Il cervello infinito. Alle frontiere della neuroscienza: storie di persone che hanno cambiato il proprio cervello
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Zitiervorschau

NORMAN DOIDGE

IL CERVELLO INFINITO Alle frontiere della neuroscienza: storie di persone che hanno cambiato il proprio cervello

Traduzione di Francesco Zago

~

PONTE ALLE GRAZIE

Titolo originale:

The Brain that changes z"tsel/

ISBcc BIBLIOTECA MARCONI Inventario 01

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Prima edizione: settembre 2007 Prima ristampa: marzo 2008 Seconda ristampa: gennaio 2009 Il nostro indirizzo Internet è: www.ponteallegrazie.it L'Editore ringrazia il dr. Armando Gavazzi, consulente scientifico per l'edizione italiana, per la preziosa rilettura della traduzione. Ponte alle Grazie è un marchio di Adriano Salani Editore S.p.A. Gruppo editoriale Mauri Spagnol

© 2007 Norman Doidge © 2007 Adriano Salani Editore S.p.A. - Milano ISBN 978-88-7928-903-0

A Eugene L. Goldberg, perché ti sarebbe piaciuto leggere questo libro

Avvertenza al lettore sui nomi Tutti i nomi delle persone che hanno subito delle trasformazioni neuroplastiche sono reali, a eccezione dei pochi punti indicati e nei casi che riguardano i bambini e le loro famiglie.

Prefazione

Il cervello umano è in grado di modificare se stesso: è questa la scoperta rivoluzionaria di cui tratta questo libro. Una tesi avvalorata dalle testimonianze di scienziati, medici e pazienti che insieme sono riusciti a produrre queste straordinarie trasformazioni: senza ricorrere a trattamenti chirurgici o farmacologici, si sono semplicemente affidati alla capacità, finora sconosciuta, del cervello di modificarsi. In alcuni casi si trattava di pazienti con problemi neurologici ritenuti incurabili, in altri di persone che non mostravano difficoltà specifiche ma che desideravano semplicemente migliorare il loro funzionamento cerebrale o preservarlo nel corso dell'invecchiamento. Per quattrocento anni una simile impresa è stata considerata inconcepibile: la medicina ufficiale e la scienza sostenevano la convinzione che l'anatomia del cervello fosse immutabile. Era opinione comune che, dopo l'infanzia, il cervello sarebbe andato incontro solamente ai cambiamenti dovuti a un lungo processo di deterioramento, e che non sarebbe stato possibile sostituire le cellule cerebrali quando queste non si fossero sviluppate in modo appropriato, si fossero deteriorate o fossero morte. Si riteneva anche che il cervello non avrebbe potuto alterare la propria struttura e individuare una nuova modalità di funzionamento nel caso in cui una sua parte fosse danneggiata. La teoria di un cervello immutabile decretava che le persone nate con problemi neurologici o mentali, o che

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avessero subito danni cerebrali, sarebbero rimaste invalide o menomate per tutta la vita. Il lavoro degli scienziati che si chiedevano se fosse possibile migliorare o mantenere in buona salute il cervello attraverso l'attività o l'esercizio mentale veniva considerato uno spreco di tempo. Nella nostra cultura si è radicato e quindi diffuso una sorta di nichilismo neurologico - l'impressione cioè che il trattamento di molti problemi cerebrali sia inefficace o persino privo di alcun fondamento - che impedisce anche alla nostra visione della natura umana di evolversi. Dal momento che il cervello non può cambiare, così anche la natura umana, che ha la propria origine dalla mente, sembrava altrettanto inalterabile. La convinzione secondo cui il cervello non sarebbe stato in grado di modificarsi si basava su tre caposaldi: il fatto che i pazienti con danni cerebrali raramente vanno incontro a una guarigione completa; l'impossibilità di osservare a livello microscopico le attività del cervello in vivo; e infine l'idea - risalente ai primordi della scienza moderna - secondo cui il cervello è simile a una macchina stupefacente. E se da una parte le macchine fanno cose straordinarie, dall'altra non possono cambiare e crescere. Iniziai a interessarmi all'idea di un cervello che si evolve a causa del mio lavoro di ricercatore in ambito psichiatrico e psicoanalitico. Quando i pazienti non vedevano i progressi psicologici sperati, spesso la spiegazione medica convenzionale era che i loro problemi erano «cablati» in un cervello immutabile. Il« cablaggio» era un'altra metafora che avvicinava il cervello alle macchine, in particolare ali' hardware di un computer, con circuiti connessi in modo permanente, ciascuno progettato per svolgere una funzione specifica e immodificabile. Quando seppi per la prima volta che il cervello poteva non essere cablato, non potei fare a meno di condurre personalmente delle ricerche e di valutare le evidenze empiriche. Tali ricerche mi tennero lontano dall'ambulatorio in cui lavoravo. Così intrapresi diversi viaggi, durante i quali conobbi un gruppo di brillanti scienziati che, alle frontiere della neuroscienza, tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio dei Settanta, erano giunti a una serie di scoperte inaspettate. Questi ricercatori mostrarono che il 8

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cervello modifica la propria struttura, a livello di ciascuna funzionalità specifica, perfezionando i propri circuiti in modo da adattarli più efficacemente al compito da svolgere di volta in volta. Se alcune «componenti» subivano un danno, in determinate circostanze altre avrebbero p9tuto sostituirle. La metafora della macchina, che vedeva nel cervello un organo dotato di componenti specializzate, non avrebbe potuto spiegare fino in fondo i cambiamenti che gli scienzati stavano osservando. Per indicare questa proprietà fondamentale del cervello si introdusse il termine di « neuroplasticità ». Neuro sta per «neuroni», le cellule che compongono il cervello e il sistema nervoso umano. Plastico sta per «modificabile, flessibile, mutevole». All'inizio molti scienziati non osavano utilizzare il termine « neuroplasticità » nelle loro pubblicazioni, e il fatto che sostenessero una nozione tanto fantasiosa non era visto di buon occhio dai loro colleghi. Nonostante ciò quei ricercatori non desistettero e ottennero un graduale capovolgimento della dottrina del cervello immutabile. Mostrarono che i bambini non sempre sono legati alle abilità mentali di cui dispongono fin dalla nascita; che un cervello danneggiato spesso può riorganizzarsi in modo che, quando una parte smette di funzionare, un'altra la sostituisce; che talvolta, quando muoiono, le cellule cerebrali possono essere sostituite; che molti «circuiti», e persino riflessi fondamentali che pensiamo siano «cablati», non lo sono affatto. Uno di quei ricercatori arrivò a mostrare che il pensiero, l' apprendimento e l'azione possono « attivare » o « disattivare » i geni, modellando così l'anatomia cerebrale e il nostro comportamento. Si tratta senza dubbio di una delle scoperte più straordinarie del Novecento. Nel corso dei miei viaggi ho incontrato uno scienziato che permetteva a persone non vedenti dalla nascita di iniziare a vedere; ho parlato con pazienti, dichiarati incurabili dopo aver subito un ictus decine di anni prima, che sono stati aiutati a guarire con trattamenti neuroplastici; ho conosciuto persone che hanno superato disturbi dell'apprendimento e che hanno migliorato il proprio QI (quoziente d'intelligenza); ho raccolto evidenze secondo cui a ottant'anni è possibile rendere più vivace la memoria in modo che funzioni come a cinquantacinque. Ho visto pazienti 9

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« ri-cablare » il loro cervello attraverso i pensieri, per risolvere traumi e ossessioni in precedenza considerati insuperabili. Ho discusso appassionatamente con dei premi Nobel su come dovremmo ripensare il nostro paradigma neurologico alla luce del1'evidenza che il cervello è in continua trasformazione. L'idea che il cervello possa modificare la propria struttura e le proprie funzioni attraverso il pensiero e l'attività è, credo, il cambiamento di prospettiva più importante da quando abbiamo iniziato a tratteggiarne l'anatomia e il funzionamento della sua unità di base, il neurone. Come tutte le rivoluzioni, anche questa avrà profonde ripercussioni, e il libro che state leggendo, come spero, contribuirà a mostrarne alcune. La rivoluzione neuroplastica gioca un ruolo importante nella comprensione di come l'amore, il sesso, il dolore, le relazioni, l'apprendimento, le dipendenze, la cultura, la tecnologia e le psicoterapie modificano il cervello umano. Nella misura in cui affrontano il tema della natura umana, sono coinvolte le discipline umanistiche, le scienze sociali e quelle empiriche, così come ogni forma di apprendimento. Tutte queste discipline dovranno tenere conto del fatto che il cervello modifica se stesso e che l'architettura cerebrale differisce da un individuo all'altro e si modifica nel corso della vita di ognuno. D'altra parte la nozione di neuroplasticità presenta dei risvolti negativi, dato che presenta il cervello non solo come più ricco di risorse, ma anche maggiormente vulnerabile alle influenze esterne. La neuroplasticità ha il potere di produrre comportamenti più flessibili ma anche più rigidi: è un fenomeno che chiamo «paradosso plastico». Ironicamente, alcuni dei nostri disturbi e delle nostre abitudini più radicate sono una conseguenza di tale plasticità. Una volta che un particolare cambiamento plastico si verifica e quindi si stabilizza, può impedire che accadano altri cambiamenti. È attraverso la comprensione degli effetti positivi e negativi della neuroplasticità che possiamo capire davvero fin dove si estendano le possibilità umane. Dato che un termine nuovo è utile a chi pratica una disciplina nuova, vorrei chiamare «neurologi dinamici» gli studiosi che si 10

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occupano di questa nuova scienza del cervello e delle sue trasformazioni. Ciò che segue è il racconto dei miei incontri con quegli studiosi e con i pazienti che hanno aiutato a cambiare.

1. Una donna in perenne caduta ... salvata dal!' uomo che scopri' la plasticità dei nostri sensi

Ed essi videro le voci* Esodo 20:18 Cheryl Schiltz ha la costante sensazione di cadere. E poiché le sembra di cadere, cade. Quando si alza in piedi senza reggersi a qualcosa, nel giro di pochi secondi Cheryl ha l'impressione di trovarsi sull'orlo di un precipizio e di essere sul punto di cadere. Prima la testa oscilla da una parte, mentre con le braccia cerca di stabilizzarsi. Poco dopo il suo corpo inizia a vacillare avanti e indietro, come se stesse camminando su una fune e ondeggiasse freneticamente prima di perdere l'equilibrio: con la differenza che i piedi di Cheryl sono ben piantati sul terreno, a una certa distanza l'uno dall'altro. Non sembra abbia semplicemente paura di cadere, piuttosto ha la sensazione di essere spinta. «È come se stesse per cadere da un ponte» le dico. «Sì, è come se fossi sul punto di saltare, anche se non ne ho nessuna intenzione». * La traduzione del passo biblico che usa l'autore esprime bene l'esperienza sinestetica degli ebrei quando sul monte Sinai letteralmente videro i suoni. Nell'edizione della Cei il passo è: «Tutto il popolo percepiva i tuoni e i lampi, il suono del corno e il monte fumante».

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Osservandola più attentamente noto che, mentre tenta di rimanere in piedi, si muove a scatti, come se un gruppo di teppisti invisibili la stiano scuotendo e spingendo da una parte all'altra, cercando brutalmente di buttarla a terra. Ma quei delinquenti sono solo dentro di lei, ormai da cinque anni. Quando prova a camminare, deve appoggiarsi a un muro, e anche così barcolla come un ubriaco. Per Cheryl non c'è pace, neppure dopo essere caduta. «Che cosa prova dopo essere caduta?» le chiedo. «La sensazione di cadere se ne va quando è a terra? » « Certe volte mi è capitato » dice Cheryl « di non riuscire letteralmente ad avere la sensazione del pavimento ... come se una botola immaginaria si aprisse e mi ingoiasse». Anche dopo essere caduta, Cheryl ha la sensazione di continuare a cadere, perennemente, in un abisso infinito. Il problema di Cheryl risiede nel fatto che il suo apparato vestibolare, l'organo sensoriale che garantisce il nostro equilibrio, non funziona come dovrebbe. Cheryl è esausta, e la costante sensazione di cadere la sta facendo impazzire, perché non può pensare ad altro. Ha paura per il proprio futuro. Poco dopo l'insorgere del problema, Cheryl ha perso il suo lavoro di rappresentante di commercio internazionale e ora vive con un assegno d'invalidità di mille dollari al mese. Ha scoperto la paura di invecchiare. E una rara forma di ansia. Un aspetto sottinteso, ma non per questo meno profondo, del nostro benessere consiste nell'avere un senso dell'equilibrio ben funzionante. Negli anni Trenta lo psichiatra Paul Schilder condusse delle ricerche su come il senso di benessere e un'immagine corporea «stabile» siano .correlati all'apparato vestibolare. Quando diciamo di essere «stabili» o «instabili», «equilibrati» o «squilibrati», «radicati» o «sradicati», «con i piedi per terra» o «con la testa fra le nuvole», stiamo parlando il linguaggio del nostro apparato vestibolare, la cui verità è pienamente evidente solo a persone come Cheryl. Non sorprende il fatto che i pazienti affetti da questo disturbo vadano incontro a danni psicologici molto gravi, e che molti fra di loro siano arrivati al suicidio. Abbiamo sensi che non sappiamo di avere, almeno fino a 14

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quando non li perdiamo; di norma l'equilibrio funziona così bene, e senza che ce ne accorgiamo, che neppure Aristotele lo elencò fra i cinque sensi, e nei secoli successivi fu del tutto trascurato. Il sistema dell'equilibrio fornisce il senso dell'orientamento nello spazio. Il suo organo sensoriale, l'apparato vestibolare, consiste di tre canali semicircolari situati nell'orecchio interno che ci dicono quando siamo in posizione eretta e in che modo la gravità agisce sul nostro corpo, rilevando i movimenti nello spazio tridimensionale. Due canali rilevano rispettivamente i movimenti sul piano orizzontale e verticale, mentre il terzo quelli in avanti e indietro. I canali semicircolari contengono delle cellule cigliate immerse in un fluido. Quando muoviamo la testa, il fluido muove le ciglia, le quali inviano un segnale al cervello informandoci che abbiamo aumentato la nostra velocità in una determinata direzione. Ogni movimento richiede un adeguato aggiustamento del resto del corpo. Se muoviamo la testa in avanti, il cervello fa in modo che una parte ben precisa del nostro corpo si disponga, in modo involontario, per compensare il cambiamento nel baricentro e mantenere l'equilibrio. I segnali provenienti dall'apparato vestibolare vengono trasmessi da un nervo fino a un gruppo di neuroni nel cervello, chiamato «nucleo vestibolare», il quale elabora quei segnali e invia i comandi ai muscoli. Un apparato vestibolare sano è in stretta relazione anche con il sistema visivo. Mentre correte per prendere l'autobus, e la vostra testa sobbalza avanti e indietro, riuscite a mantenere l'autobus in movimento al centro del vostro campo visivo perché l'apparato vestibolare invia dei messaggi al cervello informandolo della velocità e della direzione della vostra corsa. Questi segnali permettono al cervello di ruotare e adattare la posizione dei bulbi oculari in direzione del vostro obiettivo, in questo caso l'autobus. ' Cheryl e io siamo in compagnia di Paul Bach-y-Rita, uno dei più grandi pionieri nella comprensione della neuroplasticità, e del suo team di ricerca in uno dei suoi laboratori. Cheryl nutre molte speranze nell'esperimento di oggi, è coraggiosa e al tempo stesso non si fa illusioni sulla propria condizione. Yuri Danilov, il biofi15

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sico dell'équipe, sta elaborando i dati raccolti dal sistema vestibolare di Cheryl. Yuri è russo ed è un uomo molto brillante. Con un forte accento spiega:« Il sistema vestibolare di Cheryl è compromesso tra il novantacinque e il cento per cento». Secondo gli standard convenzionali, il caso di Cheryl è senza speranza. È opinione comune che il cervello è costituito da una serie di moduli specializzati, geneticamente« cablati» per svolgere ed elaborare in modo esclusivo alcune funzioni specifiche. Ogni modulo si è sviluppato e perfezionato nel corso di un'evoluzione durata milioni di anni. Quando uno di questi moduli viene danneggiato, non può essere rimpiazzato. Ora che il suo modulo vestibolare è compromesso, le possibilità che Cheryl ha di recuperare il senso dell'equilibrio sono pari a quelle che una persona con un danno alla retina ha di tornare a vedere. Ma oggi questo punto di vista sta per essere messo in discussione. Cheryl indossa un elmetto da cantiere con dei fori sui lati e un accelerometro all'interno. Dopo averla leccata, mette una striscia di plastica con dei piccoli elettrodi sulla lingua. L'accelerometro nell'elmetto invia dei segnali alla striscia, ed entrambi sono collegati a un computer. Cheryl ride pensando a come deve sembrare combinata in quel modo: «Rido per non piangere! » Questa macchina è uno dei bizzarri prototipi messi a punto da Bach-y-Rita. La sua funzione è quella di sostituirsi all'apparato vestibolare di Cheryl e inviare dei segnali al suo cervello attraverso la lingua. Lo strano dispositivo dovrebbe far svanire l'incu·bo senza fine in cui Cheryl è precipitata. Nel 1997, dopo un normale intervento di isterectomia, la donna, che allora aveva trentanove anni, contrasse un'infezione postoperatoria. Per questo le fu somministrata la gentamicina, un antibiotico che a dosaggi eccessivi è noto per provocare danni alle strutture dell'orecchio interno e che può portare a perdita dell'udito, acufeni (fischi e ronzii nelle orecchie) e gravi conseguenze al sistema dell'equilibrio. Cheryl non perse l'udito, ma andò incontro agli altri problemi provocati dal farmaco. In virtù del basso costo e della sua efficacia, la gentamicina viene ancora prescritta, anche se di norma solo per brevi periodi. A Cheryl venne somministrata oltre questo

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limite, entrando così a far parte di un ristretto gruppo di vittime della gentamicina noti come wobblers. * Un giorno, improvvisamente, la donna scoprì di non essere in grado di rimanere in piedi senza cadere. Se voltava la testa, si muoveva tutta la stanza. Non riusciva a capire se fossero i muri o lei stessa a provocare il movimento. Alla fine poté alzarsi in piedi appoggiandosi al muro. Raggiunse il telefono e chiamò il medico. Quando arrivò in ospedale i medici la sottoposero a vari test per verificare il funzionamento della funzione vestibolare. Le versarono acqua gelida e poi calda nelle orecchie e la fecero sdraiare su un lettino. Quando le chiesero di alzarsi in piedi con gli occhi chiusi, Cheryl cadde. Un medico le disse: «Lei non ha la funzione vestibolare». I test mostrarono che la donna aveva mantenuto circa il due per cento della funzione. «Era così indifferente» racconta Cheryl, «'Sembra si tratti di un effetto collaterale della gentamicina' ». A questo punto si emoziona. «Perché nessuno me l'aveva detto? 'È un danno permanente' disse il medico. Ero sola. Mi aveva accompagnato mia madre, ma era uscita per prendere l'auto e mi stava aspettando fuori dall'ospedale. Quando uscii mia madre mi chiese: 'Guarirai, non è vero?' La guardai e le dissi: 'È permanente ... non guarirò mai'». Poiché il danno riguardava la connessione tra l'apparato vestibolare di Cheryl e il suo sistema visivo, difficilmente i suoi occhi riuscivano a seguire un oggetto in movimento. « Quando guardo qualcosa, ondeggia come in un pessimo video amatoriale» mi spiega. «Tutto quello che guardo sembra fatto di gelatina, e ogni volta che faccio un passo tutto inizia a dondolare». Nonostante non riesca a seguire con lo sguardo gli oggetti in movimento, la vista è l'unico mezzo che ha a disposizione per capire di essere in posizione eretta. Fissando delle linee orizzontali, gli occhi ci aiutano a sapere la nostra posizione nello spazio. Al buio Cheryl cade subito a terra. La vista, tuttavia, si dimostra un supporto inaffidabile, dal momento che qualunque movimento di fronte a lei - anche una persona che va nella sua direzione -

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Dal verbo to wobble, letteralmente« coloro che barcollano». (N.d. T.)

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accresce la sensazione di cadere. Perfino i disegni a zigzag di un tappeto innescano una serie di falsi segnali che le danno l'impressione di essere prona quando in realtà non lo è affatto. Dovendo stare sempre in allerta, Cheryl soffre pure di un notevole stress. Le occorre molta energia mentale per mantenere la posizione eretta, a discapito di altre funzioni cerel;>rali come la memoria, il calcolo e il ragionamento. Mentre Yuri legge a Cheryl i risultati del computer, chiedo di poter provare la macchina. Indosso l'elmetto da cantiere e infilo in bocca il dispositivo di plastica con gli elettrodi, chiamato «dispositivo linguale». È piatto, sottile come un chewing-gum. L'accelerometro collocato nell'elmetto rileva i movimenti su due piani. Se abbasso la testa, il movimento viene trascritto in un diagramma, visibile nel monitor, che permette all' équipe di tenerlo sotto controllo. Lo stesso diagramma è riprodotto in una minuscola matrice di centoquarantaquattro elettrodi impiantati nella striscia di plastica sulla mia lingua. Se piego la testa all'indietro, scosse elettriche simili a bollicine di champagne scoppiettano sulla punta della lingua, informandomi che mi sono piegato troppo all'indietro. Sul monitor posso vedere dove si trova la mia testa. Se muovo la testa nella direzione opposta, sento una leggera scossa verso la parte posteriore della lingua. Lo stesso accade quando inclino la testa di lato. Poi chiudo gli occhi e provo a muovermi nello spazio con la lingua. Ben presto mi dimentico che l'informazione sensoriale proviene dalla mia lingua e che può «leggere» la mia posizione nello spazio. Cheryl riprende l'elmetto; si tiene in equilibrio appoggiandosi al tavolo. «Iniziamo» dice Yuri, controllando i comandi. Cheryl indossa l'elmetto e chiude gli occhi. Si stacca dal tavolo, tenendovi solo due dita per mantenere il contatto. Non cade, malgrado non abbia la minima indicazione di cosa stia accadendo intorno a lei, se non per le bollicine di champagne sulla lingua. Cheryl solleva le dita dal tavolo. Non sta ancora barcollando. Scoppia a piangere - le lacrime che scorrono dopo un trauma-, ora può dire di indossare l'elmetto e di sentirsi sicura. La prima volta che lo ha indossato, la perenne sensazione di cadere 18

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ha abbandonato Cheryl, ed è stata la prima volta in cinque anni. Il suo scopo oggi è rimanere in piedi, senza alcun sostegno, per venti minuti, con indosso l'elmetto, cercando di mantenere la concentrazione. Per chiunque - figuratevi per un wobbler - rimanere dritti in piedi per venti minuti richiede la preparazione e labilità di una guardia di Buckingham Palace. Cheryl appare tranquilla. Non si muove più a scatti, è i misteriosi demoni che la scuotevano e la spingevano sembrano svaniti. Il suo cervello sta decodificando i segnali provenienti dall' apparato vestibolare artificiale. Per lei questi momenti di pace sono un miracolo - un miracolo neuroplastico, poiché in qualche modo quel formicolio sulla lingua, che normalmente raggiunge la regione cerebrale chiamata corteccia sensoriale, ossia la sottile membrana che ricopre il cervello e che elabora le sensazioni tattili, arriva fino alla regione che elabora l'equilibrio lungo un nuovo percorso cerebrale. «Stiamo lavorando per rendere questo dispositivo abbastanza piccolo per essere nascosto nella bocca» dice Bach-y-Rita, «come un apparecchio ortodontico. È il nostro obiettivo. Così Cheryl, e chiunque abbia il suo stesso problema, avranno di nuovo una vita normale: potranno indossare il dispositivo, parlare e mangiare senza che nessuno se ne accorga. «Ma non sarà utile solo a pazienti danneggiati dalla gentamicina » prosegue. «Ieri il New York Times 1 ha pubblicato un articolo sulle cadute cui vanno soggetti gli anziani, i quali sono più spaventati dalla possibilità di cadere che di essere rapinati. Un terzo delle persone anziane cade e, poiché gli anziani hanno paura di cadere, rimangono in casa, non fanno attività fisica e fisicamente diventano ancora più fragili. Ma credo che il problema risieda anche nel fatto che il senso dell'equilibrio - proprio come l'udito, il gusto, la vista e gli altri sensi - si indebolisce con l'invecchiamento. Questo dispositivo li aiuterà». «Abbiamo finito» dice Yuri spegnendo la macchina. Ma ecco la seconda meraviglia neuroplastica. Cheryl si toglie il «dispositivo linguale» e l'elmetto. Fa un gran sorriso, rimane in piedi con gli occhi chiusi e non cade. Poi riapre gli occhi e, sem19

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pre senza toccare il tavolo, solleva un piede dal pavimento, tenendosi in equilibrio con l'altro. «Amo quest'uomo» dice, va verso Bach-y-Rita e lo abbraccia. Poi viene verso di me. La sua emozione è incontenibile, per il fatto di sentire di nuovo la terra sotto i piedi, e abbraccia anche me. «Mi sento stabile, solida. Non devo pensare a dove si trovano i miei muscoli. Posso davvero pensare ad altre cose». Torna da Yuri e gli dà un bacio. «Voglio sottolin~are che si tratta di un miracolo» dice Yuri, che si considera uno scettico empirista. «Praticamente Cheryl non ha dei sensori naturali. Nei venti minuti precedenti le abbiamo fornito dei sensori artificiali. Ma il vero miracolo è quanto sta accadendo ora, dopo aver staccato il dispositivo. Cheryl non ha un apparato vestibolare, artificiale o naturale che sia. Abbiamo risvegliato una qualche forza dentro di lei». La prima volta che provò l'elmetto, Cheryl lo indossò solo per un minuto. Subito dopo i ricercatori notarono un «effetto residuo» che era durato circa venti secondi, un terzo del tempo in cui Cheryl aveva tenuto il dispositivo. Poi lo indossò per due minuti, e l'effetto residuo durò quaranta secondi. Si arrivò così a venti minuti, con la previsione di un effetto residuo di sette minuti. Ma anziché prolungarsi per un terzo, durò il triplo del tempo, un'ora intera. Oggi, dice Bach-y-Rita, stiamo verificando se indossando la macchina venti minuti in più si riesca ad arrivare a una sorta di« allenamento», in modo che l'effetto residuo si protragga anche di più. Cheryl inizia a scherzare e a far vedere quanto è brava. « Posso camminare di nuovo come una donna. Forse non interesserà a molti, ma significa molto per me non dover più camminare a gambe larghe». Cheryl sale su una sedia e salta giù. Si china a raccogliere degli oggetti dal pavimento, mostrando di essere capace di raddrizzarsi. «L'ultima volta riuscivo a saltare la corda ». «La cosa stupefacente» dice Yuri, «è che Cheryl non si limita a mantenere la postura. Dopo aver indossato la macchina per un po', si muove quasi normalmente. Sta in equilibrio su una trave. Guida l'auto. La funzione vestibolare è stata recuperata. Quando muove la testa, è in grado di mantenere lo sguardo sull'obiet-

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tivo: anche il collegamento tra il sistema visivo e quello vestibolare è stato ripristinato». Alzo lo sguardo, e Cheryl sta ballando con Bach-y-Rita. È lei a condurre. Come può Cheryl ballare e aver recuperato un funzionamento normale senza l'ausilio della macchina? Bach-y-Rita ritiene che vi siano diverse ragioni. Innanzitutto, il sistema vestibolare danneggiato di Cheryl è disorganizzato e «rumoroso», ossia invia dei segnali senza senso. Inoltre, il rumore proveniente dal tessuto compromesso blocca anche qualunque segnale inviato dal tessuto sano. La macchina aiuta a rinforzare i segnali provenienti dai tessuti sani. Bach-y-Rita pensa che la macchina aiuti anche aristabilire altri percorsi cerebrali, ed è qui che entra in gioco la neuroplasticità. Il cervello è costituito da numerosi percorsi neuronali, ossia neuroni connessi fra loro e che lavorano insieme. Se alcuni percorsi importanti sono bloccati, il cervello ne utilizza altri più vecchi per aggirarli. «Vi faccio un esempio» dice Bach-yRita. «Se state guidando da qui a Milwaukee, e il ponte principale è chiuso, all'inizio siete paralizzati. Poi prendete le vecchie strade secondarie attraverso la campagna. Infine, usando sempre di più queste strade, trovate dei percorsi più brevi per andare dove volete, e così iniziate a essere anche più veloci». Questi percorsi neuronali «secondari» vengono, per così dire, « smascherati» e scoperti e, attraverso l'uso, potenziati. Generalmente si ritiene che tale «smascheramento» sia uno dei modi principali con cui il cervello plastico riorganizza se stesso. Il fatto che Cheryl stia gradualmente prolungando la durata dell'effetto residuo suggerisce che il percorso «smascherato» sta diventando più efficace. Bach-y-Rita spera che con l'esercizio Cheryl riesca ad allungare ulteriormente l'effetto residuo. Qualche giorno dopo Bach-y-Rita riceve un'e-mail in cui Cheryl riporta la durata dell'effetto residuo. «Il tempo residuo totale è stato di tre ore e venti minuti ... il barcollamento inizia nella mia testa, come al solito ... Faccio fatica a trovare le parole ... Come se nuotassi nella mia testa. Stanca, esausta ... depressa». Tornare alla normalità è molto duro. Quando accade tutto questo, Cheryl si sente morire, come se tornasse alla vita· e poi

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morisse di nuovo. D'altra parte, tre ore e venti minuti dopo appena venti minuti con la macchina significa che il tempo residuo è dieci volte maggiore della durata del trattamento. E la prima wobbler a ricevere un trattamento simile, e anche se il tempo residuo non aumenta più, Cheryl può indossare il dispositivo quattro volte al giorno e avere una vita normale. Ma ci sono buone ragioni per aspettarsi di più, dal momento che ogni seduta sembra allenare il suo cervello a estendere il tempo residuo. Se questo può aiutarla ... ... e infatti le è stato d'aiuto. Nel corso dell'anno successivo Cheryl ha indossato la macchina con maggiore frequenza allo scopo di avere un maggior sollievo e accrescere l'effetto residuo: è arrivata a molte ore, poi giorni, quindi fino a quattro mesi. Oggi Cheryl non usa più la macchina e non si considera più un wob-

bler. Nel 1969 Nature, la rivista scientifica più autorevole in Europa, pubblicò un breve articolo in cui simili idee avevano ancora un sapore fantascientifico. Il suo autore principale,Paul Bach-y-Rita, era sia uno scienziato sia un fisioterapista - una combinazione piuttosto rara. L'articolo descriveva un dispositivo che permetteva a persone non vedenti dalla nascita di tornare a vedere. Tutti i soggetti trattati presentavano danni alla retina ed erano considerati incurabili. 2 L'articolo pubblicato su Nature fu ripreso dal New York Times, da Newsweek e Li/e, ma forse a causa della scarsa plausibilità delle sue affermazioni il dispositivo e il suo inventore vennero ben presto dimenticati. L'articolo era corredato dall'immagine di un macchinario dal1'aspetto bizzarro: una vecchia poltrona da dentista dotata di uno schienale vibrante, un groviglio di cavi e dei computer ingombranti. L'intero marchingegno, assemblato con materiali di scarto e componenti elettronici dell'epoca, pesava più di centocinquanta chili. Un soggetto non vedente dalla nascita - pertanto senza alcuna esperienza visiva - si sedeva sulla macchina, dietro a una grossa telecamera simile a quelle che si usavano allora negli studi televi-

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sivi. La persona «scrutava» la scena davanti a sé facendo ruotare le manovelle che muovevano la telecamera, la quale inviava i segnali elettrici dell'immagine al computer, che a sua volta li elaborava. Quindi i segnali elettrici venivano convogliati a quattrocento stimolatori vibranti disposti in file su una piastra metallica fissata allo schienale della sedia, in modo da aderire alla schiena del soggetto. Gli stimolatori si attivavano come dei punti vibranti in corrispondenza -delle zone scure dell'immagine, e smettevano di vibrare per quelle più chiare. Questo «dispositivo per la visione tattile», come venne chiamato, consentiva a soggetti non vedenti di leggere, scorgere volti e ombre, e stabilire la vicinanza e la lontananza degli oggetti. La macchina permetteva loro di scoprire la prospettiva, intuendo come gli oggetti sembrino cambiare la loro forma da punti d'osservazione differenti. I sei soggetti coinvolti nell'esperimento impararono a riconoscere alcuni oggetti, come ad esempio un telefono, anche quando questo era parzialmente nascosto da un vaso. Erano gli anni Sessanta, e impararono a riconoscere anche la foto di una top model di allora, l'anoressica Twiggy. Tutti coloro che utilizzarono lo strano « dispositivo per la visione tattile» ebbero una notevole esperienza percettiva nel passaggio dalle sensazioni tattili al «vedere» persone e oggetti. Con un po' di pratica, i soggetti non vedenti iniziarono ad avere esperienza della tridimensionalità dello spazio di fronte a loro, nonostante l'informazione tattile provenisse dalla matrice bidimensionale a contatto con la schiena. Se una palla veniva lanciata verso la telecamera, il soggetto scattava automaticamente all'indietro per evitarla. Se la matrice veniva applicata all' addome anziché alla schiena, i soggetti continuavano a percepire la scena come se si svolgesse davanti alla telecamera. Se venivano solleticati in prossimità degli stimolatori, non confondevano il solletico con uno stimolo visuale. La loro esperienza percettiva mentale non si verificava sulla pelle, ma nell'ambiente intorno a loro. Inoltre, le loro percezioni erano complesse. Con la pratica i soggetti erano in grado di spostare la telecamera e dire cose come: «Questa è Betty; oggi ha i capelli sciolti e non indossa gli occhiali; ha la bocca aperta, e sta muovendo la mano destra intorno

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alla testa, da sinistra verso destra». Certo, la definizione spesso era molto povera ma, come avrebbe spiegato Bach-y-Rita, la visione non dev'essere perfetta perché sia tale. «Se stiamo camminando lungo una strada nebbiosa e guardiamo il profilo di un edificio, non lo vediamo perché manca di definizione? Quando guardiamo qualcosa in bianco e nero, forse non lo vediamo perché mancano i colori? » La macchina di Bach-y-Rita, ormai dimenticata, è stata una delle prime e più coraggiose applicazioni della nozione di neuroplasticità: il tentativo cioè di utilizzare un senso per sostituirne un altro. E ha funzionato. Tuttavia fu ritenuta improbabile e venne ignorata poiché il punto di vista della scienza di allora presupponeva che la struttura del cervello fosse fissata una volta per tutte, e che i nostri sensi, ossia le strade che l'esperienza percorre per raggiungere la mente, fossero «cablati». Questa idea, che ha ancora molti sostenitori, è chiamata « localizzazionismo » * ed è strettamente connessa all'idea che il cervello è simile a una macchina molto complessa, di cui ogni componente svolge una funzione mentale specifica e possiede una collocazione, o « localizzazione», geneticamente predeterminata o cablata. Un cervello cablato, e in cui ogni funzione mentale ha una localizzazione ben precisa, lascia ben poco spazio alla plasticità. L'idea del cervello-macchina ha ispirato e guidato le neuroscienze fin da quando fu concepita nel Seicento, prendendo il posto di nozioni dal significato più mistico come l'anima e il corpo. Gli scienziati, impressionati dalle scoperte di Galileo Galilei (1564-1642), il quale aveva mostrato che i pianeti potevano essere studiati come corpi inanimati mossi da forze meccaniche, si convinsero che tutta la natura funzionasse come un immenso orologio cosmico soggetto alle leggi della fisica, e iniziarono così

* Traduzione letterale del termine usato dall'autore che fa riferimento ad alcuni concetti e modelli neuropsicologici secondo i quali ogni regione cerebrale è deputata a una particolare e unica funzione senza interazione con le altre aree encefaliche. In questo modo eliminiamo anche il termine« modellare», che si riferisce in particolare a uno di questi modelli, forse il più celebre e fortunato, che fu elaborato appunto negli anni Sessanta del Novecento. 24

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anche i singoli esseri viventi, e i nostri organi corporei,

i11 termini meccanici, come se fossero delle macchine. L'idea secondo cui la natura sarebbe un unico grande meccanismo, e i nostri corpi simili a macchine, sostituì la nozione greca, antica di duemila anni, secondo cui la natura è un grande organismo vivente, e i nostri corpi nient'altro che meccanismi inanimati.3 Questa nuova «biologia meccanicista» raggiunse alcuni risultati eccezionali. William Harvey (1578-1657), che studiò anatomia a Padova, dove insegnava Galileo, scoprì che il sangue circola nel nostro corpo e dimostrò che il cuore funziona come una pompa. Ben presto molti scienziati furono dell'opinione che, affinché una spiegazione fosse considerata scientifica, dovesse essere meccanicistica, ossia soggetta alle leggi meccaniche del moto. Sulla scia di Harvey, il filosofo francese Cartesio (1596-1650) sosteneva che anche il cervello e il sistema nervoso funzionassero come una pompa, che è chiaramente una macchina molto semplice. I nostri nervi sono in realtà dei tubi, argomentava Cartesio, che dagli arti raggiungono il cervello e viceversa. Fu il primo a teorizzare il funzionamento dei riflessi: quando la pelle viene toccata, una sostanza simile a un fluido che scorre nei nervi raggiunge il cervello e da qui viene meccanicamente «riflessa» in direzione opposta inducendo i muscoli a muoversi. Per quanto una teoria simile possa apparire grossolana, Cartesio non era poi così lontano dalla verità. Non molto tempo dopo, gli scienziati perfezionarono la sua rudimentale concezione, sostenendo che attraverso i nervi non scorresse un fluido, ma una corrente elettrica. La prospettiva cartesiana di un cervello assimilabile a una macchina molto complessa sarebbe culminata nel localizzazionismo e nell'attuale visione che associa il cervello a un computer. Come una macchina, il cervello viene così considerato costituito di parti, ciascuna con una collocazione predeterminata e una funzione ben precisa da svolgere: in questo modo, se una di quelle parti viene danneggiata, non è possibile sostituirla. Dopotutto, nelle macchine i« pezzi» danneggiati non ricrescono. 4 Il localizzazionismo fu applicato anche ai sensi e si teorizzò che ciascuno di essi - vista, udito, gusto, tatto, olfatto, equilibrio disponesse di un tipo di cellula recettore specializzata nel rilevare ogni forma di energia intorno a noi. 5 Quando vengono stimo-

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lati, questi recettori inviano un segnale elettrico lungo i nervi verso una regione specifica del cervello, dove il segnale viene elaborato. Molti sciénziati credevano che ognuna di queste aree cerebrali fosse così specializzata da non poter svolgere la funzione di un'altra. Praticamente isolato dai suoi colleghi, Paul Bach-y-Rita rifiutava le tesi localizzazioniste. Egli scoprì che i nostri sensi hanno una natura inaspettatamente plastica, e che se uno di essi subisce un danno, talvolta un altro può prenderne il posto, in un processo che egli chiama «sostituzione sensoriale». Bach-y-Rita sviluppò dei modi per stimolare la sostituzione sensoriale e dei dispositivi che fornissero dei « supersensi ». Con la scoperta che il sistema nervoso può adattarsi a vedere con una telecamera anziché con la retina, Bach-y-Rita pose le basi perché si realizzasse la speranza più grande per i non vedenti: impianti di retina, che possono essere introdotti chirurgicamente all'interno dell' occhio. Anziché dedicarsi a un unico campo, come la maggior parte degli scienziati, Bach-y-Rita è diventato un esperto in molti ambiti:· medicina, psicofarmacologia, neurofisiologia oculare (lo studio della struttura muscolare dell'occhio), neurofisiologia visiva (lo studio della vista e del sistema nervoso) e ingegneria biomedica. Egli segue le sue idee ovunque lo portino. Parla cinque lingue e ha vissuto per lunghi periodi in Italia, Germania, Francia, Messico, Svezia e in vari luoghi negli Stati Uniti. Ha lavorato nei laboratori dei più grandi ricercatori e di scienziati insigniti del premio Nobel, ma non ha mai dato molta importanza a quello che pensavano gli altri, e non partecipa ai giochi politici, come molti suoi colleghi, per poter proseguire il suo lavoro. Dopo essere diventato dottore, abbandonò la medicina e passò alla ricerca di base. Si pose delle domande che sembravano sfidare il senso comune, come ad esempio: «Gli occhi sono necessari per vedere, o le orecchie per ascoltare, la lingua per gustare, il naso per annusare?» In seguito, all'età di quarantaquattro anni, sempre alla ricerca di nuovi stimoli, tornò alla medicina e divenne un medico ospedaliero. Affrontava giornate interminabili e lunghe notti insonni in uno dei rami meno appassionanti della medicina riabili-

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lativa. La sua ambizione era quella di trasformare una palude intellettuale in una scienza, attraverso l'applicazione di ciò che nveva imparato sulla plasticità. Bach-y-Rita è un uomo senza alcuna pretesa. Se non è la moglie a impedirglielo, per lui non è un problema indossare abiti da quattro soldi o comprati dall'Esercito della Salvezza. Sua moglie guiJa l'ultimo modello di Audi Passat, lui si accontenta di un'auto urrugginita vecchia di dodici anni. Ha una capigliatura grigia, folta e ondulata, parla a voce bassa e speditamente, ha una carnagione piuttosto scura, mediterranea, per via delle sue origini di ebreo spagnolo, e dimostra molto meno dei suoi sessantanove anni. Ovviamente ha l'aspetto di un intellettuale, ma dimostra un affetto caloroso nei confronti della moglie, Esther, una messicana di origini maya. E abituato al ruolo di outsider. È cresciuto nel Bronx, e all'inizio del liceo era alto appena un metro e quaranta centimetri a causa di una misteriosa malattia che per otto anni ne aveva bloccato la crescita. Per due volte ricevette una diagnosi preliminare di leucemia. Ogni giorno veniva picchiato dagli studenti più grandi e nel corso di quegli anni sviluppò una soglia del dolore straordinariamente elevata. All'età di dodici anni la sua appendice esplose, e la malattia misteriosa da cui era affetto, una rara forma di appendicite cronica, fu correttamente diagnosticata. Crebbe di venti centimetri e vinse il suo primo scontro con i bulli della scuola. Stiamo attraversando in macchina Madison, nel Wisconsin, dove Bach-y-Rita vive quando non è in Messico. È un uomo molto modesto, e solo dopo aver parlato insieme per ore si concede un unico commento appena velatamente positivo sul proprio lavoro. «Posso collegare qualunque cosa» dice sorridendo. «Noi vediamo con il nostro cervello, non con i nostri occhi» dice. Questa affermazione va contro la nozione dettata dal senso comune secondo cui vediamo con i nostri occhi, udiamo con le orecchie, percepiamo i sapori con la lingua e gli odori con il naso, e sentiamo con la pelle. Chi metterebbe in discussione simili

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fatti? Ma per Bach-y-Rita i nostri occhi si limitano a rilevare dei cambiamenti nell' ~nergia luminosa; è il nostro cervello che li percepisce e che perciò vede. Per Bach-y-Rita non è importante come una sensazione arrivi al cervello. «Quando un cieco usa un bastone, lo muove avanti e indietro, e i recettori sulla pelle della mano ricevono informazioni solo attraverso la punta del bastone. Tuttavia questo movimento oscillatorio permette al cieco di capire dove si trova lo stipite della porta, o la sedia, o capire di aver urtato il piede di qualcuno. Quindi usa queste informazioni per arrivare alla sedia e sedersi. Sebbene i sensori nella mano siano il luogo in cui il cieco riceve le informazioni e dove il bastone si 'interfaccia' con lui, ciò che percepisce soggettivamente non è la pressione del bastone sulla mano, ma la disposizione della stanza: sedie, pareti, piedi, lo spazio tridimensionale. I recettori superficiali della mano diventano solo un punto di passaggio per le informazioni, una 'porta per i dati'. In questo processo il recettore superficiale perde la propria identità». Bach-y-Rita concluse che la pelle e i recettori tattili potevano sostituire la retina, poiché sia la pelle sia la retina sono strutture bidimensionali ricoperte di recettori sensoriali, i quali permettono che sulla loro superficie si formi un'«immagine ». 6 Un conto è individuare una nuova «porta per i dati», o un modo in cui le sensazioni raggiungono il cervello. Ben altra cosa è, per il cervello, decodificare le sensazioni tattili e convertirle in immagini. Per fare ciò, il cervello deve imparare qualcosa di nuovo, e la regione cerebrale dedicata all'elaborazione del tatto deve adattarsi a segnali di tipo nuovo. Tale adattabilità implica la plasticità del cervello, nel senso che può riorganizzare il proprio sistema sensorio-percettivo. Se il cervello è capace di riorganizzarsi, il semplice localizzazionismo non può costituire un modello cerebrale corretto. All'inizio anche Bach-y-Rita era un localizzazionista, sulla scia dei brillanti successi ottenuti da questa teoria. La prima forma di localizzazionismo venne proposta nel 1861, quando Paul Broca, un chirurgo, dovette occuparsi di un paziente che, dopo aver subito un ictus, aveva perso la capacità di parlare ed era in grado di pronunciare una sola sillaba. Qualunque cosa gli si chiedesse, il

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pover'uomo rispondeva: « Tan, tan ». Alla morte del paziente, Broca ne dissezionò il cervello e riscontrò delle lesioni nel tessuto del lobo frontale sinistro. Gli scettici dubitavano che il linguaggio potesse essere localizzato in una precisa regione cerebrale, finché Broca non mostrò loro il tessuto danneggiato, quindi riferì di altri pazienti che avevano perso la capacità di parlare e che avevano subito un danno nella medesima regione. Questa venne chiamata «area di Broca » e si ipotizzò che coordinasse i movimenti dei muscoli delle labbra e della lingua. Non molto tempo dopo un altro medico, Carl Wemicke, ricollegò il danno cerebrale in un'altra regione a un problema differente: l'incapacità di comprendere il linguaggio. Wemicke propose che la zona lesionata fosse responsabile della rappresentazione mentale delle parole e della loro comprensione. Questa regione venne chiamata «area di Wemicke». Nel corso del secolo successivo, il localizzazionismo divenne sempre più specifico man mano che nuove ricerche definivano la mappa del cervello. Sfortunatamente la questione del localizzazionismo fu presto enfatizzata in modo eccessivo. Da una serie di interessanti correlazioni (le osservazioni secondo cui la lesione di aree specifiche del cervello portavano alla perdita di funzioni mentali specifiche) si passò a una teoria generale che dichiarava come a ogni funzione cerebrale corrispondesse un'unica collocazione «cablata». Questa idea era riassunta dall'espressione «una funzione, una localizzazione»: se una parte era danneggiata, il cervello non avrebbe potuto riorganizzarsi o recuperare la funzione compromessa.7 Iniziò così l'epoca oscura de1la neuroplasticità, e qualunque eccezione al motto del localizzazionismo veniva ignorata. Nel 1868 Jules Cotard studiò il caso di alcuni bambini che avevano subito un danno cerebrale precoce ed esteso, e in cui l'emisfero sinistro (fra cui l'area di Broca) era seriamente compromesso. Nonostante ciò, questi bambini parlavano normalmente. 8 Questo significava che, anche se il linguaggio tendeva a essere elaborato nell'emisfero sinistro, come affermava Broca, in caso di necessità il cervello era abbastanza plastico per riorganizzarsi. Nel 187 6 Otto Soltmann rimosse la corteccia motoria - la regione del cervello che si riteneva responsabile del movimento - da alcuni

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cuccioli di cani e conigli, e scoprì che questi erano in grado di muoversi. 9 Simili risultati vennero sommersi dall'entusiasmo per il localizzazionismo. Bach-y-Rita cominciò a dubitare del localizzazionismo mentre si trovava in Germania all'inizio degli anni Sessanta. Si era unito a un gruppo di ricercatori che stava studiando il funzionamento della vista attraverso la misurazione, tramite degli elettrodi, delle scariche elettriche prodotte nella corrispondente area cerebrale di un gatto. L'équipe si aspettava che, quando all'animale veniva mostrata un'immagine, gli elettrodi avrebbero rilevato un picco di corrente elettrica, mostrando che quella regione cerebrale stava elaborando quell'immagine. E così fu. Ma quando qualcuno toccò accidentalmente la zampa del gatto, l'area visiva si attivò ugualmente, indicando che stava elaborando pure le sensazioni tattili. 10 Si scoprì poi che l'area visiva era attiva anche quando il gatto udiva dei suoni. Bach-y-Rita iniziò a pensare che l'idea localizzazionista «una funzione, una localizzazione» non poteva essere corretta. L'area «visiva» del cervello del gatto stava elaborando almeno altre due funzioni, tattile e uditiva. Cominciò a ritenere che varie aree del cervello fossero « polisensoriali », ossia che le regioni sensoriali fossero in grado di elaborare i dati provenienti da più di un senso. Questo può accadere perché tutti i nostri recettori sensoriali traducono vari tipi di energia proveniente dal mondo esterno, non importa di quale origine, in segnali elettrici che vengono inviati lungo i nervi. Tali segnali elettrici costituiscono il linguaggio universale «parlato» nel nostro cervello: non ci sono immagini, suoni, odori o sensazioni che si muovono all'interno dei neuroni. Bach-y-Rita comprese come le aree che elaborano questi impulsi elettrici siano assai più omogenee di quanto i neuroscienziati pensino. 11 Questa convinzione trovò ulteriore sostegno quando il neuroscienziato Vernon Mountcastle scoprì che i vari tipi di corteccia -visiva, uditiva e tattile - presentano tutte una struttura simile a sei strati. Per Bach-y-Rita ciò significa che ogni parte della corteccia dovrebbe poter elaborare qualunque segnale elettrico riceva, e che i moduli del cervello, dopotutto, non sono poi così specializzati.

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Nel corso degli anni successivi Bach-y-Rita iniziò a studiare tutte le eccezioni al localizzazionismo. 12 Grazie alla sua conoHcenza delle lingue, indagò a fondo nella letteratura più datata e mai tradotta e riscoprì alcuni lavori scientifici condotti prima che si affermassero le versioni più ortodosse del localizzazionismo. Bach-y-Rita scoprì l'opera di Marie-Jean-Pierre Flourens, il quale negli anni Venti dell'Ottocento mostrò che il cervello può riorganizzare se stesso. 13 Inoltre lesse gli scritti di Broca in francese, citati spessissimo ma raramente tradotti, e trovò che perfino il medico francese non aveva escluso del tutto la neuroplasticità come invece avrebbero fatto i suoi seguaci. Il successo del dispositivo per la visione tattile indusse Bach-yRita a reinventare la sua visione del cervello umano. In fondo, il miracolo non era la sua macchina ma il cervello con la sua vitalità, flessibilità e adattabilità a nuovi segnali artificiali. Come parte del processo di riorganizzazione, egli suppose che i segnali tattili (inizialmente elaborati nella corteccia sensoriale, nella parte superiore del cervello) venissero dirottati verso la corteccia sensoriale nella parte posteriore del cervello per un'elaborazione ulteriore: in altre parole, era possibile sviluppare qualunque percorso neuronale che andasse dalla pelle alla corteccia visiva. Quarant'anni fa, proprio quando il localizzazionismo era ali'apice dei suoi sucèessi scientifici, Bach-y-Rita avanzò le proprie critiche. Riconosceva i meriti del localizzazionismo, ma sosteneva che «un ampio corpo di evidenze indica come il cervello mostri una plasticità sia motoria sia sensoriale ». 14 Uno dei suoi articoli venne respinto per la pubblicazione ben sei volte, e non perché l'evidenza presentata venisse messa in discussione, ma perché l'autore era arrivato a usare il termine «plasticità» nel titolo. Dopo la pubblicazione dell'articolo su Nature, il suo amato mentore, Ragnar Granit, che nel 1967 ricevette il premio Nobel per la medicina grazie al suo lavoro sulla retina e che aveva fatto in modo che la tesi di laurea del suo allievo venisse pubblicata, invitò Bach-y-Rita per un tè. Granit chiese alla moglie di lasciare la stanza e, dopo aver elogiato il lavoro di Bach-y-Rita sui muscoli dell'occhio, gli chiese- per il suo bene- perché stesse sprecando il suo tempo con quel «giocattolo per adulti». Nonostante ciò

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Bach-y-Rita proseguì sulla sua strada e tracciò, in una serie di libri e in centinaia di articoli, le evidenze a sostegno della neuroplasticità, sviluppando una teoria che ne spiegasse il funzionamento.15 L'interesse principale di Bach-y-Rita divenne spiegare la nozione di plasticità, ma continuò a inventare dispositivi per la « sostituzione sensoriale». Lavorò con degli ingegneri per rendere più maneggevole la macchina per la «visione tattile». La scomoda e pesante piastra di stimolatori vibranti che era applicata allo schienale venne sostituita da una striscia di plastica ricoperta di elettrodi, sottile come un foglio di carta e del diametro di una moneta. La striscia andava collocata sulla lingua, che Bach-y-Rita considera l' «interfaccia macchina-cervello» ideale, un eccellente punto d'accesso al cervello, poiché sulla lingua non c'è uno strato di pelle morta e insensibile. Anche il computer venne drasticamente.ridimensionato, e la telecamera, che prima era grande quanto una valigia, ora poteva essere fissata alla montatura degli occhiali. Bach-y-Rita lavorò anche ad altri dispositivi per la sostituzione sensoriale. La NASA lo finanziò per mettere a punto un guanto elettronico «tattile» destinato agli astronauti. I guanti utilizzati fino a quel momento erano così spessi che gli astronauti non riuscivano a sentire piccoli oggetti o a compiere movimenti delicati. Sulla parte esterna dei guanti vennero montati dei sensori che trasmettevano dei segnali elettrici alla mano. In seguito Bach-yRita sfruttò questa esperienza per aiutare le persone affette dalla lebbra, una malattia che distrugge la pelle e le terminazioni nervose periferiche, fino alla perdita della sensibilità delle mani. Questo tipo di guanti, come quelli per gli astronauti, avevano dei sensori all'esterno, e inviavano dei segnali alle parti sane della pelle - lontano dalle mani - dove i nervi non erano stati colpiti dalla malattia. Le zone sane di pelle diventavano il punto d'accesso per le sensazioni tattili. Bach-y-Rita lavorò pure a un guanto che avrebbe aiutato i non vedenti a leggere lo schermo del computer, e perfino a un preservativo che, nelle speranze del suo inventore, avrebbe permesso di raggiungere l'orgasmo alle vittime di lesioni vertebrali che avevano perso la sensibilità del pene. 32

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In questo caso, Bach-y-Rita si basava sul presupposto che l'ecciLazione sessuale, come tutte le altre esperienze sensoriali, si trova «nel cervello»: pertanto, le sensazioni suscitate dai movimenti sessuali, raccolte dai sensori disposti sul preservativo, possono essere tradotte in impulsi elettrici che a loro volta possono essere trasmessi alla regione del cervello che elabora l'eccitazione sessuale. Altre potenziali applicazioni del suo lavoro riguardano i «supersensi», come la visione notturna o a infrarossi. Bach-y-Rita ha sviluppato un dispositivo per i Navy SEAL, le squadre speciali della marina americana, che permette di capire l'orientamento del corpo sott'acqua, o un apparecchio, testato in Francia, che informa il chirurgo dell'esatta posizione del bisturi tramite l'invio di segnali da un sensore elettronico fissato al bisturi stesso a un dispositivo applicato alla lingua o al cervello. All'origine delle ricerche condotte da Bach-y-Rita nel campo