriso a ciglia aggrottate del guerriero per l'eroico; ire anomali, volti di gorgoni per il terrifico; ferocie e malignità per il genere spaventoso; atti ripugnanti per il disgustoso; sguardi esterrefatti, le gesta di Krsna per il prodigioso; visioni di saggi, di asceti, del Buddha per la quiete in cui tutto culmina. Al pittore spena di meditare e visualizzare gli inni sacri e poi di mettersi in condizione di mostrare onde mobili, guizzi di fiamma, strisce di fumo, voli di ninfe entro quei nove ambiti. Si adeguerà al grande trattato, il Citrasùtra, che prescrive ogni particolare, dalla facitura dei colori alla gamma delle allusioni. L'estetica indiana giunse in conclusione a definire l'essenza del-

l'effetto complessivo come dhvani, parola che è difficile tradurre. È la rifrazione, l'alone, l'aura dell'opera; Sivaramamurti dà l'esempio delle stille di pioggia che cadono su Pàrvatl: cadono sulle ciglia, rimbalzano quindi sulle labbra e di qui vanno a infrangersi sul seno, per poi colare sul ventre fin dentro l'ombelico. Dhvani sono la morbidezza di ciglia e labbra, la sodezza del seno e la sinuosità del ventre, la bellezza infine cavernosa dell'ombelico, che non sono menzionate, ma si sentono di riflesso. Segue poi la teoria delle figure, delle metafore e dei giochi di parole. Dopo questa indicazione dei princìpi generali eterni, si passa allo sviluppo storico, che Sivaramamurti organizza sulla serie delle dinastie che hanno retto l'India o sue parti a cominciare, dopo un cenno all'Indo del terzo millennio, dai Maurya nel IV secolo a.C. Di questo periodo originario interesseranno le fotografie di danzatrici del Museo di Patna, dai vestiti sbuffanti e trionfali. Nella dinastia Sunga (185-72 a.C.) domina il rampicante dei desideri che proietta dalla bocca d'un elefante o d'un coccodrillo; con i Sàtavàhana (200 a.C.) comincia la costruzione di vaste grotte adorne e si diffondono le vicende della reincarnazione di Buddha: le storie dei Jàtaka, che forniscono ancora oggi di trame gli artisti birmani e thailandesi. Nel Sud emergono i Pallava (325-800 d.C.), che ammiriamo nelle sculture di Mahàbalipuram e di Kàncipuram, i Pàndhya e infine i Cola (850-1100), che con la loro flotta possente giunsero in Birmania e in Indonesia, conquistarono Bengala e Sri Lanka; furono iivaiti e tolleranti. Ai Candella (800-1315) dobbiamo lo sfarzo di Khajuràho, ai Caulukya la fioritura di monte Abu. A ciò che seguì, specie ai Moghul, Sivaramamurti fa scarsi cenni e in sostanza ciò che dice del Tibet non è che una valutazione dell'influsso preponderante che su quella tibetana ebbe l'arte indù, mentre maggiori particolari fornisce sull'arte nepalese, sulle variazioni di attributi e di giaciture degli dèi e sull'ornato trabocchevole. Dal dolore all'estasi tramite la bellezza, «Corriere della Sera», 15 maggio 1989.

La mente non ha orìgine Dzog (rdzogs) in tibetano significa perfezione, compimento e cheti vuol dire grande, sommo. Si espone l'insegnamento dzog chen all'interno della setta nyingmapa, ma anche all'interno del sistema bòn, che risale a un maestro anteriore al Buddha Sakyamuni, il turkmeno o persiano Tongpa Shenrab, nato da stirpe reale nel 1857 a.C. Tornano in mente le osservazioni di Tucci alle cerimonie tibetane che si celebrano in punto di morte: vi affiorano elementi persiani. A trentasei anni Shenrab si isolò per apprendere lo sciamanesimo tibetano o bòn. I suoi discepoli entrarono nel Tibet e nello Stato adiacente a Occidente, il regno di Zhang Zhung, dove si parlava una lingua particolare, ora sparita. Si dice che i Tibetani non erano in grado d'intendere gli insegnamenti di Shenrab, sicché ci si limitò a sostituire i loro sacrifici cruenti con offerte di focaccine in forma animale e a sollecitarli a sentire la presenza di spiriti custodi con suffumigi e lustrazioni. Esiste un testo in lingua zhang zhung, di difficile interpretazione e tuttora si vedono monumenti adorni di scritture zhang zhung, sormontati dal simbolo bòn: un tridente la cui punta centrale è una spada fiammeggiante, che emerge da un uovo: la conoscenza distruttiva delle passioni sprigiona dallo stato naturale della mente ed è posta fra le punte ferrate che simboleggiano metodo e conoscenza. Nel settimo secolo il regno Zhang Zhung fu annesso al Tibet. Nell'ottavo secolo il capo dei bòn si uni alla setta buddhista nyingmapa, ma mantenne in vita la sua dottrina. Essa si è trasmessa ininterrottamente fino a noi. Dei monasteri bòn alcuni oggi sorgono in India e uno a Kathmandu. La vita dei monaci si fonda su consuetudini simili a quelle dei buddhisti, il ritiro in un ambiente buio, dove si esercita la fantasia, l'apprendimento della logica e la pratica di dibattiti lunghissimi. Ormai si sono tradotti i testi maggiori, credo, dello dzogchew, segnalo il delizioso libretto di versioni stampato da Keith Dowman The Flight ofthe Garuda (Wisdom Publications, Boston): antologia dei maestri della setta

nyingmapa. Figura un poemetto di Guru Chowong (morto nel 1280) che proclama: «Hung! Com'è futile proiettare nozioni di essere e non essere / Sulla realtà continua, informe e inconcepibile! / Che miseria aggrapparsi a illusioni circa una sostanza irreale! / Ripara dunque nello spazio del piacere senza concetti e senza forme». Chowong scaccia dalla mente ogni dualità e contrapposizione di puro e impuro, bene e male, sé e altri, successo e fallimento, vita presente e dopo la morte, nascita e decesso. Si dice che dzog chen sia d'una semplicità sorprendente, ma lo sono anche l'advaita Vedanta o il ch'ari o lo zen. Tuttavia la sua enunciazione può essere infinita. L'autore del Volo del Garuda, Shabkar Lama del secolo XIX, la perpetua dicendo che la mente illuminata ignora padre e madre, nascita e morte e che la mente non si può cogliere, determinare, definire; interroga: qual è l'origine della mente? È in funzione di fenomeni esterni, montagne, rocce, acqua, alberi, brezze celesti o ne è indipendente? Deriva dai fluidi generatori di padre e madre? E risponde: «Va' a fondo: la mente non ha origine». Chi vuole comprendere lo dzog chen dovrà isolarsi, scongiurare le potenze magiche che lo possono circondare, immaginarsi nelle varie condizioni possibili, per capirne la vanità e staccarsene. Si giungerà cosi a comprendere a fondo che tutto è creato dal proprio pensiero, il quale è insussistente. Dopo si uniranno i piedi spingendo in fuori le ginocchia, si terranno le mani congiunte sopra la testa chinata sul petto, immaginando di essere il simbolo dzog chen, il tridente fiammeggiante. Si tratterrà cosi il respiro, finché si cadrà all'indietro. In seguito si siederà a gambe incrociate e si immaginerà il cuore come la lettera hum azzurrina, che si moltiplicherà all'infinito rovesciandosi fuori dalla narice destra, inondando il mondo, per rientrare dalla narice sinistra riassorbendosi nell'unità del cuore. Si dovrà giungere alla persuasione che nemmeno il cuore esiste: si farà cessare la rappresentazione di hum pronunciando phat, e ci si ritroverà avvolti di beatitudine, vuoti e limpidi, si sarà raggiunta la chiara mente naturale che conosce ogni cosa percepita come illusione. Tutto è infatti creato dalla mente, la quale non

sussiste, simile al punto dello spazio da cui passi il volo d'un uccello: un nulla che non ha né passato né futuro né presente, il quale crea tutte le altre illusioni. Esso tuttavia appare, ma si sottrae all'espressione verbale. Questa mente è sempre con noi, ma non proviene da niente di tangibile, né dal mondo celeste: «È simile ad un vento» dice Gyaltsen «che arrivi improvviso da nessun luogo». La mente corre al Vangelo che anch'esso parla di questo fiato di vento. Lo dzog che mira a introdurre nello stato naturale, che non ha materia né colore, non è oggetto e non è soggetto, non si lascia afferrare essendo una vacua limpidezza che non si ghermisce con alcun senso, ma si intuisce. Èl' iniziazione che ce lo svela, ma non c'è niente da afferrare né fuori né dentro di noi e non si deve desiderare niente, ci si trova in questo stato in un lampo che sarà il maestro a generare, ineffabile a parole. Tutto è vacuità e consapevolezza. Basta coglierle senza agire, né bene né male, senza ricorrere a parole: qui lo dzog chen coincide puntualmente col taoismo. A questo punto si sarà tramutato in un arcobaleno di cinque colori. Lo descrive ShardzaTashi Gyaltsen in HeartDropes ofDharmakaya (Snow Lion, Ithaca 1993). Quella serie di cinque, quel pentagono di tinte contiene tutto l'universo: le cinque passioni, le cinque membra, i cinque orifizi. Ma è pura luce. Il vertice supremo, «SMENS: Pagine efigure»,n. 2, dicembre

1997.

Il punto metafisico [...] Una dopo l'altra si susseguono le percezioni, le immagini, le riflessioni, ora in un tumulto affannoso ora distesamente, ma la vita non è tutta qui, può non essere cosi angusta: si può osservare questa dispersa molteplicità senza identificarsi, senza dire che quei movimenti sono «miei», fino a non partecipare più, diventando puri testimoni: questa è l'esperienza metafisica. Si guarda allora l'esistenza molteplice come un gioco, tramutati da attori in spettatori. Non si è più affannati a dividere in bene e male ciò che si presenti, e tuttavia tutto acquista un suo fermo valore e significato a seconda che si sia vicino a questo stato di unità, di testimonianza e lontano dunque dalla molteplicità: il mondo appare scaglionato, disposto su una scala o una piramide o su cerchi concentrici, mandalico, e tutto si mette nel suo posto giusto, in noi svanisce il dubbio, le opposizioni diventano apparenze. Ma perché questa non sia una nozione della mente e diventi un'esperienza completa, si deve obliare ogni opposizione, specie quella fta noi e lo spettacolo del mondo. Si può dire che la prova d'esserci arrivati è l'estasi. Si può anche dire che è la pura quiete. Le parole servono e non servono, a questo punto. Esse sono sempre basate su opposizioni, a ogni affermazione si contrappone un contrario, ma quassù si è precisamente di là dalle dualità, dal flusso dell'informazione che è battere e levare, domanda e risposta, superficie molecolare ed enzima, bene e male. Lo stato unitario e testimoniale è di qua e al di là di questa scissione. Perciò dell'esperienza metafisica si possono dire cose che possono sembrare contradditorie a chi ne sia ignaro. Si può dire che è l'esperienza di Dio. Ma nel buddhismo non esiste Dio, e nell'induismo Brahman (neutro) è superiore a Brahmà (maschile singolare). Si può dire che è l'esperienza degli archetipi o dèi, i quali sciolgono dalla presa delle cose, e quindi mettono in grado di liberarsi perfino da loro. Ma l'abramico rifiuta gli dèi. Si può dire che sul piano metafìsico cessano le forme, ma un sufi replicherà che in realtà soltanto su di esso esiste la forma, poi-

ché ha forma soltanto in senso figurato ciò che non è Dio. Si può dire che sul piano metafìsico, come scrive al Jili, «Dio svela agli iniziati la sua essenza mostrando che essa è loro stessi», ma ciò può sembrare perfino il principio dell'illuminismo. La parola è un tramite imperfetto. Una danza può essere più propizia o un mandala, un diagramma, un'icona, uno sguardo. Tutto ciò è oggi dato per scontato da molti. Come è dato per scontato che l'esperienza metafìsica sia superiore ai dilemmi del bene e del male: chi in essa si installa vede notte e giorno, male e bene come chi sta su un cocchio e guardi le ruote vorticanti, i loro mozzi fusi in uno. Rinarrerò una favola. Dio, si dice, piantò il giardino della quiete soave e vi pose l'uomo a curare e custodire alberi d'ogni bellezza con in mezzo quello dell'estasi, una vite, pare, che s'inarcava a pergola formando un cielo di pampini tempestato di grappoli stellari. Di un albero del giardino l'uomo non doveva cogliere e mangiare i frutti: era da evitare l'albero della conoscenza delle opposizioni, che lo avrebbero piombato nell'ossessione dei giudizi di condanna e di approvazione, dell'aut-aut. Esso rende potente l'uomo, poiché contrapponendo, giocando sulle contraddizioni, esasperandole e proponendo codici, indurendo il cuore per metterli in atto, si acquista potere, una droga forte quanto il vino dell'altro albero. Inflessibili, taglienti, estremi, superbi, abili rende la conoscenza della divisione, ma altresì vergognosi della propria nudità e natura, privi di spontaneità e lievità, dannati, incapaci di ascoltare l'oracolo della coppa fra le coppe, il cuore. Ma il più sublime dei tanti maestri dai quali la nuova generazione è accorsa, Ramana Maharshi, insegnava che nel cuore è la realtà, fonte d'ogni pensiero, dimorando nel cuore si contempla senza nome né forma la realtà. La pura luce di questa verità ha lambito negli ultimi anni molti cuori come nel cupo passato non avveniva. Stralci da II revival dell'irrazionale, a cura di L. Ancona, Todariana Editrice, Milano 1983, pp. 21-34.

Una tradizione spirituale celata Alla radice dell'Occidente c'è una tradizione spirituale celata, concepita dai fondatori originari delle nostre scienze, ma poi travisata e cancellata con cura, sicché ben pochi ne conoscono oramai i nomi stessi, salvo i rarissimi che sappiano di avere in tasca la storia delle stelle e di poter andare in direzione del futuro soltanto guardando al passato. Partiamo perciò dagli uomini che furono gli antenati degli antenati. «Il passato siamo noi» e perfino il nostro domani è un passato che si ripete. Tale punto di partenza è lo stesso che sorprese il giovane Nietzsche, la percezione di un tempo tripartito come finzione: il vero tempo è un flusso che ci solleva al di là dei momenti risaputi, dove presente, passato e futuro si amalgamano e innalzano. Focea, o città delle foche, era un borgo situato sopra Smirne. Nel VII e nel VI a.C. i Focesi esplorarono oltre Gibilterra; già stavano al termine della via della seta che si spingeva fino in Cina attraversando la Persia e l'India, sicché furono amici dei Persiani, i nemici di Atene. Davanti a Focea s'innalzava l'isola immensa di Samo, patria di Pitagora, che intorno al 530 a.C. andò in Egitto e a Babilonia a imparare la matematica e la metafisica astronomica. Ha sorpreso rinvenire nelle rovine del tempio a Era in Focea oggetti liturgici bronzei legati al culto della dea Gula, la Guaritrice babilonese, oltre ad altri oggetti liturgici indù. Alla fine del secolo V a.C. Babilonia entrò a far parte dell'Impero Persiano e vi immigrarono personaggi dall'India e dall'Anatolia. I Greci in contatto con la Persia differivano radicalmente dagli Ateniesi. Tuttavia avvenne che i Persiani diventassero avidi dei loro territori, sicché i Focesi migrarono in parte e domandarono consiglio all'oracolo di Delfi, leggendolo male come invito a sbarcare in Corsica. Fondarono Elea o Velia e la difesero con valentia dagli assalitori, però poi incontrarono un suddito di Posidonia che illustrò una diversa lettura dell'oracolo: ubbidirono alla sua differente lettura. A Elea nacque Parmenide del quale Platone forni un ritratto menzognero all'inizio del IV secolo a.C. quando il concetto di tempo incomincia ad alterarsi e prende a diffondersi l'in-

venzione babilonese d'un tempo suddiviso in giorni di 24 ore. Platone dirà di Parmenide: «Noi non riusciamo a comprendere le sue parole e ancor meno il suo intendimento nel pronunciarle». In un altro dialogo parla di dover uccidere il padre Parmenide. Il parricidio è il più atroce e repellente dei delitti, fa rabbrividire. Di fatto è una confessione. Platone vorrebbe uccidere Parmenide. Parmenide era l'autore d'un solenne poema in esametri. Narra che lo scortano donne lucenti, figlie del Sole, provenienti dal regno dove tutti gli opposti si versano l'uno nell'altro, confondendosi: il regno dell'abisso e della notte tutelato da Giustizia, dove si arriva appena morti. Ma con un carro guidato da giumente come loro provenienti dalla notte, le dèe figlie del Sole lo conducono nella notte, prima che muoia. Lo portano a contatto con l'aldilà, con il territorio della morte. In direzione delle immani porte che sbarrano la strada: basta schiuderle e si è nel luogo dove dalla luce nasce la tenebra, e questo vige per tutti gli opposti immaginabili. Ma il trasferimento avviene con un fischio che ne forma l'essenza, come aria che attraverso una canna vuota vibri al modo d'un serpente che si ridesta. Lo produce, e qui Parmenide sosta per esprimersi con cura, il fischio sinistro che esce dalla pressione di due rotanti cerchi posti sui due lati delle ruote, fino a dove s'innalzano le porte immani che fischiano del pari con lo stridere dei loro cardini. Al di là delle porte giunge la Dea offrendogli la destra, con un gesto di amabile accoglienza. Inoltre lo rassicura: non è stato attratto dalla sorte maligna, ovvero dalla morte. Chi giunge a questo luogo mortuario prima dà prova di essere iniziato. Lo chiama kouros o ragazzo, figlio, eroe, iniziato. E anche phólarchos, custode di rifugio, di luogo deputato alla letargia, dove il cuore quasi non batte più. Strabone descrisse la Caria, dove s'innalzava Focea, come sparsa di luoghi del genere, all'apertura dell'Ade, del regno di Plutone e di Proserpina, dove si conducevano animali malati che avessero bisogno di una tranquillità radicale, semivivente, quasi non più vitale. LI si sognava e si poteva guarire mercé un sogno guaritore. Era la catàbasi, l'immersione nel regno prossimo alla morte, dal quale era possibile ritornare in vita riabilitati alla salute.

Ma sorprende lo stile del racconto. In quattro versi quattro volte ritorna il verbo «condurre», ora al presente ora al preterito, così come vi compare la parola oimos e oime, «via» e «racconto», come se fossero legati e alternativi. Tecnica rettorica iterativa e ambigua e prettamente sciamanica. Sul suono soverchiarne della «canna vuota» — che è denotato con syrigmós, il sibilo del serpente che si ridesta (lo stesso della kundalini'màù.) - i papiri magici egizi informano che questo è il suono dell'armonia astrale. Apollo e dopo di lui Asclepio sono collegati al serpente. È un'esperienza capitale, la vita antica ne garantiva la costanza e il pieno significato. Nel folto dell'erba all'improvviso freme il serpente verde e ci si ritrova allarmati, paralizzati, immobili. Difesa e strategia non sono concepibili in questa immobilità: si è bloccati, già mezzi morti, il fischio del serpente ci avvince, siamo virtualmente sacrificati, trafitti. San Sebastiano inerme già siamo noi, ci inarchiamo sotto le fitte frecciate fatali e rifischianti, assopenti, siamo nell'Ade. Se ne può tornare sciamani possenti.

Stralci da Iniziati alle porte dell'Ade, «Il Sole 24 ore», 19 agosto 2001.

Il puro conoscitore C'è in India chi non nutre illusioni, non ha ombra di fede, il puro conoscitore. Si limita a sapere o a non sapere o a sapere dubitando. Non crede a niente. Lo porta a ciò che sa non un sentimento, ma una semplice valutazione. Conosce perché verifica. Inoltre riconosce di vivere morendo, di recedere insensibilmente nel nulla ad ogni istante. La morte sarà per lui la dilatazione all'infinito di questa esperienza quotidiana. Non concede stilla di fiducia ad una vita anteriore alla nascita o posteriore alla morte. Perfino con tutto il sistema cerebrale in azione, la sua persona è uno sfasciarsi e ricomporsi senza tregua. Cosi esso dà prova di non essere. La persona è comunque sempre un inganno. Mutevole, insidiata, la capovolge un'inezia: innamoramento, infatuazione, allucinazione. È comunque perennemente erosa dall'oblio, forza che ne sfibra e usura il nucleo più intimo, l'unico possibile avallo: la memoria [...]. In India al puro conoscitore si schiude una via specifica e questa via si può illustrare riferendo i ragionamenti inesorabili di Gaudapàda o di Sankara, i classici più onorati, ma esiste, modesto e facile, l'insegnamento impartito dalle migliaia di sapienti di villaggio. Due maestri di questo tono sono emersi nell'India moderna, riuscendo ad ammaliare il mondo intero. Ramana Maharshi, che ammaestrò ai piedi dell'Annapurna, ripetendo senza tregua che non siamo il nostro corpo, il quale può funzionare da solo e col quale potremo e dovremo convivere in un perpetuo sonnambulismo; non siamo nemmeno il nostro Io, la nostra persona, che è un infinito rinvio: ce ne accorgiamo e già siamo due. Che cosa rimane? L'attenzione pura, eterna, immutevole, beata, la quale coincide con la nostra identità senza forma nella misura in cui è di tutti e tutti costituisce; essa rende noto ciò che è in quanto è ciò che è, costituisce lo schermo che permette la sfilata d'immagini cinematografiche che forma l'esistenza [...]. Basterà ripetersi «chi sono?», eliminando ogni altro pensiero, finché anche l'interrogazione si estinguerà [...].

Nisargadatta Mahàràj tenne le sue lezioni nell'appartamentino di Bombay dove lo scovò Maurice Friedman, un ebreo polacco, europeo caratteristico, ruotante sull'asse dell'impegno politico. Tutte le sue pie intenzioni dovettero infrangersi sulla razionalità inflessibile di Nisargadatta. Ne risultò un primo, squisito volume di dialoghi, I Am That, stampato da Chetana a Bombay. In seguito Jean Dunn e Balsekar trascrissero altri dialoghi. Nisargadatta parlava quando aveva toccato i settantaquattro anni, dicendo di sentirsi infante ed esortando a tornare a quello stato di puro essere, nel quale ]!Io sono è ancora puro, anteriore alla maculazione di «sono questo» o «sono quello» e abolendo in ultimo anche Io sono. Alla fine si potrà veramente ripetere con Nisargadatta: «Sto parlando da un punto di vista in cui non conosco me stesso, in cui non so di essere. Non appartengo al regno». Ma la massima parte degli uomini è legata al sentire coltivato nella prima infanzia: l'attaccamento alla madre ne è la sostanza. Per loro il mondo persiste nell'assetto impresso allora, all'inizio della vita cosciente: ogni forza proviene da Dio o dagli dèi, l'amore è la forza maggiore, decisiva, il nucleo dell'universo. Fu Caitanya a invitare in questo rifugio dei sentimenti puri, esortando a esaltare l'amore, il fondo oceanico nascosto che tuttavia inerisce a ogni anima e suscita un'esultanza soverchiarne. Maya, forza di seduzione e magia divina, copre questo fondo, ma il devoto appassionato, che ignora logica e scrittura riesce a scoperchiarlo nella propria intimità, vivendo l'amore che è la somma di tutti i sentimenti e ne è anche la forza generatrice. Il contatto con esso fa impazzire, si diventa come un canovaccio vuoto, tutti i sentimenti si accendono e ardono a fuoco bianco: è come bere un veleno e insieme un nettare [...]. Questa è la condizione grandiosa (mahàbhava) d'intensità smisurata, base e fine dell'esistenza. Fra le figure fondamentali dell'uomo ce n'è una che in sé osserva levarsi ondate furibonde di passione, che travolgono, esaltano e si svelano per le forze fondamentali dell'universo. Lo condurranno all'oltraggio, alla violazione d'ogni norma, ma soltanto seguendole, stringendo l'anima coi denti, egli si sente vivere. Non c'è uno Stato che si regga senza l'aiuto di gente come lui, la guerra

è intrinseca ad ogni convivenza [...]. Per lui l'India ha provveduto a stendere una Scrittura, a elaborare la più raffinata filosofia tantrica. Secondo Abhinavagupta ogni manifestazione emerge dal cuore di Dio e l'uomo vi può partecipare grazie al tremito inconsapevole del proprio cuore. Per avvertirlo occorre spingersi al di là del vuoto, fino al punto in cui si cessa di distinguere il corpo dal mondo esterno. Ci si arriva mediante la forza della negazione, la quale rallenta la vibrazione della consapevolezza e l'emissione del respiro. Chi arrivi a questo stadio di apprendimento, vi si può insediare stabilmente. Potrà poi progredire verso l'indicibilità, di cui si può ottenere coscienza in grazia del tantra, il quale nulla nega perché si tiene alla vibrazione fondamentale di tutti i soffi in completo abbandono, in una quiete esente da ogni distinzione, al di là di spazio e tempo: in esso ci si scorda d'esser nati e d'essere esposti al futuro. Seguendo i maestri oltre spazio e tempo,

1995.

«Corriere della Sera», 3 maggio

Solo il pittore vince la morte Qual è la relazione fra l'uomo e il cosmo, fra l'io e la natura? Talmente importante è questa domandina perché ne dipende la fusione tra i due estremi, che alla fin fine è l'estasi o sommo bene, la loro confusione inestricabile, in cui si avvincono e distruggono a vicenda in un meraviglioso trionfo di morte e resurrezione. Ha tanti sinonimi questa sintesi suprema, è il sommo nepente, il sangue del Graal, il gioiello che largisce ogni desiderio: sorso di paradiso, cibo soprannaturale. Ma già il punto di partenza è dubbio. Già la definizione dei due estremi lascia a desiderare! Si crede di sapere che cosa sia l'uomo, eppure mai nessuno ha saputo individuare dove di preciso incominci a essere e a stagliarsi. C'è un colmo di pura bestialità, di istinti violenti che a rigore sembrerebbe preumano ma attenzione: faccia scatenata, lingua profferta, occhi di bragia, voce raspante, fiato rovente, possono anche manifestarsi come purissima spontaneità mistica, fedelissima ai sommi maestri: al Dioniso greco-romano così effigiato nei templi siriani, riprodotto quindi nel Medioevo come Uomo Verde o Natura nei templi comacini e quindi germanicoinglesi o anche predicato da Meister Eckhart come raggiungimento dello scatto schietto, della spontaneità impeccabile e rapita, esente da ogni sospetto di finzione, purissimo slancio. Questo è l'ideale mistico più perfetto, fedele allo Pseudodionigi, mèta sublime, che non ha nulla a vedere con il gioco di ragionamenti e deduzioni che dividerebbe fatalmente uomo da belva. Quand'è che si precisa l'affiorare dell'uomo «razionale», distinto dagli animali che gli respirano accanto? Non dico tanto dagl'insetti mirabolanti, sapienti come le api, operosi come le formicole, ingegni geniali come le termiti, ma su su fino alle bestie di dimensioni più cospicue, ispirate e lunari come lupi e felini esperti nello stringere le pupille e catturare i grani di luminosità che accendono la notte più fitta e illune, come i pesci che s'allineano sulle correnti magnetiche o gli uccelli altrettanto capaci, radar incarnati. Ma bando agli organi di percezione negati all'uomo: chi abbia avuto una dimestichezza vera e sincera con un

gattuccio o un canino, sa quanto più profondo di quello umano medio sia il loro sentire, e avrà accumulato con la semplice osservazione una torma di episodi significativi: sacrifici eroici e dedizioni commoventi, inconfutabili. L'uomo è semplicemente un corpo che crediamo di riconoscere come umano associato all'abitudine di ragionare secondo le regole enunciate da Aristotele nella Logicai Vediamo. Per cominciare, buona parte degli uomini parsi tali sulla terra non ha ragionato in modo logico e nemmeno si è preoccupata d'informarsi della logica e delle sue norme, ha avuto un corpo il cui profilo ben di rado è stato elegante come quello delle figurine egizie, irto molto spesso di pelame nerastro, biondo o fulvo. Incline a divorare a caso ciò che gli è stato fàcile stroncare e dissanguare, ripetendosi magari che nel sangue dimora e si diffonde l'anima. Se poi quest'uomo si picca di conformare i suoi atti secondo norme rivelate, piomba in una sconfinata presunzione, si arrovella fino a disgustare da quanto si complica così insensatamente l'esistenza. In breve, che cos'è l'uomo, l'io? L'aggregato a una nazione e comunità d'origine? Ma basta un'abitudine ai viaggi perché un ente di tal fatta si disgreghi. Bastano itinerari devoti e informati fuori dei circuiti e dei linguaggi nazionali, e subito l'aggregazione originaria smarrisce la sua forza adesiva, evapora. Ricordo tuttavia Giuseppe Tucci, edotto come pochissimi sul suo angolino italolatino maceratese, e però dotato di una capacità d'assimilazione incomparabile per le lingue remote. Si trasferì in Bengala e in Tibet, penetrò il buddhismo tibetano e i suoi testi più rari, s'impratichì dell'archeologia locale e fu accettato come buddhista dal Dalai Lama. Ma quando tornò in Italia e si trovò sposato a un'italiana cattolica, si diede altresì per un normale cattolico. Ci si vuole domandare come mai? Come mai giocò in ultimo sul presupposto, così frequente, che si è sempre plurali e che un investimento raramente è radicale e ancor più di rado comporta una rinuncia. Sta di fatto che nella sua vita tradusse testi tibetani e sanscriti in un armonico, dottissimo, leopardiano idioma italiano; furono tutte versioni che partivano da un'assimilazione perfetta.

Forse che se il primo termine della sintesi, l'io o l'uomo si sgrana e si effonde nell'aria, il cosmo viceversa resterà immobile? ***

Che cosa intendiamo per cosmo, intanto? Le tante dimensioni di cui è composto o le stringhe che lo costituiscono? Le formule riassuntive, il Big Bang e l'universo attuale? Negli Stati Uniti e in Inghilterra, appena un po' meno in Francia e in Germania, una trafila di scienziati ha descritto il cosmo quale si è presentato durante il presente secolo alla loro indagine; da Jeans a Penrose il loro numero si è via via accresciuto e molti tra loro hanno scritto volumetti piani e persuasivi come The Artful Universe di John Barrow nel 1995. Di fatto la fìsica presenta nella sua sintesi più stretta la realtà intorno a noi, nella misura in cui la matematica può formularla. Ma fino a che punto questa riduzione fisica è esauriente e riassuntiva? Fino a qual punto sarà una proiezione della mente calcolante? Fino a che grado esprime ciò che si addensa sulla nostra pelle, s'imprime sulla capacità percettiva, sul tatto la cui espressione più ardua è la vista, oltre che sulla sensazione vibratoria che s'annida nell'orecchio? O forse esprime soprattutto il funzionamento della mente e le sue regole, è una proiezione della mente, dell'uomo piuttosto che del mondo percepito. Rivela la mente e le sue regole di manifestazione, la percezione ed il percipiente, non il percepito. Ci conduce al centro della mente o alle approssimazioni massime che ci possiamo consentire al riguardo. Comunque sarà pur sempre possibile che l'uomo colga la realtà più veridica con la più trepida sensibilità, con la più attenta vibratilità. Chi sarà colui che testimonia meglio di questa vibrazione sensibile? Credo il pittore, il quale si accorge che tutto scorre verso il nulla e la morte, ma decide viceversa di invertire la tendenza, di immobilizzare il movimento suicida. Nota che ogni paesaggio inganna, è inconsistente ma anzi trascorre senza pausa, attrae con sé nella morte. Invece di farsi trascinare da esso verso questa mèta predestinata, il pittore arresta la corsa, il nulla, capovolge il movimento mortale,

lo stringe sull'istante in cui si presenta, inverte il processo naturale, ferma il divenire, lo ghermisce sull'istante in cui si rivela: Io tramuta da ente in essere, da partecipazione a infinito. Fa che la danzatrice si libri a mezz'aria in eterno, costringe il paesaggio a fermarsi sul volgere dell'istante: su quel momentaneo trascolorlo, sul gioco di riflessi presenti in quell'attimo. Così perviene a riawolgere il tutto su se stesso, facendo slittare il presente e attuale nell'infinito che ne forma la premessa e causa, svia la partecipazione nell'eterno, nel blocco di ogni divenire, mostra la percezione di per se stessa come essenza intemporale come chi fermasse una pellicola di film e ci illustrasse le istantanee di cui è fatta, come fa il pittore che coi suoi pennelli illustra che cosa di fatto guardiamo, se guardiamo. La pittura americana dell'Ottocento ha fra i suoi sommi colui che arrestò per sempre l'attimo che precede lo scatenarsi della bufera, col cielo nereggiante, raggiato di rossi staccati e momentanei, Martin Johnson Meade (1840-1900). Le singole civiltà porgeranno ciascuna al pittore metodi specifici: la bizantina e la russa le squadrature d'icona, l'ottocentesca le macchie di colore, il rapporto molteplice, innumerevole di rapporti esatti fra gradi di luminosità che tramano le superfici, la rinascimentale il rapporto delle linee che dal proscenio partono per raggiungerne i punti di annientamento in fondo allo spazio visibile e occupato, il gioco di prospettiva. Così si esorcizza la morte incombente, si interrompe il passaggio del tempo, si spezza la caduta nell'abisso del nulla, nella fine mortuaria che attende tutto al suo varco. A questo punto, se l'esorcismo riesce, alla morte si toglie il suo carattere definitorio, supremo, si è ribaltati fuori di tempo-spazio. Elevati infatti all'istante perfetto nel quale di fatto sempre ci aggiriamo, nel quale si smarrisce di fatto ogni nostro progetto, sempre che si avventa; la storia è comunque un'illusione nella quale per errore immaginiamo che si svolgano i nostri atti sociali. Di fatto, spiegava Nietzsche, la storia non ci fornisce esempi e modelli, ci suscita soltanto inganni: plateali, smaccate menzogne. I sommi eroi sono morti e ne evochiamo malamente un modello che sarebbe valido tutt'oggi, in circostanze incomparabili, nelle quali dovremmo muoverci in-

vece, semmai con originalità e inventiva. La storia confonde la nostra azione, la presenta in maniere incongrue, la stringe entro progetti confusi e astratti, ci tarpa e acceca ripetendoci menzogne di antenati, presentandoci le loro fantasticherie come realtà vigenti, in tal modo ci rinserra nel loro sepolcro, ci vieta la vita nostra, che deve sempre farsi strada nel buio, nella novità, nel bisogno oscuro. ***

Voler tenere distinti la mente umana e il cosmo è il più greve degli errori, ne nascono gl'infiniti vagabondaggi inconsulti del pensare. In realtà c'è uno stato d'animo che risulta dall'esercizio inflessibile della logica e dallo slancio d'amore tutt'insieme, l'estasi unitiva in cui ogni questione immaginabile si discioglie, sottratta alla morte e al corso del tempo, al sepolcro dello spazio. Estasi è la rivelazione della pienezza, della fusione tra la mente e il cosmo, quali che essi siano e si vogliano definire, sia che il cosmo si riduca alla sua definizione strettamente fisica, sia che si identifichi con ciò che percepiamo come paesaggio o visione celeste, sia che si creda al sistema percettivo umano o che si allarghi invece al modo di avvertire la realtà di insetti e mammiferi, di pesci e volatili. Nell'estasi si coglie l'essenza della realtà mentre finché ci si attiene al puramente percepito ci si aggira tra fantasmi e nebbie, intralciamo la vista e l'udito, ci vietiamo perfino la percezione della verità. L'estasi disperde il nuvolo, netta l'orizzonte, lancia l'attenzione all'ultimo lembo del visibile, sostituisce il possibile all'attuato, concede di scorgere l'essere infinito. Questo allargamento è la somma liberazione, la più eccelsa verità, la medicina suprema, il fine dei fini, l'ultimo orizzonte. È l'ideale indù della liberazione ma è anche quello buddhista del nirvana, che vale come spegnimento, estinzione, mèta d'ogni religione che voglia guidare al centro dei centri, esaurendo la serie interminabile delle questioni vane, sfatando per davvero gl'inganni possibili, sgombrando effettivamente il cammino, fino al massimo, nettando il percorso in maniera radicale. L'estasi è l'esistenza ripulita di tutti i desideri, innalzata al di sopra dei bisogni possibili, identificata col mero essere.

Ci si occupa di geometria e ci s'illude di vivere entro il raggio della scienza geometrica, ma si trascura di meditare il punto di partenza del ragionamento geometrico. Il primo passo è quello risolutivo, offre la chiave suprema: la superficie, che la geometria studia in essenza e preliminarmente è l'addizione di linee parallele, che a loro volta sono addizioni di punti. Ma il punto non occupa spazio, esce dall'assenza di spazio come la cuspide d'una lama da dove si parte per calcolare le figure geometriche, quante si possano mai immaginare. Il punto che non è nello spazio regge ogni costruzione spaziale, forma la loro scaturigine e la loro causa ultima, la loro più intima verità. L'essenza invisibile che le permea. Ogni superficie spaziale si spiega a partire dall'assenza di spazio. Il punto corrisponde all'essere puro, le costruzioni che mercé i punti si combinano nello spazio esistono nella misura in cui si parta dal nulla, dall'idea pura d'una lama che emergendo dal non-spazio incida sullo spazio. Tempo e spazio sono infatti non cose materiali, ma categorie mentali, che si ottengono mercé inganni e alterazioni dei sensi. La scienza dello spazio puro è imposta da una fiaba che sta fuori dello spazio, da una definizione che ignora la realtà tangibile, il tessuto delle figure geometriche s'intreccia a partire dall'inesistente, la concretezza tangibile poggia su una dichiarazione che si definisce insussistente nello spazio. Quel nulla senza spazio, puntiforme, quell'incisione istantanea del nulla sulla superficie in movimento dello spaziotempo, sulla triade imprendibile di passato, presente, futuro. Nessuno di questi tre termini risulta afferrabile, salvo nel mondo capovolto del pittore. La questione s'imposta nel modo più stringente dove la logica ha avuto una preminenza netta, nel mondo buddhista. Jason W. Brown, neurologo di New York, ha affrontato seriamente la questione (in Microgenesis andBuddhism: The Concept ofMomentarìness, «Philosophy East and West», voi. 49, n. 3, luglio 1999, University of Hawaii Press). Osserva all'avvio che i contenuti mentali sono ritenuti oramai dei solidi logici che agiscono l'uno sull'altro in uno spazio funzionale, eliminando la temporalità centrale alla metafìsica buddhista. Ma contrappone a questa una visione di-

stinta «momentaneista», sviluppata sullo studio di imperfezioni mentali come l'afasia, per cui i processi della mente paiono come un ritmico alternarsi fra persona e mondo, generato dalla superficie subcorticale e in varie fasi sparse sull'orlo neocorticale: tutto è un processo dalla memoria alla percezione, per cui la realtà cessa di essere il punto di partenza per diventare il punto d'arrivo d'un atto di conoscenza e di percezione. «Se si medita sulla metafisica della teoria microgenetica, diventano evidenti tante corrispondenze con il primo pensiero buddhista: il sorgere e perire delle varie fasi, il ricorrere dei momenti, la qualità fenomenica delle percezioni, che si può considerare il punto di partenza per la neurologia.» La scuola buddhista mädhyamäka sostiene che ogni ente è una serie di stati momentanei collegati dalla simiglianza, una freccia in volo è in realtà una serie di frecce che si connettono nella mente percipiente e qui si unificano, soggettivamente. Si imporrebbe dunque un soggetto unitario e persistente anteriore alla percezione come è postulato infatti dalla scuola yogäcära con tutte le difficoltà che impone la serie di ragionamenti sulla separatezza dei momenti singoli, sulle momentanee percezioni che costituiscono il percepire, sull'infinito invalicabile che separa la freccia dal bersaglio. La soluzione esige l'idea di momento come ksana, irruzione nel tempo di un lampo che proviene da fuori del tempo, come illustrava ¿cerbatskij: la sua durata è un minimo percettibile, non situato nel tempo. È l'equivalente del punto nella geometria euclidea. Non c'è un sorgere e perire del punto, c'è la sua apparizione come continuità di un perire: non sorge dal nulla e non perisce nel nulla, è il trasferirsi da uno stato all'altro, dall'intemporalità causativa al mondo di cause ed effetti. È r avvento dello spaziotempo soggettivo, esso ordina ciò che non è sottomesso a spazio e tempo. Nägärjuna criticò con la stessa nettezza di Hume l'idea di causa, preferendo quella di condizione e aggiungendo che «l'essenza degli enti non è manifesta nelle loro condizioni». Una realtà è un sogno e un ricordo che si è adattato a uno spazio, che si finge oggettivo. Un termostato non ha un passato, siamo noi ad attribuirglielo, estraendolo dai nostri personali ricordi. Il presente è sempre creazione d'una mente, nulla sarebbe

presente se non ci fosse una mente percipiente corrispettiva a cui è di fatto presente. Chi mai però finora avrebbe svolto in pieno il tema dell'opera filosofica suprema celata in quella pittorica? Esiste un esempio di riflessione precisamente su questo tema, del Cusano. Il Liber vigiliti quattuorphilosophorum, che apparve misteriosamente, raggiunse fama attraverso la trattazione di Meister Eckhart nei commenti all'Esodo e al Genesi. Fu attribuito ad Ermete Trismegisto. Il suo IX asserto statuisce: «Il tutto vede tutte le parti con un solo sguardo, mentre la parte non vede il tutto se non per aspetti diversi e successivi. Per questo la divinità è la simultanea totalità degli aspetti successivi. Onde la sua visione è unica, e non si attua in successione». È un commento a questa proposizione che il Cusano attribuisce al pittore che raffigurò per primo il ritratto frontale, il cui sguardo persiste a fissare chi lo guardi, dovunque costui si venga a trovare. Credo che origini, questa dissertazione, dai Gesù delle grandi icone frontali ritrattistiche di Bisanzio. Quegli occhi insistono a seguire chi ha guardato, implicando una trasposizione del pittore in Dio, nel Dio che, dal centro dell'universo coglie fino all'estremo il cerchio dell'essere. Punto di partenza e di arrivo sono impercettibili. Ogni connettersi di sguardi umani rientra nell'attenzione divina, gl'infiniti sguardi umani si assommano e culminano in quello supremo: il ritratto dello sguardo circolante di Dio comprende tutti gli sguardi isolati e parziali, li compendia e culmina. Solo ilpittore vince la morte, testo della conferenza omonima all'Accademia Marchigiana di Lettere e Arti, Ancona 2001. Pubblicato in Elémire Zolla dalla morte alla vita, nella sezione Polittico zolliano, a cura di G. Marchianò, «Viator», Rovereto, nuova serie 2005-2006.

La melodiosa morte A una certa età si impara ad adoperare con consapevole strategia la memoria: interi tratti della vita si fanno affondare nell'oblio, si spengono ricordi su ricordi; allora, nel passato, invece degli incontri che apparvero clamorosi e che scatenarono amicizie intense, prendono il sopravvento un sorriso, una frase che sembrarono da nulla, ma ora appaiono misteriosi presagi e chiari simboli. Lo stesso avviene riguardando le nostre letture di poesia. Quanti poeti del Novecento, che entrarono di schianto nella nostra esistenza, echeggiandovi, poi, commentando gli eventi, offrendo, per ognuno d'essi, la citazione, la consolazione, il sigillo, eccoli, a distanza di un paio di decenni: appassiti, ridotti a flebili ombre importune, congelati. E viceversa, la voce poetica che parve così sommessa un tempo suona oggi grave e penetrante, il suo ritmo, che allora non ci arrestò nemmeno, adesso cadenza i nostri momenti più attoniti. L'oblio travolge, se guardo indietro, quanti mai celebrati poeti del secolo! Fra quelli che emergono sempre più veritieri e imperiosi, uno dei massimi è colui che compendia la gran civiltà d'Austria, Hugo von Hofmannsthal. Si è grati perciò di avere, infine raccolte, le poesie di Hofmannsthal nel volumetto Canto di vita (ed. Einaudi). Un volume non da leggere di fila, ma piuttosto da riprendere a intervalli, quando la mano, non si sa come, corra ad aprirlo; da tenere su un tavolo piuttosto che allineato su uno scaffale. L'ha curato Elena Croce, con tatto, celandosi, mettendo a disposizione, accanto al testo, una versione interlineare (ma scorre soavemente: è il tradurre più difficile) ed una prefazione dove ogni notizia è largita, e dove, ancora una volta, l'autrice tende a scomparire, però non senza aver esercitato una critica che sa scattare spietata contro ogni recitazione mondana e perciò, garantisce, di ciò che loda o semplicemente offre alla contemplazione, il timbro onesto e verace. Come in certi palazzi barocchi austriaci, dove, notava un filosofo, a chi entri tenendo neghittosamente le mani in tasca, dopo un poco le forme auguste impongono di levarle. I critici facili o ideologici girano infatti alla larga da Hofmannsthal. E fanno bene. Lo possono

accostare solo coloro che abbiano dimestichezza con la semplicità dei gran signori, la smascheratrice inflessibile. Di Hofmannsthal non tento un ritratto. Vorrei piuttosto svelarne uno dei segreti. A dirlo in breve: egli incanta con tale ferma, durevole fascinazione perché ha osato meditare e immaginare cose che pochi nel nostro secolo osano più pensare. Chi pensa ormai a ciò che saremo dopo la morte? Su questo futuro al quale diuturnamente dedicavano sentimenti e riflessioni i nostri antenati, oggi ben pochi osano lanciare uno sguardo, benché la vita pur continui a fluire per noi come fluì per loro verso quella foce, quel mare tremendo o mite. (Che cosa siamo mai noi per sopravvivere? Mutiamo, moriamo ogni giorno; e tuttavia... innegabilmente, nella stessa misura, di ogni nostro giorno qualcosa permane e rivive: sopravvive alla sua morte. Ma è superfluo accumulare ragionamenti: qui valgono certezze non formulabili, quelle sulle quali di fatto viviamo: le grandi incertezze, quella di amare o di riconoscere senza esitare una cosa «fatta per noi», che non sono mai discutibili, formulabili.) Guardiamo ai risultati. Chi medita su ciò che può esserci dopo la morte, acquista maggior vigore di fronte alle traversie, una maggiore profondità e capacità di rispondenza a quanto si aggira di sottile, di impalpabile nella sua vita. Hofmannsthal dedicò una poesia, Erlebnis, all'oltretomba. Ne trascrivo una parte nella versione di Elena Croce: «... E quietamente sprofondavo in quel tramare / Di mari trasparenti, e abbandonai la vita. / Che meraviglia i fiori ch'eran là / Con cupi ardenti calici!... / Nel tutto / Dilagante saliva dal profondo / Una musica che opprimeva il cuore. E questo, io lo sapevo / Pur senza comprenderlo lo sapevo. / Questa è la morte. Che si è fatta musica. / Fortemente nostalgica, dolce e scuro ardente, / Prossima alla più profonda tristezza. Ma strano! / Una nostalgia senza nome piangeva senza suono / ... Come quando uno piange quando su una grande nave / Con gigantesche vele gialle verso sera / Su acque blu cupo lungo la città / Patria costeggiando passa. E ne vede / Le vie, ne sente gorgogliare le fontane, odora / Il profumo dei glicini, se stesso vede / Bambino, stare

presso la riva, con occhi di fanciullo, / Che sono angosciati e vogliono piangere, vede / Per la finestra aperta luce nella sua camera / Ma la grande nave lo porta / Oltre, scivolando senza suono sull'acqua blu cupo [...]». Vien fatto di esclamare: si, così è, così avviene, mi potrebbe avvenire, mi avverrà: è una situazione, questa, non sorta dai vani giochi della fantasia, ma emersa da un'esperienza (o dal «bisogno» di questa esperienza). Vengono in mente le tombe greche o romane con figurazioni del viaggio del morto, su nave, fra Nereidi e Tritoni. Da sempre, esattamente come lo vede Hofmannsthal, si è descritto il viaggio di là dalla vita. In un recente studio (comparso l'anno scorso su «Conoscenza religiosa»)* Marius Schneider confronta i racconti che le varie tradizioni arcaiche tramandano, di quel viaggio, mostrando come concordemente esse parlino del morto che dal piano visivo (che svanisce come una costiera vista da una nave) passa a quello acustico: delle realtà ode solo più la musica: il tono, la loro essenza ritmica. Hofmannsthal ci restituisce in canto questa nozione cosi arcaica: «la morte che si è fatta musica [...]». Secondo le scritture indiane, il morto ode solo più i suoni degli elementi, ma se non è preparato da una vita pura e ascetica «il suono della terra gli sembra il crollo di una montagna, il mormorio dell'acqua un oceano infunante. Invece di ravvisare nel suono il fenomeno primario, egli lo considera il seguito di un minaccioso evento materiale, prende paura, fugge in un nuovo grembo materno [...] nell'aldilà si hanno soltanto i suoni della musica onnipotente che scioglie tutti i legami alla materia». Cosi insegna Schneider, rileggendoci i testi sacri indù e egizi. E così di richiamo in richiamo, Hofmannsthal ci riconduce a sfogliare i Vangeli. Sulla scia di quella sua densa melodia. E di colpo, quanto in essi si dispiega come discorso sull'oltretomba! Un filosofo russo, Florenskij, ravvisava una descrizione di ciò che ci attende dopo la morte in tutti i paesi evangelici dove si parli del * M. Schneider, Canto e musica strumentale neiritifunebri delle alte civiltà antiche, «Conoscenza religiosa», La Nuova Italia, Firenze, n. 1, 1970.

fuoco, del vaglio e del taglio. Non la metafora del mare, ma del fuoco. Ma non importa: la vita materiale è sciolta dall'acqua come è incenerita dal fuoco; le similitudini si equivalgono. La paglia, i sarmenti sterili delle parabole, la spada che taglia via l'anima dallo spirito (in San Paolo), sono tutti modi di indicare quell'aspra rescissione di noi da quanto in noi non è la parte regale, quella che ci plasma e ci regge, indipendente da ogni suggestione, lontana dai nostri gemiti o dai nostri diletti infantili: questi saranno arsi, «perché ognuno deve essere salato col fuoco e ogni sacrifìcio è salato col fuoco» dice il Vangelo di Marco (9,49). Nella prima ai Corinzi San Paolo avverte: «colui la cui opera s'incendierà, si salverà, ma come attraverso il fuoco». Che cosa è l'opera per eccellenza dell'uomo? La sua figura, i suoi tratti acquisiti. E che cosa ne rimarrà? Soltanto la misteriosa carità, l'amore verso Dio, avverte ancora San Paolo. E così Hofmannsthal ci ha fatto ritrovare, con quel suo melodico cenno, le intuizioni che ressero l'attesa della morte dei nostri padri e dei padri dei loro padri. La sua nave ci porta via da tutto ciò che ci ha sedotto sulla terra, verso il mondo dove resterà di noi ciò che sa staccare i puri eterni ritmi dalle parvenze materiali (dicevano gli Indiani o gli Egizi, evocati da Schneider). Resterà ciò che già in vita ci ha portato alla massima distanza dalla vita, e sarà bruciato via da noi tutto ciò che abbiamo costruito con poveri materiali troppo umani. Soltanto ciò che in noi s'inclina già ora misteriosamente, caritativamente, puramente verso la volontà incomprensibile che qui ci ha portato a vivere, soltanto ciò rimarrà dopo la morte. La nave di Hofmannsthal ci ha condotti all'inizio degli inizi (di là da quando eravamo fanciulli) e alla fine ultima (di là dal ricordo stesso delle nostre miserie terrene). I poeti che sanno operare tali miracoli sono, si diceva, ben rari. A loro si ritorna a certe scadenze, sicuri di trovare sempre altre e nuove, vaste verità. «Il Messaggero», 2 agosto 1971.

Lessico zolliano

Nota Questo lessico cattura settantasette tra termini e concetti formulati da Zolla nel flusso dei suoi scritti, in momenti diversi del suo percorso intellettuale. In certi casi sono vere e proprie definizioni porte alla sua maniera, in altri prevale il tono sentenzioso come nel passo di Volgarità e dolore dove la ricchezza, la virtù, l'erudizione, la sicurezza e la fama sono esposte a una tranquilla lapidazione: «La ricchezza» scrive «serve a spregiare agevolmente il denaro, la virtù a non essere impacciati dal vizio, l'erudizione a dissimulare l'accumulazione di notizie, la sicurezza a comprendere pienamente come il succo della vita sia la sua mobilità e precarietà, la fama a deridere il prestigio e valutarne senza fatica la vuotezza». Va da sé che la lista delle voci potrebbe snodarsi e allungarsi fino a comporre un altro libro, colmo di insegnamenti, amari o consolanti a seconda.

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L'alchimia è semplicemente la chimica, trattata però come un'arte o addirittura come un esercizio spirituale. O meglio: è una chimica nella quale le sostanze appaiono come simboli [...]. Il minerale nella ganga è un embrione, che si deve far crescere, e la disposizione d'animo dell'operatore è un elemento dell'operazione, come l'osservazione dell'uomo è un elemento costitutivo della realtà subatomica [...]. Questa attenzione simultanea all'interiorità e all'opera esteriore comporta un'idea e un'esperienza dell'universo in cui i sincronismi vengono in primo piano mentre il rapporto di causa ed effetto decade nello sfondo [...]. In Cinafindagli inizi l'alchimia manipola i minerali e, facendolo, trasmuta la personalità dell'operatore, genera una seconda vista e prepara l'organismo a usufruire dei prodotti la cui virtù medicinale si trasmette però in modo sottile, imponderabile: basta adagiare cibi o bevande nei recipienti di metallo alchemico. Questo punto si comprende meglio alla luce riflessa di altri testi, ad esempio il Vangelo di Giovanni 5,2-4, dove si parla d'uno stagno al mercato delle pecore di Bethesda, il quale una volta al di era «toccato da un angelo», da un influsso sottile che si manifestava in brividi sulla superficie dell'acqua e che spariva dopo che la prima persona si fosse immersa. L'influsso era imponderabile, istantaneo, come per un sincronismo fra il brivido «angelico» dell'acqua e l'immersione; l'influsso era trasmesso all'acqua dal letto, dalle sponde dello stagno o dall'aria stessa, come avviene nella coppa alchemica cinese [...].

Alchimia:

L'oro nascente. La materia prima del cosmo, «Riza Scienze», n. 11, aprile 1986

alla lettera, rendersi esterno a se stesso. Commento: «Meglio il malvagio che sa di essere malvagio che il buono che sa di essere buono».

Alienazione:

Dai Taccuini

L'amicizia è il paradigma di un rapporto privo di ogni traccia di servitù, dove sia superata la dialettica di repulsione e attrazione, amore e odio che interviene nel rapporto erotico. Imoralisti moderni, Garzanti, Milano 1960 Androgino: L'androgino rappresenta il livello dell'essere non-manifesto, la sorgente di ogni manifestazione, che corrisponde numericamente allo zero, il più dinamico ed enigmatico dei numeri, somma dei due aspetti dell'Unità:+1-1=0. L'Androgino, trad. it., Red, Como 1989 Anima: L'anima è una cosa rapinabile, incarcerarle, trasformabile in roboto succube d'altri se lo spirito non vigila reiterando quel suo costante interrogativo: «Chi sta muovendo questi impulsi, questefigurein me?».

Amicizia:

Prefazione a G. Meyrink, Il Golem, Bompiani, Milano 1966

Archetipi: Appartengono al

mondo delle figure incancellabili che l'uomo ritroverà nei sogni, coi quali atteggerà le visioni di veglia. Chi li vede? Chi li incontra davvero? Colui che ha conosciuto il mondo della fantasia visionaria che arride dopo che si è asceticamente dominato il mondo della comune immaginazione, colui che giunge alla visione mistica d'un certo grado, la quale in tutte le tradizioni è descritta come un viaggio in un mondo di presenze angeliche, cioè fra le cause esemplari di ogningura terrestre. Dai Taccuini preparatori ad Archetipi

Aura: L'aura è un'esperienza che tutti hanno avuto, almeno una volta nella

loro vita anche se qualcuno se ne dimentica. È l'ora eletta in cui il senso dell'esistenza sta lì, davanti a noi, quasi percepibile coi sensi [...]. È anche la capacità di meravigliarsi.

Atlante orientale, intervista a G. Caramore, «Panorama», 8 dicembre 1985

Azienda: Gli uomini delle aziende non hanno alcuna capacità di afferrare

ciò che avviene fuor della cella dove stanno chiusi e nemmeno ne hanno volontà, e l'istruzione che sia stata loro impartita non li soccorre. Volgarità e dolore, Bompiani, Milano 1962 Bambino: Sa tutto ciò che occorrefinchéfa tutt'uno con la madre. Archetipi, trad. it., Marsilio, Venezia 1988 Bektashi (confraternita): L'ordine bektashi (dal nome del fondatore anatolico Bektash), ma che si vuole risalga al genero del Profeta Muhammad, annoverava sette gradi iniziatici, consistenti nell'identificazione via via con lo Sheikh, col Profeta, con Dio. Nasce tra il XIII e il XIV secolo. Sbandito in Turchia dalla legge di Mustafà Kemal nel 1925, s'installa a Tirana che ne diventa il centro mondialefinoal 1967, quando la scure del governo comunista infligge una nuova diaspora, questa volta negli Stati Uniti. Sull'ordine e il suo segreto s'incerchia il romanzo di Yakup Kadri Karaosmanoglu NurBaba, che significa «maestro di Luce». Postfazione a Kadri Karaosmanoglu, NurBaba, Adelphi, Milano 1995 Bellezza (nell'arte): Tre sono i criteri della bellezza nell'arte: la nobiltà del contenuto, condizione spirituale dell'esistenza stessa dell'arte, l'esattezza della simbologia o almeno l'armonia compositiva, e infine la purezza dello stile, cioè l'eleganza delle linee e dei colori: va da sé che un'opera moderna potrebbe, per caso, avere tali qualità, ma sarebbe un errore ravvisarvi perciò la giustificazione di un'arte sfornita di princìpii. Pensiero e mito, «La Corte», Mantova, n. 10, inverno 1991

Florenskij incontra e adotta l'idea di biosfera di Vernadskij intesa come opera solare piuttosto che terrestre. Noi ne facciamo parte, ne siamo il pensiero.

Biosfera:

Opinione espressa a G. Giuffreda, 1926, nasce Biosfera, «il manifesto», 16 luglio 1994

Il bisogno è o maledizione, l'essere afferrati da dura necessità senza scampo, o l'obbedire alla vocazione con rapimento, è l'essere scelti senza rimedio o lo scegliere d'essere scelti.

Bisogno:

Volgarità e dolore, cit.

In genere i personaggi dei classici russi, anche quando non ci fissano con occhi d'icona, sono consapevoli della loro anima spirituale.

Classici russi:

Il romanzo russo nel secolo XIXe la sua influenza nelle letterature dell'Europa occidentale, Atti dei Convegni Lincei, 1978

Una notazione di Simone Weil afferma che il conflitto di coscienza è il male stesso allorché si mira a trarne partito a favore di questa o quella risoluzione pratica: soltanto contemplando la situazione senza desiderio di uscire dal dilemma, essa può fruttificare e porgere il bene.

Conflitto di coscienza:

I moralisti moderni, cit.

La conoscenza religiosa predica l'affrancamento dalla fascinazione delle novità e, insieme, la rassegnazione all'inevitabile, cioè insegna a non farsi né ipnotizzare né turbare, ma anzi a tenere lo sguardo al valore massimo: la qualità spirituale della vita.

Conoscenza religiosa:

I trapianti e la religione dell'Occidente, Atti a cura di V. Lappiccirella, Firenze 1970

Preferisce spesso rimanere silenziosa, essendo al di sopra dei discorsi, ma non è opposta all'ordine dei discorsi, anzi lo ispira. Contemplazione e possessione, «Conoscenza religiosa», n. 1,1976 Cultura esoterica: È la radice di tutte le ideologie del nostro mondo. Nel secolo decimonono la sua espressione è il liberalismo risalendo alle sue prime manifestazioni nel Seicento che emanano dal complesso delle idee esoteriche dei Rosacroce. Il socialismo e il comunismo sono riconducibili alle logge di stampo illuminato del Settecento soprattutto in Germania. Nell'Ottocento logge ginevrine acquisiscono l'ideologia comunista dalla quale emergeranno gli albori socialisti. Anche la cultura fascista ha radici esoteriche insufficientemente esplorate. Intervista a D. Crocco, «Leggere», anni Ottanta Destino: Il destino è il nesso misteriosamente necessario tra il carattere di un uomo e gli eventi che gli si costellano intorno. Contemplazione:

II destino e lafortuna, «Gazzetta del Popolo», 1962

Attorno al 2040 con la disponibilità di realtà virtuali, l'uomo [...] potrà vivere durante la giornata esperienze d'ogni genere, esplorazioni d'ogni contrada sulla terra e nel cosmo, sogni simili a quelli scatenati dalle varie sostanze allucinogene e via via che svarierà, perderà forza e

2040:

persuasione la vita quotidiana, l'unica (inora concessa [...], l'uomo si sentirà a mano a mano più libero, raggiungerà, si può supporre, la condizione che nella metafisica indù è più nota come liberazione in vita.

In G. Leopardi, Proposta di premifatta dall'Accademia dei sillografi, Muzzio Editore, Padova 1993

È un mezzo di difesa che consente di evitare contatti magici. Essa prescrive anzitutto don't bepersonal, non fare riferimento alle persone in quanto tali, prescrive di evitare ogni accenno osceno o allarmante, perciò la magia nera infierisce soprattutto in società dove sia caduta la barriera dell'educazione.

Educazione:

Volgarità e dolore, cit.

S'intende per esoterico il pensiero che ignori ogni barriera dell'interesse sociale o personale, che si estenda liberamente al di là di dove leggi o consuetudini, istinti conservatori o rivoluzionari sbarrino il cammino; si suole bisbigliarlo perciò all'orecchio. Varia nei secoli, ci fu un periodo nella storia giapponese in cui divenne scienza esoterica, trasmessa in segreto nei monasteri, la logica buddhista.

Esoterico:

D a i Taccuini

È la rivelazione della pienezza, della fusione tra la mente e il cosmo. Concede di scorgere l'essere infinito.

Estasi:

Solo ilpittore vince la morte, testo della conferenza omonima all'Accademia Marchigiana di Lettere e Arti, Ancona 2001

In senso stretto era, prima del Romanticismo, semplicemente il più vistoso e condannato sintomo della malattia mentale detta malinconia.

Fantasticheria:

Storia del fantasticare, Bompiani, Milano 1964 Fede:

È lo stato in cui non si ha bisogno di norme.

Volgarità e dolore, cit.

È l'esposizione razionale della prospettiva che si sia interiormente acquisita.

Filosofìa:

Intervista di M. Nocera, «L'Immaginale», ottobre 1996

Nei rituali dei cabbalisti medievali si usava mimare la creazione, simboleggiarla, soffiando svariate qualità di terra sopra l'acqua d'una coppa, e recitando varianti del Nome di Dio (cioè toccando con la mente le varie modalità della manifestazione): al termine della prima parte del rito veniva «creato il golem», ovvero si accedeva alle soglie del mondo informale, degli embrioni [...]. Poi si compiva lo stessoritoall'inverso, riportando il golem al suo fango, cioè, facendo calare nella manifesta-

Golem:

zlone lo spirito, santificandola, oppure liberando lo spirito dai limiti della manifestazione. [...] Il rito cabbalistico del golem ha un corrispettivo nel rito dìksà dei bramani, durante il quale un uomo viene trasformato in embrione: gli si versa addosso dell'acqua che simboleggia il seme, poi lo si fa entrare in un riparo che sta per la matrice, lo si avvolge d'una veste che rappresenta l'amnio. Nelle pratiche esoteriche buddhiste le evocazioni cabbalistiche hanno un altro corrispettivo: durante i riri shugendo ci si concentra sull'embrionalità, la si evoca, ci si identifica con essa e il sacerdote indossa un cappellone bianco simboleggiarne la placenta [...]. Prefazione a G. Meyrink, II Golem, cit.

Governo: Un male necessario per capire che la politica

portunità di vivere civilmente.

può essere un'op-

Bernardo Trevisano, Diritto all'opposizione, «Il Giornale d'Italia», 1966

Icona: L'icona era composta a partire dalle alchimie dei colori come un'a-

zione sacrificale che trasmutava i metalli in essenze veraci e fantastiche. Quanto alle campiture da riempire, erano statuite dalla tradizione. I volti rispondevano a uno schema che lifissavanel loro sguardo più semplice e attento. Li chiudeva fra le sue due curve una vescicapiscis, la stessa tracciata dall'augure per fondare una città, la stessa in cui si solevano racchiudere il Cristo e la Vergine [...]. A metà, simmetrici, i due semicerchi delle sopracciglia e sotto ciascuno le ellissi degli occhi (Sole e Luna). La stretta colonna del naso terminava in una sorta di cuore con due orecchiette-narici (Marte e Venere). [...] La sporgenza del mento era appena accennata da un arco di cerchio, a destra di chi guarda. [...] Nella pittura già profana lo schema è pur spesso presente ancorché le sue linee siano ormai stemprate. Nelle labbra la rinuncia allo schema sarà spesso fatale, poiché esso era uno scudo contro la sdolcinatura. Alchimia epittura, «Conoscenza religiosa», n. 4,1973

Stelle filanti di ricordi nella mente, che suggeriscono immagini al poeta, scoperte al ricercatore, mescolando la loro letizia alle pene, la loro sofferenza alle gioie, come strati di sapori in una bevanda.

Idee:

Introduzione a L'esotismo nella letteratura angloamericana. III v., Lucarini, Roma 1982

Immaginazione: Attorno al concetto di immaginazione gravitano l'idea di un ché di mutevole e ammaliante: sprazzi di luce, suoni brividanti, parole seducenti, nonché l'idea della creazione magica, dell'abilità, dell'astuzia e, in senso lato, della realtà fenomenica come tale. Al di fuori dell'area indo-europea basti l'ebraico ietzer\ «immaginazione», «inganno», «informazione» e «natura». Gli usi dell'immaginazione, «Conoscenza religiosa», n. 2, 1981

Molti sono gli infiniti, i metodi per coprire il possibile e l'avvenuto. Forse il primo sistema per crearsi l'infinito data dalle origini della civiltà cinese: è \T-Ching, l'attribuzione di una situazione dell'esistenza a ogni numero che risulti dalla combinazione di una linea intera e di una linea spezzata [...]. È come se un essere intelligente, completo, ci stesse rispondendo [...]. Offre un infinito ogni religione: con la vita del fondatore, innanzi tutto, che disegna l'esistenza ideale, repertorio integrale delle situazioni possibili. Buddha, Cristo, Maometto hanno vissuto la vicenda più perfetta immaginabile e la massima parte dell'umanità sceglie uno di loro e vi si riconduce.

Infinito/Infiniti:

Dalla Presentazione della collana «L'uomo e gli infiniti», diretta da Zolla, Gallone Editore, Milano, dove nel 1998 uscirono in traduzione italiana i volumi: Sui troni d'oro di James R. Brandon; Papago Woman di Ruth M. Underhill; Xuanzang. Un pellegrino buddhista sulla vìa della seta di Sally Hovey Wriggins

L'interiorità è durata pura in cui i tempi non sono scissi, perciò il passato e il futuro vi si confondono: si è quel vincitore di trofei, la propria storia è il proprio futuro. L'interiorità (l'anima) si manifesta mercé l'ornamento. Il corpo diventa perfetta trasparenza delle realtà intime. Chi sbaglia ornamento tenta di spacciarsi per chi non è; volgare perché inappropriato — glorie che non spettano, qualità inesistenti, menzogna. Interiorità insussistente ma rivendicata. Prove di interiorità (potenzialità) sonofiori,gioielli, noci, ossi, la luce intrinseca emanata da una persona.

Interiorità/Ornamento:

Dai Taccuini

Io: L'io è la prigione nella quale il mondo appare sogno, nel quale gli oggetti sono travestiti e deformati, squallide ombre. Naturalmente l'abbandono dell'io non significa semplicisticamente abbandono dell'egoismo, ma soprattutto distensione delle proprie forze, scioglimento della contrazione forzata che costringe nei limiti di se stessi. I moralisti moderni, cit.

È lasciar cadere il pupazzo che ci guida, spezzare l'identificazione con la nostra biografia. Appunto autografo Lite (in Giappone e nella Cina tradizionale): Poiché in Giappone una lite in giudizio è un disdoro, è trascurabile il numero dei patrocinatori legali. La scarsità del lavoro giudiziale, dovuta alla preminenza della ratio legis sugli altri principi ermeneutici, è un fattore della prosperità sociale. Liberazione:

II sincretismo, Guida, Napoli 1986

È come una pietra instabile su un terreno, basta sollevarla per scoprirvi marciumi, insetti.

Luogo comune:

Volgarità e dolore, cit.

Nella storia della macchina sociale, il messianismo è come l'invenzione del motore a scoppio. Le forze centrifughe del risentimento, della nostalgia, dell'insofferenza sono tutte convogliate nell'attesa di un capovolgimento storico e cosmico, il cuirinviole incanala in senso centripeto, sicché la comunità diventa l'unione di coloro che aspettano. È una risposta esotericamente razionale all'insoddisfazione inestirpabile dell'uomo, il quale, essendo finito, non può non tendere all'infinito, che gli è negato per definizione. La vita politica non ha scelta; se non si fonda sulla violenza o sulla corruzione, deve poggiare sul rinvio d'un messianismo.

Messianismo:

Verità segrete esposte in evidenza, Marsilio, Venezia 1990

Nel senso più vasto la metafisica è ben più che un linguaggio, è un'esperienza che trasforma. Il metafìsico, grazie a sistemi di simboli, tramuta in metafisica ogni attività e inattività, e di là dagli atti, tramuta la propria vita interiore. È proprio questa metamorfosi intima e totale che definisce il metafisico nel senso più pieno. Egli estirpa ogni identificazione con la sua persona sociale e storica, non si riconosce nell'individuo che sembra essere, [...] si identifica con l'essere come tale. Lo esprimerà talvolta nei secoli dicendo «sonofigliodel cielo e della terra» o, come affermava Guerin Meschino, «sonofigliodel Sole e della Luna».

Metafisica:

Lo sciamano e il metafisico, «Conoscenza religiosa», n. 3/4,1982

In origine vuol dire monito, misura, norma; hanno ugual radice moneta e monade, infatti moneta è l'unità di misura: ciò che riporta all'Unità, che rende misurabile. In origine la moneta fu un talismano. Il tedesco Geld, moneta, proviene da parole significanti sacrificio divino, confraternita sacra, gilda.

Moneta:

I vangeli e la teoria della moneta, «Nuova Antologia», n. 2087, novembre 1974

L'identità con Dio è rammentata nel motto sopra l'altare del tempio di San Biagio a Montepulciano: Hinc Deus homo et homo Deus («Da qui dio è uomo e l'uomo è dio»). Gli corrisponde simmetricamente il motto giapponese: «La Vita è (come) Dio» (Seime soku shin).

Motto:

Dai Taccuini

Ogni mutamento chiede un tributo di sangue: se si vuole fondare una stabile istituzione bisogna consacrarla con un sacrificio; le utopie vogliono ignorare questa legge ferrea.

Mutamento:

Le origini del trascendentalismo, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1963

Quando la mente si innalza al di sopra dei nomi e delle forme, non può che toccare il punto in cui anche le divisioni sessuali vengono superate.

N o m i e forme:

L'Androgino, cit.

Un numero qualsiasi diventa archetipo o unità di misura in quanto rappresenti, simboleggi l'unità, ma il motivo per cui lo diventa non è logicamente dimostrabile e analizzabile, perché l'argomentazione è un computo di dati che già presume l'uso di unità di misura. L'unica «ragione» che si può dare per far d'un numero un'unità di misura, un archetipo è il senso dell'analogia, facoltà affine al gusto, alla simpatia, alla discrezione.

Numeri come archetipi:

Archetipi, cit.

Non è le sue materiali riproduzioni, non è la parola che lo denota né il discorso che lo definisce, e neanche gli atti della mente che si protendono a coglierlo. Se tutti questi elementi «si sfregano» l'uno contro l'altro, forse si accende un lume che mostra la cosa, ma non ciò che essa è, soltanto come è. Quando infine si è la cosa, si può dire di conoscerla; lo zen direbbe: quando se ne coglie la natura di Buddha. Esiste un esercizio spirituale buddhista per cui dal samàdhi della pura concentrazione su un oggetto, si passa oltre: si osserva l'immagine mentale dell'oggetto e si progredisce ancora osservando che l'oggetto non è nessuna delle sue parti estese,finoalla scoperta di meri l'oggetto.

Oggetto:

Il sincretismo, cit.

Agli inizi del Novecento Hugo Wìnkler esplorò le tracce di una civiltà che nel quarto millennio a.C. in Mesopotamia fu dominata non dalla spada ma dalla sapienza. I suoi sacerdoti concepivano ogni fenomeno come il materializzarsi di energie cosmiche misurabili, che si esprimevano anzitutto nei ritmi degli astri o dèi. Il cielo, il mondo degli dèi-numeri era la griglia in cui tutto trovava il suo riscontro e la sua origine. [...] A ogni astro spettava un ritmo, un timbro, una nota. E un colore: nero a Saturno, giallo a Giove, rosso a Mane, porpora al Sole, verde alla Luna. Cosi ogni cosa fu. razionale: trovava la sua stella; perfino ciò che mai più in seguito è stato afferrabile e domabile, lafinanza:le banche templari avevano ancorato la moneta al cielo, cambiando l'oro e l'argento in ragione da 1 a 13 1/2 (il rapporto fra il 360 solare e il 27 lunare). Miti e riti erano astronomia cantata e recitata, si svolgevano nella piana dello zodiaco fra i due picchi dei solstizi, e ogni passioneripetevala tragedia dei contrastifrale due metà della luna o la commedia della crocifissione equinoziale. L'umanità allora conobbe l'Ordine Celeste e il vagoricordonon cesserà di tormentarla. Presentazione a Hugo Winkler, La cultura spirituale di Babilonia, Rizzoli, Milano 1982

Ordine Celeste:

Origine della vita; Negli spazi del cielo forse si cela l'origine della vita, se

ormai si dà per certo che tre miliardi d'anni fa piovvero sulla terra da una fonte cosmica ignota i primi aminoacidi, dai quali via via provennero le proteine e si formarono le prime cellule. Anche per questo verso si è ormai rigettati ai margini estremi della struttura universale, ci sembriamo trascurabili da ogni punto di vista. Cercare il cielo, Umberto Allemandi, Torino 1994

È il velo dietro il quale si agita il contrasto forse più radicale fra quanti hanno tormentato le coscienze dal Settecento a oggi. C'è un inconfessato timore di dover affrontare quella metafisica sufi, indù, taoista fondata su princìpii che l'Occidentale non può accogliere senza sentir dileguare le sue più viscerali certezze, specie da quando ha rimosso la sua tradizione platonica. Quei princìpii sono pur filtrati nella poesia romantica e il loro cardine fu pure il tema del capolavoro di Calderón, e tuttavia continuano ad atterrire. A metterli in un guscio di noce, essi insegnano che l'esistenza è molteplice, contradditoria, parziale, è la Grande Illusione e perciò implica un'Unità in cui le opposizioni si conciliano, le parti si fondono essendone esse la fonte e lafine[...]. Ma questa Unità non è soltanto un postulato della ragione, è anche una possibile esperienza totale in cui l'indagine razionale si placa, i sentimenti annegano in un senso dell'essere al di là delle forme, degli enti, e la volontà combacia con l'esistenza cosmica, allorché l'uomo si pone con tutto se stesso, corpo, anima e spirito, dal punto di vista dell'Unità.

Oriente:

L'esotismo nella letteratura angloamericana, cit.

È la convinzione che la realtà è tutto ciò che deve essere ed è, ad ogni momento, razionalità e perfezione. Hegel espresse questa convinzione con la formula famosa: «Tutto ciò che è razionale è reale e tutto ciò che è reale è razionale» [...]. Fu in virtù di questo ottimismo che il Romanticismo ebbe la tendenza a esaltare il dolore, l'infelicità e il male [...]. Il pessimismo romantico è solo apparente: nella realtà, esso è la manifestazione estrema dell'ottimismo.

Ottimismo:

Voce «Il romanticismo letterario», Grande Dizionario Enciclopedico, Utet, Torino

Si tenne a Chicago nel 1893 e vi presero parte rappresentanti autorevoli di tutte le fedi, compresa la religione cattolica romana. Lo zen giapponese fu allora predicato a Chicago e un funzionario dell'Impero Cinese espose con rigorosa fedeltà e umore la dottrina religiosa imperiale maturata nei secoli. Giunse da Calcutta Vivekananda, il discepolo di Ramakrishna, l'ultimo santo locale nel quale riviveva il grande sincretismo barocco indù: dal culto della Madre era passato all'esperienza islamica e infine era approdato al nirguna advaita. Vivekananda potè scrivere da Chicago al maharaja di Mysore che sempre meno in

Parlamento delle religioni:

Occidente si stava all'idea di una creazione dal nulla, d'un'anima creata da Dio, ma si accedeva viceversa all'idea che Dio dimorasse nell'anima. Egli annunciava la conquista spirituale indiana dell'Occidente. Il Parlamento ebbe un effetto lentissimo e vasto, che ancora si avverte. Di 11 nacque, all'interno delle varie fedi, l'apparenza ecumenica del sincretismo e cominciò a sbrecciarsi ogni pretesa di unicità e esclusività. Prefazione a John R. Hinnells, Dizionario delle religioni. Franco Muzzio Editore, Padova 1988

Pietra/Sassi: La pietra è il firmamento, di quella pietra siamo sassi staccati

e su quella pietra vanno spaccati i pensieri vaganti della mente, dicono i Padri. Esaltarsi alla pietra (Salmo 26) è passare dalla legge alla fede. I sassi sorgono dal suolo come espulsi dal suo seno, o cadono meteoricamente dal cielo come gli uomini possono essere non di quaggiù, di carne e di sangue, bensì di lassù, celesti e stellari e tuttavia dispersi e confusi nella massa terrena. Le meraviglie della natura. Introduzione all'alchimia, Bompiani, Milano 1975

Pinocchio: Pinocchio non è soltanto una rassegna di figure squisitamente ed esotericamente simboliche, ma contiene suggerimenti sottili su come si opera per attuare in sé il loro archetipo. Per liberarsi da se stessi, dalla propria natura di burattini utopisti, ricercatori di soluzioni umane, per rompere cioè i propri limiti.

«Conoscenza religiosa», n. 2,1975 Pittura/Pittore: Tutto è luce. Chi lo dimostra, rifacendoci la realtà, è il pittore, il quale sempre fu anche un alchimista, intrinsecamente [...]. I pittori (ancora i bizantini e i medievali) squadernavano sulla tavolozza il rosario degli archetipi luminosi, il circolo delle droghe, dei pigmenti che quindi ripartivano, imitando la divina giustizia o armonia, nel mondo piccolo ma totale dell'icona, animandolo. Pinocchio egli archetipi,

Alchimia epittura, cit.

Poesia: La poesia è sempre scandalo rispetto alla società civile e alle sue norme, talché la società si vendica riportandola nel proprio ambito, attribuendole una funzione: piacere, istruire, e cosi via. La vertigine poetica proviene proprio dal trovarsi in un universo dove le antinomie consuete diventano insensate [...]. Il piacere poetico è il piacere di una liberazione. Infatti: comunicare significa solitamente calcolare i migliori mezzi linguistici per influire secondo l'interesse sull'interlocutore, in poesia non si comunica ma si esprime, e di riflesso avviene anche una comunicazione. Si ignora l'interlocutore eppure avviene che si comunichi in seconda istanza con lui, se egli ne vale la pena. Risposta a «7 domande sulla poesia», «Nuovi argomenti», n. 55-56, marzo-giugno 1962

Poeta: Il poeta plasma e forma cose dianzi sconosciute. La sua fantasia, per incarnarsi in forme esatte, cessa d'esser tale. Storia del fantasticare, cit.

Ciò di cui ogni oggetto è fatto (raggio di sole). Togliendo le differenziazioni - ci si arriva. Rapporto tra forze psichiche e materia: un medio fra i due sarà la prima materia? Elisir di vita. Da raggiungere in noi. Appunto autografo Psiche: Non esiste una psiche unica e universalmente umana, non può proporsi una psichiatria globale: l'uomo muta di gruppo in gruppo, di epoca in epoca, sicché ogni designazione di malattie è provvisoria, limitata, ambigua, invalidante. Ciò che si chiama anima non è conformato come un oggetto, la sua sostanza non ha solidità, ma vibra, fermenta, trascolora senza tregua: la soggettività è un liquido sommovimento, non tollera definizioni dei suoi stati e quelle che via via si coniano, durano tutt'al più pochi decenni. Vedi gli usi via via tramontati di «isteria», «demenza precoce», «schizofrenia», «anoressia» (l'anoressica si astiene dal mangiare fino al suicidio, perché desidera scancellare col corpo il mondo dei desideri e per questo carattere si sovrappone a tante mistiche cristiane). Prima materia:

Eclissi eriemersionedella mistica, «AM», 3-4 ottobre 1997

Il puro conoscitore non nutre illusioni, non ha ombra di fede. Si limita a sapere o a non sapere o a sapere dubitando. Non crede a niente.

Puro conoscitore:

Le tre vie, Adelphi, Milano 1995

Il termine greco lògos, parola e ragione, denota ciò che è raccolto e riunito insieme (greco léghein), quindi il discorso coerente, la parola sensata, la ratio latina. Come opposto di ratio, dlogon equivale al latino insania: irragionevolezza, irrazionalità. Il cinese ku, «ragione» e il sinonimo li si scrivono rispettivamente con l'ideogramma che denota dieci bocche o generazioni, e un campo sul quale s'impianta un villaggio. Pertanto l'idea sottesa è quella della stabilità contadina. L'irrazionale sarà dunque ciò che non rientra nelle costumanze avite. In genere nelle civiltà orientali l'opposizione di ragione e irrazionalità non ha il pathos che la contrassegna in Europa, e un contrastofrale due,finea se stesso, non ha modo di attecchire. La nube del telaio, Mondadori, Milano 1996 Realtà virtuale: È esattamente la realtà di tutti i giorni, né più né meno. Le immagini di cui consta sifiutano,si toccano, si manipolano, oltre a

Ragione:

essere vedute, all'identica maniera. Ma risponde a un programma [...]. E si potranno spacciare deformazioni, suoni elettronici, le sensazioni tattili variate all'infinito per arte. Visto ciò che si spaccia per arte, sarà facilissimo allestire questo genere di programmi alterati e i candidi li chiameranno arte se tutt'attorno a loro i personaggi che ritengono autorevoli garantiranno che arte sono. Risposta a D. Fasoli, «Close Up», n. 2,1997 Sapienza: È guardare alle alternanze degli elementi dietro il gioco delle figure di questo mondo. La Natura naturante o Sapienza si guarda allo specchio della natura naturata, del mondo visibile. Si può imparare noi a vedere lo spettacolo del cosmo come uno specchio in cui si riflette la Sapienza?

Le meraviglie della natura. Introduzione all'alchimia, cit. Sciamano: Lo sciamano cinese arcaico, consultato, leggeva la sorte orientando un suo quadratino con sopra l'indicazione dei punti cardinali, a riprodurre la posizione del cliente, ruotando quindi un circolo zodiacale interno al quadratino per riprodurre la posizione degli astri, al momento [...]. Lo sciamano si poteva incardinare anche lui nel cosmo, ma forse non giungeva all'impersonalità assoluta del metafìsico [...]. Può rimanere uno, nessuno, centomila, mentre al metafisico compete di raggiungere lo zero assoluto.

Lo sciamano e il metafisico, cit. Segreti: [...]Perciò con divina saggezza venivano nascoste le conoscenze che nell'era moderna ci si è illusi di scoprire e ci si è inorgogliti di applicare senza calcolarne gli effetti remoti, con infantile entusiasmo e avidità. Molte delle nozioni fondamentali sulle quali si erge la scienza moderna erano conosciute e tenute discretamente velate in antico. Verso un nuovo illuminismo, «Elsinore», ottobre 1964 Sfera: Tre distinte sfere esistono nell'essere: l'esperienza metafisica, che si riflette nella visione della rosa; la commedia dei sogni selvaggi nella vita ordinaria e la tragedia del sacrificio. La visione della rosa, la commedia, la tragedia sono simili a tre cerchi intrecciati, fra i quali il centrale simboleggia l'esperienza metafisica: la rosa.

Archetipi, cit. Simbologia: La simbologia del Novecento, in quanto distinta dalla semiotica, considera il simbolo quale modo di conoscenza non discorsivo che ha per oggetto ideale la realtà metafìsica. È una conoscenza «non discorsiva» in quanto distinta dall'organizzazione dei segni linguistici, e si aggiunge: eccedente rispetto a ogni enunciazione discorsiva, il che distingue il sim-

bolo dall'allegoria, la quale può essere formulata in modo adeguato ed equivalente in termini discorsivi. Il secondo carattere del simbolo si esprime nel fatto che, mentre le varie realtà sensibili possono essere simboli l'una dell'altra (il leone può simboleggiare il sole e viceversa), esse rinviano tutte alle realtà non sensibili, le quali sono l'oggetto simboleggiato per eccellenza: simboleggiabile e non simboleggiarne. Queste realtà metafìsiche non sensibili sono le forme formanti rispetto alle cose sensibili e transitorie (e il celebre detto di Goethe insegna che ogni cosa transitoria è solo un simbolo), cioè alle forme formate; cosi l'oro, il leone, il re, il sole sono forme formate (del mondo minerale, animale, umano, celeste) analoghe fra loro, simboleggiabili l'una mediante l'altra, ed esse implicano tutte una forma formata comune, ovvero un archetipo, l'idea della preminenza e della maestà. Le forme formanti rinviano a loro volta a una causa ulteriore, il principio ontologico, che è l'oggetto ultimo di ogni simbologia [...]. Voce «Simbologia», Enciclopedia Italiana Treccani Sincretismo: È la parificazione tra le religioni o tra le filosofie o anche tra filosofie e religioni. Infatti le distinzioni fra sistemi e fedi appaiono dovute a un punto di vista troppo ravvicinato: per ogni ente esiste un'angolazione dalla quale esso cessa di distinguersi da ciò che lo circonda e delimita. Il sincretismo, che fa dipendere quel che si vede dalle norme dell'ottica mentale, è proprio soltanto di certe epoche nella storia del pensiero, cosi come l'osservanza della prospettiva si riscontra in certi tratti nella storia della pittura [...]. Come per il pittore di prospettive l'occhio non è la visione, così per il sincredsta la parola non è la cosa; è un ingenuo errore credere che linguaggio e verità possano coincidere, che esista mai un rapporto univoco e necessario fia le parole e ciò che esse designano, che i significanti e i significati siano mai sovrapponibili.

Il sincretismo, cit. Sole nero: C'è in alchimia un sole occulto, nero, dietro il sole noto e aureo, e quel sole occulto è Saturno, il «sole lebbroso», il piombo: questo ripetono incessantemente i testi alchemici. Del resto a Megara e a Efeso si adorava un Apollo d'ebano, a un Apollo luttuoso erano sacri i narcisi, i cimiteriali cipressi, i sorci pestilenziali.

Le meraviglie delta natura. Introduzione all'alchimia, cit. Superuomo: È una figura per certi aspetti opposta al santo cristiano [...]. L'atteggiamento sociale prevalente nei suoi confronti si divide tra due poli: lo sfruttamento dell'idea d'un eroe superuomo da pane degli autocrati che si fecero tributare onori divini, ed il dileggio cinico di tali pretese mistiche combinate a convenienze politiche [...]. Ma è ancora permesso di quando in quando assumere una visuale radicalmente diversa, ripristinando, in luogo del Superuomo e della Superumanità [...] l'idea del santo. È grazie a questa archeologia spirituale, la quale quasi sempre sembra scandalosa,

che sono stari creati, non a caso al di fuori d'ogni «corrente» letteraria, certi capolavori, come quelli di Hawthorne, di Melville, di Dostoevskij. In essi il superuomo è spogliato dei suoi prestigi e la santità rimediata. Il superuomo, «Settanta», maggio-giugno 1971 Tazza di tè: Ora si comprende come una tazza di tè tenuta in mano incivilisca un uomo. Il maestro d'arme giudicava di un arciere dal modo di girare il cucchiaino in una tazza di caffè senza fere un movimento di troppo.

Volgarità e dolore, cit. Tradizione: È un insieme di conoscenze, di simboli presenti in ogni popolo e in ogni tempo, nel sogno e nella veglia dell'uomo: solo grazie ad essa si può vincere i limiti dello spazio e del tempo e si può giudicare la storia, la quale altro non è che un affiorare o un celarsi della Tradizione. Essa è l'unico punto d'appoggio per chi voglia sottrarsi al progresso verso l'inquinamento totale o la pianificazione totalitaria. Presentazione a Che cos'i la tradizione, Bompiani, Milano 1971 Turns eburnea (Torre d'avorio): Simbolo di scampata socialità, emblema di conoscenza religiosa che non subisce ma illumina ogni fede, massimo pericolo per ogni forza politica che miri alla Totalità. Soltanto nella torre d'avorio è dato scoprire che alterando i magnetismi d'attrazione, di fede, la più compatta rupe si sbriciola, il più lieve pulviscolo si raggruma in macigno; Il si impara a sciogliere il fisso e a coagulare il disperso; Il è noto che basta for saltare la pietra di volta e l'arco crolla [...]. Proprio da certe torri d'avorio giunge sarcasticamente ai sottostanti e ai sottoposti l'insegnamento opposto: «sfuggite le torri d'avorio!», e chi darà ascolto, immerso nella socialità, non riuscirà mai ad abbracciare la socialità con uno sguardo dall'esterno, che ne mostri il fondamento e il limite.

Verità segrete esposte in evidenza, cit. Uomo: Chi si rinserra nell'umano soffoca. Chi si proietta nel cosmo da cui è avvolto, si annulla estaticamente. Intervista di M. Nocera, «L'Immaginale», ottobre 1996 Uovo: Nato prima dell'uccello, come insegnavano i teologi, l'uovo simboleggiava l'Origine della vita, e racchiudeva i quattro elementi, l'intera natura, poiché il guscio era la Terra, il follicolo l'Aria, la chiara l'Acqua, il tuorlo il Fuoco.

Dai Taccuini Valore: I valori crollano allorché l'uomo, non come atomo quantitativamente trascurabile ma come qualità irripetibile e singolarità universale, rifiuti ad essi il suo ossequio. L'odio della contemplazione, «Nuova Antologia», gennaio-febbraio 1967

Verecondia: La verecondia è l'innata tendenza a non indugiare presso associazioni mentali superflue e vane, a troncare la fantasticheria e le regressioni in stad infantili. Il surrealismo e La liquidazione della simbologia, «Archivio di Filosofia», 1965 Utopia/Utopismo: L'utopia senza metafisica è un inganno senza giustificazione. L'utopismo toglie al bene il pregio effìmero proprio della materialità: la godibilità sensibile, e gli sottrae anche il vantaggio particolare della spiritualità, ovvero la conoscenza di quell'apice della mente cui si accede con la meditazione e con il rito, e dove si cessa di avvertire tanto il transito del tempo quanto la circoscrizione dello spazio [...]. Il culto dell'utopia non ha un significato piìi serio del cartellino delle botteghe paesane: «Oggi non si fa credito, domani sì». Adorno tra metafisica e metacritica, «Elsinore», n. 5, aprile 1964

Yoga: Lo yoga insegna in primo luogo il movimento che sta alla base di quasi ogni vita mistica: la concentrazione che pensa e non si lascia pensare, il movimento di ripiegamento sulla nostra interiorità che ci fa afferrare l'eterno, il punto. Lo yoga sa bene che non è dato di mantenere la concentrazione se non a patto d'una sorveglianza ostinata della posizione corporea e del ritmo respiratorio. Interviene dunque per insegnare queste pratiche. Lafilosofia perenne, Mondadori, Milano 1999

Bibliografìa

L'opera edita di Elémire Zolla è un insieme monumentale di titoli, all'ottantacinque per cento in lingua italiana, e il resto in inglese, francese e tedesco. Si tratta di singoli volumi, di saggi pubblicati in periodici italiani e stranieri e nella rivista da lui fondata e diretta, «Conoscenza religiosa» tra il 1969 e il 1983; di introduzioni, prefazioni e postfazioni a opere d'altri autori, di voci enciclopediche, di collane accademiche, di un ingentissimo numero di articoli, interventi, conversazioni radiofoniche (periodicamente ritrasmesse), e interviste scaglionate nell'arco di un sessantennio. Il Fondo Zolla contiene altresì centinaia di quaderni e taccuini manoscritti con disegni e schizzi autografi, traduzioni di opere in prosa e poetiche, appunti su opere consultate, foglietti e note sparse. Copie delle lettere spedite e gli originali delle missive ricevute non sono stati archiviati dallo scrittore altro che in forma di biglietti e cartoline sporadiche. Fanno parte del Fondo le traduzioni delle opere e dei saggi in altre lingue. La bibliografia della critica, dalla prima stagione all'ultima e negli anni postumi - in Italia e all'estero, è custodita in decine di raccoglitori dei quali è in corso l'inventario. Ragguagli parziali a mia cura sono in La religione della terra, Red, Como 1991 (aggiornato a quell'anno), in Elémire Zolla: Sprazzi di una biografia interiore, «Viator», anno VI, 2002 (aggiornato a quell'anno), in Elémire Zolla dalla morte alla vita, fascicolo monografico in occasione degli ottanta anni dalla nascita, «Viator», nuova serie 2005-2006. 615

Si veda anche Elémire Zolla (1926-2002): Igiorni le opere, a cura di E. Gatta, «Caffè Michelangelo», anno Vili, n. 3, settembre-dicembre 2003. La bibliografia sintetica sotto indicata elenca i titoli delle opere in volume, delle pubblicazioni accademiche, delle principali voci enciclopediche curate da Zolla e delle collane da lui dirette, gli indici di «Conoscenza religiosa» e la riedizione dei testi zolliani apparsi sulla rivista; le ristampe postume e gli Atti dei convegni di studio successivi alla morte dello scrittore nonché le tesi di laurea sul suo pensiero.

Opere in volume Saggi di etica e di estetica, Edizioni Spaziani, Torino 1947 L'eclissi dell'intellettuale, Bompiani, Milano 1959 e successive edizioni (trad. ingl., fr., sp.) La psicanalisi, Garzanti, Milano 1960 (trad. sp.) Imoralisti moderni (co-curato da A. Moravia), Garzanti, Milano 1960 Il Marchese di Sade, Le Opere, a cura di, Longanesi, Milano 1961 Emily Dickinson, SelectedPoemsandLetters, a cura di E. Zolla, Mursia, Milano 1961 Cecilia o la disattenzione, Garzanti, Milano 1961 (trad. sp.) Volgarità e dolore, Bompiani, Milano 1962 (trad. sp.) Imistici dell'Occidente, Garzanti, Milano 1963 e successive edizioni (trad. sp.) Le origini del trascendentalismo, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1963 Storia del fantasticare, Bompiani, Milano 1964 (trad. sp.) Herman Melville, ClareL, Prefazione e traduzione, Einaudi, Torino 1965

Nathaniel Hawthorne, Settimio Felton o l'elisir di lunga vita, a cura di, Neri Pozza, Vicenza 1966 Le potenze dell'anima, Bompiani, Milano 1968 (trad. sp.)

Iletterati e lo sciamano, Bompiani, Milano 1969; Marsilio, Venezia 1989 e successive edizioni (trad, ingl., fr., sp.) Che cos'è la tradizione, Bompiani, Milano 1971; Adelphi, Milano 1998 e successive edizioni (trad, sp.) Il superuomo e i suoi simboli nelle letterature moderne, a cura di, 6 voli., La Nuova Italia, Firenze 1971-79 Le meraviglie della natura. Introduzione all'alchimia, Bompiani, Milano 1975, Marsilio, Venezia 1991 e successive edizioni (trad, sp.) Language and Cosmogony, Golgonooza, Ipswich 1976 Pavel Florenskij, Le porte regali. Saggio sull'icona, Introduzione e traduzione dal russo, Adelphi, Milano 1977 The Uses of Imagination and the Decline of the West, Golgonooza, Ipswich 1978; trad, in croato, Opus, Belgrado 1988 Archetypes, Allen & Unwin, London 1981 e Harcourt Brace Joanovich, New York 1981; trad, it., Marsilio, Venezia 1988 e successive edizioni The Androgyne: Fusion of the Sexes, Thames & Hudson, London 1981, Cross Road, New York 1982; trad. it. Red, Como 1989 e 1995 (trad, sp., fr., giapp.) Novecento Americanor. I Contemporanei, a cura di, 3 voli., Lucarini, Roma 1981-83 L'esotismo nella letteratura angloamericana, a cura di, 3 voli., Lucarini, Roma 1981-1982; 4° vol., Liguori, Napoli 1987 Aure: i luoghi, i riti, Marsilio, Venezia 1985 e successive edizioni (trad, sp.) L'amante invisibile. L'erotica sciamanica nelle religioni, nella letteratura, nella legittimazione politica, Marsilio, Venezia 1986 e successive edizioni (trad, sp.) Il sincretismo, Guida, Napoli 1986 Verità segrete esposte in evidenza, Marsilio, Venezia 1990 e successive edizioni (trad, sp.) Tre discorsi metafisici (con letture critiche), Guida, Napoli 1991 Uscite dal mondo, Adelphi, Milano 1992 e successive edizioni (trad, sp.) La luce. La ricerca del sacro in America, Tallone, Alpignano 1992 loan Petru Culianu 1950-1991, Tallone, Alpignano 1994

Lo stupore infantile, Adelphi, Milano 1994 e successive edizioni Le tre vie, Adelphi, Milano 1995 (trad. sp.)

Un destino itinerante. Conversazioni tra Oriente e Occidente con D. Fasoli, Marsilio, Venezia 1995 e successive edizioni

La nube del telaio. Ragione e irrazionalità tra Oriente e Occidente, Mondadori, Milano 1996 e successive edizioni (trad. sp.)

L'ultima estetica. Che cos'è il Sadismo, Tallone, Alpignano 1997 Il dio dell'ebbrezza. Antologia dei moderni dionisiaci, Einaudi, Torino 1998

Lafilosofia perenne: l'incontro tra le tradizioni d'Oriente e d'Occidente, Mondadori, Milano 1999 e successive edizioni Discesa all'Ade e resurrezione, Adelphi, Milano 2002 (edizione ampliata di

Catabasi e anastasi, Tallone, Alpignano 2001)

Voci enciclopediche «Il romanticismo letterario», Grande Dizionario Enciclopedico, Utet, Torino, vol. XI

«Simbologia», Enciclopedia Italiana Treccani, 1982 (vol. VI) Chamanisme (Inuit), Chamanisme (Sioux), Katsina (Hopi), Peyotl: culte du (Winnebago) in Amérique du 7V