I greci hanno creduto ai loro miti? [1a ed.] 8815005307 [PDF]


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Italian Pages 179 Year 1984

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Table of contents :
Copertina......Page 1
Frontespizio......Page 3
ISBN......Page 4
Premessa......Page 6
Prologo......Page 8
Capitolo primo: Quando la verità storica era tradizione e «vulgata»......Page 12
Capitolo secondo: Pluralità e analogia dei mondi di verità......Page 28
Capitolo terzo: Distribuzione sociale del sapere e modi di credere......Page 44
Capitolo quarto: Diversità sociale delle credenze e «balcanizzazione» dei cervelli......Page 60
Capitolo quinto: Sotto questa sociologia un implicito programma di verità......Page 82
Capitolo sesto: Come restituire al mito la verità delle sue origini......Page 100
Capitolo settimo: Il mito usato come «linguaggio stereotipato»......Page 112
Capitolo ottavo: Pausania non riesce a sottrarsi al suo programma......Page 132
Capitolo nono: Qualche altra verità: quella del falsario, quella del filologo......Page 142
Capitolo decimo: Fra la cultura ed il credere in una verità si deve scegliere......Page 160
Indice......Page 178
Quarta di copertina......Page 179
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I greci hanno creduto ai loro miti? [1a ed.]
 8815005307 [PDF]

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Este/le Blanc

... Que um con;unto rea! e verdadeiro è uma doença das nossas ideias. Pessoa

Paul Veyne

I greci hanno creduto ai loro miti?

il Mulino

VEYNE, Paul I greci hanno creduto ai loro miti? Bologna, Il Mulino, 1984. 177 p. 21 cm. (lntersezioni, 11). l. Mitologia e cultura - Grecia antica Grecia antica

2. Mitologia e Storiografia -

907.238 88-15-00530-7

ISBN

Edizione originale: Les Grecs ont-ils cru à /eurs mythes?, Paris, Editions du Seuil, 1983. Copyright © 1983 by Editions du Seuil, Paris. Copy· right © 1984 by Società editrice il Mulino, Bologna. Traduzione di Ca­ terina Nasalli Rocca di Corneliano. Per l'illustrazione in copertina: Copyright

© 1984 by SIAE, Roma.

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effet­

tuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non au­ torizzata.

Premessa

. Come si può credere a metà o credere a cose contrad­ dittorie? I bambini credono, nello stesso tempo, che sia Babbo Natale, attraverso il camino, a portare loro i giocat­ toli e che questi giocattoli siano stati messi sotto l'albero dai loro genitori; allora credono veramente a Babbo Na­ tale? Si, e la fede dei dor.cé non è da meno; agli occhi di questi etiopi, ci dice Dan Sperber, «il leopardo è un ani­ male cristiano, che rispetta i digiuni della Chiesa copta, os­ servanza che, in Etiopia, è la base della religione; tuttavia un dor.cé il mercoledi e il venerdi, giorni di digiuno, non è meno preoccupato di proteggere il suo bestiame degli altri giorni della settimana; egli crede sia che i leopardi digiu­ nino, sia che mangino tutti i giorni; che i leopardi siano pe­ ricolosi tutti i giorni, lo sa per esperienza; che siano cri­ stiani, glielo garantisce la tradizione». Sull'esempio della fede dei greci nei loro miti, mi ero dunque proposto di studiare la molteplicità delle modalità del credere: credere sulla parola, credere in base all'espe­ rienza, ecc. Questo studio mi ha, a due riprese, proiettato un po' piu lontano. Si è dovuto riconoscere che invece di parlare di convin­ zioni, si doveva proprio parlare di verità. E che le verità erano esse stesse delle immaginazioni. Noi non ci facciamo una falsa idea delle cose: è la verità delle cose che, attra­ verso i secoli, si è formata in modo tanto singolare. Lungi dall'essere la piu semplice esperienza della realtà, la verità è la piu storica di tutte. Vi fu un'epoca in cui i poeti o gli sto­ rici inventavano di sana pianta origini favolose alle dinastie reali, con il nome di ogni tiranno ed il suo albero genealo­ gico; non erano dei falsari e tanto meno erano in malafede: seguivano il metodo, allora normale, per arrivare a delle ve­ rità. Seguiamo questa idea fino in fondo e, una volta chiuso

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il libro, vedremo che noi riteniamo vere, nello stesso loro modo, quelle che noi chiamiamo finzioni: l' Iliade o Alice sono vere, né piu né meno che Fuste! de Coulanges. Come pure riteniamo fantasticherie, senza dubbio interessanti, tutte le produzioni del passato e non riteniamo vero, e in modo molto provvisorio, che l'«ultimo stadio della scien­ za». Ecco la cultura. Non voglio assolutamente affermare che l'immagina­ zione rivelerà le verità future e che dovrà trovarsi al potere, ma che le verità sono già esse stesse immaginazioni e che l'immaginazione è al potere da sempre; essa, e non la realtà, la ragione o il lungo lavorio del negativo. Questa immaginazione, lo si vede, non consiste nella fa­ coltà conosciuta sotto questo nome sul piano p$icologico e storico; essa non amplia né in sogno, né con profezie le di­ mensioni del vaso di vetro in cui noi siamo racchiusi: essa al contrario ne erige le pareti e, al di fuori di questo vaso, nulla esiste. Nemmeno le future verità: non si saprebbe dunque come dare a queste la parola. In tali vasi di vetro si plasmano le religioni o le letterature o anche le politiche, i comportamenti e le scienze. Questa immaginazione è una facoltà, ma nel senso kantiano del termine; è trascenden­ tale, costituisce il nostro mondo invece di esserne il lievito o il demone. Soltanto - cosa che farebbe fuggire per il di­ sgusto ogni kantiano responsabile - questo trascendentale è storico, perché le culture si susseguono e non si assomi­ gliano. Gli uomini non trovano la verità: essi la costrui­ scono come costruiscono la loro storia, ambedue secondo la � loro utilità. I miei ringraziamenti amichevoli vanno a Miche! Fou­ cault, con cui ho discusso di questo libro, ai miei colleghi dell' Association des étudés grecques, J. Bompaire e J. Bou­ squet, e a F. Wahl per i suoi suggerimenti e le sue critiche.

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Prologo

I greci credevano alla loro mitologia? La risposta è diffi­ cile, poiché credere vuoi dire tante cose . .. Non tutti crede­ vano che Minosse continuasse ad essere giudice 1 negli In­ feri, né che Teseo avesse combattuto il Minotauro 2, ed essi sapevano che i poeti «mentono». Tuttavia, il loro modo di non crederci continua a imbarazzare: poiché Teseo, ai loro occhi, era comunque esistito; bisogna solamente «epurare il Mito con la Ragione» 3 e ridurre la biografia del compagno di Eracle al suo nocciolo storico. Quanto a Minosse, Tuci­ dide - al termine di un prodigioso sforzo di pensiero arriva, da parte sua, alla stessa conclusione: «di tutti quelli che noi conosciamo per sentito dire, Minosse fu il primo a possedere una flotta» 4; il padre di Fedra, marito di Pasifae, non è altro che un re che fu signore del mare. L'epurazione del mitico attraverso il logos non è un episodio della lotta eterna, dalle origini a Voltaire e Renan, tra la superstizione e la ragione, che farebbe la gloria del genio greco; il mito e il logos, malgrado Nestle, non si contrappongono come l' er­ rore e la verità'. Il mito era argome.nto di approfondite ri­ flessioni 6 e i greci non avevano finito di preoccuparsene an­ cora sei secoli dopo quel movimento dei Sofisti che si dice sia stato il loro Aufk/iirung. Lungi dall ' essere un trionfo della ragione, l'epurazione del mito attraverso il logos è un programma molto superato, la cui assurdità sorprende: per­ ché i greci si sono voluti dare tanta pena per nulla nel voler separare il buon grano dal loglio, invece di rifiutare con un solo gesto, nella fabulazione, sia Teseo che il Minotauro, sia l'esistenza stessa di un certo Minosse, sia i fatti invero­ simili che la tradizione attribuisce a questo favoloso Mi­ nosse? Si vedrà l'ampiezza del problema quando si saprà che questo atteggiamento di fronte al mito è durato due buoni millenni; in un libro di storia dove le verità della reli7

Prologo

gione cristiana e le realtà del passato si appoggiano le une alle altre, il Discours sur l'histoire universelle, Bossuet ri­ prende a sua volta la cronologia mitica concordata con la cronologia sacra dalla creazione del mondo, e può dunque collocare nella data giusta, «poco dopo Abimelech», «fa­ mosi combattimenti di Eracle, figlio di Anfitrione» 7, ed alla morte di «Sarpedone, figlio di Zeus». Cosa aveva in te­ sta il vescovo di Meaux nel momento in cui scriveva que­ sto? Cosa abbiamo in testa quando crediamo nello stesso tempo a cose contraddittorie, come facciamo continua­ mente in politica o nel campo della psicanalisi? Avviene lo stesso ai nostri studiosi del folklore di fronte al patrimonio delle leggende popolari o a Freud di fronte alla logorrea del presidente Schreber: che fare di tanta futilità? Come potrebbe tutto ciò non avere un senso, una motiva­ zione, una funzione o almeno una struttura? Il problema di sapere se le favole hanno un contenuto autentico non si pone mai in termini positivi: per sapere se Minasse è esistito, biso­ gna prima decidere se i miti non siano che vaghi racconti o se siano storia alterata; nessuna critica positivistica arriva a capo della fabulazione e del soprannaturale 8 • Allora, come si può smettere di credere alle leggende? Come si è smesso di credere a Teseo, fondatore della democrazia ateniese, a Ro­ molo, e alla storicità dei primi secoli della storia romana? Come si è smesso di credere alle origini troiane della monar­ chia franca? Per i tempi moderni, noi possiamo vedere piu chiaro gra­ zie al bel libro di George Huppert su Estienne Pasquier 9 • La storia come noi la concepiamo è nata non quando è stata in­ ventata la critica, dato che essa esisteva già da molto tempo, ma il giorno in· cui il mestiere di critico e quello di storico sono diventati uno solo : «La ricerca storica è stata praticata per secoli senza intaccare seriamente il modo di scrivere la storia stessa, restando le due attività separate l'una ,dall'al­ tra, alle volte nella mente di una stessa persona>>. E stato cosi anche nell'antichità ed esiste una retta via della ra­ gione storica, la sola e la stessa in ogni epoca? Prendiamo come filo conduttore un'idea di Arnaldo Momigliano 10: «il metodo moderno della ricerca storica è tutto fondato sulla 8

Pro/()go

distinzione tra fonti originali e fonti di seconda mano». Non è molto certo che questa idea di un grande studioso sia giusta; io la credo anche non pertinente. Ma essa ha il merito, anche se non si è d'accordo, di porre un problema di metodo facendola ritenere valida. Pensiamo a Beaufort o a Niebuhr, il cui scetticismo riguardo ai primi secoli della storia di Roma si fondava sulla mancanza di fonti e di do­ cumenti contemporanei a quei tempi lontani, o, quanto­ meno, si giustificava con questa mancanza 1 1• La storia delle scienze non è quella della scoperta pro­ gressiva del buon metodo e delle vere verità. I greci hanno un modo, il loro, di credere alla loro mitologia o di essere scettici, e questo modo rassomiglia solamente in modo ap­ parente al nostro. Essi hanno anche il loro metodo di scri­ vere la storia, che non è il nostro, e questo metodo si basa su un presupposto implicito, cioè la distinzione tra fonti originali e fonti di seconda mano, che, lungi dall'essere ignorato per un vizio di metodo, non è pertinente al pro­ blema. Di tutto ciò, Pausania è un esempio che vale quanto un altro, e lo citeremo spesso. Pausania non è assolutamente una mente da sottovalu­ tare, e non è giusto dire che la sua Periegesi dell'El/ade fu il Baedeker della Grecia antica. Pausania è il parallelo di un filologo o di un archeologo tedesco del primo Ottocento; per descrivere i monumenti e raccontare la storia delle dif­ ferenti contrade della Grecia, ha frugato nelle biblioteche, ha viaggiato molto, si è documentato, ha visto tutto con i suoi occhi 12; mette tanto ardore nel raccogliere leggende lo­ cali dalla viva voce quanto un nostro studioso provinciale al tempo di Napoleone III; la precisione delle indicazioni e l'ampiezza dell'informazione sorprendono quanto la sicu­ rezza del colpo d'occhio (a forza di osservare delle sculture e di informarsi sulla loro data, Pausania ha imparato a da­ tare la scultura sulla base di un criterio stilistico) . Infine Pausania è stato ossessionato dal problema del mito e, come si vedrà, ha a lungo dibattuto su questo enigma.

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Prologo

Note 1 I morti continuano, sotto terra, a condurre la vita che avevano avuto da vivi; Minosse, agli Inferi, continua a giudicare, come Orione continua a cacciare sotto terra: M. Nilsson, Geschichtedergriechischen Religjon, Miinchen, Beck, 1955 2, vol. l, p. 677. Non bisogna dire, come Racine, che gli dei hanno fatto di Minosse il giu­ dice dei morti. Sulle menzogne molto consapevoli dei poeti, si veda Plutarco, Qu o­ modo aJulescens poetas, Il, pp. 16F - 17F.

2 Plutarco, Vita di Teseo, 15, 2-16, 2. Cfr. W. den Boer, Theseus, the Growth of Myth in History, in «Greece and Rome», XVI (1969), pp. 1- 1 3 . 3 Plutarco, Vita d i Teseo, l , 5 : cilnrythOdes epurato dal /ogos», l'opposizione del /ogos al nrythos viene da Platone, Gorgia, 523A.

a

4 Tucidide, l, 4, l; «Conoscere per sentito dire» è conoscere attraverso il mito; si veda per esempio Pausania, VIII, 10, 2. Erodotò, III, 122, si faceva la stessa idea di Minosse. Si veda Aristotele, Politica, 1271B38.

' W. Nestle, Von Mythos zum Logos, Stuttgart, Metzler, 1940. Un altro impor­ tante libro per i diversi argomenti di cui noi qui ci occupiamo è quello diJohn Fors­ dyke, Greece before Homer: Ancient Crono/og:y and Mytho/og:y, New York, Norton, 1957.

6 A. Rostagni, Poeti alessandrini, Roma, Bretschneider, 1972, pp. 148 e 264. A prova di ciò, l'esegesi storica o naturalista dei miti, attraverso Tucidide o Eforo, l'e­ segesi allegorica degli stoici e dei retori, l'evemerismo e la stilizzazione romanesca dei miti attraverso i poeti ellenistici.

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7

Citata da G. Couton in un importante srudio su Les «Pensées» de in «XVII• siècle», XXXII (1980), p. 183.

Pasca/ contre

tèsedes Trois Imposteurs,

8 Come diceva pressappoco Renan, basta ammettere il soprannarurale, per non poter piu dimostrare l'inesistenza di un miracolo. Basta avere interesse a credere che Auschwitz non c'è stata, perché tutte le testimonianze su Auschwitz diventino incredibili. Nessuno ha mai nemmeno dimostrato che Zeus non esisteva. 9 G. Huppert, IO

L'idée de /'histoire parfaite,

Paris, Flammarion, 1973, p. 7.

Citato da Huppert, op.cit., p. 7, n. l. I diversi saggi di A.D. Momigliano rela­ tivi a questi problemi di storia e di metodo della storiografia si possono ora trovare agevolmente nelle sue due raccolte: Studies in Historiography, London, Weidenfeld & Nicholson, 1966, e Essays in Ancient and Modem Historiography, Oxford, Black­ well, 1977.

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'

Se si vuole vedere fino a che punto il «rigore», il «metodo», la «Critica delle fonti» servono poco in questi domini, basterà citare queste righe, dove, ancora nel 1838, V. Ledere vuole rifiutare Niebuhr: «Proscrivere la storia di un secolo, perché vi si uniscono delle favole, è proscrivere la storia di tutti i secoli. I primi secoli di Roma ci sono sospetti a causa della lupa di Romolo, degli scudi di Numa, dell'appa­ rizione di Castore e Polluce. Cancellereste dunque dalla storia romana tutta la sto­ ria di Cesare, a causa dell'astro che apparve alla sua morte, e quella di Augusto, per­ ché lo si diceva figlio di Apollo travestito da serpente?», in Des joumaux chez /es Ro­ mains, Paris, 1838, p. 166. Da dove si vede che lo scetticismo di Beaufort e Niebuhr non ha per fondamento la distinzione d_elle fonti primarie e di seconda mano, ma piuttosto la critica biblica dei pensatori del XVIII secolo.

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Ci si è domandati altre volte se Pausania non avesse viaggiato soprattutto nei libri; si può affermare che è sbagliato: Pausania ha lavorato soprattutto sul terreno; si veda la pagina molto viva di Ernst Meyer nella traduzione abbreviata da Pausa­ nia, Pausanias, Beschreibung Griechenllln ds, Miinchen e Ziirich, Artemis Ver­ lag, 1967 2 , introduzione p. 42. Su Pausania si veda infine K.O. Miiller, Geschichte der antiken Ethnografie, Wiesbaden, Steiner, 1980, vol. II, pp. 1 76-180.

lO

Capitolo primo

Quando la verità storica era tradizione e «vulgata»

Vi è un buon motivo per cui uno storico antico rara­ mente ci dà l'occasione di sapere se distingue fonti primarie e informazioni di seconda mano: uno storico antico non cita mai le sue fonti o, al massimo, lo fa raramente, irrego­ larmente e non per le stesse ragioni per cui lo facciamo noi. Dunque, se ricerchiamo cosa voglia dire questo silenzio e se ne traiamo le conseguenze, tutto risulterà chiaro: vedremo che la storia di allora non aveva in comune che il nome con quella che noi conosciamo. Non voglio dire che fosse im­ perfetta e che dovesse progredire per diventare la scienza che è stata da sempre: nel suo genere era definita, come strumento per dimostrare il vero, quanto il nostro giornali­ smo, al quale assomiglia molto. Questa «parte nascosta del­ l'iceberg» di ciò che un tempo fu la storia è cosl grande . . . da non essere piu lo stesso iceberg. Uno storico antico non «mette mai note a pie' di pa­ gina». Sia che egli compia ricerche originali o lavori su ma­ teriale di seconda mano, vuole essere creduto sulla parola; a meno che non sia fiero di aver scoperto un autore poco co­ nosciuto o voglia valorizzare un testo raro e prezioso, che è, solo per lui, una specie di monumento piuttosto che una fonte 1• Piu spesso, Pausania si accontenta di dire: «ho ap­ preso che . . . » o «secondo i miei informatori . . . »; e questi in­ formatori o esegeti rappresentavano fonti scritte o informa­ zioni raccolte dalla viva voce di sacerdoti o di eruditi del luogo incontrati durante i suoi viaggi 2• Questo silenzio sulle fonti continua ad incuriosire . . . e ha dato luogo alla Quellenforschung.

Torniamo, dunque , a Estienne Pasquier, le cui Recher­ ches de la France vennero pubblicate nel 1560. Prima della

pubblicazione, ci dice George Huppert 3, Pasquier aveva fatto circolare il suo manoscritto tra i suoi 'amici; il rimpro11

Verità storica: tradizione e wu/gpta»

vero che costoro gli rivolgevano piu frequentemente riguar­ dava la sua abitudine di fornire molto spesso i riferimenti sulle fonti che citava; tale modo di procedere - gli si fece notare - ricordava fin troppo «l'umbre des escholes» e non si adattava affatto ad un'opera storica. Era veramente ne­ cessario che confermasse ogni volta «le sue parole con qual­ che autore antico?». Se si ·trattava di dare alla sua narra­ zione autorità e credibilità, il tempo ci avrebbe pensato da solo; dopo tutto, le opere degli antichi non venivano affa­ stellate di citazioni e, quindi, la loro autorità si è affermata con il tempo; che Pasquier lasci al tempo il giudizio sul suo libro! Queste righe sconcertanti mostrano quale abisso separi la nostra concezione della storia dall'altra concezione, che fu quella propria di tutti gli storici dell'antichità e che an­ cora era quella dei contemporanei di Pasquier. Secondo questa concezione, la verità storica era una vulgata che con­ sacra l'accordo degli spiriti nel corso dei secoli; questo ac­ cordo sancisce la verità come sancisce la reputazione degli scrittori ritenuti classici, o, ancora, immagino, la tradizione della Chiesa. Lungi dal dover stabilire la verità a colpi di ci­ tazioni, Pasquier avrebbe dovuto aspettare di essere lui stesso riconosciuto come testo autentico; mettendo note a piè di pagina, fornendo prove come fanno i giuristi, egli ha indiscretamente cercato di forzare il consenso della poste­ rità alla sua opera. In una simile concezione della verità sto­ rica, non si può affermare che venga dimenticata la distin­ zione delle fonti primarie e secondarie o ancora che essa venga ignorata e che non sia ancora stata scoperta; sempli­ cemente non ha né senso né utilità e, se si fosse fatto osser­ vare agli storici antichi la loro supposta omissione, essi avrebbero risposto di non aver nulla a che fare con questa distinzione. lo non dico che essi non abbiano avuto torto, ma soltanto che, data la loro diversa concezione della ve­ rità, tale lacuna non poteva essere una spiegazione. Per comprendere questa concezione della storia come tradizione o vulgata, possiamo riferirei al modo molto simile con cui si pubblicavano gli autori antichi, o le Pensées di Pasca! non piu di un secolo e mezzo fa. Quello che si stam12

Verità storica: tradizione e «VU/wtta»

pava era il testo tramandato, la vulgata; il manoscritto di Pasca! era accessibile a tutti gli editori, ma non lo si andava a consultare alla Bibliothèque du Roi : si ristampava il testo tradizionale. Gli editori di testi latini e greci, invece, ricor­ revano ai manoscritti; ma tuttavia non stabilivano l'albero genealogico di tali copie, non cercavano di costruire il testo su basi interamente critiche e facendo tabula rasa: essi pren­ devano un «buon manoscritto», lo mandavano alla stampa e si limitavano a migliorare, in alcuni dettagli, il testo tradi­ zionale J;icorrendo a qualche altro manoscritto che avevano consultato o scoperto; costoro non ponevano in discussione l' autenticità del testo ma completavano o miglioravano la

vulgata.

Quando narrano della guerra del Peloponneso o dei se­ coli leggendari della piu antica storia di Roma, gli storici antichi si copiano l'un l'altro. E ciò non soltanto perché, in mancanza di altre fonti o di documenti autentici, erano co­ stretti a farlo; dato che noi stessi, che ancor meno di loro disponiamo di documenti e dobbiamo !imitarci alle affer­ mazioni di tali storici, ugualmente non crediamo loro. Ve­ diamo in costoro delle semplici fonti, allo stesso modo in cui loro stessi consideravano la versione tramandata dai loro predecessori come una tradizione. Anche se avessero potuto, non avrebbero cercato di porre in discussione que­ sta tradizione, ma soltanto di migliorarla. Del resto, per i periodi sui quali essi disponevano di documenti, non · Ii hanno utilizzati, o, se lo hanno fatto, li hanno utilizzati molto meno di quanto noi faremmo, e in tutt' altro modo. Tito Livio o Dionigi d'Alicarnasso hanno dunque rac­ contato imperturbabilmente i quattro secoli oscuri della storia primitiva di Roma, mettendo insieme tutto quello che avevano affermato i loro predecessori, senza doman­ darsi: «è vero?», ma limitandosi a trascurare quei dettagli che sembravano loro falsi o piuttosto inverosimili e inatten­ dibili; essi davano per scontato che il loro predecessore di­ cesse la verità. T ale predecessore poteva essere di parecchi secoli posteriore agli avvenimenti che raccontava, ma Dio­ nigi o Tito Livio, in proposito, non si sono mai posti quella domanda che a noi sembra cosi ovvia: «ma, allora, come 13

Verità storica: tradizione e «Vulgata»

lo sa?». Forse perché supponevano che quel predecessore avesse egli stesso avuto dei predecessori, il primo dei quali era stato contemporaneo agli stessi avvenimenti? Certa­ mente no, essi erano esattamente informati che i piu anti­ chi storici di Roma erano stati di quattro secoli posteriori a Romolo e, del resto, essi non se ne preoccupavano affatto; questa era tradizione e la tradizione era verità, ecco tutto. Se avessero appreso come si era formata questa tradizione primaria, presso i primi storici di Roma, quali fonti, quali leggende e quali ricordi si fossero fusi nel loro crogiolo, avrebbero conosciuto soltanto la preistoria della tradizione: essi non l'avrebbero considerata come un testo piu auten­ tico; i contenuti di una tradizione non sono la tradizione stessa. Questa si presenta sempre come un testo, una narra­ zione che stabilisce l' autorità: la storia nasce come tradi­ zione e non si elabora partendo dalle fonti; abbiamo visto che, secondo Pausania, il ricordo di un'epoca è definitiva­ mente cancellato se coloro che sono vicini ai grandi non si curano di riportare la storia del loro periodo; nell'introdu­ zione della sua Guerra Giudaica, Flavio Giuseppe ritiene che lo storico piu meritevole sia chi narra gli avvenimenti del suo tempo ad uso della posterità. Perché era piu merite­ vole scrivere una storia contemporanea piuttosto che una storia dei tempi passati? Perché il passato ha i suoi storici, mentre l'epoca contemporanea attende che uno storico ne divenga la fonte storica e ne stabilisca la tradizione; lo si può vedere, uno storico antico non utilizza fonti e docu­ menti; è esso stesso fonte e documento; o piuttosto la sto­ ria non si elabora a partire dalle fonti: essa consiste nel ri­ petere quello che ne hanno detto gli storici, correggendo o, eventualmente, completando quello che essi ci hanno già fatto conoscere. Succede talvolta che uno storico antico segnali che le sue «autorità» presentano divergenze su· alcuni punti o, me­ glio, che dichiari di rinunciare a conoscere quale fosse la verità su questo punto, data la diversità delle versioni. Ma queste manifestazioni di spirito critico non costituiscono un apparato di prove e di varianti a sostegno di tutto il suo te­ sto, come l' apparato critico che sostiene le fondamenta di 14

Verità storica: tradizione e «Vu/gpta»

tutte le nostre pagine di storia: sono unicamente dei punti controversi ed incerti, dei dettagli sospetti. Lo storico an­ tico innanzitutto crede, e dubita soltanto dei dettagli che non può credere. Accade che uno storico citi un documento e lo trascriva o descriva qualche reperto archeologico. Fa questo o per ag­ giungere un dettaglio alla tradizione o, piuttosto, per illu­ strare il suo scritto ed aprire una parentesi di intimità con il lettore . In una pagina del suo libro IV, Tito Livio fa le due cose insieme. Si domanda se Cornelio Cosso, che uccise in un duello il re etrusco di Veio, fosse tribuno, come affer­ mavano tutte le sue fonti, o se fosse console, e fra queste sceglie la seconda soluzione, perché l'iscrizione sulla co­ razza di questo re, che Cosso vincitore consacrò in un tem­ pio, lo dice console: «ho sentito io stesso», scrive, «dire da Augusto, che ha fondato o restaurato tutti i templi, che en­ trando in questo santuario in rovina aveva letto la parola console scritta sulla tunica di lino del re; ecco perché trove­ rei quasi un sacrilegio togliere a Cosso, e al suo trofeo, la testimonianza dell'imperatore in persona». Tito Livio non ha ricercato documenti: ne ha trovato uno per caso o, piut­ tosto, ha raccolto la testimonianza dell'imperatore a quel proposito e questo documento non è una fonte di cono­ scenza bensi piuttosto una curiosità archeologica ed una reliquia, con la quale il prestigio del sovrano si aggiunge a quello di un eroe del passato. Spesso gli storici d'altri tempi, ed ancora quelli di oggi, citano dei monumenti sem­ pre visibili del passato, non tanto come prove di quello che dicono, ma piuttosto come illustrazioni che ricevono luce e splendore dalla storia, molto piu di quanto essi non illumi­ nino la storia stessa. Dal momento che uno storico è una fonte per i suoi suc­ cessori, succederà anche che essi lo critichino. Essi non hanno messo in discussione e rifatto da capo il suo lavoro per il fatto di aver scoperto in lui degli errori e di averli corretti : essi non ricostruiscono, correggono. O, ancora, lo stroncano; dal momento che l'individuazione degli errori può essere un processo alle intenzioni sulla base di un cam­ pione. In breve, non si critica un'interpretazione d'insieme 15

Verità storica: tradizione e «Vulgata»

o il dettaglio, ma si può incominciare a demolire una repu­ tazione, a minare una attendibilità immeritata; la narra­ zione di Erodoto merita di essere considerata come una fonte o, piuttosto, Erodoto non è altro che un bugiardo? In materia di fonti, di tradizione, è come in materia di orto­ dossia: tutto o niente . Uno storico antico non menziona le sue fonti perché si sente egli stesso una fonte potenziale. A noi piacerebbe sa­ pere come Polibio sa tutto quello che sa. Ci piacerebbe an­ cora di pio sapere perché, ogni volta che la sua narrazione o quella di Tucidide acquistano una bellezza plastica e sem­ brano pio vere del vero, essi si adeguano a qualche raziona­ lità politica o strategica. Quando un testo è vulgata, si è tentati di confondere quello che il suo autore ha material­ mente scritto con quello che ha dovuto scrivere per essere degno di se stesso; quando la storia è vulgata, si distingue male quello che è effettivamente successo da quello che non è potuto non succedere, in nome della verità delle cose ; ogni avvenimento si uniforma alla sua tipologia; ed ecco perché la storia dei secoli oscuri di Roma è ricca di narra­ zioni molto dettagliate, i cui dettagli stanno alla realtà come i restauri alla Viollet-le-Duc stanno all'autenticità. Una simile concezione della ricostruzione storica offriva ai falsari, come vedremo, agevolazioni che la storiografia mo­ derna non offre pio loro. Se è consentito fare un' ipotesi circa il luogo di nascita di questo programma di verità, dove la storia è vulgata, cre­ deremo che il rispetto degli antichi storici per la tradizione trasmessa loro dai predecessori deriva dal fatto che in Gre­ cia la storia è nata non dalla controversia, come da noi, ma dalla ricerca (in effetti, questo è il significato della parola greca «historia») . Quando si fa una ricerca (come viaggia­ tore, geografo, etnografo o cronista) non si può non dire : ecco quello che ho constatato, quello che mi hanno detto negli ambienti bene informati; sarebbe forse utile aggiun­ gere I' elenco degli informatori, ma chi li andrebbe a con­ trollare? Dopo tutto, non è per il rispetto delle fonti che si giudica un giornalista, ma per la sua coerenza o, ancora, su qualche dettaglio dove lo si sarà colto per caso in flagrante 16

Verità storica: tradizione e

«VUIIJilta»

delitto d'errore o di parzialità. I passi stupefacenti di Estienne Pasquier non avrebbero piu nulla di stupefacente, se fossero dedicati ad uno dei nostri cronisti, e ci si potrebbe divertire a sviluppare l'analogia tra gli antichi storici e la deontologia o la metodologia del giornalista. Da noi un croni­ sta non aggiungerebbe nulla alla sua credibilità, se precisasse inutilmente l'identità dei suoi informatori; noi giudichiamo il suo valore con criteri nostri: ci basta leggerlo per sapere se è intelligente, imparziale, preciso e se possiede una solida cul­ tura generale, ed è in questo modo che Polibio, nel suo libro XII , giudica e condanna il suo predecessore Timeo; egli non discute sulle sue opere, salvo in un caso (la fondazione di Lo­ cri) dove Polibio, per un caso fortunato, ha avuto modo di trovarsi sulle tracce di Timeo. Un buono storico, dice Tuci­ dide, non accetta ciecamente tutte le tradizioni che gli ven­ gono riferite 4: deve essere capace di controllare l'informa­ zione, come dicono i nostri cronisti. Solamente, lo storico non metterà tutto questo lavoro sotto gli occhi dei suoi lettori. E tanto meno lo farà quanto piu sarà esigente per se stesso: Erodoto si diletta a riferire le differenti tradizioni contraddittorie che ha potuto racco­ gliere; Tucidide non lo fa quasi mai: riporta soltanto quello che pensa vero 5, si assume le sue responsabilità. Quando egli afferma categoricamente che gli Ateniesi si sbagliano sull' as­ sassinio dei Pisistratidi e ne dà la versione che ritiene piu esatta 6 ' si limita a fare delle affermazioni: non riporta nessun elemento di prova; non si vede d' altronde come avrebbe po­ tuto procurare ai suoi lettori il modo di controllare ciò che ha detto. Gli storici moderni propongono un'interpretazione dei fatti e forniscono al loro lettore i mezzi per controllare l'in­ formazione e per formulare un' altra interpretazione; gli sto­ rici antichi controllano essi stessi e non lasciano questa noia al loro lettore: questo è il loro dovere. Essi distinguevano molto bene, come si dice , la fonte primaria (testimonianza vi­ siva o, in mancanza, la tradizione) e le fonti di seconda mano, ma tenevano questi dettagli per loro, perché il loro lettore non era egli stesso uno storico, come i lettori del giornale non sono giornalisti. Questi e quelli credono alla professionalità. 17

Verità storica: tradizione e «Vulgata»

Quando e perché il rapporto dello storico con i suoi let­ tori è cambiato? Quando e perché si è cominciato a fornire i propri riferimenti? Non sono un grande studioso di storia moderna, ma alcuni dettagli mi hanno colpito. Gassendi non dà riferimenti nel suo Syntagma philosophiae Epicureae; parafrasa o approfondisce Cicerone, Ermarco, Origene, senza che il lettore possa sapere se gli si sta presentando il pensiero di Epicuro stesso, o quello di Gassendi: cosi quest'ultimo non fa dell'erudizione, ma vuole far rinascere l'epicureismo nella sua verità eterna, e, insieme, la scuola epicurea. Nella sua Histoire des variations des Eglises prote­ stantes, Bossuet, in compenso, fornisce i suoi riferimenti, e Jurieu li fornirà anche nelle sue repliche; ma queste sono opere scritte per una controversia. La grande parola è pronunciata: l'abitudine di citare le fonti, l'annotazione erudita non è stata un'invenzione degli storici, ma deriva dalle controversie teologiche e dalla pra­ tica giuridica, dove si allegavano la Scrittura, le Pandette o gli atti di un processo; nella Summa contra Genti/es, San Tommaso non rimanda ai brani di Aristotele, poiché si as­ sume la responsabilità di reinterpretarli, e li considera la verità stessa, che è anonima; in compenso, cita le Scritture, che sono rivelazioni, e non verità dell'anonima ragione. In un ammirevole commento del Codex Theodosianus, nel 1695, Godefroy fornisce i propri riferimenti: questo storico del diritto, come diciamo, si considerava esso stesso un giu­ rista e non uno storico . In breve, l'annotazione erudita ha un'origine cavillosa e polemica: si è creata per se stessa delle prove prima di condividerle con gli altri membri della «comunità scientifica». La vera ragione è l'ascesa dell'uni­ versità con il suo monopolio sempre piu esclusivo sull'atti­ vità intellettuale. La causa è economica e sociale; non ci sono piu possidenti terrieri che vivono di passatempi, come Montaigne o Montesquieu, e non è piu neanche onorevole vivere alle spalle di un grande anziché lavorare . Ora, nell'università, uno storico non scrive .piu per dei semplici lettori, come fanno i giornalisti o gli «scrittori», ma per altri storici, suoi colleghi; e questo non era il caso degli storici dell'antichità. Anche questi hanno, di fronte al 18

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rigore scientifico, un atteggiamento in apparenza !assista che ci sorprende o ci colpisce . Arrivato all'ottavo dei dieci libri che costituiscono la sua grande opera, Pausania scrive: «all'inizio delle mie ricerche, non vedevo che stupida cre­ dulità nei nostri miti; ma, adesso che le mie ricerche arri­ vano all'Arcadia, sono diventato piu prudente. Nell'epoca arcaica, in effetti, coloro che chiamiamo i Saggi, si esprime­ vano per enigmi piuttosto che esplicitamente e suppongo che le leggende su Cronos contengano parte di questa sag­ gezza». Questa confessione forse tardiva ci insegna dunque, retrospettivamente, che Pausania non ha creduto a una sola parola delle innumerevoli ed incredibili leggende che ci ha imperturbabilmente raccontato nelle cento pagine prece­ denti. Riflettiamo su un'altra confessione non ··meno tar­ diva, quella di Erodoto alla fine del settimo dei suoi nove libri. Gli abitanti di Argo hanno tradito la causa greca nel 480 e si sono alleati con i Persiani, che pretendevano di avere il loro stesso mitico antenato, cioè Perseo? «Da parte mia», scrive Erodoto, «il mio dovere è di dire quello che mi è stato detto, ma non di credere a tutto, e ciò che sto di­ chiarando vale per tutto il resto della mia opera» 7• Se uno storico moderno desse in lettura alla comunità scientifica fatti o leggende alle quali esso stesso assoluta­ mente non crede, farebbe un attentato alla probità scienti­ fica. Gli storici antichi hanno, se non una diversa idea del­ l'onestà, comunque lettori diversi, che non sono dei profes­ sionisti e che costituiscono un pubblico eterogeneo come quello di un giornale; hanno anche un diritto, e un dovere, di riservatezza e dispongono di un margine di manovra. La verità stessa non si esprime attraverso le loro righe: spetta al lettore farsi l'idea di questa verità; ecco uno dei tanti particolari poco visibili che rivela come, malgrado le grandi rassomiglianze, il genere storico degli antichi sia molto dif­ ferente da quello dei moderni. Il pubblico degli storici anti­ chi è composito; alcuni lettori cercano una distrazione, altri leggono la storia con occhio critico, altri ancora sono dei professionisti della politica e della strategia. Ogni storico fa la sua scelta: scrivere per tutti, tenendo conto delle diverse categorie di lettori, o specializzarsi, come Tucidide o Poli19

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bio, nell'informazione tecnicamente sicura che fornirà dati sempre piu utllizzablli da parte dei politici e dei militari. Ma la scelta era obbligata; in piu, l'eterogeneità del pubblico la­ sciava. allo storico qualche margine: poteva presentare la ve­ rità sotto tinte piu forti o piu dolci, a suo piacimento, senza tuttavia tradirla. Non bisogna neanche stupirsi o scandaliz­ zarsi delle lettere, molto commentate dai moderni, dove Ci­ cerone domanda a Lucceio «di gonfiare i meriti del suo con­ solato» piu di quanto forse lui stesso non l' avrebbe fatto e . Si veda Der Wi/le zur Macht, n. 70 e 604 Kro­ ner: «Es gibt keine Tatsachen». L'influenza di Nietzsche su Max Weber, che è stata considerevole, meriterebbe un'analisi. 6 Cfr. capitolo nono, nota 1 1 .

173

Indice

Indice

Premessa Prologo

p.

5 7

L

Quando la verità storica era tradizione e «vulgata»

11

Il .

Pluralità e analogia dei · mondi di verità

27

III .

Distribuzione sociale del sapere e modi di credere

43

IV.

Diversità sociale delle credenze e «balcanizzazione» dei cervelli

59

V.

Sotto questa sociologia un implicito programma di verità

81

VI .

Come restituire al mito la verità delle sue origini

99

VII.

Il mito usato come «linguaggio stereotipato»

111

VIII.

Pausania non riesce a sottrarsi al suo programma

131

IX .

Qualche altra verità: quella del falsario, quella del filologo

141

X.

Fra la cultura ed il credere i n una verità si deve scegliere

159

17 7