I Sentieri Dei Paradossi. Autoreferenzialità e Regresso All Infinito in Logica in Letteratura e in Arte [PDF]

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Zitiervorschau

INDICE Introduzione........................................................................................................3

I. I Paradossi

1.1 Etimologia.......................................................................................................6 1.2 Definizioni......................................................................................................9 1.3 Classificazioni...............................................................................................11 1.4 Alcuni concetti logici basilari.......................................................................15 1.4.1 Enunciati, proposizioni, credenze, stati di cose.........................................15 1.4.2 Ragionamenti, argomenti, validità e correttezza.......................................16 1.4.3 Operatori logici enunciativi.......................................................................17 1.4.4 Regole di inferenza....................................................................................18 1.4.5 Quantificatori.............................................................................................20 1.4.6 Leggi logiche.............................................................................................21 1.5 Antinomie, fallacie, dilemmi, soriti..............................................................22 1.6 Neutralizzare i paradossi: dissoluzione e riduzione......................................25 1.7 Autoreferenzialità, circolo vizioso, ricorsività e regresso all’infinito..........28 1.8 Il paradosso del mentitore.............................................................................30 1.9 Soluzioni del mentitore.................................................................................42 1.10 I paradossi di Zenone..................................................................................47 1.11 Soluzioni ai paradossi di Zenone................................................................56

II. Autoreferenzialità e regresso all’infinito in letteratura e in arte

2.1 Autoreferenzialità tra letteratura ed arte.......................................................60 1

2.2 Regresso all’infinito tra letteratura ed arte...................................................67 2.3 Racconto nel racconto...................................................................................75 2.4 Sogno nel sogno............................................................................................82 2.5 Labirinti di tempo.........................................................................................88

Conclusioni........................................................................................................92

Bibliografia........................................................................................................95

2

Introduzione

Lo scopo di questo lavoro è l’analisi dell’autoreferenzialità e del regresso all’infinito all’interno della logica, della letteratura e dell’arte. La tesi si fonda sul tentativo di gettare un ponte tra questi tre ambiti disciplinari apparentemente distanti tra loro, proponendo di considerarli quali sentieri dei paradossi, ossia luoghi in cui i paradossi mettono in atto il loro valore euristico. L’autoreferenzialità caratterizza la struttura del paradosso del mentitore, il più antico paradosso della storia del pensiero; il regresso all’infinito è alla base dei paradossi di Zenone contro il moto, tra i quali analizzeremo il paradosso della dicotomia e il paradosso di Achille e la tartaruga. In questo lavoro, dunque, l’attenzione è focalizzata, in primo luogo, sui paradossi, sul significato del termine παπάδοξορ, sulle varie definizioni e classificazioni, considerando i concetti di autoreferenzialità e regresso all’infinito all’interno della logica. In secondo luogo, invece, l’analisi di questi due concetti viene svolta in ambito artistico e letterario. Un paradosso è una conclusione apparentemente inaccettabile che deriva da premesse apparentemente accettabili attraverso un ragionamento apparentemente accettabile. Un paradosso è una contraddizione resistente, cioè una contraddizione che non riusciamo ad eliminare, proprio perché non riusciamo a comprendere. È difficile trovare l’errore all’interno di un paradosso. Si cela nelle premesse? E in quale? Nella premessa maggiore o nella premessa minore? O si nasconde nel ragionamento? E in quale determinato passaggio? Logici, filosofi e matematici si sono scontrati con i paradossi ed hanno cercato di eliminarli, di risolverli, di smascherarli, pur di poter ripristinare la validità della teoria o del sistema minato dall’interno dalla forza distruttiva dei paradossi. I paradossi sono antichi quanto la filosofia, sono stati ideati da Zenone di Elea, nel V secolo a. C. ed hanno caratterizzato l’attività di un’intera scuola, la celebre scuola megarica del IV secolo a. C., la quale era solita proporre enigmi e dilemmi. Nella seconda metà del Novecento c’è stato un rinnovato interesse nei confronti dei paradossi, tanto che la letteratura su di essi è cresciuta in maniera esponenziale.

3

Al fine di argomentare adeguatamente i concetti di autoreferenzialità e di regresso all’infinito non solo in ambito logico, ma anche in letteratura ed in arte, ho ritenuto indispensabile fornire una preliminare cornice teorica, mostrando i due concetti all’interno dei paradossi, motivo per il quale ho suddiviso la tesi in due capitoli. Nel primo capitolo l’attenzione è focalizzata sui paradossi in generale, sull’etimologia, sulla definizione, sulle varie classificazioni, sono forniti alcuni concetti base della logica e vengono presentati i tentativi di soluzione più comuni, la dissoluzione e la riduzione; nello specifico vengono analizzati sia il paradosso del mentitore, alla cui base c’è l’autoreferenzialità, sia i paradossi di Zenone contro il moto, da cui scaturisce un regresso all’infinito; e vengono illustrati, inoltre, i più significativi tentativi di soluzione dei rispettivi paradossi. Nel secondo capitolo vengono analizzati i concetti di autoreferenzialità e di regresso all’infinito all’interno della letteratura e dell’arte, facendo riferimento alle opere di scrittori quali Jorge Luis Borges, Franz Kafka, Lewis Carroll, Miguel de Unamuno, Miguel de Cervantes ed altri, che creano veri e propri labirinti di tempo, e all’artista dei paradossi per antonomasia, Maurits Cornelis Escher, che dedica le sue opere maggiori alla creazione di mondi impossibili e allo studio della divisione regolare del piano in cui rappresenta l’approssimazione all’infinito. Per quanto riguarda la fortuna dei paradossi, bisogna tener conto che essi non hanno goduto di buona reputazione nel corso della storia del pensiero, in quanto hanno svolto spesso il ruolo di portatori di problemi all’interno di una teoria. Il sogno leibniziano di una Characteristica universalis, e, successivamente, il progetto di Hilbert e di Frege di fondare la matematica sulla logica, al fine di nobilitarla e di farla giacere su di una solida base, è stato definitivamente infranto dall’esito dei teoremi di incompletezza dell’aritmetica di Kurt Gödel, nel 1931, i quali sono scaturiti proprio da una riconsiderazione del paradosso del mentitore. Come afferma Anatol Rapoport, esperto di comunicazione e teoria dei giochi,

I paradossi hanno giocato un ruolo drammatico nella storia intellettuale, spesso anticipando rivoluzionari sviluppi nella scienza, nella matematica e nella logica. Ogni volta che in una disciplina incontriamo un problema che non si può risolvere nel contesto concettuale che ritenevamo applicabile, ne rimaniamo sconvolti.

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La scossa che riceviamo può costringerci a lasciare da parte il vecchio contesto e ad adottarne uno nuovo. È a questo processo di modificazione intellettuale che si deve la nascita di molte fra le più importanti idee matematiche e scientifiche... Il paradosso di Zenone, quello di Achille e della tartaruga, ha dato origine all'idea delle serie infinite convergenti. Le antinomie (contraddizioni interne nella logica matematica) sono sfociate alla fine nel teorema di Gödel. Il risultato paradossale dell'esperimento di Michelson-Morley sulla velocità della luce pose le basi per la teoria della relatività. La scoperta del dualismo onda-corpuscolo della luce costrinse a un riesame della causalità deterministica e dei fondamenti ultimi della epistemologia, e condusse alla meccanica quantistica. Il paradosso del demone di Maxwell, che Leo Szilard per primo trovò modo di risolvere nel 1919, indusse a osservare che i concetti, apparentemente distanti, di informazione e di entropia sono intimamente collegati tra loro.1

I paradossi suggeriscono di riconsiderare i sistemi e le teorie da cui scaturiscono. Willard Van Quine afferma: «di tutti i caratteri dei paradossi, il più interessante è la loro capacità, talvolta, di essere molto meno inutili di quanto non sembrino».2 Lungi dall’essere inutili rompicapi, leziosi passatempi o pretenziosi stratagemmi per dar fastidio ai logici, i paradossi hanno un notevole valore euristico, non solo in filosofia e nella scienza, ma anche nella letteratura e nell’arte, come sarà mostrato in questo lavoro.

1 2

N. Falletta, Il libro dei paradossi, Milano, TEA, 2001, p. 7. Ibidem.

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Capitolo 1 I paradossi

1.1 Etimologia

Il termine ―paradosso‖ deriva dal greco παπά ―lontano, contro, oltre‖ δόξα ―l’opinione pubblica, la credenza‖. L’aggettivo παπάδοξορ significa ―lontano dalla comune opinione o dalla credenza‖ ma anche ―straordinario, strano, bizzarro, inaspettato‖. La parola ―paradosso‖ indica un discorso, un ragionamento o un enunciato, che va contro l’opinione pubblica o la credenza e che pertanto risulta inaspettato, bizzarro. Il termine ―paradosso‖ si usa genericamente per indicare una tesi, una opinione o una teoria, contraria alla doxa, ossia quel che (a torto o a ragione) è ritenuto vero. Da questo punto di vista è un paradosso qualsiasi evidenza contro-intuitiva, qualsiasi teoria bizzarra o insolita.3

Spesso al paradosso è stata attribuita una valenza negativa, è stato considerato irrazionale, non condivisibile e quindi assurdo e inaccettabile. Tuttavia bisogna tener conto anche degli altri significati del termine paradosso, quali ―straordinario‖, ―inaspettato‖, che, lungi dall’avere una connotazione negativa, ne indicano la meraviglia e lo stupore, proponendo una riconsiderazione delle credenze precedenti. Paradosso, infatti, deriva anche dal verbo ―παπαδοξάζω‖ che significa ―rendo oggetto di meraviglia, di sorpresa‖. Per tre volte, nella storia, i paradossi sono stati al centro dell’attenzione: nel periodo greco, nel Medioevo e a cavallo fra Ottocento e Novecento. I diversi nomi con cui vennero chiamati nei tre periodi riflettono i diversi atteggiamenti che si ebbero verso di essi.

3

F. D’Agostini, PARADOSSI, Carocci, Roma, 2009, p. 19.

6

Per i Greci erano paralogismi, «oltre la logica»; per i medioevali insolubia, «problemi insolubili»; per i moderni antinomie, «contro le regole», o, appunto paradossi, «oltre l’opinione corrente». Ci fu dunque un progressivo cambiamento di prospettiva. Da puri e semplici errori di ragionamento, i paradossi vennero dapprima valutati come dilemmi inspiegabili, e poi valorizzati come indizi di problemi del senso comune. Oggi i paradossi sono appunto descritti come verità che stanno a testa in giù e gambe all’aria per attirare l’attenzione, e mostrano una discrepanza tra le credenze che rendono un’affermazione impossibile, e la logica che rende un argomento in loro difesa corretto. L’unica soluzione possibile, non indolore, richiede una revisione radicale delle credenze, della logica o di entrambe. In matematica, la revisione provoca a volte una singolare reincarnazione. Alla luce dei nuovi concetti introdotti per risolverli, i vecchi paradossi non solo cessano di essere tali, ma si trasformano addirittura in nuovi teoremi o definizioni, e appaiono finalmente come pure e semplici verità, coi piedi per terra e la testa sul collo.4

L’atteggiamento della logica classica nei confronti dei paradossi ha sempre perseguito l’intento di eliminarli, attraverso la dissoluzione e la riduzione, al fine di salvaguardare la coerenza della logica stessa. Il paradosso, infatti, implica l’obbligo logico di accettare una tesi che non si può o non si vuole accettare o, nel caso del sorite, propone più risposte che si escludono a vicenda. Alcune logiche non classiche, come ad esempio la logica paraconsistente, invece, tentano di contenere al loro interno i paradossi, nella forma di contraddizioni resistenti, ossia, come vedremo, il paradosso vero e proprio, a patto che la teoria non diventi banale, ossia a patto che i teoremi non corrispondano alle conclusioni.

La logica paraconsistente costituisce una specie di logica che può essere la logica portante (la logica che sta sotto) delle teorie inconsistenti, ma non banali. Supponendo che il linguaggio base della teoria T ha una negazione, ¬, allora T è inconsistente se possiede teoremi tali per cui uno è la negazione dell’altro; in altre

4

P. Odifreddi, C’era una volta un paradosso, Einaudi, Torino, 2001, p. 241.

7

parole α, ¬α sono teoremi in cui α è una proposizione di T. Altrimenti si dice che T è consistente. La teoria è detta banale se tutte le sue formule (o proposizioni) sono dimostrabili, cioè, sono teoremi di T. Altrimenti, T non è banale.5

5

N. C. A. da Costa, N. Grana, Il recupero dell’inconsistenza, L’Orientale editrice, Napoli, 2009, p.11.

8

1.2 Definizioni

Nel corso della storia del pensiero sono state proposte differenti definizioni del termine paradosso. Richard Mark Sainsbury afferma: «This is what I understand by a paradox: an apparently unacceptable conclusion derived by apparently acceptable reasoning from apparently acceptable premises».6

Un paradosso è quindi una contraddizione che deriva da premesse che sembrano esatte, attraverso un ragionamento altrettanto apparentemente esatto. Tale definizione lascia intuire che l’errore possa celarsi nell’apparenza della correttezza delle premesse o del ragionamento. Essa può essere generalizzata nella forma:

«un paradosso è un argomento apparentemente corretto con una conclusione inaccettabile». 7

È la definizione considerata canonica nella filosofia analitica ed esprime l’obbligo logico di accettare qualcosa che non si vuole o non si può accettare.

Si consideri anche un’altra definizione di paradosso:

«un paradosso è una domanda con due (o più) risposte, un problema con due (o più) soluzioni»8

Questa definizione è più generica e meno frequente, è tipica della filosofia antica, e si riferisce ai primi paradossi, che erano formulati in domande a cui si poteva rispondere con due o più soluzioni in contraddizione tra loro.

6

R. M. Sainsbury, Paradoxes, Cambridge, 1987, «Questo è ciò che intendo per paradosso: una conclusione apparentemente inaccettabile, che deriva da premesse apparentemente accettabili, per mezzo di un ragionamento apparentemente accettabile ». 7 F. D’Agostini, PARADOSSI, Carocci, Roma, 2009, p. 19. 8 Ibidem.

9

La possibilità di risolvere un problema adottando due strategie che, di fatto, si escludono a vicenda, fa sorgere una contraddizione, in quanto è inaccettabile poter risolvere un problema ammettendo una tesi ed anche il suo contrario. Significa, appunto, non risolverlo affatto e restare impantanati nel dubbio senza riuscire a prendere una decisione. Le due definizioni sono entrambe valide e possiamo ulteriormente sintetizzarle facendo riferimento alla caratteristica peculiare del paradosso, ossia quella di presentare una contraddizione che non si riesce ad eliminare e che, pertanto, resiste. Dunque diremo, più brevemente:

«un paradosso è una contraddizione resistente»9

La definizione del paradosso quale contraddizione resistente è di fondamentale importanza nella distinzione tra tale considerazione di paradosso e un ciò che definiremo un paradosso apparente, controintuitivo, un quasi-paradosso.

9

Ivi, p. 21.

10

1.3 Classificazioni

I paradossi sono stati classificati in varie tipologie a seconda della forma, del tema, del contenuto e di altri criteri. Una delle classificazioni di riferimento della letteratura sui paradossi è quella di Frank P. Ramsey, che distinse i paradossi in due gruppi con caratteristiche tematiche differenti:

Al gruppo A appartengono: 1. La classe di tutte le classi che non sono membri di se stesse. 2. La relazione tra due relazioni quando una non intrattiene se stessa con l’altra. 3. La contraddizione di Burali-Forti del massimo numero ordinale. Al gruppo B appartengono: 1. ―Io mento‖. Il paradosso del mentitore. 2. Il più piccolo numero intero non nominabile in meno di diciannove sillabe. 3. Il più piccolo ordinale indefinibile. 4. La contraddizione di Richard. 5. La contraddizione di Weyl riguardo al termine ―eterologico‖. Del gruppo A) fanno parte le contraddizioni, le inconsistenze che si presentano nei sistemi logici o matematici, e ―invogliono solo termini logici o matematici come classe e numero‖, mostrando che deve esserci qualche cosa di errato nella nostra logica o matematica. Le contraddizioni, le inconsistenze del gruppo B), per Ramsey, non sono puramente logiche ―e non possono venir enunciate in soli termini logici; poiché tutte contengono qualche riferimento al pensiero, al linguaggio o al simbolismo, che non sono termini formali ma empirici‖.10

Dunque Ramsey distingue i paradossi in logici, la cui formulazione fa riferimento all’ambito della logica e della matematica, e in semantici, che riguardano i concetti di verità e di riferimento.

Piergiorgio Odifreddi ha proposto una classificazione dei paradossi in tre tipi:

10

N. Grana, Dalla ontologia alla logica, L’Orientale editrice, Napoli, 2004, p. 161.

11

1. Un paradosso è logico, o negativo, se riduce all’assurdo le premesse su cui si basa. L’attributo «negativo» non è da intendersi in senso denigratorio. Significa soltanto che l’argomento mostra l’inaccettabilità di assunzioni apparentemente innocue, e spesso implicite. E stimola una rifondazione delle aree del sapere che su di esse, consciamente o inconsciamente, si fondano. 2. Un paradosso è retorico, o nullo, se si limita a esibire la sottigliezza di un ragionamento, o a esaltare l’abilità di chi lo produce. Usato didatticamente o letteralmente, l’artificio può anche essere efficace. Ma come metodo filosofico rischia di ridurre la cultura al sofismo, e per questo fu severamente criticato da Platone nel Gorgia. 3. Un paradosso è ontologico, o positivo, se attraverso un ragionamento inusuale rafforza le conclusioni a cui arriva. A questo si riferiva Schopenhauer, quando diceva che «la verità nasce come paradosso e muore come ovvietà». O Quine, quando notava che «quello che per uno è contraddittorio, per un altro diventa paradossale, e per un altro ancora banale».11

Un’altra distinzione, che in parte richiama la precedente, è tra paradossi conflittuali e controintuitivi.12 In tale distinzione possiamo fare riferimento alla caratteristica del paradosso che abbiamo considerato come peculiare, ossia quella di presentarsi come una contraddizione resistente. I paradossi conflittuali, o contraddittori, presentano una contraddizione, derivano da premesse apparentemente accettabili e da ragionamenti apparentemente accettabili, possono essere indicati con le due definizioni analizzate e, messi a paragone con la classificazione di Odifreddi, sono i paradossi logici, o negativi. I paradossi controintuitivi sono solo apparentemente dei paradossi, in quanto non presentano contraddizioni, ma suscitano stupore, meraviglia per un fatto, un discorso o un ragionamento straordinario ed inaspettato. Tali paradossi si riferiscono alla caratteristica di destare stupore del termine paradosso (παπαδοξάζω) e non a quella di presentare una contraddizione resistente.

11 12

P. Odifreddi, C’era una volta un paradosso, Einaudi, Torino, 2001, p. XI. N. C. A. da Costa, N. Grana, Il recupero dell’inconsistenza, L’Orientale Editrice, Napoli, 2009, p. 75.

12

Ad una prima occhiata possono sembrare dei paradossi veri e propri, ossia inconsistenze resistenti, ma dopo un’analisi approfondita risultano essere dei quasi-paradossi. Paragonati alla classificazione di Odifreddi, i paradossi controintuitivi sono retorici, o nulli. Un esempio di paradosso controintuitivo o retorico è il paradosso di Banach-Tarski (1924).

«Una sfera nello spazio reale, R³, può essere decomposta in parti utili a ricostruire due sfere ciascuna delle quali congruente alla sfera di partenza»13.

Sembra inconcepibile che una parte sia congruente al tutto da cui deriva, ma il risultato dell’enunciato riguarda i volumi e si riferisce a figure di dimensioni n, n>2 nello spazio euclideo, non a corpi reali dello spazio fisico, quindi il principio di non contraddizione non è violato.

Infine, è utile considerare la distinzione dei paradossi in ―falsidici‖ e ―veridici‖, suggerita da Quine in The Way of Paradox (1962). In entrambi i casi il paradosso in questione non si presenta come una contraddizione resistente, bensì come un paradosso apparente, controintuitivo, un quasi-paradosso. Un paradosso è falsidico quando il suo errore è nascosto all’interno dell’argomento, mentre è veridico quando l’errore è esterno al paradosso, ossia deriva da convinzioni errate e consiste nel considerare paradossale una semplice verità, per quanto strana e apparentemente inaccettabile. Un esempio di paradosso falsidico è l’enunciato: ―Ogni numero è uguale al doppio di se stesso‖ dato un numero qualsiasi a, e posto x=a, ne consegue x=ax. Sottraendo 𝑎2 da entrambi i termini si ottiene 𝑥 2 − 𝑎2 = 𝑎𝑥 − 𝑎2 , e dunque 𝑥 + 𝑎 𝑥 − 𝑎 = 𝑎 𝑥 − 𝑎 . Di nuovo semplificando, il risultato è: x+a = a, ossia a+a =a, da cui: 2a =a. Ma a è un qualsiasi numero: dunque ogni numero è il doppio di se stesso.14

13

Ibidem.

14

F. D’Agostini, PARADOSSI, Carocci, Roma, 2009, p. 45.

13

L’errore sta nella semplificazione, ossia la divisione per x-a: poiché x è uguale ad a, è una divisione per zero, che non è legittima (prima della scoperta dello zero, però, nota Bunch, 1997, a= 2a era un paradosso genuino).

L’esempio di paradosso veridico citato da Quine è l’enunciato: ―Esiste almeno un individuo che al suo quinto compleanno ha 21 anni‖

Solo apparentemente è un paradosso, infatti tale enunciato è valido per un individuo che è nato il 29 febbraio. L’enunciato può sembrare falso, o inaccettabile, o sorprendente, a causa di un errore di valutazione, ecco perché si dice che nei paradossi veridici l’errore è esterno all’enunciato, è situato, infatti, nella sua interpretazione. Quando l’errore del secondo tipo è sistematico, e condiviso, l’apparenza paradossale è in qualche modo giustificata (visto che un errore radicato e condiviso è difficile da definire come errore). I paradossi veridici che vengono riconosciuti come tali entrano nelle teorie e cessano di essere paradossali. A volte il risultato è semplicemente una crescita di conoscenza, che determina modifiche e riassestamenti locali; altre volte il processo è catastrofico, ossia implica una riduzione tanto radicale da determinare una crisi della teoria.15

15

Ivi, p. 46.

14

1.4 Alcuni concetti logici basilari

Prima di procedere ulteriormente bisogna soffermarsi su alcuni concetti base della logica di cui ci serviremo nell’analisi dei paradossi, senza i quali non sarebbe possibile comprendere a pieno le considerazioni che faremo.

1.4.1 Enunciati, proposizioni, credenze, stati di cose

Un enunciato è una formulazione linguistica dotata di senso compiuto e che può essere vera o falsa. Una proposizione è il contenuto di un enunciato. Un enunciato esprime una credenza relativa ad uno stato di cose. Uno stato di cose è ciò che rende vera una proposizione. Le lettere p, q, α, β e altre simili stanno per enunciati, come ―il gatto è nel labirinto‖ o ―Zenone è simpatico‖. La proposizione ―Zenone è simpatico‖ esprime la credenza circa la simpatia di Zenone, mentre l’effettiva simpatia di Zenone esprime la verità della proposizione, ossia lo stato di cose. I paradossi possono scaturire da una mancata distinzione tra credenza e stato di cose. A prescindere dalla credenza, è dallo stato di cose che deriva la verità di una proposizione.

15

1.4.2 Ragionamenti, argomenti, validità e correttezza Un ragionamento è l’inferenza (ossia la derivazione) di una determinata conclusione da determinate premesse. Un argomento è la versione pubblica, intersoggettiva, di un ragionamento. Un ragionamento o un argomento è valido se rispetta le regole logiche. Un ragionamento o un argomento è corretto se, oltre ad essere valido, ha premesse vere rispetto al nostro mondo. Ad esempio "Berlino è la capitale della Germania, dunque non puoi essere a Berlino senza essere in Germania" e "Parigi è la capitale della Germania, dunque non puoi essere a Parigi senza essere in Germania" Questi enunciati sono entrambi validi, poiché rispettano le leggi logiche, ma solo il primo è corretto, in quanto il secondo non rispetta le condizioni del nostro mondo.

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1.4.3 Operatori logici enunciativi

Introduciamo ora i vari operatori logici enunciativi seguiti da un esempio.

∧ : congiunzione (e) p ∧ q = ―il gatto è nel labirinto e Zenone è simpatico‖.

∨ : disgiunzione (o) p ˅ q = ―il gatto è nel labirinto o Zenone è simpatico‖.

¬ : negazione (non) ¬p = ―il gatto non è nel labirinto‖.

→ : condizionale (se, allora) p → q = ―Se il gatto è nel labirinto allora Zenone è simpatico‖.

↔ : bicondizionale (se e solo se) p ↔ q = ―Il gatto è nel labirinto se e solo se Zenone è simpatico‖.

⊢ : segno di inferenza (implica) p, q ⊢ p ∨ q = da ―il gatto è nel labirinto‖ , ―Zenone è simpatico‖ deriva che ―il gatto è nel labirinto e Zenone è simpatico‖.

∴ : indicatore di conclusione (dunque).

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1.4.4 Regole di inferenza

Consideriamo ora le principali regole di inferenza:

Modus ponens: 𝑝 → 𝑞, 𝑝 ⊢ 𝑞

Modus tollens: 𝑝 → 𝑞, ¬𝑞 ⊢ ¬𝑝

Sillogismo ipotetico: 𝑝 → 𝑞, 𝑞 → 𝑟 ⊢ 𝑝 → 𝑟

Sillogismo disgiuntivo: 𝑝 ∨ 𝑞, ¬𝑝 ⊢ 𝑞

Il modus ponens deriva dal latino modus ponendo ponens, che significa, letteralmente, ―modo che pone con l’aver posto‖ ed è la principale regola di inferenza logica. Il modus ponens afferma che se la proposizione 𝑝 → 𝑞 (p implica q) è una proposizione vera, e anche la premessa p è vera, ne deriva che anche la conseguenza q è vera. Questa regola è chiamata anche principio di disgiunzione o ragionamento diretto oppure affermazione dell’antecedente. Esempio: Se piove la strada è bagnata. (𝑝 → 𝑞) Piove. (Vp) La strada è bagnata. (Vq)

Il modus tollens deriva dal latino modus tollendo tollens, che significa ―modo che nega‖, è una legge di inferenza logica che nega la verità della proposizione che precede negando la verità della proposizione che segue. Se p allora q; se non q, allora non p. È nota anche come legge di contrapposizione. Esempio: Se piove la strada è bagnata. (𝑝 → 𝑞) La strada non è bagnata. (¬𝑞) Non piove. (¬𝑝)

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Il sillogismo ipotetico è una regola di derivazione della logica proposizionale e presenta la seguente struttura: Se p è vera, anche q è vera, se q è vera anche r è vera, dunque da p deriva r. Esempio: Fuori piove. (p) Se fuori piove allora fa freddo. (𝑝 → 𝑞) Se fa freddo allora bisogna indossare il cappotto. (𝑞 → 𝑟) Se fuori piove bisogna indossare il cappotto. (𝑝 → 𝑟)

Il sillogismo disgiuntivo deriva dal latino modus tollendo ponens, ossia ―modo che pone togliendo‖, è una regola di inferenza derivata. La disgiunzione (𝑝 ∨ 𝑞) implica (¬𝑝 ⊢ 𝑞). La proposizione p esclude la proposizione q, e viceversa. Ne deriva che se la proposizione p è falsa allora la proposizione q è vera. Se invece, la proposizione q è falsa, allora la proposizione p è vera. Il sillogismo disgiuntivo fa riferimento al principio di non contraddizione, la proposizione p e la proposizione q non possono essere nello stesso momento entrambe vere o entrambe false. Esempio: Piove o c’è il sole. (𝑝 ∨ 𝑞) Se non piove allora c’è il sole. (¬𝑝 ⊢ 𝑞)

19

1.4.5 Quantificatori

Illustriamo i quantificatori seguiti da un esempio:

x, y, λ : variabili indicanti oggetti.

∀ : quantificatore universale (tutti i ... ) ∀𝑥 𝑈𝑥 → 𝑀𝑥

= ―Tutti gli uomini sono mortali‖

(per ogni oggetto x, se x è un uomo, allora x è mortale)

∃ : quantificatore esistenziale (qualche...) oppure (c’è almeno un ... ) ∃𝑥 𝑈𝑥 → 𝐵𝑥 = ―Qualche uomo è biondo‖ (per qualche oggetto x, se x è uomo, allora x è biondo)

Forniamo ancora altri esempi:

∀𝑥 𝑈𝑥 → ¬𝐼𝑥 = ―Nessun uomo è immortale‖ (per ogni oggetto x, se x è uomo, allora x non è immortale).

∃𝑥 𝑈𝑥 → ¬𝐵𝑥 = ―C’è almeno un uomo che non è biondo‖ (per qualche oggetto x, se x è uomo, allora x non è biondo).

20

1.4.6 Leggi logiche

Presentiamo brevemente le tre leggi principali della logica, in quanto le ultime due fanno riferimento ai concetti di esclusività e di esaustività, che saranno fondamentali nella nostra trattazione dei paradossi:

Principio di identità: 𝛼 = 𝛼

Principio di non contraddizione: ¬ 𝛼 ∧ ¬𝛼

Principio del terzo escluso: 𝛼 ∨ ¬𝛼

Il principio di identità stabilisce che α è uguale ad α, dunque che ogni cosa è uguale a se stessa. Il principio di non contraddizione impone l’esclusività tra α e ¬α. L’una esclude l’altra, non possono coesistere insieme, se uno è vero l’altro è falso. Ad esempio ―Zenone è simpatico‖ oppure ―Zenone non è simpatico‖, Zenone non può essere simpatico e non simpatico nello stesso momento. Il principio del terzo escluso implica il concetto di esaustività: α oppure ¬α. O si accetta α o si accetta ¬α, non c’è una terza possibilità, non possono essere entrambi non-veri. Ad esempio ―Il gatto nella scatola è vivo‖ oppure ―Il gatto nella scatola è morto‖, non c’è una terza possibilità, il gatto o è vivo o è morto, non può essere moribondo. I paradossi violano i principi di esclusività e di esaustività, che stanno alla base di queste leggi logiche, in quanto si manifestano come una contraddizione resistente e le soluzioni che propongono sono molteplici e, spesso, anche in contraddizione tra loro.

21

1.5 Antinomie, fallacie, dilemmi, soriti

Al fine di approfondire la nostra analisi è necessario chiarire il rapporto tra i paradossi ed altri termini che spesso vengono intesi quali suoi sinonimi, ossia antinomie, fallacie, dilemmi e soriti.

L’antinomia, dal greco αντί ―contro, in opposizione‖ νόμορ ―legge‖, è un enunciato o una situazione che presenta due affermazioni in contraddizione tra loro ritenute entrambe valide. Quindi a ragione è considerata sinonimo di paradosso. La distinzione tra i due termini dipende dall’ambito in cui essi vengono applicati. Le contraddizioni della matematica e, in generale, dell’epistemologia, vengono chiamate antinomie, mentre quelle della filosofia paradossi.

La fallacia è un argomento privo di correttezza logica tuttavia apparentemente plausibile, deriva dal verbo latino fallere che significa ―ingannare‖. La parola latina fallacia fu usata dalla Scolastica per tradurre il termine greco σόϕισμα e, successivamente, per indicare qualsiasi argomentazione sofistica che fosse anche non intenzionalmente fallace. I logici scolastici distinsero differenti tipi di fallacia: la fallacia in dictione, ossia una fallacia in cui l’errore è determinato dal linguaggio, la fallacia aequivocationis, che deriva dall’equivocità dei termini adoperati, e infine la fallacia secundum quid, la quale si presenta allorché l’affermazione, che dovrebbe valere soltanto per il soggetto considerato in un determinato senso, è invece riferita al soggetto in toto e senza delimitazioni. C’è dunque differenza tra fallacie e paradossi, in quanto, mentre la fallacia non ha correttezza logica, il paradosso, se è un paradosso veridico e si presenta come una contraddizione resistente, è logicamente corretto.

Il dilemma è un paradosso pratico, deriva da δί-λημμα ―proposizione doppia, ambigua‖. Indica la situazione concreta in cui si trova un agente, il quale è tenuto a scegliere tra due opzioni entrambe necessarie, ma che si escludono a vicenda: si può scegliere α o β ma non α e β insieme. Consideriamo, come esempio di dilemma, il paradosso della tortura morale:

22

Un prigioniero in guerra è sottoposto alla seguente tortura morale: o uccide il suo compagno di cella oppure verrà ucciso lui stesso. Che cosa deve fare? O uccide il suo compagno o non lo uccide 𝑝 ˅ ¬𝑝 . Se lo uccide si renderà colpevole di assassinio (p → r). Se non lo uccide, priverà i suoi figli di un padre e se stesso della vita ¬𝑝 → 𝑠 . Dunque si renderà colpevole di assassinio o priverà i suoi figli di un padre e se stesso della vita 𝑟 ˅ 𝑠 .16

Il dilemma presenta dunque una situazione in cui ci sono due regole, che normalmente valgono in modo autonomo, ma che messe in correlazione si trovano in conflitto. Il prigioniero deve scegliere tra due criteri di riferimento: r: non bisogna uccidere. s: non bisogna lasciarsi uccidere e, al contempo, privare i propri figli di un padre. Il riferimento al contesto pratico è di fondamentale importanza per comprendere la differenza tra paradosso e dilemma: mentre il paradosso, nella maggior parte dei casi, resta in un ambito teorico, lontano dall’applicazione reale, il dilemma, invece, va considerato in un determinato contesto pratico, che ne specifica e ne delimita il raggio d’azione.

Il sorite è un tipo di paradosso, deriva dal greco σοπόρ ―mucchio‖, è stato inventato da Zenone di Elea del V secolo a. C, ripreso da Eubulide di Mileto del IV secolo a. C. e comprende quei paradossi che hanno come tema l’accumulo. Il sorite si basa sulla divisibilità e quantificabilità delle proprietà, sul problema della vaghezza e sulla difficoltà di stabilire parametri oggettivi. Un esempio famoso, ideato da Eubulide, è il calvo:

«Se un uomo con tre capelli è calvo, allora lo è anche quando ne ha quattro e cinque, ecc, dunque tutti sono calvi». «Se un uomo con tre capelli non è calvo, allora non è neppure calvo quando ne ha due, o uno, o nessuno; dunque: nessuno è calvo».17

16 17

Ivi, p. 90. Ivi, p. 163.

23

I soriti costituiscono una tipologia antica di paradossi, caratterizzata dall’argomento dell’accumulo e dalla difficoltà di stabilire parametri oggettivi. Per risolverli è sufficiente stabilire dei parametri fissi ed universali a cui bisognerà attenersi in ogni caso, anche nei casi definiti borderline, in cui lo scarto tra un valore e il successivo è difficile da stabilire e restano, di conseguenza, dei dubbi circa l’attendibilità dei suddetti parametri. Ad esempio, in bioetica, nell’ambito del tema dell’aborto, ci si chiede quando, precisamente, un feto smette di essere considerato una parte fisica della madre e diventa un essere umano. Sembra paradossale che tale questione vada ricondotta ad una decisione arbitraria che consiste nello stabilire un parametro oggettivo da dover assumere come universalmente valido. Davvero la definizione di ―essere umano‖ va ricondotta all’assunzione di un parametro che poteva anche essere un altro? I paradossi che derivano dalla soluzione del sorite dischiudono considerazioni interessanti sul rapporto tra l’arbitrarietà della scelta del parametro e la normatività del suddetto parametro scelto, una volta entrato in vigore.

24

1.6 Neutralizzare i paradossi: dissoluzione e riduzione

Un paradosso, nel vero senso del termine, è un paradosso che si presenta nella forma di una contraddizione resistente, ossia una contraddizione che resiste a tentativi di soluzione. I tentativi di soluzione standard sono la dissoluzione e la riduzione all’assurdo. Nel caso in cui un presunto paradosso resiste a questi due procedimenti, si passa all’‖artiglieria pesante‖, ai tentativi di soluzione più complessi ed elaborati, a cui faremo riferimento in seguito.

La dissoluzione dissolve la contraddizione svelandone lo status di contraddizione soltanto apparente:

La dissoluzione consiste nel mostrare che la contraddizione di fronte a cui ci troviamo non è veramente una contraddizione, perché i due termini non sono davvero esclusivi, o non sono davvero esaustivi, oppure sembrano concomitanti o simultanei, ma in realtà appartengono a regimi diversi, o si presentano in tempi diversi.18

Attraverso la dissoluzione si mostra, dunque, che un paradosso è solo apparentemente tale, in quanto è semplicemente un sillogismo difettoso, un paralogismo, il cui errore è rintracciabile. Un tipo di dissoluzione è la parametrizzazione e consiste nello stabilire un parametro oggettivo a cui attenersi in ogni caso. I parametri sono temporali. Consideriamo un speaker radiofonico che afferma:

«Oggi è lunedì e oggi è martedì»

Sembra che si contraddica, ma in realtà parla così lentamente che nel frattempo il giorno è davvero cambiato. Questo è il caso dello slow talker, ideato dalla logica paraconsistente.

18

Ivi, p. 33.

25

La riduzione individua l’errore all’interno dell’enunciato:

La riduzione invece è il sistema normalmente previsto dalla logica: posto che la contraddizione sia una contraddizione effettiva, evidentemente c’è qualcosa che non funziona nelle premesse che l’hanno determinata, c’è un errore, un postulato difettoso, che occorre eliminare. In questo caso abbiamo la riduzione all’assurdo della premessa sbagliata o difettosa.19

La riduzione all’assurdo prevede che se da una premessa α deriva la conclusione β ˄ ¬β, bisogna eliminare α. La conclusione, come notiamo, viola sia il principio di non contraddizione ¬ 𝛽 ∧ ¬𝛽 , sia il principio del terzo escluso 𝛽 ∨ ¬𝛽. Riducendo all’assurdo la premessa α, da cui la conclusione β ˄ ¬β deriva, si risolve la contraddizione. Ad esempio, nel noto caso citato dagli stoici: Se sai che sei morto allora sei morto, perché ―sapere‖ implica che quel che si sa è vero. Se sai che sei morto allora non sei morto, perché ―sapere‖ implica non essere morto. Da una tesi α = ―sai che sei morto‖, deriviamo prima una certa tesi β e poi la sua negazione ¬β.20

Attuando la riduzione all’assurdo si elimina la premessa α, ritenuta appunto assurda, e la contraddizione tra β e ¬β è risolta.

Tuttavia è difficile individuare quale sia la premessa da ridurre all’assurdo, c’è il rischio di sbagliare, come nel caso seguente:

19 20

Ibidem. Ivi, p. 36.

26

Un uomo crede fermamente di essere morto e nessuno riesce a convincerlo del contrario. Viene mandato da un famoso specialista, e l’illustre clinico gli chiede ―i morti sanguinano?‖, l’uomo risponde ―no‖, allora il medico lo ferisce sul braccio con un bisturi, e il braccio si mette a sanguinare. ―Fantastico!‖ esclama l’uomo ―non sapevo che i morti potessero sanguinare‖.21

La neutralizzazione del paradosso non è riuscita, in quanto non è stata ridotta all’assurdo la premessa giusta ―i morti non sanguinano‖ bensì la premessa sbagliata ―sono morto‖.

21

Ivi, p. 37.

27

1.7 Autoreferenzialità, circolo vizioso, ricorsività e regresso all’infinito

L’autoreferenzialità è la proprietà logica che possiede un enunciato o una tesi o un discorso di riferirsi a se stesso. Un termine autoreferenziale è appunto un termine che dà informazioni sul proprio conto. Sull’autoreferenzialità si fonda la struttura del paradosso del mentitore.

Il circolo vizioso, o ragionamento circolare, deriva dal greco διάλλήλορ ―ragionamento reciproco‖ ed è un ragionamento in cui le premesse si fondano sulle conseguenze e queste su quelle. Il diallele, quindi, è una situazione di stallo, da cui non si riesce ad uscire, poiché ci si ritrova sempre allo stesso punto, come in un labirinto circolare.

La ricorsività è la ripetizione o iterazione di qualcosa, un predicato, un’immagine, un tema, un simbolo, all’interno di se stesso. Un tema si dice ricorsivo, o ricorrente, se si ripete più volte. CHE COS’È LA RICORSIVITÀ? È l’annidarsi di cose entro cose e le sue variazioni. Il concetto è molto generale. (Un racconto all’interno di un racconto, una commedia nella commedia, un quadro dentro un quadro, scatole cinesi dentro scatole cinesi (perfino commenti tra parentesi all’interno di commenti tra parentesi!): tutto ciò dà solo una piccola idea del fascino della ricorsività).22

Il regresso all’infinito, dal latino regressus in infinitum, è un andare all’indietro senza fine. È un concetto molto conosciuto in filosofia e in logica, ma anche in altre discipline. Due specchi posti uno dinnanzi all’altro moltiplicano all’infinito tutto ciò che si interpone tra loro e danno un chiaro esempio del regresso all’infinito. Il regresso all’infinito è alla base dei paradossi di Zenone contro il moto.

Il paradosso del mentitore e i paradossi di Zenone contro il moto sono basati, rispettivamente, sul circolo vizioso dell’autoreferenzialità e, nel caso di alcune versioni del paradosso, sul regresso all’infinito dell’autoreferenzialità, e sul regresso all’infinito della ricorsività. 22

D. R. Hofstadter, Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante, Adelphi, Milano, 1984, p. 137.

28

Un’azione o un enunciato si riferisce a se stesso, dando vita ad un diallele. Un’azione o un enunciato si ripete all’interno di se stesso, all’infinito.

I paradossi sono presenti in ambito artistico e letterario, oltre che nell’ambito logicofilosofico. Autoreferenzialità, diallele, ricorsività e regresso all’infinito vengono reinterpretati e adoperati nella creazione di labirinti di tempo e di mondi impossibili.

In alcuni racconti di Jorge Luis Borges, di Kafka e nello stesso Le mille e una notte, sono presenti alcuni paradossi che scaturiscono dal regresso all’infinito.

L’artista Maurits Cornelis Escher ha dedicato la maggior parte delle sue opere alla tassellazione del piano con figure ricorsive che si ingrandiscono o rimpiccioliscono all’infinito e ha rappresentato mondi impossibili, meritandosi l’appellativo di ―artista dei paradossi‖.

29

1.8 Il paradosso del mentitore

Il paradosso del mentitore è ritenuto il più antico paradosso della storia. La sua prima formulazione è stata attribuita ad Epimenide di Creta, vissuto nel VI secolo a. C. ed è la seguente:

«I cretesi mentono»

Se per ―i cretesi‖ si intendono ―tutti i cretesi‖ e se si ritiene che essi mentano sempre, allora si presenta il paradosso, nella forma di una contraddizione apparentemente resistente. Nel caso in cui la frase è pronunciata da un cretese, e quindi da un uomo che è sempre bugiardo, se la frase è vera, ossia il mentitore dice la verità sul proprio conto, allora la frase non è vera, ma se non è vera, ossia se il mentitore mente sul proprio conto, allora la frase è vera. La struttura logica del paradosso è: 𝛼 ↔ ¬𝛼

Dunque: α se e solo se ¬α. L’enunciato α è vero se e solo se è falso. Riconosciamo all’interno dello schema del mentitore la presenza del bicondizionale (o doppio condizionale) ―↔‖ che significa ―se e solo se‖, che corrisponde a due condizionali di cui l’antecedente svolge il ruolo del conseguente e viceversa. Da tale enunciato emerge una contraddizione che ad un primo sguardo sembra resistente. Il cretese, in quanto cretese, mente sempre, ma mente anche quando dice di mentire? Tuttavia tale versione del paradosso del mentitore è considerata semplice in quanto non contiene propriamente l’autoreferenzialità, ma è ancora un quasi-paradosso. Il problema può essere risolto stabilendo che a pronunciare la frase «i cretesi mentono» sia stato un non cretese, ad esempio un ateniese. Il concetto di autoreferenzialità è fondamentale nella trattazione del mentitore. Quando una frase parla di se stessa, si riferisce a se stessa, ciò che dice di se stessa diviene problematico.

30

Eubulide di Mileto del IV secolo a. C., esponente della scuola megarica, propose una formulazione più complessa del paradosso, ritenuta rinforzata, in cui l’autoreferenzialità è resa esplicita. Consideriamo la risposta alla domanda:

«Stai mentendo?»

Se il mentitore risponde «No» potrebbe star mentendo e se risponde «Si» potrebbe ugualmente star mentendo, quindi la sua risposta è viziata prima ancora di essere espressa.

Il paradosso diviene più esplicito nella seguente forma:

«Io sto mentendo»

Questa versione è detta pseudomenon. Nel caso in cui colui che parla dice cose vere, non sta mentendo, mentre nel caso in cui dice cose false sta mentendo, in entrambi i casi c’è una contraddizione resistente che crea un circolo vizioso.

Una formulazione più pura del mentitore si ottiene eliminando il riferimento a chi parla, nella versione:

«Questa frase è falsa».

Una riformulazione del paradosso del mentitore è L’avvocato di Protagora, è stata ideata dai filosofi stoici ed è stata tramandata da Cicerone nell’Academica:

Si narra che un antico filosofo greco, di nome Protagora, avesse insegnato la legge ad un povero giovane, di nome Euatlo, a condizione che questi lo ricompensasse non appena vinta la sua prima causa. Euatlo, però, decise di abbandonare la professione legale. Protagora, stancatosi di aspettare, un giorno lo avvicinò e gli sollecitò il pagamento.

31

Visto il rifiuto del giovane, lo citò in tribunale. Dinanzi alla corte Protagora affermò che, se Euatlo avesse vinto, sarebbe stata la sua prima causa vinta, e avrebbe dovuto pagare. E se avesse perso, avrebbe dovuto obbedire alla corte, e quindi pagare. Ma Euatlo, se avesse perso, non avrebbe vinto la sua prima causa, e non avrebbe ancora dovuto pagare Protagora. E se avesse vinto, avrebbe potuto obbedire alla corte, e non pagare.23

La vittoria di Protagora implica la sconfitta di Eualto, che a sua volta implica la vittoria di Eualto, in base al patto secondo il quale Eualto avrebbe ricompensato il maestro solo dopo aver vinto la prima causa. Ma se Eualto vince, ne deriva che Protagora perde e da ciò deriva, ancora, che Protagora vince, in base al suddetto patto. La giuria è tenuta a giudicare un caso paradossale, come capiterà anche a Sancio Panza, come vedremo in seguito.

Diogene Laerzio nelle Vite ed opinioni dei filosofi illustri racconta un’altra versione del paradosso del mentitore, Il paradosso del coccodrillo, attribuito anch’esso agli stoici:

Un coccodrillo aveva afferrato un bambino che stava giocando sulle rive del Nilo. La madre implorò il coccodrillo di restituirglielo. – Certo! – rispose il coccodrillo, –Se sai dirmi in anticipo esattamente ciò che farò, ti restituirò il bambino. Ma se non indovinerai, lo mangerò. La madre, turbata, sospirò: – Tu divorerai il mio bambino. – Non posso restituirti il bambino – disse astutamente il coccodrillo, – perché se te lo rendo farò sì che tu abbia detto il falso, e ti avevo avvertito che in tal caso lo avrei mangiato. – Niente affatto – rispose la madre. – Non puoi mangiare il bambino, perché in tal caso farai sì che io abbia detto il vero. E avevi promesso che se fosse stato così, avresti restituito il bimbo.24

23 24

P. Odifreddi, C’era una volta un paradosso, Einaudi, Torino, 2001, p. 137. Ivi, p. 138.

32

Se la madre ha indovinato la futura azione del coccodrillo, esso allora deve restituire il bambino, ma se il coccodrillo restituisce il bambino, la madre non ha indovinato la sua futura azione. Se il coccodrillo mangia il bambino, la madre ha indovinato la sua futura azione, ma se la madre ha indovinato la futura azione del coccodrillo, esso allora deve restituire il bambino. Il dilemma è legato al contesto temporale. Abbiamo i due casi nel presente:

1. La madre indovina la futura azione del coccodrillo. 2. La madre non indovina la futura azione del coccodrillo.

E i due casi nel futuro:

1. Il coccodrillo mangia il bambino, non lo restituisce alla madre. 2. Il coccodrillo non mangia il bambino, lo restituisce alla madre.

Il problema è che l’informazione da cui dipende il dilemma è contenuta nel futuro, pertanto è inaccessibile e, inoltre, la previsione di ciò che accadrà crea un circolo vizioso da cui è difficile uscire.

Finora abbiamo considerato versioni del mentitore in cui l’autoreferenzialità era contenuta in un solo livello, ossia in una sola frase.

Il logico medievale Giovanni Buridano propone la seguente versione del mentitore:

Socrate afferma: «Platone dice il falso». Platone afferma:«Socrate dice il vero».

Le due frasi, considerate isolate, non provocano paradossi, possono essere entrambe vere o entrambe false, ma in ogni caso non presentano contraddizioni. Messe in relazione l’una con l’altra, però, danno luogo ad un paradosso.

33

Infatti, se una si riferisce all’altra, si verifica una contraddizione resistente: se Platone dice il vero, Socrate dice il falso e quindi Platone dice il falso; se invece Socrate dice il vero, Platone dice il falso e quindi Socrate dice il falso. Mentre nelle versioni precedenti del paradosso del mentitore l’autoreferenzialità era contenuta in un unico enunciato, quindi su di un solo livello, nella versione di Buridano l’autoreferenzialità è espressa in due livelli correlati.

Una formulazione generalizzata ed impersonale di tale versione è stata proposta da Philip Jourdain ed è denominata mentitore ciclico:

La frase seguente è falsa. La frase precedente è vera.25

Le frasi si riferiscono l’una all’altra e ne consegue una contraddizione in quanto non si sa quale delle due dica il vero e quale delle due dica il falso. Se la seconda frase è vera allora la prima è falsa, ma se la prima è vera allora la seconda è falsa. La struttura è: α è vera se e solo se α è falsa (Vα ↔ Fα ), quindi α ↔ ¬α.

Consideriamo una versione del mentitore in cui l’autoreferenzialità, che finora è parsa fondamentale nella struttura del mentitore, sembra finalmente eliminata. Stephen Yablo presenta una versione del paradosso del mentitore in infiniti livelli:

Tutte le frasi seguenti sono false. Tutte le frasi seguenti sono false. Tutte le frasi seguenti sono false. Tutte le frasi seguenti sono false. …26

È possibile costruire diversi livelli n, per qualunque n. 25 26

P. Jourdain, «A correction and some remarks», Monist, 13 (1913) pp. 145-148. S. Yablo, «Truth and reflection», Journal of Philosophical Logic, 14 (1985) pp. 297-349.

34

In questo caso ciascuna frase si riferisce alle successive e non alle precedenti, pertanto sembra sia stato superato il circolo vizioso dell’autoreferenzialità. In realtà, anche se le singole frasi non sono autoreferenziali, la loro successione lo è. Infatti se la prima frase è vera la seconda è falsa, ma poiché è falsa anche la terza, la seconda dev’essere vera e così via. Da ciò deriva che tutte le frasi sono contraddittorie Dunque siamo in presenza di un tipo di autoreferenzialità indiretta.

Consideriamo ora il paradosso di Russell, del 1902. La versione originale del paradosso prevede la considerazione di due classi distinte di insiemi di oggetti: una classe degli insiemi degli oggetti che appartengono a se stessi e un’altra classe degli insiemi degli oggetti che non appartengono a se stessi. Ad esempio, l’insieme degli insiemi con più di un oggetto appartiene a se stesso, perché ha sicuramente più di un oggetto al suo interno. Mentre invece l’insieme degli insiemi con un solo oggetto non appartiene a se stesso, in quanto ha per certo più di un solo oggetto. Dunque il paradosso sorge con la domanda:

L’insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a se stessi appartiene o no a se stesso?

Se vi appartiene, è uno degli insiemi che non appartengono a se stessi, e quindi non può far parte del loro insieme, cioè di se stesso. Se non vi appartiene, allora è uno degli insiemi che non appartengono a se stessi, e pertanto deve far parte del loro insieme, cioè di se stesso. Tale paradosso russelliano, secondo alcuni critici, è alla base della rottura epistemologica nell’indagine sui fondamenti della matematica. Russell lo comunicò a Gottlob Frege, in una lettera del 16 giugno 1902, proprio mentre il matematico era intento a pubblicare il secondo volume dei Grundgesetze e pare che abbia provocato la rinuncia da parte di Frege sia alla stesura del terzo volume dell’opera e sia all’indagine sui fondamenti della matematica, riconoscendo uno scacco definitivo al suo programma. Analizziamo il passo in cui Russell presenta il suo paradosso:

35

Sia w il predicato: essere un predicato che non può essere predicato di se stesso. Si può predicare w di se stesso? Da ogni risposta segue l’opposto. Bisogna dunque concludere che w non è un predicato. Allo stesso modo non esiste una classe (come totalità) di quelle classi che come totalità non appartengono a se stesse. Ne concludo che in determinate circostanze un insieme definibile non forma una totalità.27

Tale antinomia mette in grave difficoltà la trattazione logica della matematica, quindi la stessa filosofia della matematica, ed anche la teoria insiemistica, poiché non sorge nel linguaggio comune, bensì nel linguaggio stesso della matematica. La novità e la gravità del paradosso di Russell è l’aver scorto una contraddizione resistente all’interno del linguaggio perfetto matematico. La formulazione dell’argomento, invece, era già stata proposta da Georg Cantor e da Ernst Zermelo. Infatti il paradosso di Cantor afferma che: L’insieme di tutti gli insiemi, I, deve sicuramente essere il più grande insieme di insiemi che esiste. Ma, l’insieme potenza dell’insieme di tutti gli insiemi è più grande di I.28

Tale paradosso è uno dei tipici risultati controintuitivi della nozione di infinito e mostra che esistono infiniti sempre più grandi. Non è un paradosso conflittuale, infatti per risolverlo è sufficiente mettere da parte l’inclinazione naturale a voler trattare le serie di numeri infiniti come se fossero serie di numeri finiti ed accettare che, nell’ambito di parametri infiniti, è possibile che un insieme contenga se stesso come uno dei suoi membri, contenendo il proprio insieme potenza.

Torniamo a Russell. Egli stesso ha dato una delle riformulazioni più interessanti del proprio paradosso:

27

B. Russell, ―Lettera a Frege‖ in G. Frege, Alle origini della nuova logica. Epistolario scientifico con Hilbert, Husserl, Peano, Russell, Vailati e altri, (a cura di C. Mangione), Boringhieri, Torino, 1983, p. 184. 28 M. Clark, I paradossi dalla A alla Z, R. Cortina, Milano, 2004, p. 38.

36

Un barbiere rade tutti e solo gli uomini del paese che non si radono da soli. Il barbiere rade se stesso? Se sì, non può farlo perché rade solo gli uomini del paese che non radono se stessi; se no, deve farlo, perché rade tutti gli uomini del paese che non radono se stessi.29

Questa versione non è una contraddizione conflittuale, come la sua versione originale, poiché fa parte del linguaggio comune, non del linguaggio matematico, e si riferisce a persone reali e non a concetti astratti, pertanto un barbiere che soddisfi queste caratteristiche semplicemente non esiste.

Il matematico e filosofo Ferdinand Gonseth (1890-1975) propone una riformulazione del paradosso di Russell, sostituendo al barbiere un bibliotecario che si pone l’intento di compilare un catalogo di tutti i cataloghi bibliografici che non menzionano se stessi.30 Analogamente alla vicenda del barbiere, tale impresa non è possibile in quanto un catalogo che rispetti queste caratteristiche non può esistere.

Kurt Grelling (1886-1942) formula una versione linguistica del paradosso del Russell mostrando che la contraddizione emerge anche in un ambito puramente linguistico. Grelling considera due classi di aggettivi: gli aggettivi autologici e gli aggettivi eterologici.31 Un aggettivo è autologico se può riferirsi a se stesso, ad esempio ―corto‖ è corto e pertanto è un aggettivo autologico. Un aggettivo è eterologico se non può riferirsi a se stesso, ad esempio ―lungo‖ non è un aggettivo lungo, non può riferirsi a se stesso e quindi è eterologico. Il paradosso scaturisce dal dover catalogare l’aggettivo ―eterologico‖. ―Eterologico‖ è un aggettivo autologico o eterologico? Se è autologico, deve riferirsi a se stesso e quindi dev’essere eterologico. Se è eterologico, non deve riferirsi a se stesso e quindi non può essere eterologico, ma autologico. Anche in questo caso siamo dinnanzi all’ambiguità e non è possibile arrivare ad una soluzione. 29

F. D’Agostini, PARADOSSI, Carocci, Roma, 2009, p. 128. Si veda: F. Gonseth, Les mathématiques et la réalité: essai sur la méthode axiomatique, 1936. 31 Si veda: K. Grelling e L. Nelson, «Bemerkungen zu den Paradoxien von Russell und Burali-Forti», Abhandlungen der Fries’schen Schule, 2 (1908), pp. 300-334. 30

37

Willard Quine (1908-2000) presenta una versione del mentitore, detta predicativa: Abbiamo il predicato Q = ―... produce il falso se aggiunto alla sua citazione‖ e con questo formiamo l’enunciato q: (q) ―... produce il falso se aggiunto alla sua citazione‖ produce il falso se aggiunto alla sua citazione.32

Tale formulazione utilizza la distinzione tra uso e menzione nel linguaggio comune mediante l’utilizzo delle virgolette. Quine considerò che il valore di verità di una frase dipende dal passaggio dall’uso alla menzione, come si nota dalle due frasi seguenti:

Un monosillabo consiste di sei sillabe. «Un monosillabo» consiste di sei sillabe.

Dunque una semplificazione della versione del paradosso del mentitore di Quine è la seguente:

«F» è falsa se preceduta dalla sua menzione.

Quindi «F» F. F è falsa se preceduta dalla sua menzione, quindi è falsa.

E si ottiene così:

«è falsa se preceduta dalla sua menzione» è falsa se preceduta dalla sua menzione.

Haskell Curry (1990-1982) mostrò che nella struttura del paradosso del mentitore la negazione non è essenziale. Infatti la versione del paradosso che egli propose è definita un mentitore senza negazione: 32

F. D’Agostini, PARADOSSI, Carocci, Roma, 2009, p. 130.

38

Data una qualunque frase F, egli mostrò che l’affermazione «se questa frase è vera, anche F lo è» è vera, nel modo seguente. Poiché essa è un condizionale, per mostrare che è vera si dovrà far vedere che la sua conclusione segue effettivamente dalla sua ipotesi. Cioè, che se essa è vera, allora così è F. Supponiamo che l’affermazione sia vera. Sono dunque veri sia il condizionale che essa esprime, che la sua ipotesi. Quindi, è vera anche la conclusione, il che è appunto ciò che si voleva dimostrare. Poiché l’affermazione precedente è vera, e dice che F è vera se essa lo è, ne segue che anche F deve essere vera. Ma F è una frase qualunque, e può essere scelta falsa!33

Questa versione è altamente problematica poiché ha mostrato che è possibile formulare una variante del paradosso del mentitore anche senza utilizzare una negazione. È sufficiente mantenere l’autoreferenzialità e, per di più, la conclusione del ragionamento non è neanche vincolata alla verità di F.

Sulla traccia del mentitore è possibile formulare anche degli indovinelli logici, come il celebre indovinello dei due guardiani, presente anche nel film Labyrinth (1986) del regista Jim Henson. Una bambina si trova di fronte a due porte, ognuna delle quali è sorvegliata da un guardiano. Una delle porte conduce alla salvezza, l’altra a morte certa. Alla bambina viene detto che, tra i due guardiani, uno dice sempre la verità mentre l’altro mente sempre, tuttavia non si sa quale guardiano dica il vero e quale dica il falso e le è concessa una sola domanda ad uno solo dei guardiani. La risposta alla domanda può essere solamente si o no. Come può scegliere la porta che conduce alla salvezza? La soluzione consiste nel chiedere ad un guardiano se l’altro guardiano ritiene che una determinata porta, ad esempio la porta A, è quella giusta e se la risposta è si, allora la porta scelta è sbagliata, se invece la risposta è no, la porta scelta è quella giusta. Poniamo tutti e quattro casi, stabilendo, per comodità: 33

P. Odifreddi, C’era una volta un paradosso, Einaudi, Torino, 2001, pp. 147-148.

39

porta A = salvezza porta B = morte certa guardiano X = dice sempre il vero guardiano Y = mente sempre

Primo caso: La bambina chiede al guardiano X se il guardiano Y le direbbe che la porta A è quella giusta, il guardiano X risponde ―no‖ poiché al suo posto il guardiano Y le avrebbe detto appunto ―no‖. Secondo caso: La bambina chiede al guardiano X se il guardiano Y le direbbe che la porta B è quella giusta, il guardiano X risponde di si, poiché effettivamente il guardiano Y le direbbe che la porta B, che conduce a morte certa, è quella giusta, poiché mente. Terzo caso: La bambina chiede al guardiano Y se il guardiano X le direbbe che la porta A è quella giusta, allora il guardiano Y, poiché mente, risponde: ―no‖, quindi la porta è giusta. Quarto caso: La bambina chiede al guardiano Y se il guardiano X le direbbe che la porta B è quella giusta, il guardiano Y le risponderebbe: ―si‖ e quindi la porta non è quella giusta.

In tutti e quattro i casi, quando il guardiano dice ―si‖ allora la porta scelta non è quella giusta, invece quando dice ―no‖ la porta scelta è quella giusta

Raymond Smullyan ha ideato divertenti rompicapi logici simili a questo, ossia l’isola dei cavalieri e degli scudieri e gli abitanti di Venere e di Marte. Nell’isola dei cavalieri e degli scudieri, i cavalieri dicono sempre la verità e gli scudieri mentono sempre. Nessuno può dire «io sono uno scudiero» poiché i cavalieri dicono sempre la verità e dicendo «io sono uno scudiero» mentirebbero e gli scudieri dicono sempre il falso e pronunciando questa frase direbbero il vero. Se uno di due uomini dice «almeno uno di noi è uno scudiero», allora è un cavaliere e l’altro no.

40

Se dice «siamo entrambi scudieri», allora lui è uno scudiero, ma l’altro è un cavaliere. Se, infine, dice «o sono uno scudiero o siamo entrambi cavalieri», allora sono entrambi cavalieri. Nel mondo degli abitanti di Venere e di Marte, su Venere le donne dicono sempre la verità e gli uomini mentono sempre. Su Marte, al contrario, gli uomini dicono sempre la verità e le donne mentono sempre. Per sapere se qualcuno è di Venere o Marte, si chiede: «Sei uomo?», e si vede se la sua risposta è «si» o «no». Oppure si può chiedere: «Sei donna?», con le risposte invertite. Per scoprire se un abitante dei due pianeti è uomo o donna, si domanda: «Sei di Venere?», e si nota se la risposta è «no» o «si». Oppure, si può domandare: «Sei di Marte?», con le risposte invertite.

Dunque abbiamo notato che la struttura del mentitore è fondata sull’autoreferenzialità, da cui scaturisce un circolo vizioso del tipo 𝛼 ↔ ¬𝛼 che non rispetta il principio di non contraddizione. Nella versione proposta da Yablo, l’autoreferenzialità indiretta è contenuta in un livello infinito di enunciati ed il diallele è sostituito da un regresso all’infinito.

41

1.9 Soluzioni del mentitore

Esistono tre tipi principali di soluzione del mentitore: a) le soluzioni dette gerarchiche, che in vario modo eliminano la chiusura del linguaggio, ossia la facoltà del linguaggio di riferirsi a se stesso; b) le soluzioni truth value gap (tvgap), che ammettono lacune (gaps) di valori di verità, ossia dicono: l’enunciato del mentitore e altri simili non sono né veri né falsi; c) le soluzioni truth value glut (tvglut), per cui il mentitore e altri analoghi enunciati paradossali sono tanto veri quanto falsi: c’è un eccesso (glut) di valori di verità.34

I diversi tipi di soluzione hanno lo scopo risolvere l’antinomia del mentitore puntando su obiettivi differenti. I modelli gerarchici intendono agire sul linguaggio al fine di evitare il sorgere di paradossi, mentre le soluzioni tvgap e tvglut accettano la presenza di contraddizioni all’interno del linguaggio, si interrogano sul valore di verità del mentitore e agiscono direttamente sul concetto di verità. Analizzeremo alcuni modelli per le prime due soluzioni del mentitore.

Le soluzioni gerarchiche a cui faremo riferimento sono la distinzione tra linguaggio e metalinguaggio di Alfred Tarski e la teoria dei tipi di Bertrand Russell.

Alfred Tarski, nello scritto Wahrheitsbegriff in den formalisierten Sprachen, del 1935, ritiene che è la chiusura del linguaggio ad essere responsabile dell’insorgere di paradossi all’interno del linguaggio naturale, ossia il linguaggio comune. Un linguaggio è semanticamente chiuso in quanto non contiene una distinzione tra linguaggio oggetto e metalinguaggio e, pertanto, può riferirsi a se stesso dando adito a contraddizioni. Il linguaggio oggetto è il linguaggio che è oggetto del metalinguaggio. Il metalinguaggio è il linguaggio che ha come oggetto il linguaggio oggetto.

34

F. D’Agostini, PARADOSSI, Carocci, Roma, 2009, p.143.

42

Per comprendere questa distinzione possiamo fare riferimento allo studio di una lingua straniera, ad esempio il tedesco. Il tedesco è il linguaggio oggetto e l’italiano è il metalinguaggio. Il metalinguaggio, dunque, è il linguaggio di cui ci serviamo per parlare di un determinato linguaggio oggetto. Dunque un linguaggio semanticamente aperto contiene la distinzione tra linguaggio oggetto e metalinguaggio e non può riferirsi a se stesso. In tal modo il problema dell’autoreferenzialità è stato risolto. La verità semantica, proposta da Tarski, è una verità relativa ad un contesto semantico formalizzato. Tuttavia la soluzione tarskiana è attuabile solo all’interno dei linguaggi formalizzati, che sono semanticamente aperti, e non nel linguaggio comune, che è semanticamente chiuso e nel quale non è possibile inserire una distinzione tra linguaggio oggetto e metalinguaggio. Inoltre, come nota Wittgenstein, l’introduzione della distinzione tra linguaggio oggetto e metalinguaggio risulta problematica, poiché può provocare un regresso all’infinito nella creazione di un metametalinguaggio che si riferisce al metalinguaggio e di un metametametalinguaggio che ha come oggetto il metametalinguaggio, e così via. La decisione di fermarsi ad un metalinguaggio e ad un linguaggio oggetto sembra arbitraria e non dà conto della possibilità della creazione di metametametalinguaggi.

Bertrand Russell per risolvere l’antinomia del mentitore formula la teoria dei tipi logici, sviluppandola tra il 1910 e il 1913 nell’opera Principia Mathematica, scritta a quattro mani con Alfred North Whitehead. Fondamento della teoria è il principio del circolo vizioso, il quale stabilisce che «qualunque cosa involga tutti i membri di una collezione non deve essere un membro della collezione».35

Tale principio ha lo scopo di evitare l’autoreferenzialità, in quanto Russell aveva notato che proprio quest’ultima è causa del sorgere dei paradossi. La teoria dei tipi introduce una rigida gerarchizzazione dei tipi logici, assegnando ad ogni entità un tipo logico:

35

A. N. Whitehead , B. Russell, Principia Mathematica, vol. I, op. cit. (trad. it. Parziale p. 84).

43

«un tipo si definisce come il campo di significanza di una funzione proposizionale, cioè come la collezione degli argomenti per i quali la detta funzione ha dei valori».36

Attraverso il principio del circolo vizioso si evita di fare confusione e sovrapporre la collezione all’elemento della collezione. In tal modo Russell risolve il suo stesso paradosso (la classe di tutte le classi che non appartengono a se stesse appartiene o no a se stessa?) stabilendo che la classe di tutte le classi, una metaclasse appunto, non è da intendersi propriamente come una classe, ma semplicemente non può esistere, è priva di senso, in quanto è un concetto di tipo logico superiore. Dunque la teoria dei tipi sancisce che una collezione di elementi fa parte di un livello superiore rispetto al livello del quale fanno parte i suoi elementi, pertanto il concetto di una classe di tutte le classi o concetti simili non hanno senso e non sono formulabili. In tal modo la teoria evita il paradosso, tuttavia non riesce a stabilire se esistano verità matematiche che possano essere dimostrate o confutate nel sistema stesso.

Le teorie truth value gap anziché considerare problematico il linguaggio, agiscono sul concetto di verità e ne cercano l’adeguatezza rispetto alla situazione concreta. L’idea di fondo è che ―vero‖ sia un predicato parziale, che cioè esistano enunciati né veri né falsi. L’enunciato del mentitore sarebbe appunto tra questi. Se avete un enunciato della forma ―p è vero‖ andate a verificare che cosa dice p, e così potete vedere se l’enunciato è vero oppure no.37

Saul Kripke nel saggio Outline of a Theory of Truth, del 1975, ha considerato che per risolvere un paradosso bisogna considerare il contesto concreto e fare riferimento alla verità del contesto empirico. Pertanto l’analisi linguistica non è sufficiente a risolvere i paradossi.

Ad esempio, basta supporre che Socrate sostenga «Platone dice il falso almeno una volta», e che Platone ribatta «Socrate non è calvo» e «Socrate dice il vero».

36 37

B. Russell, ―Mathematical logic as based on the theory of types‖, op. cit. (trad. it.) p. 130. F. D’Agostini, PARADOSSI, Carocci, Roma, 2009, p.146.

44

Se Socrate è calvo, allora la prima affermazione di Platone è falsa, quindi Socrate dice il vero, e la seconda affermazione di Platone è vera. Dunque, è possibile assegnare valori di verità a tutte le affermazioni fatte, in modo consistente. Se invece Socrate non è calvo, allora la prima affermazione di Socrate equivale a «Platone dice il falso nella sua seconda affermazione». Unita alla seconda affermazione di Platone, cioè «Socrate dice il vero», essa produce la solita contraddizione.38

I paradossi possono essere risolti da una teoria che getta un ponte tra il linguaggio e il mondo reale. Proprio per la discesa dal piano astratto-concettuale al piano concreto, la tecnica di Kripke è stata definita atterraggio, in quanto prevede di scomporre le affermazioni linguistiche astratte in affermazioni sempre più concrete, tramutandole infine in affermazioni su stati di fatto. Attraverso questa tecnica è possibile distinguere vari tipi di proposizione, a seconda che atterrino sul piano della concretezza oppure no. Avremo quindi: 

le affermazioni che atterrano, che non sono problematiche poiché il loro valore di verità è determinato dallo stato di cose a cui fanno riferimento.



le affermazioni il cui essere paradossali o meno dipende dal valore di verità di alcune loro componenti. Sono chiamati paradossi contingenti. Ad esempio «F e questa frase sono entrambe false». Se F è vera, l’intera frase è falsa. Se F è falsa, diviene un paradosso.



Infine, le affermazioni che non atterrano e non ammettono valori di verità, in quanto qualsiasi assegnazione di valore di verità produce contraddizioni. Sono detti paradossi assoluti. Un esempio è: «Questa frase è falsa».

Tuttavia non sono paradossali tutte le affermazioni che non atterrano. Ad esempio l’affermazione: «Questa frase è vera» 38

Ivi, p. 153.

45

resta nel piano dell’astrattezza ed è possibile attribuirle qualsiasi valore di verità senza cadere in contraddizione. Un contributo alla tecnica dell’atterraggio è stato fornito nel 1982 da Anil Gupta, che ha scoperto un altro tipo di affermazioni: quelle che non atterrano ed hanno comunque un valore di verità definito.

Un esempio si ha quando Socrate sostiene «uno fra me e Platone non dice il vero», e Platone ribatte «sia io che Socrate diciamo il vero». Poiché la prima affermazione equivale a «non diciamo entrambi il vero», e la seconda a «diciamo entrambi il vero», esse si negano a vicenda. Non potendo essere entrambe vere, l’unica possibilità è che la prima sia vera, e la seconda falsa.39

Il problema della teoria truth value gap è la negazione del principio di esaustività. Se esistono predicati che non sono né veri né falsi bisogna rinunciare alla consuetudine di considerare ―falso‖ quale sinonimo di ―non vero‖ e ciò va contro l’inclinazione logica naturale.

Alla base della struttura del paradosso del mentitore abbiamo trovato l’autoreferenzialità e il circolo vizioso che essa innesca; alla base della struttura dei paradossi di Zenone contro il moto, che analizzeremo nei paragrafi successivi, c’è l’infinito, nella forma del regresso all’infinito.

39

Ivi, p. 154.

46

1.10 I paradossi di Zenone

C’è un concetto che corrompe e altera tutti gli altri. Non parlo del Male, il cui limitato impero è l’etica; parlo dell’infinito.40

Zenone di Elea, del V secolo a. C., fu allievo del filosofo Parmenide, fondatore della scuola eleatica. La tesi fondamentale della teoria ontologica di Parmenide è:

«L’essere è e non può non essere, il non essere non è e non può essere».

L’essere, in quanto è e resta se stesso, è immobile. Tutto ciò che si muove, che muta, il divenire dunque, è non essere. Ne deriva che il movimento non esiste, è semplicemente un’illusione dei sensi. La dottrina parmenidea è stata ed è ancora motivo di vivaci discussioni tra gli studiosi, è stata interpretata quale assurdità, in quanto nega fatti evidenti del senso comune. Altri studiosi, invece, ritengono che Parmenide abbia voluto mostrare le contraddizioni che derivano da un discorso rigoroso e assoluto sul divenire.

Zenone, polemizzando con coloro che accusavano l’Eleatico di assurdità, formulò circa 40 paradossi che dimostrano l’impossibilità del divenire, inaugurando il metodo dialettico e la riduzione all’assurdo. I paradossi di Zenone contro il moto sono stati tramandati da Aristotele nella Fisica.

Per dimostrare l’assurdità logica del movimento Zenone elaborò quattro argomenti:

1) Argomento della metà: ciò che si muove deve giungere prima alla metà che non al termine del suo percorso, e prima ancora alla metà della metà, e così via all’infinito;

40

J. L. Borges, «Metamorfosi della tartaruga», Altre inquisizioni, Feltrinelli, Milano, 1980, p. 109.

47

2) Argomento di Achille: il più lento non sarà mai raggiunto nella sua corsa dal più veloce. Infatti è necessario che chi insegue giunga in precedenza là dove si mosse chi fugge, di modo che necessariamente il più lento avrà sempre un qualche vantaggio; (Arist. phys. 239b14 = DK 29 A 26)

3) Argomento della freccia: Tutto ciò che occupa uno spazio uguale a sé, o è in quiete o si muove; ma è impossibile che si muova lungo uno spazio uguale a sé: dunque è in quiete. Ora, la freccia che si muove, siccome si trova in uno spazio uguale a sé in ciascuno degli istanti di tempo durante i quali si muove, sarà in quiete. Se è in quiete in tutti gli istanti di tempo che sono infiniti, sarà in quiete anche in tutto il tempo. Ma si era posto che essa fosse in movimento: dunque la freccia in movimento sarà in quiete; (Arist. phys. 239b30 = DK 29 A 27)

4) Argomento dello stadio: rispetto ad un punto fermo dello stadio, due oggetti che si muovono alla stessa velocità, ma in direzione contraria, percorrono uno spazio che nello stesso tempo è uguale e doppio, il che è assurdo (uguale, se si considera il rapporto tra ciascuno dei due oggetti ed il punto fermo, doppio se si considera il rapporto tra ciascuno dei due oggetti con l’altro).41

Dei quattro paradossi considereremo i primi due, che, come vedremo, sono molto simili e hanno alla base della loro struttura il regresso all’infinito, in quanto si fondano sul presupposto dell’infinita divisibilità dello spazio.

Il primo paradosso, l’argomento della metà, chiamato anche dicotomia o della pista, postula l’impossibilità per un corpo X di muoversi dal punto A al punto B. Un uomo (corpo X) che si prefigge l’obiettivo di andare da casa sua (punto A) in ufficio (punto B) non potrà mai portarlo a termine, poiché prima di arrivare al punto B, dovrà giungere alla metà del percorso, ma prima ancora di giungere alla metà, dovrà giungere alla metà della metà del percorso, e così via, all’infinito. Tale paradosso, quindi, sancisce sia l’impossibilità di partire sia l’impossibilità di arrivare.

41

G. Casertano, Le filosofie antiche, Loffredo editore, Napoli, 1994, p. 41.

48

Zenone postula che lo spazio tra il punto A e il punto B sia infinitamente divisibile e che il corpo X, per percorrerlo, abbia a disposizione un tempo finito. È impossibile percorrere uno spazio infinito in un tempo finito, dunque il moto non esiste.

Il secondo argomento è, senza dubbio, il paradosso più famoso della storia e descrive la celebre gara podistica tra Achille e una tartaruga, personaggi destinati a rivivere nelle numerose metamorfosi del pensiero di filosofi, matematici, artisti e scrittori. Il primo a raccontare della corsa fu il favolista greco Esopo del VI secolo a. C. che, però, al posto dell’eroe greco faceva gareggiare una lepre. Durante la corsa la lepre, tronfia dello schietto vantaggio, decide di fare un pisolino prima di raggiungere il traguardo e, così facendo, si addormenta. Nel frattempo la tartaruga la supera e vince la gara. Zenone anziché la lepre fa gareggiare Achille, campione di velocità per eccellenza, e propone il seguente paradosso: All’inizio della corsa Achille, consapevole della propria superiorità, concede un vantaggio alla tartaruga e proprio per questo non riuscirà mai a raggiungerla poiché prima di farlo dovrà raggiungere il punto da cui essa è partita, ma, nel frattempo, la tartaruga si è spostata, anche se di poco, ed Achille dovrà raggiungere anche quel punto, ma la tartaruga si è spostata ancora, e così via.

Achille corre dieci volte più veloce della tartaruga e le dà un vantaggio di dieci metri. Achille percorre quei dieci metri, la tartaruga ne percorre uno; Achille percorre quel metro, la tartaruga percorre un centimetro; Achille percorre quel centimetro, la tartaruga percorre un millimetro; Achille piè veloce il millimetro, la

49

tartaruga un decimillimetro, e così via all’infinito, senza che Achille possa mai raggiungerla... 42

Tale paradosso, come quello della dicotomia, si basa sul regressus in infinitum, sull’infinita divisibilità dello spazio. Achille non può percorrere uno spazio infinito in un tempo finito. La somma di una serie infinita avrà come risultato un valore infinito e quindi Achille è dinnanzi ad un supercompito, un compito impossibile da realizzare poiché suddiviso in infinite tappe intermedie, in infiniti atti.

Nel 1872 Georg Cantor riformulò il paradosso di Zenone. Considerò un procedimento in cui, dato un segmento con gli estremi inclusi, lo si divide in tre parti uguali e si cancella la parte centrale. Poi ciascuno dei segmenti rimasti viene diviso in parti uguali, e si cancellano quelle centrali. E così all’infinito. Il risultato finale è un insieme infinito di punti sparsi, denominato polvere di Cantor. Tale procedimento può essere effettuato non solo con dei segmenti, ma anche con quadrati e cubi o con triangoli e tetraedri. In tal modo si ottengono il filtro di Sierpinski e la spugna di Menger.

42

J. L. Borges, «Metamorfosi della tartaruga», Altre inquisizioni, Feltrinelli, Milano, 1980, p. 109.

50

Questi oggetti sono esempi di frattali e derivano, come abbiamo visto, da una delle versioni del paradosso di Achille e la tartaruga.

Un’altra versione del paradosso di Zenone è stata formulata da Lewis Carroll nel saggio del 1895 che si intitola appunto Ciò che la Tartaruga disse ad Achille. Lo scrittore immagina che, ad un certo punto, Achille abbia effettivamente raggiunto la Tartaruga e che i due abbiano avuto la seguente conversazione:

Achille aveva raggiunto la Tartaruga e si era seduto comodamente sulla sua corazza. – Così lei è arrivato alla fine del percorso? – disse la Tartaruga. – Anche se esso realmente consisteva di una serie infinita di lunghezze? Mi pareva che qualche bello spirito avesse dimostrato che la cosa non poteva essere fatta. – Può essere fatta – disse Achille. – È stata fatta! Solvitur ambulando. Vede, le distanze diminuivano continuamente e quindi... – Ma se fossero aumentate continuamente? – interruppe la Tartaruga. – Allora che sarebbe successo? – Allora non sarei stato qui – replicò con modestia Achille, - e lei a quest’ora avrebbe fatto parecchie volte il giro del mondo! – Lei mi confonde. Anzi, mi schiaccia – disse la Tartaruga, - perché lei è un peso massimo, e questo è certo! Bene. Le piacerebbe sentire la storia di una corsa che quasi tutti immaginiamo di poter compiere in due o tre salti, mentre in realtà consiste di un numero infinito di passi, ognuno più lungo del precedente?

51

– Con grande piacere – rispose il guerriero greco, mentre traeva dal suo elmo (pochi guerrieri greci in quel tempo avevano tasche) un enorme quaderno di appunti e una matita. – Avanti! E parli lentamente, per piacere! La stenografia non è stata ancora inventata! – Ah, quella splendida Prima Proposizione di Euclide! – mormorò con aria sognante la Tartaruga. – Lei ammira Euclide? – Appassionatamente! Almeno quanto si può ammirare un trattato che sarà pubblicato soltanto tra molti secoli! – Bene, adesso percorriamo un poco la dimostrazione di quella Prima Proposizione, appena due passi, e la conclusione che se ne trae. Gentilmente annoti tutte le proposizioni nel suo quaderno. E per poterci riferire a esse comodamente, chiamiamole A, B e Z: (A) Cose che sono uguali alla stessa cosa sono uguali fra loro. (B) I due lati di questo triangolo sono cose che sono uguali alla stessa cosa. (Z) I due lati di questo Triangolo sono uguali fra loro. I lettori di Euclide concederanno, suppongo, che Z segue logicamente da A e B, cosicché chi accetta A e B come vere deve accettare Z come vera. – Certamente! Anche uno scolaro di scuola media, appena le scuole medie saranno inventate, ciò che non accadrà ancora per circa duemila anni, accetterebbe questo. – E se qualche lettore non avesse ancora accettato A e B come vere, potrebbe ugualmente accettare come valida la successione delle proposizioni, suppongo. – Indubbiamente potrebbe esistere un lettore del genere. Egli potrebbe dire: «Io accetto come vera la Proposizione Ipotetica che, se A e B sono vere, allora Z deve essere vera; ma non accetto A e B come vere». Un tale lettore farebbe bene ad abbandonare Euclide e darsi all’ippica. – E non potrebbe anche esserci qualche lettore che dicesse: «Accetto A e B come vere, ma non accetto la Proposizione Ipotetica»? – Certamente potrebbe esserci, e anche lui farebbe meglio a darsi all’ippica. – E nessuno di questi lettori – continuò la Tartaruga, – si trova per ora nella necessità logica di accettare Z? – Proprio così – assentì Achille. – Stando così le cose, desidero che lei consideri me come un lettore del secondo tipo e che mi costringa ad accettare Z come vera. – Una tartaruga che si dia all’ippica sarebbe... – stava cominciando Achille.

52

– ...un’anomalia, naturalmente – interruppe sbrigativamente la Tartaruga. – Ma non divaghi: pensi a Z. Prima occupiamoci di Z e poi ci daremo all’ippica! – Devo costringerla ad accettare Z, vero? – disse Achille pensieroso. – E la sua posizione attuale è che lei accetta A e B, ma non accetta la Proposizione Ipotetica... – Chiamiamola C – disse la Tartaruga. – ...ma non accetta: (C) Se A e B sono vere, Z deve essere vera. – Questa è la mia posizione attuale – disse la Tartaruga. – Allora le devo chiedere di accettare C. – Con piacere, appena lei l’avrà registrata nel suo quaderno. Cos’altro c’è in quel quaderno? – Solo alcuni ricordi – disse Achille sfogliando nervosamente le pagine. – Ricordi di... delle battaglie nelle quali mi sono distinto! – Rimangono molti fogli in bianco, vedo. Bene! Avremo bisogno di loro – disse la Tartaruga allegramente, mentre un brivido correva per la schiena di Achille. – Ora scriva quel che le detto: (A) Cose che sono uguali alla stessa cosa sono uguali fra loro. (B) I due lati di questo triangolo sono cose che sono uguali alla stessa cosa. (C) Se A e B sono vere, Z deve essere vera. (Z) I due lati di questo Triangolo sono uguali fra loro. – Dovrebbe chiamarla D, non Z – disse Achille, – perché viene subito dopo le altre tre. Se lei accetta A, B e C, allora lei deve accettare Z. – Veramente? E perché? – Perché è una loro conseguenza logica. Se A, B e C sono vere, Z deve essere vera. Non vorrà negare questo, voglio sperare? – Se A, B e C sono vere, Z deve essere vera – ripeté pensosamente la Tartaruga. – Questa è un’altra Proposizione Ipotetica, non è vero? E se non percepissi la sua verità, potrei ancora accettare A, B e C senza accettare Z, non è così? – È così – ammise l’eroe candidamente, – sebbene una tale ottusità sarebbe veramente fenomenale. Tuttavia la cosa è possibile e le devo quindi chiedere di ammettere ancora un’altra Proposizione Ipotetica. – Benissimo. Sono senz’altro disposta ad ammetterla, non appena lei l’avrà registrata nel suo quaderno. Chiamiamola (D) Se A, B e C sono vere, Z deve essere vera.

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Scritto? – Scritto! – rispose Achille raggiante, mentre deponeva la matita. – E finalmente siamo giunti alla fine di questa corsa ideale! Ora che lei accetta A, B, C e D, accetta naturalmente anche Z. – Davvero? – disse la Tartaruga con aria innocente. – Cerchiamo di essere assolutamente chiari: io accetto A, B, C e D, ma supponiamo che mi rifiuti ancora di accettare Z? – In questo caso la Logica la prenderebbe per la gola e la costringerebbe ad accettarla! – rispose Achille in tono di trionfo. – La Logica le direbbe: «Lei non ha vie di scampo. Ora che ha accettato A, B, C e D, lei deve accettare Z!». Non c’è scelta. – Qualunque cosa la Logica abbia la cortesia di comunicarmi, vale certamente la pena di registrarla nel suo quaderno – disse la Tartaruga. – Quindi, per piacere, scriva: (E) Se A, B, C e D sono vere, allora Z deve essere vera. Finché io non ammetto questo, non ho alcun obbligo di accettare Z. Come vede, si tratta di un passo assolutamente necessario. – Capisco – disse Achille. E nella sua voce c’era un velo di tristezza.

A questo punto il narratore, avendo faccende urgenti da sbrigare in banca, fu costretto a lasciare la felice coppia e ripassò di lì solo alcuni mesi dopo. Achille stava ancora seduto sulla corazza della tenace Tartaruga e stava scrivendo nel suo quaderno, che sembrava ormai quasi pieno. La Tartaruga stava dicendo: – Ha scritto l’ultimo passo? Se non ho perso il conto, siamo a mille e uno e ancora ce ne vorranno diversi milioni. E se non le dispiace, come favore personale, considerando quale tesoro di cultura trarranno dal nostro dialogo i logici del XIX secolo, la prego di accettare di cambiare il suo nome in Torto-ruga, in base ad un gioco di parole che mia cugina la Finta Tartaruga farà allora. – Come le aggrada – rispose stancamente il guerriero con toni di vuota disperazione, mentre affondava il viso tra le mani. – Purché lei, da parte sua, accetti un gioco di parole che la Finta Tartaruga non le farà mai, e cambi il suo nome in A-chi-la-fai.

54

Con questo dialogo Carroll, analogamente agli scettici, mostra alcune difficoltà all’interno del ragionamento. Il procedimento del ragionamento prevede che da certe premesse si giunga ad una determinata conclusione, ma per operare correttamente bisogna conoscere la regola con cui si passa dalle premesse alla conclusione e per adoperare correttamente tale regola, bisogna conoscerne la metaregola, e così via. Questo problema si inserisce nella questione della distinzione tra linguaggio e metalinguaggio, che abbiamo affrontato precedentemente. Tale formulazione del paradosso risulta problematica poiché la distanza tra la proposizione ipotetica e la conclusione, anziché diminuire, come nel caso della distanza di Achille e la tartaruga, aumenta all’infinito.

55

1.11 Soluzioni ai paradossi di Zenone

La soluzione più intuitiva e grossolana dei due paradossi di Zenone contro il moto che abbiamo considerato è attribuita a Diogene di Sinope, del IV secolo a. C., esponente della scuola cinica. Egli ritenne che solvitur ambulando, si risolve camminando. Se passiamo dal piano logico al piano empirico vediamo che il concetto di velocità relativa consente ad un atleta di superarne un altro che si trova in vantaggio, sulla base della loro differente velocità. Tuttavia questa soluzione non mostra la fallacia dei paradossi di Zenone che abbiamo preso in considerazione.

Aristotele, nella Fisica, contesta gli argomenti di Zenone contro il moto puntualizzando che non solo lo spazio, ma anche il tempo è infinitamente divisibile e quindi confuta Zenone per aver contrapposto un tempo finito ad uno spazio infinito.

Analizziamo il passo di Aristotele: Perciò è falsa l’assunzione fatta nell’argomento di Zenone, che in un tempo finito è impossibile attraversare infinite cose o toccare una ciascuna infinite cose. Difatti, tanto la lunghezza quanto il tempo, e, in generale, ogni cosa continua si dicono infiniti in due sensi, cioè o relativamente alla divisione o per gli estremi. Invero, in un tempo finito non è possibile toccare cose infinite relativamente alla quantità, ma è possibile toccare cose infinite relativamente alla divisione, giacché in questo senso anche il tempo stesso è infinito. Sicché risulta che è nel tempo infinito, non nel tempo finito, che si attraversa l’infinito, e che è con gli infiniti [momenti], non con i finiti, che si toccano infinite cose. (Fisica, 233a,21-30, traduzione di F, Repellini).43

È possibile, quindi, percorrere uno spazio infinito in un tempo infinito.

43

V. Fano, I paradossi di Zenone, Carocci editore, Torino, 2012, p. 23.

56

Successivamente Aristotele stabilisce una differenza fondamentale tra l’infinito attuale e l’infinito potenziale, cioè l’infinto in atto e l’infinito in potenza.

Consideriamo il passo in cui espone questi concetti:

Allo stesso modo si deve replicare a chi, riprendendo l’argomento di Zenone, domanda se ammettiamo che la metà debba essere attraversata ogni volta, e che queste metà sono infinite, e che quindi è impossibile aver attraversato infinite cose; oppure ad alcuni che domandano in modo diverso, assumendo che insieme al percorrere la metà si ha da contare una ciascuna ogni metà che anteriormente si genera, sicché, una volta attraversata l’intera linea, risulta che si è contato un numero infinito; e su questo, c’è accordo che è impossibile. Invero, nelle prime discussioni sul movimento abbiamo dato una soluzione dell’aporia, basandoci sul fatto che il tempo ha in sé stesso infinite [parti]; infatti, non c’è nulla di assurdo nell’assumere che in un tempo infinito si attraversano infinite [parti]: l’infinito inerisce allo stesso modo alla lunghezza e al tempo. Ma questa soluzione è sì sufficiente per rispondere a chi fa quelle domande (giacché la questione era se è possibile attraversare o contare in un tempo finito infinite [parti]), però non è sufficiente riguardo alla cosa e alla verità. Infatti, se uno lascia da parte la lunghezza e la questione se è possibile attraversare in un tempo infinito infinite [parti], e studia queste questioni riguardo al tempo stesso (giacché il tempo contiene infinite divisioni), allora questa soluzione non sarà più sufficiente; si deve invece asserire il vero, quello che abbiamo enunciato subito sopra. Se si divide la linea continua in due metà, ci si serve di un solo punto come di due; infatti, ne facciamo un inizio e una fine; così fa sia chi conta sia chi divide in metà. Se si divide così, non saranno continui né la linea né il movimento. Infatti, il movimento continuo è di un continuo, e in ciò che è continuo sono presenti sì infinite metà, però non in atto, bensì in potenza. Se si pongono metà in atto, non si produrrà un movimento continuo, bensì si produrrà arresto: proprio questo è chiaro che risulta nel caso di chi conti le metà, giacché gli è necessario contare un solo punto come due; infatti, esso sarà la fine di una metà e l’inizio dell’altra, qualora non si conti la linea continua come una, ma come due metà.

57

Sicché a chi domanda se è possibile attraversare infinite (parti) o nel tempo o nella lunghezza, si deve rispondere che in un senso è possibile, in un senso no. Se sono infinite in atto, non è possibile, se sono in potenza, è possibile. Infatti, chi si muove in modo continuo ha attraversato per accidente infinite (parti), ma in senso assoluto no: è accidentale per la linea essere infinite metà, ma è altro la sostanza e l’essere della linea. (Fisica, 263a4-b9; traduzione di F. Repellini).44

Solo all’interno dell’infinito attuale il moto è impossibile, poiché è interrotto da una serie infinita di arresti, ma nell’infinito potenziale il moto è possibile, poiché l’arresto è solo in potenza e non in atto. La filosofia greca si mantenne nei limiti dell’infinito potenziale, trascurando l’infinito attuale, che sarà poi considerato dalla futura teoria degli insiemi. La soluzione aristotelica è interessante poiché non si limita ad affermare che anche il tempo, e non solo lo spazio, è infinitamente divisibile, ma si interroga sul concetto di tempo e sulla natura della sua infinita divisibilità. Infinitamente divisibile o è una possibilità ipotetica o è un dato di fatto. Nel primo caso il paradosso non si pone, la possibilità ipotetica di un’azione  o di una proprietà Φ non implica che tale azione accada o che tale proprietà si manifesti. Nel secondo caso, invece, l’infinitamente divisibile è in atto, quindi l’arresto avviene davvero e rappresenta un ostacolo concreto al moto di un corpo X che intende percorrere il tratto dal punto A al punto B.

I concetti di potenza e atto, tipici della teoria aristotelica, non sono adoperati dalla scienza moderna e contemporanea. Al loro posto possiamo considerare i concetti di staccato-run e legato-run.

La distinzione fra divisione infinita in atto e in potenza è stata in un certo senso resa con precisione da Grünbaum mediante la contrapposizione fra staccato-run e legato-run. Il primo funziona così: il corpo C per andare da a a b, che distano 1 m l’uno dall’altro, impiega, come sappiamo, 1 s; proviamo a immaginare che il moto di C

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Ivi, p. 24.

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sia così strutturato: nel primo quarto di secondo percorre mezzo metro, poi sta fermo un quarto di secondo; nell’ottavo di secondo successivo percorre un quarto di metro e poi sta fermo un ottavo di secondo e così via. È chiaro che in questo caso C percorre un numero infinito di intervalli di spazio staccati l’uno dall’altro, cioè – direbbe Aristotele – in entelechia (in atto). Il legato-run, invece, è il percorso senza interruzioni. Per esso il problema non si pone neanche, perché di fatto si tratta di un unico moto.45

Grünbaum, dunque, attualizza i concetti aristotelici di potenza ed atto.

Il vero risolutore dei paradossi di Zenone è stato Gregorio da San Vincenzo che nel 1647 mostrò la convergenza di una serie infinita in un risultato finito. Nel trattato Quadratura circuli, del 1647, mostrò che una somma infinita di termini non nulli converge, infine, in un valore finito. Applicando tale ragionamento al paradosso della dicotomia e di Achille e la tartaruga avremo:

1 1 1 1 1      ...  1 2 4 8 16 32

La somma infinita delle tappe che Achille dovrà percorrere per raggiungere la tartaruga ha, infine, un risultato finito. Pertanto Achille, annullando progressivamente per quanto minimamente la distanza tra sé e la tartaruga, riuscirà a raggiungerla in un luogo e in un tempo determinati.

In questo capitolo abbiamo analizzato la struttura dei paradossi ed abbiamo focalizzato l’attenzione sul paradosso del mentitore e sui paradossi di Zenone contro il moto. Abbiamo scelto proprio questi paradossi poiché alla base del mentitore, come abbiamo messo in evidenza, c’è l’autoreferenzialità, mentre alla base dei paradossi di Zenone c’è il regresso all’infinito. Nonostante in ambito logico tali paradossi siano stati risolti, in ambito letterario ed artistico è possibile scorgerne il valore euristico ed indagarne le interessanti implicazioni surreali. 45

Ivi, p. 27.

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Capitolo 2 Autoreferenzialità e regresso all’infinito in letteratura e in arte

2.1 Autoreferenzialità tra letteratura ed arte In questo paragrafo considereremo il carattere dell’autoreferenzialità all’interno della letteratura e dell’arte nell’analisi di romanzi e di quadri che contengono paradossi. Ricorsività e regresso all’infinito sono espressi letterariamente nei termini di mise in abyme, dal francese ―collocato nell’infinito‖, nelle forme di un racconto nel racconto, di un sogno nel sogno, di una parte posta all’interno di se stessa, all’infinito. Autoreferenzialità, ricorsività e regresso all’infinito sono espressi anche artisticamente in opere d’arte che rappresentano mondi impossibili, ossia mondi in cui α e ¬α coesistono.

Il tradimento delle immagini, del 1929, del surrealista René Magritte, può essere considerata una trasposizione artistica dell’autoreferenzialità. Il quadro raffigura una pipa, sotto cui c’è scritto: Ceci n’est pas une pipe. Quindi il quadro mente? La frase dice il vero poiché l’immagine della pipa non è la pipa stessa.

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Bisogna tener conto della differenza tra la rappresentazione dell’oggetto e l’oggetto stesso, che viene rappresentato. Magritte mette in evidenza il nesso problematico tra immagine e percezione, mostrando un paradosso controintuitivo.

Nel disegno Mani che si disegnano, litografia del 1948, Maurits Cornelis Escher esprime artisticamente l’autoreferenzialità:

L’opera rappresenta due mani che disegnano se stesse su di un foglio di carta fissato ad un tavolo da disegno per mezzo di puntine.

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Possiamo percepire la suggestione di un disegno che si disegna, l’impossibilità di distinguere l’inizio e la fine del processo, la contemporaneità di eventi opposti appartenenti a differenti momenti temporali. È la mano destra che disegna la sinistra o viceversa? Non è possibile risolvere il paradosso, poiché il disegno è basato sul circolo vizioso dell’autoreferenzialità. Altro elemento contraddittorio è il contrasto tra la tridimensionalità delle mani e la bidimensionalità dei polsini delle camicie e di parte del polso.

Se una mano disegna una mano e se questa seconda mano, contemporaneamente, è occupata, con molto zelo, a disegnare la prima mano e se tutto questo viene rappresentato su un pezzo di carta fissato con puntine su una tavola da disegno... e se, oltre tutto, poi, l’insieme è nuovamente disegnato, si ha certamente il diritto di parlare di un tipo di iperillusione. Disegnare è infatti illusione: siamo convinti di vedere un mondo tridimensionale, quando il foglio da disegno è invece soltanto bidimensionale.46

Come abbiamo accennato in precedenza, Escher, per il suo stile impostato sulle illusioni ottiche, sul regresso all’infinito, sull’autoreferenzialità e sulla costruzione di mondi impossibili, è considerato l’artista dei paradossi.

Una versione letteraria del paradosso del mentitore è rintracciabile nel Don Chisciotte di Miguel de Cervantes:

Quando Sancio Panza era governatore di Barataria, il primo affare che gli capitò fu una domanda che gli fece un forestiero alla presenza del maggiordomo e di tutti gli altri ministri. E la domanda fu questa: «Signore, un largo fiume divideva due province di un medesimo Stato. Stia bene attenta la Signoria Vostra, perché il caso è di grande importanza e un po’ difficile.

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B. Ernst, Lo specchio magico di M. C. ESCHER, Taschen, Köln, 2007, p. 30.

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Dico dunque che sopra a questo fiume c’era un ponte, e in cima a questo ponte una forca e un tribunale, dove di solito stavano quattro giudici, che giudicavano secondo la legge fatta dal padrone del fiume, del ponte e dello Stato. La qual legge era così formulata: Se uno passa su questo ponte da una riva all’altra, deve prima dichiarare con giuramento dove va e quel che va a fare. Se giura il vero, sia lasciato passare. Ma se mente, sia impiccato sulla forca qui innalzata, senza alcuna remissione. Conosciuta questa legge e la rigorosa condizione, molti passavano lo stesso, perché dopo che s’era riscontrato che quanto dichiaravano sotto giuramento era perfettamente vero, i giudici li lasciavano passare liberamente. Ora, accadde una volta che un tale, invitato a giurare, giurò e disse: «Giuro che passo di qui per andare a morire su quella forca laggiù, e non per altra ragione». I giudici rifletterono sul giuramento, e dissero: «Se quest’uomo lo lasciamo passare liberamente, ha giurato il falso, e secondo la legge deve morire. Ma se l’impicchiamo, siccome egli ha giurato che passava per andare a morire su quella forca, allora ha detto la verità, deve essere lasciato libero». Ora, si domanda alla Signoria Vostra, signor governatore, che cosa faranno i giudici di quest’uomo? Poiché essi sono ancora lì, incerti e dubbiosi. Siccome son venuti a conoscere l’acuta ed elevata intelligenza della Signoria Vostra, mi hanno inviato a supplicarla da parte loro a voler dare il suo parere in un caso così intricato e dubbio». «Quei signori avrebbero potuto risparmiarsi l’incomodo, – rispose Sancio – perché io son uomo più rozzo che fino. Tuttavia, ripetetemi il caso, in maniera che lo intenda bene, e chissà che non possa dar nel segno». L’inviato ripeté un’altra volta, e poi un’altra ancora, il racconto, e Sancio finalmente disse: «A parer mio, questo caso si risolve in due battute, e precisamente così. Quell’uomo giura che passa per andare a morire sulla forca, non è vero? E se egli ci muore veramente, avrà detta la verità, e in virtù della legge merita d’esser lasciato libero e di passare il ponte. Ma se non l’impiccano, egli avrà spergiurato e, sempre in virtù della medesima legge, meriterà d’esser appeso alla forca. Non è così?»

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«Benissimo, – rispose il messaggero. – Ella, signor governatore, ha interamente capito come stanno le cose, e non c’è più alcun dubbio, né più nulla da domandare». «Ebbene, – replicò Sancio, – la mia opinione è che, di quell’uomo, la parte che ha detto la verità si debba lasciar passare, e quella che ha mentito sia impiccata. Così saranno letteralmente rispettate le condizioni del passaggio». «Ma signor governatore, – replicò l’altro, – allora bisognerebbe dividere quell’uomo in due parti, la sincera e la bugiarda. E se si dividesse per davvero, bisognerebbe che morisse per forza. E quindi non si otterrebbe nulla di quello che esige la legge, e che deve essere inesorabilmente eseguito». «Oh, sentite un po’, brav’uomo! – riprese Sancio. – Questo passeggero di cui mi parlate, o io son una bestia, o tanto è giusto che muoia, come che viva e passi il ponte. Perché se la verità lo salva, la menzogna lo condanna. E quindi il mio parere è che rispondiate a quei signori che vi hanno mandato, che siccome le ragioni di condanna e di assoluzione qui si bilanciano, lo lascin passare liberamente, perché è sempre meglio fare del bene che del male. E questo lo sottoscriverei di mio pugno, se sapessi firmare. Ma, a dire il vero, in questo caso non ho parlato di mia testa. Bensì, m’è tornato in mente un avvertimento che insieme con molti altri mi dette il signor Don Chisciotte, la sera avanti che partissi per venire a prendere il governo di quest’isola. E l’avvertimento fu che, quando la giustizia non fosse chiara, mi piegassi e mi appigliassi alla misericordia. Dio ha voluto che in questo momento me ne ricordassi, perché qui l’avvertimento calza come un guanto». «Oh, si! – disse il maggiordomo. – E per conto mio credo che lo stesso Licurgo, che dette leggi agli Spartani, non avrebbe potuto dare miglior sentenza di quella che ha data il gran Sancio».47

A questo caso giuridico paradossale viene data una soluzione morale, pratica, che, rinunciando a risolvere il problema con armi logiche o giuridiche, fa appello alla buona condotta umana, che dovrebbe tendere al bene.

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M. de Cervantes, Don Chisciotte, trad. it. di F. Carlesi, Mondadori, Milano, 1974, pp. 1023-1025.

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Tale paradosso del ponte è simile a quello del coccodrillo, riportato da Diogene Laerzio che abbiamo analizzato nel capitolo precedente ed infatti i due hanno in comune la preveggenza del futuro, il tentativo di indovinare o di assicurare ciò che accadrà. È paradossale la pretesa di infallibile attendibilità di ciò che si premedita di fare o che sia fatto da altri. La mamma del bambino cerca di indovinare ciò che potrebbe fare il coccodrillo, facendo un calcolo delle probabilità, ma non ne ha la certezza, né la potrebbe avere, in quanto è impossibile prevedere il futuro. In maniera analoga il passante, provocatoriamente, dice che il suo scopo è quello di essere impiccato sulla forca, ma non può prevedere la reazione dei giudici. La scommessa e il calcolo delle probabilità diventano paradossali allorché si pretende, attraverso essi, di giungere alla certezza, alla verità, alla legge. La presenza di paradossi nella legge costituisce un serio problema poiché non sempre si è intimati a seguire il saggio consiglio che Don Chisciotte diede a Sancio Panza.

In letteratura la violazione del principio di non contraddizione da parte dell’autoreferenzialità può suggerire interessanti situazioni politiche surreali. Nel romanzo 1984 di George Orwell, il protagonista, Winston Smith, tenta di ribellarsi ad una società fondata sulla paura, sull’odio e sulla schiavitù, controllata da un partito che spia continuamente i suoi sudditi, che cambia continuamente il passato e che agisce attraverso il concetto di bipensiero, secondo il quale due concetti opposti coesistono insieme, sulla base del consapevole autoinganno che ogni cittadino deve effettuare spontaneamente.

Il bipensiero implica la capacità di accogliere simultaneamente nella propria mente due opinioni tra loro contrastanti, accettandole entrambe. L’intellettuale di Partito sa in che modo vanno trattati i suoi ricordi. Sa quindi di essere impegnato in una manipolazione della realtà, e tuttavia la pratica del bipensiero fa sì che egli creda che la realtà non venga violata. Un simile procedimento deve essere conscio, altrimenti non potrebbe essere applicato con sufficiente precisione, ma al tempo stesso ha da essere inconscio, altrimenti produrrebbe una sensazione di falso e quindi un senso di colpa. Il bipensiero è l’anima del Socing, perché l’azione fondamentale del Partito consiste nel fare uso di una forma consapevole di inganno, conservando al tempo

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stesso quella fermezza di intenti che si accompagna alla più totale sincerità. Raccontare deliberatamente menzogne e nello stesso tempo crederci davvero, dimenticare ogni atto che nel frattempo sia divenuto sconveniente e poi, una volta che ciò si renda di nuovo necessario, richiamarlo in vita dall’oblio per tutto il tempo che serva, negare l’esistenza di una realtà oggettiva e al tempo stesso prendere atto di quella stessa realtà che si nega, tutto ciò è assolutamente impensabile. Perfino quando si usa la parola bipensiero è necessario ricorrere al bipensiero. Nel farne uso, infatti, si ammette di manipolare la realtà, ma con un novello colpo di bipensiero si cancella questa consapevolezza, e così via, all’infinito, con la menzogna in costante posizione di vantaggio rispetto alla verità. In fin dei conti, è per mezzo del bipensiero che il Partito è riuscito (e, per quanto ne sappiamo, una simile impresa potrebbe andare avanti per migliaia d’anni) ad arrestare il corso della Storia.48

Dunque lo slogan di una società in cui vige il principio di contraddizione è:

LA GUERRA È PACE LA LIBERTÀ È SCHIAVITÙ L’IGNORANZA È FORZA49

48 49

G. Orwell, 1984, Oscar Mondadori, Milano, 2010, p. 220. Ivi, p. 8.

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2.2 Regresso all’infinito tra letteratura ed arte Consideriamo ora il regresso all’infinito all’interno della letteratura e dell’arte, intendendolo, in letteratura, come un supercompito e, in arte, come tentativo di rappresentare artisticamente l’infinito.

Tristam Shandy, protagonista del romanzo di Laurence Sterne Vita e Opinioni di Tristam Shandy, gentiluomo, del 1761, si imbatte in un supercompito proponendosi lo scopo di scrivere la propria autobiografia:

Questo mese sono un intero anno più vecchio di quant’ero a quest’epoca dodici mesi fa. Essendo arrivato, come potete vedere, quasi a metà del mio quarto volume, ma non oltre il primo giorno della mia vita, questo dimostra che ho trecentosessantaquattro giorni in più da scrivere ora, di quando ho iniziato. Così che, invece di avanzare nel mio lavoro come qualunque altro scrittore, mi ritrovo al contrario in ritardo di altrettanti volumi. Se ogni giorno della mia vita fosse così denso (e forse che no?), e gli eventi e le considerazioni su di esso richiedessero altrettante descrizioni (e perché mai non dovrebbero?), a questo ritmo vivrei 364 volte più veloce di quanto possa scrivere. Ne consegue, se permettete, che più scrivo e più avrò da scrivere; di conseguenza, più lorsignori leggono, più avranno da leggere. Quanto alla proposta di scrivere dodici volumi all’anno, o un volume al mese, non modifica in nessun modo le mie prospettive: per quanto io scriva, e per quanto tagli corto secondo il consiglio di Orazio, non mi raggiungerò mai. Arrivato all’ultimo pizzico, alla peggio mi rimarrà un giorno nella penna: ma un giorno basta per due volumi, e due volumi per un anno.50

Lo scrittore si accorge che vive 364 volte più veloce di quanto può scrivere, poiché la descrizione di un singolo giorno, densa com’è di digressioni e considerazioni, lo occupa un intero anno.

50

L. Sterne, Vita e Opinioni di Tristam Shandy, gentiluomo, Bur Biblioteca Universale Rizzoli, 2002, (IV, 13).

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Dunque l’impresa di scrivere la propria autobiografia è impossibile, l’autore si troverà sempre in ritardo e più vive più ha da scrivere.

Un altro supercompito è reso letterariamente da Franz Kafka, ritenuto scrittore di racconti paradossali in quanto i protagonisti delle sue opere, emulando un affaccendato Achille, si trovano dinnanzi ad una serie infinita (e non convergente) di problemi ed intrighi da dover risolvere. Consideriamo il racconto Un messaggio dell’imperatore del 1917:

L’imperatore – così si racconta – ha inviato a te, a un singolo, un misero suddito, minima ombra sperduta nella più lontana delle lontananze dal sole imperiale, proprio a te l’imperatore ha inviato un messaggio dal suo letto di morte. Ha fatto inginocchiare il messaggero al letto, sussurrandogli il messaggio all’orecchio; e gli premeva tanto che se l’è fatto ripetere all’orecchio. Con un cenno del capo ha confermato l’esattezza di quel che gli veniva detto. E dinanzi a tutti coloro che assistevano alla sua morte (tutte le pareti che lo impediscono vengono abbattute e sugli scaloni che si levano alti e ampi sono disposti i grandi del regno), dinanzi a tutti loro ha congedato il messaggero. Questi s’è messo subito in moto; è un uomo robusto, instancabile; manovrando or con l’uno or con l’altro braccio si fa strada nella folla; se lo si ostacola, accenna al petto su cui è segnato il sole, e procede così più facilmente di chiunque altro. Ma la folla è così enorme; e le sue dimore non hanno fine. Se avesse via libera, all’aperto, come volerebbe!, e presto ascolteresti i magnifici colpi della sua mano alla tua porta. Ma invece si stanca inutilmente!, ancora cerca di farsi strada nelle stanze del palazzo più interno; non riuscirà mai a superarle; e anche se gli riuscisse non servirebbe a nulla; dovrebbe aprirsi un varco scendendo tutte le scale; e anche se gli riuscisse, non servirebbe a nulla; c’è ancora da attraversare tutti i cortili; dietro a loro il secondo palazzo, e così via per millenni; e anche se riuscisse a precipitarsi fuori dell’ultima porta – ma questo mai e poi mai potrà avvenire – c’è tutta la città imperiale di fronte a lui, il centro del mondo, ripieno di tutti i suoi rifiuti. Nessuno riesce a passare di lì, e tanto meno con il messaggio di un morto. Ma tu sta alla finestra e ne sogni, quando giunge la sera.51

51

F. Kafka, «Eine kaiserliche Botschaft», in Ein Laudarzt, 1917 [trad. i. di R. Paoli, «Un messaggio dell’imperatore», in Un medico di campagna, Mondadori, Milano, 1970, pp. 250-251.

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L’instancabile messaggero non riuscirà mai a raggiungere il destinatario del messaggio dell’imperatore, così come, nel paradosso di Zenone, Achille non riuscirà mai a raggiungere la tartaruga.

Jorge Luis Borges, nell’artificio La morte e la bussola del 1943, descrive il paradosso di Achille e la tartaruga come un labirinto fatto di una sola linea retta:

– Nel suo labirinto, – disse alla fine, – ci sono tre linee di troppo. Io so di un labirinto greco che è una linea unica, retta. In questa linea si sono perduti tanti filosofi che ben vi si potrà perdere un mero detective. Scharlach, quando in un altro avatar lei mi darà la caccia, finga (o commetta) un delitto in A; quindi un secondo delitto in B, a otto chilometri da A; quindi un terzo delitto in C, a quattro chilometri da A e B, a metà strada tra i due. E mi aspetti poi in D, a due chilometri da A e da C, di nuovo a metà strada. Mi uccida in D come ora sta per uccidermi in Triste-le-Roy. – Per quest’altra volta, – rispose Scharlach, – le prometto questo labirinto invisibile, incessante, di una sola linea retta.52

Lo scrittore argentino Jorge Luis Borges, come mostreremo in maniera più approfondita nei paragrafi successivi, inserisce alcuni paradossi nei sui racconti, specie nella forma del regresso all’infinito, da cui si dischiudono tenui labirinti all’interno del tempo.

In arte il regresso all’infinito è stato rappresentato visivamente da Escher, che ha dedicato un’intera serie di opere alla trattazione dell’infinito. In un articolo del 1959 Escher motiva la sua scelta tematica in questo modo:

«L’uomo è incapace di immaginare che, in qualche punto al di là delle stelle più lontane nel cielo notturno, lo spazio possa avere fine, un limite oltre il quale non c’è che il nulla. Il concetto di vuoto ha per noi un certo significato, perché possiamo almeno visualizzare uno spazio vuoto, ma il nulla, nel senso di senza spazio, è al di là delle nostre capacità di immaginazione.

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J. L. Borges, Finzioni, Einaudi, Torino, 1955, p. 131.

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È per questo che da quando l’uomo è venuto a giacere, sedere, stare in piedi, a strisciare e camminare sulla terra, a navigare, cavalcare e volare sopra di essa (e lontano da essa), ci siamo aggrappati a illusioni, ad un al di là, ad un purgatorio, un cielo e un inferno, ad una rinascita o a un nirvana, che esistono tutti eternamente nel tempo e interminabilmente nello spazio.»

La divisione regolare del piano, detta anche tassellazione, è l’insieme di forme chiuse che ricoprono completamente il piano, senza lasciare spazi vuoti e senza sovrapporsi ed è uno stile molto usato da Escher. Nella litografia Divisione regolare del piano, del 1958, Escher ha mostrato visivamente l’incessante procedimento al limite. L’artista ha diviso lo spazio in triangoli rettangoli isosceli, costruendo, sull’ipotenusa di ciascuno, altri due triangoli rettangoli isosceli adiacenti, che, dall’alto verso il basso, rimpiccioliscono all’infinito, e pare che ricalchi i valori della serie infinita di termini positivi proposta da Gregorio da San Vincenzo per la soluzione del paradosso di Achille e la tartaruga. In ogni triangolo Escher ha disegnato delle lucertole che rimpiccioliscono senza fine, diventando quasi invisibili miniature e dando la percezione di un processo infinito. In questi suoi lavori Escher aveva intenzione di rappresentare l’infinito.

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Nella silografia Sempre più piccolo, del 1956, Escher, partendo dai quattro lati del quadrato verso il centro, mostra l’incessante rimpicciolire di figure ricorsive, anche in questo caso lucertole, imprigionate in triangoli rettangoli isosceli, seguendo il procedimento dell’opera precedente e realizzando la percezione del regresso all’infinito.

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Tra le opere di Escher dedicate al tema dell’infinito, le più riuscite sono quelle che sostituiscono il cerchio al quadrato. Tra queste la migliore è la silografia Limite del cerchio III, del 1959.

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Escher descrive così questa composizione:

«Nella silografia a colori Limite del cerchio III sono state eliminate del tutto le imperfezioni di Limite del cerchio I. Si hanno ancora soltanto gruppi di «traffico scorrevole», tutti i pesci che appartengono a un insieme e hanno lo stesso colore e nuotano uno dietro l’altro – testa-coda – da un margine all’altro, lungo un binario circolare. Più si avvicinano al centro, più diventano grossi. Fu necessario usare quattro colori, perché ciascuna fila potesse differenziarsi con chiarezza dall’ambiente circostante. Così come tutte queste file di pesci che salgono verticali da lontananze infinite, come razzi, dalla circonferenza e di nuovo ci ripiombano, non una sola componente raggiunge mai il confine, poiché al di là vi è il nulla assoluto.»

Il regresso all’infinito, in arte, può essere rappresentato suggerendo l’infinitamente divisibile, così come è infinitamente divisibile lo spazio tra il punto A e il punto B.

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2.3 Racconto nel racconto Ricorsività e regresso all’infinito, come già accennato, si presentano in letteratura come un racconto all’interno di un racconto, un sogno all’interno di un sogno. Una parte si ripete nel tutto, dando vita ad un processo circolare, un diallele, che innesca il meccanismo del regresso all’infinito.

Considereremo sia gli esempi di ricorsività su di un solo livello, autoreferenziali per così dire, in cui la ripetizione della parte nel tutto non sfocia in un regresso all’infinito, ma è contenuta in una metacornice narrativa; sia gli esempi tipicamente ricorsivi, in cui la ripetizione procede all’infinito. Ricordiamo che il tema della ricorsività in letteratura prende il nome di mise en abyme, collocato nell’abisso.

Un tipico diallele letterario basato sul regressuss in infinitum è stato proposto da John Bart nel 1969 e sembra riprendere un episodio delle Mille e una Notte in cui la regina Shahrazàd sta per raccontare proprio la storia delle Mille e una Notte, rischiando di ripetere tutto il racconto da capo e all’infinito:

C’era una volta una storia che iniziava con: C’era una volta una storia che iniziava con: C’era una volta una storia che iniziava con: C’era una volta una storia che iniziava con: C’era una volta una storia che iniziava con...53

Un racconto che, ad un certo punto, comincia a raccontare di se stesso riprendendo dall’inizio della storia, continuando all’infinito.

53

J. Bart, «Frame tale», in Lost in the funhouse, Grosset and Dunlap, 1969.

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In quest’opera di Mautits Cornelis Escher, intitolata Galleria di stampe, del 1956, è presente la ricorsività, poiché una parte del dipinto si ripete all’interno di se stesso. La litografia rappresenta un ragazzo che osserva un quadro di un porto marino mediterraneo in una galleria d’arte. Facendo scorrere lo sguardo da sinistra verso destra, osservando gli edifici del molo nel quadro, l’osservatore si accorge che in basso è presente la stessa galleria in cui egli stesso si trova. Al centro dell’opera un tondo bianco riporta il monogramma e la firma di Escher.

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Il quadro è costruito su una curva ellittica e contiene una copia di se stesso, ruotata in senso orario di 157.6255960832… gradi e diminuita in scala con un coefficiente di 22.5836845286…

In alcuni casi l’autoreferenzialità, ossia il parlare di se stessi all’interno della stessa cornice semantica, non procede all’infinito, ma crea tuttavia paradossi.

Miguel de Cervantes, nella seconda parte del suo celebre romanzo Don Chisciotte, pubblicata nel 1615, con lo scopo di denigrare lo scrittore apocrifo Alonso Fernández de Avellaneda che aveva fatto circolare una falsa versione della seconda parte del romanzo nell’anno precedente, spacciandola per vera, fa discutere la questione del carattere apocrifo del romanzo direttamente ai personaggi del romanzo, all’interno del romanzo stesso.

Frattanto parvegli di sentir a dire da una stanza divisa dalla sua soltanto da un muro di mezza pietra: — Per la vita di vossignoria, signor don Geronimo, che mentre ci recano la cena, vogliamo leggere un altro capitolo della seconda Parte del don Chisciotte della Mancia.‖ Appena che don Chisciotte sentì proferire il suo nome, rizzossi in piedi, e con gli orecchi tesi ascoltando di che si trattasse, udì che quel tale don Geronimo rispondeva: — E perché vuole, vossignoria, signor don Giovanni che leggiamo questi spropositi? Quegli che ha letto la prima Parte dell'istoria di don Chisciotte della Mancia non può certamente dilettarsi della lettura della seconda. — Con tutto ciò, rispondeva don Giovanni, non sarà male di leggerla, che non vi è libro tanto cattivo che non contenga qualche cosa di buono: quello che mi dispiace si è che si scopre nella seconda Parte don Chisciotte già disinnamorato di Dulcinea del Toboso.‖ Don Chisciotte udendo questo, pieno d'ira e di dispetto, alzò la voce e disse: — Se vi è chi dice che don Chisciotte della Mancia si sia dimenticato o possa dimenticarsi di Dulcinea del Toboso, io gli proverò con armi eguali che va lontanissimo dalla verità; né la senza pari Dulcinea del Toboso può essere dimenticata, né in don Chisciotte può capire obblivione; la costanza è la sua insegna, sua professione è una memoria gelosa e soave, e non può essere obbligato a far forza a se stesso. — Chi è che ci risponde? fu inteso dire dall'altra stanza.

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— E chi altri può essere, Sancio soggiunse, fuorché lo stesso don Chisciotte della Mancia che manterrà quanto ha detto e quanto sarà per dire ché al buon pagatore non dolgono i pegni.‖54

Don Chisciotte e Sancio Panza si ritrovano ad indignarsi per le presunte avventure che avrebbero compiuto i loro alter ego, inventati da uno scrittore impostore. È paradossale che due personaggi di un romanzo discorrano di critica letteraria, contestino la falsità della versione che circola sulla loro terza avventura, ma accettino di buon grado l’esistenza della prima parte del romanzo Don Chisciotte, come se anche nella vita reale fosse possibile scoprire che girano romanzi sul proprio conto, in cui si narrano le proprie vicende, con minuzia di dettagli. È chiaro che Miguel de Cervantes utilizza questo stratagemma per denigrare e smascherare lo scrittore che ha diffuso una seconda parte del Don Chisciotte senza averne l’autorità e la situazione che ne deriva è davvero paradossale.

Allo stesso modo, nel romanzo Nebbia del 1914 dello scrittore Miguel de Unamuno, il protagonista Augusto Pérez si ritrova a discutere con il suo autore, Miguel de Unamuno in persona, riguardo la propria esistenza. Quella tempesta nell’anima di Augusto si placò, volgendo in una calma terribile, con la decisione di suicidarsi. Voleva farla finita con quel se stesso che era fonte di tutte le sue disgrazie. Ma prima di portare a compimento il suo proposito, come un naufrago che si aggrappa a una fragile tavola, ebbe l’idea di consultarsi con me, che sono l’autore di questa storia. Augusto aveva letto un mio saggio nel quale, anche se di sfuggita, parlavo del suicidio, e pare che gli avesse fatto una tale impressione, come anche altre cose da me scritte, che non volle lasciare questo mondo senza avermi conosciuto, senza aver conversato almeno un poco con me. Così si mise in viaggio e venne qui, a Salamanca, dove vivo da più di vent’anni, per farmi visita. Quando mi annunciarono il suo arrivo sorrisi enigmaticamente e dissi di farlo accomodare nel mio studio-biblioteca. Egli entrò come un fantasma, guardò un

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M. de Cervantes, Don Chisciotte, Mondadori, Milano, 1998, p. 1091.

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mio ritratto dipinto a olio che custodisce i libri della mia biblioteca, e a un mio gesto si sedette, di fronte a me. Cominciò col parlarmi dei miei lavori letterari o più o meno filosofici, dimostrando di conoscerli piuttosto bene, il che non mancò, s’intende!, di lusingarmi, e subito dopo prese a raccontarmi la sua vita e le sue disavventure. Lo interruppi dicendogli di risparmiarsi quella fatica, perché delle vicissitudini della sua vita ne sapevo almeno quanto lui, e glielo dimostrai citandogli i più intimi dettagli, anche quelli che lui considerava più segreti. Mi guardò con vero e proprio terrore, come chi si trova di fronte a un essere incredibile; mi parve che cambiasse colore, che si modificassero i suoi lineamenti, e che addirittura tremasse. L’avevo davvero stregato. «Non posso crederci!», ripeteva. «Non posso crederci! Se non lo vedessi con questi occhi, penserei che è tutta una menzogna... Non so più se sono sveglio o se sogno...». «Lei non è sveglio, e non sogna neppure», gli risposi. «Non riesco a spiegarmelo... non riesco a spiegarmelo», aggiunse. «Ma visto che a quanto pare lei sa di me almeno quanto ne so io, forse già immagina le mie intenzioni...». «Si», gli dissi. «Tu», e sottolineai quel tu con tono autoritario, «tu, oppresso dalle tue disgrazie, hai concepito la diabolica idea di suicidarti, e prima di farlo, spinto da qualcosa che hai letto in uno dei miei ultimi saggi, sei venuto a chiedermi un parere». Il pover’uomo tremava come un ossesso, guardandomi come se fosse posseduto dal demonio. Cercò di alzarsi in piedi, forse per scappare via da me; ma non ne era in grado. Non era più padrone delle proprie forze. «Non ti muovere!», gli ordinai. «È che... è che...», balbettò. «È che tu non puoi suicidarti, anche se lo vuoi». «Come?», esclamò, vedendosi negato e contraddetto in quel modo. «Si. Qual è la condizione necessaria perché un uomo possa uccidere se stesso?», gli domandai. «Che abbia il coraggio di farlo», mi rispose. «No», gli dissi, «che sia vivo!». «È naturale!». «E tu non sei vivo!».

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«Come sarebbe che non sono vivo? Allora sono morto?»; e cominciò, senza rendersene conto, a toccarsi. «Ma no, accidenti, no!», gli risposi. «Prima ti ho detto che non eri sveglio, e che non stavi nemmeno sognando, e adesso ti dico che non sei né vivo né morto». «Santo Cielo, mi vuol spiegare una volta per tutte che storia è questa? Si spieghi, la prego!», mi supplicò costernato. «Perché stasera ho visto e ho sentito tante di quelle cose assurde, che ho paura di diventare matto». «Va bene: la verità è, mio caro Augusto», gli dissi col tono più dolce che mi fu possibile, «è che non puoi ucciderti, perché non sei vivo, e che non sei vivo, e nemmeno morto, perché in realtà non esisti...». «Come non esisto?!», esclamò. «No: esisti solo come entità immaginaria; tu, povero Augusto, non sei altro che un prodotto della mia fantasia e di quella dei miei lettori che leggeranno il resoconto da me scritto delle tue avventure e disgrazie letterarie; tu non sei altro che il personaggio di un romanzo, o di una novella, o di una nivola, chiamala come ti pare. Così adesso conosci il tuo segreto.» Di fronte a queste parole il poveretto rimase qualche istante a guardarmi con uno di quegli sguardi penetranti che sembrano attraversare il loro oggetto e continuare oltre; poi guardò il mio ritratto dipinto a olio che veglia sui miei libri, recuperò un po’ di colore e di fiato, poco a poco si riebbe, riprese possesso di sé, mise i gomiti sul mio tavolino, che si trovava tra lui e me, e con il viso poggiato sulle mani, guardandomi con un sorriso negli occhi, mi disse lentamente: «Mi ascolti bene, don Miguel... non sarà che lei si sta sbagliando, e che sta accadendo esattamente il contrario di quello che lei crede e che mi ha appena detto?». «E che significa... il contrario?», gli chiesi, allarmato di vederlo riacquistare vita propria. «Non sarà, mio caro don Miguel», aggiunse, «che è lei, e non io, l’entità immaginaria, quella che in realtà non esiste, e che non è né viva né morta? ... Non sarà che lei è un puro pretesto perché la mia storia possa venire al mondo?». «Ci mancherebbe altro!», esclamai con una certa preoccupazione. «Non si agiti così, signor de Unamuno», mi disse, «mantenga la calma. Lei ha espresso alcuni dubbi sulla mia esistenza...». «Non dubbi», lo interruppi, «l’assoluta certezza che tu non esisti al di fuori della mia produzione romanzesca».

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«Bene, allora non si turbi più di tanto se io a mia volta dubito della sua esistenza, e non della mia. Parliamoci chiaro: non è stato lei che non una, ma diverse volte, ha sostenuto che Don Chisciotte e Sancho Panza non sono reali come Cervantes, ma lo sono anche più di lui?».55

È paradossale che all’interno di un romanzo il protagonista si rechi all’autore del medesimo e i due comincino a conversare fino ad arrivare a discutere della non esistenza del protagonista e, infine, della non esistenza dello stesso autore! È Augusto Pérez un’entità immaginaria, creata allo scopo di dilettare i lettori o è Miguel de Unamuno ad essere un ente di finzione, la cui presunta esistenza avrebbe solo lo scopo di raccontare la storia di Augusto Pérez? Ritroviamo nel romanzo il paradosso del mentitore 𝛼 ↔ ¬𝛼 Se Miguel de Unamuno, attraverso le parole di Augusto Pérez, dice il vero circa la sua esistenza, allora sta mentendo. Ma se sta mentendo, allora dice il vero. Sembra di trovarsi dinnanzi alla litografia Mani che si disegnano di Escher, è la mano sinistra che disegna la destra o viceversa? Nel dipinto è Escher che disegna entrambe, nel romanzo l’autore si relaziona non più unicamente al suo lettore, ma anche al proprio ente di finzione ed inizia a conversare con lui, come se avesse pensieri autonomi da quelli che egli stesso gli ha attribuito.

Sia nel caso del Don Chisciotte di Cervantes sia con Nebbia di Unamuno l’autoreferenzialità è presente come contenuto del romanzo. Posto che è lo scrittore ad esistere e non la sua creazione letteraria, egli dunque, nel rivolgersi ad un personaggio del proprio romanzo, si riferisce a se stesso. Ci troviamo dinnanzi ad un dialogo che in realtà è un monologo. È come se il mentitore che afferma «Io sto mentendo» si mettesse a discutere tra sé e sé della verità o falsità della sua asserzione.

55

M. de Unamuno, NEBBIA, Fazi editore, Roma, 1977, pp 207-210.

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2.4 Sogno nel sogno

Consideriamo un altro brano dal romanzo Nebbia di Miguel de Unamuno, riprendendo la discussione tra i due proprio da dove l’avevamo interrotta nel paragrafo precedente:

«Bene, lasciamo perdere le intenzioni e vediamo ancora un’altra cosa: quando un uomo addormentato e abbandonato sul letto sogna qualcosa, cosa è più reale? Lui in quanto coscienza che sogna, oppure il suo sogno?». «E se sogna che è lui stesso, il sognatore, a esistere?», replicai a mia volta. «In questo caso, caro don Miguel, le chiedo io a mia volta; in che modo egli esiste, in quanto sognatore che sogna, o in quanto sogno sognato da se stesso? E badi bene, inoltre, che nel riconoscere questa conversazione con me, già mi riconosce un’esistenza autonoma rispetto a lei». «No, questo no! Questo no!», gli dissi con decisione, «io ho bisogno di discutere, senza discussioni, senza continue contraddizioni non riesco a vivere, e quando non c’è nessuno che possa discutere con me o contraddirmi, allora invento io qualcuno che lo faccia. I miei monologhi sono dei dialoghi». «E allora è possibile che i dialoghi che lei scrive non siano altro che monologhi...». «Può essere. Però ti ho detto e ti ripeto che tu non esisti al di fuori di me...». «E io torno a insinuare l’idea che sia lei a non esistere al di fuori di me e degli altri personaggi che crede di aver inventato. Sono sicuro che don Avito Carascal e il grande don Fulgencio sarebbero della mia stessa opinione...».56

Il tema del sogno ripropone l’autoreferenzialità, infatti ci si chiede che tipo di rapporto intercorre tra chi sogna e chi è sognato, ricalcando il rapporto tra chi scrive e chi è un ente di finzione.

Nel racconto Le rovine circolari del 1943, di Jorge Luis Borges, si narra di un uomo che, in sogno, dà vita ad un uomo:

Il proposito che lo guidava non era impossibile, anche se soprannaturale. Voleva sognare un uomo: voleva sognarlo con minuziosa interezza e imporlo alla realtà.

56

Ibidem.

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Questo suo progetto magico aveva esaurito l’intero spazio della sua anima; se alcuno gli avesse chiesto il suo nome, o un tratto qualunque della sua vita anteriore, non avrebbe saputo rispondere.57

Il mago riesce a creare un uomo sognandolo per mille e una notti, e invoca la divinità del fuoco al fine di dare realtà a questa entità immaginaria, assicurandosi però che suo ―figlio‖ non sappia di essere il mero sogno di un altro uomo.

Le rovine del santuario del dio fuoco furono distrutte dal fuoco. In un’alba senza uccelli il mago vide avventarsi contro le mura l’incendio concentrico. Pensò, un istante, di rifugiarsi nell’acqua; ma comprese che la morte veniva a coronare la sua vecchiezza e ad assolverlo dalle sue fatiche. Andò incontro ai gironi di fuoco: che non morsero la sua carne, che lo accarezzarono e inondarono senza calore e senza combustione. Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che era anche lui una parvenza, che un altro lo stava sognando.58

Il mago si accorge, alla fine del racconto, di essere anch’egli un’entità immaginaria, di aver sognato di sognare un uomo proprio mentre un altro uomo lo stava sognando. Notiamo anche in questo caso la presenza di un paradosso. Sostituendo il concetto di verità di un determinato enunciato con quello di esistenza di un determinato uomo, consideriamo quanto diventa problematico e contraddittorio dover decidere chi, tra colui che sogna e colui che è sognato, esista davvero. Proprio come è problematico e contraddittorio decidere chi, tra Platone che dice: «Socrate dice il vero» e Socrate che dice: «Platone dice il falso», dica davvero la verità.

Anche nel romanzo Al di là dello specchio, del 1672, scritto da Lewis Carroll, l’esistenza di Alice, la protagonista, viene messa in dubbio da due personaggi di un suo sogno, Dammelo e Dimmelo, i quali vogliono farle credere di far parte del sogno del Re rosso, che sta russando pesantemente, e di non avere identità al di fuori del sogno.

57 58

J. L. Borges, Finzioni, Einaudi, Torino, 1984, p. 48. Ivi, p. 53.

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– Adesso sta sognando, – disse Dimmelo; – e a cosa pensi stia sognando? Alice disse: – Questo nessuno può immaginarlo. – Diamine, sta sognando te! – esclamò Dimmelo, battendo le mani trionfalmente. – E se smette di sognarti, dove credi di ritrovarti? – Dove mi trovo, naturalmente – disse Alice. – No, tu no! – ribatté Dimmelo in tono sprezzante. – Tu non ti troverai da nessuna parte. Diamine, tu sei soltanto una specie di cosa nel suo sogno! – Se quel Re lì si svegliasse, – aggiunse Dammelo, – tu ti spegneresti... puff! ... come una candela! – Niente affatto! – esclamò Alice indignata. – E inoltre: se io sono soltanto una specie di cosa nel suo sogno, voi, vorrei proprio sapere, che sareste? – Idem – disse Dammelo. – Idem, idem! – gridò Dimmelo. Urlò così forte che Alice non poté fare a meno di dire: – Zitto! Lo sveglierai con tutto questo rumore! – Be’, che parli a fare di svegliarlo, – disse Dammelo, – se non sei altro che una delle cose del suo sogno. Sai benissimo che non sei vera. – Io sono vera! – disse Alice e iniziò a piangere. – Non diventerai neanche un pochino più vera piangendo, – osservò Dimmelo; – non c’è niente da piangere. – Se non fossi vera, – disse Alice (abbozzando una risata tra le lacrime, ché tutto le appariva talmente ridicolo), – non sarei in grado di piangere. – Spero non crederai che quelle siano lacrime vere! – la interruppe Dammelo con tono di profondo disprezzo. «Lo so che dicono cose insensate, – pensò Alice; ed è sciocco piangere per questo».59

Borges, nel racconto La scrittura di Dio del 1949, congiunge il tema del sogno al paradosso dell’infinità divisibilità: Un giorno o una notte – tra i miei giorni e le mie notti, che differenza c’è? – sognai che sul pavimento del carcere c’era un granello di sabbia.

59

L. Carroll, Le avventure di Alice nel paese delle Meraviglie e Al di là dello specchio, Einaudi, Torino, 2003, pp. 166-167.

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Mi riaddormentai, indifferente; sognai che mi destavo e che i granelli di sabbia erano due. Mi riaddormentai; sognai che i granelli di sabbia erano tre. Si andarono così moltiplicando fino a colmare il carcere e io morivo sotto quell’emisfero di sabbia. Compresi che stavo sognando; con un grande sforzo mi destai. Fu inutile; l’innumerevole sabbia mi soffocava. Qualcuno mi disse: Non ti sei destato alla veglia ma a un sogno precedente. Questo sogno è dentro un altro, e così all’infinito, che è il numero dei granelli di sabbia. La strada che dovrai percorrere all’indietro è interminabile e morrai prima di esserti veramente destato.60

L’autoreferenzialità all’interno della letteratura dà una versione del paradosso del mentitore in cui, come abbiamo visto, non è più messa in discussione la verità di un enunciato o di più enunciati messi in relazione tra loro, bensì l’esistenza dei personaggi di un racconto e del rispettivo autore. Unamuno fa mettere in dubbio la propria esistenza dalla sua stessa creazione letteraria; Cervantes fa discutere la propria opera letteraria dai personaggi della medesima; Lewis Carroll fa litigare Alice, all’interno di un sogno, con i personaggi del suo stesso sogno, circa la sua esistenza; Borges fa creare da un sognatore, che è a sua volta mero sogno di qualcun altro, un ente di finzione, che magari, a sua volta, creerà qualcun altro in sogno, ed immagina quindi un’infinita catena di sogni contenuti uno all’interno dell’altro, da cui il sognatore non riuscirà più ad uscire, come in un labirinto. Nel determinato momento in cui un uomo sogna, chi è ad esistere, l’uomo addormentato o le fantasticherie che sogna? E nel caso in cui l’uomo che sogna, sogna proprio se stesso, chi tra i due esiste davvero in quel momento? Possono esistere entrambi, contemporaneamente? Ecco che il paradosso del mentitore, in letteratura, crea interessanti situazioni surreali, che danno al lettore l’impressione di star sognando. Ancora nel romanzo Nebbia, Augusto Pérez e il suo caro amico Victor Goti discutono del ruolo della letteratura: 60

J. L. Borges, La scrittura del dio, in L’Aleph, Feltrinelli, Milano, 1980, p.118.

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«Si, l’ho già sentito dire altre volte che l’aspetto più liberatorio dell’arte è quello di far dimenticare agli uomini la loro stessa esistenza. C’è chi si immerge nella lettura dei romanzi per distrarsi da se stesso, per dimenticare le sue pene...». «No: l’aspetto più liberatorio dell’arte è che ci fa dubitare della nostra esistenza.»61

Questa silografia di Escher, chiamata Sogno, del 1935, illustra adeguatamente il tema di cui stiamo parlando, ossia il rapporto contraddittorio tra sognatore e sognato. L’opera rappresenta un vescovo addormentato e una mantide religiosa seduta sul suo petto. Possiamo immaginare che il vescovo stia sognando la mantide religiosa e quindi, sognandola, la dia vita. Quest’opera suggerisce che durante il sonno colui che sogna e colui che è sognato esistono entrambi, uno di fronte all’altro, in qualche punto indefinito nello spazio e nel tempo. Escher, nella sua arte, fa coesistere realtà antitetiche tra loro, rendendo visivamente il concetto di autoreferenzialità, violando il principio di non contraddizione. 𝛼˄¬𝛼.

61

M. de Unamuno, NEBBIA, Fazi editore, Roma, 1977, p. 205.

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2.5 Labirinti di tempo

Dopo aver considerato l’autoreferenzialità e il regresso all’infinito all’interno di romanzi, racconti e dipinti, ci dedicheremo, in questo paragrafo, alla trattazione di una delle versioni più suggestive del regresso all’infinito, ossia la sua correlazione con il tempo. Un regresso all’infinito può essere considerato un labirinto di tempo.

Scrittore di racconti fantastici e paradossali, Jorge Luis Borges ha creato veri e propri labirinti di tempo, come nel racconto Il giardino dei sentieri che si biforcano del 1941:

– Un labirinto di simboli, – corresse. – Un invisibile labirinto d tempo. A me, barbaro inglese, è stato dato di svelare questo mistero diafano. A distanza di più di cent’anni, i particolari sono irrecuperabili, ma non è difficile immaginare ciò che accadde. Ts’ui Pên avrà detto qualche volta: «Mi ritiro a scrivere un libro». E qualche altra volta: «Mi ritiro a costruire un labirinto». Tutti pensarono a due opere; nessuno pensò che libro e labirinto facessero una cosa sola. Il Padiglione della Limpida Solitudine sorgeva nel centro di un giardino forse intricato; il fatto può aver suggerito agli uomini l’idea di un labirinto fisico. Ts’ui Pên morì; nessuno, nelle vaste terre che erano state sue, trovò il labirinto; fu la confusione del romanzo a suggerirmi che il labirinto fosse il romanzo stesso. Due circostanze mi dettero la retta soluzione del problema. Una: la curiosa leggenda secondo cui Ts’ui Pên s’era proposto un labirinto che fosse strettamente infinito. L’altra: una frase in una lettera che scoprii. Albert si alzò. Per qualche istante mi voltò le spalle; aprì un cassetto del dorato e annerito scrittoio. Tornò con un sottile foglio a quadretti, che era stato cremisi e ora era rosa. La fama di calligrafo di Ts’ui Pên era giusta. Lessi con incomprensione e fervore queste parole che con meticoloso pennello tracciò un uomo del mio sangue: «Lascio ai diversi futuri (non a tutti) il mio giardino dei sentieri che si biforcano». Voltai il foglio in silenzio. Albert proseguì:

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– Prima di ritrovare questa lettera, mi ero chiesto in che modo un libro potesse essere infinito. Non potei pensare che ad un volume ciclico, circolare: un volume la cui ultima pagina fosse identica alla prima, con la possibilità di continuare indefinitamente. Mi rammentai anche della notte centrale delle Mille e una notte, dove la regina Shahrazàd (per una magica distrazione del copista) si mette a raccontare testualmente la storia delle Mille e una Notte, a rischio di tornare un’altra volta alla notte in cui racconta, e così all’infinito. Pensai anche a un’opera platonica, ereditaria, da trasmettersi di padre in figlio, e alla quale ogni nuovo individuo avrebbe aggiunto un capitolo, e magari corretto, con zelo pietoso, le pagine dei padri. Queste congetture mi attrassero; ma nessuna sembrava corrispondere, sia pure in modo remoto, ai contraddittori capitoli di Ts’ui Pên. Ero in questa perplessità, quando mi fecero avere da Oxford l’autografo che lei ha esaminato. Mi colpì, naturalmente, la frase: «Lascio ai diversi futuri (non a tutti) il mio giardino dei sentieri che si biforcano». Quasi immediatamente compresi; Il giardino dei sentieri che si biforcano era il romanzo caotico; le parole ai diversi futuri (non a tutti) mi suggerirono l’immagine della biforcazione nel tempo, non nello spazio. Una nuova lettura di tutta l’opera mi confermò quest’idea. In tutte le opere narrative, ogni volta che si è di fronte a diverse alternative, ci si decide per una e si eliminano le altre; in quella del quasi inestricabile Ts’ui Pên, ci si decide – simultaneamente – per tutte. Si creano, così, diversi futuri, diversi tempi, che a loro volta proliferano e si biforcano. Di qui le contraddizioni del romanzo. Fang – diciamo – ha un segreto; uno sconosciuto batte alla sua porta; Fang decide di ucciderlo. Naturalmente, vi sono vari scioglimenti possibili: Fang può uccidere l’intruso, l’intruso può uccidere Fang, entrambi possono salvarsi, entrambi possono restare uccisi, eccetera. Nell’opera di Ts’ui Pên, questi scioglimenti vi sono tutti; e ognuno è il punto di partenza di altre biforcazioni.

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Talvolta i sentieri di questo labirinto convergono: per esempio, lei arriva in questa casa, ma in uno dei passati possibili lei è mio amico, in un altro è mio nemico. Se si rassegna alla mia pronuncia incurabile, leggeremo qualche pagina. Il suo volto, nel cerchio vivido del lume, era indubbiamente quello di un uomo anziano, ma con qualcosa di infrangibile e anche di immortale. Lesse con lenta precisione due versioni di uno stesso capitolo epico. Nella prima, un esercito marcia alla battaglia attraverso una montagna deserta; l’orrore delle pietre e dell’ombra gli fa disprezzare la vita, onde ottiene facilmente la vittoria; nella seconda, lo stesso esercito attraversa un palazzo in cui è in corso una festa; la risplendente battaglia gli pare una continuazione della festa, onde ottiene la vittoria. Io ascoltavo con rispettosa venerazione queste antiche finzioni, forse meno ammirevoli del fatto che le avesse ideate un uomo del mio sangue, e che me le restituisse un uomo di un impero remoto, nel corso di una disperata avventura, in un’isola occidentale. Ricordo le parole finali, ripetute in entrambe le versioni come per un comando segreto: «Così combatterono gli eroi, tranquillo e ammirevole il cuore, violenta la spada, rassegnati a uccidere o a morire». Da quell’istante, sentii intorno a me e in me, nel mio corpo oscuro, un invisibile intangibile pullulare. Non il pullulare dei divergenti, paralleli e finalmente coalescenti eserciti, ma un’agitazione più inaccessibile, più intima, e che coloro, in qualche modo, prefiguravano.62

L’opera dell’infaticabile e obliquo Ts’ui Pên è, dunque, un labirinto di tempo, che propone la concezione di un tempo ramificato in cui, simultaneamente, si verificano tutte le possibilità, in una rete crescente e vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e paralleli che si biforcano all’infinito.

Il film Mr Nobody del 2009, del regista Jaco Van Dormael, riprende la medesima inesorabile diramazione temporale. Il protagonista, infatti, non sapendo scegliere tre le infinite possibilità della sua vita, le sceglie tutte, vivendo molteplici e confuse vite parallele.

La biforcazione del tempo, oltre ad essere una tra le più affascinanti suggestioni letterarie e cinematografiche, è stata considerata anche in ambito filosofico da J. W. Dunne. 62

J. L. Borges, Il giardino dei sentieri che si biforcano, in Finzioni, Einaudi, Torino, 1984, pp. 86-88.

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John William Dunne nella sua opera principale An Experiment with Time, del 1927, postulò che esistono infiniti tempi e l’uomo vive in infiniti livelli di coscienza. Tutto è relativo al tempo, e il tempo, per fluire, ha bisogno di un secondo tempo in cui fluire e così il secondo tempo, a sua volta, ha bisogno di un terzo tempo, e così via. Analogamente, la percezione avviene nel primo tempo, la coscienza della percezione nel secondo tempo, la coscienza della coscienza della percezione nel terzo tempo, e così all’infinito. Solo nei sogni è possibile vivere il tempo vero, ossia l’irraggiungibile termine ultimo della serie infinita di tempi. Nel sogno avviene la coordinazione dei vari tempi poiché in esso confluiscono il passato immediato e l’immediato futuro. L’intersezione significativa del tempo con la vita e con i sogni fu considerata anche da Schopenhauer, il quale ritenne che la vita e i sogni sono fogli di uno stesso libro, leggerli in ordine è vivere; sfogliarli a caso, è sognare.63

63

Si veda J. L. Borges, Il tempo e J. W. Dunne, in Altre Inquisizioni, Feltrinelli, Milano, 1980, pp. 25-28.

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Conclusioni

In questo lavoro abbiamo analizzato l’autoreferenzialità e il regresso all’infinito in ambito logico, artistico e letterario. In logica abbiamo messo in evidenza che l’autoreferenzialità sta alla base del paradosso del mentitore, del quale abbiamo mostrato e discusso le varie versioni e ne abbiamo presentato i tentativi di soluzione. Per quanto riguarda il regresso all’infinito, facendo ancora riferimento all’ambito logico, abbiamo considerato come esso costituisca la struttura dei paradossi di Zenone contro il moto, in particolare dei primi due, il paradosso della dicotomia e il paradosso di Achille e la tartaruga. Ne abbiamo presentato reinterpretazioni e soluzioni. L’autoreferenzialità dà origine al paradosso del mentitore, il quale dà spunto, a sua volta, a scrittori, poeti ed artisti nella creazione di romanzi circolari e ciclici, consentendo finzioni letterarie in cui l’autore può dialogare con il protagonista del suo stesso romanzo. Miguel de Cervantes nella seconda parte della sua opera magistrale, il Don Chisciotte, racconta la vicenda in cui Don Chisciotte e Sancio Panza sentono conversare due uomini su di un presunto romanzo che narra le loro future vicende e, indignati per le menzogne raccontate sul loro conto, iniziano a discutere con i lettori del loro romanzo. Miguel de Cervantes, al fine di criticare lo scrittore Alonso Fernández de Avellaneda che aveva pubblicato una apocrifa seconda parte del Don Chisciotte, inserisce la sua critica all’interno del romanzo stesso, facendo in modo che i protagonisti si riferiscano a se stessi e al loro autore. Nel romanzo Nebbia di Miguel de Unamuno è possibile scorgere un utilizzo ancora più paradossale dell’autoreferenzialità. Il protagonista del romanzo, Augusto Pérez, si reca nello studio dell’autore della sua storia, Miguel de Unamuno in persona, per discutere circa i suoi propositi suicidi. Lo scrittore rivela ad Augusto Pérez la natura della sua condizione di ente di finzione, ma la creatura letteraria, a sua volta, ribatte che se Unamuno non credesse nell’esistenza autonoma del suo ente di finzione, non starebbe di certo conversando e discutendo con lui e, inoltre, insinua che Unamuno stesso sia un’entità immaginaria, frutto del sogno di un Dio. Notiamo, dunque, che il paradosso dell’autoreferenzialità si inserisce nel rapporto tra scrittore e creazione letteraria, sostituendo al concetto di verità il concetto di esistenza.

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Chi è ad esistere, lo scrittore o l’ente di finzione? E, ancora, durante il sonno, chi è ad esistere, colui che sogna o colui che è sognato? Se colui che sogna, sogna di se stesso, chi esiste in quel momento, l’uomo che dorme nel suo letto o l’uomo che agisce nel sogno? Il tema del sogno è anche alla base dei due romanzi di Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie e Al di là dello specchio. Tali suggestioni letterarie derivano dal paradosso del mentitore, mettendone in evidenza il valore euristico. In arte Maurits Cornelis Escher rappresenta l’autoreferenzialità coinvolgendo l’osservatore in un disegno che contiene se stesso, in un vortice infinito. La ricorsività riguarda sia l’autoreferenzialità sia il regresso all’infinito, ed è, quindi, il punto di incontro di questi due concetti che sono stati il fulcro tematico del presente lavoro. Il regresso all’infinito è alla base dei paradossi di Zenone contro il moto ed è anch’esso fonte di ispirazione per scrittori ed artisti. Nell’opera letteraria di Franz Kafka possiamo incontrare personaggi impegnati in imprese impossibili, i quali ricordano un affaccendato Achille alle prese con una corsa infinita, poiché infinitamente divisibile in varie tappe. Il paradosso del regresso all’infinito, inteso come un supercompito, ossia un compito in cui le parti si dividono continuamente rendendo il traguardo sempre più lontano ed inaccessibile, tormenta le vicende dei protagonisti delle opere di Kafka, come il protagonista de Il Castello, che si trova a fronteggiare ostacoli sempre nuovi da cui ne derivano altri, come scatole cinesi, o il messaggero dell’imperatore, nel racconto Un messaggio dall’imperatore, che prima di arrivare dal destinatario del messaggio deve attraversare un percorso infinito. Dinnanzi ad un supercompito si trova anche Tristam Shandy, del romanzo Vita e Opinioni di Tristam Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne. Il suo proposito di scrivere la propria autobiografia risulta essere impossibile in quanto più vive e più avrà da scrivere e per completare la sua opera dovrebbe avere a disposizione un tempo infinito, dovrebbe essere immortale, ma a questo punto non riuscirebbe mai a scrivere tutta la sua vita, la sua opera sarebbe costantemente incompleta. Jorge Luis Borges ha creato veri e propri labirinti di tempo raccontando in una delle sue finzioni, Il giardino dei sentieri che si biforcano, l’intento di un imperatore cinese, l’obliquo Ts’ui Pen, di costruire un labirinto infinito in cui ogni uomo si perdesse.

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Il labirinto è un romanzo in cui sono presenti tutte le possibilità, tutti gli esiti possibili che derivano da un determinato evento. Il romanzo sembra contraddittorio, ma in realtà è coerente ad una diversa concezione temporale. Il regresso all’infinito, infatti, fornisce interessanti ipotesi teoriche, artistiche e letterarie nella sua congiunzione con il tempo. Al tempo inteso come successione ordinata Borges sostituisce un tempo ramificato, un fascio di tempi divergenti, convergenti o paralleli, impegnati a realizzare tutte le possibili combinazioni del caso. Se non c’è un dio benevolo che sceglie per noi il migliore dei mondi possibili, allora questi sono tutti esistenti, contemporaneamente e all’infinito. Escher ha dato spazio alla trattazione del tema dell’infinito all’interno del suo percorso artistico. Tutte le opere appartenenti a questo tema rappresentano il regresso all’infinito nella forma di figure ricorsive imprigionate in triangoli isosceli, che crescono o rimpiccioliscono senza fine. Dunque in questo lavoro abbiamo analizzato i concetti di autoreferenzialità e di regresso all’infinito in logica, in letteratura e in arte, gettando un ponte tra questi tre ambiti disciplinari, i quali, come spero di aver mostrato con adeguata chiarezza, hanno interessanti nodi di congiunzione in quanto sentieri dei paradossi.

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