Il confine orientale: Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955
 9788815131003, 8815131000 [PDF]

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Zitiervorschau

I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull’insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: www.mulino.it

Rolf Wörsdörfer

Il confine orientale Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955

Società editrice il Mulino

ISBN

978-88-15-13100-3

Edizione originale: Krisenherd Adria 1915-1955. Konstruktion und Artikulation des Nationalen im italienisch-jugoslawischen Grenzraum, Paderborn, Schöningh, 2004. Copyright © 2004 Verlag Ferdinand Schöningh, Paderborn, Germany. Copyright © 2009 by Società editrice il Mulino, Bologna. Traduzione di Marco Cupellaro. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo - elettronico, meccanico, reprografico, digitale - se non nei termini previsti dalla legge che tutela il D iritto d ’Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie

Indice

Introduzione I.

II.

La nazionalizzazione di una regione di frontiera

19

1. 2. 3. 4.

19 34 45

Luoghi simbolici e confini sacri Nazione e Grande guerra I martiri: Nazario Sauro e Vladimir Gortan La guerra dei monumenti e la Mostra della rivoluzione fascista

Dante Alighieri contro Cirillo e Metodio. L’associa­ zionismo e la mobilitazione nazionale (18801940) 1. 2. 3. 4.

III.

p. 7

54

65

In Italia In Jugoslavia L’Istituto per le minoranze di Lubiana «Imitazione del fascismo»? Associazionismi a confronto

68 79 95 100

Venezia Giulia/Julijska Krajina. Snazionalizza­ zione, antifascismo, esilio

107

1. Lo Stato nazionale omogeneo 2. Bonifica etnica sull’Adriatico: l’italianizzazione dei toponimi e dei nomi 3. L’antifascismo sloveno e croato 4. «Italianità», fascismo e ideologia razziale 5. L’esilio degli slavi giuliani

108 122 134 144 150

6

Indice

IV.

Guerra partigiana e nazionalizzazione (19411945)

p. 157

1. La storiografia sulla lotta partigiana nell’area adriatica 2. «Quadri della nazione di domani». La guerra partigiana al confine italo-sloveno 3. I partigiani: esclusione nazionale e prassi (inter)culturale

164 207

Dalla fine della Seconda guerra mondiale ai primi anni Cinquanta

223

V.

1. La statalizzazione della lotta contro l’occupante e le foibe 2. Aspetti dell’esodo degli italiani dalle province adriatiche 3. Gli esuli in Italia e nella Zona A del Territorio libero di Trieste

158

224 254 281

Conclusioni

291

Appendice

307

Carte

309

Abbreviazioni e sigle

315

Note

321

Bibliografia

417

Indice dei nomi

445

Introduzione

Perché un libro sull’Italia e la Jugoslavia? Perché un esame comparativo tra due paesi tanto diversi? Perché circoscrivere il raffronto all’Adriatico nord-orientale? E perché far partire l’analisi dal 1915, anno dello scoppio della Grande guerra in quell’area, e concluderla al 1955, scegliendo tale anno come termine della prima metà del Novecento? Prima di rispondere a queste domande vorrei ricordare due opere pubblicate in edizione economica a metà degli anni No­ vanta, a breve distanza l’una dall’altra: Quo vadis Italia? di Jens Petersen e Wie ]ugoslawien verspielt wurde di Viktor Maier1. Gli autori di questi due studi, rivolti a un vasto pubblico, si sono occupati rispettivamente di Italia e di Jugoslavia per ragioni le­ gate all’attualità. Nel decennio seguito al 1989 entrambi i paesi hanno attratto su di sé l’attenzione mondiale perché sulle due sponde dell’Adriatico i risultati dei processi di unificazione ini­ ziati nell’Ottocento non erano più accettati da vasti settori della popolazione2. Il malcontento riguardava il rapporto tra Stato e regione, centro e periferia, potere politico e autonomia sociale e si diffuse in primo luogo nelle aree settentrionali (più ricche) di entrambi i paesi: in Lombardia e in Slovenia. Questa situazione è uno stimolo quasi irresistibile alla com­ parazione storica. Ma se a partire da essa si ipotizza l’esistenza di due storie nazionali parallele, occorre una impostazione comune che trascenda la problematica della unificazione e della divisione. Ed è necessario circoscrivere in qualche modo l’ambito geogra­ fico di osservazione in cui verificare se e come la nazione e il nazionalismo, in Italia e in Jugoslavia, siano stati modello di una via alla modernizzazione della società e dello Stato, quali siano stati gli elementi di differenziazione tra questi due nazionalismi (ciascuno con i propri regionalismi e le proprie divisioni etniche

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Introduzione

interne) e per quale motivo entrambi in ultima analisi abbiano (forse) fallito. La chiave di comprensione della storia comune dei due pae­ si va ricercata nell’area dell’Adriatico nord-orientale, e il loro esame comparativo non può fare a meno di esaminare in modo approfondito questa zona di frontiera tra mondo latino e slavo meridionale. Tra le principali caratteristiche distintive di questo territorio va ricordato che esso è stato per secoli densamente popolato e che i suoi abitanti a un certo punto hanno iniziato a considerarsi italiani, sloveni, croati o facenti parte di un qualche gruppo etnico minore3. Dal 1880 in poi, sull’Adriatico, il rapporto di vicinato fu dif­ ficile, sotto il segno di un «conflitto di nazionalità» di cui altrove inizialmente si sapeva poco. Di solito la storia dei conflitti di questo tipo viene scritta da persone schierate o simpatizzanti con una delle parti in causa. In tal modo l’elaborazione storiografica del conflitto tende a sua volta a diventarne una parte significativa. Chi non volesse entrare in questo merito cercherà probabilmente di decostruire alcuni aspetti del «conflitto di nazionalità» relativa­ mente a un determinato contesto sociale o a un ambito geografico ridotto. Se invece opta per la macroprospettiva di un territorio di frontiera sufficientemente esteso potrà far tesoro dei recenti stimoli offerti, in riferimento alla storia dell’Europa centro-orientale, da Jiirgen Kocka, secondo cui ciò che occorre è «una visione d’in­ sieme di diverse società, diverse culture nazionali e anche diversi Stati nazionali in un’unica regione, tenendo naturalmente in debito conto la storia e l’azione dei tedeschi [...] in quest’area»4. Nell’area adriatica nord-orientale conviene prendere in con­ siderazione i regimi politici che si sono succeduti e fronteggiati durante il Novecento: la monarchia asburgica, l’Italia liberalmonarchica, monarchico-fascista, repubblicano-fascista e demo­ cratico-repubblicana, il regime di occupazione tedesco, lo Stato degli sloveni, dei croati e dei serbi, il Regno dei serbi, croati e sloveni (ribattezzato nel 1929 Regno di Jugoslavia), la Repubblica federativa popolare di Jugoslavia (facente parte fino al 1948 del blocco sovietico), e infine la Jugoslavia non allineata di Tito. In questa elencazione occorre ricordare anche che nella regione di confine i partigiani sloveni e croati e quelli italiani, a partire rispettivamente dal 1941 e dal 1943, avevano istituito degli organismi di autogoverno, e in alcuni casi delle vere e pro­ prie «repubbliche partigiane», e che dal 1947 al 1954 il nucleo

Introduzione

9

principale di tale regione fece parte di un’entità provvisoria post­ bellica, il cosiddetto Territorio libero di Trieste (Tlt), suddiviso tra una Zona A, amministrata dagli angloamericani, e una Zona B, amministrata dalla Jugoslavia. Occorre dunque correggere l’immagine sopra ricordata dei «due nazionalismi», visto che sulle sponde nord-orientali del­ l’Adriatico, tra il 1915 e il 1955, emersero ben più di due partiti nazionali. Ma piuttosto che fornire qui un elenco di tutti movi­ menti, formazioni, gruppi, organizzazioni e correnti di opinione nazionali esistiti nella prima metà del Novecento, è opportuno soffermarci brevemente sul ruolo dei tedeschi, al fine di individua­ re e spiegare il loro interesse specifico per un tema che di primo acchito suona piuttosto estraneo, se non addirittura esotico. Mentre nell’Europa dell’est esistevano vaste regioni con insediamenti di lingua tedesca, sull’Adriatico «i tedeschi» furo­ no presenti, fino al 1918, soprattutto in quanto ceto dirigente austriaco. A Trieste alla vigilia della Prima guerra mondiale essi rappresentavano, secondo Marina Cattaruzza, una «minoranza elitaria, che dal punto di vista politico giocava comunque un ruolo trascurabile»5. Già allora era chiaro che i pochi austriaci di lingua tedesca non sarebbero riusciti a germanizzare i latini e gli slavi delle regioni costiere. Sull’Adriatico, a differenza che nelle regioni alpine, le associazioni scolastiche tedesche che si prefiggevano questo obiettivo ebbero un ruolo del tutto secondario6. Come sottolineò nel 1912 il socialista triestino di origini ebraiche Angelo Vivante, « l’unico vero conflitto etnico» era quello «italo-slavo»7. Secondo Emil Brix, che ha analizzato in particolare i dati del censimento demografico austriaco, nella Trieste asburgica la popolazione di lingua tedesca era «all’incirca il quattro per cento, troppo esigua per influenzare in modo deter­ minante il contrasto italo-sloveno»8. Con la fine della monarchia asburgica e il ritiro dell’Austria e Ungheria l’élite austrotedesca si ridusse ulteriormente, e mantenne una presenza apprezzabile solo in pochi centri maggiori, come Trieste e Gorizia. Il successivo ingresso dei tedeschi sulla scena adriatica - qui impersonato soprattutto da austriaci, in maggioranza provenienti dalla Carinzia e sostenitori della «grande Germania» - fu breve e doloroso. Esso durò dalla metà del settembre 1943 alla fine dell’aprile 1945 e, diversamente dai cinque secoli di presenza asburgica, si lasciò ovunque alle spalle distruzione, frustrazione, rancore e lutti.

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Introduzione

Oggi come ieri, una parte notevole della «identità» italiana, slovena e croata è collegata soprattutto alla problematica di Trieste, cosa non sempre immediatamente evidente, visto che il conflitto attorno al Territorio libero di Trieste (1947-1954) risale a mezzo secolo fa e che ormai sono trascorsi oltre trent’anni dalla risoluzione giuridica definitiva delle questioni controverse con il trattato di Osimo (1975). Inoltre, per molti anni il tema del «conflitto per Trieste» sembrava essere stato trattato esau­ rientemente dai fondamentali lavori di Diego De Castro9, JeanBaptiste Duroselle10, Dennison Rusinow11 e Bogdan C. Novak12. Ma il crollo della Jugoslavia e la crisi del sistema politico italiano hanno creato, da una parte e dall’altra della frontiera di Osimo, nuove contrapposizioni che minacciano di turbare costantemente l’equilibrio nell’Adriatico nord-orientale. Gli studi sulla regione di confine italo-jugoslava basati sul punto di vista dello Stato-nazione fanno generalmente riferimento, per quanto riguarda il contenuto, al fattore dell’«identità». Ciò ha puntualmente ispirato interventi critici, perlopiù di parte op­ posta. Tuttavia molto spesso non basta a smascherare l’«identità di patria» italiana, slovena o croata come costruzione: troppo ricco è, per ciascuna delle parti in causa, il tesoro nazionale di miti e leggende, traumi e proiezioni reciproche; troppo ampio l’arsenale di concetti nazionali e di storia nazionale sottratto finora all’indagine critica nei propri rispettivi paesi13. La formula della costruzione e articolazione della dimensione nazionale mi sembra la più adatta a descrivere questi aspetti, poiché consente di cogliere almeno due facce del fenomeno, tanto ricco di riflessi cangianti, generalmente chiamato «nazione». Se si isola l’aspetto della «costruzione», prevalente nell’attuale dibattito storiografico, lo sguardo si rivolge automaticamente agli «architetti della dimensione nazionale» o agli «inventori di tradizioni» già in parte emersi per effetto delle ricerche dell’ul­ timo decennio; anche questo studio dedicherà loro la necessaria attenzione14. A tale proposito si può ricordare la seguente considerazione di Anthony D. Smith: «Una cosa è affermare simili tradizioni e “scoprire” una simile storia; altra cosa, del tutto diversa, è assicurar loro un successo duraturo e un’accettazione popolare. Tradizioni, miti, storia e simboli devono svilupparsi tutti a par­ tire dai ricordi e dalle convinzioni vive degli uomini cui tocca costruire la nazione»15.

Introduzione

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Nel caso di complesse mescolanze etnico-nazionali come quella esistente sull’Adriatico l’accento non si può sempre porre sulla genesi («costruzione», «invenzione») della dimensione na­ zionale, e il punto di vista dell’articolazione di tale dimensione merita attenzione, ma va innanzi tutto spiegato. Il termine «articolazione» deriva dalla fonetica ed è utilizzato tra l’altro nel campo della logopedia. Esso indica «tutti i movimenti che avvengono nel cosiddetto tratto vocale che provochino o formi­ no suoni»16. Da questi movimenti «deriva a livello acustico un risultato estremamente ricco di variazioni con cui l’uomo è in grado di sopperire al proprio bisogno sociale di comunicazione e di esprimere pensieri e sentimenti»17. Dal punto di vista dell’articolazione (termine qui utilizzato in senso metaforico) la dimensione nazionale appare soprattutto come un codice che facilita la comunicazione tra gruppi di po­ polazione. Analogamente all’immagine della costruzione, l’«idea di articolazione» offre la possibilità (sebbene non la certezza) di una comprensione scientifica della dimensione nazionale che non indulga in atteggiamenti etnocentrici o moralistici. Rientra in quest’ambito anche la ricerca delle condizioni in cui settori di popolazione pongono la dimensione nazionale in primo piano nella loro esistenza, lottando ad esempio per difen­ dere contenuti definiti in termini nazionali, mettendo in conto svantaggi per questo e insistendo tenacemente sulla tutela della propria «peculiarità» minacciata da un avversario molto più forte. A tale riguardo non è certo di poco conto la questione se tale peculiarità esista realmente («oggettivamente») o se si tratti piuttosto di una disposizione non data una volta per tutte, ma ampliabile e trasformabile in habitus attraverso una particolare formazione18. Il «cambiamento di appartenenza nazionale» spesso osservato sul campo giustifica lo scetticismo verso ogni interpretazione essenzialistica (ossia basata su identità collettive come categorie univoche) di tale dimensione19. Nell’ambito della presente inda­ gine la domanda se nell’Adriatico nord-orientale, nel periodo considerato, si siano contrapposti realmente una nazione italiana e una jugoslava (o un popolo italiano, uno sloveno e uno croato) viene riformulata chiedendosi quando, dove e come gruppi sociali o individui, autorità, associazioni, cooperative e organizzazioni partigiane si siano articolati, in una forma o nell’altra, in termi­ ni nazionali. La forte dispersione geografica, politica e sociale

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Introduzione

dell’oggetto d’indagine deve compensare gli svantaggi dati dal­ l’impossibilità di osservarlo in tutte le sue ramificazioni. D’altra parte si può obiettare che le regioni di confine non rappresentano la regola, ma una situazione eccezionale, e che per questo le indagini al riguardo non possono dir molto, in ultima analisi, sulla natura della dimensione «nazionale». Tuttavia le aree che formano il nucleo di una nazione traggono spesso i propri rituali, simboli, miti ed eroi dalle regioni di confine. Per l’area jugoslava ciò è assolutamente evidente: i territori di provenienza dei miti dell’origine sono situati, in questo caso, ai margini o ad­ dirittura fuori delle principali aree in cui è presente la nazione, di cui servono a comprovare le origini (ciò vale sia per il Kosovo polje, nel caso dei serbi, sia per il Duvanjsko polje in Bosnia, nel caso dei croati, o per lo Gosposvetsko polje in Carinzia, nel caso degli sloveni). Ciò non è altrettanto vero per l’Italia, ma si può dimostrare che già all’inizio della Grande guerra, e ancor più negli anni Venti e Trenta, l’area lungo i confini nord-orientali divenne un elemento di primaria importanza per la fondazione dell’identità (culto degli eroi, Mostra della rivoluzione fascista ecc.). Già Claus Gatterer ha stigmatizzato il fatto che i militari italiani nel 1918 sulla frontiera orientale si presentassero come «liberatori» e «civilizzatori»: essi erano gli esponenti di primo piano di un’Italia che pochi anni dopo avrebbe istituito in Vene­ zia Giulia, e nel resto del paese, un regime iniquo che sottopose sloveni e croati a regolamentazioni e persecuzioni più dure di quelle subite da qualsiasi altro gruppo etnico o sociale fino alla promulgazione delle leggi razziali del 193 820. Sono d’altra parte degni di nota gli sforzi degli «studiosi e operatori nazionali» sloveni e croati (su questi due termini si vedano soprattutto, più avanti, le pagine dedicate all’istituto per le minoranze di Lubiana ) che dal 1922 in poi, nell’Italia fascista, offrirono alla minoranza slava una «identità» densa di storia e in una seconda fase, dal 1943 in poi, cercarono di dimostrare che nella Venezia Giulia gli italiani costituivano una minoranza non autoctona; oppure l’affermazione del comunista sloveno Edvard Kardelj, fedele collaboratore di Tito, secondo cui l’esodo della popolazione di lingua italiana dai territori assegnati alla Jugoslavia dimostrava che gli italiani (a differenza di sloveni e croati) non erano mai veramente stati di casa in quelle terre21. Se ci si interroga sulle radici di queste caratterizzazioni di sé e degli altri contrapposte ma spesso complementari, va collocata

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al primo posto la Grande guerra, che ebbe effetti chiaramente avvertibili su entrambe le parti, e soprattutto sulla «nazione» italiana. In secondo luogo occorre ricordare il fascismo, che sul­ l’Adriatico volle procedere alla «nazionalizzazione delle masse» cercando soprattutto di snazionalizzare o assimilare i cittadini «allogeni» o «alloglotti», con risultati, come si vedrà, alquanto modesti22. Più raramente gli storici si sono chiesti in quale misura la Seconda guerra mondiale abbia influito sulle visioni nazionali degli altri popoli e di se stessi; troppo rapidamente, infatti, le tematiche nazionali alla fine della guerra vennero oscurate dalla «questione del sistema». Nell’area adriatica ci sono sempre stati gruppi umani dotati di una propria coscienza nazionale che esisteva da decenni e che, sebbene costruita, veniva accettata come dato naturale. Le forme di espressione di tale coscienza mi sembrano meritevoli di indagine, per quanto le fonti lo consentano, e ciò vale anche per i progetti degli architetti della dimensione nazionale. Ciò non significa andare alla ricerca di una autentica cultura popolare a tinte nazionali da contrapporre alla cultura fornita (costruita) alla popolazione dall’esterno, o dall’alto. L’articolazione della dimensione nazionale si può cogliere facilmente anche là dove essa è vietata, come nel caso del movimento culturale giovanile slavo che si oppose alla politica di snazionalizzazione fascista senza per questo accettare immediatamente e in blocco le costruzioni e i miti di una cultura nazionale slovena o jugoslava. In effetti, la questione di quali offerte di identità nazionale vengano accettate o respinte in una regione di confine in cui vivono delle minoranze ha una sua rilevanza e la risposta ad essa contribuisce a determinare l’andamento e l’esito dei conflitti. Così, ad esempio, si può mostrare che con la «cultura dopola­ voristica» - termine che fa riferimento al nome della principale organizzazione della cultura e del tempo libero del regime fasci­ sta - il fascismo italiano aveva prodotto una cultura di massa, che trovò però scarsa accettazione presso gli slavi giuliani. Lo stesso si può dire del tentativo compiuto dalle élite orientate in senso jugoslavistico e favorevoli a uno Stato centralistico di imporre alle «stirpi» non serbe del «popolo dal triplice nome» una mitologia nazionale desunta da quella serba: tentativo che a lungo andare fallì anch’esso23. Per rimanere all’interno della metafora precedentemente adottata, ogni articolazione efficace presuppone una certa ca­

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pacità che si può sviluppare con l’allenamento. Nel caso dello studio di una lingua straniera questa preparazione avviene con il drilling in laboratorio linguistico, i giochi di ruoli o imparando scioglilingua a memoria. La logopedia prevede una vera e propria «lezione di articolazione», che inizia non appena un bambino parla a sufficienza24. Per lo più l’articolazione della dimensione nazionale avviene con l’aiuto della lingua25. Oltre a questa, gli abitanti di una re­ gione di frontiera utilizzavano dei segni di riconoscimento per sviluppare una autocoscienza nazionale che si riversasse con tutte le implicazioni nei loro rapporti sociali. Coccarde con i colori nazionali, luoghi della memoria, tessere associative, distintivi di partito, canzoni e inni, poesie e racconti, leggende, balli, gare sportive e così via segnalavano a chi leggeva, cantava e parte­ cipava a queste attività, nonché ai semplici spettatori o ai testi­ moni casuali, un senso di appartenenza che alcuni protagonisti interpretavano come «identità» in senso essenzialistico, basate cioè su un’«essenza» nazionale. Ciò che essi tuttavia esprimeva­ no in ultima analisi era soprattutto un contesto dotato di senso e significato definiti (delimitati) in senso nazionale che creava possibilità d’intesa assenti in molti altri contesti. Poiché simili contesti facevano sempre riferimento anche alla vita emotiva dei protagonisti, la dimensione nazionale diveniva uno dei principali contenuti dei cosiddetti «magazzini affettivi», da cui poteva essere estratta nel momento in cui essi venivano aperti, deliberatamente o meno, da determinati impulsi26. Non mancavano certo le occasioni, più o meno pacifiche, per attingere a tali contenuti nazionali: dallo scambio quotidiano di epiteti dispregiativi alle zuffe durante le campagne elettorali nella Trieste asburgica, fino ai sanguinosi scontri negli anni dello squadrismo o della guerra partigiana. Accanto agli aspetti negativi si può tracciare anche un bilan­ cio positivo, facendo riferimento alla cooperazione tra italiani e slavi nelle organizzazioni operaie27, allo stretto vicinato in alcuni quartieri popolari, alla prassi interculturale vigente nelle diocesi e nelle parrocchie cattoliche o alla «fratellanza d’armi» nei gruppi partigiani giuliani. Da tempo ormai l’articolazione della dimensio­ ne nazionale non significa più soltanto scontro; essa, diversamente dalla costruzione, che avviene sempre in chiave di delimitazione rispetto all’«altro», può essere accompagnata dalla rinuncia alle pretese di rappresentanza esclusiva. Interessanti sono le istanze

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che hanno assicurato il regolare rifornimento dei suddetti «ma­ gazzini affettivi»: scuole private e pubbliche, asili nido, collegi, associazioni patriottiche, organizzazioni di combattenti e reduci, gruppi sportivi, associazioni e movimenti culturali, bande musicali, cori, istituzioni ed enti: tutte realtà coinvolte nella preparazione deH’«organismo popolare». Passando in rassegna i processi di unificazione dei due vici­ ni adriatici - il Risorgimento italiano, tanto spesso raffigurato, mitizzato, cantato, iconizzato e rielaborato letterariamente, e il suo pendant jugoslavo, recepito solo da pochi osservatori iniziati e adeguatamente preparati28 - si può facilmente constatare fino a che punto le storie nazionali nella regione di confine fossero aggrovigliate, e quanto sia difficile sciogliere tale groviglio senza perdere dei capitoli decisivi o descriverli in forma distorta: «Da molti si crede ancora - e da altri si lascia credere - che italianità e slavismo nella Giulia siano due termini ben definiti e rigida­ mente antitetici». Un’opinione, questa, cui già nel 1912 si oppose Angelo Vivante29. Negli studi più recenti si sottolinea costantemente quanto eterogenea fosse la popolazione di Trieste, grande centro portuale e industriale. Alla vigilia della Prima guerra mondiale quasi metà dei suoi abitanti erano nati altrove: accanto a triestini di lunga data di origine italiana, slovena, serba o greca vivevano immigrati provenienti dai vicini villaggi sloveni, dai territori asburgici e italiani del Friuli, della Carniola e dellTstria30. La comunità ebraica era una delle più importanti in tutta l’area geografica di lingua italiana. Persino gli irredentisti italiani si dividevano in sudditi della monarchia danubiana e del Regno d’Italia (i cosiddetti «regnicoli»), È noto che in simili aree e città di confine gli antagonismi nazionali possono emergere con particolare forza, il che pone agli studi comparativi un problema di fondo. Nei pressi della frontiera qualsiasi questione o ambito di problemi, per quanto apparentemente inoffensivo, tende ad assumere una valenza for­ temente politicizzata e ideologizzata. Ciò significa che talvolta i partiti in conflitto si somigliano tra loro e i tentativi scientifici di tipizzazione perdono rigore e plausibilità, in quanto ciò che prevale non è la delimitazione ma l’influenza reciproca tra i nazionalismi, finché una crisi non rimette in discussione tutto. In altri casi può accadere che la controversia sul passato venga condotta con la passione e l’impegno che di solito si riscontrano

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soprattutto in gruppi politici di piccola dimensione o in sette religiose. I logopedisti parlerebbero, a tale proposito, di «sovraarticolazione»31. Recentemente si è parlato del «carattere dimorfo» dell’area metropolitana triestina, che già in epoca asburgica avrebbe dato agli abitanti della città e dei suoi dintorni una «identità di frontiera orientata sia al confronto che all’assimilazione»32. In tal senso situazioni di arricchimento e compenetrazione reciproca tra differenti mondi di lavoro e di esistenza quotidiana, forme di vita, lingue e letterature possono facilmente trasformarsi in momenti di grande tensione e rigida delimitazione ed esclusione. Quando un influente studioso del nazionalismo come Ernest Gellner, negli anni Ottanta, riconduce «il nazionalismo unificatore dell’Italia e della Germania nel XIX secolo» a un unico tipo, contrapposto al nazionalismo orientale33, egli segue, con qualche leggera modifica, una tipizzazione già adottata nei decenni prece­ denti. In base a quest’ultima la maggior parte delle unificazioni nazionali successive alla Prima guerra mondiale nell’Europa orientale non si collocano nel modello di un nazionalismo «liberal-emancipatorio» come quello del Risorgimento, portatorte di tolleranza ideologica e religiosa e tendenzialmente orientato a rapportarsi alle minoranze etnico-nazionali in termini di cauta assimilazione più che di snazionalizzazione forzata34. Di recente Aleksandar Jakir, con attente e solide argomenta­ zioni, ha posto in dubbio ancora una volta che il paradigma del Risorgimento contribuisca a spiegare le origini del Regno dei serbi, croati e sloveni (o Regno SHS)35. Una posizione diametralmente opposta, ricordata dallo stesso Jakir, era stata formulata già vari decenni fa dallo scrittore socialdemocratico Hermann Wendel, nello stesso titolo di un suo libro36. In Wendel la posizione fa­ vorevole al «Risorgimento degli slavi del Sud» e al «Regno dei serbi, croati e sloveni» era dettata soprattutto dalla speranza di favorire la popolarità, o almeno la notorietà del nuovo Stato nell’Europa occidentale37. Nel frattempo, il concetto di Risorgimento nationalism sta diventando un topos della scienza storica e delle scienze umane in genere. Il linguaggio di queste ultime si è arricchito di termini italiani di cui ormai nessuno studioso del nazionalismo e della storia contemporanea può più fare a meno: irredentismo, fascismo, totalitarismo, «vittoria mutilata», «sacro egoismo». Esiste una sorta di common sense sui contenuti attribuibili a questi termini:

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essi indicano, al di là della questione dell’unificazione nazionale, rivendicazioni territoriali, un’assolutizzazione dello Stato rispetto alla società, una repressione delle minoranze etniche, un’espan­ sione imperiale senza freni e il suo fallimento. Tuttavia il «nazionalismo risorgimentale», data la propensione ancora diffusa delle scienze umane a formulare teorizzazioni prive di adeguato sostegno nelle fonti, sta vivendo una vicenda simile a quella avvenuta negli anni Settanta con il termine «fascismo», utilizzato in modo del tutto indipendente dall’esperienza storica del fascismo italiano38. Analogamente oggi un’immagine diffusa o idealizzata del processo di unificazione italiano contribuisce a negare che nell’Ottocento esistesse un movimento di unificazione degli slavi del sud che progredisse lentamente lungo un percorso stretto e tortuoso. Un motivo per cui l’unificazione degli slavi del sud non gode più di buona stampa e per cui la ricerca ha aderito a un’immagine generale negativa è forse il fatto che la storiografia si è perlopiù concentrata sul contrasto serbo-croato, vale a dire tra l’«ideologia nazionale jugoslavista» a supremazia serba e la coscienza nazionale croata39. Sono rimasti a lungo ignorati, oltre ai musulmani bosniaci e agli slavo-macedoni, anche gli sloveni, la «stirpe» più esigua numericamente ma anche la più dinamica sul piano economico e culturale, del cosiddetto «popolo uno e trino» nella Jugoslavia monarchica tra le due guerre mondiali40. Del resto, a parte alcuni storici provenienti dall’area adriatica, di rado ci si è interessati alla situazione degli «jugoslavi fuori della Jugoslavia», e in particolare degli sloveni e croati nella Venezia Giulia. Ci si deve chiedere, in ultima analisi, quali effetti abbia avuto l’esilio degli intellettuali, degli operai e dei contadini slavi in fuga da Mussolini sullo Stato jugoslavo crollato nel 1941 e ricostituito nel 1945 (e sulla stessa parentesi della guerra partigiana). Proprio questo esilio, che non fu certo un fenomeno di poco conto, offre buone possibilità di raffronto41 con l’esodo dalle province adriatiche assegnate alla Jugoslavia di 250 mila italiane e italiani, iniziato subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale e proseguito fino alla metà degli anni Cinquanta42. Si ritrova qui - sia detto incidentalmente - anche la delimitazione cronologica del tema nei confronti del presente. Poiché sia la «questione adriatica» (dopo la Grande guerra) sia «il conflitto per Trieste» (dopo la Seconda guerra mondiale) hanno prodotto una iperpoliticizzazione del dibattito scientifico

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- in entrambi i casi la controversia riguardava soprattutto la definizione del confine italo-jugoslavo - le possibilità esistenti di comparazione storiografica non sono mai state realmente sfruttate. Ognuna delle parti coinvolte si limitava a evidenziare le ferite subite e a piangere le proprie vittime. Qualche anno fa una commissione storica italo-slovena molto eterogenea nella sua composizione ha presentato i risultati di un’indagine comune, pubblicati nell’aprile del 2001 in italiano e in sloveno. Da essi si ricava un quadro d ’insieme equilibrato dei rapporti bilaterali e un elenco di questioni ancora aperte o controverse43.

Capitolo primo La nazionalizzazione di una regione di frontiera

1. Luoghi simbolici e confini sacri Negli anni 1920 e 1922 il principe reggente di Serbia Aleksandar Karadordevic e il re d ’Italia Vittorio Emanuele III visitarono alcuni dei territori assegnati alla fine della Prima guerra mondiale ai rispettivi regni: la Slovenia e la Croazia e la Venezia Giulia. I resoconti diplomatici e giornalistici sui preparativi di viaggio ,e sulle visite dei due sovrani facilita­ no l’analisi degli eventuali modi in cui la problematica delle frontiere e delle minoranze nell’Adriatico nord-orientale fosse oggetto di interpretazione in chiave dinastica e nazional-statale. Essi evidenziano le tradizioni cui essi si riallacciavano e la loro elaborazione simbolica di un’acquisizione di territori situati ai confini della propria sovranità preesistente. In ultima analisi ciò aiuta a comprendere in che modo fossero interpretate e diffuse a livello ufficiale, subito dopo la fine del conflitto mondiale, le ideologie nazionali rivali, «italianità» e «jugoslovenstvo». Entrambe le parti avvertivano la necessità di legittimare l’ac­ quisizione di nuovi territori e la propria sovranità su di essi, sia che essa si accompagnasse alla nascita di un nuovo Stato (nel caso del Regno degli sloveni, dei croati e dei serbi), sia che riguardasse un’entità statale già esistente e relativamente consolidata (il Regno d ’Italia). Al tempo stesso, entrambi i monarchi dovevano rifondare la propria sovranità su base più ampia: nel caso italiano il territorio nazionale aveva finalmente raggiunto i propri «confini naturali», ma allo stesso tempo per la prima volta dalla sua nascita il regno si trovava a confron­ tarsi con significative minoranze nazionali; nel caso jugoslavo, invece, alcune «terre irredente» erano rimaste fuori dei confini dello Stato, mentre all’interno coesistevano gruppi etnici e

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Capitolo primo

nazionalità disparati che dovevano ancora fondersi in un’unica nazione. La guerra sull’Adige, sull’Isonzo e sul Piave era stata con­ dotta dai Savoia come ultima guerra del Risorgimento. Anche per i Karadordevic la Prima guerra mondiale era stata (come le due precedenti guerre balcaniche) una guerra di liberazione e di unificazione, e tuttavia la loro situazione era nel complesso più precaria di quella del loro vicino occidentale. In Europa la causa degli slavi del sud non aveva molti seguaci e sostenitori: cechi, francesi, e alcuni italiani, inglesi (come Robert W. SetonWatson) e tedeschi (come Hermann Wendel). Da quando, nel 1903, i Karadordevic avevano rovesciato la dinastia Obrenovic, senza aborrire nemmeno l’assassinio della coppia regnante, essi dovevano fare i conti con lo scarso rispetto di cui godevano ri­ spetto alle altre dinastie europee, e anche per questo rievocavano e richiamavano con forza le tradizioni secolari della Serbia. Anche a prescindere dalla problematica delle minoranze, le visite dei due monarchi erano per i rispettivi paesi parte di una ricerca di elementi cui riallacciarsi nelle regioni di confine. Al­ l’inizio di luglio del 1920 la stampa serba annunciò che i monaci del convento di Hilandar, sul monte Athos, avevano consegnato ad Aleksandar Karadordevic lo stendardo di Stefan Dusan1. Il simbolismo era sufficientemente chiaro, e il momento per la con­ segna della bandiera non era stato scelto a caso: il regno serbo medioevale aveva raggiunto la massima estensione proprio sotto Stefan Dusan (circa 1308-1355), e dal 1345 in poi il monarca, dopo aver conquistato la Macedonia, assunse il titolo di «zar dei serbi e dei greci», e a ciò seguirono ulteriori accrescimenti territoriali in Epiro e Tessalia. Hermann Wendel presentò la riscoperta di Dusan come opera della Omladina e del movimento nazionale serbo dell’Ottocento2. Il principe reggente Aleksandar partì nel luglio del 1920 per il suo primo viaggio in Croazia e Slovenia, i territori già asburgici che erano stati assegnati allo Stato SHS. La consegna dello sten­ dardo conferì ad Aleksandar la benedizione speciale della Chiesa serbo-ortodossa facendone il legittimo successore di Stefan Dusan e avrebbe dovuto proteggerlo dai pericoli che egli correva nella parte nord-occidentale del suo regno. Quest’atto simbolico rese più facile per i serbi accettare la partenza di Aleksandar e diede maggior sicurezza al principe reggente durante la visita ai suoi nuovi sudditi sloveni e croati, che lo condusse vicino al confine

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provvisorio con l’Italia. Egli fece persino un breve «soggiorno all’estero», nelle zone della Carinzia meridionale dove si sarebbe svolto un referendum sull’appartenenza nazionale. A Zagabria Aleksandar ebbe parole di elogio per il portamento marziale della guarnigione locale, ma apprese che i soldati croati indossavano ancora l’uniforme di gala ungherese (in effetti la «jugoslavizzazione» dell’esercito si sarebbe formalmente conclusa solo nel 1930, quando le vecchie bandiere di reggimento furono sostituite da quelle jugoslave)3. Il principe reggente sottolineò che, sebbene non fosse la prima volta che un membro del casato Karadordevic andava a Zagabria, mai prima di allora lo aveva fatto in veste di capo di Stato4. Già durante la visita di Aleksandar in Croazia ci si rese conto che essa avrebbe potuto incoraggiare gli abitanti dei territori occupati dall’Italia a continuare a opporsi tenacemente a tale occupazione. E in Slovenia egli ricevette un’accoglienza entu­ siastica. Alcuni emigrati sloveni provenienti dalla Venezia Giulia (i «cosiddetti profughi», li definì un commentatore italiano) si presentarono vestiti di nero o con una fascia nera al braccio5. Il quotidiano dei liberali sloveni, «Slovenski Narod», affermò che la reazione della popolazione andava interpretata come «la più energica protesta contro la prepotenza italiana»; essa confutava la tesi secondo cui gli slavi del sud erano discordi in materia di autodeterminazione nazionale6. Le autorità militari italiane diedero del viaggio una interpretazione analoga, anche se di segno opposto: «La visita del principe Alessandro nella capitale della Carniola, il suo brindisi irredentista, gli accenni a una prossima liberazione dei popoli slavi soggetti, e i moniti all’Italia, costituirono un complesso di atti che ravvivarono quella campagna anti-italiana che, appoggiata da Belgrado e da tutte le sfere dirigenti, andò assumendo una violenza sempre maggiore»7. Dopo essere stato accolto trionfalmente anche a Maribor e Celje (in Bassa Stiria), Aleksandar visitò i territori della Carinzia meridionale in cui si sarebbe dovuto tenere il referendum. Tor­ nando a Lubiana si fermò a Bled, dove ricevette i sindaci della zona A, dove si sarebbe svolto il referendum8. Hermann Wendel, che si trovava nel Regno SHS su incari­ co del ministero degli Esteri tedesco, scrisse che l’«entusiasmo sconfinato e non artificiale manifestato dagli abitanti di Agram e di Laibach» indicava come «la dinastia Karadordevic fosse con­ siderata da tutti simbolo e pegno dell’unità statale e nazionale»9.

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Come gli altri osservatori stranieri, anche Wendel vedeva uno stretto nesso tra l’unitarismo serbo-croato-sloveno e l’attenzione per i territori abitati da jugoslavi rimasti sotto sovranità austriaca o italiana. La visita in Venezia Giulia di Vittorio Emanuele III, inizial­ mente programmata per la prima metà di novembre del 1921, sarebbe dovuta iniziare subito dopo le cerimonie romane in onore del Milite Ignoto; fin dalla fase di pianificazione questa visita assunse un significato simbolico ancor più forte del viaggio di Aleksandar. La città di Trieste desiderava che il re tornasse nella stessa data in cui, dopo la dichiarazione dell’armistizio, aveva visitato la «città redenta» per la prima volta10. Si voleva rievocare la solennità di quel momento, ponendo di nuovo Trieste al centro dell’attenzione nazionale. Simili azioni rituali erano necessarie perché la regione era tra le più inquiete d’Italia. Inoltre, in Ve­ nezia Giulia mancavano i segni più evidenti generalmente legati alla presenza di uno Stato nazionale monarchico11. Per la visita a Trieste erano state previste tappe alla tomba di Guglielmo Oberdan presso la caserma intitolata all’eroe irreden­ tista (con deposizione di una corona di fiori), al monumento ai caduti di San Giusto (dove sarebbe stata deposta un’altra corona) e ai cantieri navali di Monfalcone. Era stata anche programmata una visita nel Carso, da cui si doveva poi fare una puntata a Gorizia, dove il re avrebbe deposto una corona al cimitero degli eroi, per trasferirsi quindi via mare in Istria, visitando eventual­ mente la cattedrale di Parenzo (Porec in croato) e proseguendo alla volta di Pola, dove erano state programmate visite all’Arena, al tempio di Augusto e all’arsenale. Infine il monarca avrebbe reso omaggio a un altro eroe dell’irredentismo, il capodistriano Nazario Sauro, deponendo una corona sulla sua tomba12. Il programma di viaggio predisposto dal commissariato ci­ vile di Trieste sembra riscuotesse il consenso del re, che aveva manifestato perplessità solo riguardo all’omaggio a Oberdan, in quanto repubblicano dichiarato che aveva pianificato un atten­ tato all’imperatore austriaco al tempo in cui era ancora alleato dell'Italia. Tuttavia sulla piazza d ’armi nei pressi della caserma Oberdan era stata prevista una grande esibizione di ginnasti trie­ stini in onore della coppia regale: un evento di forte ispirazione nazionale13 che non avrebbe potuto svolgersi altrove; d’altronde era impensabile che, nel recarsi lì, il re ignorasse il luogo dove era avvenuta l’esecuzione dell’eroe irredentista14.

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Alla domanda sull’atteggiamento che avrebbero assunto gli abitanti slavi durante la visita del re il commissario civile di Trieste scrisse che il deputato sloveno Wilfan aveva manifestato il desiderio di rendere omaggio a loro nome al monarca15. Un’ac­ coglienza meno amichevole si temeva da parte degli operai, che alla fine di settembre erano scesi in sciopero generale a sostegno dei propri colleghi dell’industria metallurgica, e soprattutto nei cantieri navali, dove era in corso una serrata16: fin dal 3 ottobre 1921 il presidente del consiglio Ivanoe Bonomi aveva sconsigliato al re di recarsi a Trieste17. In relazione alla visita di Vittorio Emanuele a Trieste, che venne poi spostata alla fine di maggio del 1922, furono stilati anche resoconti più dettagliati sugli umori della minoranza slava. Il commissario civile di Trieste sconsigliò decisamente che il re attraversasse il Carso per recarsi a Postumia; le strade, che nelle zone abitate da sloveni attraversavano fitti boschi, erano in cattive condizioni e difficili da sorvegliare18. Completamente diverso era invece il tenore del rapporto del console tedesco: Il popolo, che soltanto pochi anni fa, in occasione della visita dell’ul­ timo imperatore asburgico, per l’entusiasmo avrebbe voluto addirittura staccare i cavalli dalla carrozza, ha dimostrato altrettanta gioia al nuovo sovrano, e i numerosi comunisti, socialisti e repubblicani di Trieste molto saggiamente hanno evitato di esprimere i propri sentimenti in una città piena di armi. [...] Va notato anche l’atteggiamento completamente mutato della popolazione slava della Venezia Giulia da quando il re è venuto in visita19.

Il quotidiano sloveno «Edinost» aveva assicurato «che gli abitanti sloveni, che avevano legami di sangue con la regina d’Italia, erano disposti a dimenticare i maltrattamenti subiti [dai fascisti e dai nazionalisti] e a comportarsi come fedeli cittadini italiani» (il richiamo alla consanguineità tra gli sloveni e la regina d’Italia alludeva al fatto che Vittorio Emanuele III era sposato con la figlia minore del re Nicola di Montenegro). Per la prima volta gli sloveni (e gli abitanti dei quartieri operai, costretti a ciò dai fascisti) issarono la bandiera italiana, «i sindaci sloveni si presentarono al gran completo al palazzo del Governatorato», e nei villaggi slavi la coppia regale fu accolta con gioia20: «la stampa locale ha accolto il mutato atteggiamento degli sloveni come un grande evento storico che avrebbe posto fine alla cinquantenaria lotta tra razze, consolidando la sovranità italiana nei nuovi terri-

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tori; essa considera ormai certa la collaborazione della numerosa popolazione rurale di fede monarchica». Nell’ambito del gruppo di «Edinost» c’era stato però uno scontro: l’intransigente Josip Wilfan aveva lasciato il posto al più giovane Virgili]’ §cek. Per Wilfan la questione dell’autonomia era un affare esclusivamente sloveno, mentre Scek confidava in un malumore diffuso in tutta la popolazione della Venezia Giulia, complessivamente scontenta di Roma: «al momento tuttavia, specialmente in relazione alle trattative con la Jugoslavia sul­ l’attuazione del trattato di Rapallo, il governo italiano registrerà come un successo il fatto che la stragrande maggioranza della popolazione slava della Venezia Giulia [...] ha proclamato la vo­ lontà di riconoscere la sovranità italiana e ottemperare ai propri doveri di cittadinanza italiana»21. Non era scontato che i monarchi ricevessero tanto consenso nelle nuove province, e infatti esso venne espressamente sot­ tolineato in tutte le fonti22: Aleksandar, nel cui regno dopo la guerra c’erano state violente agitazioni sociali, doveva aspettarsi proteste in Croazia, e Vittorio Emanuele inizialmente non era affatto certo dell’appoggio della minoranza slovena23. Nel caso di Aleksandar il «nemico interno» fu tacitato dal fatto che il principe reggente giocasse abilmente la carta dell’irredentismo slavo e del «nemico esterno». Gli osservatori italiani giudicarono l’apparizione del principe reggente offensiva per l’Italia; solo a Hermann Wendel - convinto fautore dell’unitarismo degli slavi del sud - il consenso croato e sloveno ricevuto da Aleksandar parve una genuina approvazione «jugoslava» dello Stato unitario, mentre gli altri documenti pongono in primo piano la valenza antitaliana (e antiaustriaca) dei discorsi di Aleksandar. Nella sua visita Vittorio Emanuele sottolineò l’«italianità» della regione, facendo riferimento alle gesta eroiche degli irredentisti, ai successi militari e al simbolismo dei monumenti antichi. Costante fu il richiamo alla memoria della Grande guerra: secondo i piani iniziali il monarca avrebbe dovuto deporre corone in quattro luoghi diversi nell’arco di poche ore, mentre della Venezia Giulia moderna avrebbe potuto vedere solo i cantieri navali e l’arsenale di Trieste e di Pola. Il programma riveduto della visita effettiva­ mente svoltasi nel maggio 1922 fu invece più vario24. Mentre per Aleksandar i confini erano ancora fluidi, Vittorio Emanuele intese consolidarli e «riconsacrarli» piantando per­ sonalmente un cippo di confine simbolico. La tattica dellTtalia

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nei confronti della popolazione slava parve avere successo: si era riusciti a dividere la voce politica degli sloveni di Trieste tra i nazional-liberali di Wilfan e i cristiano-sociali di Scek, e ad assicurarsi l’accoglienza amichevole - quali che ne fossero le motivazioni - della popolazione slovena. Nel 1921-22 - dopo la stipula del trattato di Rapallo e i primi attacchi fascisti agli slavi delle zone costiere - la monarchia non avrebbe potuto sperare in un risultato migliore25. Il giornale di Zagabria «Jutarnji list» pubblicò il 20 luglio 1933 un articolo sul culto dei fascisti italiani legato alla fotogra­ fia dell’incendio dell’Hotel Balkan di Trieste. Agli occhi delle camicie nere le macerie dell’edificio erano una sorta di trofeo di guerra; la foto venne esposta alla Mostra della Rivoluzione fascista26. L’autore di un articolo sul contributo di Trieste a tale manifestazione presentò l’assalto al Narodni dom come attacco a un edificio che era stato sede di istituzioni straniere (slovene) e dell’«Hotel Balkan»: nome, quest’ultimo, che intendeva sot­ tolineare l’appartenenza geografica della regione di confine alla penisola balcanica27. Il fascista triestino Michele Risolo scelse la foto del Narodni dom in fiamme per il frontespizio del suo libro pubblicato nel 1932; la prefazione era di Rino Alessi, editore e noto portavoce delle locali camicie nere28. Il volume si apriva con una citazione mussoliniana sul ruolo avanguardistico del fascismo triestino. Francesco Giunta, che aveva guidato l’aggressione al Narodni dom, confessò in seguito che non lo aveva fatto per sé, ma «per Lui», per il duce. Giunta, famigerato squadrista di origini toscane, dongiovanni e consumatore di cocaina, era arrivato al fascismo attraverso il movimento dei reduci e nell’aprile del 1920 assunse la guida delle camicie nere triestine. Nel suo libro, anch’esso pubblicato nel 1932, intitolato Un po’ di fascismo, Giunta si vantò ancora una volta dell’attacco all’Hotel Balkan29. Qual era il particolare significato del Narodni dom per il fascismo italiano e soprattutto triestino? A differenza di quanto comunemente si crede, il fascismo non era del tutto a proprio agio con i simboli. Essi erano in gran parte presi in prestito dall’antichità romana ed entro certi limiti intercambiabili: il fascio littorio con la scure aveva già fatto parte dell’arsenale d’immagini della Rivoluzione Francese30, del Risorgimento e del movimento operaio, e non era dunque specifico del fascismo (del resto anche lo stesso nome di «fascio», dato alle unità di base

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politiche del movimento delle camicie nere, era stato preso dal movimento operaio: particolarmente nota era la sollevazione dei Fasci dei lavoratori in Sicilia, avvenuta nell’ultimo decennio del secolo precedente). Ciò relativizza l’osservazione fatta nel 1938 da Georges Bataille, secondo cui i fascisti avrebbero scelto il fascio littorio perché ricordava la pena di morte, e per questo lo avrebbero volutamente contrapposto al simbolo cristiano del crocifisso31. Lo stesso Mussolini vedeva nel fascio littorio il «sim­ bolo dell’unità, della forza e della giustizia»32. Alla maggioranza dei seguaci mussoliniani, ma soprattutto ai vertici fascisti, doveva essere chiaro che non era possibile sostituire la croce, sacrale e metafisica, ma premeva aggiungervi un simbolo profano che avrebbe dovuto diventare il centro di un nuovo culto33. Il fascismo antemarcia è ancora rappresentato efficacemente da due oggetti banali, concreti e macabri, che, tuttavia, per questa stessa ragione mal si prestano a essere rappresentati per immagini: la bottiglia dell’olio di ricino e il manganello34. Di un certo interes­ se è però il fatto che la truppa d’élite degli arditi, da cui i fascisti avevano tratto parte dei loro rituali, faceva soprattutto riferimento al pugnale e alla granata, armi da utilizzare nel combattimento ravvicinato. E attraverso gli arditi il pugnale e la granata erano ricorrenti anche nel repertorio delle canzoni fasciste35. Negli anni Trenta il fascio littorio era già molto diffuso come «vettore simbolico di primo grado»36, al punto che la sua forza espressiva era relativamente ridotta. Esso esprimeva soprattutto la fusione del movimento fascista con lo Stato italiano, e in que­ sto senso non sostituiva il crocifisso ma si collocava sullo stesso piano della bandiera nazionale, il tricolore con lo stemma della dinastia Savoia37. Come si inquadra dunque, in questo contesto, la foto del Narodni dom in fiamme, che doveva soprattutto dare dimostra­ zione della risolutezza delle camicie nere? Quanto è rivelatrice del rapporto tra centro e periferia, tra Roma e Trieste, tra il duce e i suoi sostenitori locali, tra fascismo e «italianità»? Nell’ambito del movimento fascista il Fascio triestino di combattimento, fondato il 3 aprile 1919, rivendicava una sorta di primato; i seguaci triestini di Mussolini sostenevano di essere stati i primi fascisti d’Italia ad avere indossato la camicia nera come uniforme di partito, e il «Popolo di Trieste» era stato il secondo quotidiano fascista dopo quello di Mussolini38. Un motivo per cui i fascisti triestini desi­ deravano tanto essere «i primi» e stabilire ogni possibile record

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nell’ambito del fascismo è evidente: essi dovevano imporsi rispetto ai vari gruppi paramilitari spuntati come funghi dopo la guerra nel clima da serra etnonazionalista della regione di confine. In ciò il Fascio triestino trovò l’appoggio delle autorità civili e militari. A Trieste il fascismo, come scrisse nel 1922 Giovanni Zibordi, era «nazionalista e antislavo»; esso attingeva al serbatoio di sentimenti formatosi con l’impresa di Gabriele D’Annunzio a Fiume59. L’attacco al Narodni dom di Francesco Giunta aiutò le camicie nere ad avere la meglio sui loro rivali nazionalisti, ancora in parte sotto l’influenza di D’Annunzio. Il Fascio triestino, insieme a quelli di Udine, Pordenone, Gorizia e Pola, creati nell’estate e autunno del 1920, sosteneva di rappresentare una particolare versione del fascismo: il cosiddetto «fascismo di confine»40. Rino Alessi, uno dei suoi esponenti, vedeva nell’opposizione all’idea di autonomia della Venezia Giulia uno dei principali meriti di questa versione del fascismo, che propugnava la piena annessione amministrativa e legislativa della regione al regno: solo così si sarebbe potuta salvare l’unità d’Italia41. Le camicie nere di Trieste erano del resto sicure dell’appog­ gio del duce. Mussolini definì «provvidenziale» l’incendio del Narodni dom e il 20 settembre 1920 proclamò: «Il tricolore di San Giusto è sacro; il tricolore sul Nevoso è sacro: ancor più sacro è il tricolore sulle Dinariche»42. Il discorso fascista sui territori di confine, la cui legittimità era sempre stata riconosciuta da Mussolini, collegava l’attacco incendiario al Narodni dom al colle di San Giusto, simbolo della città di Trieste, e alla creazione di due frontiere: quella del Bren­ nero e quella del monte Nevoso (Sneznik in sloveno), in Istria. Ogni volta che in politica estera appariva opportuno estendere alla Dalmazia le rivendicazioni italiane, come terzo «sacro» con­ fine si offriva la cresta delle Alpi Dinariche. Al tempo stesso, il fascismo di confine era una comoda mistificazione che aiutava a nascondere il campanilismo dei fascismi locali e le ristrette vedute dei politici locali del Pnf. Per motivi del tutto diversi dai fascisti, anche gli sloveni e croati della Venezia Giulia fecero in modo che l’Hotel Balkan non fosse dimenticato. Una foto mostra dei manifestanti sloveni che sfilano in corteo esibendo un arrugginito modellino dell’edi­ ficio come se fosse un oggetto di culto religioso. Una fotografia simile a quella utilizzata dalle camicie nere fu pubblicata varie volte, in occasione dell’anniversario dell’attentato, dal giornale

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dell’emigrazione «Istra». Per la minoranza slava l’incendio all’Hotel Balkan era simbolo di persecuzione e il giornale sloveno «Edinost» paragonava la situazione degli sloveni a Trieste a quella dei primi cristiani: «nel mentre questi si sentivano sicuri nelle loro catacombe, noi non abbiamo nemmeno sotto terra un posticino sicuro. Anche i sotterranei che avevamo al Narodni dom, sono ora ricoperti di macerie!»43. In un articolo intitolato alle «rovine fumanti del Balkan» Rikard Katalinic-Jeretov, uno dei poeti e scrittori più popolari dell’esilio giuliano in Jugoslavia, scriveva che l’Hotel Balkan si era erto un tempo come un colosso di pietra, simile alla popo­ lazione slava del Carso, «che lo aveva costruito con le ruvide mani e con il sudore della fronte»44. Secondo questo scrittore, esponente politico di punta dell’emigrazione, il Narodni dom dimostrava che Trieste era una città slava e che poteva trovare pace solo come tale. L’edificio, eretto all’inizio del secolo con l’opposizione dell’amministrazione municipale nazional-liberale, esprimeva dunque la crescita della coscienza slovena: esso rap­ presentava, insieme al Carso popolato di slavi, un territorio di frontiera che nessuno era disposto a riconoscere in quanto tale, poiché entrambe le parti - sloveni e italiani - lo rivendicavano totalmente a sé, come la città di Trieste45. Viceversa, per i seguaci di Mussolini il Carso era un simbo­ lo del «disordine» e della «barbarie» dei Balcani. Da un fatto poco più che casuale - il nome dell’albergo situato all'interno del Narodni dom - le squadre di Francesco Giunta traevano parte della giustificazione per dare alle fiamme l’edificio, con il sostegno della stampa, dell’esercito e di gran parte dell’opinione pubblica46. Ciò che i fascisti italiani rimproveravano agli slavi era il loro isolamento dal contesto italiano, il loro essersi dati un proprio ordine (creando associazioni, scuole, gruppi teatrali e partiti) tracciando delle linee di separazione rispetto ai «latini». L’attacco al Narodni dom aveva distrutto quell’ordine e abbattuto quei confini. Poiché la frontiera che attraversava il Carso, nonostante l’at­ tenta vigilanza di entrambe le parti, era relativamente permeabile, alla conferenza di pace le potenze avevano tracciato altrove la più chiara linea di demarcazione possibile. Nel periodo tra le due guerre il ponte, rimasto a lungo tempo dimenticato dal mondo, che attraversava il fiume Eneo (Rjecina in croato) sulla strada tra Fiume e Susak divenne noto anche fuori dell'Italia e della

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Jugoslavia. Inizialmente esso rappresentò il punto di collegamento tra lo Stato libero di Fiume e il Regno degli sloveni, dei croati e dei serbi. Dopo la fine dello Stato di Fiume, come ha ricordato il padre gesuita Katunarich, nato in quella città, era sufficiente oltrepassare il posto di confine e attraversare il ponte per uscire dall’Italia retta da una dittatura ed entrare in un mondo libero, dove si potevano acquistare tutti i giornali che dall’altra parte del fiume erano vietati47. Sebbene costruito in uno stile poco appariscente e non parti­ colarmente antico, il ponte divenne un ulteriore simbolo, poiché offriva un esempio di come alcune frontiere, come scrive Hans Medick, aprano «spazi d’azione agli individui e alle comunità che vivono nei paraggi», ma al tempo stesso condizionino «anche determinati comportamenti, in quanto spazio controllato in modo particolare dal sovrano»48. Nel punto di passaggio dell’Eneo c’era sempre un intenso traffico di confine: in un documento del 1929 del ministero degli Interni italiano si leggeva che sul ponte passavano quotidianamente «diverse migliaia di persone». Gli scolari che attraversavano il ponte nelle due direzioni, per recarsi alla scuola italiana a Fiume o alla scuola croata a Susak, erano uno spettacolo familiare e pacifico. I lasciapassare necessari per attraversare il confine venivano rilasciati senza particolari formalità sia dalla questura di Fiume sia dalla polizia jugoslava di Susak. Anche i pendolari e gli emigranti, i braccianti giornalieri istria­ ni o gli intellettuali comunisti di Lubiana dovevano percorrere il ponte sull’Eneo. Negli anni Venti e Trenta le sponde del fiume furono teatro di varie manifestazioni e iniziative patriottiche, irredentiste, fasciste, jugoslave in chiave antitaliana e croate in chiave antiserba. Sul ponte tra Fiume e Susak gli incidenti minori erano la regola anziché l’eccezione; italiani e croati si scambiavano «segni di riconoscimento culturali», «gesti e prassi simboliche quotidiane che hanno carattere di dichiarazione [...]»49: le guardie di confine jugoslave respingevano gli italiani che portavano il distintivo del Pnf, anche quando esso era visibile solo sulla foto del passaporto; allo stesso modo la polizia italiana costringeva gli jugoslavi che indossavano lo stemma della lega ginnica Sokol a depositarlo negli uffici doganali, dove veniva loro restituito quando ripassavano il confine in direzione di Susak50. Virginio Gayda riferiva che a partire dal settembre del 1931 le associazioni patriottiche di Susak,

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il Sokol e la Narodna odbrana, avevano tentato di impedire ai cittadini jugoslavi di attraversare la frontiera per recarsi a Fiume. La polizia jugoslava, secondo Gayda, ritirava i lasciapassare o rifiutava di rinnovarli. Il traffico di frontiera risentiva di queste restrizioni, poiché diminuivano gli jugoslavi che si recavano a Fiume per i consueti acquisti51. Anche Susak era una stazione ferroviaria di confine; lì concludeva la propria corsa il treno che un tempo andava da Zagabria all’Adriatico passando per Karlovac (Karlstadt) lungo il vecchio percorso delle ferrovie ungheresi. Sotto gli Asburgo la linea tra Budapest e la costa era stata considerata un «cavallo di Troia» (Pirjevec) degli ungheresi per snazionalizzare i croati; su locomotive, vetture e stazioni si leggeva infatti la scritta Magyar àllam vasutak (Ferrovie di Stato ungheresi), e la lingua ufficiale ferroviaria su tutta quella tratta era l’ungherese52. All’epoca si poteva arrivare in treno a Fiume, cosa oggi impossibile. Scriveva nell’estate del 1932 un giornalista croato dell’esilio, elaborando il tema della terra di frontiera: «Il treno strepita. Tutto è identico a una volta... E non potevo concepire né credere che non sarei arrivato a Fiume, alla stazione fiumana. Susak. Fil di ferro. Fiu­ me. Confine... Due bandiere. Guardiani al ponte. Rappresentanti di due stati. Due uniformi diverse. Due razze, due anime. Due mondi. Una città. Un tormento. Ingiustizia. Pazzia»53. Sopra Susak si trova Trsat (in italiano Tersatto), dove sorge il castello dei Frangipane. Di qui si aveva uno dei più bei panorami (ormai molto ridimensionato da edifici più alti) sul golfo e sulle isole del Quarnaro, fino allTstria. Il luogo induceva nel 1932 il visitatore a dare libero corso ai pensieri: Col sentimento nell’anima di trovarmi dinanzi ad un teatro di saccheggi briganteschi, sto presso il muretto che ricinge il boulevard tersattiano. [...] Dall’alta posizione nella quale mi trovo spazia lo sguardo sul magnifico panorama del Carnaro, delle montagne e delle isole istriane. L’anima mi si torceva dal dolore e dalla rabbia. Mi sembrava di trovarmi su di un luogo alto, consacrato, nel quale avrei dovuto recitare la preghiera rituale, per fare il giuramento... il voto. E in quel momento per connessione d’idee mi ricordai del muro delle lamentazioni degli ebrei, che ricorda ai successori di Salomone l’antica grandezza e desta in essi il desiderio di rinnovarla. Riandai con la mente anche ai colli del Kosovo che nei giorni della nostra schiavitù ci ricordarono il crollo del Regno serbo e ci infusero la speranza di giorni migliori (che vennero, grazie ai nostri avi che ci lasciarono in retaggio il culto del Vidovdan)54.

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L’autore scriveva un decennio prima della Shoah; era co­ munque indice di una certa esagerazione ed esaltazione che egli paragonasse l’esilio degli sloveni e croati giuliani alla diaspora quasi bimillenaria degli ebrei55. La catena di libere associazioni mentali - di cui si serviva in effetti il giornalista croato56 - fun­ zionava solo grazie all’inserimento della festa di san Vito (il Vidovdan) come ulteriore elemento esplicitamente collegato a un «culto». La sconfitta di Kosovo e il «dispotismo» secolare degli ottomani costituiscono qui una sorta di tertium comparationis tra Pantislavismo degli oppressori italofascisti, deprecato dall’autore, e l’antigiudaismo del mondo romano-latino-cristiano lamentato dagli ebrei57. La densità dell’universo di associazioni mentali tutt’attorno a Fiume appare ancor più tangibile se si aggiunge che i nazionalisti italiani e i fascisti definirono «città olocausta» il centro portuale che alla fine della guerra era stato inizialmente assegnato alla Jugoslavia58. In una prospettiva di storia della civiltà (o piutto­ sto della barbarie), i nazionalismi slavo e italiano anticipavano qui - come mai altrove - un aspetto del Novecento, del secolo «breve», europeo. Scriveva Carlo Sforza: I paroioni fascisti cominciaron là: gli «alalalà», la «città olocausta», le «sagre», i dialoghi fra il capo e la folla: - A chi l’avvenire? - A noi. - A chi l’Italia? - A noi. - A chi il bottino e la gloria? - A noi.

II «me ne frego» delle camicie nere era prodamato fin nella testata di un giornale dei legionari di Fiume, e l’inno ufficiale dei seguaci mussoliniani, Giovinezza, era stato anch’esso già cantato dalle milizie del poeta59. Difficile è anche sopravvalutare l’influenza di Gabriele D’Annunzio sulle forme di cui lo stesso Mussolini si serviva per comunicare con le masse60. Sull’altra riva - quella orientale - del fiume che faceva da confine, il mito del Kosovo, molto tempo prima della conclu­ sione della Grande guerra, era già uno dei punti di riferimento del movimento jugoslavo; lo scultore Ivan Mestrovic lavorava dal 1904 al progetto di un tempio del Kosovo, che sarebbe dovuto diventare una sorta di santuario nazionale degli slavi del sud. Mestrovic - la cui «biografia presentava tutti i conno­ tati dell’appassionata stravaganza»61, pastorello originario della Dalmazia che partecipò alla Secessione viennese - progettò la

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costruzione di un edificio che avrebbe dovuto essere realizzato a forma di croce latina. La cupola del tempio sarebbe stata più alta della cupola di San Pietro a Roma: una «torre delle epoche» a cinque ordini che simboleggiava «cinque secoli di schiavitù». Mestrovic, le cui opere furono esposte, insieme a quelle di altri artisti croati, nel padiglione serbo dell’Esposizione universale di Roma del 1911, sarebbe stato ben presto considerato il «profeta della Jugoslavia». Egli fu uno dei primi intellettuali non serbi a porre al servizio della causa panjugoslava l’effetto mobilitante del mito del Kosovo. Ma il suo progetto non potè essere realizzato neanche dopo la Prima guerra mondiale62. La dinastia Karadordevic e il governo Pasic contribuirono a riportare in auge il discorso sul Kosovo fissando nel giorno dedicato a san Vito (Vidovdan) la celebrazione della costituzione del Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni (28 luglio 1921). Il Vidovdan fu celebrato in tutto il Regno SHS con messe solenni, sfilate di truppe e altri eventi63. La data di questa festività nel calendario coincideva con la conclusione dell’anno scolastico e con la distribuzione delle pagelle64. Un mito serbo veniva qui utilizzato per consolidare il nuovo Stato e al tempo stesso per rassicurare i serbi, che tutt’a un tratto avrebbero dovuto costituire una «triplice nazione» insieme alle «stirpi» croata e slovena, di cultura occidentale. I fascisti italiani condividevano a loro volta i timori occidentali verso il misticismo serbo-jugoslavo. Dal punto di vista jugoslavo il golfo, le isole e la penisola su cui spaziava lo sguardo da Tersatto facevano parte a pieno titolo dello Stato SHS. Quel luogo si prestava a meraviglia a dimostra­ zioni patriottiche. Nei pressi del castello si può vedere ancor oggi uno dei più antichi luoghi di riunione del movimento nazionale croato-jugoslavo: un cosiddetto «gabinetto di lettura». Fu lì che il giorno di Capodanno del 1930 i bardi istriani Katalinic-Jeretov e Nazor recitarono canti in onore dei profughi istriani65. Dal punto di vista italiano il golfo del Quarnaro era invece il confine orientale italiano, dalle radici letterarie e mitiche. Il testimone-chiave citato dagli italiani era Dante, che nella Divina Commedia scriveva: «[...] Pola, presso del Quarnaro, / che l’Italia chiude e i suoi termini bagna»66. L’evento che è alle origini del mito del Vidovdan segue di poco meno di un secolo i versi di Dante secondo cui il confine dell’Italia andava cercato sul golfo del Quarnaro. Attorno alla battaglia di Kosovo polje si era condensata una leggenda che

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in Serbia veniva tramandata di generazione in generazione. La celebre raccolta di canti popolari di Vuk Karadzic descriveva gli eventi legati a questa battaglia, i combattimenti degli hajduki e degli uskoki e i canti che risalivano alla lotta di liberazione dagli ottomani della prima metà dell’Ottocento67. In un recente manuale la poesia dei «bardi serbi» viene addirittura indicata, insieme alle ballate del Kosovo polje, come «il fondamento del modello culturale, orientato a Herder, del riformatore della lingua serba»68. Dopo il 1918 la dinastia dei Karadordevic e la classe politica della Jugoslavia fecero sforzi notevoli per diffondere il mito presso tutta la popolazione del regno. In loro aiuto vennero gli esiliati giuliani, che non erano serbi, ma sloveni e croati. Inserendo la battaglia di Kosovo come metafora all’interno del discorso sulla terra di frontiera - Tersatto, l’Isonzo o la Carinzia -, essi lo resero più vicino a quegli «jugoslavi» per i quali inizialmente il Kosovo polje non era meno estraneo di quanto non fosse per gli italiani69. Tuttavia rischiarono di rimanere impigliati in un circolo vizioso retorico, poiché alla maggior parte di coloro che vivevano nella Bela Krajina (Slovenia), nel croato Zagorje, in Dalmazia o in Erzegovina il Kosovo polje era non meno ignoto della valle dellTsonzo. Facevano eccezione solo le generazioni chiamate alle armi per la Grande guerra; tra queste, erano soprattutto i soldati serbo-ortodossi della Krajina o della Bosnia a conoscere sia la valle della Soca (l’Isonzo) sia il Kosovo polje70. Gli irredentisti, i nazionalisti e i fascisti italiani si trovavano in una situazione molto simile a quella dei seguaci dello «jugoslovenstvo»: essi dovevano inventare ex novo la frontiera orientale dell’Italia. Alcuni elementi erano stati forniti dal filologo gori­ ziano Graziadio Isaia Ascoli, cui si deve l’espressione «Venezia Giulia»71. Con la terminologia «giuliana», duramente respinta da sloveni e croati72, la tradizione romana e veneziana della zona di passaggio dagli Appennini alla penisola balcanica veniva fissata per iscritto. Furono soprattutto i nazionalisti a impadronirsi del nome di Venezia Giulia e dell’universo simbolico che a esso era collegato: gli slavi rimanevano intrusi, che nel migliore dei casi si potevano tollerare, ma si sarebbero anche potuti rispedire a Lubiana, a Zagabria e a Belgrado. Ciò che serviva all’Italia erano immagini che dimostrassero efficacemente l’«italianità» della regione. Per il sesto centenario della morte di Dante un gruppo di fascisti triestini, guidati da

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Francesco Giunta, era salito il 14 settembre 1921 sul monte Nevoso, in un’area popolata esclusivamente da slavi, issando il tricolore italiano sulla vetta73; alcune foto di questa impresa vennero esposte alla Mostra della Rivoluzione fascista, insieme a tutte quelle che intendevano illustrare la storia del fascismo dei territori di frontiera, delle sue «spedizioni punitive» contro slavi, socialisti e comunisti, della sua partecipazione alla marcia su Roma e della sua spinta espansionistica a est74. La spedizione di Giunta sul monte Nevoso inoltre ricordava da vicino la prima presunta ascensione, avvenuta nel 1904, del Glockenkarkopf, ribattezzato Vetta d ’Italia, a opera del nazionalista Ettore Tolomei75: si fondevano così Trento e Trieste, il Brennero e il monte Nevoso, le città e i monti delle regioni di confine, in un’unità simbolica sotto il segno dell’«italianità». 2. Nazione e Grande guerra Nell’articolo di Katalinic-Jeretov sulle «rovine fumanti del Balkan» si dice tra l’altro che i resti del Narodni dom a Trie­ ste servivano a ricordare al «latino»76 che le sue terre finivano all’Isonzo (che in sloveno si chiama Soca)77. L’Isonzo è l’unico fiume «sloveno» importante le cui acque non confluiscano nel Danubio ma nell’Adriatico, collegando così i territori popolati da sloveni delle Alpi Giulie e della regione del Tricorno (in sloveno Triglav) con quei paesaggi mediterranei che il movimento nazionale sloveno considerava fin dal 1848 parte della «Slovenia unita». Simon Gregorcic, «il lirico più popolare, letto e cantato dagli sloveni»78, aveva pubblicato fin dal 1879 nella rivista letteraria «Zvon» un’ode dedicata «alla Soca» in cui egli preconizzava guerra sulle sue due sponde; alla fine della poesia egli chiedeva al fiume di gonfiare le proprie acque per sterminare il nemico79. Dopo il 1915 le «acque dellTsonzo rosse di sangue» entrarono a far parte degli stereotipi delle corrispondenze di guerra italiane80. Tra le due guerre il sogno di molti sloveni, nonché il program­ ma spesso enunciato dagli irredentisti slavi militanti, era quello di respingere, in un successivo conflitto, le forze armate italiane al di là dellTsonzo, allo stesso modo in cui austriaci e tedeschi, nel­ l’autunno del 1917, le avevano costrette a ritirarsi oltre il Piave81. Anche per questo sloveni e croati, durante la guerra mondiale, erano stati propensi a identificarsi spontaneamente con i successi

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militari dell’Austria-Ungheria. Inoltre l’eroe delle vittorie asburgi­ che era un serbo della Krajina: a Lubiana nel 1923 fu pubblicato un opuscolo in cui si celebravano le gesta del «leone dellTsonzo», il generale austro-serbo Svetozar Boroevic82. Il fascista triestino Francesco Giunta trasmise a Roma una copia del volumetto, accompagnandola con un indignato commento83. Per le camicie nere, a partire da Mussolini, l’Isonzo era un «fiume sacro». Il duce spacciava il kitsch bellico fascista per la più pura «italianità»; le onde color verde smeraldo dellTsonzo divennero per lui l’acqua santa del patriottismo. Come scrisse nel suo diario di guerra e ripetè in varie occasioni, nei pressi di Caporetto, nel settembre del 1915, si era «chinato sull’acqua fredda» bevendone «un sorso con devozione»84. I soldati slavi, soprattutto bosniaci, erano molto temuti dagli italiani, che li ritenevano particolarmente crudeli. Queste idee non erano solamente riconducibili alle ataviche paure verso i «turchi» o verso i «musulmani» diffuse tra soldati di leva occidentali. In una relazione del generale Badoglio si legge che qualche militare pensava che i bosniaci fossero tanto violenti perché parecchi di loro erano stati allievi dei francescani, «animati da un secolare e davvero formidabile odio contro l’Italia», ed erano quindi convinti «che l’Italia tenga schiavo il Pontefice»85. Nel ricordo sloveno della Prima guerra mondiale coesisteva­ no e si mescolavano motivazioni austro-slave e jugoslave: fatto questo che un osservatore italiano poteva rilevare con malizia86. Molti sloveni e croati di orientamento nazionale potevano dire, a posteriori, di essersi schierati da entrambe le parti del fronte, avendo sostenuto l’Austria-Ungheria contro l’Italia e parteggiato per la Serbia contro l’Austria-Ungheria. In questo tipo di memo­ ria l’idea che Serbia e Italia fossero state alleate aveva un ruolo affatto marginale. Nel 1914 il partito cattolico sloveno aveva condannato dura­ mente l’attentato di Sarajevo; l’arciduca Francesco Ferdinando era noto per le sue idee «trialiste», che agli occhi di molti sloveni avrebbero creato uno spazio sufficiente per risolvere la propria problematica nazionale. I liberali di Lubiana e Trieste, invece, vedevano nella Serbia un possibile alleato nella lotta per i propri diritti nazionali, e dunque non concordavano pienamente con i toni della stampa austriaca quando si scagliava contro i serbi87. Negli anni del dopoguerra «Edinost», il già ricordato quo­ tidiano degli sloveni di Trieste, aveva descritto la Serbia come

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una sorta di Belgio, un paese piccolo (ma non troppo) e neutrale in cui difesa era dovuto accorrere, nell’estate del 1914, mezzo mondo (se non tutto). Dipingeva quindi la Prima guerra mondiale come guerra di liberazione, facendo propri soprattutto motivi tipici del wilsonismo: E tutto il mondo fece suo il motto: liberazione delle piccole nazioni, fra le quali eravamo, ben inteso, annoverati anche noi. Con tensione seguivamo i comunicati di guerre di tutte le fronti. Ben presto udimmo tuonare il cannone nelle prossime nostre vicinanze [...] all’Isonzo. La più bella parte delle nostre regioni si trasformava in rovine, la miglior parte della nostra nazione andava a morire nei baraccamenti tedeschi. Questa nazione che vive dall’Isonzo al Vardar, aveva tuttavia un solo pensiero, una sola speranza, un solo desiderio: la cessazione della guerra, e l'avverarsi del motto mondiale: libertà delle piccole nazioni... che doveva essere il sano frutto di questa guerra! !88

Se i nazionalisti e gli irredentisti italiani rimproveravano agli sloveni di non aver minimamente contribuito ad abbattere gli Asburgo, in Parlamento Josip Wilfan sottolineava la situazione creatasi nell’agosto del 1914, quando gli sloveni triestini erano ostili alla guerra mentre molti italiani di Trieste erano scesi en­ tusiasticamente in guerra nelle file austro-ungariche contro la Serbia89. In sostanza nel 1915 era chiaro ai nazional-liberali sloveni di Trieste che solo una vittoria dell’Italia sull’Austria avrebbe potuto avvicinare gli slavi del sud al loro grande traguardo, l’unifica­ zione in una struttura politica che comprendesse tutte le «stirpi slave meridionali». Pur temendo una vittoria italiana in quanto avrebbe potuto condurre all’annessione del litorale al regno, i liberali sloveni si opposero ad esempio alla raccolta di truppe volontarie slovene che combattessero nelle file austriache90. Una mitizzazione a posteriori della Grande guerra si trova soprattutto in pubblicazioni i cui autori facevano tutto il possi­ bile per diffondere lo «jugoslavismo» tra gli abitanti del regno serbo-croato-sloveno. In occasione del decimo anniversario della battaglia di Kobarid (Caporetto) la rivista «Jadranska straza» pubblicò una dettagliata descrizione della sconfitta italiana come esempio di come un aggressore più debole e meno armato potesse mettere in ginocchio un difensore ben arroccato e numericamente superiore. L’autore paragonava il disastro di Caporetto alle due grandi sconfitte subite dagli slavi del sud: la vittoria degli ottomani

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al Kosovo polje, nel 1389, e l’occupazione della Serbia da parte degli Imperi centrali e dei bulgari nel 191591. Egli attribuiva alla sconfitta degli italiani e a quelle degli slavi significati totalmente diversi; alla catastrofe del Kosovo, alla morte del re Lazar e di tutti i suoi vojvodi erano dedicati canti popolari92, e la gloria di re Pietro Karadordevic era fuor di dubbio: Lazar era diventato «santo», Pietro era ormai «Pietro il grande», il «liberatore». Invece gli italiani si vergognavano del ricordo di Caporetto. Avrebbero dovuto chiedersi il perché di tale vergogna, e a maggior ragione visto che avevano voluto di nuovo allungare la mano verso i luoghi dove avevano già subito una devastante sconfitta93. Qui gli slavi toccavano davvero un punto debole. «Gli anni 1918 e 1919», ha scritto Claus Gatterer, portarono a una marea di «letteratura di Caporetto», e furono [...] rari i momenti di franchezza autocritica. Un po’ per volta tuttavia l’Italia ufficiale rimosse il ricordo di Caporetto, e la nazione se ne dimenticò. Per l’Italia fascista di Benito Mussolini, Caporetto era e restava sinonimo di smacco nazionale: ed un simile smacco non doveva esistere94.

L’esclamazione «Siamo quelli di Caporetto!» rappresentava da parte italiana una sorta di ribellione a qualsiasi forma di gerarchia e di disciplina diffusasi verso la fine della guerra tra coloro che erano stati fatti prigionieri dalle forze armate austro-ungariche. Una delle maggiori difficoltà incontrate dalla nuova amministra­ zione militare italiana a Trieste nel novembre del 1918 stava nel fatto che migliaia di italiani liberati dai campi di prigionia della monarchia danubiana vagavano per la città e avevano bisogno di riparo, di vitto e di cure mediche95. La sconfitta di Caporetto ebbe conseguenze sui rapporti italojugoslavi: solo la catastrofe del Krn convinse l’Italia a prendere seriamente contatto con il comitato jugoslavo e avviare trattative con i politici croati in esilio Ante Trumbic e Fran Supilo. Il fatto che dopo la Grande guerra, con il trattato di Rapallo, la corrente espansionista moderata italiana raccolta attorno al ministro degli Esteri Sforza avesse avuto la meglio sui nazionalisti, i fascisti e gli irredentisti dalmati sarebbe stato poi ricondotto da Mussolini direttamente a Caporetto. Questa era la formula più semplice per screditare presso l’opinione pubblica italiana le frontiere definite a Rapallo, e fu proprio questa la linea seguita da Mussolini, come appare chiaro dal suo discorso del 6 febbraio 1921 a Trieste96.

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In Italia si era molto sensibili a qualsiasi forma di sottovaluta­ zione delle gesta militari del paese nella Prima guerra mondiale: nel suo opuscolo sui rapporti italo-jugoslavi Virginio Gayda si rammaricava che Belgrado avesse fatto produrre e distribuire un film sulla Grande guerra in cui si riconoscevano i meriti di tutti gli alleati della Serbia a eccezione dell’Italia97; Mussolini stesso affermò in un’occasione che un accordo con gli jugoslavi sareb­ be anche stato possibile se essi avessero cessato di disprezzare i successi italiani nel conflitto mondiale98. Tutto questo non sorprende, visto che nei primi anni Venti il culto della patria e della guerra era uno degli elementi fondamentali di una «nazionalizzazione delle masse» che iniziava dalla scuola e non escludeva affatto la minoranza slava99. Il movimento fascista e il regime mussoliniano consideravano la posizione in merito alla vittoria militare italiana e ai sacrifici di guerra come un indicatore della fedeltà di una persona, trasferendo l’antico conflitto tra interventisti e neutralisti, che aveva diviso l’Italia dall’estate del 1914, alla regione di frontiera, dove apostrofa­ re un avversario politico come «austriacante» era considerata un’offesa grave. Se la Prima guerra mondiale era stata per molti italiani l’ultima guerra del Risorgimento, gli sloveni videro in essa una lotta per la sopravvivenza; ai loro occhi conservarsi come gruppo etnico o come nazione in una monarchia austro-ungarica riformata sa­ rebbe stato più facile che nell’Italia dei Savoia100. Lungo il fronte dellTsonzo - dove le truppe austro-ungariche erano composte per il 40% da soldati slavi101 - tre erano i luoghi sacri in cui gli slo­ veni avevano difeso la propria «identità» nazionale: «Krn, monte Santo, Doberdò»102. In questi luoghi essi erano perfettamente in linea con la tradizione della famiglia asburgica di popoli103, il cui sforzo puntava a tenere le truppe italiane a distanza da Trieste e Gorizia: per quanto riguarda la prima tale sforzo per molto tempo fu coronato da successo, mentre per quanto riguarda la seconda fallì abbastanza presto104. Il monte Krn, situato nei pressi di Caporetto e alto 2.245 metri, fu inizialmente occupato dagli italiani con reparti di alpini; la sua riconquista da parte degli austriaci avvenne nell’autunno del 1917, durante la grande battaglia di Caporetto. La montagna fu il teatro di guerra più lugubre e al tempo stesso spettacolare della regione, e divenne protagonista di innumerevoli reportage, racconti e canzoni, ricevendo un’attenzione privilegiata rispetto ad

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altre vette non meno importanti sul piano militare105. Il nome slo­ veno, Krn, traducibile in italiano come «monte Corno» o «monte Tronco», era stato erroneamente tradotto da un cartografo italiano come «monte Nero». E questa denominazione, sebbene sbagliata, dovette favorire la peculiare fortuna letteraria del Krn. Nei pressi di Doberdò del Lago (Doberdob in sloveno), situato sulle sponde di un laghetto ai margini del Carso, versarono il loro sangue, oltre a ungheresi e italiani, migliaia di giovani slo­ veni che prestavano servizio nell’esercito austro-ungarico. Negli anni Trenta lo scrittore sloveno Prezihov Voranc (pseudonimo di Lovro Kuhar) rielaborò letterariamente quegli avvenimenti in un romanzo di guerra, che è stato tradotto in italiano solo negli anni Novanta!106 Voranc narra la vicenda di Amun Mohor, un soldato dello Strafbataillon 100, che già nel 1915 era stato decimato sul fronte dell’Isonzo. All’inizio di dicembre del 1916 si trovava nei pressi di Doberdò anche il bersagliere Benito Mussolini107, e della guerra nel Carso parlano alcune delle più penetranti poesie di Giuseppe Ungaretti, pubblicate nel 1966 con il titolo II Carso non è più un inferno108. Nel complesso nella striscia di terra tra l’Adriatico e Gorizia si concentravano spaventosamente i mag­ giori campi di battaglia e cimiteri militari. La maggior parte dei soldati sloveni e croati nelle file austriache fu impiegata proprio in questo territorio109. La pubblicistica italiana degli anni Venti e Trenta tendeva «a sacralizzare le quote e le doline del Carso - dal San Michele a Doberdò, dall’Hermada al monte Santo - come luogo del sacrificio oblativo di una generazione di italiani, redentori e redenti»110. In seguito, le nuove possibilità tecniche crearono la possibilità di fare esperienza del «sacro» anche in termini meramente visivi: nel settembre 1935, vent’anni dopo l’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, si tenne a Gorizia la prima Mostra nazionale di fotografie di guerra, al centro della quale si trovavano i «campi di battaglia dellTsonzo e della zona dal Rombon al mare»111. Il monte Santo (in sloveno sv. Gora), presso Gorizia, era ce­ lebre sia tra gli italiani sia tra gli sloveni per il santuario dedicato alla Madonna. La montagna era stata attaccata una prima volta nel maggio del 1917 da fanti italiani al comando di Guido Slataper (un «gruppo di eroi»112), che avevano dovuto però ritirarsi di fronte allo strapotere austriaco. Nel’agosto del 1917, durante l’offensiva della Bainsizza, l’8a divisione italiana di fanteria attaccò nuovamente l’altura; vi furono migliaia di vittime. Ma nell’otto­

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bre del 1917 anche il monte Santo era stato travolto dall’«onda grigia»113 dei militari austro-tedeschi e la vetta fu nuovamente persa dagli italiani. All’inizio degli anni Trenta il capitano Slataper, insieme ai monaci francescani del monte Santo, prese l’iniziativa114 di fon­ dare un comitato con il duplice scopo di contribuire alla rico­ struzione del santuario distrutto durante la guerra e di rendere onore ai caduti che si erano sacrificati da eroi per conquistare una montagna sacra alla fede, e ora sacra anche alla patria115. Il monumento ai caduti sarebbe dovuto sorgere su una cima secondaria del gruppo, a una certa distanza dal santuario in modo da non pregiudicarne la vista. La famiglia di un generale siciliano deceduto per le ferite riportate sul monte si dichiarò disposta a raccogliere denaro per il monumento, a condizione che questo, contrariamente alla prassi patriottica prevalente, fosse dedicato a tutti i caduti del monte Santo, e dunque anche ai soldati dell’imperatore116. Il monte dimostra una multifunzionalità sorprendente: seb­ bene intorno al 1930 il regime fascista avesse ottenuto dal Vati­ cano l’allontanamento dal monastero dei francescani slavi117, il monte Santo rimase, al di là di tutte le frontiere etniche, un luo­ go che esprimeva la pretesa universale del cattolicesimo. Nella seconda metà degli anni Trenta fu celebrato il quarto centenario della creazione del santuario118; in tale occasione il regime, che aveva vietato tutti gli altri periodici sloveni e croati, permise eccezionalmente la pubblicazione del mensile religioso intitolato alla «regina del monte Santo» («Svetogorska kraljica»)119. Sul monte Santo era poi sepolto Jakob Missia, primo cardi­ nale di nazionalità slovena120. Ancora nel 1938, per il centenario della nascita del prelato, il vescovo di Lubiana Rozman, giunto da oltre confine con un vasto seguito, potè celebrarvi una messa. Anche sul monte Santo i nuovi mezzi tecnici avvicinarono l’ori­ ginaria dimensione sacro-religiosa e quella sacrale-nazionale che ne era derivata: nel 1940 il ministro dei trasporti Host-Venturi e l’arcivescovo Margotti inaugurarono una funivia che avrebbe favorito l’accesso dei numerosi visitatori alla chiesa, al cimitero militare e al monumento ai caduti121. «Il duca d’Aosta si è fatto seppellire a Redipuglia perché aveva tanti morti sulla coscienza», dichiarò il 5 luglio 1931 a Portorose (Istria) un ventiduenne; l’incauta dichiarazione gli procurò un processo davanti al Tribunale speciale fascista,

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processo che fu poi archiviato per motivi sconosciuti122. Questa notizia apparentemente insignificante, una della serie infinita di procedimenti minori presso il Tribunale speciale, si potrebbe an­ che ignorare se non rivelasse, come le altre, un aspetto finora ri­ masto pressoché inosservato da parte della storiografia. Se infatti l’Italia ufficiale passò sotto silenzio l’onta di Caporetto, aveva comunque bisogno di trovare un condottiero non sconfitto sul campo che aiutasse a dimenticare la vergogna di quella disfatta. Il bollettino di guerra del 28 ottobre 1917 aveva condannato la «vile ritirata» della 2a Armata, senza tuttavia intaccare l’onore delle altre componenti dell’esercito italiano. Alla fine della guer­ ra, oltre al generale Armando Diaz, comandante in capo e autore del Proclama della vittoria, c’era dunque un’altra figura nella quale identificarsi: Emanuele Filiberto, duca d’Aosta e cugino del re Vittorio Emanuele III, che comandava la 3a Armata nel Carso quando la 2a Armata fu sbaragliata a Caporetto, ed era riuscito a riportare le sue truppe quasi indenni oltre il Piave. Dopo l’armistizio la 3a Armata, insieme alla 9a, aveva formato la forza di occupazione necessaria per sostenere la presenza dell’amministrazione militare italiana nelle «terre redente» e le rivendicazioni territoriali dell’Italia alla conferenza di pace123. Nel novembre del 1918 il Savoia fu festeggiato per la prima volta a Trieste, e nel corso della sua visita non dimenticò di fare una breve sosta alla Caserma grande dove era avvenuta l’esecu­ zione di Oberdan124. Emanuele Filiberto, che come l’ammira­ glio Millo partecipò alla cospirazione di Gabriele D ’Annunzio in Dalmazia, fu preso in considerazione nel giugno del 1919 come possibile presidente di una Repubblica delle Tre Venezie che avesse come capitale Fiume125; poco dopo il presidente del consiglio liberale Nitti sciolse la 3a Armata e il 26 luglio 1919 Emanuele Filiberto lasciò Trieste126. Ma nell’autunno del 1921 il duca d’Aosta accompagnò Vittorio Emanuele III durante la sua visita in Venezia Giulia127. Di tutti i Savoia, egli era il più vicino al nazionalismo e al fascismo; anche per questo il suo nome collegava tra loro due luoghi commemorativi dei caduti della Prima guerra mondiale realizzati tra le due guerre: il colle di San Giusto a Trieste e il cimitero militare di Redipuglia, nei pressi di Monfalcone128. La storiografia si è impossessata da tempo di questi temi, mettendo a disposizione una serie di strumenti abbastanza raffi­ nati da consentire comparazioni storiche. Come evidenzia Sabine

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Behrenbeck, proprio la commemorazione pubblica dei caduti di guerra aveva una specifica «importanza per la costituzione dell’identità nazionale»129. Michael Jeismann e Rolf Westheider hanno documentato, sulla scorta degli esempi tedesco e francese, che non erano irrilevanti né il modo di rendere onore alle vittime della Grande guerra nei rispettivi paesi, né i soggetti promotori 0 finanziatori dei luoghi commemorativi130. Il progetto di ampliare il piazzale dove si trovava la cattedrale di San Giusto prese le mosse l’il novembre 1918, quando per la prima volta Vittorio Emanuele III arrivò a Trieste. Il colle su cui si eleva la cattedrale fu chiamato Colle capitolino, con un esplicito richiamo al modello di Roma. Si decise di restaurare il duomo e di riportare totalmente alla luce i vicini ruderi romani, 1 cui scavi erano iniziati in epoca austriaca. Occorreva poi de­ cidere quali caduti commemorare con il previsto monumento: numerosissimi erano infatti i triestini caduti da entrambe le parti: l’amministrazione cittadina scelse in prima battuta la «invitta Terza Armata, quella che fu guidata da Emanuele Filiberto duca di Aosta». Per prima cosa, dunque, sul lato orientale del colle fu realizzato un Parco delle rimembranze, come quelli esistenti in varie città italiane131. Inoltre Trieste volle onorare anche i propri volontari di guerra caduti nelle file italiane: per raccogliere fondi a tal fine si attivarono un comitato civico, le madri e le vedove dei caduti e diverse associazioni patriottiche. Nel frattempo un triestino era riuscito a mettere al sicuro i resti dei caduti e a fare in modo che venissero sepolti nel cimitero di Sant’Anna. Inizialmente si pensò di erigere qui anche il monu­ mento, ma quando lo scultore Attilio Selva presentò il suo progetto i patrioti triestini ne furono talmente entusiasti che proposero di collocarlo in un luogo pubblico realmente rappresentativo. Poco tempo dopo l’amministrazione cittadina e l’associazione dei volontari presero in considerazione la soluzione di piazza San Giusto. La statua, che aveva un’altezza totale di dodici metri ed era collocata su un basamento di marmo bianco dellTstria, raffigurava un gruppo di soldati che portavano sullo scudo un commilitone caduto. L’iscrizione in italiano riassumeva: «Come gli eroi di Sparta tornammo sullo scudo»132. Il monumento fu collocato al centro del parco archeologico, in un angolo forma­ to dalle mura del castello e dalla facciata della cattedrale, dove era ben visibile da diversi punti della città. Oltre alla cattedrale anche il castello fu restaurato, liberato dell’intonaco e riportato

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allo «stato originario». La cattedrale, gli scavi romani, il castello e il monumento ai volontari di guerra irredentisti costituirono a partire dagli anni Trenta, nella principale città della Venezia Giulia, un complesso di «italianità» difficilmente eguagliabile133, riunendo i «ricordi di tre epoche: la romana, la medioevale, la moderna»134. Nella seconda metà degli anni Trenta furono ag­ giunte lapidi commemorative a ricordo delle imprese coloniali italiane nell’Africa orientale. Interamente dedicato alla commemorazione dei caduti della Prima guerra mondiale era invece il cimitero di Redipuglia, in provincia di Gorizia135. Il complesso cimiteriale e commemora­ tivo fu collocato nei pressi del campo di battaglia di monte San Michele, e costruito a partire da questo. La montagna, che si trovava ai margini del Carso, nel 1915 era stata abbondantemente fortificata dagli austriaci; durante tutte le battaglie dell’Isonzo i soldati italiani erano stati costretti a correre allo scoperto sotto il fuoco delle mitragliatrici nemiche136. Nel 1920 fu bandita la gara per la costruzione di un ossario sul monte, e tra il 1920 e il 1922 fu ultimato il primo cimitero a ovest del colle Sant’Elia. Esso abbracciava 22 km di tombe collocate in cerchi concentrici; al posto delle lapidi i muratori e scalpellini locali utilizzarono i materiali bellici presenti in abbondanza sul vicino campo di battaglia per realizzare dei cippi commemorativi che riportavano iscrizioni di poeti-soldati. Vicino a un rotolo di filo spinato, ad esempio, era scritto: «Non questi fili ruggine colora: del nostro sangue son vermigli ancora!»137. Alla fine del 1922 le autorità dichiararono monte San Michele zona monumentale; di lì proveni­ vano le spoglie della maggior parte dei caduti sepolti a Redipuglia. L’inaugurazione del cimitero di Redipuglia avvenne il 14 maggio 1923; il discorso ufficiale fu tenuto dal duca d’Aosta, che con il generale Diaz era il più importante comandante militare presente alla cerimonia, alla quale prese parte anche Maria Bergamas, la «madre del milite ignoto», ossia colei che due anni prima, nel vicino cimitero militare di Aquileia, aveva scelto tra le spoglie di undici soldati quelle di colui che sarebbe stato sepolto come «mi­ lite ignoto» all’Altare della Patria a Roma138. Mussolini, presente all’inaugurazione, evitò volutamente di mettersi in mostra. Una peculiarità dei grandi cimiteri militari italiani fu che vi vennero sepolti anche comandanti morti per cause naturali più di dieci anni dopo la fine del conflitto. Emanuele Filiberto, duca d’Aosta, ad esempio, fu sepolto a Redipuglia l’8 luglio 1931.

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A Torino, in punto di morte, il condottiero aveva espresso la volontà di essere collocato «in mezzo agli eroi della 3a Armata» e fare insieme a loro una «vigile e sicura scolta alle frontiere d’Italia»139. Le condizioni dei cimiteri militari furono motivo di critiche ricorrenti fin dall’inizio degli anni Venti. Lo stesso Mussolini li avrebbe definiti «monumenti piagnoni e pietosi»140, ma l’aspetto che suscitava più critiche era il lento decadimento delle strut­ ture, mal curate e poco sorvegliate. Spesso i parenti dei caduti portavano via diversi oggetti come souvenir, mentre la ruggine corrodeva i resti di ferro e di acciaio della guerra, conferendo ai camposanti un uniforme colore rossastro141. Nel 1936 il fascismo, che per parecchio tempo, non diversamente dall’Italia prefascista, aveva esitato a erigere simili complessi (ancora nel 1927 il Pnf invitava a costruire scuole, più che monumenti ai caduti), volle stabilire un macabro record. Quando il cimitero monumentale di Redipuglia fu ultimato vi erano sepolti 100.187 caduti, di cui solo 39.867 identificati. Sotto la direzione dell’architetto Giovanni Greppi e dello scultore Giannino Castiglioni venne creata una «gigantesca scalinata»142 di marmo bianco che trasformò l’inte­ ro colle (alto 107 metri) in un enorme monumento, l’omologo orientale dell’Altare della Patria a Roma. Sulla collina si trova anche una cappella sormontata da tre croci. Un po’ più in basso, a un secondo livello, sorge la minuscola cappella del cimitero, in marmo rosa; di lì iniziano i ventidue gradini della «scalinata degli eroi», ciascuno di altezza equivalente a sei bare una sopra l’altra. Sulla facciata della gradinata sono scritti i nomi dei quasi 40 mila caduti identificati143. Ai piedi della collina è sepolto Emanuele Filiberto, attorniato dai suoi cinque generali. Si ha l’impressione che il duca d’Aosta si trovi al comando di un’«armata di morti» che vigila sul confine orientale d’Italia; la parola «Presente!» risplende innumerevoli volte sulla scalinata. Il «testamento» del duca d’Aosta, nella cappella del cimitero, non fu tolto nemmeno dopo il 1945, quando furono tolti dal monumento il fascio littorio e altri emblemi fascisti144. Nel 1938 il regime fece pressioni per inaugurare al più presto il complesso, sebbene gran parte delle attività di costruzione e della traslazione di salme fossero ancora in pieno svolgimento. Alla cerimonia inaugurale del 18 settembre partecipò lo stesso Mussolini. Il momento era stato scelto in modo da permettere al duce di enunciare i nuovi compiti della politica estera italiana

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dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nazionalsocialista. Dopo la cerimonia di Redipuglia Mussolini si recò a Trieste, dove annunciò le leggi razziali. Mentre i vecchi cimiteri militari degli anni Venti erano stati soprattutto meta di familiari dei caduti, la realizzazione dei grandi monumenti diede l’avvio a un turismo dei campi di battaglia e dei monumenti commemorativi, promosso e organizzato dal Touring club d ’Italia e dall’Opera nazionale dopolavoro. Redipuglia, insieme al cimitero militare di Aquileia e agli ossari di Gorizia e Oslavia, si prestava bene a diventare una «meta di pellegrinaggio secolare» e un «luogo di articolazione politica» per coloro «che si affermarono come “custodi” della memoria»145. Il Touring club aveva pubblicato le sue prime guide all’inizio degli anni Venti; dal 1927 al 1931 ne pubblicò una serie intitolata Sui campi di battaglia, volta a facilitare la visita ai luoghi che erano stati teatro degli scontri della Prima guerra mondiale e alle tombe degli alpini, dei bersaglieri e degli arditi, celebrati come eroi. Al tempo stesso, promuovendo questi viaggi, tali pubblicazioni contribuirono alla conoscenza delle «terre redente» e alla loro integrazione nell’Italia fascista. Negli anni Venti e Trenta la cultura italiana della memoria fu multifunzionale; mentre la fase iniziale era stata imperniata sull’iniziativa dal basso e su un culto naif della nazione, in seguito finì per prendere il sopravvento la componente monumentale e militaristico-aggressiva («guardia del confine orientale d’Italia»). Se inizialmente la materia prima per l’allestimento delle tombe dei soldati era stata fornita dal materiale bellico, negli anni Trenta furono utilizzati soprattutto tipi tradizionali di materiali (come il marmo), allo scopo di dare ai monumenti un aspetto solenne. Decine di migliaia di italiani, recandosi da soli o in gruppo sui campi di battaglia e ai monumenti commemorativi, ebbero l’op­ portunità di scoprire anche le nuove province nord-orientali. 3. I martiri: Nazario Sauro e Vladimir Gortan L’eroe letterario di Trieste per antonomasia, il personaggio di Zeno Cosini creato da Italo Svevo, è per vari aspetti l’esatto contrario degli eroi «storici» qui presentati. A parte lo sfondo biografico borghese, è la ricchezza a condannarlo alla passività, mentre una delle sue principali occupazioni consiste nel tentare

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inutilmente di smettere di fumare. Zeno trova la fortuna sempre indirettamente: ciò che incontra non corrisponde mai a quello che cercava. Lo scoppio della Prima guerra mondiale è per lui un momento catartico ed egli licenzia l’amministratore della sua impresa per occuparsi personalmente degli affari; tuttavia non si limita a fare le cose come si deve, ma si dedica ad attività ri­ schiose, insieme a suo cognato, che finisce per suicidarsi. A quel punto Zeno decide di andare da uno psicanalista146. Nel romanzo di Svevo la questione nazionale non ha alcuna rilevanza, e questa è un’altra differenza importante tra Zeno e gli eroi storici dell’Adriatico147. Questi ultimi sono giovani assolutamente normali, che si distinguono però per il fatto di prendere in modo molto consapevole una decisione sulla propria appartenenza nazionale, sia quando optano per l’assimilazione, sia quando resistono alla snazionalizzazione. A differenza degli eroi nazionali del resto d’Europa, che appartengono tutti a una nazione definita a priori e compiono gesta eroiche per conto e in nome di essa, gli eroi giuliani devono prima di tutto conquistarsi una fede nazionale. Essi lottano contro la politica di assimilazione, oppure si adattano consapevolmente al gruppo etnico «cultural­ mente superiore». Questo non è un loro merito personale, ma una risposta a «bisogni o costrizioni sociali in trasformazione, che conducono [...] all’accettazione di una identità più o meno nazionale»148. Ai futuri eroi la scelta fatta non basta. Essi decidono di met­ tersi al servizio della «nazione» in modo totale, imboccando una via che conduce all’eventuale sacrificio di sé, alla «morte eroica». Dagli ultimi decenni del periodo asburgico fino alla vigilia della Seconda guerra mondiale il modello non si modifica minimamente. Solo in seguito - anche in conseguenza della «bonifica etnica» fascista - il soldato o miliziano italiano sarà un italiano che, come un soldato tedesco, francese o inglese, moriva «da eroe» senza altro motivo che servire la sua «patria». Le biografie piuttosto incolori degli eroi di questa guerra diverranno allora pezzi da esporre alla Mostra della rivoluzione fascista149. Nei territori lungo la frontiera orientale d’Italia Mussolini riuscì ad accrescere la propria popolarità e a conquistare segua­ ci ponendosi a volte anche in forte concorrenza con Gabriele D’Annunzio. Verso la fine della guerra, quando venne a sapere che la madre di Nazario Sauro, l’irredentista condannato a morte dagli austriaci, si trovava in condizioni di estrema povertà a Ca­

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podistria, organizzò attraverso il «Popolo d’Italia» una colletta e ne consegnò personalmente il ricavato all’anziana donna, per un ammontare di 81.227 lire. Questo episodio non fu solo un precoce esempio della particolare venerazione di Mussolini per le madri nell’ambito di una strategia per assicurare al fascismo il consenso delle donne150: Mussolini aveva scelto abilmente il momento per prendere quest’iniziativa. Il più italiano degli eroi italiani, Giuseppe Garibaldi, usciva infatti a mal partito dalla Grande guerra. Di fronte alla guerra su scala industriale, un volontario triestino come Giani Stuparich, che inizialmente sotto l’uniforme dell’esercito italiano aveva indossato la camicia rossa garibaldina, finì per abbandonarla, perché un indumento di tale valore simbolico gli pareva un anacronismo151. Venendo dunque meno la forza d’attrazione dell’«eroe dei due mondi», rimase spazio per figure più direttamente legate agli avvenimenti del conflitto mondiale. Nazario Sauro fu la principale di queste figure, insieme a Guglielmo Oberdan, nel cui luogo di esecuzione Mussolini si recò in visita il 20 dicembre 1918152. A differenza del repubblicano Oberdan o del socialista trentino Cesare Battisti153, Sauro era un personaggio apolitico o prepolitico. Nato nel 1880, figlio di un capitano di piccolo cabo­ taggio, crebbe a Capodistria e Trieste, scoprendo molto presto, come venne scritto in un articolo agiografico, il suo «istintivo amore all'Italia», la sua «avversione all’Austria» e il suo «odio verso gli slavi, aguzzini degli italiani per conto dellTmpero»154. Sempre pronto, a quanto pare, a issare o a mostrare il tricolore italiano, a distruggere i simboli della monarchia danubiana e ad azzuffarsi con ragazzi sloveni, Sauro divenne una vera e propria incarnazione dell’«italianità» di Capodistria. Seguendo le orme del padre aveva intrapreso studi nautici e si imbarcò appena li ebbe conclusi; fin da giovane conosceva con precisione ogni tratto di costa, isola o insenatura dell’Adriatico tra Grado e lo stretto di Otranto. Il 2 settembre 1914 partì da Trieste alla volta di Venezia, per unirsi agli interventisti che premevano affinché l’Italia scendesse in guerra a fianco dell’Intesa; si arruolò quindi nella marina mi­ litare italiana, dove la sua approfondita conoscenza delle coste orientali dell’Adriatico sarebbe stata preziosa. Prima ancora dell’inizio delle ostilità con l’Italia la giustizia austriaca a Trieste emise un capo d’accusa nei suoi confronti per alto tradimento e altri reati.

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Dopo l’entrata in guerra del Regno d’Italia, nel maggio del 1915, Sauro prese parte a numerosi attacchi della marina italiana nei confronti della flotta austro-ungarica e delle città costiere dell’Istria. Diego De Castro, che aveva sette anni quando fu te­ stimone di un attacco di Nazario Sauro alla cittadina di Pirano (in sloveno Piran), ritiene che egli avesse un informatore tra gli austriaci; difficilmente, altrimenti, sarebbe riuscito ad attraversare senza problemi le acque istriane, costellate di mine155. La maggior parte delle azioni di Sauro ebbero successo, fino a quando, inca­ gliatosi con un sottomarino a Promontore (in croato Preman tura), sulla punta meridionale della penisola, cercò di allontanarsi, ma fu catturato dagli austriaci e processato. Identificato da parec­ chi testimoni come cittadino austriaco e irredentista italiano, fu condannato a morte e giustiziato il 10 agosto 1916 nel porto militare austriaco di Pola156. Sebbene il regime mussoliniano sostenesse in seguito il contrario, la decisione di erigere monumenti commemorativi a Nazario Sauro e all’irredentista trentino Cesare Battisti era stata presa in epoca prefascista: nel 1918 a Capodistria fu pubblicato un opuscolo in cui si chiedeva di erigere un monumento per onorare la memoria di Sauro157; nel giugno del 1922 Francesco Salata annunciò la prossima creazione di un comitato centrale per la costruzione di monumenti nazionali in onore di Sauro e Battisti, sulla base di una delibera parlamentare158. L’attuazione del piano, tuttavia, toccò al fascismo, che dopo vari rinvìi iniziò i lavori nel 1929159; nel 1930 il segretario provinciale istriano, Giovanni Relli, sottolineò ancora una volta il «vivo desiderio» che venisse «costruito il più presto possibile un monumento a Nazario Sauro»160. L’incarico di creare un complesso monu­ mentale fu affidato allo scultore Attilio Selva, già coinvolto nel caso di Oberdan. Il monumento, inaugurato il 9 giugno 1935 a Capodistria, consisteva in un sottomarino stilizzato sulla cui tor­ retta si ergeva una Vittoria. Il basamento era ornato da altre tre statue: un marinaio a prua stava probabilmente a simboleggiare il Nazario Sauro «in versione civile», mentre dietro la torretta, rivolti verso poppa, stavano l’eroe e la madre, la cui presenza allude al momento in cui le autorità del tribunale la chiamarono con l’intento d’identificare rapidamente l’imputato161. Un quo­ tidiano fascista delle Marche scrisse che la madre di Nazario Sauro aveva sofferto per suo figlio più di «Maria ai piedi della Croce»162. L’importanza di Nazario Sauro come eroe nazionale

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fu sottolineata anche dalla presenza di Vittorio Emanuele III all’inaugurazione del monumento. Arrivato a Capodistria via mare, il re vi si trattenne solamente un’ora e mezza. Dopo un discorso in piazza del Duomo egli espresse l’intenzione di visitare la cattedrale, ma la trovò chiusa: di quest’affronto fu attribuita la colpa al vescovo di Trieste e Capodistria, Luigi Fogar, noto­ riamente «amico degli slavi»163. Sauro e Oberdan (diversamente da Battisti) avevano un posto fisso nella cultura fascista dei monumenti: era facile per la propa­ ganda del regime distinguerli da due avversari spesso identificati come tali congiuntamente, ossia l’Austria-Ungheria e gli slavi. Al tempo stesso, il regime creava una linea di continuità con l’irre­ dentismo mazziniano e liberalnazionale prebellico, rivendicandolo in pieno e contrapponendosi in modo frontale ai presunti «politici rinunciatari» come Leonida Bissolati. L’«italianità» rappresentata da figure-chiave come Sauro e Oberdan divenne una sorta di culto sincretistico nazionale. Non fu un caso perciò se Mussoli­ ni nel marzo del 1938, poco dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nazista, parlando a Trieste citò Oberdan per esprimere la propria irritazione per questo «evento fatale, che si delineava già dal 1878»164. Tra gli eroi esisteva però anche una sorta di ordine di importanza: come Battisti anche Oberdan - primo eroe poli­ ticamente più univoco che aveva deliberatamente sacrificato la propria vita, nativo della grande Trieste - era celebrato in tutta Italia. Ancor oggi in tutti o quasi i centri abitati della penisola esiste una via (spesso la via principale) a lui intitolata165. Fuori dei confini della Venezia Giulia, invece, Nazario Sauro è meno famoso; l’impulsivo marinaio di Capodistria, che aveva succhiato l’«italianità» insieme al latte materno, divenne nella mitologia fascista uno squadrista ante litteram. Una «squadra» di Milano, la città natale del fascismo italiano, prese il nome proprio da lui166; inoltre due figli dell’eroe irredentista - Italo e Libero - divennero esponenti di primo piano del Pnf nella Venezia Giulia. Il fatto che Capodistria (Koper) alla scomparsa del Territorio libero di Trieste sia stata assegnata alla Jugoslavia ha contribuito a fare di Sauro soprattutto un eroe della subcultura degli esuli e profughi giuliano-dalmati. Come gli italiani, anche gli slavi del sud, e in primo luogo i serbi, avevano i propri eroi e martiri167, che tuttavia risalivano in maggioranza ai secoli precedenti. Fu il regime di Mussolini a

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creare i presupposti affinché dal movimento nazionale sloveno e croato emergessero nuovi eroi, perlopiù giovani168. Non si trattava di membri di organizzazioni nazionalistiche come l’Orjuna o il Tigr, deceduti in scontri a fuoco con la milizia fascista, con i carabinieri o con la polizia: negli anni Venti le azioni armate dei guerriglieri, protetti dall’oscurità o dalla nebbia, fecero più vittime, almeno inizialmente, tra gli italiani che tra gli slavi. Dopo ogni attacco, tuttavia, il regime fascista ordinava rastrellamenti, dando mostra in questi frangenti di una miscela di azione finalizzata e discrezionalità grossolana arrestando, spesso indiscriminatamente, membri dei gruppi slavi di opposizione, cristiano-sociali, liberali, comunisti. Gli eroi degli sloveni e croati giuliani furono tutti processati e condannati dal Tribunale speciale fascista; e ben presto non si sarebbe trattato più di casi isolati. Per questi motivi la loro storia appare più prosaica di quelle di Oberdan o di Sauro: essi sono cronologicamente più vicini alle vittime dei processi farsa di Mosca o del Volksgericht, il «tribunale del popolo» nazional­ socialista, che agli irredentisti condannati all’impiccagione dalla monarchia danubiana. Manca quindi loro il lustro che avevano gli eroi di movimenti di liberazione e di unificazione che si potevano richiamare direttamente a Garibaldi, a Mazzini o a Kossuth. Il Tribunale speciale per la difesa dello Stato istituito il 1° febbraio 1927 a Roma emanava sentenze contro antifascisti di tutti i tipi: anarchici, comunisti, socialisti, repubblicani, azionisti, cattolici, liberali, sloveni e croati giuliani, libici ed etiopi, e persino membri di sette religiose come i Testimoni di Geova169. La maggior parte dei processi si svolse a Roma nell’aula IV del cosiddetto «Palazzaccio», il palazzo di giustizia sulle sponde del Tevere170. Le indagini istruttorie erano svolte da agenti del servizio se­ greto Ovra, che avevano a disposizione mezzi pressoché illimitati per raggiungere i loro obiettivi171. Essi consegnavano il materiale d’accusa al procuratore dello Stato, che lo trasmetteva al giudice istruttore o alla commissione istruttoria. Il giudice era competente in caso di trasgressioni minori, mentre nei processi più importanti la sentenza era emessa dalla commissione. Di regola l’unica cosa che interessava al tribunale era «togliere di mezzo» gli imputati172, indipendentemente dagli eventuali reati commessi. Il processo si concludeva di solito in una giornata, e la pos­ sibilità di interrogare testimoni a discarico era molto limitata. I giudici erano assegnati al tribunale non in base alla qualifica­

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zione professionale, ma alla fede fascista. Nel caso di processi particolarmente scottanti sul piano politico Mussolini dettava personalmente la sentenza al telefono. Attraverso veri e propri processi farsa (che tuttavia, a differenza di quelli moscoviti, si svolgevano di solito a porte chiuse) il Tribunale speciale emise più volte sentenze capitali contro sloveni e croati della Venezia Giulia. Secondo gli appunti di Lavo Cermelj, delle 42 sentenze capitali emesse in totale, 33 riguardarono sloveni o croati giuliani, mentre dei tre imputati condannati all’ergastolo uno era sloveno; agli altri 442 imputati sloveni e croati furono comminati in totale 4.893 anni di carcere, mentre le condanne pronunciate in totale dalla corte ammontarono a 27.737 anni173. Il Tribunale speciale fascista non era certo più civile o umano della «barbarica» monarchia danubiana: alla forca subentrò la fucilazione alle spalle, non meno disonorevole174. In questo modo, paradossalmente, un regime che erigeva monumenti a Nazario Sauro e a Guglielmo Oberdan faceva in modo che anche gli slo­ veni o i croati giuliani avessero i propri martiri175. In occasione del terzo anniversario delle esecuzioni di Basovizza la «Istra» pubblicò un articolo che tra le altre cose ricordava la fine di G u­ glielmo Oberdan; il quotidiano dell’emigrazione accusava l’Italia fascista di aver dimenticato i martiri italiani mentre creava martiri slavi176. Lavo Cermelj scrive che a scuola i giovani sloveni e croati ascoltavano con passione le spiegazioni dei loro insegnanti sul Risorgimento italiano e divoravano letteralmente I Promessi sposi. Non per nulla il regime aveva vietato fin dall’inizio di tradurre in sloveno la storia del movimento di unificazione italiana177. Mentre i primi processi del Tribunale speciale in Venezia Giulia avevano colpito le attività della Orjuna e del partito comunista nella provincia di Gorizia178, dal 16 ottobre 1929 la corte trattò il caso di Vladimir Gortan e di alcuni oppositori croati del fascismo accusati di aver ferito a colpi di pistola due contadini istriani, uno dei quali era morto. Vladimir Gortan179 era nato nel 1904 a Beram (Vermo in italiano), nell’Istria cen­ trale, da una poverissima famiglia di piccoli contadini. Mentre frequentava la scuola elementare già lavorava come pastorello nei villaggi vicini; una volta cresciuto prestò servizio come bracciante a giornata, e tale rimase ufficialmente la sua attività lavorativa. Dopo la Prima guerra mondiale Gortan condivise il destino di molti istriani, emigrati in Jugoslavia a causa della difficile situazione economica della loro terra. Dopo aver tentato

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invano due volte di trovare lavoro oltre frontiera fece ritorno a Beram; le autorità di Pisino gli promisero di trovargli un lavoro se si fosse iscritto al Pnf, cosa che egli rifiutò di fare, perché avrebbe significato accettare la politica di assimilazione del regime, diventando non solo «italiano», ma anche fascista. Finì quindi per lavorare vendendo nei villaggi dellTstria i prodotti di una impresa locale; nei suoi spostamenti entrò in contatto con un’organizzazione slava di resistenza, che gli procurò un’arma e degli esplosivi per combattere illegalmente la politica fascista di snazionalizzazione. Gortan progettò un primo attentato contro funzionari fascisti che dovevano venire a Beram per un corso serale italiano, ma il progetto fallì perché la loro auto cambiò itinerario180. All’azione armata che condusse al processo presso il Tribunale speciale si giunse quando i fascisti, il 24 marzo 1929, scortarono con la forza fino ai locali elettorali di Pisino (nellTstria centrale) alcuni contadini slavi. Il regime sperava in un’approvazione ple­ biscitaria della sua lista, dopo gli scontri verificatisi alle elezioni del 1921 e del 1924. Poiché l’organizzazione sloveno-croata di resistenza Tigr non riusciva a distribuire gli appelli al boicottag­ gio in tutta l’Istria, il gruppo di Beram decise di impedire «con ogni mezzo» alla popolazione di votare. I membri del gruppo di opposizione, armati, controllavano le strade di accesso a Pisino. Vladimir Gortan attendeva a valle di Beran, da solo, una parte degli elettori scortati dalle camicie nere. Tre dei suoi compagni tenevano invece sotto controllo la strada da Trviz a Pisino181. Quando elettori e miliziani si avvicinarono a quest’ultimo gruppo, qualcuno degli oppositori sparò in aria. Perché fosse stato aperto il fuoco non è facile da stabilire. Forse furono sparati dei colpi di avvertimento, o si voleva creare una situazione di panico che avrebbe consentito ai contadini di sbarazzarsi dei fascisti. Come che fosse, due contadini vennero colpiti di rimbalzo da proiettili e uno di loro, Ivan Tuhtan, morì due giorni dopo in ospedale. Tutti fuggirono e nella circoscrizione di Pisino il plebiscito non fu portato a termine182. In un primo momento i fascisti occuparono il villaggio di Beram per costringere i contadini ad andare alle urne; poi si ritirarono lasciando il campo alla polizia, che eseguì numerosi arresti e tradusse a Roma, nel carcere di Regina Coeli, sei del­ le persone fermate. Gortan, che era riuscito a fuggire e aveva tentato di andare in Jugoslavia, fu catturato in una stazione.

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Gli arrestati furono sottoposti a processo di fronte al Tribunale speciale. Poiché si prevedeva una condanna a morte da eseguire sul posto, nell’ottobre del 1929 la corte si trasferì a Pola. Le sedute, che si svolsero dal 14 al 17 ottobre, furono una vera e propria farsa. Il regime trasformò Ivan Tuhtan in un «martire per la causa del fascismo» e nel 1932 gli eresse un monumento183. I trenta testimoni di accusa e difesa furono ascoltati tutti nell’arco di un’ora. L’avvocato croato fu intimidito dalla milizia fascista e finì per rinunciare al mandato. Il procuratore dello Stato chiamò in causa persino i rapporti italo-jugoslavi: la polizia aveva trovato in possesso di uno degli imputati una lettera di presentazione del quotidiano triestino «Edinost» e un’altra proveniente da una organizzazione assistenziale di Zagabria. Si trattava, nel complesso, di elementi di prova tutt’altro che significativi. La corte pronunciò una sentenza particolarmente dura: Gor­ tan, che aveva compiuto da poco venticinque anni, fu condannato a morte per fucilazione nella schiena come capo di un gruppo terroristico, mentre gli altri quattro imputati furono condannati a trent’anni di carcere. La condanna di Gortan, che non è certo fosse a capo del gruppo di opposizione e che non aveva avuto alcuna parte nei colpi sparati sugli elettori e i fascisti184, fu eseguita il mattino seguente, e le sue spoglie furono sepolte segretamente nel cimitero di Pola, dove la tomba fu scoperta solo nel 1952, molto tempo dopo che la città era passata alla Jugoslavia. L’esecuzione di Gortan fu la seconda nei confronti di un op­ positore del fascismo, dopo quella del comunista lucchese Michele Della Maggiora185. In Istria si discusse a lungo della composizione del plotone di esecuzione, «composto prevalentemente, se non esclusivamente, da istriani, italiani e slavi»186. I manifesti che annunciavano la sentenza vennero affissi in tutti i comuni delle province adriatiche187. In un rapporto al ministero degli Interni romano si legge che nel Goriziano, all’ora dell’esecuzione di Gortan, le campane di tutte le chiese avevano suonato a mor­ to188. Gortan divenne così una figura-simbolo della resistenza nazionale croata contro il regime di Mussolini e la sua politica di assimilazione189: secondo un rapporto del console tedesco a Trieste, tutti lo consideravano «un martire della sua coscienza nazionale e dell’idea jugoslava in Istria»190. Diego De Castro nelle sue memorie ricorda lo stato d’animo diffuso nella regione di frontiera tra gli italiani che avessero un minimo di distanza critica nei confronti del regime: tutti erano disgustati per una

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condanna a morte che all’epoca della dominazione austriaca qualsiasi irredentista italiano avrebbe disapprovato191. Poco si sa invece delle reazioni nel resto d’Italia192. Al di là della frontiera di Rapallo il rifiuto della sentenza fu unanime: a Zagabria, Maribor e altre città si svolsero manifesta­ zioni di lutto; le feste, i concerti e altri eventi mondani furono cancellati. Tuttavia la polizia non permise plateali dimostrazioni antitaliane193. Nella città portuale di Susak vi furono ricorrenti proteste contro l’esecuzione di G ortan194; i giocatori di calcio di una squadra della marina militare britannica e di una di Zagabria interruppero la partita per cinque minuti in segno di lutto; il numero di carabinieri che presidiavano il ponte sull’Eneo - che segnava il confine italo-jugoslavo tra Fiume e Susak - fu rad­ doppiato195. Gli eroi dell’irredentismo italiano e quelli della resistenza sloveno-croata avevano in comune soprattutto il fatto di essere stati tutti vittime di «grandi processi» da parte della giustizia austriaca o italiana196. Mentre in Italia chiunque conosce i nomi di Oberdan o Battisti, e se Nazario Sauro è noto almeno tra esuli e triestini, tuttavia oggi nessuno di questi eroi e martiri svolge più una funzione di modello197, in Slovenia e Croazia i nomi di Vladimir Gortan e di coloro che furono fucilati a Basovizza sono ancora famosi. A ciò ha contribuito fino in tempi recenti anche la storiografia, che si è posta risolutamente sulle orme della lotta di liberazione nazionale contro il fascismo italiano. Ancora nel 1990, ad esempio, Milica Kacin-Wohinz ha dedicato il suo libro «alle vittime di Basovica nel sessantesimo anniversario»198. 4. La guerra dei monumenti e la Mostra della rivoluzione fascista Chi abbatte un monumento non sempre lo fa per creare uno spazio che ne sia privo; spesso vuole semplicemente sostituire qualcosa di odiato che rappresenta il passato, Xancien regime, la dominazione straniera, con un altro che celebri la liberazione nazionale, l’emancipazione sociale o la «società del futuro». Se il poeta italiano Mario Rapisardi si era limitato a deplorare il contrasto tra la rapida diffusione di statue commemorative del movimento di unificazione italiano e la miseria sociale che regnava nel nuovo Stato sorto a seguito del Risorgimento199, Rikard Katalinic-Jeretov dichiarò ufficialmente in una poesia

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che al posto dei leoni di San Marco istriano-dalmati egli avrebbe voluto mettere le statue del re croato Tomislav e del sovrano serbo Pietro Karadordevic200. Le distruzioni di monumenti accompagnano quasi sempre i rivolgimenti politici e sociali e spesso anche lo spostamento di un confine: ogni volta che una regione di frontiera passa da una sovranità all’altra si distruggono monumenti. Quanto più aggrovigliata è la composizione etnica di un’area, tanto più i conflitti tendono a caratterizzarsi come guerre di monumenti; ciò vale soprattutto se dietro una minoranza si trova uno Stato nazionale che dispone delle risorse che occorrono per erigere monumenti. La regione situata tra le Alpi orientali e la costa dalmata si prestava a meraviglia a ogni sorta di azioni simboliche sui mo­ numenti. Nei conflitti sono stati coinvolti soldati napoleonici, fascisti italiani, attivisti jugoslavi e in seguito membri della Di­ fesa territoriale slovena (domobranci), operai di cantiere al soldo della Wehrmacht e partigiani di Tito, profughi istriani e autorità jugoslave. Il loro scopo, attraverso la costruzione o la distruzio­ ne di monumenti in siti più o meno simbolici, era cancellare la storia oppure riscriverla. Anche in questi casi gli eventi presero le mosse dagli esiti della Prima guerra mondiale, a parte alcuni precedenti di epoca napoleonica. Nei suoi ricordi Carlo Sforza descrive la Dalmazia come un «museo di monumenti della Serenissima»201. Nel 1927 il giornalista Mario Nordio, redattore del «Piccolo» di Trieste, trovandosi nella cittadina dalmata di Trogir (Traù) scriveva di sentirsi avvolto dal ricordo di Venezia202. L’occupazione italiana della fascia costiera era terminata da pochi anni, l’entità statale SHS si rivelava insta­ bile e lacerata al suo interno e non si escludeva che la Dalmazia tornasse all'Italia. Per rafforzare questa idea nel 1932 i fascisti esposero nella Mostra della rivoluzione fascista le foto di tutti i leoni di San Marco esistenti in Dalmazia203. La profanazione dei leoni di Traù, atto di vandalismo e al tempo stesso anticipazione di future distruzioni in Dalmazia, av­ venne prima dell’apertura della mostra. Se dietro questo attentato - cui ne seguirono altri a Sinj e Perasto - vi fosse un piano o se si nascondessero circoli militari o persino politici in carica, è difficile da stabilire. Il ministro degli Esteri Jevtic negò che la Jugoslavia fosse coinvolta ufficialmente in questi fatti. Sul piano pratico, dalle indagini del giornalista italiano Virginio Gayda, vicino al regime,

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emerse solo che un capitano distrettuale dell’esercito jugoslavo era stato in servizio prima a Krk e poi a Spalato (da cui dipen­ deva Trogir) mentre si verificavano gli incidenti e mentre i leoni venivano distrutti. Nel corso di un’indagine ordinata dall’ufficiale nella stessa Trogir furono danneggiati altri leoni veneziani. A Sinj ne fu colpito uno collocato all’ingresso di una caserma, in un punto strettamente vigilato; in questo caso l’attentatore andava quasi certamente cercato in ambienti militari204. Le reazioni in Italia non si fecero attendere: a Milano, Torino, Bologna [...] e persino in piccoli capoluoghi di provincia si sono verificate tumultuose manifestazioni di strada «contro il vanda­ lismo di Trau», che in molti casi esponevano la bandiera della Dalmazia «irredenta» listata a lutto. Il 13 dicembre, dodici giorni dopo il danneg­ giamento dei due leoni, studenti universitari della capitale infuriata sono sfilati in corteo davanti al palazzo del governo, dove Mussolini ha rivolto un saluto ai manifestanti. In Senato la distruzione dei leoni ha provocato un’interpellanza al governo da parte di un gruppo di senatori - tra cui l’ex ministro dell’istruzione Giovanni Gentile e Pietro Fedele, i distruttori delle scuole tedesche e slave nelle nuove province -, esposta dal celebre storico dell’arte Corrado Ricci. Dopo la replica, estremamente dura, del capo del governo Mussolini, la seduta del Senato è stata aggiornata in segno di lutto nazionale20’.

Le gazzette di provincia fasciste fecero a gara di volgarità. «Il Lavoro fascista» dell’11 dicembre proponeva agli jugoslavi di collocare al posto dei leoni di San Marco dei maiali alati, visto che recentemente si era potuto leggere nel quotidiano che 10 Stato jugoslavo aveva acquistato cannoni scambiandoli con 100 mila maiali206. Il «Corriere Padano» del 25 novembre definiva la Jugoslavia «tana di terroristi e banditi» e «mostruosità politica, etnica, storica». A Trieste la notizia della distruzione dei leoni arrivò durante i preparativi per il cinquantesimo anniversario dell’esecuzione di Oberdan, offrendo così ai fascisti triestini una gradita occasione per ricordare che la monarchia danubiana e lo Stato degli slavi del sud erano collegati da una linea di continuità sotto un segno antitaliano207. L’ambasciatore tedesco parlava di «manifestazioni di protesta nelle città italiane della regione di frontiera e del litorale adriatico» e di «grossolani eccessi contro 11 consolato jugoslavo» di Bari208. L’unico posto in Italia dove la situazione veniva vista con lucidità pareva essere il ministero degli Esteri, secondo cui l’accaduto era segno del nervosismo diffusosi in Jugoslavia per la crisi economica che il paese attraversava209.

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Rispetto alle reazioni «spontanee» degli Azzurri di Dalmazia e di altre associazioni irredentistiche lo stesso Mussolini, nel suo discorso in Senato, era sembrato moderato210. Di fronte alla campagna fascista il Parlamento e il governo di Belgrado ostentarono un’apparente superiorità. Il deputato Andelinovic scrisse una lunga interpellanza al ministro degli Esteri Jevtic, in cui si leggeva tra l’altro che gli slavi del sud «avrebbero potuto gettare a mare i leoni veneziani in Dalmazia, segni di una passata dominazione straniera, il primo giorno dopo la liberazione», ma che ciò non era necessario: Se ora nella vasta massa popolare è sorto improvvisamente l’odio verso questi simboli della Serenissima, la colpa è di coloro che in Italia danno a tali segni del passato il valore di una rivendicazione giuridica dell’Italia sulla costa slavo-meridionale. Uno slavo del sud distrugge l’emblema di uno Stato che ha cessato di esistere 140 anni fa, e tutta l’opinione pub­ blica di un altro Stato (l’Italia) si agita per questo... Nei nuovi territori italiani tuttavia [...] sono stati distrutti innumerevoli monumenti, come quelli dedicati a Walther von der Vogelweide a Bolzano, all’imperatrice Elisabeth a Trieste, all’imperatore Massimiliano del Messico a Trieste, ad Andreas Hofer a Merano e così via211.

Il testo sembrava addirittura voler confermare il sospetto fascista secondo cui tra la monarchia asburgica e lo Stato slavo­ meridionale esisteva una linea di continuità, visto che quasi tutti i monumenti citati commemoravano rampolli della casa Asburgo o eroi austriaci e tirolesi212. A parte tutto, nelle «terre redente» l’Italia aveva fatto effettivamente rimuovere numerose statue e lapidi. Tuttavia, quando i politici jugoslavi facevano riferimento all’«ira popolare» come causa scatenante degli atti vandalici, essi tacevano che contro i leoni di San Marco si era verificata una campagna documentabile di varie organizzazioni naziona­ liste e irredentiste. Non sorprende dunque che l’Italia fascista si riservasse l’ultima parola sulla questione dei leoni di Trogir. Quando, nell’aprile del 1933, fu inaugurato il ponte tra Venezia e la terraferma, il governo italiano trasformò la cerimonia in una «manifestazione architettonica e giornalistica contro il vicino jugoslavo»: su due dei pilastri del ponte erano collocati alcuni dei leoni danneggiati provenienti dalla Dalmazia213. La guerra dei monumenti in Dalmazia non si esaurì con la disputa sui leoni di San Marco, come riferiva Josef Màrz dopo un viaggio sull’Adriatico. A Spalato egli aveva assistito alla

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inaugurazione di un monumento al vescovo Grgur di Nin214, «queH’irriducibile combattente che nel X secolo aveva difeso con successo il diritto della lingua slava contro il latino eccle­ siastico»215. La statua, alta trenta metri, era stata realizzata negli Stati Uniti dallo scultore dalmata Ivan Mestrovic, che in America aveva fatto fortuna. Divisa in varie parti, l’opera era giunta a Spalato per mare216. Essa fu collocata proprio nel peristilio del palazzo di Diocleziano, «davanti al mausoleo del grande impe­ ratore romano»217. Mentre lo scrittore croato Miroslav Krleza, nel tardo autunno del 1944, aveva affermato che la «ricchezza del monumento di Diocleziano» aveva avuto l’unica funzione di «esercitare un effetto dispotico su generazioni di barbari»218, coloro che eressero il monumento a Grgur Ninski evidentemente la pensavano come l’osservatore tedesco sulla missione romana del palazzo di Diocleziano: Il monumento e il luogo dove è stato collocato sono un vistoso simbolo del superamento e del rifiuto dello spirito latino in Dalmazia, allo stesso modo in cui a Zara la statua in bronzo del giovane genovese Balilla (dal cui nome il fascismo ha tratto quello della propria organizzazione giova­ nile) ha un significato politico, e nelle città dalmate i leoni veneziani di San Marco sono sempre stati avvertiti come incarnazione di una antica dominazione straniera, senza che ciò possa servire da scusante per la loro distruzione, avvenuta nel dicembre del 1932. Quella che si combatte con i monumenti è una guerra sorda e tenace219.

Di fronte ai leoni di San Marco danneggiati e alla grande statua a Grgur Ninski, l’Italia fascista decise di proseguire la guerra dei monumenti su larga scala, facendo della questione adriatica un tema di fondo della grande Mostra della rivoluzione fascista220. La mostra, inaugurata nella capitale per il decimo anniversario della marcia su Roma, fu un peculiare atto di autorappresenta­ zione da parte del regime di Mussolini. Essa fu visitata, nei primi due anni, da 2.800.000 persone221; secondo altri dati i visitatori furono addirittura 3.854.927222. La sacralizzazione della politica raggiunse qui il suo culmine: «“Tempio” e “altare”», osserva Emilio Gentile, «sono i termini più ricorrenti con i quali veniva descritta la mostra nei commenti della stampa e nelle lettere di semplici visitatori»223. Occorre distinguere tra una funzione di politica interna della mostra come fattore di promozione di identità e consenso, e un

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effetto propagandistico verso l’esterno. Il «Popolo di Trieste» scriveva che la mostra doveva presentare «soprattutto al visitatore straniero» l’opera di costruzione dell’Italia fascista; a tal fine erano stati raccolti migliaia di «documenti, armi, fotografie, volantini». Alle «terre redente» del 1918 fu concesso - anche per ragioni di attualità politica - uno spazio particolarmente ampio, nel quale si glorificavano le gesta di irredentisti e volontari, legionari dan­ nunziani e fascisti delle origini. Tutti i pezzi della mostra erano esposti in venticinque sale224. I principali ispiratori dell’iniziativa di raccolta dei ricordi e documenti da esporre erano stati Dino Alfieri, responsabile della mostra, e il segretario del Pnf Achille Starace225. Mentre gran parte dei pezzi provenienti dalle varie regioni italiane fu inviata dai segretari delle federazioni provinciali del Pnf direttamente agli organizzatori, il materiale raccolto dai territori orientali fu concentrato a Trieste e inizialmente esposto all’inizio di luglio del 1932 nel locale Museo del Risorgimento. Francesco Giunta aveva espresso da Roma l’auspicio che nessuna città superasse Trieste «nella cura di predisporre gli oggetti e ordinarli crono­ logicamente, ma anche per il numero dei documenti stessi»226. In totale i fascisti triestini speravano di poter offrire circa un decimo del numero totale di pezzi. Uno dei visitatori scrisse che i selezionatori degli oggetti avevano collegato direttamente l’ascesa del fascismo triestino «alla passione irredentista, all’esasperato sentimento naziona­ lista triestino, a tutti gli amori (per la grandezza, la felicità, la potenza d’Italia) e a tutti gli odi (contro gli antitaliani e contro gli slavi)»227. Tuttavia, se la parte avuta dalla Venezia Giulia nell’esposizione fu tanto ragguardevole non si dovette soltanto allo zelo dei fascisti triestini. Alla spinta «dal basso», diretta e fomentata a distanza da Francesco Giunta, che all’epoca ri­ siedeva a Roma, dovette corrispondere una volontà ancor più precisa «dall’alto» di concedere molto spazio all’irredentismo, aH’interventismo, alla Grande guerra e alla «redenzione» di Trieste e Trento. Quanto grande fosse effettivamente il peso delle regioni adriatiche lo si può cogliere con immediatezza dal catalogo della mostra. Una delle vetrine mostrava «una vasta documentazione dell’irredentismo»228. In alcuni casi la prassi espositiva ricordava il culto cattolico delle reliquie: si mostra­ vano parti del patibolo e pezzi della corda con cui era stato impiccato Nazario Sauro, un tavolo del vaporetto Isotta che

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una notte dell’aprile 1915 lo aveva portato in Italia, e infine la giacca con cui era stato sepolto229. Un altro «simbolo dello stretto collegamento tra Risorgimento, Grande guerra e fascismo» era la cravatta nera di Pietro Fortu­ nato Calvi. Quest’ultimo, comandante di una truppa di volontari veneziani che nel 1848 si era unita alla popolazione locale del Cadore per combattere gli austriaci e i cui ufficiali indossavano come segno distintivo una cravatta nera, era stato catturato dal­ le truppe dell’imperatore e giustiziato250. Il tenente colonnello Giuseppe Bassi, fondatore degli arditi, aveva adottato anch’egli la cravatta nera, da cui era derivata la camicia nera della truppa di élite che nel 1920 fu ripresa dai fascisti231. A Caporetto e altri luoghi la mostra accennava molto di sfuggita. Immerse in una luce alquanto irreale erano invece la «notte di Ronchi», l’impresa di D ’Annunzio a Fiume e la pro­ blematica dei confini: La parete di sinistra è dedicata alla notte di Ronchi: sul bleu notturno del fondo è tracciato tutto il profilo dell’Adriatico, dominato dalla fanta­ stica apparizione del leone di San Marco, minaccioso e terribile: simbolo secolare e potente del diritto italiano sulle sponde orientali. L’ingiusto confine è segnato con una saetta rossa, a dare l’idea della transitorietà. In basso alcuni fotomosaici dei legionari di Ronchi in marcia, completano la documentazione232.

L’insistenza della propaganda irredentista e fascista sulla «notte di Ronchi» ricorda un motivo cristiano: la notte del Getsemani. Sul «bleu notturno dello sfondo» compare, al posto di Gerusalemme con il tempio come in tante rappresentazioni, l’Adriatico. E que­ st’ultimo, come Gerusalemme, simboleggia l’utopia, in quanto mare interno italiano, in un’ottica dannunziano-fascista. Il nesso tra le riproduzioni dei leoni di San Marco e la marcia su Fiume veniva così chiarito nel catalogo: «La decorazione è ispirata al discorso La riscossa dei leoni pronunciato da Gabriele D’Annunzio il 15 giugno 1920, allorché Venezia mandò in dono a Fiume un leone di San Marco»233. Seguiva l’elencazione dei principali leoni rappresentati. A questo punto si registrava una frattura formale e di con­ tenuto, che agli organizzatori sembrava assolutamente necessa­ ria, nonostante tutti gli sforzi per sottolineare la continuità tra irredentismo e fascismo. Al riguardo nel catalogo della mostra si legge:

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Attraverso una porta - i cui vani sono riempiti dalla riproduzione dei Leoni veneti della Dalmazia, segni e prove della luminosa italianità di quelle terre, alcuni dei quali, opere antiche di sommo valore, hanno subito l’oltraggio vandalico dei barbari - si entra nella sala M, dedicata alle azioni fasciste per la risoluzione e sistemazione della questione fiumana e della definitiva annessione. L’artista ha voluto che questo ambiente si staccasse dall’intonazione lirica e fantastica del precedente, a segnare la nuova volontà italiana, antiretorica, fascista234.

In ultima analisi si faceva capire a D’Annunzio e ai suoi seguaci che i segni, i simboli, le formule e i rituali del loro movimento che il fascismo non aveva potuto immediatamente far propri - come i leoni, con cui si identificava anche l’Italia di Mussolini - si collocavano nell’ambito della retorica, dell’irrealtà e della fantasia. Una volta tracciata questa demarcazione il regime poteva continuare imperterrito a inventare rituali e simboli che avevano il vantaggio di essere italiani, mussoliniani e «fascisti» in senso stretto, e che pertanto nessuno più avrebbe associato a D’An­ nunzio, Mazzini, Garibaldi o ad altre personalità che il fascismo annoverava sì tra i propri precursori, ma verso cui intendeva mantenere le necessarie distanze. Troppo grande era ancora il numero di coloro che accettavano e propugnavano con veemenza il patriottismo e l’irredentismo, ma che davano risposte diverse da quelle del movimento del duce alla questione sociale (sinda­ calismo) o alla questione istituzionale (repubblica). Si coglieva qui uno dei pochi punti di frattura tra fascismo e «italianità» che ancora sopravvivevano negli anni Trenta; ma gli organizzatori collocavano frettolosamente in una sala successiva tutto ciò che da tale punto di vista poteva avere un effetto stridente. L’apice della mostra non erano i leoni di San Marco, che pure, nella loro sovrabbondanza, raggiungevano lo scopo di colpire il visitatore e persuaderlo dell’italianità della Dalmazia. L’esposizione culminava invece in una sala intitolata al «sacrario dei martiri». Qui il culto fascista dei defunti toccava, come a Redipuglia, uno dei suoi punti più alti235. Nel catalogo si legge al riguardo: Alla tacita evocazione dei vivi, ecco, nell’atmosfera azzurro-cupa del Sacrario, i martiri rispondere: «Presente». Sono mille e mille voci, rap­ prese nel chiarore della luce che ripete infinitamente la parola di coloro che gettarono la vita al di là della mèta ed ora guidano il cammino delle legioni instancabili. Lungo le pareti, in basso, disposti come battaglioni in marcia, ecco i gagliardetti delle squadre in azione. Ognuno porta il nome di un Caduto236.

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La croce dedicata alla «Patria immortale» appesa al soffitto della sala, e soprattutto le migliaia di scritte «Presente» che spic­ cavano sulle pareti collegavano il «sacrario dei martiri» al cimitero degli eroi di Redipuglia. Così come esistevano i «parchi della rimembranza» dedicati ai soldati caduti nella guerra mondiale e ai fascisti rimasti vittima di scontri di piazza, il regime voleva creare dei «santuari» per i condottieri della Grande guerra e per le camicie nere che negli anni precedenti la marcia su Roma avevano sacrificato la vita per il partito237. L’azzurro adriatico-dalmata salta agli occhi anche nel «sacra­ rio»: negli espositori è scomparso qualsiasi timore di «esibizioni­ smo mistico»238. Nella memoria dei visitatori l’impressione ottica e acustica sembra essersi registrata più profondamente che in qualsiasi altra sala239. Così uno di loro ne rievocava l’atmosfera dieci anni dopo: il ricordo di questo sacrario non è scomparso: i nomi dei martiri sfavillavano nella sua atmosfera di intenso misticismo, incisi a lettere di fuoco su una stella nel mezzo di una selva di bandiere, di stendardi di gesta eroiche. Il pathos era reso più intenso dalla penombra e dalle note attutite dell’inno di partito Giovinezza in sottofondo240.

Nel dicembre del 1937 il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano celebrò come uno dei suoi maggiori trionfi la disponibilità del capo del governo jugoslavo Milan Stojadinovic a deporre una corona in onore dei «martiri della Rivoluzione fascista»241. All’epoca il «sacrario dei martiri» non esisteva più: era stato smantellato durante i lavori di preparazione per la riapertura della Mostra, avvenuta il 23 settembre 1937242. Mussolini inoltre, nell’ambito della revisione del programma espositivo aveva dato istruzioni di «limitare» «la parte riguardante l’intervento e la guerra», e di «spingersi fino alla creazione dell’impero» coloniale in Africa orientale243. La spinta espansionistica dell’Italia fascista aveva trovato altri obiettivi, e l’esibizione ostentata dell’irredentismo adriatico non era più di attualità. Al ricordo della Serenissima si sostituiva la riscoperta dell’antichità romana. L’occasione della ristrutturazione era stata la Mostra augustea della romanità, la grande esposizione su Augusto la cui inaugurazione aveva dato al regime l’opportunità di sottolineare doppiamente la continuità del fascismo con l’antichità romana: la Mostra della rivoluzione fascista fu riaperta infatti lo stesso giorno in cui venne inaugurato l’evento su Augusto244.

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Tra le due guerre nelle regioni adriatiche nord-orientali la pro­ duzione d’immagini fu particolarmente abbondante. Il linguaggio dei protagonisti storici, degli irredentisti italiani, degli esponenti politici delle nazionalità slave, dei fascisti, degli emigranti e dei combattenti per la liberazione era ricca di immagini. Essa era parte di un discorso nazionale che si distaccava dalle metafore e dalla retorica internazionalista della cultura operaia, dei socialisti e dei comunisti. Il linguaggio ritualisti«) faceva continuo riferimento a luoghi e persone simbolici noti ai protagonisti del conflitto etnico-nazionale nella regione e si serviva sia di elementi urbanistici o geografici sia di eroi nazionali. Sebbene in linea di principio sia difficile misurare il valore simbolico di una casa o di un ponte, esso era comunque su­ periore al mero valore d’uso, e cresceva ulteriormente se l’oggetto veniva profanato, dissacrato, rimosso o distrutto. Nelle intenzioni del «vandalo», del «barbaro» o comunque del danneggiatore la distruzione si riferiva di solito al valore d’uso, ma ne accresceva a dismisura l’importanza simbolica. Spesso gli attori entravano in un circuito di consacrazione-profanazione/distruzione-riconsacrazione; i simboli etnici e nazionali acquisivano un carattere quasi-religioso, diventavano misteri che si rivelavano solo ai membri di una determinata comunità. Ma, soprattutto, elementi apparentemente privi di attinenza reciproca erano messi in collegamento mediante discorsi simbolici; ne è un esempio il mito del Vidovdan, che dopo il 1918 venne rivisitato nei contesti più vari e alla fine del Novecento si sarebbe rivelato di nuovo aggiornabile. Gli eroi nazionali potevano seguire una propria via o riper­ correre le orme dei re medioevali. Essi optavano per un nuovo mondo simbolico e distruggevano le immagini, i segni e i rituali del mondo che avevano abbandonato. Erano pronti a sacrificare se stessi per la «libertà» e la «grandezza» della nazione. Dal punto di vista temporale, dalla profanazione alla «ricon­ sacrazione» (termine, quest’ultimo, che pur comparendo spesso nelle fonti non si trova in alcun dizionario tedesco o italiano recente) potevano trascorrere giorni (come nel caso del Krn), anni (come per i leoni di San Marco) o anche secoli (come per il confine orientale italiano). In ultima analisi, lo sforzo dei prota­ gonisti era sempre indirizzato a ripristinare un ordine «mitico» preesistente, indiscutibile e distrutto da vicini, nemici o intrusi. Per gli autori cristiani quest’ordine era voluto da Dio, per i laici

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Capitolo primo

era stato creato dalla mano dell’uomo «per sempre», ossia a lunga scadenza. A volte i protagonisti facevano un brusco cambiamento da una sfera all’altra: così la costituzione del Vidovdan teneva vivo nei cittadini del laico regno sloveno-croato-serbo il mito del Kosovo, così carico di motivi religiosi come la «difesa del cristianesimo contro l’IsIam». I confini erano luoghi simbolici per eccellenza: per qualcuno erano chiari segni di vittoria, ad altri ricordavano una sconfitta avvertita come onta. L’impossibilità di tracciare confini che fossero accettati da tutti gli abitanti della regione accresceva la spinta all’elaborazione simbolica del discorso sui confini. Il valore sim­ bolico della frontiera cresceva in proporzione alla sua longevità, e in alcuni casi aumentava se la linea di demarcazione era stata spo­ stata con la violenza. Le parti in conflitto facevano propaganda in favore di confini ideali; i confini reali venivano definiti «naturali» oppure stigmatizzati e trasformati in teatro di incidenti. Tra i segni particolari del nazionalismo c’era il ricordare costantemente al dirimpettaio, al vicino, all’altro, al nemico una umiliazione subita, mentre la propria sconfitta veniva rimossa (Caporetto) o trasfigurata in «eroico tramonto» (Kosovo polje). Immortalare la catastrofe cantandone gli eroi e sacralizzarla al tempo stesso come «sacrificio» non era la stessa cosa che alli­ neare in un punto strategicamente importante le ossa dei soldati e dei comandanti di un’armata ormai scomparsa ma comunque «invitta» affinché tornassero a «vegliare sul confine», ma tra le due cose non c’era nemmeno una enorme differenza. In entrambi i casi il procedimento serviva a immortalare la nazione armata dichiarandola invincibile. A volte immagini e rituali avevano un significato stravolto fino a trasformarsi in caricature agli occhi degli «altri». In altri casi l’immagine diventava una provocazione, non in sé ma in quanto ostentata da un partito nazionale. Gli irredentisti italiani, ad esempio, caricavano a tal punto di simbolismo la presenza dei leoni di San Marco da rendere difficile per i nazionalisti jugoslavi vedervi «solamente» delle opere d’arte. L’indignazione in Italia per la distruzione dei leoni non si riferiva soltanto allo scempio artistico, ma era al tempo stesso una reazione narcisistica all’offesa ricevuta. La profanazione era avvenuta al cospetto dell’opinione pubblica mondiale, cosa che doveva ferire in modo particolare un regime, come quello fascista, tanto sensibile in fatto di auto­ rappresentazione.

Capitolo secondo

Dante Alighieri contro Cirillo e Metodio. L’associazionismo e la mobilitazione nazionale (

1880- 1940)

Una delle più popolari leggende slovene, ambientata nel­ l’alta valle dell’Isonzo tra Trenta, Kobarid (Caporetto) e Bovec, ha come protagonista Zlatorog («Corno d’oro»), un camoscio che secondo la leggenda viveva in quella zona1. Un veneziano, che aveva trovato un pezzo di corno di Zlatorog, spezzatosi nell’urto contro una roccia, «ottenne con ciò il dominio di tutti i giacimenti d’oro, e per tutta la sua vita ogni anno portò fuori della caverna della Bogatina dei sacchi pieni d’oro spedendoli in Italia». Un giovane mercante di Venezia che passava per la valle diretto in Germania si invaghì della bella figlia di un oste e la corteggiò a lungo offrendole oro e monili, fino a far ingelosire il suo promesso sposo, che decise allora di andare per le montagne a caccia di Zlatorog, sperando in tal modo di diventare più ric­ co dei mercanti di Venezia. Tuttavia quando affrontò Zlatorog non riuscì a ucciderlo e morì precipitando in un burrone; poi il camoscio in collera devastò i pascoli di Trenta e scomparve con il proprio branco2. Nel febbraio del 1929, nel corso di una riunione dell’associa­ zione patriottica Slovenska straza, David Doktoric, un sacerdote di Gorizia rifugiatosi in Jugoslavia e divenuto un noto propagandista nazionale, raccontò una vicenda che probabilmente ricordava ai suoi ascoltatori la saga di Zlatorog. Era la storia di un soldato italiano che aveva fatto la corte a una giovane slovena facendole credere di essere un castellano; i genitori della ragazza vendettero tutti i propri averi per assicurare alla figlia nozze adeguate, ma si venne a sapere che il maniero di cui si era vantato l’italiano era disabitato, che egli ne era solamente l’amministratore e che non possedeva nemmeno un centesimo3. Nella leggenda e nella storia - vera o inventata che sia - dell’«operatore nazionale» sloveno, i ruoli etnici e di genere sono

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Capitolo secondo

distribuiti in modo analogo; entrambi i racconti esprimevano, come si può constatare, una esperienza valida da secoli: i vene­ ziani o gli italiani erano più ricchi degli slavi, e anche quando un italiano era povero approfittava della ricchezza degli altri per ingannare gli slavi (come il seduttore della ragazza slovena)4. Ciò che interessa maggiormente di questi due racconti non è tanto la loro «dottrina» o «morale» (per esempio che gli esseri umani, anche a causa della loro appartenenza etnica, non sono tutti ricchi allo stesso modo), quanto l’accostamento che stabi­ liscono tra l’Italia e Venezia, da una parte, e tra la Jugoslavia e i semplici («selvaggi») slavi del sud dei secoli precedenti, dall’altra: quest’accostamento nasce dalla totale esclusione della dimensione cronologica, mentre lo spazio sale in primo piano come elemento determinante. Si pone dunque la questione delle origini degli stereotipi che sia a ovest sia a est dell’Adriatico giocavano un ruolo sia per gli italiani sia per gli slavi del sud, suggerendo o addirittura imponendo una determinata immagine di sé e degli estranei. Varie voci - come quella di Wolfgang Schieder - sconsigliano di attribuire eccessiva importanza alle «immagini» che la popolazione di un paese ha degli abitanti di un altro paese: data la difficoltà di misurare l’effettiva influenza di immagini e stereotipi, si tratte­ rebbe in molti casi di costruzioni della storiografia5. D’altra parte è innegabile che simili immagini siano state ampiamente diffuse nei media: nella stampa, nella radio, nelle sale cinematografiche, e persino in campo architettonico e letterario. Il mondo delle associazioni, delle leghe e delle milizie fu tra i principali produttori di immagini e stereotipi etnici tra le due guerre mondiali: associazioni scolastiche e di tutela, organizza­ zioni irredentiste, leghe nazionaliste, società segrete e gruppi paramilitari erano molto diffusi nell’Europa centrale degli anni Venti. Pur non avendo contribuito prima del 1918 alla naziona­ lizzazione delle popolazioni nelle regioni di confine e nelle zone etnicamente miste dell’impero asburgico, queste realtà s’imposero come risposta al nuovo assetto di Versailles, che aveva lasciato dietro di sé innumerevoli ambizioni deluse e ferite aperte6. In base al modello temporale tripartito della mobilitazione na­ zionale elaborato da Miroslav Hroch, leghe, milizie e associazioni si collocano tra la fase dell’agitazione (fase B) e la fase di massa (fase C): alcune di esse vanno classificate piuttosto nella prima delle fasi citate, e altre nella seconda7. Esse erano tra i vettori

Dante Alighieri contro Cirillo e Metodio

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del discorso nazionale, insieme alle organizzazioni di volontari di guerra, veterani e reduci, studentesche e di assistenza, e alle società sportive e ricreative di ispirazione patriottica. Il loro compito principale era «la fondazione ideologica e l’ancoraggio mentale dell’idea di identità nazionale nella struttura della quoti­ dianità»8. I funzionari di queste associazioni, che si mantenevano grazie all’autofinanziamento, a donazioni o a erogazioni delle casse statali, corrispondevano perfettamente all’idealtipo dell’«architetto del nazionale». Essi erano in grado sia di distribuire fra i loro interlocutori più istruiti conoscenze scientifiche riguardanti la problematica nazionale a un livello relativamente elevato, sia di diffondere nella popolazione (rispettivamente chiamata narod o popolo) fiabe, leggende, stereotipi o pregiudizi che avevano il compito di assicurare una costante mobilitazione nazionale. La storia di alcune di queste associazioni è stata studiata in modo approfondito, mentre altre si presentano ancora alla storio­ grafia come territori nuovi e in gran parte inesplorati, la cui vastità risalta sia nel versante italiano sia in quello degli slavi del sud9. Secondo quanto afferma Janez Stergar, nel solo Banato della Drava, i cui confini coincidevano in gran parte con quelli dell’odierna Repubblica di Slovenia, nel 1934 erano registrate ufficialmente 811 «associazioni patriottiche e nazionali»10. Nell’amministrazione del Banato esisteva una sezione espressamente preposta al controllo di «statuti e attività» delle associazioni e a «gesti [re] in modo unitario l’organizzazione della propaganda di queste associazioni, in stretto raccordo con le autorità militari»11. Non è difficile individuare i motivi per cui, nelle regioni di confine ed etnicamente miste esistessero tante associazioni: dopo la «primavera dei popoli» del 1848 o al più tardi dopo il 1860, esse assunsero infatti il ruolo di agenzie di differenziazione na­ zionale. Secondo la definizione di Miroslav Hroch le associazioni esprimevano un «malcontento definibile in termini nazionali»12. Chi si considerava o si voleva considerare sloveno aderiva a un drustvoli; chi invece si sentiva rappresentato sotto l’ampio man­ tello dell’«italianità» si iscriveva a una «associazione», e chi infine era fermamente convinto di essere tedesco (o austriaco-tedesco) entrava a far parte di un Verein'4. Non sempre l’adesione a una determinata associazione equi­ valeva, per un individuo, a una professione di fede nazionale, giacché oltre alle simpatie nazionali potevano esistere molti altri motivi per partecipare alle attività di un club alpino o di un’as­

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sociazione di ginnastica: si poteva entrare a farne parte per via di rapporti informali, conoscenze personali, amicizia o vicinato. E nonostante ciò, prima o poi (al più tardi nei giorni delle feste o ricorrenze nazionali) finiva per porsi anche la questione della propria collocazione nazionale, della propria fede. Andrebbe approfondito se il «cambiamento di funzione del nazionalismo da ideologia di emancipazione e di opposizione a progetto gestito a livello governativo volto a disciplinare e concentrare»15, constatato in Germania da Reinhart Koselleck, coincida con evoluzioni analoghe, anche se maturate più tardi, in Italia e in Jugoslavia. Da parte italiana non c’è stato finora alcun tentativo di chiarire in che modo sia avvenuta, nell’ambi­ to dell’associazionismo patriottico, il passaggio dal tradizionale irredentismo e liberalnazionalismo al fascismo. La stessa questione si pone per la Jugoslavia della dittatura monarchica e dell’era Stojadinovic. E facile riscontrare un para­ dosso di cui si erano accorti già i contemporanei: mentre nell’Italia fascista associazioni estremamente attive sul piano propagandisti­ co, che a volte adottavano anche slogan marziali ma erano per lo più pacifiche, iscrivevano l’irredentismo sulle proprie bandiere, lo Stato sud-slavo, in qualche misura democratico fino al 1929, si vide incalzato da società segrete e organizzazioni paramilitari disposte a ricorrere a qualsiasi manipolazione della vita politica e a volte persino a metodi terroristici16. In terra jugoslava furono proprio alcuni acerrimi avversari del fascismo italiano a imitare le forme di azione delle camicie nere e a indulgere a un culto del capo simile a quello del movimento mussoliniano. 1. In Italia 1.1. Una «società benemerita» La Lega nazionale succedette alla società Pro Patria, fondata nel 1885 a Rovereto, in Trentino, e cinque anni dopo messa al bando in territorio austriaco17. Essa si diffuse rapidamente in Trentino e sulla costa adriatica, le regioni a popolazione italiana della monarchia asburgica. Nello statuto del 1908 si legge che essa intendeva «promuovere l’amore e lo studio della lingua italiana e soprattutto l’istituzione e il mantenimento di scuole italiane entro i confini dellTmpero, in luoghi di popolazione

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mista, specialmente sul confine linguistico»18. Il suo primo inno ufficiale iniziava con il verso: «Viva Dante, el gran maestro / de l’italica favela»19. Articolata dunque in una sezione trentina e in una adriatica, di cui facevano parte le associazioni locali in Dalmazia, dotate di una certa autonomia20, la Lega nazionale è stata definita da Anna Millo «la più finanziariamente potente e la meglio ramificata delle numerose società liberali a fini di propaganda nazionale istituite tra gli anni Ottanta e Novanta allo scopo di penetrare tra strati sociali fino ad allora esclusi dalla lotta politica»21; il suo gruppo triestino, che nel 1912 contava già 11.569 iscritti, costituiva, insieme alla Società Ginnastica Triestina e alla Società Alpina delle Giulie, «la triade più possente dell’ir­ redentismo delle Venezie»22. Claus Gatterer traccia un quadro imponente delle attività della Lega: All’inizio della guerra la Lega disponeva di 96 fra scuole elementari e asili d’infanzia (in maggior parte lungo il litorale), 370 biblioteche sociali, tre case di riposo, circa 60 corsi serali o domenicali fissi per l’istruzione degli adulti e anche di 36 bande musicali; inoltre assegnava più di 200 borse di studio23.

In Istria, dove il conflitto tra nazionalità assunse forme a volte drammatiche, la Lega aveva dieci scuole in territorio esclusivamente slavo e tre al confine tra l’area a popolazione italiana e quella sloveno-croata24; nel 1912 essa vantava 1.550 iscritti tra i quasi 60 mila abitanti della città di Pola (ivi compresi i villaggi del circondario) e nella minuscola Pisino (in Istria centrale) più di 40025. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia, la Lega nazionale fu sciolta dalle autorità austriache; all’epoca contava, in Dalmazia, oltre 15 associazioni locali e numerose scuole che annoveravano 45 insegnanti e 1.400 allievi26. In una nostalgica rievocazione della Lega nazionale in epoca asburgica si legge che prima della guerra i rapporti sull’attività dell’organizzazione venivano letti «come si legge i bollettini di uno Stato maggiore: ogni nuovo Asilo od ogni nuova scuola aperta era salutato come un atto di guerra vittoriosa implicante un passo innanzi nella marcia per la riconquista linguistica delle terre che i nostri avevano dovuto abbandonare alla invasione straniera»27. G.A. Chiurco, autore di una ufficiosa Storia della rivoluzione fascista pubblicata nel 1929, descrive l’«opera paziente, quotidia­ na, infaticabile, ma consapevolmente mantenuta nei limiti della legalità» della Lega nazionale, aggiungendo: «non si insegnava

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ad odiare slavi o tedeschi nelle scuole della Lega; s’insegnava ad essere appassionatamente italiani, ad amare la lingua italiana, l’arte italiana»28. Per parte sua il vescovo triestino Alois Fogar (1882-1971), di famiglia italo-friulana, ricordava invece di aver frequentato una scuola elementare della Lega, nella quale dare un ceffone a un piccolo slavo non era considerato una cattiva azione29. Il prefetto di Trieste scriveva nel 1931: «La Lega nazionale, sotto la dominazione austriaca, fu il più potente strumento di difesa e di propaganda, di affermazione dello spirito italiano e di tutela linguistica che mai sorgesse nelle provincie irredente»30. Quali conseguenze ebbe per l’attività di quest’organizzazione l’occupazione italiana del litorale ex asburgico? Nell’area adriatica (ad esclusione della Dalmazia) nell’aprile del 1919 la Lega aveva ancora oltre 23 scuole, 17 asili e tre «ricreatori». L’amministrazione provinciale aveva riaperto alcune scuole già durante la guerra; nei primi mesi dopo la fine delle ostilità ripresero a funzionare soltanto le mense nei quartieri triestini di San Giacomo e di Ser­ vóla e, in quest’ultimo quartiere, anche l’asilo. Il patrimonio della Lega alla vigilia della guerra mondiale aveva raggiunto un valore di 769.347,03 corone. In Friuli, dopo il 1915, le azioni belliche avevano distrutto molti edifici scolastici, e anche le scuole utilizzate per acquartierare l’esercito austriaco avevano bisogno di ripara­ zioni. In Istria, invece, gli unici impedimenti alla riapertura degli istituti erano di tipo formale, burocratico. La Lega avrebbe dovuto trasferire le scuole a comuni e province in quanto non aveva una situazione finanziaria tale da poterle gestire ancora: era rimasta infatti priva di risorse dopo che i suoi beni erano stati devoluti per contribuire ai prestiti di guerra austriaci, e il ricalcolo del loro valore nel dopoguerra non era ancora avvenuto. Nell’eventualità che l’amministrazione militare ritenesse di affidarle il compito di riaprire le proprie scuole, l’associazione chiese la concessione di un credito di 100 mila corone (40 mila lire) per finanziare questa eventuale operazione. Il governatore militare trasmise ài Coman­ do supremo la richiesta di fondi, sottolineando la necessità che le scuole della Lega riaprissero al più presto, e aggiungendo che essa aveva insegnanti in numero sufficiente per far fronte ai suoi compiti. Anche se la Lega era disposta a cedere le proprie scuole alla Società Dante Alighieri, per il periodo dell’armistizio il gover­ natore raccomandava di non modificare la situazione esistente. La Lega nazionale ottenne particolare attenzione durante la visita del re nel maggio del 1922: mentre infatti Vittorio Ema­

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nuele III rese omaggio ai caduti della Grande guerra davanti alla cattedrale di San Giusto, la regina visitò una mensa della Lega nel quartiere operaio di San Giacomo31. Anche dopo la guerra la Lega continuò a professare la «pacifica assimilazione delle popolazioni allogene nelle terre lungo il confine della Patria»; dal giugno del 1923 in poi essa disponeva di 14 nuovi asili «in paesi mistilingue o affatto alloglotti»32. Particolarmente conflittuale fu la posizione che assunse a Pola collocando i propri asili, all’inizio del 1925, proprio nell’ex Narodni dom croato, dove si trovavano anche gli uffici del Pnf33. Il bilancio della Lega nazionale si rivelò un pozzo senza fondo: nel maggio 1925, in una lettera al ministero degli Interni, il sena­ tore Alessandro Lustig dichiarava che l’associazione aveva bisogno di altre 600 mila lire, di cui 400 mila per mantenere invariate le proprie attività e 200 mila per svilupparle ulteriormente. Per la prima volta emergeva anche la questione della collaborazione con le altre associazioni e opere nazionali. La Dante Alighieri, si leggeva nella lettera, aveva cessato l’attività nelle zone costiere; a questo punto era opportuno che l’Opera nazionale Italia redenta si unisse alla Lega, visto che entrambe operavano nella stessa area34. In un’altra lettera del maggio del 1925 Lustig presentò ai propri asili il piano di una «politica di assimilazione integrale» che avrebbe dovuto accompagnare bambini e adolescenti fino al momento del servizio militare35. Nello stesso mese, nella lettera d’accompagnamento a un nuovo budget, si affermava che, «in particolare con riguardo all’elemento etnico di confine la missione della Lega Nazionale» era «tutt’altro che esaurita»36. Nella seconda metà degli anni Venti il Pnf fece pressioni sempre più forti sulle tradizionali organizzazioni irredentiste, finendo per costringerne alcune a sciogliersi. Per un’associazione scolastica liberalnazionale non c’era più posto; la Lega nazionale dovette cedere gran parte delle sue strutture triestine all’Opera nazionale balilla37; gli asili in Venezia Giulia furono rilevati dalla Opera nazionale di assistenza all’Italia redenta (Onair)38. Come si leggeva in una relazione del prefetto di Trieste: Di questi giorni è stato stipulato e firmato il contratto in forza del quale tutto il patrimonio scolastico, le scuole materne, i ricreatori, i doposcuola e così via della Lega Nazionale, situati nella regione giulia, passano all’Italia Redenta che [...] sarà la continuatrice vigile e benefica della grandiosa opera di propaganda nazionale, svolta dalla Lega ai confini d’Italia per circa mezzo secolo di attività, non sempre scevra di pericoli e di persecuzioni nemiche39.

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Dopo averne cantato tanto sperticatamente le lodi, il prefetto proponeva di conferire alla Lega nazionale la «medaglia d’oro per benemerenze nazionali»: proposta che il ministero dell’Educazione nazionale e l’ufficio della Presidenza del consiglio accolsero prontamente40. Dopo questo elogio funebre con decorazione postuma, la Lega potè proseguire il proprio lavoro in Dalmazia, dove rinunciò al proprio nome tanto ricco di tradizione, ribat­ tezzandosi Lega culturale41. Nel corso della Grande guerra anche la Società Dante Ali­ ghieri, che in origine operava soltanto all’estero, volse la propria attenzione verso i territori che sarebbero poi diventati «le nuove province». Mentre i combattimenti erano ancora in corso essa, in collaborazione con l’organizzazione nazionale degli insegnanti, si era messa a distribuire di propria iniziativa, senza chiedere l’auto­ rizzazione alle istanze governative competenti, nuovi libri di testo nelle scuole statali dei territori occupati dall’Italia. Con altrettanto fervore, nella primavera del 1917, iniziò a prepararsi alla forma­ zione di insegnanti scolastici per le nuove province, ricevendo a tal fine un finanziamento di 200 mila lire da un fiorente istituto di credito, la Cassa di risparmio delle provincie lombarde42. Presso l’archivio del Verband fur das Deutschtum im Ausland (Vda) si conserva un foglio informativo sulla «National-Gesellschaft Dante Alighieri»43, fondata nel 1889 come «associazione panitaliana per la tutela della italianità»44. All’inizio degli anni Venti la Dante Alighieri disponeva di 230 comitati locali in Italia e 70 all’estero; i suoi iscritti erano ormai più di 60 mila45. In una lettera a Mussolini del maggio 1931 Paolo Boselli, presidente della Dante Alighieri, indicava in 12 mila il numero dei soci e in 250 mila quello degli iscritti presso le scuole elementari: l’as­ sociazione contava inoltre 50 mila tra scolari e studenti46. Per il 1939 Claus Gatterer indica in 40 mila i soci ordinari e in 13 mila i soci vitalizi, cui si aggiungevano 246 mila studenti universitari e 566 mila nelle scuole47. L’anno 1920 - anno in cui la Dante Alighieri tenne il proprio congresso nella «città redenta» di Trieste - fu una sorta di «spar­ tiacque» (come ha scritto Beatrice Pisa) tra i conflitti irredentisti del passato e un nuovo accento politico che nell’arco di qualche anno avrebbe collocato l’organizzazione a fianco del fascismo. Nel primo periodo l’immagine dell’organizzazione era stata in­ fatti condizionata dalla figura del presidente Pasquale Villari, e al suo interno erano prevalse le influenze filantropiche, pacifiste

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e massoniche. La Guerra di Libia e la campagna interventista che condusse all’ingresso dell’Italia nella Grande guerra videro invece la Società Dante Alighieri schierarsi a fianco di coloro che chiedevano il conflitto: di lì era ormai breve il passo per la riforma di statuto del 1920, che avrebbe facilitato l’awicinamento al fascismo48. Secondo Beatrice Pisa e Patrizia Salvetti, l’immagine della nazione italiana sostenuta dalla Dante Alighieri era «elaborata da una élite nutrita di cultura classica, con scarsi contatti con la realtà sociale nel paese e nelle realtà di emigrazione all’estero»: il suo gruppo dirigente doveva ancora scegliere tra l’«eredità risorgimentale» e il «nuovo mito di una nazione forte e aggres­ siva»49. Tra la Dante Alighieri e le «città redente» - in primo luogo Trieste - esisteva una sorta di rapporto sentimentale che si espresse nello scambio di telegrammi d’auguri nelle settimane dopo l’armistizio del 191850. Dopo la presa di potere fascista la Dante Alighieri accolse la politica governativa con toni moderati, almeno inizialmente; tuttavia meno di un anno dopo la marcia su Roma, parallelamente alla politica statale di snazionalizza­ zione, le associazioni scolastiche nazionaliste si confrontarono sulla nuova divisione dei ruoli. Nel settembre del 1923 la Dante Alighieri decise quindi, al congresso di Padova, di collaborare più strettamente con la Lega nazionale e con l’Opera nazionale di assistenza all’Italia redenta. In tale contesto la Lega nazionale doveva rilevare Inattività di insegnamento fuori delle scuole, e occuparsi in particolare di asili e colonie»; alla Dante toccava invece «diffondere la cultura italiana attraverso donazioni di libri e altri stampati, completando l’opera del governo nelle scuole primarie, e in particolare nelle periferie dei territori di lingua straniera o mista»51. Non ci si poteva però nascondere che alla fine della guerra l’irredentismo aveva attraversato una crisi che costringeva molte realtà a esso ispirate a riorientarsi: il fenomeno era tutt’uno con i sintomi di disgregazione del liberalismo nazionale che, in quanto «religione della nazionalità» (Claudio Silvestri), aveva perso gran parte della propria funzione52. Come scriveva la rivista fascista «Gerarchia», «con l’Italia al Brennero e al Nevoso» l’irreden­ tismo aveva perso parte della sua urgenza, ma aveva ancora il compito «della riconquista lenta e tenace di tutti questi elementi delle provincie redente, nei quali secoli di straniera dominazione avevano oscurato spirito e pensiero italiano»53. Andava in questa

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direzione l’attività della Dante Alighieri che, insieme ad altre organizzazioni del campo irredentista nazionalista, intensificò dopo la fine della guerra l’invio di libri in Venezia Giulia54. Sulla ridefinizione dei compiti di tutti i gruppi irredentisti si soffermava anche il quotidiano sloveno «Edinost», commentando le notizie giornalistiche su una possibile riapertura delle scuole appartenute prima della guerra alla Lega nazionale, e chieden­ dosi se dopo Rapallo esse fossero ancora necessarie, visto che gli italiani avevano ormai conquistato il diritto a un pieno sviluppo culturale: in precedenza, infatti, le scuole servivano a tutelarli dalla snazionalizzazione dovuta all’esistenza di scuole non italiane. Tutt’altro compito era secondo la stessa «Edinost» italianizzare i giovani sloveni e croati dei villaggi completamente slavi: poiché con Rapallo il primo compito della Lega era ormai stato superato, rimaneva solamente il secondo. L’articolo si concludeva con un monito: «All’erta dunque, genitori slavi!»55. Il cambiamento di statuto del 1920, avvenuto non senza re­ sistenze interne, riguardò in particolare la clausola secondo cui la Dante Alighieri poteva operare solamente all’estero (art. 1). Esso confermava la legittimità delle iniziative che tale organizza­ zione portava avanti da parecchio tempo nelle «terre redente» e la preparava a svolgere nuove attività nella regione di frontiera. Il congresso della Dante Alighieri a Fiume, nel settembre del 1924, si svolse interamente sotto il segno della simbologia na­ zionalista56. L’avvicinamento della Dante Alighieri al fascismo fu ac­ compagnato dalla rinuncia a difendere importanti elementi del proprio nucleo programmatico; essa non ebbe più il battagliero atteggiamento laico che aveva assunto in precedenza, ad esem­ pio nella controversia sui crocifissi nelle scuole, e si adeguò al regime, che lavorava per un compromesso con la Chiesa cat­ tolica. Nel corso degli anni Venti il fascismo ridusse lo spazio di manovra della Dante Alighieri, al cui esaurimento sia pro­ grammatico sia pratico contribuirono i più filofascisti tra i soci, come Eugenio Coselschi e Enrico Scodnik; inoltre, dopo il 1929, entrarono nel direttivo ex nazionalisti e fascisti come Roberto Forges Davanzati e Dino Alfieri57. Parallelamente, la politica culturale fascista occupava sempre più gli spazi che erano stati fino allora suoi, e in questa linea di sviluppo rientrano provve­ dimenti come la fondazione dei Fasci e degli Istituti italiani di cultura all’estero58.

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Negli anni Trenta le modalità di funzionamento della Dante Alighieri somigliavano ormai a quelle delle organizzazioni fasciste di massa; essa era presente persino nei più piccoli centri e villaggi della provincia di Trieste. In alcuni luoghi ne facevano parte più donne che uomini, il che indica una forte presenza di insegnanti59. Nell’agosto del 1937 in una lettera al Provveditorato scolastico di Trieste si affermava che la Dante aveva raccolto attorno a sé un nucleo di insegnanti «in ogni scuola»60. Nei villaggi del Carso essa assegnava «borse-premio agli alunni allogeni che maggiormente si sono distinti [...] nell’apprendimento della lingua italiana». I presidi, cui toccava designare i candidati a tali premi, erano tenuti a verificare che essi fossero iscritti a una organizzazione giovanile fascista e provenissero da famiglie «di sentimenti schiettamente italiani»61. Nel caso delle fanciulle si poteva tener conto anche del fatto che fossero di «famiglia numerosa e povera»62. Nella solenne premiazione era obbligatorio indossare l’uniforme fascista; inoltre la «Presidenza della benemerita Società Dante Alighieri» esprimeva l’«auspicio» che gli alunni depositassero il premio su un libretto di risparmio63. L’ambasciatrice della «italianità» nel mondo si era così trasformata, sotto il regime mussoliniano, in una gretta agenzia per la italianizzazione dei villaggi del Carso e di altre zone «allogene»; ai ragazzini premiati e ai loro geni­ tori essa non lasciava più nemmeno la libertà di scegliere come utilizzare il premio. 1.2. «Il fascismo per il popolo» Il processo di accentramento e di fascistizzazione dell’intera sfera della socialità e del tempo libero appare particolarmente evidente nel caso dell’Opera nazionale dopolavoro, la cui diffu­ sione costituì un modello di riferimento in altri paesi, cosa di cui il regime mussoliniano non mancò di farsi vanto: per questo in studi recenti la Ond viene giustamente definita la principale organizzazione del fascismo64. Ci si chiederà perché menzionare la Ond in questa sede. Essa in effetti non aveva come proprio principale oggetto la problema­ tica dei confini, né era particolarmente presente in Venezia Giulia. Inoltre contava un numero di iscritti superiore a quello del Pnf e delle organizzazioni femminili e giovanili, ma nettamente inferiore a quello dei sindacati fascisti65. Tuttavia l’Ond aveva un’importanza

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specifica nella politica fascista di snazionalizzazione: importanza che non sfuggiva nemmeno ai politici della minoranza slovena. Uno dei suoi grandi punti di forza era proprio la penetrazione capillare in tutti i territori del regno, anche i più periferici, fino ai più piccoli villaggi dove non esisteva né un gruppo locale del Pnf, né una qualsiasi altra organizzazione fascista66. Il Dopolavoro, posto sotto il controllo del ministero delPEconomia, era nato dai «circoli per l’elevazione dei lavoratori» fondati negli anni 1923-24 dai sindacalisti fascisti. In occasione del decennale dell’Ond un autore vicino al regime scrisse, non senza ingenuità, che Mussolini, «dopo la Marcia su Roma e la conquista totalitaria del potere», aveva voluto risolvere il problema «dell’impiego delle “ore di ricreazione” del popolo italiano» e lo aveva fatto, il Io maggio 1925, con l’Opera nazionale dopolavoro67. Ricreazione, cultura, intrattenimento, sport, cinema, vita sociale, letteratura, arti figurative, folklore, biblioteche, lingue straniere erano, in ordine sparso, i temi e le aree su cui operava l’Ond68. Una pubblicazione vicina al Pnf sottolineava il «carattere strettamente fascista» dell’organizzazione, che si ispirava ai «principi nazionali dell’educazione e dell’elevamento spirituale del popolo»69. Tuttavia agli occhi delle élite intellettuali del paese la «cultura dopolavo­ ristica» appariva una cultura di massa di rango inferiore portata in scena dal regime70. Ciò non poteva sorprendere alla luce della enorme diffusione dell’Ond, che era ormai divenuta un vero e proprio movimento; il numero dei suoi iscritti salì dai 280.584 della fondazione ai 2.108.227 di dieci anni dopo71. In tutta Italia l’Opera nazionale dopolavoro rimpiazzò le strutture ricreative del movimento operaio, le Case del popolo e le società di mutuo soccorso, i circoli sportivi operai, le bande musicali e i cori proletari; spesso rilevò direttamente le strutture abbandonate da questi gruppi (ad esempio, la sede centrale della Ond si trovava nell’edificio della Camera del Lavoro di Roma). E nella Venezia Giulia e in Alto Adige essa ebbe anche il compito di riempire il vuoto creato dal divieto di associazioni, organizzazioni e club slavi e tedeschi72: gli organizzatori della Ond cercarono sempre di sostituirsi alle strutture slovene preesistenti, che si trattasse di una sala di lettura o di un gruppo ginnico affiliato al Sokol, di un circolo culturale giovanile o di una associazione ricreativa contadina dei cristiano-sociali; ad alcune di esse le autorità ordinarono perentoriamente di confluire nell’Ond, pena l’immediato scioglimento73.

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I segretari delle organizzazioni provinciali fasciste, i cosiddetti «federali», deliberarono nel giugno del 1927 la diffusione dell’Opera nazionale dopolavoro in tutti i villaggi delle province di confine. Quasi due anni dopo Emilio Grazioli, federale di Trieste e poi commissario civile della «provincia di Lubiana» negli anni 1941-1943, dichiarò che i fascisti avrebbero dovuto tener conto soprattutto dell’«aspetto nazionale» della questione del tempo libero74. A quanto pare i funzionari fascisti fecero seguire alle parole i fatti: nel 1930, in una relazione del federale di Trieste Perusino a Mussolini, si affermava che nel corso di un anno il locale Dopolavoro aveva raddoppiato i propri iscritti e che le proprie iniziative, soprattutto le gare sportive (canoa, nuoto, sport alpini) e le escursioni erano molto frequentate75. Un po’ meno ottimista appariva il federale di Gorizia, secondo cui il Dopola­ voro funzionava bene, ma l’attività in provincia doveva affrontare delle inevitabili difficoltà; le sezioni sportive dell’organizzazione erano particolarmente adatte a fungere da veicolo di diffusione del patrimonio ideale fascista tra gli «alloglotti»76. A dieci anni dalla nascita il Dopolavoro nella provincia di Trieste contava già oltre 36 mila iscritti; gruppi erano sorti nelle principali imprese triestine, nella marina mercantile, nei cantieri navali, nell’industria dell’abbigliamento e nei pastifici. Quando, nel settembre del 1938, Mussolini visitò la città adriatica, secondo l’agenzia di stampa Stefani nel solo cantiere navale di San Marco erano presenti ad accoglierlo 6 mila dopolavoristi77. All’incirca in quello stesso anno il Dopolavoro di Trieste iniziò a sviluppare anche una propria rete editoriale, in cui avevano un ruolo di pri­ mo piano l’associazione provinciale e diverse organizzazioni della cantieristica e della marineria78. Furono questi fogli a pubblicare spesso, negli anni della guerra, foto e necrologi degli «eroi» caduti al fronte79. Una rete di strutture dell’Ond si diffuse inoltre nei villaggi del Carso; nei locali, spesso dotati di radio, si esibivano bande musi­ cali e gruppi teatrali o si riunivano associazioni escursionistiche. Tuttavia qui si apre un notevole divario tra quanto si legge nelle relazioni ufficiali della Ond e i dati forniti da Lavo Cermelj nei rapporti sulla situazione al Congresso delle nazionalità80. Nonostante la sua identità fascista l’Ond era senza dubbio la «più aperta» delle organizzazioni che appoggiavano il regi­ me: persino i comunisti italiani seppero puntualmente avvalersi delle strutture del Dopolavoro81. Dal rapporto sulle attività del

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Dopolavoro triestino pubblicato in occasione del decennale dell’Ond si evince che i membri dell’organizzazione locale ama­ vano particolarmente i viaggi e che la loro principale attività era l’«escursionismo»; quasi 60 mila persone presero parte alle escursioni e ai viaggi ferroviari e marittimi organizzati dall’Ond, che avevano come mete gli immediati dintorni, Villach e Klagenfurt, e persino l’Egeo o il mar Nero82. Un altro punto cardinale dell’organizzazione era l’istruzione popolare: già prima della marcia su Roma i fascisti avevano distrut­ to le biblioteche degli sloveni, la Slavjanska citalnica nella Casa del popolo di Trieste e la biblioteca dell’associazione culturale Ljudski oder85. Come altrove le associazioni sportive e ricreative, l’Ond tentò di rilevare l’eredità delle sale di lettura e delle biblioteche slovene: il 1° aprile 1929 la città di Trieste affidò all’Ond la ge­ stione delle «biblioteche popolari» comunali, che possedevano in totale oltre 7 mila libri84. Nel 1935 la biblioteca del Dopolavoro della provincia di Trieste aveva circa 15 mila volumi: un nume­ ro elevato rispetto ai 629 volumi distribuiti e consultabili nelle 18 piccole biblioteche dei villaggi carsici85. Da questi numeri si desume che nel Carso il Dopolavoro non era affatto in grado di rivaleggiare con l’editoria e le biblioteche slovene86. Dati dettagliati provenienti da una relazione del soprintendente alle biblioteche al ministero dell’Educazione nazionale fanno ritenere che al di fuori di Trieste le uniche biblioteche dell’Ond di qualche rilievo si trovassero soltanto a Monfalcone (1.500 volumi) e ad Auresina (2 mila volumi)87. Evidentemente anche i membri sloveni dell’Ond e delle altre organizzazioni di massa del regime mostravano scarso interesse per la letteratura italiana che esse proponevano. Le biblioteche del Dopolavoro dispiegavano una certa attività in quelle realtà in cui costituivano l’unica struttura pubblica - a parte le biblioteche scolastiche - dove si potessero prendere in prestito libri. La reale forza delle organizzazioni dell’Ond nell’entroterra di Trieste sembra però rimanesse molto al di sotto degli ambiziosi scopi che ci si era prefissi: l’insuccesso della politica di snazionalizzazione nel Carso sloveno fu dunque anche un insuccesso dell’Opera nazionale dopolavoro88. In Istria negli anni Trenta essa cercò di raggiungere gruppi di popolazione ru­ rale non ancora conquistati al regime agendo di concerto a una serie di altre organizzazioni fasciste89: i Fasci femminili, l’Opera nazionale balilla, l’Opera nazionale maternità e infanzia e l’Ènte organizzazioni assistenziali. Queste organizzazioni nazionali, tutte

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rivolte alle donne e ai giovani, realizzavano feste come quella della «Befana fascista» e si occupavano della refezione scolastica dei bambini, ma in sostanza non riuscirono ad avere la meglio né sull’associazionismo controllato dai parroci cattolici, né sulla rete sociale della comunità di villaggio di stampo croato90. Un funzionario del ministero degli Interni italiano, esaminando la situazione in Istria, trasse spunto dalla pubblicazione di un nuovo giornale dell’esilio, indirizzato soprattutto ai giovani croati, per esprimere il seguente commento circa le possibilità delle orga­ nizzazioni di massa fasciste: Indubbiamente il giornale troverà viva simpatia fra gli ambienti giova­ nili dell’Istria, specialmente quella dei piccoli, remoti villaggi, in quanto è tuttora permeata di sentimenti di avversione alla sovranità italiana. Girare per questi villaggi dell’interno deH’Istria, poter avvicinare la gente senza sollevare diffidenza, è già sufficiente per ricavare l’impressione di questa ingrata affermazione. Benché inquadrati nelle organizzazioni del Partito e malgrado abbiano frequentato scuole italiane, anche i giovanissimi parlano l’italiano soltanto per necessità e per opportunità. Tra loro, per le strade, nelle osterie, nei balli domenicali, ovunque essi non parlano che il «croato istriano» che è un croato barbarizzato e che non potendo perciò definire questo loro linguaggio «lingua croata» viene definito semplicemente con la parola «noi parliamo lo slavo». [...] Non è affatto raro il caso di incontrare ragazzi che indossano la divisa dei balilla e pre-militari che ritornando dalle adunate parlano allegramente questo «slavo d’Istria»91.

Tali considerazioni suggeriscono di prendere in esame an­ che l’associazionismo jugoslavo, le cui origini erano del tutto differenti. 2. In Jugoslavia 2.1. Culto dei cetnici, etica di San Vito e terrorismo Nello Stato SHS la principale organizzazione nazionalista e irredentista inizialmente fu senz’altro Narodna odbrana (che significa «difesa nazionale»), fondata a Belgrado nel 1908 e vicina alla casa reale e agli ambienti militari; strumento delle varie società di ufficiali, e soprattutto della Mano Nera (Crna ruka in serbo-croato), Narodna odbrana fu accusata dal gover­ no austriaco di aver organizzato l’attentato di Sarajevo del 28 giugno 191492. Prima dello scoppio della Prima guerra mondiale

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l’organizzazione propugnò un programma grande-serbo, le cui ambizioni territoriali erano rivolte soprattutto verso la Macedonia e la Bosnia-Erzegovina; perciò essa armò anche alcune unità di miliziani (detti komitadzi) per la guerra partigiana in Macedonia, che lottarono su due fronti contro le forze armate turche e contro l’organizzazione rivoluzionaria macedone (Vmro), appoggiata dalla Bulgaria. Alla vigilia della Grande guerra l’orientamento grande-serbo delle organizzazioni segrete cedette sempre più il passo a un approccio jugoslavistico, propugnato soprattutto attraverso il quotidiano «Pijemont», vicino alla monarchia93. Nonostante queste correzioni di rotta, Narodna odbrana aveva contatti con gli ambienti serbo-nazionalisti dei cetnici, e subito dopo la Prima guerra mondiale fu capeggiata dal vojvoda cetnik Stepa Stepanovic. Particolarmente vistosi erano poi i rapporti di Narodna odbrana con le organizzazioni irredentiste e i gruppi di esuli giuliani di lingua slovena e croata94. I pochi dati disponibili sul seguito di Narodna obrana fanno pensare a una organizzazione estremanente elitaria, il cui ambito di influenza andava molto al di là del numero dei suoi membri: va anche considerato che si trattava di un gruppo cospirativo solo in parte legale. In un rapporto di polizia compilato a Fiume nel novembre 1927 si legge che contava in totale 500 membri e aveva le principali sedi a Spalato, Belgrado, Zagabria, Karlovac e Lubiana95. Nel gennaio del 1929 il prefetto di Fiume segnalò che l’organizzazione stava intensificando le proprie attività di propaganda e spionaggio nelle zone di confine con l’Italia, e che tale attività era «chiaramente separata dal governo, con cui aveva contatti solo attraverso gli ambienti militari»96. L’identità di Narodna obrana era decisamente panslavista e soprattutto jugoslavistica, tanto che ancora nel 1929 la sua rivista definiva la Russia «la nostra mistica madre»97. Pur senza mai dichiararlo, Narodna odbrana combinava nella propria struttura organizzativa e ideologica gli elementi tipici della società segreta balcanica con alcune caratteristiche del nazionalismo risorgi­ mentale. La domanda posta dalla rivista omonima - una delle questioni decisive per il futuro della Jugoslavia e della penisola balcanica - suonava così: «Che cosa sono i serbi, i croati, gli sloveni e i bulgari? Un’unica nazione? Oppure ognuno di questi popoli è una nazione a se stante?». La risposta, perfettamente in linea con l’ideologia ufficiale, era che esisteva una serie di validi motivi storici per considerare gli slavi del sud dall’Adriatico al

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mar Nero come un’unica nazione98. Il giornale di Susak «Novi List» pubblicò poi un appello dell’organizzazione giovanile di Narodna odbrana in cui si chiedeva la nascita di una «grande Jugoslavia, dal Tricorno al mar Nero»99. Anche Virginio Gayda, infine, afferma che Narodna odbrana aveva finalità panjugoslave, prevedendo la costituzione di una federazione con la Bulgaria e l’accesso diretto ai quattro mari (Adriatico, Egeo, mar di Mar­ inara e mar Nero)100. Come i fascisti italiani, anche Narodna odbrana raccoglieva adesioni tra gli emigrati in America settentrionale, dove prendeva il nome di The Yugoslav National Defence101; nel settembre del 1930 essa organizzò nel Narodni dom sloveno di Cleveland una grande manifestazione di protesta contro le sentenze del Tribu­ nale speciale fascista. Del comitato esecutivo centrale di Narodna odbrana facevano parte nel 1929 un esponente dell’esercito, uno degli ufficiali di riserva e uno dell’associazione dei volontari di guerra102. Que­ sta dipendenza dai circoli militari faceva di Narodna odbrana un’organizzazione sensibile, e a volte apertamente fautrice, della soluzione militare: fin dall’agosto del 1920 il delegato italiano a Belgrado espresse i timori delle autorità italiane per l’agitazione di associazioni come Narodna odbrana e Jugoslovenska matica103. Sull’Adriatico Narodna odbrana invitava i propri iscritti a vigilare affinché in caso di guerra l’Italia non equipaggiasse o armasse movimenti separatisti104. Nel giugno del 1934 presero parte al congresso annuale di Narodna odbrana, svoltosi a Banja Luka (Bosnia), tra gli altri il ge­ nerale Belimarkovic, in rappresentanza del re, e il metropolita orto­ dosso di Banja Luka. Il presidente di Narodna odbrana, Trifunovic, nel suo discorso, evidenziò sotto forma di punti i campi d’azione e i singoli elementi di un programma dell’organizzazione: - alla morte dell’arcivescovo di Gorizia, Borgia Sedej, aveva organizzato una manifestazione di lutto; - aiutava gli studenti istriani e i coloni istriani in Serbia meridionale; - propugnava l’ampliamento della centrale radiofonica jugoslava al fine di contrastare le emittenti in lingua tedesca, ungherese e italiana; - si opponeva alla richiesta di istruzione scolastica nella pro­ pria lingua madre da parte delle minoranze nazionali in Jugoslavia e all’importazione di manodopera straniera;

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- aveva condannato il Patto a quattro e aveva organizzato una grande manifestazione antirevisionista a Belgrado; - sosteneva con forza una riforma della scrittura e dell’or­ tografia, al fine di sostituire l’alfabeto cirillico con quello latino, senza però far propria la variante ijekavica del croato105. In ultima analisi Narodna odbrana favoriva una sorta di egemonia culturale di quei settori dell’apparato statale orientati in favore dell’unità jugoslava e fedeli alla monarchia, partendo da un presupposto di fondo sostanzialmente pessimistico: «Non esiste una cultura jugoslava, perché a Lubiana tutto è sloveno, a Zagabria croato e a Belgrado serbo»106. Non è difficile spiegare perché in ultima analisi Narodna odbrana non sia riuscita a raggiungere il suo obiettivo: nella seconda metà degli anni Trenta l’organizzazione era divenuta ormai anacronistica. Il regime di Stojadinovic, che puntava a forme di nazionalizzazione e integrazione più al passo con i tempi rispetto alla dittatura monarchica di Aleksandar, ancora orientata sul modello dello zarismo russo, non incontrò particolari resi­ stenze quando la mise fuori legge; all’incirca nello stesso periodo il principe reggente Pavle Karadordevic espulse dall’esercito jugoslavo la società segreta della Mano Bianca107. Nessuna di queste due organizzazioni era ormai adatta al sistema politico del paese: Narodna odbrana soprattutto perché si opponeva all’av­ vicinamento del paese alla Germania nazista e all’Italia fascista, propugnando invece la prosecuzione della tradizionale politica francofila108. Stojadinovic, al contrario, faceva sempre più leva su organizzazioni di massa cui dava una struttura quasi fascista, imperniata sulla propria dittatura personale. Un destino simile a quello di Narodna odbrana ebbe anche la Orjuna (abbreviazione di Organizacija jugoslovanskih nacionalistov, ossia «organizzazione dei nazionalisti jugoslavi»), fondata a Spalato nel marzo del 1921, particolarmente forte in Slovenia e in Croazia e diffusa in tutte le regioni sud-slave dell’ex-monarchia asburgica. Diversamente da Narodna odbrana, in cui prevalevano i militari, la Orjuna era vicina al Partito democratico, fautore di uno stato jugoslavo fortemente centralizzato, raccolto attorno a Svetozar Pribicevic, e propugnava una variante accentuata del mito del «popolo dal triplice nome». I democratici di Pribicevic erano, insieme ai comunisti, l’unico partito che già nel Regno SHS ricorresse al termine jugoslavo fin nel proprio nome; pur raccogliendo adesioni soprattutto tra i serbi (e nel piccolo grup­

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po di liberali sloveni), essi si sentivano, rispetto agli altri partiti cosiddetti «etnici», investiti di una missione jugoslavistica109. Lo stesso Pribicevic vedeva nei territori costieri sotto la dominazione italiana «il faro della coscienza nazionale jugoslava», di grande importanza per la collaborazione tra serbi e croati110. La Orjuna, «vettore combattivo e potente deH’unitarismo e dello jugoslavismo integrale» (Josip Vidmar)111, aveva un atteggiamento decisamente antitaliano e anticroato; se l’Italia rappresentava il principale nemico oltre confine, il Partito con­ tadino croato impersonava il nemico interno. La Orjuna era una famigerata organizzazione terroristica, che preparava ed eseguiva attentati, ed era molto temuta dai sostenitori di Stjepan Radic, dai comunisti e dalle minoranze tedesca e magiara; nei territori di minoranza lungo il confine ungherese essa, come altre organizzazioni nazionalistiche, costringeva i commercianti a togliere dai negozi le insegne in lingua ungherese112. All’inizio del 1923 il console tedesco a Zagabria informava che i cittadini tedeschi residenti nella slovena Maribor temevano che la Orjuna «rende [sse] loro difficile la vita» e li costringesse a lasciare il paese113; nello stesso anno Max Hildebert Boehm scriveva che la Orjuna aveva «recentemente iniziato a compiere aggressioni in perfetto stile italiano nei confronti delle popolazioni tedesche disperse nei territori di confine, ferendo gravemente, a Pettau [Ptuj in sloveno], il deputato tedesco Schauer»114. L’assassinio, da parte della Orjuna, di un giovane cattolico, avvenuto a Sarajevo nel 1923, suscitò un certo scalpore e pro­ vocò una solidarietà senza precedenti tra i partiti musulmani e cattolici115. Diverse vittime fece invece, il 1° giugno 1924, un conflitto armato tra orjunasi e comunisti nella città mineraria slovena di Trbovlje116. Due anni dopo a Lubiana si verificarono dei disordini in occasione dell’anniversario della costituzione del Vidovdan; circa cento seguaci della Orjuna, armati e in unifor­ me, tentarono di forzare i cordoni della polizia e di irrompere nel centro cittadino. In seguito a questo episodio la Orjuna fu vietata nel territorio di Lubiana; i suoi capi locali furono arrestati e rimasero in carcere fino al 1929117. All’inizio degli anni Venti la Orjuna aveva la propria sede centrale a Spalato e basi di addestramento militare in alcune isole adriatiche minori: nella sola Spalato, la seconda città croata, la Orjuna aveva 718 iscritti, cifra non irrilevante per una associazione di attivisti rigidamente organizzata in termini militari118. Anch’es­

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sa, come Narodna odbrana, nella regione adriatica celebrava il culto dei cetnici e dei komitadzi e predicava la guerra contro l’Italia e lo spostamento del confine jugoslavo sull’Isonzo119. In Slovenia la Orjuna costituiva l’ala giovanile del «movimento nazionale», mentre i notabili più anziani erano organizzati nella Jugoslovenska matica; i suoi membri indossavano una cravatta con i colori jugoslavi, azzurro e rosso120. Poco si sa sul finanzia­ mento dell’organizzazione, a parte i collegamenti con il Partito democratico. Un membro della Direzione nazionale del Partito comunista d’Italia riferiva nel novembre del 1930 che la Orjuna aveva ricevuto fondi dal governo jugoslavo e dalla società che gestiva le miniere di lignite di Trbovlje121. Furono degli orjunasi a commettere assassini punitivi di sloveni o croati della Venezia Giulia passati dalla parte dei fascisti italiani; i parenti di simili «rinnegati» che vivevano in Jugoslavia venivano denunciati me­ diante annunci sui giornali e messi così alla berlina122. La questione posta all’inizio sull’esistenza di un fascismo jugoslavo trova dunque risposta, per gli anni Venti, sulla scorta dell’esempio della Orjuna. Questa organizzazione, definita a volte dagli avversari «movimento fascista»123, era in realtà, più che un movimento sociale, una sorta di truppa ausiliaria paramilitare del ministero degli Interni jugoslavo. Il suo tramonto iniziò già nella seconda metà degli anni Venti, quando, come scrisse Edvard Kardelj, la Orjuna si rivelò «ben presto una vacua illusione dei suoi creatori»124. A Belgrado essa si spaccò per le stesse que­ stioni che nel partito democratico condussero alla rottura tra Svetozar Pribicevic e Ljubomir Davidovic125. In Slovenia aveva temporaneamente sospeso le proprie attività, mentre in Croazia queste si bloccarono dopo il ritiro di Pribicevic, nel luglio del 1925. Si avevano ancora tracce di attività in Dalmazia, dove la Orjuna collaborava strettamente con le altre organizzazioni nazionaliste; il suo centro rimaneva Spalato, dove era guidata da Niko Bartulovic. Il punto debole della Orjuna fu l’esclusivismo jugoslavistico. Per i suoi forti orientamenti anticlericali perse il sostegno sia dei cristiano-sociali sloveni sia degli ambienti militari influenzati dall’ortodossia serba; lo sloveno Anton Korosec, una volta dive­ nuto primo ministro (nel luglio del 1928), intervenne affinché fosse sciolta. Essa finì per trasferire la propria sede centrale dalla costa adriatica a Belgrado, aggravando ulteriormente la propria crisi126.

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L’8 marzo 1929 la Orjuna fu dichiarata illegale, ma questo passo puntava probabilmente soprattutto a interrompere il collegamento tra gli orjunasi e il partito di Pribicevic. Le strutture sopravvissute nella clandestinità vennero assorbite dall’esercito o da Narodna odbrana127. Ciascuna «compagnia» e «battaglio­ ne» rispondeva ormai a un ufficiale di riserva o a un membro dell’associazione dei volontari di guerra; le troike (gruppi di tre persone) che operavano nella zona di confine e in territorio italiano erano sottoposte al comando dell’esercito jugoslavo del Banato della Drava128. Come comunicò il prefetto di Fiume, al momento dello scioglimento la Orjuna in quanto organizzazione autonoma contava ancora 505 iscritti129. Nella zona di confine con l’Italia l’organizzazione ebbe un’evoluzione particolare, perdendo - questa almeno l’interpre­ tazione della storiografia slovena - alcuni dei suoi tratti «fascisti» e confluendo nel movimento che si opponeva alla politica di snazionalizzazione del regime di Mussolini. Negli anni Venti la Orjuna aveva fatto molti tentativi per creare un rapporto più stretto con i vertici militari, ma dovette accettare che i generali del re avessero un rapporto preferenziale con Narodna odbrana. Tuttavia, quest’ultima nominò un proprio delegato negli organi direttivi della Orjuna, cosa che facilitò i contatti tra questa e i vertici militari. Analoghi contatti esistevano a Lubiana tra gli orjunasi e i servizi segreti dell’esercito130. 2.2. «Autodifesa nazionale» L’ape regina (matica) è un simbolo di operosità molto diffuso tra le popolazioni slave occidentali e meridionali. Difendendo tale simbolo, un movimento nazionale tutela quella che ritiene sia la propria identità: lingua, letteratura, cultura. La prima associazione che prese il nome dall’ape regina si chiamava Matica srpska («Ape regina serba») e operò dal 1826 prima a Pest, poi a Novi Sad131, mentre una Matica ceskà fu fondata nel 1831 in Boemia. Anche le case editrici del «Risorgimento degli slavi del sud», create a Zagabria e Lubiana, che si ponevano l’obiettivo della diffusione di libri in lingua croata o slovena, si richiamavano a tali esempi prendendo il nome di Matica hrvatska e Slovenska matica132. Dopo la Prima guerra mondiale, con la nascita del Regno SHS, le autorità cercarono di unificare le varie case editrici, e

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soprattutto la Matica srpska e la Matica hrvatska, inizialmente sostenuta dal vescovo Strossmayer: questo disegno fallì per l’opposizione della casa editrice croata, attenta alla propria au­ tonomia133. La sola alternativa era fondare ex novo una matica panjugoslava, che in serbo-croato fu chiamata Jugoslovenska (o Jugoslovanska in sloveno) matica (d’ora in poi abbreviata in JM). Questa operazione si protrasse per tutto l’anno 1920; il quotidiano di Lubiana «Slovenec» pubblicò il 12 settembre di quell’anno alcuni brani del suo statuto sociale134. Dopo di ciò, fino al febbraio del 1921 nella sola Slovenia furono fondate ben 21 associazioni locali; il gruppo di Lubiana comprendeva 3.871 iscritti e quello di Maribor 1.500135. Il centro regionale di Zagabria della JM inizialmente ebbe competenza suU’Istria e Lubiana sul resto dei territori giuliani. Il console tedesco a Trieste osservò nel novembre del 1922 - un mese dopo la marcia su Roma - che da Lubiana la JM sosteneva finanzia­ riamente il movimento culturale giovanile sloveno136. Il gruppo di Spalato, nato qualche tempo dopo, avrebbe dovuto occuparsi di quella parte di Dalmazia occupata dagli italiani137. Ancora nel 1933 il comitato della JM di Spalato diffuse un invito a fornire testimonianze di soprusi compiuti dagli italiani durante il periodo di occupazione; questa documentazione avrebbe dovuto poi essere pubblicata successivamente sotto forma di libro138. La JM fu attiva anche in Carinzia fino al plebiscito, soste­ nendo la causa jugoslava139; con il ricavato delle pubblicazioni, e soprattutto con il calendario che ogni anno usciva in varie versioni, la JM aiutava i profughi provenienti dallTstria140. In uno scritto programmatico sulla propria attività nelle regioni adriatiche settentrionali essa richiamava esplicitamente le attività delle asso­ ciazioni irredentistiche italiane come la Società Dante Alighieri141. Le intenzioni dichiarate della JM erano di riunire nelle proprie file «tutte le classi sociali, indipendentemente dalla religione e dal colore politico» al fine di «garantire il necessario aiuto ai nostri fratelli separati dal corpo del popolo»142. Secondo una sintetica nota dello Stato maggiore italiano, l’associazione contava già nel­ l’autunno del 1920 circa 10 mila iscritti143. Nell’aprile del 1921 la JM di Zagabria esortò a seguire l’esempio dei «fratelli sloveni» e a creare ovunque dei gruppi locali144. Negli anni Venti la JM di Zagabria svolse attività legali nelle vicine regioni di minoranza austriache e italiane: pubblicava un quotidiano destinato ai croati del Burgenland, ai quali distribuiva testi scolastici in croato; in

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Istria, dove gli spazi di libertà erano ormai sempre più ridotti, sostenne soprattutto gruppi indipendenti in campo culturale145. Il 30 dicembre 1928, nel messaggio per il nuovo anno, la JM di Lubiana fece appello agli sloveni affinché sostenessero mate­ rialmente i connazionali emigrati dalla Venezia Giulia, che «col subentrare dello inverno» avevano dovuto sospendere la propria attività come operai stagionali146. Un particolare compito toccava ai gruppi della JM nelle zone di confine: secondo una fonte italiana, nella primavera del 1932 l’organizzazione ricevette da Castua (località situata tra Fiume e Abbazia) l’incarico di convincere gli istriani in età di leva a recarsi oltre confine affinché il governo jugoslavo potesse formare una unità speciale da impiegare contro l’Italia in caso di guerra147. Tre anni dopo un rapporto della questura di Fiume riferiva che la JM di Lubiana aveva assunto diversi profughi che, servendosi di documenti falsi, varcavano i confini con l’aiuto di guardie di frontiera jugoslave per svolgere attività di spionaggio in Venezia Giulia o per diffondere la stampa dell’emigrazione148. Nel frattempo nel Banato della Drava la JM era stata vietata per la seconda volta; i suoi beni vennero assegnati a una nuova associazione che si chiamava Bran-i-bor («Difesa e lotta»)149. Da allora la JM restrinse le proprie attività alla Croazia, finendo per condurre un’esistenza precaria, poiché il governo le aveva tagliato quasi tutti gli aiuti finanziari150. Nell’agosto del 1933 Josip Wilfan commentò un appello di Bran-i-bor in cui si chiedeva un istituto universitario per lo studio delle questioni frontaliere e un ufficio per la raccolta di informazioni sugli sloveni fuori della Slovenia151; un mese dopo quella stessa associazione pubblicò nei quotidiani della capitale slovena un testo in cui illustrava le proprie finalità152. Pochi anni dopo Bran-i-bor condusse, come è in parte documentabile, una lotta disperata per bloccare l’avan­ zata del nazionalsocialismo nella popolazione della minoranza tedesca in Slovenia153. 2.3. «Una piccola offerta...» Non si può terminare l’esame dell’associazionismo jugoslavo senza ricordare anche le associazioni scolastiche e le case editrici che fecero la parte del leone nel difendere sloveni e croati dai liberalnazionali italiani. La Druzba sv. Cirila in Metoda («Società

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dei santi Cirillo e Metodio», il cui acronimo sloveno era Cmd) era una delle più antiche associazioni degli sloveni e croati nell’impero asburgico, e aveva creato asili e scuole soprattutto là dove la popolazione slava era esposta all’offensiva culturale dell’«italianità» o del «germanesimo»154. La rivalità occulta tra la Società Dante Alighieri e la Cmd si estendeva alla questione del primato di civiltà da assegnare a Dante Alighieri o agli apostoli slavi Cirillo e Metodio: quando alcuni membri della «Dante» proposero di dare alla società un nome più semplice e meno ambizioso Ernesto Nathan, membro direttivo dell’associazione e sindaco di Roma, dichiarò che cambiando il nome si sarebbe finito per rinunciare a un patrono «che nell’idea popolare pesa più di Cirillo e Metodio»155. Nei territori asburgici popolati da sloveni la Cmd godeva effettivamente del più ampio sostegno, soprattutto presso i ceti abbienti. La stampa dedicava ampio spazio ai sostenitori dell’as­ sociazione e lanciava appelli ai lettori affinché acquistassero merci con il marchio della Cmd; i suoi iscritti si riunivano in occasione delle feste di villaggio, mentre i bambini passavano per le case a raccogliere piccole offerte. A Trieste le associazioni scolastiche italiane, slave e tedesche si contrapposero in una vera e propria «guerra dei fiammiferi». La Cmd distribuiva fiammiferi sulle cui scatole erano riconoscibili i colori jugoslavi insieme a un messaggio pubblicitario così traducibile: «Fiammiferi dell’Associazione dei Santi Cirillo e Metodio. Deponi sull’altare una piccola offerta per la Patria»156. La rete della Cmd comprendeva asili e scuole elementari a Trieste e dintorni157, Gorizia, Cormons, St. Rupert bei Vòlkermarkt (Velikovec in sloveno), Maribor, Jesenice, Celje e così via: al cul­ mine del suo sviluppo la società gestiva nove scuole elementari e 26 asili, partecipando inoltre alla nascita di ulteriori strutture scolastiche sia private sia statali158. Tutto ciò era forse modesto dal punto di vista quantitativo, ma l’attività scolastica degli sloveni si concentrava su alcuni punti critici in cui la presenza della Cmd era particolarmente fastidiosa per i liberalnazionali italiani. Sul litorale la forza della Cmd si basava sulla stretta collaborazione politica tra gli sloveni di Trieste e Lubiana e i croati istriani159. In Istria ancora nel 1910 era analfabeta quasi il 40% degli abitanti di età superiore a dieci anni160. La Cmd croata, molto attiva sulla penisola istriana, si autofinanziava vendendo non solo fiammiferi, ma anche «carta per sigarette, caffè surrogato, sapone, lucido per

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scarpe, matite e cartoline illustrate», e adottava lo slogan Bog i hrvati («Dio e i croati»)161. Nell’appello istitutivo della Cmd, risalente al 1884, era scritto tra l’altro che avrebbe avuto più senso fondare una organizzazione nazionale di tutela che comprendesse tutti gli slavi; ma poiché i cechi avevano già una propria associazione, mentre i croati e i polacchi non erano seriamente minacciati dalla germanizzazione, gli sloveni avrebbero dovuto emulare l’esempio ceco162. Consi­ derando come principali avversari i liberali di lingua tedesca, anticlericali, e i liberalnazionali italiani, la Cmd si dichiarava fedele allo Stato e all’imperatore; al suo interno coesistevano poi una corrente clericale e una di cattolicesimo liberale. L’associazione era fondamentalmente moderata, ma veniva accusata da alcuni giornali austriaci di lingua tedesca di fare causa comune con la Russia e di ricevere finanziamenti da San Pietroburgo163. La storia della Cmd è direttamente collegata alla microstoria dei quartieri popolari di Trieste, dove nel 1888 essa aprì la pri­ ma classe elementare; nel 1895 la stessa scuola fu divisa in una sezione maschile e in una femminile. A Trieste e Prosecco (in sloveno Prosijek) furono istituite anche classi di sostegno per chi si iscriveva alla scuola media di lingua tedesca164. L’associazione acquistò nella centrale via dell’Acquedotto un edificio in cui trovarono sede la sezione femminile e, in seguito, alcune classi maschili; la costruzione ospitava anche il Café Minerva, la bottega di un barbiere sloveno e la sede della sezione di San Giacomo (Sv. Jakob) della società ginnica Sokol. La Cmd triestina era organizzata in modo trasversale rispetto ai partiti; i suoi iscritti, secondo un osservatore italiano, erano «tutti uniti dalla volontà di sottolineare che Trieste doveva essere slovena»165. Gli sloveni speravano che le loro scuole elementari venissero rilevate dallo Stato, ma nel 1905 ricevettero un rifiuto: «gli immi­ granti», questa la risposta, «non dovevano rivoluzionare l’ordine esistente né porre in questione il carattere italiano della città»166. Nemmeno l’auspicio che il comune istituisse di propria iniziativa scuole slovene trovò ascolto; tuttavia la Cmd, analogamente alla Lega nazionale, ottenne che una parte dei docenti delle sue scuole fossero pagati dallo Stato167. La seconda scuola fu aperta il 7 dicembre 1919 nel quartiere operaio di San Giacomo e rimase in funzione fino al settembre del 1930, quando le autorità fasciste ne disposero la chiusura168. L’apertura delle scuole era di competenza della sezione maschile

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dell’associazione, mentre quella femminile si occupava dell’istitu­ zione di asili; durante la Prima guerra mondiale la sopravvivenza dell’associazione fu assicurata dalle donne, e nell’aprile del 1920 la sezione femminile della Cmd tenne sulla costa un congresso, nel corso del quale definì i nuovi compiti169. A Gorizia la Cmd, allo scoppio della guerra, aveva tre scuole elementari: una scuola femminile con sei classi e 382 allieve, una maschile con cinque classi e 238 allievi e una mista con 246 allie­ vi170. Verso la fine della guerra nell’associazione prevaleva ormai un orientamento filojugoslavo. A partire dal 1918 la sua attività risentì dell’emigrazione in Jugoslavia di molti attivisti: nonostante ciò, dopo la guerra la scuola di San Giacomo era ancora frequen­ tata da circa 2 mila allievi171. I fascisti italiani consideravano tale attività parte di un «complotto slavo»172. Dopo la fine della guerra nei territori a popolazione slovena assegnati all’Austria e all’Italia l’organizzazione fu inizialmente considerata illegale, e il governatore militare italiano chiuse le scuole che essa finanziava o sovvenzionava173. Nella parte jugo­ slava, invece, l’esistenza di un’associazione scolastica appariva superflua, dato che qui l’identità collettiva degli sloveni non era minacciata. Nonostante le evidenti minacce nei confronti della cultura slovena, tra gli iscritti alla Cmd si diffuse un atteggiamento di passività. Nel congresso del giugno del 1929 a Kranj (Cragno) l’associazione dichiarò che, se «al di là del monte Nevoso» (in Istria) si distruggeva la nazione slava, la stessa distruzione avve­ niva più lentamente «al di là delle Caravanche» (in Carinzia)174. Quando, nel 1929, nella parte croata dell’Istria la Cmd fu messa definitivamente al bando, il prefetto di Pola constatò che essa disponeva «ancora di propri immobili» e aveva rapporti d’affari con alcune casse di credito agricolo175. Più scarse sono le notizie sull’associazione nella seconda metà degli anni Trenta: un suo appello pubblicato il Io maggio 1938 per il ventesimo anniversario dell’ingresso della Slovenia nel regno sud-slavo conteneva alcune significative dichiarazioni sulla coscienza nazionale slovena176. Alla scoppio della Seconda guerra mondiale la Cmd contava ancora cento gruppi locali. Le ultime notizie sull’associazione pri­ ma dell’aggressione italotedesca alla Jugoslavia risalgono ai mesi di febbraio e maggio del 1940177; il presidente dell’associazione in quel momento era Janko Mackovsek, che fu arrestato dagli occupanti e morì poi a Dachau il Io febbraio 1945178.

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2.4. Associazioni sportive patriottiche Se la maggior parte delle organizzazioni e dei circoli si può dire avessero soprattutto carattere cospirativo-terroristico, corporativo-militaristico o elitario-borghese colto, i gruppi Sokol179 rappresentavano il prototipo dell’associazione laica panslavista in grado di rivolgersi a tutti gli strati della popolazione180. Secondo un osservatore tedesco le ginnaste e i ginnasti, che si chiamavano tra loro «fratello» o «sorella», «con il loro gradevole abbiglia­ mento e il cappello con la penna di falco» divennero «ben presto un movimento popolare che riuscì a dare una sua impronta alla nazione»181. Se i ginnasti furono tra i «principal[i] pilastr[i] organizzativi^] del movimento nazionale tedesco» (Dieter Langewiesche)182 e fe­ cero dell’attività ginnica un elemento importante per la «creazione di un habitus» nazionale (Svenja Goltermann)183, non sorprende che gruppi affiliati al Sokol fossero all’opera persino nella diaspo­ ra slava, tra i sorabi della Lusazia come tra i minatori polacchi della Ruhr. Per i ginnasti italiani di Trieste la Società ginnastica rappresentava il perfetto pendant del Sokol184. In occasione di celebrazioni, manifestazioni o feste gli iscritti al Sokol indossavano la divisa sociale; le «camicie rosse garibal­ dine» degli affiliati sloveni al Sokol, notate da Hermann Wendel all’inaugurazione del Narodni dom di Kranj, si possono ancor oggi vedere nei musei sloveni185. Esse dimostrano anche i nessi tra il movimento di unificazione italiano e quello degli slavi del sud, di cui dopo il 1918 molti degli attori persero consapevolezza. Il Sokol disponeva di propri gruppi o bande musicali che si esibivano in occasione di feste o di manifestazioni sportive; la sua marcia era ben nota in tutti i territori abitati da slavi. Durante la Prima guerra mondiale il Sokol fu molto influente nelle «legioni» di volontari polacchi e cechi; dopo la guerra le sue unità di miliziani sostennero le truppe regolari del generale sloveno Majster nel conflitto con le popolazioni germanofone della Carinzia. In Dalmazia nei primi anni del dopoguerra le as­ sociazioni Sokol furono invece una spina nel fianco per il potere italiano di occupazione; esse erano considerate «di orientamento nazionalista-jugoslavo e assai poco concilianti». A volte le auto­ rità italiane si ritennero autorizzate a intervenire con la forza: nel giugno del 1920 i militari perquisirono il Sokol di Zara, che venne poi chiuso186.

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La lega ginnica fu un importante trait d’union tra la vita quo­ tidiana e la cultura politica e letteraria dello Stato SHS. Alla fine del 1918, alla testa del corteo funebre in onore di Ivan Cankar, il massimo autore sloveno della prima metà del Novecento, si trovavano atleti sia laici sia cattolici187. In contrasto con quanto sopra stava il lato paramilitare delle attività del Sokol, così come appare dal rapporto di un solda­ to jugoslavo che aveva disertato in Austria188. Già i seguaci di Friedrich Ludwig Jahn in Germania avevano praticato attività ginniche di tipo militare; e Langewiesche afferma che non aver potuto partecipare alla guerra tedesco-danese del 1864 inviando propri corpi di volontari fu una delle maggiori delusioni delle società ginniche189. Svenja Goltermann sottolinea che alle mani­ festazioni dei ginnasti della Deutsche Turnerschaft, organizzate su base pangermanica, la presenza di esponenti austriaci di lin­ gua tedesca rimase «normale anche dopo la nascita dello Stato piccolo-tedesco»190. Le federazioni dei Sokol, inizialmente separate in Serbia, Croa­ zia e Slovenia, si unificarono dopo il congresso di Novi Sad della fine di giugno del 1919 su una base esplicitamente jugoslavista; ogni forma di «separatismo» venne duramente condannata191. Tuttavia, il contrasto serbo-croato fece sì che l’unificazione in una unica federazione, partita dalla Bosnia, si sciogliesse ben presto. Nel 1922 fu fondata una federazione croata, che ebbe il suo primo significativo momento pubblico nel 1925, in occa­ sione delle celebrazioni dei mille anni del Regno di Croazia192. Il Sokol croato, le cui riunioni si concludevano cantando l’inno croato Lijepa nasa, era molto vicino al partito dei contadini, il cui capo carismatico, Stjepan Radic (come suo nipote Pavle) era a sua volta iscritto all’organizzazione ginnica195. Tra i vari provvedimenti di accentramento presi dalla dittatura monarchica, quello che provocò maggiore agitazione tra sloveni e croati fu la «legge per l’istituzione del Sokol del Regno di Ju­ goslavia». Anche il Sokol, come l’Opera nazionale dopolavoro in Italia, fu particolarmente avversato dalla Chiesa cattolica: i ginnasti davano «alle istanze ecclesiastiche motivo per temere di perdere il controllo della gioventù» date le proprie «basi del tutto aconfessionali»194. Nel paese prevaleva infatti una atmosfera di Kulturkampf, non tanto per il contrasto tra la Chiesa cattolica e quella serbo-ortodossa, quanto per quello tra la gerarchia catto­ lica delle regioni ex asburgiche, sensibile e adusa al potere, e la

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classe politica laico-massonica della Serbia storica e dei territori bosniaci e croati popolati da serbi. In un opuscolo del 1932 il vescovo di Krk descriveva il Sokol come una «istituzione atea, trasformatasi in organizzazione terroristica con il sostegno dello Stato», che costringeva con la forza studenti e insegnanti a en­ trare a farne parte195. In Slovenia, dove le tendenze laiche erano minoritarie e le possibilità di espansione del Sokol incontravano dei limiti naturali, nel 1906 nacque una organizzazione concorrente di stampo cattolico, la Orel («Aquila»)196. Inoltre il movimento operaio socialdemocratico e comunista disponeva di una propria associazione scolastica e ginnica, la Svoboda («Libertà»)197, la quale organizzò nel 1935 a Celje un raduno sportivo di tutte le associazioni aderenti che fu da essa ritenuto un grande succes­ so e che si «trasformò», secondo il comunista sloveno Edvard Kardelj, «in una meravigliosa manifestazione della solidarietà rivoluzionaria dei lavoratori»198. Il Sokol panjugoslavo, o Jugosokol (che sopravvisse accan­ to alle organizzazioni regionali), non era presente ovunque in Slovenia e Croazia. Il ministero degli Esteri italiano qualificò come «irredentistico-espansionistico» il settimanale «Sokolski Glasnik», che lo Jugosokol pubblicò a partire da gennaio 1931 insieme al supplemento mensile «Sokolska Prosveta», rilevando il «tono costantemente ostile verso l’Italia» che caratterizzava il settimanale199. A partire dal gennaio del 1936 in tutta Italia fu vietato introdurre la rivista «Sokol na Jadranu» («Falco sul­ l’Adriatico»), che usciva a Spalato e aveva appena pubblicato un numero speciale dedicato all’Istria200. I gruppi Sokol degli emigranti istriani a Zagabria erano parti­ colarmente fieri di «essere in prima linea nel Sokol jugoslavo»201. Josip Wilfan, esponente di spicco del Sokol di Trieste fin dall’epoca asburgica, fu eletto nel 1929 presidente dell’associazione ginnica di Villa del Nevoso (Ilirska Bistrica in sloveno), che era succe­ duta al Sokol dichiarato illegale202. La stampa dell’emigrazione sottolineava i meriti che esso aveva acquisito nell’opposizione degli sloveni e croati giuliani203. Alla festa panslavista del Sokol a Belgrado il passaggio delle formazioni (armate) dei Sokol nei pressi del confine italiano suscitò entusiasmo204. Nel dicembre del 1932 una mostra del Sokol a Belgrado fece scalpore poiché vi era ricordato anche «il Sokol giuliano, ormai completamente annientato»205. L’ambasciatore tedesco a Belgrado nel 1930 stimava

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in 115 mila (divisi in 695 associazioni) i membri attivi della lega ginnica, in parte armati206. Un anno dopo la stessa fonte parlava di 230 mila iscritti al Sokol, «di cui 102 mila uomini adulti»207. All’inizio di agosto del 1934 era prevista a Zagabria una grande festa del Sokol, alla quale si prevedeva avrebbero partecipato anche esponenti dei Sokol ceco, polacco e bulgaro. Alla vigilia dei festeggiamenti, come segno di conciliazione con i croati, la dittatura monarchica liberò dal carcere il presidente del Partito dei contadini Vladko Macek208. Nel corso degli anni Trenta i Sokol andarono incontro a un declino; nel 1930 il secondo raduno dello Jugosokol a Belgrado fu l’ultimo evento nazionale di questo tipo. La monarchia era intervenuta massicciamente nella organizzazione dei Sokol; la legge sul Sokol prevedeva che il successore al trono divenisse presiden­ te della federazione, mentre «i vicepresidenti, che sedevano nel comitato di gestione, erano nominati dai ministri dell’Istruzione e dell’Esercito»209. L’attività scolastica divenne più importante di quella sportiva; la federazione prese le distanze dall’«ortodossia» del fondatore ceco del Sokol, che ammetteva solamente la gin­ nastica attrezzistica e pochi altri tipi di sport. Il numero degli iscritti aumentò, e in molte località nacquero nuovi gruppi, ma la linea unitaria dell’organizzazione ne risentì210. Sotto il governo Stojadinovic il Sokol divenne sempre più strumento di una politica unitarista e statalistico-accentratrice: una parte dei membri sloveni del Sokol giunse a bandire totalmente dalla vita associativa la lingua slovena e a parlare soltanto serbo­ croato211; d’altra parte nel Banato della Drava i membri del Sokol furono perseguitati dai seguaci del partito popolare sloveno. E quando a Lubiana, nel 1937, una palestra del Sokol fu distrutta da un incendio doloso, lo stesso Stojadinovic, in occasione della consacrazione di una bandiera del Sokol in Bosnia, sottolineò la «grande missione politico-statale» della lega ginnica212. Josip Vidmar, invece, giudicò un’«antitesi nulla e vacua» il contrasto «tra cattolicesimo conservatore sloveno e Sokol» che intorno al 1937 aveva paralizzato, a suo dire, la vita politica slovena213. I rapporti tra il Sokol e i circoli degli emigranti istriani, go­ riziani o triestini non furono sempre stretti come a Ptuj (Pettau in tedesco), nella Stiria inferiore, dove tre dei cinque membri del direttivo dell’associazione degli esuli erano anche iscritti al Sokol214. In una assemblea dell’emigrazione fu molto applaudita l’osservazione di un oratore, secondo cui in Jugoslavia poteva

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esserci un unico Sokol, e che esso avrebbe dovuto istituire una compagnia per i profughi intitolata aU’«Istria»215. La prevalenza di umori irredentisti nel Sokol si coglie anche nella scelta di tenere il proprio congresso, nel giugno del 1924, a Susak, proprio in un periodo in cui nella vicina Fiume si svolgevano i congressi annuali di diverse organizzazioni italiane. Al congresso del Sokol presero parte molti cittadini fiumani di orientamenti antitaliani e/o antifascisti; i delegati di Susak sottolinearono particolarmente i «diritti degli slavi sulla Venezia Giulia, e in particolare su Fiu­ me»216. Nell’area adriatica il Sokol (termine che, come si è già scritto, significava «falco») si presentava persino come alternativa in piena regola al leone di Venezia. Virginio Gayda ricollegò di­ rettamente la distruzione dei leoni di San Marco di Trogir a un discorso del presidente del Sokol di Spalato, che nel giugno del 1931 aveva esortato la sua organizzazione a una grande compe­ tizione: «Rovesciamo gli ultimi ricordi della schiavitù. Buttiamo giù anche i leoni di Venezia. Mettiamo orgogliosamente al loro posto il falco, uccello simbolo della libertà del nostro Adriatico e di tutta la cultura slava»217. Il Sokol sloveno, la cui ala sinistra si schierò con particolare decisione in favore dello slogan della «Slovenia unita», si avvicinò sempre più ai comunisti e ai socialisti cristiani, insieme ai quali costituì il Fronte popolare e poi la Osvobodilna fronta218. Molti membri del Sokol si unirono poi alla lotta partigiana contro le forze d’occupazione tedesche e contro quelle italiane. In segui­ to all’unificazione del movimento partigiano il Sokol sloveno sottoscrisse la Dichiarazione delle Dolomiti del 1942, con cui gli alleati del Kps rinunciavano ai propri obiettivi politici, e nel 1946 fu disciolto219. 3. L’Istituto per le minoranze di Lubiana Sebbene alcune associazioni jugoslave nascessero in diretta relazione con la problematica delle minoranze, nella prima metà degli anni Venti non esisteva ancora un’istituzione per lo studio sistematico delle questioni relative. Ma, quando i diversi gruppi etnici iniziarono ad articolare con sempre maggior forza i propri interessi su scala europea nei confronti della Società delle N a ­ zioni e dei governi dei singoli paesi, anche in Jugoslavia emerse l’esigenza di una simile istituzione.

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La nascita dell’istituto per le minoranze (Manjsinski institut), avvenuta a Lubiana il 1° febbraio 1925, secondo una testimonianza di Vinko Zorman, si pone come inizio di una lunga tradizione di politica slovena delle minoranze sopravvissuta alla Seconda guerra mondiale e giunta fino a oggi. Poiché l’istituto e le organizzazioni che gli sono succedute si sono occupati anche delle minoranze in Italia, vale la pena di ricostruirne la storia220. Alla fondazione del Manjsinski institut parteciparono cinque associazioni irrendentiste: la Cmd, il Gosposvetski zvon221, la Jadranska straza, la JM e la Slovenska straza222. Nei primi anni di vita l’istituto fu finanziato soprattutto dalla JM e dalla Cmd, mentre dal 1930 in poi esso ricevette fondi dal Banato della Drava223. Molto stretto fu inizialmente il legame personale con la JM, il cui segretario era al tempo stesso direttore dell’istituto; la stessa unione personale esisteva anche con la sezione slovena della Lega internazionale per la Società delle Nazioni. Nel complesso le attività dell’istituto occupavano uno spazio tra le associazioni irredentiste collegate alla Narodna odbrana (Jadranska straza, JM ecc.), il gruppo sloveno della «Edinost» e il cattolico Partito po­ polare sloveno (Sls, che stava per Slovenska Ljudska Stranka). Nel corso degli anni Venti il vertice dell’istituto prese contatti con la Sezione minoranze della Società delle Nazioni a Ginevra, cui fu inviata una prima indagine di ampio respiro sulla situazione degli sloveni e dei croati in Italia, prodotta dalla JM224. Da quel che si sa, delle 342 pagine di questa corposa bozza si è conservata una sola copia, nell’archivio della Società delle Nazioni: non è facile chiarire i motivi per cui non esistano, né in archivi né in letteratura, ulteriori tracce di questo testo, che fu il nucleo ori­ ginario dei successivi lavori di Lavo Cermelj, delle pubblicazioni della sezione jugoslava della Lega internazionale per la Società delle Nazioni e del Congresso europeo delle nazionalità. Cermelj e i suoi collaboratori non citano mai questo documento nelle loro pubblicazioni. L’unica cosa pressoché certa è che esso testimonia della passione investigativa di Cermelj, che si recò a Trieste per conto della JM e dell’istituto per le minoranze225. Forse il documento era destinato alla pubblicazione sotto forma di volume, progetto che non si realizzò per motivi finanziari o organizzativi. Analoghe ragioni dovettero indurre Janko Pretnar, Vinko Zorman e Lavo Cermelj ad abbreviare notevolmente la bozza, originariamente redatta in serbo-croato.

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La continuità dell’istituto dal 1925 fino all’aprile del 1941 (quando l’occupazione italiana di Lubiana portò al suo sciogli­ mento226) fu impersonata, oltre che da Pretnar e da Cermelj, soprattutto da Vinko Zorman, che in precedenza era stato bibliote­ cario alla Biblioteca nazionale e universitaria di Lubiana. Zorman, Cermelj, Janko Mackovsek e altri collaboratori dell’istituto si erano conosciuti prima dello scoppio della Prima guerra mondiale a Praga, dove avevano fatto parte del comitato per le nazionalità dell’organizzazione studentesca liberale Adrija: per questa via i programmi dei politici sloveni delle minoranze si arricchirono di una visione specificamente ceca delle questioni nazionali, ricondu­ cibile a Tomás G. Masaryk227. Se Cermelj raccolse soprattutto dati e fatti sulla politica di snazionalizzazione italiana lungo la costa, Mackovsek impiegò una serie di tecniche per la realizzazione di mappe delle nazionalità che vennero ampiamente utilizzate dopo la Prima guerra mondiale e poi dopo il 1945228. I collaboratori dellTstituto si consideravano studiosi e «operatori nazionali»: espressione che stava a indicare lo stretto legame tra l’aspetto scientifico e quello politico-propagandistico della loro attività. Il 13 ottobre 1927 lo Jutro di Lubiana annunciò l’uscita del libro di Cermelj, La minorité yougoslave en Italie. Nel dicembre del 1927 il volumetto arrivò alla Società delle Nazioni attraverso il segretariato della Lega internazionale per la Società delle Nazioni a Bruxelles; Théodore Ruyssen lo inviò al direttore norvegese della Sezione minoranze, Erik Colban229. Alla Società delle Nazioni a Ginevra si notò subito come le informazioni sulla situazione delle minoranze slave in Italia contenute nel testo inviato due anni prima fossero «molto più complete» di quelle fornite nel libro di Cermelj230: ma fu solo con l’edizione in francese e con quella, di poco successiva, in inglese che Cermelj raggiunse una cerchia di lettori fuori della Jugoslavia. Nel corso del 1928 l’istituto si trasferì negli uffici della JM231. L’Istituto pubblicava autonomamente il settimanale di documen­ tazione «Manjsinski presburo», in serbo-croato, e il «Bulletin d’Information des minorités yougoslaves», in francese232. Poco si sa dell’originaria dotazione di materiali scientifici dellTstituto, cui sembra fossero stati conferiti, poco dopo la sua istituzione, documenti d’archivio e libri della Sezione per i territori occupati del Consiglio nazionale a Lubiana233. Durante la campagna elettorale del 1929 l’istituto per le mi­ noranze diffuse in Italia «numerosi volantini che invitavano gli

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sloveni ad astenersi»234. Doveva essere questo (o altro analogo in lingua croata) il materiale che Vladimir Gortan e i suoi compagni distribuirono nellTstria centrale. Sull’Istituto per le minoranze le autorità italiane non erano sempre ben informate: nel 1929, ad esempio, il prefetto di Fiume scrisse che esso aveva sede a Zagabria. La situazione finanziaria dell’istituto rimase precaria: in una nota del marzo 1933 del ministero degli Esteri italiano alle autorità di polizia si legge che esso aveva sede nell’appartamento di Lavo Cermelj, e che Vinko Zorman vi lavorava come segretario235. Intorno al 1931 per il Manjsinski institut si aprì una nuova fase di sviluppo, allorché riuscì a ottenere grande attenzione negli ambienti della Lega internazionale per la Società delle Nazioni e del Congresso europeo delle nazionalità, probabilmente grazie anche all’azione di Wilfan e Besednjak. La femminista e pacifista olandese Christina Bakker van Bosse fece visita a Besednjak e Pretnar236, mentre a Trieste Wilfan e Cermelj incontrarono il socialdemocratico tedesco Hermann Wendel237 e da Berlino Max Hildebert Boehm chiese informazioni sull'istituto. Lo stesso Zor­ man, che già nel 1925 era entrato una prima volta in contatto con la Sezione minoranze della Società delle Nazioni, partecipò a vari Congressi delle nazionalità ed ebbe così modo di conoscere leader e delegati del movimento delle minoranze. AU’incirca nello stesso periodo Cermelj redasse le pagine dedicate alla situazione degli sloveni e dei croati giuliani per il rapporto pubblicato da Ewald Ammende per il Congresso europeo delle minoranze238. L’Istituto si affrancò gradualmente dalla tutela della JM, che all’inizio degli anni Trenta fu vietata e confluì nella neonata Bran-i-bor, ma mantenne stretti contatti con alcuni intellettuali dell’ultima generazione, come lo storico Fran Zwitter e il geo­ grafo Anton Melik, che lavoravano presso la Facoltà di filosofia dell’Università di Lubiana. Dall’inizio degli anni Trenta l’istituto intervenne ripetutamen­ te, perlopiù in collaborazione con i cristiano-sociali raccolti attorno a Engelbert Besednjak, nel dibattito sulla situazione religiosa della minoranza slava in Venezia Giulia. La documentazione raccolta a tale proposito fu resa pubblica in varie occasioni: nel 1932 come parte del suddetto rapporto al Congresso delle minoranze a Vienna e, nel 1933, al congresso cattolico svoltosi anch’esso nella capitale austriaca. Le altre attività dellTstituto si possono evincere dall’elenco di pubblicazioni stilato da Janez Stergar. In

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tale elenco Lavo Cermelj ebbe la parte del leone fino alla Seconda guerra mondiale; nel 1936 e nel 1938 uscì un’edizione ampliata, rispettivamente in inglese e in francese, del volume sui territori giuliani. Anch’esso fu edito dalla sezione jugoslava della Lega internazionale per la Società delle Nazioni239. Agli anni Trenta risale anche il contatto con il giurista austriaco Theodor Veiter, che si era laureato con una tesi sugli sloveni in Carinzia. Janez Stergar, nella sua storia - peraltro utilissima - del­ lTstituto per le minoranze, tace quasi completamente sui suoi interlocutori internazionali, menzionando solo l’istituto per le statistiche sulle minoranze sorto nel 1920 presso l’Università di Vienna240; tuttavia centri di ricerca analoghi esistevano anche in Polonia e in Germania. L’istituto polacco - che nel 1935 pubblicò un volume sulla questione delle minoranze in Polonia241 - viene generalmente descritto come diretta emanazione del governo; invece le origini dell’istituto berlinese di Max Hildebert Boehm, nata dal comitato per la tutela delle minoranze, e dell’istituto viennese sopra ricordato, risalgono fino al ministero degli Esteri berlinese242. Le memorie di Boehm, conservate all’Archivio fede­ rale di Coblenza, si arrestano proprio alle soglie del periodo che interessa il nostro tema. Il paragrafo sul Congresso europeo delle nazionalità di cui si trova traccia nell’indice delle memorie forse non fu mai scritto, o quanto meno non fa parte del dattiloscritto giunto fino a noi243; nonostante ciò, il fondo Wilfan consente di ricostruire gli stretti contatti tra gli sloveni e la componente völki­ sch del movimento tedesco per le minoranze244. Poiché tuttavia neanche il Manjsinski institut di Lubiana era una realtà totalmente privata, ma dipendeva strettamente da una serie di associazioni irredentistiche sostenute dallo Stato e riceveva finanziamenti diretti dalle autorità jugoslave, i casi sono meno diversi tra loro di quanto appaia a prima vista. L’interesse di Loesch o di Boehm per l’istituto di Lubiana è eloquente: sebbene Janez Stergar indichi soprattutto in Praga il retroterra culturale dell’istituto di Lubiana, le influenze tedesche e austria­ che sono innegabili. Si vede chiaramente come le posizioni in merito alla proble­ matica delle minoranze fossero spesso trasversali rispetto agli schieramenti sociali e politici. Ciò ebbe delle conseguenze per la tradizione di politica delle nazionalità iniziata dal Manjsinski institut e proseguita dopo la guerra partigiana.

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4. «Imitazione del fascismo»? Associazionismi a confronto Molte associazioni italiane e slave sorsero negli ultimi decenni dell’impero asburgico, quando nei territori di confine, con la diffusione dell’istruzione scolastica, la nazionalizzazione di vasti settori di popolazione avanzò a grandi passi. Queste associazioni, che si trovavano in avamposti isolati - in un villaggio istriano o in un quartiere operaio triestino - a difendere la lingua e la cultura della loro nazione (che si trattasse della «italianità», della lingua e cultura slovena o del via via sempre più diffuso «jugoslovenstvo») cercavano costantemente di ricreare ex novo la nazione attraverso l’esclusione dell’Altro. Nelle scuole della Lega nazionale non si insegnava lo sloveno, né in quelle della Cmd l’italiano245. Nelle strutture scolastiche della Lega nazionale diventava (anzi tornava, secondo gli italianizzatori e gli irredentisti) italiano lo s’ciavo, i cui antenati prima dell’inizio delle invasioni barbariche erano stati partecipi della cultura latina (romana o veneziana che fosse), così come nelle scuole elementari della Cmd (sia pure molto più raramente) il piccolo lah, il «latino» che era in realtà uno slavo snazionalizzato, tornava a essere sloveno o croato. Le scuole non si limitavano a costruire la nazione: erano la nazione. Ricostruivano con un tenace microlavoro la cultura di Dante o il regno di Lazar e Tomislav, così come erano esistiti prima della profanazione di quei territori o della costruzione della «prigione dei popoli» asburgica. Certamente ciò contribuiva a combattere l’analfabetismo, ma lo spirito che regnava nelle scuole era pervaso di intolleranza nazionale: era qui che con gli anni si rifornivano i «magazzini affettivi» e che si «instaurava un affidabile auto­ matismo dei sentimenti», come ha scritto Hans-Ulrich Wehler, in grado di sostenere in seguito altre istanze di socializzazione e revocabile in qualsiasi momento246. In alcune associazioni italiane prevalse a lungo l’elemento liberazionale, mentre altre organizzazioni svolsero un ruolo di apripista del fascismo, e altre ancora - soprattutto le grandi «opere nazionali» - furono create dal regime mussoliniano. L’associazio­ nismo degli slavi del sud era radicato nel cattolicesimo politico o nel liberalismo nazionale, o era riconducibile agli ambienti della corte serba o all’attività cospirativa svolta per lo più da ufficiali serbi. Le associazioni diedero vita a una unificazione jugoslava diseguale; accanto a quelle di orientamento centralista esistevano associazioni puramente slovene o croate.

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Ai vecchi risentimenti se ne aggiunsero di nuovi nel corso della Prima guerra mondiale: la crisi dell’irredentismo italiano trovò uno sbocco nel fascismo; all’opposto, l’irrendentismo degli slavi del sud trovò una nuova raison d’être che l’aiutò a ottenere una legittimazione etico-politica. Il deficit di democrazia esisteva su entrambi i versanti, ma soprattutto su quello del fascismo italiano: mentre infatti nel corso degli anni Venti le organizzazioni degli slavi del sud in Venezia Giulia venivano vietate, gli italiani in Dalmazia avevano libertà di riunione. Le associazioni jugoslave quindi, a parte il periodo della dittatura monarchica, operavano in condizioni di concorrenza democratica - i cristiano-sociali rivaleggiavano con i liberali e gli unitaristi con i federalisti, e a tutti questi gruppi si aggiunsero poi i comunisti -, mentre le associazioni italiane erano ancorate al fascismo come unica forma di espressione politica, avendo al massimo la libertà di dichiararsi particolarmente fedeli alla casa reale (in entrambi i paesi, in realtà, le associazioni nazionalistiche e irrédentiste avevano stretti legami con la monarchia, giacché il prestigio di una iniziativa cresceva se essa veniva patrocinata da membri della famiglia Karadordevic o della dinastia Savoia); ma nemmeno questo assicurava loro un più ampio spazio di manovra politico. I gruppi irredentisti sud-slavi erano in parte inseriti, attra­ verso le associazioni degli sloveni e croati giuliani in esilio, in un contesto internazionale democratico e antifascista (Unione Inter­ parlamentare, Lega internazionale per la Società delle Nazioni, emigrazione italiana a Parigi, emigrazione slava negli Stati Uniti e in America meridionale). L’irredentismo italiano, ossia le organiz­ zazioni in esilio dei gruppi italofoni della Dalmazia, rimase invece sottomesso alla volontà politica del regime. Negli anni Venti le tradizionali associazioni irredentistiche si adattarono sempre più rapidamente alle esigenze fasciste; la tendenza laico-mazziniana e l’associazionismo operaio scomparvero, almeno in superficie. Le associazioni, un tempo indipendenti, che avevano operato nell’ambito costituzionale dell’Italia monarchico-liberale diven­ nero organi ausiliari dei ministeri dell’interno e dell’Educazione nazionale, da cui dipendevano anche finanziariamente. In Italia l’associazionismo irredentistico, accanto ai compiti immediati di snazionalizzazione, che in Venezia Giulia vennero assunti dalle associazioni scolastiche, dalla Ond e da altre organizzazioni fasciste di massa, svolgeva una funzione di politica estera: teneva cioè vivo il ricordo delle «terre irredente» e creava nella popolazione

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una corrente di opinione utilizzabile per i fini espansionistici del governo. Allo scopo disponeva di propri giornalisti, di testate e di rubriche fisse nei quotidiani: con la letteratura sulla Dalma­ zia, assai diffusa negli anni Venti e Trenta, si sarebbero potute riempire intere biblioteche. Nei momenti di avvicinamento alla Jugoslavia o alla Francia il regime preferiva disciplinare i gruppi irredentistici (riorganizzandoli e vietando i simboli dalmati), in modo da evitare conflitti diplomatici. Quando invece emergevano tensioni con i propri vicini, come all’epoca degli incidenti di Traù e Veglia, Mussolini lasciava mano libera agli irrendentisti. In quei momenti i manifestanti che portavano il vessillo azzurro con i leopardi e si presentavano al fianco di altre organizzazioni esplicitamente fasciste avevano campo libero. Le adesioni alle associazioni irredentistiche furono signi­ ficative soprattutto nel litorale giuliano, dove esse con le loro scuole contribuirono alla formazione delle élite. Le associazioni assistenziali e scolastiche svilupparono idee di italianizzazione integrale che le aiutarono a emergere. L’Italia era avvantaggiata dal fatto che il conflitto con la Jugoslavia si svolgeva in gran parte sul proprio territorio. Nella società dei cosiddetti «anni del consenso», pacificata dal fascismo, le organizzazioni «ci­ vili» dell’irredentismo italiano si distinsero a volte dalle unità «paramilitari» della Narodna obrana o della Orjuna: ne nacque così l’immagine, falsa ma instancabilmente diffusa da giornalisti come Virginio Gayda, della «civile Italia» e della «irrequieta Ju­ goslavia». Quanto più la propaganda fascista puntava i riflettori sugli aspetti irrazionali, mistici, «balcanici» del sistema politico in Jugoslavia, tanto più essa riusciva a far dimenticare il proprio passato squadristico, che tornava a ostentare in occasioni come la Mostra della rivoluzione fascista. Quest’ultima ebbe luogo quando alcune organizzazioni della resistenza degli sloveni e croati giuliani erano ormai armate. Se si sommano gli iscritti alle organizzazioni irredentistiche e alle società segrete jugoslave, ivi compresi i gruppi affiliati al Sokol e all’Orel, si arriva a un numero di persone che negli anni Venti e Trenta oscillava tra 200 mila e 400 mila. Occorre però tener conto delle doppie appartenenze, giacché gran parte degli sloveni e croati di simpatie nazionali affiliati ad associazioni scolastiche e di tutela erano anche iscritti al Sokol. Ma quel dato, in un paese dilaniato da tensioni etniche e in cui molti si autodefinivano attraverso legami confessionali o territoriali, era

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pur sempre elevato. Le organizzazioni abbracciavano la parte più attiva della «nazione dal triplice nome»: giovani, insegnanti, funzionari, soldati e donne dei ceti più elevati. Le associazioni e organizzazioni jugoslave erano - insieme all’esercito, alla scuola unitaria, alle logge massoniche, ai sindacati influenzati dai so­ cialdemocratici e alle correnti unitaristiche delle varie chiese - le pietre angolari di una nazione da costruire. Le loro prospettive di successo erano strettamente legate alle possibilità di sviluppo dello «jugoslovenstvo», di cui furono tra i principali vettori. Che le prospettive di successo dello «jugoslovenstvo» non fossero molto elevate è stato nuovamente documentato di recente, in modo efficace, con riferimento al paradigma dalmata. Del resto agli sloveni e croati giuliani non si poteva chiedere di identificarsi semplicemente con il punto di vista dei piccoli contadini dalmati: il mondo di questi ultimi era fatto di aspettative e speranze del tutto diverse da quelle degli «jugoslavi all’estero» che, tanto più se esuli, si sentivano fortemente legati allo Stato centralistico. La disillusione dei contadini dalmati subentrò un decennio prima di quella degli emigrati giuliani, cui verrà dedicata particolare attenzione in uno dei capitoli che seguono. Quella galassia di società segrete, associazioni sportive e organizzazioni paramilitari raramente era un blocco unitario. Le correnti liberal-pacifiste e gli orjunasi erano separati da abissi veri e propri, anche quando i loro iscritti votavano lo stesso partito, venivano finanziati dagli stessi fondi e «Elaboravano su deteminati terreni. Nello specifico contesto dello Stato SHS la lega ginnica Sokol, nata sotto il segno del panslavismo, si disgregò rapidamente; l’unificazione forzata sotto la dittatura monarchica trasformò Sokol e Orel, fino allora formalmente indipendenti, in elementi di un’organizzazione quasi statale. Fino a metà degli anni Trenta la Jugoslavia aveva bisogno quanto l’Italia fascista di rivolgere le inquietudini interne contro il proprio vicino, e anzi Roma poteva scegliere se cercare diversivi anche in altre direzioni (il Mediterraneo, l’Africa) o collegare la problematica jugoslava ai rapporti con la Francia. Sul piano politico interno le condizioni del movimento irredentista in Ju­ goslavia variavano da regione a regione: mentre in Bosnia o in Serbia ampie porzioni della popolazione non erano interessate alla situazione degli sloveni e dei croati giuliani, in Dalmazia il timore era che gli italiani tornassero. La parte più dinamica e politicamente attiva degli abitanti della Croazia e soprattutto

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della Slovenia guardava anche alla possibilità di riconquistare, in un futuro non troppo lontano, i «territori occupati» tra Fiume e l’Isonzo: queste prospettive trattenevano soprattutto gli sloveni aH’interno del quadro dello Stato jugoslavo, mentre la grande maggioranza dei croati non esitava ad appoggiare programmi più radicali di autonomismo e separatismo. Sebbene in Jugoslavia le associazioni patriottiche operassero fin dall’inizio con un forte riferimento statale, proprio l’esempio del Sokol chiarisce che per lo Stato centralistico ciò non era sufficiente. L’idea jugoslavistica di Stato era ancora ben lontana dall’essersi affermata in tutte le organizzazioni regionali del So­ kol, che si orientavano soprattutto sulle aspirazioni della società civile, ma un Sonderweg sloveno-cattolico o croato-populistico era inconciliabile con l’identità jugoslavistico-integrale della dittatura monarchica. Sebbene Aleksandar Karadordevic avesse abolito la democrazia per ragioni soprattutto di politica interna, i commentatori italiani vi videro una sorta di «emulazione del fascismo». Dal punto di vista italiano la dittatura del re si rivolgeva in primo luogo contro le aspirazioni autonomistiche croate, ma com­ portava al tempo stesso una rottura con la tradizione democratica della sinistra jugoslava, invisa al fascismo. Il fatto che numerosi croati si trovassero in carcere e che il re avesse elevato a bene supremo l’unità della «nazione jugoslava» era compensato, per alcuni osservatori italiani, dal fatto che Pribicevic fu costretto all’esilio e che la Jugoslovenska matica venisse imbrigliata. Ma, soprattutto, tutta una serie di provvedimenti della dittatura face­ vano pensare che la Jugoslavia iniziasse a emulare seriamente gli italiani nello smantellamento dei diritti democratici fondamentali. Ciò fu interpretato da parte italiana non come sviluppo autori­ tario di carattere endogeno, ma come tentativo di «imitazione del fascismo in Jugoslavia», secondo la definizione datane nella rivista «Gerarchia» da Paolo Pietri, che scrisse diversi articoli sulla Jugoslavia anche per altri periodici247. L’occasione per mettere in primo piano l’«universalità» del fascismo fu offerta dal decennale della marcia su Roma e dell’in­ gresso del fascismo nel governo. Nel suo scritto Pietri ignorava del tutto le tensioni esistenti tra Italia e Jugoslavia e collocava invece lo Stato balcanico accanto a una serie di paesi come la Spagna, in cui si potevano osservare tentativi analoghi di emu­ lare il fascismo italiano. Questa equiparazione era possibile solo

Dante Alighieri contro Cirillo e Metodio

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perché l’apice del conflitto non era stato ancora raggiunto con gli episodi di Veglia, Traù e simili. D ’altra parte l’argomentazione di Pietri smentiva coloro che, come il socialdemocratico tedesco esperto di Balcani Hermann Wendel, puntavano con decisione sulla monarchia come forza unificatrice di una Jugoslavia rivolta contro il vicino italiano248. Per non suscitare troppe aspettative, Pietri indicava una serie di limitazioni: Il regime del 6 gennaio [...] si è retto e si regge esclusivamente con la forza del tribunale speciale. Non ha neppure tentato una «battaglia del grano» come l’attuò con vittorioso esito il Duce, né ha pensato a bo­ nifiche integrali, a organizzazioni corporativistiche, a opere assistenziali, e, insomma, a tutto quel complesso di provvidenze veramente benedette, che hanno fatto del fascismo la salvezza d’Italia249.

Dall’altra parte Pietri notava alcuni parallelismi nello svilup­ po dei due paesi: dopo la Prima guerra mondiale la Jugoslavia, come e ancor più dell’Italia, aveva dovuto unificare la legislazio­ ne nelle varie province o banati. Nel campo del diritto penale 10 Stato balcanico aveva adottato molte definizioni dal Codice Rocco, entrato in vigore il 1° luglio 1931, e anche la legge sulla stabilizzazione del dinaro seguiva il modello italiano. La dittatura monarchica in Jugoslavia, come il fascismo in Italia, aveva vietato i partiti politici, promuovendo la costituzione di un grande partito nazionale, «esatta copia del Partito nazionale fascista»250. Particolare attenzione era dedicata da Pietri alla legge sul Sokol e alla funzione di questa organizzazione nella società jugoslava: 11 nuovo Jugosokol, scriveva, «non è più una semplice società ginnastica, ma una vera e propria milizia giovanile, con un pro­ gramma di educazione premilitare». La rivalutazione del Sokol era secondo Pietri riconoscibile anche dal fatto che la dittatura monarchica aveva istituito un nuovo ministero per l’educazione fisica, con competenza anche sull’organizzazione sportiva. Il commento di Pietri taceva su un’altra affinità tra lo Jugosokol e l’Opera nazionale dopolavoro: la Chiesa cattolica considerava entrambe le organizzazioni come rivali nel campo del «lavoro sulla gioventù». Se la capacità di presidiare in modo capillare l’ambito della socialità era un punto di forza delle organizzazioni laiche e cattoliche, le federazioni e le opere nazionali centralizzate e dotate di apparati a tempo pieno e di propri organi di stampa costituivano per la Chiesa una minaccia non da poco.

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La sintesi di Pietri si può leggere invece quasi come un pre­ sagio sull’era Stojadinovic, durante la quale vi fu effettivamente un avvicinamento della Jugoslavia all’Italia (e alla Germania na­ zionalsocialista) e si assistè alla totale scomparsa di organizzazioni nazionaliste tradizionali come la Narodna obrana e l’Orjuna. In Jugoslavia il fascismo, scriveva Pietri, veniva non solo ammirato e imitato, ma anche molto «sentito»; egli concludeva poi con l’auspicio che «la nuova Roma imperatoria possa essere anche al popolo jugoslavo maestra di civiltà»251. Per quanto strabilianti possano apparire queste frasi e per quanto privo di sostanza fosse l’appello al «popolo jugoslavo», il saggio di Pietri segnalava una tendenza che in Jugoslavia non riuscì a farsi strada immediatamen­ te, ma che nel medio periodo aveva prospettive di successo.

Capitolo terzo

Venezia Giulia/Julijska Krajina. Snazionalizzazione, antifascismo, esilio

Il vero e proprio scontro tra «italianità» e «jugoslovenstvo», tra il potere statale e la rete centralizzata di associazioni e opere nazionali fasciste e le leghe ginniche, le associazioni scolastiche e le organizzazioni femminili e giovanili slovene e croate, sia locali sia regionali, avvenne proprio nella regione giuliana. Questo capitolo si apre con alcune considerazioni sul signi­ ficato dei termini assimilazione e snazionalizzazione. Viene poi affrontato un tema-chiave dell’ampia «bonifica etnica» che coin­ volse tutti i settori della società: l’italianizzazione dei toponimi e dei nomi propri. Su questo aspetto della politica fascista esiste, grazie ai rapporti del Congresso europeo delle nazionalità, una disponibilità di fonti documentali che supera o quasi la necessità di ulteriori ricerche d’archivio1. La presenza dell’Italia sull’Adriatico nord-orientale suscitò ben presto resistenza tra gli sloveni e i croati, come si mostrerà facendo riferimento soprattutto ai rapporti del consolato tedesco di Trieste: da questa fonte si possono ricavare infatti informazioni sulle forme organizzative e sui mezzi di lotta della resistenza e sui suoi contatti e collegamenti con la Jugosla­ via. Viene quindi affrontato, con un excursus che esula in parte dal tema del contrasto tra italiani e slavi del sud, il modo in cui il fascismo italiano, negli anni Trenta e fino alla promulgazione delle leggi razziali del 1938, caricò progressivamente in senso etnico-nazionale e razzista il termine italianità. In questo capitolo, a differenza dal precedente, il confronto tra paesi passa in secondo piano. L’elemento più diretto di confronto con la politica seguita dall’Italia in Venezia Giulia tra il 1920 e il 1941 fu la politica jugoslava a Fiume e nellTstria dal 1945 al 1954, il cui esame richiede però la conoscenza delle vicende della guerra partigiana nell’Adriatico nord-orientale. Sull’esilio degli sloveni e dei croati tra il 1918 e il 1941 e sull’esodo degli

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istriani e dei fiumani tra il 1946 e il 1954 sono disponibili dati e fatti la cui analisi in chiave comparativa appare promettente. Ciò che interessa è proprio il collegamento tra la situazione di una minoranza che comprendeva la popolazione di vaste aree e intere città e le condizioni di un movimento di esuli e fuggiaschi percepibile sia in queste regioni sia nelle mete di queste migra­ zioni oltre confine. 1. Lo Stato nazionale omogeneo L’espressione etnicko ciscenje («pulizia etnica») è assurta a notorietà internazionale nel corso dei conflitti militari e delle guerre civili avvenuti in Jugoslavia negli anni Novanta. Questo termine eufemistico rivela già gli aspetti rilevanti in un’analisi delle problematiche novecentesche della fuga e dell’espulsione di popolazioni. Scopo dell 'etnicko ciscenje è trasformare in pro­ vincia di uno Stato nazionale monoetnico una regione fino allora abitata da una popolazione multietnica, annettendo ad esempio alla Serbia una Krajina «etnicamente pura» o alla Croazia una Erzegovina «bonificata». In effetti la «pulizia etnica» è il secondo dei tre metodi che furono impiegati per creare Stati nazionali omogenei dopo il crollo dei grandi imperi avvenuto con la Prima guerra mondiale2. Il primo metodo - «innocuo» solo a confronto con gli altri due - è la politica di assimilazione o di snazionalizzazione, che consisteva essenzialmente nel privare un gruppo etnico della sua lingua parlata e scritta e della sua «peculiarità» etnico-nazionale attraverso una serie di divieti (uso della lingua, scuole, pubblicazioni, toponimi, ricorrenze, cultura delle feste), al fine di adeguarlo alla cosiddetta nazione titolare (Titularnation) e in ultima analisi costringerlo a integrarsi in essa. Il secondo metodo mirava all’allontanamento fisico della minoranza, in modo diret­ to, con la violenza poliziesca e (para)militare, o indirettamente, con il boicottaggio economico e il sequestro delle abitazioni3: espellendo dal paese la maggioranza dei membri di un gruppo etnico si confidava che risultasse più facile l’assimilazione di coloro che rimanevano. Per quanto riguarda il terzo, ancor più brutale metodo di omogeneizzazione etnica, i suoi fautori non si accontentavano dell’assimilazione né dell’allontanamento di un gruppo etnico, e per questo ne organizzavano lo sterminio

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mediante commando omicidi appositamente istruiti e campi di concentramento, deportazioni e assedi. Questo metodo è l’unico irreversibile, mentre tutte le altre azioni di omogenizzazione nazio­ nale possono essere in certa misura annullate, abolendo le norme e i provvedimenti, legislativi e non, concedendo agli esuli di fare ritorno o riconoscendo delle somme a titolo di indennizzo. In questa sede conviene iniziare l’esame dal secondo dei metodi sopra indicati, per due motivi. Innanzi tutto gli ultimi due sistemi per imporre l’omogeneità etnica sono strettamente legati l’uno all’altro dal ricorso alla politica di allontanamento, nel senso ad esempio che la campagna di assimilazione viene spesso seguita daH’allontanamento o dalla deportazione, che a loro volta sono l’anticamera del genocidio; il secondo motivo è che l’espressione balcanica etnicko ciscenje si avvicina molto ai termini coniati all’inizio della Prima guerra mondiale in Germania e in Italia per indicare le misure da prendere in caso di vittoria sul rispettivo «nemico ereditario». 1.1. «Völkische Feldbereinigung», «bonifica etnica» ed «etnicko ciscenje» Nella storia dei progetti di omogeneizzazione nazionale no­ vecenteschi il concetto di etnicko ciscenje non è isolato come a volte si crede e, in ogni caso, non vi è motivo per ritenerlo una invenzione sud-slava o «balcanica». Durante la Prima guerra mondiale i pangermanisti dell’Alldeutscher Verband, che già nel 1894 avevano richiesto la «riunificazione nazionale di tutto il popolo tedesco nell’Europa centrale, ossia la definitiva crea­ zione della Grande Germania»4, propugnò, come metodo per la germanizzazione dei nuovi territori conquistati lungo il confine orientale dell’impero tedesco, una völkische Feldbereinigung, una «bonifica etnica», e una «politica di allontanamento e trapianto» della popolazione di lingua francese che viveva nei pressi del confine (una volta modificato in favore della Germania)5. Forse occorre un particolare tipo di «coinvolgimento» per collegare tra loro la variante pangermanista e quella fascista dell’omogenizzazione etnica. Lo storico e giornalista sudtirolese Claus Gatterer è stato il primo a far notare che i fascisti italiani, per definire la propria politica di repressione delle minoranze nella Venezia Giulia e nelFAlto Adige, fecero ricorso a un simile

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bagaglio di termini eufemistici. Ettore Tolomei e Adriano Colocci-Vespucci, «due gregari del nazionalismo», propugnarono fin dal 1914 «il trasferimento delle popolazioni sudtirolesi al fine di bonificare le terre a sud del Brennero dalle “contaminazioni” (o dagli “inquinamenti”) tedeschi»6. A sud delle Alpi il programma nazionalista divenne di attua­ lità solo alla fine della Grande guerra, quando le truppe italiane occuparono il Tirolo meridionale, la Venezia Giulia e parti della Slovenia e della Dalmazia. In questa fase al centro delle riflessioni non era più l’allontanamento degli slavi giuliani o dei sudtirolesi di lingua tedesca: i fascisti si ricordarono di un metodo di omo­ geneizzazione etnica meno dispendioso e più facile da realizzare rispetto alle misure di espulsione vere e proprie. Le camicie nere parlavano infatti di «bonifica etnica»: un’immagine, come quella analoga coniata da Class in Germania, di derivazione agraria, usata per indicare le azioni di risanamento del territorio nell’area del delta del Po, della campagna romana o nell’Italia meridionale, già parzialmente avviate in epoca liberale, prima della Grande guerra, ed elevate poi dal fascismo a obiettivi programmatici di primo piano («bonifica integrale»)7. Utilizzando tale espressione in senso lato, le camicie nere nella Venezia Giulia alludevano all’idea di prosciugare il «pan­ tano slavo» per ricavarne terra italiana. Mentre non è possibile dimostrare una derivazione diretta di questi concetti dal progetto di «bonifica etnica» proposto dalla Lega pangermanista, occorre ricordare soprattutto la notorietà e popolarità delle bonifiche, con cui i governi crearono nuovi spazi d’insediamento nell’Italia povera e sovrappopolata. La bonifica e la colonizzazione erano il complemento di politica interna dell’imperialismo e dell’espansio­ nismo verso l’esterno; in entrambi i casi ciò che si prometteva di offrire ai contadini senza terra erano soprattutto terre da popolare e da coltivare. Inoltre, l’immagine della «bonifica etnica» evocava il concetto di una «bella Italia» ancora «intatta», la visione di una terra completamente libera e priva di zone infestate da malaria o da dannose popolazioni di minoranza, dalle Alpi alla estremità meridionale della Sicilia, in cui gli italiani respirassero aria pura e parlassero com’era giusto l’italiano8. Le immagini televisive dell’ultimo decennio ci hanno abitua­ to ad associare all 'etnicko ciscenje atti di violenza, villaggi dati alle fiamme, stupri e fosse comuni. In una prospettiva storica occorre constatare che il fatto che la «bonifica» avvenisse con

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maggiore o minore violenza, che prendesse la forma di una politica di assimilazione rigida ma non omicida o somigliasse piuttosto al genocidio, non dipendeva solamente dai piani dei suoi promotori, ma da una serie di circostanze concomitanti9. Inoltre, negli anni immediatamente successivi al 1918 non esi­ steva ancora una terminologia internazionale sufficientemente standardizzata da permettere ai protagonisti di servirsi di un lessico che facesse riferimento a criteri precisi: solo recentemente, infatti, la letteratura ha stabilito una chiara distinzione tra etnocidio (estinzione culturale di un gruppo etnico a causa di una politica di assimilazione forzata) e genocidio vero e proprio10. Mentre quest’ultimo termine è rimasto invariato, l’etnocidio viene chiamato anche «genocidio culturale»: espressione che sia in tedesco sia in italiano rimanda più chiaramente al significato a esso sotteso, ossia la scomparsa di un gruppo etnico non per l’eliminazione fisica dei suoi membri, ma per via di una politica repressiva nel campo scolastico, culturale e della comunicazione di massa, tale da impedire a coloro che si considerano parte di una minoranza di apprendere correttamente la propria lingua madre e di utilizzarla in pubblico. Negli anni tra le due guerre e dopo il 1945 il conflitto italojugoslavo sulla qualità delle azioni di «pulizia etnica» si accese non solo sulla questione del numero di sloveni e croati e di italiani coinvolti; la controversia riguardò infatti anche la terminologia adottata dal paese vicino, il che significa che i contendenti si scontrarono duramente sull’uso delle parole. Dopo il 1945 gli autori jugoslavi accusarono l’Italia (soprattutto il regime fascista) della responsabilità di un «genocidio» ai danni di sloveni e croati; in tempi più recenti, pubblicazioni italiane hanno accusato la Jugoslavia di aver fatto ricorso, dopo il 1945, al metodo della «pulizia etnica» ai danni degli italiani11. Su quest’ultima accusa si ritornerà nella seconda parte del volume, mentre sulla prima si può ricordare il conciso giudizio dello storico triestino Elio Apih: «la violenza fascista, quando non andò oltre (e ciò non fu in pochi casi), portò avanti un proprio progetto di “genocidio culturale”, cioè di italianizzazione forzata»12. In effetti, dopo la presa del potere da parte di Mussolini, il tema di una omogeneizzazione nazionale forzata della regione adriatica ebbe la meglio sui discorsi di stampo risorgimentale sullo Stato nazionale e sulla nazione. Se i fascisti definivano «bonifica etnica» la propria politica, alcuni oppositori esterni o

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interni dell’unificazione etnico-nazionale - come il Congresso delle nazionalità, la Lega internazionale per la Società delle nazioni, il Deutscher Verband in Alto Adige o il gruppo sloveno della «Edinost» a Trieste e Gorizia - tendevano a utilizzare il termine «snazionalizzazione». Poiché tale termine era strettamente legato all’idea allora prevalente di popolo e di nazione, esso può essere utilizzato oggi per comprendere in chiave scientifica gli eventi solo a condizione che esso venga contestualizzato nella storia delle definizioni nel modo più accurato possibile. Lo stesso vale per il termine «assimilazione», che oggi si tende a preferire. 1.2. «Snazionalizzazione» e «assimilazione» Il termine «snazionalizzazione» non risale all’epoca del crollo dei grandi imperi multietnici dal 1918 in poi, ma al secolo pre­ cedente: esso era emerso negli anni successivi al Congresso di Vienna per indicare gli effetti delle decisioni prese in quella sede sui movimenti nazionali in Polonia, Italia e altri paesi europei. Dopo la Grande guerra fu uno dei termini maggiormente utilizzati in un contesto di politica etnica o delle minoranze. Nonostante ciò, raramente le politiche di snazionalizzazione di regimi politici diversi sono state studiate in chiave comparativa. Tali politiche hanno suscitato attenzione teorica e pratica soprattutto nei suoi artefici e nelle sue vittime: i primi al fine di formulare pro­ grammi e leggi volti a motivare, introdurre e difendere la prassi dell’assimilazione, le seconde nel redigere risoluzioni, appelli e controprogrammi intesi a sistematizzare la critica contro i prov­ vedimenti delle autorità, a bloccare le campagne di assimilazione e a ottenere la revoca dei provvedimenti. La polarizzazione che ne conseguiva lasciava poco spazio a compromessi e gli interessati si trovavano costretti a prendere delle decisioni in termini di aut-aut\ essi potevano restare fedeli alla propria appartenenza e «identità» etnico-nazionale, avvertite come qualcosa di naturale, e soprattutto al diritto ad articolarsi in termini nazionali, e in tal caso dovevano mettere in conto numerosi svantaggi (divieti di lavoro, multe, arresto, esilio); in alternativa potevano rinunciare a questo diritto e adeguarsi alle richieste del regime, rischiando però di essere bollati dagli esponenti più irremovibili della minoranza come «disfattisti» o «rinnegati».

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Questa drastica alternativa si poneva soprattutto ai dipendenti pubblici, ai liberi professionisti e agli intellettuali, che nelle città erano esposti all’arbitrio delle autorità; gli operai dell’industria, i braccianti, i domestici, abitanti dei villaggi, chi viveva da pen­ dolare tra il mondo rurale e quello urbano e i migranti che lavoravano temporaneamente all’estero avevano invece maggiori possibilità di sottrarsi alla morsa dello Stato. Nel nostro caso, ciò vale per la domestica slovena dell’Istria settentrionale che lavorava a Trieste, per l’operaio croato occupato nell’arsenale di Pola o per il piccolo contadino della valle della Soca (Isonzo) che aveva trovato lavoro nei cantieri di Monfalcone. Alla domanda su quali fossero in realtà il soggetto assimilatore e quello assimilato i diversi critici della politica di snazionalizza­ zione davano risposte molto diverse tra loro. I fautori di una con­ cezione del popolo come Volkstum, secondo cui i governi spesso erano semplici comitati di gestione di una nazione misticamente trasfigurata operanti in nome del «popolo sovrano», indicavano nel popolo (Staatsvolk) il protagonista della snazionalizzazione. Poiché la prassi di assimilazione era considerata un processo che durava secoli, chi sosteneva un etnonazionalismo integrale interpretava qualsiasi conflitto tra due gruppi etnici come una sorta di lotta tra due «organismi popolari» che si affrontavano in un duello sportivo, nel quale il più debole avrebbe finito per cedere esausto. Ricorrendo a un’immagine che corrispondeva in pieno a tali posizioni «essenzialistiche», si doveva parlare dell’incontro e scontro tra le «essenze» o «identità» dei popoli. Josip Vidmar nel 1925, nel suo scritto Sulla nazione, ammetteva che un popolo poteva arrivare, per «esaurimento» interno, a mescolare la propria lingua con quella di altri fino a rinunciare a se stesso13. Per Max Hildebert Boehm, che sotto il nazismo dedicò un volume al tema dell’assimilazione, la lotta contro la politica di assimilazione del fascismo italiano non verteva sem­ plicemente sul diritto all’autodeterminazione delle minoranze; la riflessione sulla snazionalizzazione rimaneva per lui indivisibile dal suo concetto di popolo14. Accomunare un critico letterario della sinistra liberale slovena come Vidmar e un sociologo völkisch tedesco come Boehm significa sottolineare alcune delle basi su cui veniva elaborata la politica delle minoranze del Congresso delle nazionalità, degli istituti per lo studio delle minoranze, della Lega internazionale per la Società delle nazioni e dell’Unione interparlamentare: si tratta di tentativi di elaborare una piatta-

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forma politica sulle nazionalità rimasti attuali fino agli anni della guerra partigiana. Una terza corrente che si è occupata delle problematiche di snazionalizzazione è stata quella marxista, caratterizzata da una particolare varietà di posizioni. I teorici socialisti e comunisti collocavano la questione nazionale e la problematica delle mino­ ranze accanto alla lotta di classe o nell’ambito di questa; per loro la snazionalizzazione era un prodotto della borghesia e del suo Stato. In termini generali si può dire, con Hans Mommsen, che il nazionalismo avrebbe dovuto essere «eluso» dalle lotte sociali, ossia che il movimento dei lavoratori lo avrebbe sostanzialmente estromesso dal proprio raggio d’azione15. Dietro a ciò stava il fatto che agli inizi del socialismo una distinzione tra internazio­ nalismo e cosmopolitismo era difficile, e forse impossibile da attuare. Marx, Bakunin, Proudhon, Mazzini, Garibaldi: per la sinistra europea ottocentesca i confini delle classi e delle nazioni rimasero a lungo fluidi16: «i lavoratori non hanno patria», la nota frase del Manifesto del partito comunista, induce Enzo Traverso a parlare di una «ambiguità costitutiva del marxismo classico riguardo alla questione nazionale»17. Fin tanto che i marxisti, dal loro punto di vista, attribuivano alla borghesia un «ruolo progressista» nella storia era ancora pos­ sibile considerare «progressista» anche la politica di una borghesia liberale forte volta ad assimilare una minoranza conservatrice. Miroslav Hroch ha sottolineato che proprio i governi e i partiti liberali ottocenteschi tendevano a vedere nell’assimilazione un presupposto per l’elevazione degli strati meno abbienti della popolazione, per lo più rurale, mentre i conservatori erano più disposti a tollerare o addirittura a favorire una lingua minoritaria finché coloro che la parlavano non mettevano in discussione la loro posizione economicamente privilegiata18. Sebbene il comunista sloveno Edvard Kardelj non si possa col­ locare nel «marxismo classico» - la sua ascesa ai vertici del partito avvenne in piena epoca staliniana - rimane eloquente la sua avver­ sione per le «lotte meschine, tipicamente piccolo-borghesi, i diritti linguistici nelle scuole e negli uffici, questo o quel funzionario, questo o quell’evento, l’Università di Lubiana e simili». Si trattava di battaglie analoghe a quelle condotte, negli ultimi decenni del­ l’epoca asburgica, dai liberali e dai cristiano-sociali sloveni19. La storia europea conosce però almeno due esempi di «co­ struzione della dimensione nazionale» all’insegna del socialismo:

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la politica di ucrainizzazione condotta dai bolscevichi negli anni Venti, poi osteggiata e conclusa da Stalin, e la variante titoista del nation-building in Macedonia20. In entrambi i casi si trattò di processi programmati di «nazionalizzazione dall’alto» che pote­ rono avere profondi effetti sociali solo grazie al coinvolgimento organizzativo delle «masse». All’estremo opposto si colloca Friedrich Engels con il suo verdetto sui «popoli senza storia», pronunciato nel 1848; egli faceva dipendere le possibilità di sopravvivenza dei gruppi etnici minori nell’Europa centro e sud-orientale dalla loro capacità di adattamento ai loro potenti vicini21. Engels parlò senza mezzi termini di «rottami» e «residui di popoli», delineando così (pur senza mai visitare quei luoghi) un’immagine speculare all’idea idealizzata e romanticizzata dei «mosaici» o «musei di popoli» tanto cara ai visitatori occidentali della regione adriatica. Il concetto di snazionalizzazione era noto già a Friedrich Engels, e anche per questi, come per i teorici sloveni del Novecento, stava a indicare una situazione che oggi definiremmo «prenazionale» o «interetnica». Come Josip Wilfan, Josip Vidmar o Edvard Kocbek, anche Engels faceva risalire gli inizi della snazionalizzazione a un’epoca in cui non era ancora avvenuta una nazionalizzazione, nel senso che questo termine ha assunto per gli studi recenti di storia delle nazionalità: egli insomma trasferiva acriticamente il panslavismo nel passato e presentava la condizione degli slavi sotto la dominazione tedesca e ungherese come conseguenza di mille anni di soggiogamento e di denazionalizzazione22. Le posizioni di Engels e quelle degli sloveni avevano in comune il fatto di retrodatare di parecchi secoli il processo di formazione della nazione, e dunque di anticipare molto anche lo «smarrimento dell’identità» della parte soccombente. Un’idea di snazionalizzazione così intesa ha alcune somiglianze con il con­ cetto di «confine etnico»; solo il riferimento ai «millenari», visto che si tratta di persone e non di edifici, denota il background essenzialistico di chi se ne serve23. Dall’altra parte veniva spontaneo paragonare tale snazio­ nalizzazione secolare alla diaspora ebraica, come fecero alcuni politici e portavoce delle minoranze slovena e croata. Su questo terreno si finiva anche per accostare tra loro miti mitteleuropei e balcanici e risultava più facile collegare eventi-simbolo come il Kosovo polje dei serbi, il Duvanjsko polje dei croati e il Gosposvetsko polje degli sloveni.

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Le parole più chiare sulla tematica dell’«assimilazione» e della «snazionalizzazione» furono pronunciate, alla vigilia della Prima guerra mondiale, dal socialista triestino Angelo Vivante. Nel caso della snazionalizzazione degli slavi giuliani egli distingueva net­ tamente tra una fase di «assopimento» e una di «assimilazione». Mentre l’«assimilazione» presupponeva, secondo Vivante, un certo livello di sviluppo capitalistico, uno scambio intenso di merci e di idee e una vivace urbanizzazione - tutte condizioni che nella Trieste ottocentesca esistevano -, l’«assopimento» indicava uno stadio precapitalistico e prenazionale dei rapporti tra i diversi gruppi etnici, alcuni più dinamici e altri meno. Vivante interpre­ tava dunque come «assopimento» la subordinazione degli slavi del sud a una cultura di lingua tedesca, magiara o italiana, come quella che si riscontrava soprattutto nella sfera di dominazione asburgica24. Questa distinzione consentiva a Vivante di prendere le distanze da una visione essenzialistica della snazionalizzazio­ ne simile a quella coltivata da quei teorici che vedevano negli «snazionalizzatori» o negli «assimilatori» dei secoli passati dei soggetti nazionali pienamente caratterizzati cui era facile attribuire il ruolo di carnefice o di vittima. Alla vigilia della Prima guerra mondiale era questa una facile via d’uscita dalla polarizzazione etnico-nazionale che si riscontrava a Trieste tra narodnjaki sloveni e liberalnazionali italiani. Al tempo stesso Vivante era uno dei pochi intellettuali triestini che non riducevano la mobilitazione nazionale degli sloveni a un nazionalismo testardo e retrogrado, ma vi coglievano un desiderio di partecipazione democratica. Oltre alle interpretazioni della questione nazionale in chiave völkisch o marxista interessa, in questa sede, anche il motivo per cui nella pubblicistica politica tra le due guerre mondiali (dai documenti del Congresso delle nazionalità fino alle dichiarazioni dei comunisti sloveni) il termine snazionalizzazione fosse molto più diffuso del concetto, oggi molto più attuale, di assimilazione (forzata). Come si può facilmente verificare, la parola assimilazione era usata soprattutto dalle comunità, gruppi e minoranze ebraiche dei diversi paesi europei25. Il Jüdische Lexikon, che ebbe una prima edizione in tedesco nel 1927 e parecchie edizioni successive, for­ nisce una definizione precisa del termine, ma non contiene alcun lemma sulla snazionalizzazione2^. Di grande interesse sono anche gli indicatori del grado di adattamento degli ebrei offerti dalla stessa fonte: per esempio della prima generazione (in gran parte

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assimilata) degli ebrei tedeschi si dice che «si dissolse compietamente nel germanesimo e cercò di legarsi al popolo circostante attraverso il battesimo e i matrimoni misti»27. La scelta lessicale sembra voler sottolineare ulteriormente il messaggio. In ogni caso, l’egemonia culturale del concetto di «germanesimo», non ancora necessariamente razzista (nel senso biologico-razziale), era estesa al punto tale che, in questo articolo, si parlava del dissolversi nel Deutschtum degli ebrei assimilati. Al tempo stesso appare qui chiaramente una delle principali differenze tra l’assimilazione degli ebrei e la snazionalizzazione di altre minoranze. La prima comprendeva, almeno inizialmente, anche gli aspetti religiosi: il chiaro segno di un adattamento al contesto non ebraico o cristiano era la conversione, che si rite­ neva avvenuta quando una persona di fede mosaica accettava il battesimo per sé e/o i suoi figli. In ultima analisi, dunque, anche il «germanesimo» era definito in termini cristiani, o quanto meno l’effettivo avvicinamento al popolo circostante, ai tedeschi, poteva avvenire solo attraverso le nozze o il battesimo. Raramente, invece, la politica repressiva delle minoranze dei diversi regimi politici nell’Europa novecentesca ha chiesto alle minoranze una conversione di tipo religioso-confessionale: sia che lo Stato fosse laico e agnostico in campo religioso, sia che la «nazione titolare» e la/e minoranza/e appartenessero alla stessa confessione, l’adattamento avveniva sul terreno della lingua e della cultura e non comprendeva, se non indirettamente, la religione e il credo religioso28. Fecero eccezione tra gli altri la Serbia degli anni tra le due guerre e la Croazia degli ustase29. Alla domanda iniziale sulle origini della politica di snazio­ nalizzazione è più facile rispondere se anziché concentrarsi sul soggetto di tale politica - il legislatore o l’esecutore - si guarda all’ideologia nazionalistica retrostante. Per quali ragioni i nazio­ nalisti pensavano che il territorio, lo Stato, la cultura e il popolo (la nazione) dovessero arrivare a sovrapporsi al punto da poter parlare di uno Stato nazionale compatto e di una «nazione tito­ lare» monoetnica? Fino a che punto erano associate qui l’idea etnocentrica di nazione e quella centralistica di Stato? Recentemente è stato Holm Sundhaussen a fornire una ri­ sposta convincente a tali domande, notando che le élite politiche e intellettuali dei paesi dell’Europa sud-orientale collegarono il concetto tedesco di popolo al modello francese di Stato centra­ lizzato30. In tal modo non restava più spazio per ridimensionare

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la pretesa statale di rappresentanza esclusiva (di matrice francese) e la visione (di derivazione tedesca) della «nazione titolare» come comunità di discendenza, mentre un modello di Stato federalista o un popolo (Staatsvolk) concepito in termini di patriottismo .costituzionale non avrebbero richiesto la creazione e la conser­ vazione di «identità» integrali. Le conseguenze furono molto gravi per la politica delle mi­ noranze dei diversi governi nei paesi dell’Europa sud-orientale e per l’atteggiamento di ampi settori della popolazione, come dovettero riconoscere anche gli osservatori esterni che analiz­ zarono in modo approfondito le condizioni dei diversi gruppi etnici. La pacifista e femminista olandese Christina Bakker van Bosse fu tra i pochi esponenti della politica internazionale delle minoranze che avevano rinunciato del tutto al lessico völkisch che molte altre voci avevano semplicemente riadattato alle pro­ prie esigenze. Nel febbraio 1930, al ritorno da un viaggio nel sud-est europeo, Bakker van Bosse delineò un quadro molto articolato della situazione nella penisola balcanica e nell’Adriatico nord-orientale31. Secondo l’osservatrice olandese non era sufficiente studiare le «leggi e i decreti in vigore», ma occorreva sempre verificarne «l’attuazione nei fatti». Spesso le basi costituzionali e le leggi esprimevano «le magnanime intenzioni iniziali delle autorità superiori», che tuttavia venivano «falsificate e rovinate» dalle grette prassi nazionaliste dei livelli inferiori dell’amministrazione (ispettori scolastici, polizia, militari). Del resto, in molti casi le minoranze erano in rapporti «più che buoni» con la maggioranza della popolazione, e il principale problema era in realtà costituito dalla burocrazia32. Se la situazione era diversa da paese a paese, occorreva­ no vaste indagini empiriche e un’esperienza politica di molti anni per riuscire a individuare origini, meccanismi e modalità di funzionamento di una politica di snazionalizzazione e per opporvisi efficacemente33. Ciò valeva per la maggior parte dei paesi dell’Europa sud-orientale visitati da Christina Bakker van Bosse. Ma la stessa notava anche che in materia di «politica di snazionalizzazione» vi era un’eccezione, un caso in cui prevalevano non la polivalenza e la varietà, ma l’univocità e la monocausalità: l’Italia fascista34. Se si assumono come presupposto le osservazioni di Bakker van Bosse, si pone la questione di come circoscrivere e distinguere

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l’«eccezione» italiana. Negli anni Trenta il segretario generale del Congresso europeo delle nazionalità, il tedesco-baltico Ewald Ammende, disponeva di un buon osservatorio sulla situazione delle minoranze. In occasione del VI congresso, nel settembre del 1931, egli dichiarò che in Europa l’oppressione culturale ed economica delle minoranze era classificabile in «tre tipi di restri­ zioni»35: pur senza disegnare una tipologia completa della politica di assimilazione Ammende, grazie alla sua esperienza pratica, era in grado di distinguere e descrivere tre generi di politiche di snazionalizzazione, che qui per semplicità possiamo definire modelli. Il modello A consisteva in una «snazionalizzazione coe­ rentemente attuata e apertamente dichiarata», riconducibile alla formula della «conformità sia in teoria sia in pratica», mirante a «sterminare, o comunque annientare, le minoranze». Il modello B prevedeva il riconoscimento teorico dei diritti delle minoranze, «di solito affermato anche formalmente nella costituzione statale», associato però alla concreta negazione di tali principi nella pratica: «Questo è il tipo che ci si presenta forse nella maggioranza dei casi»36. Il modello C, infine, «punta a negare l’esistenza stessa di una minoranza». I fautori di questa concezione partivano dal presupposto che i membri della minoranza fossero stati sna­ zionalizzati solo temporaneamente, e che fossero in marcia per tornare al loro «popolo di origine». Una delle tesi di fondo del presente lavoro è che sull’Adriatico nord-orientale, nel periodo considerato, si riscontrarono tutti e tre i «tipi di restrizione» dei diritti dei gruppi etnici descritti da Ammende. La forma più diffusa della politica di snazionalizzazione si appoggiava al secondo modello, come mostrava anche la relazione di Bakker van Bosse. Ciò dipendeva tra l’altro dal fatto che tutti gli Stati balcanici erano soggetti al sistema dei trattati di tutela delle mi­ noranze e avevano perciò accolto a vario titolo i diritti di queste nella propria costituzione, e ciò valeva anche per il Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni, trasformatosi dal 1929 in Regno di Jugoslavia. In questo paese, tuttavia, il trattamento delle mi­ noranze era molto differenziato: quelle che godevano di minori diritti erano, paradossalmente, proprio le minoranze jugoslave (musulmani bosniaci e slavi macedoni)37. I musulmani erano considerati parte della nazione sud-slava dal triplice nome, ma non erano attribuibili a nessuna delle sue componenti etniche: avevano comunque un proprio partito che partecipava in vario modo alla responsabilità di governo, trovandosi così a dipendere

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dalla benevolenza della coalizione di governo, mentre gli slavi macedoni erano generalmente considerati «serbi del sud» ed erano privi di una rappresentanza d’interessi propria, a parte le varie correnti filobulgare, filofasciste e filocomuniste della Organizzazione rivoluzionaria macedone interna (Vmro)38. Lo Stato jugoslavo negava sostanzialmente che esistesse una problematica di minoranza nel caso degli slavi macedoni e dei musulmani, anticipando così l’atteggiamento che avrebbe assunto nel conflitto con i croati, e in particolare con il partito contadino di Stjepan Radic39. Negli anni Trenta i croati - una componente costitutiva del popolo dal triplice nome i cui intellettuali erano stati tra i primi fautori dello «jugoslovenstvo» - non ebbero alcuna possibilità di rivolgersi a istituzioni internazionali poiché queste non li riconoscevano come minoranza40. Parzialmente diversa era la situazione delle minoranze che avevano costituito le cosiddette «nazioni titolari» della monarchia asburgica (tedeschi e magiari) o di quella italiana, le cui origini risalivano all’espansione veneziana nell’Adriatico41. La posizione un tempo privilegiata di questi gruppi fu indebolita da alcuni provvedimenti dello Stato SHS (cambiamento di dinastia, riforma agraria, politica scolastica); in termini quantitativi invece avevano perso importanza perché molti di coloro che ne facevano parte (soprattutto italiani) si erano trasferiti nella cosiddetta «madrepa­ tria» e altri si erano assimilati. Ciononostante, fino all’inizio della Seconda guerra mondiale essi furono per il governo jugoslavo seri interlocutori negoziali, sebbene il terrorismo della Orjuna negli anni Venti e la diffusione del nazionalsocialismo negli anni Trenta turbassero non poco questo rapporto42. Le drastiche limitazioni dei diritti delle minoranze in campo scolastico, i divieti di associazione e di partito o le prevaricazioni come quella compiuta a Cilli (Celje) ai danni della Casa tedesca43 indebolirono tali minoranze che tuttavia, se non ci fossero stati l’aggressione italotedesca, il movimento partigiano titoista e la politica del governo jugoslavo nel dopoguerra, avrebbero avuto maggiori possibilità di sopravvivenza. Ciò è vero soprattutto per la minoranza tedesca e per quella magiara: nella Vojvodina e in Slovenia quest’ultima riuscì addirittura a sopravvivere. Se vogliamo fare riferimento al modello di Ammende, la politica di «snazionalizzazione coerentemente attuata e aperta­ mente dichiarata» fu il segno distintivo del cosiddetto «fascismo di confine». L’Italia fascista - come mostrava già il rapporto

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di Bakker van Bosse - era considerata, negli ambienti politici delle minoranze che gravitavano attorno al Congresso europeo delle nazionalità, come uno stato tra i più repressivi44. I termini utilizzati dal segretario generale per descrivere le azioni del fascismo in quanto potere statale («sterminare», «annientare») evocano addirittura una prassi simile al genocidio. Tuttavia, anche alla luce della confusione che abbiamo riscontrato sui termini genocidio o etnocidio, ciò non sembra applicabile al modo in cui fino al 1922 le camicie nere, in quanto movimento sociale, motivarono le proprie azioni antislave e per il significato che ebbe la politica di snazionalizzazione dopo la marcia su Roma per il regime fascista. La politica di snazionalizzazione fascista aveva basi meno so­ lide di quanto ritenessero Ammende e Bakker van Bosse. Innanzi tutto, i programmi e le argomentazioni fasciste presentavano delle contraddizioni di cui oppositori abili avrebbero potuto approfittare. All’inizio il movimento fascista era ancora troppo eterogeneo per poter definire una posizione univoca. Nella regione di confine era difficile distinguere tra l’irredentismo repubbli­ cano o sindacalista e quello fascista o nazionalista (ad esempio i mazziniani, fieri antifascisti, che successivamente intervennero in favore dei diritti delle minoranze, parteciparono all’impresa di Fiume di D’Annunzio). Tuttavia, l’attentato all’Hotel Balkan e le numerose azioni analoghe45 mostrarono che a Trieste e din­ torni il fascismo, al più tardi con l’emergere del gruppo guidato da Francesco Giunta, iniziava ad assumere un atteggiamento sostanzialmente totalitario46. Con la sua risolutezza nell’uso del terrore contro slavi, socialisti e comunisti, il gruppo di Giunta riuscì a togliere spazio ai rivali in campo nazionalista. Importante fu anche il sostegno che esso ricevette dall’opinione pubblica nei mesi successivi all’attacco al Narodni dom. La principale novità della politica fascista di snazionalizza­ zione in Venezia Giulia dopo il 1922 fu che qui, per la prima volta, venivano impiegati contro le minoranze tutti gli strumenti di potere di uno Stato moderno. I provvedimenti del regime non erano diretti soltanto contro le élite rivali, come era accaduto di solito prima che le masse irrompessero nella politica e nella so­ cietà, ma colpivano - sia pure con esiti diversi - qualsiasi gruppo di popolazione per quanto minuscolo o isolato, qualsiasi scuola per quanto periferica, qualsiasi associazione per quanto priva d’importanza. Quando, nel giugno del 1924, il prefetto di Udine,

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che aveva competenza anche su Gorizia, sciolse 32 associazioni culturali di cattolici sloveni che in base ai propri statuti miravano a diffondere la cultura cristiana nella popolazione slovena, egli addusse una singolare giustificazione. Tali associazioni per statuto non solo escludevano «i cittadini italiani dalla partecipazione all’attività associativa slovena» ma stabilivano «anche una diffe­ renza tra i cittadini sloveni e gli altri cittadini italiani, cosa che contrastava con la lettera e lo spirito della Costituzione italiana, che non conosceva una simile distinzione»47. Mentre i politici dell’epoca liberale, attraverso l’eguaglianza costituzionale di tutti i cittadini, intendevano soprattutto impedire che le minoranze avessero un ruolo privilegiato e istituissero delle proprie scuole, il prefetto di Udine scopriva che lo Statuto albertino poteva essere interpretato anche in modo del tutto diverso, e cioè nel senso di un’opposizione attiva alla cultura della minoranza slava. Sotto il regime di Mussolini la politica di snazionalizzazione latente dei governi liberali cedette spazio all’assimilazione forzata. Come scrive giustamente Hanns Haas, il fascismo italiano fu il primo regime su scala europea a sviluppare e impiegare l’intera «varietà delle forme di tale assimilazione forzata»48. Per gli slavi giuliani i danni, nei più svariati ambiti sociali (scuola, editoria, associazionismo e così via), furono enormi: secondo alcune stime il numero delle organizzazioni della minoranza chiuse e vietate «fu, nel primo decennio dopo la Grande guerra, di 488 scuole elementari, 400 associazioni e altrettanti uffici e biblioteche, tre partiti politici [liberali, cristiano-sociali e comunisti], 31 periodici e, in fasi successive, ben 300 cooperative e istituti di credito»49. 2. Bonifica etnica sull’Adriatico: l’italianizzazione dei toponimi e dei nomi In questa sede una descrizione esauriente della politica fascista di snazionalizzazione in Venezia Giulia sarebbe troppo lunga. Per quanto riguarda la mera ricostruzione dei fatti, le pubblicazioni del fisico e pubblicista sloveno Lavo Cermelj in tedesco, inglese, francese e italiano rimangono insuperate anche rispetto a tutte le ricerche d’archivio effettuate ai fini del pre­ sente studio50. In questo paragrafo si illustra con quali mezzi - a parte l’azione delle associazioni scolastiche, dell’Ond e delle altre organizzazioni

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patriottiche e opere nazionali - l’Italia cercò di penetrare nei territori di nuova acquisizione nell’Adriatico nord-orientale. Il regime fascista seguiva una politica interna chiaramente antisla­ va, ma nonostante ciò non si attenne alla rudimentale tipologia delineata nei rapporti pubblicati da Ewald Ammende per conto del Congresso delle minoranze; per i principali esponenti fasci­ sti l’ammissione di voler assimilare le minoranze era altrettanto frequente di quella secondo cui non esisteva in Italia alcuna problematica di minoranze. In occasione del nono anniversario dell’armistizio che sul­ l’Adriatico nord-orientale aveva posto termine alla Prima guerra mondiale, la rivista fascista «Gerarchia» pubblicò nel 1927, con il titolo Nove anni dopo l’armistizio, due fascicoli che divennero una sorta di catechismo del fascismo di confine, il primo dei quali era dedicato all’Alto Adige e al Trentino, il secondo alla Venezia Giulia: Quello che sognammo era confrontato con Quello che è51. Della problematica delle minoranze - sebbene non definite come tali - si occupò in particolare Giuseppe Cobol, uno dei principali esponenti del fascismo istriano52: egli mescolava vec­ chi pregiudizi antislavi, risalenti al liberalnazionalismo triestino, a commenti sul programma di snazionalizzazione del fascismo giuliano che da soli sarebbero bastati a mettere sotto accusa l’Italia davanti alla Società delle Nazioni come Stato ostile alle minoranze, se un simile atto d’accusa ufficiale fosse stato possi­ bile. Al tempo stesso il testo di Cobol conteneva aperte minacce agli sloveni, soprattutto se si trattava di liberi professionisti e impiegati statali53. Secondo Cobol il problema di coloro che parlavano lingue diverse dall’italiano («alloglotti») non esisteva e tutto si riduceva a favorire la penetrazione della cultura ita­ liana nei territori popolati da altre etnie («allogeni»). La stessa idea culturalistica di assimilazione si trova in Luca dei Sabelli, che vedeva nella diffusione del cattolicesimo «l’esempio tipico di un’opera mondiale di assimilazione, compiuta dalla latinità attraverso i secoli»54. Ancora nel 1937 lo stesso Ciano era asso­ lutamente certo che l’«italianità» fosse in grado di assorbire altri gruppi etnici o nazioni55. Le due principali versioni della politica di assimilazione soste­ nuta dal fascismo non si escludevano quindi fra loro; al terrore contro tutti coloro che parlavano un’altra lingua e alla semplice negazione della loro esistenza e capacità di resistenza si poteva­

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no anche accompagnare residui di tolleranza diplomatica, dove erano in gioco le rappresentanze internazionali dell’Italia o dei suoi gruppi etnici (ciò riguarda in particolare l’Unione interpar­ lamentare e la Lega internazionale per la Società delle Nazioni). Se è certo vero che dietro la politica fascista delle minoranze in Venezia Giulia si avverte puntuale la lunga mano di Mussolini, hanno però ragione Joze Pirjevec e Milica Kacin-Wohinz a scrivere che «la politica di snazionalizzazione e repressione di un’intera cultura fu pianificata da funzionari fascisti locali (ge­ rarchi) come Piero Pisenti, Giuseppe Cobolli (già Kobol), Carlo Perusino, Giovanni Relli, Angelo Scocchi, Italo Sauro (figlio di Nazario) e altri»56. Il segnale di un ampliamento e rafforzamento della politica di assimilazione fu dato da una riunione di tutti i segretari di partito fascisti della regione di confine svoltasi il 12 marzo 1927; il lungo verbale di questa riunione non fu mai pubblicato, ma ne fu resa nota una sintesi, ampiamente ripresa sia nel dibattito politico sia nella pubblicistica57. L’8 giugno i segretari federali del Pnf nelle province di frontiera furono ricevuti a Roma da Mussolini, che approvò pienamente e incondizionatamente il loro operato58. Ulteriori passaggi importanti nell’elaborazione di una posi­ zione fascista sulla problematica delle minoranze furono i saggi di Luca dei Sabelli ed Enrico Aci Monfosca, che ebbero anche una certa risonanza internazionale; il volume di Monfosca fu anche recensito nella «Tribuna» e in «Gerarchia»59. Nell’aprile del 1929 l’ambasciata tedesca a Roma inviò questi due libri al ministero degli Esteri a Berlino, aggiungendo che «l’opera pubblicata sotto lo pseudonimo di “Enrico Aci Monfosca”» era forse «stata scritta su iniziativa del governo italiano»60. Una recensione del volume di Sabelli apparve con grande ritardo nel «Deutsche Arbeit», l’organo ufficiale del Volksbund fiir das Deutschtum im Ausland (Vda), dove esso era definito «una sorta di manuale sull’arte dell’assimilazione»61; in realtà Sabelli aveva scritto che l’assimilazione e l’assorbimento delle minoranze erano fatti «naturali»62. Se intorno al 1930 si era già molto avanti nella motivazione e pianificazione della politica di snazionalizzazione (che vide un netto cambiamento soltanto con la scoperta dell’antisemitismo razziale da parte dell’Italia fascista), lo stesso si può dire della prassi dell’assimilazione.

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Forse non sempre il nome (nomen) è «segno» {omeri), come re­ cita il proverbio latino, ma nemmeno si può sostenere che sia solo aria, perché chiamare un oggetto o un luogo con il proprio nome «corretto» significa comprenderlo, o quanto meno classificarlo e collocarlo; tutti i conflitti sui nomi sono anche conflitti sul potere di includere o escludere e sul diritto di scelta. Non per nulla le discontinuità vengono spesso segnalate mediante cambiamenti di nome: ciò vale per i nomi dei mesi nel calendario rivoluzionario francese e per la serbizzazione dei nomi propri turchi o slavo-ma­ cedoni nella «Serbia meridionale» al termine delle guerre balcani­ che. Da questo punto di vista i fascisti italiani non fecero eccezio­ ne, contando gli anni a partire dalla «rivoluzione fascista» oltre che dalla nascita di Cristo, e italianizzando i toponimi e i nomi propri che non si adattassero al sistema fonetico del toscano trecentesco o che apparissero loro «forestieri», «barbari» ed «esotici». Chi voleva proporsi in termini nazionali, ossia italiani, doveva assolutamente impedire di diffondere a voce o per iscritto nomi slavi. Quando gli italiani arrivarono nelle zone della Venezia Giulia popolate da sloveni e croati non sapevano bene come muoversi nei confronti delle parole e dei nomi slavi. Mentre nel Tirolo meridionale Ettore Tolomei con il suo «Archivio per l’Alto Adige», pubblicato a partire dal 1906, aveva lavorato a lungo all’italianizzazione dei toponimi, in Venezia Giulia gli italianizzatori si trovavano di fronte a una terra inesplorata63. A Roma la Società geografica aveva iniziato dal novembre del 1915, sotto la direzione di Matteo Bartoli, a predisporre una toponomastica italiana nei territori del litorale austriaco rivendicati dall’Italia. Inoltre i club alpini italiani di ispirazione patriottica di Trieste e Fiume avevano fatto tentativi di italianizzare i toponimi slavi, ma ciò non era avvenuto con la sistematicità, completa anche se non sempre accurata, del lavoro di Tolomei64. Molto spesso gli italianizzatori cercavano semplicemente di conferire al suono del nome slavo, con l’aiuto di un’allitterazione, un’eco italiana, più in linea con la nuova situazione65. A volte i nomi di santi cattolici si prestavano al completamento del topo­ nimo italiano: così, ad esempio, Ricmanje, vicino Trieste, divenne San Giovanni della Chiusa, Borst, nella zona slovena dellTstria, fu trasformata in Sant’Antonio in Bosco e Dolina in San Dorligo della Valle. In alcuni casi era di aiuto anche la mitologia nazionale: così il toponimo sloveno di Zabce, vicino Tolmino, in italiano divenne Villa Grotte Dante, poiché si diceva che Dante Alighieri

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avesse fatto sosta lì66. Si è già detto dell’equivoco che portò a ribattezzare il Krn in monte Nero. Un destino simile toccò al Pec, al confine tra Italia, Austria e Jugoslavia, che per gli italiani divenne monte Forno67. Con ampiezza ancora maggiore progredì, dopo il 1918, l’opera di italianizzazione dell’istituto geografico militare, nella cui carta ufficiale in scala 1:100.000 comparivano fin dal 1921 soltanto nomi italianizzati68. Nel gennaio 1921, su richiesta al governo del presidente della Società geografica Thaon de Revel, fu insediata una commissione di studi sulla toponomastica nelle nuove province, con il mandato di definire la versione ufficiale di tutti i toponimi nei territori annessi69. La commissione si riunì per la prima volta a giugno, e in essa s’imposero le idee nazionaliste di Ettore Tolomei: ogni località doveva avere due nomi, e quello italiano doveva esse­ re chiaramente privilegiato. I rappresentanti del Touring club d’Italia e quelli dell’istituto geografico militare si dimisero dalla commissione70. Sul cambiamento dei toponimi slavi in Venezia Giulia vale, in generale, un giudizio analogo a quello dato da Rolf Steininger sull’opera di Tolomei in Alto Adige: si trattava di «traduzioni superficiali», redatte «spesso senza conoscere il significato etimo­ logico» del nome originale; a volte all’antica denominazione era stata «semplicemente aggiunta una desinenza italiana»71. Come in Alto Adige, anche nelle zone costiere austriache avvenne una venetizzazione strisciante, non vistosa ma chiaramente percepibile. Così come Tolomei riteneva che il territorio dell’Alto Adige doves­ se «appartenere indissolubilmente alla Venezia Tridentina», sul­ l’Adriatico si fece ricorso alla terminologia giuliana di Isaia Ascoli arricchendo il territorio di opere achitettoniche «veneziane». Ma ancora più ampia e completa fu la deslavizzazione del­ l’intera regione, su cui il Congresso europeo delle nazionalità informò l’opinione pubblica nel suo rapporto del 1932: Il regio decreto n. 800 del 28 marzo 1923 ha sostituito con nomi italiani tutti i toponimi locali sloveni e croati, risalenti a diversi secoli fa. Nei rapporti con le autorità, nei cartelli pubblici e nella corrispondenza postale è vietato usare i toponimi slavi. Le lettere il cui indirizzo contiene toponimi locali non vengono recapitate e tornano al mittente con il timbro «Località sconosciuta»72.

In realtà, fino al 1923 sopravvisse un certo grado di plurali­ smo dei nomi, e alle vecchie denominazioni plurilingue di epoca

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austriaca si aggiunse un gran numero di nuovi termini che ren­ devano necessario un intervento ordinatore. Da un certo momento in poi nel dopoguerra la «Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia» divenne uno degli strumenti principali della presa di possesso italiana, in quanto pubblicava i decreti di cambiamento dei toponimi e dei nomi propri che dovevano contribuire a sottomettere all’Italia i territori appena acquisiti73. Non sorprende quindi che un giovane narodnjak sloveno come Lavo Cermelj ricorresse costantemente alla «Gazzetta ufficiale» come fonte affidabile sulla politica di snazionalizzazione del fascismo italiano74. L’altra questione rilevante è relativa all’italianizzazione di nomi e cognomi. In altri paesi un cambiamento di nome nascondeva a volte una motivazione razzista o antisemita: un esempio noto di cambiamento a scopo discriminatorio è quello del vicequestore di polizia di Berlino, Bernhard Weiss, cui il futuro ministro della Propaganda Joseph Goebbels, nel corso di una guerra privata condotta con tutti i mezzi pensabili, cercò di affibbiare un «nuovo» nome per metterlo alla gogna come ebreo75. In modo opposto, ma con analoghe finalità, agivano i sicofanti di Stalin, che negli anni Venti (ma soprattutto nel corso dei processi di Mosca) chia­ mavano i membri dell’Opposizione unita, loro rivali all’interno del partito, con i loro cognomi originari (Bronstein, Rosenfeld), anziché con i nomi russi con cui tutti li conoscevano (nomi di copertura o di battaglia risalenti dall’epoca della clandestinità), per sottolinearne le origini ebraiche76. I nomi possono però essere modificati o sostituiti per motivi diversi. L’occasione per una variazione del nome può essere ad esempio l’immigrazione: esempi eloquenti sono i nomi anglicizzati di molti immigrati negli Stati Uniti, la cui origine svedese o greca, italiana o yiddish è quasi impercettibile; del resto si trattava di «tradurre un nome europeo difficile da pronunciare, o di facili­ tarne l’uso in America attraverso dei ritocchi fonetici»77. Forse quest’ultimo esempio è il più chiaro nell’indicare una delle funzioni svolte nella regione adriatica dall’italianizzazione dei cognomi: la funzione della fusione dell’altro nella community anglosassone (negli Stati Uniti) o italiana (in Venezia Giulia). Dove tutto era anglosassone dovevano esserlo anche i nomi propri, e dove l’«italianità» era tornata in auge dopo secoli di dominazione straniera non doveva più esserci spazio per nomi stranieri. In entrambi i casi, dietro lo sforzo per adattare i nomi

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propri c’era l’intenzione di omogeneizzare la società o la nazione; era questo il loro principale elemento in comune. Infatti, mentre negli Stati Uniti la modifica del nome non si abbinava necessa­ riamente ad altre restrizioni - come il divieto di associazione e di stampa per gli immigrati o i processi politici ai danni dei funzionari sindacali -, per il fascismo italiano quel cambiamento era parte di un’ampia politica di snazionalizzazione che in poco tempo avrebbe dovuto trasformare «allogeni» e «alloglotti» in cittadini «italiani» in senso etnico. Se nel caso dell’immigrato la variazione del nome conteneva ancora un elemento ludico (con il suo nuovo nome l’italoamericano non cessava di essere tale), sotto il fascismo tale imposizione aveva carattere diverso, in quanto richiedeva all’interessato una sorta di rottura con l’idea nazionale slava, nella sua versione jugoslavistica come in quella slovena o croata. Ciò non significava necessariamente che il «neoitaliano» dovesse passare a vele spiegate dalla parte del fascismo; ma in tal modo l’«identità» slava, quale era concepita dallo «jugoslovenstvo» o dalle associazioni patriottiche slovene e croate, veniva in ogni caso infranta. I membri delle élite liberalnazionali o cristiano-sociali erano colpiti per la maggior parte anche da altri provvedimenti fascisti (divieto di lavoro, divieto di pubblicazioni e così via); in molti casi essi optavano perciò per l’esilio come ultima via d’uscita. Le vittime della snazionalizzazione meno sensibili alle idee nazionali restavano invece nel paese e cercavano di adattarsi. L’esempio degli Stati Uniti può chiarire come l’Italia, almeno fino al 1938, mantenesse verso l’«altro» un atteggiamento più di integrazione e inclusione che di emarginazione e separazione. Il problema delle minoranze era soprattutto un problema di «penetrazione italiana e fascista»: questa la parola-chiave formulata ad esempio dal fascista triestino Giuseppe Cobol78. In effetti alcuni commentatori della destra tedesca rimproverarono ai fascisti questa politica, orientata alla commistione più che alla divisione, all’adattamento più che alla dissimilazione. La posizione fascista sulla questione venne formulata da Giuseppe Cobol nel numero speciale di «Gerarchia» uscito per il nono anniversario dell’armistizio del 1918: «gli allogeni della Venezia Giulia - chiamiamoli con questo nome che è entrato nell’uso - sono oggi cittadini italiani che non devono differen­ ziarsi dagli altri in nessun campo né dei doveri né dei diritti»79. Tra i «diritti speciali» che il regime intendeva negare agli sloveni

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e ai croati giuliani vi era evidentemente anche il «diritto» a un nome o un cognome slavo. Del resto in questo campo il fasci­ smo non si trovava certo in una terra inesplorata, poiché già in epoca asburgica gli uffici comunali, spesso controllati da italiani, convertivano i cognomi slavi in una forma italiana80. Il caso più frequente consisteva nei nomi (di solito croati o serbi) terminanti in -ic, che venivano resi in italiano terminandoli in -ich (in modo del tutto analogo, nei territori dove l’amministrazione era di lingua tedesca le desinenze -ic o -/evenivano rese come -itsch): un esempio eloquente è il nome di una delle dinastie imprenditoriali più note e affermate di Trieste, i Cosulich, il cui nome in origine doveva sicuramente essere Kosulic (e tra gli stessi fascisti giuliani vi sa­ ranno alcune figure di spicco i cui nomi, che suonavano tutt’altro che italiani, verranno trasformati per troncamento - Bombi [g], Coceani[g] - o per aggiunta - Cobol [li] - in modo da risultare tali; altre note camicie nere conservarono invece, nonostante tutte le campagne di italianizzazione, il loro cognome dal suono slavo, come Suvich e Mrach). In questi casi, tuttavia, sembra si tratti di una forma piuttosto inoffensiva di variazione del nome, che si verificava generalmente nei casi di italianizzazione «spontanea» molto frequenti sul litorale austriaco fino alla seconda metà dell’Ottocento. Non sorprende che il movimento nazionale degli slavi del sud si opponesse a qualsiasi forma di variazione del nome «originario». Ciò no­ nostante i cambi di nome erano continui, non tanto tra chi si considerava sloveno o croato, quanto tra chi era di sentimenti «italiani». Paolo Parovel ricorda che una parte degli irredentisti aveva cognome «alloglotto» e che per questo adattava un nome di copertura italiano, e lo stesso valeva per chi disertava dall’esercito e dalla marina del Kaiser. Subito dopo la fine della guerra l’amministrazione militare e civile italiana fece un passo avanti rispetto alle burocrazie muni­ cipali liberal-nazionali di epoca asburgica, non limitandosi più all’adattamento del nome sloveno o croato al sistema fonetico italiano, ma omettendo del tutto la desinenza slava o creando un nuovo nome, privo di qualsiasi nesso riconoscibile con l’origine slava, tedesca, francese o greca81. Il 6 maggio 1920 il quotidiano «Pucki prijatelj» pubblicò una lettera aperta al commissario civile Antonio Mosconi in cui si denunciava il fatto che le autorità variassero sistematicamente i nomi slavi; la redazione del giornale paventava tra l’altro «gravi

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conseguenze nel senso giuridico-economico» e perdite di tempo nell’identificazione di coloro il cui nome veniva scritto in due o più modi diversi82. Il commissario si affrettò a rispondere di non essere personalmente a conoscenza di alcun caso di variazione di nome avvenuta a insaputa o contro la volontà del diretto interessato83. Nel febbraio del 1921 il quotidiano sloveno «Edinost» se­ gnalò che nelle pagelle rilasciate dalle scuole di Gorizia i nomi degli allievi sloveni venivano storpiati84. Divenne noto anche il caso del commissario straordinario della cittadina mineraria istriana di Albona (Labin in croato), che nel 1921 stilò un elen­ co di 121 nomi da modificare. Antonich venne trasformato in Antoni, Andreancich in Andreacci, Andretich in Andretti e così via85. Neanche questo procedimento era del tutto nuovo, e tut­ tavia all’inizio degli anni Venti nazionalisti e fascisti condussero vere e proprie campagne per l’italianizzazione dei nomi propri, eleggendo a interlocutori privilegiati proprio gli slavi assimilati, alcuni dei quali si consideravano ormai da generazioni italiani. Nulla doveva più ricordare che gli antenati di costoro, alcuni dei quali erano stati al servizio della Serenissima, avevano avuto cognome slavo. La situazione si fece più seria intorno alla metà degli anni Ven­ ti, quando il regime fascista decretò la sistematica italianizzazione dei nomi propri, prima in Alto Adige e poi in Venezia Giulia. Le autorità misero in circolazione una nuova teoria, secondo cui nei territori ex asburgici passati all’Italia tutti o gran parte dei nomi propri avevano origini italiane ed erano stati germanizzati o slavizzati nell’Ottocento da parroci tedeschi o slavi86. Nella stessa direzione andavano i decreti emanati nel 1926 per la cosiddetta «restituzione in forma italiana dei cognomi»87. Era inoltre prevista la «riduzione» all’italiano di cognomi di cui non fosse possibile dimostrare in modo univoco le origini latine. Questa distinzione tra «restituzione» e «riduzione»88 era in ultima analisi pressoché irrilevante. Così, ad esempio, il nome slavo Cehovin fu «restituito» all’italiano come «Cecchini», e in altri casi fu «ridotto» alla forma «Cecovini». L’unica chiara differenza tra i due procedimenti era che la «restituzione» avveniva per decreto e la «riduzione» su istanza dell’interessato89. In ogni capoluogo di provincia venne insediata una com­ missione incaricata di avviare e controllare la italianizzazione; le commissioni avevano soprattutto il compito di stilare elenchi il

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più possibile completi dei cognomi da italianizzare diffusi nella rispettiva provincia. Stando alle indicazioni di Lavo Cermelj, la prima a concludere i lavori fu la commissione di Pola, i cui risul­ tati furono pubblicati prima in una serie di articoli del «Corriere istriano», e poi come opuscolo90. A Trieste i lavori si conclusero solo l’anno successivo e furono pubblicati sotto forma di un vo­ lume di ben 345 pagine, curato dal presidente della commissione Aldo Pizzagalli91. La pubblicazione iniziava con l’elenco degli irredentisti giuliani menzionati dalla lapide commemorativa del colle di San Giusto che «avevano un nome straniero e in guerra diedero la vita per la redenzione»92. Tra loro vi erano nomi noti, tra i migliori della cultura triestina, come Carlo Stuparich o Sci­ pio Slataper; ciò diede a Pizzagalli l’opportunità di ricapitolare la storia dei movimenti d’immigrazione che avevano avuto per meta la città adriatica. L’elenco triestino comprendeva oltre 3 mila nomi, così come quello stilato per Pola, mentre l’italianizzazione, stando ai dati di Pizzagalli, avrebbe riguardato un numero di persone venti volte superiore93. Poiché era impensabile variare contemporaneamente i nomi di tutti gli abitanti della regione costiera, lo Stato fascista iniziò dai propri funzionari, impiegati e operai: «a essi venivano consegnati i moduli di richiesta già riempiti di tutti i dati necessari e a loro non restava altro che firmare»94. Fu poi il turno dei dipendenti delle grandi aziende: in questo caso il regime procedette allo stesso modo, di concerto con le imprese. Quindi toccò agli insegnanti essere posti al traino della campagna per la italianiz­ zazione «volontaria» dei nomi propri. Diverse organizzazioni del Pnf e dei sindacati aprirono (quasi sempre a Trieste) uffici per la variazione di nome. Poiché il tutto avveniva troppo a rilento, si chiese ai comuni non solo di redigere elenchi dei nomi da modificare, ma anche dei capifamiglia, sui cui nomi si sarebbe poi potuto intervenire per decreto. I portavoce della campagna di assimilazione tendevano a fare dell’adattamento dei nomi propri al sistema lessicale, morfologico e fonetico un «plebiscito per la italianità»95. Pizzagalli riferiva ad esempio che Alexander von Thurn und Taxis, proprietario del castello di Duino, aveva dimostrato di discendere da una famiglia originaria di Bergamo e per questo, ai sensi delle norme sulla «restituzione del nome originario», assumeva il cognome di Della Torre e Tassi. Pizzagalli sottolineava poi che il movimento era persino an­ dato oltre la volontà antiborghese e antiintellettuale del regime,

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assumendo via via ampiezza sempre maggiore e trasformandosi in una «meravigliosa manifestazione». Il popolo triestino era pronto a qualsiasi dimostrazione di italianità e rifiutava le sottigliezze degli intellettuali96. In questo modo, tutt’altro che «sottile», fino alla fine del 1931 furono dunque italianizzati, soltanto a Trieste, i nomi di oltre 50 mila persone97. La nuova forma del nome diede luogo a reclami di ogni tipo: poiché il regime non era in grado di assicurare una variazione uniforme dei nomi in tutta la regione, accadde persino che parenti stretti residenti in località diverse si trovassero improvvisamente ad avere diverso cognome: per esempio, di tre fratelli che ori­ ginariamente si chiamavano Sirk il primo, che abitava a Trieste, fu variato in Sirca, il secondo, che viveva a Gorizia, in Sirtori, e il terzo, trasferitosi in Istria, in Serchi; il nome Antic fu reso con Antoni a Trieste e con Anti a Pola. Una delle variazioni più frequenti sembra fosse quella del cognome Galic, trasformato in cognomi diversi a seconda dei luoghi: Gallo, Gallino, Galiini, Galti e così via98. Fin qui si è parlato solo dell’italianizzazione dei cognomi, ma va ricordato che già prima del 1923 i comuni erano in grado di condizionare la scelta del nome di battesimo dei neonati, in base a una legge asburgica sullo stato civile, che venne applicata più diffusamente dai comuni solo dopo che il regime fascista, il 24 settembre 1923, tolse alle parrocchie i registri anagrafici, trasferendoli ai comuni99. Ben presto le anagrafi comunali non accettarono più nomi di battesimo slavi, e un ricorso alla Procura generale dello Stato concesse agli sloveni solo una breve pausa. La legge dell’8 marzo 1928 vietò esplicitamente di dare ai neo­ nati nomi «ridicoli», «amorali» o tali da «oltraggiare l’opinione pubblica»100; da allora le autorità ebbero la possibilità non solo di condizionare la scelta del nome di battesimo di un neonato, ma anche di variare retroattivamente nomi registrati101. L’italianizzazione dei nomi propri fu una delle misure più efficaci della snazionalizzazione fascista. Sebbene nei territori ex asburgici il nome proprio oggettivamente («scientificamente») non rivelasse granché dell’appartenenza etnica o dell’orientamento nazionale di una persona, agli occhi di ampi settori della popolazione i nomi propri «slavi» o «italiani» erano chiari in­ dicatori di appartenenza nazionale o di identità. La variazione di nome mirava dunque a provocare nella minoranza un cam­ biamento della visione dell’altro e di sé: per la massa degli abi­

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tanti italiani della regione, che spesso parlavano solo la propria lingua, gli slavi dovevano diventare «italiani». D’altra parte essi sarebbero precipitati in una crisi simile a quella di Guglielmo Oberdan, con la differenza che l’eroe irredentista aveva scelto consapevolmente di mettersi in tale posizione, mentre migliaia di sloveni e croati vi furono costretti dalla legislazione fascista degli anni Venti. In questo si confermava, anche in Venezia Giulia, una delle esperienze di fondo della politica repressiva delle minoranze: il tentativo di trasformare sloveni e croati in italiani e fascisti poteva riuscire pienamente (in rari casi) o fallire del tutto (la maggior parte delle volte), ma poteva anche rimanere a mezza strada e creare, accanto ai Lebenswelen (mondi della vita) stratificati e alle identità multiple esistenti, nuove e complesse situazioni, che in parte videro una nuova chiarezza solo durante la Seconda guerra mondiale o nei primi anni del secondo dopoguerra, e in parte rimangono tuttora difficilmente decifrabili. Mentre gli abitanti dell’Alto Adige si trovarono collettivamente di fronte alla questione dell’opzione, la politica repressiva in Venezia Giulia ebbe soprattutto effetti individuali o colpì gruppi diversi della popolazione (sacerdoti, insegnanti, intellettuali, funzionari, con­ tadini di cooperative, fittavoli, braccianti) in momenti diversi. A essa si accompagnò anche una frammentazione della resistenza, che a volte ebbe effetti paralizzanti mentre in altri momenti per la maggioranza della popolazione fu possibile articolare una volontà unitaria. Come si può descrivere dunque l’effetto di lungo periodo della politica di snazionalizzazione nei confronti dei toponimi e dei nomi propri? Quali possibilità di resistere alla politica di assimilazione esistevano negli anni Venti e Trenta? Lo storico e giornalista sudtirolese Claus Gatterer, scomparso nel 1984 dopo aver pubblicato il volume Bel paese, brutta gente, in cui descrisse tra le altre cose la campagna fascista di assimilazione a sud del Brennero, ricevette lettere che documentano fino a che punto il fascismo, con la sua politica di snazionalizzazione, avesse ferito i sentimenti delle popolazioni slave della regione giuliana102. Lo stesso presidente della commissione triestina per l’italianizzazione Aldo Pizzagalli citava un ferroviere di San Pietro del Carso (Pivka in sloveno) che chiese alla prefettura, con una regolare domanda, di poter mantenere il suo cognome sloveno103. L’avvocato di Go­ rizia Fran Gaberscek condusse una lunga lotta affinché suo figlio

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mantenesse il nome Boris, tentando inutilmente di chiarire alle autorità che così si era chiamato il re di Bulgaria, imparentato con i Savoia. Gaberscek seguì tutto l’iter burocratico ma dovette infine accettare che a Boris fosse ufficialmente assegnato il nome del re d’Italia Vittorio104. Quando, nell’agosto del 1928, il parroco di Matteria (in sloveno Materija) restituì il certificato di nascita delle persone che avevano accettato di italianizzare il proprio nome, dichiarò al podestà che personalmente non avrebbe mai accettato una simile imposizione105. In Val Canale nel 1931 una serie di persone rifiutarono l’italianizzazione del cognome. Tra loro vi era un contadino sloveno di 27 anni, Stefano Bratuz, che respinse il cognome che gli era stato assegnato (Bertossi), con l’appoggio di una parte dei suoi familiari106. Simili forme di op­ posizione erano ancora in parte possibili solo grazie al sostegno esterno: il calendario 1934 dell’Associazione Ermagora riportava un elenco di nomi propri slavi consigliati ai genitori cattolici per i loro figli107. La politica di snazionalizzazione ebbe certo conseguenze sulla consistenza etnica degli slavi giuliani, ma suscitò al tempo stesso una opposizione percepibile, in varie forme, per tutti gli anni Venti e Trenta. Dopo la guerra molte famiglie a Trieste conser­ varono il cognome italiano, benché già sotto l’amministrazione alleata fosse possibile riprendere il vecchio nome slavo. Sebbene manchino studi analitici su questo tema si può concordare con Elio Apih quando sostiene che probabilmente i triestini di origine slava immigrati alla fine dell’Ottocento erano tra i più propensi all ’assimilazione108. Del tutto diversa era la situazione nei villaggi del Carso, dove la rete delle organizzazioni fasciste rimase lacunosa e la stessa colonizzazione non fece presa come si sperava. Qui la popolazione aveva dovuto difendere una storia comune ed esisteva un’arti­ colazione della dimensione nazionale che rendeva impensabile una snazionalizzazione durevole. Si trattava di territori in cui agirono, fin da metà degli anni Venti, dei gruppi armati che si opponevano alla politica di assimilazione del regime. 3. Lantifascismo sloveno e croato Nel suo articolo commemorativo sull’attacco incendiario fascista del 1920, Katalinic-Jeretov accosta l’Hotel Balkan al

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Carso e alle popolazioni slovene che vi vivono. Il Carso si può descrivere come una zona di passaggio tra le Alpi orientali e le catene montuose dinariche. Il paesaggio cantato dall’italiano Scipio Slataper e dallo sloveno Srecko Kosovel non ha alcuna caratteristica che lo predisponga a fungere da confine tra Stati, essendo privo di lunghe creste montuose, di corsi d’acqua im­ portanti e di un vero e proprio spartiacque109, poiché gran parte dei fiumi della regione, come il Timavo o la Ljubljanica, in molti punti fluiscono sottoterra110. Negli anni Venti e Trenta, nell’am­ bito della politica di colonizzazione fascista, giunsero nel Carso (originariamente popolato soprattutto da sloveni) anche degli italiani. Gli immigranti arrivarono soprattutto nelle cittadine delle valli dell’Isonzo e del Vipacco, nelle località lungo la ferrovia del Carso (che collegava Trieste a Lubiana) e fra Trieste a Fiume. Tutti questi centri si trovavano vicino al confine e alcuni di essi dovettero accogliere un crescente apparato di militari, miliziani, doganieri e poliziotti, nonché le nuove amministrazioni finanziarie, forestali, giudiziarie e ferroviarie111. Il confine del Carso era stato tracciato a dispetto della natura, il che si risolse presto in danno per la sua efficacia, poiché esso si rivelò un terreno ideale per il passaggio illegale della frontie­ ra. Le cittadine costiere in espansione erano circondate da un rude e inospitale paesaggio, sferzato dalla bora, ricco di boschi avvolti nella nebbia, soprattutto durante la stagione fredda, e di caverne e capanne che ben si prestavano a fare da rifugio e nascondiglio per profughi e viaggiatori, contrabbandieri e par­ tigiani, lavoratori migranti e attivisti politici112. Alcune notizie si rivelarono esagerate o inventate, come quella secondo cui delle grotte carsiche avevano un ingresso dalla parte jugoslava e un altro, o più di uno, in Italia, ma simili leggende sono soprattutto una prova del nervosismo che regnava tra carabinieri e miliziani, nelle prefetture e nelle questure di Trieste e Gorizia. Spesso il Carso, per la sua struttura geologica, era identificato tout court con i Balcani113. In fin dei conti, anche in questo caso si trattava di «inventare», dopo la Prima guerra mondiale, una nuova frontiera mai esistita prima in quanto tale114. L’assimilazione del Carso ai Balcani era comunque riconducibile più alla natura geofisica calcarea delle montagne e alle origini slave degli abitanti che ai conflitti armati che vi avvenivano, giacché fino al 1925 non si poté parlare di una resistenza militante nel Carso. Secondo un diplomatico italiano, ancora nel 1928 i notabili dell’esilio giuliano

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che avrebbero potuto guidare la resistenza somigliavano più agli esponenti della vecchia opposizione jugoslavistica presente nella Dalmazia asburgica che a combattenti della resistenza «tipicamente balcanici» come quelli macedoni. Tuttavia, nella seconda metà degli anni Venti il quadro era ormai in mutamento115. Nel marzo del 1932 un capitano della Reichswehr incontrò a Roma un generale della milizia fascista per definire le moda­ lità di una visita ufficiale lungo il confine italo-jugoslavo, il cui interesse risiedeva nel fatto che la milizia di confine italiana vi era particolarmente ben organizzata116. Nel territorio immediatamente adiacente al confine le curio­ sità si concentravano sulle guardie di frontiera, in maggioranza serbe, i cosiddetti granicari, termine che era diventato una sorta di topos e ricorre molto spesso nelle fonti italiane. Il nome non derivava soltanto dalla loro funzione attuale (in serbo-croato granica significa «confine»), ma anche dalla zona da cui provenivano molte guardie, l’ex frontiera militare austriaca (in serbo-croato Krajina)ni. Da parte italiana le truppe di frontiera nel Carso e nelle Alpi Giulie erano costituite dalla Mvsn (Milizia volontaria per la sicurezza nazionale), su cui gli jugoslavi raccoglievano a loro volta ogni possibile informazione. Le postazioni dei granicari e della Mvsn, collocate ogni 100-200 metri direttamente sulla linea di demarcazione, si fronteggiavano «a distanza di pochi passi, con le pistole pronte a sparare»118. «Ma ancora più pericolosi delle guardie di confine jugoslave», si spiegava all’ufficiale della Reichswehr, «erano i “banditi”»119: il visitatore tedesco faceva propria l’espressione usata dagli italiani per indicare i gruppi armati di nazionalisti jugoslavi, il più temuto dei quali era la Orjuna. Quest’ultima era strutturata in battaglioni nei territori lungo il confine con l’Italia, popolati prevalentemente da sloveni: da nord a sud si susseguivano i battaglioni Triglav, Sava, Lubiana e monte Nevoso. Attorno alla figura del capo della Orjuna Marko Kranj(e)c si affollavano dicerie che rafforzavano l’accostamento tra i topoi sul Carso e quelli sui Balcani. Non si era certi nemmeno di dove egli fosse nato: in un rapporto si diceva che era di Skoplje, in Macedonia, in altri testi era scritto che era nato a Villa del Nevoso (Ilirska Bistrica). In realtà, entrambe le affermazioni erano giuste: Ferdo Kranjc, come si chiamava originariamente, era cresciuto nella zona del monte Nevoso e si era poi trasferito a Skoplje, dove aveva lavorato come ingegnere; lì, come altri sloveni trasferitisi nella

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«Serbia meridionale», si era convertito dalla religione cattolica a quella ortodossa. Tornato in Slovenia, Kranjc fu per diversi anni a capo delle attività militari della Orjuna. Finché fu solo una milizia di partito, la Orjuna potè fare ben poco nella regione di confine, ma nel 1926 la Narodna odbrana riuscì a piazzare nel direttivo della Orjuna uno dei propri espo­ nenti di punta, un voivoda dei cetnici: in tal modo la Orjuna, fino allora priva di collegamento con i vertici militari, ottenne l’appoggio necessario per svolgere per conto dell’esercito jugoslavo attività di spionaggio in Venezia Giulia e preparare attentati120. Stando alle relazioni di informatori italiani, era Kranjc a procu­ rare l’esplosivo per gli attentati e a scegliere gli attentatori, di preferenza tra gli orjunasi dalmati, considerati «particolarmente intrepidi»121. Nei rapporti della polizia italiana si trovano fino all’inizio degli anni Trenta indicazioni sulle forme di lotta di stampo macedone adottate dalla Orjuna, la quale avrebbe anche copiato dalla Vmro e dai comunisti jugoslavi l’elemento organiz­ zativo di base della cosiddetta troika122. Il giornale dell’emigrazione «Istra» aveva un ufficio a Lubiana, diretto da Franc(esco) Bostjancic. Quest’ultimo era un esponente direttivo della Narodna odbrana e della JM, attraverso cui aveva collegamenti indiretti con i servizi segreti militari che svolgevano attività di spionaggio in Venezia Giulia e, secondo fonti italiane, erano in contatto con i corrispondenti dell’«Istra» in tutta la Julijska Krajina123. Chi lavorava come spia per l’esercito pare fosse noto anche ai granicari jugoslavi, che ne agevolavano quindi il passaggio della frontiera124. Un gruppo di emigranti della Julijska Krajina arrivò fino ai vertici del servizio segreto jugoslavo, da cui sarebbe stato poi allontanato alla fine degli anni Trenta su pressioni di Berlino. Inoltre a Lubiana la JM, rivitalizzata, riforniva gli emigranti dalla Julijska Krajina di denaro, armi, macchine fotografiche e documenti e li rispediva in Italia come corrieri125. Secondo il prefetto di Fiume, nella primavera del 1929 la Orjuna pianificò nella regione di confine un importante attentato, sperando di provocare così la rottura delle relazioni diplomati­ che tra Italia e Jugoslavia. Le attività di questa organizzazione erano ormai sempre meno distinguibili dalle aggressioni e dagli atti di sabotaggio compiuti dall’ala radicale del movimento culturale giovanile sloveno, che era stato sospinto nell’illegalità. All’inizio del 1924 nella regione giuliana esistevano ancora 400

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circoli, affiliati a tre associazioni culturali slovene aventi nomi molto simili: Prosveta («Cultura»), Prosvetna zveza («Unione della cultura») e Zveza prosvetnih drustev («Unione dei circoli culturali»). Questi gruppi respingevano interamente la dialettica ideologica tra i partiti sloveni e insistevano su un’organizzazione giovanile indipendente dall’orientamento politico. Il fatto che molti giovani parlassero ormai a fatica lo sloveno passava in se­ condo piano per gli organizzatori del movimento. Il loro scopo principale era offrire al maggior numero possibile di giovani sloveni o «assimilati» (studenti, operai o contadini) un’alter­ nativa aH’associazionismo italiano o all’orientamento nazionale sloveno dei partiti liberali e cattolici. Centinaia di adolescenti si radunavano spesso, in occasione di partite di calcio o di hazena (gioco simile alla pallamano) e di spettacoli teatrali o musicali, in luoghi fuori mano dove difficilmente arrivavano i carabinieri o i miliziani della Mvsn. Inoltre esistevano molte altre organizzazioni sportive e femminili e il Ljudski oder, il movimento culturale della socialdemocrazia slovena. Nell’ambito della politica di snazionalizzazione tutte queste organizzazioni furono vietate o dovettero confluire nell’Opera nazionale dopolavoro126. Per gli anni Trenta si ha notizia soprattutto di tentativi, per lo più falliti, di ricostituire la Orjuna; ad esempio un rapporto da Lubiana segnalava che si era svolta una riunione, presieduta da Marko Kranjc, di 150 ex membri di tale organizzazione127. Un’altra riunione segreta della Orjuna si svolse a Belgrado alla fine di agosto del 1933, anche stavolta alla presenza di Kranjc128. A novembre dello stesso anno nella zona di Cirknica entrò in azione una «organizzazione di nazionalisti jugoslavi»129. Da una inchiesta del prefetto di Trieste emerse che soltanto un membro di questo gruppo era iscritto alla lega ginnica del Sokol, e che qualcun altro aveva manifestato «idee irredenti­ stiche», ma nella maggior parte dei casi gli unici addebiti che le forze dell’ordine poterono muovere loro furono di semplice contrabbando. Nessuno del gruppo aveva mai fatto parte della Orjuna130. Nella seconda metà degli anni Venti alcuni ex quadri della Orjuna, ormai fuorilegge, e giovani liberalnazionali emigrati in Jugoslavia diedero vita all’organizzazione di resistenza Tigr, il cui nome era l’acronimo dei territori che si intendeva liberare: Trieste, Istria, Gorizia e Fiume (Rijeka). La Tigr, con le organiz­ zazioni affiliate come il gruppo triestino Borba («Lotta»), rimase

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per un decennio la principale organizzazione dell’irredentismo militante slavo131. Nel periodo tra il 1926 e il 1930 la polizia attribuì alla sola Tigr 99 azioni armate, tra cui 13 attentati contro pattuglie o caserme della Mvsn, 13 aggressioni contro spie o poliziotti sloveni e 18 incendi di scuole o asili132. Bersaglio di questi atti erano anche simboli della «italianità» come il «faro della vittoria» situato tra i quartieri triestini di Gretta e di Barcola; si ha notizia anche di piani della Tigr per far saltare in aria la cella dove era stato tenuto prigioniero Oberdan133. La Tigr si ispirava soprattutto alle attività del movimento nazionale irlandese contro gli inglesi. Inoltre essa si distingueva dai precendenti gruppi militanti, come Narodna odbrana o la Orjuna, in quanto operava esclusivamente nella regione giuliana, mentre in Jugoslavia, dove le sue azioni godevano di molte coperture statali, essa fu sempre clandestina: una sua esistenza legale avrebbe infatti pregiudicato seriamente i rapporti con l’Italia. Un’altra figura-chiave della resistenza giuliana fu Albert Rejec134, che operò come ufficiale di collegamento tra il gruppo clandestino e gli ambienti governativi jugoslavi: originario di Tolmino, sull’Isonzo, era stato segretario del comitato di Gori­ zia della liberale «Edinost». Nel 1929, trentenne, attraversò il confine con la Jugoslavia135; qui, in qualità di segretario di Ivan Marija Cok, si occupò dei flussi informativi tra il movimento di emigrazione e la resistenza clandestina; inoltre si fece carico dei rapporti con gli esuli antifascisti italiani a Parigi. Così i gruppi della resistenza della Tigr, al di là della loro funzione locale nel catalizzare la resistenza slava, divennero parte di un più ampio fronte antifascista. Furono membri della Tigr che ben conosce­ vano la zona ad aiutare avversari italiani del fascismo a varcare illegalmente la frontiera del Carso sul monte Nevoso136. Ivan Marija Cok, che come esponente dell’emigrazione in Jugoslavia seguì una linea legalistica e filogovernativa, promosse nello stesso tempo le attività clandestine gestite dal suo segretario e si occupò direttamente di far entrare in Venezia Giulia materiale propagandistico attraverso il consolato jugoslavo a Trieste. Con Rejec e numerosi altri combattenti della resistenza Cok fu tra gli imputati al primo processo di Trieste, con cui si concluse la prima fase della lotta armata contro il regime fascista137. Un risultato delle azioni armate fu il crollo del sistema di piccoli compromessi che fino allora erano prevalsi nei rapporti

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tra le autorità e gli esponenti delle minoranze. La tattica dilatoria dell’establishment liberalnazionale sloveno, costantemente bollata dai comunisti come «opportunismo», era ormai impraticabile138. Tra i sintomi dell’irrigidimento generale vi fu anche il forzato ritiro dell’arcivescovo di Gorizia Borgia Sedej e del vescovo di Trieste e Capodistria Fogar139. Nei territori della Venezia Giulia popolati da sloveni è molto difficile distinguere, per il periodo 1925-1930, tra l’opposizione organizzata, diretta dalla Jugoslavia, e la resistenza «autoctona» di organizzazioni illegali e gruppi informali. Di grande utilità come fonte sono i rapporti del console tedesco, che vedeva con simpatia l’opposizione della minoranza slava e aveva contatti internazionali con esponenti delle minoranze come Josip Wilfan ed Ewald Ammende. Ciò non significa che il giudizio del console fosse parziale o non equilibrato; esso anzi subì forti oscillazioni in coincidenza con gli attentati gravidi di conseguenze compiuti dai combattenti slavi. La prima segnalazione proveniente dal consolato tedesco a Trieste su forme di resistenza armata contro la politica fascista di snazionalizzazione risale al dicembre del 1926140. Un altro rapporto prendeva in esame il lato pubblico (ma non per questo «legale») della resistenza. Durante una gita di studenti triestini sloveni alle grotte di San Canziano si era verificata una «manife­ stazione antitaliana», cui aveva preso parte anche la popolazione del luogo. Erano stati intonati canti sloveni e una bandiera ita­ liana era stata strappata dal pennone e calpestata sotto gli occhi dei carabinieri. Nei giorni seguenti, a Trieste, la polizia andò a cercare gli studenti a scuola per arrestarli, provocando ulteriore risentimento nella popolazione slovena. La protesta si focalizzò soprattutto sulla politica di snazionalizzazione nella scuola, con una rapida escalation delle forme di lotta: «Un nuovo tipo di protesta politica consiste nel fatto che nei villaggi circostanti la popolazione rurale dà alle fiamme le scuole italiane»141. Nel settembre del 1928 il prefetto di Trieste Fornaciari, ap­ pena tornato da Roma, impartì nuove istruzioni per combattere la minoranza slava: fu vietata tra l’altro la pubblicazione del quo­ tidiano liberale triestino «Edinost» e di quello cristiano-sociale goriziano «Goriska straza»142. Il malumore dei vertici fascisti toccò livelli che sarebbero stati raggiunti - e oltrepassati - solo durante la guerra partigiana degli anni 1941-1945:

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Mussolini sembra sia molto irritato per la costante irrequietezza di questi territori e voglia prendere energici provvedimenti contro la popo­ lazione di qui. Effettivamente il nervosismo delle autorità locali è molto aumentato. Ogni notte le auto dei carabinieri [...] perlustrano la zona, fanno irruzione nelle locande e nelle abitazioni dei villaggi sloveni e compiono perquisizioni. Nel sobborgo di Prosecco [Prosijek in sloveno] sono state chiuse tutte le locande, salvo quella in cui sembra si riuniscano i fascisti. Inoltre si dice che informatori e informatrici della polizia prendano il tram e la corriera postale che ogni mattino portano al lavoro dalle località vicine operai, impiegati e funzionari, per ascoltare le conversazioni dei viaggiatori, facendo attenzione sia alle cose che si dicono sia alla lingua che usano; generalmente costoro si siederebbero vicino a chi parla slavo per cercare di carpire notizie143.

In effetti i rapporti città-campagna così dinamici che caratte­ rizzavano l’area triestina e l’intensa circolazione della manodopera (domestici, pendolari), favorivano le attività della resistenza: era difficile per gli organi di repressione tenere sotto controllo una minoranza in perenne movimento, che comprendeva attivisti ar­ mati e dava nascondiglio a combattenti infiltratisi da fuori. Nella valutazione di un fenomeno così complesso il console tedesco rimaneva prudente: Mi sembra improbabile che gli stessi atti terroristici precedentemente segnalati, gli incendi di scuole e gli assassini punitivi siano riconducibili esclusivamente ad azioni di membri della Orjuna provenienti da altre zone. Ho motivo di ritenere che diversi di questi attentati siano stati compiuti dalla stessa popolazione locale144.

Tra le varie azioni armate si può ricordare un attentato svoltosi, nel 1928, contro l’asilo dell’Opera nazionale Italia re­ denta a Storje, vicino Sesana. Il regime rispose a quest’atto con un’ondata di arresti a Trieste145. Inoltre fu accelerata la creazione di unità anti-guerriglia, su cui il console tedesco si soffermò am­ piamente146. A Trieste i frequenti attentati venivano direttamente collegati al pericolo di guerra italo-jugoslava; ogni attentato in un villaggio del Carso si temeva potesse innescare un conflitto molto più ampio. La stampa locale contribuiva, a giudizio del console tedesco, a rendere il clima ancor più rovente. Secondo il diplomatico occorreva invece tener conto di entrambe le di­ mensioni: quella politica internazionale e quella delle tensioni nei sobborghi di Trieste147. A volte il console faceva propria la versione ufficiale degli avvenimenti, scrivendo ad esempio che gli «attentati dinamitardi

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nei pressi di Trieste e Gorizia, che sebbene non ancora chiariti vengono qui ricondotti senza esitazioni a organizzazioni segrete di combattenti serbi», avevano «contribuito non poco ad accrescere il nervosismo negli ambienti governativi e a rivolgere particolare attenzione all’evoluzione di questo settore, strategicamente impor­ tante»148. Saltava all’occhio, tuttavia, il contrasto tra la crescente tensione da parte italiana, che puntualmente si trasformava in una isteria di guerra, e la calma dimostrata dalla minoranza, e soprattutto dai giovani149. Leggendo i rapporti provenienti dal consolato ci si rende conto che a volte nemmeno un osservatore generalmente molto lucido riusciva a liberarsi del timore di una sindrome balcanica, che il fascismo fomentava. Gli esponenti del regime erano ben contenti di ricordare lo scoppio della Grande guerra e avevano gioco facile nell’attribuirne la colpa ad attentatori balcanici150. Le attività della Tigr non riscuotevano un consenso incon­ dizionato negli ambienti dell’emigrazione: soprattutto i cattolici politicamente organizzati insistevano nell’opporsi ai fascisti con mezzi pacifici. David Doktoric, originario di Gorizia, notava ad esempio che gli stessi irlandesi - al cui modello si ispirava la resistenza armata - avevano ottenuto più con le «armi dello spirito» che con «la spada e il fuoco»151. In realtà i fascisti italiani temevano l’attività semiclandestina dei cattolici sloveni non meno di quella clandestina della Orjuna e della Tigr. Gli atti della questura di Gorizia indicano l’esistenza di una fitta rete di uffici parrocchiali, sacerdoti, congregazioni mariane e privati che a metà degli anni Trenta si occupavano della distribuzione di riviste cattoliche stampate a Lubiana di contenuto apertamente irredentista152. Le migliaia di domestiche che confluivano nelle città dal­ la campagna slovena assicuravano al clero, secondo i fascisti, un’influenza che andava ben oltre le parrocchie rurali. Queste ragazze si recavano molto presto la mattina alla messa in sloveno e il pomeriggio della domenica prendevano parte alle letture bi­ bliche e a tutte le cerimonie religiose (processioni, pellegrinaggi, benedizioni, funerali), trasformandole - questa l’interpretazione delle autorità italiane - in «efficaci dimostrazioni di slavismo». Le domestiche si recavano dal loro confessore slavo per rivelargli i propri peccati, ma anche per parlare degli affari familiari del datore di lavoro e delle conversazioni politiche che si svolgevano nella sua casa153. Naturalmente le fonti storiografiche non consen­

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tono di verificare la fondatezza di tali affermazioni, ma in questa prospettiva rovesciata era il persecutore a rasentare la paranoia: non era lo Stato totalitario a sorvegliare i settori «alloglotti» o «allogeni» della società, con l’eventuale aiuto se necessario di una rete di spie appositamente reclutate, ma sarebbe stata la minoranza slovena a controllare lo Stato e la società attraverso domestiche e parroci. Nel rapporto di un informatore, risalente al 1938, si legge che i contadini slavi della provincia di Gorizia, «povera gente senza istruzione e di scarsa intelligenza», erano facile preda dei propagandisti, che richiamavano la loro attenzione su «riven­ dicazioni delle minoranze» di cui fino allora non avevano mai sentito parlare. Ciò era facilitato, secondo la stessa fonte, dal fatto che i contadini slavi vivessero tra loro, leggessero soltanto quotidiani slavi e ascoltassero alla radio solo programmi slavi «disinteressandosi completamente della vita nazionale italiana»154. Questa tesi era in certa misura contraddetta dal fatto che una parte notevole della popolazione slovena della Venezia Giulia era iscritta alle organizzazioni fasciste di massa, le quali erano però viste, molto spesso, come un corpo estraneo e un’imposi­ zione esterna: una volta finita la riunione dei balilla o la festa del Dopolavoro, i membri di queste organizzazioni tornavano in famiglia, dove esprimevano opinioni sul duce e sull’Italia molto diverse da quelle manifestate di fronte al federale del Pnf. A metà degli anni Trenta vi furono nuovi sviluppi, soprattutto nella provincia di Gorizia, dove le autorità italiane individuarono una «nuova società segreta slava», che si celava sotto il nome di Kulturno drustvo e che sarebbe stata fondata nel maggio/giugno del 1935. Come si legge in un rapporto, era già questo motivo sufficiente per non poter parlare della «riesumazione» o «rivitalizzazione» del vecchio movimento culturale, visto che della nuova associazione facevano parte persone dei più vari gruppi politici e ideologici155. Le singole celle del Kulturno drustvo, secondo il rapporto, ricevevano materiale attraverso il «confine verde», i percorsi di montagna lungo sentieri e ruscelli scavati nella roccia. Uno dei corrieri, un ex membro della Orjuna, avrebbe varcato la frontiera travestito da prete o da vagabondo; suo fratello era il gestore di una stazione di servizio (con punto di ristoro, stalle e un garage per autocarri) nei pressi del confine dove si aggirava spesso «strana gente». Altri gruppi erano segnalati a Vipacco (Vipava in sloveno), nelle zone collinari sopra Cormons (in Friuli)

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e a Gorizia. Inoltre sembrava che a tale organizzazione fossero iscritti diversi parroci di villaggio, tra cui, in particolare, Vigili] Scek. Questa ramificata struttura era nata, almeno in parte, dalla fantasia di un informatore che citava alcuni nomi di persone effettivamente «incriminate» e descriveva in modo molto reali­ stico l’articolata infrastruttura di un villaggio di una regione di montagna, con i suoi punti di ristoro e di sosta per gli autisti, i cori di chiesa e le biblioteche parrocchiali156. Una simile invenzione poliziesca, in questa variante che abbracciava i diversi settori politico-ideologici, era quasi una anticipazione della resistenza partigiana degli anni successivi al 1941. Del resto anche per l’anno 1939 fu redatto un rapporto su attività chiaramente individuabili del «movimento di propaganda nazionalista-irredentistica [...] nei sobborghi allogeni della città di Gorizia e nei centri slavi più distanti dal Capoluogo»157. 4. «Italianità», fascismo e ideologia razziale Se in questa sede è parso opportuno soffermarsi ulteriormente sul tema della «italianità», non è solo perché l’uso inflazionato di questo termine si deve al regime mussoliniano. La tematizzazione della razza in relazione alla Guerra d’Etiopia, la reinterpretazione dell’«italianità» in versione razzista e la svolta antisemita del fasci­ smo nella seconda metà degli anni Trenta ebbero conseguenze di lungo periodo sui rapporti tra italiani e slavi del sud in Venezia Giulia. In un primo tempo, tuttavia, una radicalizzazione della politica antislava come quella che si compì negli anni della guerra fu impedita dalPawicinamento alla Jugoslavia nella breve fase in cui Milan Stojadinovic gestì il potere158. Il ceto dirigente di notabili sorto dal movimento di unificazio­ ne italiano, nelle sue due principali correnti politiche (la Destra storica e la Sinistra), aveva accettato senza riserve P«italianità», anche perché la retorica patriottica non metteva a repentaglio il campanilismo. Fino alla Prima guerra mondiale non vi era, nell’identità degli italiani dotati di coscienza nazionale, una di­ stinzione esplicita tra italianità «borghese» e «proletaria». Per i liberali i ceti inferiori facevano parte del «popolo d’Italia», mentre per i socialisti e per i cattolici, cosmopoliti e internazionalisti, la nazione aveva un ruolo meno centrale di quello attribuito a essa dagli antesignani del Risorgimento. Se essi, ciononostante,

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diffondevano e tramandavano il patrimonio culturale italiano, ciò avvenne soprattutto perché la cultura (ivi compresa quella dei lavoratori) è inseparabile dalla dimensione nazionale, quanto meno per motivi linguistici. Una parte degli autori e compositori che sottolineavano quella dimensione o erano apertamente na­ zionalisti o furono semplicemente reinterpretati e resi utilizzabili ai fini della cultura proletaria159. Tra i paladini della «italianità» non vi erano solo partiti o gruppi integrati nel sistema che sostenevano lo Stato, ma anche i mazziniani (che in quanto repubblicani continuarono per molto tempo a essere schedati), nonché socialisti, comunisti e anarchici classificati come sovversivi nel Casellario politico centrale del ministero degli Interni italiano. Dopo la Prima guerra mondiale la polarizzazione tra i partiti «nazionali», che simpatizzavano per il fascismo, e i socialisti o comunisti, di orientamento internaziona­ lista, ridusse lo spazio per una «italianità proletaria» i cui fautori si richiamavano a Mazzini e all’eredità del Risorgimento160. La dottrina sociale mazziniana non era riuscita a stare al passo con il marxismo e l’anarchismo, e i successi organizzativi dei mazzi­ niani nell’ambito del movimento operaio erano rimasti confinati ad alcune province161. Tuttavia, alcune voci isolate collegavano esplicitamente l’«italianità» al proletariato162. L’idea gramsciana del «nazionalpopolare» avrebbe dovuto riempire il divario tra internazionalismo astratto163 che prescin­ deva totalmente dalla nazione e cosmopolitismo cattolico («uni­ versalistico»), tra mazzinianesimo dottrinario e interpretazione liberal-borghese dell’«italianità». Ma i Quaderni dal carcere, nei quali Gramsci sviluppò la sua concezione, furono pubblicati solo dopo la Seconda guerra mondiale, quando era ormai troppo tardi per un’alternativa di sinistra, «nazionalpopolare», all’«italianità». Quest’ultima negli anni del boom del secondo dopoguerra perse importanza rispetto al made in Italy]M, e «per l’italiano di oggi», come osserva Frank-Rutger Hausmann, «il termine [...] non significa più nulla o quasi»165. In base a quanto si è detto fin qui, l’«italianità» sembrereb­ be l’ideologia nazionale meno vulnerabile al razzismo. Tuttavia, l’uso inflazionato del termine da parte del fascismo ebbe delle conseguenze. Il regime non vedeva infatti negli italiani soltan­ to una «nazione culturale» (Kulturnation): 1’«italianità» aveva per le camicie nere anche i connotati di quella che viene detta «comunità di discendenza» {Abstammungsgemeinschaft). Essa

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era rappresentata attraverso i simboli della «romanità» e della «venezianità»: l’aquila, la lupa capitolina - può esserci per una comunità un simbolo più efficace di questo? - e il leone di san Marco166. Che i fascisti concepissero gli italiani anche come comunità etnica è stato generalmente trascurato in passato, poiché la dot­ trina fascista sottolineava e idealizzava lo Stato più che il popo­ lo167: «i miti propagandati dal fascismo», scrive Jens Petersen, «erano imperniati sullo Stato e sulla Nazione» e il primo aveva la precedenza sulla seconda168. In ciò era avvertibile ancora l’ere­ dità mazziniana, motivo per cui il nazionalismo italiano pareva classificabile nel tipo occidentale più che orientale169. Uno dei principali punti di conflitto tra la visione völkisch della destra tedesca (e poi del nazionalsocialismo) e quella del fascismo ita­ liano nasceva proprio dal diverso peso attribuito rispettivamente allo «Stato» e al «popolo»170. Tuttavia, nella misura in cui l’idea di Stato fascista faceva riferimento a Roma e a Venezia, diventava possibile ricollegarla a una «comunità di discendenza»: la «stirpe» si intrufolava, attra­ verso la porta di servizio, nell’edificio abitato dallo Stato e dalla nazione. Il potere statale vigilava soprattutto sulla «italianità» nelle sue forme di espressione linguistiche, morali e religiose; Mussolini descrisse lo Stato quale «custode e trasmettitore dello spirito del popolo così come fu nei secoli elaborato nella lingua, nel costume, nella fede»171. Il richiamo allo «spirito del popolo» - che ricordava Herder - era tutt’altro che coincidente con una dottrina biologica della razza, ma avvicinava l’idea di «italianità» alla concezione tedesca della nazione. E certo che nel 1932, dieci anni dopo la marcia su Roma e otto anni dopo la crisi Matteot­ ti, chi si richiamava allo «spirito del popolo» voleva esprimere un messaggio diverso da quello dei ricercatori di canti e fiabe popolari dei primi decenni dell’Ottocento. Qui, come in altre situazioni spinose, i fascisti se la cavavano grazie a concetti sufficientemente elastici da dilazionare o evitare definizioni univoche. Il regime tollerava o promuoveva la coe­ sistenza di termini programmatici che in realtà si escludevano a vicenda172. Ne è un buon esempio proprio il termine stirpe, che aveva una certa importanza nella pubblicistica nazionalista e fa­ scista. Luca dei Sabelli, uno degli esperti fascisti di politica delle minoranze, scrisse nel 1929 che la stirpe era «il substrato fisico delle unità nazionali» ma non coincideva con esse173. I termini

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maggiormente usati dai fascisti in riferimento alle minoranze etni­ che e nazionali in Italia erano allogeni e alloglotti. Gli «allogeni» difficilmente avrebbero potuto far parte di una nazione italiana basata sul presupposto di una comunità di discendenza, mentre era più facile immaginare che gli «alloglotti» fossero in realtà italiani snazionalizzati sotto la dominazione asburgica da preti, insegnanti e notabili che parlavano un dialetto slavo o tedesco. Un dizionario d’italiano del 1941 riformulava il termine ita­ lianità come segue: «l’essere italiano [...] nel senso di avere tutte quelle doti e qualità per poter essere chiamato italiano: detto così di persona come di lingua, stile e sim[ili]»174. Ancora una volta si ha l’impressione che si tratti di qualità non necessariamente ereditarie, che possono essere acquisite. Inizialmente l’«italianità», a differenza del «germanesimo» e di gran parte dello «slavismo», era sufficientemente universalistica da non dover essere antisemi­ ta. La tradizionale ostilità cattolica verso gli ebrei influenzò solo marginalmente il movimento di unificazione italiano: l’«italianità» non era anticattolica, ma antipapale. Tra i principali avversari del Risorgimento il papato veniva subito dopo la dinastia asburgica; il movimento unitario, le cui origini risalivano alle società segrete Carbonare, raccoglieva in tutta Italia massoni e liberi pensatori. Uno degli inni eseguiti più spesso durante il Risorgimento era il coro degli ebrei di Babilonia, Va’ pensiero, dal Nabucco di Verdi. Molti ebrei si assimilarono senza esitazioni alla «nazione titolare» e rilasciarono dichiarazioni di fedeltà verso il nuovo Stato, facilitati anche dall’impronta laica dell’Italia risorgimentale. Nel dicembre del 1918 gli ebrei triestini celebrarono con un rito solenne nella sinagoga il «riscatto» delle terre irredente175. Mussolini propagandò a lungo la capacità dell’«italianità» di assorbire altre culture. Nel 1924 egli avrebbe detto a Josip Wilfan, stando alla testimonianza di quest’ultimo, che «dopo che l’Italia è stata in grado di assimilare gli ebrei, il mezzo milione di slavi non potrebbe resisterle a lungo»176. Due anni dopo il duce affermò che per un’alleanza tra Germania e Italia non potevano essere di ostacolo i diritti delle minoranze, e contrappose a queste «il diritto delle maggioranze», perché lui stesso «era in questo caso democratico»177. Non fu un caso che nella seconda metà degli anni Trenta i fascisti mettessero all’ordine del giorno la «questione razziale». Già prima del 1938 le camicie nere avevano accolto nelle pro­ prie file antisemiti come Giovanni Preziosi e Roberto Farinacci;

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anche i primi scritti del «razzista spirituale» Julius Evola (la cui opera principale, tuttavia, fu pubblicata solo nel 1941) avevano raccolto adesioni tra i fascisti178. L’impresa coloniale in Africa contribuì alla tematizzazione della «razza» in Italia; per questo Gabriele Schneider colloca nel 1936 l’inizio della politica razziale del fascismo179. Dal punto di vista fascista rimase sempre in qualche modo problematico dare veste razzista all’«italianità»: anche quando la situazione internazionale ne suggeriva l’opportunità, come nel 1938, le idee sul da farsi erano piuttosto confuse180. Il Manifesto degli scienziati razzisti presentato da alcuni studiosi, che tradiva la mano di Mussolini, partiva dal presupposto che una pura «razza italiana» esistesse già e sottolineava la «comunità di discenden­ za»181. Vi si affermava - in totale contrasto con l’affermazione del 1924 di Mussolini - che gli ebrei erano «l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli italiani»182. Per poter discriminare la popolazione degli ebrei italiani il regime doveva deuropeizzarli; solo in tal modo poteva pensare di privarli dei loro diritti come aveva fatto con la popolazione nativa delle colonie africane. Chi aveva sufficiente onestà intellettuale da ammettere la rottura degli schemi argomentativi precedenti e aveva il coraggio di dichiararlo aveva quindi buoni motivi per protestare. E oppositori dell’antisemitismo razzista esistevano a tutti i vari livelli della gerarchia del Pnf, dal Gran Consiglio fino alla Federazione provinciale triestina: per togliere forza ai loro argomenti la segreteria del Pnf pubblicò un comunicato sul manifesto razzista in cui si rimproverava agli ebrei di costituire in tutte le nazioni «- coi loro uomini e coi loro mezzi - lo stato maggiore dell’antifascismo»183. L’opposizione di Rino Alessi, direttore del quotidiano triestino «Il Piccolo», durò solo due settimane: il 2 agosto 1938 egli pubblicò un articolo in cui da un lato prendeva le distanze dalla politica razziale della Germania nazionalsocialista e dall’altro sosteneva che tutti i provvedimenti italiani per la separazione della razza erano compatibili con la morale della Chiesa cattolica184. La svolta antisemita del fascismo mostra quanto l’«italianità» fosse suscettibile di interpretazione, una volta che il regime ne avesse ottenuto il monopolio. Roma «superava» così governi europei tradizionalmente ostili agli ebrei, come quelli ungherese,

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rumeno o polacco: «la legislazione italiana era - dopo quella tedesca - di gran lunga la più rigida al mondo dal punto di vista deH’antisemitismo»185. Per gli ebrei italiani, ormai in gran parte assimilati, ciò che accadde in Italia dall’estate del 1938 equivalse a un salto di ci­ viltà. Primo Levi scrisse in seguito che fino a pochi mesi prima aveva considerato le sue origini ebraiche come un «fatto quasi trascurabile anche se curioso»186. Claudio Magris ricorda invece il caso del figlio di un commerciante ebreo-polacco giunto a Trieste, che si era iscritto all’organizzazione giovanile fascista e indossava l’uniforme paramilitare nera187. Dopo l’annessione tedesca dell’Austria e la proclamazione delle leggi razziali in Italia, anche nell’ambito del fascismo trie­ stino guadagnò terreno una corrente estremista e filotedesca, il cui portavoce era Francesco Giunta. Il «fascismo di confine» si frammentò in diverse frazioni e sottogruppi: gli uomini di Giunta si raccoglievano nell’Azione italo-germanica e nel Centro antiebraico; essi si opponevano al segretario provinciale del Pnf Emilio Grazioli e alla corrente del fascismo triestino guidata da Giuseppe Cobolli-Gigli, ministro dei Lavori pubblici. Sui soste­ nitori triestini di Hitler si sa che avevano stretti contatti con il console tedesco a Trieste e che lo stesso Giunta dava ampia pub­ blicità ai suoi frequenti viaggi a Monaco188. Finì così col rendersi talmente sospetto al regime di Mussolini che la polizia politica iniziò a sorvegliare lui e i suoi amici. Questo gruppo fu visto da molti come una sorta di «quinta colonna» della Germania nazista nel fascismo triestino; al suo interno vi erano molti iscritti al Pnf che si avvantaggiarono delle leggi razziali rilevando ad esempio gli studi legali i cui titolari erano ebrei. Parecchi di loro erano ex squadristi, seguaci del leader cremonese del Pnf, Giuseppe Farinacci, che era stato emarginato nel 1926189. Anche gli sloveni e i croati giuliani avvertirono il peggiora­ mento del clima: due esponenti del Pnf nella regione di confine, Angelo Scocchi di Trieste e Italo Sauro di Capodistria, elaborarono dei nuovi progetti per portare a termine la «bonifica etnica» del litorale nel senso auspicato dal regime. Sauro, che aveva in mente una sorta di «soluzione finale» della problematica delle minoran­ ze, proponeva tra l’altro di «convogliare in A.[frica] 0.[rientale] numerose famiglie operaie di agricoltori slavi distribuendole in vari centri»190; inoltre chiedeva che «le nuove Industrie albanesi» approntassero posti di lavoro per gli sloveni e i croati giuliani191.

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La tematica delle leggi razziali italiane è stata affrontata anche in relazione al successo o insuccesso del regime fascista nelPaffermare una propria cultura192. Essa ci riconduce quindi alla problematica dell’assimilazione nella regione giuliana, all’opposizione degli slavi contro la politica fascista di snazionalizzazione e all’esilio degli sloveni e croati giuliani. 5. L’esilio degli slavi giuliani Sebbene l’emigrazione e l’esilio sloveno e croato dalla Vene­ zia Giulia nel periodo tra il 1918 e il 1941 abbiano suscitato a più riprese l’interesse degli storici, tali fenomeni non sono stati quasi mai oggetto di un dibattito basato su un’analisi esauriente delle fonti italiane e jugoslave. Carlo Schiffrer, che ha studiato i risultati dei censimenti demografici dei due decenni fascisti, ha constatato apoditticamente: «gli Slavi giuliani che preferirono abbandonare la Venezia Giulia per ragioni politiche furono pochi intellettuali e pochi dirigenti politici e sindacali, mentre la massa della popolazione agricola non si lasciò smuovere»193. Una disputa evidentemente interminabile, che si ritrova in molti dibattiti sull’esilio, è quella sui «moventi politici» che un emigrante slavo doveva comprovare per essere riconosciuto come tale dal punto di vista italiano. La questione dell’emigrazione giu­ liana, come ha notato alcuni anni fa Aleksej Kalc ricollegandosi a precedenti osservazioni della storica slovena Milica Kacin-Wohinz, resta «nella sua essenza un problema aperto»194. Solo in tempi recenti la commissione storica italo-slovena ha evidenziato nella sua dichiarazione che la politica di snazionalizzazione decimò la popolazione slovena di Trieste e Gorizia, disperse l’intelligencija e i ceti borghesi e proletarizzò la popolazione rurale: quest’ultima aveva però mantenuto il legame con la propria terra, e pertanto non era emigrata195. La situazione archivistica è d’altronde condizionata soprat­ tutto dal fatto che i documenti delle principali organizzazioni dell’emigrazione furono distrutti prima o durante la Seconda guerra mondiale; pertanto gli studi possono fare riferimento solo agli archivi prefettizi e di polizia italiani, al fondo Wilfan e alle pubblicazioni delle associazioni di emigrati196. L’esilio degli sloveni e dei croati è stato definito, in epoca recente, un «esodo», con un termine che richiama la partenza

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degli italiani dagli stessi territori dopo il 1945. Negli anni tra le due guerre (quelli cui fa riferimento per la maggior parte il presente lavoro) tale termine era inconsueto. I circa 70 mila esponenti dell’esilio sloveno-croato nello Stato slavo-meridio­ nale si chiamavano «profughi» o «emigranti». Un’espressione letterariamente ricercata era il termine uscocchi, che compariva saltuariamente, richiamando gli slavi del sud di fede cristiana che agli albori dell’era moderna erano fuggiti dall’impero ottomano per recarsi nelle immediate vicinanze della sfera di potere asbur­ gico o veneziano. La parola emigranti compariva anche nel nome di quelle aggregazioni che negli anni Venti e Trenta riuscirono a organizzare circa un decimo degli sloveni e croati trasferitisi dall'Italia in Jugoslavia. Salta all’occhio che gli esiliati, soprattutto nel periodo della dittatura monarchica (1929-1934), non si definivano «sloveni» o «croati», ma primorci («abitanti della costa») o istrani («istriani»). Questi termini facevano riferimento alle loro regioni di prove­ nienza: il litorale sloveno (Primorska) e la parte meridionale della penisola istriana, abitata da croati. Tutti i documenti ufficiali del tempo di parte slava parlavano sempre di «minoranza jugoslava» (non «slovena» o «croata») in Italia. Solo con il compromesso Macek-Cvetkovic del 1939 i profughi provenienti dall’Italia po­ terono tornare a chiamarsi «sloveni» e «croati»197. 5.1. Ondate migratorie e motivazioni dell’esilio degli sloveni e croati I confini tra l’esilio politico e la migrazione economica dalle aree del nord-est d’Italia abitate da minoranze, deliberatamente provocata dal regime di Mussolini in alcuni periodi, erano fluidi. I primi sloveni e croati che nelle ultime settimane della Grande guerra abbandonarono i territori dellTmpero asburgico all’arrivo delle truppe italiane erano impiegati statali che temevano di per­ dere il posto di lavoro sotto le nuove autorità. Tra loro vi erano diversi insegnanti, le cui scuole furono prontamente chiuse o italianizzate daH’amministrazione militare. Altri se ne andarono dai territori vicini al fronte devastati dalla guerra (Carso, valle dell’Isonzo), oppure erano già stati evacuati dopo il 1915, aveva­ no vissuto per anni in campi profughi e non fecero più ritorno alle loro case.

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Con l’assetto definitivo dei confini stabilito dal trattato di Rapallo e dagli accordi su Fiume (1920 e 1924), ma soprattutto con la Marcia su Roma dell’ottobre del 1922, per una parte della popolazione slava delle zone di confine si moltiplicarono le mo­ tivazioni a partire dai territori assegnati all’Italia. In prima fila in questo movimento furono, ancora una volta, i dipendenti pubblici, ma in misura crescente anche liberi professionisti, sacerdoti, ope­ rai o contadini organizzati in cooperative che seguivano le orme dei loro funzionari che se ne andavano a causa della dittatura. Costoro fuggirono sempre più numerosi a seguito dei processi politici svoltisi dalla fine degli anni Venti davanti al Tribunale speciale contro attivisti del movimento nazionale degli slavi del sud in Venezia Giulia, oppure in coincidenza con gli interventi militari dell’Italia in Etiopia e nella Guerra civile di Spagna. Distinguere in modo chiaro tra le varie «ondate di fuga» è problematico, poiché la politica fascista di assimilazione forzata durò per tutto il periodo tra le due guerre. Ciò significa che chi faceva parte della/e minoranza/e aveva continui motivi per fug­ gire, anche a prescindere dalle date-chiave della storia politica198. L’italianizzazione di tutto il settore scolastico pubblico e privato privò del posto di lavoro insegnanti slavi che non erano disposti a tenere le proprie lezioni in italiano. I liberi professionisti dovettero emigrare perché privati dell’abilitazione o del permesso di lavoro. Seguirono i giornalisti, quando il regime vietò la pubblicazione delle testate slovene e croate per cui scrivevano. Persero il pane anche gli artisti e i musicisti slavi che lavoravano nel Narodni dom di Trieste, bruciato dai fascisti nel 1920. Gli studenti della Venezia Giulia che frequentavano la scuola o l’università in Jugoslavia non vanno considerati esuli politici. Per i figli degli emigrati e altri membri delle minoranze esistevano collegi a Zagabria e a Karlovac. Gli adolescenti crebbero nel contesto di uno jugoslavismo integrale («jugoslovenstvo»), che considerava nemico non il fascismo, ma la nazione italiana nel suo comples­ so, fatto questo che ebbe molta influenza sull’atteggiamento dei futuri attivisti politici e capi partigiani199. Il processo di avvicinamento tra Italia e Jugoslavia, iniziato sotto il governo di Milan Stojadinovic, portò scarsi miglioramenti alla minoranza nel paese, e peggiorò la situazione degli emigrati, le cui organizzazioni improvvisamente non poterono più contare sui fondi fino allora abbondantemente affluiti dalla casa reale e dal governo. Nel 1935 fu vietato il congresso centrale dell’emi­

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grazione. Le maggiori difficoltà dell’esilio indussero così una parte degli esuli a fare ritorno in Italia. 5.2. Gli esuli e la/e società slavo-meridionale/i Negli anni tra le due guerre la Jugoslavia era un paese lacerato in cui esistevano diverse società parallele, cosa che si riflesse necessariamente sulle condizioni di vita degli emigrati giuliani. Fino alla metà degli anni Trenta lo Stato centralizzato ebbe interesse, per motivi di politica sia interna sia estera, a mantenere in vita le organizzazioni degli esuli. Dal punto di vista politico interno gli emigrati organizzati attorno 2$ esta­ blishment liberale triestino («Edinost», narodnjaki\ la cosiddetta «vecchia corrente») rappresentavano un sostegno affidabile per il governo di Belgrado e per la monarchia, adattando l’ideologia statale jugoslavistica e diffondendola nei vari centri dell’esilio, e soprattutto in Slovenia e in Croazia. I letterati collegavano il mito di fondazione serbo-jugoslavistico - la leggenda di re Lazar e dei suoi vojvodi - alle esperienze dei profughi dalla Venezia Giulia e dalla Carinzia, alla sconfitta italiana di Caporetto/Kobarid e alla «rapina di territori» compiuta dall’Italia liberale e da quella fascista. Nonostante, o forse proprio a causa, di questa loro funzione di megafono dello Stato centrale, in alcune zone della Jugoslavia gli esuli non erano affatto graditi. In un paese molto povero, il sussidio statale che ricevevano era invidiato da molti. A volte erano addirittura insultati come «fascisti», pur essendo fuggiti proprio a causa della politica fascista. La situazione era particolarmente problematica in Croazia, dove le aspirazioni autonomistiche, che in alcuni casi (come quello del partito contadino di Stjepan Radic) si spingevano a chiedere la secessione, si contrapponevano clamorosamente all’orientamento filo-centralista dei profughi. Secondo fonti italiane, in Croazia molti profughi, già minacciati dagli effetti della crisi economica mondiale, persero il posto di lavoro in quanto sostenitori del governo centrale. Solo dopo l’intesa del 1939 tra serbi e croati il Partito contadino tentò di costituire una lobby tra gli esuli. Dalla metà degli anni Trenta in poi crebbe, tra gli emigrati, l’influenza comunista (la cosiddetta «giovane corrente»), cui si aggiunsero, durante la guerra di Abissinia, centinaia di disertori dalle forze armate italiane200.

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Buone possibilità di ascesa si aprivano, nel Regno di Jugosla­ via, a quella parte dei profughi classificabile come intelligencija. Così, ad esempio, esponenti dell’esilio giuliano entrarono a far parte della burocrazia (il caso più significativo è quello dell’istria­ no Matko Laginja, giunto al vertice dell’amministrazione di un banato) e dell’imprenditoria. Gli industriali provenienti dalla Venezia Giulia godevano di una sorta di sistema di closed shop nei confronti dei lavoratori emigrati, che ottenevano un posto di lavoro solo se si iscrivevano alle organizzazioni dell’emigrazione tutelate dallo Stato. In alcuni casi il contributo di iscrizione a tali associazioni era direttamente detratto dal salario. Si formò così una cultura mista dell’esilio, e divenne sempre più difficile distinguere tra esilio politico ed emigrazione per motivi di lavoro. Parecchi emigrati tornati in Italia, quando venivano interrogati dagli organi di repressione italiani (polizia, milizia, carabinieri), dichiararono di essersi iscritti alle organizzazioni dell’esilio per necessità economica. Non è possibile, in base alle fonti, stabilire con certezza se tale dichiarazione rispondesse a verità o se servisse solo a proteggersi. La maggior parte di coloro che erano emigrati in Jugosla­ via mantenevano la cittadinanza italiana, dal momento che per acquisire quella jugoslava occorreva pagare una tariffa spesso troppo elevata rispetto alle modeste condizioni economiche di un emigrato. I portavoce degli istrani e dei primorci caldeggiavano l’istituzione di una sorta di «doppia cittadinanza» che avrebbe conferito ai suoi titolari tutti i diritti dei cittadini jugoslavi senza dover rinunciare alla cittadinanza italiana, e con essa alla speranza di ritorno201. Gli esuli del litorale e dell’Istria erano per lo più costretti a svolgere un’«opera pionieristica sul piano nazionale» in favore dello «jugoslovenstvo» o dell’ideologia nazionale slovena. Le associazioni patriottiche e di esuli (Sokol, JM) aiutavano gli sloveni del litorale a proseguire fino alle zone del Banato della Drava a prevalente popolazione tedesca, affinché combattessero dalla parte slovena questo conflitto di nazionalità sui generis. Con l’aiuto dei primorci si riuscì effettivamente a slovenizzare gradualmente una città come Maribor (in Bassa Stiria), che nel 1918 aveva ancora una forte impronta tedesca. Nelle regioni abi­ tate da minoranze nel sud rurale della Jugoslavia, dove si mirava a influenzare albanesi o slavi macedoni in senso favorevole allo «jugoslovenstvo», le organizzazioni degli emigrati delinearono

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una propria politica di insediamento. Quest’ultima riguardava soprattutto i contadini che avevano perduto le proprie casse di credito rurale nella provincia di Gorizia o in Istria. I funzionari di queste ultime, molti dei quali a loro volta emigrati, pubbli­ cizzavano le possibilità di colonizzazione delle zone di frontiera, periferiche o di minoranza dello Stato sud-slavo. Alcuni degli emigranti furono sistemati in fattorie i cui proprietari erano stati scacciati dalla polizia. In Macedonia una parte dei coloni provenienti dall’Italia fu travolta da un’ondata di serbizzazione e si convertì dal cattolicesimo all’ortodossia. A Banja Luka (Bosnia) fu riprodotto il modello, diffuso nella zona di Gorizia, della cassa agraria cristiano-sociale e della infrastruttura sociale che vi era connessa, dal coro alla sala di lettura202. Quando, nel 1941, le forze dell’Asse occuparono la Jugo­ slavia, gli emigrati furono uno dei settori più duramente colpiti della popolazione jugoslava. Ciò vale sia per la parte occupata dalla Wehrmacht sia per la zona di occupazione ungherese. Nel corso della guerra e negli anni del dopoguerra gran parte degli emigrati fece ritorno alle proprie regioni di provenienza, che nel frattempo erano diventate jugoslave.

Capitolo quarto

G uerra partigiana e nazionalizzazione (1941-1945)

L’idea di esaminare in chiave comparativa l’evoluzione italiana e jugoslava nell’area dell’Adriatico nord-orientale dal 1941 in poi deve fare i conti con un problema di fondo: la presenza in quest’area del Reich tedesco come «terzo fattore». Questa presenza, che negli anni della Repubblica di Weimar e durante il primo lustro del regime nazista rimase molto discreta (sostegno al Congresso europeo delle nazionalità, osservazione delle minoranze attraverso il consolato), fu avvertita molto più chiaramente a partire dall’Anschluss, l’annessione dell’Austria nel 1938*. Fino ad allora in Jugoslavia come a Trieste si erano registrate attività di nazionalsocialisti austriaci. I seguaci di Hitler fuggiti all’estero dopo il fallito tentativo di putsch del lu­ glio 1934 furono assistiti, nell’area adriatica nord-orientale, da Odilo Globocnik, che avrebbe poi ricevuto l’incarico di capo delle SS e della polizia nella Zona d’operazione del Litorale adriatico2. A Roma e a Trieste si reagì con preoccupazione alla politi­ ca espansiva di Berlino; in una nota del Ministero degli Esteri tedesco poche settimane dopo l’Anschluss si legge che l’Italia considerava «decisivo che Trieste non venisse tagliata fuori dal suo naturale hinterland a causa di provvedimenti tariffari tedeschi che l’avrebbero distrutta in quanto porto»3. D ’altra parte alcuni grandi imprenditori triestini considerarono seriamente l’idea di fare della città adriatica un porto franco per il Grossdeutsches Reich4. La rivista «La Porta Orientale», che esprimeva le posizioni del gruppo nazionalista triestino raccolto attorno a Bruno Coceani e a Federico Pagnacco (da cui sarebbero usciti, nel 1943-1945, alcuni dei principali esponenti del collaborazionismo) seguì un percorso analogo, osservando con attenzione e favore la politica razziale del regime nazionalsocialista3.

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Nel 1939 il Reich tedesco bussò nuovamente alle porte della Venezia Giulia: per la popolazione di lingua tedesca e slovena dei Windischen della Val Canale, appartenuta fino al 1918 alla Carinzia e poi assegnata all’Italia, Berlino ottenne un’opzione simile a quella prevista per i sudtirolesi6. La presenza diretta della Germania nazista nella regione adriatica iniziò con le ope­ razioni militari degli anni 1941 e 1943; il Grossdeutsches Reich procedette sia alla disgregazione della Jugoslavia sia alla divisione dell’Italia. La principale somiglianza tra gli eventi del 6 aprile 1941 e quelli dell’8 settembre 1943 consistè nel fatto che la Wehrmacht agì contro due Stati sovrani europei: uno fino a poco tempo prima era stato un alleato del Reich, mentre l’altro aveva stipulato poco prima un patto con l’Asse e con il Giappone; ma tra queste due situazioni vi fu anche una importante differenza. Quando le truppe tedesche entrarono in Jugoslavia, nell’aprile del 1941, lo fecero insieme a divisioni del regio esercito italiano; l’Italia, alleato del Reich, partecipava alla spartizione del bottino di guerra e veniva accontentata in misura analoga ai partner minori dell’Asse (Ungheria, Bulgaria). L’espansionismo tedesco ridusse fin dal 1941 lo spazio di manovra italiano nei Balcani, ma solo nel 1943 - dopo la caduta di Mussolini - si estese a territori italiani o annessi all’Italia come la Venezia Giulia e la cosiddetta Provincia di Lubiana. All’inizio di settembre del 1943, quando l’Italia si arrese e venne occupata, la Germania nazista rimase nella regione l’unico protagonista che agiva in modo autonomo, a parte i gruppi della resistenza armata7. Nella storia contemporanea della Jugoslavia e dell’Italia l’aprile del 1941 e il settembre del 1943 rappresentano delle esperienze di fondo comparabili tra loro; entrambi i paesi furono militar­ mente occupati e persero la propria unità territoriale8. Ulteriori possibilità di raffronto sono offerte dai movimenti di resistenza di entrambi i paesi, che nella regione di confine si trovarono in una situazione di alleanza ricca di conflittualità. 1. La storiografia sulla lotta partigiana nell’area adriatica Nelle attuali repubbliche ex jugoslave della Slovenia e della Croazia si tende sempre più a indicare nella Jugoslavia monarchi­ ca (1918-1941) e in quella titoista (1945-1991) due smarrimenti e deviazioni fatali della storia europea. Si ritiene di poter decretare,

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e allo stesso tempo celebrare, due nuovi inizi: il superamento dello «jugoslavismo» e quello del comuniSmo. Solo ora - questa la con­ vinzione di fondo della storiografia - il treno della musa Clio sa­ rebbe tornato a correre sul binario principale della storia nazionale slovena o croata, lasciandosi alle spalle quelle tratte secondarie9. Nella Croazia dell’era Tudman la frattura con il passato è stata particolarmente forte: drastica al punto tale che il paese è stato sospettato, non sempre senza giustificazione, di voler rivalutare un altro passato, quello dello Stato ustase. In Slovenia, invece, la transizione più morbida alla democrazia parlamentare ha lasciato aperte alcune questioni sulla responsabilità delle élite slovene in alcuni crimini (massacri e processi-farsa) avvenuti nel periodo immediatamente successivo alla liberazione del 194510. Anche in Italia la storiografia si trova di fronte a un nuovo inizio, e non mancano certo gli studi che hanno come principale oggetto il «tramonto dello Stato nazionale italiano» o addirittura «la fine della stessa Italia»11. Spesso l’esigenza revisionistica viene estesa anche alla storia della Resistenza. Dal punto di vista nazionale, la guerra partigiana sull’Adriatico nord-orientale ebbe carattere bifronte: per gli italiani fu «Resistenza», per gli sloveni e i croati «lotta di liberazione nazionale». Nell’Italia e nella Jugoslavia del dopoguerra i due (o tre) movimenti che in vario modo si sovrapposero nella zona di confine furono dichiarati, sia pure in misura diversa, parte della storia nazionale, ma in tal modo istituzionalizzati e tipizzati. Nella storia dei movimenti di resistenza la storiografia ha legittimato la rispettiva ortodossia «nazionale», e alle discussioni che cautamente ponevano in dubbio le versioni canoniche - italiana, slovena e croata - di tale storia si è giunti piuttosto tardi. Ancora alla fine degli anni Settanta i curatori di una bibliografia italiana sulla Resistenza in Friuli e Venezia Giulia constatavano una dicotomia nello sviluppo della storiografia italiana e jugoslava12. E fino a un’epoca relativamente recente non sarebbero stati fatti seri ten­ tativi per superare le differenze di opinione sorte all’epoca della guerra partigiana e di rimuovere gli attriti tra le due parti. Nella trattazione della storia della Resistenza gli storici italiani e quelli slavo-meridionali si sono deliberatamente concentrati su aspetti geografico-territoriali completamente diversi: se da parte italiana si è guardato soprattutto all’azione del Comitato di liberazione nazionale (Cln) nelle città, gli sloveni hanno de­ dicato particolare attenzione ai gruppi partigiani che operavano

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nelle aree rurali del Carso o dell’Isonzo, il principale dei quali era senz’altro il IX Korpus. I croati hanno posto in primo piano anche le attività militari di resistenza svolte dalle proprie unità e gruppi in Istria, il cui nucleo fondamentale prendeva il nome dal martire croato Vladimir Gortan. Dietro di ciò si celava una divergenza di «lunga durata» di cultura e mentalità: l’Italia era il «paese delle cento città» (Carlo Cattaneo), e tale rimaneva anche là dove i dintorni di tali città non erano più popolati da italiani ma da sloveni e croati. La Slavia era invece un paese contadino, i cui centri urbani erano per lo più nati per ragioni militari e molto più raramente per effetto di attività artigianali e commerciali13. Faceva eccezione soltanto «la costa adriatica, con una forte impronta romano-veneziana e con una sua cultura cittadina»14: eccezione che a sua volta andava circoscritta, poiché anche in questo caso l’impronta «latina» prevaleva nelle città e quella slava nelle campagne. La storiografia si è occupata in vario modo dei rapporti tra Partito comunista italiano (Pei) e sloveno (Kps) e tra i rispettivi movimenti partigiani; in questo il problema della lingua si è ri­ velato una barriera fondamentale. Se, ad esempio, storici sloveni hanno analizzato soprattutto la storia dell’Osvobodilna fronta slovenskega naroda (OF, Fronte di liberazione del popolo slo­ veno) sulla base delle fonti, parzialmente edite, conservate negli archivi sloveni, le indagini da parte italiana si sono concentrate soprattutto sulle brigate Garibaldi e Osoppo; solo in pochi casi gli studiosi hanno utilizzato fonti italiane e slave o fatto ricerche in archivi tedeschi (Enzo Collotti da parte italiana e Tone Ferenc da parte slovena ne sono gli esempi più noti). L’esame congiunto di fonti italiane, slovene e tedesche può consentire di ottenere risultati irraggiungibili se si rimane invece fermi alla prospettiva delle formazioni partigiane organizzate su base nazionale. Negli studi sulla guerra partigiana, sia in Italia sia in Slovenia, rispetto ad alcuni decenni fa c’è stato un evidente recupero di sobrietà nella considerazione delle motivazioni, della composi­ zione, delle finalità e dei metodi di lotta dei partigiani. Hanno contribuito a una visione «disincantata» degli eventi soprattutto le opere di Claudio Pavone e Lutz Klinkhammer, che si sono accostati alla storia della Resistenza da prospettive diverse15. Milica Kacin-Wohinz, che ha esaminato dettagliamente il volume di Pavone nelle pagine di una rivista slovena, ritiene che esso potrà influenzare gli studi sloveni sulla guerra di liberazione

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popolare allo stesso modo in cui ha modificato la visione del movimento partigiano italiano16. Il conflitto italo-slavo sull’Adriatico nord-orientale non ri­ guarda, tuttavia, solo la storia della Resistenza o della lotta di liberazione nazionale slovena, ma è al tempo stesso un aspetto degli studi sulla storia del comunismo17. Fu in tale conflitto, infatti, che emerse una delle prime controversie «intracomuniste», che non risaliva ai grandi scontri degli anni Venti tra le fazioni del Pcus (come quelli sulla «successione» a Lenin e sull’industria­ lizzazione) ma aveva radici regionali: i comunisti italiani e slavi agivano soprattutto nel proprio rispettivo interesse e non erano le succursali di una frazione internazionale, se non in senso molto generale, in quanto parte della corrente - di gran lunga prevalente dall’inizio degli anni Trenta - del comunismo mondiale guidato da Stalin. Il dissidio tra comunisti italiani e slavi si basava più sulla storia sociale e sulle condizioni di frammentazione etnica neH’Adriatico nord-orientale che non su una contrapposizione ideologica, sebbene entrambe le parti cercassero di sovraimporre a quella base delle divergenze ideologiche. Tale conflitto era anche riconducibile a due opzioni total­ mente diverse di antifascismo, rappresentate da Josip Broz-Tito per il Kpj e da Paimiro Togliatti per il Pei. In termini di risultati i programmi antifascisti degli anni della guerra influenzarono durevolmente la storia postbellica dei due paesi. In entrambi la Resistenza ebbe conseguenze sullo sviluppo delle élite politiche: in Jugoslavia il ceto dirigente del partito, dello Stato e dell’eco­ nomia venne reclutato tra gli ufficiali delle unità partigiane. Ciò non vale nella stessa misura per l’Italia, poiché i partiti politici su cui si era soprattutto fondata la Resistenza si dissolsero come il Partito d’azione (che contribuì però allo sviluppo di altre forze politiche su posizioni di sinistra liberale come i repubblicani di Ugo La Malfa, i socialisti di Pietro Nenni o il Partito di unità proletaria della sinistra socialista: Pri, Psi e Psiup contavano infatti fra i loro esponenti di punta numerosi ex partigiani, tra cui diversi ex combattenti del Partito d’azione) o furono spinti all’opposizione nel 1947 come i comunisti e i socialisti. La par­ tecipazione attiva alla guerra partigiana dei democratici cristiani, che dominarono il sistema politico della Repubblica italiana fino agli anni Novanta, era stata minima, ma anche tra loro vi era qualcuno che prima di dedicarsi alla politica era stato un capo partigiano.

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Negli anni Sessanta e Settanta, con le coalizioni di centrosinistra, gli ex partigiani tornarono al governo nelle file del Partito socialista, ma le principali funzioni nella «stanza dei bottoni» (Nenni) rimasero sempre in mano ai democristiani. La generazione della Resistenza ebbe un’influenza politica e cultu­ rale in Italia soprattutto nella seconda metà degli anni Settanta, quando la coalizione pluripartitica a guida democristiana si trovò a dipendere dalla «non sfiducia» dei comunisti, che si astennero in alcune votazioni importanti. La forte coloritura antifascista del sistema politico fu rafforzata dal fatto che con il socialista Sandro Pertini uno dei principali avversari del fascismo divenne capo dello Stato18. L’esperienza partigiana ha durevolmente condizionato la storiografia di entrambi i paesi: in Italia contribuì a ciò anche la fondazione dell’istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione, con succursali in quasi tutte le regioni19, mentre in Jugoslavia gli studi furono spinti in tal senso dall’istituto di storia militare di Belgrado, fondato nel 1946, e dai vari Istituti nazionali per la storia del movimento operaio20. Lo studio della lotta di liberazione jugoslava, in quanto par­ te della dottrina dello Stato, è stato ampiamente irregimentato (anche se in Slovenia non vi fu una «generale conversione della storiografia al materialismo storico»21) e orientato soprattutto verso la storia del movimento partigiano titoista (cosa che, data la grande diffusione di quest’ultimo, non necessariamente significa che qualsiasi risultato prodotto da tali studi sia privo di valore). In Italia, invece, l’analisi delle fonti della Resistenza è stata caratterizzata da un maggior pluralismo. Nonostante il prevalere della componente marxista è stata mantenuta una chiara separazione tra storia della Resistenza e storia del Partito comu­ nista. Gli istituti per lo studio della Resistenza finanziati dallo Stato attraverso regioni e province sono diventati organizzazioni scientifiche rispettabili con un’ottica più ampia rispetto a quella dei partiti; lavori come quelli di Roberto Battaglia, Giorgio Bocca o Guido Quazza hanno avuto ampia diffusione22. Il crollo del comuniSmo sovietico, la disgregazione della Jugo­ slavia e la crisi del sistema partitico italiano hanno contribuito in vario modo a sconvolgere il quadro di riferimento, fino al 1989 ben ordinato, del sistema degli studi sulla lotta di resistenza sia in Italia sia nell’ex Jugoslavia. Molti istituti e centri di ricerca sono stati ribattezzati e in parte riorganizzati. In Slovenia l’istituto

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per la storia del movimento operaio di Lubiana si chiama ora Istituto per la storia contemporanea e il suo archivio, insieme a quello del Comitato centrale della Lega dei comunisti slovena, è confluito nell’Archivio centrale dello Stato25. In Italia i due Istituti per la storia della Resistenza nell’area adriatica nord-orientale, a Trieste24 e Udine, hanno mantenuto la propria denominazione ma hanno ampliato i propri ambiti di ricerca, mentre un terzo istituto è sorto nel Friuli occidentale, a Pordenone. La storia dei partigiani avanza spesso a passo di lumaca. La storiografia antifascista ispirata a una visione di religione civile e di stampo memorialistico (più o meno agiografico) è in grado di riempire intere biblioteche25: già nel 1950 una rassegna slovena delle pubblicazioni prodotte nella guerra popolare di liberazione o dedicate a questo tema elencava ben 921 titoli26. Insomma, non si è persa alcuna occasione, o quasi, per seguire le tracce delle prime unità partigiane e ricostruirne le marce, le soste nei rifugi, gli sconfinamenti e gli agguati al nemico27. Questa storio­ grafia partigiana corrisponde a una cultura del ricordo, tuttora in voga, che celebra ogni episodio della lotta con monumenti, lapidi o tavole commemorative. Un simile approccio, che ricorda l’onnipresenza del sacro nelle zone rurali cattoliche dell’Europa centrale, piene di cappelle, crocefissi, figure di santi ecc., offre all’esterno la possibilità di ripercorrere i confusi inizi della guerra partigiana e di farsi nel contempo un’idea della sua ubiquità28. Un secondo motivo per cui la storia partigiana avanza di solito molto lentamente è direttamente legato alle condizioni delle fonti. I documenti disponibili sono generalmente ordini attraverso i quali venivano costituite unità partigiane o avviate azioni militari, oppure sono rapporti su tali eventi destinati ai superiori. Non è sempre facile controllare se la descrizione che essi contengono degli avvenimenti - in relazione ad esempio a una missione compiuta o fallita - sia veritiera. Da questi pro­ blemi di critica delle fonti dipendono alcune delle affermazioni contraddittorie che si ritrovano nella letteratura secondaria. A volte si deve riconoscere che le cose in realtà erano fluide, che un reparto partigiano, ad esempio, poteva dipendere contem­ poraneamente dal Corpo volontari della libertà (Cvl) italiano e dal IX Korpus sloveno, o che una brigata era tale solo di nome e in realtà aveva la consistenza di un battaglione.

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2. «Quadri della nazione di domani». La guerra partigiana al confine italo-sloveno Durante il periodo dell’occupazione italiana della Slovenia meridionale, e ancor più durante la occupazione tedesca dell’area adriatica nord-orientale, la problematica nazionale è estremamente ricca di sfaccettatature. Nell’analizzarla è necessario tener conto non tanto delle forti oscillazioni dello «spirito pubblico» di una popolazione sofferente e danneggiata dagli avvenimenti bellici, quanto del complicato intreccio di rapporti tra strutture di partito e comandi militari, organi di collaborazione e di coordinamento, gruppi di resistenza urbani e rurali, organi di polizia e servizi segreti e di sicurezza da cui fu costituita prima la resistenza jugoslava e poi quella italiana. Se tra le due guerre la situazione di conflitto etnico-nazionale era stata caratterizzata da un bipolarismo che, nonostante il permanere di zone grigie e di transizione, corrispondeva per­ fettamente o quasi alla contrapposizione idealtipica fra «nazione titolare» e minoranza dell’epoca del Congresso delle nazionalità o all’«unico vero conflitto etnico» di Angelo Vivante, la situazione si differenziò maggiormente nel 1941, allo scoppio della guerra nella parte di Slovenia occupata dall’Italia, e a partire dal 1943 in tutta l’area adriatica occupata dai tedeschi (Zona d’operazione del Litorale adriatico). Ci sono stati ripetuti tentativi di rivedere criticamente la storia dei rapporti tra partigiani italiani e jugoslavi, per altro sempre nella prospettiva dello Stato nazionale o del «comu­ niSmo nazionale». Oggi invece esistono i presupposti per esaminare la nazionalizzazione della Resistenza nella regione di confine come fenomeno profondamente ambiguo che ha provocato fratture e polarizzazioni esistenti ancora in tempi recenti. Particolarmente ben decifrabile - in una serie di situa­ zioni-chiave in determinate zone dell’Adriatico nord-orientale - è la visione di sé e dell’altro dei combattenti antifascisti. Si tratta di mostrare in che modo e in quali condizioni la guerra partigiana, dopo due decenni di politica di assimilazione, acce­ lerasse la decisione individuale dei combattenti circa la propria appartenenza a una «nazione». I partigiani aspiravano a diventare «quadri della nazione di domani»29 e a prefigurare lo Stato: la nuova Italia o la nuova Jugoslavia. Poiché tuttavia durante la guerra le potenze occupanti

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avevano modificato le frontiere, il riferimento delle formazioni partigiane a un determinato territorio non era sempre univoco. La nozione di Stato nel cui ambito si muovevano era ancora più vicina a quella basata sui legami personali e di gruppo che al moderno Stato territoriale. Là dove le fonti lo consentono andrebbe verificato se le unità partigiane, ovvero i loro comandanti e commissari politici, abbiano operato come moltiplicatori etnici di una determinata «identità» nazionale (definita in termini di scuola, uso della lingua, rituali, culto degli eroi) nei combattenti della lotta di liberazione. Ma prima ancora occorre ricostruire, indipendentemente dalla pro­ blematica nazionale, le condizioni di vita e il morale dei partigiani nell’area adriatica. 2.1. Condizioni di vita e morale dei partigiani Le origini lontane della moderna guerra partigiana non vanno cercate né sugli Appennini né nella penisola balcanica, ma più a ovest, sulla penisola iberica, e più a est, nella Russia zarista. Lo spa­ gnolo e il russo hanno influenzato anche la terminologia dell’impari lotta tra esercito stanziale e truppe volontarie. In un rapporto dell’inizio del 1942 il generale italiano Mario Roatta osservava che le forze armate italiane e quelle dell’alleato tedesco si erano trovate, in Jugoslavia, a dover fronteggiare lo stesso tipo di nemico e a do­ ver combattere lo stesso tipo di guerra «nella quale si trovarono le truppe napoleoniche in Spagna nel 1808 e in seguito»30. Fu allora che la resistenza di volontari nei confronti dell’esercito stanziale fu definita per la prima volta una «piccola guerra» (guerrilla). Secondo quanto sostiene Milovan Dilas nelle sue memorie, era tutt’altro che ovvio che i membri dei gruppi armati organizzati dai comunisti jugoslavi si autodefinissero «partigiani». Perso­ nalmente egli avrebbe preferito la parola guerrillero, perché il termine serbo-croato partizan, come i suoi equivalenti nelle lingue latine, significava originariamente sostenitore di un partito, e non combattente armato. In quest’ultima accezione il termine era stato preso a prestito dal russo, e appariva a Dilas come una concessione alla prassi dei comunisti dell’Unione sovietica, da cui il partito jugoslavo aveva tratto tutta una serie di simboli e di rituali31. In effetti durante la Seconda guerra mondiale nei paesi occupati dalla Germania, dall’Italia e dai loro alleati i partiti comunisti si

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rifacevano a un testo di Lenin [Sulla guerra partigiana) risalente all’inizio dell’epoca rivoluzionaria in Russia (1906)32. Utilizzare il termine partigiano per indicare chi militava at­ tivamente nei movimenti di resistenza significa oggi essere con­ sapevoli che si tratta di una sorta di pars prò toto. I combattenti friulani della Osoppo che simpatizzavano per i democratici cri­ stiani o per il Partito d’azione chiedevano espressamente di essere chiamati «patrioti» e non «partigiani», e fino al 1943 i fascisti italiani e gli ufficiali dell’esercito regio chiamavano i combattenti della Resistenza «ribelli»: termine adottato in parte anche dai diretti interessati33. Gloria Nemec cita una donna istriana che parlava bene dei «ribelli», ma diceva tutto il male possibile dei «partigiani»: evidentemente per l’interessata questa distinzione si basava su esperienze diverse riguardo ai «ribelli» slavi sotto l’occupazione tedesca e ai «partigiani» che successivamente pre­ sero il potere. Sempre nella penisola istriana la popolazione italiana nel 1945 chiamava i partigiani croati anche «drusi»: espressione che deri­ vava dal termine slavo drug (amico, compagno)34. Famigerata era la «drugarizza» (drugarica in croato, forma femminile di drugY5, che nella propaganda antislava non solo dei fascisti, ma anche degli antifascisti moderati raccolti nel Cln istriano, assumeva caratteristiche che ricordano l’immagine ostile della Flintenweib - la «donna-soldato» - diffusa nei corpi di volontari tedeschi dopo la Prima guerra mondiale36. Si tratta di due rappresentazioni del movimento partigiano profondamente diverse tra loro: non si può immaginare contrasto maggiore di quello tra la «statua di bronzo a grandezza naturale del giovane ardito, fremente del desiderio di morire per il suo paese, che domina la sala centrale del museo militare jugoslavo a Belgrado»37 (la figura iperidealizzata del partigiano titoista) e la caricatura italiana della «drugarizza», donna grassa e sfigurata in una fisionomia metà umana e metà animalesca, con la titovka (il berretto militare) in testa, le bombe a mano infilate nel cinturone e gli stivali militari troppo grandi38. Proprio per questa ragione la statua e la caricatura segnano i punti estremi di una immagine della lotta partigiana nata durante la guerra e sopravvissuta per decenni, in Italia e in Jugoslavia, che solo dal 1991 in poi ha lasciato spazio a nuove interpretazioni. Nei documenti della Wehrmacht, delle SS e della Rsi si parla di solito, in italiano o in tedesco, di banditi: termine palesemente

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dispregiativo, che somiglia a quelli utilizzati da molti eserciti stanziali che si trovano a dover affrontare volontari o partigiani. Gli occupanti di parte tedesca applicavano talvolta anche una distinzione abbastanza goffa per «tipo di banda», distinguendo tra «seguaci di Badoglio», Partisan (in italiano partigiani) e «ri­ belli (sloveni)»39. Il «Piccolo» di Trieste, nel giugno del 1942, definiva i parti­ giani sloveni «briganti dei boschi»40. Queste denominazioni, di cui gli «irregolari» in altri paesi si facevano vanto, non avevano di solito per i combattenti della Resistenza slava un’accezione positiva, come idea di ribellione sociale41 o di una sorta di «mito degli hajduki»: questi tradizionali ideologemi balcanici - come il culto del Vidovdan - avevano ormai ceduto il passo, nell’Adriatico nord-orientale, a una modernizzazione antibalcanica propagandata e praticata dai comunisti sloveni e croati. Di fatto, quando nell’autunno del 1943 si costituirono le pri­ me unità partigiane italiane, molti combattenti slavi si trovavano già da due anni u sumi o v gozdu, espressioni che rispettiva­ mente in serbo-croato e sloveno significano «nel bosco», «alla macchia»42. «Il segreto della lotta partigiana», afferma Enzo Collotti nella conversazione con Lutz Klinkhammer, «è proprio l’invisibilità, e il suo successo ha fatto sì che in Jugoslavia si sia trasformata in una guerra per corpo d’esercito con caratteristiche profondamente diverse rispetto alla stessa guerra partigiana»43: ma prima che si giungesse a questo i boschi furono la base di partenza della guerra partigiana. Il bosco - termine che stava a indicare le più svariate situazioni geografiche, dalla foresta alpina di conifere della zona del monte Tricorno o dell’alto Isonzo fino alla macchia mediterranea istriana - era tutto per i partigiani: non un semplice luogo dove soggionare o nascondersi, ma una dimensione esistenziale44. Pertanto non sorprende che un racconto spesso associato alla guerra partigiana prenda anch’esso le mosse in un territorio boschivo. Nella foresta di Motovun (in italiano Montona) inizia la storia del «grande Joze» (Veli Joze), pubblicata per la prima volta a Lubiana nel 1908 dallo scrittore croato istriano Vladimir Nazor45: «gigante di aspetto e fanciullo di spirito»46, Joze lavora i campi per conto dei cittadini, che lo compensano dandogli vino e carne. Egli è soddisfatto della sua vita, finché il governatore veneziano decide di portarlo nella città lagunare per metterlo in mostra come una curiosità. Sulla nave conosce un compagno

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di sventura, il gigante Ilija, costretto anch’egli a lavorare per il governatore, come galeotto. Ilija dà a Joze fiducia nella propria forza: «Le mani devono servirti sì per lavorare, ma soprattutto per te stesso e per ciò che ti appartiene. E la terra appartiene a te, sì, proprio a te»47. Unico sopravvissuto a un naufragio, Joze si reca a Motovun per fondare su una collina nei pressi della città una libera comunità di giganti sfruttati come lui dagli uomini. Il tentativo fallisce; Joze nel corso di una lite uccide un compagno e finisce per tornare al servizio dei cittadini, senza però perdere la speranza di poter ripetere l’esperimento sociale48. Paul Parin, medico nato a Trieste e cresciuto in Slovenia, ha osservato che la storia della guerra di liberazione jugoslava è stata articolata dalla storiografia in sette offensive, lanciate non dai partigiani, ma dagli occupanti; i partigiani, scrive Parin, andavano «non “al fronte”, ma “u sumi”, nei boschi»49. Lo storico militare John Keegan aggiunge che «gli abitanti dei paesi erano costretti a seguire i partigiani “nei boschi” (la definizione tradizionale delle zone abitate da coloro che combattevano i turchi) o a restare a far fronte alle rappresaglie»50. A volte il bosco che circondava i villaggi esprimeva il carat­ tere «tellurico» della lotta partigiana, e rappresentava dunque «il legame con la terra, con la popolazione indigena e con le particolarità geografiche del paese»51. Tuttavia non era sempre così, e anzi spesso i comandi partigiani decidevano di non far combattere determinate compagnie, battaglioni o brigate nei pressi dei villaggi di origine delle truppe: se infatti il partigiano restava in contatto troppo stretto con la sua famiglia e con la sua precedente vita di contadino, bracciante o artigiano, il rischio di diserzione poteva aumentare. Inoltre potevano verificarsi processi di solidarizzazione tra unità partigiane e popolazione attorno a specifici interessi locali o etnico-nazionali52. La guerra partigiana fu favorita e facilitata dal fatto che esiste­ vano vaste zone in cui darsi alla macchia: gran parte delle unità partigiane slovene che operavano nell’area adriatica si ritirava regolarmente nella Selva di Tarnova (in sloveno Trnovski gozd), una catena montuosa ricca di boschi a nord del Carso triestino e della Valle del Vipacco (Vipavska dolina), tra le zone costiere e la Carniola53. Possibilità di rifugio per i partigiani esistevano anche sulle alture più elevate del Carso, sul monte Nanos, nei Barchini (in sloveno Brkini), nei boschi tutt’attorno al monte Nevoso (Sneznik) o sul monte Maggiore (in croato Ucka), in Istria.

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In Friuli si distinguevano tre zone di operazioni: pianura, collina e montagna (Alpi e Prealpi Carniche e Giulie). Esterne alla regione di confine, ma facilmente raggiungibili da essa, era­ no il Gorski Kotar, il «distretto di montagna» croato (noto in Germania soprattutto perché negli anni Sessanta vi si svolsero diverse riprese cinematografiche per il film basati su opere dello scrittore tedesco Karl May, 1842-1912), e le foreste di Kocevje (Gottschee), una zona di lingua tedesca assegnata all’Italia nel 1941, nell’ambito della spartizione della Slovenia, i cui abitanti furono ben presto trasferiti altrove54. Le condizioni della vita partigiana erano segnate dalla penuria: più pericolosa delle milizie antipartigiane italiane o delle unità speciali delle Waffen-SS era, per i partigiani, la mancanza del necessario (cibo, vestiti, igiene), e spesso anche la mancanza di distrazioni. Combattere la fame e la noia era, per i comandanti e per i commissari politici, altrettanto, se non più, importante che preparare le vere e proprie azioni di combattimento. Le descrizioni dell’aspetto esteriore delle unità partigiane variano: a seconda dell’area di intervento, delle condizioni dei rifornimenti e della disciplina i gruppi vengono descritti come uniti e ben nutriti o laceri e malridotti. In pianura ai partigiani toccava spesso il compito di rifornire di vettovaglie e di reclute le unità che operavano in collina o in montagna55. Il morale dei partigiani dipendeva anche dalla loro costitu­ zione fisica: in generale si riteneva che i combattenti sloveni e croati sopportassero meglio degli italiani la durissima vita nei boschi. Forse ciò era da ricollegare al fatto che i partigiani slavi - molti dei quali contadini del Carso, fittavoli o braccianti dell’Istria - erano abituati alla dura vita rurale, mentre gli operai italiani e gli ex soldati provenienti dalle cittadine costiere di Monfalcone, Muggia e Pola o dalla stessa Trieste vi si adattavano con difficoltà56. I combattenti temevano soprattutto l’avvicendarsi delle stagioni: l’estate e l’autunno servivano all’esercito italiano, alla milizia fascista, e in seguito alla Wehrmacht, alle SS e agli altri avversari dei partigiani per compiere azioni di rastrellamento che si accompagnavano a fucilazioni di ostaggi e a massacri della popolazione civile, all’incendio di interi villaggi e all’invio di chi vi abitava ai lavori forzati o ai campi di concentramento italiani di Gonars e Visco (presso Palmanova) o a quelli tedeschi di Mauthausen e Dachau. Nella Risiera di San Sabba, il campo

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creato dagli occupanti tedeschi appena fuori Trieste, i partigiani catturati rischiavano di essere torturati e uccisi57. Del maggior campo di concentramento italiano, sull’isola di Rab, si legge, in una lettera dei comunisti sloveni a quelli italiani: Per esem pio a Rab, isola della Dalmazia, vivono circa 20 mila nostri internati che m uoiono letteralmente di fame. Ogni giorno in questo cam po di concentramento muoiono al minimo 10 internati, in generale bambini e donne (qui sono internate in maggioranza intere famiglie di cui certi membri sono partigiani. Per loro è sospesa ogni posta, è proibito l’invio di pacchi, cibi ecc.)58.

Il numero totale degli sloveni deportati in campi di concentra­ mento italiani secondo le stime odierne fu di 30 mila persone59. Alla fine dell’autunno, quando arrivava il freddo e i boschi cedui non offrivano più adeguata protezione, le file delle uni­ tà partigiane si diradavano; alcuni gruppi si scioglievano, per ricostituirsi poi nella primavera successiva. A differenza degli sloveni, che nella Provincia di Lubiana, e poi anche nelle re­ gioni costiere, disponevano di grandi baraccamenti, tipografie e ospedali, i combattenti italiani disponevano di infrastrutture più modeste, e dovevano perciò ricorrere alle strutture slovene oppure, come i membri malati o feriti del battaglione istriano Alma-Vivoda, fare segretamente ritorno nelle città della costa controllate da tedeschi e fascisti per farsi curare. Altri partigiani ricevevano cure di fortuna nelle vicine fattorie60. Le precarie condizioni sanitarie dei partigiani erano uno dei topoi preferiti della propaganda tedesca61. Paul Parin sottolinea che inizialmente la guerra partigiana in Jugoslavia seguì alcune regole facilmente comprensibili, che sarebbero state «presto interiorizzate diventando patrimonio ideologico di tutti»: Tra esse vi erano in primo luogo la lotta senza quartiere contro gli occupanti, in secondo luogo il precetto della negazione di tutti i contrasti nazionali tra i popoli jugoslavi, in terzo luogo l ’assistenza incondizionata a tutti i feriti e malati della lotta di liberazione e l’osservanza di regole igieniche per la prevenzione delle epidem ie (tifo e tifo petecchiale) e in quarto luogo il divieto di qualsiasi vincolo affettivo e di qualsiasi rapporto erotico o sessuale tra combattenti62.

Il primo principio differenziava i partigiani dai cetnici di Draza Mihailovic, che vedevano nei patteggiamenti con gli oc­

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cupanti italiani e tedeschi, o subordinatamente con gli ustase croati, una possibilità tattica ogni volta che erano messi sotto pressione dai successi comunisti. Il secondo principio era attuale soprattutto in Bosnia, dove i comunisti serbi si erano opposti più volte al reclutamento di combattenti cattolici o musulmani63: lo stesso Tito considerava del tutto secondario presentarsi come esponente di una nazione, e ciò gli rese più facile svolgere un ruolo di integrazione64. Le rigide norme igieniche e il sistema sanitario esemplare erano direttamente collegati alla professione che Parin aveva svolto nel Montenegro. Infine il quarto princi­ pio, che valeva per tutte le unità ad eccezione di quelle slovene, serviva a smentire la voce, diffusa dagli avversari dei partigiani, secondo cui nei boschi i combattenti antifascisti praticavano l’amore libero: smentita necessaria, perché altrimenti i padri di famiglia avrebbero fatto di tutto per impedire alle figlie di unirsi ai partigiani, mentre le organizzazioni della Resistenza avevano bisogno di donne non solo come combattenti ma anche come corrieri e infermiere. Il rapporto dei partigiani con la popolazione civile era sog­ getto a forti oscillazioni. Le città lungo la costa e nella pianura del Friuli avevano la funzione importante di rimpiazzare le per­ dite nelle unità partigiane, mentre una parte della popolazione rurale rifiutava di sostenere i combattenti. Ciò era dovuto ai fenomeni concomitanti negativi tipici della guerra partigiana, come i reclutamenti coatti e il sequestro di generi alimentari e di bestiame, e anche alle misure di rappresaglia degli occupanti; a volte era semplicemente la costante presenza dei partigiani a essere di peso ai contadini65. Ma l’assenza di uomini in grado di lavorare e di combattere era molto onerosa anche per i villaggi. Come si legge in un rap­ porto tedesco proveniente dalla media valle dell’Isonzo: «anche qui, come in altre località, si registra l’assenza degli uomini di tutte le classi di età in grado di combattere, la maggior parte dei quali si è unita alle bande sulle montagne»66. «Inoltre», si comu­ nicava daU’Istria, «la popolazione è oppressa dal reclutamento coatto, da parte dei banditi, degli uomini tra i 16 e i 40 anni di età. Gli uomini che ancora si trovano nei villaggi sono troppo vecchi o malati, e ciò crea alla popolazione problemi economi­ ci»67. L’assenza della popolazione adulta maschile metteva in crisi anche i tentativi di reclutamento degli occupanti tedeschi e dei collaborazionisti.

UàlìtltUàtàUtttàiittiiittiUtÈUÈtÌÈtM

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Sebbene i partigiani comunisti avessero temporaneamente sospeso la lotta di classe per dare la precedenza alla «guerra pa­ triottica», tra loro sopravviveva un astio verso i contadini agiati, la cui giustificazione ideologica risaliva all’epoca della guerra civile russa (1918-1921) e della collettivizzazione forzata dell’agricoltura sovietica. Spesso, soprattutto in Slovenia, venivano costituite, sotto l’egida di sacerdoti conservatori, «milizie di villaggio» contro i combattenti comunisti: quando i partigiani riuscivano a scoprire tali formazioni, che essi chiamavano bela garda («guardia bianca»), secondo il modello russo, intervenivano nei loro confronti con la massima durezza68. Gli occupanti italiani armarono le milizie di villaggio, per formare una Milizia volontaria anticomunista (Mvac) che alla fine del 1942 nella Provincia di Lubiana com­ prendeva circa 6 mila persone69; la maggior parte di questi gruppi fu sterminata al momento della capitolazione italiana (settembre 1943). Su ispirazione tedesca nacque poi la cosiddetta «Difesa territoriale slovena» (Slovensko domobranstvo)70; sul litorale i domobranci, istituiti nel novembre del 1943, ufficialmente si chiamavano Consiglio nazionale di difesa sloveno (Snvz). Solo verso la fine della guerra essi riuscirono a collegarsi tra loro, formando battaglioni e persino un reggimento71. Fondatore dei domobranci fu il colonnello Anton Kokalj, ex comandante della guardia reale a Belgrado, che aveva ufficialmente la carica di ispettore del Snvz. Del Consiglio di difesa faceva parte anche l’ala destra dei cristiano-sociali di Gorizia, di orientamento fortemente anticomunista, guidati da Janko Kralj72. Nel 1944 si giunse, con la regia britannica, a un’intesa tra il governo jugoslavo in esilio e il governo dell’Avnoj creato dai partigiani di Tito; Londra chiese allora ai domobranci di rompe­ re con le forze d’occupazione tedesche e di adoperarsi per una collaborazione con i partigiani sloveni. Ma ciò non accadde, anche perché i domobranci confidavano alla fine della guerra nella protezione inglese: tuttavia essi sarebbero stati amaramente delusi dai loro presunti protettori e mandati a morte sicura73. La resistenza jugoslava nacque nelle campagne e li dispiegò i maggiori effetti, ma durante la prima fase della guerra i par­ tigiani puntarono a conquistare le città, con tanto di stazioni ferroviarie, ospedali, industrie ed enti di importanza strategica per i loro rifornimenti: i loro principali successi si verificarono a Uzice, in Serbia74 (che venne liberata nel settembre 1941 per essere poi nuovamente occupata dalle forze tedesche) e Bihac,

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in Bosnia (dove entrarono nel novembre 1943)75. Sulla costa e nelle vicine zone slovene i partigiani non conobbero, se non per breve tempo, i successi registrati in Serbia e Bosnia dai reparti partigiani jugoslavi: oltre a Gorizia e alle città della costa istriana, di cui presero il controllo nel settembre del 1943 in seguito a una insurrezione popolare, i partigiani riuscirono ad accerchiare le SS a Kocevje e a liberare la zona circostante76. A nord-ovest l’equivalente urbano del bosco «infestato di banditi» era Lubiana, occupata dagli italiani ma governata dietro le quinte dall’Osvobodilna fronta (OF). Il montenegrino Dilas non fece mistero della propria ammirazione per il potenziale di resistenza urbana dimostrato dal capoluogo sloveno: «L a guerriglia cittadina di Lubiana raggiunse dimensioni e forme sconosciute nel resto della Jugoslavia, anzi d’Europa». Qualcosa di simile accadde, secondo Dilas, solo con la rivolta di Varsavia del 1944: «L’O F pubblicava giornali, riviste, vignette satiriche. Di tanto in tanto si faceva viva anche la radio dell’OF. [...] L’attività militare e informativa dei partigiani penetrava fin nella polizia, ai vertici della Chiesa e tra le autorità italiane»77. A Lubiana ope­ rava inoltre, sotto la guida di Janko Mackovsek (un «operatore nazionale» dell’istituto per le minoranze) uno dei pochi gruppi di resistenza che non facessero parte dell’Osvobodilna fronta diretta dai comunisti78. L’amministrazione italiana, al fine di se­ parare la città dalle zone liberate che ne lambivano la periferia, specialmente a sud, arrivò a circondarla con una recinzione di filo spinato79. Nel febbraio del 1942 i vertici dei comunisti sloveni scrissero al Comitato centrale del Partito comunista d’Italia che la Osvobodilna fronta ogni mese riscuoteva, nella sola Lubiana, 250 mila lire di «tassa popolare»80. Lo stesso mese la O F invitò a commemorare la morte del poeta France Preseren con un’azione di protesta contro le forze di occupazione: il giorno dell’anniver­ sario della morte del poeta, tra le 19 e le 20 gli sloveni avrebbero lasciato completamente deserte le strade cittadine. Quando l’alto commissario italiano, come contromisura, anticipò il coprifuoco alle 17.30, i sostenitori del Fronte di liberazione non si lasciaro­ no scoraggiare e si radunarono in centro, deponendo garofani presso il monumento a Preseren prima che le squadre fasciste intervenissero a disperderli81. Fu durante l’occupazione italiana di Lubiana che nacque la Varnostno-obvescevalna sluzba O F (ossia Servizio per gli affari interni presso la presidenza del Fronte di liberazione, abbrevia­

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to in Vos OF), la prima unità combinata di guerriglia urbana e servizi di intelligence. Come notò Edvard Kardelj, il fatto che i comunisti jugoslavi avessero preso molto presto le armi, adottando tra i primi una forma di lotta nuova per l’Europa, ebbe grande valore per la consapevolezza ideologica del movimento titoista. Gli sloveni e i croati accolsero positivamente la partecipazione di gruppi italiani alla lotta armata e favorirono la formazione di unità partigiane italiane82. Nello stesso tempo, tuttavia, fecero di tutto per impedire un rapporto stabile tra le unità italiane e la popolazione dell 'hinterland che era prevalentemente di lingua italiana. La distanza temporale tra l’attacco italo-tedesco alla Jugo­ slavia (aprile 1941) e l’attacco tedesco all’Unione sovietica (nel giugno dello stesso anno), che fu il detonatore del movimento partigiano jugoslavo, e la capitolazione italiana (settembre 1943), che precedette la nascita delle prime unità partigiane italiane di rilievo, fu di grande vantaggio per i combattenti sloveni e croati, che nella regione di confine si trovarono a svolgere un ruolo di mentori nei confronti della lotta di liberazione italiana. All’inizio la Kps e la OF erano preoccupate soprattutto per il ritardo con cui gli antifascisti italiani si preparavano alla lotta armata: in un documento sloveno si legge che la «lotta rivolu­ zionaria del proletariato italiano» era in ritardo rispetto a quella degli operai jugoslavi, e che se a causa di ciò la Venezia Giulia fosse finita sotto il controllo di un governo filoinglese sarebbe stato «estremamente pericoloso sia per noi sia per il movimento rivoluzionario in Europa centrale»83. Giovanni Padoan, commissario politico della Brigata G a­ ribaldi Natisone, scrive che i combattenti italiani erano stati a lungo «dominati da una sorta di complesso di inferiorità, e forse da un segreto complesso di colpa», e per questo a volte troppo arrendevoli verso gli ordini sloveni84. In realtà, a paragone degli sforzi immensi della Resistenza slovena e croata il contributo dei partigiani italiani alla lotta di liberazione contro gli occupanti tedeschi e i loro fiancheggiatori nella zona di confine orientale non fu certo una quantité negligeable, ma venne considerato tale da molti combattenti slavi. Scarso è anche generalmente lo spazio concesso dalla memorialistica partigiana slava ai rapporti con i «garibaldini»; fanno eccezione in tal senso personalità come Rodolfo Ursini-Ursic e Branko Babic85, triestini di nascita o attivi soprattutto in questa città.

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2.2. La prima parte della guerra (aprile 1941-settembre 1943) In questo paragrafo si ricostruiscono le due fasi principali della guerra partigiana; la narrazione segue un ordine non det­ tato dalla storia militare, poiché gli eventi saranno esaminati soprattutto dal punto di vista della loro importanza per la nuova nazionalizzazione della regione di frontiera e della conflittualità tra italiani e slavi del sud. Per questo ci si concentra sul periodo dell’occupazione italiana della Provincia di Lubiana, sugli inizi della guerra partigiana nella regione di confine, sulla cosiddetta «battaglia di Gorizia» (o «fronte di Gorizia») e sulla guerra par­ tigiana in Friuli. In primo luogo occorre però prendere in esame le conseguenze dell’attacco italo-tedesco alla Jugoslavia per la regione che si affaccia sull’Adriatico nord-orientale. Il 21 e 22 aprile 1941 il conte Ciano, ministro degli Esteri italiano, e il suo omologo tedesco von Ribbentrop discussero la spartizione della Jugoslavia e della Grecia e decisero di suddi­ videre la Slovenia in tre zone: la parte nord-orientale, abitata da una minoranza magiara, sarebbe andata all’Ungheria, quella centrale (Alta Carniola e Bassa Stiria) sarebbe stata occupata dai tedeschi mentre il sud e Lubiana sarebbero stati annessi all’Italia, dando così vita alla Provincia di Lubiana86. Lo storico sloveno Tone Ferenc sostiene che la decisione di annettere al Regno d ’Italia la nuova «provincia» era riconducibile soprattut­ to all’atteggiamento della minoranza tedesca a Lubiana e nella zona di Kocevje/Gottschee: mentre questa si aspettava che la Wehrmacht occupasse città e villaggi, Mussolini decise di creare il fatto compiuto87. L’annessione avvenne così il 3 maggio 1941 attraverso un decreto regio, cui seguì una legge88. Istituendo un’amministrazione italiana nella provincia appena annessa, il regime di Mussolini si riprometteva dei vantaggi nel conflitto con la vicina Germania, alleata e rivale: in particolare il gover­ no di Roma sperava che un regime di occupazione moderato e attento alla collaborazione con le tradizionali élite slovene potesse da Lubiana influenzare il resto del paese, soprattutto quelle zone sotto occupazione tedesca. Effettivamente il regime di occupazione istituito nell’Alta Carniola e nella Bassa Stiria dai gauleiter Rainer e Uiberreither era molto repressivo, tanto che di fronte alla brutale politica di snazionalizzazione avviata dalle autorità naziste migliaia di sloveni fuggirono nella Provincia di Lubiana.

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Inizialmente il calcolo di Mussolini sembrò quadrare: gli espo­ nenti della classe dirigente slovena rimasti nella zona occupata dagli italiani accettarono la «forma funzionalmente mite della collaborazione politico-amministrativa con gli occupanti italiani», in quanto «tutelava maggiormente la popolazione slovena»89. Al tempo stesso però i notabili sloveni riconobbero il governo jugoslavo in esilio, in cui sedevano anche politici sloveni; solo la comparsa del movimento di Resistenza e le conseguenti azioni repressive delle forze di occupazione costrinsero la maggioranza degli sloveni a decidere se schierarsi con il Fronte di liberazione o con gli occupanti. L’occupazione di Lubiana rimase l’unica concessione della Germania nazista al Regno d’Italia. Il fatto che sul Neboticnik, il «grattacielo» costruito nel corso degli anni Trenta e che era allora l’edificio più alto e moderno a sud-est delle Alpi90, sventolasse il tricolore italiano aveva soltanto valore simbolico: i territori sloveni posti sotto amministrazione tedesca avevano estensione doppia rispetto alla Provincia di Lubiana91. Inoltre, nel tracciare il confine tra la zona tedesca e quella italiana si vide che per la Germania nazista la frontiera aveva molto più che un ruolo sem­ plicemente «utopistico o fittizio»92: il Reich aveva fatto in modo che le aree più avanzate, come il centro industriale di Jesenice (in tedesco Assling), vicino al confine con la Carinzia, i giacimenti di lignite di Trbovlje (Trifail) e tutte le principali centrali idroe­ lettriche si trovassero nella sua zona (ciò vale anche per le parti turisticamente più interessanti del paese, come i laghi di Bled, in tedesco Veldes, e di Bohinj, in tedesco Wochein). Inoltre la stessa Lubiana era molto vicina alla zona occupata dai tedeschi: nel suo diario Alberto Pirelli, a capo dell’azienda produttrice di pneumatici, disapprovò la divisione della Slovenia, ritenendola poco razionale economicamente e notando che privava la città di «ogni ragione di vita»93. La Provincia di Lubiana rimase in effetti fortemente dipendente dalle zone della Slovenia occupate dai tedeschi e dallo Stato indipendente della Croazia (Ndh) sotto il regime ustase, che era in pessimi rapporti con l’Italia per via dei territori dalmati da questa acquisiti e della rivendicazione italiana sulla parte croata dell’Istria. Il confine tra zona di occupazione tedesca e italiana ricorda molto il modo in cui, nell’ambito del patto di Monaco del 1938, era stata tracciata la linea di separazione tra i Sudeti annessi alla Germania e il «resto della Cechia»94: la Germania nazista si curava

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ben poco dei «confini etnici» quando erano in gioco i suoi inte­ ressi economici. Nel caso sloveno l’enclave di Kocevje/Gottschee, che nonostante la stagnazione economica e l’emigrazione aveva ancora una forte impronta tedesca, fu assegnata alla Provincia di Lubiana. Gli abitanti di Gottschee dovettero andarsene e furono sistemati in Bassa Stiria, nel triangolo di Rann (Brezice in sloveno) come Wehrbauern, «contadini-soldati»; di qui, nel maggio 1945, fuggirono verso l’Austria e furono travolti dall’avanzata delle armate partigiane95. L’amministrazione della Provincia di Lubiana fu contrasse­ gnata dalla fusione tra tre modelli: quello fascista italiano, quello monarchico jugoslavo e quello asburgico. L’alto commissario per la Provincia, Emilio Grazioli, era stato infatti comandante della milizia nel Carso e segretario della Federazione provinciale del Pnf a Trieste. Marko Natlacen, primo presidente della Consulta (di 14 membri) istituita dagli italiani il 27 maggio 1941, era invece stato a capo del Banato della Drava, e in questa veste si era incontrato nel 1938 con Mussolini al posto di confine di Caccia. Il successore di Natlacen, Leon Rupnik, era un ex ufficiale austriaco. La politica italiana interagì inoltre con una dinamica interna slovena che già all’inizio della guerra aveva creato un clima quasi separatista nei confronti di Belgrado. Il funzionario locale più elevato, il bano Natlacen, aveva istituito, prima ancora dell’occupazione di Lubiana da parte italiana, un Consiglio nazionale in cui erano rappresentati tutti i partiti po­ litici a eccezione dei comunisti: quest’organo si oppose a molte ordinanze dell’esercito regio jugoslavo e rifiutò di sabotare le infrastrutture di comunicazione e gli impianti di produzione per ostacolare l’avanzata degli italiani. Tale atteggiamento, pur non avendo motivazioni apertamente separatiste (a differenza degli ustase croati), accelerò la disgregazione del Regno di Jugoslavia. In seguito però Natlacen non si mostrò così privo di scrupoli da appoggiare incondizionatamente le misure repressive del regime di occupazione e, anzi, la Consulta da lui presieduta si dimise quando l’amministrazione italiana iniziò a procedere massiccia­ mente contro gli oppositori, soprattutto studenti. Il collabora­ zionismo di Leon Rupnik rimase invece affidabile fino alla fine dell’occupazione tedesca96: a differenza del suo predecessore, Rupnik fu anche nominato comandante supremo della milizia slovena che combatteva a fianco degli occupanti (i cosiddetti domobranci)91.

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Nel nord della Slovenia l’amministrazione tedesca si distinse fin dall’inizio per una brutale politica di espulsioni e di germaniz­ zazione che alcuni osservatori hanno paragonato alla furia degli invasori nella Polonia occupata e divisa98: si giunse a progettare la deportazione di 260 mila persone nei territori del Reich, in Croazia e in Serbia. In realtà il trasferimento coatto riguardò tra 60 e 80 mila persone, in maggioranza inviate nella Ndh degli ustase e in piccola parte nei territori del Reich o in Serbia99. Il regime d’occupazione italiano, che inizialmente adottò una «linea più morbida»100, dichiarò sempre di voler rispettare la cul­ tura slovena: il ministro dell’Educazione nazionale Bottai visitò l’università e i musei di Lubiana già nel maggio del 1941; l’alto commissario Grazioli annunciò che l’università slovena sarebbe stata non solo conservata, ma che l’Italia ne avrebbe ampliato gli istituti scientifici101. Particolarmente stretti furono i rapporti tra l’alto commissario e il vescovo di Lubiana, che in occasione dell’annessione all’Italia celebrò nella cattedrale una messa solenne di ringraziamento102. Al tempo stesso gli italiani fecero molti sforzi per diffondere nella loro zona di occupazione una specifica cultura associazionistica e celebrativa che doveva confermare il primato deH’«italianità»103. Gli italiani volevano dare l’impressione di una «provincia tranquilla e ordinata»104. Nel tentativo di disciplinare e controllare la popolazione, Grazioli fece ricorso ai metodi già collaudati in Carso e in Istria: «dappertutto nelle città e nei paesi furono istituite sedi del “Dopolavoro”, sale di ginnastica della Gii». Quest’affermazione, contenuta in un documento postbellico triestino, sostanzialmente non esagerava i fatti105; le associazioni sportive esistenti furono sottoposte al Coni, cui andava chiesta l’autorizzazione per poter istituire qualsiasi nuova associazione. Gli occupanti furono anche prodighi di tessere del Pnf: il gene­ rale Roatta riferì nelle sue memorie che parecchi dei partigiani arrestati dai soldati italiani avevano in tasca, con suo stupore, la tessera del partito fascista106. Sebbene il processo di «sincronizzazione» della socialità e del tempo libero (affine alla Gleichschaltung nazista) fosse attuato senza esitazioni, esso non registrò grandi successi organizzativi: nel giugno del 1943, pochi mesi dopo la fine dell’occupazione italiana, il Dopolavoro della Provincia di Lubiana aveva solo 2.019 iscritti italiani, mentre gli sloveni rappresentavano solo un decimo degli iscritti107. Il fatto che le associazioni non reclutassero iscritti sloveni dipendeva anche dagli appelli delle organizzazioni

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clandestine di quella nazionalità a non iscriversi alle associazioni italiane; il fatto che poi molti membri attivi del Sokol sloveno passassero nelle file dei partigiani rende ancor più cocente la sconfitta delle sezioni sportive del Dopolavoro108. Qual era invece la situazione dei gruppi politici di oppo­ sizione che si mettevano in evidenza non solo per gli appelli al boicottaggio, ma anche per le azioni armate? I comunisti jugoslavi, come in molte altre sezioni europee del Komintern, rimasero inizialmente paralizzati dal patto Hitler-Stalin e riusci­ rono a superare il disorientamento solo dopo la 5a conferenza territoriale (19-23 ottobre 1940); ma soprattutto nel marzo del 1941 ebbero l’occasione di unirsi alle proteste contro l’ingresso della Jugoslavia nel Patto tripartito109. Il 26 aprile 1941, quindici giorni dopo l’occupazione militare della Slovenia da parte delle potenze dell’Asse, il Kps organizzò a casa del pubblicista Josip Vidmar una riunione cui presero parte, insieme ai comunisti, anche esponenti di primo piano dei cristia­ no-sociali e del Sokol110. In tale occasione fu fondato il Fronte antimperialistico, che nel giugno del 1941, poco dopo l’attacco tedesco all’lJrss, fu ribattezzato Fronte di liberazione del popolo sloveno (Osvobodilna fronta slovenskega naroda, abbreviato in O F)111. Di esso entrarono a far parte altre 15 organizzazioni e associazioni, i cui rappresentanti formavano il plenum supremo, mentre il comitato esecutivo era composto esclusivamente dai promotori ddl'originario Fronte antimperialistico. I comunisti sloveni erano numericamente superiori ai loro alleati e appro­ fittarono di questa superiorità. A livello distrettuale gli organi direttivi dell’O F erano rappresentati dai comitati distrettuali del Kps, allargati a singoli esponenti dei cristiano-sociali e/o del Sokol. Ursini sottolinea che il Kps assunse fin dall’inizio un ruolo di guida nell’OF, riconfermato anche nella dichiarazione delle Dolomiti112 del 1° marzo 1943113: la dichiarazione sarebbe stata criticata in seguito da più parti, poiché garantiva solo al Kps la sopravvivenza delle sue strutture organizzative, sebbene tutti i suoi iscritti facessero anche parte dell’O F e un’organizzazione separata apparisse superflua. Nonostante ciò, Ursini descrive l’OF come una sorta di «federazione di comitati» democratici di base114 che si distingueva chiaramente dai fronti popolari definiti dal VII congresso internazionale del Komintern115. A suo avviso l’O F aveva creato le condizioni per un «movimento

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generale panpopolare»116 e condannato al fallimento la maggior parte dei tentativi degli occupanti di guadagnare l’appoggio di parte della popolazione117. In realtà il carattere sovrapartitico degli organi dell’OF, nonostante la netta sovrarappresentazione dei comunisti, aveva lasciato un minimo di spazio a soluzioni democratiche di base: a Trieste si sviluppò un dualismo tra il gruppo annessionistico guidato da Ales Bebler e Lidija Sentjurc e una corrente comunista slovena raccolta attorno a Branko Babic, che puntava su un’opposizione sociale plurietnica118. Occorre però chiedersi se il termine panpopolare utilizzato da Ursini non riflettesse anche un’evoluzione totalitaria che aveva le sue radici nello stalinismo e nel nazionalismo, cosa che Ursini negherebbe con decisione (egli infatti insiste sugli elementi spontanei, multietnici e di democrazia di base della Resistenza, non risparmiando critiche feroci a singoli capi del Kps, come Ales Bebler e Boris Kraigher, nonché allo stesso Tito). In fin dei conti il Fronte di liberazione (così come i comunisti jugoslavi) cominciò la lotta armata solo un mese dopo il lancio dell’Operazione Barbarossa contro l’Unione sovietica, elemento che indica la perdurante dipendenza del Kps e del Kpj dalla centrale moscovita119: «in quel momento», scrive Walter Manoschek, «il Kpj agiva senza dubbio come longa manus di M osca»120. Le unità partigiane slovene si svilupparono a una velocità impressionante; dei 31 reparti esistenti alla fine dell’anno (che contavano in totale 1.500 combattenti) quasi due terzi erano nati nelle prime settimane successive all’appello dell’O F II Vos - il servizio di sicurezza della Resistenza - fu fondato il 31 agosto; il 16 settembre il plenum supremo si costituì in Snoo (Slovenski narodni osvobodilni odbor, Comitato popolare di liberazione sloveno), con funzioni di governo provvisorio. Una delle prime decisioni dello Snoo riguardò l’integrazione della Resistenza slovena nella lotta popolare di liberazione panjugoslava: da allora i partigiani sloveni obbedirono al comando jugoslavo121. Il 26 settembre, nel corso di una riunione svoltasi a Stolice (Serbia occidentale) alla presenza di Tito, fu deliberata l’istituzione di comitati di libera­ zione con funzione di organi di governo locali122. In quella sede fu spiegato ai delegati sloveni che in alcune parti della Serbia e della Bosnia la lotta partigiana jugoslava aveva creato «territori liberi»; in questa prospettiva anche l’OF proseguì la creazione di strutture parastatali: in ottobre i partigiani sloveni istituirono la Narodna zascita (Difesa popolare), con funzioni di polizia123.

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Di fronte ai successi organizzativi registrati a Lubiana dall’OF l’alto commissario Grazioli indicò nella città slovena il «centro dell’attività sovversiva comunista» e si scagliò contro l’università, che in precedenza aveva elogiato oltre misura, accusandola di essere dedita «agli intrighi politici più che all’attività scientifi­ ca»124. All’inizio di dicembre 1941, poco dopo il ritorno dalla Serbia dei delegati comunisti, la Gestapo e l’Ovra arrestarono alcuni leader dell’O F e del Kps, tra cui Miha Marinko, che come commissario politico del Comando supremo dell’OF aveva preso parte alla riunione di Stolice, e Pepca Kardelj, membro del co­ mitato centrale del Kps e moglie di Edvard Kardelj: ma a quel punto il piano per la creazione di «territori liberati» in Slovenia era già arrivato ai capi regionali delle forze armate partigiane. Militarmente la Slovenia fu divisa in tre zone: le prime due, Gorenjska (Alta Carniola) e Stajerska (Bassa Stiria), si trovavano nella zona d’occupazione tedesca, e la terza nell’area occupata dagli italiani. Il comando militare partigiano in quest’ultima zona (che faceva parte della regione di Notranjska, a sud-est di Lubiana) fu assegnato ad Ales Bebler, futuro responsabile del Kps per il litorale125. Nei mesi invernali gli stati maggiori e i gruppi direttivi politici del movimento partigiano si dedicarono, tra l’altro, a preparare l’offensiva di primavera delle forze di liberazione: fu previsto di liberare - in collaborazione con i partigiani croa­ ti - l’area tra il fiume Kolpa (in croato Kupa), che segnava il confine croato-sloveno, e la zona di Kocevje nella Provincia di Lubiana126. Il futuro ministro degli Interni e capo dei servizi segreti sloveni Ivan Macek-Matija che, evaso dal carcere di Sremska Mitrovica (l’antica Sirmio), si era unito ai partigiani nella primavera del 1942, ha descritto questa nuova fase di lotta nelle proprie memorie127. Il regime di occupazione italiano, paralizzato da conflitti di competenza tra polizia, servizi segreti ed esercito ma al tempo stesso capace di brutali soprusi ai danni della popolazione civile, elaborò il Piano Primavera, in base al quale le truppe, in caso di attacco dei partigiani, si sarebbero ritirate dai presidi minori per difendere meglio le città e i presidi principali128. Questo piano, elaborato dal comando dell’X I corpo d’armata e approvato il 5 febbraio 1942, prevedeva il mantenimento, nella Provincia di Lubiana, di dodici guarnigioni principali (nelle città di Rakek, Logatec, Borovnica, Ljubljana, Grosuplje, Velike Lasce, Kocevje/

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Gottschee, Petrina, Trebnje, Novo Mesto, Metlika e Crnomelj), e di basi d’appoggio lungo le principali linee ferroviarie. In questa sua variante rigorosa il piano non fu rispettato per l’opposizione dell’alto commissario Grazioli e dei comandi supremi militari a Roma e a Susak (dove aveva sede il comando della 2a armata): il numero delle città da difendere fu innalzato a 21 o 22 e quello delle basi per il controllo ferroviario a 17129. Anche in questa versione modificata, il piano dovette apparire alla Resistenza slovena come un dono del cielo: i partigiani erano infatti in grado di impedire la futura riconquista dei presidi mi­ nori abbandonati dagli italiani. Divenne così possibile creare un territorio libero con una sua continuità territoriale (a eccezione di alcune isole cittadine e delle linee ferroviarie rigidamente sor­ vegliate) ed eguagliare dunque i successi dei partigiani jugoslavi nella Serbia occidentale o in Bosnia130. Nel giugno 1942 Edvard Kardelj informò un esponente comunista italiano che i partigiani controllavano circa il 50 per cento della Provincia di Lubiana, chiedendo che il Pcd’I informasse l’opinione pubblica degli «atti bestiali dell’esercito di occupazione italiano in Slovenia», del «massacro di ostaggi, del rogo di villaggi, dell’uccisione di donne e bambini», atti di cui erano stati responsabili non solo i fascisti, ma anche l’esercito: «Accade persino che il fascista Grazioli curiosamente propugni un regime “più morbido” in contrasto con il generale Robotti, principale organizzatore di tutti i massacri»131. Lo stesso giugno del 1942 circolarono tra i militari italiani piani, riconducibili a ordini di Mussolini, per deportare 30 mila sloveni dalla Provincia di Lubiana a campi di concentramento italiani132. Le controffensive militari di Robotti, accompagnate da azioni di rastrellamento della Wehrmacht e delle SS nelle aree slovene occupate dai tedeschi, durarono dal 17 luglio al 4 novembre 1942. Il generale impiegò 120 mila soldati italiani, più alcuni gruppi minori di milizie di villaggio133. Le truppe italiane (come del resto quelle tedesche a nord), pur procedendo con la massima durezza senza riguardo per la popolazione civile, non conseguirono successi duraturi contro i partigiani; tuttavia erano ancora sufficientemente forti da declinare un’offerta di aiuto dell’alleato tedesco, che avrebbe voluto condurre la guerra antipartigiana nella Provincia di Lubiana con unità specializzate delle SS134. E in realtà i partigiani dovettero ritirarsi da alcuni dei territori di cui avevano preso il controllo.

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Gli atti di violenza commessi dalle truppe italiane sono docu­ mentati anche dal diario pubblicato da un cappellano militare che partecipò alle azioni di rastrellamento condotte dal II reggimento dei Granatieri di Sardegna nella regione di Kocevje: don Pietro Brignoli - questo il nome del sacerdote - annotò infatti, dal 16 luglio al 12 novembre 1942, tutti i soprusi commessi dalla sua unità contro la popolazione civile slovena135. Il numero dei civili sloveni (in gran parte donne, vecchi e bambini) uccisi nel corso di azioni di rastrellamento nella Provincia di Lubiana è stimato in 2.500, più 900 partigiani catturati e giustiziati e 1.000 ostaggi uccisi136. Gli ufficiali italiani responsabili di tali atti non furono mai processati, sebbene l’articolo 45 del trattato di pace con gli Alleati prevedesse l’arresto e la consegna di tutti i criminali di guerra. Molti di loro avevano infatti appoggiato la caduta di Mussolini e la presa di potere del maresciallo Badoglio; e per questo dopo il 1947 le potenze occidentali non insisterono affinché fossero consegnati alla Jugoslavia, alla Grecia e all’Etiopia, dove sarebbero stati processati come criminali di guerra137. Il lavoro di una commissione Onu per i crimini di guerra, che aveva indagato sui diversi casi e compilato un elenco di presunti autori, si rivelò inutile; questi dossier, rimasti inutilizzati, sono conservati ancora oggi nell’Archivio dell’Onu a New York138. Si pone qui la questione delle linee programmatiche che consentirono all’O F sloveno di fomentare e consolidare in modo duraturo una resistenza partigiana in tutto il paese. I partigiani condussero diverse azioni finalizzate a sabotare la politica di germanizzazione e di trasferimento di popolazioni seguita dagli occupanti tedeschi139. Il 3 aprile 1942 il Consiglio esecutivo dell’Ò F dispose, a titolo di rivalsa per il rogo di interi villaggi, l’esproprio di tutte le grandi proprietà fondiarie tedesche, ita­ liane e ungheresi. Castelli e tenute furono saccheggiati e dati alle fiamme; andarono perduti biblioteche, archivi e inventari, insieme a macchinari agricoli e raccolti140. Le prime linee programmatiche dell’OF (Slogan della nostra lotta di liberazione) furono pubblicate nel giugno del 1941. Nel­ l’autunno fu poi reso noto il programma vero e proprio (Compiti fondamentali del Fronte di liberazione), che affermava il diritto all’autodeterminazione della nazione slovena, il rifiuto di rico­ noscere la divisione della Jugoslavia, la lotta per l’unificazione e la liberazione della Slovenia, la lotta per una nuova Jugoslavia su basi federali e l’«amicizia con l’Unione sovietica e con tutti

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i paesi democratici», la trasformazione del carattere nazionale sloveno e la creazione di una «autentica democrazia popolare»141. Si trattava di una miscela esplosiva di punti programmatici di stampo sociale e nazionale che consentì di mobilitare in modo ottimale ampi settori della popolazione contro gli occupanti. La subordinazione all’Urss di Stalin era in gran parte nascosta da una retorica panslavista che rendeva ancora una volta chiaro come i comunisti, nel recuperare i temi nazionali, fossero tornati all’Ottocento142. Ci si può chiedere tuttavia se ciò bastasse a garantire il successo del movimento, tanto più che nel litorale il conflitto con l’antifascismo italiano era programmato dall’O F fin dall’inizio. La risposta più immediata si ha ripercorrendo dagli inizi lo sviluppo della guerra partigiana in questa regione. Mentre nella Provincia di Lubiana la lotta era già in pieno svolgimento, a Trieste, a poche decine di chilometri di distanza, le élite urbane sembravano vivere ancora in un altro mondo. In occasione del 22° anniversario dell’incendio fascista del Narodni dom il quotidiano triestino «Il Piccolo» dovette ancora una volta evocare le macerie dell’Hotel Balkan come simbolo e declinare i vari elementi del discorso del «fascismo di confine»143. Ciò avveniva quando i partigiani slavi erano ormai attivi nel Carso e nella Selva di Tarnova, come si legge in un altro articolo nello stesso numero del «Piccolo»144. I fascisti italiani non furono i soli a sfruttare la possibilità di collegare retoricamente le due guerre come strumento di mobili­ tazione nazionale. Diversamente dalla Provincia di Lubiana, che non era stata teatro della Grande guerra, nelle regioni costiere il movimento partigiano sloveno si trovava costretto a confrontarsi con questo passato a ogni pie’ sospinto. In tal modo esso potè avvalersi di una serie di possibilità di interpretazione simbolica degli eventi storici. L’OF contrappose al discorso fascista sulle regioni di confine un programma incentrato sulla «Slovenia unita», che per imporsi andava però sostenuto anche nei confronti dei comunisti italiani, jugoslavi e sovietici. Se lo sviluppo del movimento di liberazione in Slovenia era avvenuto in ritardo rispetto a quello panjugoslavo, il litorale slo­ veno (la Primorska) era a sua volta il tallone di Achille dell’O F Metod Mikuz, in un’opera fondamentale sul movimento popo­ lare di liberazione in Slovenia, cita alcune cause di debolezza della Resistenza nella regione costiera rispetto alla Provincia di Lubiana:

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Se il Partito comunista sloveno voleva avviare la lotta popolare di liberazione nella Primorska, avrebbe dovuto inviarvi i propri attivisti e i primi partigiani. Fu per questo, e per i continui attriti con il partito comunista italiano, che nelle regioni costiere lo sviluppo della lotta p o ­ polare di liberazione inizialmente rimase indietro rispetto alla provincia di Lubiana145.

Ancor più importante è il fatto che i comunisti italiani da oltre un decennio operavano in condizioni estreme di clandestinità, mentre il partito comunista jugoslavo nella seconda metà degli anni Trenta aveva avuto alcune possibilità di azione legale. A differenza della Jugoslavia dei Karadordevic, dove il partito comunista era «perfettamente funzionante» fin dal 1941146, mancò inizialmente un segnale che autorizzasse i comunisti sloveni e croati ad agire sul suolo italiano. Lo statuto dell’Internazionale comunista pre­ vedeva che un solo partito potesse operare sul territorio di un determinato Stato: a ovest del confine di Rapallo, ciò toccava al Partito comunista d’Italia (ribattezzato Partito comunista italiano, Pei, solo dopo lo scioglimento del Komintern). La cosiddetta «consulta di maggio» del Kpj svoltasi a Zagabria nel 1941, cui presero parte tutte le organizzazioni regionali del partito a ecce­ zione di quella macedone, decise di estendere alla regione costiera e all’Istria l’attività dei comunisti sloveni e croati147. Nasceva così, prima ancora dell’inizio della guerra partigiana, un presupposto perché i comunisti jugoslavi potessero lavorare alla realizzazione del vecchio programma nazionale sloveno e croato. I membri del Kps e del Kph giunti in Carso e in Istria per dar vita a cellule del partito agivano non solo in veste di rivoluzionari sociali, ma anche di irredentisti slavi. La forte frammentazione etnico-nazionale della regione costiera e la struttura sociale irregolare, la grave sconfitta del movimento operaio negli anni 1921-22 e la politica di snazionalizzazione fascista contribuirono a far sì che nella regione ai confini orientali d’Italia gli slogan nazionali raccogliessero maggiori adesioni di quelli sociali, anche perché erano facilmente abbinabili ad essi. Al tempo stesso si vede chiaramente come in alcune località gli esordi «spontanei» della Resistenza avessero un risvolto decisamente multietnico, italo-slavo, e dun­ que si basassero proprio sul rifiuto di quel contrasto «naturale» che avrebbe dovuto costringere i combattenti a schierarsi sotto bandiere diverse e con uniformi diverse. Alla fine di giugno del 1941 l’esiliato sloveno Ervin Dolgan, che aveva vissuto a lungo in Jugoslavia, si recò nel Carso per

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conto dei vertici del Kps per sondare gli umori della popolazione; tornato a Lubiana, riferì che nella regione costiera le condizioni erano «mature per avviare un’opera intensiva di propaganda e di reclutamento, ivi comprese azioni di guerriglia»148. Nei mesi se­ guenti diversi contingenti di esuli politici e disertori attraversarono la «linea verde» del Carso, ripercorrendo le vecchie orme della Orjuna e della Tigr. In particolare Dolgan, che guidò personal­ mente la prima missione, reclutò diversi membri della sua truppa partigiana tra i disertori. La maggior parte delle azioni militari del reparto non era molto diversa dagli attentati compiuti dai nazionalisti jugoslavi della seconda metà degli anni Venti149. Nella fase successiva (soprattutto a seguito di un telegramma di Dimitrov da Mosca) il Kps si sforzò costantemente di «pro­ fessionalizzare» la guerra partigiana. A tal fine vennero selezio­ nati membri del Kps provenienti dagli ambienti degli sloveni giuliani emigrati in Jugoslavia negli anni Venti e Trenta o dei loro figli. La maggior parte di questi partigiani si considerava vittima della politica di snazionalizzazione fascista e aveva forti motivazioni. Si poteva dare per scontato che costoro avrebbero sostenuto senza esitazioni e cedimenti il programma nazionale del Kps e dell’OF, anche nei confronti dei comunisti e antifa­ scisti italiani con cui gli sloveni volevano collaborare senza fare troppe concessioni150. Le azioni di lotta dei partigiani tennero sulla corda il XXIII corpo d ’armata di stanza a Trieste, comandato dal generale Alberto Ferrerò; il 10 luglio 1942 il generale aveva ordinato di bruciare «i villaggi infetti dal comunismo; gli abitanti se uomini validi dovevano essere tenuti come ostaggi, gli altri - le donne, i vecchi e i bambini - internati o confinati»151. Sempre a luglio il prefetto di Fiume fece radere al suolo il villaggio croato di Podhum; le forze dell’ordine italiane fucilarono oltre 90 abitanti e ne deportarono 800. Il prefetto di Trieste propose di impiegare contro i partigiani persino i gas tossici, come era stato fatto nella guerra di Abissinia152. Nella zona slovena lo Snoo aveva ordinato un boicottaggio nei confronti dell’occupazione italiana: i «territori liberati» non avrebbero dovuto più inviare materie prime e prodotti finiti nelle zone ancora controllate dagli italiani. Dietro questa direttiva stava una precisa convinzione: «il nostro boicottaggio accelererà la caduta del fascismo e conseguentemente la nostra vittoria»153. I partigiani costruirono un «sistema agricolo e alimentare indi­

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pendente dalle autorità occupanti», che fu una delle basi delle loro vittorie militari fino alla fine della guerra, nel maggio del 1945154. In seguito il boicottaggio dello scambio e della consegna dei prodotti fu esteso dalla vendita anche alle coltivazioni: molti contadini simpatizzanti per i partigiani coltivavano i propri campi solo per il proprio stretto fabbisogno155. Alla fine del 1941 e all’inizio del 1942 apparvero primi gruppi partigiani nella zona di Villa del Nevoso (in sloveno Ilirska Bistrica); all’incirca nello stesso periodo combattenti sloveni e croati formarono una compagnia nei Barchini (Brkini). Nel giugno del 1942 cinque membri di questa compagnia oltrepassarono la linea ferroviaria e la strada Trieste-Fiume e si insediarono nei pressi di un villaggio di confine istriano156, dal quale riuscirono a formare una rete di contatti nella Ciceria (Cicarija in sloveno e croato, zona della Slovenia sud-occidentale); a metà agosto, nei pressi di Castua, stabilirono un collegamento con combattenti croati che operavano oltre la frontiera di Rapallo. In tal modo furono mossi i primi passi di un’attività continuativa dei partigiani che avrebbe poi provocato - in un punto nevralgico come la via di collegamento diretto tra le due principali città della regione - una massiccia repressione da parte tedesca. Nell’agosto del 1942 nella parte croata della penisola istriana fu creata la compagnia Vladimir Gortan. Inoltre alla 13a divisione dei partigiani jugoslavi, che operava nella zona montana a sud-est di Fiume, si unirono nuove reclute provenienti dall’Istria: disertori e giovani italiani, sloveni e croati. Il nome dell’eroe irredentista assicurò grande forza di mobilitazione: la compagnia Vladimir Gortan divenne un battaglione, poi una brigata, e alla fine la 43a divisione istriana che contava circa 2.900 combattenti, tra cui 500 uomini del battaglione italiano intitolato a Pino Budicin157. Seguendo l’evoluzione della Resistenza partigiana fino a questo punto è facile comprendere quali barriere fossero scom­ parse con la caduta del regime fascista, il 25 luglio 1943, e con il crollo militare italiano dell’8 settembre: tali eventi accrebbero sia le possibilità operative sia i margini di manovra politici dei combattenti della Resistenza158, e fu quindi solo allora che i par­ tigiani sloveni e croati poterono dichiarare apertamente alcuni punti-chiave del loro programma. Il 13 settembre 1943 - cinque giorni dopo la resa incondi­ zionata dell’Italia nei confronti degli Alleati - una conferenza regionale dei comunisti croati svoltasi a Pisino (in croato Pazin)

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prese alcune decisioni sul futuro della penisola e dei suoi abi­ tanti159: 1. l’annessione alla Croazia dell’Istria a sud del fiume Dragogna (Dragonja); 2. la soppressione di tutte le leggi fasciste; 3. l’allontanamento dall’Istria di tutti gli italiani che vi si erano trasferiti dopo il 1928; 4. l’istituzione di una commissione che verificasse la posizione di ogni italiano giunto nella penisola istriana a partire dal 191... (la quarta cifra dell’anno è illeggibile nel documento); 5. la possibilità per gli istriani di lingua italiana di optare per la cittadinanza italiana; 6. la concessione dell’autonomia alla «minoranza italiana dell’Istria» e il rispetto dei suoi costumi, della sua tradizione e della sua religione; 7. l’istituzione di scuole italiane e il rispetto della cultura italiana e dei diritti politici della minoranza160. I comunisti diffusero anche un appello dei vertici politici della Resistenza croata in cui si rendevano note alcune decisioni prese il 20 settembre 1943161. Erano stati dichiarati nulli tutti i trattati stipulati con l’Italia dalle «cricche imperialistiche della Serbia», che avevano condotto alla cessione all’Italia delPlstria nonché di Fiume, Zara, Lussino, Cherso, Lagosta e altre isole del Quarnaro, e lo stesso valeva per i trattati e le convenzioni tra il regime degli ustase e il governo italiano riguardanti parti del distretto montano, del litorale croato, della Dalmazia e delle Isole dalmate: tutti questi territori dovevano tornare alla «Madre Patria Croata» ed entrare a far parte con questa di una «Fede­ razione democratica dei popoli della Jugoslavia», e si garantiva l’autonomia alle «minoranze italiane» che risiedevano in queste aree. Queste decisioni sarebbero state portate a conoscenza degli Alleati e dell’opinione pubblica mondiale162. Particolarmente rilevante era il fatto che in questi documenti la popolazione italiana della regione venisse caratterizzata tout court come «minoranza» a prescindere da qualsiasi eventuale plebiscito o dato di censimento. Ciò era molto più di quanto il fascismo avesse mai accordato a croati e sloveni: per il regime mussoliniano nella regione esistevano solo «allogeni» e «alloglotti» assimilabili che non potevano rivendicare diritti come minoranza. Ma ben presto emerse che molti italiani non tenevano affatto a perdere il loro status di appartenenti a una «nazione titolare»

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governata con metodi totalitari per assumere quello di membri di una minoranza tutelata nella propria cultura ma retta in modo altrettanto totalitario163. Il 16 settembre il plenum supremo dell’OF rese pubblica una dichiarazione sull’annessione della Primorska164, che - insieme al nuovo confine sloveno-croato che correva lungo il piccolo fiume Dragogna - fu riconosciuta il 20 settembre dal Consiglio di libera­ zione antifascista croato (Zavnoh)165.1 comunisti italiani assunsero un atteggiamento attendista; essi fecero pressioni sui compagni jugoslavi affinché la questione territoriale venisse definitivamente regolata solo dopo la completa «sconfitta del fascismo». Dal Io al 3 ottobre a Kocevje si riunirono i «rappresentanti del popolo sloveno» in un’assemblea che costituì la «maggiore manifestazione del movimento di liberazione nazionale in Slo­ venia», con 78 delegati ufficiali e 572 semplici partecipanti166: Milovan Dilas, che era presente, ha descritto nelle sue memorie il clima in cui si svolse l’evento, all’insegna della nuova coscienza nazionale slovena167. I decreti di annessione si ispiravano, da un lato, al desiderio di creare al più presto dei fatti compiuti; al tempo stesso, obbe­ divano all’esigenza di dare all’esterno una chiara dimostrazione di autonomia. In un periodo in cui lo spostamento di confini era una prassi ampiamente diffusa, uno Stato che esisteva solo in embrione poteva dimostrare nel modo migliore la propria esistenza ricorrendo a questa prassi168. Per le singole repubbliche ciò era forse più importante che per la Federazione jugoslava. Joze Pirjevec suppone che il promotore del decreto croato di annessione fosse Andrija Hebrang, che era uscito dai campi di concentramento ustase grazie a uno scambio di prigionieri e aveva assunto nell’autunno del 1942 la guida del Kph. Hebrang, che sulla questione croata seguì una politica di alleanze altrettanto duttile e forse persino più efficace di quella seguita da Kardelj e Kidric in Slovenia, si scontrò con il vertice del Kpj e con la minoranza serba in Croazia. Tito protestò contro la decisione di Hebrang di annettere alla Croazia l’Istria, il litorale croato e la Dalmazia, poiché ciò non rientrava a suo avviso nelle competenze del vertice comunista croato169; inoltre criticò le formulazioni dei decreti di annessione croato e sloveno, che parlavano di «autonomia della minoranza italiana». Il leader partigiano accusò i fronti di liberazione delle due future repubbliche nord-occidentali di non distinguere tra autonomia culturale e politica: mentre la prima

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andava garantita, non aveva senso parlare della seconda poiché la minoranza italiana era «molto dispersa»170. Carlo Schiffrer ha osservato che l’annessione fu «una misura unilaterale di carattere rivoluzionario» e che il decreto di annes­ sione sloveno lasciava aperta la questione dei confini tra Slovenia e Italia171. Nonostante ciò, la fisionomia statale della Jugoslavia titoista fece grandi progressi; in questo contesto anche le an­ nessioni sull’Adriatico nord-orientale avevano un peso specifico che andava ben oltre il valore puramente simbolico. Soprattutto, occorreva rendere comprensibile a tutti il provvedimento. Un medico italiano di Pola che aveva collaborato (temporaneamente e, come dichiarò all’SD, contro la sua volontà) con i partigiani slavi vide in un atto che sottolineava la statualità come queste annessioni il nucleo popolare del programma titoista per la regio­ ne di confine: «non ci sono piani generali per il futuro; si parla solo di repubbliche slovena e croata, nelle quali dovrà esserci piena autonomia»172. Ma per molti operai, contadini, fittavoli e braccianti croati e sloveni l’annessione sarebbe stata solo il punto di partenza per la sovietizzazione della regione173. Il 4 novembre 1943, poche settimane dopo i decreti di annes­ sione da parte croata e slovena, i partigiani di Tito riuscirono a conquistare la cittadina di Bihac, nel mezzo del territorio bosniaco annesso dagli ustase croati: «Il bottino era enorme. Bihac aveva allora 15 mila abitanti, era molto sviluppata sul piano commer­ ciale e artigianale ed era un nodo ferroviario»174. Bihac divenne il capoluogo di un «territorio liberato» di 50 mila chilometri quadrati e due milioni di abitanti, che comprendeva parti della Krajina bosniaca, della Lika e della Dalmazia settentrionale175. Due settimane dopo la conquista di Bihac, a Jajce, in Bosnia, si svolse il 2° Congresso dell’Avnoj, che confermò l’annessione del litorale e dell’Istria proclamata dall’OF sloveno e dal Comi­ tato interregionale dello Zavnoh croato. Non era casuale che la sanzione definitiva sui decreti di annessione si accompagnasse all’ampliamento delle strutture parastatali delle forze partigiane jugoslave. Il congresso dell’Avnoj deliberò l’istituzione della nuova Jugoslavia in quanto «Stato federativo basato sul potere democratico del popolo» (come si scrisse allora)176, vietò il ritorno in patria del re Pietro e dichiarò il governo in esilio a Londra «non più competente»177. Il successivo passo importante fu compiuto dai partigiani titoisti nel giugno del 1944, quando si raggiunse un’intesa con

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il governo monarchico in esilio a Londra, presieduto da Ivan Subasic: l’accordo firmato da quest’ultimo e Tito sull’isola di Vis (Lissa) assicurò tra l’altro il riconoscimento internazionale alle rappresentanze dei partigiani sloveni e croati178. Ciò ebbe a sua volta delle conseguenze per la posizione giuridica dei domobranci, che furono invitati dagli inglesi a trovare un’intesa con i partigiani179: davanti al loro rifiuto, gli inglesi rifiutarono di proteggerli. Gli sloveni, i croati e i comunisti italiani, che simpatizzavano per la Jugoslavia, trassero dai decreti di annessione di Jajce due conseguenze importanti per il futuro della Venezia Giulia/Julijska Krajina. Il 10 e 11 luglio 1944 fu istituita l’Unione degli Italiani deH’Istria e di Fiume, una sorta di organizzazione frontista del Kph che aveva il compito di influenzare in senso filojugoslavo la vita culturale e la volontà politica della «minoranza italiana»180. L’Unione diffuse un appello in cui si approvavano tra l’altro le delibere dello Zavnoh e dell’Avnoj sul futuro territoriale dell’Istria181. Antonio Borme, che presiedette per molti anni l’Unione, fece autocritica nel 1989, asserendo che questa organizzazione era stata «espressione della volontà di una parte minoritaria della componente italiana»; la sua istituzione era «avvenuta su pressione esterna»182 ed essa stessa non era affatto al riparo dalle persecuzioni delle autorità jugoslave183. Nel corso di una riunione svoltasi il 6 marzo 1945 a Zalesina (Gorski Kotar), l’Unione si diede uno statuto organizzativo e un programma; la prima conferenza dei delegati si svolse a Pola il 3 giugno 1945, dopo il ritiro degli occupanti tedeschi184. Al centro della sua attenzione vi era la cultura della minoranza italiana: la capacità di dar vita a una propria cultura era infatti considerata la prova della capacità di sopravvivenza di una nazionalità185. All’inizio del 1944 il Comitato esecutivo dell’Osvobodilna fronta sloveno istituì lo Znanstveni institut, stabilendo una continuità non solo personale con il vecchio Istituto per le minoranze. L’istituto contribuì a inaugurare la storiografia della Slovenia socialista, raccogliendo circa sei milioni di documenti d’archi­ vio della guerra di liberazione nazionale, che vennero trasmessi alla fine degli anni Cinquanta al nuovo Istituto per la storia del movimento operaio186. Sotto la guida di Fran Zwitter e Boris Ziherl, lo Znanstveni institut iniziò a studiare la frammentazione etnica nell’Adriatico nord-orientale187. Lavo Cermelj analizzò la

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presenza in Venezia Giulia di italiani provenienti dalle «vecchie province» del paese (i cosiddetti «regnicoli»). Si trattava di un tema di portata dirompente, anche perché il manifesto di Pazin aveva postulato l’allontanamento degli italiani «immigrati» nella regione dopo la Prima guerra mondiale188. Cermelj fu anche autore di una indagine sulla «furlanità»189 in cui si sosteneva che nella regione costiera i «veri italiani»190 erano un «corpo estraneo»191. Cermelj muoveva ai «veri» italiani lo stesso rimprovero che nazionalliberali, nazionalisti e fascisti avevano lanciato per decenni contro gli sloveni e i croati giuliani: l’accusa di non essere nativi della regione. Sebbene le posizioni di Cermelj non fossero sempre identi­ che a quelle della leadership politica slovena, gli studiosi e gli ideologhi dello Znanstveni institut dell’OF e poi dello Jadranski institut croato di Susak erano comunque consiglieri dei vertici dell’O F e dello Zavnoh; le loro indagini ebbero un’influenza da non sottovalutare sugli orientamenti dei comandi partigiani e degli organi politici. Ha un che di misterioso dover constatare che tra i collabo­ ratori dello Znanstveni institut e gli ideologi nazisti esistessero delle affinità nella valutazione della «furlanità» e dei suoi rap­ porti con la nazione italiana. Ciò è spiegabile, da un lato, con gli interessi delle varie parti: per motivi diversi entrambi i «partiti», che per il resto rappresentavano i poli estremi nei rapporti di potere locali, puntavano a ridurre 1’«italianità» della zona di confine. Gli sloveni, infatti, consideravano «italianità» e fasci­ smo la stessa cosa. Combattere il fascismo significava porre in discussione alcune fondamenta dell’«italianità» senza per questo essere «antitaliani» in senso nazionalistico-borghese. Agli ideologi nazisti premeva invece soprattutto di condannare il «tradimento» italiano rivalendosi sull’Italia. Ciò era possibile se si esaltavano altri gruppi etnici in una prospettiva di «mosaico di popoli», negando contemporaneamente il significato dell’«italianità», del Risorgimento e della coscienza nazionale italiana. Al tempo stesso, entrambe le parti facevano riferimento a ideologemi e filoni di indagine di quella polivalente tradizione nata dal Congresso europeo delle minoranze e dalla sociologia völkisch della «rivoluzione conservatrice». Elementi in tal senso si trovano soprattutto nel fondo Wilfan, ma sono sparsi anche nella documentazione sulla politica di occupazione nazista in Jugoslavia. L’importanza di simili punti di contatto non va soprav­

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valutata: occupanti nazisti e «operatori nazionali» sloveni erano e restavano nemici acerrimi, e la morte di Janko Mackovsek a Dachau ne è un esempio. La prossimità delle posizioni si riferisce esclusivamente al giudizio sull’«italianità» e sulle questioni ad essa collegate, come quella della «furlanità». Per gli italiani in Istria, nel Carso o nella valle dell’Isonzo le conseguenze dirette furono molto dure. Per questo è necessario, a questo punto, analizzare lo scontro tra la lotta di liberazione italiana e quella slovena nel Friuli, dove, dopo l’8 settembre 1943, si formarono le prime unità partigiane italiane. Prima di ciò, però, occorre ricordare l’azione di difesa su larga scala contro le forze di occupazione tedesche: la cosiddetta «battaglia di Gorizia», che vide inizialmente fianco a fianco nella nuova situazione italiani e sloveni. 2.3. La seconda parte della guerra (settembre 1943-maggio 1945) Nelle settimane successive all’8 settembre decine di migliaia di soldati italiani attraversarono la regione per essere condotti in Germania dalle forze d’occupazione tedesche. La 71a divisione di fanteria, la prima formazione militare tedesca a penetrare nel territorio fino allora occupato dall’Italia, fece circa 10.500 pri­ gionieri nella sola zona di Tarvisio-Gemona-Trieste-Lubiana192. Oltre ai soldati internati sul posto furono trasportati attraverso il Friuli-Venezia Giulia anche gli italiani catturati in Albania e Dalmazia e trasportati via mare a Trieste. A Gorizia, Trieste, Fiume e Pola furono creati campi di raccolta per i militari ita­ liani deportati193. A volte, quando ce n’era la possibilità, gli antifascisti locali e gli stessi ferrovieri aiutarono a fuggire singoli soldati e interi gruppi di militari italiani. I fuggiaschi, dopo aver fatto perdere le proprie tracce, riprendevano i contatti e si aiutavano tra loro nel momento in cui un nascondiglio era minacciato o vi erano difficoltà di rifornimento. La rete di rapporti informali sorta in tal modo fu uno dei punti di partenza della Resistenza partigiana194. Tale Resistenza fu alimentata dal movimento operaio organizza­ to, e in particolare dai cosiddetti «monfalconesi»: chi cerchi, in relazione alla regione giuliana, le «condizioni per la nascita e l’esistenza di una “cultura proletaria” sovranazionale, delle sue forme organizzative e delle possibili strategie di conflitto»195 dovrà

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infatti guardare, oltre che a Trieste, innanzi tutto a Monfalcone. Quest’ultima era una «città-fabbrica» piuttosto recente: solo nel 1907, infatti, la famiglia triestina Cosulich e il Lloyd Austriaco avevano posto la prima pietra del grande Cantiere Navale Trie­ stino (Cnt). Dopo la Prima guerra mondiale si avvertirono anche qui gli effetti di una crisi strutturale della cantieristica che il regime mussoliniano riuscì ad arginare solo grazie all’economia del riarmo; inoltre il Cnt ottenne commesse soprattutto dalle compagnie marittime dei Cosulich e del Lloyd Triestino, che avevano partecipazioni finanziarie nell’industria navale giuliana ed erano disposte a pagare prezzi elevati196. La borghesia della città era italiana e nazionalista; mancava a Monfalcone una inteligencija slovena di liberi professionisti simile a quella di Gorizia o di Trieste. La maggioranza degli operai dei cantieri era italiana mentre gli sloveni, anch’essi numerosi, parlavano italiano sul posto di lavoro, e a casa utilizzavano il proprio dialetto slavo. Costoro avevano per la maggior parte radici agrarie: erano nati in campagna, o vi erano nati i loro genitori. Dopo la Prima guerra mondiale i cantieri erano stati coinvolti nei conflitti sorti in seguito all’occupazione, a Monfalcone e din­ torni, di case disabitate appartenenti a italiani da parte di famiglie slave dei villaggi carsici circostanti. Il governo militare italiano fece di tutto per tenere a freno le irrequiete maestranze dei cantieri197. Operai italiani e sloveni vedevano nella Russia dei soviet il modello della società del futuro; il loro obiettivo era dissolversi in una «grande famiglia universale sovietica», una sorta di famiglia allargata contadina e cristiana (nel senso del cristianesimo delle origini), proiettata sul grande schermo della politica mondiale. Essi furono confermati su queste posizioni dall’azione di un grup­ po capeggiato da Pino Tomazic198, il cui radicalismo comunista ebbe a Monfalcone un effetto simile a quello del sindacalismo rivoluzionario o dell’anarchismo in alcune città minerarie e industriali dell’Italia centrale come Carrara o Piombino199. Lo slogan della «Repubblica sovietica slovena unita e indipendente» propugnato da Tomazic non solo trovò terreno fertile, ma nel mondo ideale dei «monfalconesi» si trasformò in un ponte che avrebbe dovuto condurre direttamente al regno dei soviet200. Le radici di questo movimento quasi millenaristico affondano nella religiosità popolare, ma anche nelle esperienze fatte in Russia durante la Prima guerra mondiale da operai e contadini della regione come prigionieri di guerra austriaci201.

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Monfalcone divenne così un importante retroterra della guer­ ra partigiana; qui l’OF aveva dei comitati locali di cui facevano parte anche italiani o «assimilati». Ampi settori della popolazione italiana - operai dei cantieri e piccoli contadini e mezzadri che ne subivano l’influenza - simpatizzarono fin dall’inizio con la lotta di liberazione degli sloveni202. Tre furono le forme organizzative che contrassegnarono l’immagine della Resistenza a Monfalcone: i Gap, l’intendenza e l’Assistenza203. L’Intendenza «Montes» di Monfalcone fu senza dubbio una delle principali organizzazioni per il rifornimento delle unità partigiane in tutta Italia, e ciò è assodato, a prescindere dalla maggiore o minore attendibilità dei dati forniti dalle fonti204. Fondata dal lavoratore dei cantieri Silvio Marcuzzi, essa fu in stretto contatto con il IX Korpus sloveno e con le unità Garibal­ di205. L’Assistenza aveva invece soprattutto il compito di aiutare i familiari di partigiani, rimasti a casa e privi di mezzi. Nei giorni successivi all’armistizio dell’8 settembre 1943, quan­ do iniziò l’invasione tedesca, centinaia di operai di Monfalcone accorsero spontaneamente nella zona di Gorizia, organizzandosi come «brigata proletaria», e lottando al fianco dei partigiani sloveni per fermare gli occupanti206. Altri volontari giunsero da Trieste, Ronchi, Gradisca e Muggia207. Tanto gli italiani quanto gli slavi attribuivano allo scontro con gli invasori dal nord un forte significato nazionale. Interessante è il diverso uso linguistico per indicare lo stesso accadimento: secondo una testimonianza di Rudi Ursini-Ursic, tra il 12 e il 25 settembre 1943 il leader sloveno Ales Bebler insistè particolarmente sull’elevato valore simbolico della linea dell’Isonzo nella lotta contro l’aggressore208. Forse è proprio per questo che gli storici sloveni parlano del «fronte di Gorizia» (Goriska fronta), stabilendo un evidente parallelismo con il fronte dell’Isonzo (Soska fronta). Per gli italiani il conflitto armato per la difesa di Gorizia fu invece la prima vera azione di battaglia della Resistenza. Per questo motivo, oltre che per il fatto che non stavano difendendo un confine, essi diedero ai combattimenti, durati diversi giorni, il nome di «battaglia di Gorizia»209. Rivoltosi e partigiani occuparo­ no i sobborghi e la stazione centrale di Gorizia. Un funzionario fascista riferì l’anno seguente a Mussolini che «la più tenace resistenza» contro le forze di occupazione era stata opposta «dal battaglione comunista italiano reclutato fra i lavoratori dei cantieri di Monfalcone»210.

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In tal modo italiani e sloveni riuscirono (pur con perdite elevate) a rallentare l’avanzata tedesca; ma l’ex alleato dell’Ita­ lia costrinse gli operai armati a ritirarsi dalla città e dalla Valle del Vipacco211. Da una scarna comunicazione delle Waffen-SS si evince che una parte della Resistenza si sviluppò lungo la vecchia linea del fronte risalente alla Prima guerra mondiale212. Il Reparto dell’Isonzo (Soski odred) sloveno dominava l’Alto Isonzo: lì i partigiani avevano «occupato alcune postazioni sul Krn risalenti alla guerra mondiale attrezzandole per la difesa»213. La cosiddetta Repubblica di Caporetto, istituita nei giorni della rivolta, resistette per due mesi alle azioni di rastrellamento dei tedeschi e dei collaborazionisti214. Molti combattenti sopravvissuti alla battaglia di Gorizia tornarono al lavoro nei cantieri navali di Monfalcone, altri si riunirono per costituire i primi nuclei delle formazioni partigiane italiane, come la Garibaldi Natisone in Friuli e il Battaglione triestino nel Carso215. Il contributo di Mario Lizzero-Andrea a un volume del 1979 sulle Brigate Garibaldi ricostruisce la creazione delle unità partigiane friulane nel periodo dopo l’8 settembre 1943216. Tra i primi «garibaldini» vi erano quadri che avevano acquisito espe­ rienza militare nella guerra civile di Spagna, ma anche semplici iscritti al partito. I garibaldini avevano stretti contatti con singole compagnie slovene e con il comando di settore dei partigiani sloveni, dal cui aiuto logistico il Battaglione Garibaldi dipendeva per produrre volantini e giornali, essendo privo di macchine per scrivere o macchine ciclostile217. Dal punto di vista sloveno il valore delle Brigate Garibaldi in Friuli consisteva soprattutto nel fatto che esse controllavano alcune delle zone attraversate dalla principale linea ferroviaria che collegava il Reich all’Adriatico: la ferrovia di Pontebba218. Gari­ baldini e partigiani del Soski odred collaboravano nel pianificare e compiere azioni di sabotaggio lungo questa linea; un risultato tangibile di ciò fu che ingenti forze tedesche e della Rsi furono impegnate nella sorveglianza della tratta Gorizia-Udine-RisiuttaTarvisio fino a Pontebba. Nell’ottobre del 1943 i partigiani friulani costituirono un proprio comando di brigata; esso controllava una formazione che si autodefinì fieramente Brigata Garibaldi n. 1 perché fu il primo di quei reparti operativo a pieno organico in tutta Italia. Un rapporto che forniva un quadro sintetico sulla lotta partigiana in Friuli fu redatto nel giugno del 1944219. I partigiani friulani rappresentavano un importantissimo fattore di ordine, e

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avevano mandato di stabilire e mantenere i collegamenti con le autorità locali (carabinieri, parroci)220. A novembre del 1943 la brigata fu quasi completamente annientata dal freddo, dalle difficoltà di rifornimento e dalle azioni di rastrellamento dei tedeschi221. Mentre il comando si trovava a colloquio presso lo stato maggiore sloveno, alcuni dei responsabili decisero di congedare molti uomini e rispedirli a casa. A dicembre la brigata era ridotta a due soli battaglioni, per un totale di 50 uomini: il Mazzini, che operava nel Friuli orientale, e il Friuli, attivo a ovest del Tagliamento222. Nell'inverno il movimento partigiano si ridusse a gruppi estremamente esigui, che tuttavia rimasero uniti e in primavera divennero i quadri ben collaudati attorno cui il reparto si ricostituì. Già a maggio la nuova brigata, che ora comprendeva ben sette battaglioni, era più forte delia vecchia Brigata Garibaldi n. I223; nel giugno del 1944 si aggiunse poi un altro battaglione, e la Brigata Garibaldi Friuli venne così a essere formata da tre battaglioni nella Carnia (Friuli, Carnia, Carnico), tre nelle Prealpi Carniche (Matteotti, Pisacane e Garibaldi) e due nella Val Cellina (Bixio e Mazzini 2°). La Brigata Garibaldi Natisone, che era in stretto contatto con gli sloveni nella Slavia veneta, disponeva invece di quattro battaglioni: Mazzini, Mameli, Manin e Manara224. Iniziò il periodo dell’integrazione tra i gruppi partigiani friulani: un processo di fusione per certi versi promettente, che tuttavia durò lo spazio di una sola stagione. Inizialmente sembrò addirittura possibile dare alle forze militari partigiane la consi­ stenza di una divisione, unificando sotto lo stesso comando la Garibaldi e la Osoppo225. A differenza dei garibaldini, rigidamente controllati dai comu­ nisti, le Brigate Osoppo erano collegate a vari partiti antifascisti. Importanti erano soprattutto l’ala democratico-cristiana e quella della sinistra liberale («azionista»): di quest’ultima facevano parte diversi ex ufficiali che avevano per lo più prestato servizio in reggimenti di alpini ed erano iscritti o vicini al Partito d’azione. Essi consideravano l’opposizione armata contro gli occupanti, i fascisti e i collaborazionisti come una sorta di «secondo Risor­ gimento»226. La tradizione del cattolicesimo politico in Friuli risaliva agli ultimi anni dell’Ottocento quando l’enciclica Rerum novarum (1891) accrebbe l’attenzione del clero friulano per la condi­ zione materiale dei contadini e dei braccianti227. L’occupazione

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austriaca lasciò dietro di sé, nel 1918, una regione impoverita e saccheggiata; in Friuli gli eserciti, privi di rifornimenti, avevano vissuto per un anno quasi solo di ciò che offriva l’agricoltura locale228. Alcuni settori del clero friulano si erano radicalizzati ed erano scoppiate rivolte contadine. Nella nuova situazione del dopoguerra i sacerdoti, un tempo filoasburgici, guardavano al movimento cattolico italiano229. Non sorprendeva che tra i membri della Brigata Osoppo (detti anche «osovani») ci fosse un numero relativamente elevato di sacerdoti, alcuni dei quali arrivavano ad imbracciare personal­ mente le armi e il giorno dopo a celebrare la messa230. Don Aldo Moretti, che aveva conosciuto la guerra come cappellano militare in Etiopia, fu tra i fondatori delle unità Osoppo: pur ritenendo che andasse riconosciuto a un governo nazista o fascista il merito di garantire l’ordine pubblico, pensava che nello stesso tempo esso andasse combattuto «in quanto ingiusto invasore»231. Erano queste posizioni non sempre chiare degli osovani a insospettire gli sloveni e gli stessi garibaldini: a differenza dalle Brigate Garibaldi, in cui erano fortemente rappresentati quadri operai comunisti, le Osoppo erano invece composte per lo più da ex militari. Claudio Pavone colloca «a metà strada tra la tradizio­ ne militare e lo spirito dei tempi nuovi» le direttive sui rapporti tra capi e subordinati nella Brigata Osoppo232. Nel giugno del 1944 gli osovani avevano ormai formato sette battaglioni, di cui due (Carnia e Tagliamento) operavano in Carnia, due (Italia e Piave) nelle Prealpi Carniche e tre (Julio, Torre e Udine) nelle Prealpi Giulie233. Il 27-28 agosto fu istituito a Forame il coman­ do unificato della Divisione Garibaldi-Osoppo; questa divisione unificata ebbe, all’apice della sua breve esistenza, un effettivo di 14.330 uomini234. Nell’estate e nell’autunno del 1944 vi furono inattesi sviluppi per il movimento partigiano in Carnia e in Friuli: nacquero due repubbliche partigiane - la Repubblica della Carnia e la Zona libera del Friuli orientale - dai cui territori i combattenti della divisione unificata erano in grado di raggiungere e minacciare le vie di collegamento con l’Austria e Trieste. La Repubblica della Carnia fu una delle maggiori e più longeve repubbliche partigiane in Italia; essa comprendeva 40 comuni con una popolazione totale di 80 mila abitanti e resistette per oltre tre mesi235. Nella Zona libera del Friuli orientale furono elette varie amministrazioni comunali presiedute da antifascisti236. A Povoletto i partigiani

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occuparono un presidio dei carabinieri che contava 200 uomini, i quali, di fronte all’alternativa se diventare garibaldini o osovani, optarono per quest’ultima possibilità237. I documenti partigiani italiani sono in genere asettici, fornisco­ no in modo molto succinto le indicazioni strettamente necessarie e risparmiano al lettore i dettagli sulla crudeltà della guerra. Fa eccezione il rapporto su un’azione militare vittoriosa dei partigiani in Val Cellina238, comprovata da «pozze di sangue e grumi di ma­ teria cerebrale» sulla strada per Barcis, nonché dai «ventiquattro tedeschi catturati dal battaglione Buzzi («c!)»239. L’autore del rapporto attribuisce il successo all’unificazione tra le brigate G a­ ribaldi e Osoppo, una collaborazione che nell’autunno del 1944 era di nuovo in serio pericolo, per quattro principali motivi: 1. Le micidiali azioni di rastrellamento degli occupanti con­ dotte da Odilo Globocnik (27-29 settembre 1944) annientarono in poco tempo tutte le forme di democrazia diretta nate nei territori liberati dai due movimenti240. Ma un lavoro comune tra osovani e garibaldini presupponeva l’esistenza di strutture democratiche stabili. Solo su questa base la popolazione di un determinato territorio avrebbe potuto fare esperienza durevole della politica dei due comandi partigiani e dei partiti antifascisti che vi erano rappresentati. 2. In molte località la fusione delle brigate era avvenuta solo sulla carta: la miglior prova di ciò è l’elogio del vertice della Garibaldi alla Brigata Ippolito Nievo, nella quale l’idea di unificazione aveva realmente messo radici. Nelle altre brigate si manifestavano invece continue riserve nei confronti di una fusione effettiva e coerente241. 3. Nell’ambito della diplomazia partigiana gli sloveni erano riusciti, attraverso colloqui di vertice con garibaldini ed esponenti del Cln e del Pei, a imporre sostanzialmente la propria posi­ zione sulla questione dei confini, e con essa anche sulla tattica da seguire nei territori a nazionalità mista. Dove si sentivano sufficientemente forti, i partigiani dell’O F sostituirono le scuole italiane con quelle slovene e proclamarono la mobilitazione ge­ nerale242. Essi miravano infatti ad allontanare le unità italiane dal territorio scelto come obiettivo, o quanto meno a subordinarle al proprio comando243. 4. Nell’ottobre del 1944 Paimiro Togliatti affermò ripetutamente che per la Venezia Giulia sarebbe stato meglio se fosse stata occupata dalle forze jugoslave. In tal modo avrebbe evitato

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l’occupazione britannica e la restaurazione di un’«amministrazione reazionaria italiana»244. Nell’estate del 1944 - subito dopo l’istituzione delle zone libere del Friuli e della Carnia - garibaldini e OF trattavano, a ovest dell’Isonzo, su basi di parità. Tuttavia era giunto ormai il momento di tracciare nuove linee di separazione nazionali tra unità partigiane che fino allora avevano agito congiuntamente contro gli occupanti. Entrambi questi aspetti sono documentati da un carteggio tra il commissario politico del Briski beneski odred (Frane Cernugelj-Zorko) e quello della Brigata Garibaldi Natisone (Giovanni Padoan-Vanni). Lo sloveno, richiamandosi all’accordo tra Clnai e OF, chie­ deva una rapida ricomposizione delle unità partigiane su base nazionale; in particolare citava un «ordine» secondo cui tutti i partigiani sloveni, croati e serbi «e tutti quelli del Veneto e Resia»245 dovevano essere assegnati a unità slovene. Inoltre il co­ mandante sloveno chiedeva una «epurazione» delle formazioni partigiane, sostenendo che, in base all’accordo tra Clnai e OF, nelle unità partigiane attive nella Zona di operazioni del Briski beneski odred non poteva essere accettato nessuno che nel corso della propria vita si fosse macchiato di atti di violenza contro il popolo246. Nella sua energica risposta Padoan diceva di sperare che il «tono arrogante» della lettera dipendesse dal fatto che l’italiano non era la lingua madre di Zorko, il quale non era certo nella posizione di dargli ordini; rispondeva poi alle varie richieste dello sloveno247. L’inasprirsi del conflitto poneva la questione di chi fosse in condizione di rappresentare la posizione slovena ai partigiani ita­ liani e di chi, da parte italiana, fosse disposto ad agire sulla base del giudizio sloveno. Nelle trattative dell’autunno del 1944 tra osovani, garibaldini e sloveni si vide rapidamente che gli osovani non accettavano in alcun caso le richieste slovene di sottomettersi al comando dell’OF. Come si evince da un rapporto del 31 ottobre 1944 del comandante dell’Osoppo Francesco De Gregori-Bolla, gli osovani rifiutarono altri incontri con gli sloveni248. Prime divergenze di opinione erano emerse anche tra i com­ battenti comunisti da una parte e democratico-cristiani e azionisti dall’altra, una volta che si vide chiaramente che a seguito delle azioni di rastrellamento dei tedeschi e della ritirata dalla Zona libera del Friuli orientale i garibaldini avevano subito perdite molto minori degli osovani, la cui brigata era ridotta ormai a

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130-150 uomini. All’inizio di ottobre i tedeschi posero fine anche alla Repubblica della Carnia e lasciarono a presidio della zona i cosacchi, particolarmente invisi alla popolazione249. Esauritesi le azioni di rastrellamento della Wehrmacht, i gari­ baldini formarono subito due nuove brigate, per un totale di 600 uomini250; gli osovani decisero invece di ristrutturare la brigata e di congedare per l’inverno gran parte dei combattenti. Nel frattempo gli occupanti approfittarono della caduta dei territori liberati e della debolezza dei partigiani per lanciare un’offensiva propagandistica al fine di indurre questi ultimi ad abbandonare la lotta e a consegnarsi. L’arcivescovo di Udine, Nogara, si offrì come «mediatore» tra le forze di occupazione e gli ufficiali del­ la Osoppo disposti ad accettare le strategie di pacificazione di Rainer e Globocnik251. In questa situazione, già di per sé problematica, piombò, il 13 novembre, l’appello del comandante supremo delle forze alleate in Italia, il maresciallo britannico Harold Rupert Alexander, rivolto ai partigiani affinché sospendessero tutte le operazioni su larga scala, a seguito del quale, per diverse settimane, il sostegno degli Alleati alle azioni partigiane si ridusse sensibilmente252. Il 27 novembre iniziò una nuova operazione di rastrellamento condotta da tedeschi, cosacchi e X Mas con 30 mila uomini: i garibaldini resistettero per tre giorni, infliggendo al nemico perdite considerevoli, ma, esaurite le munizione, dovettero infine ritirarsi. Molti partigiani dal Friuli occidentale attraversarono il Tagliamento e raggiunsero la zona in cui operava la Brigata Garibaldi Natisone. Altri, in assenza di alternative, si offrirono come manodopera all’Organizzazione Todt253. Nel frattempo, tuttavia, il conflitto tra osovani e garibaldini nella Carnia assunse forme violente; gli eventi, nel loro insieme, fanno pensare che tra i partigiani dell’Osoppo si stesse verifi­ cando molto più che un momentaneo cambiamento di clima254. Daiana Franceschini, che ha studiato gli atti del processo Porzus, aggiunge al mosaico parecchie tessere che documentano come la propaganda degli occupanti e dei collaborazionisti facesse presa tra i membri delle unità dell’Osoppo sconfitte, o almeno come essi sperassero di poter sfruttare le divisioni tra le varie componenti dello schieramento nazifascista255. In un rapporto del 12 febbraio 1945 della Federazione provinciale del Pei di Udine al Triumvirato insurrezionale del Veneto si affermava tra l’altro che ogni giorno appariva sempre

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più «netta la frattura con lo strato superiore dell’Osoppo». Gli osovani intensificarono i propri «legami diretti e indiretti con la polizia e perfino con Comandi tedeschi»256. L’inasprirsi del conflitto mostra come in pochi mesi il pluralismo partigiano in Friuli rischiasse di fallire a causa dei contrasti politici, sociali e nazionali tra le unità italiane dei garibaldini e degli osovani e le formazioni slovene controllate dall’OF. . In definitiva, se si cerca una risposta alla domanda su quale ruolo abbia avuto la «furlanità» nella Resistenza, se essa abbia influenzato in modo decisivo la sua cultura e la volontà politica dei comandi partigiani o se, viceversa, i vertici politici della Resistenza abbiano usato la peculiarità etnica dei friulani come leva di mobilitazione, l’indicazione che viene da tutti i documenti analizzati equivale a una risposta negativa. I garibaldini, e in mi­ sura forse ancora maggiore gli osovani, si consideravano partigiani italiani, come emerge sia dai loro programmi sia dai simboli che utilizzavano. In una lettera a Vincenzo Bianco, rappresentante dei comunisti italiani presso il Kpj e le sue ramificazioni, si legge, a proposito dell’atteggiamento dei partigiani friulani: Tu com prendi che il partito, nella situazione italiana, non può essere l’alfiere di moti separatisti per territori di indiscutibile nazionalità italiana. Proprio nel momento in cui l’Inghilterra fomenta moti separatisti in Sicilia e i francesi lavorano per il separatism o in Valle d ’Aosta, ecc., non possiam o diventare, proprio noi, i fautori del separatism o e dello spezzettamento dell’unità nazionale257.

La posizione slovena sulla questione friulana non era sempre chiara; per i partigiani dell’O F separatismo e autonomia sem­ bravano a volte la stessa cosa. I resistenti friulani, invece, erano disposti ad accogliere gli sloveni come liberatori ma si oppone­ vano a qualsiasi tentativo di organizzare movimenti separatisti258. L’insistenza di Cermelj su una «furlanità» etnica da contrapporre, nella regione, all’«italianità» si rivela, almeno per il periodo della guerra partigiana, totalmente infondata. Obiettare che anche l’«identità» italiana delle unità partigiane era una costruzione dei dirigenti del Cln, dei funzionari comunisti, dei comandanti partigiani e dei commissari politici, è pertinente, ma non coglie il punto essenziale (riconosciuto anche da Cermelj), vale a dire la priorità di una resistenza comune. Dopo la guerra la «furlanità» visse in effetti un periodo di rinascita, ma non certo nel senso inteso da Cermelj259.

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Nell’ottobre del 1944 Giovanni Padoan-Vanni ricevette una nuova lettera degli sloveni, ma stavolta il mittente non era il Briski-Beneski odred (cioè la locale sezione partigiana della Slavia Veneta e del Collio), ma proveniva direttamente dal comando del IX Korpus260. Vi era descritta soprattutto la nuova situazione dopo la liberazione di Belgrado: sull’onda dei grandi successi, che avevano accresciuto il prestigio dei partigiani di Tito, gli sloveni fecero ai combattenti italiani una serie di richieste. La trasformazione in Stato della lotta di liberazione faceva progressi, la conquista della capitale apriva ai partigiani jugoslavi nuove possibilità di pressione sui partner italiani. Chi erano, ci si chiederà, i capi partigiani sloveni che in­ tendevano convertire direttamente ogni progresso della lotta di liberazione jugoslava in capitale politico utile a sottomettere i partigiani italiani e integrarli nel loro movimento? Il mittente di quest’ultima lettera, il IX Korpus dell’Esercito popolare sloveno di liberazione (come ufficialmente esso si chiamava), era stato formato nel dicembre del 1943 a partire dai reparti operanti nella preesistente III Zona di operazioni (Alpi) della Resistenza slove­ na261. In una storia slovena del IX Korpus questo viene indicato come «la maggiore unità operante contro la Wehrmacht su un territorio considerato parte del Terzo Reich»262 e si sostiene che i suoi combattenti fornirono «un contributo decisivo all’annessione del litorale sloveno alla Slovenia»263. Il superlativo ha senso solo se si parte dal presupposto che l’annessione del «litorale» al Grossdeutsches Reich fosse un fatto compiuto e se si accetta che il conflitto fosse ormai soltanto tra tedeschi e sloveni. La stessa denominazione sembra indicare la maggiore dimensione del IX Korpus rispetto alle formazioni italiane che nella zona di confine nord-orientale in un solo caso - quello della fusione delle brigate friulane Garibaldi e Osop­ po - avevano raggiunto la forza di una divisione, e non furono mai in grado di costituire un corpo d’armata autonomo. Tuttavia la principale forza del IX Korpus non era nel numero dei com­ battenti, giacché un confronto solo su questo piano mostra che il IX Korpus non era affatto più forte della Divisione GaribaldiOsoppo nel suo insieme264. La differenza tra le formazioni italiane e quelle slovene de­ rivava soprattutto dal fatto che nella Garibaldi Osoppo erano rappresentati gruppi politici difficilmente conciliabili tra loro e che in effetti ben presto si allontanarono in direzioni diverse,

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mentre il IX Korpus presentava una maggiore unità di orienta­ menti ideologici e tattico-operativi. Esso era presente in tutta l’area delle Alpi Giulie e della costa, «dal Tricorno (in sloveno Triglav) a Trieste», come suonava il titolo di un volume di Stanko Petelin, e lavorava in una prospettiva politica valida «dal Triglav fino al lago di Ocrida», secondo una vecchia definizione jugoslavista265. Il suo ambito di operazioni militari era tutta la metà occidentale dell’attuale Slovenia (che complessivamente è poco più piccola della Lombardia)266. A ovest l’ambito di competenze del IX Korpus era demarcato dalla etnicna meja, il confine della zona popolata da sloveni, anche se esistevano comandanti partigiani ed esponenti del partito comunista sloveno che avrebbero volentieri esteso la sfera d’influenza della Resistenza slovena fino al Bellu­ nese. A sud-est il IX Korpus arrivava fino alla ferrovia del Carso, che collegava Lubiana a Trieste, e confinava dunque con la zona di operazioni del VII267. Nel raffrontare le divisioni slovene alle più agguerrite formazioni militari dei partigiani titoisti operanti nelle regioni sud-orientali (Bosnia, Serbia, Montenegro), Milovan Dilas pensava probabilmente alla 30a (Gorica) e alla 31a (Triglav) Divisione del IX Korpus, che erano decisamente unità modello nello schieramento partigiano, dotate di ospedali da campo, tipo­ grafie, depositi di munizioni, reparti di crittografia e di veterinaria, giornali, unità di artiglieria, genio pionieri e unità per la sicurezza dello Stato268. Dagli ospedali partigiani del IX Korpus, situati a Cerkno e nella Selva di Tarnova (Trnovski gozd in sloveno), che in codice si chiamavano rispettivamente Franja e Pavia, gli Alleati portavano in aereo i feriti nell’Italia meridionale per farli curare269. Anche i partigiani sloveni salvarono diversi piloti inglesi e americani abbattuti o atterrati in condizioni di emergenza sulla zona di operazioni del IX Korpus270; inoltre fornirono informazioni sui movimenti di truppe della Wehrmacht, sulla loro entità e sul loro equipaggiamento agli Alleati occidentali, i quali, così come i sovietici, erano rappresentati da missioni militari presso il co­ mando del IX Korpus271. Quest’ultimo continuò a svolgere anche dopo il 1945 un ruolo-chiave nella strategia di difesa jugoslava272. Da tutto ciò si comprende come il IX Korpus avesse uno status internazionale molto più pesante di una semplice formazione partigiana operante nel territorio dell’ex Banato della Drava. Il suo comando era dunque in grado di esercitare forti pressioni sul movimento partigiano italiano e di dare ordini a questo. Il VII e il IX Korpus costituivano nella regione, in quanto componenti

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della Resistenza panjugoslava, dei centri di potere al quale le formazioni italiane avevano ben poco da opporre. La pressione slovena era avvertibile ovunque: nella stessa Trieste, nel Carso, in Istria, in Friuli e soprattutto in quella parte del Friuli che gli sloveni chiamavano Benecija e consideravano una sorta di «terra irredenta». Ma era proprio questa l’area in cui operava la Brigata Garibaldi Natisone, il cui commissario politico, dopo la conquista di Belgrado, si trovò di fronte alla richiesta del comando del IX Korpus che i partigiani italiani obbedissero direttamente alle sue istruzioni senza attendere l’approvazione del Comando triveneto da cui dipendevano i garibaldini273. Nella lista delle richieste del IX Korpus si coglieva chiaramente dove, nei rapporti tra garibaldini e Osvobodilna fronta, arrivasse l’antifascismo-internazionalismo e iniziasse invece il dissenso na­ zionale. Agli italiani, ad esempio, si chiedeva di non dare più alle proprie unità partigiane nomi come «Gorizia, Isonzo, Natisone e simili» che potevano ferire i sentimenti nazionali degli sloveni: le divisioni avrebbero dovuto prendere il nome di preferenza da «noti propagandisti che fossero autentica espressione di auspici democratici e progressisti per il popolo italiano»274. Gli sloveni vedevano nella Benecija una parte del proprio territorio nazionale, ritenendo che il «confine etnico» corresse a ovest della valle del Natisone: sapendo però che non tutti gli abitanti della Slavia veneta li avrebbero accolti a braccia aperte, puntavano sul tentativo di suscitare in quest’area un «risveglio del­ la coscienza nazionale». Se i garibaldini avevano tratto vantaggio a breve termine dalla mobilitazione slovena in corso reclutando partigiani nel «popolo oscillante»275 della Slavia veneta, toccava ora a loro trasferire immediatamente al IX Korpus questi parti­ giani dall’«identità fluida»276, negando al Comando triveneto, da cui dipendevano i garibaldini, qualsiasi diritto di veto contro il passaggio dei partigiani friulani alle dipendenze del Korpus. La lettera del IX Korpus è quindi, nei contenuti, analoga ai decreti di annessione dei partigiani sloveni e croati del settembre 1943, mentre la principale differenza era che in un caso si trat­ tava del controllo su un territorio e sui suoi abitanti, e nell’altro era in gioco «solamente» il destino di un gruppo consistente di uomini armati. Le trattative tra i comunisti sloveni e italiani iniziarono effet­ tivamente nell’ottobre del 1944. Di fronte all’emissario sloveno Martin Greif-Rudi, Sasso e Vanni sostennero inizialmente la tesi

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che «la presenza delle brigate Garibaldi sul nostro territorio [sloveno] per noi è vantaggiosa e che esse non sarebbero state incorporate nella Nov»277. Ma poi vi fu una svolta: il comandante e il commissario della Garibaldi Natisone ricevettero improvvise pressioni da settori del proprio partito affinché si mettessero agli ordini del IX Korpus (vi fu infatti un cambio alla guida del Pei triestino, provocato dall’ondata di arresti dell’estate del 1944). Così, nel dicembre del 1944, in una lettera al Comando trivene­ to, il comando di divisione della Garibaldi-Natisone spiegò che aveva accettato di mettersi agli ordini del IX Korpus278 perché il territorio della Benecija era popolato da sloveni: i garibaldini friulani avevano riconosciuto le rivendicazioni territoriali della Jugoslavia nella regione, anche perché l’esercito di Tito era stato il primo a indicare la «via dell’insurrezione contro il nazifascismo»279. Affermazioni analoghe sulla partenza dal Friuli della Natisone si trovano anche nelle memorie di Giovanni Padoan280. Attorno a Capodanno del 1945 la Divisione Garibaldi Nati­ sone fu trasferita dalla Benecija a Circhina (Cerkno in sloveno), a est dell’Isonzo. Il trasferimento, estremamente faticoso, lungo sentieri di montagna impervi e gelati, equivalse, nonostante tutte le smentite, a un’ammissione di sconfitta da parte della divisio­ ne281. In occasione di quella faticosa marcia i partigiani sloveni parvero dimostrare ai garibaldini la loro gratitudine sotto forma di maggiori attenzioni e comprensione per la loro situazione282. Già alla fine di gennaio, a Cerkno, i garibaldini valutarono l’idea di pubblicare un giornale283: tale necessità nasceva dal fatto che la divisione aveva lasciato la propria originaria zona di operazioni e che la propaganda nemica aveva «colto l’occasione per svisare la natura del nostro passaggio in seno al Nov, e per suscitare discordie di carattere sciovinistico fra italiani e sloveni»284. Tra garibaldini e partigiani sloveni, nonostante tutti gli sforzi per un miglioramento del clima, non c’era quella concordia che ¡’«internazionalismo proletario» elevato da entrambe le parti a norma avrebbe lasciato supporre. I quadri sloveni erano sospettosi nei confronti dei partigiani italiani. Nell’aprile del 1945, dopo le ultime massicce azioni di rastrellamento tedesche, essi trasferirono la Brigata Garibaldi Natisone ancora più a est, in direzione di Lubiana. Indignato, il commissario politico Padoan si rivolse al funzionario del Kps Boris Kraigher accusando i comunisti sloveni di aver mandato i garibaldini «il più lontano possibile da Trieste» anziché farli «partecipare alla sua liberazione»285.

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3. I partigiani: esclusione nazionale e prassi (inter)culturale 3.1. Pugno chiuso, stella, tricolore: i simboli della lotta di libera­ zione È probabile che sloveni, croati e italiani non si fossero mai avvicinati tanto tra loro come in alcune fasi della lotta contro le forze d’occupazione tedesche nella Zona d’operazione del Lito­ rale adriatico, avvicinamento che ha lasciato fino a oggi tracce nella memorialistica, nei monumenti bilingui o trilingui e negli ossari partigiani; esponenti di formazioni partigiane italiane e slave intervengono insieme in alcune festività, come il 25 aprile (la cui celebrazione attualmente è in Italia oggetto di frequente discussione). Tra il settembre del 1943 e il maggio del 1945 i vertici politici e militari partigiani ebbero la possibilità di accantonare le diver­ genze di opinione sulle priorità della resistenza contro occupanti e collaborazionisti. Ben presto però si trovarono prigionieri del dilemma di dover fare «qualche concessione al nazionalismo»286, come ha scritto Giovanni Padoan. Questo dilemma si può cogliere in quattro punti principali: 1. Negli anni Trenta i comunisti sloveni e croati erano usciti dall’isolamento politico, appropriandosi del tradizionale program­ ma nazionale dei croati e degli sloveni, che essi orientarono contro il governo a predominio serbo, contro la monarchia e contro le potenze fasciste. I più stretti alleati del Kps, i cristiano-sociali di Edvard Kocbek e l’ala sinistra della lega ginnica Sokol si erano avvicinati ai comunisti perché questi ultimi avevano fatto propri gli slogan del 1848 sul «confine etnico» e sulla «Slovenia unita», creando un proprio partito regionale sulla base di un programma federalista. Anche i comunisti croati, sotto Andrija Hebrang, ave­ vano costruito vaste strutture di alleanza contro il regime ustase, che andavano ben al di là della tradizionale sfera di influenza del Kph287. In queste circostanze difficilmente i partigiani slavi guidati dai comunisti avrebbero rinunciato, dopo il settembre del 1943, a promuovere il programma massimo nazionale. 2. Le unità partigiane non erano brigate internazionali come quelle intervenute nella Guerra civile spagnola. Sebbene soprattutto dopo il settembre-ottobre del 1943, come già nel 1915-1918, entrambe le parti belligeranti tendessero a impiegare soldati o partigiani dei più svariati paesi, anche al di fuori del

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tipico mosaico di popoli della regione, le formazioni «italiane» e «slovene» erano caratterizzate da una composizione basata su principi di omogeneità nazionale o di conterraneità. Così, ad esempio, si fece in modo che russi, mongoli e turchestani venissero inquadrati in un Battaglione Stalin o che si formasse un’unità composta esclusivamente da partigiani sardi288: ciò facilitava i contatti con i potenziali disertori delle divisioni orientali del Reich tedesco o di altre formazioni reclutate su base etnica289. Al tempo stesso, però, comandanti e commissari davano a com­ pagnie, battaglioni, reggimenti, brigate e divisioni un’impronta nazionale, italiana o slovena, che nelle zone a popolazione mista veniva particolarmente sottolineata: qui i capi partigiani si sforza­ vano di reclutare tra gli abitanti di villaggi dall’identità fluida o multipla partigiani di orientamento nazional-sloveno, o italiano, e al tempo stesso comunista internazionalista, in una sorta di quadratura del cerchio. L’intenzione di dare alle unità partigiane il ruolo di agenti di nazionalizzazione provocò dei conflitti, in quanto non sempre si poteva conciliare con le esigenze militari della guerra partigiana. 3. Le unità partigiane comuniste avevano, bisogno, anche per ragioni di approvvigionamenti, di una politica di alleanze che assicurasse loro il consenso dei ceti medi e della intelligencija sia nell’hinterland agrario sia nelle città. In ciò esse si trovavano in concorrenza con gruppi a forte orientamento nazionale e monar­ chico che (come i cetnici) avevano elevato a proprio programma l’odio verso l’altra «nazione» o «razza», o che (come i domobranci o gli osovani) erano a dir poco sensibili agli umori nazionalistici. Ciò sottopose sia le unità garibaldine sia quelle slovene e croate a una pressione perlopiù insostenibile. Per giunta il grosso del­ la base partigiana, ma anche molti intellettuali che avevano un ruolo di consiglieri, non provenivano dal milieu comunista, ma erano arrivati alla Resistenza attraverso il movimento nazionale cattolico o liberale; altri avevano personalmente conosciuto l’esilio o avevano esuli tra i loro familiari. Comandanti e com­ missari attinsero pesantemente a queste risorse, anche quando ciò comportava una penetrazione incontrollata del nazionalismo in un movimento in cui nell’ultimo decennio i programmi inter­ nazionalisti avevano lasciato sempre più spazio a rivendicazioni e programmi di stampo nazionale. 4. Dai combattimenti degli anni 1915-1917 sul fronte dell’Isonzo alla guerra partigiana degli anni tra il 1941 (1943 in

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Italia) e il 1945 era trascorso troppo poco tempo perché le ferite della Grande guerra si fossero rimarginate. I reciproci sospetti tra italiani e slavi derivavano anche dalle esperienze della Prima guerra mondiale, sebbene la lotta partigiana non avesse nulla in comune con la «guerra materiale» delle offensive dell’Isonzo, a parte i luoghi. L’atteggiamento di sospetto era anche alimentato da capi partigiani che nel rafforzamento della «identità nazionale» dei loro uomini vedevano un importante presupposto della lotta contro le forze di occupazione. L’incontro tra partigiani non fu dunque sempre facile come si legge di solito nella memorialistica e, anzi, in alcuni casi il primo punto all’ordine del giorno era proprio la separazione dall’«altro»: solo su tale base erano possibili le intese per svolgere un’azione comune. Per Giovanni Padoan, commissario politico della Garibaldi-Natisone friulana, era chiaro fin dall’inizio che il primo battaglione partigiano alla cui fondazione aveva contribuito dovesse essere «in tutto e per tutto un battaglione italiano»290. Quando gli sloveni accusavano i garibaldini di essere seguaci di Badoglio, il colpo per gli italiani era duro, visto che il generale rappresentava, al di là della caduta del fascismo, la continuità dello Stato italiano e - secondo sloveni e croati - delle sue frontiere, spostate nel 1920 molto più a est. Inoltre dopo la Prima guerra mondiale Badoglio era stato direttamente coinvolto nella politica di occupazione italiana della regione adriatica. La fondazione del Corpo volontari della libertà, di cui face­ vano parte gruppi partigiani delle più varie tendenze politiche, costituì per gli sloveni una pietra dello scandalo, e non solo per questioni di simboli, come la combinazione della stella e del tri­ colore. I comunisti italiani si sforzavano di attribuire al tricolore un più vasto effetto di mobilitazione antifascista ma, in generale, sul terreno dei simboli erano i partigiani italiani a trovarsi nella posizione più scomoda: il tricolore era infatti utilizzato come bandiera dal «Regno del Sud», che era un alleato, sia pure alla lontana, e che assicurava un certo sostegno anche alla Resistenza jugoslava, ma anche dalla Repubblica sociale italiana di Benito Mussolini, che collaborava strettamente con il principale nemico di entrambi i movimenti partigiani - la Germania nazista - e dipendeva totalmente da esso. Quanto più appariva screditato il tricolore italiano, tanto più sembravano liberi da ipoteche i vessilli jugoslavi: sia quelli «etnici» della Slovenia e della Croazia, sia il tricolore jugoslavo con la stella rossa. Nemmeno si può

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escludere che le bandiere della propria terra avessero una forza di identificazione maggiore di quella che sarebbe diventata la bandiera di Stato della Jugoslavia titoista, se si considera che la dittatura della monarchia aveva vietato la bandiera slovena291, quella croata292 e qualsiasi altro simbolo etnico293. Ciò nonostante, entrambe le parti esaltavano la propria «iden­ tità» anche con l’aiuto di simboli come bandiere e coccarde. In questo i partigiani slavi davano generalmente meno nell’occhio di quelli italiani o, quanto meno, nella maggior parte delle fonti testuali la loro comparsa desta meno scalpore. Milovan Dilas riferisce, a proposito del vertice jugoslavo raccolto attorno a Josip Broz-Tito: N é i com pagni dirigenti né i soldati indossavano le stesse uniformi, ma erano vestiti bene e portavano quasi tutti la «Sajk aca» - il berretto da soldato dell’esercito serbo e di quello regio jugoslavo. Solo Tito faceva eccezione: si era fatto fare una «P ilotka» di foggia sovietica, che sarebbe poi stata chiamata «Titovka», e adottata come berretto militare dall’esercito della nuova Jugoslavia. [...] Tutti avevano cucita sul berretto una stella rossa a cinque punte di stoffa, mentre Tito aveva una stella sovietica smaltata con la falce e il martello, giunta chissà come a noi, e a lui294.

Il quartier generale di Tito costituì, entro certi limiti, il modello per l’equipaggiamento delle unità e dei comandi partigiani; la titovka avrebbe assunto per i partigiani un’importanza simbolica analoga alla dusanka o alle opanche per i nazionalisti serbi295. Particolare è il discorso sulla stella rossa, che i garibaldini italiani - seguendo in ciò l’esempio jugoslavo - si cucivano sul fazzoletto bianco, rosso e verde296. La stella rappresentava i soviet, i consigli dei lavoratori; dunque, non era un simbolo nazionale ma internazionalista, che richiamava la Rivoluzione russa. Poiché, tuttavia, nell’area adriatica i partigiani jugoslavi erano stati i primi ad aggiungere alle proprie bandiere la stella, i patrioti non comunisti delle unità Osoppo avvertirono la sua adozione da parte dei garibaldini come forma di imitazione o di subordinazione a una simbologia forestiera. D ’altra parte, nel settembre del 1943 la bandiera bianca rossa e verde con la stella rossa aveva sventolato sulle città operaie e sulle roccaforti comuniste italiane della costa istriana, come Rovigno, dove essa segnalava due cose altrove inconciliabili: l’autonomia politico­ organizzativa del movimento antifascista italiano e l’intesa ideale e programmatica con il comunismo jugoslavo.

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Nell’ambito del conflitto tra i partigiani della Garibaldi e della Osoppo la stella divenne una sorta di feticcio: alla fine di maggio del 1945, dunque dopo la ritirata dei tedeschi dal Friuli, alcuni membri della Ósoppo costrinsero a mitra spiegato un gruppo di garibaldini a togliere la stella rossa dal tricolore italiano297. In pre­ cedenza, il 20 gennaio, garibaldini e osovani avevano preso nuovi accordi secondo cui i due gruppi avrebbero mantenuto «i segni distintivi della rispettiva formazione: cappello alpino, coccarda tricolore, fazzoletto verde [per gli osovani] e berretto garibaldino, stella tricolore e fazzoletto rosso [per i garibaldini]»298. Ma già in occasione del primo accordo tra le due formazioni un cappellano militare che non credeva molto a quell’accomodamento aveva iniziato a indossare un fazzoletto metà rosso e metà verde299. Più grotteschi che pittoreschi apparivano i membri del Battaglione G ap comandato da Mario Toffanin-Giacca responsabile del massacro di un comando di osovani a Porzus, in Friuli300. Dopo tutto, come si è già riferito a proposito dei Gap nella regione di confine, non sorprende che la memorialistica presenti queste formazioni in modo poco lusinghiero; il rapporto di Padoan su Toffanin e sul suo battaglione è quasi comico301. Un combattente della Osoppo descrive i «gappisti» di Toffanin come pieni di odio e «quasi accecati» nel loro furore ideologico: Ci strapparono i fazzoletti [verdi] dal collo. Presero la bandiera e dissero: «che cosa è questa bandiera tricolore?» e la gettarono per terra. Ci portarono fuori dove vidi che strappavano e calpestarono la bandiera stessa dicendo che esisteva una sola bandiera: quella rossa502.

L’elevazione a feticci dei simboli del movimento operaio e del comuniSmo è documentata anche nel caso del Battaglione Giovanni Zol, in Istria, dove i capi partigiani sloveni accusarono il comando del battaglione, che dipendeva dal Pei triestino, di comportarsi in modo settario perché le uniformi dei suoi com­ battenti erano cosparse di falci e martelli303. Probabilmente non è un caso che la storiografia e la memoria­ listica riferiscano di casi simili soprattutto in relazione a conflitti armati tra unità partigiane di differente orientamento nazionale o politico: anche il Battaglione Giovanni Zol fu implicato in un violento conflitto con l’Istrski odred sloveno, che gli sloveni risolsero con la forza a proprio favore. Claudio Pavone ha inda­ gato sui motivi per cui alcune unità partigiane facessero un uso inflazionato del rosso: per alcune esso esprimeva una «generica

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aspirazione alla radicalità», un’«affermazione di identità»304 e infine - soprattutto per i partigiani più anziani e più istruiti - il desiderio di compensazione per la «sconfitta temporanea del proletariato nel 1919»305. Si tocca qui il tema della memoria storica della Resistenza: della tradizione in cui essa si inseriva e di quella che voleva creare. Quando i garibaldini in Friuli si fusero con le formazioni dell’Osoppo, vi furono lunghe discussioni sui simboli politici e sui nomi, di cui è rimasta testimonianza nei documenti delle Brigate Garibaldi: per esempio, alcuni partigiani della Osoppo nella provincia di Udine vollero chiamare il loro battaglione Friuli, anziché intitolarlo a Carlo Pisacane come era stato loro suggerito306. Tra i garibaldini e i partigiani del Battaglione Friuli, i cui ufficiali e truppe erano in maggioranza ex alpini vicini al Partito d’azione, si sviluppò una discussione sui simboli e sulle formule di saluto nate in Unione sovietica, nonché sulle funzioni di un «commissario politico». I combattenti non comunisti della Resistenza perseguivano l’unità di tutte le formazioni in un unico battaglione. Il commissario politico dei garibaldini Mario Lizzero-Andrea, invece, sottolineava la necessità di dar vita a diversi battaglioni, fondendoli eventualmente in una brigata307. Egli tentò di convincere i capi degli osovani che le organizzazioni della Resistenza erano qualcosa di diverso da semplici battaglioni di alpini; gli ufficiali della Osoppo cedettero e chiesero ad Andrea di tornare a visitare il loro comando308. Nell’estate del 1944 è possibile cogliere nelle lettere inviate al Comitato centrale del Kps sloveno dal delegato per la regione costiera Lidija Sentjurc l’accumularsi dei segnali di conflitto con i partigiani italiani, dovuto a volte a seri problemi di rifornimento, a volte a futili motivi. I dissensi erano emersi nella stessa Slavia veneta, dove fino allora la collaborazione era stata più efficace. L’occasione più recente era stata quella della nascita della Brigata Isonzo a partire dai battaglioni Mameli e Mazzini. Originariamente la nuova brigata si sarebbe dovuta chiamare Gorizia; in tal caso dopo lunghi tira e molla gli sloveni si trovarono davanti al fatto compiuto309. Il 20 luglio il comitato del Kps delle zone prealpine friulane comunicò che i dissensi sulla denominazione della brigata suscitavano sospetti nelle popolazioni slovene locali. Ovunque si diceva che gli italiani volevano di nuovo fare i gradassi, come nel 1918. Nella lettera la Sentjurc assicurava che il nome della brigata sarebbe stato cambiato e che nella successiva riunione

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con gli italiani si sarebbe fatto capire che avevano un numero più che sufficiente di eroi che erano stati pronti a fare qualun­ que cosa per migliorare le condizioni di vita del loro popolo: sarebbe stato mortificante, per gli italiani, rifiutare di dare alla brigata il nome di uno di questi310. Lidija Sentjurc riferì infine che i garibaldini «solo a seguito del nostro intervento e delle nostre obiezioni hanno cambiato di nuovo il nome in Brigata Nadiz [Natisone]»311. Dietro tutto ciò stavano anche i timori del vertice dell’OF sloveno di perdere influenza politica nella regione costiera a vantaggio dei collaborazionisti della «guardia bianca» (domobranci) e «azzurra» (cetnici)m . La posta in gioco però non erano solo dei nomi. Molti par­ tigiani, sia perché provenienti da territori di frontiera e misti, sia (come spesso accadeva) per effetto della politica fascista di snazionalizzazione, non definivano in modo univoco la propria appartenenza a una «nazione», come avrebbero voluto i loro comandanti militari e i capi politico-organizzativi. Ciò valeva in particolare per i beneciani della valle del Natisone e per una parte degli istriani o istrani. Tra i partigiani «italiani» - semplici combattenti ma anche sottufficiali e ufficiali - vi erano quelli di famiglia slava che sotto il regime di Mussolini si erano adattati alP«italianità» senza per questo diventare fascisti. Altri «assi­ milati» avevano rotto con il fascismo poco prima dello scoppio della guerra passando all’opposizione illegale: costoro avevano con le questioni riguardanti la «nazione», lo «Stato nazionale» e i «programmi nazionali» un rapporto diverso da quello, ad esempio, degli emigrati giuliani esposti alla socializzazione del­ l’esilio liberalnazionale in Jugoslavia. Numerose erano perciò le incongruenze, foriere poi di ulteriori conflitti. Per comprendere meglio questi conflitti e queste incompati­ bilità occorre esaminare soprattutto il problema dell’educazione politica a livello di singoli gruppi e unità partigiane. 3.2. La lezione del commissario: educazione e propaganda politica Gli ufficiali della Wehrmacht impiegati nella guerra parti­ giana nella Zona d’operazione del Litorale adriatico cercavano generalmente di strappare a ogni partigiano catturato quante più informazioni possibile prima di «consegnarlo all’SD »313. Così, ad esempio, le «linee-guida per gli interrogatori sulle condizioni del

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nemico» della 188“ Reserve-Gebirgs-Division prevedevano tra le altre cose che ai prigionieri venissero chieste le loro generalità e fatte domande sull’orientamento politico ed etnico-nazionale dell’unità partigiana di cui facevano parte314. Queste erano te­ stualmente alcune delle «domande per l’interrogatorio di disertori e prigionieri»: «Quale educazione politica ha ricevuto?», «Chi dirige i corsi?», «Come sono organizzati? Quali tematiche vi vengono trattate con particolare frequenza (questioni politiche, questioni sociali, propaganda panslavista)?»315. Gli ufficiali della divisione tedesca erano certo informati che l’educazione politica giocava tra i partigiani un ruolo importante: ciò che loro premeva, in ultima analisi, era comprendere il morale dei partigiani allo scopo di costringerli sulla difensiva e di ottenere un migliore controllo sul territorio316. Come ci si deve immaginare la formazione dei partigiani? Nell’autunno e inverno del 1944 alcuni combattenti italiani che successivamente costituirono la Brigata Fratelli Fontanot fre­ quentarono un corso per sottufficiali nella Zona libera della Bela Krajina, in Slovenia. Tra le materie del corso vi erano politica e tattiche militari, e si imparava a usare esplosivi al plastico, mine a pressione e mine anticarro317. Claudio Natoli ha definito le unità partigiane italiane una «scuola di solidarietà e di morale colletti­ va»; la stessa esistenza di questi gruppi era già, secondo lui, «una forma particolarmente importante di educazione politica»318. La formazione politica era di competenza del commissario politico, introdotto sul modello dell’Unione sovietica sia nelle unità slo­ vene e croate sia tra i garibaldini, mentre gli osovani - orientati piuttosto verso il modello militare delle forze armate del Regno d’Italia - rifiutarono l’introduzione di questa figura319. Presso gli sloveni il commissario politico era presente in qualsiasi unità e formazione dal battaglione in su320, era iscritto al partito comunista e rispondeva all’apparato di propagan­ da; generalmente aveva un vice, come lo aveva il comandante militare321. Anche nella guerra sull’Adriatico - sebbene non sia mai stata impartita una direttiva paragonabile allo spietato Kommissarbefehl, l’«ordine sui commissari» che imponeva la fucilazione immediata dei funzionari politici presi prigionieri, emesso durante l’invasione delFUrss - gli avversari dei partigia­ ni comunisti (Wehrmacht e SS, ma anche domobranci, ustase o osovani) caratterizzarono la figura del commissario politico come l’archetipo del nemico, propagandando l’idea che i commissari

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manipolassero a piacimento i partigiani. Ciò che c’era di vero in quest’immagine era che il commissario trasmetteva al giovane combattente un canone fondamentale di educazione politica per molti versi diametralmente opposto al «sapere» acquisito nella scuola fascista322. Nelle unità Garibaldi friulane le «lezioni politiche» si svol­ gevano anche due volte al giorno; ogni lezione era composta di due parti: L a parte «fissa» riguardava la storia d ’Italia e in m odo particolare le figure, e il loro contributo per il nostro paese, di Mazzini, Garibaldi, Pisacane, Mameli, Manin, Manara, i fratelli Bandiera, Sauro, Battisti e poi Matteotti, Gram sci, Don Minzoni, i fratelli Rosselli ed altri; seguiva la storia del fascismo, l’imperialismo e la sua natura; l’origine e i motivi della seconda guerra mondiale; che cos’era e che cosa voleva realizzare il C .L .N ; i partiti e la democrazia; elementi di economia politica. L a parte varia riguardava la politica di ogni giorno, fatti [...] che potevano essere successi nell’ambito del battaglione o nei suoi rapporti con la popolazione323.

L’intersezione tra questa formazione e quella impartita ai partigiani sloveni riguardava soprattutto i temi più esplicitamente riferiti al marxismo o a uno pseudomarxismo. Rossana Rossanda, negli anni Settanta, così ricordava alcuni aspetti dell’ideologia e dell’educazione comuniste: «nella testa il ricordo della lotta partigiana e il ritratto di Stalingrado, in tasca il Corso breve sulla storia del Pcus(b), essi [i comunisti] costituivano di gran lunga la forza politica più robusta e dinamica del paese»324. Il «corso breve», una storia del Pcus(b) variamente rielaborata, era una lettura obbligatoria per qualsiasi comunista dell’epoca staliniana. Nel dicembre del 1943 la direzione del Pei triestino comunicò ai partigiani del reparto Garibaldi-Trieste che si era in procinto di tradurre la storia del «Partito “bolscevico di Russia”», che sarebbe poi stata inviata ai combattenti325. Mentre in questa fase iniziale i comunisti triestini avevano previsto di far circola­ re la versione italiana in una sola copia tra i partigiani italiani, all’inizio del 1944 la tipografia partigiana della Osvobodilna fronta stampò il testo in sloveno in ben 500 copie326. Inoltre, l’ufficio propaganda sloveno da Bari faceva arrivare nelle regioni liberate d’Italia scritti di Lenin e Stalin tradotti in italiano sulle problematiche nazionali327. Alcuni elementi del programma didattico italiano erano orien­ tati verso i valori e i simboli nazionali, ed erano pertanto più vicini

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agli ideali degli osovani, del Partito d’azione o della Democrazia cristiana e talvolta riflettevano addirittura il culto nazionalista e fascista degli eroi. Forse nei ricordi di Padoan la fase del «comuni­ Smo puro» tipica delle unità Garibaldi si confondeva con la fase del comando unificato Garibaldi-Osoppo, durante la quale entrambe le parti dovettero accettare dei compromessi. Ancora nel gennaio del 1945 garibaldini e osovani concordarono un programma di formazione ispirato a una politica di «unità nazionale»328. Esami­ niamo però le figure-guida della Resistenza nell’ordine stesso in cui le cita Padoan: tra i modelli dei partigiani, a parte combattenti e personaggi-simbolo del Risorgimento come Mazzini, Garibaldi ecc., vi erano i martiri antifascisti e internazionalisti come Matteotti, Gramsci, Carlo e Nello Rosselli, ma vi erano anche gli eroi interven­ tisti Sauro e Battisti, il che rappresentava chiaramente un omaggio all’«italianità» d’impronta giuliana e trentina, ma al tempo stesso non poteva non apparire agli sloveni come una provocazione. Pos­ siamo immaginare che nella regione di confine friulana le lezioni sul Risorgimento e sugli eroi nazionali fossero particolarmente impor­ tanti, anche per via delle tendenze autonomistiche o separatistiche («furlanità») propagandate da parte tedesca e slovena329. Nel novembre del 1944 fu chiesto ai commissari politici della Brigata Ippolito Nievo e di altre formazioni partigiane non meglio specificate di sviluppare un programma autonomo d’insegnamento e di dibattito330. Discostandosi nettamente dalla tradizione italia­ na, nel programma della Brigata Ippolito Nievo (come in quello di Padoan) non erano previste lezioni sulla questione nazionale e sulla problematica dei confini e delle minoranze. Gli eroi e i martiri slavi non erano menzionati; tuttavia (con un’indubbia innovazione rispetto al programma di Padoan), nel programma della Brigata Nievo gli jugoslavi venivano tout court designati come «popolo eroico». Nonostante ciò, si ha l’impressione che in alcune unità par­ tigiane si fosse ricreata la situazione di esclusivismo nazionale che aveva caratterizzato l’epoca delle associazioni scolastiche e patriottiche. A ciò si potrebbe obiettare che la Lega nazionale e l’Associazione Cirillo e Metodio non avevano festeggiato insieme il 1° maggio; ma proprio questo era il dilemma del comuniSmo nazionale, che cercava di conciliare il culto patriottico degli eroi e dei martiri con l’orientamento internazionalista. L’opera di formazione e propaganda slovena poteva facilmente collocarsi nell’ampio vuoto che esisteva da parte italiana331.

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Non si può ignorare che, nell’elaborazione della problema­ tica nazionale, il partito comunista jugoslavo e le sue strutture seguirono fin daH’inizio proprie strade. Diversamente dall’impero zarista, dove prevaleva l’influenza russa, in Jugoslavia verso la fine degli anni Trenta, e ancor più dal 1941, il peso specifico della Serbia era diminuito. Il nuovo gruppo dirigente multietnico del Kpj, che aveva stimolato alcune delle sue articolazioni regionali a ridefinirsi come partiti, lasciava molto spazio all’autonoma iniziativa nazionale, naturalmente a condizione che ciò non mi­ nacciasse la posizione di potere del gruppo di Tito. La commissione agit-prop del Comitato centrale del Kps, ad esempio, fece tradurre in italiano e diffondere nella regione di confine un intervento di Tito sulla questione nazionale332. Anche il programma di istruzione per le divisioni partigiane in Slovenia e per i comitati distrettuali del Kps comprendeva la lettura obbli­ gatoria di alcuni scritti sulla questione nazionale333. In un elenco di testi stilato dalla commissione di agitazione e propaganda da utilizzare per preparare le lezioni di politica figuravano, oltre all’articolo di Tito e ad alcuni articoli di Edvard Kardelj, Boris Kidric e Mosa Pijade, lo scritto di Stalin sulla questione nazio­ nale e l’opera sui «confini sloveni» (Slovenske meje) di Prezihov Voranc (firmata con lo pseudonimo di Pavle Vilhar), pubblicata nel 1942334. Come scrive Glenda Sluga, se Voranc talvolta era criptico, molto più chiara era la copertina del suo scritto. Vi era riportata una carta geografica della Slovenia che collocava Trieste, Gorizia (che tra le due guerre faceva parte dell’Italia) e Klagenfurt (in Austria) entro i confini sloveni, sotto la protezione della bandiera jugoslava con la stella comunista335.

Per presentare con il massimo della delicatezza possibile ai loro compagni di lotta italiani le rivendicazioni jugoslave, gli sloveni dovevano fare ricorso a traduzioni flessibili. Mentre la versione slovena di un famoso discorso di Tito per il primo an­ niversario della nascita della prima Brigata dalmata uscì, in 40 mila copie, con il titolo «I nostri fratelli in Istria, nella regione di confine slovena e in Carinzia vengono liberati e si uniscono alla nuova patria»336, molto più «morbido» e prudente e meno condizionato da idee irredentistiche era il titolo italiano dello stesso testo: D ei diritti e dei confini della Nuova Jugoslavia fede rativa e democratica.” 1.

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Anche la pubblicazione di un calendario partigiano per l’anno 1944, uscito in ritardo il 1 febbraio in 20 mila copie, ricordava la prassi delle organizzazioni patriottiche tra le due guerre338. In un rapporto sull’attività della tipografia partigiana clandestina che l’aveva curato si legge, a proposito del materiale propagandistico inviato ai partigiani slavi e italiani: «nel nostro centro abbiamo preparato cinque edizioni del giornale, di cui tre sono già state pubblicate. [...] Nella tipografia si trova l’opuscolo di Smodlaka sulle frontiere tra Italia e Jugoslavia339. [...] Abbiamo ricevuto anche testi italiani pubblicati in Russia»340. Nel marzo del 1945 fu diffusa anche una versione italiana dell’articolo di Tito sulla «questione nazionale jugoslava alla luce della guerra popolare di liberazione»341. Nel complesso si ha l’impressione che l’istruzione e la propaganda politica se­ guissero, da parte sia italiana sia jugoslava, un filo conduttore nazionalcomunista e che in tale frangente gli sloveni, dotati di una infrastruttura migliore, si dimostrassero - rispetto tanto alla propria base quanto ai compagni italiani - più esperti nella comunicazione dei propri obiettivi. Non si potrebbe spiegare diversamente il fatto che gran parte dei gruppi partigiani ita­ liani, entro la fine del 1944, fosse ormai pienamente allineata alle posizioni jugoslave. Essere stati per molto tempo costretti a confrontarsi con problematiche nazionali e con questioni di nazionalità aveva dato i suoi frutti, specialmente nel caso degli sloveni. La collaborazione tra gruppi nazionalisti e comunisti, iniziata negli anni Trenta, creò una base ideologica comune cui si tentò di dare un fondamento teorico e storico. Anche se ciò non contribuì ad accrescere il consenso della popolazione italia­ na nei confronti delPamministrazione partigiana nelle settimane successive alla fine della guerra, fu però sufficiente a garantirsi per qualche tempo l’appoggio alle rivendicazioni jugoslave da parte dei comunisti italiani delle zone interessate. 3.3. Feste, ricorrenze, canzoni: la cultura della memoria dei par­ tigiani Chi viaggi alla fine di aprile o all’inizio di maggio nella regione di confine italo-slovena noterà che in questo periodo vi si cele­ brano numerose festività. Il 25 aprile è il giorno della liberazione dell’Italia dall’occupazione tedesca e dal fascismo342, mentre in

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Slovenia dal 27 aprile del 1942 si commemora la nascita del Fronte antiimperialistico (il precursore dell’O F)343; il 1° maggio viene celebrato sia in Italia, come Festa dei lavoratori, sia in Slovenia, dove la Giornata internazionale del lavoro e festa ufficiale di Stato fu istituita nel 1948, ai tempi della Jugoslavia socialista344. Questa coincidenza primaverile di festività proletarie e antifasciste è forse un caso, ma può essere l’occasione per affrontare il tema della cultura partigiana della festa: essa rientra in quell’affinità inter­ nazionalista tra partigiani italiani e sloveni che consentì loro di collaborare, anziché combattersi soltanto come fecero gli ustase e i cetnici in Bosnia o i partigiani monarchici e comunisti in Grecia. Così, ad esempio, nel 1944 i partigiani sloveni e italiani fe­ steggiarono insieme il 1° maggio in un villaggio liberato: Il 1° m aggio la piazzetta di Visnovicco era adorna con bandiere rosse, tricolori italiane e tricolori slovene. Sul lato di levante della piazzetta era stato eretto un palco per i discorsi e le recite. Alle due del pom eriggio il luogo era zeppo di gente, di partigiani italiani e sloveni. Vi era un gran rumore, tutti parlavano e cantavano. [...] Si ballò fino a notte alta in piazza [ ...] Eravam o felici perché tutto era andato molto bene, nemmeno in più piccolo litigio aveva turbato l’armonia della festa345.

Il 25 luglio 1944 ricorreva la caduta del regime di Mussolini: un evento che i partigiani della Garibaldi Trieste festeggiarono in una località difficilmente raggiungibile per il nemico346. Anche l’anniversario della rivoluzione bolscevica del 1917, da tempo proclamata da Stalin «Grande rivoluzione socialista di ottobre»347, fu festeggiato insieme da garibaldini e partigiani sloveni. Gli slo­ veni avevano anche la Festa della gioventù e la Festa dell’Armata rossa348. In simili giornate per evitare conflitti occorreva una regia prudente, e al fazzoletto rosso che accomunava i partigiani comunisti sia italiani sia slavi andava il posto d’onore349. La cultura partigiana era politicizzata e regolamentata, ma non per questo sterile. La comparsa pubblica dei partigiani croati e di quelli slavi provenienti dalle più lontane regioni sud-orientali fu accompagnata da un elemento folkloristico tipico: il kolo (che in serbo-croato significa «cerchio», «ruota»), una danza in cerchio diffusa in vaste zone della Slavia del sud. Già Alberto Fortis, verso la fine del Settecento, l’aveva vista eseguire in Dalmazia. I ballerini formavano un grande cerchio, si prendevano per mano e iniziavano lentamente a ballare. Il cerchio ruotava a velocità sempre maggiore, assumendo la forma di ellisse o di rettangolo,

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e si concludeva con una serie di grandi balzi in aria350. Nel no­ vembre del 1944, poco dopo il ritiro dal Montenegro delle truppe di occupazione, Paul Parin vide gli abitanti di Niksic danzare il kolo)il. Eseguita da grandi gruppi di partigiani nelle piazze delle cittadine costiere istriane, questa danza, in quanto esibizione di diversità, suscitò nella popolazione italiana le reazioni più svariate: dalla curiosità al rifiuto e alla paura352. Richiamandosi alla propria cultura nazionale, sloveni e croati tracciavano linee di demarcazione rispetto alla popolazione italiana e alle truppe d’occupazione, mentre tra loro si accordavano il rispetto che è alla base di qualsiasi rapporto paritario. In questo processo «alta cultura» e «cultura subalterna» riuscivano a porsi in stretto collegamento, come mostra la presenza nel movimento partigiano di personalità come Edvard Kocbek, Josip Vidmar o Vladimir Nazor. Un cumulo di ricorrenze analogo a quello che ogni primavera si ripete ancor oggi nella regione di confine si verificò all’epoca della guerra partigiana nel mese di settembre. Il comitato di partito di una divisione slovena riferiva al Comitato centrale del Kps che le unità militari della divisione avevano celebrato una serie di anniversari353. Un’elencazione molto simile si trova in una lettera di Lidija Sentjurc del 29 agosto 1944, in cui si chiede alle organizzazioni di partito di tenere, in occasione delle varie ricorrenze, e soprattutto il 16 settembre, grandi meetings™. Il calendario delle feste aiutava i partigiani a strutturare la monotona vita nei boschi e ricordava la serie di commemora­ zioni delle organizzazioni di esuli, ma per certi aspetti anche il calendario liturgico della Chiesa cattolica. Alcuni riti tipici della religione civile nell’Italia e nella Jugoslavia degli anni del dopoguerra hanno origine da questo calendario che i «quadri della nazione di domani» trasferirono dal tempo dei partigiani al tempo di pace. Tale passaggio fu fluido, soprattutto nel caso dei combattenti slavi, che assunsero ben presto i modi di comportamento di un esercito regolare anche nella celebrazione delle ricorrenze. Lidija Sentjurc, membro del Comitato centrale del Kps e responsabile delle organizzazioni del litorale, scriveva in una relazione a pro­ posito dei rapporti tra sloveni e italiani: Celebrerem o il battesim o della Brigata Basovica con la consegna della bandiera e una sfilata, possibilmente in una dolina carsica. A occidente

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proseguiremo l’efficace lavoro svolto finora, grazie al quale in collina i rapporti con gli italiani sono enormemente migliorati. A seguito del no­ stro intervento vi sono state rimostranze sulle leggerezze com piute da chi ha im posto a unità che operano in pieno territorio italiano nomi come G orizia, Isonzo ecc. [...]. L’accoglienza della popolazione verso il nostro esercito è migliorata; la differenza rispetto al passato è chiaramente visibile: con i metodi già noti stiamo ora penetrando in Val Resia e in Friuli. Con le canzoni attiviamo le persone, le mobilitiamo e le integriamo sul piano organizzativo355.

La consegna della bandiera, la disputa sui nomi delle unità partigiane, i canti patriottici: si ritrovano qui, raccolte in uno spazio ridotto, le varie prassi di cultura popolare e di religione civile. Le organizzazioni di partito slovene, per legare a sé più fortemente i partigiani italiani, ricorrevano a volte a tradizionali rituali militari356. Nell’ultima fase della guerra di liberazione operò l’Ufficio del referente per le unità italiane che, affidato a Giorgio Iaksetich, si occupava tra l’altro del lavoro culturale presso le unità italiane presenti nel territorio sloveno. Si è nota­ to a più riprese come il movimento nazionale slavo, e con esso l’antifascismo sloveno e croato, attingessero abbondantemente al repertorio di canti patriottici e internazionalisti; nello stereotipo del partigiano italiano rientravano invece canzoni come Bella ciao o Bandiera rossa. Ma la sinistra aveva un repertorio di canzoni e inni molto più ampio. Iaksetich nelle sue memorie racconta che chiamò nel suo ufficio un combattente che avendo passato molto tempo in galera aveva appreso dagli altri detenuti tutte le canzoni operaie e militari, e si fece scrivere i testi per distribuirli poi ciclostilati357: Nella nostra brigata predominavano gli inni militari, e in particolare le canzoni della guerra rivoluzionaria. [...] In queste predom inava il rosso: quello della bandiera e del sangue, il rosso della stella sul berretto e quello dell’Esercito Rosso, del G uerriero rosso che «vien dall’Oriente» naturalmente rosso358.

Al limite del kitsch rivoluzionario, e forse persino oltre, si situava il profondo rosso dei partigiani della Brigata Fontanot, nato da una situazione di necessità: essi operavano nel sud-est della Slovenia, senza alcun contatto con altre unità italiane. Non potendosi far passare per nazionalrivoluzionari sloveni, ma non potendo nemmeno calcare troppo la mano sulla componente di «identità» italiana, non restava loro che l’«internazionalismo

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puro» simboleggiato dal rosso. Se all’inizio si è detto che una delle principali preoccupazioni dei comandanti e dei commissari dei gruppi partigiani era la noia tipica dei periodi di stasi delle operazioni militari, Iaksetich e i suoi collaboratori cercarono di farvi fronte progettando un piccolo prontuario di lingua slovena. Nell’introduzione si spiegava con chiarezza: L o studio della lingua slovena per gli italiani del Litorale non dovreb­ be essere qualche cosa che abbia solamente un valore pratico. L o studio della lingua slovena è pure una questione politica. Si tratta di colpire la vecchia mentalità, lo sciovinismo nazionale propagato dal fascismo, che partendo dalla nota formula del dividere per dominare arrecò immensi danni ai popoli359.

Di fronte a questi tentativi di lavoro interculturale non va dimenticato che Iaksetich lavorava presso lo stato maggiore parti­ giano sloveno e ne accettava il ruolo di mentore. Ciononostante, la sua attività costituisce una delle non rare dimostrazioni di come il comando sloveno non puntasse a egemonizzare in termini cul­ turali i combattenti italiani o ad assimilarli. Ma la cultura della festa condivisa tra partigiani sloveni e italiani mostra fino a che punto le due parti potessero avvicinarsi.

Capitolo quinto

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1. La statalizzazione della lotta contro l’occupante e le foibe Nelle pagine seguenti si prendono in esame la trasformazione in Stato della lotta partigiana jugoslava e i suoi aspetti repressivi. Si vedrà come la liberazione dal nazismo si sia convertita in un’occu­ pazione della Venezia Giulia da parte delle forze armate partigiane e dei loro organi di polizia. Tra gli aspetti chiave vi sono la storia delle origini e dell’attività della polizia segreta Ozna nel litorale e il fenomeno dei cosiddetti «infoibamenti», che sconvolsero la regione nel settembre-ottobre del 1943 e nel maggio-giugno del 1945, nell’ambito di un regolamento di conti dei partigiani con i loro avversari politici, sociali ed etnico-nazionali. 1.1. La «spada della rivoluzione»: creazione, struttura e funzione dell’Ozna L’analisi della struttura e dei compiti della polizia segreta ju­ goslava nell’area adriatica, in Croazia, Slovenia, Istria e a Trieste può basarsi sui documenti conservati negli archivi sloveni, sulla letteratura memorialistica e sui vari studi più recenti in tema di foibe e deportazioni1. In base ai resoconti di fonte slovena e di documenti croati finiti nelle mani dei tedeschi e poi divenuti bottino di guerra e trasferiti nell’Archivio di Stato sloveno, la nascita dell’Ozna si può datare con certezza tra maggio e agosto del 1944 - diversi mesi prima della liberazione di Belgrado a opera dei partigiani e dell’Armata rossa2. Secondo Tone Ferenc essa avvenne il 13 maggio 1944 presso il quartier generale di Tito. Ne sarebbe stato testimone il comunista sloveno Ivan Macek-Matija, che ricevette

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tardi la convocazione per la riunione istitutiva e giunse in forte ritardo al quartier generale di Drvar (nella Bosnia occidentale)3, dove apprese delPawenuta istituzione della Sezione per la pro­ tezione del popolo (Odsjek za Zastitu Naroda in serbo-croato, o Oddelek za Zascito Naroda in sloveno; abbreviata in Ozna), affidata da Josip Broz-Tito al noto leader serbo Aleksandar Rankovic4. La nascita dell’organizzazione slovena dell’Ozna avvenne poco tempo dopo i colloqui di Drvar, nel giugno del 1944, più o meno nel periodo in cui Tito trasferì il quartier generale sull’isola di Lissa (Vis), dopo che paracadutisti tedeschi avevano attaccato Drvar5. L’Ozna slovena ebbe sede nella zona di Kocevje, perlopiù a Straznji Vrh, sul Kocevski rog (in tedesco Gottscheer Hornwald), dove già si erano svolte le attività preparatorie, e solo alla fine della guerra si trasferì a Lubiana. Evidentemente era stato stabilito fin dall’inizio che a presiederla fosse Ivan Macek-Matija6. In Croazia la polizia segreta assurse al rango di divisione (su quattro brigate)7; nell’autunno del 1944 il suo comando si trovava a Topuska (Lika)8, dove aveva sede anche il comando del IV Korpus. Secondo un ordine del 31 agosto 1944 di cui si è conservata una traduzione tedesca9, il nucleo dell’Ozna croata era composto da membri di unità speciali che già in precedenza, con il nome di Protiv Peta Kolona («Contro la quinta colonna» in serbocroato; la versione slovena era: Proti Peta Kolona) ave­ vano svolto funzioni di intelligence. Maggiore importanza ebbe il fatto che l’Ozna fosse la prima organizzazione panjugoslava di intelligence e guerra psicologica sotto comando comunista. Essa aveva una struttura unificata, dal quartier generale di Tito fino all’ultima delle sue basi del litorale adriatico, e quasi tutti i suoi membri (a differenza dei semplici partigiani) erano iscritti al partito comunista o almeno aspiranti tali («candidati»): in questo senso l’Ozna al momento della sua istituzione era ancora più monolitica della Ceka russo-sovietica, in cui inizialmente, oltre ai bolscevichi, avevano operato molti anarchici e socialri­ voluzionari di sinistra. Poiché le unità dell’Ozna che operavano sul piano militare erano anche sottoposte ai corpi dell’esercito partigiano (per non parlare degli apparati del partito e dell’OF) vennero così a formarsi delle strutture policratiche: cosa spesso trascurata dalla storiografia10. In tal modo è più facile spiegare la discrepanza tra l’atteggiamento da liberatori dei partigiani - che stavano effetti­

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vamente affrancando il paese dagli orrori del regime nazista - e le azioni repressive verso alcuni settori della popolazione. Secondo i dati forniti da Ivan Macek, fino al gennaio del 1945 l’Ozna comprendeva oltre 15 mila persone; questo dato, sebbe­ ne ciò non sia specificato, si riferisce necessariamente all’intera resistenza jugoslava. In Slovenia la Sezione rilevò la preesistente rete del Vos OF, ampliando i collegamenti clandestini già esisten­ ti11. Dal punto di vista territoriale l’Ozna era subordinata a due corpi partigiani sloveni (il VII e il IX Korpus) e agiva nella 4a Zona di operazioni12. Chi si interroghi sulle origini della politica jugoslava di repressione e sui motivi per cui i partigiani crearono uno strumento di repressione come la famigerata polizia segreta Ozna, potrà individuare - oltre alle esigenze immediate della lotta contro gli occupanti tedeschi - tre componenti fondamentali: quella balcanica, quella comunista-stalinista di stampo sovietico e quella autonoma titoista. Già Walter Markov fece riferimento al «modo sbrigativo di liquidare avversari e discussioni» per caratterizzare un certo tipo di combattente (il rivoluzionario bal­ canico) che riteneva destinato a «affermarsi su scala europea»13. Secondo Markov, la protratta disabitudine all’opposizione legale dovuta alla clandestinità, gli anni di peregrinazione inquieta tra le tante privazioni deU’emigrazione e la prigionia comune saldano tra loro proletari e intellettuali, egualmente parte­ cipi della guida ideologica, in una unità che apparirebbe poco credibile sia a letterati salottieri dell’Occidente sia a diffidenti segretari sindacali14.

Dal punto di vista odierno, si offuscano i contorni stessi di soggetti come il rivoluzionario sociale e quello nazionale, che Lev Trockij, ad esempio, sapeva ancora distinguere chiaramente15. Tuttavia, la decisione del 1941 in favore della guerra partigiana era indissolubilmente legata alla questione dell’uso, da parte del partito, dei considerevoli mezzi di potere che si sarebbe procurato a breve. La risposta non era data una volta per tutte, e nelle varie fasi della guerra furono applicate tattiche diverse. Apparentemente semplice è fare chiarezza circa le origini staliniste del terreur jugoslavo. La struttura interna dell’Ozna equivaleva a quella della polizia segreta sovietica: alcuni dei suoi esponenti di primo piano erano stati addestrati alla scuola della Nkvd, intitolata a Felix Dzerzhinsky16, e da Mosca il Commis­ sariato degli Interni inviò «istruttori» per le sezioni dell’Ozna di tutta la Jugoslavia17.

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In effetti l’Ozna, in quanto parte del movimento partigiano, non era semplicemente una realtà a sé stante ma, coerentemente con le direttive di Tito, fu fin daH’inizio lo strumento di uno Stato in costruzione, mezzo per la creazione della nuova Jugoslavia18. Tutta la complessità del fenomeno Ozna non esclude, ma al contrario implica, che negli anni 1942-1945 migliaia di persone avessero modo di conoscere soprattutto la funzione repressiva della polizia segreta jugoslava e delle organizzazioni regionali che la precedettero. L’Ozna non soltanto creò lo Stato, ma contribuì anche a dar vita al «popolo» - ivi comprese le «minoranze» ri­ conosciute - isolando, imprigionando e in alcuni casi eliminando chi non doveva farne parte. Non sorprende pertanto che gli av­ versari «di destra» del socialismo titoista finiscano per ricordare i massacri commessi dall’Ozna o da unità speciali ai suoi ordini ai danni di coloro che avevano collaborato col nazismo - milizie contadine, cetnici, ustase e domobranci19 - mentre i sostenitori del titoismo, primo fra tutti lo stesso Macek-Matija, guardassero soprattutto alle azioni vittoriose della polizia segreta contro gli occupanti italiani e tedeschi e in particolare contro la Gestapo, o ai suoi successi spettacolari nella guerra civile jugoslava, come la cattura del leader dei cetnici Draza Mihailovic20. Chi non voglia limitarsi a contrapporre e soppesare tutti questi aspetti (e sottolineare una funzione equivale a ignorare le altre) farà bene a volgersi soprattutto ad alcuni autori che hanno seguito criticamente l’esperimento titoista o in alcuni casi hanno contribuito a sostenerlo in posizioni di primo piano per poi, dopo alcuni anni, prendere le distanze o quanto meno esprimere pubblicamente una visione più articolata. Il medico ed etnopsicoanalista svizzero Paul Parin, nato in Slovenia, che durante la Seconda guerra mondiale lavorò in un ospediale mi­ litare dei partigiani jugoslavi, si espresse così riguardo al ruolo del terrore nella lotta di liberazione nei Balcani: In simili momenti storici il popolo sem bra sapere ciò che occorre per conquistare una vita buona in libertà. L e autorità e tutti coloro che si erano adattati troppo facilmente al potere degli occupanti abbandonarono i propri posti senza nemmeno bisogno di cacciarli. I peggiori traditori fuggirono, altri furono immediatamente fucilati; spesso nei processi sommari furono commessi gravi errori ed eccessi21.

Parin, scrivendo queste righe parecchio tempo dopo gli av­ venimenti, nei suoi ricordi non può eludere facilmente il tema

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della «giustizia popolare», ed è combattuto fra l’ammirazione per la risolutezza con cui il «popolo» o la «nazione», il narod, regola i conti con i nemici, e il rifiuto degli «errori ed eccessi» che vi si accompagnano. Ogni comandante partigiano ben conosceva i dilemmi che in determinate situazioni gli poneva puntualmente la lotta armata22. Non a caso viene fatto il nome di Milovan Dilas, ma avrebbe potuto essere menzionato allo stesso titolo Edvard Kocbek: proprio questi «rinnegati» del movimento titoista - un cattolico di sinistra come lo sloveno Kocbek e un comunista della prima ora, poi dissidente, come il montenegrino Dilas23 - furono i più pronti a superare gli schemi di contrapposizione troppo netti generalmente utilizzati nella descrizione della guerra. Costoro rielaborarono la lotta partigiana in annotazioni di diario, memorie, romanzi e racconti in cui i temi della violenza, della tortura e del tradimento echeggiano in continuazione: pagarono certo duramente - con l’espulsione dal partito, il carcere e l’iso­ lamento sociale - il coraggio con cui criticarono i poteri speciali concessi ai servizi segreti, la giustizia sommaria, le fucilazioni indiscriminate, ma in tal modo riuscirono a essere pionieri di quell’analisi critica che solo una nuova generazione storiografica, venuta dopo il 1991 in poi, è in grado di proseguire, ora che è più facile staccarsi dall’immagine manichea dei servizi segreti come strumenti per alcuni della lotta di liberazione contro gli occupanti nazisti, per altri della repressione stalinista24. Nel movimento partigiano sloveno il problema del terrore esisteva già prima dell’istituzione di un servizio segreto panju­ goslavo: nella prima lettera da lui indirizzata al comandante e al commissario politico del Soski odred, Ales Bebler, politico del Kps e comandante partigiano, scriveva che occorreva molta cau­ tela nella politica repressiva e che le esecuzioni sommarie erano «assolutamente inammissibili», se non in casi di alto tradimento chiaramente dimostrati25. Simili disposizioni possono indicare solo due cose: che la prassi cui facevano riferimento era vietata, e al tempo stesso abbastanza diffusa da rendere necessario vietarla. L’azione dell’Ozna non si può spiegare esclusivamente con la crudeltà della politica di occupazione tedesca in Serbia e nella Slovenia settentrionale o con la brutalità dell’amministrazione italiana nella Provincia di Lubiana, in Dalmazia e in Montenegro, sebbene questi aspetti vadano sempre tenuti presenti. Dietro gli atti della polizia segreta c’era sempre una precisa volontà di potere, poco sensibile alle regole del gioco democratiche o ai

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diritti nazionali. Anche se ancora nel 1944 i comunisti sloveni erano disposti a rispettare un certo «pluralismo rivoluzionario» nella composizione dei comitati di liberazione regionali, già nel maggio del 1943 Kardelj aveva scritto a Josip Broz-Tito che il Kps controllava l’esercito partigiano dell’OF, l’agitazione e pro­ paganda «e i servizi segreti»26. Come si legge in una lettera del Comitato centrale del Kps, la polizia segreta era «organizzata in modo unitario in tutta la Jugoslavia»; l’Ozna slovena dunque costituiva solo «una parte dell’organizzazione unitaria»27. Tone Ferenc vede nell’istituzione di un servizio segreto strettamente dipendente dal potere centrale jugoslavo una sorta di peccato ereditario della rivoluzione slovena. Nel suo articolo per l ’Enciklopedija Slovenije egli scrive che si trattò di «una grave deviazione dalla decisione presa nella prima seduta dello SNOS, a Crnomelj» il 19 e 20 febbraio 194428. Quando, nell’autunno del 1944, prese il sopravvento in Slove­ nia il caos delle competenze tra organizzazioni di partito, comitati dell’OF e unità della polizia segreta, il Comitato centrale del Kps fece un tentativo per dirimere i conflitti e delimitare i compiti dei vari organismi e organizzazioni. Come si legge nel documento del Comitato centrale, l’Ozna doveva soprattutto «difendere i successi e le conquiste della lotta di liberazione dei popoli jugoslavi dai nemici della Jugoslavia democratica, che anche dopo il definitivo annientamento della Germania hitleriana tenteranno di dissolvere la Jugoslavia democratica dall’intemo»29. Da questa pur generica descrizione dei compiti emerge con chiarezza che l’avversario principale dell’Ozna non era tanto la Germania nazista, contro cui i partigiani jugoslavi combattevano con successo da oltre tre anni. I colpi dell’Ozna dovevano piut­ tosto abbattersi contro tutti coloro che dopo la guerra avrebbero prevedibilmente continuato a opporsi al potere statale «demo­ cratico» che si intendeva erigere in Jugoslavia. Costoro potevano essere sia collaborazionisti delle forze di occupazione sia gruppi di resistenza non disposti a sottomettersi al comando titoista. Questa interpretazione trova conferma nelle considerazioni di Macek-Matija sul modo in cui i partigiani sloveni, e soprattutto l’Ozna, si preparavano al gran giorno in cui le unità partigiane avrebbero dovuto liberare tutte le città importanti: Man mano che la fine della guerra si avvicinava, l’attività della Sezione per la protezione del popolo si intensificava [...]. Il servizio di schedatura

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si rivelò particolarmente im portante nei preparativi per l’occupazione delle città [...]. E sso si basava [...] soprattutto sullo schedario dei servizi informativi e di sicurezza di Lubiana, trafugato clandestinamente prima della resa italiana e da allora costantemente aggiornato. G li schedari e i registri erano alimentati dai dati su tutte le personalità di rilievo che ave­ vano appoggiato le potenze occupanti, che si erano rese responsabili della raccolta di informazioni alla Quisling e colpevoli di tradimento del popolo. A ll’inizio del 1945 vi erano archiviati dati su oltre 17 mila persone30.

Le dimensioni degli schedari dell’Ozna meritano un com­ mento. I partigiani jugoslavi erano soliti affermare che il regime di occupazione italiano a Lubiana fosse privo di qualsiasi «base di massa»; ma se la Vos OF prima e la Ozna poi erano riuscite a raccogliere dati su 17 mila collaborazionisti sloveni, ciò significava che a Lubiana oltre il dieci per cento della popolazione collaborava con gli italiani. Dalle indicazioni di Macek-Matija non si evince se i dossier riguardassero solo abitanti di Lubiana; d’altra parte egli afferma che si trattava dei «dati di tutte le personalità di rilievo» che collaboravano con gli occupanti. Dunque, oltre ai 17 mila collaborazionisti «di maggior rilievo» ve ne erano altri «di minor rilievo», i cui nomi e dati non venivano raccolti31. Ursini-Ursic, che sottolinea la crescente compenetrazione reci­ proca tra strutture di partito e servizi di intelligence fin dai tempi della Vos, conclude osservando che il terrore fascista aveva creato le condizioni psicologiche per cui la maggioranza della popola­ zione slovena locale aveva considerato normale diventar parte attiva di «un servizio d ’inform azioni» spicciolo che segnalava ogni cader di foglia, rendendo, praticamente, invulnerabili le unità guerrigliere che potevano «perm ettersi il lu sso» di operare alle porte di tutti i più grandi centri, a principiare da Trieste32.

F vero che i 17 mila dossier della Vos/Ozna appaiono poca cosa rispetto ai ben 1,3 milioni di fascicoli affiorati nella sola Zaga­ bria dagli archivi dell’Udba (l’organizzazione succeduta all’Ozna) dopo la caduta di Aleksandar Rankovic, che aveva guidato i servizi segreti; ma sarebbe stata proprio l’Ozna sorta durante la guerra di liberazione a costituire il nucleo organizzativo della polizia segreta nella Jugoslavia di Tito fino agli anni Sessanta33. Dalla letteratura più recente emerge che i responsabili, sia nel Comitato centrale del Kpj sia nei Comitati centrali regionali, sapevano perfettamente contro chi dovessero agire i servizi segreti

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durante e soprattutto dopo la lotta di liberazione. La leadership politico-ideologica del partito non si fece scrupoli ad affidare questo compito a un organismo alla cui guida pose un uomo di apparato come Aleksandar Rankovic34, allontanato dal potere con grande ritardo, negli anni Sessanta, da Josip Broz-Tito, di fronte alle pressioni di una «coalizione antiserba»35. La struttura dell’Ozna somigliava a quella di altri organi segreti di repressione e di sorveglianza; Tone Ferenc - che fa ampio riferimento ai ricordi non sistematici di Macek, mettendovi ordine - parla di sei sezioni dell’Ozna, le ultime due istituite nell’aprile del 1945 (sezione di spionaggio nei territori occupati dal nemico; sezione di controspionaggio nei territori liberati; sezione di controspionaggio per la lotta partigiana, unita dopo la guerra all’Esercito jugoslavo; sezione statistica; sezione per il comando della base 24 a Straznji Vrh e di altre basi; sezione per la protezione di infrastrutture e impianti di trasporto)36. Non sempre si riesce a capire quando la narrazione di Macek e Ferenc si riferisca all’Ozna jugoslava e quando alla sezione slo­ vena. Le comunicazioni tedesche dell’ottobre del 1944, invece, si riferiscono sicuramente alla polizia segreta croata, e stando a queste essa era articolata in due grandi sezioni: 1. un’autorità per i servizi di intelligence, lo spionaggio e il controspionaggio; 2. una truppa di polizia organizzata militarmente, ben ad­ destrata e ben armata37. In Croazia le truppe dell’Ozna, raggruppate nel settembre del 1944, si presentavano sotto la denominazione di Knoj (Korpus narodne odbrane Jugoslavie, in sloveno Korpus narodne obrambe Jugoslavie), che richiamava quella dell’organizzazione segreta nazionalista nella Jugoslavia tra le due guerre. La divi­ sione croata Knoj comprendeva quattro brigate; la quarta aveva competenza sull’Istria, il litorale croato e il Gorski Kotar38. Le unità dell’Ozna croata erano «esentate dall’obbligo di fornire informazioni a qualsiasi altra istanza sui motivi della loro pre­ senza in un determinato settore, a meno di diverso ordine». Viceversa, tutte le autorità militari, se il comando o un singolo capo dell’Ozna glielo chiedeva, erano «tenute a corrispondere a tutte le sue richieste, dando informazioni, ponendo a disposizione personale e concedendo vettovagliamenti e armi»39. La polizia slovena fu istituita nel marzo del 1944, con la de­ nominazione iniziale di Vojska drzavne varnosti, o Vdv («Esercito

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per la sicurezza dello Stato»), e aveva anch’essa rango di divi­ sione. Sul litorale e in Gorenjska40 operava la seconda brigata della divisione Vdv; essa obbediva al comando militare del IX Korpus e comprendeva cinque battaglioni (per un totale di 2 mila uomini). Secondo un’affermazione molto generica proveniente dall’entourage di Globocnik, capo delle SS e della polizia, le truppe dell’Ozna erano «italiane e slovene»41. In una storia slo­ vena del IX Korpus si legge che alla Brigata Vdv si unì, alla fine di ottobre del 1944, un reparto dei Gap italiani proveniente da Monfalcone42. Nello stesso periodo sembra si affermasse anche in Slovenia, come in Croazia, almeno nella terminologia ufficiale del Kps e dei comandi dell’OF43, la nuova denominazione di «Korpus narodno obrambo». La maggior parte dei soprusi commessi nell’aprile-maggio del 1945 ai danni della popolazione civile italiana, sintetizzati con le parole chiave foibe e deportazioni, è da attribuire con molta probabilità alle truppe croate e slovene dell’Ozna, sebbene ciò sia difficile da dimostrare in ogni singolo caso. Occorre tener presente che nel litorale la cacciata degli occupanti tedeschi non fu opera soltanto dei partigiani locali sloveni, croati e italiani (questi ultimi spediti molto tardi a Trieste), e che un ruolo de­ terminante in tal senso fu svolto da una forza militare jugoslava estremamente eterogenea dal punto di vista etnico come la 4a armata44. Sebbene, come si sa, le truppe dell’Ozna dipendessero direttamente dal quartier generale di Tito, la responsabilità dei comandi e dei gruppi sloveni e croati dell’Ozna non va sottovalu­ tata, poiché essi conoscevano il territorio e l’avversario, avevano schedari e liste di nomi e avevano mantenuto i collegamenti nelle città. Illuminanti sono i documenti recentemente analizzati soprat­ tutto nell’Arhiv Republike Slovenije e nell’archivio del ministero degli Interni sloveno da vari storici sia italiani sia sloveni. Integrati dall’analisi di altri fondi d’archivio e della memorialistica, essi consentono di ricostruire almeno in parte le attività svolte dalla polizia segreta e dagli altri organi di repressione nelle settimane successive alla liberazione/occupazione di Trieste a opera dei partigiani.

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1.2. «A pieno ritmo»: gli organi di repressione nel maggio-giugno del 1945 La storia di una guerra rivoluzionaria non può essere de­ scritta semplicemente in termini di azione di polizia; se tuttavia la lotta è stata prevalentemente descritta e mitizzata come epos eroico, rimane il compito di individuare in quali circostanze la liberazione si trasformò in nuova occupazione e l’emancipazione in nuova repressione. Ciò è possibile e necessario, soprattutto nel momento in cui è stato verificato che già prima della vittoria il liberatore aveva creato gli strumenti per attuare un regime repressivo di occupazione. Dopo la liberazione anche gli altri organi di polizia e di giustizia istituiti dagli jugoslavi ebbero modo di rendersi conto di quanto fosse grande l’influenza dei servizi segreti (sia della centrale di Belgrado sia delle sezioni croata o slovena): Il presidente del Tribunale del popolo per i crimini fascisti a Trieste [...] il 1° giugno 1945 doveva constatare che il tribunale benché in con­ dizioni di operare già da sette giorni, non poteva cominciare a svolgere il suo lavoro, dal momento che l’Ozna si rifiutava di consegnargli le denunce pervenute. Il tribunale si riunì soltanto una o due volte, nei giorni 11 e 12 giugno 1945. Con l’istituzione dell’amministrazione alleata la sua attività ebbe fine45.

Era senz’altro prevedibile che un tribunale non militare si trovasse in una posizione piuttosto debole in una città occupata da eserciti partigiani46: per questo è interessante verificare se le cose non andassero diversamente nel caso dei tribunali militari che dipendevano direttamente dalle formazioni partigiane come il IX Korpus o la 4“ armata. Le corti marziali perseguivano soprattutto due tipi di delin­ quenti: «criminali di guerra» e «nemici del popolo»47. Alla metà di maggio del 1945 fu istituito un tribunale militare presso il comando cittadino di Trieste; le indagini furono affidate all’Ozna e al pubblico ministero. Già il 12 giugno, tuttavia, le autorità militari sciolsero il tribunale. A luglio tutte le questioni civili furono sottratte ai tribunali militari; ad agosto fu impartito a questi ultimi il divieto esplicito di non pronunciare condanne a morte senza l’approvazione della Corte suprema militare presso lo stato maggiore dell’esercito jugoslavo48. Mentre appare chiaro che l’Ozna dominava in modo pressoché incontrastato l’appara­

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to repressivo, rimane da definire che cosa fosse in questo caso l’Ozna. Un governo sloveno funzionante con sede ufficiale a Lubiana, da cui l’Ozna triestina avrebbe potuto prendere ordini, fu isti­ tuito solo nella seconda settimana di maggio del 1945, e anche dopo di ciò sopravvissero diversi elementi di provvisorietà49. A capo dell’Ozna slovena, nonostante la sua «istituzionalizzazione», rimase Ivan Macek-Matija, che fu anche nominato presidente della Sezione interni presso la SNOS. La liberazione di Trieste era stata pianificata soprattutto in due sedi: nell’ambito del Comitato centrale sloveno (le riunioni più importanti al riguardo furono quelle del 7, 13 e 14 marzo 194550) e nel quartier generale di Tito, trasferitosi a Belgrado dopo la sua liberazione. Il vertice jugoslavo del partito sembrava persino più interessato della direzione dell’OF del litorale a compiere un’azione rapida su Trieste: Edvard Kardelj, ad esempio, il 29 aprile 1945 notava con impazienza che non c’era ancora alcun segno di un’avanzata del IX Korpus in direzione di Trieste51. Sulle modalità della liberazione/conquista sembra invece che non vi fossero significative divergenze di vedute. Già a marzo, durante una riunione del Comitato centrale sloveno, Frane Leskosek aveva chiesto di «preparare per Trieste il persona­ le qualificato - la polizia. In ventotto ore bisogna mettere in funzione tutto l’apparato, prelevare i reazionari e condurli qui, qui giudicarli - là non fucilare»52. Secondo Edvard Kardelj era «necessario imprigionare tutti gli elementi nemici e consegnarli all’Ozna per processarli [...] Epurare subito, ma non sulla base della nazionalità, bensì su quella del fascismo»53. Tuttavia, l’occupazione di una grande città «straniera», no­ nostante la legittimazione del programma nazionale sloveno e la presenza nei quartieri e nelle aziende di cellule attive del Kps, della OF, della Delavska Enotnost e di altre organizzazioni slovene 0 plurietniche, era un compito troppo grande perché il vertice jugoslavo potesse rimetterne la soluzione al Comitato centrale sloveno o ai comitati della Osvobodilna fronta. Inoltre, poiché la ritirata dei tedeschi era imminente, occorreva anche ridefinire chi fosse il nemico. La pretesa di monopolio dei partigiani di Tito - sloveni, croati o di altra nazionalità - portò allo scontro con 1 partigiani italiani, numericamente molto inferiori, a Trieste e dintorni. Inoltre fece sì che gli eserciti partigiani si presentassero da subito come forze di occupazione, senza concedere alcuna

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autonomia amministrativa e organizzativa a un qualsiasi organi­ smo politico che non fosse loro espressione, e ponendosi fin dal primo momento contro tutti i gruppi e partiti dell’antifascismo democratico-socialista, cattolico o liberaldemocratico. Il 27 aprile 1945 Boris Kidric, in una lettera a Edvard Kar­ delj, sollecitò la costituzione di un governo sloveno54. Nelle sue memorie Ivan Macek-Matija sostiene di essere stato coinvolto nei colloqui preparatori per la liberazione di Trieste, svoltisi il 30 aprile 1945 a Belgrado, cui parteciparono Josip Broz-Tito, Edvard Kardelj, Aleksandar Rankovic e Marjan Brecelj. Tito era appena rientrato da Mosca, dove P ii aprile aveva firmato un patto di amicizia con l’Unione sovietica, e il 15 aprile, in un’intervista con il giornale dell’Armata rossa «Krasnaja zvezda», aveva ribadito la posizione jugoslava sulla futura collocazione territoriale di Trieste55. Subito dopo la parata per il 1° maggio - finiti ormai i col­ loqui di Belgrado - Macek e Brecelj partirono per Trieste, dove giunseio solo il 3 maggio, perché nel corso del viaggio dovettero fermarsi più volte. Edvard Kardelj invece era andato direttamente a Trieste, dove poi incontrò Macek56. Il 5 maggio il capo dell’Ozna slovena fu coinvolto nella forma­ zione del governo sloveno ad Aidussina (in sloveno Ajdovscina). Il 9 maggio, dopo un altro viaggio con molte deviazioni, giunse a Lubiana, che era appena stata sgomberata dai tedeschi, e si collocò, con la sezione da lui diretta, nello Slavija-Palais. Macek, che nelle sue memorie non menziona l’attività svolta dall’Ozna negli ultimi giorni di aprile e nei primi giorni di maggio - a parte la significativa frase secondo cui «la sezione lavorava già a pieno ritmo» - sottolinea che i suoi collaboratori erano riusciti a portare con sé da Straznji Vrh l’archivio del servizio segreto partigiano57. Esso gli fu consegnato, finì poi per breve tempo nelle mani dei tedeschi e infine fu ritrovato intatto e portato al ministero degli Interni a Lubiana58. E qui una chiave per comprendere ciò che accadde a Trieste dal 1° maggio 1945. Alla cacciata degli occupanti nazisti e delle loro truppe ausiliarie, ottenuta soprattutto dal IX Korpus e dalla 4a armata, presero parte naturalmente anche unità del Knoj, che obbedivano ai comandi militari pur mantenendo i collegamenti con Straznji Vrh o con Belgrado, per quanto lo consentissero i combattimenti. Fin dal 28 aprile il comando dell’esercito jugoslavo in Slovenia aveva ordinato che i reggimenti partigiani provenienti

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dalla Bela Krajina e dalla Notranjska si unissero alla l a divisione Knoj slovena, e dunque che semplici unità partigiane confluissero in un gruppo dedicato alla protezione dello Stato59. Le truppe di sicurezza inquadrate nel IX Korpus che nel marzo del 1945 furono impiegate contro i cetnici nel Carso e in Val Vipacco parteciparono anche alla liberazione di Trieste60. Ben presto la polizia segreta divenne onnipresente: aveva uomini di fiducia nel comando militare della città e disponeva di proprie carceri, tra cui la famigerata prigione Coroneo a Trieste e un ex manicomio a Lubiana61. Sembra che a Trieste venissero arrestati persino comunisti italiani, considerati poco affidabili, ai quali veniva chiesto di sostenere la causa di Tito se non volevano essere accusati di tradimento62. A Fiume l’Ozna, dal momento dell’ingresso della 4a armata in poi, oltre ai fascisti e collaborazionisti rimasti in città ebbe soprattutto un nemico: il gruppo degli autonomisti che dopo la Prima guerra mondiale si erano schierati in favore dell’autonomia politica della città, orientata culturalmente verso l’Italia. I capi del partito, Mario Blasich e Giuseppe Sincich, furono assassinati e gli altri membri arrestati63. I soprusi, gli omicidi e gli arresti arbitrari compiuti dall’Ozna nelle città della Venezia Giulia attirarono l’attenzione della stampa italiana, dandole spunto per una campagna antijugoslava che creò preoccupazione ai vertici del Kps: Nevenka Troha cita una lettera in tal senso del primo ministro sloveno Kidric a Boris Kraigher, uno dei leader più in vista del Kps64. Forse sentendosi rafforzato da questa lettera, l’i l maggio 1945 Kraigher si rivolse all’Ozna chiedendo la liberazione di dieci detenuti che a Trieste erano considerati antifascisti da sempre65. A Gorizia identificò altri due prigionieri, che «sotto il regime fascista [...] sono stati perseguitati e noti come antifascisti», chiedendo l’immediata liberazione di tutti coloro che erano detenuti «se non sono col­ pevoli di niente», e nel caso degli antifascisti arrestati a Gorizia sottolineò espressamente che i loro contatti con il gruppo catto­ lico di centro non potevano in alcun caso giustificare una loro ulteriore detenzione. Due giorni dopo l’Ozna triestina annunciò che tre dei prigionieri citati da Kraigher sarebbero stati liberati quello stesso giórno e che a Gorizia la polizia segreta aveva rice­ vuto analoghe istruzioni; secondo la stessa fonte altre tre persone dell’elenco di Kraigher non erano state trovate, ma le ricerche sarebbero continuate. Per due detenuti, invece, l’iniziativa del

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funzionario del Kps era giunta troppo tardi: essi erano stati «liquidati da poco»66. Soprattutto quest’ultima formulazione indica evidentemente che l’Ozna non solo eseguiva interrogatori - cosa di cui era ufficialmente incaricata - ma pronunciava ed eseguiva anche condanne a morte, senza passare per i tribunali. I documenti furono pubblicati perché tra i prigionieri liberati si trovava anche il noto antifascista Carlo Schiffrer, che faceva parte del Cln triestino. Negli archivi si trova anche l’ordine di Macek-Matija a Stanislav Runko, capo dell’Ozna a Trieste, affinché cessassero gli arresti di persone accusate di atti compiuti prima della libe­ razione di Trieste e fosse liberato il maggior numero possibile di detenuti. Poiché questa direttiva è datata 20 maggio, anche in questo caso potrebbe essersi trattato di una conseguenza degli sforzi di Kidric per bloccare l’ondata di arresti67. E inoltre provato che esponenti direttivi del Kps come Boris Kraigher chiesero alla direzione dell’Ozna slovena di porre termine alla prassi di non condurre dinanzi a un tribunale chi veniva arrestato dall’Ozna68. Vi sono infine vari indizi di ruberie e requisizioni compiute dall’Ozna nei territori occupati della Venezia Giulia. In una let­ tera indirizzata a Boris Kidric a Lubiana, Kraigher affermava che l’Ozna era «il peggior rapinatore» e che nessuno osava ribellarsi a essa69. Con ciò non si intende certo affermare che la polizia segreta non interrogasse noti collaborazionisti del nazismo o non impedisse attentati fascisti: alla metà di maggio l’Ozna scoprì per esempio due bombe collocate nel comando cittadino di Trieste70, e verso la fine dello stesso mese nei pressi di Gorizia il colonnel­ lo Anton Kokalj, il fondatore dei domobranci nella regione del litorale, fu trovato e consegnato all’Ozna71. Nel luglio del 1945, quando la stampa italiana iniziò a para­ gonare le vittime delle foibe agli ufficiali polacchi assassinati dalla Nkvd a Katyn per ordine diretto di Berija (un richiamo, quello a Katyn, che ebbe una certa popolarità in Venezia Giulia, che portò anche alla pubblicazione di un opuscolo dal titolo Dalle fosse di Katyn alle foibe istriane), Boris Kraigher, che nell’immediato do­ poguerra era il comunista sloveno più potente a Trieste, dichiarò: «Casi come quello di Katyn possono interessare solo uno come Goebbels»72. Egli dava così a intendere che i comunisti sloveni avevano interesse a nascondere quanto accaduto nel maggio del 1945 nella regione giuliana. Diego De Castro, esponente politico

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democratico cristiano e in seguito consigliere del governo militare alleato, fu avvisato dai servizi segreti britannici che era al primo posto nell’elenco dell’Ozna73. In alcune località i capi partigiani italiani riuscirono a inter­ venire efficacemente: il comandante della divisione GaribaldiNatisone, Mario Fantini, d’intesa con il comandante sloveno della città, Dusan Kveder, potè istituire una Commissione per la liberazione dei prigionieri italiani. Nelle poche settimane di vita di questo organismo Fantini riuscì a ottenere la liberazione di diversi italiani incarcerati ingiustamente, quasi tutti nella provincia di Gorizia. Nella stessa Trieste tutti i tentativi del comandante partigiano di far luce sul destino di detenuti incontrarono forti resistenze, sebbene a tal fine Fantini si recasse anche in visita al campo di Borovnica, vicino Lubiana74. Anche gli ordini impartiti dai vertici politici sloveni per tentare di bloccare l’ondata repressiva ormai avviata risultarono inutili. La polizia segreta era ormai uno Stato nello Stato che iniziava a divorare le repubbliche popolari istituite dopo una lunga guerra di liberazione e la società partigiana su cui si basavano, ancora ispirata a un forte egualitarismo e, in certa misura, a una «demo­ crazia di base». Tutto ciò non era percepibile soltanto nel litorale o nelle regioni di confine; il 6 gennaio del 1946 Edvard Kocbek scriveva nel suo diario: «il Moloch delle menzogne, dell’inganno, della violenza ha azzannato il corpo sloveno»75. All’inizio di marzo sempre Kocbek osservava: L’Ozna è un problem a terribile. N essuno sa a chi convenga e chi ne faccia le spese. Nello Slavija-Palais tutti hanno paura di tutti. Esistono anche lì persone sincere e affidabili, ma la maggioranza è com posta di banditi che rubano, mentono, ingannano, usano la violenza e violano i principi del movimento di liberazione76.

Che Kocbek non fosse solo con questi timori è indicato anche dai suoi appunti su un colloquio dello stesso giorno con Josip Vidmar-Sasa. Vidmar, a casa del quale era stata fondata nel 1941 l’organizzazione da cui derivò poco dopo la Osvobodilna fronta, era una sorta di eminenza grigia della inteligencija di sinistra slovena; nel colloquio Kocbek ebbe espressioni ironiche sull’imminente costituzione di un governo sloveno sotto Boris Kidric-Peter. Il problema principale, a suo dire, era l’Ozna: bisognava evitare che Macek-Matija, già capo della polizia segre­ ta, diventasse anche ministro degli Interni, perché se ciò fosse

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accaduto sarebbe equivalso a ratificare tutte le attività svolte dall’Ozna in Slovenia sotto la sua guida77. 1.3. Della scomparsa dei corpi. Storia e memoria delle foibe Il termine foiba, che negli anni 1943-45 bastava a seminare il terrore tra tutti coloro che non facevano parte del nucleo più ristretto del movimento partigiano, è di origine istriana: esso deriva da un piccolo fiume che scompare in una fenditura carsica nei pressi del castello dei Montecuccoli a Pisino (Pazin). Una descrizione letteraria dell’abisso si deve a Giulio Verne: L o sguardo misura un precipizio largo e profondo, le cui aspre pareti tappezzate di lunghe liane intricate, scendono a picco. Nessuna sporgenza in quella muraglia. Non un gradino. Non un ripiano su cui appoggiarsi. Soltanto delle scanalature, qua e là, lisce, logorate, poco profonde, lungo la fenditura delle rocce. In una parola, un abisso che attira, e che non restituisce nulla di ciò che vi cade dentro78.

Gli abitanti di Pisino chiamavano «buco» questo precipizio, mentre Foiba (dal latino foevia, «grotta») era il nome del picco­ lo corso d’acqua che vi si inabissa. In generale erano chiamate «foibe» le numerose gole di pietra calcarea dell’Istria e del Carso triestino: benché oggetto di storie e leggende, erano un fenomeno essenzialmente geologico, e per farne uno slogan, una minaccia e uno spaventoso luogo di morte ci vollero il fascismo e la guerra dell’Asse contro la Jugoslavia. In realtà, nel valutare la problematica delle foibe occorre distinguere fra i punti di vista, a volte totalmente divergenti e a volte molto simili, di diversi attori: 1. gli ambienti degli esuli giuliano-dalmati, alcuni dei quali annoverano parenti, amici o conoscenti scomparsi nelle foibe nel 1943 o 1945 (in questa categoria rientra a mio avviso anche l’elaborazione letteraria del tema da parte di scrittori di origine istriana come Fulvio Tomizza o Carlo Sgorlon); 2. gli estremisti organizzati di destra, che nelle foibe vedono lo strumento di una «pulizia etnica» messa in atto dallo «slavocomunismo» e che hanno prodotto stime altissime, per lo più non verificate, sul numero delle vittime79; 3. la storiografia degli anni Settanta e Ottanta sulla Resistenza, che nelle foibe ha visto soprattutto un eccesso di reazione alle

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violenze del fascismo e del nazionalsocialismo o ha sottolineato soprattutto la spontaneità del regolamento dei conti compiuto dal «popolo», attenuando così le responsabilità dei comandi partigiani80; 4. gli storici di varie università e istituti di ricerca extra­ universitari che hanno eseguito calcoli anche complessi per ricostruire nelle sue giuste dimensioni la verità storica, tra la Scilla della negazione e la Cariddi dell’esagerazione, nei limiti delle possibilità date dalla distanza temporale e dalla situazione delle fonti81; 5. i «negazionisti», per i quali il problema delle foibe non esiste, in quanto la prassi degli «infoibamenti» andrebbe posta in discussione in loto, oppure sarebbe stata limitata a collabora­ zionisti attivi, aguzzini fascisti, spie o sbirri della polizia82; 6. le autorità penali (italiane), alle prese con la questione delle pene da comminare o meno alle persone ancora in vita cui si possono ricondurre responsabilità negli «infoibamenti»; 7. le autorità politiche dei paesi coinvolti (Italia, Slovenia, Croazia), sollecitate a vario titolo a prendere posizione sulle foibe (per esempio attraverso commemorazioni o la dedica di strade)83. Il tema dunque ancora oggi, a oltre sessant’anni dagli eventi, è chiaramente dirompente sul piano politico, ma il suo signifi­ cato non si esaurisce al livello superficiale di questioni come quella dell’eventuale partecipazione di un presidente sloveno o croato a una commemorazione delle vittime delle foibe. Infatti il parallelismo toponomastico - qui una «via dei Martiri della Resistenza», lì una «via dei Martiri delle foibe» - rinvia al tenta­ tivo della destra politica di fare breccia nell’egemonia esercitata dall’antifascismo sulla cultura della memoria. Il discorso sulle foibe conferisce «identità»; parlare delle gole carsiche significa, per gli esuli più moderati come per i neofascisti, dimostrare una costanza e continuità di argomentazione che hanno una dimensione politico-ideologica e nazionale. A partire dalle foibe è insomma possibile ricostruire l’«italianità» e attualizzarla in modo sempre nuovo. Le foibe, pur non essendo prese in considerazione nell’opus di Isnenghi sui Luoghi della memoria o nel lavoro di Matta sui siti commemorativi antifascisti (nel primo avrebbe avuto senso, nel secondo no) sono un luogo italiano della memoria e della com­ memorazione sicuramente controverso ma realmente esistente84.

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Alcuni recenti contributi storiografici hanno reso evidente che la scienza storica può ancora dire qualcosa sulle foibe, sebbene dopo mezzo secolo probabilmente sia già stato studiato, scritto e detto tutto l’essenziale85. Ma torniamo innanzi tutto ai presupposti geologici del paesaggio carsico che diedero la loro specifica impronta ai «re­ golamenti di conti» avvenuti negli anni 1943 e 1945. Quando le SS, dopo il crollo dell’Italia nel settembre-ottobre del 1943, rastrellarono la Venezia Giulia su ordine dato personalmente da Hitler e disgregarono i gruppi partigiani, i reparti impiegati nella «lotta alle bande» furono avvisati «che il terreno, ricco di alture coperte di rocce e frammenti pietrosi, di pendìi e valli ricoperte di boschi, di incavi di doline [...] e di grandi caverne e profonde fenditure, è molto difficile da perlustrare e impone perciò grande attenzione». Di qui la seguente istruzione: «oc­ corre evitare di entrare nelle caverne; se si crede o si sospetta che vi si siano rifugiati dei banditi occorre bloccarne accura­ tamente le uscite con l’esplosivo»86. Questa disposizione non è classificabile come «ordine criminale», ma rispondeva alla diffusa prassi bellica di seppellire vivi in una caverna i nemici, in questo caso armati87. Abbastanza diverso era il caso, anch’esso frequente, in cui nelle caverne si fucilavano degli ostaggi o si giustiziavano degli avversari disarmati e condannati a morte. Già tra il 1941 e il 1943 il regime di occupazione italiano in Slovenia aveva utilizzato come luogo di esecuzione una grotta nei pressi di Lubiana, la Gramozna jama88, da cui dopo la fine della guerra vennero riesumati i resti di centinaia di persone. Le stesse Fosse ardeatine (cave di tufo nei pressi di Roma) erano una sorta di foiba, e anche qui il colonnello delle SS Kappler attuò delle esecuzioni in segreto (mentre di solito le impiccagioni o le fucilazioni avvenivano in luoghi pubblici centrali)89. Anche i partigiani italiani, sloveni e croati, come le SS e le forze di occupazione italiane, si avvalsero della particolare con­ formazione geologica del Carso e non si limitarono ad appro­ fittare dei tanti nascondigli che offriva la zona. Dopo la guerra Ennio Agostini, combattente della Brigata triestina fondata dai comunisti italiani, rievocando la prima offensiva antipartigiana dei tedeschi nell’area tra Trieste e Fiume, nell’ottobre del 1943, ricordava: «nei boschi molti tedeschi andarono a finire per sempre in qualche buca dimenticata»90.

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Il fenomeno delle foibe non fu limitato alla Venezia Giulia e alle aree slovene e croate limitrofe, e i cadaveri che vi furono gettati vennero spesso riscoperti molto tempo dopo91. Nel 1990 vicino Sosice, sulle montagne a ovest di Zagabria, non lontano dall’attuale frontiera sloveno-croata, fu aperto il crepaccio carsico di Jazovka (dal croato jaz, che significa «fenditura nel terreno»), in cui alla fine della guerra erano state gettate probabilmente migliaia di persone92. Milovan Dilas, che negli anni della Guerra fredda si dimostrò piuttosto attento a tale problematica, sostiene che alcuni infoibamenti erano stati compiuti già dagli ustase nel territorio al confine bosniaco-montenegrino93. Anche nel Mon­ tenegro, nel corso della guerra civile tra partigiani comunisti e cetnici, si erano verificati spesso atti del genere, sebbene il termine infoibamento non venisse usato94. Dilas afferma che visitando la sua terra natale gli era apparso sem pre più chiaro che le fucilazioni avventate e alla leggera, insieme alla carestia e alla stanchezza della guerra, erano state importanti motivazioni per il rafforzamento dei cetnici [...]. Ciò che rendeva queste fucilazioni [com piute da comunisti] ancor più tremende e inaccettabili era che non si esitava a uccidere nemmeno parenti [cosa che secondo Djilas accadde spesso soprattutto tra i giovani comunisti in Erzegovina e conoscenti prossimi, e che dopo la fucilazione le vittime venivano gettate nelle doline carsiche.

Si temevano il lutto del nemico, l’articolato rituale di sepoltura serbo-ortodosso e la suggestione esercitata dai lamenti funebri delle donne, e ciò indusse i gruppi partigiani in Montenegro a far scomparire i corpi dei nemici uccisi95. Ma occorre chiedersi se le considerazioni di Dilas si possano considerare indizio di una matrice montenegrina, e dunque «balcanica», della prassi delle foibe. Su un punto si può concordare senz’altro con Rudi UrsiniUrsic, segretario del comitato di liberazione antifascista triestino durante i «quaranta giorni» di governo dei partigiani: anche approfondendo il tema negli archivi di Lubiana o sulle fonti edite, difficilmente si troverà un documento in lingua slovena che dimostri che la prassi delle cosiddette foibe era una forma di esecuzione propagandata ufficialmente dagli sloveni96. Da parte anticomunista, specialmente della «guardia bianca» slovena, si è sostenuto che anche l’Osvobodilna franta, nella zona di Borovnica e Begunje (Provincia di Lubiana), si liberava

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dei nemici che aveva catturato facendoli scomparire in caverne carsiche. Famigerata tra i seguaci delle milizie di villaggio era la caverna del Krim (Krimska Jama) nella zona di Rakitna, vicino Lubiana, dove l’O F aveva una guarnigione e un accampamento che dovette poi abbandonare a causa di un’azione di rastrella­ mento italiana97. Nella regione del litorale, sostiene Ursini-Ursic, le foibe sareb­ bero state usate come minaccia soltanto da esponenti locali del Pei, «anche se solo con l’intento di spaventare i fascisti e i loro complici, non di già per infoibarli fisicamente»98. Effettivamente di foibe si parla proprio là dove meno ci si aspetta che ciò av­ venga: in una raccolta di documenti delle brigate Garibaldi. In una lettera indirizzata dal Comitato provinciale triestino del Pei al comandante del Battaglione Garibaldi-Trieste si legge infatti che non si poteva rinunciare alla «tattica delle “foibe” quando si scovano fuori fascisti responsabili di azioni contro la popolazio­ ne»99. Questa citazione mostra, da un lato, quanto poco venisse negata, tra i comunisti italiani, la prassi delle foibe come metodo di uccisione o come minaccia, e quanto invece essa fosse raccoman­ data, chiesta o ordinata dall’alto. Dall’altra parte, occorre anche precisare che il suddetto documento risale al dicembre del 1943, quando la prima ondata di infoibamenti in Istria era già terminata, mentre la seconda ondata si sarebbe verificata dopo il ritiro degli occupanti tedeschi (maggio 1945), al momento dei regolamenti di conti con collaborazionisti veri o presunti. L’ordine dei capi del Pei triestino al Battaglione Garibaldi-Trieste non ebbe dunque conseguenze rilevanti, a parte possibili casi in cui i partigiani italiani fecero scomparire nelle foibe i cadaveri di soldati nemici caduti (una prassi ricordata anche da Agostini)100. Il problema storiografico non è rappresentato da questi casi individuali di infoibamento, ma dall’entità assunta dagli atti di violenza nel corso dei regolamenti di conti avvenuti nel 1943 e nel 1945101. Non si può escludere che tra gli «infoibatori» vi fossero anche degli italiani, e anzi per la città di Trieste ciò è chiaramente provato. Ma sul litorale in entrambi i momenti vi erano pochi partigiani italiani: nel settembre del 1943 i reparti Garibaldi e Osoppo si stavano ancora formando, e all’inizio di maggio del 1945 il grosso delle formazioni italiane si trovava nelle zone interne, dove era stato trasferito per ordine del comando sloveno cui erano ormai sottoposte (di un’eccezione importante, la provincia di Gorizia, si dirà più avanti).

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Sia gli infoibamenti dell’autunno del 1943 sia quelli della pri­ mavera del 1945 avvennero nel contesto di un crollo: nel primo caso si trattò del crollo del regime di Mussolini e del caos seguito alla resa dell’Italia agli Alleati occidentali, l’8 settembre 1943; nel secondo caso, invece, furono il venir meno dell’amministrazione tedesca e la ritirata della Wehrmacht dalla Zona di operazioni Litorale adriatico a consentire ai partigiani di erigere in Venezia Giulia il «potere popolare», come essi stessi lo definivano. In termini geografici il baricentro degli infoibamenti del settembre 1943 fu la zona croata dell’Istria, mentre nel maggio del 1945 ne furono interessate soprattutto le province di Trieste e Gorizia102. Un’altra importante differenza consiste nella situazione delle fonti. Gli avvenimenti del maggio 1945 possono essere facilmente riordinati (se non dal punto di vista della completezza della docu­ mentazione, quanto meno della sua confrontabilità e integrabilità) con l’aiuto di fonti italiane103, slovene104 e britanniche105. Invece, sugli eventi del settembre 1943 - a parte le annotazioni dei vigili del fuoco di Pola - esiste solo una documentazione italiana, in gran parte posteriore e sicuramente manipolata106. Inoltre se molti degli autori dei fatti avvenuti nel 1945 vennero regolarmente processati, cosa di cui la stampa triestina diede ampia notizia107, nell’autunno del 1943 gli infoibatori, se catturati, furono subito giustiziati dagli occupanti tedeschi o dai fascisti che collaboravano con loro108. Al momento della capitolazione italiana e dell’occupazione tedesca della Venezia Giulia il principale organo di repressione panjugoslavo, l’Ozna, non esisteva ancora. Per questo motivo si è ipotizzato da più parti che gli infoibamenti del 1943, che provocarono da 500 a 700 vittime (rappresentanti del regime fascista, poliziotti, notabili, funzionari del partito, commercian­ ti, insegnanti, contadini, pescatori), fossero parte di una solleva­ zione popolare spontanea che in pochi giorni avrebbe rimosso dalla penisola istriana quasi ogni traccia del regime fascista. «In Istria», ha affermato alla metà degli anni Ottanta Teodoro Sala, «lo Stato italiano sembra dissolversi [...] prima che altrove»109. Inoltre, nel 1943, i partigiani croati e sloveni disponevano ormai da tempo di propri servizi di sicurezza. Ljubo Drndic, cronista della lotta partigiana croata in Istria fino al 1943, ri­ ferisce che Joakim Rakovac, capo dei partigiani croato-istriani, aveva chiesto ai suoi collaboratori di punire i «criminali fascisti e torturatori del popolo», sottoponendoli a un «regolare processo

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da parte dei tribunali militari»: in ogni caso andavano evitati «procedimenti arbitrari e vendette»110. A Pisino (Pazin in croato) fu effettivamente costituito un «tribunale popolare», e anche in altre località istriane, come Antignana e Visinada, si riunirono corti provvisorie111. Nonostante ciò, durante l’insurrezione in Istria si verificarono alcuni crimini efferati che danneggiarono durevolmente il rapporto tra la popolazione di lingua italiana (istriani) e croata (¿strani). Le gole carsiche e alcuni pozzi di miniere di bauxite in disuso furono per la prima volta teatro di un «regolamento di conti» che vide coinvolti da un lato i croati, umiliati e offesi da oltre vent’anni, e dall’altro una parte di quegli italiani cui il crollo dello Stato fascista aveva tolto l’unico potere in grado di proteggerli; ma tra le vittime vi furono anche croati, e non si può escludere che ad alcuni infoibamenti partecipassero anche insorti italiani112. Galliano Fogar, riassumendo i più recenti contributi croati al dibattito sulle foibe del 1943, scrive che all’epoca nella penisola istriana non c’erano né combattenti né commissari venuti dalla Serbia113. Anche i croati che si trovavano in Istria prima che le SS iniziassero le loro «azioni di rastrellamento» erano tutti del posto e non venivano dalla Dalmazia o dall’Erzegovina. Solo con l’inizio dell’occupazione tedesca i comandi partigiani decisero una rotazione di quadri, e persino di interi reparti, facendo com­ battere ad esempio partigiani sloveni nelle zone a popolazione croata o, viceversa, partigiani croati nell’Istria settentrionale114. Ne consegue che gli infoibamenti del 1943 non erano un prodotto d’importazione, ma «un fatto specificamente istriano»115. Non sempre gli abusi erano spontanei come in seguito si disse: testimoni dell’epoca riferiscono di un «omnibus della morte» che faceva la spola tra varie località della penisola per prelevare chi era stato arrestato116. Chi furono dunque i principali responsabili dei regolamenti di conti nella parte croata dell’Istria? Seri elementi sono emersi a carico di alcuni leader regionali del partito fino in tempi recenti: tra loro il comunista istriano di lingua croata Ivan Motika, morto pochi anni fa117. La carriera di Motika presenta diversi elementi contraddittori: il probabile trauma subito da ragazzo a causa del terrore fascista, l’indottrinamento nazionalista jugoslavo ricevuto in collegio, il rifiuto di appoggiare il regime degli ustase. Non si sa in che modo Motika sia entrato in contatto con i comunisti; tuttavia possiamo immaginarlo come avversario fanatico dell’«italianità»,

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ai cui occhi il nemico nazionale, politico e sociale era impersonato sempre dagli stessi soggetti: gli italiani, e soprattutto quelli che rifiutavano il programma jugoslavo di annessione. Una personalità così strutturata, qui solo sommariamente delineata, non aveva probabilmente molte remore a far uccidere i «nemici» finiti nella sua sfera di potere118. Oltre a Motika, famigerato fu anche Ivan Kolic (Giovanni Colich), originario di ¿eliski nei pressi di Barbana (Barban in croato), che in gioventù era stato politicamente attivo nel partito nazionalliberale della «Edinost» (Trieste) e che dal 1927 in poi aveva fatto parte del gruppo clandestino Borba, che si oppose al programma fascista di snazionalizzazione con attacchi armati119. In qualche misura Motika impersonava la componente comunista, Kolic quella narodnjaka (populista) dell’insurrezione in Istria. Per quanto riguarda le vittime, assurse a triste notorietà il caso di Norma Cossetto, studentessa di storia ventiquattrenne che il 26 settembre 1943 fu arrestata da un gruppo di partigiani insieme ad altre 26 persone. Norma era di famiglia italiana agiata; studiava all’università di Padova presso Concetto Marchesi, lo storico catanese dell’antichità iscritto al Pcd’I; nei paesi dell’Istria centrale era nota perché si recava in bicicletta a consultare gli archivi comunali e parrocchiali per preparare la tesi di laurea120. A quanto pare sarebbe stata attiva nel movimento fascista121. Prima di essere gettata con altri prigionieri nella foiba di Villa Surani (vicino Antignana), nella prima settimana di ottobre, la ragazza dovette subire un autentico martirio. Alcuni partigiani arrestati dichiararono agli occupanti tedeschi che la studentessa era stata arrestata e rilasciata più volte, e infine fu violentata da 17 uomini in una stessa notte. Giacomo Scotti, rifacendosi a un parente di Norma Cossetto che vive tuttora a Fiume, è l’unico studioso a sottolineare che la ragazza era di famiglia fascista; gli stupratori le avrebbero offerto di passare ai partigiani, riceven­ done ripetuti rifiuti122. Sebbene gli «infoibati» fossero in maggioranza uomini, la vicenda di Norma Cossetto (una sorta di Maria Goretti delle foi­ be) non fu l’unico caso di violenza contro le donne documentato durante gli infoibamenti del settembre 1943. In un’altra località, accanto al «tribunale popolare» c’era una stanza adibita espres­ samente allo stupro delle donne arrestate. Dalla foiba di Terli furono estratti i cadaveri della diciassettenne Fosca Radecchi, di sua sorella diciannovenne Caterina e della sorella maggiore

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Albina, ventunenne, in stato di avanzata gravidanza. Anche le sorelle Radecchi erano state violentate123. Il 6 ottobre 1943, quando, dopo violenti scontri con i par­ tigiani, le SS e la Wehrmacht avevano ormai preso il controllo della penisola istriana, i pompieri di Pola, sotto la guida del maresciallo Arnaldo Harzarich, iniziarono a riesumare le vit­ time delle foibe. Dalla sola foiba di Vines vennero estratti 115 cadaveri (84 secondo altre fonti)124; fu lì che vennero scattate molte delle fotografie diffuse in seguito in Italia e in tutto il mondo a corredo di servizi giornalistici, opuscoli e libri125. A Vines è stato documentato il ricorso a un metodo di esecuzione utilizzato anche altrove. I prigionieri erano suddivisi in coppie e legati insieme; sull’orlo del precipizio uno dei due veniva ucciso e gettato nel vuoto, trascinando con sé l’altro, ancora vivo126. In molti dei crepacci del Carso furono trovati, insieme ai cadaveri, anche resti di cani; secondo una credenza popolare istriana, la presenza di un cane nero impedisce allo spirito di una persona che non ha ricevuto regolare sepoltura di vagare e, se la vittima è uccisa, di tornare a cercare il suo assassino127. Di sicuro gli infoibamenti del 1943 non significarono la fine di qualsiasi collaborazione italo-slava nella regione. La rapida vittoria militare degli occupanti tedeschi nel settembre-ottobre 1943, l’istituzione di un regime totalitario di occupazione da parte del Gauleiter Friedrich Rainer e l’arrivo dalla Polonia degli specialisti in genocidio capeggiati da Odilo Globocnik, la crea­ zione del campo di concentramento nella Risiera di San Sabba, le deportazioni e i reclutamenti coatti, l’invio di prigionieri politici a Mauthausen e in altri campi, il terribile destino della popolazione ebraica: tutto ciò favorì un riavvicinamento tra italiani, sloveni e croati, soprattutto a sinistra. Nonostante ciò, sopravvisse una sfiducia di fondo reciproca, soprattutto da parte degli antifascisti italiani moderati o comunque non comunisti verso gli avversari sloveni e croati del Kpj; ma anche i comunisti italiani, gli attivisti di partito clandestini a Trieste e nelle città del litorale istriano, i combattenti dei Gap e i partigiani delle brigate Garibaldi guar­ davano ai compagni slavi con una certa cautela. La direzione dei comunisti triestini, ad esempio, scrisse alla segreteria del Pei che dopo l’8 settembre in Venezia Giulia si era creata una situazione critica che dipendeva soprattutto dall’atteggiamento del Kps e del Kph128. All’ammirazione nei confronti dei partigiani slavi, tanto più esperti, si accompagnò da allora in poi un sottile timore. In una

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lettera del Kph istriano alla segreteria del Pei si legge che secon­ do i comunisti italiani in Istria «alcuni episodi avvenuti durante il periodo di occupazione delle brigate partigiane» attestavano «un sentimento più o meno sciovinistico» da parte degli slavi129. Alcuni comunisti italiani legittimavano con questo argomento il rifiuto di entrare a far parte del Kph, cosa che a sua volta provocava incomprensioni da parte croata. In effetti i comunisti croati scrissero questa lettera nella speranza che il vertice del Pei intervenisse per convincere i comunisti italiani in Istria ad aderire al Kph, presentando quest’ultimo come «il centro motore di tutta l’azione politica che sviluppano e realizzano l’Esercito Nazionale di Liberazione dello Zavnoh»130. Non si possono tuttavia ignorare le argomentazioni dei negazionisti, soprattutto su quanto avvenuto nella stessa Trieste e nella foiba di Basovizza, dichiarata monumento nazionale. Non va infatti trascurato che nel settembre del 1943, e nel maggio del 1945, un’«epurazione» dei residui di venti anni di fascismo e di due anni di collaborazionismo era inevitabile; i partigiani e gli insorti non volevano aspettare l’arrivo degli Alleati, anche perché temevano di trovarseli contro come in Grecia131. Ma è altrettanto evidente che l’Ozna, la Narodna zascita (Guardia popolare) e gli altri organi incaricati degli arresti procedevano selettivamente e arbitrariamente; il risultato era che noti esponenti o simpatizzan­ ti fascisti rimanevano in libertà o venivano rilasciati dopo una breve detenzione, mentre avversari non meno noti del regime di Mussolini rimanevano a lungo in carcere o scomparivano per sempre. Eloquente fu il caso del sindaco collaborazionista Cesa­ re Pagnini, interrogato su incarico della Narodna zascita da un procuratore dello Stato evidentemente ignaro dei luoghi, e ben presto liberato132; solo all’inizio del 1946 gli Alleati avviarono un nuovo procedimento nei suoi confronti133. Sugli avvenimenti del maggio 1945 esistono relativamente poche testimonianze oculari, se si considera il numero di persone coinvolte134. Già Elio Apih ha tentato di ricostruire, con l’aiuto di documenti britannici, gli eventi svoltisi attorno al «pozzo» di Basovizza. Le carte a suo tempo trascritte da Apih nel Public Record Office e conservate all’istituto regionale per la storia del movimento di liberazione sono state successivamente esaminate da diversi autori, che sono giunti a interpretazioni completamente diverse135. Da un resoconto che si trova nell’Archivio del ministero degli Esteri italiano si apprende solamente che «tra il 2 e il 4

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maggio diverse centinaia di italiani erano stati portati a Basovizza, dove vennero gettati nel famoso “pozzo” (welP) della miniera»136. L’utilità di questo documento come fonte è stata posta in dubbio da Roberto Spazzali; inoltre la frase citata appare isolata e priva di riferimenti al contesto immediato. Tuttavia, in un altro passo il testo accenna al fatto che in Istria nel 1945 diverse foibe che nel 1943 erano state teatro di esecuzioni furono nuovamente utilizzate per far scomparire cadaveri. Più importante fu forse, soprattutto in Istria, l’impiego delle foibe come minaccia per ottenere l’obbedienza di prigionieri137. Quando, nel 1946, gli Alleati iniziarono a effettuare ricer­ che in alcune gole carsiche della Zona A della Venezia Giulia, trovarono pochi resti di persone giustiziate. Nel caso della foiba di Gropada, che si trovava a pochi chilometri di distanza dalla frontiera, nella Zona B amministrata dalla Jugoslavia, le auto­ rità sostennero che il suolo era ricoperto da uno spesso strato di fango, che rendeva difficili le ricerche138. Tuttavia, in alcuni casi attraverso l’identificazione delle vittime si venne a sapere di persone sospettate di aver partecipato agli infoibamenti139: alcune di esse facevano parte della Narodna zascita140 e furono poi cooptare dagli Alleati nelle forze dell’ordine141. Dalle fonti del giugno 1946 emergono però anche oscure storie di amore e passione, vendetta e arricchimento individuale, che danno a questi infoibamenti una connotazione soprattutto privata. Essi mostrano quanto debole fosse il controllo esercitato dagli organi repressivi titoisti sulle singole formazioni armate che pretendevano di tutelare il diritto e la legge in nome della Jugoslavia142. Famigerata divenne la cosiddetta banda Segré, così chiamata dal nome di una villa di Trieste in cui si era sistemato il gruppo. I suoi membri - un’accozzaglia di ex partigiani, fascisti opportunisti, transfughi e criminali non dissimile per mentalità dai Freikorps del 1918 - si erano messi a disposizione della polizia come «gruppo di intervento» e divennero noti perché autori di arresti arbitrari, torture e omicidi. Il gruppo fu processato sotto il governo mili­ tare alleato; poiché gran parte della banda era fuggita, si riuscì a punire effettivamente solo uno dei suoi membri143. Draconiane furono le pene inflitte agli infoibatori dai tribunali militari alleati e dalla magistratura italiana in quelle zone della Venezia Giulia restituite già nel settembre del 1947 allTtalia144. Non è facile rendere giustizia alla problematica delle foibe utilizzando le categorie dell’«etnico» o del «nazionale». Negli

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anni Quaranta lo stesso fatto poteva essere interpretato in modi radicalmente opposti, a secondo dei punti di vista: le persone coinvolte negli avvenimenti tendevano a sentirsi confermate nelle loro opinioni ipso facto, senza mai preoccuparsi realmente dell’effettivo svolgimento dei fatti. Tuttavia, la collaborazione tra partigiani e criminali appare un fenomeno temporalmente e localmente circoscritto: teatro di questa collaborazione furono nel settembre del 1943 la penisola istriana e nel maggio del 1945 la città di Trieste, con la sua infrastruttura portuale quasi indecifrabile per i partigiani provenienti da fuori145. L’altra area dove si concentrarono gli infoibamenti del 1945 fu la provincia di Gorizia, dove nella seconda metà degli anni Quaranta furono continuamente scoperte foibe e fosse comuni. In un rapporto di polizia del dicembre 1946 vengono descritte le terribili cir­ costanze in cui fu identificata parte dei cadaveri estratti da una fossa comune vicino a Sella di Dol di Montesanto (Gorizia)146. Gli italiani, quasi tutti nati negli anni 1923-1926 e originari della Venezia Giulia o di Fiume, erano stati condannati a morte il 3 maggio 1945 da un cosiddetto «tribunale del popolo», giustiziati e sotterrati sul posto147. Anche nella zona di Doberdò del Lago e di San Martino del Carso, dove «durante il periodo della liberazione si ebbero delle esecuzioni capitali a opera di partigiani italiani e sloveni per moventi di natura politica e di vendetta personale», i cadaveri furono spesso gettati in foibe «perché non lasciassero tracce»148. Il caso è interessante in quanto la popolazione slovena della zona non volle collaborare con le autorità italiane nelle ricerche: «è da tenere presente», si legge in un rapporto di polizia, «che la popolazione carsica di origine slovena, più che orientata a un senso di omertà, nella maggioranza, ha vivo sentimento naziona­ listico, per cui tutti coloro che furono soppressi sono considerati traditori della causa slovena, qualunque sia la loro origine, italiana o slava»149. In questa zona le conseguenze dello squadrismo e della pluriennale politica di assimilazione erano particolarmente avvertibili. Anche personalità estranee ai gruppi e alle fazioni locali rifiutarono di deporre per paura di rappresaglie. Negli anni passati c’è stata tutta una serie di tentativi di ana­ lizzare il fenomeno degli infoibamenti in termini di «anatomia della violenza» (Wolfgang Sofsky). Giampaolo Valdevit ha fatto notare che le foibe erano spesso luoghi dove i contadini deposi­ tavano carcasse di animali e rifiuti: quindi chi gettava qualcuno

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in una foiba voleva segnalare che la vittima non meritava nulla di più che finire in un luogo riservato a cose di cui ci si voleva sbarazzare il più rapidamente possibile150. Ciò ricorda la prassi montenegrina, descritta da Milovan Dilas, di gettare persone in fosse comuni in cui di solito si seppellivano solo i cani151. Lo storico sloveno Peter Vodopivec ha replicato a Valdevit di non credere a un particolare carattere simbolico che gli infoibamenti avessero significato simbolico, visto che in parecchie località furono compiuti da tutte le parti in conflitto152. Se si prescinde dalla particolare situazione del settembre del 1943, molti infoibamenti presentano comunque diversi connotati del ricorso collettivo alla violenza, con le «tre tipiche modalità d’azione» di cui parla Wolfgang Sofsky.153 La violenza sembra assumere durata e continuità, «attraverso l’assuefazione o l’isti­ tuzionalizzazione», e la prassi delle foibe può diventare persino un habitus mentale. Ciò è indicato dal fatto che in alcuni casi nel maggio del 1945 furono scelti per le esecuzioni gli stessi luoghi del settembre del 1943. E questa la spiegazione apparentemente più assurda, ma in fondo ovvia: le foibe venivano utilizzate perché c’erano e perché erano già state utilizzate. Come scrive Sofsky, «le abitudini sono predisposizioni a senso unico che vengono innescate in modo per così dire automatico da situazioni ricor­ renti. Le riflessioni o le decisioni diventano superflue: l’impulso alla violenza si trasferisce alla situazione stessa»154. Appare plausibile, come ha affermato Giacomo Scotti, che la maggior parte degli infoibamenti avvenuti in Istria nel «set­ tembre nero» del 1943 si verificassero in un momento in cui le azioni di rastrellamento delle SS erano già iniziate, «seminando la morte e distruzioni»; per i partigiani restava solo l’alternativa tra liberare i prigionieri o sbarazzarsi di loro in altro modo155. Alla seconda settimana di settembre del 1943 risalgono gli atti conservati nell’Archivio di Stato sloveno, che documentano soltanto come tutto accadesse molto rapidamente: il disarmo delle truppe italiane, l’insurrezione partigiana in Istria e l’arrivo delle SS. Si tratta di una lettera in serbo-croato indirizzata dal comando croato-sloveno in Istria a diversi organismi del Kph e del Kps156 e di un rapporto della Direzione regionale del Kps dei Barchini/Istria slovena al Comitato del Kps del litorale157. Il primo documento è firmato, tra gli altri, proprio da quel comandante partigiano e capo della polizia segreta croata che in seguito fu accusato per gli infoibamenti nell’Istria centrale: Ivan Motika138.

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Nel secondo documento si legge: « l’Istria è attraversata dalle colonne motorizzate tedesche, solo lungo le vie principali e la costa, mentre l’interno è ancora libero. Qui prevale lo stato di guerra [...]. La questione è soltanto per quanto tempo ancora ci lasceranno in pace»159. Già si parla di esecuzioni sommarie da parte dei tedeschi: «secondo le ultme notizie, a Materija sono stati trucidati quattro civili e dieci-dodici soldati italiani, e altri sette civili sono rimasti feriti. Essi sono stati colpiti in strada»1.60. In alcuni casi le foibe e le deportazioni del 1945 servirono forse a eliminare testimoni scomodi dei soprusi del 1943 o a im­ pedir loro di deporre, ma esse erano, al tempo stesso, anche una forma di violenza dimostrativa non assimilabile alle impiccagioni o fucilazioni pubbliche, molto più frequenti sia in Italia sia in altri teatri di guerra. Le esecuzioni di piazzale Loreto a Milano o quelle di via Ghega a Trieste, oltre al lutto, suscitarono sentimenti di rabbia e di vendetta. La «scomparsa» (paragonabile, in effetti, a quella dei desaparecidos vittima di diverse dittature militari latino­ americane) creava insicurezza e paralisi in modo molto diverso dall’ostentata messa in mostra dei cadaveri di coloro che erano stati giustiziati. Alcuni parenti degli italiani arrestati dal maggio del 1945 in poi si trovarono a vivere una vera e propria odissea, peregrinando per le carceri e i campi di prigionia della regione, per poi dover accettare - fino all’eventuale riesumazione e iden­ tificazione delle spoglie - la scomparsa della persona cercata. Si sapeva che esistevano le foibe e che in molti vi avevano perso la vita, a prescindere dal fondamento delle dicerie sui lamenti provenienti dal fondo del precipizio uditi per diversi giorni. Lo slogan «in foiba» era una minaccia costante, che durava fino a quando non si fosse completamente (ri)affermato un potere statale - quello del nemico o il proprio. Essa aveva, per citare ancora una volta Sofsky, «un senso sociale autentico», sebbene nel caso degli infoibamenti ci fossero soltanto carnefici e vittime, e quasi mai spettatori. Tale «senso» consisteva nell’effetto altamente intimi­ datorio prodotto dagli infoibamenti e dalle voci che aleggiavano su di essi. Soprattutto i prigionieri subivano stress tremendi ogni volta che venivano trasferiti da un carcere all’altro. Non c’è dubbio che gli infoibamenti non fossero semplicemen­ te un metodo per eliminare rapidamente i cadaveri dei giustiziati. Essi recavano tutti i connotati dell’eccesso, la terza categoria di atti di violenza menzionata da Sofski. Molte delle esecuzioni erano precedute da vere e proprie orge di maltrattamenti e le

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donne venivano spesso violentate; i cadaveri estratti dalle foibe recavano i segni della tortura, sebbene non sempre si riuscisse a stabilire con certezza se le ferite erano state conseguenza della caduta nel precipizio. Qualsiasi giudizio storico definitivo sulla problematica delle foibe deve affrontare un dilemma. Sicuramente occorre distingue­ re tra le fucilazioni - legittimate da un processo sommario - di funzionari e sbirri fascisti a tutti noti e invisi e i brutali soprusi ai danni di persone arrestate in modo più o meno arbitrario. Uno degli svantaggi di questa distinzione è che il ricorso «regolare» (dal punto di vista dell’etica partigiana) alla prassi delle foibe poteva portare con sé (o giustificarne) il possibile «abuso». I confini tra esecuzione «legittima» e atto di vendetta sono dunque meno chiari di quanto si vorrebbe supporre. Tuttavia processi contro gli infoibatori si tennero non solo a Trieste, ma anche in Jugoslavia161. Se invece ci si arrocca su una posizione «legalista», si affer­ ma che solo gli Alleati occidentali, e successivamente le autorità italiane, avevano il diritto di processare i fascisti accusati: cosa che per lo più non avvenne. L’insurrezione contro la dittatura e il regime d’occupazione e il ruolo dei partigiani jugoslavi nel crollo del fascismo e del nazionalsocialismo verrebbero sostanzialmente ignorati, rendendo così un grande favore ai neofascisti e a chi intendeva strumentalizzare le foibe. La ricerca sociale più recente rende disponibili strumenti che consentono di prescindere in gran parte dalle motivazioni individuali degli infoibatori. Anche il valore del nazionalismo come matrice ideologica degli atti di violenza va relativizzato162. Anche a voler attribuire alla famiglia di Norma Cossetto una corresponsabilità per la politica fascista di snazionalizzazione dal 1922 in poi e per le violenze commesse dalla Mvsn negli anni 1941-1943, non sarebbe certo semplice definire su quella base l’entità delle sanzioni o delle pene che potevano essere legitti­ mamente applicate. A differenza di molte violenze commesse nelle guerre e guerre civili jugoslave dal 1991 in poi, e soprattutto nella guerra bosniaca, sembra che gli infoibamenti non avvenissero generalmente tra vicini; in ogni caso non ci sono prove sufficienti in tal senso. Si ha piuttosto l’impressione che le esecuzioni nelle foibe, e successiva­ mente l’esodo, siano stati il triste culmine della totale disgregazione di una società multietnica. La politica delle nazionalità adottata dal fascismo aveva spinto le minoranze slave ai margini della

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società; esse, soprattutto nelle campagne, conducevano una vita in gran parte autonoma rispetto al contesto italiano circostante. Tutti gli sloveni e croati, senza eccezione, potevano accusare quasi tutti gli italiani di non aver fatto nulla per opporsi alla politica di snazionalizzazione e oppressione del regime fascista. Nel luglio del 1944 alcuni esponenti della «corrente di centro» cattolico­ slovena a Trieste osservarono, in un memorandum sugli italiani, che nei venticinque anni precedenti non si era udita «da quella parte nemmeno una flebile voce che esortasse a restare calmi e allentare la stretta del terrore. Al contrario, la partecipazione a questo terrore, o quanto meno l’appoggio silenzioso nei suoi confronti, erano stati generali»163. I conflitti armati, quando non vengono combattuti da eserciti di lunga tradizione, disciplinati e ben equipaggiati appartenenti a paesi governati in modo sostanzialmente democratico, creano situazioni propizie all’azione della criminalità organizzata. A volte si ha l’impressione che accanto alla struttura di comando ufficiale delle unità partigiane e dell’Ozna esistesse una seconda rete, in­ formale, i cui membri furono responsabili di parte delle violenze. Ciò fu vero soprattutto nei casi in cui una persona denunciata dai partigiani in un altro luogo - ad esempio in Istria - veniva assassinata a Trieste con una sorta di «rogatoria». Chi intenda spiegare gli infoibamenti non può ignorare gli elenchi dell’Ozna e delle organizzazioni che l’avevano preceduta. In effetti la Venezia Giulia-Julijska Krajina sarebbe il terreno adat­ to per uno studio sulla delazione come quello compiuto da Sheila Fitzpatrick utilizzando lettere provenienti dagli archivi sovietici164. Il carabiniere non parlava sloveno, e per questo aveva bisogno di un delatore, si notava già nel 1920 in un articolo dell’«Edinost» sloveno165. Si potrebbe proseguire con le citate osservazioni del console tedesco sulle spie negli omnibus che andavano e venivano da Trieste carichi di pendolari sloveni166, senza dimenticare il lavoro istruttorio svolto dall’Ovra per conto del Tribunale spe­ ciale, i sospetti, che i fascisti esasperarono fino alla paranoia, ma che forse non erano del tutto infondati, sul controllo esercitato su alcuni settori della società locale dal clero sloveno167, e infine lo spionaggio e l’infiltrazione dell’opposizione politica da parte della Gestapo (il caso di Mariuccia Laurenti)168. Al più tardi nel settembre del 1943, la delazione aveva ormai acquisito una propria dinamica nei diversi schieramenti politici, e di lì in vasti settori della popolazione. Come ha scritto Gal­

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liano Fogar, gli occupanti nazisti furono «sorpresi» per la «gran quantità di denunce anonime che pervenivano ai loro uffici e comandi a Trieste, sufficienti per la deportazione in Germania o per l’incenerimento nel forno crematorio della Risiera di San Sabba»169; ed è stato già ricordato il sistema di informazioni di cui si avvaleva l’Ozna170. La parte «negazionista» ha avanzato talvolta l’ipotesi che i civili infoibati apparentemente non colpevoli di nulla fossero spie o de­ latori smascherati. Questa versione sarà appoggiata da chi in linea di principio è disposto a concedere alle decisioni dell’apparato dell’Ozna (e delle strutture che l’avevano preceduta), in quanto organi di un «potere popolare» antifascista, una fiducia basata su motivazioni politiche e non scientifiche. Allo stesso titolo si potrebbe sostenere un’argomentazione opposta: la maggioranza delle «vittime civili» delle foibe non era fatta di delatori, ma di vittime della delazione. In entrambi i casi si dovrebbe supporre un livello di disgregazione sociale tremendo, per trarne, al di là delle discussioni politiche, una conclusione storiografica analoga. Né si avrebbe molto da guadagnare, in ultima analisi, se si appurasse che gli infoibamenti erano di origine «balcanica»171. Che i fascisti e i nazionalsocialisti strumentalizzassero ai propri fini gli omicidi delle foibe non assolve né legittima gli infoibatori: ma lo storico è tenuto a distinguere tra gli eventi in sé e il loro utilizzo a fini propagandistici. Altra questione è svolgere ulteriori ricerche per comprendere i motivi per cui la propaganda trovò un terreno tanto fertile. Il superamento sto­ riografico della problematica delle foibe è qualcosa di diverso dalla sua strumentalizzazione da parte degli occupanti nazisti e dei fascisti della Rsi; in questo senso la storiografica sul tema si trova all’inizio, più che alla fine, delle sue indagini. 2. Aspetti dell’esodo degli italiani dalle province adriatiche La linea di confine che fino alla stipula del trattato di pace (1947) separò la sfera d’influenza della Jugoslavia da quella degli Alleati occidentali prese il nome del capo di stato maggiore delle forze angloamericane nel Mediterraneo, generale Morgan, che l’aveva concordata con il generale jugoslavo Arso Jovanovic. I partigiani sloveni si erano già ritirati dalle zone della Carinzia meridionale precedentemente occupate; il 12 giugno 1945 l’eser­

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cito jugoslavo, su pressione delle potenze occidentali, dovette abbandonare Trieste e dintorni dopo che Stalin aveva fatto chia­ ramente comprendere di non essere disposto, su questo punto, a sostenere la posizione jugoslava172. Indignate per questa sconfitta, ma non ridimensionate nel loro orgoglio, le autorità jugoslave si dedicarono a sviluppare la propria amministrazione nella parte orientale della regione giuliana, la cosiddetta Zona B, posta sotto il loro controllo173: quest’ultima, da non confondere con la molto più piccola Zona B del Territorio libero di Trieste (che sarebbe stata istituita solo con il trattato di pace) comprendeva tutta lTstria, il Carso e l’alta e media valle dell’Isonzo, e fu, insieme a Fiume e Zara (ormai sistematicamente chiamate Rijeka e Zadar), la zona da cui iniziò l’esodo degli italiani174. Nella regione adriatica il potere esecutivo dopo la liberazione era costituito dall’amministrazione militare jugoslava e dai cosid­ detti «comitati popolari di liberazione» sorti durante la guerra nelle zone liberate della Jugoslavia. In tali comitati, originaria­ mente concepiti come semplice organo di potere provvisorio, il Kpj vide, a partire dall’autunno del 1942, lo strumento adatto per rivoluzionare o sovietizzare il paese e l’asse portante di un ordine postbellico antiborghese e anticapitalistico175. Nelle province appartenute fino al 1945 all’Italia i comitati popolari di liberazione divennero agenti dell’annessione; essi si occuparono dell’adeguamento strutturale dei territori liberati al sistema economico e sociale della Jugoslavia, che allora si trovava in una fase di cambiamento rivoluzionario176. In questo quadro, secondo gli jugoslavi, avrebbero dovuto trovare posto anche gli organi rappresentativi della «minoranza» italiana, così com’erano concepiti nei decreti di annessione dell’autunno del 1943. Tuttavia per gli jugoslavi fu tutt’altro che facile, nel lungo periodo, reperire collaboratori italiani da coinvolgere negli organi locali dello Stato postrivoluzionario. In un articolo scritto per il 45° anniversario dell’Unione degli Italiani l’insegnante Antonio Borme, leader della minoranza, scriveva che l’Unione non po­ teva essere la «effettiva, genuina organizzazione dei cittadini di nazionalità italiana» per il fatto stesso che «la maggioranza degli italiani non ha condiviso le sue argomentazioni, non ha ascoltato il suo invito e se ne è andata»177. Il fatto che dopo il 1945 dai territori adriatici se ne andasse la maggioranza degli italiani, e non semplicemente una consistente

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minoranza - com’era avvenuto invece negli anni Venti e Trenta per gli sloveni e i croati giuliani -, richiede qualche spiegazione. 2.1. «Finis Italiae». Gli inizi dell’esodo Innanzi tutto occorre fare una breve storia dell’uso della parola esodo in relazione alla partenza degli italiani dall’area adriatica nord-orientale. Nelle fonti il termine compare inizialmente in un contesto, per così dire, neutro. In effetti di partenza dei funzio­ nari italiani dalla zona di confine orientale si parla per la prima volta, in termini di disapprovazione, nel 1944, in una lettera di Alessandro Pavolini, segretario politico del partito fascista della Rsi178: sembrava che gli italiani che lavoravano nell’amministrazio­ ne pubblica, giunti numerosi in Venezia Giulia tra le due guerre, volessero prevenire l’amministrazione militare jugoslava che avreb­ be riconsiderato la loro posizione come previsto nel Manifesto di Pisino del settembre del 1943 e nei decreti di annessione. Tuttavia questa sarebbe un’interpretazione troppo ingenua: in realtà gli impiegati pubblici italiani, come già avvenuto in Istria nel settembre del 1943, non dovevano temere soltanto la verifica «legale» della loro situazione finalizzata a «epurare» l’apparato statale da coloro che si erano compromessi con il fascismo, ma anche il terrore spontaneo e le rappresaglie dell’Ozna. Impedir loro di trasferirsi in una delle province italiane a ovest significava esporli a rischi concreti179. Come ha documentato Carlo Schiffrer, l’esodo di parte della popolazione italiana iniziò già nel 1942, con la comparsa dei primi gruppi partigiani nei territori allora prevalentemente popolati da slavi, e soprattutto nelle cittadine del Carso e della zona del monte Nevoso sviluppatesi in epoca fascista a partire dai preesistenti villaggi slavi. A Postumia (Postojna), lungo la linea ferroviaria Trieste-Lubiana, viveva una colonia italiana di circa 4 mila persone (su un totale di 6 mila abitanti); a Villa del Nevoso (Ilirska Bistrica) gli italiani erano un quarto della popolazione180. Essi compresero presto molto chiaramente che nella situazione di guerra e crisi generale i loro avamposti in territorio «nemico» non erano più difendibili. La vicina Provincia di Lubiana era un focolaio inesauribile di disordini: sia perché gli sloveni del litorale pretendevano gli stessi diritti dei loro connazionali che vivevano nel nuovo territorio entrato a far parte dell’Italia, sia perché i

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partigiani attraversavano sempre più spesso il «confine verde» del Carso. Con l’allargamento della resistenza la situazione degli inse­ gnanti e dei parroci italiani si era fatta sempre più scomoda. Molte scuole italiane del Carso, chiuse dopo la caduta di Mussolini o al momento dell’armistizio, non furono più riaperte181. Dopo il «settembre nero» istriano del 1943 l’esodo non riguardò più solo il Carso e la zona del Nevoso: a Pola (Istria) gli esponenti del Cln interrogati dalla commissione alleata dichiararono che dopo l’8 settembre 1943 se ne erano andati 2 mila italiani182. La fuga riprese nel 1945, all’inizio dell’occupazione jugoslava183, ma a questo punto si deve ormai parlare di cacciata, sebbene «non ci fosse una politica ufficiale di espulsione da parte del governo jugoslavo»184: i decreti delle autorità jugoslave colpivano, come preannunciato dai decreti di annessione dei partigiani, soprat­ tutto quanti erano giunti nella regione dopo il 1918, poiché a costoro era «severamente vietato portare via anche solo in parte i loro averi o disporne in un qualsiasi modo (vendita, donazio­ ne ecc.)»185. A ciò i profughi risposero con la richiesta che agli abitanti della Venezia Giulia in procinto di partire o già partiti alla volta delle province occidentali fosse concesso di rinunciare ai loro averi in favore dello Stato italiano, che avrebbe quindi potuto chiedere alla Jugoslavia un indennizzo corrispondente e concedere in cambio di ciò agli esuli un’abitazione in una località italiana a loro scelta186. Secondo un rapporto proveniente da Fiume i motivi per cui gli italiani se ne andavano a occidente sempre più numerosi erano soprattutto di quattro tipi: 1. motivi economici, giacché la politica delle autorità jugoslave conduceva alla rovina molti piccoli imprenditori, commercianti e liberi professionisti; 2. i provvedimenti contro i collaborazionisti, dal momento che la definizione di collaborazionista venne ampliata al punto da includere qualsiasi collaborazione, anche solo indiretta, con gli occupanti tedeschi avvenuta dopo l’8 settembre 1943; 3. le leggi contro il «sabotaggio economico», che crearono un clima di vigilanza onnipresente, di cui soffrivano soprattutto i lavoratori e i tecnici delle aziende ancora aperte; 4. i provvedimenti contro la libertà di movimento, in par­ ticolare tra la Zona A e la Zona B della Venezia Giulia, i quali, generando la sensazione di trovarsi in una gabbia o in un carcere,

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potevano rafforzare la volontà di andar via anche in chi inizial­ mente aveva pensato di rimanere187. Le probabilità che Fiume potesse tornare all’Italia nell’ambito dei negoziati di pace erano fin dall’inizio scarsissime: nel febbraio del 1946 la stampa ventilò l’idea che il governo italiano avesse già rinunciato a Fiume188. Ai visitatori stranieri Fiume offriva 10 spettacolo di una città irreale, in cui il passato, il presente e 11 futuro erano avvolti nella nebbia: nell’immediato dopoguerra nessuna delle aziende danneggiate dalla guerra era stata ria­ perta e anche moltissimi negozi erano rimasti chiusi189. Alfredo Bonelli, comunista italiano giunto nel 1948 a Fiume, dove fece parte dell’opposizione illegale, «cominformista», trovò la città in condizioni di «squallore», rimanendo impressionato dai negozi vuoti, le cui vetrine «in compenso [...] erano piene di scritte, di bandiere, di falci e martello, di stelle rosse»190. Le autorità del Regno d ’Italia non furono prese del tutto alla sprovvista dall’esodo; già nella seconda metà del 1944 il ministero degli Esteri aveva iniziato a studiare le problematiche dei confini: in particolare fu redatto un piano di lavoro per la commissione che - articolata in due sottocommissioni - avrebbe dovuto rivedere per intero la problematica delle frontiere. Il professor Perazzi, delegato per le questioni di diritto internazionale, aveva il compito di preparare l’eventuale trasferimento della popolazione italiana dalla Dalmazia e da Zara; fu preso in considerazione anche un trasferimento dalla Venezia Giulia degli «allogeni», ossia di coloro che facevano parte della/e minoranza/e slava/e, che eventualmente avrebbero dovuto essere spostati, per lo più in Jugoslavia. Il tema dei diritti delle minoranze sarebbe stato affrontato solo se non vi fosse stato alcun trasferimento di popolazione191. Al ministero della Marina italiano si presumeva che tutte le attività del governo in esilio di re Pietro e dei partigiani puntas­ sero a ottenere la snazionalizzazione dell’Istria e delle province di Trieste e Gorizia nel più breve tempo possibile (ossia in pochi mesi) dopo l’occupazione della regione da parte alleata o jugoslava192. In effetti a metà degli anni Quaranta per i politici italiani il trasferimento di minoranze non era un tabù, e continuò a non esserlo fino al 1950 circa; Marina Cattaruzza cita un telegramma di De Gasperi all’ambasciatore italiano a Washington, Tarchiani, in cui si parlava di accordi che potessero facilitare ai membri delle varie minoranze il passaggio dall’altra parte della frontiera,

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dalla parte «giusta». Anche i britannici fino al 1948 presero in seria considerazione l’ipotesi di uno scambio di popolazione che avrebbe dovuto risolvere definitivamente la questione delle minoranze sull’Adriatico nord-orientale193. Tuttavia sul piano pratico la questione del trasferimento non si pose per gli sloveni rimasti sotto la sovranità italiana - a parte alcuni attivisti politici del Kps e dell’OF spostatisi da Trieste a Lubiana - mentre, al contrario, molti italiani che vivevano nei ter­ ritori passati sotto amministrazione jugoslava partirono verso ovest senza attendere la definizione diplomatica della questione. Piuttosto ben documentata è l’ondata di profughi del 1947, quando le truppe americane, in applicazione del trattato di pace194, si ritirarono dall’alta e media valle dell’Isonzo195. Ben presto per dover fuggire bastò il fatto di essersi compromessi, ad esempio di essersi espressi in passato a favore del ritorno all’Italia dell’Istria o della Zona B, e di avere motivo di temere ritorsioni dagli ju­ goslavi. Tuttavia non tutti gli italiani erano compromessi: «molti (soprattutto gli anziani) rimarranno, sia per motivi pratici, sia perché dopo aver superato il momento più difficile [...] sperano che torni presto l’Italia196. La sovranità jugoslava sulle zone italiane ebbe volti diversi. Da Fiume si riferiva comunque che le autorità facevano molta attenzione a evitare restrizioni all’uso dell’italiano: G li atti deU’amministrazione municipale, ad esem pio, vengono redatti in doppia lingua; le scuole italiane continuano a funzionare accanto a quelle croate ed è consentito l’uso dell’italiano in tribunale, sebbene esso non sia equiparato al croato, la lingua in cui sono redatti tutti i verbali e le sentenze197.

Altrove gli italiani si trovarono di fronte a un serio dilemma: essi infatti non volevano rivendicare il rispetto dei loro diritti come minoranza, in quanto non si sentivano tale, né erano disposti ad accettare quello status nei termini in cui era stato definito e concesso dagli jugoslavi. Una particolare situazione si era creata a Pola durante i negoziati per il trattato di pace; si diceva che tutta la popolazione locale di lingua italiana si era «compromessa» agli occhi degli jugoslavi nella controversia sui confini da definire198. Tutti i rapporti di fonte italiana concordano sull’onnipresenza dell’Ozna. Diego De Castro ha stimato in 20 mila il numero di coloro che lavoravano per la polizia segreta nella sola Trieste199.

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Come si legge nel già citato rapporto da Fiume, «l’Ozna [...] non è invenzione di giornalisti. E una organizzazione temibile, più potente degli organi amministrativi e giudiziari e che opera senza riguardi»200. Casi di arricchimento personale di agenti della polizia segreta come quelli verificatisi numerosi nel maggio-giugno del 1945 furono segnalati anche negli anni successivi201. Per chi faceva parte della minoranza italiana uno dei motivi principali per lasciare l’Istria consisteva nel fatto che il nuovo regime jugoslavo non si limitò a epurare le scuole e gli uffici pubblici dai dipendenti che si erano particolarmente distinti in senso favorevole al regime fascista, ma escluse anche funzionari perché erano italiani o perché non avevano sufficiente padronanza del serbo-croato202. Alcune di queste misure ricordavano quelle adottate negli anni Venti dal regime fascista contro i dipendenti pubblici sloveni e croati. E in modo molto simile ai fascisti agì l’amministrazione titoista nell’Istria centrale, fin nei più piccoli villaggi - non al fine di affermare la purezza etnica del territorio, ma il controllo ideologico sulla società. 2.2. Rinascita dell’«italianità»? La commissione alleata nella regione giuliana (primavera 1946) Non è facile individuare il momento in cui la parabola del­ l’italianità» nel litorale adriatico toccò il punto più basso. A tale declino, dopo gli eccessi e le esaltazioni del fascismo, contribuì la politica tedesca di occupazione: ai suoi occhi gli italiani, che da sempre avevano un ruolo predominante nella regione, divennero uno dei tanti gruppi etnici alla pari di sloveni, cici, croati, friu­ lani, istrorumeni e così via. Il successivo colpo all’«italianità» fu inferto dalla Jugoslavia, che era disposta a concedere agli italiani ogni autonomia culturale, ma intendeva definire a propria discre­ zione fin dove dovesse arrivare la tolleranza e in quale momento la propagazione della cultura italiana diventasse «reazionaria» chiamando in causa la giustizia penale o la polizia segreta. Nel 1955 - dopo la fine del Territorio libero di Trieste e la conclusione dell’esodo dall’allora Zona B - Enzo Collotti (non certo un alfiere del nazionalismo italiano) pose agli jugoslavi una domanda eretica: se fosse possibile alla minoranza italiana in Ju ­ goslavia leggere e studiare Giosue Carducci e Benedetto Croce, due autori che sono indubbiamente parte integrante della cultura

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italiana. Rispondendo implicitamente con un «no» (perché Car­ ducci e Croce non erano stati socialisti), Collotti profetizzava il fallimento di qualsiasi tentativo jugoslavo di salvaguardare la lingua italiana e di creare una cultura della minoranza italiana203. Non esiste una linea di collegamento diretto tra i decreti di annessione partigiani del 1943 e i risultati delle trattative di pace del 1947 tra gli Alleati e l’Italia. La definizione di minoranza at­ tribuita dai decreti di annessione agli italiani in Venezia Giulia, fu inizialmente un affare «interno», sloveno-croato o jugoslavo. Ma essa riguardava anche gli antifascisti italiani che collaboravano con i partigiani sloveni e che da questi furono indotti a riconoscere le rivendicazioni jugoslave. L’opinione pubblica mondiale si accorse del conflitto solo quando gli Alleati decisero, nell’ambito dei negoziati per il trat­ tato di pace, di inviare una commissione di esperti per esaminare la frammentazione etnico-nazionale della regione giuliana204. Fu necessario chiarire preliminarmente quali aree e città rientrassero nella sfera di competenza della commissione. Il ministro degli Este­ ri De Gasperi propose che i rappresentanti degli Alleati visitassero anche Zara e le isole del Quarnaro, ma non fu accontentato205. A seguito di un comunicato del Foreign Office la commissione si costituì il 2 marzo 1946206; il suo lavoro è stato oggetto di giudizi e valutazioni molto diversi. Attilio Tamaro, ad esempio, a posteriori ha cercato di screditare in un libro i membri della commissione come «persone istruite soltanto sui libri» che non erano all’altezza di una questione tanto complicata207; era però un giudizio ingeneroso, se non altro perché della commissione facevano parte demografi ed etnologi esperti di ricerca sul campo. Nonostante ciò Gaetano Salvemini - che tutto desiderava tranne muovere accuse agli Alleati occidentali - riteneva la missione superflua, poiché il tema della «linea [di confine] etnica» nella regione era già stato affrontato da moltissimi studiosi di varie nazioni208. Le speranze che fosse possibile leggere o scrivere sul terreno pietroso del Carso la risposta alla domanda circa il confine più «giusto» possibile erano in effetti molto deboli. La continuità più evidente tra i decreti di annessione e il trattato di pace risiedette nel fatto che gli «operatori nazionali» sloveni e croati, forti della tradizione dell’istituto per le mino­ ranze e dello Znanstveni institut, sostennero con documenti e mappe le rivendicazioni jugoslave, fornendo argomenti adeguati alla componente sovietica (loro favorevole) della commissione di

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esperti per la definizione dei confini italo-jugoslavi. Il diario di Sergej A. Tokarev permette di ricostruire i legami tra quest’ultimo e personaggi come Fran Zwitter e Lavo Cermelj, ma anche di comprendere come il rappresentante di una delle quattro potenze vedesse e interpretasse la frammentazione etnico-nazionale in Venezia Giulia209. Lo stesso Tokarev, pur appoggiando efficacemente, nella maggior parte dei casi, il punto di vista jugoslavo, non fu sempre allineato a esso. A volte il commissario russo era senz’altro in grado di comprendere che i funzionari dell’Uais sottostimavano il più possibile la presenza di italiani210. Queste stime «al ribasso» furono facilitate dalla decisione di tener conto dei risultati della politica di snazionalizzazione: bastava ipotizzare che l’assimilazio­ ne forzata avesse riguardato ampi settori della popolazione slava per ridurre nettamente il numero degli italiani «veri e puri». Dennison I. Rusinow ha sottolineato che nel maggio del 1946 fu raggiunto all’interno della commissione un accordo di prin­ cipio. Nonostante ciò, gli esperti presentarono alla riunione dei ministri degli Esteri quattro diverse proposte per la definizione dei confini211. Raoul Pupo sostiene la «sostanziale irrilevanza» dei dati acquisiti dagli esperti alleati, che non avrebbero avuto alcuna influenza sul processo di formazione delle decisioni212. Nonostante ciò, è certo che nella primavera del 1946 la frammentazione etnico-nazionale nell’alto Adriatico si trovò al centro dell’attenzione come non era più accaduto dall’epoca del censimento asburgico del 1910. Come ha potuto constatare Giampaolo Valdevit, il viaggio degli esperti nella regione fu addirittura occasione per una «rinascita di italianità», come si legge nei documenti degli Alleati occidentali: per la prima volta dalla fine della guerra, sottolinea lo stesso Valdevit, la presenza della delegazione di esperti nei villaggi e nelle cittadine dellTstria e del goriziano offrì alla parte italiana l’occasione per attirare l’attenzione sui propri interessi. Gli Alleati, che fino allora avevano dovuto subire e bilanciare la presenza di una forte op­ posizione filojugoslava, si trovarono di fronte al fatto che nelle strade della Venezia Giulia si fronteggiavano due schieramenti reciprocamente ostili213. Questa svolta nel triangolo dei rapporti tra gli Alleati e le fazioni filoitaliana e filojugoslava è significativa, anche perché prima dell’arrivo della commissione alleata il Cln di Pola, rap­ presentativo di ampie parti dell’Istria, aveva invitato a evitare

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qualsiasi manifestazione favorevole all’Italia214. C ’erano motivi in abbondanza per lanciare simili appelli, visto che la visita della commissione era stata turbata da violenti scontri: nella sola Zona A, nella settimana dal 21 al 27 marzo 1946, furono eseguiti 548 arresti, di cui 407 a Trieste215. La commissione fu inoltre bom­ bardata da entrambe le parti - dai Cln italiani, ma soprattutto dalla Uais e da altre organizzazioni filojugoslave - da un diluvio di promemoria, petizioni, manifesti e simili216. Le «organizzazioni di massa» slovene e croate e le ammi­ nistrazioni comunali collaborarono strettamente, tenendosi vi­ cendevolmente informate sull’andamento delle audizioni. Esse dimostrarono una sorprendente capacità di mobilitazione; in alcuni casi - come a Pola o a Capodistria - riuscirono a por­ tare in breve tempo sulla costa centinaia o migliaia di persone di lingua croata o slovena con striscioni e bandiere dai paesi dell’interno per evitare che l’«italianità» del luogo apparisse ai commissari troppo prevalente. Colpisce anche il numero di slo­ gan ideati dagli organizzatori della campagna jugoslava, che era prevalentemente diretta dal centro («Con Tito abbiamo lottato - con Tito vogliamo collaborare per il rinnovamento dei nostri luoghi!»; «Viva il Comitato popolare di liberazione del nostro distretto!»; «Viva il nostro grande capo, il Maresciallo Tito!»; «Viva la 4a armata!»). Mentre i promemoria provenienti dal goriziano erano per lo più redatti in sloveno, i funzionari dell’Uais di Monfalcone e Muggia scrivevano in italiano. A Monfalcone il Comitato esecu­ tivo di liberazione nazionale si pose pienamente nel solco della Resistenza, enumerando i meriti acquisiti dalla città nella lotta di liberazione (i Gap, le Intendenze, il sostegno ai partigiani). Nella risoluzione si parla della «strada» che «conduce alla appartenenza della nostra terra alla Jugoslavia»217. Per accogliere degnamente la commissione le strade cittadine furono decorate con grandi archi. Nelle fabbriche si realizzarono monumentali stelle rosse e decorazioni con bandiere jugoslave e le immagini di Stalin, Tito e Kardelj. Gli autori della risoluzione di Muggia dichiaravano che la loro era una città italiana cui. appartenere all’Italia aveva dato, e avrebbe dato in futuro, solo svantaggi. Degna di nota fu la visita della commissione a Pola, il 21 marzo 1946218. In questa città, che si trovava ancora sotto il controllo degli Alleati, 20 mila abitanti manifestarono in favore del ritorno all'Italia, in testa a tutti i garibaldini; alle bandiere

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italiane si mescolavano molte bandiere rosse. Slavi e italiani, scriveva l’«Arena di Pola», non erano schierati gli uni contro gli altri: «Lavoratori italiani e slavi, uniti nella vera fratellanza, cantavano insieme e manifestavano insieme la loro fede e la loro volontà di rimanere uniti all’Italia»219. Il 22-23 marzo, a Pisino, gli esperti intervistarono il professor Josip Roglic dello Jadranski Institut in merito alle sue indagini sulla frammentazione etnico-nazionale nell’Adriatico nord-orientale220. Secondo quanto emerse dall’audizione dell’istituto adriatico, la popolazione italiana della penisola istriana - a eccezione della città di Pola - si era ridotta, dal 1910, a circa la metà, mentre il numero di abitanti sloveni e croati era rimasto pressoché costante221. Il 24 marzo, a Grisignana (Groznjan in croato), nel distretto di Buje, l’indagine ebbe un risultato tangibile: qui, se­ condo Tokarev, 800 persone che l’anno precedente non avevano voluto dichiarare la propria nazionalità indicarono come proprio punto di riferimento nazionale la Croazia222, anche se il podestà223 si pronunciò apertamente per l’italianità degli abitanti224. Sul viaggio della commissione si diffusero ben presto aneddoti e leggende la cui veridicità non è più controllabile, ma che sono entrati a far parte delle principali opere sul conflitto per Trieste. Non è un caso che queste narrazioni fossero prevalentemente ambientate nella parte della Venezia Giulia controllata dalla Jugoslavia. Le possibilità di articolare l’appartenenza nazionale erano molteplici: così, per esempio, «nella città di Pirano molte donne italiane si dipinsero una bandiera italiana sul palmo della mano e quando la commissione passò, aprirono il pugno per mostrare i colori italiani e per testimoniare così il loro amore per l’Italia»225. A Pisino, invece, un italiano di cui non si seppe il nome mise sul tavolo dei delegati un foglietto su cui era scritto: «Non potendo interrogare i vivi, interrogate i morti»226. Qualcuno ebbe l’idea di visitare il cimitero civico, dove emerse che il 90 per cento delle lapidi recava scritte in italiano227. Un altro momento-chiave del viaggio fu l’arrivo della de­ legazione a Trieste, il 27 marzo. La parte filojugoslava fece di tutto perché la città apparisse jugoslava, suscitando la massiccia opposizione della popolazione italiana, che riempì le vie citta­ dine come una «valanga umana»; in un opuscolo della Lega nazionale si legge che quel giorno era sembrato che i caduti del Carso si fossero ridestati per mostrare agli Alleati di chi fosse Trieste228. L’«italianità» di Trieste veniva qui caratterizzata, in

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un’unica immagine, come un evento naturale (una valanga) con conseguenze sovrannaturali (la risurrezione di coloro che erano caduti sui campi di battaglia del Carso). La visita della Slavia veneta (28 marzo) fu descritta invece come mera formalità; qui la parte slovena ebbe la peggio, poiché la decisione sull’appartenenza all’Italia delle valli del Natisone, del Torre e della Val Resia era già stata presa229. Peraltro i cosiddetti «slavofili» della Slavia veneta ricevettero - da parte di bande di italiani che si richiamavano alla tradizione anticomunista e antisla­ va delle brigate Osoppo - un trattamento non migliore di quello che l’Ozna riservò in Istria a molti fautori dell’«italianità»230. L’unico delegato i cui appunti di diario sulle attività della commissione siano stati finora pubblicati, il russo Tokarev, rimase molto insoddisfatto a seguito dei vari colloqui. Come esperto di demografia egli si sentiva addirittura troppo qualificato per quel viaggio, e i risultati raggiunti non lo accontentavano231. Il fascismo aveva fatto credere che fosse facile trasformare la «condizione esistente» etnico-nazionale di una regione in qualcosa di diametralmente opposto, presentando ai visitatori esterni una regione «compattamente italiana»: bastava eliminare qualsiasi traccia di presenza slava nella zona, dai simboli nazionali (bandiere, stemmi) alla toponomastica e all’uso pubblico delle lingua slovena e croata. Per gli jugoslavi, dalla primavera del 1945 in poi, le cose furono in un certo senso più facili che per la burocrazia mussoliniana: essi non volevano far scomparire del tutto l’«italianità», ma si accontentavano che gli abitanti facesse­ ro propria la dichiarazione di fedeltà allo Stato jugoslavo e alle sue rivendicazioni territoriali (redatta in varie lingue). Questo nazionalismo «statalista» era una delle cose che differenziavano la posizione jugoslava dal nazionalismo fascista, che aveva fatto riferimento soprattutto alle tradizioni culturali e che alla fine degli anni Trenta era stato ridefinito in termini razziali. I seguaci di Tito si ricollegavano ai rituali della guerra di liberazione e diffusero lo slogan: «Non è Tito che vuole l’Istria, ma è l’Istria che vuole Tito». E certo che gli organi di partito, le formazioni partigiane e le altre organizzazioni di massa si diedero molto da fare per rendere visibile una forte presenza slovena e croata anche dove in effetti non esisteva, come nelle cittadine della costa istriana. Probabilmente l’esperto russo non era il solo a vedere la parte jugoslava come sostenitrice del pluralismo internazionalista, mentre il partito italiano appariva sciovinista-fascistoide:

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G li italiani avevano solo bandiere tricolore, i nostri [j/d] bandiere jugoslave e italiane con la stella, ritratti e slogan «Vogliam o Jugoslavia», «N ecem o talijanske okupacije» ecc. L’eccitazione del popolo, le grida rozze, i fischi, le canzoni, il rumore sono continuati quasi senza interruzione232.

Dare all’«italianità» sull’Adriatico settentrionale un’impor­ tanza analoga a quella che aveva avuto fino alla Prima guerra mondiale e nell’era fascista si rivelò un compito difficile. Il viaggio della commissione alleata dimostrò tuttavia che la «minoranza italiana» in Istria - a parte la roccaforte operaia di Muggia - si opponeva con tutte le forze all’annessione della penisola alla Jugoslavia titoista. Nemmeno gli sloveni riuscirono a convincere gli Alleati delle loro richieste massime, che comprendevano l’annessione alla Jugoslavia di Trieste, Gorizia e della Slavia veneta: a ovest dell’Isonzo, soprattutto nelle valli del Natisone e del Torre, essi si ritrovarono isolati e perseguitati. Ma che complessivamente fosse l’Italia a trovarsi sulla difensiva apparve chiaro nel corso ulteriore dei negoziati di pace con gli Alleati. 2.3. Il trattato di pace e l’esodo da Pola Le trattative di pace degli Alleati con l’Italia sono state oggetto di diversi approfonditi studi di storia diplomatica233; ciò che inte­ ressa qui, però, non è tanto l’andamento esterno delle discussioni, quanto i loro effetti sulla situazione in Venezia Giulia. Nei territori la cui annessione alla Jugoslavia fu riconosciuta dalle potenze e dalla stessa Italia, agli abitanti di lingua italiana il trattato concesse il diritto di scegliere la cittadinanza italiana, trasferendosi in tal caso in Italia o nel costituendo Territorio libero di Trieste. A loro volta gli abitanti slavi della parte occidentale della Venezia Giulia ebbero la possibilità di optare per la Jugo­ slavia; tuttavia, la Repubblica federativa popolare di Jugoslavia si riservava il diritto di decidere, attraverso il console jugoslavo territorialmente competente, sul gradimento nei confronti di chi esercitava l’opzione234. Nel corso dei negoziati prese forma, all’inizio dell’estate, una proposta francese di definizione dei confini, che venne tuttavia integrata dall’istituzione di un Territorio libero nell’entroterra nord-occidentale e meridionale di Trieste. Questa proposta di

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compromesso, che minacciava di precludere l’accesso al mare a Lubiana e all’intera Slovenia, inizialmente suscitò l’opposizione degli jugoslavi (e soprattutto degli sloveni): solo la suddivisione del Territorio libero di Trieste in due zone, una a nord ammi­ nistrata dagli Alleati e una a sud amministrata dalla Jugoslavia, fugò le riserve di Belgrado e Lubiana235. Immediatamente ricomparve lo spettro dell’esodo, soprattutto nell’alta valle dellTsonzo (dove interessò in prevalenza sloveni) e in Istria (dove ebbe come protagonisti soprattutto italiani). Nel febbraio del 1947 i carabinieri sconsigliarono agli isontini diretti a occidente di sostare a Gorizia e dintorni: poiché gli Alleati non volevano accogliere nuovi profughi in una Trieste già sovraffollata di esuli, c’era il rischio che le correnti di profughi provenienti rispettivamente dallTstria e dall’Isonzo si incrociassero a Gorizia. Il governo militare alleato aveva già preso accordi con il prefetto di Udine per accogliere lì gli isontini fin quando non si fosse trovata una soluzione definitiva. Alle autorità di Gorizia era stato comunicato che tra i profughi provenienti dalla Slovenia (i cosiddetti «crociati bianchi») si trovavano molti comunisti volutamente inviati a occidente dagli jugoslavi. Il sottosegretario di Stato Sorignati, che si occupava dell’esodo da Pola, dichiarò che a Gorizia c’era posto solo per gli istriani, mentre gli ison­ tini dovevano proseguire al più presto verso altre regioni; un primo contingente di 800 istriani era già arrivato alla stazione di Gorizia. Il governo alleato era contrario a che degli esuli, indi­ pendentemente dalla provenienza, si fermassero nella provincia di Gorizia, sostenendo di non poter assicurare loro alcun aiuto; solo chi poteva essere alloggiato presso parenti sarebbe potuto rimanere a Gorizia236. Era già stato previsto che dalle zone della provincia di Gorizia definitivamente assegnate alla Jugoslavia si sarebbero dirette a occidente circa 20 mila persone. Sulla questione dell’accoglienza ai profughi i partiti italiani erano divisi: mentre secondo i democri­ stiani gli esuli dovevano restare nelle province di Gorizia e Udine, liberali e socialisti si opponevano, temendo una slavizzazione di Gorizia e di Udine per l’afflusso di sloveni anticomunisti. Nel frattempo 400 operai del basso Isonzo che lavoravano nei cantieri navali di Monfalcone avevano deciso di dare le dimissioni e trasferirsi con le proprie famiglie in Jugoslavia; l’occasione in tal senso fu costituita dall’annuncio che il loro luogo di lavoro sarebbe andato all'Italia237. Furono questi gli inizi del cosiddetto

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«controesodo», che vide soprattutto gli operai comunisti più politicizzati dei cantieri di Monfalcone trasferirsi in Jugoslavia, dove presto avrebbero subito un’amara delusione238. A Gorizia si temeva che gli jugoslavi tentassero un colpo di mano cercando di occupare militarmente la città prima che venisse restituita definitivamente all’Italia239. Il segnale più chiaro dell’irreversibilità del processo di se­ parazione tra italiani e slavi del sud, comitati popolari e Cln, comunisti e partiti democratico-parlamentari fu l’esodo da Pola. Il modo in cui il conflitto fu risolto nell’ex base della marina austro-ungarica indusse ben presto a recarsi a ovest gli italiani che inizialmente non avevano intenzione di lasciare la città. L’ondata di profughi era troppo grande perché qualcuno fosse disposto a rimanere e contare solo su se stesso. Ogni volta che una nave carica di profughi attraversava l’Adriatico, la paura di chi rimaneva aumentava240. Pola fu il luogo dove la migrazione fu più chiaramente visibile; la «popolazione italiana» era «nella quasi totalità orientata per l’esodo»241. Inoltre in città arrivavano costantemente profughi provenienti dalle zone dell’Istria amministrate dalla Jugoslavia: persone che certamente non sarebbero rimaste a Pola dopo la partenza degli Alleati. In un documento del Comitato interministeriale per la Ve­ nezia Giulia si prevedeva di dover evacuare da Pola via mare, alla volta dell’Italia, un totale di 33 mila persone, di cui 28 mila polesi e 5 mila profughi provenienti dalla Zona B della regione giuliana (soprattutto dall’Istria)242. Nel febbraio del 1947 circa un terzo degli italiani di Pola, soprattutto dei più abbienti, aveva già ammassato in 800 vagoni ferroviari le proprie suppellettili, e dormiva alla meglio su materassi stesi sul pavimento delle proprie stesse case. L’esodo scrisse molto presto la propria storia e sviluppò una propria cultura. Tra le personalità assurte al ruolo di cronisti degli eventi vanno ricordati Steno Califfi, Guido Miglia e Pasquale De Simone. Il Cln di Pola, il Movimento istriano revisionista, la Lega nazionale e altre organizzazioni revisionistiche si occu­ parono dell’organizzazione del trasferimento, della propaganda che lo accompagnò e della predisposizione di una infrastruttura per i profughi243. Il piroscafo Toscana - nave ammiraglia dell’esodo - avrebbe fatto quattordici volte il viaggio da Pola a Venezia carico di

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profughi, trasportando a occidente, in totale, 28 mila persone; furono previste poi due navi più piccole, dirette ad Ancona, dove sarebbero sbarcate altre 5 mila persone244. Inoltre era stato stimato che le motonavi di linea che percorrevano tre volte alla settimana la tratta Pola-Trieste potessero trasportare altri 8-10 mila esuli: soprattutto persone che a Trieste avevano parenti o che vi avevano trovato un lavoro. A Venezia e ad Ancona l’esercito, la marina e il ministero per l’Assistenza postbellica predisposero campi di raccolta e uffici, al fine di facilitare il più possibile ai profughi una rapida prosecuzione del viaggio in treno. La drammaticità della situazione nell’area adriatica fu sottoli­ neata dal deputato De Berti in un memorandum a De Gasperi: il totale dei profughi provenienti dalla zona avrebbe presto toccato la soglia di 150 mila. Entro tre mesi si sarebbero esauriti anche gli aiuti in denaro fino allora concessi ai profughi provenienti da Pola. Ma il problema dei profughi non sarebbe finito con l’esaurirsi delle partenze245. L’esodo da Pola ebbe anche il suo aspetto culturale-simbolico, di cui si fece soprattutto carico un’organizzazione irreden­ tista come la Lega nazionale, i cui attivisti si occuparono della conservazione delle opere d’arte e dei monumenti portati via durante la fuga, tra cui un busto di Dante, una statua di Au­ gusto e una lupa capitolina246. Dopo negoziati durati oltre due anni l’Ammiragliato di Venezia trasferì alla locale sezione della Lega nazionale le opere d’arte giunte da Pola. I busti e le statue furono prima portati a Vicenza, dove vennero esposti in una Mostra dell’irredentismo Adriatico. La sezione triestina della Lega sperava di poter acquisire i busti a Trieste in un secondo tempo, ma nel corso di una riunione di tutte le organizzazioni coinvolte fu deciso di lasciare tutto a Venezia247. Numerose furono le testimonianze minori della «romanità» e della «venezianità» asportate da Pola e da altre città istriane, ma gli esuli di Pola non potevano certo portare con sé l’anfiteatro romano, e chi se ne andò da Parenzo dovette dire addio alla basilica dell’antica città vescovile. Attilio Tamaro, il più noto intellettuale di destra triestino, lanciò un lamento non privo di sfumature razziste: Tra le meravigliose opere lasciatevi dal genio italiano si aggirano oggi haiduchi, graniciari, comitagi, partizani, drugarize, miliziani, skitaci e gente

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di simile cultura, lieti e sorpresi di abitare finalmente in città, messi lì per snazionalizzare la terra con la speranza di pregiudicarne il futuro248.

In queste frasi riaffiorano gli stereotipi prenazionali diffusi in Europa occidentale nei confronti dei Balcani e dell’Adriatico («haiduchi»), nonché le paure del periodo tra le due guerre («graniciari») e dell’epoca partigiana («drugarize»). Sacrilega parve agli italiani di fede nazionale la parata della l a brigata Vladimir Gortan svoltasi il 13 maggio 1945 davanti all’anfiteatro di Pola «fra alte acclamazioni a Tito e alla fratellanza dei popoli italiano e croato»249. L’accusa secondo cui le autorità jugoslave snazionalizzavano gli italiani delllstria non fu lanciata solamente dalle correnti politiche di destra. Tale problematica è ben documentata non solo riguardo ai territori già assegnati dal trattato di pace alla Repubblica federativa popolare di Jugoslavia (Zara, Fiume, la parte meridionale dell’Istria, Pola), ma anche alla cosiddetta Zona B del Territorio libero di Trieste. Qui la politica jugoslava fu messa in atto sotto gli occhi degli Alleati e dell’opinione pubblica mondiale, ma ciò non le impedì di difendere i propri privilegi. Agli italiani, viceversa, la situazione generale della Zona B diede la possibilità di articolare più chiaramente le proprie rimostranze, anche se ciò, in ultima analisi, fu inutile. 2.4. Aspetti dell’esodo dalla Zona B del Territorio libero di Trieste La politica jugoslava in Istria, e soprattutto nella Zona B del Territorio libero di Trieste, è stata oggetto di vari studi, basati sui verbali delle riunioni del Cln istriano o su altre fonti locali. Se esisteva, nei territori sotto il controllo jugoslavo, un’area dove si sa­ rebbe potuto evitare che la maggioranza della popolazione italiana se ne andasse e favorirne invece la collaborazione con le autorità slovene o croate, questa era proprio la Zona B. Essa sarebbe stata ufficialmente incorporata alla Jugoslavia solo nel 1954, al momen­ to della dissoluzione del Territorio libero di Trieste. Era qui che Belgrado, Zagabria e Lubiana avevano le maggiori possibilità di conquistare al modello socialista jugoslavo un certo grado di con­ senso da parte della popolazione italiana. Invece, anche in queste terre si verificò un esodo che - come quello da Pola di sette anni prima - era ampiamente prevedibile per tutte le parti in causa.

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Già all’epoca del censimento del 1951 nella sola Trieste si trovavano 20 mila profughi, di cui 13 mila istriani, cui nel periodo successivo si aggiunsero «diverse migliaia» di profughi provenienti dalla Zona B250. Guido Gerin ha calcolato in 50 mila il numero totale dei profughi giunti a Trieste fino a metà degli anni Sessanta251. Sebbene non si possa parlare di una sistematica cacciata o deportazione degli italiani dalla Zona B del Territorio libero, anche in questo caso all’origine dell’ondata di fuga vi erano azioni delle autorità jugoslave ai danni della popolazione italiana. I nuovi arrivati provenienti dalla zona di Umago (nella parte croata della Zona B), interrogati da funzionari italiani, furono concordi nell’asserire che nei luoghi da cui provenivano gli italiani che speravano che l’Istria rimanesse o tornasse all’Italia erano sottoposti a costanti pressioni affinché partissero252. Già mesi prima era stato segnalato da un’altra fonte che a Umago giungevano molte persone dalla Slovenia per prendere possesso delle case rimaste vuote253. Tuttavia si può dire, da un certo punto di vista, che la partenza dalla Zona B del Territorio libero sia stato il meno problematico dei vari movimenti di esodo. Occorre tener conto che gli uffici governativi italiani e l’amministrazione del Territorio libero di Trieste avevano già accumulato molta esperienza in fatto di pro­ fughi. Nel caso della Zona B gestire gli aspetti organizzativi fu meno difficile per le autorità preposte. Nell’agosto del 1954 l’esodo dei contadini - a parte «casi sporadici» - non era ancora iniziato, ma il Cln istriano avvertì che sarebbe iniziato in autunno, dopo la fine del raccolto. Molti di questi contadini erano originari delle zone etnicamente miste delPIstria centrale, erano bilingui o conversavano in un idioma misto (il cosiddetto «schiavetto»). Si trattava, in fin dei conti, di coloro per i quali era più difficile partire. Questi contadini erano i più vicini alla cultura slava ed erano molto legati ai loro campi254. In questa nuova fase dell’esodo i profughi istriani trovarono un alleato importante, che contribuì, soprattutto dal punto di vista quantitativo, a che l’esodo dalla Zona B fosse ancora più completo che in altre zone dellTstria. Lo schieramento nazionale italiano - Cln, Movimento revisionista istriano, Lega nazionale e altre organizzazioni - aveva sempre accusato gli jugoslavi di puntare all’assimilazione degli italiani che si trovavano nella

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Zona B. Dopo il 1948 anche i comunisti facenti parte del Cominform accusarono la «politica di snazionalizzazione ai danni della popolazione italiana»255. In articoli e opuscoli i seguaci di Stalin e di Vittorio Vidali mescolarono le critiche giustificate ai problemi spesso molto seri di quella parte del Territorio libero che era sotto controllo jugoslavo ai più sguaiati insulti verso i comunisti di Tito. Sulla politica deU’amministrazione jugoslava nella Zona B del Territorio libero di Trieste si può dire che, come per la politica fascista di snazionalizzazione, sarebbe qui inutilmente lungo ricostruirla in tutti i suoi aspetti socialmente rilevanti. Tuttavia si può ripercorrere la campagna contro la minoranza italiana in un ambito circoscritto ma significativo come quello dell’istruzione. Molte scuole della nuova Jugoslavia erano diretta emanazione di quelle create dai partigiani nei territori liberati. Esse si basavano su un modello in netta antitesi rispetto alla scuola fascista di Gen­ tile e Bottai, ma anche all’idea di scuola dei collaborazionisti, dei domobranci e degli ustase. La disponibilità dell’amministrazione tedesca, nella Zona di operazioni Litorale adriatico, a consentire l’esistenza di scuole slovene e croate portava effettivamente con sé dei pericoli per i partigiani slavi. Fino allora questi ultimi si erano perlopiù avvantaggiati della possibilità di contrapporre, sulle questioni scolastiche, «nazione a nazione», istituendo una scuola partigiana slava in contrapposizione a quella italiana con­ trollata dal Pnf, dalla Gii e dalla Società Dante Alighieri. Anche per questo i fronti di liberazione sloveno e croato accelerarono lo sviluppo di proprie strutture scolastiche. Nella sola parte slovena dellTstria esistevano, nell’anno scolastico 1943-44, ben 30 scuole o classi create dall’OF, con 33 insegnanti e 1.100 allievi256. Nei documenti si legge spesso che nei territori liberati i partigiani si limitarono a chiudere le scuole italiane257. Ma dove l’amministrazione tedesca funzionava bene al punto di consentire ai collaborazionisti l’apertura di scuole slovene (o croate), i partigiani slavi si trovarono a dover dimostrare che anche in campo scolastico erano loro gli alfieri degli autentici interessi nazionali. Così, ad esempio, France Bevk, scrittore triestino e referente culturale dei partigiani, già alla fine di gennaio del 1944 sottolineò in una lettera aperta agli insegnanti sloveni del litorale che l’OF rifiutava qualsiasi collaborazione - ivi comprese le scuo­ le - con gli occupanti e con il loro podestà. Nel maggio del 1944

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l’OF, in occasione di un’assemblea degli insegnanti antifascisti sloveni, formulò le sue idee in campo scolastico; nel dicembre del 1944, durante la fase di preparazione della liberazione, si tenne un nuovo congresso, che diede il via a una serie di iniziative locali258. Appena i tedeschi si ritirarono, all’inizio di maggio del 1945, le scuole del Carso e dell’Istria interruppero i contatti con le autorità di vigilanza scolastica a Trieste e a Pola259. Inoltre, anche nelle scuole che non avevano riportato danni durante la guerra e che per questo funzionavano ancora in modo accettabile le lezioni risentirono dell’esodo di molti insegnanti italiani. A proposito della prima fase dell’epurazione nelle scuole medie, in quello stesso anno una insegnante di Gorizia riferì che tutti gli insegnanti erano stati licenziati, per essere riassunti eventualmente a settembre, una volta verificata la loro situazio­ ne personale. La decisione sulla riassunzione era nelle mani di commissari quasi esclusivamente sloveni. Secondo la stessa fonte l’associazione degli insegnanti deliberò di aderire al sindacato uni­ tario italiano Cgil e ai sindacati giuliani, che si ponevano in netta concorrenza con i sindacati unici controllati dagli jugoslavi260. Ricco di spunti è il rapporto scritto dal preside del liceo-gin­ nasio di Capodistria nel 1952, dopo la sua partenza dalla Zona B insieme alla stragrande maggioranza degli insegnanti italiani. In base a questa fonte, nei mesi successivi alla liberazione era stata istituita una commissione per la scuola, democraticamente legittimata, con il compito di eliminare i testi fascisti e selezionare nuovi libri di testo. Questi esordi di democrazia di base titoista ricevettero l’appoggio degli stessi insegnanti italiani. Dopo qualche tempo questa commissione indipendente, che stava lavorando efficacemente, fu costretta a fondersi con un altro comitato, gradito alle autorità jugoslave. In tal modo l’amministrazione si assicurava influenza sul corpo insegnante; ma dopo la stipula del trattato di pace anche questa nuova commissione fu sciolta. Da allora la scuola dovette funzionare secondo i dettami del «comitato popolare» insediato dall’alto261. All’inizio di ottobre del 1945 in molte scuole istriane si svol­ sero assemblee di insegnanti cui parteciparono anche esponenti delle autorità jugoslave262. Sembra che gli insegnanti inizialmente agissero con prudenza; del resto era ancora formalmente in vi­ gore il diritto italiano, e pareva dunque poco sensato procedere frettolosamente al cambiamento dei programmi d’insegnamento. Le autorità jugoslave intendevano invece spingere gli insegnanti

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a una rapida revisione delle materie d’insegnamento. Se gli inse­ gnanti non si allineavano al cambiamento generale della società e alla penetrazione capillare nella scuola della concezione politica e storica della nuova Jugoslavia, o se partecipavano addirittura a manifestazioni di protesta contro l’amministrazione militare, subivano già in questa fase sanzioni disciplinari. La scuola fu naturalmente uno dei settori della società che nel 1945 furono sottoposti a una epurazione antifascista: nel caso italiano questo processo, richiesto dal Cln e dalle formazioni partigiane, è stato ben studiato grazie al lavoro di Hans Woller263. Non mancano nemmeno gli studi sul furore da «regolamento di conti» manifestatosi in diverse parti della Jugoslavia, ivi com­ preso il litorale; gli studi sull’epurazione antifascista/antitaliana dell’apparato statale in Istria e nella Zona B del Territorio libero di Trieste, invece, sono ancora in corso264. Si pone innanzi tutto la questione dei criteri seguiti nelle epurazioni. Mentre è fuor di dubbio che nell’Italia degli anni Venti e Trenta sloveni e croati, indipendentemente dalle loro idee politiche, erano stati allontanati dalla pubblica amministrazione in quanto slavi, ciò non è necessariamente vero per gli italiani in Istria dal 1945 in poi. Al di là della politica di gestione seguita dagli uffici scolasti­ ci, occorre tener conto anché di un altro fattore: la produzione cosiddetta «antifascista» di libri di testo, promossa da un gruppo di intellettuali italiani facenti parte della Uiif. Costoro fondarono il 7 febbraio 1952, a Fiume, la casa editrice Edit, che ebbe dalle autorità jugoslave un’abbondante dotazione finanziaria e da quel momento in poi produsse tutte le pubblicazioni jugoslave in lingua italiana. Il lavoro degli attivisti fiumani trovò un’eco molto diversa a seconda del punto di vista politico degli interessati. Mentre, ad esempio, Eros Sequi (che tra gli italiani «irriducibili» nella Fiume del dopoguerra fu una sorta di «intellettuale organico») offre nelle sue memorie un quadro molto vivo dell’entusiamo con cui l’Unione degli italiani si mise al lavoro265, agli occhi di un esponente del Cln istriano come Sergio Cella gli sforzi rifor­ matori dell’Unione puntavano solamente alla «snazionalizzazione di ogni tipo di scuola»266. L’argomento più forte citato da Cella in favore della propria versione dei fatti è, oltre alla revisione dei programmi, la fretta con cui negli anni 1945 e 1946 le au­ torità jugoslave trasformarono tanti ragazzi e ragazze, perlopiù provenienti dalla lotta partigiana, in insegnanti267, dopo un corso

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di soli tre mesi268. Delle direttive per l’epurazione degli uffici pubblici furono impartite solo nel gennaio del 1946. Secondo queste norme vincolanti era considerato colpevole chi aveva: 1. esercitato funzioni di responsabilità a vari livelli come fascista (squadrista, miliziano ecc.); 2. combattuto contro il movimento nazionale di liberazione o come volontario contro gli Alleati; 3. collaborato con i fascisti ai danni della libertà del popolo e delle sue istituzioni democratiche; 4. compiuto atti di violenza contro cose, persone o organiz­ zazioni del popolo, sulla base di motivazioni fasciste; 5. agito contro il popolo nell’ambito della cultura o dell’eco­ nomia. Giustamente è stato osservato che con ciò erano mescolati in modo discutibile elementi concreti facilmente dimostrabili (punti 1-4) a criteri generali facilmente estensibili e interpretabili in modo arbitrario (punto 5)269. Sergio Cella, basandosi su documenti dell’archivio del Cln istriano a Trieste, scrive: L’epurazione dei fascisti e degli «affam atori del p op olo» fu posta in primo piano, soprattutto per addossare a qualche capro espiatorio le di­ sfunzioni e gli arbitri del sistema appariscenti fin dai primi mesi. L a Difesa popolare, form ata da ex partigiani e da nuovi zelanti, doveva assicurare l’ordine pubblico e la sicurezza, mentre la mobilitazione delle masse era controllata da alcune organizzazioni sussidiarie: sindacati, giovani, donne. Il Partito comunista jugoslavo restava piuttosto nell’om bra, poiché si temeva fondatamente che la sua attività portasse alla ricostruzione degli altri partiti antifascisti, in una attività pluralistica che si voleva a ogni costo evitare270.

Evidentemente questi criteri potevano essere utilizzati anche contro gli insegnanti italiani, che dall’inizio del 1946 si trovarono sottoposti a pressioni sempre più forti271. Negli anni Cinquanta, quando l’epurazione antifascista era ormai da considerarsi conclusa, le autorità accusarono gli inse­ gnanti sgraditi di essere spie dell’Italia e degli Stati Uniti: molti di loro ricevettero ordini di comparizione da parte della polizia e furono sottoposti a lunghi interrogatori, numerosi furono licenziati o se ne andarono «volontariamente» a Trieste, «non potendo resistere a quell’inferno». Anziché verso una necessaria riforma, si andò verso lo svuotamento e la graduale scomparsa della scuola italiana. Alcuni insegnanti, come il preside del

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ginnasio di Capodistria, inizialmente tennero duro272: ciò non impedì tuttavia che i genitori si trovassero in una situazione senza via d’uscita. Come si legge in un rapporto, se i loro figli volevano studiare dovevano frequentare la scuola slovena, perché nella scuola italiana (ufficialmente «bilingue») non si svolgevano lezioni di lingue: stando alla stessa fonte, le autorità jugoslave non si preoccupavano di garantire il funzionamento delle lezioni d’italiano, e dunque in queste scuole non si studiava più nulla273. Inoltre le autorità scolastiche si riservavano il diritto di decidere quali bambini potessero frequentare la scuola italiana o quella slovena. Ad esempio in una scuola elementare di Sicciole (in sloveno Secovlje)274, località del golfo di Pirano a pochissima distanza dall’attuale confine sloveno-croato, sono stati reperiti documenti da cui si evince che a diversi genitori fu ordinato di togliere i loro figli dalla scuola italiana e mandarli alla scuola slovena275. Le autorità jugoslave, in alcuni casi con il consenso deH’Uiif, chiusero le scuole elementari italiane ancora funzionanti, ad esempio nella cittadina mineraria di Albona (in croato Labin) o sulle isole di Cherso e Lussino (Cres e Losinj). Nel 1953 «da un giorno all’altro» fu chiusa la scuola di Albona e i suoi 200 allievi dovettero passare alla locale scuola croata276. Nelle zone rurali, dove la presenza di italiani era relativamente scarsa, le scuole italiane furono tutte chiuse277. Il passaggio forzato di allievi italiani alle scuole slovene o croate fu a volte utilizzato come strumento di rappresaglia poli­ tica, come accadde dopo le manifestazioni triestine dell’ottobre del 1953. Ancora diffuso era il metodo dell’analisi del nome, risalente all’epoca dello Stato SHS. Come fece sapere il Cln istriano, «con l’anno scolastico 1953-1954 sono stati costretti a iscriversi a scuole slave tutti gli allievi i cui cognomi secondo le autorità jugoslave non sono di origine italiana (ossia non finiscono con una vocale)». Agli allievi di nazionalità italiana il cui cognome era di origine friulana, tedesca o francese non era dunque consentito «frequentare le lezioni in italiano, la loro lingua madre»278. Costretti ad andare in scuole slave erano tutti coloro i cui cognomi finivano per -ich, a prescindere se l’origi­ naria desinenza «slava» {-ic o -ic) fosse stata italianizzata sotto il fascismo o molto prima279. Per un certo periodo, riferiva il preside del ginnasio di Ca­ podistria, tra le autorità e la direzione del ginnasio c’era stata

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una sorta di tregua; ma il fragile equilibrio si incrinava ogni volta che la situazione internazionale si inaspriva o che si verificava un qualche evento di politica interna, ad esempio un’elezione: in quest’ultimo caso, ad esempio, l’amministrazione accusò gli insegnanti di boicottare l’attività scolastica. Nella seconda metà degli anni Quaranta il provveditorato agli studi ridefinì dall’alto i programmi e l’organizzazione delle lezioni: furono aumentate le ore settimanali e vennero introdotte materie nuove come sloveno, materialismo storico, scienza del­ l’evoluzione ed economia politica, mentre storia della filosofia e religione vennero abolite come materie a se stanti280. Le vaghe idee di democrazia di base del regime, che echeggia­ vano nello stesso appello iniziale rivolto agli insegnanti a prendere in mano la scuola, si espressero, sotto il segno dell’autogestione dei lavoratori, nell’istituzione di consigli delle famiglie (consigli dei genitori) e degli studenti, organizzati in modo analogo ai consigli di fabbrica281. Dall’altra parte, l’amministrazione impediva qualsiasi contatto con l’Italia. I libri di scuola, che avrebbero dovuto essere acquistati in Italia, arrivavano spesso con tre o quattro mesi di ritardo. Il libro di testo d’italiano per la scuola media era prodotto in Jugoslavia e «pieno di errori»282; per quan­ to riguarda la storia veniva utilizzato un testo russo, basato sul «materialismo storico» che, secondo la testimonianza del preside di Capodistria, era talmente poco scientifico che le stesse scuole slovene lo abbandonarono283. Nella primavera del 1952 si verificò una grave crisi tra le autorità della Zona B e gran parte degli insegnanti delle scuole di Capodistria e di Isola, nell’attuale parte slovena dell’Istria. Al centro di questa crisi, che produsse una frattura insanabile, era l’Ente incremento studi educativi (Eise) di Trieste, che aveva assunto una sorta di funzione di intermediazione tra il ministero della Pubblica istruzione a Roma e gli insegnanti delle scuole statali della zona del Territorio libero di Trieste amministrata dalla Jugoslavia. Era un segreto noto a tutti che l’Eise era un paravento per l’erogazione di finanziamenti284: nel marzo del 1952 due insegnanti italiani della Zona B, Amatore Degrassi e Tarcisio Benedetti, furono processati a Capodistria con l’accusa di aver ricevuto attraverso l’Eise sussidi dal governo italiano, e subirono entrambi una condanna, sia pure di diversa entità285. Durante questo processo diversi insegnanti furono incarcerati senza alcun processo: una professoressa ammise di aver ricevuto

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denari dall’Eise e fu immediatamente licenziata286; un’altra, che durante l’interrogatorio crollò e rilasciò una «confessione», si rese disponibile a lavorare come informatrice per la Udba287; una terza, presa di mira perché la sua famiglia possedeva una casa che l’esercito voleva requisire, pur non avendo mai collaborato con l’Eise né con il Cln istriano finì in una lista di proscrizione e la sua corrispondenza fu sequestrata288. Un’insegnante di Pirano, che frequentava l’università di Trieste ed era iscritta all’Uais, fu arrestata e interrogata perché il fratello era un esponente del Cln, e insieme a sua sorella (anch’essa interrogata, minacciata e insultata) decise di andarsene dalla Zona B289. La stessa decisio­ ne fu presa da tutte le altre insegnanti dellTstria settentrionale sopra ricordate, compresa quella che aveva firmato l’impegno a collaborare con l’Udba. Al liceo Combi di Capodistria si verificò invece un caso di «infrazione alla disciplina»: nel maggio del 1952 alcuni insegnanti e studenti rifiutarono di partecipare alla cosiddetta Staffetta della gioventù prevista per il 60° compleanno di Tito290. Tra i funzionari che criticarono il comportamento degli insegnanti e si autodefinirono i «veri nuovi italiani» vi era Antonio Borme, che avrebbe presieduto per molti anni la Uiif. Uno degli insegnanti fu sospeso immediatamente dal servizio per un anno, si recò a Trieste e fece mettere a verbale l’accaduto da un notaio291. Ma questo fu solo l’inizio delle persecuzioni ai danni degli educatori italiani. Le autorità scolastiche chiesero agli insegnanti di Capodistria e di Isola di sottoscrivere risoluzioni di appoggio alla condanna di Degrassi e Benedetti, e addirittura di dichiarare pubblicamente che le sanzioni inflitte ai loro colleghi dal tribu­ nale erano state troppo lievi. A Isola d’Istria, in particolare, il presidente del locale Comitato di liberazione, Nerino Gobbo, fece pressioni sugli insegnanti affinché appoggiassero una risoluzione contro gli imputati al processo di Capodistria292. Quest’azione era parte del tentativo di allentare i legami di solidarietà tra gli insegnanti di lingua italiana. Le promesse dell’Eise di trovare nuovi posti agli insegnanti che si fossero trasferiti a ovest e di offrir loro indennizzi rafforzarono, in certa misura, la posizione negoziale degli insegnanti filoitaliani in Istria293. Tuttavia, le autorità romane e triestine, nella loro azione nella Zona B, non sempre diedero prova dell’attenzione e della discre­ zione necessarie. Le attività dell’Eise crearono agitazione tra gli insegnanti. L’invito a inviare a Trieste la propria documentazione

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per essere pronti ad andarsene in qualsiasi momento fu rivolto a tutti agli insegnanti, e non solo a quelli che già coltivavano idee di fuga. La parte jugoslava associò direttamente l’attività dell’Eise ai tentativi del «Cln fascista» di condizionare i negoziati internazionali o le elezioni294. Il dettagliato resoconto del preside del liceo-ginnasio di Ca­ podistria prendeva in esame anche l’ultima fase del conflitto tra amministrazione jugoslava e insegnanti italiani295. L’alternativa che secondo lui si poneva agli insegnanti italiani era, in ultima analisi, la seguente: «la scuola italiana diventa strumento di propaganda comunista e titoista, o deve sparire; e gli insegnanti che non vo­ gliono prestarsi a far il loro gioco devono andarsene»296. Dopo gli eventi triestini del 20 marzo 1952 a Capodistria regnava ormai un «regime di vero terrore»297. Il preside fu accusato di aver lavorato per l’Italia e per il Cln e costretto a rilasciare una confessione in tal senso dopo due lunghi interrogatori; per sfuggire all’arresto definitivo egli decise allora di rinunciare a tutto ciò che aveva a Capodistria e di fuggire con la famiglia a Trieste298. I soprusi contro gli insegnanti, che non avevano più nulla a che vedere con l’originario programma di epurazione dai resi­ dui del fascismo, avvenivano in una logica di Guerra fredda ed ebbero ripercussioni negative sulla scuola nel suo complesso. Il numero degli allievi nelle scuole della Zona B, dal 1944 in poi, si dimezzò, mentre quello degli insegnanti scese da 319 a 250 («di cui 49 slavi o filotitini»)299. Fino aH’aprile del 1952, furono 58 gli insegnanti che dalla Zona B ad amministrazione slovena e croata si recarono a ovest: ciò portò alla totale chiusura di tutte le scuole di Isola, e alla quasi impossibilità di funzionare per il ginnasio di Capodistria300, dove si lavorava ormai «a orario ri­ dotto con insegnanti di nazionalità slava o con pseudoinsegnanti asserviti ai comunisti titini»301. Nel frattempo gli educatori fedeli al governo costituirono una Società dei professori e maestri sloveni e italiani, alla cui assemblea di fondazione parteciparono, secondo il giornale di Belgrado «Politika», 350 tra insegnanti sloveni e italiani. L’as­ semblea, presieduta da Mario Abram302, ex comandante parti­ giano, accusò «gli irredentisti e i fascisti» di voler «paralizzare l’attività culturale degli italiani nel circondario istriano»303. In un comunicato da Trieste della Tanjug, ripreso da diversi quotidiani jugoslavi, si legge che il Cln svolgerebbe un’opera sistematica di propaganda nei confronti degli insegnanti italiani per indurli ad

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andarsene dalla Zona B, promettendo di procurar loro un posto in Italia304. In realtà non era il Cln ma l’Eise, su direttive provenienti da Roma, a offrire posti di lavoro agli insegnanti istriani, sebbene in Italia vi fosse una forte disoccupazione degli insegnanti. Causa ed effetto erano qui significativamente intrecciati: ogni tentativo esterno di venire in soccorso degli insegnanti oppressi era inter­ pretato dalle autorità jugoslave come ingerenza negli affari interni del paese o come invito allo spionaggio. D ’altra parte, non si può sostenere che l’esodo degli insegnanti si sarebbe potuto evitare se non ci fossero state queste «ingerenze» di Roma e Trieste. Nel complesso, nell’anno scolastico 1951-52 lasciarono la Zona B 112 insegnanti italiani, cui ne seguirono, l’anno dopo, altri 32305. Quando, nell’agosto-settembre 1955, l’autorevole rivista fio­ rentina «Il Ponte», diretta da Piero Calamandrei, pubblicò un fascicolo monografico sulla Jugoslavia, Antonio Borme scrisse per la rivista un contributo sulla situazione scolastica della minoranza italiana, dedicando solo poche, lapidarie parole all’esodo degli intellettuali istriani306. Nel numero della rivista uscito a novem­ bre era riprodotta una presa di posizione del presidente del Cln istriano, in cui, sul tema «scuola», si leggeva: L’esodo dei gruppi «intellettuali», sviluppatosi in forma m assiccia nel 1952 con la partenza di quasi tutti gli insegnanti italiani, non fu «colpevo­ le», ma fu determinato dall’im prow isa e indiscriminata convocazione di tutto il corpo insegnante italiano della zona da parte della polizia politica (Udba) che sottopose i convocati a una serie di minuziosi ed estenuanti interrogatori durante i quali le minacce si alternarono alle lusinghe e a formali, documentabili, offerte di esercitare lo spionaggio a favore del regime307.

Nel caso degli insegnanti, la snazionalizzazione - a differenza da quella degli anni Venti e Trenta - fu soprattutto un fenomeno concomitante (e ben gradito alle autorità jugoslave) dell’esodo. Al regime interessava in primo luogo l’affidabilità politica, e solo secondariamente l’appartenenza etnica degli educatori. Tra i funzionari della cultura che eseguirono gli interrogatori e decretarono i licenziamenti vi erano, ancora all’inizio degli anni Cinquanta, molti italiani. Solo fino a un certo punto si può dunque attribuire l’epurazione e la fine della scuola italiana nella Zona B a una volontà precisa di slavizzazione della regione da parte del regime.

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A prescindere da ciò, nel caso degli abitanti della Zona B non occorre cercare ulteriori motivi di fuga. Spesso le motivazioni dei profughi da quest’area erano simili a quelle degli esuli da Pola, Fiume o daU’Istria meridionale; se essi non fuggirono prima fu solo perché la decisione sull’appartenenza territoriale della Zona B avvenne nel 1954. Fino a quel momento avevano sperato che la Jugoslavia si ritirasse dai distretti di Capodistria e di Buie, la cui popolazione era ancora in maggioranza italiana. 3. Gli esuli in Italia e nella Zona A del Territorio libero di Trieste Subito dopo la guerra Trieste, al di là di qualsiasi conflitto legato alla problematica nazionale e alla questione del sistema, era soprattutto una città di «assistiti» che dipendeva dagli aiuti statali. La città era diventata meta di fuga per migliaia di «pro­ fughi balcanici» che avevano abbandonato l’Europa sud-orientale a causa degli eventi bellici e dei rivolgimenti sociali seguiti alla fine della guerra308. Come alla fine della Grande guerra, un numero enorme di persone sopravviveva solo grazie agli aiuti stanziati in via straordinaria dal governo italiano. Un Comitato per l’assistenza postbellica, dipendente dall’omonimo ministero, sovvenzionava organizzazioni di reduci, mense del movimento operaio cattolico, gruppi di esuli istriani, associazioni di ex de­ portati militari in Germania, istituzioni religiose di assistenza e organizzazioni di invalidi309. Tuttavia, lo stesso ministero che si occupava della distribuzione di vestiario ai bisognosi e di pasti caldi ai profughi finanziava le attività clandestine del Comitato di liberazione istriano nella parte jugoslava della penisola. Al Cln regionale, che aveva sede a Trieste, furono erogati cinque milioni di lire: di questi, tre milioni rimasero a Trieste, Gorizia ricevette 1 milione e 200 mila lire e Pola 800 mila310. Quasi tutti gli esuli arrivati in occidente dalla Zona B tra l’ottobre del 1953 e la metà del 1956 fecero una prima tappa a Trieste, che fu messa in difficoltà dall’arrivo dei 20 mila nuovi profughi, anche perché negli anni precedenti aveva già dovuto accogliere 30 mila italiani provenienti dalla regione adriatica. Dei 33 mila profughi che sarebbero giunti da Pola, solo 2.500 avevano come prospettiva immediata una casa e un posto di la­ voro, mentre altri 9.500 potevano almeno contare sul secondo311.

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Ciò significava dover provvedere a decine di migliaia di alloggi e di posti di lavoro per gli altri profughi provenienti da Pola e dairistria. Per quanto riguarda la penuria di abitazioni, le autorità confidavano neüa risposta spontanea del mercato immobiliare, ma si dichiararono pronte a prendere provvedimenti forzosi (come il sequestro di abitazioni) e crearono dei campi per offrire alle persone una sistemazione di fortuna312. Nel caso dell’esodo da Pola, che solo in minima parte si indirizzò verso Trieste, inizialmente si pensò di costruire, in un’area disabitata, una «nuova Pola»313, una «città giuliana»314 cui si sarebbe potuto dare il nome di «Istria d’Italia», progetto che andava però ben oltre le possibilità finanziarie e organizzative dell’Italia di allora315; 5-6 mila profughi furono comunque sistemati nei dintorni di Gorizia e di Monfalcone, dove esistevano anche maggiori possibilità di occupazione immediata nell’industria316. Nell’aprile del 1947 a Gorizia si trovavano già mille famiglie di Pola; la città annunciò di aver esaurito la propria capacità di accoglienza, lasciando senza alloggio 35 famiglie317. Nel caso della Zona B, invece, s’impose l’idea di concentrare il più possibile i profughi318. La maggior parte di costoro, giunti a Trieste nel 1947, alla fine degli anni Quaranta o intorno al 1954, trascorse un periodo più o meno lungo in campi eufe­ misticamente definiti «centri di raccolta»319: si trattava in realtà di ex campi di prigionia o di caserme ormai vuote, i cui ampi spazi furono suddivisi mediante tramezzi in unità abitative più piccole, chiamate «box»320. Quando americani e britannici si ritirarono da Trieste, il governo militare alleato affidò al prefetto Memmo i campi triestini, parte dei quali erano stati preceden­ temente utilizzati per accogliere profughi provenienti dai paesi balcanici321. Intorno al 1956 a Trieste e dintorni ancora 12 mila persone vivevano in simili campi, i maggiori dei quali erano stati creati nel Carso322. Particolarmente disastrosa era la situazione degli alloggi di fortuna verso la fine del 1955: D al 5 ottobre 1954 all’ 11 novembre 1955 il numero degli istriani tra­ sferitisi in territorio nazionale (Trieste e circondario) secondo la procedura dell’art. 8 del Memorandum di Londra è stato di 12.219 unità senza contare i 2.750 profughi dalla fascia del m uggesano passata alla Jugoslavia323.

Questo afflusso di pròfughi andava ineluttabilmente oltre le capacità di accoglienza di Trieste; divenne dunque necessario il

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sostegno delle regioni italiane economicamente più forti. Da una lettera di protesta indirizzata al Commissario del Governo dagli istriani ospitati nel campo profughi di Santa Croce si evince che essi vivevano tutti da anni in baracche di legno, ognuna delle quali ospitava tre nuclei familiari, con circa 30 metri quadrati a disposizione ciascuno; ogni baracca aveva una porta e due fi­ nestre, ed era priva di impianti sanitari524. Nello stesso campo i profughi iniziarono a costituire «comitati fiduciari» e a indirizzare richieste alle autorità325. Dei profughi dalla Zona B si sa che essi generalmente an­ davano malvolentieri nei campi, sia perché erano informati del tipo di sistemazione e delle condizioni di vita che offrivano, sia perché non volevano trovarsi ancora una volta in zone popolate da «slavi»326. Grandi problemi pose anche lo stoccaggio dei mobili portati con sé dagli esuli, che spesso non si potevano introdurre nei piccoli e precari alloggi327. L’Ufficio di zona per l’assistenza postbellica si trovò poi in una situazione difficile, poiché il divario tra le spese mensili per l’assistenza ai profughi e i finanziamenti del ministero era sempre maggiore. A seguito del forte aumento delle spese (secondo i dati forniti al 23 agosto l’esodo dalla Zona B aveva già coinvolto oltre 5 mila persone) erano rimaste risorse per meno di un mese328. Il numero delle persone da assistere si aggirava allora intorno a 10 mila. Chi non rimaneva a Trieste era di solito indirizzato al Centro smistamento profughi di Udine, affinché venisse si­ stemato provvisoriamente in un campo o stabilmente in uno dei nuovi insediamenti329. Il governo titoista, fino al momento in cui rinunciò al suo obiettivo iniziale - il confine dell’Isonzo - fu ben contento di poter dimostrare che Trieste era in realtà un’isola italiana circondata da zone popolate da slavi. Contri­ buiva a rafforzare questa posizione la tesi secondo cui era slava tutta la costa a ovest di Trieste, fino a Monfalcone. Durante la controversia sul Territorio libero di Trieste la parte jugoslava raccolse sistematicamente documentazione sulla politica di inse­ diamento del governo militare alleato e di diverse organizzazioni italiane, sia per avere argomenti da contrapporre alle accuse sul trattamento degli italiani in Istria, sia per criticare le effettive carenze e omissioni della politica del governo militare alleato in fatto di minoranze. Quella politica, che puntava a creare alloggi per decine di migliaia di esuli provenienti da Fiume, dalla Dalmazia, dallTstria

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e dalla Zona B, offriva già motivi sufficienti di critica. Come ha scritto Bogdan C. Novak: G li sloveni sostenevano che la loro terra veniva espropriata. L e nuove case per i rifugiati italiani venivano costruite non soltanto nei sobborghi di Trieste, ma anche in villaggi completamente sloveni, separati da Trieste, sebbene facenti parte del comune di Trieste. A Duino, vicino al confine italiano, fu costruito un nuovo villaggio di pescatori per rifugiati italiani e a tal fine fu espropriato territorio sloveno. Vicino a O picina fu fondato il villaggio del Fanciullo per orfani. Lungo la costa tra Trieste e Duino sorsero nuovi alberghi e stazioni balneari, causando la espropriazione di altro terreno sloveno. A Zaule, a sud di Trieste, l’Ente per il porto industriale di Zaule, finanziato con i fondi dell’E rp 330, aveva costruito un nuovo porto industriale. Vicino a O picina fu costruito un nuovo villaggio per le famiglie degli ufficiali inglesi e americani di stanza a Trieste. Anche per questo progetto fu espropriato territorio sloveno331.

Sia che perseguissero consapevolmente una politica di snazionalizzazione della minoranza slovena, sia che davvero il terreno edificabilc fuori della città di Trieste e in alcuni dei suoi sobborghi si trovasse solo nelle immediate vicinanze di aree a popolazione slovena, le autorità si curavano ben poco delle obiezioni della minoranza al reinsediamento di fiumani e istriani su «suolo slavo». Dai documenti oggi accessibili è difficile capire se chi pre­ disponeva i piani di insediamento puntasse deliberatamente alla snazionalizzazione di aree slovene. Si può tuttavia affermare che esisteva un tacito consenso tra i soggetti statali, parastatali, cooperativi e privati coinvolti - istituzioni, commissioni, autorità, imprese ecc. -, nessuno dei quali aveva particolare motivo di preoccuparsi degli interessi degli sloveni nella Zona A e di tener conto nei propri progetti. In ogni caso, dalla documentazione si desume che gli uffici competenti volevano disperdere meno possibile i profughi per l’Italia, e cercavano piuttosto di accelerare il più possibile la costruzione di alloggi a Trieste e dintorni. E se era inevitabile sistemare dei profughi a ovest del confine tra la Repubblica italiana e il Territorio libero di Trieste, le regioni preferite d’insediamento erano. Friuli e Veneto332. Nelle fonti si coglie anche l’urgenza con cui i responsabili dovevano cercare di provvedere all’alloggio per migliaia di persone. La sistemazione in campi profughi poteva essere solo un rimedio di emergenza. E il Cln istriano si oppose con forza

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all’invio di esuli dalla Zona B in uno dei grandi campi dell’Italia meridionale, ad Altamura (Bari)333. Nel dicembre del 1953 si svolse una riunione interministeriale in cui fu deciso di destinare alla costruzione di alloggi due zone di bonifica dell’Ente Triveneta, rispettivamente vicino a Caorle e a Barbana. All’epoca si pensava ormai che dalla Zona B avrebbero finito per andarsene tutti gli italiani (circa 25 mila persone). Nelle due zone citate si sarebbero costruite rispettivamente 2.500-3.000 e 1.200 unità abitative334. Il 7 agosto 1954, sotto la guida del prefetto Memmo, rappre­ sentanti del Cln deU’Istria, del Consorzio nazionale cooperative pescatori e affini, dell’Ente Triveneta e dell’Opera per l’assistenza ai profughi giuliani e dalmati discussero sulla definizione di un ulteriore progetto per la sistemazione dei profughi provenienti dalla Zona B, che venne presentato al governo335. Questo fu uno degli elementi che caratterizzarono la migrazione dalla Zona B verso Trieste e l’Italia: a parte casi di persecuzione politica diretta e individuale (insegnanti, preti), nessuno si mise in fuga precipito­ samente. I piani delle autorità, nella Zona A e in Italia, poterono dunque basarsi su previsioni circa i flussi di profughi in arrivo. Ciononostante, stando alle indicazioni del Cln, già nell’estate del 1954 c’era carenza di alloggi e di occupazione per tutta una serie di gruppi di popolazione: coltivatori, operai, artigiani, pescatori336. Per la sistemazione dei contadini erano disponibili soprattut­ to aree situate al di fuori della Zona A, in regioni appartenenti all’Italia da molto tempo. Artigiani e operai furono alloggiati a Trieste e in altre città italiane. L’Opera per l’assistenza prendeva in esame prioritariamente luoghi dove fosse più facile trovare posti di lavoro adeguati. «Particolarmente urgente» era considerata la sistemazione dei pescatori provenienti dalle località costiere della Zona B, e giunti ormai già quasi tutti a Trieste. L’attuazione del piano fu affidata al Consorzio nazionale cooperative pescatori e affini, che conosceva le esigenze di questo gruppo e disponeva di adeguate attrezzature tecniche337. Come nuova sistemazione per i pescatori fu preso in considerazione innanzi tutto il Lazzaretto vecchio a Muggia, vicino al mare e ancora occupato da soldati britannici, dove avrebbero potuto rapidamente essere accolte 100 famiglie338. Contro i progetti di creare insediamenti di pescatori istriani lungo la costa a ovest di Trieste protestò personalmente lo stesso Maresciallo Tito:

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Confiscano o acquistano forzatamente terre di contadini sloveni e creano interi villaggi di pescatori e altri insediamenti in cui sistemano italiani, per creare una continuità etnica tra Trieste e Trzic [M onfalcone]. Io stesso, e noi tutti, ci opponiam o a una simile continuità, che è irrealistica, poiché in quei luoghi non vivono italiani, ma sloveni339.

Nella questione era coinvolto soprattutto il comune di Dui­ no, la cui maggioranza slovena in Consiglio comunale si oppose all’insediamento degli istriani. Il 7 marzo 1955 giunse a Duino un commissario della Prefettura di Trieste, dotato dei poteri per sostituire ad acta il sindaco nell’esercizio delle sue funzioni. Egli rilasciò all’Opera la licenza per la costruzione di un insediamento che avrebbe dovuto accogliere 1.200-1.500 istriani, in un luogo che contava una popolazione inferiore a 5 mila abitanti340. Complessi simili, come Borgo San Mauro a Sistiana, nacquero ovunque, nei pressi di Trieste e sulle alture del Carso. Si trattava di edifici abitativi compatti, creati esclusivamente per gli istria­ ni, dotati di propri negozi, gestiti dagli stessi profughi341. Fino al 1997 nella provincia di Trieste furono costruiti 17 di questi insediamenti; in quindici casi il committente della costruzione fu l’Oapgd, in due l’Ente per la rinascita delle tre Venezie342. Come ha scritto l’esponente dei profughi Flaminio Rocchi: Il principio etico-sociale di queste costruzioni edilizie consiste nell’attenuare il più possibile la violenza del trapianto di questa gente, sradicata dalle proprie case, e di ricreare l’ambiente del paese o della città perduti [...]. Si evita la costruzione di grossi caseggiati, dando la preferenza a piccole costruzioni, con ingressi esterni indipendenti, con vasto respiro di giardini e di aiuole, con criteri di sem plice signorilità343.

Naturalmente in questa «semplice signorilità» si può anche riconoscere l’identità dell’istriano, così come è espressa nei romanzi di Fulvio Tomizza. Nonostante ciò, la descrizione di Rocchi appare ispirata in pari misura al desiderio di identità e alla speranza di superare rapidamente il trauma della fuga344. I progetti dell’Oapgd puntavano, in ultima analisi, a creare una «realtà autosufficiente» e sostanzialmente separata dal resto della vita cittadina, capace di acquisire vita propria345. L’Opera per l’assistenza ai profughi giuliano-dalmati promosse la costruzio­ ne, oltre che di edifici abitativi e di villaggi di pescatori istriani, anche di orfanotrofi e ospizi per gli esuli. Si trattava pur sempre di tutelare una «identità» che in Italia rischiava di restare vittima dell’«omologazione» (Pier Paolo Pasolini).

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Giustamente è stata sollevata la questione di come potesse questa finalità coesistere con la grande vicinanza di insediamenti sloveni situati anch’essi, come i «borghi» degli istriani, appena fuo­ ri Trieste o nel Carso. Emerse a tale riguardo lo slogan della «cin­ tura istriana» attorno alla città di Trieste che avrebbe contribuito, secondo molti triestini, a limitare la libertà di movimento della minoranza slovena346. Trieste ebbe in effetti una posizione di primo piano nel numero di alloggi costruiti con il sostegno dell’Oapgd. In questa città già nel 1954 erano stati costruiti 3.642 alloggi; seguiva­ no Gorizia con 600, Venezia con 332, Varese con 250 e Udine con 220. La costruzione di abitazioni per i profughi si concentrò dun­ que nel nord-est d’Italia, e soprattutto nell’area che facente parte fino al 1954 della Zona A del Territorio libero di Trieste347. Piero Purini ha documentato, sulla scorta del caso di DuinoAurisina, la forte crescita percentuale della popolazione italiana a seguito della politica di insediamento348. Di fatto questa politica cessò solo negli anni Sessanta, quando a Trieste la corrente della Democrazia cristiana guidata a livello nazionale da Aldo Moro si alleò con i socialisti e con gli sloveni cattolici. Una delle condizioni poste per la nascita di questa coa­ lizione italo-slovena di centro-sinistra fu che l’amministrazione cittadina cessasse di creare insediamenti chiusi di profughi istriani in quartieri, insediamenti o villaggi slavi349. Si crearono in tal modo, per la prima volta, presupposti favorevoli a una conciliazione tra italiani e sloveni sul litorale. Qualche anno dopo, quando le coalizioni classiche di centro-sinistra erano quasi al tramonto, a Osimo, nei pressi di Ancona, fu firmato il trattato sui confini, che pose i rapporti tra i due vicini adriatici su solide basi e che ha costituito uno dei presupposti del presente lavoro. Vale la pena, dunque, in questa sede, tornare a guardare in chiave di confronto la problematica della fuga, dell’esilio e del­ l’espulsione. Alla fine delle due guerre mondiali, i protagonisti di questa vicenda sull’Adriatico non erano in grado di risolvere la questione nazionale. Per due volte, in seguito a una occupazione militare e/o a un’annessione territoriale, si arrecarono sofferenze e si commisero torti. La conseguenza fu che decine di migliaia di persone (nel primo caso), e circa 250 mila persone (nell’altro) abbandonarono villaggi e città per cercare rifugio nel paese vicino, in Europa o persino oltreoceano. L’esilio sloveno-croato avvenne nel corso di due decenni; a partire furono generalmente individui, famiglie o piccoli gruppi

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che volevano trovare un lavoro e una sistemazione nello Stato SHS o in Jugoslavia. Altri si recarono nell’Europa occidentale e nell’America settentrionale o meridionale. Questa partenza dalle regioni adriatiche appartenenti all’Italia non era direttamente ri­ conducibile a dati della storia politica (a parte l’annessione italiana del litorale nel 1920 e la marcia fascista su Roma nel 1922). Al contrario, l’esodo degli italiani dopo il 1945 fu perlopiù direttamente legato alle scadenze definite dalla diplomazia in­ ternazionale: all’entrata in vigore del trattato di pace, alla fine del Territorio libero di Trieste e ai tempi previsti per esercitare l’opzione. L’esodo italiano avvenne in un periodo di tempo di­ mezzato rispetto a quello che aveva avuto a disposizione l’esilio jugoslavo. Questo fatto, e le diverse modalità d’insediamento di italiani e slavi, insieme a una differenza quantitativa tutt’altro che insignificante, contribuirono a far sì che la dimensione dei due fenomeni di fuga e di migrazione fosse percepita in modo molto diverso. Quando in decine di villaggi slavi della regione giuliana qual­ che casa rimaneva vuota o qualche campo incolto perché parte degli abitanti era andata in Jugoslavia o oltremare, l’opinione pubblica non se ne accorgeva, perché persino nei rapporti delle prefetture o delle questure, dei carabinieri o delle milizie di confine le indicazioni al riguardo erano pochissime. Viceversa, il vuoto creatosi nella città di Pola dopo il ritiro degli Alleati e dopo la partenza degli italiani non poteva passare inosservato. Colpisce il fatto che entrambe le parti - quella jugoslava tra le due guerre e quella italiana dopo il 1947 - procedessero in modo simile, facendo di una parte dei profughi e degli emigrati i protagonisti di una politica di insediamento che avrebbe avuto un effetto di snazionalizzazione sul rispettivo «altro», o avversa­ rio, e in alcuni casi anche su altri gruppi (magiari, macedo-slavi, albanesi del Kosovo). Gli slavi deH’Istria e del litorale negli anni Venti e Trenta, così come gli esuli italiani dopo il 1945, furono disponibili a mobilitarsi politicamente a favore dei programmi e delle finalità del rispettivo governo centrale. Anche in questo caso si notano alcuni significativi paralleli: come gli sloveni e i croati giuliani erano totalmente estranei alla problematica croata, gli istriani erano in gran parte ostili alla sinistra politica e costituirono un’affidabile riserva elettorale per la Democrazia cristiana al governo e per i suoi alleati minori. All’atteggiamento di rifiuto

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cui i profughi istriani andarono incontro, soprattutto in Croazia, fece da contraltare l’accoglienza sfavorevole ricevuta dagli esuli nelle roccaforti dei comunisti italiani. Da tutto ciò nasce tra le altre cose una proposta: come le parole «esilio» ed «esuli», anche il termine biblico di «esodo», a oltre mezzo secolo dagli avvenimenti, non dovrebbe essere più monopolizzato da un partito o da una parte. Anche la partenza degli sloveni e dei croati negli anni Venti e Trenta, nonostante le sue tante differenze rispetto all’«esodo» degli italiani dopo la Seconda guerra mondiale, si può definire un «esodo». Sicuramente l’esilio slavo non segnò la fine completa di una cultura regionale, perché nonostante tutti i ritocchi del quadro fu molto meno totale dell’esodo degli italiani. Tuttavia, le devastazioni culturali prodotte dal fascismo italiano negli anni Venti e Trenta nelle zone popolate da slavi non si possono in alcun caso sottovalutare.

Conclusioni

Questo volume ha inteso offrire nuovi spunti per un’analisi storico-culturale comparativa di esperienze di nazionalizzazione, assimilazione, migrazione, fuga ed espulsione verificatesi lungo una linea di demarcazione più volte modificata, e divenuta «frontiera», con particolari sofferenze, nel corso del Novecento. Nel Carso, sull’Isonzo e in Friuli la guerra del 1915-1918 fu condotta e vissuta come guerra «totale», creando i presupposti per una ridefinizione delle idee di identità nazionale. L’ostilità, assurta a odio, dei nazionalisti e fascisti italiani verso tutto ciò che era «slavo» fece proprie alcune formule xenofobe della Trieste prebellica e trovò una forte motivazione nel modo in cui sia gli italiani sia gli sloveni e i croati erano usciti dal processo di dis­ soluzione della monarchia asburgica. I movimenti migratori e la specifica forma dei rapporti città-campagna sul litorale austriaco avevano favorito una stereotipizzazione degli sloveni come popolo di «contadini» e «domestici». Questa situazione fu modificata ben poco dalla guerra, durante la quale decine di migliaia di sloveni combatterono nelle file austriache: gli slavi della regione alpina furono considerati «austriacanti» anche dopo il 1918, e come tali si trovarono esposti alle persecuzioni fasciste. Nel caso dei croati, il ricordo italiano della guerra si accompa­ gnava a rancori preesistenti. Dei croati ci si ricordava, soprattutto nell’Italia settentrionale, come strumento dell’oppressiva domina­ zione asburgica: un fatto che il fascismo riuscì a strumentalizzare fino agli anni Quaranta. In generale l’atteggiamento nazionale italiano era improntato all’idea che il regno degli slavi del sud non fosse uno degli «Stati successori» della monarchia asburgica, ma una sorta di sua prosecuzione in chiave balcanica. Tutto ciò rinvia alle «funzioni della guerra nella costruzione di nazioni e nella creazione di Stati nazionali», che sono state

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Conclusioni

sottolineate di recente e che sull’Adriatico nord-orientale si ma­ nifestarono in modo peculiare1. In Italia nei decenni successivi all’unificazione territoriale progredirono la costruzione della dimensione nazionale e la formazione di uno Stato nazionale e di una nazione titolare che gradualmente si omogeneizzava. Se la Triplice alleanza, di cui l’Italia fece parte fino al 1915, legittimava e garantiva in certa misura (ma non agli occhi degli irredentisti triestini) la sopravvivenza della monarchia austro-ungarica, quasi tutti i protagonisti di parte italiana videro nell’espansione dello Stato nazionale e in un ampliamento dei suoi confini la via d’usci­ ta dal disordine provocato dalla guerra. Se inizialmente parve che il paese potesse superare senza grandi difficoltà interne le problematiche legate alle annessioni a nord e nord-est, la fretta dimostrata in tale frangente e l’insofferenza verso tutti i «relitti asburgici» fecero sorgere un sospetto. Ogni nazione realmente sovrana avrebbe dovuto risolvere localmente a modo proprio le aspirazioni autonomistiche delle minoranze e di molti che face­ vano parte della maggioranza. Che il fascismo, dopo una breve fase di incubazione in cui era rimasto all’ombra dell’impresa di Fiume, si presentasse come deciso promotore di un processo di snazionalizzazione e di accentramento («fascismo di confine») evidenzia le debolezze strutturali dellTtalia e la sua incapacità di integrare pacificamente le nuove province. Presso gli slavi del sud la guerra mondiale, nella sua ultima fase, favorì il rapido emergere dell’idea di Jugoslavia. Solo dopo che tut­ te le opzioni austro-slaviste o trialiste furono screditate divenne possibile al politico sloveno Anton Korosec rispondere all’impera­ tore austriaco, quando questi gli chiese che almeno i suoi conterra­ nei rimanessero fedeli alla monarchia, che era «troppo tardi»2. L’entusiasmo di sloveni e croati per la causa comune jugo­ slava, constatato nel 1920 da Hermann Wendel, era presente in modo subliminale fin dalle guerre balcaniche, e nel 1918 crebbe rapidamente di fronte alla minaccia dell’espansionismo italiano e alle inquietudini sociali, ma, se lo si esamina in una prospettiva più ampia, rimase superficiale. Tra le culture della memoria del­ l’Italia e del Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni esistevano affinità, ma anche differenze. Ciò non è sorprendente, poiché esse dovevano svolgere funzioni di integrazione in parte simili, ma in parte completamente diverse. Sul piano strutturale i monumenti agli eroi e ai combattenti, i cimiteri e i sacrari militari, la rivitalizzazione del culto cetnik, i

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pugnali degli arditi e i riti adriatici di D ’Annunzio e della dina­ stia Karadordevic, pur ricollegandosi al passato, erano segni di una nuova epoca in cui in tutta Europa la dimensione nazionale aveva una valenza del tutto diversa dalla stessa dell’ubriacatura patriottica dell’inizio di agosto del 1914 o delle «radiose giornate» di maggio del 1915. L’Italia continuò ad argomentare sulla base delle centinaia di migliaia di caduti che si erano sacrificati per un unico scopo: il compimento del Risorgimento e l’acquisizione delle «terre ir­ redente». Rispetto a questo era del tutto irrilevante che sudditi italiani della monarchia asburgica avessero combattuto in Galizia e nei Balcani contro l’Intesa e i suoi alleati. D ’altra parte, le élite sud-slave dovevano dimenticare, e far dimenticare, che erano scese in guerra per due diversi monarchi: il re di Serbia e l’imperatore d’Austria. Il tentativo degli integralisti jugoslavi di richiamarsi ai miti fondativi della nazione per distogliere l’attenzione dall’as­ senza, negli anni 1915-1918, di una piena «fratellanza d’armi» serbo-croato-slovena avvenne a spese tra gli altri dell’Italia. Le pubblicazioni jugoslave sottolineavano che l’Austria sullTsonzo aveva condotto una guerra difensiva e si fecero beffe delle scarse virtù militari «degli» italiani e delle loro difficoltà a ricordare la sconfitta di Caporetto. Nel 1918-20 fu soprattutto il rapporto reale di forze sul piano politico-militare, che volgeva decisamente a favore dell’Italia, a far scivolare Roma nei panni dell’aggressore. Il nazionalismo sud­ slavo dovette mettersi sulla difensiva, sebbene la rivendicazione, che risaliva agli anni successivi al 1848, di un «confine etnico» a ovest di Trieste e a nord di Klagenfurt comprendesse anche città e territori popolati in maggioranza da italiani. Il trattato di Rapallo, che sloveni e croati videro come un’ingiustizia inaudita, era per l’Italia la versione moderata di una politica espansionistica legittimata dalla storia. Chi vuole comprendere lo sgomento dei vicini sud-slavi deve tener conto che tra il 1918 e il 1941 il nucleo principale delle regioni che oggi fanno parte delle repubbliche di Slovenia e di Croazia era molto più dinamico, rispetto al panorama complessivo jugoslavo, di quanto non fossero la Venezia Giulia o il Friuli ri­ spetto ad altre regioni settentrionali del Regno d’Italia. Soprattutto Lubiana fu tra i beneficiari dell’annessione allo Stato sud-slavo, mentre per Trieste la separazione dalla compagine multinazionale dello Stato austro-ungarico risultò fatale. Ma per comprendere

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meglio il divario effettivo, e difficilmente superabile, tra queste due città occorre aggiungere altre considerazioni. Negli anni tra le due guerre mondiali Trieste viveva soprattutto di un grande passato, che era però spesso costretta a rinnegare per il decisivo periodo trascorso sotto il segno della «barbarica» dominazione asburgica. Tanto più urgente appariva ai principali attori italiani richiamarsi a Roma e Venezia come antesignane dell’«italianità» sull’Adriatico nord-orientale. Invece la Slovenia e la Croazia, degradate dalla monarchia jugoslava, dalla sua burocrazia e dal suo esercito a oggetto prevalentemente passivo di una ideologia di Stato che si spacciava per jugoslavistica ma sanciva il primato serbo, elaborarono risposte molto diverse, ma in entrambi i casi efficienti, alla sfida di Belgrado. La Croazia insorse contro la dinastia Karadordevic e contro i suoi politici, nel quadro di un processo di nazionalizzazione che coinvolse la massa più vasta della popolazione, mentre la Slovenia riuscì ad assicurarsi un elevato grado di autonomia culturale attraverso 1’élite-bargainìng di una partecipazione del Partito popolare slo­ veno (Sls) al governo dello Stato dominato dai Serbi. Viceversa, ancora negli anni Trenta la Venezia Giulia apportò contributi essenziali alla costruzione di una dimensione nazionale sotto il segno del fascismo. Le élite locali, legate a filo doppio al regime, utilizzarono a tal fine il culto degli eroi e la cultura della memoria, la cui espressione più spettacolare fu, accanto ai monu­ menti ai caduti e ai cimiteri militari, la Mostra della rivoluzione fascista. Gli sforzi del regime puntavano a una musealizzazione del litorale adriatico che ebbe conseguenze affatto modernizzanti, dischiudendo fra l’altro l’area tra le Alpi e l’Adriatico al turismo dei campi di battaglia promosso dal Dopolavoro e dal Touring Club d’Italia. Sloveni e croati videro nell’ex litorale austriaco una regione in cui la cultura sud-slava aveva radici profonde; gli irredentisti adriatici, e ancor più i fascisti, sottolinearono invece la continuità latina dell’area. Per gli abitanti del litorale e per gli istriani di lingua slava, che erano oppressi dalla presenza militare italiana e limitati nella propria libertà di movimento dalla nuova fron­ tiera, la presa del potere da parte di Mussolini portò con sé un deciso peggioramento della situazione. In pochi anni il regime distrusse la solida infrastruttura regionale di scuole, associazioni, partiti, giornali, cooperative che la nuova minoranza di confine aveva utilizzato fino allora per articolarsi in senso nazionale. Il

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fascismo sostituì le organizzazioni e i mezzi di comunicazione disciolti con istituzioni fasciste statalizzate o comunque dirette dal centro, che corteggiavano la popolazione slava allo scopo soprattutto di italianizzarla. Fino alla seconda metà degli anni Trenta si potè parlare di un contrasto sempre più profondo tra «italianità» e slavismo, nel senso di un «vero conflitto etnico» (Angelo Vivante). Un chiaro indizio della crescente polarizzazione fu costituito dal fatto che la cultura di massa del tempo libero e della gioventù progettata («costruita») dal fascismo non venisse accettata dagli sloveni e croati giuliani. Né Belgrado né Roma furono durevolmente in condizione di dare agli abitanti dei nuovi territori acquisiti i diritti di autono­ mia cui essi aspiravano. Mentre la «questione croata» diveniva un ostacolo rilevante al consolidamento del regno sud-slavo, e una serie di crisi di politica esterna e interna finiva per condurre all’istituzione della dittatura del re, il fascismo italiano fece della mobilitazione nazionale nell’Adriatico una delle pietre angolari del rafforzamento del proprio regime. In ciò esso procedette in modo molto simile ai suoi vicini orientali, anche se più esitante e tardivo. Se per sloveni e croati - come per i serbi - esistevano dei luoghi tradizionalmente «sacri» e dal forte valore simbolico ai margini, o addirittura fuori, dei territori effettivamente popolati da sloveni e croati, l’irredentismo adriatico e il fascismo crearono tradizioni che diedero alla regione di confine un nuovo posto nell’ambito dello Stato unitario e della sua ideologia nazionale. Da un certo momento in poi, nella zona di confine l’affermazione dell’«italianità» non era più pensabile senza l’onnipresenza dei leoni di San Marco, così come non lo era la prescrizione dello «jugoslovenstvo» senza la leggenda del Kosovo polje. La cesura della Prima guerra mondiale, che rafforzò il «nazionalismo totale» di entrambe le parti (Gatterer), fu più profonda per l’idea di nazione italiana che per quella sloveno­ croata. L’«italianità» negli anni del dopoguerra si etnicizzò, e a partire dal 1936 si caricò di un’ulteriore accezione razzista. Analoghi processi avvennero anche in Jugoslavia, ma in modo meno continuo; la nuova miscela di nazionalismi regionali e di ideologia nazionale serba orientata in senso centralistico-statale era troppo complessa perché soprattutto la seconda fosse soste­ nibile a lungo andare. Le associazioni nazionalistiche e le leghe paramilitari, assai temute dalle minoranze dello Stato balcanico, dopo aver compiuto alcune azioni spettacolari divennero mar­

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Conclusioni

ginali. Il tentativo di radicare a livello di massa in tutto il regno i miti fondativi serbi fallirono. In compenso, le possibilità di articolazione della dimensione nazionale slovena e croata, sebbene a tratti minacciate, rimasero a lungo andare relativamente stabili, e i partiti regionali catto­ lici e populisti dell’Sls e dell’Hss mantennero la loro influenza. Anche i comunisti, che negli anni Trenta erano orientati (nei limiti consentiti dallo stalinismo) in senso «internazionalista» e centralistico-jugoslavo, furono costretti a tener conto delle aspi­ razioni autonomistiche slovene e croate, creando organizzazioni regionali formalmente indipendenti (Kps e Kph). In quel mo­ mento appariva già chiaramente che era impossibile porre fuori legge, come aveva tentato di fare la dittatura del re, il mondo simbolico dei croati e degli sloveni, a cominciare dalle rispettive bandiere «etniche». I termini «italianità» e «jugoslovenstvo» colgono l’aspetto soggettivo-metaforico, simbolico-rappresentativo ed emotivo dell’esistenza, sull’Adriatico, di una maggioranza e minoranza nazionali (con le varie sfumature intermedie). Non è necessario ricorrere a griglie socio-economiche o a costruzioni del Lebenswelt per spiegare che cosa fu a trasformare in «italiani» i triestini di lingua italiana e che cosa contribuì a che gli abitanti slavofoni della stessa città si considerassero «jugoslavi» e poi tornassero a sentirsi in primo luogo «sloveni». Decisivo fu che «italianità» e «jugoslovenstvo» fossero avvertiti da una parte o dall’altra della popolazione adriatica come ideologie repressive e strumenti di assimilazione. La dimensione nazionale dopo il 1918 non fu semplicemente costruita o diffusa come offerta di identità, ma molto spesso fu imposta. Se ciò è del tutto evidente per quanto riguarda l’«italianità» (che troppo a lungo dominò pressoché incontrastata a Trieste e dintorni, e su cui il fascismo ebbe troppo a lungo il monopolio dell’interpretazione), è vero anche per lo «jugoslovenstvo», che avrebbe dovuto costituire il collante rituale, simbolico e culturale dell’egemonia serba sullo Stato SHS. In Venezia Giulia l’«italianità» potè aspirare a un primato assimilatorio-repressivo. In Dalmazia lo Stato centralistico perse rapidamente il consenso dei contadini croati: nella realtà Belgrado non li aveva trattati molto meglio di quanto Roma avesse trattato i tanto commiserati compatrioti istriani. L’«italianità» e lo «jugoslovenstvo» ebbero, tra le due guerre, un rapporto quasi sempre complementare: l’uno e l’altro aiutarono le élite del paese

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vicino, attraverso una delimitazione nei confronti dell’altro, a integrare sul piano «nazionale» alcune parti della popolazione e ad escluderne altre. Questa esclusione consisteva nel consegnare gli interessati all’apparato repressivo, spingerli ai margini della società o indurli a emigrare. Accanto a ciò, vi furono differenze nell’uso dell’«italianità» e dello «jugoslovenstvo» da parte delle rispettive élite. Nel caso dell’«italianità» l’elemento caratteristico fu una spinta all’affermazione nel mondo. Essa fu utilizzabile anche sul pi­ ano della politica estera, nel corso delle alterne vicende della diplomazia europea. In certa misura tale ideologia rimase competitiva persino rispetto alla nuova incultura totalitaria che si stava sviluppando a nord delle Alpi. Lo «jugoslovenstvo», invece, esprimeva un’aspirazione all’unificazione e al primato nell’Europa sud-orientale. Se l’«italianità» recava l’impronta di un movimento di unificazione che aveva fatto da modello per molte altre aree d’Europa, tra cui la stessa Slavia meridionale, lo «jugoslovenstvo» era caratterizzato da una ristrettezza e da un provincialismo solo in parte attenuati e sublimati dal riferimento a contesti balcanici o panslavi. Il calcolo politico che stava dietro l’impiego delle ideologie nazionali non fu premiato, come si vide nel 1941 e nel 1943 con la disgregazione dei rispettivi paesi. L’attacco italo-tedesco alla Jugoslavia innescò contrasti interni maggiori dell’occupazione tedesca dell’Italia e dell’avanzata angloamericana nel sud della penisola. Tuttavia, sia a est che a ovest dell’Adriatico l’istituzione monarchica, collegata all’identità nazionale e al movimento di unificazione, fu danneggiata così gravemente da non sopravvi­ vere alla Seconda guerra mondiale (in Jugoslavia) o da riuscirvi solo per breve tempo (in Italia). Democrazia e idea nazionale stabilirono nella guerra partigiana un legame stretto e inizial­ mente almeno in parte proficuo. Dopo la capitolazione italiana l’atteggiamento terroristico degli occupanti tedeschi contribuì a sviluppare un internazionalismo spontaneo, che tuttavia molto presto si disperse, perché sia da parte italiana che slavo-meridio­ nale si fecero grandi sforzi per fare delle unità partigiane degli agenti di nazionalizzazione. In parte l’internazionalismo riuscì a trasformarsi - attraverso una educazione politica e una comune cultura della festa - in un habitus che facilitò la collaborazione italo-slava sotto l’egemonia titoista. Solo alcune formazioni par­ tigiane e le popolazioni di alcuni «territori liberati» ebbero la

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possibilità di fare queste esperienze interculturali, mentre la massa della popolazione della regione di confine ne rimase esclusa. Vale la pena di notare una differenza nell’inquadramento storico della lotta di liberazione da parte dei protagonisti e della storiografia: mentre i combattenti della Resistenza (e nella loro scia gli storici italiani) consideravano la lotta di liberazione un secondo movimento di unificazione, un nuovo Risorgimento, come espresso chiaramente nei nomi attribuiti alle unità partigiane (Garibaldi, Osoppo), i partigiani jugoslavi erano ben consapevoli della scarsa forza d’urto storica del «Risorgimento degli slavi del sud» e del tradizionale «jugoslovenstvo». Se per molti italiani il fascismo era stato solo una «parentesi», come affermò Benedetto Croce, il movi­ mento di liberazione jugoslavo si trovò di fronte a un nuovo inizio che - questa almeno la speranza dei partigiani - avrebbe dovuto es­ sere facilitato dal recupero delle tradizioni delle nazionalità minori sud-slave. Paradossalmente, la lotta di liberazione italiana ebbe un orientamento centralistico-statale più pronunciato di quella jugo­ slava. Nel caso di quest’ultima il centralismo era garantito dalla leadership di Josip Broz-Tito, dall’organizzazione centrale del Kpj, dall’unificazione del comando supremo partigiano e dall’Ozna, la polizia segreta. Nel momento in cui esaltava la nuova Jugoslavia, il movimento titoista si ricollegava all’identità nazionale degli sloveni e dei croati, sopravvissuta al crollo della «prima Jugoslavia». La resistenza fu accompagnata, sia pure con varie differenze regiona­ li, da atti fondativi dello Stato e della nazione cui parteciparono operatori culturali e nazionali, studiosi, insegnanti. Il Kpj svolse, soprattutto nel caso macedone, un ruolo addirittura demiurgico di creatore della nazione3. La sovrarticolazione delle rivendicazioni nazionali e le ipoteche staliniste che gravavano sul comuniSmo jugoslavo contribuirono a far sì che nei momenti decisivi di svolta - la resa dell’Italia e la fine della guerra - la liberazione si trasformasse molto presto in occupazione e l’aspirazione all’emancipazione in nuova sofferenza. Il progetto titoista di nation-building presentato all’Avnoj, cui era riferita e subordinata l’istituzione delle repubbliche slovena e croata, non era orientato solo contro fascisti, occupanti e col­ laborazionisti (nel solco della guerra di liberazione nazionale), o contro industriali e grandi proprietari (nel solco della lotta di classe). Esso conteneva anche un orientamento (applicabile in modo elastico, ma comunque irrinunciabile per i comunisti jugoslavi) contro tutti coloro che non volevano porre in questio­

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ne l’appartenenza territoriale della regione all’Italia (decreti di annessione, trasferimento delle formazioni partigiane italiane). Quando la Wehrmacht si ritirò dal litorale gli jugoslavi di­ sponevano già di un apparato di polizia con il quale potevano manipolare la situazione politica e, in certa misura, i rapporti etnico-nazionali. Quando, nel maggio del 1945, l’Ozna e gli altri organismi repressivi entrarono in azione, il risultato fu che la maggioranza della popolazione che si considerava e si sentiva italiana vide nella Jugoslavia di Tito una forza di occupazione più che di liberazione. L’antifascismo italiano aveva scelto inizialmente una diversa opzione. Fino all’estate del 1944 anche i comunisti della regione di confine fecero parte del Comitato di liberazione nazionale (Cln), la cui direzione politica si trovava nell’Italia meridionale, mentre il comando militare dei partigiani aveva sede a Milano. Gli obiettivi nazionali dei comunisti, per quanto essi sventolassero il tricolore accanto alla bandiera rossa e (come il Partito d’Azione, schierato su posizioni di sinistra liberale) si ricollegassero all’eredità del Risorgimento, rimasero piuttosto indefiniti rispetto a quelli dei partigiani jugoslavi. Trascinati dall’esempio delle vittoriose arma­ te di Tito, sull’Adriatico si sottrassero sempre più all’influenza dei loro alleati democratici. I garibaldini italiani vedevano nei combattenti slavi gli alleati dell’Unione sovietica, che nel 1944 aveva dato un prezioso aiuto nella liberazione di Belgrado. Molti comunisti italiani speravano che anche in Italia l’Armata rossa riuscisse ad arrivare prima che gli Alleati occidentali assumessero il controllo di tutto il paese. Dopo l’8 settembre 1943 nell’Italia nord-orientale lo Stato nazionale attraversò una crisi che andava oltre il crollo dell’ordine statale vissuto in altre regioni italiane. I partigiani comunisti in Friuli, pur avendo formato unità che essi consideravano espli­ citamente italiane e pur essendosi opposti a qualsiasi strumen­ talizzazione della «furlanità» in chiave antitaliana, finirono per sottomettersi al comando sloveno. Le differenze più significative tra la lotta popolare di libe­ razione jugoslava e quella italiana si ripercossero nelle modalità di creazione della nuova Jugoslavia e della nuova Italia. Questa problematica si pone soprattutto in termini di dialettica tra continuità e rottura: i punti di rottura erano diffusi in modo al­ trettanto ampio ma diversamente distribuiti rispetto agli elementi strutturali di continuità.

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Nel 1941 la Jugoslavia fu completamente occupata dai suoi nemici (tra cui gli ustase croati), mentre l’Italia dal settembre del 1943 si ritrovò spaccata in due, una parte sotto il controllo fascista e nazista e l’altra sotto l’occupazione alleata. La ritirata verso sud dell’Italia prefascista (monarchia, vertici militari) ebbe conseguenze del tutto diverse dall’esilio londinese dei Karadordevic e degli esponenti politici loro fedeli. In Italia si registrò la continuità di uno Stato che, sebbene scosso nelle sue fondamenta dopo l’8 settembre, sopravvisse su un territorio drasticamente ridotto. In esso c’era posto sia per il pluralismo della democrazia parlamentare sia per la sua integrazione con il «vento del nord» (la metafora usata da Pietro Nenni per indicare le esperienze democratiche e socialiste della resistenza partigiana). Da ciò nacque un dibattito sulla costituzione e sulla forma dello Stato, e il referendum in proposito si concluse con una la vittoria di misura della forma repubblicana. In Jugoslavia, invece, nemmeno il ritorno dei politici in esilio potè creare l’illusione che il potere non fosse tutto nelle mani del partito comunista. Poiché l’Avnoj si era già pronun­ ciata contro un ritorno del re, la forma dello Stato non fu più rimessa in discussione. Tuttavia la componente democratica di base dell’ideologia partigiana titoista era gravata dalle ipote­ che del comuniSmo sovietico e sarebbe potuta emergere con maggior forza solo se il Kpj avesse rischiato la rottura con Mosca, cosa che avvenne soltanto nel 1948, in modo peraltro non definitivo. Alla fine della Seconda guerra mondiale Roma e Belgrado, anche a prescindere dalla disputa sui confini, avevano ben poco da dirsi. La parte jugoslava identificava le democrazie occidentali con il capitalismo e quest’ultimo con il fascismo. Agli occhi del gruppo dirigente titoista l’Italia non aveva nulla da offrire che apparisse agli jugoslavi come conquista di democrazia o di civiltà. Dall’altra parte, dopo la fine della guerra partigiana i comunisti sud-slavi divennero un modello solo per quei settori intransigenti della Resistenza che rifiutavano la collaborazione con gli alleati borghesi perché confidavano in un mutamento dei rapporti di forza politici internazionali in favore dell’Urss di Stalin. L’ele­ mento democratico di base della Jugoslavia partigiana non trovò dunque un adeguato interlocutore in Italia e, viceversa, l’idea di una vasta politica di alleanze, sostenuta dal Cln italiano, non ebbe adesioni in Jugoslavia.

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Certamente, alla reciproca estraneità tra Italia e Jugoslavia contribuirono inizialmente anche il diverso grado delle distruzioni belliche subite e il considerevole divario nel livello generale di vita. La «cortina di ferro» era una realtà, anche se proprio sul­ l’Adriatico essa rimase in certa misura permeabile in entrambe le direzioni (esodo, «controesodo», accordo sul traffico frontaliero). Al rifiuto di Roma di consegnare alla Jugoslavia criminali di guerra conclamati corrispose, per un lungo periodo, l’indisponibilità di Belgrado a far luce sul destino degli italiani sequestrati dai partigiani nelle prime settimane del dopoguerra. La risposta alla domanda se sia esistita una via speciale slovena, rappresentativa di una opzione di più ampia libertà nell’ambito del socialismo titoista, non è univoca. Occorre sottolineare il volto bifronte della rivoluzione slovena: nella Repubblica di Slovenia, che confinava con l’Occidente, l’apparato repressivo era molto sviluppato, e sul suolo sloveno si svolsero molti sanguinosi «re­ golamenti di conti» (Bleiburg, Kocevje). Quando Edvard Kocbek e Josip Vidmar criticavano gli intrighi della polizia segreta non pensavano solo al Ministero degli Interni jugoslavo affidato ad Aleksandar Rankovic, ma anche al suo equivalente sloveno, lo Slavija-Palais di Lubiana. Dopo la guerra il Kps guidato da Edvard Kardelj si impe­ gnò nel mantenere aperta la via verso una repubblica federale jugoslava che fosse davvero tale per la nuova entità statale, e non semplicemente un’etichetta. Questa posizione, anche alla luce del­ l’esperienza del 1991, non va considerata un primo passo verso la separazione - come se i comunisti sloveni avessero sempre aspirato alla piena indipendenza del loro Stato, posticipando tale rivendica­ zione solo per motivi tattici -, ma come opportunità per realizzare riforme democratiche che la Jugoslavia titoista «percepì», nel senso letterale del termine, ma non colse mai coerentemente. Come ha scritto il sociologo sloveno Rudolf M. Rizman, «per tutta la sua esistenza» la Jugoslavia è stata alle prese «so­ prattutto con un problema [...], quello della sua legittimazione democratica»4. I modelli di democrazia economica sperimentati in tutto il paese all’insegna dell’«autogestione operaia» avevano fin dall'inizio dei limiti molto angusti. Le sperimentazioni av­ vennero nello stesso periodo in cui la Jugoslavia si allontanava daH’Urss e l’economia jugoslava veniva rimessa in piedi grazie ai prestiti occidentali. In ogni caso, il decentramento degli organi repressivi seguito alla caduta di Rankovic, nel 1966, aprì alle

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singole repubbliche ampi spazi negoziali nei confronti del potere centrale di Belgrado. In quel momento l’Italia era da molti anni uno dei paesi be­ neficiari del Piano Marshall e dell’integrazione nell’Occidente. L’«italianità» fu resa quasi superflua dal «miracolo economico» e da nuove abitudini di consumo, oppure conobbe un ritorno nella forma del made in Italy. Al tempo stesso il paese divenne una democrazia occidentale sui generis, con un partito di governo (la Democrazia cristiana) per decenni ininterrottamente al potere e una opposizione comunista la cui influenza crebbe costantemente fino agli anni Settanta. Là dove appariva raccomandabile, data la forte presenza di minoranze nazionali o di spiccate componenti etniche interne, furono istituite regioni e province autonome. Infine negli anni Settanta, con l’istituzione in tutta Italia di par­ lamenti e governi regionali, fu creato un contrappeso all’esecutivo di Roma, riducendo i poteri dello Stato centrale. L’Italia è sempre stata più che una «espressione geografica», sebbene gli ideali del Risorgimento non fossero da soli sufficienti a costituire un durevole fondamento dello Stato e della società. Il fatto che il conflitto Est-Ovest attraversasse la penisola e dividesse i suoi abitanti per molto tempo fu significativamente compensato dall’antifascismo dall’alto e dal basso. Qui ci si può ricollegare ai testi di Jens Petersen e Viktor Maier, la cui tematica parallela ha costituito il punto di partenza di questo volume. Al recupero della dimensione nazionale nell’Italia dell’era Craxi (gli anni Ottanta), accompagnato da una riabilitazione del Msi neofascista che pose i primi presupposti per la sua trasformazione nella «destra nazio­ nale» di An, seguì, alla fine del decennio, una rapida diffusione di umori regionalisti e addirittura separatisti nel nord della penisola. I grandi scandali di corruzione scoperti dai giudici di Milano raf­ forzarono entrambe le tendenze: a sud l’orientamento centralistico e a nord il movimento centrifugo, ma anche xenofobo5. Viceversa, a partire dalla metà degli anni Ottanta, Belgrado rispose alle aspirazioni autonomistiche degli sloveni e dei croati con un’esaltazione del centralismo jugoslavo e/o del nazionalismo serbo. Mentre nel caso dell’Italia settentrionale si poteva ormai parlare quasi di «decostruzione della dimensione nazionale», dopo la morte di Tito le singole repubbliche jugoslave entrarono in una fase di ricostruzione a tappe forzate delle tradizioni nazionali in un contesto «mitteleuropeo» o «islamico»; in Serbia si giunse a una vera e propria riesumazione di miti nazionali6.

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Le crisi che dall’inizio degli anni Novanta hanno scosso la penisola balcanica e poi l’Italia sono iniziate sia in Italia sia in Jugoslavia nelle ricche regioni settentrionali, ossia rispettivamente in Lombardia e in Slovenia. Il risultato è stato, in Jugoslavia, la distruzione dello Stato federativo istituito nel 1974 e basato sul monopolio di potere del Partito comunista. Nelle singole repub­ bliche, che sono andate in direzioni diverse, i già scarsi elementi di economia di piano dell’economia jugoslava, per molti aspetti orientata al mercato ormai da decenni, sono stati ulteriormente ridotti. Una serie di conflitti tra Stati e di guerre civili ha distrut­ to tutta l’opera di unificazione dei partigiani di Tito e ha avuto conseguenze devastanti per le possibilità di vicinato e convivenza tra gruppi, nazioni e nazionalità. Le forme di autogestione e coge­ stione che differenziavano dal tipo sovietico il modello jugoslavo di socialismo sono state in gran parte smantellate. Nel migliore dei casi sono nate società di transizione con strutture democratiche relativamente stabili, che sono oggetto di interesse scientifico, ma non ancora di indagine storiografica. All’estremo opposto sono stati istituzionalizzati assetti provvisori che ricordano il Territorio libero di Trieste, con la sua divisione in zone, e che a volte hanno una struttura ancora più complicata. In Italia il sistema politico dello Stato centralizzato ha subito molte modifiche: tutti i partiti su cui poggiava la cosiddetta Pri­ ma repubblica sono scomparsi, si sono scissi o hanno cambiato nome. Tuttavia la struttura socioeconomica e l’unità territoriale del paese non sono mai state poste seriamente in discussione. I partiti e i movimenti che simpatizzano per l’abolizione dello Stato unitario centralizzato hanno proposto soluzioni autonomistiche 0 separatiste, accettando tuttavia di negoziarle in cambio della partecipazione al governo, per poi generalmente abbandonarle. Le crisi che dal 1991 si sono verificate sull’Adriatico nordorientale non sono state ancora definitivamente superate; a esse si è aggiunta anzi una controversia sul confine tra Slovenia e Croazia che suona ormai anacronistica. Che la Jugoslavia abbia fallito è ormai indubbio. La risposta alla domanda di Jens Petersen, Quo vadis, Italia?, dipenderà anche dalla capacità di Roma di porre 1 rapporti con le vicine repubbliche ex jugoslave di Slovenia e Croazia su nuove basi, accettabili per tutti i partecipanti.

Appendice

T a b . 1.

Le associazioni di esuli sloveni e croati nel Canato della Drava, 1918-1932

Denominazione Club delle donne del litorale Studenti universitari del litorale Soca [Isonzo] Jadran [Adriatico] Soca Soca Soca Tabor Organizzazione giovanile della Soca Club degli accademici del litorale Zora Nanos Sloga Soca Orjem Orjem Orjem Edinost Tabor

Sede

Lubiana Maribor Celje Novo Mesto Dolnja Lendava Lubiana Lubiana Lubiana Siska Maribor Kranj Jesenice Kocevje Lasko Trbovlje Skofja loka Kamnik

Iscritti

Fondazione

150 100 900 400 300 140 50 650 150 300 50 425 200 50 80 40 60 50 70

ca. 1918 ca. 1918 1919 1927 1921 1932 ca. 1933 1932

1928 1932 1932

Fonie: Ministero degli Affari esteri a Regia Legazione Belgrado, 19.4.1933, in ASMAE, Affari politici 1931-1945, Jugoslavia, b. 39.

308

Appendice

T ab. 2.

Il Partito nazionale fascista e le sue organizzazioni fiancheggiatrici nelle province orientali d’Italia, numero d’iscritti (e di sezioni) nel 1930

Organizzazione

Trieste

Pola

Zara

Gorizia

Fiume

3.400 (36) 1.705 (9) 9.504 (24) 6.900 (62) 1.577' (4) Pnf 1.500 (28) 332 (4) 495 (5) 1.190 (16) 1.517 (29) Fasci femminili 230 130 230 528 641 Guf 8.150 5.564 671 9.976 8.197 Balilla 2.500 2.332 430 2.435 3.238 Avanguardisti 250 1.200 80 988 Giovani italiane 1.655 3.905 2.314 4.292 405 8.754 Piccole italiane 13.466 16.539 2.465 18.199 55.000 Sindacati 1.211 6.900 1.880 5.565 16.151 Ond 173 (25) (5) Cooperative 2.673 Mvsn 107.000 228.643 297.816 20.541 338.659 Popolazione «caduti per la causa 9 24 del fascismo» ‘ Di cui 250 in Jugoslavia. Fonte: ACS, Mostra della Rivoluzione Fascista, b. 53, f. 123 Rapporto del Duce ai segretari federali, febbraio 1930, Venezia Giulia.

Frontiera italo-austriaca fino al 1918 Frontiere del 1947-1954 Linea Wilson Frontiera italo-jugoslava 1920-1941 Territorio libero di Trieste Caporetto/* t Kobarid * •

Zone montuose

Cividale/ Öedad ?

Idria/ « Idrija I

Monralcone/ Triió

Trieste/ Trst

Capodtetria/

\\\\W l

ZONA B

VEGLIA/ KRK

1. Frontiere e linee di demarcazione (1915-1954).

2. Zone di operazione e di ritirata dei partigiani (1944).

3. La spartizione della Slovenia tra Germania, Italia e Ungheria.

Abbreviazioni

AAGGRR Abt. ACS AMG ANVG ARK ARS ARS I ARS II ASN AST ASMAE AVNOJ b. BA BA MA cat. CC CK CLN CLNAI CMD CPC DAR DC DGPS div. EISE fase. FIG FTT G IL GK

Affari generali e riservati Abteilung Archivio centrale dello Stato Allied Military Government Associazione nazionale dei volontari di guerra Arhiv Rijecke kvesture Arhiv Republike Slovenije Arhiv Republike Slovenije, Dislocirana Enota I Arhiv Repubblike Slovenije, Dislocirana Enota II Archives de la Société des Nations Archivio di Stato Trieste Archivio Storico-diplomatico del Ministero degli Affari esteri Antifasisticko vijece narodnog oslobodenja Jugoslavie busta Bundesarchiv Bundesarchiv Militàrarchiv Categoria Comitato centrale Centralni komite Comitato di Liberazione Nazionale Comitato di Liberazione Nazionale per PAlta Italia Druzba sv. Cirila in Metoda Casellario Politico Centrale Drzavni arhiv u Rijeci Democrazia Cristiana Direzione Generale Pubblica Sicurezza divisione Ente incremento studi educativi fascicolo Fondazione Istituto Gramsci, Roma Free Territory of Trieste (Libero territorio di Trieste) Gioventù Italiana del Littorio Goriska kvestura

316

Abbreviazioni

GMA GUF INV IFSM L IRCI IRSML

Governo Militare Alleato Gruppi universitari fascisti Institut za narodnostna vprasanja, Ljubljana Istituto friulano per la Storia del Movimento di liberazione Istituto regionale per la cultura istriana Istituto regionale per la storia del Movimento di liberazione in Friuli-Venezia Giulia IZDG Institut za zgodovino delavskega gibanja, Ljubljana JM Jugoslovenska matica Jadranska straza JS KPH Komunisticka partija Hrvatske Komunisticka partija Jugoslavie KPJ KPS Komunisticna partija Slovenije LN Lega Nazionale MVSN Milizia volontaria per la sicurezza nazionale NL Nachlass NO Narodna odbrana Narodno-osvobodilni odbor NOO NOV Narodno-osvobodilna vojska Obkom KPS Oblastni komite KPS (za Slovensko primorje) ON Opera nazionale OND Opera nazionale dopolavoro ONAIR Opera nazionale di assistenza all’Italia redenta Orjem Organisacija jugoslovanskih emigrantov Orjuna Organisacija jugoslovanskih nacionalistov Ovra Organizzazione di vigilanza e repressione dell’antifascismo OZAK Operationszone Adriatisches Küstenland OZNA Odsjek za zastitu naroda (serbocroato); Oddelek za zascito naroda (sloveno) PA AA Politisches Archiv des Auswärtigen Amts PAR Povijesni Arhiv Rijeka PCd’I, PCI Partito comunista d ’Italia, Partito comunista italiano PCG Partito comunista giuliano PCTLT Partito comunista del Territorio libero di Trieste PFR Partito fascista repubblicano PG Prefettura gabinetto PN F Partito nazionale fascista PNOO Pokrajinski narodnoosvobodilni odbor za Slovensko primorje in Trst PO OF Pokrajinski odbor Osvobodilne fronte (za Primorsko) PPI Partito popolare italiano PRI Partito repubblicano italiano PSI Partito socialista italiano RK Rijecka kvestura RSHA Reichssicherheitshauptamt RSI Repubblica sociale italiana

Abbreviazioni

SAZU sf. SIM SNOS SPD STO TCI TIGR TK TLT UAIS UCNP UDBA UIIF VBLU VDA VLB VZIJLA ZA ZAVNOH Zveza

317

Slovenska akademija znanosti in umetnosti Sottofascicolo Servizio informazioni militari Slovenski narodnoosvobodilni svet Segreteria particolare del Duce Svobodno trzasko ozemlje Touring club d’Italia Trst, Istra, Gorica, Rijeka Trzaska kvestura Territorio libero di Trieste Unione antifascista italo-slovena (in Istria: italo-slava) Ufficio centrale per le nuove province Uprava drzavne bezbednosti Unione degli italiani dellTstria e di Fiume Völkerbundligen-Union Verband für das Deutschtum im Ausland Vorarlberger Landesbibliothek Vojaski zgodovinski institut Jugoslovanske Ljudske Armade Zgodovinski Arhiv Zemaljsko antifasisticko vijece narodnog osvobodenja Hrvatske Zveza jugoslovankih emigrantov iz Julijske krajine

Note

Introduzione 1 Jens Petersen, Quo vadis, Italia? Ein Staat in der Krise, München 1995, trad. it. Quo vadis Italia?, Roma-Bari 1996; Viktor Maier, Wie Jugoslawien verspielt wurde, München 1995, trad. inglese, Yugoslavia: A History of lts Demise, London-New York 1999. 2 In Italia, a partire dalla fine degli anni Ottanta la formazione risorgi­ mentale dello Stato è stata messa in discussione. Innanzi tutto, nell’Italia settentrionale circa il 20% della popolazione ha espresso un giudizio negativo sull’unificazione nazionale; dopo il 1988 questa percentuale ha continuato ad aumentare (Petersen, Quo vadis, cit., p. 58). Altrettanto rapidamente, tra gli sloveni, è aumentata la percentuale dei sostenitori dell’indipendenza naziona­ le. Se nel gennaio del 1990 soltanto l’11,1% degli intervistati era favorevole all’indipendenza dalla Jugoslavia, nel dicembre dello stesso anno questa per­ centuale era già del 52,3%. Nello stesso periodo il numero di coloro che si dicevano favorevoli a rimanere parte della Federazione jugoslava è sceso dal 15,2 al 5,3%, e quello dei sostenitori di una soluzione confederale dal 50,2 al 32,5% (i dati sono tratti da Ivan Bernik, Brina Mainar e Niko Tos, Slovenian Politicai Culture: Paradoxes of Democratization, in Danica Fink-Hafner e John R. Robbins (a cura di), Making a New Nation: The Formation of Slovenia, Aldershot 1997, pp. 56-82; qui p. 77). 5 Cfr. la specificazione analitica per territorio in Rolf Wörsdörfer, Cattolicesi­

mo «slavo» e «latino» nel conflitto di nazionalità. La disputa per la lingua liturgica e di insegnamento nelle diocesi adriaticbe dell’Austria-Ungheria, dell’Italia e della Jugoslavia (1861-1941), in Marina Cattaruzza (a cura di), Nazionalismi di frontiera. Identità contrapposte sull’Adriatico nord-orientale 1850-1950, Soveria Mannelli 2003, pp. 123-170; qui pp. 132 ss. Tuttora utile il volume di Ernesto Sestan, pubblicato per la prima volta nel 1947, Venezia Giulia. Lineamenti di

una storia etnica e culturale e il contesto storico-politico in cui si colloca l’opera,

a cura e con postfazione di Giulio Cervani, Udine 1997. 4 Jürgen Kocka, Das östliche Mitteleuropa als Herausforderung für eine ver­ gleichende Geschichte Europas, in «Zeitschrift für Ostmitteleuropa-Forschung», n. 2, 2000, pp. 159-174; qui p. 170. 5 Marina Cattaruzza, Italiani e sloveni a Trieste: La formazione dell’identità nazionale, in Id., Trieste nell’Ottocento. Le trasformazioni di una società civile, Udine 1995, pp. 119-165, qui p. 134.

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Note

6 In generale, sull’importanza delle associazioni scolastiche tedesche Otto Dann, Nation und Nationalismus in Deutschland 1770-1919, München 1993, pp. 190 s.; sulle sue attività lungo la costa Claus Gatterer, Im Kampfgegen Rom, Bür­ ger, Minderheiten und Autonomien in Italien, Wien 1968, trad. it. In lotta contro Roma. Cittadini, minoranze e autonomie in Italia, Bolzano 1994, pp. 15 ss. 7 Angelo Vivante, Irredentismo adriatico (1912), con uno studio di Elio Apih, La genesi di «Irredentismo adriatico», Trieste 1984, p. 135. 8 Emil Brix, Die Umgangssprachen in Altösterreich. Die Sprachenstatistik in den zisleithanischen Volkszählungen 1880-1910, Wien 1982, p. 184. Sulla storia della presenza austrotedesca nella parte orientale dell’area Alpe Adria si veda anche Arnold Suppan (a cura di), Deutsche Geschichte im Osten Europas. Zwischen Adria und Karawanken, Berlin 1998. 9 Diego De Castro, La questione di Trieste. L’azione politica e diplomatica italiana dal 1943 al 1954, 2 voli., Trieste 1981. 10 Jean-Baptiste Duroselle, Le Conflit de Trieste 1943-1954, Bruxelles 1966. 11 Dennison I. Rusinow, Italy’s Austrian Heritage, 1919-1946, Oxford 1969. 12 Bogdan C. Novak, Trieste 1941-1954. TheEthnic, Political and Ideological Struggle, Chicago-London 1970, trad. it. Trieste 1941-1954. La lotta politica, etnica e ideologica, Milano 1996. 13 Sul tema dell’«identità» si vedano le riflessioni, direttamente riferite a Trieste e all’Adriatico nord-orientale, di Valdevit, Introduzione, in Id., Il di­ lemma Trieste. Guerra e dopoguerra in uno scenario europeo, Gorizia 1999, pp. 9-13; qui pp. 10 s. Inoltre le osservazioni di Hans-Ulrich Wehler, Erik Erikson. Der unaufhaltsame Siegeszug der «Identität», in Id., Die Herausforderung der Kulturgeschichte, München 1998, pp. 130-135, e Lutz Niethammer, Kollektive Identität. Heimliche Quellen einer unheimlichen Kultur, Reinbek 2000. 14 Benedict Anderson, Imagined Communities. Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, London-New York 1983, trad. it. Comunità immaginate. Origine e futuro dei nazionalismi, nuova ed. Roma 2005; Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger (a cura di), The Invention of Tradition, Cambridge 1983, trad. it. L’invenzione della tradizione, Torino 1987. Infine Rolf Petri, Deutsche Heimat 1850-1950, in «Comparativ», n. 1, 2001, pp. 77-127. 15 Anthony D. Smith, The Nation: Invented, Imagined Reconstructed?, in «Millennium», n. 3, 1991, pp. 353-368; qui p. 359. 16 Ulrike Franke, Logopädisches Handlexikon, München-Basel 1984, p. 28. Il tratto vocale è il luogo dove si formano i suoni, lo spazio di risonanza della voce, composto dallo spazio faringeo, dalla cavità orale e da parte della cavità nasale (ibidem, p. 18). 17 Klaus-Peter Becker e Milos Sovak, Lehrbuch der Logopädie [1971], Königstein Ts. 1983, p. 69. 18 Hans-Ulrich Wehler, Emotionen in der Geschichte. Sind soziale Klassen auch emotionale Klassen?, in Christof Dipper, Lutz Klinkhammer e Alexander Nützenadel (a cura di), Europäische Sozialgeschichte. Festschrift für Wolfgang Schieder, Berlin 2000, pp. 461-473; qui p. 463. 19 Cfr. la convincente critica della posizione essenzialistica in Svenja Goltermann, Körper der Nation Habitusformierung und Politik des Turnens 1860-1890, Göttingen 1998, p. 10; e anche Niethammer, Kollektive Identität, cit., p. 43.

Introduzione

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20 Gatterer, In lotta contro Roma, cit., pp. 369-371. 21 Edvard Kardelj, Triest und die jugoslawisch-italienischen Beziehungen, a cura del Dipartimento stampa e informazione dell’ambasciata di Jugoslavia, Bonn 1953, p. 10. 22 Milica Kacin-Wohinz, Prvi antifasizem v Evropi. Primorska 1925-1935, Koper 1990. 25 Hans Lemberg, Unvollendete Versuche nationaler Identitätsbildung im 20.

Jahrhundert im östlichen Europa; die «Tschechoslowaken», die «Jugoslawen», das «Sowjetvolk», in Helmut Berding (a cura di), Nationales Bewußtsein und kollektive Identität. Studien zur Entwicklung des kollektiven Bewußtseins in der Neuzeit, Frankfurt a.M. 1994, vol. II, pp. 581-607. 24 Becker e Sovak, Lehrbuch, cit., p. 180. 25 Di questa tematica, nella sua dimensione sia sincronica che diacronica, si interessa soprattutto la sociolinguistica. La complessità dei problemi è illustrata, sulla base dell’esempio della penisola istriana, da Jens-Eberhard Jahn, Il gruppo nazionale italiano nel contesto etnolinguistico istriano, in «Rivista Italiana di Dialettologia», XXII (1998) pp. 91-114. Sulla situazione nella Trieste asburgica cfr. Eduard Winkler, Wahlrechtsreformen und Wahlen in Triest 1905-1909. Eine

Analyse der politischen Partizipation in einer multinationalen Stadtregion der Habsburgermonarchie, München 2000, pp. 57-60. 26 Questi concetti, esposti in origine da Luc Ciompi, Die emotionalen Grundlagen des Denkens, Göttingen 1997, trad. it. I fondamenti emozionali del pensiero, Roma 2001, vengono qui ripresi nella versione, estremizzata a fini storiografici, di Wehler, Emotionen in der Geschichte, cit., p. 465. 27 Marina Cattaruzza, Socialismo adriatico. La socialdemocrazia di lingua italiana nei territori costieri della Monarchia asburgica: 1888-1915, Manduria 1998; Sabine Rutar, Kultur-Nation-Millieu. Sozialdemokratie in Triest vor dem Ersten Weltkrieg, Essen 2004. 28 II cosiddetto «Risorgimento degli slavi del sud» fu reso popolare soprattutto dal politico e scrittore tedesco Hermann Wendel, uno dei più convinti fautori di una unificazione jugoslava. Cfr. Rolf Wörsdörfer, Hermann

Wendel und Adolf Köster: Zwei deutsche Sozialdemokraten in Südosteuropa (1909-1930), in Bert Becker e Horst Lademacher (a cura di), Geist und Ge­ stalt im historischen Wandel. Facetten deutscher und europäischer Geschichte 1789-1989. Festschrift für Siegfried Bahne zum 70. Geburtstag, Bochum 2000, pp. 231-255. 29 Vivante, Irredentismo adriatico, cit., p. 136. 30 Cattaruzza, Slovenes and Italians, cit., p. 193. 31 Gli insegnanti tendono alla «sovra-articolazione» per superare il rumore, ma questa tensione eccessiva grava sulla muscolatura dell’articolazione e della voce, provocando un rapido affaticamento: Becker e Sovak, Lehrbuch, cit., p. 200. 32 Winkler, Wahlrechtsreformen, cit., p. 23. Il termine «identità di frontiera» fa riferimento al titolo del volume di Claudio Magris e Angelo Ara, Trieste. Un’identità di frontiera (1982), nuova ed. Torino 2007. 33 Ernest Gellner, Nations and Nationalism, Oxford 1983, trad. it. Nazioni e nazionalismo, Roma 1985, pp. 112 s.

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Note

34 Sulla distinzione tra un nazionalismo occidentale, «liberal-emancipatorio», e uno orientale, «atavistico», si veda anche Goltermann, Körper der Nation, cit., p. 11. 35 Aleksandar Jakir, Dalmatien zwischen den beiden Weltkriegen. Agrari­

sche und urbane Lebenswelt und das Scheitern der jugoslawischen Integration,

München 1999, p. 60. Qui utilizzo la denominazione abbreviata di Stato SHS o Regno SHS per indicare lo Stato jugoslavo degli anni 1918-1929, che uffi­ cialmente si chiamava Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni. 36 Hermann Wendel, Aus dem südslawischen Risorgimento, Gotha 1921. Il console tedesco a Trieste affermò nel 1923 che i «libri sulla Slavia meri­ dionale» di Wendel «riscuotono anche qui il più vivo interesse»; consolato tedesco di Trieste a Ministero degli Esteri tedesco, 20.7.1923, in PA AA, Abt. Ila, Poi. 6 Italien, R 72586. Per il dibattito sulla natura «risorgimentale» del movimento illirico cfr. Arnold Suppan, Die Kroaten, in Adam Wandruszka e Peter Urbanitsch (a cura di), Die Habsburgermonarchie. III: Die Völker des Reiches, Wien 1980, t. 1, pp. 626-733; qui p. 719, n. 154. 37 Wörsdörfer, Hermann Wendel und Adolf Köster, cit., pp. 238 s. 38 Wolfgang Schieder e Jens Petersen, Das faschistische Italien als Gegenstand der Forschung, in Schieder e Petersen, Faschismus und Gesellschaft in Italien. Staat, Wirtschaft, Kultur, Köln 1998, pp. 9-18; qui p. 12. 39 Wolf-Dietrich Behschnitt, Nationalismus bei Serben und Kroaten 18301914. Analyse und Typologie der nationalen Ideologie, München 1980; Günter Schödl, Kroatische Nationalpolitik und «Jugoslavenstvo». Studien zu nationaler

Integration und regionaler Politik in Kroatien-Dalmatien am Beginn des 20. Jahrhunderts, München 1990; Jakir, Dalmatien, cit. Atipico, per la sua estensione anche alla componente italiana, Konrad Clewing, Staatlichkeit und nationale Identitätsbildung. Dalmatien in Vormärz und Revolution, München 2001. 40 Un efficace quadro d’insieme in Joze Pirjevec, Serbi, croati e sloveni. Storia di tre nazioni, Bologna 1995. 41 Cfr. le riflessioni sui cosiddetti «confronti differiti» in Kaelble, Der historische Vergleich, cit., pp. 144 s. 42 Cfr. C. Colummi, L. Ferrari, G. Nassisi e G. Trani, Storia di un esodo. Istria 1945-1956, Trieste 1980; Marina Cattaruzza, Esodo istriano, in Catta­ ruzza, Dogo e Pupo (a cura di), Esodi, cit., pp. 209-236. Rappresentativo di una determinata corrente di opinione tra gli esuli istriani è Flaminio Rocchi, L'esodo dei giuliani, fiumani e dalmati, Roma 1970 (ripubblicato più volte successivamente). 43 Dossier ltalia-Slovenia, in «Il Piccolo», 4.4.2001, pp. I-VII. Il testo è poi stato pubblicato in Slovenia in una versione trilingue autorizzata a cura di Milica Kacin Wohinz e Nevenka Troha, Slovensko-italijanski odnosi 18801956, porocilo slovensko-italijanske komisije = I rapporti italo-sloveni 1880-1956: relazione della commissione storico-culturale italo-slovena = Slovene-Italian

Relations 1880-1956: Report of thè Slovene-Italian historical and cultural Com­ mission, Ljubljana 2001.

Capitolo primo

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Capitolo primo 1 «Jugoslavia» (Belgrado), 2.7.1920; una sintesi in italiano in Commissariato Generale Venezia Giulia, Gabinetto, in ACS, PCM, UCNP, b. 70. 2 Wendel, Aus dem südslawischen Risorgimento, cit., p. 97. Ora si veda anche Slobodan Naumovic, Opanken im Parlament. Betrachtungen über die Bedeutung bäuerlicher Symbole in der serbischen Politik, in «Historische An­ thropologie», n. 1, 1999, pp. 63-82. 3 Jahresübersicht Jugoslavien 1930, All. A, Legazione tedesca a Belgrado a Ministero degli Esteri tedesco, 19.2.1931, in PA AA, Abt. II, Jugoslawien. Jahresübersichten der deutschen Auslandsvertretungen, R 73111. 4 Cfr. le edizioni del quotidiano «Obzor» (Zagabria) del 23,24 e 26.6.1920. Alcuni brani tradotti in italiano si trovano in allegato a Commissariato Ge­ nerale Civile per la Venezia Giulia, Gabinetto, a PCM, UCNP, 15.7.1920, in ACS, PCM, UCNP, b. 55. 5 Commissariato Generale Civile per la Venezia Giulia a PCM, UCNP, 7.7.1920, in ACS, PCM, UCNP, b. 55. 6 «Slovenski Narod», 1.7.1920. Una sintesi in italiano in Commissariato Generale Venezia Giulia - Gabinetto, Situazione interna, in ACS, PCM, UCNP, 22.7.1920, b. 70 (d’ora in poi: CGC VG). 7 I militari intendevano riabilitare gli attentatori fascisti e nazionalisti e scagionare i soldati che erano rimasti a guardare durante l’attentato. Il modo più facile per ottenere questo risultato era catalogare gli slavi come provocatori. Cfr. CGC VG a Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ufficio centrale per le nuove province, 22.7.1920, in ACS, PCM, UCNP, b. 50. 8 II re trasferì la propria residenza estiva nell’animata cittadina sul lago di Bled, utilizzando invece Villa Zlatorog, sul più tranquillo lago di Bohinj (Wocheiner See in tedesco), come base di partenza per battute di caccia: cfr. «Jutarnji List», 30.6.1920; sintesi in ACS, PCM, UCNP, b. 70. 9 Hermann Wendel a Ministero degli Esteri tedesco, Bericht 20.-30.6.1920, in PA AA, Presseabteilung, R 122669. 10 Agenzia Stefani, 5.10.1921, in ACS, PCM, UCNP, b. 50. Cfr. Sulla visita di Vittorio Emanuele III a Trieste (11.11.1918), in Salvatore Francesco Romano (a cura di), Trieste ottobre-novembre 1918. Raccolta di documenti del tempo. III: Gli inizi del governo militare italiano dal 3 al 30 novembre 1918, Milano 1968, pp. 108 s. 11 Nell’estate del 1921 il commissariato civile a Trieste comunicò all’Ufficio Centrale per le Nuove Province a Roma che in Venezia Giulia la bandiera italiana mancava in oltre 2 mila scuole, la foto del re in oltre 300 e quella della regina in oltre 400. CGC VG a Ufficio centrale per le nuove province, 22.7.1921, in ACS, PCM, UCNP, b. 77. 12 Venuta di S.M. il Re nella Venezia Giulia, ibidem. 13 Sulla tradizione liberalnazionale dei ginnasti a Trieste cfr. Ennio Maserati, Iconografia e riti dell’irredentismo adriatico, in Maria Garbari, Bruno Passa­ mani (a cura di), Simboli e miti nazionali tra ’800 e ’900, Atti del convegno di studi internazionale, Trento 18-19 aprile 1997, Trento («Collana di Monografie edita dalla Società di studi trentini di scienze storiche», LX, «Sezione Atti di congressi e convegni», X) 1998, pp. 269-282, qui pp. 279 s.

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Note

14 Mosconi a Ufficio centrale per le nuove province, 16.10,1921, in ACS, PCM, UCNP, b. 77. 15 Ibidem. 16 II 28.9.1921 gli imprenditori dei cantieri navali avevano proclamato una serrata e fatto occupare i cantieri dalla polizia. In risposta le organizzazioni del movimento operaio deliberarono congiuntamente uno sciopero generale in tutta la regione. La lotta dei lavoratori durò due mesi, ma si concluse con la loro sconfitta: gli operai dei cantieri vennero licenziati a centinaia o dovettero subire decurtazioni salariali. Cfr. Luciano Patat, Fascismo, antifascismo e mo­ vimento operaio tra le due guerre mondiali nell’ex Friuli austriaco, in IRSML, Friuli e Venezia Giulia, cit., pp. 193-203; qui pp. 198 s. 17 Ivanoe Bonomi a Commissariato Generale Civile-Trieste, 3.10.1921, in ACS, PCM, 1922, f. 4, sf. 8. 18 Mosconi a Salata, 14.5.1922, in ACS, PCM 1922, f. 4, sf. 8. Alla fine del 1918 manifestazioni filo-jugoslave si svolsero in tutte le località lungo la strada dalla costa a Postumia; cfr. Angelo Visintin, L’Italia a Trieste. L’operato del governo militare italiano nella Venezia Giulia 1918-19, Gorizia 2000. 19 Consolato tedesco a Trieste a Ministero degli Esteri tedesco, 14.6.1922, in PA AA, Abt. Ila, Politile 6 Italien, R 72856. Il 22 maggio 1922 una legione di duemila camicie nere armate marciò per la città: cfr. Elio Apih, Trieste, Roma-Bari 1988, p. 118. 20 Di «accoglienza entusiastica» da parte dei sindaci e delle delegazioni slave si parla anche in un telegramma al presidente del consiglio Facta. Cfr. De Vito a Facta, 21.5.1922, in ACS, PCM 1922, f. 4, sf. 8. 21 Consolato tedesco a Trieste a Ministero degli Esteri tedesco, 14.6.1922, in PA AA, Abt. Ila, Politile 6 Italien, R 72856. 22 Si veda anche il resoconto proveniente da Trieste nel corso della visita del re, in ACS, PCM 1922, f. 4, sf. 8. 23 I soldati croati erano stati molto apprezzati per l’«atteggiamento di ab­ negazione dimostrato nelle file dell’esercito (soprattutto sull’Isonzo) e della marina imperial-regia», ma «dal 1916 in poi diedero segni crescenti di incertezza in situazioni critiche (ad esempio durante l’offensiva di Brusilov e quella di Kerenskij), cui nell’ultimo anno di guerra si aggiunsero, anche per l’influenza della Rivoluzione di Ottobre, diserzioni (squadre verdi), ammutinamenti e opposizioni cospirative»; Suppan, Die Kroaten, cit., p. 732. 24 Programma riservato, in ACS, PCM 1922, f. 4, sf. 8. 25 Cfr. Apih, Trieste, cit., p. 118. 26 II quotidiano croato scriveva inoltre che la data dell’attentato (13 luglio) era celebrata dai fascisti ogni anno, in ricordo dell’epoca degli scontri di stra­ da: Notiziario manifestazioni irredentiste. Ili trimestre 1933, 25.11.1933, in ASMAE, Affari politici Jugoslavia 1931-1945, b. 39. Un riferimento alla foto del Narodni dom in fiamme si trova nel catalogo ufficiale della Mostra della rivoluzione fascista: Cfr. Partito Nazionale Fascista, Mostra della Rivoluzione Fascista, Guida storica, a cura di Dino Alfieri e Luigi Freddi, Roma 1933, p. 140; vedi anche Gigliola Fioravanti (a cura di), Mostra della Rivoluzione fascista. Inventario, Roma 1990. 27 C., Trieste alla Mostra del Fascismo, in «Rivista mensile della città di

Capitolo primo

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Trieste», n. 7, 1932, pp. 270 s.; qui p. 270. Sulla storia architettonica e poli­ tica del Narodni dom cfr. l’opera collettiva slovena di Marko Kravos, Marko Pozzetto, Milan Pahor, Sandi Volk, Bogomila Kravos e Pavle Merkù, Narodni dom v Trstu 1904-1920, Trst 1995. 28 Rino Alessi, Francesco Giunta e il momento politico triestino, in Michele Risolo (a cura di), Il fascismo nella Venezia Giulia. Dalle origini alla marcia su Roma, Trieste 1932, pp. XI-XVIII. 29 Francesco Giunta, Un po’ di fascismo, Milano 1935, p. 17. Vedi anche Id., Il fascismo nella Venezia Giulia, in «Gerarchia», a. 7, n. 9, settembre 1927, pp. 796-802. 30 Niethammer, Kollektive Identität, cit., p. 371. 31 Bataille fece tale osservazione nel corso di un seminario nel Collège de Sociologie di Paris, il 19.2.1938. Essa è stata ripresa in Carlo Ginzburg, Mitologia germanica e nazismo. Su un libro di Georges Dumézil, in «Quaderni storici», n. 57, dicembre 1984, pp. 857-882, ora anche in C. Ginzburg, Miti, Emblemi, Spie. Morfologia e storia, Torino 1986, pp. 210-238; qui p. 230. 32 Benito Mussolini, voce Fascismo dell’Enciclopedia italiana, vol. XIV, Roma 1932, p. 848; cit. da Ernst Nolte (a cura di), Theorien über den Faschismus, Köln 1976, pp. 205-220, qui p. 210. 33 Cfr. Il fascio e la croce, in Emilio Gentile, Il culto del littorio. La sacraliz­ zazione della politica nell’Italia fascista, Roma 1993, pp. 135-146. 34 Cfr. Giorgio Rochat, Gli arditi nella Grande Guerra. Origini, battaglie e miti, Gorizia 1997, p. 38. 35 Cfr. Emilio Franzina, Inni e canzoni, in Mario Isnenghi (a cura di), Luoghi della memoria, Roma-Bari 1996, vol. I, pp. 115-162, qui p. 147. 36 Winfried Speitkamp, Denkmalsturz und Symbolkonflikt in der modernen Geschichte. Eine Einleitung, in Id. (a cura di), Denkmalsturz. Zur Konfliktge­ schichte politischer Symbolik, Göttingen 1997, pp. 5-21, qui p. 7. 37 A differenza della Nsdap, che prima sostituì i colori repubblicani, nerorosso-oro, con il nero-bianco-rosso monarchico, e poi elesse la bandiera del partito a vessillo nazionale, il Pnf dovette mantenere i simboli tradizionali dell’Italia monarchica. In realtà fu Mussolini a regolare per decreto in modo vincolante l’utilizzo del tricolore negli edifici pubblici: cfr. Gentile, Culto del Littorio, cit., p. 66; vedi anche Behrenbeck, Kult um die toten Helden, cit., pp. 423 s. 38 Cfr. Anna Maria Vinci, Il fascismo e la società locale, in IRSML, Friuli e Venezia Giulia, cit., pp. 221-258, qui p. 222. 39 Giovanni Zibordi, Critica socialista del fascismo, Bologna-Rocca S. Casciano-Trieste («Biblioteca di studi sociali diretta da Rodolfo Mondolfo», 7), 1922, p. 10. 40 Cfr. il modo in cui il termine è utilizzato in Alessi, Francesco Giunta, cit., p. XVIII. 41 Rino Alessi, Trieste e Mussolini, in «Il Piccolo», 17.9.1938. 42 Benito Mussolini, Discorso di Trieste (20.9.1920), in Edoardo e Duilio Susmel, Opera Omnia di Benito Mussolini. XV: Dal secondo congresso dei Fasci al trattato di Rapallo (26.5.1920-12.11.1920), Firenze 1954, pp. 214-223.

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Note

43 Le persecuzioni dei primi cristiani... e quelle degli sloveni a Trieste, in «Edinost», 22.8.1920. La traduzione in italiano dell’articolo si trova in ACS, PCM, UCNP, b. 86. 44 Legazione di S.M. il Re d’Italia in Belgrado, Il Calendario Adriatico per il 1936, all. a Ministero degli Affari Esteri an R. Ministero dell’interno, DGPS, 4.1.1936, in ACS, MI DGPS, div. AAGGRR, cat. F4 stampa estera, b. 39. 45 «Il latino conosce né il simbolo né il significato. E la torcia delle sue masse fanatizzate incendiò la casa tranquilla degli slavi, mentre lontano dietro le stelle il grande Mazzini sentiva della compassione per i figli degenerati del­ l’Italia liberatrice»; Legazione di S.M. il Re d’Italia in Belgrado, Calendario adriatico, cit. 46 «Non potremo mai dimenticare in qual modo si sia comportata la stampa italiana in occasione della distruzione e dell’incendio dei nostri averi e delle nostre case nazionali, ch’ebbero luogo nel luglio dello scorso anno. La stampa preparò anzitutto ed incitò il pubblico al delitto, e dopo il suo compimento cercò di storcere la verità, di giustificare i delinquenti, di diffamare il nostro pacifico popolo [...]. Questo supera la barbarie “balcanica”, cari signori!»; In occasione delle feste per l’annessione, in «Edinost», 2.2.1921, tradotto in italiano in ACS, PCM, UCNP, b. 86. 47 Sergio M. Katunarich, Frammenti di una vita fiumana, Udine 1994, pp. 37 e 52 s. 48 Medick, Grenzziehungen, cit., p. 223. 49 Kaschuba, Nationalismus und Ethnozentrismus, cit., p. 255. Tra i «segni di riconoscimento» l’autore cita «distintivi, formule di saluto, appartenenze ad associazioni, celebrazioni comunitarie», ibidem. 50 Regia Questura di Fiume a S.E. il Prefetto di Fiume, 26.1.1931, in PAR, PG, b. 62. 51 Virginio Gayda, La Jugoslavia contro l’Italia (Documenti e rivelazioni) [1933], Roma 19412, p. 93. 52 Pirjevec, Serbi, croati e sloveni, cit., p. 96. 53 Ljubidrag Garcina, Susak, fil di ferro, Fiume, il confine, in «Novi list», 12.8.1932 e «Jadranska straza», n. 8, agosto 1932. La traduzione dell’articolo in italiano si trova in ACS, MI, DGPS, div. AAGGRR, cat. F4, stampa estera, b. 39. ’4 Garcina, Susak, cit. 55 Sul «fascino dell’ebraismo» percepito dai nazionalismi europei tra le due guerre cfr. Niethammer, Kollektive Identität, cit., pp. 437-446, qui soprattutto p. 444. La «visione allora prevalentemente storico-idealistica» non poteva non accorgersi «che Israele era stata la prima, paradigmatica “nazione” della civiltà occidentale ed era sopravvissuta come popolo alla dispersione tra gli altri popoli e all’affievolirsi dei vincoli religiosi». 56 Sigmund Freud, Massenpsychologie und lch-Analyse (1921), trad. it. Psicologia delle masse e analisi dell’io, Torino 1975, pp. 19-20, parla di «stati di libera fantasticheria [...] che non vengono valutat[i] da alcuna istanza ra­ gionevole circa il loro accordo con la realtà». 57 Un confronto analogo, coerente con l’epoca, costruito lasciando da parte il mito del Kosovo e il richiamo ai «negri», si trova nel «diario tedesco» del­

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l’intellettuale cattolico di sinistra sloveno Edvard Kocbek, Aus dem «Deutschen Tagebuch» [1969], in Kocbekovo berilo/Kocbeks Lesebuch, a cura di Lev Detela, Klagenfurt-Ljubljana-Wien 1997, pp. 125-137, qui pp. 127 ss. 58 Così ad esempio Luigi Federzoni, Prefazione, in Edoardo Susmel, Mus­ solini e il problema adriatico, Roma 1929, pp. 5-8, qui p. 7. 59 Gianni Seivani, Der Fall Gabriele D’Annunzio. Der umstrittenste Dich­ ter Italiens, in Michaela Namuth, Modell Italien? Neues aus dem Land der Traditionen, Stuttgart 1990, pp. 121-133, qui pp. 129 s. In generale Kolb, Sprachpolitik, cit., p. 54. 60 Luisa Passerini, Mussolini, in Isnenghi (a cura di), Luoghi della memo­ ria, cit., vol. Ili, pp. 165-185, qui p. 173; Sergio Luzzatto, Il corpo del Duce, Torino 1998. 61 Ivo Banac, The National Question in Yugoslavia. Origins, History, Politics [1984], Ithaca-London 1993, p. 203. 62 Ìbidem, pp. 203 ss. 63 Cfr. Arnold Suppan, Jugoslawien und Österreich 1918-1938. Bilaterale Außenpolitik im europäischen Umfeld, Wien-München 1997, p. 960. 64 Franc Rozman, Vasilij Melik e Bozo Repe, Öffentliche Gedenktage bei den Slowenen von 1848 bis 1991, in Emil Brix e Hannes Stekl (a cura di), Der Kampf um das Gedächtnis. Öffentliche Gedenktage in Mitteleuropa, WienKöln-Weimar 1997, pp. 292-335, qui p. 309. 65 Regia Questura di Fiume a S.E. il Prefetto, 30.12.1929, in DAR, PG, busta 134. 66 La citazione è così riportata in Die Triestiner Frage dalla rivista «Esteri. Quindicinale di politica estera», edizione speciale, settembre 1952, p. 1; cfr. Lavo Cermelj, Sloveni e croati in Italia tra le due guerre, Trieste 1974, p. 22. 67 W. Er., Srpske narodne pjesme, in Walter Jens (a cura di), Kindler’s Neues Literatur Lexikon. Studienausgabe, München 1988-1992, vol. IX, pp. 156-157, qui p. 157. 68 Reinhard Lauer, Literaturen, in Magarditsch Hatschikjan e Stefan Troebst (a cura di), Südosteuropa. Gesellschaft, Politik, Wirtschaft, Kultur. Ein Handbuch, München 1999, pp. 417-436, qui p. 421. 69 «Tra gli sloveni il culto del Vidovdan prima e durante la Prima guerra mondiale, ma in particolare nei primi anni del dopoguerra, fu piuttosto diffuso, ma si dissolse alla luce della grigia realtà dell’egemonia serba nel Regno SHS»: France Klopcic, Marksizem in zgodovina (1975), in Id., Kriticno o slovenskem zgodovinopisju, Ljubljana 1977, pp. 13-122, qui p. 81. 70 Ciò che rimaneva era tuttavia compito di rafforzamento del centralismo serbo-jugoslavo spettante all’esilio giuliano. «A causa della cosiddetta politica jugoslava nei territori costieri», scriveva Kardelj nel 1938, «una parte degli emigranti provenienti da questi territori vengono sfruttati ai propri scopi dai regimi centralisti in Jugoslavia»: Edvard Kardelj, Die Vierteilung. Nationale Frage der Slowenen, Wien-Frankfurt-Zürich 1971, p. 238. 71 Cfr. Roberto Spazzali, G.I. Ascoli e la Venezia Giulia, in «Quaderni giuliani di storia», a. I, n. 1, pp. 51-68, qui pp. 58 s., e Branko Marusic, Graziadio Isaia Ascoli in slovenci, in Zgodovinski institut Milka Kosa Znanstvenoraziskovalnega centra SAZU (a cura di), Zahodno sosedstvo. Slovenski

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Note

zgodovinarji o slovensko-italijanskih razmerjih do konca prue svetovne vojne, Ljubljana 1996, pp. 75-84. 72 Spazzali, G.I. Ascoli, cit., p. 65, sottolinea che questo rifiuto rigoroso non durò a lungo; anche sloveni e croati adottarono la terminologia giuliana per indicare la regione costiera austriaca, chiamandola Julijska Krajina, da cui derivò il nome francese di Marche Julienne (in ingl. Julian March, in ted. Julische Mark). Le ultime denominazioni furono correnti soprattutto durante il conflitto per Trieste degli anni 1945-1954, quando vari documenti su Trieste e il suo territorio venivano tradotti in diverse lingue straniere. 73 Secondo Risolo (Fascismo, cit., p. 102), alla manifestazione svoltasi al Politeama Rossetti il 20 settembre 1920 Giunta avrebbe promesso a Mussolini che «il Gagliardetto del Fascio, insieme con il Tricolore, sarebbe stato portato sul monte Nevoso». 74 C., Trieste alla Mostra del Fascismo, cit., p. 271. 75 Cfr. Rolf Steininger, Alto Adige/Sudtirolo 1918-1999, Innsbruck 1999, p. 18. 76 Nell’uso linguistico bizantino-slavo, e di qui anche in quello jugoslavo, il termine latino corrispondeva esattamente al termine barbarico utilizzato in occidente. L’uso di questo termine risale alla conquista e al saccheggio di Co­ stantinopoli da parte dei veneziani e dei crociati e alla istituzione dell’«Impero latino» nel 1204. Cfr. Holm Sundhaussen, Europa balcanica. Der Balkan als historischer Raum Europas, in «Geschichte und Gesellschaft», n. 4, 1999, pp. 626-653, qui p. 644. 77 Legazione di S.M. il Re d’Italia in Belgrado, Il Calendario Adriatico per il 1936, allegato a Ministero degli Affari Esteri a R. Ministero dell’interno, DGPS, 4.1.1936, in ACS, MI DGPS, div. AAGGRR, cat. F4 stampa estera, b. 39. 78 Johann Krek, Die Slowenen, in Milcinovic e Krek, Kroaten und Slowenen, cit., pp. 58-110, qui p. 97. 79 Simon Gregorcic, An die Soca, Soci 1879, recentemente ristampato in tedesco con le ulteriori indicazioni bibliografiche in Lojze Wieser (a cura di), Europa erlesen. Karst, Klagenfurt/Celovec 1997, pp. 174-176. Cfr. Pirjevec, Serbi, croati e sloveni, cit., p. 144. 80 Fabio Todero, La guerra per tutti: appunti sulla «banalizzazione» della Grande Guerra in Italia, tra ieri e oggi, in «Qualestoria», n. 1, 2000, pp. 71-87, qui p. 80. 81 Cfr. Svoljsak, Prva svetovna vojna in slovenci\ vedi anche il brano Soska fronta, il fascicolo a tema La Grande Guerra nellTsontino e sul Carso e Afflerbach, Italien im Ersten Weltkrieg, cit. 82 Adriaticus (a cura e con prefazione di), O vojniprotiìtaliji odfeldmarsala Boroevica, Ljubljana 1923. 83 Pnf, Segretariato generale a Benito Mussolini, Presidente del consiglio dei ministri, 15.2.1924, in ASMAE, Affari politici 1919-1930, Jugoslavia, pacco 1316. 84 Benito Mussolini, Il mio diario di guerra, Napoli 1995, p. 13. 85 II sottocapo di stato maggiore dell’esercito (Badoglio), Nota sull’azione

politica e sull’orientamento del clero e delle masse cattoliche nella Venezia Giulia, Dalmazia e regioni adiacenti, 23.5.1919, in ACS, PCM, UCNP, b. 125.

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86 Ministero degli Affari Esteri a R. Ministero dell’interno, 12.6.1937, in ACS, MI, DGPS, div. AAGGRR, 1912-1945, cat. G l associazioni, b. 297. 87 Cfr. Pirjevec, Serbi, croati e sloveni, cit., p. 142. 88 A tutti gli uomini di buona volontà, in «Edinost», 19.2.1921, trad. it. in ACS, PCM, UCNP, b. 86 (Ufficio stampa locale [recensioni] 12.2.1921). 89 Cfr. Wilfan, Alle ingiurie non reagirò, cit., p. 136. 90 Furono questi i risultati di colloqui avvenuti nel gennaio 1915 tra l’allora vice-console italiano a Trieste, Carlo Galli, ed esponenti locali della minoranza slovena; cfr. Carlo Schiffrer, Inattesa di Trieste, in La questione etnica ai confini orientali d’Italia. Antologia, a cura di Fulvia Verani, Trieste 1990, pp. 93-122, qui p. 111. 91 Cfr. il volume di Adolf Köster, corrispondente di guerra socialdemocratico e futuro ministro di Weimar, Mit den Bulgaren. Kriegsberichte aus Serbien und Mazedonien, München 1916. 92 II critico letterario Jovan Skerlic scrive: «La luce della sconfitta di Kosovo risplende sui canti popolari e sulla poesia nazionale serba come il rogo di Troja illumina tutta l’antichità greca»; cit. da Pirjevec, Serbi, croati e sloveni, cit., p. 13. 93 Jadranac in «Jadranska straza», n. 12, dicembre 1927. La traduzione italiana del testo (Decimo anniversario della Battaglia di Caporetto) si trova in ACS, MI, DG PS, div. AAGGRR, cat. F4, stampa estera, b. 39. 94 Claus Gatterer, Erbfeindschaft Italien-Österreich, Wien 1972, p. 166, trad. it. «Italiani maledetti, maledetti austriaci». L’inimicizia ereditaria, Bolzano 1986, p. 223. Nel 1921 fu pubblicato in poche centinaia di copie il provocatorio libro di Kurt Erich Suckert su Caporetto, che già nel 1923 dovette essere ristampato con un nuovo titolo (Curzio Malaparte, Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti, Milano 1981). In esilio fu pubblicato il romanzo di guerra dell’antifascista sardo Emilio Lussu, Un anno sull’altipiano, Torino 1945. 95 Visintin, L’Italia a Trieste, cit., pp. 16-20. 96 Edoardo Susmel, Le giornate fiumane di Mussolini. Con una lettera di Benito Mussolini, Firenze 1937, p. 56. 97 Gayda, Jugoslavia, cit., pp. 60 s. 98 Cfr. Ambasciata tedesca a Roma a Ministero degli Esteri tedesco, 1.11.1934, in PA AA, Abt. II, Politsche Beziehungen zwischen Italien und Jugoslawien, R 72806. 99 Cfr. Consolato tedesco a Trieste ad Ambasciata tedesca a Roma, 9.3.1923, in PA AA, Politik 6 Italien, R 72856. 100 Una conseguenza di questa diversa interpretazione della Grande guerra da parte dei contemporanei è il fatto che la storiografia italiana e slovena ancor oggi ne danno valutazioni completamente diverse, come si coglie an­ che nell’elenco delle divergenze di opinione allegato alla dichiarazione della commissione storica italo-slovena: cfr. Dossier Italia-Slovenia, in «Il Piccolo», 4.4.2001, p. VI. 101 Antonio Sema, La storiografia dell’esodo italiano dall’Istria: prospettive per la ricerca, in Cattaruzza, Dogo e Pupo (a cura di), Esodi, cit., pp. 253-267, qui p. 258.

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Note

102 Cfr. R. Prefettura di Gorizia a Ministero della Cultura Popolare, 5.1.1928, in ACS, DGPS, div. AAGGRR, cat. F4 stampa estera, b. 49, che cita dal Koledar Druzbe Sv. Mohorja-leto 1938, Celje 1938, p. 101. i°3 per 0gni mille soldati dell’esercito austro-ungarico, 248 parlavano te­ desco, 233 ungherese, 126 ceco, 92 croato o serbo, 79 polacco, 78 ucraino, 70 rumeno, 36 slovacco, 25 sloveno e 13 italiano. Cfr. Lucio Fabi, Gente di trincea. La Grande Guerra sul Carso e sull’Isonzo, Milano 1997, p. 105. 104 L’assedio e la presa di Gorizia da parte delle truppe italiane, trasposta sul piano letterario nel volumetto di Elio Vittorini, Piccola borghesia, divenne sempre più il surrogato della «liberazione» di Trieste e Trento, avvenuta solo verso la fine della guerra. Cfr. Mario Isnenghi, La Grande Guerra, in Id. (a cura di), I luoghi della memoria, cit., vol. II, pp. 273-309, qui p. 289. 105 Ibidem, p. 287. 106 preìihov Varane, Doberdob. Vojni roman slovenskega naroda, Ljubljana 1950, trad. it. Doberdò. Gli umili nell’esercito austro-ungarico, Gorizia 1998. 107 Cfr. Benito Mussolini, Diario di guerra, s.l. 1995, p. 90. 108 Giuseppe Ungaretti, Il Carso non è più un inferno, Milano 1966. 109 Sema, Storiografia dell’esodo, cit., p. 258. 110 Isnenghi, Grande Guerra, cit., p. 284. 111 MI, DGPS a PCM, Gabinetto, 21.8.1934, in ACS, PCM, 1934-1936, f. 14, sf. 1. 112 Relazione circa l’opera del Comitato per l’erezione di un ricordo ai caduti del Monte Santo al 28 ottobre 1935/XI, in ACS, PCM 1937-1939, f. 14, sf. 5.4569. 113 Ibidem. 114 Cfr. Appunto per il capo del Governo, 9.7.1934, in ACS, PCM 19371939, f. 14, sf. 5. 115 Relazione circa l’opera del Comitato per l’erezione di un ricordo ai caduti del Monte Santo al 28 ottobre 1935/XI. 116 Ibidem. 117 Josip Wilfan a Ewald Ammende, 18.3.1931, in BA Koblenz, NL 1250 Josip Wilfan, Fase. 5; (Lavo Cermelj), Die Jugoslawen. Slowenen und Kroaten, in Ewald Ammende (a cura di), Die Nationalitäten in den Staaten Europas. Sammlung von Lageberichten, Wien-Leipzig 1931, pp. 473-511, qui p. 508. 118 Branko Marusic, La vita culturale e politica degli sloveni nel Goriziano tra le due guerre, in France M. Dolinar e Luigi Tavano (a cura di), Chiesa e

società nel Goriziano fra guerra e movimenti di liberazione - Cerkev in druzba na Goriskem ter njih odnos do vojne in osvobodilnih gtbanj, Gorizia 1997, pp.

177-185, qui p. 183. 119 Cermelj, Sloveni e croati, cit., p. 124. 120 Cfr. R. Prefettura di Gorizia a Ministero dell’interno, 19.10.1938, in ACS, MI, DG PS, div. AAGGRR 1912-1945, cat. G l, associazioni, b. 310. Missia, prima vescovo di Laibach, poi arcivescovo di Gorizia, fu uno dei so­ stenitori del parroco delle cooperative cristiano-sociali Janez Evangelist Krek: cfr. Janko Pieterski, Die Slowenen, in Wandruszka e Urbanitsch (a cura di), Habsburgermonarchie, cit., vol. Ili, t. 2, pp. 801-838, qui p. 827.

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121 S.A. Funivia del Monte Santo, Programma per l'inaugurazione della funivia del Monte Santo il giorno 13 agosto 1940, XVIII, 9.8.1940, in ARS, INZ, GK, f. 1032b. La funivia fu distrutta durante la guerra partigiana. 122 Adriano Dal Pont e Simonetta Carolini, L’Italia dissidente e antifascista.

Le ordinanze, le sentenze istruttorie e le sentenze in Camera di consiglio emesse dal Tribunale speciale fascista contro gli imputati di antifascismo dall’anno 1927 al 1943, Milano 1980, vol. II, p. 567. 123 Visintin, L’Italia a Trieste, cit., pp. 164 s. 124 La visita del duca d’Aosta, in Romano (a cura di), Trieste ottobre-novembre 1918, cit., parte III, pp. 153-157. 125 Paolo Alatri, Gabriele D’Annunzio, Torino 1983, p. 415; Gatterer, In lotta contro Roma, cit., p. 382. 126 Visintin, L’Italia a Trieste, cit., p. 229. 127 Vittorio Emanuele III a Ivanoe Bonomi, 2.10.1921, in ACS, PCM 1922, f. 4, sf. 8. 128 Sui luoghi commemorativi del fronte dell’Isonzo si vedano le osserva­ zioni generali di Ivelise Orfeo, Celebrazione e sepoltura: monumenti ai caduti e cimiteri militari, in «Qualestoria», n. 1-2, 1986, pp. 192-201. Vedi anche Reinhart Koselleck e Michael Jeismann (a cura di), Der politische Totenkult. Kriegerdenkmäler in der Moderne, München 1994. 129 Sabine Behrenbeck, Der Kult um die toten Helden. Nationalsozialistische Mythen, Riten und Symbole, Vierow bei Greifswald 1996, p. 287. 130 Michael Jeismann e Rolf Westheider, Wofür stirbt der Bürger? Natio­

naler Totenkult und Staatsbürgertum in Deutschland und Frankreich seit der Französischen Revolution, in Koselleck e Jeismann (a cura di), Der Politische Totenkult, cit., pp. 23-50. 131 Cfr. Isnenghi, Grande guerra, cit., pp. 303 s., e le indicazioni bibliogra­

fiche ivi fornite. 132 Già Reinhart Koselleck, Einleitung, in Koselleck e Jeismann (a cura di), Der politische Totenkult, cit., pp. 9-20, qui p. 9, scrive che in tutta Europa i monumenti ai combattenti evocavano «le virtù dei cittadini-soldati spartani, attici o romani» e «visualizzavano la promessa di redenzione dei soldati caduti per la patria». 133 Sul colle Capitolino di Trieste. La sistemazione della zona monumentale, in «Rivista mensile della città di Trieste», a. I, n. 1, luglio 1928. 134 Vecchia Trieste. La sistemazione capitolina, ibidem, p. 14. 135 La trattazione segue i saggi di Patrizia Dogliani, Redipuglia, in Isnenghi (a cura di), Luoghi della memoria, cit., vol. I, pp. 375-389, e Claudia Cavallar, Monumentale Jämmerlichkeiten. Heldendenkmäler in Italien, in Tabor, Kunst und Diktatur, cit., pp. 668-673. 136 Fabi, Gente di trincea, cit., p. 98. 137 Diverse foto di vecchi cimiteri militari si trovano nel volumetto, per il resto di scarsa utilità, di Gualandra, Redipuglia, cit.; vedi anche Fabi, Redi­ puglia, cit. 138 Sulla storia del monumento nazionale italiano cfr. Bruno Tobia, l!Altare della Patria. L'identità italiana, voi. VII, Bologna 1998.

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Note

139 Cfr. Dogliani, Redipuglia, cit., p. 385. 140 Fabi, Redipuglia, cit., p. 14. 141 I visitatori dei cimiteri militari di Ronchi e Vermigliano nel settembre del 1920 furono sgradevolmente colpiti nel constatare come essi «non fossero custoditi con quella cura e quell’amore dovuti ai monumenti nazionali, e più ancora ai campi doppiamente consacrati dalla morte e dall’eroismo»; Risolo, Fascismo, cit., p. 82.; cfr. Fabi, Redipuglia, cit., 16. 142 Friuli e Venezia Giulia: Guida critica all’architettura contemporanea, Venezia 1992, cit. da Cavallar, Monumentale Jämmerlichkeiten, cit., p. 673. 143 Agenzia Stefani, 19.9.1938, in ACS, PCM, 1937-1939, fase. 20, sf. 2. 144 «Muoio serenamente, sicuro che un magnifico avvenire si dischiuserà per la patria nostra, sotto l’illuminata guida del re ed il sapiente governo del duce »; cit. da Dogliani, Redipuglia, cit., p. 384. 145 Jeismann e Westheider, Wofür stirbt der Bürger?, in Koselleck, Jeismann (a cura di), Der Politische Totenkult, cit., p. 44. 146 Cfr. Thomas Bremer, Freud, Svevo, Saba, Weiss. Die Triestiner Kultur und die Frühgeschichte der Psychoanalyse, in «Zibaldone. Zeitschrift für italienische Kultur der Gegenwart», n. 15, maggio 1993, pp. 32-50. 147 II 23 maggio 1915 Svevo scrisse un resoconto delle manifestazioni che si svolgevano in quei giorni a Trieste. In questo testo egli respingeva tra l’altro la «mistica e la falsa retorica del patriottismo», definendo la guerra una «fonte di dolore e paura»: cfr. Brian Moloney, La coscienza di Zeno come romanzo di guerra, in «Problemi», n. 102, maggio-agosto 1995, qui ripreso da Fabio Todero, La Grande Guerra nella memoria letteraria a Trieste, in «Qualestoria», n. 1-2, dicembre 1998, pp. 332-396, qui p. 364. 148 Andreas Moritsch, Volk, Nationalität, Assimilation? Forschungseindrücke aus Südkärnten und aus dem Burgenland, in Rainer Bauböck (a cura d i),... und raus bist du! Ethnische Minderheiten in der Politik, Wien 1998, p. 265. 149 Partito nazionale fascista, Federazione dei fasci di combattimento deU’Istria, a Direttorio Nazionale del Pnf, 14.9.1942, in ACS, Mostra della Rivoluzione Fascista 1914-1945, Carteggio amministrativo, b. 9. 150 Passerini, Mussolini, cit., pp. 174 s. 151 Isnenghi, Garibaldi fu ferito, Roma 2007, pp. 25-45, qui pp. 37 s. 152 Un anniversario. La prima visita di Benito Mussolini a Trieste, in «Rivista mensile della città di Trieste», n. 6, dicembre 1928, pp. 1-2. 153 Cfr. Claus Gatterer, Unter seinem Galgen stand Österreich. Cesare Batti­ sti - Porträt eines «Hochverräters», Wien-Bozen 1997, trad. it. Cesare Battisti. Ritratto di un alto traditore, Firenze 1975. 154 L'apoteosi a Nazario Sauro, in «Rivista mensile della città di Trieste», n. 6, 1935, pp. 121-130, qui p. 122. 155 Diego De Castro, Memorie di un novantenne. Trieste e ITstria, Trieste 1999, p. 40. 156 L’apoteosi a Nazario Sauro, cit., p. 125. 157 Giovanni Quarantotto, Per un monumento a Nazario Sauro nella sua natale Capodistria, Capodistria 1918. 158 Comunicato Stefani, 7.6.1922, in ACS, PCM, UCNP, b. 86.

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159 Cfr. Pirano, Capodistria ed Isola nelle loro condizioni e nelle loro aspi­ razioni economiche, in «Il Piccolo della sera», 2.6.1925; Giovanni Giuriati, Costruzioni e ricostruzioni nella Venezia Giulia, in «Gerarchia», a. VII, n. 9, settembre 1927. 160 Riunione del 25 gennaio 1930 VHP (Palazzo Venezia), in ACS, Mostra della Rivoluzione Fascista, b. 53, f. 123. 161 Entrambi, madre e figlio, fecero tutto il possibile per non far capire che si conoscevano. La scena, come scrisse l’articolista sulla «Rivista mensile della città di Trieste», ricordava una tragedia greca: cfr. L’apoteosi a Nazario Sauro, cit., pp. 124 ss.; vedi anche Ercole Rivalta, La passione italiana di Nazario Sauro e Felice Venezian, commento di Raffaello Biordi, Roma 1924, pp. 15 s. 162 Ambasciata tedesca presso la Santa Sede a Ministero degli Esteri tedesco, 12.5.1933, in PA AA, Abt. II, Vatikan. Beziehungen zu Italien, R 72162. Il Vaticano reagì con indignazione a simili raffronti, che tendevano a dimostrare l’affinità tra la religione secolare fascista e alcuni elementi del cattolicesimo. Lo stesso Mussolini condannò in Parlamento questi e analoghi commenti della stampa di partito. 163 Francesco Semi, Istria e Dalmazia. Uomini e tempi. I: Istria e Fiume, Udine s.a., p. 414. 1M Mussolini, Discorso di Trieste (18.9.1938), cit., p. 145. 165 A Trieste il Consiglio comunale l’11 novembre 1918 deliberò di intitolare una piazza a Oberdan e un lungomare a Nazario Sauro: cfr. Sergio Raffaelli, I nomi delle vie, in Isnenghi (a cura di), Luoghi della memoria, cit., voi. II, pp. 215-242, qui p. 224. 166 Pnf, Mostra della Rivoluzione Fascista, cit., p. 186. 167 Cfr. Reinhard Lauer, Literaturen, in Hatschikjan e Troebst (a cura di), Sudosteuropa, Miinchen 1999, pp. 417-436, in partic. p. 427. 168 Pietro Nenni durante l’esilio osservò che l’Italia fascista «commemora Guglielmo Oberdan fucilando a Trieste i sudditi ribelli»: P. Nenni, Le esecuzioni di Trieste, Parigi s.a. [1930], cit. da Apih, Trieste, cit., p. 129. 169 Cfr. Sandro Pettini, Prefazione del Presidente della Repubblica, in Dal Pont e Carolini, Italia dissidente, cit., voi. I, pp. IX-XI, qui p. X. 170 II tribunale tenne vari processi anche in Venezia Giulia: a Gorizia (mag­ gio 1929), Pola (ottobre 1929), Trieste (1930, 1931 e 1941). Cfr. il capitolo 11 tribunale speciale fascista, in UAIS Trieste, Trieste in lotta per la Democrazia. Edizione italiana, Trieste 1945 [dattiloscritto]. Una copia del fascicolo si trova in INV Ljubljana, Fase. 49, busta 2. Si veda anche M.K.W. (ossia Milica KacinWohinz), Posebno sodisce za zascito drzave, in Enciklodija Slovenije, voi. IX, p. 159. Una traduzione di questo articolo si trova in Ministrstvo za zunanje zadeve Republike Slovenije (Ministry for Foreign Affairs of thè Republic of Slovenia), Slovenija, Italija (Slovenia, Italy), Bela knjiga o diplomatskih odnosih (White book on Diplomatic Relations), Ljubljana 1996, p. 11. 171 Cfr. Mimmo Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra. Agenti, collaboratori e vittime della polizia politica fascista, Torino 1999. 172 Introduzione, in Dal Pont e Carolini, Italia dissidente, cit., voi. I, pp. 1-3, qui p. 3.

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Note

173 Cermelj, Sloveni e croati, cit., pp. 288 s. Cfr. i dati in Pirjevec, Serbi, croati, sloveni, cit., p. 153. 174 II 27 ottobre 1929, pochi giorni dopo l’esecuzione della condanna di Vladimir Gortan, Mussolini si vantò affermando che la «rivoluzione fascista» non era invecchiata, ma «dopo sette anni aveva ancora il coraggio di cacciare il piombo razionalizzato dei suoi moschetti nella schiena dei traditori della patria...»: Benito Mussolini, All’inizio dell’ottavo anno. Discorso pronunciato a Roma dal balcone centrale di palazzo Venezia il 27 ottobre, verso le 11.30, in Edoardo e Duilio Susmel, Opera Omnia di Benito Mussolini. XIX: Dagli accordi

del Laterano al dodicesimo anniversario della fondazione dei fasci (12.2.192923.3.1931), Firenze 1954, pp. 154 s., qui p. 155.

175 «Appare quasi divertente che l’organo ufficiale “Popolo d’Italia” abbia riconosciuto che i metodi, un tempo applicati dall’Austria in questo territorio disgraziato, della forca e della frusta (che in precedenza non erano mai abba­ stanza additati al disprezzo) erano in effetti giustificati»; Ambasciata tedesca a Roma a Ministero degli Esteri tedesco, 11.9.1930, in PA AA, Abt. II, Italien. Beziehungen zu Jugoslawien, R 72803. 176 Legazione di S.M. il Re d’Italia in Belgrado a Regio Ministero degli Affari Esteri, 25.11.1933:, in ASMAE, Affari politici 1931-1945, Jugoslavia, b. 39. 177 Cermelj, Sloveni e croati, cit., p. 291. 178 Nel maggio del 1929 a Pola il tribunale processò 23 comunisti sloveni, accusati di aver assassinato un informatore della polizia: cfr. M.K.W., Posebno

sodisce za zascito drzave, ibidem.

179 I dati biografici sono tratti dalla voce Gortan, Vladimir, in Primorski slovenski biografski leksikon, Gorizia 1974-1994, voi. I, pp. 598-600. 180 Ibidem. 181 Cermelj, Sloveni e croati, cit., pp. 293 s. Lo stesso autore in Die Jugoslawen, cit., p. 497, definisce gli elettori scortati dai fascisti come «contadini

dotati di coscienza popolare, e di sentimenti nazionali croati»; vedi anche Kacin-Wohinz, Prvi antifasizem, cit., pp. 252-257. 182 Ìbidem. 183 Dal Pont e Carolini, Italia dissidente, cit., voi. I, p. 347. In realtà Tuhtan era di sentimenti antifascisti e conosceva i piani di Gortan e dei suoi amici; il 24 marzo 1929 egli avrebbe dovuto dare il segnale di fuga. Vedi anche Tribu­ nale Speciale per la Difesa dello Stato a R. Prefettura di Fiume, 24.10.1929, in DAR, PG, busta 141. 184 Come riferiva il console tedesco a Trieste: «Sento dire che Gortan fosse in realtà innocente. Pare che si trovasse a 4 km dal luogo e non avrebbe asso­ lutamente potuto colpire la vittima»; Consolato tedesco di Trieste a Ministero degli Esteri tedesco a Berlino, 26.10.1929, in PA AA, Poi. Abt. II, Politik 3, Politische Beziehungen Italien-Jugoslawien, R 72803. 185 Voce Gortan, Vladimir, cit., p. 599. 186 Paolo Sema, La lotta in Istria 1890-1945. Il movimento socialista e il Partito Comunista Italiano. La sezione di Pirano, Trieste 1971, p. 192. 187 Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Ufficio di S.E. il Presidente a Regia Prefettura di Fiume, 24.10.1929, in DAR, PG, busta 141.

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188 Ministero dell’interno a Prefetto di Gorizia, 20.6.1939, in ARS II, GK, fase. 1032. 189 Nemec, Paese perfetto, cit., p. 34. A Gortan sono attualmente intitolate alcune scuole nella parte croata dell’Istria e del golfo del Quarnaro (ricerca su Internet effettuata dall’autore nel maggio 2001). 190 Consolato tedesco a Trieste a Ministero degli Esteri tedesco a Berlino, 26.10.1929. 191 De Castro, Memorie, cit., pp. 51 ss. Bisogna tener conto che l’autore negli anni Venti e Trenta fu membro del Pnf e docente universitario. 192 Da Milano la polizia comunicava di aver scoperto sui muri scritte in onore del «martire Gortan»: Paolo Spriano, Storia del partito comunista italiano. II: Gli anni della clandestinità (1969), Torino 1976, p. 207. 193 Ambasciata tedesca a Belgrado a Ministero degli Esteri tedesco, 8.9.1930, in PA AA, Abt. II, Italien. Beziehungen zu Jugoslawien, R 72803. 194 R. Prefettura di Fiume a Ministero dell’interno, 20.10.1929, in DAR, PG, busta 141. 195 A Susak dimostranti jugoslavi lanciarono pietre contro la vettura delle poste italiane che tutte le sere trasportava oltre confine lettere e pacchi: R. Questura di Fiume agli uffici sottoposti, 16.10.1929, ibidem. 196 Sul termine «Grande processo» e eventi analoghi della storia della giustizia cfr. il volume collettaneo di Uwe Schultz (a cura di), Große Prozesse. Recht und Gerechtigkeit in der Geschichte (1996), München 1997. 197 Salta all’occhio che la «generazione intermedia» degli eroi nazionali italia­ ni, diversamente dai «padri della patria» Garibaldi, Mazzini e Cavour, sia finita in secondo piano, lasciando spazio a figure di identificazione antifasciste come Giacomo Matteotti o Antonio Gramsci. I nomi di Oberdan, Battisti e Sauro sono assenti anche in Isnenghi, Luoghi della memoria, cit., vol. Ili, che contiene articoli su Garibaldi, Mazzini e Matteotti. D’altra parte, si deve constatare che anche gli eroi del Risorgimento hanno perso forza d’integrazione. 198 Kacin-Wohinz, Prvi antifasizem, cit. Più difficile è, per la Croazia uf­ ficiale, fare i conti con la tradizione antifascista, poiché essa si è impegnata più intensamente della Slovenia alla riconciliazione, nel nome della «nazione croata», di varie linee di tradizione contrapposte. Particolarmente significa­ tive sono state, a tale proposito, sotto la presidenza Tudman, le controversie sui siti commemorativi dei campi di concentramento e di sterminio ustase di Jasenovac, in Slavonia. 199 Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo. Il populismo nella letteratura italiana moderna (1964-65), Torino 1988, p. 51. 200 II componimento di Rikard Katalinic-Jeretov apparve in «Jadranska straza», n. 7, luglio 1928. La traduzione in italiano (Abbattete il Leone!) è allegata alla comunicazione con cui il prefetto di Fiume il 7.7.1928 informava il ministero degli Interni dell’awenuto sequestro di questa edizione di «Jadranska straza»: Regia Prefettura di Fiume a Ministero dell’Interno, DGPS, 9.7.1928, in ACS, MI, DGPS, div. AAGGRR, cat. F4, stampa estera, b. 39. 201 Carlo Sforza, Jugoslavia. Storia e ricordi, Milano 1948, p. 152. 202 Mario Nordio, Dai sepolcri romani di Salona alla veneta agonia di Traù, in «Piccolo della sera», 19.5.1927.

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Note

203 Die Auswirkung von Beschädigungen italienischer Steindenkmäler in Dal­ matien, in Mitteilungen über die Lage der nationalen Minderheiten in Italien, senza data, aggiunta manoscritta del 31.12.1932. La copia si trova in INV, Mackovskov arhiv, Fascikel 67. 204 Gayda, Jugoslavia, cit., pp. 41-43. 205 Die Auswirkung von Beschädigungen, cit. 206 Era relativamente comune identificare la Serbia, e successivamente la Jugoslavia, con l’allevamento di maiali che vi era diffuso e costruire l’immagine stereotipica del «porcile». Così, ad esempio, Gabriele D ’Annunzio all’epoca dell’impresa di Fiume, definì lo Stato SHS «quel ributtante porcile serbo»: Gatterer, In lotta contro Roma, cit., p. 383. 207 Oberdan, in «Rivista mensile della città di Trieste», n. 12, 1932, pp. 379-389, qui p. 385. 208 Ambasciata tedesca a Roma a Ministero degli Esteri tedesco, 16.11.1932, in PA AA, Abt. II, Politische Beziehungen zwischen Italien und Jugoslavien, R 72804. Sugli eventi di Krk cfr. Consolato tedesco di Trieste a Ministero degli Esteri tedesco, 6.9.1932, ibidem. 209 Ambasciata tedesca a Roma a Ministero degli Esteri tedesco, 16.11.1932,

ibidem. 210 Ambasciata tedesca a Roma a Ministero degli Esteri tedesco, 15.12.1932,

ibidem. 211 Antwort an Italien, in «Deutsches Volksblatt» (Novi Sad), 22.12.1932. L’articolo si trova in allegato ad Ambasciata tedesca a Belgrado a Ministero degli Esteri tedesco, 23.12.1932, in PA AA, Abt. II, Politische Beziehungen zwischen Italien und Jugoslavien, R 72804. 212 II discorso di Jevtic si basava probabilmente su una documentazione raccolta dall’Arbeitsstelle für Südtirol di Innsbruck e inviata a Belgrado attraverso l’istituto per le minoranze di Lubiana. Cfr. Die Auswirkung von Beschädigungen, cit. 213 Ambasciata tedesca a Roma a Ministero degli Esteri tedesco, 28.4.1933, cit., in PA AA, Abt. II, Politische Beziehungen zwischen Italien und Jugo­ slavien, R 72804. 214 Cfr. Grgur Ninski, in Robert Stallaerts e Jeannine Laurens, Historical Dictionary of thè Republic of Croatia, London 1995, pp. 104 s. 215 Josef März, Die Adriafrage, con un cenno introduttivo di Karl Haushofer, Berlin-Grunewald 1933. 216 Enzo Bettiza, Esilio, Milano 1999, pp. 215 s. 217 März, Adriafrage, cit. 218 Krleza, Illyrium sacrum, pp. 15 s. 219 März, Adriafrage, cit. 22° per qUant0 riguarda i precedenti della statua di Balilla, essa era stata un regalo dello scultore Raffaello Romanelli a Gabriele D ’Annunzio, che a sua volta l’aveva donata alla città di Zara; al finanziamento aveva partecipato il governo italiano con 10 mila lire. Cfr. Dr. Fabiani, Prof. Angelo de Benvenuti al prefetto di Fiume, 29.8.1924, in ACS, PCM 1925, f. 14, sf. 4. Vedi anche la corrispondenza tra il prefetto di Zara e il governo di Roma (aprile e novembre 1925), ibidem.

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221 Cfr. Maria Stone, Staging Fascism: The Exhibition of the Fascist Revo­ lution, in «Journal of Contemporary History», vol. 28 (1993), pp. 215-243, qui p. 215. Vedi anche le scarne osservazioni di Laura Safred, Im Zeichen der neuen Zeit. Das Ausstellungswesen in Italien, in Jan Tabor (a cura di), Kunst und Diktatur, Architektur, Bildhauerei und Malerei in Österreich, Deutschland, Italien und der Sowjetunion 1922-1956, vol. II, Wien 1994 (Eine Ausstellung des Österreichischen Bundesministeriums für Wissenschaft und Forschung, Künstlerhaus Wien, 28. März bis 15. August 1994), pp. 692-697. 222 Gentile, Culto del littorio, cit., p. 227. Tra i visitatori stranieri più noti Gentile menziona Le Corbusier, André Gide, Maurice Denis e Paul Valéry. 223 Ìbidem, p. 228. 224 Fioravanti (a cura di), Mostra, cit., p. 30. Vedi anche Mitteilungen über die Lage der nationalen Minderheiten in Italien, cit. 225 Fioravanti (a cura di), Mostra, cit., p. 31. 226 Lettera di un fascista triestino a Francesco Giunta, 17.7.1932, in ACS; PCM 1931-1933, f. 14, sf. 1. 227 C., Trieste alla Mostra del Fascismo, cit., p. 270. 228 Pnf, Mostra della Rivoluzione Fascista, cit., p. 89. 229 Ìbidem, p. 100. Emerge qui una singolare contraddizione, poiché Sauro secondo altre informazioni si era già recato in Italia il 2 settembre 1914. 230 Calvi fu onorato tra gli altri da Giosuè Carducci nella poesia Cadore, in Giosuè Carducci, Rime e ritmi, a cura di Luigi Banfi, Milano 1987, pp. 63-73. Da Osoppo - una delle due fortezze friulane difese da Calvi contro gli austriaci - presero il nome i partigiani anticomunisti che operarono dal 1943 al 1945 in Friuli: Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna. Ili: La rivoluzione nazionale 1846-1849 [1960], Milano 1977, pp. 182 s. 231 Pnf, Mostra della Rivoluzione Fascista, cit., pp. 112 e 134. Sul contenuto simbolico del nero cfr. Behrenbeck, Kult um die toten Helden, cit., pp. 420 s. 232 Pnf, Mostra della Rivoluzione Fascista, cit., p. 144. 233 Ibidem, p. 152. 234 Ibidem, p. 151. 2,5 A tale proposito si può anche constatare una vicinanza al culto dei defunti nazionalsocialista, analizzato ad esempio da Sabine Behrenbeck, Kult um die toten Helden, cit. 236 Pnf, Mostra della Rivoluzione Fascista, cit., p. 229. 237 Sulla differenza tra il culto dei morti repubblicano e nazionalsocialista in Germania si veda invece il saggio di Sabine Behrenbeck, The Nation Ho­

nours the Dead: Remembrance Days for the Fallen in the "Weimar Republic and the Third Reich, in Karin Friedrich (a cura di), Festive Culture in Germany and Europe from the Sixteenth to the Twentieth Century, Lewiston 2000, pp. 303-321. Vedi anche Emilio Gentile, Der Liktorenkult, in Christof Dipper, Rainer Hudemann e Jens Petersen (a cura di), Faschismus und Faschismen im Vergleich. Wolfgang Schieder zum 60. Geburtstag, Köln 1998, pp. 247-261, qui pp. 253 s. 238 «Gli architetti Adalberto Libera e Antonio Valente hanno ben saputo conferire a questo Sacrario dei Martiri quel senso guerriero che ispirò i Martiri

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Note

stessi nell’impeto in cui trovarono la morte»: Pnf, Mostra della Rivoluzione Fascista, cit., p. 227. 239 Sulla questione se il «sacrario dei martiri» abbia influenzato, negli anni Trenta, la liturgia del nazismo, ad esempio il cosiddetto «estremo appello», cfr. Behrenbeck, Kult um die toten Helden, cit., pp. 278 s. 240 D. De Gregorio, Mostra permanente della Rivoluzione, in «Il Legionario», 18.12.1942,cit.da Roberta Suzzi Valli, The Myth of Squadrismo in the Fascist Regi­ me, in «Journal of Contemporary History», n. 2,2000, pp. 133-150, qui p. 148. 241 Galeazzo Ciano, Diario 1937-1938, Bologna 1948, p. 64. 242 La mostra si chiuse il 28.10.1934. L’occasione fu data da una cerimonia nella quale il giorno prima in piazza Santa Croce a Firenze 37 squadristi della prima ora erano stati sepolti insieme in pompa magna. Cfr. Suzzi Valli, Myth of Squadrismo, cit., pp. 144 ss. 243 Ciano, Diario 1937-1938, cit. (annotazione del 23.9.1937). 244 Fioravanti (a cura di), Mostra, cit., p. 37. Sulla Mostra Augustea si veda lo studio di Friedemann Scriba, Augustus im Schwarzhemd? Die Mostra Augustea della Romanità in Rom 1937/38, Frankfurt a.M. 1995.

Capitolo secondo 1 Era intitolata a Zlatorog la residenza di caccia del re jugoslavo sul lago di Bohinj, come il primo film sloveno girato nella zona del monte Tricorno con il titolo («Nel regno di Zlatorog»); V kraljestvu Zlatoroga, in Marjan Drnovsek e Drago Bajt (a cura di), Slovenska kronika XX stoletja. 1900-1941, Ljubljana 1995, vol. I, p. 367. 2 Zlatorog, in Ursula Enderle (a cura di), Märchen der Völker Jugoslawiens, Leipzig 1990, pp. 254-258, qui p. 256. 3 Dell’evento con Doktoric riferiva lo «Slovenec» del 14.2.1929. Inoltre il ministero degli Interni ricevette il rapporto di un informatore di Lubiana. Cfr. Ministero dell’interno, DG PS a prefetture adriatiche, 11.3.1929, in DAR, PG, busta 141. Su Doktoric cfr. il volume recentemente pubblicato David Doktoric, Primorski duhovnik med starim in nuovim svetom, Gorica 1996. 4 Per un parallelo significativo nell’Alto Adige del periodo tra le due guerre si veda il paragrafo Über die «Verführbarkeit» der Frauen, in Martha Verdorfer, Zweierlei Faschismus. Alltagserfahrungen in Südtirol 1918-1945, Wien 1990, pp. 73-78. 5 Wolfgang Schieder, Das italienische Experiment. Der Faschismus als Vorbild in der Krise der Weimarer Republik, in «Historische Zeitschrift», 262, 1996, pp. 73-125, qui pp. 77 s. 6 Sul periodo fino al 1918 cfr. il paragrafo Le associazioni scolastiche e di tutela in Gatterer, In lotta contro Roma, cit., pp. 157-166; sugli anni tra le due guerre il paragrafo Volkstumsschutz in Boehm, Das eigenständige Volk, cit., pp. 169-176. 7 Miroslav Hroch, Minderheiten als Problem der vergleichenden Nationa­ lismusforschung, in Hahn e Kunze (a cura di), Nationale Minderheiten, cit., pp. 9-18, qui p. 13.

Capitolo secondo

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8 Kaschuba, Nationalismus und Ethnozentrismus, cit., p. 255. 9 Particolarmente avanzata è l’indagine della Società Dante Alighieri e del suo omologo sloveno, la Società Cirillo e Metodio: cfr. Beatrice Pisa, Nazione e politica nella Società «Dante Alighieri», Roma 1995; Andrej Vovko, Mal polozi

dar... domu na aitar. Vortret slovenske narodnoohramhne solske organisacije druzbe sv. Cirila in Metoda 1885-1918, Ljubljana 1994. Tuttavia, nessuno di questi studi arriva più in là degli anni Venti. 10 Janez Stergar, Die Frage der Kärntner Slowenen in den Jugoslawisch-

österreichischen Beziehungen von der Volksabstimmung bis zum Anschluß. Referat auf dem 2. Jugoslawisch-österreichischen Historikertreffen, Otocec/

Novo mesto (Slovenia), ottobre 1984, p. 8, in VLB Bregenz, NL Veiter, Schachtel 13. 11 Suppan, Jugoslawien und Österreich, cit., p. 981. 12 Hroch, Minderheiten als Problem der vergleichenden Nationalismusfor­ schung, cit., p. 14. 13 Sulla differenziazione dell’associazionismo sloveno a partire dagli anni Sessanta cfr. Monika Stromberger, Laibach/Ljubljana: Die Entwicklung wissen­

schaftlicher Institutionen in Slowenien. Unter besonderer Berücksichtigung der Forderung Ljubljanas nach Errichtung einer Universität, in Reinhard Kannonier e Helmut Konrad (a cura di), Urbane Leitkulturen 1890-1914. Leipzig-Ljubljana-Linz-Bologna, Wien 1995, pp. 155-181, qui pp. 155 ss.

14 In una grande città come Trieste questa tripartizione dell’associazioni­ smo andrebbe ulteriormente specificata, come hanno mostrato ultimamente Winkler Wahlrechtsreformen, cit., pp. 65-88) e Rutar (Kultur-Nation-Milieu, cit., pp. 57-67). 15 Koselleck, Volk, Nation, Nationalismus, Masse, cit., p. 376. 16 Cfr. anche la posizione sostenuta da Mile Bjelajac, Military Elites: Continuity and Discontinuities. The Case of Yugoslavia, 1918-1980, in Wolfgang Höpken e Holm Sundhaussen (a cura di), Eliten in Südosteuropa. Rolle, Kontinuitäten, Brüche in Geschichte und Gegenwart, München 1998, pp. 229-241, qui p. 239. 17 Cfr. Ufficio Stampa della Lega Nazionale, La Lega Nazionale di Trieste, Cenni storici, Trieste 1951. 18 Statuti e regolamenti della Lega Nazionale, Trieste 1908, p. 1. 19 Maserati, Iconografia e riti, cit., p. 277. 20 Cfr. Direzione della Lega Nazionale a R. Governatorato della Venezia Giulia, 11.2.1919, in MI DGPS, div. AAGG e del personale, Atti amministrativi 1885-1946, b. 7. 21 Anna Millo, L’élite del potere a Trieste. Una biografia collettiva 1891-1938, Milano 1989, p. 29. 22 Lega Nazionale di Trieste, Assemblea Generale ordinaria dei delegati, 30.6.1951, in ASMAE, Affari politici, 1950-1957, Uff. II, fase. 510. 23 Gatterer, In lotta contro Roma, cit., p. 161. Vedi anche i dati forniti da Robert Michels, Italien von heute, Zürich-Leipzig 1930, pp. 113 s. 24 Ibidem. 25 Giovanni D’Alessio, Élites nazionali e divisione etnica a Pisino (Istria)

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Note

a cavallo tra XIX e XX secolo, in «Quaderni storici», n. 1, aprile 1997, pp. 155-182, qui p. 168. 26 La «Lega Nazionale» e i suoi istituti scolastici, in ACS, PCM, UCNP, b. 154. 27 Inattività dell’O.N. pro Italia Redenta, in «Rivista mensile della Città di Trieste», n. 8, 1933, pp. 198-202, qui p. 198. 28 G.A. Chiurco, Storia della rivoluzione fascista 1919-1922. I: Anno 1919, Firenze 1929, p. 35. 29 Cit. da Gatterer, In lotta contro Roma, cit., p. 788. 30 R. Prefettura di Trieste a Ministero dell’Interno, 22.6.1931, in ACS, PCM 1931-1933, f. 3, sf. 2-9. 31 Programma riservato, in ACS, PCM 1922, f. 4, sf. 8. 32 Consiglio Centrale della Lega Nazionale a Ministero della Pubblica Istruzione, 21.5.1924, in MI DG AAGG e del personale, Atti amministrativi 1885-1946, b. 7. 33 Silva Bon Gherardi, Politica, regime e amministrazione in Istria, in S. Bon Gherardi, L. Lubiana, A. Millo, L. Vanello e A.M. Vinci, L'Istria fra le due guerre, prefazione di Teodoro Sala, Roma 1985, pp. 21-80, qui p. 57. 34 A. Lustig a Luigi Federzoni, Ministro dell’interno, 5.5.1925, in MI DG AAGG e del personale, Atti amministrativi 1885-1946, b. 7. In un altro caso il sindaco di Trieste intervenne in favore delle esigenze dell’associazione scolastica. Cfr. Sindaco di Trieste a Luigi Federzoni, Ministro degli Interni, 2.6.1925, ibidem. 35 Alessandro Lustig a Luigi Federzoni, 19.5.1925, ibidem. 36 II Consiglio Direttivo Generale della Lega Nazionale al Ministero della Pubblica Istruzione, maggio 1925, ibidem. Tuttavia l’associazione trovò nuove fonti di finanziamento: il 9 dicembre 1926 la Gazzetta Ufficiale pubblicava la notizia che alla Lega Nazionale sarebbero dovute andare 225 mila lire dal fondo Spese per propaganda d’italianità del ministero degli Interni. Gazzetta Ufficiale del Regno, 7.6.1926, S. 2296, copia in allegato a Ministero dell’interno, Ragioneria Centrale in DG Amministrazione Civile, 5.1.1927, ibidem. 37 Cfr. Millo, Lélite del potere, cit., p. 306. Sull’O.N. Balilla cfr. Jürgen Charnitzky, Die Schulpolitik des faschistischen Regimes in Italien (1922-1943), Tübingen 1994, pp. 236-279. 38 Cfr. R. Prefettura di Trieste a Ministero dell’interno, 22.6.1931, in ACS, PCM, 1931-1933, f. 3, sf. 2-9. 39 Ibidem. 40 Ibidem; Ministero dell’Educazione nazionale a Presidenza del Consiglio dei ministri, 14.7.1931; Presidenza del Consiglio dei ministri a Prefetto di Trieste, 4.11.1931, in ACS, PCM 1931-1933, f. 3, sf. 2-9. 41 Calendario della «Jadranska Straza» per l’anno 1934, in Ministero degli Affari Esteri, Ufficio stampa, a Ministero dell’interno, DGPS, 18.1.1932, in ACS, MI, DGPS, div. AAGGRR, cat. F4, stampa estera, b. 39; AST, Com­ missariato del Governo, 6, f. 4/10 Lega Nazionale. 42 Adriano Andri e Guido Mellinato, Scuola e confine. Le istituzioni scola­ stiche della Venezia Giulia 1915-1943, Trieste 1994, pp. 12 s. 43 National Gesellschaft «Dante Alighieri», all. a Reisinger (Roma) a Mi­

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nistero degli Esteri tedesco, 28.11.1921 in PA AA, Abt. Via, Verein für das Deutschtum im Ausland (R 60373). 44 Gatterer, In lotta contro Roma, cit., p. 162. 45 National Gesellschaft «Dante Alighieri», cit. 46 Società Dante Alighieri a PCM, 16.5.1931, in ACS, f. 3. sf. 3-10. 47 Gatterer, In lotta contro Roma, cit., p. 163. 48 Pisa, Nazione e politica, cit., pp. 355 s. 49 Beatrice Pisa e Patrizia Salvetti, Premessa, in Pisa, Nazione e politica, pp. 5-7, qui p. 5. 50 Trieste e la società Dante Alighieri (19.11.1918), in Trieste ottobre-novembre 1918, parte 3, p. 170. 51 Consolato tedesco di Trieste a Ministero degli Esteri tedesco, 30.10.1923, in PA AA, Abt. Ila, Poi. 6 Italien, R 72856. 52 Claudio Silvestri, Dalla redenzione al fascismo, Udine 1966, p. 7. 55 Felice Felicioni, Vecchi e nuovi compiti della «Dante», in «Gerarchia», a. XIII, n. 9, settembre 1933, pp. 759-764, qui pp. 760 s. 54 Andri e Mellinato, Scuola e confine, cit., pp. 66 s. 55 Perché? Per quale scopo?, in «Edinost», 7.12.1920, traduzione italiana in ACS, PCM, UCNP, b. 86. 56 Regia Questura di Fiume a Ill.mo Sig. Prefetto di Fiume, 9.9.1924, in PAR, PG, b. 19. 57 Kolb, Sprachpolitik, cit., p. 33. 58 Cfr. Pisa, Nazione e politica, cit., pp. 400 s. Sulla politica culturale fascista all’estero cfr. Andrea Hoffend, Zwischen Kultur-Achse und Kulturkampf. Die

Beziehungen zwischen «Drittem Reich» undfaschistischem Italien in den Bereichen Medien, Kunst, Wissenschaft und Rassenfragen, Frankfurt a.M. 1998.

59 Cfr. Dante Alighieri Postumia Grotte a R. Ispettore scolastico Postumia Grotte, 9.6.1937, in AST, IS, b. 4. 60 R. Ispettore scolastico a R. Provveditore agli studi, Trieste, 18.8.1937, in AST, IS, b. 4. 61 Circoscrizione scolastica di Postumia Grotte ai RR. direttori didattici della circoscrizione, 24.9.1937, in AST, IS, b. 4. 62 R. Direzione didattica - Postumia Grotte a Ispettore scolastico Postumia Grotte, 8.11.1937, ibidem. 63 Circoscrizione scolastica di Postumia Grotte ai RR. direttori didattici della circoscrizione, 25.10.1937, ibidem. 64 Cfr. i due saggi (che costituiscono lo sviluppo di una tesi di laurea) di Daniela Giovanna Liebscher, Organisierte Freizeit als Sozialpolitik. Die faschisti­

sche Opera Nazionale Dopolavoro und die NS-Gemeinschaft Kraft durch Freude 1925-1939, in Petersen e Schieder, Faschismus und Gesellschaft in Italien, cit., pp. 67-90 e Freizeit im Faschismus. Die «Opera Nazionale Dopolavoro» und ihre internationale Bedeutung, in Rolf Wörsdörfer (a cura di), Sozialgeschichte und soziale Bewegungen in Italien 1848-1998. Forschungen und Forschungsberichte, Bochum («Mitteilungsblatt des Instituts zur Erforschung der europäischen

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Note

Arbeiterbewegung», 21) 1998, pp. 158-170. Vedi anche la voce Dopolavoro, in Cannistraro, Historical Dictionary, cit., pp. 175-177. 65 Rapporto del Duce ai segretari federali, febbraio 1930, Venezia Giulia, in ACS, Mostra della Rivoluzione Fascista, b. 53, f. 123. 66 Cermelj, Sloveni e croati, cit., pp. 109 s. 67 11fascismo per il popolo. Il I decennio dell’Opera Nazionale Dopolavoro, in «Rivista mensile della città di Trieste», n. 4, 1935, pp. 73-81, qui p. 73. 68 Si veda recentemente Patrizia Dogliani, Sport and Fascism, in «Journal of Modem Italian Studies», n. 3, 2000, pp. 326-343. 69 II fascismo per il popolo, cit., p. 74. 70 Voce Dopolavoro, cit., p. 176. 71 All’Ond erano collegate ben 8.025 associazioni sportive, che per il de­ cennale della sua esistenza organizzarono 203 mila eventi e gare. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale facevano parte del Dopolavoro 3,5 milioni di italiani, aggregati in 23 mila gruppi locali: cfr. ibidem, pp. 175 s. 72 Sul Dopolavoro in Alto Adige cfr. Verdorfer, Zweierlei Faschismus, cit., pp. 70-73. 75 Cermelj, Sloveni e croati, cit., p. 110; Id., Die Jugoslawen, cit., p. 476. 74 Cermelj, Sloveni e croati, cit., p. 109. 75 Rapporto del Duce ai segretari federali, Febbraio 1930, Venezia Giulia, in ACS, Mostra della Rivoluzione Fascista, b. 53, f. 123. 76 Riunione del 22 gennaio 1930, in ACS, Mostra della Rivoluzione Fascista, b. 53, f. 123. 77 Agenzia Stefani, 18.9.1938, in ACS; PCM 1937-1939, f. 20, sf. 2, 5597. 78 Annamaria Vinci, Bellicismo e culture diffuse, in Ead. (a cura di), Trieste in guerra. Gli anni 1938-1943, Trieste 1992, pp. 73-117, qui p. 100. 79 Ibidem, p. 111. 80 «Poiché tuttavia l’organizzazione italiana del Dopolavoro nei territori slavi non tutela necessariamente la cultura [...], nonostante tutta l’agitazione, tutte le esche e le pressioni, non riesce a gettare alcuna radice tra gli sloveni e i croati. Dopo la dissoluzione delle organizzazioni culturali native, i centri sloveni e croati sono rimasti completamente privi di associazioni. L’unica cosa che il Dopolavoro può offrire è l’organizzazione di balli per i giovani del paese»; [Cermelj], Die Jugoslawen, cit., p. 476. 81 Nel suo Corso sugli avversari Paimiro Togliatti riferiva di un gruppo della Ond di Trieste che aveva organizzato un viaggio nell’Urss, era giunto fino a Odessa e aveva preso contatti con qualche organizzazione locale. «I parteci­ panti, al ritorno», aggiungeva Togliatti non senza la giusta dose di cinismo, «furono tutti arrestati. Eppure qualche cosa si è fatto»; Paimiro Togliatti, Corso sugli avversari, in Id., Opere, voi. Ili, t. 2: 1929-1935, Roma 1973, pp. 533-671, qui p. 605. 82 II fascismo per il popolo, cit., p. 76. 83 Cermelj, Sloveni e croati, cit., p. 137. 84 R. Ispettore Bibliografico Onorario a Ministero dell’Educazione nazionale e R. Soprintendenza Bibliografica per le Venezie, 17.6.1933, in AST, Ispettorato scolastico, busta 1.

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85 II fascismo per il popolo, cit., p. 78. Togliatti, Corso sugli avversari, cit., p. 605, raccomandava a quel tempo ai comunisti italiani di svolgere un lavoro culturale, chiedendo in biblioteca libri di Gorkij, Tolstoj e altri, «che oggi in Italia possano avere un contenuto sovversivo». 86 Un caso analogo nella regione di confine tedesco-polacca è descritto da Mechthild Golczewski, Grenzbüchereien im «Volkstumskampf» gegen Polen 1900 bis 1939, in Alexander, Kämpfer e Kappeler (a cura di), Kleine Völker, cit., pp. 105-118. 87 Nelle altre località anche le possibilità di prestito erano limitate a uno o due giorni la settimana; R. Ispettore Bibliografico Onorario a Ministero dell’Educazione nazionale e a R. Soprintendenza Bibliografica per le Venezie, 17.6.1933, in AST, Ispettorato scolastico, busta 1. 88 Cfr. [Cermelj], Die Jugoslawen, cit., qui p. 476. 89 Sul Dopolavoro in Istria cfr. soprattutto Bon Gherardi, Politica, regime, cit., p. 73. 90 Nemec, Paese perfetto, cit., pp. 36 s. 91 Ministero dell’interno, DGPS, a Ministero Affari Esteri, 29.3.1940, in DAR, RK, kutija 196. 92 Sulle origini di Narodna odbrana si veda Narodna odbrana und Udjijenje ili smrt, in Behschnitt, Nationalismus, cit., pp. 108-132. 95 Ìbidem, p. 114. 94 Ìbidem. Al congresso di Skoplje di Narodna odbrana (novembre del 1930) presero parte Janko Pretnar per la Jugoslovenska matica di Lubiana, Niko Bartulovic come segretario della «Jadranska straza», Ivan Marija Cok per la Jugoslovanska matica di Belgrado e un esponente del circolo accademico degli istriani di Zagabria. 95 Rapporto. Associazione Jugoslava «Narodna obrana» [j/c!] («Difesa Nazionale»), Fiume, 14.10.1927, in DAR, PG, busta 134. 96 Regia Prefettura del Carnaro a Questore, 1.1.1929, in DAR, RK, kutija 202. 97 Un quotidiano croato rispose allora a «Narodna odbrana» che dopo il crollo della Russia zarista il panslavismo era ormai superato. Cfr. consolato tedesco di Zagabria a Ministero degli Esteri tedesco, 13.4.1929, in PA AA, Abt. Ilb, Politik 6 Jugoslawien, R 73169. 98 «Narodna odbrana», nn. 1-2, 4-11 gennaio 1931; la traduzione italiana del testo si trova ibidem. 99 Ìbidem. 100 Gayda, Jugoslavia, cit., p. 8. 101 Yugoslav National Defence, Office of the Secretary, Cleveland, O. a The Minister of Foreign Affairs, Republic of Germany, Berlin, 10.6.1931, in PA AA, Abt. VI, Minderheiten, R 60523. 102 MI, DGPS, Div. AAGGRR a prefetture adriatiche, 13.3.1929, in DAR, PG, busta 134. 103 Legazione di S.M. il Re d’Italia a Ministro degli Affari Esteri, 6.8.1920, in ACS, PCM, UCNP, b. 57.

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Note

104 Consolato tedesco a Sarajevo a Ministero degli Esteri tedesco, 25.9.1936, in PA AA, Abt. IV, R 103301. 105 Alcuni decenni dopo l’intellettuale sloveno Josip Vidmar commentava così questi sforzi di riforma in senso jugoslavistico: «La formula di allora per la creazione di una lingua comune era la seguente: i serbi sacrificano la propria scrittura, il cirillico, i croati perdono la loro peculiarità nei confronti del serbo, e gli sloveni perdono la loro lingua»; Vidmar, Ein Interview [settembre 1984], in Verzicht und Behauptung, cit., pp. 100-108, qui p. 247. 106 «Narodna odbrana», 3.11.1929; trad. it. Il bisogno di una grafia in ASMAE, Affari politici 1919-1930, Jugoslavia, b. 1357. 107 Bjelajac, Military Elites, cit., p. 239. 108 Gegen Terror und Faschismus. Der Kampf des jugoslawischen Volkes. Von L. Aleksitsch (Belgrad), in «Rundschau», n. 6, 10.2.1938, pp. 198 s. 109 Cfr. Othmar N. Haberl, Die KP) und die Komintern, in «SüdosteuropaMitteilungen», n. 3, 1984, pp. 30-38. 110 R. Questura di Fiume, 19.12.1926, in DAR, PG, b. 59. 111 Josip Vidmar, Vor dem Ungewitter. Begegnungen mit der Geschichte [1963], in Id., Zwischen Verzicht und Behauptung, cit., pp. 13-35, qui p. 16. 112 Enrico Aci Monfosca, Le Minoranze nazionali contemplate dagli Atti internazionali. II: Paesi danubiani, balcanici e Turchia, Firenze 1929, p. 75. 115 Consolato tedesco a Zagabria a Ministero degli Esteri tedesco, 5.3.1923, in PA AA, Abt. 2b, Politik 6 Jugoslawien, R 73167. 114 Max Hildebert Boehm, Europa Irredenta. Eine Einführung in das Na­ tionalitätenproblem der Gegenwart, Berlin 1923, S. 304. 115 Consolato Generale d’Italia in Bosnia Erzegovina a Ministero degli Affari Esteri, 25.4.1923, in ASMAE, Affari politici 1919-1930, Jugoslavia, pacco 1316. 116 Cfr. Ivan Macek-Matija, Erinnerungen eines jugoslawischen Frei­ heitskämpfers (1981), trad. ted. di Doris Debenjak, Köln 1985, pp. 37 s.; France Filipic, Pet desetletijpo spopadu z Orjuno v Trbovljah - Kako je potekala zaplemba knjige prvi junij, in Filipic, Poglavija revolucionarnega boja jugoslovanskih komunistov 1919-1939, II ed. Ljubljana 1981, pp. 248-287; Klopcic, K petdesetletnici prvojunijska sopada v Trbovljah. Teze, in Klopcic, Kriticno o slovenskem zgodovinopisju, cit., pp. 409-418. 117 MI, DGPS, Div. AAGGRR alle prefetture adriatiche, 13.3.1929, in DAR, PG, busta 134. 118 Jakir, Dalmatien, cit., p. 361. 119 R. Consolato d’Italia Spalato a Ministero degli Affari Esteri, 30.4.1924, in ASMAE, Affari politici 1919-1930, pacco 1316. 120 Gayda, Jugoslavia, cit., p. 12. 121 Cfr. Sema, Lotta in Istria, cit., p. 200. 122 Consolato tedesco di Trieste a Ministero degli Esteri tedesco, 23.1.1923, in PA AA, Abt. Ila, R 72856. 123 Ad esempio da Kardelj, Die Vierteilung, cit., p. 230. 124 Ibidem, p. 230 s.

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125 LOrjuna e la Srnao, trad. it. di un articolo tratto dallo «Slobodni glas» (Zagabria), 16.3.1929, in DAR, PG, busta 118. Cfr. sulla scissione del partito democratico Holm Sundhaussen, Experiment Jugoslawien. Von der Staatsgrün­ dung bis zum Staatszerfall, Mannheim-Leipzig ecc. 1993, pp. 50 s. 126 LOrjuna e la Srnao, cit. 127 Gayda, Jugoslavia, cit., pp. 12 s. 128 Orjuna. Notizie confidenziali, 7.4.1929, in DAR, PG, busta 134. 129 Regia Prefettura del Carnaro a Questore di Fiume, 15.4.1929, in DAR, PG, busta 117. 130 MI, DGPS, Div. AAGGRR a prefetture adriatiche, 13.3.1929, in DAR, PG, busta 134. 131 Wendel, Aus dem südslawischen Risorgimento, cit., p. 78. La Matica srpska era considerata una «istituzione culturale di primo piano dei serbi»; Holm Sundhaussen, Der Einfluß der Herderschen Ideen auf die Nationsbildung bei den Völkern der Habsburger Monarchie, München 1973, p. 149. 132 Stromberger, Laibach/Ljubljana: Die Entwicklung wissenschaftlicher Institutionen, cit., p. 157, cita la Slovenska matica come «istituzione di primo piano e portante in campo scientifico e soprattutto letterario». 133 Regia Prefettura del Carnaro, Gabinetto, a Questore Fiume, 27.12.1927, in DAR, RK, kutija 197. 134 Una traduzione italiana del testo si trova in allegato a Governo della Dalmazia e delle Isole Dalmate e Curzolane a Ufficio centrale per le nuove province, in ACS, PCM, UCNP, b. 57. 135 Cfr. la relazione dello Stato Maggiore del Regio Esercito a Ufficio centrale per le nuove province, 25.2.1921, in ACS, PCM, UCNP, b. 57. 136 Consolato tedesco a Trieste a Ministero degli Esteri tedesco, 28.11.1922, in PA AA, Abt. Ila, Politik 6 Italien, R 72856. 137 CGC VG a Ufficio centrale per le nuove province, 25.3.1920, in ACS, MI, DG PS, div. AAGGR, cat. Annuali, a. 1920, b. 8. 138 Copia, Consolato Generale d’Italia in Spalato, 2.8.1928, in DAR, RK, kutija 197. 139 J. Ste., Jugoslovanska Matica. 140 R. Prefettura di Gorizia a Ministero dell’Interno, 30.10.1939, in ACS, DGPS, div. AAGGRR, cat. F4, stampa estera, b. 103. 141 Nasi zadaci na Severnom Jadranu nakon raplaskog ugovora. Elaborata «Primorske Sekcije Jugoslavenske matice» (sediste Susak-Bakar), Zagreb 1921, p. 2. 142 Appello della Jugoslovenska matica in «Slovenec», 26.8.1928. La tradu­ zione italiana del testo si trova in DAR, RK, kutija 197. 143 Stato Maggiore del Regio Esercito a Ufficio centrale per le nuove pro­ vince, 20.10.1920, in ACS, PCM, UCNP, b. 57. 144 Stato Maggiore del Regio Esercito a Ufficio centrale per le nuove pro­ vince, 13.4.1921, in ACS, PCM, UCNP, b. 57. ♦ 145 Regia Prefettura del Carnaro, Gabinetto, a Questore Fiume, 27.12.1927, in DAR, RK, kutija 197.

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Note

146 Sloveni aiutate! Appello della Jugoslovenska malica in «Slovenec», 30.12.1928. La traduzione italiana del testo si trova in DAR, RK, kutija 197. 147 Ministero dell’interno, DGPS a prefetture adriatiche, 25.3.1932, in DAR, RK, kutija 196. 148 Regia Questura di Fiume, Riservatissima, 13.2.1935, in DAR, RK, kutija 197. 149 I lavori preparatori per la fondazione di Bran-i-bor iniziarono nell’agosto del 1932, ma il vero e proprio atto costitutivo ebbe luogo solo il 23 marzo 1933. Cfr. «Ponedeljski Slovenec», 3.4.1933: una traduzione in tedesco dell’articolo, La nuova associazione assistenziale «Bran-i-bor» [Difesa e lotta], si trova in BA Koblenz, NL Steinacher, 44. 150 Ministero dell’interno a Prefetture adriatiche, 7.10.1935, ibidem. 151 In una lettera a Vinko Zorman Wilfan dichiara che un simile ufficio esisteva già; Wilfan a Vinko Zorman, 2.8.1933, in ZA Ljubljana, NL Wilfan, Fase. 11. 152 Ibidem. 153 Consolato tedesco di Laibach a Ministero degli Esteri tedesco Berlino, 3.8.1939, in PA AA, Presseabteilung, Die Presse in Jugoslawien, R 122668. 154 Andrej Vovko, Malpolozi dar..., cit., p. 230. Vedi anche Roberto Sturman, Le associazioni e i giornali sloveni a Trieste dal 1848 al 1890, Trieste 1996, pp. 71 s. 155 Cit. da Pisa, Nazione e politica, cit., p. 158 s. Pasquale Villari, presidente della Dante Alighieri, si univa a questo giudizio e riteneva che Dante non fosse «inferiore a san Cirillo». Un delegato milanese replicò che l’enorme popolarità dell’apostolo slavo non potesse essere superata da alcun poeta, poiché essa si basava su un credo religioso diffuso capillarmente. 156 Su altre scatole di fiammiferi era scritto (in trad. it.): «Ecco l’alba rossa del mattino, si fa giorno. Sloveni, sostenete l’Associazione Cirillo e Metodio!» (Copia - Oggetto: Società dei Santi Cirillo e Metodio, 6.2.1920, in ACS, PCM, UCNP, b. 57.) 157 Nell’anno 1909-1910 scuole slovene esistevano a Barcola, Basovizza, Cattinara, Guardiella, Opcina, Prosecco-Contovello, Roiano, S. Croce, Servola, Trebiciano. Dalla fonte - un annuario della città di Trieste - non si evince quale di queste scuole fosse sostenuta dalla Cmd. Cfr. Daniele Bonamore, Disciplina

giuridica delle istituzioni scolastiche a Trieste e Gorizia dalla Monarchia a.-u. al G.M.A. e dal memorandum di Londra al trattato di Osimo, Milano 1979, p. 79. 158 Vovko, Mal polozi dar..., cit., pp. 230 s. 159 Alcuni dati sulla Cmd croata si trovano in Suppan, Die Kroaten, cit., p. 705. 160 Ìbidem, p. 711. 161 D’Alessio, Élites nazionali, cit., p. 168. 162 L’autore dell’appello pubblicato nello «Slovenski narod» di Lubiana era un sacerdote cattolico, Ivan Vrhovnik. Per la fondazione si attese allora il 1885, l’anno della ricorrenza millenaria della morte dell’apostolo slavo Meto­ dio; nello stesso anno il Ministero degli Interni austriaco approvava lo statuto dell’associazione. Vovko, Mal polozi dar..., cit., pp. 230 s.

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163 Ìbidem, pp. 232 s. 164 Daniele Bonamore, Disciplina giuridica delle istituzioni scolastiche a Trieste e Gorizia, Milano 1979, p. 79. 165 Copia - Oggetto: Società dei Santi Cirillo e Metodio, 6.2.1920, in ACS, PCM, UCNP, b. 57. 166 Bonamore, Disciplina giuridica, cit., p. 74. 167 Ìbidem, pp. 74 s. 168 «In apertura del nuovo anno scolastico 1930/31, quando si erano riuniti già tutti gli alunni (cica 1.000), il direttore della scuola ricevette il decreto di chiusura [...]»; ibidem, p. 105. 169 II Capo dell’Ufficio centrale per le nuove province al Ministero degli Affari Esteri (Gabinetto), 12.5.1920, in ACS, PCM, UCNP, b. 57. 170 Bonamore, Disciplina giuridica, cit., p. 89. 171 Copia - Oggetto: Società dei Santi Cirillo e Metodio, 6.2.1920, in ACS, PCM, UCNP, b. 57. 172 Risolo, Fascismo, cit., pp. 52 s. 173 Visintin, L’Italia a Trieste, cit., p. 145. 174 MVSN - Comando della 62“ Legione Isonzo an R. Prefettura Gorizia, 6.10.1929, in ARS II, GK, fase. 1032. 175 Prefettura della Provincia dell’Istria a prefetture adriatiche, 9.12.1929, in DAR, PG, busta 134. 176 Jutro, 1.5.1938; la traduzione italiana dell’appello si trova in DAR, PG, busta 134. 177 Ministero dell’interno, DG PS, alle prefetture adriatiche, 28.2.1940, in ARS II, GK, fase. 1032; 178 Cfr. Jera Vodusek-Staric, «Dosje» Mackovsek, Ljubljana («Viri», 7/1994) 1994. 179 Sokol in ceco, sloveno e serbocroato significa «falco». 180 Per un’introduzione cfr. E. Do., M. Pah. e E.M.R., Sokolstvo, in Enciklopedija Slovenije, voi. 12, pp. 144-147; Wolfgang Kessler, Der Sokol in den jugoslawischen Gebieten, in Diethelm Blecking (a cura di), Die slawische

Sokolbewegung. Beiträge zur Geschichte von Sport und Nationalismus in Osteu­ ropa, Dortmund 1991, pp. 198-218. 181 E. Stahff, Der Sokol und die Entstehung der neuslawischen Staaten, in Karl Christian von Loesch (a cura di), Deutscher Schutzbund, Volk unter Völkern, Breslau 1925, pp. 389-392, qui p. 390. 182 Dieter Langewiesche, «Für Volk und Vaterland kräftig zu würken...» Zur

politischen und gesellschaftlichen Rolle der Turner zwischen 1811 und 1871», in Dieter Langewiesche, Nation, Nationalismus, Nationalstaat in Deutschland und Europa, München 2000, pp. 103-131, qui p. 103. 183 Goltermann, Körper der Nation, cit., pp. 325-336. 184 Maserati, Iconografia e riti, cit., pp. 279 s. 185 Cfr. Hermann Wendel, Kreuz und quer durch den slawischen Süden, Frankfurt a.M. 1922, p. 283.

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Note

186 Governo della Dalmazia e delle Isole Dalmate e Curzolane a Ministero della Marina, Gabinetto, 23.6.1920, in ACS, PCM, UCNP, b. 58. 187 Rozman, Melile, Repe, Öffentliche Gedenktage, cit., p. 310. 188 Abw. le. Jugoslawien. Vormilitärische Ausbildung, 19.5.1934, in BA MA Freiburg, RW 5, Bd. 475. 189 Ne derivò un crollo nel numero degli iscritti, che potè essere colmato solo dopo sedici anni, nel 1880; Langewiesche, «Für Volk und Vaterland», cit., p. 128. 190 Goltermann, Körper der Nation, cit., p. 333. 191 Cfr. Jurij Perovsek, Liberalizem in vprasanje slovenstva. Nacionalna politika liheralnega tabora 1918-1929, Ljubljana 1996, pp. 150 s. 192 Gayda, Jugoslavia, cit., p. 36; Kessler. Der Sokol in den jugoslawischen Gebieten, cit., p. 213. 193 Legione Territoriale dei Carabinieri Reali di Trieste, Divisione di Fiume a S.E. il prefetto di Fiume, 21.4.1929, in DAR, PG, busta 62. 194 Ambasciata tedesca di Belgrado a Ministero degli Esteri tedesco, 19.2.1921, in PA AA, Abt. Ilb, Politik 16 Jugoslavien, R 73196. 195 Consolato tedesco a Zagabria a Ministero degli Esteri tedesco, 27.11.1932, in PA AA, Abt. Via, Katholische Angelegenheiten in Jugoslawien, R 62219. 196 Cfr. E. Do., Orel, in Enciklopedija Slovenije, vol. V ili, pp. 148 s. 197 Cfr. Edvard Kardelj, Nach fünfundzwanzig Jahren (ottobre 1959), ora in Id., Tito und die jugoslawische sozialistische Revolution, cit., pp. 181-234, qui pp. 232 s. 198 Ibidem, p. 233. 199 Ministero degli Affari Esteri, Ufficio stampa, a R. Ministero dell’inter­ no, DGPS, 28.10.1931, in ACS, MI, DGPS, div. AAGGRR, cat. F4, stampa estera, b. 49. 200 Ministero per la Stampa e la Propaganda a R. Ministero dell’interno, 9.1.1936, in ACS, MI, DGPS, div. AAGGRR, cat. F4, stampa estera, b. 84. 201 Dani skoga slavlja, in «Istra», 27.6.1930. 202 R. Questura di Fiume a Prefetto di Fiume, 14.12.1929, in DAR, PG, busta 134. 203 Sokolstvo za Julijsko Krajinu, in «Istra», 9.6.1933. 204 Copia della nota Die politische Lage in Südosteuropa (Stand vom 20. August 1930), in PA AA, Abt. II, Politische Beziehungen zwischen Italien und Jugoslawien, R 72803. 205 Ambasciata tedesca a Belgrado a Ministero degli Esteri tedesco, 19.12.1932, in PA AA, Abt. II, Politische Beziehungen Italiens zu Jugoslavien, R 72804. 206 Jahresübersicht Jugoslavien 1930, all. ad ambasciata tedesca a Belgrado a Ministero degli Esteri tedesco, 19.2.1931, in PA AA, Abt. II, Jugoslawien. Jahresübersichten der deutschen Auslandsvertretungen, R 73111. 207 Jahresübersicht Jugoslavien 1931, Ambasciata tedesca a Belgrado a Ministero degli Esteri tedesco, 17.2.1932, in PA AA, Abt. II, R 73111.

Capitolo secondo

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208 Consolato tedesco di Zagabria a Ministero degli Esteri tedesco, 17.7.1934, in BA MA Freiburg, RW 5, Bd. 475. 209 Kessler, Der Sokol in den jugoslawischen Gebieten, cit., p. 215. 210 Ibidem. 211 Vidmar, Ein Interview (settembre 1984), in Verzicht und Behauptung, cit., pp. 100-108, qui p. 246. 212 Ambasciata tedesca a Belgrado a Ministero degli Esteri tedesco, 15.6.197, in PA AA, Abt. IV, Rassenfragen, Nationaltiätenfragen, Fremdvölker, R 103345. 215 Vidmar, Eine jämmerliche Bilanz (1937), in Verzicht und Behauptung, cit., pp. 100-108, qui p. 103. 214 Ministero dell’interno, DG PS a Prefetto di Fiume, 1.7.1939, in DAR, RK, kutija 196. 215 «Novosti» (Zagabria), 3.2.1930; una traduzione italiana dell’articolo si trova in DAR, RK, kutija 196. 216 Regia Questura di Fiume a Ill.mo Sig. Prefetto di Fiume, 29.6.1924 in DAR, PG, busta 10. 217 Cit. da Gayda, Jugoslavia, cit., p. 41. 218 I comunisti riuscirono a ritagliarsi molto spazio nel Sokol sloveno perché in esso era particolarmente forte il malcontento per la politica filogovernativa dello Jugosokol. Cfr. Kardelj, Nach fünfundzwanzig Jahren, cit., qui p. 221. 219 Ibidem, pp. 215 s. 220 Janez Stergar, Sedem desetletij Ijubljanskega Instituía za narodnostna vprasanja, Ljubljana 1995. 221 In tedesco Zollfeld-Glocke, a ricordo del luogo dove si svolse la ceri­ monia d’incoronazione dei duchi di Carinzia, nei pressi di Klagenfurt; cfr. R. Consolato Generale Lubiana, R. Legazione d’Italia Belgrado ecc., Propaganda irredentistica della stampa popolare cattolica slovena, in DAR, PG, busta 134; Stato Maggiore del Regio Esercito. Reparto operazioni. Ufficio I a PCM, Ufficio centrale per le nuove province, 13.12.1920, in ACS, PCM, UCNP, b. 70. 222 Cfr. il giudizio sulle cinque associazioni dato dalla Sezione minoranze della Società delle Nazioni in una nota destinata a Erik Colban, 30.7.1925, in ASN, R 1699, 41/45530/45530. 223 La sezione stampa del Ministero degli esteri di Belgrado assicurò nel 1928 di non avere nulla a che fare con il finanziamento dell’istituto o del suo bollet­ tino: Ambasciata tedesca a Belgrado a Ministero degli Esteri tedesco, 9.3.1928, in PA AA, Kulturabteilung, Abt. Via, Minderheitenorganisationen, R 60427. 224 Polozaj jugoslovenske manjine pod Italijom. La documentazione è stata rinvenuta dall’autore nell’archivio della Società delle Nazioni nell’ottobre del 1996. 225 Cfr. il volume di memorie di Lavo Cermelj, Spomini na moja trzaska leta, Ljubljana 1969, pp. 150-154. 226 Documenti dell’istituto per le minoranze e delle associazioni degli emi­ granti giuliani sembra siano finiti in possesso degli occupanti tedeschi a Belgrado, cfr. ACS, MI,CPC, b. 1397, Ivan Marija Cok, annotazione del 28.5.1941.

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Note

227 Cfr. Irena Gantar Godina, T.G. Masaryk in Masarykovstvo pri slovencih (1895-1914), Ljubljana 1987. Vedi anche Masaryk o narodnim manjinama i o radikalnoj rekonstrukciji Evrope na narodnostnoj bazi, in «Istra», 1.4.1938; Francesco Leoncini, Nazione e minoranze nazionali nel pensiero di Tomài G. Masaryk, in Id., L’Europa centrale. Conflittualità e progetto: passato e presente tra Praga, Budapest e Varsavia, Venezia 2003, pp. 247-255. 228 Stergar, Sedem desetletij, cit., pp. 7 s. 229 Th. Ruyssen a Erik Colban, 24.10.1927, in ASN, R 1679, 41/61995/1933. 230 Minuta, Mr. Colban, 10.12.1927, in ASN, FS, SCAQM, section 4, S 345. 231 Consolato generale di S.M. il Re d’Italia a Lubiana a Ministero degli Affari Esteri, 15.5.1928, in ASMAE, Affari politici 1919-1930, Jugoslavia b. 1352. 232 Ambasciata tedesca a Belgrado a Ministero degli Esteri tedesco, 9.3.1928, in PA AA Abt. Via, Minderheitenorganisationen, R 60427. 233 Stergar, Sedem desetletij, cit., p. 12. 234 Divisione Polizia Politica, Appunto per l’on. Divisione Affari Generali e Riservati, 24.3.1929, in DAR, PG, busta 134. 235 Ministero degli Affari Esteri a Ministero dell’interno, DG PS,21.3.1933, in ASMAE, Affari politici 1931-1945, Jugoslavia, b. 39. 236 Sull’incontro tra Bakker van Bosse e Besednjak si veda anche un rapporto del 14.11.1929, in ACS, MI, DGPS, CPC, b. 589, Engelbert Besednjak; sulla prosecuzione del viaggio di Bakker van Bosse cfr. anche Ewald Ammende a Josip Wilfan, 8.10.1929, in BA Koblenz, NL Wilfan, Fase. 5 (Ewald Ammende). 237 La visita di Wendel è menzionata da Cermelj, Spomini, cit., pp. 156 s. 238 Si veda ad esempio Zum Stand der Lagepublikationen, 11.2.1931, in BA Koblenz, NL Wilfan, Fase. 5 (Ewald Ammende). 239 Lavo Cermelj, Life-and-Death-Struggle of a National Minority (The Yugoslavs in Italy), Ljubljana 1936. 240 Cfr. L’institut de Statistiques de Minorités de Vienne. Note sur un entretien avec M. Braunias de cet Institut, qui a donné un apércu de la Situa­ tion des minorités allemands dans les différents pays, 24.4.1925, in ASN, R 1686, 41/43752/27496. Vedi anche la lettera di Josip Wilfan a Karl Braunias, 20.3.1930, in BA Koblenz, NL Wilfan, Fase. 3. 241 Cfr. Stanislaw Paprocki, Polen und das Minderheitenproblem, Warschau 1935. 242 Un panorama degli istituti per le minoranze si trova in Jacob Robinson, Das Minoritätenproblem und seine Literatur, Leipzig 1928, pp. 246 s., che pure non nomina esplicitamente l’istituto. 243 Max Hildebert Boehm, Um das gefährdete Deutschtum. Erlebnisse und Begegnungen in der Volkstumsbewegung - Lebenserinnerungen (dattiloscritto incompiuto), in BA Koblenz, NL 1077 Max Hildebert Boehm, Band 1. 244 Già nel novembre del 1928 Josip Wilfan era stato invitato da Max Hil­ debert Boehm all’inaugurazione dell’Institut für Grenz- und Auslandstudien di Berlino. Cfr. Ewald Ammende a Josip Wilfan, 23.11.1928, in BA Koblenz, NL Wilfan, Fase. 5. 245 Gatterer, « Italiani maledetti, maledetti austriaci», cit., p. 138.

Capitolo terzo

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246 Wehler, Emotionen in der Geschichte, cit., p. 468. 247 Paolo Pietri, Tentativi di imitazione fascista in Jugoslavia, in «Gerarchia», a. XII, n. 10, settembre 1932, pp. 830-834. 248 Cfr. Wörsdörfer, Hermann Wendel und Adolf Köster, cit., pp. 252 s. 249 Pietri, Tentativi di imitazione, cit., p. 830; il 6 gennaio 1930 era il giorno in cui era stata istituita la dittatura monarchica. 250 Ibidem, p. 833. 251 Ibidem, p. 834.

Capitolo terzo 1 [Cermelj,] Die Jugoslawen, cit. 2 Gellner, Nazioni e nazionalismo, cit., p. 112, cita «assimilazione, slancio irredentistico, sgradevole status di minoranza o liquidazione fisica» come esperienze di fondo di coloro che vivevano nell’ambito dell’ex-dominazione asburgica che non appartenevano alla cosiddetta «nazione titolare» di uno dei nuovi Stati quasi-nazionali. Tra i tentativi di trattazione generale vedi Andrew Bell-Fialkoff, Ethnic Cleansing, Houndmills-London 1996; Hanns Haas, Ethnische Homogenisierung unter Zwang. Typen und Verlaufsmodelle, in «Beiträge zur Historischen Sozialkunde», n. 4, 1996, pp. 152-159, e il più recente Norman M. Naimark, Fires of Hatred: Ethnic Cleansing in Twentiethcentury Europe, Cambridge (Mass.) 2001, trad. it. La politica dell’odio: la pulizia etnica nell’Europa contemporanea, Roma-Bari 2002. 3 Philipp Ther, Deutsche und polnische Vertriebene: Gesellschaft und Vertriebenenpolitik in der Sbz/Ddr und Polen 1945-1956, Göttingen 1998, p. 12, scrive che la cacciata è «sempre in massa», che implica «l’esercizio di una costrizione diretta o indiretta», che avviene «fuori dei confini statali» e che è «definitiva». 4 Dann, Nation und Nationalismus, cit., p. 192. 5 Queste affermazioni si trovavano nello scritto sugli scopi di guerra che il presidente della Lega pangermanista Heinrich Class indirizzò nel dicembre 1914 a industriali, politici e docenti universitari. Lo scritto fu sequestrato nel 1915, e tornò a essere legale nel 1917; nello stesso anno apparve in una versione a stam­ pa: Koselleck, Volk, Nation, Nationalismus, Masse, cit., p. 373; Claus Gatterer, Aussiedlung und Umvolkung als deutsches Kriegsziel [dattiloscritto], in Biblioteca Claus Gatterer, Sesto: Fondo Claus Gatterer, corrispondenza 1980-81. 6 Gatterer, Aussiedlung und Umvolkung, cit. L’opuscolo dei due naziona­ listi italiani fu pubblicato a Roma, con il titolo Per i confini della Patria, nel dicembre 1914, all’incirca nello stesso momento in cui Class presentò il suo promemoria (ibidem). 7 Cfr. Piero Bevilacqua, Le bonifiche, in Isnenghi (a cura di), Luoghi della memoria, cit., vol. I, pp. 403-416; Alexander Nützenadel, Landwirtschaft, Staat und Autarkie. Agrarpolitik im faschistischen Italien (1922-1943), Tübingen 1997, soprattutto pp. 211-253. 8 Al significato delle attrattive paesaggistiche del paese per l’identità delle

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Note

italiane e degli italiani fa riferimento Galli della Loggia, Identità italiana, cit., pp. 26-29. 9 Class pensava ad esempio a uno «sgombero ordinato», e riteneva che «con i mezzi di trasporto odierni non presenti difficoltà»: cit. da Gatterer, Aussiedlung und Umvolkung, cit., p. 2. Tuttavia simili affermazioni hanno fin dall’origine un sapore cinico se si pensa alla successiva prassi. 10 Theodor Veiter, Nationalitätenpolitik und Volksgruppenrecht. I: Entwick­ lungen, Rechtsprobleme, Schlußfolgerungen, München 1977, pp. 201-203. 11 Institute for International Politics and Economics, ltalian Genocide Policy against thè Slovenes and Croats. A Selection ofDocuments, Beograd 1954. Esempi dell’uso generico del termine «genocidio» si trovano in Rodolfo Ursini-Ursic, Attraverso Trieste. Un rivoluzionario pacifista in una città di frontiera, Roma 1996, per es. p. 329 e nelle Conclusioni, p. 519. Si vedano anche i capitoli Pulizia etnica e pulizia politica e Una pulizia etnica più ragionata, in Arrigo Petacco, L’esodo. La tragedia degli italiani d’Istria, Dalmazia e Venezia Giulia, Milano 1999, pp. 118-121 e pp. 141-144. Tra gli autori che respinsero la tesi della «pulizia etnica» per l’area adriatica degli anni 1945-1955 vi è Galliano Fogar, Trieste in guerra 1940-1945. Società e Resistenza, Trieste 1999, p. 254. Anche la commissione storica italo-slovena prende esplicitamente le distanze dai tentativi di applicare all’esodo del dopoguerra etichette attuali provenienti da un altro contesto: Dossier Italia-Slovenia, in «Il Piccolo», 4.4.2001, p. VI. 12 Apih, Trieste, cit., p. 129. 13 Citava l’esempio dei provenzali, che erano stati assorbiti dai francesi e dagli spagnoli. È sorprendente che dichiarasse che questa «snazionalizzazione» era il «destino di tutti i popoli», per poi sostenere che gli sloveni non possedessero energie sufficienti per opporsi alla snazionalizzazione: Josip Vidmar, Über die Nation (1925), in Vidmar, Verzicht und Behauptung, cit., pp. 36-40, qui p. 39. 14 Boehm, Das eigenständige Volk, cit., p. 75; vedi anche Max Hildebert Boehm, Volkstumswechsel und Assimilationspolitik, Jena 1938. 15 Cfr. Hans Mommsen, Die sozialistische Arbeiterbewegung und die nationale Frage in der Epoche der I. und II. Internationale, in Heinrich August Winkler (a cura di), Nationalismus (1975), Königstein i.Ts. 1985, pp. 85-98, qui p. 86. 16 Mommsen, Sozialistische Arbeiterbewegung, cit., p. 89. 17 Enzo Traverso, Friedrich Engels und die nationale Frage, in «Utopie kreativ», n. 62, 1995, pp. 47-57, qui p. 48. 18 Hroch, Minderheiten als Problem der vergleichenden Nationalismusfor­ schung, cit., p. 14. 19 Kardelj, Die Vierteilung, cit., p. 180. L’autore si riferiva al movimento nazionale sloveno prima AeW'Ausgleich austro-ungarico del 1867. Che egli assumesse una posizione diversa sulla questione nazionale in relazione alla situazione jugoslava degli anni Trenta, è un altra questione. 20 Andreas Kappeler, Kleine Geschichte der Ukraine, München 1994, pp. 188-190; Torsten Szobries, Sprachliche Aspekte des nation-building in Maze­ donien, Stuttgart 1999. 21 Traverso, Friedrich Engels, cit. 22 Cit. da Roman Rosdolsky, Zur nationalen Frage. Friedrich Engels und das Problem der «geschichtslosen» Völker, Berlin 1979, p. 103, trad. it. Friedrich Engels e il problema dei popoli «senza storia», Genova 2005, p. 160.

Capitolo terzo

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23 Già solo per questo non è un caso che nell’area dell’Alpe Adria tra il 1882 e il 1930 le celebrazioni dei cinque, sei o dieci secoli abbiano avuto sempre grande importanza. Simili ricorrenze creano continuità che possono facilmente diventare «identità». 24 «In sostanza», scrive Vivante, Irredentismo adriatico, cit., p. 139, «lo slavismo dorme finché l’italianità sonnecchia, ed è proprio il risveglio di questa che contribuisce a scuotere quello, dal sonno suo più profondo». 25 Cfr. le scarne osservazioni di Michael Banton, Assimilation, cit., in E. Ellis Cashmore (a cura di), Dictionary ofRace andEthnic Relations, London, Boston etc. 1984, pp. 25 s. 26 «D i a. in senso nazionale si parla tuttavia solo a proposito di uomini e gruppi di popolo che vivono nell’ambito di un altro organismo di popolo, più potente, e sotto l’influenza dell’ambiente rinunciano alla loro individualità nazionale nel pensiero, nell’essenza e nell’azione (ad esempio i tedeschi in Nord America)». Gli ebrei, ad essa «naturalmente più esposti di tutti gli altri popoli in conseguenza della loro dispersione, in partic. nei paesi dove essi costituiscono solo una esigua e dispersa minoranza»: Georg Herlitz e Bruno Kirschner, Jüdisches Lexikon (1927), Frankfurt a.M. 1987, vol. I, A-C, pp. 517-522, qui p. 517. 27 Ibidem, p. 519. Vedi anche la voce Assimilation in Encyclopaedia Judaica, vol. Ili, Jerusalem 1971, pp. 770-784. 28 Nell’area adriatica nord-orientale, tuttavia, la controversia sulla lingua scolastica e liturgica fece in modo che la politica di snazionalizzazione si avvertisse anche nella sfera religiosa (Wörsdörfer, Cattolicesimo «slavo» e «latino», cit.). 29 Nella Jugoslavia (e soprattutto nella Serbia) tra le due guerre mondiali vi fu una certa pressione al conformismo da parte della Chiesa ortodossa, mentre la Croazia degli ustase, a partire dal 1941, adottò la prassi dei battesimi forzati e delle conversioni forzate, sostenuta da alcune parti della Chiesa cattolica, e in particolare dai francescani della Bosnia-Erzegovina. 30 Holm Sundhaussen, Nation und Nationalstaat auf dem Balkan. Konzepte und Konsequenzen im 19. und 20. Jahrhundert, in Jürgen Elvert (a cura di), Der Balkan. Eine europäische Krisenregion in Geschichte und Gegenwart, Stuttgart («Historische Mitteilungen», 16) 1997, pp. 77-90. 31 Sicuramente il giudizio sulla relazione di viaggio della viaggiatrice olandese dipendeva anche dal punto di vista politico di chi lo pronunciava. Il console tedesco a Trieste, ad esempio, le riconosceva di aver «descritto la situazione qui in modo alquanto obiettivo ed esauriente»: Consolato tedesco a Trieste a Ministero degli Esteri tedesco, 27.2.1930, in PA AA, Abt. Via, Minderhei­ tenfrage im Allgemeinen [R 60483]. Cfr. invece l’articolo dal tono polemico Le minoranze alloglotte in Italia e il calunnioso articolo di una olandese, in «Il Piccolo», 18.2.1930. Una trascrizione dell’articolo si trova in BA Koblenz, N L 1250 Josip Wilfan, Fase. 3. 32 C. Bakker van Bosse, Minderheiten in Südost-Europa, in «Neue Zürcher Zeitung», 9.2.1930. 33 Negli anni Venti e Trenta, nelle regioni europee dove vivevano minoranze e nei paesi meta di esuli, furono pubblicate dozzine di studi con titoli come

Life-and-Death-Struggle ofa National Minority, Tirol unterm Beil, Heimat in Not

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Note

ecc., tutti facenti riferimento alle condizioni delle minoranze. I rapporti curati da Ewald Ammende per il Congresso europeo delle nazionalità furono uno dei risultati di queste indagini. Cfr. Ammende (a cura di), Nationalitäten, cit. 34 Bakker van Bosse, Minderheiten in Siidost-Europa, cit. Già nell’aprile del 1925 Karl Braunias, dell’Institut für Statistik der Minderheitenvölker di Vienna, dichiarò di fronte a P. de Azcarate, della Sezione minoranze della Società delle nazioni, che «la situazione delle minoranze in Italia è sicura­ mente peggiore che in altri paesi»: L’Institut de Statistiques de Minorités de Vienne. Note sur un entretien avec M. Braunias de cet Institut, qui a donné un apércu de la Situation des minorités allemands dans les différents pays, 24.4.1925, in Archives de la Société des Nations Genf, Minderheitensektion, R 1686, 41/43752/27496. 35 Ammende (a cura di), Nationalitäten, cit., p. XIX. 36 Ibidem, cfr. p. XX. 37 Questi ultimi presero iniziative nei confronti della Sezione minoranze della Società delle nazioni, che tuttavia non fu in grado di agire di conseguen­ za, dal momento che la tutela delle minoranze cui la Jugoslavia era obbligata per trattato non si estendeva ai territori conquistati dalla Serbia con le guerre balcaniche. Otto Junghann, Die nationale Minderheit, Berlin 1931, p. 40. 38 Stefan Troebst, Mussolini, Makedonien und die Mächte. Die «Innere

Makedonische Revolutionäre Organisation» in der Südosteuropapolitik des faschistischen Italien, Köln-Wien 1987. 39 «Alle rimostranze di gruppi minoritari più duramente oppressi si è re­ centemente unito uno dei popoli costitutivi dello Stato [Staatsvölker\ , i croati (circa 2.800.000 persone), che soffrono anch’essi per la politica di violenza dello Stato nazionale serbo»: Junghann, Nationale Minderheit, cit., p. 39. 40 Delegazione Italiana (Ginevra) a R. Ministero degli Affari Esteri, 7.4.1933, in ASMAE, Società delle Nazioni, Protezione delle minoranze, b. 85. 41 Adriano Andri, Gli italiani in Dalmazia tra le due guerre mondiali, in «Clio», n. 1, gennaio-marzo 1998, pp. 83-116. 42 Holm Sundhaussen, Die Deutschen in Kroatien-Slawonien und Jugoslawien, in Günter Schödl (a cura di), Deutsche Geschichte im Osten Europas. Land an der Donau, Berlin 1995, pp. 291-348; Stefan Karner, Die deutschsprachige Volksgruppe in Slowenien. Aspekte ihrer Entwicklung 1939-1997, KlagenfurtLjubljana-Wien 1998; Dusan Biber, Nacizem in nemci v Jugoslaviji 1933-1941, Ljubljana 1966; Dusan Necak (a cura di), «Nemci» na Slovenskem 1941-1955. Izsledki projekta, Ljubljana 1998. 43 II sequestro della Casa tedesca a Cilli da parte delle autorità jugoslave fu uno dei principali punti di controversia tra la minoranza tedesca in Slovenia e il governo jugoslavo. L’appello della Società delle Nazioni in questo caso ebbe successo: l’edificio non fu restituito, ma la minoranza tedesca di Cilli ricevette un indennizzo di 500 mila dinari: Suppan, Jugoslawien und Österreich, cit., pp. 801-808. 44 Ciò non cambiò neanche quando, dal 1933, con il regime nazionalso­ cialista, emerse per il fascismo italiano un concorrente che essenzialmente gli somigliava. Cfr. Rolf Wörsdörfer, Die Grenze, der Osten, die Minderheiten und

die Modernisierung - Nationalstaat und ethnische Gruppen in Deutschland und

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in Italien, in Christof Dipper (a cura di), Deutschland und Italien, 1860-1960. Poltische und kulturelle Aspekte im Vergleich, Miinchen 2005, pp. 191-206. 45 «Furono date alle fiamme tra l’altro anche le sedi associative slovene a Rojano, Sveti Ivan (S. Giovanni) e Bakovlje (Barcola), alla periferia di Trie­ ste, e poi le sedi croate di Opatija (Abbazia), Pazin (Pisino) e Pola (Istria)»: [Cermelj,] Die Jugoslawen, cit., p. 485. 46 Gatterer, In lotta contro Roma, cit., p. 322, scrive che il fondatore del Fascio triestino, Pietro Jacchia, era stato un sindacalista rivoluzionario. Francesco Giunta sarebbe stato chiamato a Trieste proprio per epurare l’organizzazione dagli esponenti della sinistra interventista. 47 [Cermelj,] Die Jugoslawen, cit., p. 475. 48 Haas, Ethnische Homogenisierung, cit., p. 152. 49 Milica Kacin-Wohinz e Joze Pirjevec, Storia degli sloveni in Italia. 18661998, Venezia 1998, p. 55. I dati forniti nei rapporti del Congresso delle minoranze si discostano da questi di pochissimo. Secondo quest’ultima fonte al 1° gennaio 1928 «delle circa 500 associazioni slovene e croate non ne era rimasta nemmeno una»: [Cermelj], Die jugoslawen, cit., p. 476. L’autore af­ ferma anche che nel 1923 esistevano ancora «444 scuole elementari e medie slovene con 840 classi e 52 mila allievi, che ormai erano tutte destinate a scomparire»: ibidem, p. 477. 50 Spesso gli stessi contenuti venivano pubblicati in forma diversa: come libro, a cura dello stesso Cermelj, come parte del rapporto al Congresso delle nazionalità e sotto forma di «comunicazioni sulla situazione delle minoranze nazionali in Italia», insieme a quelle riguardanti la minoranza sudtirolese. Una breve ma densa sintesi della politica di snazionalizzazione fascista si trova in Apih, Trieste, cit., pp. 129 s. 51 Nella sezione Quello che sognammo intervennero, oltre al comandante supremo delle forze armate italiane nell’ultima fase della guerra, Armando Diaz, alcuni esponenti del liberalismo nazionale giuliano come Giovanni Quarantotto o Mario Alberti. La seconda parte (Quello che è) comprendeva invece articoli di esponenti fascisti di ambito nazionale (Alfredo Rocco) e locale (F. Giunta, N. Host-Venturi, G. Cobol, G. Mrach, B. Coceanig). 52 Giuseppe Cobol, Il fascismo e gli allogeni, in ibidem, pp. 803-806. 55 Ibidem, p. 805. 54 Luca dei Sabelli, Nazioni e minoranze etniche, voi. I, Bologna 1929, p. 146. 55 «N el meridione abbiamo assorbito alcune centinaia di migliaia di al­ banesi. Perché non dovrebbe avvenire altrettanto sull’altra sponda battente deU’Adriatico?»: Ciano, Diario 1937-1943, cit., annotazione del 25.8.1937, p. 28. ,6 Kacin-Wohinz e Pirjevec, Storia degli sloveni, cit., p. 55. 57 UAIS Trieste, Trieste in lotta per la Democrazia, cit.; Cermelj, Sloveni e croati, cit., p. 102. 58 Cermelj, Sloveni e croati, cit., p. 103. 59 Biblioteca politica, in «Tribuna», 23.4.1929, N L Wilfan, p. 53; vedi an­ che Magnus, Le minoranze nazionali in una recente pubblicazione italiana, in «Gerarchia», a. IX, n. 2, febbraio 1929, pp. 135-137.

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Note

60 Ambasciata tedesca a Roma a Ministero degli Esteri tedesco, 25.4.1929, in PA AA, Abt. Via, Minderheiten im Allgemeinen (R60481). 61 «Il teorico fascista del “diritto di nazionalità” giunge alla conclusione che lo spopolamento, la “assimilazione”, è un dovere morale dello Stato. Gli anglosassoni d’America hanno dimostrato, attraverso la loro meravigliosa forza assimilatrice, il vigore di tale idea. Gli Stati che non adeguano le loro mino­ ranze al popolo maggioritario sono da considerarsi biologicamente deboli»: in «Deutsche Arbeit», 1934, pp. 521 s., qui p. 521. Le corrispondenti formulazioni si trovano in dei Sabelli, Nazioni, cit., vol. I, p. 141. 62 Winfried Adler, Die Minderheitenpolitik des italienischen Faschismus in Südtirol und im Aostatal 1922-1929, cit., p. 168. 65 Tolomei pubblicò nel 1916 un elenco di 10 mila toponimi italianizzati. L’italianizzazione dei toponimi figurava al punto 13 dei famigerati Provvedimenti per l’Alto Adige dell’anno 1923: cfr. Steininger, Südtirol im 20. Jahrhundert, cit., pp. 23 ss. e p. 79; vedi anche Ettore Tolomei (1865-1952). Un nazionali­ sta di confine - Die Grenzen des Nationalismus, a cura di Sergio Benvenuti e Christoph H. von Hartungen, Trento («Archivio Trentino», 1) 1998. 64 Paolo Parovel, L’identità cancellata, Trieste 1985, p. 22. 65 Vi furono anche creazioni ex novo che non riuscirono tuttavia a imporsi, come il nome di Cesiano per la località slovena di Sezana (in italiano Sesana). 66 Questi e altri esempi si trovano in Cermelj, Sloveni e croati, cit., p. 140. 67 Come si può verificare in un dizionario di sloveno, il termine pec si può usare con due significati, quello di «forno» e di «roccia». Ma a nessuno sloveno verrebbe mai l’idea di associare il nome del monte al forno, come evidentemente fecero gli italianizzatori: ibidem, p. 141. 68 Parovel, L’identità cancellata, cit., pp. 22 s. 69 Ibidem, p. 23. 70 Gisela Framke, Im Kampf um Südtirol. Ettore Tolomei (1865-1952) und das «Archivio per l’Alto Adige», Tübingen 1987, p. 101. 71 Steininger, Südtirol im 20. Jahrhundert, cit., p. 25. 72 [Cermelj,] Die Jugoslawen, cit., p. 485; cfr. Cermelj, Sloveni e croati, cit., p. 139. 73 Cermelj, Sloveni e croati, cit., p. 488. 74 Lavo Cermelj, Spomini, cit., p. 151. 75 Dietz Bering, Kampf um Namen. Bernhard Weiß gegen Joseph Goebbels, Stuttgart 1992. 76 Cfr. Mario Kessler, Stalinismus und Antisemitismus. Die ungelöste jüdische Frage in der Sowjetunion (1917-1953), in Id. (a cura di), Antisemitismus und Arbeiterbewegung. Entwicklungslinien im 20. Jahrhundert, Bonn 1993, pp. 47-55, qui pp. 49 s. 77 Niethammer, Kollektive Identität, cit., p. 275; M.M. Gordon, Assimila­ tion in American Life: The Role of Race, Religion, and National Origins, New York 1964. 78 Cobol, Il fascismo e gli allogeni, p. 805. 79 Ibidem, p. 803.

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80 Cermelj, Sloveni e croati, cit., p. 141. 81 Così, ad esempio, tra il 1919 e il 1923 a Trieste accadde che Oblak diventasse Belgrano, Kaltenaisen Sangiorgi, Fleischer Dall’Oglio e così via. Curiosamente, le autorità italiane in questi casi si richiamarono a leggi au­ striache: ibidem. 82 Lettera aperta a S.E. il Commissario Civile Generale Comm. Antonio Mo­ sconi, Trieste, in «Pucki prijatelj», 6.5.1920. La traduzione italiana della lettera è allegata alla lettera di Mosconi aH’Ufficio centrale per le nuove province a Roma, 28.5.1920, in ACS, PCM, UCNP, b. 86. 85 Mosconi a Ufficio centrale per le nuove province, 28.5.1920, ivi. 84 Le scuole di Gorizia, in «Edinost», 6.2.1921, traduzione italiana in ACS, PCM, UCNP, b. 86, Ufficio stampa locale (recensioni) 9.2.1921. 85 Cermelj, Sloveni e croati, cit., p. 142. 86 A completamento di questa posizione, nel 1927 Giorgio Bombig mise in circolazione lo slogan degli «italiani degeneri», che avrebbero popolato ampie parti del goriziano, della Val Vipacco della valle dell’Isonzo. Secondo Bombig si trattava di italiani che negli ultimi decenni dell’epoca asburgica erano stati slavizzati sotto l’influenza di sacerdoti e insegnanti sloveni: cfr. Giorgio Bombig, Le condizioni demografiche della Venezia Giulia e gli allogeni, in «Gerarchia», 9, 1927, pp. 807-819, qui pp. 809 s. 87 Parovel, L’identità cancellata, cit., pp. 20 s. Si trattava del R.D.L. n. 17 del 10.1.1926 per la Provincia di Trento, le cui disposizioni, «su pressione delle prefetture di Trieste e deU’Istria, attraverso il R.D.L. del 7.4.1926» furono estese «a tutti i territori annessi» (ibidem, pp. 24 s.). Le norme attuative furono pubblicate il 5.8.1928. Cfr. i testi di legge in Aldo Pizzagalli, Per l’italianità dei cognomi nella provincia di Trieste, con prefazione di S.E. Augusto Turati, Trieste 1929, pp. 32-44. 88 Cfr. il paragrafo Restituzione alla forma italiana in Pizzagalli, Italianità, cit., pp. 45-53, e quello Riduzione in forma italiana, ibidem, pp. 53-61. 89 Parovel, L’identità cancellata, cit., pp. 25 s. 90 «Il numero dei cognomi che dovevano ricevere forma italiana sorpassava i 3 mila. Poiché le famiglie dell’Istria erano allora molto numerose ed esistevano interi abitati con lo stesso cognome, si calcola che circa 100 mila erano state destinate a dover subire d ’autorità “la riduzione in forma italiana” dei loro cognomi»: Cermelj, Sloveni e croati, cit., p. 144. 91 L’autore della prefazione era il segretario del Pnf, Augusto Turati. Cfr. Pizzagalli, Italianità, cit. 92 Ibidem, p. 7. 95 Cermelj, Sloveni e croati, cit., pp. 144 s. 94 Ibidem, p. 146. 95 Pizzagalli, Italianità, cit., p. 62. 96 Ibidem, pp. 63 s. 97 Cermelj, Sloveni e croati, cit., p. 147. 98 I. Sjednica 22.III.1946 u 9.35 u vecer u Pazinu, in INV Ljubljana, Primorska - peticije, resolucije, spomenice (1945), Fase. 31, Umschlag 158, 4.

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Note

99 Parovel, Uidentità cancellata, cit., p. 29; Pizzagalli, Italianità, cit., p. 31. 100 [Cermelj,] Die Jugoslawen, p. 486. 101 L’operazione riguardò persino i caduti delle forze armate austro-un­ gariche nei cimiteri militari dell’attuale Venezia Giulia, le cui croci perlopiù recano nomi italianizzati in luogo di quelli originari: cfr. Parovel, Uidentità cancellata, cit., p. 29. 102 Claus Gatterer, Schöne Welt, böse Leut’. Kindheit in Südtirol, Wien 1969, trad. it. Bel paese, brutta gente: romanzo autobiografico dentro le tensioni di una regione europea di confine, Bolzano 1999. Cfr. il manoscritto per una trasmissione della radio ORF, allegato alla lettera di Studio Tirol, Volkskultur a F2 Claus Gatterer, 26.7.1982, nel Fondo Claus Gatterer, Biblioteca Claus Gatterer, Sesto/Sexten, Korrespondenz 1982. 105 Pizzagalli, Italianità, cit., p. 107. La zona di Pivka divenne, come quella tutt’attorno a Postumia, una delle roccaforti della resistenza partigiana. 104 II combattivo avvocato fu condannato da un tribunale a una sorta di arresti domiciliari; poiché ciò gli impediva di esercitare la sua professione egli fini per emigrare in Jugoslavia: UAIS Trieste, Trieste in lotta per la Democrazia, cit.; vedi anche Cermelj, Sloveni e croati, cit., pp. 153 s. 105 Questura di Fiume a Prefetto di Fiume, 5.2.1935, in DAR, PG, busta 118; vedi anche la lettera del podestà al questore, 16.6.1930, ibidem. 106 Nel rapporto sui membri della famiglia Bratuz si legge soltanto che la loro condotta morale era buona e che erano incensurati; per il resto essi si sentivano slavi, ma erano «apolitici»: Questura di Gorizia a Comando PS. Piedicolle Tolmino-Idrija, Comando di gruppo Legione territoriale CCRR Gorizia, 23.6.1931, in ARS II, Goriska kvestura, fase. 1032. 107 Traduzione «Koledar druzbe sv. Mohorja za leto 1934-Calendario della società di Sant’Ermacora per il 1934», allegato a R. Prefettura di Gorizia a Ministero dell’interno, DGPS, 29.1.1934, in ACS, MI, D G PS, div. AAGGRR, cat. F4, stampa estera, b. 49. 108 Apih, Trieste, cit., p. 130. 109 Cfr. Karl Haushofer, Grenzen in ihrer geographischen und politischen Bedeutung, Berlin-Grunewald 1927, pp. 171 e 304 s., nota 188. 110 Sulla discutibilità di principio dei cosiddetti «confini naturali» cfr. recentemente il saggio di Robert Luft, «Alte Grenzen» und Kulturgeographie. Zur historischen Konstanz der Grenzen Böhmens und der böhmischen Länder, in Lemberg (a cura di), Grenzen in Ostmitteleuropa im 19. und 20. Jahrhundert. Aktuelle Forschungsprobleme, Marburg 2000, pp. 95-135, qui p. 101. 111 Carlo Schiffrer, I centri slavi degli altopiani carsici triestini, in Id., La questione etnica ai confini orientali d’Italia. Antologia, a cura di Fulvia Verani, Trieste 1990, pp. 163-179, qui p. 172. 112 Sul carattere bifronte delle regioni di confine cfr. Peter Haslinger,

Funktionsprinzip Staatsgrenze - Aspekte seiner Anwendbarkeit im Bereich der Osteuropaforschung, in Lemberg (a cura di), Grenzen in Ostmitteleuropa, cit., pp. 57-66. 115 Ben si adattano al Carso alcune delle considerazioni di Maria Todorova, Die Erfindung des Balkans. Europas bequemes Vorurteil (1997), Darmstadt 1999, p. 37, sul «carattere intermedio dei Balcani».

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114 Medick, Grenzziehungen, cit., p. 215. 115 Cfr. Regia Legazione Italiana, Belgrado, a R. Ministero Affari esteri, 4.5.1928, in AR, RK, kutija 197. 116 All’ufficiale della Reichswehr, che annotava le affermazioni del suo interlocutore, sfuggì un lapsus significativo: «Subito dopo ho chiesto l’auto­ rizzazione per visitare il fronte jugoslavo» (il corsivo mio): Ambasciata tedesca a Roma a Ministero degli Esteri tedesco, 8.3.1932, PA AA, Abt. II, Politische Beziehungen zwischen Italien und Jugoslawien, R 72804. 117 Salvi, Movimento nazionale, cit., p. 11. 118 Ambasciata tedesca a Roma a Ministero degli Esteri tedesco, 8.3.1932, PA AA, Abt. II, Politische Beziehungen zwischen Italien und Jugoslawien, R 72804. 119 Ibidem. 120 MI, D G PS, Div. AAGGRR a prefetture adriatiche, 13.3.1929, in DAR, PG , busta 134. 121 Orjuna, 5.4.1929, in DAR, PG, busta 134. 122 Questura di Fiume, Riservatissima urgente, 25.2.1931, in DAR, RK, kutija 197. 125 Secondo le autorità italiane la redazione dell’«Istra» a Lubiana era una sorta di centro di raccolta di informazioni politico-militari contro l’Italia; Ministero degli Affari Esteri a R. Ministero dell’interno, in ACS, MI, D G PS, div. AAGGRR, 1912-1945, cat. G l associazioni, b. 301. 124 Ìbidem. 125 Essa aveva un contatto diretto con la compagnia dei granicari di Logatec (in italiano Longatico), nel Carso, che aiutava i corrieri a varcare il confine, di solito in una località lungo la strada di Idria (Idrija), in direzione di Vrhnika (Ober-Laibach): Ministero dell’interno, D G PS, a Ministero Affari Esteri e prefetture adriatiche, 5.2.1935, in ARS II, G K , fase. 1032. 126 Cermelj, Sloveni e croati, cit., p. 96. 127 Preobrat v fasisticni manjsinski politiki, «Istra», 14.5.1937. 128 Ibidem. 129 Presidenza del Consiglio dei Ministri, MVSN a Ministero degli Interni, D G PS, 11.11.1933, in ACS, MI, D G PS, Div. AAGGRR, cat. G l, associa­ zioni, b. 302. 130 Ministero degli Affari Esteri, Servizio Corrispondenza, a R. Ministero degli Interni, D G PS, 131 Kalc, 1!emigrazione slovena e croata, cit., p. 43. 132 Kacin-Wohinz, Pirjevec, Storia degli sloveni, cit., pp. 59 s. 133 Andri, Mellinato, Scuola e confine, cit., p. 201. 134 Su Rejec cfr. la breve nota biografica in Primorski slovenci biografski, e il volume a cura di Branko Marusic, Domovina, kje si? Zbornik ob stoletnici rojstva Alberta Rejca (1899-1976), Gorica 1998. 135 Regia Questura di Gorizia a S.E. il Prefetto di Gorizia, 12.5.1930, in ARS II, G K , fase. 1032.

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Note

1.6 II comunista sloveno Ivan Regent, originario di Trieste, che dal 1927 in poi visse a Lubiana e divenne l’uomo di fiducia di Paimiro Togliatti per la Julijska Krajina, incontrò Rejec nel 1929 e concordò che la Tigr avrebbe portato in Italia anche materiale di propaganda comunista: Ursini-Ursic, At­ traverso Trieste, cit., pp. 54 s. 1.7 Kalc, Lemigrazione slovena e croata, cit., p. 43. ns jsjej 2926 dei politici sloveni della Venezia Giulia avevano esortato dalle pagine della «Edinost» a erigere un monumento a quattro guardie di finanza e a un segretario del Pnf locale, uccisi durante un conflitto a fuoco con combattenti sloveni armati: Alessandro Volk, Sloveni e croati in Italia tra le due guerre, in IRSML, Friuli e Venezia Giulia, cit., pp. 297-308, qui pp. 299 s. 159 Ursini-Ursic, Attraverso Trieste, cit., p. 49. 140 Consolato tedesco a Trieste ad Ambasciata tedesca a Roma, 24.12.1926, in PA AA, Abt. II, Politik 3, Politische Beziehungen zwischen Italien und Jugoslawien, R 72800. 141 «Recentemente sono state date alle fiamme anche due scuole situate nel villaggio di Prosecco, appena fuori Trieste, e in un altro villaggio nei dintorni della città»: Consolato tedesco a Trieste a Ministero degli Esteri tedesco, 18.5.1928, in PA AA, Abt. Via, Nichtdeutsche Minderheiten in nichtdeutschen Staaten, R 60521. 142 II decreto del prefetto per lo scioglimento del quotidiano «Edinost» è del 19.9.1928. La «Goriska straza» fu vietata un mese dopo. Vedi Schiffrer, Storia della società Edinost, in Id., Questione etnica, cit., pp. 123-135, qui p. 135; Cermelj, Sloveni e croati, cit., p. 121. 143 Consolato tedesco a Trieste a Ministero degli Esteri tedesco, 8.9.1928, in PA AA, Abt. II, Geheimakten 1920-1936, Rassenfragen, Nationalitätenfragen, Fremdvölker, R 30273. 144 Ibidem. 145 Consolato tedesco a Trieste a Ministero degli Esteri tedesco, 7.8.1928, in PA AA, Abt. Ila Politik 6 Italien, R 72856, e Orio Vergani, Gli allogeni nella Venezia Giulia, in «Corriere della sera», 7.10.1928. 146 Consolato tedesco a Trieste a Ministero degli Esteri tedesco, 14.5.1929, in PA AA, Abt. II, Politische Beziehungen zwischen Italien und Jugoslawien, R 72803. 147 Consolato tedesco a Trieste a Ministero degli Esteri tedesco, 8.8.1929, ebd. 148 Ambasciata tedesca a Roma a Ministero degli Esteri tedesco, 17.3.1930, ebd. 149 Consolato tedesco a Trieste a Ministero degli Esteri tedesco, 7.5.1930, in PA AA, Abt. Via, Nichtdeutsche Minderheiten in nichtdeutschen Staaten, R 60522. 150 Ambasciata tedesca a Roma a Ministero degli Esteri tedesco, 11.9.1930, in PA AA, Abt. II, Politische Beziehungen zwischen Italien und Jugoslavien, R 72803. 151 Cfr. Ministero dell’interno, D G PS a prefetture adriatiche, 11.3.1929, in DAR, PG , busta 141.

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152 Cfr. Elenco degli Uffici parrocchiali, sacerdoti e persone private che si occupano della distribuzione e vendita del periodico mensile sloveno «Bogoljub» edito a Lubiana, in ARS II, G K, fase. 1032. 153 Gorizia, 31.8.1935, rapporto riservato, allegato a Divisione Polizia politica, Appunti per l’on. Divisione Affari generali e riservati, 13.9.1935, in ACS, MI, D G PS, div. AAGGRR, cat. G l, associazioni, b. 38. 154 Ministero dell’interno a prefetture di Gorizia e Trieste, 14.12.1938, in ARS II, G K, fase. 1032. 155 In dettaglio vengono elencati «cattolici sloveni e nazionalisti serbofili, preti e comunisti slavi» (Gorizia, 13.8.1935, allegato a Divisione Polizia Politica, Appunto per l’on. divisione Affari generali e riservati, 3.9.1935, in ACS, MI, D G PS, div. AAGGRR, 1912-1945, cat. G l, associazioni, b. 308), 156 R. Prefettura di Gorizia a Ministero dell’interno, D G PS, 5.12.1935;

ibidem. 157 Ministero dell’interno a Prefetto di Gorizia, 3.5.1939, in ARS II, G K, fase. 1032. 158 Sull’era Stojadinovic si vedano innanzi tutto i ricordi apologetici dello stesso primo ministro Milan Stojadinovic, Ni rat, nipakt. Jugoslavia izmedju dva rata, Buenos Aires 1963, trad. it. Jugoslavia fra le due guerre, Bologna 1970. 159 Rutar, Kultur-Nation-Milieu, cit., pp. 129-148. 160 Sulla politica dei mazziniani a Trieste dopo il 1918 Visintin, L’Italia a Trieste, cit., pp. 67 ss. 161 Candeloro, Storia dell’Italia moderna, cit., voi. V, p. 62. 162 I repubblicani giuliani, ad esempio, nel 1921 rifiutarono di aderire al blocco elettorale borghese-fascista, perché non volevano «confondere la loro italianità, le loro aspirazioni, i loro ideali, con quelli della borghesia»: quest’ultima sarebbe stata più volte in condizione di «difendere gli interessi della Patria», ma avrebbe sempre preferito prendersi cura dei propri «interessi di classe contro i lavoratori italiani»: in «L ’Emancipazione», ripreso in Silvestri, Dalla redenzione al fascismo, cit., p. 111. 163 Quest’internazionalismo astratto viene ricollegato al nome del fondatore napoletano del PC d’I, Amadeo Bordiga; cfr. Ursini-Ursic, Attraverso Trieste, cit., pp. 116 s. 164 L’orientamento filoccidentale e l’americanizzazione crescenti fecero il resto; l’«italianità», molto meno screditata del «germanesimo» di fronte a sé e agli altri, batté in ritirata e sopravvisse soprattutto là dove si celebravano entrambi. Fu ad esempio il caso dell’Alto Adige, dove ancora nel 1988 Alexander Langer, Sùdtirol ABC, cit., pp. 302-355, qui pp. 320 s. e p. 349, registrava un uso perfettamente congiunto dei termini italianità e Deutschtum. 165 Frank Rutger Hausmann, Skepsis, Zweifel oderStolz. Italien, Deutschland und die «Italianità», in «Italienisch», 2000, 1, pp. 2-18, qui p. 5. 166 In una poesia di Umberto Saba, citata in chiave polemica da Asor Rosa, Scrittori e popolo, cit., p. 17, si dice che gli italiani sono incapaci di fare una rivoluzione vittoriosa in quanto un popolo di fratricidi, cosa cui alludeva già il simbolo della lupa capitolina. I veri rivoluzionari sarebbero parricidi. 167 «Caposaldo della dottrina fascista è la concezione dello Stato, della sua essenza, dei suoi compiti, delle sue finalità. Per il fascismo, lo Stato è un

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Note

assoluto, davanti al quale individui e gruppi sono il relativo»: Benito Mussolini, voce Fascismo dell’Enciclopedia italiana, cit., p. 850. 168 Petersen, Quo vadis, cit., pp. 42 s. 169 Eric J. Hobsbawm, Nation and Nationalism since 1780. Programs, Myth, Reality, Cambridge 1990, trad. it. Nazioni e nazionalismo dal 1780: programma, mito, realta, Torino, 1991, pp. 119 ss. 170 Hermann Raschhofer, Das Volk in der faschistischen und nationalsozia­ listischen Doktrin, in «Deutsche Arbeit», n. 7, luglio 1934, pp. 333-337; Max Hildebert Boehm, Das eigenständige Volk in der Krise der Gegenwart, WienStuttgart 1971, pp. 11 s. 171 Mussolini, voce Fascismo dell’Enciclopedia italiana, cit., p. 850. 172 Questo modo di procedere è in linea con il «carattere eclettico del­ l’ideologia fascista», che si ritrova sia nella fase antemarcia sia «nelle principali correnti culturali e politiche degli anni Trenta»; Gabriele Turi, Faschismus und Kultur, in Petersen e Schieder (a cura di), Faschismus und Gesellschaft, cit., pp. 91-107, qui p. 105. 173 Dei Sabelli, Nazioni, cit., vol. I, p. 61. 174 Guglielmo Volpi, Vocabolario della lingua italiana, Firenze 1941, cit. da Kolb, Sprachpolitik, cit., p. 164. 175 Gli ebrei festeggiano Trieste redenta (13.11.1918), in Romano (a cura di), Trieste ottobre-novembre 1918, parte 3, cit., p. 128. 176 Consolato tedesco a Trieste a Ministero degli Esteri tedesco, 13.2.1924, in PA AA, Abt. Ila, Poi. 6 Italien, R 72856. 177 «Aus einem Interview mit Mussolini (Deutsche Allgemeine Ztg. vom 14. November [1926])», in BA Koblenz, N L Wilfan, Fase. 5. 178 Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo ( 1961 ), nuova ed. ampliata, Torino 1993, pp. 246 s. 179 Gabriele Schneider, Mussolini in Afrika. Die faschistische Rassenpolitik in den italienischen Kolonien 1936-1941, Köln 2000, p. 13. 180 «Si pensava a qualcosa che non fosse semplicemente una difesa tradizio­ nale della “stirpe” nel senso della tradizione nazionalista»: Diskussionsforum, cit., p. 294. Sui termini razza e stirpe, di «significato affine», cfr. anche Kolb, Sprachpolitik, cit., pp. 70 e 88 s. 181 Manifesto degli scienziati razzisti (14.7.1938), ora ristampato in De Felice, Storia degli ebrei, cit., pp. 555 s., qui p. 556. Sulla questione della paternità di Mussolini cfr. Schneider, Mussolini in Afrika, cit., p. 69. 182 Manifesto degli scienziati razzisti, cit., p. 556. 183 Comunicato del Pnf a proposito del «Manifesto degli scienziati razzisti» (26.7.1938), ibidem, pp. 557 s., qui p. 557. 184 Silva Bon, Gli ebrei a Trieste 1930-1945. Identità, persecuzione, risposte, Gorizia 2000, p. 60. 185 Zur Neubewertung des italienischen Faschismus, cit., p. 295. 186 Primo Levi, Il sistema periodico (1975), Torino 1982, p. 37. 187 Così in una conferenza tenuta a Salisburgo nel luglio 1992, poi pubbli­ cata in Claudio Magris, Wer steht auf der anderen Seite. Grenzbetrachtungen, Salzburg-Wien 1993, p. 11.

Capitolo terzo

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188 Dario Mattiussi, Il Pnf a Trieste 1938-1943: la fine del partito? La crisi del partito fascista come organismo burocratico-amministrativo, in Annamaria Vinci (a cura di), Trieste in guerra. Gli anni 1938-1943, Trieste 1992, pp. 1029, qui p. 16. 189 Di questo gruppo facevano parte tra gli altri: Luigi Ruzzier, cofondatore delTAssociazione italo-germanica, Cesare Pagnini, podestà di Trieste durante l’occupazione nazista, Ettore Martinoli, fondatore del Centro Antiebraico (ibidem, p. 17). 190 Cit. da Cermelj, Sloveni e croati, cit., p. 173. Cfr. la sintesi di Piero Purini,

I!emigrazione non italiana dalla Venezia Giulia dopo la prima guerra mondiale, in «Qualestoria», n. 1, 2000, pp. 33-53, qui p. 51. I progetti di Italo Sauro sono stati dettagliatamente documentati in Milica Kacin-Wohinz, Predlogt Itala Saura za raznaroditev slovencev in hrvatov v ltaliji (1939-1941), in «Annales» (Koper), n. 1, 1991, pp. 237-244. Simili progetti di trasferimento in Africa, che ricordano il progetto nazista del Madagascar, furono fatti anche per gli ebrei italiani: cfr. De Felice, Storia degli ebrei, cit., pp. 284-290. 191 Italo Sauro a Mussolini, 11.12.1940, in Dokument st. 4, in Kacin-Wohinz, Predlogi Itala Saura, cit., pp. 240-242, qui p. 241. 192 Turi, Il fascismo e il consenso degli intellettuali, cit., p. 95. 195 Schiffrer, I centri slavi, cit., p. 170. 194 Aleksej Kalc, L1emigrazione slovena e croata dalla Venezia Giulia tra le due guerre ed il suo ruolo politico, in «Annales» (Koper), n. 8, 1996, pp. 23-60, qui p. 24; Kacin-Wohinz, Prvi antifasizem, cit., p. 326. 195 Dossier Italia-Slovenia, in «Il Piccolo», 4.4.2001, p. III. 196 Puntuali indicazioni sulla problematica dell’esilio si trovano anche negli archivi del ministero degli Esteri tedesco e di quello italiano. 197 Cfr., in generale: Andrej Vovko, Organizacije jugoslovanskih emigrantov iz ]ulijske krajine do leta 1933 e Delovanje ’Zveze jugoslovanskih emigrantov iz Julijske krajine’ v letih 1933-1940, in «Zgodovinski casopis», 1978, n. 4, e 1979, n. 1; Dusan Necak e Andrej Vovko, L’attività degli sloveni e dei croati della Venezia Giulia nell’emigrazione in Jugoslavia, in «Quaderni del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno», n. 8, 1985; Kalc, Emigrazione slovena e croata, cit.; Piero Purini, Raznarodovanje slovenske manjsine v Trstu (Problematika

ugotajljanja stevila neitaljanskih izseljencev iz julijske krajine po prvi svetovni vojni), in «Prispevki za novejso zgodovino», 38, 1998, pp. 23-41. 198 Piero Purini, Emigrazione, cit., p. 37. distingue quattro «ondate» di arrivo in Jugoslavia di profughi provenienti dalle regioni giuliane: 1) l’ondata già ricordata immediatamente successiva alla Prima guerra mondiale; 2) una seconda ondata, a seguito della marcia su Roma (ottobre 1922); 3) una nuova spinta migratoria direttamente legata al processo Gortan e al primo processo triestino del Tribunale speciale (1930); un’ondata successiva agli interventi militari dell’Italia in Etiopia e in Spagna. 199 Sui programmi di insegnamento nelle scuole jugoslave tra le due guerre cfr. il saggio di Ljubodrag Dimic e Danko Alimpic, Stereotypes in History Textbooks in thè Kingdom of Yugoslavia, in Wolfgang Hòpken (a cura di),

Ol ins Feuer? Schulbùcher, ethnische Stereotypen und Gewalt in Sùdosteuropa, Hannover 1996, pp. 89-98. 200 In un rapporto dell’ambasciata tedesca si legge che nel dicembre del

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Note

1935 nello Stato balcanico si trovavano «circa 800 disertori dall’Italia, di cui 700 croati e sloveni e 100 italiani». Legazione tedesca a Belgrado a Ministero degli Esteri tedesco, 5.12.1935, in PA AA, Abt. II, Politische Beziehungen zwischen Italien und Jugoslawien, R 72806. Milica Kacin-Wohinz e Joze Pirjevec, Stona degli sloveni, cit., p. 66, indicano in 1.000 il numero totale dei disertori fuggiti in Jugoslavia durante la Guerra di Abissinia. 201 R. Consolato Generale d’Italia in Sarajevo a R. Ministero degli Affari Esteri, Roma, 29.9.1936, in ACS, MI, D G PS, div. AAGGRR, 1912-1945, cat. G l, associazioni, b. 301. 202 Ministero degli Affari Esteri a R. Ministero deH’Intemo, 18.6.1937, in ACS, MI, D G PS, div. AAGGRR, 1912-1945, cat. G l, associazioni, b. 301; Consolato Generale di S.M. il Re d’Italia in Serajevo an S.E. il Ministro degli Affari Esteri, Roma, 18.2.1930, in DAR, RK, kutija 196.

Capitolo quarto 1 Vinci, Bellicismo e culture diffuse, cit., pp. 75 s. 2 Elio Apih, Nazismo e presenza etnica tedesca nell’Italia nord-orientale, in Ifsml, Resistenza e società. Atti del convegno «Problemi di storia della Resistenza in Friuli», Udine 5-7 novembre 1981, Udine 1984, vol. II, pp. 453-478, qui p. 458. 3 Aufzeichnung für etwaige Besprechungen mit dem italienischen Delega­ tionsführer bei dem heutigen Frühstück, (gez.) Clodius, 20.5.1938, in PA AA, Chef A/O, Italien, R 27204. 4 Cfr. Mattiussi, Il Pnf a Trieste, cit., p. 16. Vedi anche Apih, Nazismo e presenza etnica, cit., p. 459. 5 Bon, Gli ebrei a Trieste, cit., pp. 226 s. 6 Cfr. Apih, Nazismo e presenza etnica, cit., p. 461. Sull’identità collettiva degli abitanti della Val Canale cfr. il saggio di Robert G. Minnich, Wie man

an den Rändern moderner Staaten zu Bürgern wird. Einige Überlegungen zur politischen Implikation der Ethnizität, wie sie von mehrsprachigen Dorfbewohnern im «Dreiländereck» erlebt wird, in Christian Stenner (a cura di), Slowenische Steiermark. Verdrängte Minderheit in Österreichs Südosten, Wien-Köln-Weimar 1997, pp. 251-295. 7 Coerentemente Christof Dipper, in riferimento a una storia comparata della Germania e dell’Italia osserva che «i parallelismi italo-tedeschi» si in­ terrompono l’8 settembre 1943: Christof Dipper, Italien und Deutschland seit 1800: Zwei Gesellschaften auf dem Weg in die Modern, in Dipper, Klinkhammer e Nützenadel, Europäische Sozialgeschichte, cit., p. 500. Per quanto riguarda la Jugoslavia, non si può ignorare che proprio il crollo dell’Italia di Mussolini diede ai partigiani titoisti la possibilità di rifornirsi di armi per fronteggiare le forze militari di occupazione tedesca in campo aperto su una scala ben maggiore che in precedenza. La sconfitta del fascismo condusse a una ristrutturazione di tutto il potenziale di resistenza jugoslavo. 8 Ai nostri fini ciò che importa non è tanto analizzare le differenze tra la politica tedesca di occupazione in Jugoslavia e in Italia, quanto le conseguenze dell’occupazione sulla politica interna nei due paesi: cfr. Lutz Klinkhammer,

Grundlinien nationalsozialistischer Besatzungspolitik in Frankreich, Jugoslawien

Capitolo quarto

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und Italien, in Dipper, Hudemann e Petersen (a cura di), Faschismus und Faschismen im Vergleich, cit., pp. 183-213. 9 Sull’Europa orientale in generale cfr. Peter Niedermüller, Politischer Wandel und Neonationalismus in Osteuropa, in Wolfgang Kaschuba (a cura di), Kulturen-Identitäten-Diskurse. Perspektiven europäischer Ethnologie, Berlin 1995, pp. 135-151, qui pp. 142 s. 10 Ciò vale in particolare per i «regolamenti di conti» dei partigiani avvenuti nelle prime settimane dopo la fine della guerra. Vedi ora Drago Jancar, Die dunkle Seite des Mondes oder die Frage des Vergessens, in «Kommune», n. 5, 2001, pp. 6-11. Drago Jancar, noto scrittore sloveno, ha organizzato a Lubiana una mostra intitolata «Il lato oscuro della Luna», dedicata alle uccisioni in massa di «controrivoluzionari» nella primavera del 1945: cfr. il catalogo da lui curato, Temnastran meseca. Kratka zgodovinatotalitarisma v Sloveniji 19451990, Ljubljana 1998. 11 Roberto Vivarelli, A neglected question. Historians and thè Italian national state (1945-95), in Stefan Berger, Mark Donovan e Kevin Passmore (a cura di), Writing National Histories. Western Europe since 1800, London 1999, pp. 230235, qui p. 230; Hausmann, Skepsis, Zweifel oder Stolz, cit., p. 10. 12 Enzo Collotti, Silva Bon Gherardi e Adriana Petronio (a cura di), La Resistenza nel Friuli e nella Venezia Giulia, Udine 1979, p. 9. 13 La propaganda jugoslava fece a lungo riferimento all’unica eccezione: Ragusa (Dubrovnik) era stata una repubblica marinara di importanza notevole (sebbene non comparabile a Venezia), dotata di una posizione autonoma nel sistema degli Stati europei. Cfr. Antonio Di Vittorio, Sergio Anseimi e Paola Pierucci, Ragusa (Dubrovnik), una repubblica adriatica. Saggi di storia economica e finanziaria, Milano 1994. Vedi anche Harald Heppner (a cura di), Haupt­ städte in Südosteuropa. Geschichte - Funktion - Nationale Symbolkraft, Wien ecc. 1994, e Sergio Anseimi (a cura di), Sette città jugoslave tra Medioevo e Ottocento - Sedam jugoslvenskih gradova izmedju srednjek vijeka i XIX stoljeca, Senigallia (Quaderni di «Proposte e ricerche», 9) 1991. 14 Sundhaussen, Europa balcanica, cit., p. 637. 15 Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino 1991; Lutz Klinkhammer, Zwischen Bündnis und Besatzung:

das nationalsozialistische Deutschland und die Republik von Salò 1943-1945, Tübingen 1993, trad. it. L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Torino 1996. Vedi anche il commento alle opere di Klinkhammer e Pavone in Jens Petersen, Der Ort der Resistenza in Geschichte und Gegenwart Italiens, in «Q FIA B», n. 72, 1992, pp. 550-571. 16 Milica Kacin-Wohinz, recensione di Pavone, Guerra civile, in «Zgodovinski casopis», n. 2, 1992, pp. 287-290. 17 Cfr. Pierluigi Pallante, Il Partito comunista italiano e la questione di Trieste nella Resistenza, in «Storia contemporanea», n. 3, 1976, pp. 481-504. Milica Kacin-Wohinz, Il partito comunista d’Italia di fronte al problema nazio­ nale della minoranza, in Massimo Pacetti (a cura di), L'imperialismo italiano

e la Jugoslavia. Atti del convegno italo-jugoslavo, Ancona 14-16 ottobre 1977, Urbino 1981, pp. 403-432. 18 Cfr. Sandro Pettini, Sei condanne, due evasioni, Milano 1970. 19 Cfr. Anschriften von Stiftungen, Arbeitsgruppen und außeruniversitären

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Note

Forschungseinrichtungen zur Sozialgeschichte Italiens, in Wörsdörfer (a cura

di), Sozialgeschichte, cit., pp. 259-261.

20 Nella sola collana «Zbornik dokumenata i podataka o narodnosvobodilnackom ratu jugoslovanskih naroda» l’istituto di storia militare pubblicò 60 mila documenti sulla guerra popolare di liberazione: Ivan Erceg, Die Organisation der jugoslawischen Geschichtswissenschaft, in «Jahrbuch für die Geschichte der UdSSR und der volksdemokratischen Länder», vol. X, pp. 299-307, qui p. 306. 21 Marta Verginella, Il peso della storia, in «Qualestoria», n. 1, giugno 1999, pp. 9-34, qui p. 13. 22 Cfr. le indicazioni bibliografiche in Petersen, Ort der Resistenza, cit., p. 553. 25 Di qui la distinzione in ARS (sede principale deir Archivio di Stato), ARS I (ex archivio del partito comunista sloveno) e ARS II (ex Istituto per la storia del movimento operaio). 24 Cfr. l’elenco completo delle pubblicazioni dell’istituto in Tristano Matta (a cura di), Catalogo delle pubblicazioni dell’istituto regionale per la storia del Movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia (1958-1997), introduzione di Teodoro Sala, Trieste 1998. 25 Qui si prescinde totalmente dalla trattazione della guerra partigiana nei libri di testo scolastici jugoslavi: cfr. Wolfgang Höpken, Der Zweite Weltkrieg in den jugoslawischen und post-jugoslawischen Schulbüchern, in Höpken, Ol ins Feuer, cit., pp. 159-178, qui pp. 163 s. 26 France Skerl, Bibliografija o narodnoosvobodilnem boju slovencev 19451949, in «Zgodovinski casopis», a. 4, 1950, pp. 278-316. 27 Un buon esempio è il volume collettaneo riedito alcuni anni fa di Joze Hocevar (a cura di), Slovenska Istra v boju za svobodo (1976), Koper 1998, che affronta nel corso di 850 pagine il tema della Resistenza nella parte slovena dell’Istria, comprendente quattro cittadine (Koper, Piran, Izola e Portoroz, in ita­ liano rispettivamente Capodistria, Pirano, Isola e Portorose) e diversi villaggi. 28 Per quanto riguarda la parte italiana della regione di frontiera - il FriuliVenezia Giulia - si può dire che essa è al secondo posto tra le regioni italiane per numero pro capite di monumenti e luoghi commemorativi partigiani e antifascisti, la maggior parte dei quali situati nei villaggi intorno a Trieste (in parte abitati da sloveni): cfr. Sluga, Problem of Trieste, cit., p. 168. Al primo posto è infatti la provincia di Cuneo - in una zona dell’Italia nord-occidentale a forte attività partigiana - dove esistono 2 mila monumenti e simboli comme­ morativi della Resistenza: Petersen, Ort der Resistenza, cit., p. 551. 29 Questa definizione è tratta dal documento II Comando coordinamento Garibaldi Osoppo Friuli ai Comandi dei gruppi di brigate dipendenti e della brigata mista Ippolito Nievo, in Gabriella Nisticò (a cura di), Le brigate Ga­ ribaldi nella Resistenza, Documenti. II: Giugno-novembre 1944, Milano 1979, pp. 513 s., qui p. 513. 30 Oggetto: Ispezione eseguita in Slovenia e Dalmazia, lettera del generale Roatta, 10.1.1942, in SME US DS, Notiziario vario 2‘ Armata, b. 1361, cit. da Jonathan Steinberg, All or nothing: thè Axis and thè Holocaust 1941-1943, London-New York 1991, trad. it. Tutto o niente: l’Asse e gli ebrei nei territori occupati, 1941-1943, Milano 1997, p. 41.

Capitolo quarto

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31 Milovan Dilas, 'Wartime, New York 1977, pp. 7 s.; Paul Parin, Es ist Krieg und wir gehen hin. Bei den jugoslawischen Partisanen (1991), Berlin 1992, p. 154. Dilas partiva dall’erroneo presupposto che il termine guerillero fosse nato durante la guerra civile di Spagna. 32 V.I. Lenin, Sulla guerra partigiana, in «Proletari», n. 5, 30.9.1906, ora in Id., Opere complete, vol. XI, Roma 1962, pp. 194-204. Cfr. Ernstgert Kalbe,

Antifaschistischer Widerstand und volksdemokratische Revolution in Südosteu­ ropa, Berlin 1974, pp. 164 s. 33 Naz, Gli anni hui della Slavia. Attività delle organizzazioni segrete nel Friuli orientale, Cividale del Friuli 1996, p. 125. 34 Anna Maria Mori e Nelida Milani, Bora, s.l. 1998, cfr. tra l’altro pp. 7176, 106; Rocchi, Esodo, cit., p. 127; Gloria Nemec, Un paese perfetto. Storia e memoria di una comunità in esilio: Grisignana d’Istria 1930-1960, Gorizia 1998, p. 156. 35 Uno scritto in cui si deridevano le partigiane slave apparve con il titolo Il fenomeno «Drugarizza», in «Il Grido dell’Istria», 27.6.1946. Cfr. la citazione dettagliata in Gianna Nassisi, Istria: 1945-1947, in Colummi, Ferrari et al., Storia di un esodo, cit., pp. 87-144, qui p. 143, e la caricatura nella parte iconografica dello stesso volume. 36 Cfr. i passi in proposito in Klaus Theweleit. Männerphantasien. I: Frauen, Fluten, Körper, Geschichte (1977), München 1995, pp. 71-92. 37 John Keegan, A History of Warfare, London 1993, trad. it. La grande storia della guerra, Milano 1996, p. 58. 38 La caricatura fu pubblicata nella rubrica La Galleria del «GRIDO», in «Il Grido dell’Istria», 27.6.1946. Vedi anche Nemec, Paese perfetto, cit., p. 155. 39 Si trattava probabilmente di definizioni interne alla Wehrmacht, che non dovevano necessariamente essere utilizzate all’esterno: Cfr. 188. Res.Geb.Div. Abt.Ic, Div.St.Qu., den 14.3.44, Richtlinien für Vernehmung über Feindlage (Ic), in 188. Gebirgs-Division, Division Nr. 188,188. Reserve-Gebirgs-Division, BA MA Freiburg, RH 28-188, Nr. 8. 40 Carlo Tigoli, I briganti della foresta, in «II Piccolo», 2.6.1942, qui cit. da Fogar, Trieste in guerra, cit., p. 43. 41 Cfr. Eric J. Hobsbawm, Primitive Rebels: Studies in Archaic Forms of Social Movement in the 19th and 20th Centuries, Manchester 1959, trad. it. I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Torino 1966. 42 Collotti, Bon Gherardi e Petronio (a cura di), Resistenza, cit., Udine 1979. 43 Collotti e Klinkhammer, Il fascismo e l’Italia, cit., p. 132. 44 La propaganda nazista cercava di screditare i partigiani sottolineandone l’esistenza precaria nei boschi: «Abitanti del litorale, da molti mesi ormai uo­ mini e ragazzi del nostro popolo si aggirano per i boschi. In un momento in cui la natia terra slovena ha bisogno di tutte le forze, essi si sono staccati dalla nostra comunità»; dal volantino An ihren Freunden werdet ihr sie erkennen («li riconoscerete dai loro amici»), aggiunta manoscritta «27.9.1944 [Trieste]», in ARS II, Fond OZAK, fase. 202. 45 Vladimir Nazor aveva frequentato il ginnasio croato di Pisino (Istria). Nel 1941, ormai ultrasettantenne, viveva a Zagabria; di lì riuscì a unirsi ai partigiani. Divenne presidente del direttivo del movimento di liberazione croato Zavnoh.

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Note

Fu poi punito per la sua politica di nazionalismo croato, autonoma da quella dei vertici titoisti: cfr. Bilas, Wartime, cit., pp. 209 s. e 410; Jill A. Irvine, The

Croat Question. Partisan Politics in thè Formation of thè Yugoslav Socialist State, pref. di Ivo Banac, Boulder-San Francisco-Oxford 1993, p. 196. 46 B. Gr., Veli Joze, in Kindler’s Neues Literatur Lexikon, vol. XII, pp. 256 s., qui p. 256. 47 Cit. da ibidem. 48 Nazor attinse a leggende molto diffuse in Istria; per la sua anticipazione della ribellione croata contro le città italiane della penisola istriana e per il suo impegno a favore dei partigiani divenne il poeta nazionalpopolare della Croazia socialista: cfr. Nemec, Paese perfetto, cit., p. 156. 49 Parin, Es ist Krieg, cit., p. 95. 50 Keegan, La grande storia della guerra, cit., p. 57. 51 Cari Schmitt, Theorie des Partisanen. Zwischenbemerkung zum Begriff des Politischen, Berlin 1963, p. 26., trad. it. Teoria del partigiano. Integrazione al concetto del politico, Milano 2005, pp. 32-33. 52 In un rapporto italiano proveniente dal Friuli si lamenta lo «spirito di “guarnigione”» che si diffonderebbe tra i partigiani nei territori liberati: cfr. Relazione su un’ispezione in Friuli dal 24 ottobre all’ 11 novembre 1944, in Nisticò (a cura di), Le brigate Garibaldi, cit., pp. 562-568, qui p. 563. 55 Mario Pacor, Confine orientale, Milano 1963, p. 166, riferisce che i par­ tigiani sloveni «fecero sloggiare» i reparti della milizia fascista posti a vigilare sulla Selva di Tarnova. 54 Nell’inverno 1941-42 12 mila tedeschi furono trasferiti da Kocevje (Gottschee) in Bassa Stiria, dopo essere stati costretti a vendere i loro beni alla società fondiaria italiana Emona, che in seguito divenne bersaglio prediletto di attacchi dei partigiani sloveni: cfr. Tone Ferenc, Landwirtschaft und Ernährung in Slowenien (1941-1945), in «Österreichische Osthefte», n. 1, 1989, pp. 5687, qui p. 79. L’area di Kocevje/Gottschee fu utilizzata soprattutto come sede del servizio segreto partigiano Ozna e della polizia segreta jugoslava Udba. Nell’ultimo periodo prima della ritirata degli occupanti tedeschi fu anche sede del governo partigiano sloveno. 55 Armeegruppe v. Zangen a Oberkommando der Heeresgruppe C/Ic, 13.4.1944, in BAMA Freiburg, 87. Armeekorps Armeegruppe v. Zangen, RH 24-87, Nr. 61; Ursini-Ursic, Attraverso Trieste, cit., p. 288; Mario Pacor, Confine orientale, Milano 1963, pp. 227 s. 56 II giudizio più sprezzante da parte slovena su una Brigata Garibaldi italiana si deve a Lidija Sentjurc, che allora presiedeva il comitato distrettuale triestino del Kps: «Nella Brigata Garibaldi-Trieste ci sono continue lamentele per i pasti, i rifornimenti di armi e così via. Queste rimostranze sono imperdo­ nabili, perché è ovunque così: adesso vorranno anche andare in villeggiatura»; Lidija [Sentjurc], Dragi tovarisi!, 2.7.1944, in ARS I, Arhiv CK KPS, Fond Oblastni/Pokrajinski komitet za Primorsko, skatla 19. 57 Cfr. Aldo Scalpelli, San Sabba. Istruttoria e processo per il lager della Risiera (1988), Trieste 1995, e il recente Massimo Mucci, La Risiera di San Sabba. Un’architettura per la memoria, Gorizia 1999. 58 Corrispondenza ricevuta dal PCS, 6.8.1942, Fondazione Istituto Gram-

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sci, Organizzazioni comuniste nella Venezia Giulia, Microfilm 104, pacco 2, busta 15. 59 Dossier Italia-Slovenia, in «Il Piccolo», 4.4.2001, p. IV. 60 Nemec, Paese perfetto, cit., p. 180. 61 Einsatztrupp Pola, Einsatzbericht, 25.9.1944, in ARS II, Fonds OZAK, fase. 201. 62 Parin, Es ist Krieg, cit., pp. 153 s. 65 Cfr. Sundhaussen, Experiment Jugoslawien, cit., p. 89. 64 Cfr. Josip Vidmar, Gespräch über aktuelle Probleme mit Barbara Goricar (1983), in Vidmar, Verzicht und Behauptung, cit., pp. 195-205, qui pp. 204 s. 65 Cfr. Nemec, Paese perfetto, cit., p. 183. 66 Sonderkommando «Adria», Einsatzgruppe Görz, Gruppenführer Oscha Jung, Bericht über Propaganda- und Zwangsrekrutierungsaktion, 10.2.1944, in ARS II, Fonds OZAK, Fase. 201. 67 Einsatztrupp Pola, 26.9.1944, in ARS II, Fonds OZAK, Fase. 201. 68 Famigerata è la lettera di istruzioni di Edvard Kardelj dell’ 1.9.1942, con­ tinuamente citata dopo il 1991 nel dibattito sulla politica interna dell’odierna Repubblica di Slovenia: «È necessario schiacciare la guardia bianca senza pietà. Non esitate, non siate clementi. Soprattutto all’inizio i colpi devono essere tali da far sentire la nostra forza. Lasciate naturalmente liberi i contadini che sono stati ingannati e che si arrendano deponendo la armi, ma fucilate chi prosegue la lotta. Se avete l’impressione che i partigiani abbiano conquistato il rispetto, potete essere clementi anche verso coloro che hanno combattuto se garantiscono che non lo faranno più. Fucilate tutti i preti che si trovino nelle unità [«bianche»]. E gli ufficiali, gli intellettuali ecc., e soprattutto i kulaki e i loro figli maschi»; ARS, Osebna Zbirka E. Kardelja, fase. 6, qui cit. da Joze Pirjevec, Die jugoslawische Politik zu den politischen und ideologischen Gegnern, in «Zeitgeschichte», 2000, n. 1, pp. 40-45, qui p. 41. 69 Cfr. Corrispondenza ricevuta dal PCS, 30.10.1942, Fondazione Istituto Gramsci, Organizzazioni comuniste nella Venezia Giulia, Microfilm 104, pacco 2, busta 15. Vedi anche Tone Ferenc, Die Kollaboration in Slowenien. Grund­ lagen, soziale Träger, Konzepte und Wirkungen, in Europa unterm Hakenkreuz, suppl. I, Okkupation und Kollaboration (1938-1945) Beiträge zu Konzepten und Praxis der Kollaboration in der deutschen Okkupationspolitik, a cura di Werner Röhr, Berlin-Heidelberg 1994, pp. 337-348, qui p. 341. 70 Cfr. Oberkommando der 1. SS-Panzerarmee, Ic-AOBA, Feindnachri­ chtenblatt Nr. 1, 11.10.1943, in BA MA Freiburg, RS 2-2, Nr. 21 Tl. 2. 71 Ferenc, Kollaboration, cit., p. 344. 72 Boris Mlakar, Domobranstvo na Primorskem, Ljubljana 1982, p. 239; KacinWohinz, Pirjevec, Storia degli sloveni, cit., p. 62. Vedi anche Katja Colja, Militär und Propaganda der Domobranzen im Adriatischen Küstenland 1943-1945, in «Zeitgeschichte», n. 3-4, 1996, pp. 71-92. L’autrice fa riferimento soprattutto al fondo Svnz conservato in ARS II e alla stampa vicina ai domobranci. 73 Janko Prunk, Slowenien. Ein Abriß seiner Geschichte, Ljubljana 1996, p. 135. 74 Manoschek, «Serbien ist judenfrei». Militärische Besatzungspolitik und Judenvernichtung in Serbien 1941-42, München 1993, p. 136.

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Note

75 Bilas, Wartime, cit., p. 208. 76 Si trattò di un esempio molto sgradevole per il «capo supremo delle SS e della Polizia» di Lubiana, il Gruppenführer Rösener. L’ufficiale inizialmente tentò di affrontare i partigiani nell’ex Provincia di Lubiana facendo del tutto a meno dell’aiuto della Wehrmacht, e chiese aiuto a unità dell’esercito solo quando le truppe di polizia a Kocevje (Gottschee) furono circondate dalle formazioni partigiane: A.O.K. 14, Kriegstagebuch Nr. 1, 21.11.1943-23.1.1944, qui 10.12 .1943, in BA MA Freiburg, RH 20-14, Nr. 10. 77 Bilas, Wartime, cit., pp. 338 ss. 78 Vodusek-Staric, «Dosje» Mackovsek, cit. 79 Pirjevec, II giorno di San Vito, cit., p. 164. 80 CK KPS a CC PC d’I, Febbraio 1942, in Fondazione Istituto Gramsci, Organizzazioni comuniste nella Venezia Giulia, Microfilm 104, pacco 2, busta 15. Sulla «tassa popolare» e i «prestiti per la libertà» si veda il saggio di Ferenc, Landwirtschaft, cit., pp. 81 s. 81 Rozman, Melik, Repe, Öffentliche Gedenktage, cit., pp. 327 s. 82 Cfr. le prime proposte dei comunisti sloveni al PC d’I, in Corrispon­ denza ricevuta dal PCS, 28.1.1943, FIG , OCVG, Microfilm 104, pacco 2, busta 15. 83 CK KPS a CC PCd’I, marzo 1942, in FIG , OCVG, Microfilm 104, pacco 2, busta 15. 84 Giovanni Padoan, Abbiamo lottato insieme. Partigiani italiani e sloveni al confine orientale, Udine 1965, p. 31. Sulla posizione di «vantaggio» della lotta di liberazione jugoslava dal punto di vista italiano cfr. anche Carlo Schiffrer, Aspetti nazionali e internazionali della Resistenza triestina (1965), ora in Schiffrer, Questione etnica, cit., pp. 189-197, qui soprattutto p. 193. 85 Branko Babic, Primorska ni klonila. Spomini na vojna leta, Koper 1982. 86 Manoschek, «Serbien ist judenfrei», cit., p. 20. L’addetto militare te­ desco aveva previsto che qualsiasi crollo della Jugoslavia sarebbe equivalso alla scomparsa della Slovenia dalla carta geografica: «Se i croati cadono, [il politico sloveno] Korosec [.f/'c!] sarà fuori causa e la questione sarà solo in che modo avverrà la divisione della Slovenia tra Germania, Italia e Ungheria»; Faber du Faur, Entwicklung der militärpolitischen Lage Jugoslawiens während meiner dortigen Tätigkeit als Militàrattaché vom 1.10.1935-1.7.1939, in BA MA Freiburg, N L Faber du Faur, N 115, Nr. 4. 87 Un informatore del ministero degli Esteri tedesco a Lubiana riferì all’inizio di maggio del 1941 che tra gli esponenti della minoranza tedesca a Lubiana e a Kocevje, da una parte, e le autorità italiane di occupazione dall’altra parte erano emerse notevoli tensioni: «Tutta la popolazione di origine tedesca [ Volks­ deutschen] è stata molto delusa dal fatto che Laibach e Gottschee siano state occupate da truppe italiane e non tedesche»; minuta [firma illeggibile], An das Auswärtige Amt Berlin, 2.5.1942, in PA AA, Konsulat: Laibach, Akten, Nr. 18 [timbro], 88 Kacin-Wohinz e Pirjevec, Storia degli Sloveni, cit., p. 69; Ferenc, Pro­ vincia, cit., p. 37. Vedi anche il Regio decreto sull’annessione della provincia di Lubiana all’Italia (3.5.1941), in ibidem, pp. 134-137. Cfr. da parte tedesca «Aus dem Rundschreiben des Auswärtigen Amtes vom 17. Mai 1941 über

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die territoriale Aufteilung Jugoslawiens und Griechenlands», ZStA Potsdam, Film Nr. 43368, ora parzialmente riprodotto in Europa unterm Hakenkreuz. VI: Okkupationspolitik des deutschen Faschismus in Jugoslawien, Griechenland, Albanien, Italien und Ungarn (1941-1945), a cura di Martin Seckendorf, BerlinHeidelberg 1996, pp. 145 s. 89 Prunk, Slowenien, cit., p. 128. 90 Vgl. Najvisja stavba v Jugoslaviji, in Slovenska kronika, vol. I, cit., p. 384. 91 Ibidem, p. 36. 92 Hans Lemberg, Grenzen und Minderheiten in östlichen Mitteleuropa Genese und Wechselwirkungen, in Lemberg (a cura di), Grenzen in Ostmittel­ europa, pp. 159-181, qui p. 172. 93 Alberto Pirelli, Taccuini 1922-1943, Bologna 1984, p. 298. 94 Cfr. Robert Luft, «Alte Grenzen» und Kulturgeographie. Zur historischen Konstanz der Grenzen Böhmens und der böhmischen Länder, in Lemberg (a cura di), Grenzen in Ostmitteleuropa, cit., p. 95-135, qui p. 131 s. 95 Tone Ferenc, Nemci na Slovenskem med drugo svetovno vojno, in Necak (a cura di), Nemci, cit., pp. 99-144; Ingrid Kaiser-Kaplaner, Gottscheer Frauenschi­

cksale im 20. Jahrhundert. Eine sozialgeschichtliche Untersuchung Vertriebener anhand von Erzählungen Betroffener, Klagenfurt 1993 ; Suppan, Deutsche Geschi­ chte, cit., pp. 420 s.; Karner, Deutschsprachige Volksgruppe, cit., pp. 93-112. 96 Cfr. Ordinanza sulla direzione delPAmministrazione della Provincia di Lubiana (firmata: Comm. Superiore Rainer), 20.9.1943, in ACS, RSI, SPD, CR 1944-1945, b. 78. Sulla carriera di Rupnik cfr. le informazioni in Suppan, Deutsche Geschichte, cit., p. 411. 97 Cfr. «Slowenen werden kämpfen». Ein Gespräch mit dem Präsidenten der Provinzialverwaltung in Laibach, in «D A Z», 22.10.1944. 98 Per ordine di Reinhard Heydrich del 12 aprile 1941 fu costituito uno «stato maggiore di trasferimento» che aveva il compito di «predisporre e attuare tutti i trasferimenti degli sloveni e - se in termini razziali e politici dovesse rendersi necessario - anche dei windischen nella zona della Bassa Stiria»: «Aus dem Befehl von SS-Obergruppenführer Reinhard Heydrich, Chef der Sipo und des SD, vom 12. April 1941 zur Bildung des Umsiedlungsstabs im CdZ-Gebiet Untersteiermark», ZStA Potsdam, Film Nr. 2438, parzialm. ristampato in Europa unterm Hakenkreuz, vol. VI, cit., p. 139. 99 Pirjevec, Giorno di San Vito, cit., p. 149; Id., Serbi, croati, sloveni, cit., p. 154; Klinkhammer, Grundlinien nationalsozialistischer Besatzungspolitik, cit., p. 189; Hans-Ulrich Wehler, Nationalitätenpolitik in Jugoslawien. Die deutsche Minderheit 1918-1978, Göttingen 1980, p. 69. Suppan, Deutsche Geschichte, cit., p. 406, indica in circa 53 mila il numero degli sloveni deportati in Croazia, in Serbia e nel Reich tra l’inizio di giugno del 1941 e la fine di luglio del 1942. 100 Pirjevec, Giorno di San Vito, cit., p. 149. Nella lettera (annotata a mano come «riservata!») di un informatore tedesco dell’Auswärtiges Amt si legge, fin dall’inizio di maggio del 1941, che il «trattamento degli sloveni da parte delle autorità di occupazione italiane» era «più che indulgente»: minuta [firma illeggibile], An das Auswärtige Amt Berlin, 2.5.1942, in PA AA, Konsulat: Laibach, Akten, Nr. 18 [timbro], 101 Minuta (firmata Brosch), An das Auswärtige Amt Berlin, 26.5.1941, ivi.

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Note

102 Ibidem. 105 Erano festeggiati l’anniversario della occupazione di Lubiana (11 aprile), della fondazione di Roma (21 aprile), e della proclamazione della Provincia di Lubiana (4 maggio), la Giornata dell’Esercito e dell’impero (9 maggio), il giorno della Costituzione o «Giornata dell’unità italiana» (4 giugno), l’anniversario della marcia su Roma (8 ottobre), della vittoria nella Prima guerra mondiale (4 novembre) e la Giornata della madre e del fanciullo (24 dicembre): Rozman, Melik e Repe, Öffentliche Gedenktage, cit., pp. 320 ss. 104 Ibidem, p. 320. 105 UAIS Trieste, Trieste in lotta per la Democrazia, cit. 106 Mario Roatta, Otto milioni di baionette. L’esercito italiano in guerra dal 1940 al 1944, Milano 1946, pp. 166 s., qui cit. da Steinberg, Tutto o niente, cit., p. 34. i°7 p erenc> Provincia, cit., p. 81. 108 Cfr. Poziv sportnega odbora Osvobodilne Fronte sportni mladini za boikotiranje sporta, in «Slovenski porocevalec», 13.12.1941, ora anche in Izdg, Dokumenti Ljudske Revolucije v Sloveniji, vol. I, Maree 1941-Marec 1942, Ljubljana 1962, pp. 224 s. 109 Rodoljub Colakovic, Dragoslav Jankovic e Pero Moraca (a cura di), Storia della Lega dei Comunisti della Jugoslavia, Milano 1965, pp. 328 ss. Vedi anche Josip Vidmar, Gespräch über aktuelle Probleme mit Barbara Goricar (1983), in Vidmar, Verzicht und Behauptung, cit., pp. 195-205, qui p. 201. no p jrjeveC) Giorno di San Vito, cit., p. 155; Prunk, Slowenien, cit., p. 159. 111 Un primo orientamento sulla storia dell’O F si trova nella voce di Z. Ce., Osvobodilna fronta slovenske narode, in Enciklopedija Slovenije, vol. V ili, pp. 199-202. 112 Dolomitska izvaja, così chiamata da un altopiano situato a est-sudest di Lubiana: un’area in cui allora si trovavano i direttivi del movimento partigiano: cfr. Vzijla-Izdg, Narodnoosvobodilna vojna na Slovenskem 1941-1945, Ljubljana 1978, pp. 442-445. Tra i firmatari della dichiarazione erano Edvard Kardelj, Boris Kidric e Frane Leskosek per il Kps, Joze Rus e Franjo Lubej per il Sokol e Edvard Kocbek, Tone Fajfar e Marjan Brecelj per i cristiano-sociali. 115 Ursini-Ursic, Attraverso Trieste, cit., p. 139; vedi anche Renéo Lukic, Les relations soviéto-yougoslaves de 1935 à 1945. De la dépendence à l’auto­ nomie e à l’alignement, Bern 1995, pp. 144 s., e Pirjevec, Giorno di San Vito, cit., p. 173. 114 Ursini-Ursic, Attraverso Trieste, cit., p. 140; vedi anche Macek-Matija, Erinnerungen, cit., p. 283. 115 Un’analoga idealizzazione in termini di democrazia di base si trova in Goldy Parin-Methèy, secondo cui complessivamente la guerra partigiana jugoslava fu condotta «dal punto di vista militare in base a principi anarchi­ ci»: Ursula Rütten, Im unwegsamen Gelände. Paul Parin - Erzähltes Leben, Hamburg 1996, p. 29. 116 Ursini-Ursic, Attraverso Trieste, cit., p. 141. 117 Ibidem. 118 Roberto Gualtieri, Prefazione, in Ursini-Ursic, Attraverso Trieste, cit.,

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pp. XIII-XV, qui pp. X III s., sottolinea questa situazione «aperta» a Trieste come nuova interpretazione, acquisita grazie ai ricordi di Ursini. 1,9 La decisione di avviare la lotta armata in tutta la Jugoslavia fu presa in una seduta dell’ufficio politico del Kpj del 4.7.1941: cfr. Colakovic, Jankovic e Moraca (a cura di), Storia, cit., pp. 363 s. 120 Manoschek, «Serbien ist judenfrei», cit., p. 126. 121 Prunk, Slowenien, cit., p. 130. 122 Ursini-Ursic, Attraverso Trieste, cit., p. 142. 12i Cfr. Pravilnik Narodne Zascite, in «Slovenski porocevalec», 24.1.1942, poi rist. in Izdg, Dokumenti ljudske revolucije, vol. I, cit. pp. 282-283. Da un rapporto tedesco si apprende che su richiesta degli occupanti italiani dall’8 ottobre all’8 novembre 1941 erano stati «uccisi 39 banditi comunisti, feriti 10 e catturati 58». L’autore fa riferimento a un rapporto di Grazioli davanti alla Consulta: minuta [firmata Brosch] an das Auswärtige Amt, Berlin, 8.11.1941, in PA AA, Konsulat: Laibach, Akten, Nr. 18 [Stempel]. 124 Grazioli minacciò anche di chiudere del tutto l’università (ivi). 125 Ursini-Ursic, Attraverso Trieste, cit., p. 143. 126 Ibidem, pp. 144 ss. 127 Macek-Matija, Erinnerungen, p. 191. 128 Cfr. Comunicato del Comandante dell’XI Corpo d'Armata circa l’attuazione del progetto «Primavera» (14.3.1942), in Ferenc, Provincia, cit., pp. 345 s. 129 Ferenc, Provincia, cit., p. 99. 1,0 Ursini-Ursic, Attraverso Trieste, cit., p. 150. 131 Kristof a Quinto, 4.6.1942, in Fondazione Istituto Gramsci, Organizza­ zioni comuniste nella Venezia Giulia, microfilm 104, pacco 2, busta 15. In un rapporto tedesco si legge tra l’altro che la «politica filo-slovena di Grazioli» era andata incontro «all’opposizione dei circoli militari italiani qui»: minuta (firmato Brosch). An das Auswärtige Amt Berlin, 26.5.1941, in PA AA, Kon­ sulat: Laibach, Akten, Nr. 18 (Stempel). 132 Quando l’alto commissario Grazioli si rivolse a tale proposito al governo a Roma, gli fu risposto che le capacità dei campi esistenti in Italia non erano affatto sufficienti per un numero così elevato di detenuti sloveni: cfr. Lettera

dell’Alto Commissario per la provincia di Lubiana circa il previsto internamen­ to massiccio di sloveni, in Ferenc, Provincia, cit., pp. 410 s., e la risposta del Ministero degli Interni, ibidem, nota 3. 133 Pirjevec, Giorno di San Vito, cit., p. 169. 134 Ursini-Ursic, Attraverso Trieste, cit., p. 151. 135 Pietro Brignoli, Santa messa per i miei fucilati. Le spietate rappresaglie italiane contro ipartigiani in Croazia dal diario di un cappellano, Milano 1973; il libro è stato tradotto anche in sloveno col titolo Masa za moje ustreljene, Gorica 1995. 136 (bz), Non solo foibe. «Si ammazza troppo poco», in «D om », n. 7, 1999. 137 Cfr. Zur Neubewertung des italienischen Faschismus, cit., p. 290. 138 II tema è stato studiato di recente dal giornalista italoamericano Michael Palumbo; inoltre, il britannico Ken Kirby ha prodotto un documentario per

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la Bbc che finora non è stato trasmesso da alcun canale Tv pubblico o pri­ vato italiano. Cfr. (bz), Non solo foibe. Impuniti i criminali di guerra italiani, in «Dom », n. 11, 1999; vedi ora anche Brunello Mantelli, Die Italiener auf dem Balkan 1941-1943, in Dipper, Klinkhammer e Nützenadel (a cura di), Europäische Sozialgeschichte, cit., pp. 57-74, qui p. 57. 159 Tra esse la distruzione degli atti, della corrispondenza e dei materiali di propaganda dell’occupante, la confisca delle sue casse, la distruzione di tutte le strutture delle organizzazioni tedesche (Steirischer Heimatbund, Kärntner Volksbund). Gli insegnanti tedeschi, uomini e donne, dovevano essere «liquida­ ti»; le scuole, in quanto strumenti della politica di germanizzazione, dovevano essere date alle fiamme, se necessario. I trasporti di vettovaglie dovevano essere requisiti: Suppan, Deutsche Geschichte, cit., p. 410. 140 «I proprietari aristocratici che si opposero a queste azioni vennero fucilati seduta stante»: ibidem. 141 Janko Prunk, Slovenski narodni programi. Narodni programi v slovenski politicni misli od 1884 do 1954, Ljubljana 1986, pp. 283 s. 142 «Il fronte di liberazione nel suo programma propugna una Slovenia unita e libera, sostiene l’idea della nostra Jugoslavia e la comunità di tutti i popoli slavi sotto la guida del più grande Stato slavo, l’Unione sovietica»: Josip Vidmar, Auf dem Kongreß slowenischer Kulturaktivisten (1944), in Vidmar, Verzicht und Behauptung, cit., pp. 143-158, qui p. 148. 145 II «Balkan», in «II Piccolo», 19.7.1942. Copia del quotidiano è conservata in ARS II, Trzaska kvestura, fase. 1024b. 144 Carlo Tigoli, Si comincia a far piazza pulita di «partigiani» in Slovenia, ivi. 145 Metod Mikuz, Metod, Zgodovina slovenskega osvobodilnega boja, Lju­ bljana 1979, S. 66. 146 Sundhaussen, Experiment Jugoslawien, cit., p. 88. 147 Colakovic, Jankovic e Moraca (a cura di), Storia, cit., p. 361. Sulla «consulta di maggio» si veda anche Irvine, Croat Question, cit., p. 103. Ci sono elementi per pensare che i comunisti croati avessero iniziato a opera­ re a Fiume fin dall’aprile del 1941. Il comitato civico fiumano del Kph fu fondato nel settembre del 1941: cfr. Gaetano La Perna, Pola, Istria, Fiume 1943-1945. L’agonia di un lembo d’Italia e la tragedia delle foibe, Milano 1993, pp. 118 s. 148 La Perna, Pola, Istria, Fiume 1943-1945, cit., p. 178. 149 Dolgan e la sua Compagnia di Pivka (Pivska ceta) celebrarono il 19° anniversario della marcia su Roma facendo deragliare un treno che avrebbe dovuto riportare 300 soldati della Luftwaffe in Russia dopo una vacanza di riposo al mare: ibidem, p. 179 (dove si fa riferimento al giornale partigiano «Slovenski porocevalec» dell’8 novembre 1941, diretto da Ales Bebler). 150 Ibidem, p. 186. 151 Cit. da Ursini-Ursic, Attraverso Trieste, cit., p. 146. «Ferrerò comanda­ va su un territorio lungo la costa adriatica, da Grado a Trieste a Pirano e di lì - attraversando la penisola istriana - a Fiume, che non ne faceva parte»: Gerhard Schreiber, Die italienischen Militärinternierten im deutschen Machtbe­ reich 1943-1945. Verraten, verachtet, vergessen, München 1990, p. 102.

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152 Fogar, Trieste in guerra, cit., p. 35; Pacor, Confine orientale, cit., p. 168; Gatterer, In lotta contro Roma, cit., p. 745. Ora anche Brunello Mantelli, Italiener auf dem Balkan, cit., p. 69, che indica in 120 gli abitanti del villaggio di Podhum fucilati; l’intervento è ora disponibile anche in italiano: Gli italiani

nei Balcani. 1941-1943: occupazione militare, politiche persecutorie e crimini di guerra, in Id. (a cura di), L’Italia fascista potenza occupante: lo scacchiere balcanico, numero monografico di «Qualestoria», voi. 30, n. 1, giugno 2002, pp. 19-35. 153 «Primorski porocevalec», 1.1.1943. Una sintesi in italiano di questa edizione del giornale partigiano sloveno si trova in ARS II, G K, f. 1032b., Umschlag IV. 154 Ferenc, Landwirtschaft, cit., p. 78. 155 Ursini-Ursic, Attraverso Trieste, cit., p. 268. Cfr. la relazione stilata da un funzionario dell’Ozak, Ernährungslage im Küstenland, in «D A Z», 4.2.1945. 156 Drndic, Le armi e la libertà, cit., pp. 160 s. 157 Collotti, Bon Gherardi e Petronio (a cura di), Resistenza, cit., p. 125. 158 Pirjevec, Giorno di San Vito, cit., p. 179, scrive che dopo l’8 settembre il numero dei partigiani di Tito in Jugoslavia raddoppiò nell’arco di un mese. 159 La riunione, cui presero parte anche alcuni comunisti italiani, si svolse nell’ex caserma dei Carabinieri. Sul suo svolgimento cfr. Drndic, Le armi e la libertà dell’Istria, cit., pp. 387 s. 160 Documento C di una raccolta di scritti sulla situazione in Istria dopo l’8 settembre 1943, in FIG Roma, MF 104 (pacco 2, busta 5). 161 Organo antifascista della liberazione nazionale della Croazia, Al popolo croato: L’Istria, Fiume, Zara ed i rimanenti terrritori occupati ritornano alla Croazia, 20.9.1943, in FIG Roma, MF 104 (pacco 2, busta 5). 162 Ivi. 163 Nell’esaminare i diritti che la Jugoslavia voleva concedere alla minoranza italiana occorre tener conto che questa minoranza, se tutti i piani di annessione di Zagabria e Lubiana fossero andati in porto, avrebbe avuto la consistenza di 500 mila persone. In tal caso il gruppo nazionale italiano sarebbe diventato la seconda minoranza più numerosa dello Stato jugoslavo, dopo gli albanesi: Cattaruzza, Der «Istrische Exodus», cit., p. 316. 164 Eric R. Terzuolo, Red Adriatic. The Communist Parties of Italy and Yugoslavia, Boulder-London 1985, p. 26. 165 p jrjeveC) Giorno di San Vito, cit., p. 182. 166 Ferenc e Filipic, Kronologija, cit., pp. 251 s.; Vzijla-Izdg, Narodnoosvobodilna vojna, cit., pp. 556-562. Il litorale sloveno era rappresentato da 200 delegati (120 civili e 80 partigiani): cfr. Metod Mikuz, Pregled zgodovine narodnoosvobodilne borbe v Sloveniji, Ljubljana 1961, vol. Ili, pp. 57 s.; Prunk, Slowenien, cit., p. 134. 167 Cfr. Dilas, Wartime, cit., p. 340. 168 Un piccolo dettaglio può chiarire maggiormente questo aspetto: nell’ot­ tobre del 1944 i partigiani sloveni fondarono nel nord dell’Istria una sezione di marina militare con sede a Capodistria. Quest’ultima aveva provvisoriamente

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competenza solo sulle città della costa, ma al tempo stesso contribuiva a segnalare il diritto degli sloveni a un accesso al mare: Slovenska lstra, cit., p. 862. 169 Dopo la guerra Andrija Hebrang divenne ministro dell’industria nel governo panjugoslavo; perse contatto con i suoi sostenitori croati e nel con­ flitto nell’ambito del Kominform finì con l’appoggiare Stalin contro Tito, venendo così arrestato e probabilmente assassinato (simulando un suicidio): cfr. Pirjevec, Serbi, croati, sloveni, cit., pp. I l i s., e Giacomo Scotti, Goliotok. Italiani nel GULAG di Tito (1991), Trieste 1997, pp. 285-310. La presa di posizione di Tito sulla politica annessionistica del Kph viene citata in Irvine, Croat Question, cit., p. 151. 170 Loredana Bogliun Debeljuh, L'identità etnica. Gli italiani dell’area istroquarnerina, Fiume-Trieste-Rovigno 1994, p. 128. 171 Schiffrer, Aspetti nazionali ed internazionali, cit., p. 194. 172 Einsatztrupp Pola, Einsatzbericht, 25.9.1944, in ARS II, Fonds OZAK, fase. 201. 173 Nella relazione conclusiva della commissione storica italo-slovena si legge che la partecipazione degli sloveni del litorale alla guerra partigiana dimostrò il desiderio della popolazione «che quest’area appartenesse alla Slovenia uni­ ficata»: Dossier Italia-Slovenia, in «Il Piccolo», 4.4.2001, p. IV. 174 Dilas, Wartime, cit., p. 208. 175 Pirjevec, Giorno di San Vito, cit., p. 169. 176 Kardelj, Tito an historischen Scheidewegen, cit., p. 97. 177 Ludwig Steindorff, Zwischen Aufbruch und Repression: Jugoslawien 1945-1966, in Dunja Melcic (a cura di), Der Jugoslawien-Krieg. Handbuch zu Vorgeschichte, Verlauf und Konsequenzen, Opladen-Wiesbaden 1999, pp. 191207, qui p. 191. Jajce segnò anche un peggioramento dei rapporti tra comunisti jugoslavi e sovietici. Questi ultimi fecero sapere a Tito che le decisioni del congresso dell’Avnoj erano per l’Unione sovietica «una pistola puntata alla tempia»: Edvard Kardelj, Der Übermacht zum Trotz. Erinnerungen an Jugo­ slawiens Kampf um Anerkennung und Souveränität 1944-1957, prefazione di Bruno Kreisky, Frankfurt a.M. 1980, p. 42. 178 Prunk, Slowenien, cit., p. 134 s. 179 Ibidem. Già in precedenza c’erano stati inviti analoghi da parte britannica, ma quelli dell’estate del 1944 equivalsero a un ultimatum: cfr. Oberkommando der 1. SS-Panzerarmee, IC/AO , Gefangenenvernehmungen und Beutepapiere (estratto), 29.9.1943, in BA MA Freiburg, RS 2-2, Nr. 21 Tl. 2. 180 Cfr. il seguente contributo sul 45° anniversario di questa organizzazione: Antonio Borme, Quale Unione degli italiani oggi? (Riflessioni, interrogativi,

ipotesi in prossimità delle celebrazioni del XLV anniversario della sua fondazione), in Id., La minoranza italiana in Istria e a Fiume. Scritti e interventi dal 1964 al 1990 in difesa della sua identità e della sua dignità civile, Trieste-Rovigno 1992, pp. 339-346. Vedi anche Gianna Nassisi, Istria 1945-1947, in Colummi, Ferrari et al., Storia di un esodo, cit., pp. 87-144, qui in particolare pp. 100-104. 181 Agit-prop. Obi. K.K.P.H. per l’Istria, Sezione italiana, Appello, 9.7.1944, in Pasquale De Simone, Memorie sull’Istria della Resistenza e dell’Esodo, Gorizia 1971, pp. 104 s.

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182 Borme, Quale Unione degli italiani oggi?, cit., p. 341. 183 Dei 17 membri del primo esecutivo dell’Uiif soltanto due sopravvissero incolumi agli anni del dopoguerra: 4 caddero in combattimento, 5 vennero arre­ stati nel corso del conflitto nel Kominform ed espulsi dall’organizzazione, altri 14 allontanati per altri motivi o costretti alle dimissioni, alcuni di loro perché avevano optato per l’Italia: Bogliun Debeljuh, I! identità etnica, cit., p. 127. 184 Luciano Giuricin e Giacomo Scotti, Una storia tormentata, in Italiani

a Fiume. Nel Cinquantenario del Circolo Italiano di Cultura/Comunità degli Italiani 1946-1996, Fiume-Rijeka 1996, pp. 13-112, qui p. 17. 185 Nassisi, Istria: 1945-1947, cit., p. 103. 186 Erceg, Die Organisation der jugoslawischen Geschichtswissenschaft, cit., p. 305. 187 Cfr. Fran Zwitter, Nas Znanstveni institut, in Ju s Kozak (a cura di), Slovenski Zhornik 1945, Ljubljana 1945, pp. 316-321; Stergar, Sedem desetletij, cit., pp. 20-24. 188 Lavo Cermelj, Italijani iz starih prokrajin Italije v Julijske Krajine (1944), in ARS, Osebna zbirka E. Kardelja, fase. 74. Vedi anche Ferenc, Nemci na Slovenskem, cit., pp. 118 s. 189 Lavo Cermelj, Furlani (1944), Osebna zbirka E. Kardelja, fase. 74. 190 Cfr. però la constatazione di Emil Brix secono cui la prassi dei censimenti asburgici di indicare italiani, ladini e friulani sotto un’unica voce contribuiva a che i friulani non sviluppassero alcuna «identità nazionale distinta» da quella italiana: Emil Brix, Die Umgangssprachen in Altösterreich zwischen Agitation

und Assimilation. Die Sprachenstatistik in den zisleithanischen Volkszählungen 1880-1910, Wien-Köln-Graz 1982, p. 203. 191 Proprio in Cermelj un simile modo di procedere di «sovracorrezione», che da posizioni difensive si converte in aperta aggressività, si osserva abba­ stanza spesso, ad esempio quando egli, in una delle sue pubblicazioni, fa come se i toponimi slavi fossero comunque i più antichi e come se la forma italiana fosse sempre il risultato di una successiva italianizzazione: Cermelj, Sloveni e croati, cit., pp. 329-335. 192 Cfr. Schreiber, Die italienischen Militärinternierten, cit., p. 109. Sul destino dei prigionieri militari italiani vedi anche Gabriele Hammermann, Die italienischen Militärinternierten im deutschen Machtbereich, in Wörsdörfer (a cura di), Sozialgeschichte, cit., pp. 184-206. 193 Schreiber, Die italienischen Militärinternierten, cit., pp. 194, 199 e 240 s. 194 Giancarlo Bertuzzi, La Resistenza, in Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione in Friuli-Venezia Giulia, Storia del ’900, Gorizia 1997, pp. 371-382, qui pp. 372 s. 195 Calie, Sozialgeschichte ethnischer Gruppen, cit., p. 22. 196 Giulio Mellinato, La decadenza del sistema industriale giuliano, in Irsml, Friuli e Venezia Giulia, cit., pp. 273-284, qui p. 280. 197 Visintin, L’Italia a Trieste, cit., pp. 145 s. 198 Tomazic era di famiglia borghese e fu inizialmente iscritto a una orga­ nizzazione studentesca fascista, da cui fu poi espulso. Studiò successivamente a Zagabria, ma dovette lasciare l’università per motivi politici. A ventisei anni,

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Note

nell’ambito del secondo processo di Trieste, fu condannato a morte insieme a quattro compagni di lotta. Apih, Trieste, cit., p. 139, lo definisce «una delle figure più notevoli di Trieste nel ventennio, ricco anche umanamente». 199 Gatterer, In lotta contro Roma, cit., pp. 735-739. 200 Ursini-Ursic, Attraverso Trieste, cit., p. 4; Kacin-Wohinz e Pirjevec, Storia degli sloveni, cit., p. 65. 201 Cfr. Marina Rossi, I prigionieri dello zar. Soldati italiani dell’esercito austro-ungarico nei lager della Russia (1914-1918), Milano 1997. 202 Ursini-Ursic, Attraverso Trieste, cit., pp. 3 s. 203 Comitato Esecutivo di Liberazione Nazionale di Monfalcone, Alla commissione interalleata per la stabilizzazione dei confini della Venezia Giulia (marzo 1946), in INV Ljubljana, Fase. 31, Umschlag 159,1. 204 Sui rifornimenti dell’intendenza cfr. Pacor, Confine orientale, cit., p. 264 e Comitato Esecutivo di Liberazione Nazionale di Monfalcone, Alla commis­ sione interalleata per la stabilizzazione dei confini della Venezia Giulia (marzo 1946), in INV Ljubljana, Fase. 31, Umschlag 159,1. 205 Queste ultime avevano fondato delle proprie intendenze, che entrarono in contatto con l’apparato di rifornimento di Marcuzzi: cfr. Luciano Patat, Mario Fantini «Sasso». Comandante della Divisione «Garibaldi Natisone», Udine 1999, p. 69. Marcuzzi fu nominato dalla Delavska enotnost di Udine coman­ dante dei servizi di approvvigionamento e dei GAP. Arrestato nell’ottobre del 1944, fu torturato per tre giorni nel carcere di Palmanova e poi assassinato: cfr. ibidem, pp. 269 s. 206 Ibidem', Ifsml, Caduti, dispersi e vittime civili dei Comuni della Regione Friuli-Venezia Giulia nella Seconda Guerra Mondiale, Provincia di Trieste, Udine 1991, vol. IV, t. 1, p. 11; Vincenzo Marini, Gli inizi della Resistenza italiana nell’Isontino. La battaglia di Gorizia, in Bruno Steffè, La lotta antifascista nel basso Friuli e nell’Isontino, Milano 1975, pp. 5-22. Vedi anche Goriska franta, in Stanko Petelin-Vojko, Med Triglavom in Trstom. Zgodovina XXXI. Divizije MOV in POJ, Ljubljana 1963, pp. 92-104. 207 Pacor, Confine orientale, cit., p. 190. 208 Ursini-Ursic, Attraverso Trieste, cit., pp. 424 s. Bebler avrebbe persino tentato di convincere Tito e Kardelj che l’Isonzo andasse difeso con le armi contro gli Alleati. 209 Marini, Inizi della Resistenza, cit. 210 Cfr. Franco Frattarelli, Appunto per il Duce, 20.9.1944, in ACS, SPD, CR 1944-1945, b. 12. 211 Ivi. 212 Oberkommando 1. SS-Panzerarmee Ic/AO, 25.9.1943, Nachmeldung zur Ic-Tagesmeldung vom 25.9.1943, in BA MA Freiburg, RS 2-2, Bd. 21, Tl. 2. Cfr. la cartina in Tone Ferenc, Kapitulacija Italije in narodnoosvobodilna borba v Sloveniji jeseni 1943, Maribor 1967, p. 291. 213 Oberkommando der 1. SS-Panzerarmee, Ic/AO, Bandenlage (Einzelna­ chrichten Nr. 2), 8.10.1943, in BA MA Freiburg, RS 2-2, Nr. 21 Tl. 2. I primi scontri sul K m erano avvenuti nel luglio del 1943 tra partigiani della Brigata Gradnik e gli Alpini. Cfr. Borba na Krnu, in Petelin-Vojko, Med Triglavom in Trstom, cit., pp. 36 s.

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214 Pacor, Confine orientale, cit., p. 202. 215 Bertuzzi, La Resistenza, cit., pp. 372 s.; Ifsml, Caduti, cit., voi. IV, t. 1, p. 11; Fogar, Trieste in guerra, cit., p. 65; Patat, Mario fantini, cit., p. 31. 216 II compagno Andrea «dal Comando battaglione Garibaldi», in Giampiero Carocci e Gaetano Grassi (a cura di), Le brigate Garibaldi nella Resistenza. Documenti. I: Agosto 1943-maggio 1944, Milano 1979, p. 94. 217 II numero di effettivi del battaglione crebbe costantemente; nell’arco di otto giorni esso passò da 70 a 110 uomini (di cui 40 erano iscritti al Pei). Cfr. Il compagno Andrea «dal Comando battaglione partigiani Friuli», 27.9.1943, in Carocci, Grassi, Brigate Garibaldi, cit., pp. 95-97, qui p. 95. Al tempo stesso vi era una rigida selezione: 30 uomini dovettero essere mandati via, perché non erano sufficientemente preparati alla guerra partigiana. 218 PK KPS za Primorsko Slovenijo [sic!] a CK KPS, 9.10.1943, in ARS I, Arhiv CK KPS, Fond O K /PK za Slovensko Primorje, skatla 105. 219 Relazione sulla formazione e attività militare della brigata Garibaldi n. 1 in Friuli (inizio di giugno del 1944), in Nisticò (a cura di), Le brigate Garibaldi, cit., pp. 7-11. 220 II compagno Andrea al «Direttivo comunista» e al Comando del battaglione Friuli, 9.10.1943, in Carocci e Grassi, Brigate Garibaldi, cit., pp. 103 s. 221 Patat, Mario Fantini, cit., p. 41. 222 Daiana Franceschini, Porzùs. La Resistenza lacerata, Trieste 1996, pp. 6 s. 223 Relazione sulla formazione e attività militare, cit., p. 9. 224 Pacor, Confine orientale, cit., p. 223; Franceschini, Porzùs, cit., p. 11. 225 Un ordine in tal senso fu emanato il 25.7.1944 dal Cln di Udine, organo direttivo dei partiti antifascisti in Friuli: Franceschini, Porzùs, cit., p. 13. 226 L’espressione «secondo Risorgimento» a proposito delPantifascismo emerge all’inizio degli anni Trenta negli appelli del movimento Giustizia e Libertà, su posizioni di sinistra liberale («liberalsocialista»), Cfr. Santi Fedele,

E verrà un’altra Italia. Politica e cultura nei «Quaderni di Giustizia e Libertà», Milano 1992, pp. 18 s.; vedi anche Jens Petersen, Wandlungen des italienischen Nationalbewusstseins nach 1945, in «Q FIA B », 71/1991, pp. 699-748, in particolare pp. 710 s. 227 Cfr. le osservazioni generali di Paolo Gaspari, Le campagne friulane, in Irsml, Friuli e Venezia Giulia, cit., pp. 53-66. 228 Ibidem, p. 65. 229 Dopo la Prima guerra mondiale l’amministrazione militare italiana inizialmente aveva rifiutato di consentire ai portavoce dei cristiano-sociali friulani, don Luigi Faidutti e Giuseppe Bugatto, di fare ritorno in Friuli da Vienna: Visintin, L’Italia a Trieste, cit., p. 73. 230 Pavone, Guerra civile, cit., p. 445. 231 Aldo Moretti, Movimenti ideali della Resistenza in Friuli 1942-1945, dattiloscritto, IRSML, Trieste, CXXIV/5150, cit. da Fogar, Trieste in guerra, cit., p. 81. 232 Al proprio superiore ci si rivolgeva chiamandolo «comandante», e non «signor sottotenente» né semplicemente con il nome in codice. Ai partigiani,

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Note

o «patrioti» come si definivano nelle unità Osoppo, non era permesso espri­ mere lamentele sul comportamento dei loro superiori; in ogni caso dovevano dare priorità alla via gerarchica o alla struttura di comando: Pavone, Guerra civile, cit., p. 126. 233 Cfr. Franceschini, Porzùs, cit., p. 13. 234 Collotti, Bon Gherardi e Petronio (a cura di), Resistenza, cit., p. 126. 235 Massimo Rendina, Dizionario della Resistenza italiana, presentazione di Arrigo Boldrini, Roma 1995, p. 153. 236 Cfr. Padoan, Abbiamo lottato insieme, cit., pp. 154 s.; Patat, Mario Fantini, cit., pp. 85-92. 237 Patat, Mario Fantini, cit., pp. 136 s. 238 II Comando della brigata Ippolito Nievo al Comando unificato GaribaldiOsoppo, in Nisticò (a cura di), Le brigate Garibaldi, cit., pp. 331 s. 239 Ibidem, p. 331. 240 Secondo i dati forniti da Padoan gli occupanti misero in campo oltre 29 mila uomini, 60 mezzi corazzati, altrettanti veicoli da trasporto e batterie di artiglieria su treni blindati che percorrevano le tratte Udine-Tarvisio e Udine-Gorizia-Trieste: Padoan, Abbiamo lottato insieme, cit., p. 181. Vedi anche la ricostruzione dell’azione di rastrellamento in Carlo Gentile, La repressione antipartigiana tedesca nel Veneto e nel Friuli, in Istituto veneto per la storia della Resistenza, La società veneta dalla Resistenza alla Repubblica. Atti del convegno di studi, Padova, 9-11 maggio 1996, cit., pp. 171-213, qui pp. 209 s. 241 L’autore di un’ampia relazione sulla lotta partigiana in Friuli sostiene la tesi secondo cui l’unificazione con la Osoppo non ci fu per due motivi: in primo luogo i capi della Osoppo avrebbero osteggiato l’unificazione, e in secondo luogo tra i garibaldini era diffuso un atteggiamento settario che rifiutava la collaborazione con le brigate Osóppo: Relazione su un’ispezione in Friuli dal 24 ottobre all’11 novembre 1944, in Nisticò (a cura di), Le brigate Garibaldi, cit., pp. 562-568. 242 II 9 novembre 1943 la Osvobodilna fronta aveva proclamato l’obbligo generale di leva dall’età di 14 anni. Nei territori liberati dall’O F rimasero aperte solo le scuole controllate da questa organizzazione. Nel gennaio del 1944 una tipografia partigiana stampò il primo libro di testo, e poco dopo comparvero anche riviste specializzate per insegnanti edite dai partigiani: cfr. Andri e Mellinato, Scuola e confine, cit., pp. 358 s. 243 Patat, Mario Fantini, cit., pp. 92 ss. 244 Giampaolo Valdevit, Liberazione e occupazione. Gli alleati fra tre Resisten­ ze, in Franco De Felice (a cura di), Antifascismi e Resistenze, Roma («Annali della Fondazione Istituto Gramsci», VI) 1997, pp. 387-406, qui p. 395. 245 Con «Veneto» si allude qui alla Slavia veneta o alla Beneska Slovenija, il territorio abitato dalla minoranza slovena nella provincia di Udine, appartenuto all’Italia dal 1866 in poi. La Val Resia (Rezija in sloveno) si trova a nord della Benecija (Slavia veneta) e collega le valli dei fiumi Fella e Isonzo. È la parte più remota dell’antico territorio popolato da slavi della Repubblica di Venezia:

Il commissario politico del Briski Beneski Odred, Zorko, al commissario politico della divisione Garibaldi-Osoppo, Vanni, 27.8.1944, in Nisticò (a cura di), Le brigate Garibaldi, cit., pp. 276 s., qui p. 277.

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246 Ibidem. 247 II commissario politico della 1“ divisione Garibaldi-Osoppo, Vanni, al commissario politicp del Briski Beneski Odred, Zorko, 29.8.1944, in Nisticò (a cura di), Le brigate Garibaldi, cit., pp. 293 s. 248 Cfr. Franceschini, Porzùs, cit., p. 35. 249 Nella zona di Paularo, nelle Alpi carniche, stazionavano 4 mila soldati provenienti dal Caucaso, mentre le Prealpi carniche e l’alta valle del Tagliamento erano presidiate da 18 mila cosacchi: cfr. Gentile, Repressione antipartigiana, cit., p. 206. 250 II numero totale delle perdite tra i partigiani nella Carnia fu, secondo dati tedeschi, di 109 morti e 165 prigionieri (tra cui quattro britannici). Inoltre 262 persone vennero condotte ai lavori forzati: Gentile, Repressione antipar­ tigiana, cit., p. 212. 251 I tedeschi avevano un forte bisogno di manodopera per i lavori di for­ tificazione sul Piave e sul Tagliamento; per questo giunse loro a proposito Inattività di mediazione» dell’arcivescovo Nogara, che invitò i partigiani a deporre le armi e a presentarsi alle autorità tedesche con la promessa di un buon trattamento e di un lavoro: Informazioni da Udine, in Claudio Pavone (a cura di), Le Brigate Garibaldi nella Resistenza, Documenti. Ili: Dicembre 1944-maggio 1945, Milano 1979, pp. 166-169. 252 Cfr. l’interpretazione di Valdevit, Liberazione e occupazione, cit., p. 392. Sulla base di una nuova valutazione della situazione nel teatro di guerra gli Alleati intensificarono le loro attività di appoggio ai partigiani fin da dicembre. Cfr. Gerhard Schreiber, Deutsche Kriegsverbrechen in Italien. Täter, Opfer, Strafverfolgung, München 1996, p. 205. 255 Pavone (a cura di), Le Brigate Garibaldi, cit., voi. Ili, p. 166. 254 Pattuglie della Garibaldi vennero fermate e rimandate indietro con la motivazione che questa zona era di competenza della Osoppo. Alla 157a bri­ gata Picelli (garibaldina) furono tolti i vettovagliamenti; un garibaldino che in codice si chiamava Alighieri fu trovato ucciso. Un comandante degli osovani fu accusato di aver ucciso altri quattro garibaldini: Il Comando della divisione

Natisone al Comando generale Cvl, alla Delegazione triveneta, al Clnai, al Cln provinciale, 21.12.1944, in Pavone (a cura di), Le Brigate Garibaldi, cit., voi. Ili, pp. 121-125, qui p. 124. Uno degli assassini fu poi condannato a morte da un tribunale partigiano della Osoppo: Franceschini, Porzùs, cit., p. 56. 255 Vi furono delle intese tra i partigiani della Osoppo ed esponenti della milizia fascista per un’azione comune contro i saccheggi dei cosacchi. Si tratta dell’unico caso di contatti segreti con collaborazionisti del nazismo nella cui fase iniziale siano stati coinvolti garibaldini friulani, che tuttavia successiva­ mente si ritirarono. Il risultato concreto dei negoziati fu la creazione di una base d’appoggio mista in una località friulana, i cui membri avrebbero dovuto concentrarsi sulla vigilanza nei confronti dei cosacchi. I soldati di questa guar­ nigione, anche gli osovani, indossavano uniformi della milizia fascista; alcuni di loro furono evidentemente chiamati a svolgere a Udine anche azioni di rastrellamento contro partigiani: Franceschini, Porzùs, cit., pp. 67 ss. 256 La federazione di Udine del Pei al Triumvirato insurrezionale del Veneto, 12.2.1944, in Pavone (a cura di), Le Brigate Garibaldi, cit., vol. Ili, pp. 353 s., qui p. 353.

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Note

257 A Vittorio, 6.12.1944, in FIG , OCVG, Microfilm 104, pacco 2, busta 15. 258 Ivi. 259 Cfr. Stefano Di Giusto, L’autonomismo friulano 1945-1964, in Irsml, Friuli e Venezia Giulia , cit., pp. 453-464. 260 «Il Comando del IX Korpus al commissario politico della divisione Natisone, Vanni», 22.10.1944, in Nisticò (a cura di), Le brigate Garibaldi, cit., pp. 469-471. I nomi dei firmatari erano illeggibili ma si trattava evidentemente di Ladislav Ambrozic e Janez Hribar, rispettivamente comandante e commissario politico del IX Korpus. 261 Ho tratto tutti i dati che seguono dall’appendice Das 9. Korps der Slowenischen Volksbefreiungsarmee 1943-1945, in Zdravko Klanjscek, Deveti korpus slovenske narodnoosvohodilne vojske 1943-1945, Ljubljana 1999, pp. 561-563. 262 Ibidem, p. 563. 263 Ibidem. 264 Al momento della sua costituzione facevano parte del IX Korpus 6 mila partigiani: questo numero un anno dopo era raddoppiato. Stanko Petelin indica il numero alla fine di gennaio del 1945 in 11.840 partigiani ufficiali, di cui tuttavia solo 10.125 prestavano servizio effettivo. Vi erano compresi anche i partigiani della Garibaldi Natisone, trasferiti a Cerkno e poi ancor più in là verso Lubiana: cfr. Stanko Petelin, Osvoboditev slovenskega primorja, Nova Gorica 1965, p. 61, qui cit. da Collotti, Bon Gherardi e Petronio (a cura di), Resistenza, cit., p. 125. 265 Petelin-Vojko, Med Triglavom in Trstom, cit. 266 Questa suddivisione si delineò già nel settembre del 1943. Si veda so­ prattutto: Hauptstab des Volksbefreiungsheeres und der Partisanenabteilung Sloweniens, Befehl vom 20.9.1943, in BA MA Freiburg, RS 2-2, Nr. 21 Tl. 2, SS-Pz.-AOK 1/Ic-AO an Heeresgruppe B/Ic, 5.10.1943, Beuteunterlagen. 267 La tratta Trieste-Lubiana, insieme alla ferrovia di Pontebba, era consi­ derata una delle linee più insicure di tutta la regione. Già alla fine del 1943 il generale Kübler aveva chiesto l’«impiego di treni corazzati per la sicurezza delle tratte-chiave Laibach-Trieste e Tarvisio-Udine»: BA MA Freiburg, Krieg­ stagebuch Nr. 1, A.O.K. 14, 21.11.43-23.1.44, qui 22.12.1943. 268 Dilas, Wartime, cit., p. 339. 269 L’importanza degli ospedali partigiani per l’efficienza della lotta di liberazione jugoslava è sottolineata da Parin, Es ist Krieg, cit., p. 154. 270 Research Institut Ljubljana, Allied Airmen and Prisoners ofWar rescued

by thè Slovene partisans. Compiled after thè records of thè Head Quarter of Slovenia, Ljubljana 1946. 271 Klanjscek, Deveti korpus, cit., p. 563. 272 Jaka Avsic, all’epoca già capo della missione militare jugoslava presso il quartier generale alleato a Berlino, lo affermò con le seguenti, enfatiche parole: «O ggi i nostri confini occidentali sono difesi dal possente IX Korpus dell’Esercito di liberazione nazionale e dai reparti partigiani, e nessuno ce lo potrà impedire». E ripetè la frase pronunciata da Tito nel discorso per l’anniversario della Brigata dalmata: «In questa lotta saranno liberati i nostri

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fratelli in Istria, nel litorale sloveno e in Carinzia»: Avsic, Our First March, cit., p. 23. 273 Garibaldini e osovani avevano deciso da tempo di esporre il problema dei rapporti con gli sloveni al Comando regionale triveneto da cui direttamente dipendevano. Stilarono quindi una lettera in tal senso, ma molto tempo dopo, nella seconda metà di ottobre, non erano ancora riusciti a farla pervenire ai destinatari: Franceschini, Porzùs, cit., p. 36. 274 II Comando del IX Korpus al commissario politico, cit., p. 470. 275 L’espressione schwebendes Volkstum, fortemente legata alle idee essenzialistiche, si deve allo studioso di diritto pubblico austriaco Theodor Veiter, che la usava per indicare settori della popolazione che «oscillano» tra due o più gruppi etnici o nazioni. Un noto esempio, nella regione dell’Alpe Adria, è costituito dal gruppo dei cosiddetti windischen della Carinzia: cfr. Theodor Veiter, Die

Kärntner Ortstafelkommission. Arbeit und Ergebnisse der Studienkommission für Probleme der slowenischen Volksgruppe in Kärnten 1972-1975, Klagenfurt 1980, pp. 54 e 60; Rolf Wörsdörfer, La costruzione di un gruppo etnico nel ventesimo secolo: Il fenomeno dei «Windischen» nelle alpi orientali (1920-1991), in «Qualestoria», n. 1/2005, pp. 47-67. 276 Sulle «identità fluide» degli ambienti socialdemocratici di Trieste cfr. le riflessioni di Rutar, Kultur-Nation-Milieu, cit., pp. 334 ss. 277 Pripombe Mihe, zu: Joza, Centralnemu komitetu KPS! Dragi tovarisi! (26.10.1944), in ARS I, Arhiv CK KPS, Fond Oblastni/Pokrajinski komitet za Primorsko, skatla 19. Cfr. la versione della conversazione tra Martin Greif-Rudi, Skalar, Padoan e Mario Fantini (Sasso) data da Padoan in Abbiamo lottato insieme, cit., pp. 220 ss.; alcuni estratti di tale conversazione sono riprodotti in Gatterer, In lotta contro Roma, cit., pp. 938 s. 278 II Comando della divisione Natisone al Comando generale Cvl, alla De­ legazione triveneta, al Clnai, al Cln provinciale, 21.12.1944, in Pavone (a cura di), Le Brigate Garibaldi, cit., vol. Ili, pp. 121-125. 279 Ibidem, cit., p. 121. 280 Cfr. Padoan, Abbiamo lottato insieme, cit., p. 17. 281 II capo di stato maggiore della divisione Natisone, Virgilio, al comando del IX Corpo d’armata, 13.1.1945, in Pavone (a cura di), Le Brigate Garibaldi, cit., vol. Ili, pp. 227-230. La marcia durò dal 24 dicembre 1944 al 5 gennaio 1945. A Cerkno esiste un ossario con una lapide commemorativa dedicata a 500 partigiani caduti, tra cui 98 italiani: cfr. la parte iconografica di Giacomo Scotti, Juris, furisi All’attacco! La guerriglia partigiana ai confini orientali d’Italia 1943-1945, Milano 1984. 282 Cfr. Razpis staba XXXI. Divizije z dne 16. Febr. 1945, cit. in Petelin Vojko, Med Triglavom in Trstom, cit., pp. 478 s. Vedi anche KPS, Obkom za Slovensko Primorje an alle Kreiskomitees der KPS, 20.2.1945, in ARS I, Arhiv CK KPS, Fond Oblastni/Pokrajinski komitet za Primorsko, skatla 105. 283 La sezione cultura, stampa e propaganda del Comando della divisione

Natisone al responsabile stampa e propaganda presso il IX Corpo d’armata, «compagno» Sasa, 27.1.1945, in Pavone (a cura di), Le Brigate Garibaldi, cit., vol. Ili, pp. 291 s. 284 Ibidem, p. 292.

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Note

285 Padoan, Abbiamo lottato insieme, cit., p. 300. 286 Ibidem, p. 224. 287 Scotti, Goli otok, cit., pp. 298 s. 288 Si veda ad esempio un’annotazione tedesca su disertori delle unità sarde: Kriegstagebuch Armeegruppe v. Zangen, 24.1.1944-4.7.1944, qui: 29.1.1944, in BA MA Freiburg, RH 24-87, Nr. 32. 289 Cfr. una relazione del Battaglione Heine, operante presso Idria, sugli scontri avvenuti in occasione del grande attacco dei partigiani del 18-19 marzo 1944, in 188. Gebirgs-Division, Division Nr. 188,188. Reserve-Gebirgs-Division, in BA MA Freiburg, RH 28-188, Nr. 8. 290 «Perciò sul berretto venne applicata la coccarda tricolore e al collo il fazzoletto rosso garibaldino. Gli sloveni per un po’ ci guardarono con diffi­ denza chiamandoci badogliani. A una riunione con il comando locale sloveno ci fu, a questo proposito, una discussione burrascosa. Pure arrivammo a un accordo sulla base di un compromesso. Fu deciso che sull’emblema tricolore sarebbe stata applicata una stella rossa. Così facemmo e tale accordo durò fino all’aprile 44, quando sul berretto venne messa la stella tricolore del C.V.L.»: Padoan, Abbiamo lottato insieme, cit., pp. 31 s. 291 II bianco-azzurro-rosso della bandiera slovena risale a quelli che già nel XV secolo erano i colori della Carniola. Messa in discussione nell’Ottocento, la bandiera slovena fu dispiegata nel 1918 dalle truppe del generale Majster e dal primo governo sloveno: cfr. Igor Luksic, Politische Rituale und Symbole als Mittel der Identitätsstiftung in Slowenien, in Andreas Pribersky, Bertold Unfried (a cura di), Symbole und Rituale des Politischen. Ost und Westeuropa im Vergleich, Frankfurt a.M. 1999, pp. 175-183, qui pp. 178 s. 292 Sebbene la bandiera con la sahovnica, lo stemma a scacchi bianchi e rossi, fosse anche quella del regime ustase, nel 1944 essa ricordava ancora la Resistenza croata contro l’Italia fascista: cfr. Allegato di trascrizione 2, Glas Primorja («La voce del litorale»), in ARS II, Fonds OZAK, fase. 202. Sui sim­ boli croati vedi anche Hannes Grandits, Carolin Leutloff, Diskurse, Akteure,

Gewalt - Betrachtungen zur Organisation von Kriegseskalation am Beispiel der Krajina in Kroatien, in Höpken, Riekenberg (a cura di), Politische und ethnische Gewalt, cit., pp. 227-257, qui p. 230. 293 «L a polizia “jugoslava” autodesignata strappava e confiscava le bandie­ re slovene come fanno oggi la Gestapo e l’Ovra; e ciò anche se il “capo del popolo sloveno”, Anton Korosec, era ministro degli Interni!»: Vilhar, Confini sloveni, cit., p. 7. 294 Dilas, Wartime, cit., p. 92. 295 Cfr. Naumovic, Opanken im Parlament, cit., p. 74. 296 Recentemente il tricolore italiano nelle sue diverse varianti è stato oggetto di varie esposizioni e indagini storiche, senza che i loro curatori e autori si siano ricordati della bandiera bianca, rossa e verde con la stella rossa che fu diffusa fino al 1954 nel nord-est italiano e nel Territorio libero di Trieste: cfr. il catalogo Mostra storica del Tricolore 1797-1997. Museo Centrale del Risorgimento Italiano, Roma 1997. Vedi anche Gianni Oliva, Il Tricolore, in Isnenghi (a cura di), Luoghi della memoria, cit., vol. I, pp. 3-13, e Fiorenza Tarozzi e Giorgio Vecchio (a cura di), Gli italiani e il Tricolore.

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Patriottismo, identità nazionale e fratture sociali lungo due secoli di storia, Bologna 1999. 297 II comandante del 1° battaglione della brigata Natisone, Binchi, al Co­ mando della brigata, 26.5.1945, in Pavone (a cura di), Le Brigate Garibaldi, cit., voi. Ili, p. 718. 298 Allegato. Testo dell’accordo stipulato tra i rappresentanti delle formazioni patriottiche Osoppo e Garibaldi Friuli il 20 gennaio 1945 nella zona nord, in ibidem, pp. 316-319, qui p. 317. 299 Pacor, Confine orientale, cit., p. 226. 300 Franceschini, Porzùs, cit., p. 110; Alessandra Kersevan, Porzùs. Dialoghi sopra un processo da rifare, Udine 1997. 301 Padoan, Abbiamo lottato insieme, cit., pp. 118 s. 302 Deposizione del teste Gaetano Valente al dibattimento in corte d’Assise (processo di Lucca sui fatti di Porzùs), cit. da Franceschini, Porzùs, cit., p. 110 .

303 Scotti, Juris, juris!, cit., pp. 87 s. 304 Pavone, Guerra civile, cit., p. 401. 305 Questionario del febbraio 1945 preparato dal commissario delle brigate SAP F. Ghinaglia-Cremona, IFG , Archivio PCI, cit. ivi. 306 II compagno Andrea «dal Comando battaglione Friuli», 27.9.1943, in Carocci e Grassi, Brigate Garibaldi, cit., pp. 98-102. 307 Ibidem, pp. 98 s. 308 Su questo sfondo, anche il commissario politico Andrea era disposto a compromessi ed emise una circolare sui simboli politici: i garibaldini avrebbero rinunciato alla stella rossa, alla definizione di «partigiani» e al saluto con il pugno chiuso, se ciò contribuiva a conquistare simpatie (ibidem). 309 In una lettera slovena si legge: «Contro di ciò abbiamo duramente protestato fin dall’inizio; ora cercheremo tutti i mezzi e le vie per impedirlo. Sembra che su questo punto abbiano ricevuto ordini dall’alto»: Iz pisma tov. Joze z dne 11.7.1944 (foglio 12464), in ARS I, Arhiv CK KPS, Fond Obla­ stni/Pokrajinski komitet za Primorsko, skatla 19. 310 «Iz pisma tovarisa Mihe», parte di una raccolta di citazioni senza data da lettere di Sentjurc, Vratusa e Miha, Dok. 11656 (manoscr.), foglio n. 12464-12466, in ARS I, Arhiv CK KPS, Fond Oblastni/Pokrajinski komitet za Primorsko, skatla 19. 311 Stab Brisko Beneskega Odreda NOV in PO S a Obkom KPS za Slovensko Primorje, 29.7.1944, in ARS I, Arhiv CK KPS, Fond Oblastni/Pokrajinski komitet za Primorsko, skatla 103. 312 «L a linea-guida da cui gli esponenti della guardia azzurra traggono la loro forza propagandistica è l’accusa secondo cui l’O F collaborerebbe con gli italiani. [...]. La prova di ciò è un velenoso volantino senza la firma “Sloveni del litorale” . Si tratta chiaramente della risposta all’appello di entrambi i partiti [Pei e Kps] del 25 luglio e al volantino dell’Ode sulla stessa questione». La principale accusa dei nazionalisti è che i comunisti sloveni volevano liberare la regione per l’Italia: Simon, Vran, Tovarisici Jozi, 10.8.1944, in ARS I, Arhiv CK KPS, Fond Oblastni/Pokrajinski komitet za Primorsko, skatla 19.

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Note

313 In ciò ogni mezzo o quasi era lecito per loro, come si desume da un ordine in proposito: cfr. Befehlshaber in der Operationszone Adriatisches Küstenland, Abt. Ic, betr.: Vernehmung von Gefangenen, 29.5.1944, in ARS II, OZAK, Fase. 215. 314 188. Res.Geb.Div. Abt.Ic, Div.St.Qu., den 14.3.44, Richtlinien für Ver­ nehmung über Feindlage (Ic), in 188. Gebirgs-Division, Division Nr. 188, 188. Reserve-Gebirgs-Division, BA MA Freiburg, RH 28-188, Nr. 8. 315 Allegato a Befehlshaber in der Operationszone Adriatisches Küstenland Abtl. Ic, Betr.Vernehmung von Gefangenen, 29.5.1944, in 188. Gebirgs-Division, Division Nr. 188, 188. Reserve-Gebirgs-Division, in BA MA Freiburg, RH 28-188, Nr. 8. 316 Per questo fu considerato un particolare evento il fatto che la Wehr­ macht una volta riuscisse a rastrellare e annientare un’intera scuola di partigiani. Il 27 gennaio 1944 il Battaglione Heine, di stanza a Idria (Idrija in sloveno) attaccò una scuola per sottufficiali dei partigiani a Circhina (Cerkno); secondo i dati forniti dai tedeschi furono uccisi 112 partigiani, «tra cui 1 comandante di battaglinone] e 2 di com pagnia]». Nel rapporto si legge anche: «G li allievi del corso per sottufficiali a Circhina, stando alle affermazioni dei prigionieri, provenivano da diverse brigate e si sarebbe con­ cluso di lì a due giorni»: Gefechtsbericht der 2./G eb.Jäg.Btl.Heine fuer das Unternehmen gegen Circhina am 27. Jänner 1944, in 188. Gebirgs-Division, Division Nr. 188, 188. Reserve-Gebirgs-Division, BA MA Freiburg, RH 28188, Nr. 8. Vedi anche le diverse indicazioni in Ferenc, Filipic, Kronologija, cit., p. 265, dove si parla di 63 partigiani caduti. In un testo dell’Obkom (comitato regionale, secondo la terminologia sovietica) del Kps del litorale si parla, a tale proposito, di una «catastrofe a Cerkno», in occasione «della quale abbiano perso molti buoni quadri [...]»: Obkom KPS za Slovensko Primorje a CK KPS, in ARS I, Arhiv CK KPS, Fond O K /PK za Slovensko Primorje, skatla 105. 317 Giorgio Iaksetich, La brigata «Fratelli Fontanot». Partigiani italiani in Slovenia, prefazione di Mario Lizzerò, Milano 1982, pp. 102 s. 318 Claudio Natoli, Antifaschismus und Resistenza in der Geschichte des italienischen Einheitsstaats, in Petersen, Schieder (a cura di), Faschismus und Gesellschaft, cit., pp. 307-327, qui p. 318. 319 II compagno Andrea «dal Comando battaglione Friuli», 27.9.1943, in Carocci e Grassi, Brigate Garibaldi, cit., pp. 98-102. Nel caso degli osovani esisteva la funzione del «delegato politico», che aveva compiti molto simili a quelli del commissario nelle unità garibaldine e dell’O F 320 Cfr. Damijan Gustin, Uloga in pomen oborozene sile v narodnoosvobodilnem boju v Sloveniji 1941-1945, in «Zgodovinski casopis», n. 3, 1991, pp. 461-478, qui p. 477. Nella Narodna zascita (la polizia militare slovena), era necessaria la presenza di un commissario fin dal plotone e dalla compagnia in su. Cfr. Comando generale delle truppe partigiane slovene sul terreno 30 aprile 1942/Nr. 10/11, in ARS II, Trzaska kvestura, fase. 1024b. 321 Sulla divisione del lavoro tra il comandante e il commissario nello stato maggiore dei partigiani sloveni cfr. VZIJLA-IZDG, Narodnoosvobodilna vojna, cit., p. 816. 322 Padoan, Abbiamo lottato insieme, cit., p. 41.

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525 Ibidem.

324 Rossana Rossanda, Die Entstehung von 11 Manifesto aus der Krise des Kommunismus in Italien, in Id., Über die Dialektik von Kontinuität und Bru­ ch. Zur Kritik revolutionärer Erfahrungen —Italien, Frankreich, Sowjetunion, Polen, China, Chile, Frankfurt a.M. 1975, pp. 7-47, qui p. 17. Il testo tedesco è trad, dal francese, Rossana Rossanda, Il Manifesto. Analyses et thèses de la nouvelle extreme-gauche italienne, presentées par Rossana Rossanda, Paris 1971, pp. 9-39. 325 II Comitato federale di Trieste del PCI al comandante del battaglione Trieste (dicembre 1943), in Carocci e Grassi, Brigate Garibaldi, cit., pp. 179181, qui p. 181. 326 PK KPS za Primorsko Slovenijo a CK KPS, 28.1.1944, in ARS I, Arhiv CK KPS, Fond O K /PK za Slovensko Primorje, skatla 105. 327 Iaksetich (a cura di), Brigata «Fratelli Fontanot», cit., p. 25. 328 Allegato. Testo dell’accordo stipulato tra i rappresentanti delle formazioni

patriottiche Osoppo e Garibaldi Friuli il 20 gennaio 1945 nella zona nord, in Pavone (a cura di), Le Brigate Garibaldi, cit., vol. Ill, pp. 316-319, qui p. 317. 329 Sulla difesa dell’«italianità» del Friuli a opera dei partigiani della G ari­ baldi Natisone cfr. la lettera A Vittorio, 6.12.1944, in FIG , OCVG, Microfilm 104, pacco 2, busta 15. 330 Cfr. Il Comando coordinamento Garibaldi Osoppo Friuli ai Comandi dei Gruppi di brigate dipendenti e della brigata mista Ippolito Nievo, 2.11.1944, in Nisticò (a cura di), Le brigate Garibaldi, cit., pp. 525-527, qui p. 526. 331 Sulla istruzione militare nelle unità slovene in generale si veda Vojasko solstvo, in Vzijla-Izdg, Narodnoosvobodilna vojna, cit., pp. 817 s.; sulla forma­ zione politica cfr. Vida Dezelak-Baric, Med formalno, emocionalno in zavestno pripadnostjo Komunisticni partiji Slovenije v casu okupacije, in «Prispevki za novejso zgodovino», n. 2, 1997 (Ferencev zbornik), pp. 291-300. 332 CK KPS, Komisija za agitacijo in propaganda an Obkom KPS za Sloven­ sko Primorje, 22.3.1945, in ARS I, Arhiv CK KPS, Fond Oblastni/Pokrajinski komitet za Primorsko, skatla 103. Si trattava dell’articolo Narodnostno vprasanje

v luci narodnoosvobodilnega boja. Borba proti okupatorju prva in najvaznejsa naloga, che a partire dalla fine del 1943 circolò tra i partigiani sloveni in una versione copiata a mano: Joze Krall, Partizanske tiskarne na Slovenskem. I: Osrednje tiskarne, Ljubljana 1972, p. 87. La versione serbo-croata era stata pubblicata nel n. 16 (dicembre 1942) del quotidiano Proleter. Tito sottolineava qui tra l’altro che la liberazione della Jugoslavia doveva essere al tempo stesso «la liberazione dei croati, degli sloveni, dei serbi, dei macedoni, degli arnauti, dei musulmani ecc.»: cit. da Edvard Kardelj, Tito und die Kommunistische Partei Jugoslawiens, cit., p. 45. 333 Ucni nacrt za partijske sole pri divizijah NOV Slovenije in pri okroznih komitetih KPS, in ARS I, Arhiv CK KPS, Fond O K /PK za Slovensko Pri­ morje, skatla 105. 334 Obkom KPS za Slovensko Primorje, Agit-prop komisija, Vsam agitprop komisijam pri okroznih komitetih KPS, 13.4.1944, in ARS I, Arhiv CK KPS, Fond O K /PK za Slovensko Primorje, skatla 105. Nel maggio 1942 le

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Note

autorità italiane giunsero in possesso di un esemplare dell’opuscolo di Vilhar e ne promossero una traduzione in italiano. Cfr. Paolo Vilhar, Dei confini sloveni - O slovenskih mejah. Pubblicazione della Commissione di propaganda del Comitato centrale del Partito Comunista Sloveno, allegato a: R. Prefettura della Provincia di Trieste ad Alto commissariato della Provincia di Lubiana, 17.5.1943, in ARS II, G K , f. 1032b, busta III. 335 Glenda Sluga, The Problem of Trieste and the Italo-Yugoslav Border. Difference, Identity and Sovereignity in Twentieth-Century Europe, New York 2001, p. 66. 336 Krall, Partizanske tiskarne, cit., p. 223. Sull’importanza di questo di­ scorso cfr. Nevenka Troha, Politika slovensko-italijanskega bratstva (Slovansko-

ltalijanska antifasisticna unija v coni A Julijske Krajine v casu od osvoboditve do uveljavitve mirovne pogodbe), Ljubljana 1998, p. 25; Joze Pirjevec, Mosca, Roma e Belgrado, in Marco Galeazzi, Roma-Belgrado. Gli anni della guerra fredda, Ravenna 1995, pp. 85-93, qui pp. 85 s. 337 La versione italiana ebbe una tiratura di 2 mila copie; Krall, Partizanske tiskarne, cit., p. 223. 338 La busta del calenderio era ornata da un dipinto creato appositamente dall’accademico Bozidar Jakac, ibidem, p. 103. 339 Dell’opuscolo di Smodlaka nell’ottobre del 1944 erano state stampate 6 mila copie in lingua slovena (O razmejitivi med Jugoslavijo in Italijo); all’inizio di dicembre seguirono 2 mila copie della traduzione italiana (Sulla definizione dei confini tra la Jugoslavia e l’Italia). Cfr. Krall, Partizanske tiskarne, cit., pp. 230 e 253. Cfr. un intervento del prefetto di Trieste sull’opuscolo di Smod­ laka: Testo stenografico delle dichiarazioni fatte dal Prefetto di Trieste nella riunione del 7 novembre 1944 ai rappresentanti degli enti statali ed economici della città, in ACS, RSI, SPD, CR 1944-1945, b. 13. L’opuscolo di Smodlaka è stato nuovamente riprodotto, con il titolo Sulla delimitazione dei confini tra Jugolavia e l’Italia, in Sestan, Venezia Giulia, cit., pp. 153-169. 340 Dragi tovaris, senza data (dicembre 1944), in ARS I, Arhiv CK KPS, Fond Oblastni/Pokrajinski komitet za Primorsko, skatla 19; vedi anche Iaksetich (a cura di), Brigata «Fratelli Fontanot», cit., p. 25. 341 Komisija za agitacijo in propagagando pri CK KPS a Obkom KPS za Slovensko Promorje, 22.3.1945, in ARS I, Fond O K /PK za Slovensko Pri­ morje, skatla 28. 342 Negli ultimi anni il 25 aprile è stato messo in discussione come festa nazionale. Cfr. gli interventi di tre collaboratori dell’Irsml per il 25 aprile 1998, in «Qualestoria», n. 1-2, dicembre 1998, pp. 1-18. Vedi anche Pietro Scoppola, 25 aprile. Liberazione, Torino 1995. 343 La riunione decisiva si svolse a casa dell’intellettuale Josip Vidmar. Cfr. i due articoli di Vidmar, Ein Wort zur Befreiungsfront e Der dritte Jahrestag, in Id., Verzicht und Behauptung, cit., pp. 115-126 e 127-142. II 28 aprile viene celebrato oggi in Slovenia in forma più generale, come Giornata della Resistenza e della Liberazione. Sulla tradizione del 1° maggio cfr., per l’Italia, Marco Finardi, Il 1° maggio, in Isnenghi (a cura di), Luoghi della memoria, vol. Ill, cit., pp. 127137, e per la Slovenia Rozman, Melik e Repe, Öffentliche Gedenktage, cit., pp. 296 s., 328 s. e 332.

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Capitolo quinto

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345 Padoan, Abbiamo lottato insieme, cit., pp. 62 s. 346 Iaksetieh (a cura di), Brigata «Fratelli Fontanot», cit., p. 9. 347 Ibidem, pp. 32 s.; Padoan, Abbiamo lottato insieme, cit., pp. 32 s. Que­ sto anniversario rimase, al di là della lotta partigiana, uno dei più importanti nel calendario delle organizzazioni antifasciste: cfr. Resolucije ob 29 letnici oktobrske revolucije iz Julijske Krajine Titu, Stalinu, Vrhovnem sovjetu, VKPb, sovjetskim narodom, Rdeci armadi in OZN 1946, in INV Ljubljana, Primorska, peticije, resolucije, spomenice, fase. 51. 348 Cfr. Ad esempio Instruktor CK KPS za Juzno Primorsko a CK KPS, 20.2.1944, in ARS I, Arhiv CK KPS, Fond Oblastni/Pokrajinski komitet za Primorsko, skatla 19; Rozman, Melik, Repe, Öffentliche Gedenktage, cit., p. 329. 349 Cfr. Ersilia Alessandrone Perona, La Bandiera Rossa, in Isnenghi (a cura di), Luoghi della memoria, vol. I, cit., pp. 291-316. 350 Peter Burke, Populär Culture in Early Modem Europe, London 1978, trad. it. Cultura popolare nell’Europa moderna, Milano 1980, p. 114. 351 Parin, Es ist Krieg, cit., pp. 104 s. 352 Mori e Milani, Bora, cit., pp. 108 s. 353 1° settembre 1939: attacco della Germania hitleriana alla Polonia; 6 settembre 1930: fucilazioni di Basovizza; 8 settembre 1943: capitolazione del­ l’Italia fascista; 16 settembre 1943: annessione del litorale alla «madrepatria» slovena: Partijski komitet X X X I. Divizije IX. Korpusa NOV i PO J a Comitato centrale del KPS e strutture subordinate, 19.9.1944, in ARS, Arhiv CK KPS, Fond Oblastni/Pokrajinski komitet za Primorsko, skatla 103. 354 Lidija [Sentjurc], Dragi tovarisi, 29.8.1944, in ARS I, Arhiv CK KPS, Fond Oblastni/Pokrajinski komitet za Primorsko, skatla 19. 355 Lidija [Sentjurc], Dragi tovarisi, 29.8.1944. 356 Cfr. Lidija [Sentjurc], Prvo porocilo, 10.12.1944, in ARS I, Arhiv CK KPS, Fond Oblastni/Pokrajinski komitet za Primorsko, skatla 19. 357 Iaksetieh (a cura di), Brigata «Fratelli Fontanot», cit., pp. 137 s. 358 Ìbidem. 359 Ìbidem, p. 138. Il volumetto conteneva soprattutto istruzioni per il servizio di vigilanza e di pattugliamento; esso spiegava ad esempio come ci si dovesse esprimere in occasione di una visita medica o di una marcia. «Poiché a volte c’erano anche occasioni di ballare, non mancavano nemmeno i vocaboli necessari per scambiare qualche parola con la propria partner»: ibidem, p. 139.

Capitolo quinto 1 Gianni Oliva, La resa dei conti. Aprile-maggio 1945: foibe, piazzale Loreto e giustizia partigiana, Milano 1999, in partic. pp. 163 ss. 2 In un recente saggio Joze Pirjevec ha notato che il terrore dei partigiani titoisti divenne sistematico subito dopo la liberazione di Belgrado: «I partigiani comunque arrivarono nella capitale con l’ordine di fucilare sul posto tutti i

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Note

collaborazionisti»; Pirjevec, Die jugoslawische Politik zu den politischen und ideologischen Gegnern, cit., p. 42. 3 T. Fc. [Tone Ferenc], Oddelek za Zascito Ljudstva, in Enciklopedija Slove­ nije, vol. VIII, pp. 83 s.; Macek-Matija, Erinnerungen, cit., pp. 327 s. 4 Cfr. Ferenc, Filipic et al., Kronologija, cit., p. 278. Gli autori di quest’opera di riferimento sulla storia del movimento operaio sloveno indicano la data giusta, ma scambiano l’istituzione dell’Ozna slovena con quella panjugoslava e collocano questa a Straznji Vrh. Vedi anche le succinte osservazioni in Dilas, Wartime, cit., pp. 250 ss. Dilas, che al momento dell’istituzione dell’Ozna si trovava a Mosca, era, secondo sua stessa indicazione, un altro possibile can­ didato a guidare la polizia segreta. 5 Kardelj, Übermacht, cit., p. 11. 6 T. Fc. [Tone Ferenc], Oddelek za Zascito Ljudstva, cit. 7 Abschrift. Verbindungskommando Triest, betr. Nachrichtenorganisation der Partisanen (Auswertung von Beutepapieren), 31.10.1944, in ARS II, Fond OZAK, Fase. 201. 8 Drndic, Le armi e la libertà dell’lstria, cit., p. 310. 9 Abschrift. Triest, betr. Nachrichtenorganisation der Partisanen (Auswertung von Beutepapieren), 31.10.1944, in ARS II, Fond OZAK, Fase. 201. 10 Le cellule del partito nelle unità militari dell’Ozna erano formate se­ condo lo stesso principio delle altre brigate. Esse crearono segreterie a livello di battaglione e di brigata, ma inviavano i rapporti, attraverso il commissario politico della divisione, direttamente al Comitato centrale del KPJ. Cfr. CK KPS, §tev. 903, Okroznim, Divizijskim in Oblastnim Komitetem, Oddelek za Zascito Naroda (Ozna), 25. 11.1944, in: ARS I, Arhiv CK KPS, Fond Oblast­ ni/Pokrajinski komitet za Primorsko, skatla 103. 11 T. Fc. [Tone Ferenc], Oddelek za Zascito Ljudstva, cit. 12 Ìbidem. 13 Walter Markov, Grundzüge der Balkandiplomatie. Ein Beitrag zur Ge­ schichte der Abhängigkeitsverhältnisse (1947), con introduzione di Günter Schödl e un’appendice di documenti, a cura di Fritz Klein e Irene Markov, Leipzig 1999, p. 265. 14 Ibidem, pp. 264 s. In realtà tra i quadri direttivi del Kpj vi era una prevalenza di intellettuali, ma i due poli opposti sono rappresentati forse dal­ l’operaio sloveno Miha Marinko e dall’ebreo sefardita di origini serbe Mosa Pijade. Il primo godeva di molto prestigio nel Comitato centrale jugoslavo come autentico operaio, mentre il secondo nel corso di una prigionia quindicennale nella Sremska Mitrovica aveva tradotto in serbo il Capitale di Marx. 15 Lev Trockij, Cetnicestvo i voina, originariamente apparsa in «Kievskaja Mysl’», 22.10.1912, trad. it. I cetnici e la guerra, in Id., Le guerre balcaniche 1912-1913, Milano 1999, pp. 246-252. 16 Macek-Matija, Erinnerungen, cit., p. 325. 17 Pirjevec, Il giorno di San Vito, cit., p. 195. 18 Macek-Matija, Erinnerungen, cit., p. 329. 19 A tale proposito va ricordata la pubblicistica dell’esilio croato e sloveno, in buona parte non molto recente, uscita soprattutto negli Usa. Essa viene

Capitolo quinto

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esaminata tra l’altro in Ekkehard Völkl, Abrechnungsfuror in Kroatien, in Klaus-Dietmar Henke e Hans Woller (a cura di), Die Säuberung in Europa. Die

Abrechnung mit Faschismus und Kollaboration nach dem Zweiten Weltkrieg, München 1991, pp. 358-394. 20 Cfr. infra. 21 L’autore prosegue: «Milovan Dilas, uno dei più importanti commissari di guerra, narra uno spaventoso episodio nel racconto intitolato La fucilazione. Il traduttore lo ha intitolato invece L’esecuzione. Egli non ha compreso che non esisteva altra legge se non quella dell’inflessibile lotta rivoluzionaria»: Parin, Es ist Krieg, cit., p. 195. Cfr. la trad. it. del racconto, L’esecuzione, Firenze 1969. 22 Ciò valeva per gli italiani come per gli jugoslavi: il commissario della brigata friulana Garibaldi-Natisone, Giovanni Padoan, in Abbiamo lottato insieme, cit., p. 167, racconta di essere intervenuto per impedire che un pri­ gioniero venisse torturato. 23 Nell’estate del 1941, durante la ribellione del Montenegro, sedata dopo alcune settimane dagli occupanti italiani, Dilas era ritenuto «il membro più estremista del Politbüro» dei comunisti jugoslavi: Pirjevec, Giorno di San Vito, cit., p. 156. 24 Dilas e Kocbek vengono ricordati da Peter Vodopivec, Tra Oriente e Occidente. Uno sguardo sintetico alla storia degli sloveni nel ’900, in «Qualestoria», n. 1, giugno 1999, pp. 35-56, qui pp. 47 s. Sul dibattito più recente della storiografia slovena sull’aspetto repressivo della guerra partigiana cfr. Nevenka Troha, Slovenski zgodovinarji in vprasanje «fojb», in «Zgodovinski casopis», n. 3,1997, pp. 403-411; più scettico Gombac, Triest zwischen Mythos und Realität, cit., pp. 14 s. 25 Ales Bebler a Mirko Bracic e Dusan Pirjevec-Ahac, 12.11.1942, cit. in Ursini-Ursic, Attraverso Trieste, cit., pp. 175 s. 26 La lettera è riprodotta in Vladimir Dedijer, Novi prilozi za biografiju J B. Tita, Rijeka 1981, p. 1193, qui cit. in Lukic, Relations soviéto-yougoslaves, cit., p. 143. 27 CK KPS, §tev. 903, Okroznim, Divizijskim in Oblastnim Komitetem, Oddelek za Zascito Naroda (Ozna), 25. 11.1944, in ARS I, Arhiv CK KPS, Fond Oblastni/Pokrajinski komitet za Primorsko, skatla 103. 28 In tale occasione era stata «abolita la Vos OF, con la motivazione dell’obiettivo di una maggiore democratizzazione del movimento di liberazione popolare». Gli «organi di amministrazione interna (la Sezione per gli affari interni con distaccamenti a livello distrettuale) e gli organi repressivi (Narodna zascita, Vdv)» vennero «subordinati allo Snos e alla sua presidenza in quanto organi supremi del potere popolare in Slovenia»: T. Fc. [Tone Ferenc], Oddelek za Zascito Ljudstva, cit.; vedi anche Ferenc, Filipic, Kronologija, cit., pp. 267 s. 29 CK KPS, Stev. 903, Okroznim, Divizijskim in Oblastnim Komitetem, Oddelek za Zascito Naroda (Ozna), 25. 11.1944, in: ARS I, Arhiv CK KPS, Fond Oblastni/Pokrajinski komitet za Primorsko, skatla 103. 30 Macek-Matija, Erinnerungen, cit., p. 344. 31 Totalmente campato in aria è invece il dato, contenuto in un promemoria della Marina militare italiana, secondo cui i partigiani avevano stilato un elen­ co di 70 mila persone da fucilare a Trieste. Simili esagerazioni mostrano che

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Note

non solo nella classe dirigente della Rsi, ma anche nei ministeri romani non si avevano idee molto chiare sulle intenzioni della Jugoslavia titoista: cfr. Stato Maggiore della Regia Marina, S.I.S., Sezione speciale, Promemoria, 19.8.1944, in ASMAE, Affari politici 1931-1945, Jugoslavia, b. 141. 32 Ursini-Ursic, Attraverso Trieste, cit., pp. 230 s. 33 Pirjevec, Serbi, croati, sloveni, cit., p. 114. 34 Ibidem, p. 60. Rankovic organizzò anche il regime di terrore dell’Ozna in Kosovo, iniziato subito dopo la conquista di tale regione da parte dei partigiani e protrattasi, sotto il suo controllo, fino agli anni Sessanta: cfr. Pirjevec, cit., p. 42 s.; Erika Jazbar, Il professor Joze Pirjevec sulla storia del Kosovo e dei rapporti tra le due etnie, in «D om », n. 9, 1999. 35 Rankovic era ritenuto un nazionalista serbo. Viktor Maier, Jugoslawien verspielt, cit., p. 54, cita un «atteggiamento di principio negativo di tutto l’apparato di sicurezza [...] nei confronti di tutto ciò che era albanese». Spesso i servizi segreti si sforzavano di dissuadere Tito dal fare concessioni all’ala riformista del partito. Al tempo stesso molti nazionalisti serbi proiettavano su Rankovic i propri desideri e speranze. Al suo funerale a Belgrado nel 1983 parteciparono oltre 200 mila persone: cfr. Pirjevec, Il giorno di San Vito, cit., p. 483. 36 T. Fc. [Tone Ferenc], Oddelek za Zascito Ljudstva, cit. 37 II settore «civile» dell’Ozna aveva in Croazia un ufficio per tutto il paese, uno per le aree amministrative del corpo d’armata e per l’Istria, e inoltre una segreteria per ciascuno dei comandi territoriali di Fiume, Parenzo e Pola. A ciò si aggiungevano i cosiddetti punti informativi «e una rete ramificata di informatori e spie»: cfr. Abschrift. Triest, betr. Nachrichtenorganisation der Partisanen (Auswertung von Beutepapieren), 31.10.1944, in ARS II, Fonds OZAK, Fase. 201. 38 «L a brigata è composta da tre battaglioni e dalla Compagnia di Fiume (Rijecka ceta)»: Abschrift. Triest, betr. Nachrichtenorganisation der Partisa­ nen (Auswertung von Beutepapieren), 31.10.1944, in ARS II, Fonds OZAK, Fase. 201. 39 Queste direttive si applicavano non solo alle unità combattenti dei parti­ giani, ma anche a tutte le «strutture di servizio sostitutive (uffici di retrovia)» del IX Korpus (ivi). 40 Macek-Matija, Erinnerungen, cit., p. 323. 41 Anlage 3 mit Anhang zum Monatsbericht für September 1944, Abt. Ic Tgb.-Nr. 3035/44 g.Rs., in ARS II, Fonds OZAK, Fase. 201. 42 Klanjscek, Deveti korpus, cit., p. 254. Un accenno alla collaborazione tra Ozna e i Gap si trova anche in Gombac, Triest zwischen Mythos und Realität, cit., p. 13. 43 CK KPS, stev. 908, Navodila, 25.11.1944, in ARS I, Arhiv CK KPS, Fond Oblastni/Pokrajinski komitet za Primorsko, skatla 103; secondo Ferenc, Filipic et al.., Kronologija, cit., p. 311, il cambio ufficiale di denominazione della Vdv in Knoj avvenne all’inizio di dicembre del 1944. 44 Cfr. Uros Kostic, Les opérations de la 4*me armée dans le secteur cotier, in «Revue Internationale d ’Histoire Militaire», n. 64, 1986, pp. 146-188; Id., Oslobodenje Istre, Slovenackog Primorja i Trsta 1945, Beograd 1978.

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45 Nevenka Troha, Fra liquidazione del passato e costruzione del futuro. Le foibe e l’occupazione jugoslava della Venezia Giulia, in Valdevit (a cura di), Foibe, cit., pp. 59-95, qui p. 64. Sull’abolizione del tribunale del popolo cfr. il dattiloscritto La situazione a Trieste dopo l’occupazione da parte delle forze militari italiane, in ARS II, N L Ivan Regent, fase. 4. 46 Cfr. la protesta contro lo scioglimento da parte dell’Amg degli organi di giustizia e di polizia creati dagli jugoslavi: Regional National Liberation Committee for thè Slovene Littoral and Trieste, 7.7.1945, in INV Ljubljana, Primorska-peticije, resolucije in spomenice, fase. 48. 47 Sulla distinzione tra i due gruppi cfr. Troha, Liquidazione del passato, cit., p. 64. 48 Ibidem, p. 65. 49 II primo governo sloveno del dopoguerra (Narodna vlada Slovenije, ossia «governo popolare della Slovenia») si era riunito il 5 maggio 1945 ad Ajdovscina. Ne facevano parte tra gli altri Boris Kidric (primo ministro), Marjan Brecelj (vice primo ministro), Zoran Polic (ministro degli Interni). Ales Bebler assunse la competenza sulle Finanze e Frane Leskosek quella sull’industria e Miniere: cfr. Narodna Vlada Slovenije, in Enciklopedija Slo­ venije, voi. 7. 50 Nevenka Troha, Befreiung oder Okkupation, nationale Befreiung oder Revolution, in «Zeitgeschichte», n. 1, 2000, pp. 22-39, qui p. 35, nota 9. 51 Cfr. Pirjevec, La corsa jugoslava per Trieste, cit., p. 87. 52 Seduta del Comitato centrale del KPS del 7.3.1945, verbale, in ARS, Arhiv CK KPS 2, qui cit. da Raoul Pupo, Violenza politica tra guerra e dopoguerra: Il caso delle foibe giuliane 1943-1945, in Valdevit (a cura di), Foibe, cit., pp. 33-58, qui p. 42. 53 ARS, Arhiv CK KPS 2, qui cit. da Pupo, Violenza politica, ivi. 54 Boris Kidric a Edvard Kardelj, 27.4.1945, in ARS, Osebna zbirka E. Kardelja, fase. 74, Nr. 256/14. 55 Pirjevec, Mosca, Roma e Belgrado, cit., pp. 86 s. 56 Macek-Matija, Erinnerungen, cit., pp. 348 ss. 57 Cfr. anche il «quadro fin troppo roseo» delle attività dell’Ozna a Trieste dipinto in un’altra occasione da Macek: Joze Pirjevec, Gli sloveni a Trieste 1945-1947, in Claudio Tonel (a cura di), Trieste 1941-1947, Trieste 1991, pp. 125-133, qui pp. 128 s. 58 Macek-Matija, Erinnerungen, cit., pp. 352-355. 59 Ferenc, Filipic et al., Kronologija, cit., p. 332. 60 Klanjscek, Deveti korpus, cit., p. 254. 61 Le informazioni italiane sulle personalità che lavoravano per l’Ozna a Trieste non sono di solito verificabili: cfr. Appunti di notizie di natura politi­ ca riguardanti la Venezia Giulia (1947), in ACS, MI, D GPS, div. AAGGRR, 1944-1948, Guerra mondiale, Italia liberata, cat A5G, b. 6. 62 Gombac, Triest zwischen Mythos und Realität, cit., p. 13. 63 Ministero degli Affari Esteri, D.G.A.P., Uff. IV a Ambasciata d ’Italia in Washington, 27.11.[1947], in ASMAE, Affari politici 1946-1950 Jugoslavia, b.

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Note

17. Cfr. Giuricin e Scotti, Una storia tormentata, cit., p. 17 e il saggio, basato su nuove fonti, di Orietta Moscarda, La «giustizia del popolo»: sequestri e confische a Fiume nel dopoguerra (1946-1948), in «Qualestoria», n. 1, giugno 1997, pp. 209-232. 64 Troha, Liquidazione del passato, cit., p. 73. 65 Boris Kraigher, [Lettera al] Comp. Capitano Lenart, 11.5.1945, in Archivio della Slovenia, A.C.K. Z.K.S., Arhiv informacijske zluzbe in antifascisticnega [«e!] boja, ae 126, f. 207. Una traduzione italiana del documento si trova in Carlo Schiffrer, Antifascista a Trieste. Scritti editi e inediti, a cura di Elio Apih, Udine 1996, pp. 52-53. 66 Sezione Ozna (firma illeggibile) a Boris Kraigher-Janez, 13.5.1945, ibidem, p. 54. L’Ozna presentò a Kraigher stralci degli interrogatori dei due prigionieri che erano stati uccisi. Nel volume collettaneo contenente la corrispondenza tra Kraigher e l’Ozna non è indicato se questi verbali di interrogatorio siano conservati nell’archivio. 67 Comunicazione di Stanislav Runko-Miso a Boris Kraigher, 20.5.1945 in ARS I, Arhiv CK KPS, f. AIS, ae 127, Nr. 7805. Cit. Troha, Liquidazione del passato, cit., p. 74 e Ursini-Ursic, Attraverso Trieste, cit., pp. 457 s. 68 Troha, Liquidazione del passato, cit., p. 70. 69 Boris Kraigher a Boris Kidric, 7.6.1945, in ARS I, f. Boris Kraigher, b. 1, cit. ivi. 70 Boris Kidric a Edvard Kardelj, 16.5.1945, in ARS, Osebna zbirka E. Kardelja, fase. 74, Nr. 501/50. 71 Julij Beltram, Tukajje Jugoslavifa. Goriska 1945-1947, Koper 1983, p. 39. 72 Boris Kraigher a Ivan Macek, 31.7.1945, in ARS I, Arhiv CK KPS, f. Boris Kraigher, f. 1, cit. in Valdevit (a cura di), Foibe, cit., p. 29.

11 De Castro, Memorie, cit., p. 81. 74 Patat, Mario Fantini, cit., pp. 171 s. 75 Edvard Kocbek, Dnevnik 1946/1., Ljubljana 1991, p. 16. 76 Ibidem, p. 95. Riferimenti al fatto che l’Ozna si fosse appropriata a di­ screzione di averi personali di persone politicamente sgradite si trovano anche in Confidenziale, Trieste 27.12.1946, MI, DGPS, div. AAGGRR 1944-1948, Guerra mondiale, Italia liberata, cat. A5G, b. 6. 77 Cfr. ivi; Kocbek cita dettagliatamente il suo colloquio con Vidmar. Nel marzo del 1946 a Macek fu effettivamente affidato il ministero degli Interni, ma a giugno, in occasione della formazione di un secondo governo, fu nominato vice primo ministro, mentre nuovo ministro degli Interni divenne un altro «uomo forte» dell’apparato del partito: Boris Kraigher. 78 Jules Verne, Mathias Sandorf (1885), Milano 1986, p. 59. 79 Dal 1990 a Pordenone opera il Centro studi e ricerche storiche «Silentes loquimur», il cui fondatore e direttore Marco Pirina ha pubblicato una serie di volumi sull’ambito tematico foibe-deportazione-esodo. Pirina, che ha un atteggiamento orgogliosamente positivo sull’operato della Repubblica Sociale Italiana e del reparto d ’élite della X Mas alla frontiera orientale d’Italia, è oggi il principale fautore della tesi secondo cui i partigiani jugoslavi volevano una

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«pulizia etnica» della Venezia Giulia: cfr. Roberto Spazzali, Contabilità degli infoibati. Vecchi elenchi e nuove fonti, in Valdevit, Foibe, cit., pp. 97-127, qui pp. 106 s. 80 A tale proposito vanno ricordati alcuni studi meno recenti di Enzo Col­ lotti e Galliano Fogar, fino a Foibe e deportazioni. Nodi sciolti e da sciogliere, in «Qualestoria», n. 2/3, agosto-settembre 1989, pp. 11-20, e il commento, spesso citato, di Giovanni Miccoli, Risiera e foibe: un accostamento aberrante, in «Bollettino dell’Irsml», a. IV, n. 1, 1976, pp. 3-4. Vedi anche Sema, La lotta in Istria, cit., p. 252. 81 In questa categoria rientrano dalla parte italiana Giampaolo Valdevit, Raoul Pupo, Roberto Spazzali, Galliano Fogar e altri, e da quella slovena Nevenka Troha e Nataskia Nemec. Vedi anche le voci critiche slovene sul volume Foibe curato da Valdevit e qui più volte ricordato (con contributi di Pupo, Spazzali e Troha): Boris M. Gombac, Fojbe, breme preteklosti, in «D eio», 16.10.1997; Peter Vodopivec, Un contributo al dibattito sulle «foibe», in «Qualestoria», n. 1, giugno 1999, pp. 263-269; inoltre Marta Verginella, Foibe. Il peso del passato, Venezia Giulia 1943-1945, in «Zgodovinski casopis», n. 2, 1997, pp. 290-292. 82 In una delle prime prese di posizione jugoslave, ad esempio, si legge che i cadaveri trovati nelle foibe erano quelli di «fascisti caduti o scomparsi a fianco dei tedeschi nel corso di combattimenti con i partigiani e di operazio­ ni dell’esercito jugoslavo, o criminali di guerra dei quali il popolo stesso ha disposto all’atto della liberazione»: nota del governo jugoslavo del 7.12.1945, PRO, FO 371/48951/R 21301/15199/92, cit. in Pupo, Violenza politica, cit., p. 37. Fogar, Trieste in guerra, cit., p. 126 colloca nel gruppo dei negazionisti una grande parte della pubblicistica jugoslava fino alle soglie degli anni Novanta. Vedi anche Aretacija fasistov v Gorici, in Beltram, Tukaj je Slovenija, cit., pp. 42 s., e Claudia Cernigoi, Operazione foibe a Trieste, Udine 1997. 85 A tale proposito si va da una pubblicazione sulle foibe del primo sindaco democristiano di Trieste, Gianni Battoli, Il martirologio delle genti adriatiche (1959), Trieste 1961, alle varie prese di posizione dell’ex consulente del G o ­ verno militare alleato Diego De Castro fino ai commenti dell’allora sindaco di Trieste Riccardo Illy sulla questione di un processo contro tre croati sospettati di aver partecipato agli infoibamenti; cfr. Manzin, Foibe, cit. 84 Tristano Matta, Geografia di una violenza, Carta dei principali eccidi nazisti e fascisti nell'Italia occupata (1943-1945). Guida alla lettura, in Id., Un percorso della memoria. Guida ai luoghi della violenza nazista e fascista in Italia, Milano 1996, pp. 152-155, qui p. 153, sottolinea esplicitamente che le foibe non sono indicate sulla sua carta geografica, il che equivale a un eccesso di precisione, in quanto le foibe non furono teatro di crimini nazisti o fascisti. 85 Soprattutto dalla fine degli anni Ottanta è stata avanzata la richiesta di apertura degli archivi jugoslavi. L’accesso a parte degli atti ufficiali dell’apparato centrale di repressione (compresa l’Ozna) è stato concesso finora solo dall’Arhiv Republike Slovenije (ARS). Cfr. Giannantonio Paladini, Più luce sulle Foibe, in «Il Ponte», aprile 1991, pp. 93-103, qui p. 95. Durante il primo grande dibattito sulle foibe, nell’estate del 1996, si è letto a più riprese sulla stampa che i comunisti italiani al momento della conciliazione tra Tito e Chruscév nel 1955 avrebbero «distrutto tutta la documentazione sulle “foibe”»: T.K., Titos Opfer - Italiens vergessene Tote bei Triest, in «N eue Zürcher Zeitung»,

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Note

14-15.9.1996; vedi anche A.S., E adesso parlino i documenti, quelli rimasti, in «Il Messaggero», 25.8.1996. 86 SS-Pz.A.O .Kl, Merkblatt für das Verhalten im Karstgebiet, 27.9.1943, in BA MA Freiburg, RS 2-2, Bd. 21, Tl. 2. 87 Le SS tennero conto delle particolari caratteristiche del paesaggio carsico predisponendo un battaglione, il Karstwehrbataillon, il cui comandante Hans Brand veniva da una zona (la cosiddetta Svizzera Francone, in Baviera), le cui caratteristiche geologiche erano simili a quelle del Carso. Presso il cen­ tro turistico di Pottenstein, per la cui apertura Brand impiegò tra l’altro i detenuti di un vicino campo di concentramento (che sgombrarono la famosa Teufelshöhle da ogni sorta di rifiuti e attrezzarono ampie parti dell’odierno «paradiso delle vacanze») l’ex comandante del battaglione delle SS gode ancor oggi di grande stima. Solo nel marzo 2001 il consiglio comunale di Pottenstein ha deliberato di cambiare nome a una via fino allora intitolata all’ufficiale e studioso di speleologia. Cfr. Klaus Altmann-Dangelat, Stadt rechnet mit Vergangenheit ah, in «Nordbayerischer Kurier», 14.3.2001; Pe­ ter Engelbrecht, Touristenidylle und KZ-Grauen. Vergangenheitsbewältigung in Pottenstein, Bayreuth 1997; Medienwerkstatt Franken e.V., Verbrannte Dörfer. Die Kriegsverbrechen eines Pottensteiner Ehrenbürgers, videocassetta, Nürnberg 1998. L’autore fa riferimento tra l’altro alle indagini di Tone Ferenc, Krasoslovec in jamar, polkkovnik in zlocinec, in «Goriski letnik», n. 6, 1979, pp. 191-216. 88 Nella Gramozna jama il 21.5.1942 gli italiani fucilarono il segretario organizzativo del Kps, Tone Tomsic (Vzijla-Izdg, Narodnoosvobodilna vojna, cit., p. 175). 89 Vodopivec, Contributo, cit., p. 268; Giacomo Scotti, Fòibe e fobìe. Istria 1943: come e perché vennero giustiziati fascisti e innocenti, alcune centinaia, nel settembre dell’insurrezione popolare, in «Il Ponte della Lombardia», n. 2, febbraio-marzo 1997, pp. 6-41. 90 «Il Lavoratore» (Trieste), 26.1.1946, cit. in Scotti, Juris, juris!, cit., p. 63. 91 In occasione della guerra di Bosnia del 1991-92 si è saputo di un infoibamento di circa cinquanta abitanti musulmani della città di Visegrad, gettati da «uomini di Karadzic» in un precipizio profondo più di venti metri nella foresta di Paklenik (Bosnia orientale): cfr. Ivan Lovrenovic, Im neunten Kreis von Paklenik, in «Frankfurter Rundschau», 5.9.2000. 92 Völkl, Abrechnungsfuror, cit., pp. 369 s. 95 Dilas, Wartime, cit., p. 12. 94 Ibidem, p. 149. 95 Ibidem. Sul «terrore rosso» in Montenegro e sul rafforzamento dei cetnici locali cfr. le osservazioni di Pirjevec, Il giorno di San Vito, cit., pp. 156 s. 96 Ursini-Ursic, Attraverso Trieste, cit., p. 458. 97 Traduzione della pubblicazione slovena In memoria del Fronte di Libe­ razione ricevuta dal Ministero della Guerra per nostra dotazione, archiviata il 5.4.1946 dallo stato maggiore dell’esercito italiano, in ASMAE, Affari politici 1946-1950, b. 13. Vedi ora anche Slovenija. Zamolcani grobovi in njihove zrtve. 1941-1948, Zhornik, Drustvo za ureditev zamolcanih grobov, LjubljanaGrosuplje 1998, p. 66.

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98 Ursini-Ursic, Attraverso Trieste, cit., p. 458. 99 II comitato federale di Trieste del PCI al comandante del battaglione Trieste, dicembre 1943, in Carocci e Grassi, Brigate Garibaldi, cit., pp. 179182, qui p. 181. 100 «Il Lavoratore» (Trieste), 26.1.1946, cit. in Scotti, Juris, juris!, cit., p. 63. 101 La raccomandazione di ricorrere alla prassi degli infoibamenti si accom­ pagnava alla richiesta di dar prova, nelle esecuzioni, di «oggettività, serietà e giustizia politica»: Il comitato federale di Trieste del PCI al comandante del

battaglione Trieste, ibidem. 102 Si sa che a Gorizia e dintorni fu vittima di regolamenti di conti un numero particolarmente elevato di domobranci sloveni. Una fossa comune fu scoperta nei pressi di Montenero di Idria/Crni Vrh nad Idrijo: cfr. Non solo foibe. Continua la campagna di disinformazione, in «D om », n. 22, 1998. 103 Roberto Spazzali, Nuove fonti sul problema delle foibe, in «Qualestoria», n. 1, aprile 1992, pp. 139-165, qui p. 159. 104 Gli archivi sloveni sono stati esaminati soprattutto da Nevenka Troha, Liquidazione del passato, cit. Tuttavia a oggi non si è certi che davvero tutti i documenti dell’archivio dell’Ozna slovena siano accessibili. 105 Le fonti britanniche sono state parzialmente utilizzate da Elio Apih, Trieste, cit., pp. 163-165, ma quasi contemporaneamente anche da Giam pao­ lo Valdevit e da Raoul Pupo: cfr. i saggi di entrambi in Valdevit (a cura di), Foibe, cit. 106 Sulla questione dell’attendibilità dei dossier conservati nell’archivio del ministero degli Esteri italiano si veda il saggio di Roberto Spazzali, Nuove fonti, cit. Alcuni riferimenti alla memorialistica croata e al dibattito nella stampa della minoranza italiana in Croazia si trovano in Scotti, Fòibe e fobie, cit., pp. 10 s. 107 Tra il 1946 e il 1949 a Trieste 70 persone vennero processate per aver partecipato a infoibamenti: Fogar, Trieste in guerra, cit., p. 234. 108 Gli eventuali verbali di interrogatorio stilati sono andati dispersi o di­ strutti con gran parte del materiale d ’archivio della Zona di operazioni Litorale adriatico. Sulle basi giuridiche della «lotta alle bande» nell’Italia nord-orientale si veda Gentile, Repressione antipartigiana, cit., qui pp. 182 s. 109 Teodoro Sala, Prefazione, in S. Bon Gherardi et al. (a cura di), L’Istria fra le due guerre, Roma 1985, qui p. 17. 110 Drndic, Le armi e la libertà dell’Istria, cit., p. 389. 111 Cfr. la documentazione predisposta nel ministero degli Esteri italiano Treatment of thè ltalians by thè Yugoslavs after September 8, 1943, in ASMAE, Affari politici 1946-1950, b. 13. Sulle circostanze della stesura di questo testo e sulla questione della sua scarsa attendibilità cfr. Spazzali, Nuove fonti, cit., pp. 162 ss. 112 In una intervista Giacomo Scotti ha dichiarato che «almeno il 50 per cento degli infoibati in Istria erano slavi»: Fausto Biloslavo, Foibe, una rilettura

scomoda. Intervista esclusiva con Giacomo Scotti, lo scrittore più controcorrente della nostra minoranza etnica nell'ex Jugoslavia, in «Il Giornale», 17.7.1997. 113 Fogar, Trieste in guerra, cit., p. 125. L’autore fa riferimento soprattutto a un’intensa discussione svoltasi nel 1989-90 in «L a Voce del Popolo», il

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Note

giornale della minoranza italiana in Croazia, citando tra l’altro un articolo di Milan Rakovac, figlio del comandante partigiano croato del 1943. 114 Elementi in tal senso si trovano sparsi nella documentazione tedesca, ad esempio in: Oberkommando der 1. SS-Panzerarmee, Ic-AOBA, Feindnach­ richtenblatt Nr. 1, 11.10.1943, in MA Freiburg, RS 2-2, Nr. 21 Tl. 2.; Armee­ gruppe v. Zangen an Oberkommando der Heeresgruppe C/Ic, 13.4.1944, in BAMA Freiburg, 87. Armeekorps Armeegruppe v. Zangen, RH 24-87, Nr. 61; Armeegruppe v. Zangen an Oberkommando der Heeresgruppe C/Ic, 28.4.1944, ivi. 115 Fogar, Trieste in guerra, cit., p. 125. Nel maggio del 1947 Modka, in qualità di membro del Tribunale popolare regionale dell’Istria fu eletto alla presidenza del Narodni odbor (Comitato del popolo): cfr. Notizie di natura politica riguardante la Venezia Giulia, Trieste, 22.5.1947, in ACS, MI, DGPS, div. AAGGRR 1944-1948, Guerra mondiale, Italia liberata, cat. A56, b. 6. 116 Treatment of thè Italians hy thè Yugoslavs after September 8, 1943, in ASMAE, Affari politici 1946-1950, b. 13; Mafalda Codan, Da Trieste mi avevano riportata in Istria, in Irci e Unione degli Istriani, Sopravvissuti alle deportazioni in Jugoslavia, Trieste 1997, pp. 17-37, qui p. 29. 117 II nome di battesimo compare per lo più nella forma italianizzata («G io­ vanni»), in conseguenza della politica di assimilazione fascista. Cfr. Drndic, Le armi e la libertà dell’Istria, cit., pp. 152 s.; La Perna, Pola, Istria, Fiume, cit., p. 179. Vedi anche Treatment of thè Italians by thè Yugoslavs after September 8, 1943, in ASMAE, Affari politici 1946-1950, b. 13. Il nome «M otika» emerge anche in un rapporto tedesco su documenti croati sull’Ozna di cui i tedeschi si erano impossessati come bottino di guerra. Nella nota tedesca si legge: «Il direttore o capo della II Sezione dell’Ozna per l’Istria è “Motika”»; Abschrift. Triest, betr. Nachrichtenorganisation der Partisanen [Auswertung von Beute­ papieren], 31.10.1944, in ARS II, Fond OZAK, Fase. 201. 118 La giustizia italiana archiviò il processo contro Motika e altri due imputati poiché il territorio in cui erano stati commessi i fatti contestati non apparteneva più, dal trattato di pace del 1947, all’Italia: cfr. Mauro Manzin, Foibe, L’Italia non può giudicare. Il magistrato: reati commessi all’estero, in «L a Repubblica», 14.11.1997; T.H., Za fojbe italijansko sodisce ni pristojno, in «D eio», 14.11.1997. 119 Cfr. Drndic, Le armi e la libertà dell’Istria, cit., pp. 151 s. Arrestato nel 1929 in relazione al processo contro l’eroe istriano Vladimir Gortan, Kolic era stato rilasciato per assenza di prove a suo carico. Faceva parte del gruppo di narodnjaci istriani che durante la resistenza appoggiarono i comunisti croati; nel settembre del 1943 era alla testa di coloro che disarmarono la guarnigione dei carabinieri a Barbana. Poco dopo divenne noto come il «terrore di Barbana»; dalla foiba di Terli, nel territorio del comune di Barbana, nel novembre del 1943 furono estratti i resti di 26 infoibati. 120 Petacco, Esodo, cit., pp. 60 s. 121 Ibidem. 122 Ìbidem. 123 Treatment of thè Italians by thè Yugoslavs after September 8, 1943, in ASMAE, Affari politici 1946-1950, b. 13.

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124 Comando Territoriale di Udine. Ufficio informazioni a Ministero della Guerra, 21.2.1946, in ASMAE, Affari politici 1946-1950, Jugoslavia, b. 14. 125 La documentazione fotografica proveniente dalle foibe di Vines, Terli e Villa Surani è conservato in ASMAE, Affari politici 1946-1950, b. 14. 126 Treatment of thè Italians by thè Yugoslavs after September 8, 1943, in ASMAE, Affari politici 1946-1950, b. 13. 127 Ivi. La stessa interpretazione del «rituale del cane morto» si trova in Petacco, Esodo, cit., pp. 62-64. Tuttavia il quotidiano «Deutsche Adriazeitung» dà una spiegazione più semplice per il fatto che i partigiani in alcuni luoghi uccidessero dei cani, sostenendo che «essi dovettero essere eliminati dai casolari per evitare che rivelassero al nemico i movimenti delle truppe»: Vor und nach dem 1. Mai. Was die Banditen in Istrien versprachen und was sie hielten, in «Deutsche Adriazeitung», 4.5.1944. 128 Direzione dei comunisti triestini a Segreteria del Pei, senza data, in documenti del settembre 1943, Fondazione Istituto Gramsci, Organizzazioni comuniste nella Venezia Giulia, microfilm 104, pacco 2, busta 15. 129 II comitato del P.C.C. per l’Istria. Alla segreteria del P.C.I., ivi. 130 I gruppi locali del Pei, si leggeva anche, ricevevano sempre con grande ritardo le direttive dal Friuli o da Trieste, cosa che li ostacolava molto: ivi. 131 Cfr. Pirjevec, Die jugoslawische Politik zu den politischen und ideologi­ schen Gegnern, cit., p. 43, dove la Grecia è definita il «grande spauracchio dei comunisti jugoslavi». 132 Fogar, Trieste in guerra, cit., p. 255. 133 Conseil de la liberation a Trieste, Aux gouvernements des grandes puissances alliees! (3.1.1946), in INV Ljubljana, Primorska - petieije, resolueije in spomenice, fase. 48. 134 Cfr. Troha, Politika slovensko-italijanskega bratstva, cit., pp. 54 ss. 135 Apih, Trieste, cit., p. 163 s. 136 Treatment of thè Italians by thè Yugoslavs after September 8, 1943, in ASMAE, Affari politici 1946-1950, b. 13. 137 Mafalda Codan (Da Trieste mi avevano riportata in Istria, cit., p. 18) riferisce persino di essere stata portata dai partigiani davanti alla casa di Norma Cossetto e mostrata alla madre di quest’ultima. 138 Stato Maggiore Esercito a Ministero della Guerra, Centro C.S. di Udi­ ne an S.M.E., Ufficio «I», 2* sezione, 15.8.1946, in ASMAE, Affari politici 1946-1950, b. 13. 139 Oggetto: Delitti commessi dagli slavi in V.G. a danno della popolazione italiana - Foiba di Gropada, 24.7.1946, in ASMAE, Affari politici 1946-1950, b. 13. 140 Cfr. una nota di protesta contro il decreto di scioglimento dell’Amg: Protestna resolueija Pokrajinskega NO O za Slovensko Primorje vladama Velike Britanije in Zdruzenih drzav Amerike zaradi razpustitve Narodne zascite z dne 25. Junija 1945, in INV Ljubljana, Primorska - petieije, resolueije in spomenice, fase. 50. 141 Ciò vale ad esempio per l’ex commissario del popolo di Longera, Teodoro Zochi (Ciok), che nell’agosto del 1946 fu anche prontamente arrestato. Cfr. Stato

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Note

Maggiore Esercito a Ministero della Guerra, Centro C.S. di Udine an S.M.E., Ufficio «I», 2“ sezione, 22.8.1946, in ASMAE, Affari politici 1946-1950, b. 13. 142 Cfr. la relazione conclusiva sulla foiba di Gropada: A Piero, Al Gruppo situazione, 27.6.1946, in ASMAE, Affari politici 1946-1950, b. 13. 143 Fogar, Trieste in guerra, cit., p. 234. 144 Troha, Liquidazione del passato, cit., p. 81. 145 Sulla situazione nella Valle del Natisone cfr. le osservazioni di Naz, Anni bui, cit., p. 129. 146 Le persone giustiziate - dei diciannove cadaveri rinvenuti dieci furono identificati - erano, stando alle relazioni, membri di un battaglione di polizia italiano che alla fine di aprile del 1945 prestava servizio sull’Isonzo come cosiddetto Kiistenfestungsbataillon («battaglione da fortezza costiera»). La seconda compagnia del battaglione era stata utilizzata da ultimo per vigilare su un ponte sull’Isonzo e su una centrale idroelettrica: MI, DG PS a MI Gabinetto, 27.1.1947, e Polizia della Venezia Giulia, Divisione criminale inve­ stigativa, zona di Gorizia a MI, D G PS, Segreteria particolare del capo della Polizia, 28.12.1946, in ACS, MI, D G PS, div. AAGGRR, Guerra mondiale, Italia liberata 1944-1948, cat. A-5-G, b. 6. 147 Nel marzo del 1945 il capo di stato maggiore della Rsi aveva visitato la prima compagnia del battaglione e l’avamposto di Sella di Dol: cfr. la re­ lazione del generale Archimede Mischi (marzo 1945), in ACS, RSI, SPD, CR 1944-1945, b. 68. 148 Divisione Polizia Sez. 1 a Ministero dell’interno, D G PS, 29.12.1948, in ACS, MI, D G PS, div. AAGGRR 1944-1948, Guerra mondiale Italia liberata, cat. A 5 G , b. 6. Vedi anche l’articolo di giornale allegato, Ancora due foibe nei pressi di Doberdò, in «Il Popolo», 30.10.1948. 149 Divisione Polizia Sez. 1 a Ministero dell’interno, ivi. 150 Valdevit, Foibe: L’eredità della sconfitta, cit., p. 15. 151 Dilas, Wartime, cit., p. 83. 152 Vodopivec, Contributo, cit., p. 268. 153 Wolfgang Sofsky, Paradies der Grausamkeit. Was ist es, das im Menschen sticht, schießt, prügelt und mordet? Eine Anatomie der Gewalt, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 2.2.1999. 154 Ibidem. 155 Scotti, Fòibe e fobie, cit., p. 28, riferisce tra l’altro che il vescovo di Pola-Parenzo era riuscito a ottenere la liberazione di un sacerdote sequestrato dai partigiani. La versione secondo cui gli infoibamenti sarebbero iniziati solo dopo che le truppe tedesche si erano avvicinate trova una qualche conferma in Bruno Coceani, Mussolini, Hitler, Tito alle porte orientali d’Italia, Bologna 1948, p. 15 e La Perna, Pola, Istria, Fiume, cit., pp. 180 s. 156 Stab-Hrvatskog-Slovenskog Odreda za Istru, Izvestaj Vojno politicke situacije. Drugarskom O K KPH za Hrvatsku, Primorje i PK KPS za Primorsko, 15.9.1943, in ARS I, Arhiv CK KPS, Fond Oblastni/Pokrajinski komitet za Primorsko, skatla 103. 157 O K KPS Brkini-Slov. Istra (Boris Kladivar), Porocilo PK KPS za Primor­ sko, 16.9.1943, in ARS I, Arhiv CK KPS, Fond Oblastni/Pokrajinski komitet za Primorsko, skatla 103.

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158 Stab-Hrvatskog-Slovenskog Odreda za Istru, Izvestaj Vojno politicke situacije, 15.9.1943. 159 O K KPS Brkini-Slov. Istra (Boris Kladivar), Porocilo PK KPS za Primorsko, 16.9.1943. Sull’avanzata tedesca in Istria cfr. il capitolo Sovrainikove operacije v Brkinih in Istri, in Ferenc, Kapitulacija Italije, cit., pp. 395-406. 16° Ferenc, Kapitulacija Italije, cit., pp. 395-406. Scotti, Fòibe e fobìe, cit., p. 20, scrive che contadini istriani gettarono nelle foibe anche vittime di massacri commessi dai tedeschi.

161 Edoardo Musina, membro della banda di Villa Segré, fu condannato a morte a Belgrado: Gianni Oliva, La resa dei conti. Aprile-maggio 1945: foibe, piazzale Loreto e giustizia partigiana, Milano 1999, p. 169. 162 Rimane valida l’affermazione di Elio Apih, Trieste, cit., p. 166, secondo cui «i fatti hanno anche motivazione antitaliana, ma questa non pare premi­ nente». 163 Nase sodelovanje z Italijanimi s posebnim ozirom na trzasko vprasanje (12.7.1944), in ARS II, fase. 535, cit. in Nevenka Troha, Befreiung oder Okkupation, cit., p. 37. 164 Sheila Fitzpatrick, Signals from Below: Soviet letters of Denunciation of the 1930s, in «Journal of Modern History», 68, n. 4, 1996. 165 Terrorismus, in «Edinost», 23.8.1920. La traduzione italiana dell’articolo si trova in ACS, PCM, UCNP, b. 86. 166 Consolato tedesco a Trieste a Ministero degli Esteri, 8.9.1928, in PA AA, Abt. II, Geheimakten 1920-1936, Rassenfragen, Nationalitätenfragen, Fremdvölker, R 30273; vedi anche Consolato tedesco a Trieste, 27.11.1926 in PA AA, Abt. Ila, Poi. 6 Italien, R 72586. 167 Gorizia, 31.8.1935, vertraulicher Bericht, Anlage zu: Divisione Polizia Politica, Appunti per l’on. Divisione Affari Generali e Riservati, 13.9.1935, in: ACS, MI, D G PS, div. AAGGRR, cat. G l, associazioni, b. 38. 168 Ursini-Ursic, Attraverso Trieste, cit., pp. 298 s. Mariuccia Laurenti, una giovane triestina, tradì una serie di dirigenti comunisti triestini che in seguito vennero rinchiusi nella Risiera di San Sabba e uccisi dalle SS. 169 Galliano Fogar, Foibe e deportazioni. Nodi sciolti e da sciogliere, in «Qualestoria», n. 2/3, 1989, pp. 11-20, qui p. 17. 170 Ancora nel 1947 da parte italiana si accusavano gli jugoslavi di sorvegliare la città di Gorizia con l’aiuto di domestiche slovene al soldo dell’Ozna: cfr. Copia. La situazione di Gorizia [aprile 1947], in ACS, MI, D G PS, div. AA G G RR 1944-1948, Guerra mondiale-Italia liberata, cat. A5G, b. 6. 171 Holm Sundhaussen, Ethnonationale Gewalt auf dem Balkan im Spiegel der Goldhagendebatte, in Höpken e Riekenberg (a cura di), Politische und ethnische Gewalt, cit., pp. 37-51, qui pp. 48 s., sconsiglia di «spiegare [...] sulla base delle mentalità la propensione alla violenza nei Balcani». 172 Pirjevec, Mosca, Roma e Belgrado, cit., pp. 86 s. 173 II discorso di Tito del 26.5.1945 a Lubiana «gettò un’ombra sui rapporti fra Mosca e Belgrado e può essere visto come uno dei primi sintomi del dissenso, manifestatosi nel periodo postbellico fra Tito e Stalin»: ibidem, p. 87.

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Note

174 Cfr. un bilancio provvisorio degli studi sul periodo precedente al crol­ lo della Jugoslavia: Antonio Micullian, Storiografia e pubblicistica sull’esodo. Considerazioni critiche, in «Quaderni - Centro di Ricerche Storiche Rovigno», vol. X, 1990-91, pp .103-110. Vedi anche in ibidem il contributo di Marina Cattaruzza, Esodo istriano, che dà un quadro aggiornato della discussione. 175 Cfr. Wolfgang Höpken, Die orthodoxe Abweichung: Jugoslawien zum Vergleich, in Hans Lemberg, con la collaborazione di Karl von Delhaes, HansJürgen Karp e Heinrich Mrowka, Sowjetisches Modell und nationale Prägung. Kontinuität und Wandel in Ostmitteleuropa nach dem Zweiten Weltkrieg, Marburg 1991, pp. 125-142, in particolare pp. 127 s. 176 Marta Verginella, L'esodo istriano nella storiografia slovena, in Cattaruzza, Dogo e Pupo (a cura di), Esodi, cit., pp. 269-277, qui p. 272. 177 Borme, Quale Unione degli italiani oggi?, cit., p. 341. 178 Partito Fascista Repubblicano, Segreteria Politica a Presidenza del Consiglio dei Ministri, 12.3.1944, in ACS, PCM, carte Barracu 1943-1945, b. 1: «Dalle Provincie di Pola, Udine, Belluno, Gorizia, si sta verificando un esodo di funzionari italiani che hanno sollecitato e ottenuto il trasferimento in altre località». 179 Un ulteriore motivo delle richieste di trasferimento era che molti uffici a causa della difficile situazione economica e finanziaria non erano praticamente in grado di funzionare. Cfr. Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste a Presidenza del Consiglio dei Ministri, 30.9.1944, in ACS, PCM, carte Barracu 1943-1945, b. 1. Un ulteriore pericolo, da non sottovalutare, era il reclutamento coatto di lavoratori, soprattutto giovani, da utilizzare in Germania. 180 Carlo Schiffrer, I centri slavi degli altopiani carsici triestini, in Id., Que­ stione etnica, cit., pp. 163-179, qui pp. 177 ss. 181 Andri e Mellinato, Scuola e confine, cit., p. 337. 182 De Simone, Memorie sull’Istria, cit., p. 50. 183 Cfr. le osservazioni di Troha, Befreiung oder Okkupation, cit., p. 27. 184 Pupo, Esodo, cit., p. 187. 185 Pietro Flamini (Trieste) ad Alcide De Gasperi, 24.6.1946, in ACS, PCM, gabinetto, Segreteria particolare De Gasperi, b. 22. 186 Ivi. 187 Ministero degli Affari Esteri, D.G.A.P., Uff. IV ad Ambasciata d ’Italia a Washington, 27.11.[1947], in ASMAE, Affari politici 1946-1950, Jugoslavia, b. 17. 188 Guglielmo Salotti, Il dramma di Piume nel secondo dopoguerra, in «Storia contemporanea», n. 1, 1982, pp. 47-65, qui p. 56. 189 Cfr. Moscarda, La «giustizia del popolo», cit., pp. 230 s. 190 Alfredo Bonelli, Fra Stalin e Tito. Cominformisti a Fiume 1948-1955, Trieste 1994, p. 23. Sull’attività dei comunisti italiani del Kominform cfr. il saggio di Francesco Privitera, Socialismo vero, Socialismo falso: La lotta dei cominformisti italiani nella Jugoslavia di Tito, in Galeazzi (a cura di), RomaBelgrado, cit., pp. 127-147. 191 Ministero degli Affari Esteri, Segreteria Generale, a diversi alti funzio­

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nari e ufficiali, 26.9.1944, in ASMAE, Affari politici 1931-1945, Jugoslavia, b. 141. 192 Cfr. Stato Maggiore della Regia Marina, S.I.S., Sezione speciale, Prome­ moria, 19.8.1944, in ASMAE, Affari politici 1931-1945, Jugoslavia, b. 141. 193 Cattaruzza, Esodo istriano, cit., p. 36. 194 Cfr. Markus Helmes, Der Pariser Friedensvertrag für Italien von 1947: Entstehung, Bestimmungen, Auswirkungen, in «Zeitgeschichte», 25, 1988, n. 1-2, pp. 5-35. 195 Carlo Schiffrer, L esodo dalle terre adriatiche, in «Trieste», luglio-agosto 1958, ora anche in Id., Questione etnica, cit., pp. 255-260, qui p. 258. 196 Ibidem. 197 Ministero degli Affari Esteri, D.G.A.P., Uff. IV ad Ambasciata d’Italia in Washington, 27.11.[1947], in ASMAE, Affari politici 1946-1950, Jugoslavia, b. 17. 198 Pro Memoria [1946], in ACS, PCM, gabinetto, Segreteria particolare De Gasperi, b. 22: «hanno tutti, operai e “borghesi”, espresso vivacemente i loro sentimenti e sono tutti indiziati (e ben noti all’Ozna e ad altri emissari). Non potrebbero restare senza grave pericolo». 199 Diego De Castro, Il futuro economico del Territorio Libero di Trieste. Radiotrasmissione del 19 ottobre 1946, in Giovanni Dalma, Diego De Castro, Riccardo Luzzatto e Attilio Pecorari, Missione giuliana negli Stati Uniti, a cura di Comitato Giuliano, Roma [1947], pp. 63 s. 200 Ministero degli Affari Esteri, D.G.A.P., Uff. IV ad Ambasciata d’Italia a Washington, 27.11.[1947], in ASMAE, Affari politici 1946-1950, Jugoslavia, b. 17. Vedi anche Luigi Lusenti, La soglia di Gorizia. Storia di un italiano nell’lstria della guerra fredda, Milano 1998, p. 49. 201 Confidenziale, Trieste 27.12.1946, in MI, DGPS, div. AAGGRR 19441948, Guerra mondiale, Italia liberata, cat. A 5 G, b. 6. 202 Nemec, Un paese perfetto, cit., p. 235. Sul contesto più ampio dell’epu­ razione cfr. il volume di Hans Woller, Die Abrechnung mit dem Faschismus in Italien 1943 bis 1948, Wien 1996. 203 Enzo Collotti, Postilla, in «II Ponte», a. XI, n. 8/9, agosto-settembre 1955, pp. 1281 s., qui p. 1282. 204 Manca fino a oggi una monografia sull’opera della commissione di esperti, che sarebbe sicuramente di grande interesse se si riuscisse a rac­ cogliere ed esaminare tutta la documentazione d ’archivio. Tra le trattazioni più recenti, molto sintetiche, cfr. Nevenka Troha, Komisija izvedencev Svetan zunanjih ministrov in dogajanje ob njenem obisku, in Troha, Politika slovenskoitalijanskega bratstva, cit., pp. 151-157. Specialmente sugli eventi di Pola cfr. Liliana Ferrari, La commissione interalleata e la manifestazione del 22 marzo, in Colummi, Ferrari et al., Storia di un esodo, cit., pp. 179-182. 205 Salotti, Dramma di Fiume, cit., p. 56. 206 De Simone, Memorie sull’Istria, cit., pp. 47 s. Miglia, Dentro ITstria, cit., pp. 68 s. 207 Attilio Tamaro, La condanna dell’Italia nel trattato di pace, Rocca San Casciano 1952, p. 164.

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Note

208 Gaetano Salvemini, The Italo-]ugoslav Frontier, in «Foreign Affairs», n. 2, gennaio 1946, pp. 341-346, qui p. 346. 209 L’incontro con Zwitter e Cermelj avvenne il 12 febbraio 1946 a Belgrado: cfr. Sergej A. Tokarev, Trieste 1946-1947 nel diario di un componente sovietico della commissione per i confini italo-jugoslavi, a cura di Giulio Cervani e Diana De Rosa, Udine 1995, p. 46. 210 Ciò apparve evidente in occasione della visita della commissione a Gorizia: cfr. ibidem, p. 87. 211 Rusinow, Italy’s Austrian Heritage, cit., p. 402. 212 Raoul Pupo, Il contesto internazionale delle vicende giuliane: 1944-1947, in Id., Fra Italia e Jugoslavia. Saggi sulla questione di Trieste (1945-1954), Udine 1989, pp. 21-44, qui p. 36. 215 Valdevit, Il dilemma Trieste, cit., p. 86. 214 Ferrari, Commissione interalleata, cit., p. 182. 215 Giampaolo Valdevit, La questione di Trieste 1941-1954. Politica inter­ nazionale e contesto locale, Milano 1987, p. 136. 216 Su Trieste si veda ad esempio Frane Stoka e Giuseppe Pogassi, The Council of Liberation o f Trieste to thè Allied Commission for thè delimitation of thè ltalian-Yugoslav Boundary (marzo 1946); Memoriale del Comitato provin­ ciale di liberazione nazionale per il litorale sloveno e Trieste alla commissione interalleata per l’esame di problemi della regione in nesso alla determinazione del confine jugoslavo-italiano, in INV Ljubljana, Primorska-peticije, resolueije in spomenice, Fase. 48. 217 Risoluzioni da Monfalcone e Muggia, in INV Ljubljana, Primorskapeticije, resolueije in spomenice, Fase. 48. 218 De Simone, Memorie sull’lstria, cit., pp. 47 s.; Miglia, Dentro l’istria, cit., pp. 71-76. 219 Fallimento dei panslavisti, in «Arena di Pola», 24.3.1946, cit. in Ferrari, Commissione interalleata, cit., p. 185. 220 II verbale in croato dell’audizione del 22.3.1946 è in INV Ljubljana, Fase. 31, Umschlag 158; cfr. il volume (pubblicato nel luglio del 1946) di Josip Roglic, Cadastre National de l’Istrie d ’après le Recensement du 1" Octobre 1945, Susak 1946. 221 Cattaruzza, Der «Istrische Exodus», cit., pp. 313 s. 222 Tokarev, Trieste 1946-1947, cit., p. 85. Cattaruzza, Der «Istrische Exo­ dus», cit., p. 314, dubita della volontarietà o «spontaneità» di queste e simili conversioni nazionali. 225 Pitanja i odgovori Savesnickoj Komisije u Groznjan kotar Buje, 24.3.1946, INV Ljubljana, Fase. 31, Umschlag 159, 3. 224 Nemec, Paese perfetto, cit., pp. 214 s. 225 Novak, Trieste, cit., p. 244. 226 Petacco, Esodo, cit., p. 142. 227 Ciò comunque non rispecchiava il vero rapporto numerico nella popo­ lazione di Pisino: come ha scritto Diego De Castro, i croati, generalmente più poveri, collocavano sulle tombe quasi solo croci di legno, e i nomi su queste spesso non erano più leggibili dopo qualche tempo.

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228 Lega Nazionale, La Lega Nazionale di Trieste, Cenni storici, Trieste 1951, pp. 27-29. 229 Naz, Anni bui, cit., p. 28. Sul viaggio della commissione nella Slavia veneta cfr. l’articolo di Metka Gombac, Beneska Slovenija 1945-1946, in «Zgodovinski casopis», n. 4, 1992, pp. 509-517. 2,0 Naz, Anni bui, cit., pp. 98 s. 231 Cfr. annotazione del 24.3.1946, in Tokarev, Trieste 1946-1947, cit., p. 86. 232 Ibidem, p. 82. 233 Si veda in particolare Helmes, Pariser Friedensvertrag, cit., che contiene ulteriori riferimenti bibliografici. 234 Cattaruzza, Esodo istriano, cit., p. 33. 235 Pirjevec, Mosca, Roma e Belgrado, cit., p. 87. 236 Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri. Ufficio Servizio e Situazio­ ne, a Capo della Polizia, Roma, 6.2.1947, in ACS, MI, DGPS, div. AAGGRR, 1944-1948, Guerra mondiale, Italia liberata, cat. A5G, b. 6. 237 Cfr. Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, Ufficio Servizio e Situazione an Capo della Polizia, 1.2.1947, in ACS, MI, DGPS, div. AAGGRR, 1944-1948, Guerra mondiale, Italia liberata, cat. A5G, b. 6. 238 Sul «controesodo» cfr. Lusenti, Soglia di Gorizia, cit., pp. 53 ss., e Bonelli, Fra Stalin e Tito, cit., pp. 20 ss. 239 Cfr. Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, Ufficio Servizio e Situazione an Capo della Polizia, 1.2.1947, in ACS, MI, DGPS, div. AAGGRR, 1944-1948, Guerra mondiale, Italia liberata, cat. A5G, b. 6. 240 «La preoccupazione assume le forme di un incubo e crescerà ulterior­ mente dopo il 10 febbraio se la firma del trattato di pace renderà possibile l’improvvisa partenza delle forze armate alleate»: Presidenza del Consiglio dei ministri, Comitato interministeriale per la Venezia Giulia, Esodo dei profughi giuliani, 4.2.1947, ACS, MI, DG PS, div. AAGGRR, Guerra mondiale, Italia liberata 1944-1948, cat. A5G, b. 6. 241 Presidenza del Consiglio dei ministri, Comitato interministeriale per la Venezia Giulia, Esodo dei profughi giuliani, 4.2.1947, ACS, MI, DG PS, div. AAGGRR, Guerra mondiale, Italia liberata 1944-1948, cat. A5G, b. 6. 242 Ivi. 243 Pro Memoria (1946), in ACS, PCM, gabinetto, Segreteria particolare De Gasperi, b. 22. 244 Presidenza del Consiglio dei ministri, Comitato interministeriale per la Venezia Giulia, Esodo dei profughi. 245 On. Antonio De Berti, Promemoria per il Presidente del Consiglio on. Alcide De Gasperi, 12.3.1947, in ACS, PCM, gab., segreteria particolare De Gasperi, b. 22. 246 Lega Nazionale di Trieste. Sezione di Venezia a Lega Nazionale di Trieste, Sezione Centrale, Comitato di Liberazione Nazionale dell’Istria etc., 28.8.1953, in AST, Commissariato Generale del Governo, b. 138, f. 0318. Vedi anche Rocchi, Esodo, cit., pp. 132 s. 247 Atto di Seduta per decidere in merito alla custodia dei monumenti tra­ sferiti dalla città di Pola a Venezia, 6.9.1953, in AST, Commissariato Generale del Governo, b. 138, f. 0318.

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Note

248 Tamaro, Condanna dell’Italia, cit., p. 71. 249 Coceani, Mussolini, Hitler, Tito, cit., p. 320. 250 Carlo Schiffrer, Il più giovane dei centri pescherecci d’Italia, in Atti del XVI Congresso geografico italiano, Padova-Venezia, 20-25 aprile 1954, ora in Id., Dopo il ritorno dell’Italia. Trieste 1954-1969. Scritti e interventi polemici, presentazione di Giorgio Negrelli, Udine 1992, pp. 251-255, qui p. 252. 251 G. Gerin, Die Flüchtlinge aus dem unter jugoslawischer Verwaltung stehenden Gebiet (ehemalige Zone B), in «AWR.-Bulletin», n. 11, 1964, pp. 82-89, qui p. 88. 252 Direttore superiore dell’Amministrazione a PCM-gabinetto, 17.8.1954. 253 Profughi Direttore superiore deH’amministrazione (G.A. Vitelli) a PCM, Ufficio per le zone di confine, 29 aprile 1954, AST, b. 1, f. 8/1. 254 Cfr. in particolare il paragrafo Partono anche i contadini nel saggio di Colummi, Lultimo grande esodo, in Colummi, Ferrari et al., Storia di un esodo, cit., pp. 469-495. 255 Zona B - terra senza legge, Trieste, edizione straordinaria di «Il Lavo­ ratore», 28.4.1950, p. 9. 256 Slovenska Istra, cit., p. 861. 257 I garibaldini erano invece dell’idea che le scuole italiane andassero epurate dal personale fascista, ma dovessero essere mantenute in grado di funzionare: cfr. A Vittorio, 6.12.1944, in FIG, OCVG, microfilm 104, pacco 2, busta 15. 258 Andri e Mellinato, Scuola e confine, cit., pp. 357-361. 259 Sergio Cella, La liberazione negata. Lozione del Comitato di liberazione nazionale dell’Istria, Udine 1990, p. 55. 260 Delegazione presso la Commissione per lo studio dei confini e delle frontiere del Regno d’Italia a Ministero degli Interni, 4.10.1945, in ACS, DGPS, div. AAGGRR, 1944-48, Guerra mondiale. Italia liberata, b. 3. Sull’evoluzione dei sindacati cfr. Tristano Matta, Il movimento sindacale a Trieste nel secondo dopoguerra, in Irsml, Friuli e Venezia Giulia, cit., pp. 465-475. 261 Relazione del Preside del liceo-ginnasio di Capodistria (firmata: Giovanni Lughi), 16.4.1952, in ASMAE, Affari politici 1950-57, Ufficio II, f. 547. 262 La richiesta dei rappresentanti dell’Ufficio scolastico agli insegnanti di de­ cidere autonomamente per mezzo di votazione chi dovesse assumere la direzione della scuola, mise in un certo imbarazzo il personale docente del Liceo Combi. Infine gli insegnanti elessero un comitato composto da quattro di loro e da un rappresentante dell’Ufficio scolastico: Cella, Liberazione negata, cit., pp. 56 s. 263 Woller, Abrechnung, cit. 264 Vedi ad esempio Moscarda, «Giustizia del popolo», cit., e Roberto Spaz­ zali, Epurazione di frontiera. 1945-1948. Le ambigue sanzioni contro il fascismo nella Venezia Giulia, Gorizia 2000. 265 Eros Sequi, Gli Italiani di Jugoslavia: il perché di una scelta, in Trieste 1941-1947, prefazione di Claudio Tonel, Trieste 1991, pp. 137-153, qui in partic. pp. 137 ss. Nel 1948-49 Sequi lavorò a Zagabria per la Sezione minoranze del Ministero dell’Educazione croato. All’inizio degli anni Novanta egli era ordinario di letteratura e lingua italiana all’università di Belgrado.

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266 Cella, Liberazione negata, cit., p. 59. Ibidem. 268 Triest. Zone «B». Land ohne Freiheit. Im Auftrage des Nationales Befreiungskomitees von Istrien, Triest 1954, p. 12. 269 Nassisi, Istria 1945-1947, cit., p. 118. 270 Cella, Liberazione negata, cit., p. 37. 271 Ibidem. 272 Relazione del Preside. L’autore dichiara di essere inizialmente rimasto perché era il solo in grado d’insegnare latino e greco: a suo giudizio la sua partenza avrebbe significato la fine della scuola. 275 Direttore superiore dell’amministrazione (G.A. Vitelli) a PCM, Ufficio per le zone di confine, in: AST, Commissariato Generale del Governo, AST, Commissariato Generale del Governo, b .l, f. 8/1 Profughi. 274 Documento I (Comitato Popolare Distrettuale - Capodistria, Consiglio per l’istruzione pubblica e la cultura, n. 644/14-52 Capodistria, 17.7.1952, Oggetto: Iscrizione degli alunni secondo la nazionalità), in Luciano Monica, La scuola italiana in Jugoslavia. Storia, attualità e prospettive, Trieste-Rovigno 1991, pp. 263 s. 275 Cfr. Documento II e Documento IV, in ibidem, pp. 264 s. 276 Ibidem, pp. 43 s. 277 Triest. Zone «B». Land ohne Freiheit, cit., p. 12. 278 «I genitori che si ribellarono a quest’ordine furono puniti con multe in denaro e con azioni repressive»: ibidem, p. 13. 279 Monica, Scuola italiana, cit., p. 44. 280 I crocifissi furono eliminati dalle scuole (Relazione del Preside, cit.). 281 Sugli organi collegiali dell’autonomia scolastica si vedano le considera­ zioni di Antonio Borme, Scuola e cultura della minoranza nazionale italiana in Jugoslavia, in «Il Ponte», XI, n. 8/9, agosto-settembre 1955, pp. 1275-1281, qui p. S. 1277. 282 «Tutti i libri di testo utilizzati nelle scuole italiane sono traduzioni di quelli jugoslavi, pieni di errori di grammatica e di ortografia [...]» (Triest. Zone «B». Land ohne Freiheit, cit., p. 12). 285 Relazione del Preside, cit. 284 Cella, Liberazione negata, cit., p. 60. 285 Colummi, Le premesse del grande esodo, in Colummi, Ferrari et al., Storia di un esodo, cit., pp. 381-417, qui pp. 391 ss. Degrassi fu punito con quattro anni di pena detentiva. Cfr. Dichiarazione 5 (Concetta Cesare), alle­ gato a Ministero degli Affari Esteri ad Ambasciate Londra-Parigi-Washington, 16.4.1952, in ASMAE, Affari politici 1950-57, Uff. II, f. 547. 286 Dichiarazione 1 (Eliana Conte), ivi. 287 Dichiarazione 2 (Dorina Giormani), ivi. La requisizione di abitazioni ed edifici da parte delle autorità jugoslave era uno dei motivi dell’esodo della popolazione italiana. Cfr. Comitato di Liberazione Nazionale dell’Istria, Memo­

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Note

riale sulle violazioni del diritto internazionale commesse dall’Amministrazione jugoslava nella zona B del Territorio Libero di Trieste, s.l., s.d. [ca. 1950], p. 3, e Die Zwangsräumungen und die Wohnungsgesetzgebung, in Triest. Zone «B». Land ohne Freiheit, cit., pp. 17 s. Vedi anche le annotazioni del ministro degli Esteri italiano Carlo Sforza sugli sgomberi a Capodistria nel 1948, in Cinque anni a palazzo Chigi. La politica estera italiana dal 1947 al 1951, Roma 1952, pp. 359 s. 288 Dichiarazione 3 (Pierina Predenzani), in allegato a Ministero degli Affari Esteri ad Ambasciate Londra-Parigi-Washington, 16.4.1952, in ASMAE, Affari politici 1950-57, Uff. II, f. 547. 289 Dichiarazione 4 e 5 (Mariella e Concetta Cesare), ivi. 290 Sulla Staffetta della gioventù si vedano le scarne osservazioni in Wolfgang Höpken, Vergangenheitspolitik im sozialistischen Vielvölkerstaat: Jugoslawien 1944 bis 1991, in Bock e Wolfrum (a cura di), Umkämpfte Vergangenheit, cit., pp. 210-243, qui pp. 216 s., e Rozman, Melik, Repe, Öffentliche Gedenktage, cit., pp. 332 s. 291 Missione Italiana Trieste a PCM, Ufficio Zone di Confine, 19.6.1952, in ASMAE, Affari politici, Uff. II, f. 547. 292 Missione Italiana Trieste a Presidenza Consiglio dei Ministri, Ufficio Zone di Confine, 21.4.1952, in ASMAE, Affari politici 1950-57, Ufficio II, f. 547. 293 Si veda l’articolo di M. Petrinic pubblicato in «Borba», 7.6.1952, di cui una trad. it. è in allegato a Legazione d’Italia Belgrado a Ministero degli Affari Esteri, Roma, 16.4.1952, in ASMAE, Affari politici 1950-57, f. 547. 294 Ibidem. 295 ■Relazione del Preside, cit. 296 Ibidem. 291 Ibidem. 298 Ibidem. 299 Missione Italiana Trieste a Presidenza Consiglio dei Ministri, Ufficio Zone di Confine, 21.4.1952, in ASMAE, Affari politici 1950-57, Ufficio II, f. 547. 300 Ministero degli Affari Esteri, DGAP, Ufficio IV ad ambasciate italiane, 22.4.1952, in ASMAE, Affari politici 1950-57, f. 547. 301 Comitato di Liberazione Nazionale dellTstria, Copia, 7.4.1952, in ASMAE, Affari politici 1950-57, f. 547. 302 Cella (Liberazione negata, cit., p. 25) annovera Abram tra le persona­ lità attorno a cui subito dopo la liberazione era cresciuta una «atmosfera di speranza e di fiducia», e con essa le possibilità di un’intesa, che nel periodo seguente furono rapidamente gettate via. 303 Corrispondenza da Capodistria di A. Zobec, in «Politika» (Belgrado), 11.4.1952, Ampie citazioni della corrispondenza si trovano in Legazione d’Italia Belgrado a Ministero degli Affari Esteri, Roma, 16.4.1952, in ÄSMAE, Affari politici 1950-57, f. 547. 304 Legazione d ’Italia, Belgrado, a Ministero degli Affari Esteri, Roma, 14.6.1952, in ASMAE, Affari politici 1950-57, f. 547.

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505 Colummi, Le premesse del grande esodo, cit., p. 394. 306 Borme, Scuola e cultura, cit., p. 1279. 307 A proposito del numero del «Ponte» sulla Jugoslavia, in «Il Ponte», a. XI, n. 11, novembre 1955, pp. 1940-1942, qui pp. 1941 s. La lettera è anche riprodotta in Cella, Liberazione negata, cit., pp. 214- 216. 308 Nel novembre del 1953 l’allora ministro degli Interni Amintore Fanfani prese espressamente in considerazione, in una lettera all’Ufficio per le Zone di confine, l’allontanamento dei «profughi balcanici» da Trieste per far posto agli «esuli» provenienti dalla Zona B. Tuttavia egli non volle semplicemente suggerire alle autorità alleate il ritorno dei profughi balcanici nei loro paesi di origine, ma valutò la possibilità di farli venire in Italia: cfr. Ministero dell’in­ terno a PCM, Ufficio zone di confine (firmato: Fanfani), 20.11.1953, in AST, Commissariato del Governo, b. 134, f. 0318, profughi. 309 Missione nella Venezia Giulia 25.5.1946, a Ministero dell’Assistenza postbellica, 18.7.1946, in ACS, ACS, PCM, gabinetto, segreteria particolare De Gasperi, b. 22. 310 Ivi. 311 Si trattava in genere di persone che prestavano servizio nella pubbli­ ca amministrazione o nella Marina e di operaie e operai delle manifatture tabacchi, che vennero distribuiti in varie città italiane: Presidenza del Con­ siglio dei ministri, Comitato interministeriale per la Venezia Giulia, Esodo dei profughi. 312 Ivi. 313 I comuni della penisola del Gargano, in Puglia, offrirono ai profughi da Pola del terreno edificabilc inutilizzato sulla sponda occidentale di quel mare dalla cui riva orientale erano partiti: Deliberazione della Giunta Municipale di Vieste del 18 aprile 1947, cit. in Rocchi, Esodo, cit., p. 177. Si considerò anche la possibilità di creare una «nuova Pola» a Cesano, vicino Roma: Ferrari, L’esodo da Pola, cit., p. 210. 314 Questa definizione si trova in un promemoria del 1947: cfr. Antonio De Berti, Promemoria per il presidente del consiglio on. Alcide De Gasperi, 12.3.1947, ACS, PCM, gabinetto, segreteria particolare De Gasperi, b. 22. 315 Alla fine di febbraio del 1947 sembrava ancora possibile la creazione di un insediamento agrario per 10-15 mila contadini istriani. Il «Corriere della sera» pubblicò una carta geografica con la tenuta statale di Castelporziano a Roma: Dove sorgerà Istria d’Italia, in «Corriere della Sera», 28.2.1947, indica­ zioni riportate da Spanò, La stampa quotidiana, cit., p. 161. 316 Ferrari, L’esodo da Pola, cit., p. 211. 317 Pro Memoria (1946), in ACS, PCM, gabinetto, Segreteria particolare De Gasperi, b. 22. 318 Liliana Ferrari, I problemi dell’inserimento, in Colummi, Ferrari et al, Storia d’un esodo, cit., pp. 497-562, qui pp. 497 s. 319 Già in una nota del 1946 si legge che non si doveva tenere presente, «come unica sistemazione dei profughi di Pola quella dei campi di raccolta», ma che si doveva insistere «presso grandi industriali e altri possibili benefat­ tori - per la costituzione di centri abitati appositi [...] che tengano uniti quei

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Note

profughi che non possono trovare soluzioni private»: Pro Memoria (1946), in ACS, PCM, gabinetto, Segreteria particolare De Gasperi, b. 22. 520 Campi simili esistevano anche fuori Trieste, ad esempio ad Altamura, presso Bari (ex campo di prigionia), a Laterina (in provincia di Arezzo) e a La Spezia (caserme degli equipaggi dei sommergibili): cfr. Rocchi, Esodo, cit., pp. 180-185; Ferrari, I problemi dell’inserimento, cit., p. 521. 521 Cella, Liberazione negata, cit., p. 203. 522 II lager di Patriciano ospitava 3.400 persone, quello di San Giovanni 1.300. Nella Risiera di San Sabba si trovavano, nel momento in questione, ancora 2.100 profughi; 1.500 erano ospitati in hotel: Ferrari, I problemi del­ l’inserimento, cit., p. 520. 323 Commissariato Generale an Vizeprafekt und Q uastor in Triest, 24.11.1955, in AST, Commissariato del governo, b. 7, f. 8/2 Coordinamento attività assistenziali per profughi. I profughi provenienti dai villaggi (passati alla Jugoslavia) nei dintorni di Muggia, una delle roccaforti dei partigiani italiani, erano in gran parte membri del PC-Tlt (cominformisti) e pertanto erano altamente politicizzati: perciò consideravano tutti gli altri esuli alla stregua di «nazionalisti». 324 Esposto profughi sistemati nelle barache di S. Croce, 26.1.1955, in: AST, Commissariato del Governo, b. 7, f. 8/3. 325 II comitato del campo di Santa Croce (Sv. Kriz) si rivolse al prefetto Memmo chiedendo uno stanziamento straordinario di 50 mila lire per rimettere a posto il refettorio del campo. Memmo si rivolse a sua volta al Cln istriano, ricevendo però risposta negativa. Comitato fiduciario a Prefettura, 6.2.1953; CLN Istria a Prefettura, 26.2.1953, in AST, Commissariato del Governo, b. 132, f. 0318 Campo Profughi di Santa Croce. 326 Ministero dell’interno a PCM, Ufficio zone di confine (firmato: Fanfani), 20.11.1953, in AST, Commissariato del Governo, b. 134, f. 0318, profughi; Ferrari, I problemi dell’inserimento, cit., pp. 520 s. 327 Rapporto settimanale sul movimento e la sistemazione dei profughi in arrivo dalla zona B dopo l’8 ottobre 1953, 14.11.1953, in AST, Commissariato del Governo, b. 134, f. 0318, profughi. 328 Prefetto A. Memmo ad Angelo Vincenti, Direttore Generale Assistenza Pubblica, in AST, Commissariato del Governo, 23.8.1954, b. 132, f. 0318 Gabinetto - Assistenza in denaro ai profughi. 329 Ministero dell’interno a PCM, Ufficio zone di confine (firmato: Fanfani), 20.11.1953, in AST, Commissariato del Governo, b. 134, f. 0318, profughi. 330 L’Ente era divenuto da dicembre 1951 Ente del Porto Industriale di Trieste. Cfr. Order No. 194. Amendments to Orders Nos. 102/49, 103/49 and 104/49 «Ente del Porto Industriale di Trieste» (24.12.1951), in AMG - FTT Gazette, Bd. 4, Nr. 36, 31.12.1951, pp. 656 ss. In occasione di un ampliamento dell’area portuale nel marzo del 1955 sarebbero stati espropriati altri 7.200 ettari di terreno: cfr. Bruna Ciani, Trieste 1954-1956: il Memorandum d’Intesa e i gruppi politici autonomi sloveni, Trieste 1993, p. 160. 331 Novak, Trieste, cit., p. 384. Per quanto giustificate fossero le accuse, a paragone con la politica italiana dopo il 1954 la politica di snazionalizzazione edilizia e urbanistica sotto l’AMG era ancora relativamente moderata. In

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Theodor Veiter (Die slowenische Volksgruppe in Italien, in Manfred Straka (a cura di), Handbuch der europäischen Volksgruppen, Wien 1970, pp. 470-484, qui p. 483) si legge ad esempio che nella provincia di Trieste l’Italia condu­ ceva «una politica sistematica di infiltrazione e di esproprio» ai danni della minoranza slovena. 332 Comitato di Liberazione Nazionale dell’Istria, Trieste, Promemoria. Esodo dalla zona B, 3.12.1953, in AST, Commissariato Generale del Governo, b. 134, f. 0318, profughi. 333 Ferrari, I problemi dell’inserimento, cit., p. 517. 334 Direttore superiore dell’amministrazione (G.A. Vitelli) a PCM, Ufficio per le zone di confine, 29. Aprill954, AST, Commissariato del Governo, b. 1, f. 8/1 Profughi. 335 Verbale, 7.8.1954, in AST, Commissariato Generale del Governo, b. 1, f. 8/1. 336 Coltivatori: circa 600 famiglie per un totale di 3 mila persone. Pescatori: 300 famiglie per un totale di 1.200 persone. Artigiani, operai e altre categorie: circa 2.500 famiglie, 10 mila persone (ibid.). 337 Al tempo stesso erano possibili ampliamenti edilizi grazie ai quali si poteva garantire accoglienza a un numero di famiglie doppio: Verbale, 7.8.1954. 338 Ivi. 339 Tito, Über Triest und die Beziehungen zu den sozialistischen Staaten, cit., p. 216. 340 Ibidem, p. 163. 341 Simili «borghi» fino al 1958 erano stati ultimati a Chiarbola superiore per 257 abitazioni, a Cacciatore per 115, a Prosecco (Prosijek in sloveno) per 82, a Villa Opicina per 100, a Santa Croce per 33 e a Sistiana per 100: cfr. Ferrari, I Problemi dell’inserimento, cit., p. 524. 342 Sandi Volk, Italijanski begunci iz Istre kot subjekt «propagande italijanstva» v Italiji in «nacionalne bonifikacije» v Trstu v letih 1945-1954, in «Zgodovinski casopis», n. 2, 1997, pp. 241-254, qui p. 252. 343 Rocchi, Esodo, cit., p. 198. 344 Cfr. ibidem, p. 201. 345 Ferrari, I Problemi dell'inserimento, cit., p. 524. 346 Ibidem, p. 525. 347 Rocchi, Esodo, cit., pp. 197 s. Esistevano inoltre altre possibilità di insediamento in Italia, come a Fertilia (presso Alghero, in Sardegna) e nella cosiddetta Città di Nomadelfia a Fossoli di Carpi (Modena). A Roma un pree­ sistente complesso operaio nei pressi dell’Eur fu ristrutturato come «quartiere giuliano-dalmata». 348 Nel 1945 la quota di popolazione italiana era solo il 10 per cento, nel 1953 già il 22,4, nel 1960 il 34,7 e nel 1961 il 45 per cento. Con analoga rapidità crebbe la percentuale dei voti conquistati dai partiti «italiani» alle elezioni di Duino: cfr. Piero Purini, Trieste 1954-1963. Dal Governo Militare Alleato alla Regione Friuli-Venezia Giulia, Trieste 1995, p. 76. 349 Ibidem.

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Note

Conclusioni 1 Langewiesche, «Nation», «Nationalismus», «Nationalstaat» in der europäi­ schen Geschichte seit dem Mittelalter - Versuch einer Bilanz, in Id., Nation, Nationalismus, Nationalstaat, cit., pp. 14-34, qui p. 26. 2 Feliks J. Bister, «Majestät, es ist zu spät...». Anton Korosec und die slowe­ nische Politik im Wiener Reichsrat bis 1918, Wien-Köln-Weimar 1995. 3 Cfr. da ultimo Szobries, Sprachliche Aspekte, cit. 4 Rizman, Die slowenische Nation, cit., p. 250. 5 Vedi soprattutto il capitolo su Bossi, Fini e Berlusconi, in Petersen, Quo vadis, cit. 6 Maier, Jugoslawien verspielt, cit., pp. 11-47.

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Abt. II, Italien. Beziehungen zu Jugoslawien, R 72803. Abt. II, Politische Beziehungen zwischen Italien und Jugoslavien, R 72804. Abt. II, Politische Beziehungen zwischen Italien und Jugoslawien, R 72806. Abt. II, Jugoslawien. Jahresübersichten der deutschen Auslandsvertre­ tungen, R 73111. Abt. Ha, Politik 6 Italien, R 72856. Abt. Ila, Politik 6 Italien, R 72857 Abt. Ilb, Politik 6 Jugoslawien, R 73167. Abt. Ilb, Politik 6 Jugoslawien, R 73169. Abt. Ilb, Politik 16 Jugoslavien, R 73196. Politische Abteilung IV: Italien, Politsche Beziehungen, Politische Beziehungen zwischen Italien und Jugoslaw ien, R 103301 Rassenfragen, N ationaltiätenfragen, Fremdvölker, R 103345.

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Kulturabteilung / VI A Minderheiten : Abt. Via, Verein für das Deutschtum im Ausland R 60373. Abt. Via, M inderheitenorganisationen, R 60427. Abt. Via, M inderheitenfrage im Allgemeinen R 60483. Abt. VI, M inderheiten, Nichtdeutsche M inderheiten in nichtdeutschen Staaten, R 60521. Abt. VI, M inderheiten, Nichtdeutsche M inderheiten in nichtdeutschen Staaten, R 60522. Abt. VI, M inderheiten, Nichtdeutsche M inderheiten in nichtdeutschen Staaten, R 60523. Abt. Via, Katholische Angelegenheiten in Jugoslawien, R 62219.

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1.2. Archivi italiani Archivio Centrale dello Stato Rom (ACS): Presidenza del Consiglio dei Ministri Ufficio centrale per le nuove province (1919-1922) b. 7; b. 50; b. 55; b. 57; b. 58; b. 70; b. 77; b. 78; b. 86; b. 125; b. 154 Presidenza del Consiglio dei Ministri. 1921: f. 14, sf. 1,1326; 1922: f. 4, sf. 8; 1925: f. 14, sf. 4; 1928-1930: f. 3. sf. 3-10; 1931-1933: f. 3, sf. 2-9; f. 5, sf. 2; f. 14, sf. 1; f. 14, sf. 4, 7790; 1937-1939: f. 3, sf. 3-5, 3236; f. 14, sf. 5.3119; f. 14, sf. 5.4569; f. 20, sf. 2; f. 20, sf. 2. 5597. Gabinetto: Segreteria particolare De Gasperi, b. 22

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Ministero dell’interno Casellario Politico Centrale, b. 589 Engelbert Besednjak, fase. I, fase. Il; b. 1397 Ivan Marija Cok.

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Bibliografia

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Direzione degli Affari Generali e del Personale Direzione Generale dell’Amministrazione Civile 1925-1927, 1928-1930 Direzione Generale Pubblica Sicurezza 1920, AA G G RR Categorie annuali, cat. annuali, a. 1920, b. 8. Cat. F4 stampa estera: b. 39; b. 49. Cat. G l, associazioni: b. 38; b. 297; b. 301. MI DGPS, div. AAGG e del personale, Atti amministrativi 1885-1946: b. 7. Segreteria del Capo della Polizia (1940-1943) 1944-1948, G uerra mondiale - Italia liberata, cat. A 5 G, b. 3; b. 6; b. 7. Archivi fascisti Segreteria Particolare del Duce (SPD) Carteggio riservato 1944-1945: b. 12; b. 13; b. 68; b. 78. D irettorio nazionale-Servizi amministrativi RSI , PCM, Carte Barracu, b. 1; Mostra della Rivoluzione Fascista, carteggio amministrativo: b. 9.

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Archivio Storico-Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri, Roma (ASMAE): Società delle Nazioni, Protezione delle minoranze, b. 88 Affari politici-Jugoslavia. 1919-1930: b. 1352; b. 1357; 1931-1945: b. 39; b. 141; 1946-1950: b. 17; Affari politici, Uff. II, 1950-1957: Fase. 510. Fondazione Istituto Gramsci Roma (FIG): Organizzazioni comuniste nella Venezia Giulia (1942-1951) Microfilm 104, pacco 2, busta 15. Archivio di Stato Trieste (AST): Ispettorato Scolastico III Circoscrizione b. 4. Commissariato del Governo: b .l, f. 8/1 Profughi; b. 6, f. 4/10 Lega N a­ zionale; b. 7, f. 8/2 Coordinam ento attività assistenziali per profughi; b. 32, f. 0318; b. 65, f. 8/3 O pera Assistenza Profughi Giuliani e D