H.Thomasson - Bagliori Dell - Anima PDF [PDF]

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Zitiervorschau

L’Ottava Collana curata da Franco Battiato, Enzo di Mauro ed Enrico Maghenzani

VOLUME II

DELLO STESSO AUTORE Il pellegrinaggio

Centro italiano studi sull’uomo G.I. Gurdjieff, Milano Ce que le Temps épargne

Racconto

Les Chemins contraires

Diario secondo

A la source du vivant

Diario terzo

Le Versant de l’Aurore

Saggio

sull’Insegnamento di Gurdjieff Prima dell’alba

Diario di un’esperienza

1947-1967

Henri Thomasson

BAGLIORI DELL’ANIMA Meditazioni sulla mia ricerca Traduzione di Igor Legati

Proprietà letteraria riservata L’Ottava Edizioni © 1992 95014 Giarre (CT), viale Don Minzoni 36 ISBN 88-304-1090-X Traduzione dal francese di Igor Legati

Copertina di Francesco Messina Copyright © 1992 L’Ottava, Giarre Distribuzione a cura della Longanesi & C. S.p.A., via Salvini 3, 20122 Milano

Bagliori dell’anima

« Nella speranza che un giorno i risultati delle vostre ricerche possano essere utili ai miei compatrioti, farò tutto il possibile per aiutarvi a raggiungere lo scopo che vi siete prefissi. » PADRE GIOVANNI

(G. Gurdjieff, Incontri con uomini straordinari, Adelphi, p. 307)

In memoria di Padre Giovanni e dei suoi compatrioti che l’Insegnamento ha risvegliato per un istante o per sempre.

Ho parlato troppo di sogni e inventato troppe parole! Lasciata l’ombra appassita dei giorni sono passato dall’altra parte, raggiungendo col mio passo d’uomo il versante dell’aurora...

Avvertenza

Non mi spiace che alcune cose essenziali affidate a questi appunti restino oscure e che coloro per i quali dovrebbero avere senso facciano un po’ di fatica a scoprirle. Vi sono impressioni che richiedono di esser comprese: ciascuno ne trarrà ciò che è in grado di trarne. Talvolta è già stato così in Les chemins contraires, poi in A la source du vivant. Oggi bracco la vita con un linguaggio di cui mi auguro che il lettore eventuale si sforzi di penetrare 1’ambiguità apparente. Io cerco di avvolgere le impressioni indicibili in una bruma poetica perché vengano più intuite che comprese, e cerco di lasciare un vuoto intorno alle parole perché nell’alone che si viene a creare trovi spazio il fremito dei livelli interiori. Raccontare i momenti più significativi della mia esperienza non avrebbe alcun interesse se mirasse soltanto a soddisfare in chi legge il desiderio di capire. Io mi auguro che questo linguaggio produca nel lettore un fermento da cui, nel migliore dei casi, emerga una sensazione analoga alla mia. E inopportuno esprimere nel linguaggio abituale quanto di prezioso anima i momenti in cui le impressioni banali dell’esistenza si fanno da parte. E sarei molto contento se queste note scritte sul filo del rasoio fossero, come dice Littré della vecchia lingua francese, una lingua straniera che il cercatore incamminato sulla nostra via capisca immediatamente. Perciò tengo a sottolineare che, nella lingua utilizzata in questi miei scritti, esistono quelle che chiamerei - come altri hanno fatto - equivalenze, vale a dire immagini che s’incarnano nel discorso senza esserne la « decorazione » e che, invece di limitarsi a sviluppare il tema scelto, hanno la funzione di essere la cosa stessa. H. TH.

Parte prima Recitativo per la coscienza

I

La soglia

Sempre più spesso e sempre più chiaramente mi s’impone il bisogno di tracciare il mio proprio sentiero. Ciò non significa lasciare la via che percorro da più di trentacinque anni né coloro che ne sono i depositari - al contrario, non mi sono mai sentito così dipendente dal loro contributo - ma significa piuttosto addestrarmi a camminare da solo mettendo alla prova le forze che ho. Sotto sotto avverto una sorta di potenzialità latente che trasmette a ciò che avvicino una dimensione diversa, una potenza che cresce e che spande sulle cose che sfioro dentro di me un calore più intenso. Si precisano certi valori, i miei dubbi non restano più tanto spesso sospesi nel vuoto, anzi, talvolta ricevono risposte degne di quelle ascoltate nei giorni non tanto lontani in cui A. era in vita. * C’è una soglia che occorre varcare: al di là sarà tutto per sempre diverso. Una soglia che ancora non vedo con molta chiarezza, ma di cui avverto già l’influenza. La luce che ne traspare viene a morirmi sul piede che mi spinge in avanti. Il più duro è ancora da fare. Io so quel che devo fare. Lo farò? Per passare ci vuole coraggio, un immenso coraggio. Signore, abbi pietà!

Sento una specie di sollievo a non dover più annotare per forza le mie esperienze. Una fonte di libertà conquistata. Solo oggi scopro il peso di quella costrizione e quanto vi fossi asservito senza saperlo. Posso quindi marciare verso la meta senza l’assillo di fermare

* Nei miei scritti già pubblicati A. è l’iniziale con cui ho indicato Henriette LANNES, ossia colei che è stata la mia guida dal momento in cui ho incontrato l’Insegnamento di GURDJIEFF.

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sulla carta gli eventi vissuti. Sì, mi sento liberato davvero. Scrivere è un'occasione per dimostrarlo ancora di più. Senza alcun’altra intenzione. Ciò che importa è tentare. Riuscire non ha alcuna importanza. Riuscire è una conseguenza. Talora succede che la parola preceda l'atto che si compie dentro di me nello stesso istante, come se l’atto ne risultasse. La testa ha sempre bisogno di prove. Il sentimento ne è avido e le divora. Il corpo è la prova di se stesso. L'Essere, invece, non ha bisogno di prove, ha solo bisogno di essere. Tutto comincia con un incontro seguito da un « riconoscimento ». Se ciò che si presenta non viene riconosciuto, la Via intravista è subito persa. Pigrizia. Pigrizia del pensiero che rifiuta lo sforzo di strapparsi all'associativo. Perché ci vuole la domanda diretta, perché occorre chiedere aiuto per trovare all’istante il sentiero che conduce in un posto diverso di sé e l’energia necessaria a percorrerlo? Uno dei vantaggi del lavoro di gruppo consiste nel fatto che ci troviamo costretti a manifestarci ad un altro livello. Cosa che diventa possibile grazie all'influsso risultante dallo sforzo comune. Ma ciascuno chiede aiuto dal punto nel quale si trova. Per il responsabile del gruppo, spingere gli altri a svegliarsi significa essere sveglio. Se il responsabile non è in grado di sottrarsi all'associativo - e quando ne è prigioniero può sembrare il più brillante e credersi il più efficiente - costringerà tutti i presenti a restare nell'associativo. Se si trova a un certo livello del sentimento, il suo contributo resterà impresso nell’omologa parte dell'altro... È un legame terribile.

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La gravità si esercita su tutte le nostre funzioni e ci mantiene nel punto più basso dove ci schiaccia. L’uomo che dorme è un uomo sdraiato. La proprietà del termine indica la rettitudine del pensiero. Una lingua corretta ed elegante non è solo un effetto dell’arte, è un mezzo con cui il pensiero si mantiene a un certo livello. In tal caso il pensiero si fa strumento dell’insieme dei livelli equivalenti delle altre parti dell’uomo, interprete del suo Essere in estensione e profondità. Il corpo è terra, acqua e aria, il sentimento è calore, il sesso è fuoco. Il pensiero è luce. Viene il momento in cui vanno superati i confini della logica, della ragione. Al di là ci si trova soggetti ad altre leggi, giustificate da una ragione più alta, e si sta a proprio agio. Il difficile sta nel passaggio: un cunicolo più o meno lungo in cui ci sentiamo perduti. Nel buio la nostra ragione rallenta la marcia e cerca disperatamente di non mollare la presa riportandoci spesso all’indietro. In certi casi per sempre. Al di là, le parole consuete hanno un senso diverso, si stabiliscono nuovi rapporti, le energie trascinate dalla corrente degli automatismi vengono risparmiate e trovano il loro utilizzo in un mondo sottile finalmente abitabile. Un mondo, anche questo, in cui non ci portiamo dietro il corpo di carne. Credere. E poi, un giorno, vedere ciò che credo. Ecco un risultato della Conoscenza. « Nella notte più lunga accendi una candela nel buio,

In un lampo il mondo diventa un giardino di rose. Affronta l’impresa, per quanto sia ardua, e tutto andrà bene. La stessa galera fa sì che la fatica del rematore diventi luce. » AHMED YASAWI

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Piazzarmi davanti al Reale in me stesso che funge da specchio, cercare nello specchio i segni della mia « presenza » proiettati dalla parte più sottile dell’ energia che riesco a mettere insieme. Per dire più validamente « IO SONO ». Tutti gli errori si pagano. Sarò ricco abbastanza? Non confondere la sofferenza con ciò che chiamiamo così e che spesso non è altro che scontentezza. Primi tentativi di F., F. e M. di esprimere insieme, tramite i suoni, la loro « presenza », la presenza interiore di un mondo verso il quale ciascuno di noi si dirige a tentoni. Tre punti di partenza diversi, tre sentieri diretti verso un'unica meta - la Coscienza - che non raggiungono mai, cui però s'avvicinano insieme sempre di più, asintoticamente. Ne sgorga una musica strana. Una musica libera, nata all'istante, non legata alla forma, capace di utilizzare lo spazio vuoto lasciato tra le righe della scala musicale che solo il pianoforte richiama e sostiene. Una musica inafferrabile come il tempo, insofferente a qualunque scrittura, registrabile solo dal nastro magnetico che la fissa come la foto fissa l’istante vissuto. Una musica che è come l'ombra dell'invisibile proiettata sullo schermo del mondo visibile, un tentativo di esprimere l'inesprimibile. Una musica spoglia, priva di regole e di quelle forme che l’uso corrente sembra aver reso scontate. Una musica imprevedibile e fugace che scompare sul nascere, lasciando a chi l'ode un messaggio che la mente quasi sempre respinge - e talvolta con molta violenza - ma tale da imprimersi su un’altra memoria e da integrarsi alla vita in modo imprevisto. Forse perché entrambe, musica e vita, hanno la stessa sorgente. O forse perché sono identiche... Scorrendo come un ruscello fra le sponde del tempo, questa musica sbocca nel mare aperto della sensibilità umana che si muove con flussi e riflussi seguendo il respiro del mondo. Musica istantanea: così la chiamerei, se proprio dovessi metterle un’etichetta...

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Sforzarmi di restare indifferente sia alla critica all’adulazione, tanto al successo quanto al fallimento. Ancora ne sono lontanissimo.

che

Ogni tanto mi capita ancora di guardarmi allo specchio che A. era per me. Lo specchio è scomparso, ma il gesto rimane. E mi consente tuttora di vedere l’uomo che cerco nello specchio del mondo che mi circonda. Comunicare ciò che so tramite il modo in cui vivo.

Che cos'è la vita?

Un’energia immanente a tutte le cose create? Il potere di evolvere distruggendo i supporti scelti via via, fino al punto del ritorno all’origine? L’espressione della Presenza Divina? Aspetti diversi - forse complementari - di una definizione impossibile. La mia « testa » s’insinua incessantemente in ogni manifestazione della vita per scoprirvi la verità, la sua verità, e ripetermela fino alla noia. Il suo moto assordante e meccanico, turba la pace di cui ho bisogno. Quando con grande sforzo raggiungo la pace, la « testa », senza darsi per vinta, mi chiede: «E adesso che te ne fai della pace? » Una domanda difficile da ignorare. Eppure è impossibile non arrendersi all’evidenza del fatto che il contenuto della mia « testa » è fatto di ricordi, nozioni e aspettative legate al tempo, allo spazio e al futuro, e mai al

presente. Essere, nell’istante medesimo! A tal fine la « testa » è

inservibile.

L’emozione di una parola consunta dall’uso, ma scritta per la prima volta... o di un’impressione che di colpo coincide con l’istante vissuto per la prima volta! Ahimè! La prima volta si presenta solamente una volta.

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La luce schianta il cemento delle tombe. Polvere di pensieri che deposita un omaggio ridicolo sulla pietra eretta a mia gloria. Ed ecco, la festa si celebra. Tempio sepolto sotto ceneri annose, un piccolo seme mi ha scosso. Un piccolo seme che cresce al soffiar dello Spirito, come ha detto il profeta... L’estate riporta il presagio: la sua luce mi chiude le palpebre all’interno delle quali si proiettano i sogni dell’inverno scomparso. Restare in piedi a dispetto della corrente che mi trascina nel paese senza memoria della violenza... Resistere. Tener duro fino alla sera! O notte che ogni volta riporti il silenzio nel quale sento singhiozzare la fonte in giardino! Profumati fiori di caprifoglio, fresca polpa della rosea albicocca, carezza del vento che s’infila nell’apertura della camicia slacciata: trappole di felicità che regnate sull’assenza e la fretta!... Poi, al mattino, camminare con passo sicuro verso il segno che annuncia la Presenza imminente... Laggiù! Vestita delle tue sole mani, la tua bocca è un frutto maturo. Emerse dalla solitudine, le onde del mio desiderio si espandono verso di te, il mio ardore brucia dentro di te. Adesso tu puoi sostenere il peso d’una notte d’uomo. Ma io sono diventato più vecchio. Tu sei nuova come l’alba che t’illumina il viso, tu sai come estinguere l’inutile esodo dei tuoi desideri. Viva. Nata. Libera! Non vi è affatto peccato nelle carni giustamente congiunte. Mezzogiorno canta l’estate. Il cielo, lente impeccabile di puro cristallo, resiste all’erosione della luce. Fino al sudario punteggiato di stelle col quale, ancora una volta, si coprirà questa sera. Già appare la pietra della sua soglia. Allungo il passo. Ecco l’inverso del mondo comune. L’impazienza mi coglie: che frutto darà la mia semina? In questo posto di grazia e di ringraziamento l’attenzione scatena un’eternità di bel tempo che la burrasca dei sensi aveva oscurato.. O mia gioia di essere, più fresca dell’acqua di fonte!... Mezzogiorno canta l’estate.

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Clamore di uomini trascinati all’azione dal loro stesso gran moto come un immenso anello che gira intorno alla terra!... Dentro di noi - quei pochi che siamo - al clamore risponde un silenzio duramente sudato, trascinato a sua volta verso una strana eternità depistante, fuori dalle tombe. A lunghe tappe stiamo andando verso la nascita. La parola conserva la forma, ma non la vita. Quando la pronunziamo le rendiamo la vita donandole una briciola della nostra. Tener presente la magia del parlare.

« Guai a coloro che si adagiano beatamente sui risultati acquisiti! » Cappella funeraria di Khaemhàt - Egitto

Non essere arrogante, non suscitare odio, invidia, gelosia. Ogni giorno più vicino all’uscita, ricordare che non devo lasciarmi alle spalle neppure un nemico. Compiere il gesto che rivela il rovescio delle cose, sorvolare i continenti dell’automatismo, affilare il ferro dello sforzo, cacciare le cose vaganti nel campo mentale, resistere al riflusso. Accogliere ciò che dice la presenza nell’intimità più profonda del corpo... Dare senza compenso, aiutare evitando all’altro lo sforzo significa suscitare l’invidia e la ribellione anziché la capacità e la riconoscenza. Ho svestito il tuo fianco e sfiorato un fogliame d’aurora. Baci: rose colte dalle tue labbra... La mia mano perduta su un cuscino strappato. I nostri desideri s’estinsero su un letto di fiamme. Poi restammo a giacere come arpe abbandonate.

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Perché definire assurdo ciò che per ora è inaccessibile? Il pensiero serve solo a tradurre ciò che la Coscienza conosce. Il Tempo sposta il « luogo »; nel nostro mondo, infatti, non c’è nulla d’immobile. Che cos’è la Coscienza per l’uomo? E l’individualizzazione, la realizzazione di tutte le potenzialità virtuali dell’Universo in un essere determinato, la misura del legame che ne unisce i vari elementi? Se la Coscienza è qualcosa del genere, è chiaro ch’essa è l’unica strada verso un’autentica Conoscenza. E che non c’è progresso se non quello compiuto su questa strada. Bisogna abbandonare alla distruzione i valori di un Tempo ormai giunto alla fine? Credo che G. avrebbe risposto di no. Ogni forza comporta una resistenza. Dio è ciò che è anteriore - prima. Ciò che È, prima dell’idea o della sensazione che cercano di percepire qualcosa di Lui.

IO SONO... Parole che, come colonne di un Tempio, sostengono il movimento stesso dell’Essere. Parole che esprimono desideri ignorati, spazi aperti a gran cavalcate... Parole che, sottomesse alle spinte profonde del mondo creato, flusso e riflusso del mio sangue dilatato nella durata, sono state a lungo soltanto un presagio della potenza di vita che mi abita. Oggi « IO SONO » respinge il potere del tempo e la magia dei luoghi, cancellando questi due incontestabili contrassegni di morte.

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L’atto interiore si dispiega in uno spazio temporale che lo riempie di significato. Poi, di fronte all’importanza assunta dall’atto nello spazio infinito che si è venuto a creare, bisogna costringerlo subito a quel ripiegamento raccolto in cui l’Essere vive e s’accresce. Là dove l’energia fluisce, arde, si strugge, dove la terra triviale diventa ceramica. Là dove brucia la freschezza del sangue.

Averliaz.

Nel gran bel tempo d’estate, ecco qua il mio riposo. Camminare nei boschi, gustare il fresco sorriso che mi rivolgono le foglie, ascoltare sui pendii delle terre in rigoglio l’allegro gorgoglio dei ruscelli che scendono giù dalle rocce... Orgia di campi alberati, di erbe copiose; nella luce del primo mattino, carezza ondeggiante di segale e grano, discreto ammiccare dell’avena sui fianchi delle colline; fulvo riflesso di volpe che annusa gli odori dell’uomo; nel momento più caldo del giorno l’uccello piomba dal cielo vestito del suo fruscio d’ali; una spuma di foglie erompe dai rami e scalfisce l’azzurro del cielo. Sentori di terra e fogliame, di passato e presente mischiati; semi portati dal vento verso corolle che offrono la loro carne, chicchi che marciscono e germinano al calpestio delle greggi, preludio a nascite nuove che non hanno mai fine. Profumo di preghiera proveniente dalla Certosa vicina, frammisto al gusto di terra che sale da ciuffi di umide felci... E connubi di insetti, amori furtivi nelle macchie d’arbusti, bianchi voli di farfalle festose allo Zenith del giorno... E l’ora di grande mistero in cui l’ombra sposa le stelle... E la notte che, fra non molto, tesserà i miei sogni con una spola dorata... Tutta questa natura davanti alla mia cecità! O tu, insensato, che vivi solo di ventre e di sesso, che te ne fai di una saggezza che non ti sia entrata nel sangue?... La tua testa è come un cieco che vede la terra solo attraverso il bastone. Percorri il sentiero, vai verso un’altra luce, conosciti e sii te stesso.

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Sviluppare in me stesso ciò che è parente di Dio. Finito lo sforzo di strappare alle acque notturne qualche goccia del gran fiume senza memoria che s’inabissa nelle viscere della terra! Noi, guardiani della transumanza, saremo riusciti ancora una volta a guidare i nostri lentissimi itineranti verso la riva dell’altro fiume? Deposto il fardello che loro sono per noi, siamo rimasti alle prese col nostro, compagno delle nozze d’estate. Diventare, per tutta la bella stagione, esseri pazienti che si prendono il tempo di nascere negli istanti promessi... Scoppiato... Fermo per qualche tempo al margine della strada, giusto il tempo di montare la vita di scorta e ripartire... Ci penserò fra qualche giorno. Giunto al culmine dell’istante, col palpito di un essere vivo che contiene il suo seme, io SONO. L’attenzione scocca giù come un fulmine, verticale, piomba sulla preda e l’avvolge in un cerchio. Che contiene la carne. E lo spirito. E il luogo in cui sono. E la terra. E l’universo... Che contiene ciò che la contiene. Al volume e al tempo s’aggiunge una dimensione che include l’argilla del mio essere roso dall’impazienza. Lunga libagione d’istanti. Possa regnare e durare l’ebbrezza del silenzio. Trasferito su un nuovo astro, non so più cosa sia la morte. Delle piogge nemmeno il ricordo. Una luce secca erode il verde dei prati. L’orizzonte apre al vento un sottile spiraglio da cui vengono strani profumi. Il seme soffre nella terra materna; quanti germogli mancati ai margini dei sentieri scoscesi che salgono ai picchi montani! L’estate mi offre la sua carne regale. Il tempo che va dal corallo dei tramonti all’alba chiara che scaccia l’ombra dal letto è quello in cui si prepara il piacere del giorno seguente. Ogni mattino è nuovo, il vento si leva nello spazio roccioso che

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congiunge entrambi i versanti. Mentre cammino col respiro infuocato sento la bocca riarsa dalla mancanza di pioggia, ma bramosa di frutti dal gusto di donna. Amo Testate di un amore da amante. Tra coloro che ci osservano, alcuni non sanno distinguerci dalle sétte - quelle orde in marcia verso la gran cecità in cui vi sono pochi chiamati ma tantissimi sedicenti eletti... Questa scienza che ci fa sapere tutto senza farci conoscere nulla! Comincerò finalmente a disimparare? La morte ha bussato al villaggio. Uomo che sei scomparso una sera di una calda domenica estiva e che ormai sei cenere e terra, o persino fango, qualcosa di te conserva ancora il gusto del miele? Quale guizzo di fiamma ha illuminato i tuoi occhi nell’ultimo batter di ciglia? Quale brivido ti ha scosso la carne, stroncata nella sua breve esistenza? Inerte, morto sulle ortiche che ti hanno raccolto, il tuo cuore ha improvvisamente cessato di battere, il respiro si è arrestato di colpo come un uccello abbattuto in volo. Eri ubriaco, hanno detto... Noi che siamo ebbri di essere - e che ogni giorno di più ne bramiamo l’ebbrezza - ti perdoniamo d’esser morto a un mondo d’usura e discordia sotto i nostri occhi, senza rumore, senza lacrime, senza sangue versato; ti perdoniamo d’esser morto di un’ebbrezza insensata! Sì, tu che te ne sei andato in una calda domenica sera, ricordi il dirupo di pietra che ha assistito alla tua morte? Ciò che il tuo corpo ha lasciato vede ancora coloro che piangono e che saranno inchiodati all’umano dolore dalla tua dipartita? Ciò che di te è andato al di là ha trovato la chiave? O un’eternità fatta di niente ha cancellato per sempre i profumi, i colori, i rumori e la gioia conosciuti in passato? La tua bocca, ormai impietrita, conserva il segreto sotto la maschera... E sulla tua strada non è rimasta traccia di passi.

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Il tempo passa. Non sento ancora montare la linfa che nutrirà i prossimi mesi. Ma presto dovrò risalire alla fonte dei pensieri e del linguaggio, ritrovare un’ondata di idee che s’infranga sulla mia incoercibile accidia, riscoprire il gusto della vita nelle parole incrostate di ricordi, camminare di nuovo verso plaghe irte d’insidie. Per ora una sottile lievitazione, ancora immatura, freme appena sotto la maschera. Ma nel mio dormiveglia sento già l’appello al prossimo appuntamento cui sono chiamato. Dopo aver detto tutto, dopo aver compiuto tutte le opere individuali, l’uomo può deporre il fardello e partire. Ahimè! Ciò che l’attrae in maniera insensata lo costringe a tardare e la giusta partenza ne risulta assai differita. Anche quando chi parte è molto avanti negli anni. Talvolta m’hanno chiesto: « Perché scrive? » Secondo l’epoca in cui mi hanno rivolto la domanda ho risposto in maniera diversa. Oggi risponderei: « E lei perché mangia, perché respira? » Debbo riconoscere che per qualcuno la mia prosa è altrettanto inutile del fatto che gli altri mangino o respirino... Qual è la creatura vivente che ha più effetto sull’umanità odierna? La mosca tse-tse! Diventare « uomo abbiente »: ogni tanto bisogna anche esaltare sostanzialmente integrato all’ESSERE per movimento e durata. Definirne il processo: interrogazione, comprensione, conoscenza, celebrazione. Restare al centro dell’azione, sentirsi superati dal movimento cui s’è dato l’avvio, fondersi in esso. Così AVERE e ESSERE sono un’unica cosa. L’AVERE, un AVERE incorporato,

Sul verde silenzio dei boschi è caduta la tiepida pioggia attesa in agosto, e il suo odore è salito invadente come i sogni abituali

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che mi abitano. La terra ha emesso rumori svaniti negli abissi del cielo. Adesso, passato il rovescio, sorgono i pensieri: nodi ottenebrati, ancora inadatti all’offerta che mi attende in futuro. Sono ancora sull’altra riva, ma già si prepara il gesto del seminatore, ritmi nuovi s’innescano, il tempo sospeso si sgretola e si delinea un arco che unisce i due orizzonti. Il mio riposo si irrita come il cielo dell’equinozio. Pace sulla tettoia della mia pazienza... Le foglie si muovono lente nel verde silenzio dei boschi. Mediterraneo... Perché mi viene alle labbra questo nome, parola sacra del mio linguaggio? Mediterraneo, tu sei forza e dolcezza, energia e ozio, mare di uomini perduti nei deserti del sapere, custode di memorie ancora presenti tra le porte socchiuse del tempo. Mare di luce nelle ore meridiane, tu sei tomba e sorgente. Mare mille volte tradito barattando l’ulivo con l’aspro alloro di guerra... Seme di una gloria alimentata dalle fervide fiamme delle crociate, lo sai in che modo maturano gli amari frutti del rimorso? Mare radioso, confine di razze in contrasto protese verso un’impossibile fraternità, grande via battuta dalle galere i cui remi dolorosi hanno faticosamente tracciato i sentieri della storia, via anticamente invasa da vele saracene, mare ostinato nel riconciliare gli uomini vaganti sulle tue acque. Punto d’incontro di continenti che conservano l’ombra di antichi popoli, tu sei contemporaneamente mare di nazioni libere e di dèi ciechi, mare di massacri e di amori, mare di crudeltà, di violenza e di pietà, mare puro e santo, guida del tuo popolo verso la grazia, ingannevole perennità!... Mediterraneo, frontiera d’imperi, sentiero aperto verso l’oriente della mia ricerca, mare cui devo questo insaziabile desiderio di vivere, già si leva il vento che mi porta verso di te! Api del mio nettare quotidiano, non volate verso fonti sgorgate da altre rive!... Aspetto pollini ignoti per un miele di pensieri nuovi. E fiori di stagione per altre emozioni. Dove sono le feste delle sere passate che allietavano i bei giorni d’oro e di miele? Si dissolve il gusto indicibile del futuro che mi sfiora le labbra; sulla mia fronte a poco a poco svaniscono le cifre

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del destino. Cosa mi resta? È tempo di costruire, la schiena si raddrizzaci fuoco del mio desiderio, sostenuta da nuove forze. Sarà ben accolta l’offerta di uno sforzo, sarà consumata la sua carica ardente, matureranno in fretta le parole pronunziate dalla mia bocca, lontano richiamo all’avventura dell’essere? Api erranti nei colori del tramonto, per voi emano i miei raggi; pieno d’ardore e saldo nel mio risveglio attendo il dono del vostro miele. Caino e Abele, padri della discordia, della violenza e della morte adesso in auge come non mai su questa terra, perché mi siete venuti in mente proprio oggi? I popoli si levano solo per battersi, non si sente parlare che di pace tradita e la maschera livida della morte è presente a tutte le feste. Presto contro il dolore non vi sarà altro rimedio che l’oblio della tomba? Il crepitare dei fuochi, che divampano lasciando ceneri sempre più spesse, si apre un varco fino alla mia pace turbando la dolcezza della presenza. O mio silenzio, talora salito alle vette più alte dell’attenzione... E vinto! Un gran frastuono si leva dalla terra impazzita, un torrente di bestemmie dilagante sulle sacre parole che a tratti mi risuonano in bocca. Parlerò ancora un anno? Le voci che un tempo mi avevano affidato questa croce, ormai compagna della mia vita senza riposo né remissione, sono tornate al silenzio. Le rare parole che cadono dalla mia bocca come cenere leggera nel crepuscolo insonne dei giorni migliori non sono all’altezza della scienza che quelle voci mi avevano insegnato. Parlare... Eppure bisogna. Per sovrastare il tumulto dei Caini, per dominare il clamore degli Abeli, per onorare l’eredità ricevuta, per poterla a mia volta affidare. Dire la parola di pace nel regno della presenza perché la mano dell’uomo si arrenda, perché la sua fronte si curvi in preghiera e perché la sua forza s’adoperi a onorare la vita. Cielo velato di seta al morire del giorno; l’ocra del tramonto stupisce come un istante venuto d’altrove. Al volgere del crepuscolo il cielo diventa un tappeto da tempio sul quale s’incrociano i sentieri percorsi dalle stelle cadenti d’agosto. Cambia il gusto di ciò che in me avevano aperto le porte del

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mezzogiorno. Si dissolve la schiuma dei sogni inutili scoprendo i segni del male. E le piaghe. Il sangue dell'anima ne guarisce P obbrobrio e la mia vita imbavagliata può trasmettere il suo messaggio. Tutto palpita, il canto vicino e lontano risuona e riempie il santuario. E il chiarore delle notti, dolce, riluce sui miei giardini. Apertura verso un lavoro interiore più intenso. Scelta dei partecipanti. Esitazione.

Decisione.

È germogliata una nuova pianta che ha radici ben più estese del previsto. Come per miracolo si è presentato un aiuto inatteso, assolutamente imprevedibile, che ne ha facilitato la crescita. Ma non è sempre così quando si tratta di cose « vere »? Riconoscenza. Una condizione in cui non dovessimo sperare né aspettarci più nulla, un luogo ideale in cui tutte le mete fossero raggiunte, sarebbe vivibile? Dio ha fatto agli uomini un bello scherzo con la promessa del paradiso! Prender piede in me stesso, ormeggiare saldamente l’apparato attivo che a quel punto si sostituisce ai pensieri e ai sentimenti a buon mercato di tutti i giorni... Restare al centro della tela, attento come il ragno - al centro di me, in quel plesso solare da cui partono le terminazioni nervose che collegano senza esclusioni le varie parti dell'Essere. Dire io. Dire SONO. Dire io SONO. Imparare a pensare - la somma delle mie capacità non può superare il livello del mio pensiero. Essere gratificato, per caso, da una lunga serie di rimorsi di coscienza. E pagare. Pagare per il presente, per il passato, per poter preparare il futuro. Ma l'impazienza mi riempie la bocca. Dio, fa' che me ne ricordi!...

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Rileggo con immenso piacere Ce que le Temps épargne, di cui mi hanno appena consegnato la prima copia. Quanto tempo trascorso, quante impressioni intatte che conservano il gusto dell'istante in cui mi avevano colpito! Un tempo che non perde la memoria, che attraversa la vita senza forare il tessuto dei ricordi non è forse estremamente prezioso? Ma poi scopro di avere l'età che aveva mio nonno quando lui e io, durante gli ultimi anni della sua vita, percorrevamo fianco a fianco i filari della vigna con la pompa di verderame in spalla... Come eravamo vicini a quel tempo anche senza parlare! Quasi sessantanni sono passati da allora. In gran parte ho già attraversato il fosso della vita da una sponda all'altra del tempo, e nel giorno predestinato la mia ruota s'impantanerà per sempre nelle nere sabbie della morte. Ogni tanto mi capita di scordarlo. Prima che la coscienza mi venga strappata di mano avrò ancora il privilegio di sentir echeggiare, nella sera di una lunga giornata di sforzi, il passo lento del Tempo della mia infanzia, e di camminare alla sua cadenza - l'unica appropriata là dove alcuni di noi stanno andando? Che ne so delle strade che partono dal punto della mia morte? Sento il cuore battere prigioniero e rimestare le linfe del corpo. Lo sguardo perduto sulla distesa del tempo non coglie alcun punto d'arrivo, e il pensiero ha per alimento solo il vuoto delle stanze proibite. Là dove non esiste più carne non ci sono ricordi né immagini. Anche l'ebbrezza dei giorni più belli dovrà essere dimenticata. I luoghi ignoti, che sono l'altra faccia del mondo, non escono dall’ombra. E Dio continua a tacere. Eppure mi sono levato, la fronte all'altezza del cielo e l'essere per un breve istante all'altezza dell’uomo, senza vedere la strada che non ha inizio né fine, nata da ceneri e fiamme. Ho appuntamento nel paese senza nome e tutte le strade mi conducono là, dove giungerò aggrappato alla mia passione d’essere: forse l’unico bagaglio concesso a chi percorre il sentiero dei morti. Però mi trattengono i luoghi che lascio: la terra è dolce sotto i miei passi e qui, per un po', posso ancora sognare. Morte, asilo obbligato di uomini, piante e animali, presente a ogni istante e sempre dimenticata, perché mi sei così vicina in questo chiaro giorno d'estate?

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Fame troppo presto placata, nutrita dall’ermellino dei pensieri innocenti troppo presto abbandonati al turbine che li annienta: un prurito dell’intelletto irritato al quale m’identifico. Zittire l’uomo che ciarla! Ci riesce un battito d’ali, non fosse che di farfalla (la natura è sovrana). Dal verde limone dell’anima - ancora sull’altro versante all’alcool del desiderio, percorro l’aspro sentiero e vado incontro all’uomo fuorviato che ospito dentro di me, smarrito su itinerari impossibili. M’incenerisca un fulmine distruggendo la difesa che sono per me stesso! Affinché finalmente io non sia più costretto a essere sempre confuso con lui. Equilibrio. Alleanza di energie diverse che affluiscono ai confini della coscienza. Col respiro infuocato mi muovo nel presente, fonte del mio potere e della mia impotenza. Come posso resistere così a lungo separato dal mondo cui talvolta mi accosto, restare nell’anticamera del risveglio senza riuscire a varcarne realmente la soglia e vivere contento, inchiodato al ricordo di un futuro mille volte vissuto? Potrò presto mostrare il segno che ha bussato alle porte della mia infanzia e che ho ritrovato dopo la lunga notte iniziata con l’adolescenza? L’impazienza è passata dalle mie labbra al fuoco che, pur acceso in tempi remoti, non si è mai smorzato. Per me è ancora tempo di semina o è tempo di raccolto? Il cielo si espande al tramonto nelle sere coronate di sforzi, e vi leggo scritto il mio NOME che cancella le vane parole del linguaggio quotidiano. E spio impaziente - ma è un’altra impazienza - il segno - ma è un altro segno - iscritto in tutte le cose, il quale fa sì che ogni cosa improvvisamente sia, e poi di colpo non sia più. Cosa c’è dunque nel mondo della presenza che prima non c’era e che fra poco non ci sarà più? Queste note recenti rispecchiano il mio piacere di scrivere. Ho ceduto alla tendenza gonfia di musica che stagna in me, mai troppo lontana, e il mio sforzo interiore le ha dato una mano... E mi chiedo se d’ora in poi sarà questo il mio nuovo linguaggio.

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Avrò sacrificato l’essenziale al piacere delle immagini cui mi sono più o meno abbandonato? Non credo. Al contrario, ho volutamente deciso di esprimere, in maniera un poco diversa, una certa forma di « conoscenza ». Le sonorità insolite e le costruzioni inconsuete risvegliano risonanze e intrecciano complicità fra sensazioni troppo spesso separate tra loro. Esprimersi nel solito modo conduce a sentieri mille volte percorsi. Secondo questo nuovo progetto le parole consuete servono solo ogni tanto come punti di riferimento necessari a chi teme di perdersi. Così L’impressione comunicata può dare origine a nuovi collegamenti imposti dalla metafora, suscitando contemporaneamente il piacere di sonorità inabituali e l’apertura verso aspetti inespressi della ricerca. La difficoltà consiste nel mantenere contemporaneamente la presenza di entrambe le cose, nel far sì che il contenuto e la forma non assumano a turno il ruolo di prima donna, né che la forma se ne arroghi arbitrariamente il diritto una volta per sempre. Potrebbe anche essere il mezzo più sicuro per esprimere l’infinita varietà delle sensazioni suscitate da una ricerca ostinata. (Non dico queste cose solo perché voglio giustificarmi). Essere consapevole di ciò che faccio e del fatto che « io sto

facendo ».

Non scambiare per « io » Forma lasciata dall’esperienza vissuta né il ricordo che ne rimane, io non può essere che la mia coscienza. E la mia coscienza è come un volo d’uccello - un volo d’uccello non lascia traccia nel cielo!... Non essere più soltanto l’idea che ho di me stesso: un corpo, una mente. A ogni istante il tempo si riempie di « ciò che succede ». E in « ciò che succede » c’è anche la certezza del fatto di essere colui che fa. Si ripropone la domanda: e allora chi sono? Sono forse lo stendardo alzato ogni mattina e ogni sera sull’asta della vita, bianco al momento della nascita e poi, con l’andare del tempo, ricoperto di tratti significativi, di simboli, di colori, di oro, e che forse s’innalzerà virgineo, candeggiato dalle liscive dello sforzo, nella sera dell’ultimo giorno? Sono soltanto il bianco dello stendardo ottenuto con dolorose abluzioni, la goccia di rugiada che si gloria dell’effimero splendore donatole dal sole o, ben più semplicemente, ciò che « io SONO » si sente essere?

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Ogni mattina rinnovato come la sete, avido del profumo d’essere, rinchiuso nelle mie costrizioni, dilaniato da forze contrastanti, come costruire, a dispetto di tutto, il mio nido di silenzio? Un silenzio che non lascia traccia. Come un volo d’uccello sulla pagina tersa del cielo.

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II Fogli sparsi del segno e del verbo

In quest’ultimo paio d’anni, per un pelo M. e io non abbiamo lasciato entrambi il sentiero dei vivi. Sfiorando il limite al di là del quale non c’è più ritorno, abbiamo ambedue soggiornato nei luoghi dove soste infeconde mantengono il transumante fuori dall’altro mondo, là dove la coscienza, malgrado lo sforzo di arrivarci, resta assente. Ora, tornati dall’esilio e ricaduti un’altra volta in balia della persona, ci tocca portarne il peso di nuovo. Per quanto mi riguarda, avverto lo spessore delle nubi che incombono sulla mia vita. Ora che sono tornato dalle frontiere ritrovo le mie certezze definitive. E dato che posseggo gli atti che insegnano, devo impegnarmi a estinguere i sogni in cui troppo spesso mi crogiolo. Come trasmettere l’ignoto che è in me, come gettare sulle fertili terre della coscienza il seme delle impressioni che le feconderanno? Oggi la vita non è più soltanto l’ornamento di ciò che io sono nell’esistenza ordinaria, oggi la vita nell’insieme diventa opera mentre nuovi strumenti, comparsi dal nulla, si mettono al servizio del Pensiero permettendogli di utilizzare la sostanza che ne è l’energia specifica, preparata clandestinamente sin dall’adolescenza. Chi oggi dentro di me saprà riconoscere l’istante in cui, raggiunta finalmente l’età adulta dell’uomo, sarò in grado d’integrarla al mio essere? L’istante nasce, passa in un lampo e scompare, ma la sequenza ininterrotta degli istanti successivi dà la sensazione di una realtà atemporale e di un silenzio moltiplicato in cui l’atto volontario s’affila. Eccomi arrivato davanti alla porta socchiusa. A poco a poco il mio dominio si estende. Intorno alla coscienza si costituisce una zona in cui la conoscenza si sviluppa e regna.

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Anche la sensazione del corpo si estende, ma non sul piano fisico come si potrebbe immaginare. Infatti questa sensazione sviluppa nuove qualità, simili a quelle di un metallo magnetizzato o radioattivo. Queste diverse qualità si precisano e diventano sempre più evidenti al punto da costituire ormai nel loro insieme un « nuovo corpo » che io definisco « corpo psichico » e che, tengo a precisare, non va confuso con quelli che Gurdjieff chiamava « corpi superiori »: secondo, terzo e quarto corpo. Il « corpo psichico », secondo la mia terminologia, s’appropria pian piano degli attributi della coscienza e in un certo senso diventa coscienza. Perciò in esso viene a crearsi quella che potrebbe chiamarsi una « nuova coscienza », una coscienza più elevata che, rispetto a quella attuale, sta nello stesso rapporto del mio pensiero col pensiero associativo. Anche il « presente » è cambiato, come se l’acquisizione del corpo psichico l’avesse fertilizzato. La « presenza » contiene in gestazione le parole del Ricordo di sé, le sue energie sostanziali, e si muove nel nuovo spazio preparato per lei dagli atti coscienti che ormai sono divenuti possibili. Oggi cammino libero e vittorioso, ignorando le rivolte del peccatore smascherato, e al mattino del risveglio ritrovo i sortilegi tardivi del mio paese natale. L’attenzione si leva, pronta all’opera interiore, e cacciando il quotidiano s’attacca all’essenziale, a tutto ciò che significa. E improvvisamente si svaluta ciò che prima era il mio tesoro. Saprò mai riconoscere i luoghi nei quali i miei valori sono caduti in declino?

Ah, uscire dalla notte, incontrare Uomini, proiettare su di loro la primavera della mia ricerca, far sì che possiamo precipitare insieme nel crogiolo della conoscenza che ci viene messo davanti, condividere le energie sottili della nuova coscienza, entrare nel cerchio di silenzio che abbiamo sottratto insieme agli automatismi ostinati... Essere condotto per mano quando l’intelletto finalmente si rifiuta d’ingaggiare la lotta fratricida del quotidiano. Sentire che improvvisamente « qualcosa » prolunga il pensiero e sopravvive a ciò che s’è perso nella scia delle parole. « Qualcosa » che si chiama coscienza.

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La mia bocca, impaziente di parole nuove, si rifiuta di descrivere le ombre sempre crescenti disseminate dalle parole sul sentiero che quelle ombre prendono in prestito quando Torà del grande naufragio, Torà in cui tutto sprofonderà nel grande silenzio della morte, si profila già in lontananza. Mi reco ogni giorno alla fonte di me stesso, e ci andrò fino all’ultimo viaggio di andata e ritorno. Ma l’ultima andata non avrà più ritorno: mi toccherà rimanere sul continente ignoto da cui non si torna. E duro il viaggio quotidiano alle frontiere di quaggiù, al di là delle quali nascono le anime in attesa dell’ assente. Non confondere l’« istantaneo » e il « Presente ». Il presente

contiene, l’istantaneo esiste nell’istante; il presente include

l’istantaneo ogni volta che uno stato di coscienza risvegliato si sostituisce al sonno ipnotico quotidiano; invece l’istantaneo si esprime senza ritegno in ogni istante vissuto nel sonno. Ogni volta che il presente riluce, l’istantaneo gli è interamente sottomesso. Quando è collegato alla presenza, l’uomo è finalmente capace

di fare.

Imparare a fermare la fuga continua del tempo, a rifiutare le effervescenze dell’emozione e a reprimere le voglie del corpo: ecco gli atti essenziali con cui l’uomo entra in conflitto con se stesso. Ma se riesce ad aggiungervi il silenzio interiore delle funzioni, l’uomo avverte una forza in profondità che gli assicura il potere assoluto sull’ego. Così si dispiegano gli atti in cui s’afferma la celebrazione del Presente, accompagnata dal ritorno alle fonti dell’infanzia con tutte le meraviglie di allora: un sentiero verso i luoghi in cui i contrari si dissolvono. Imparare a vivere Presente. Imparare a VEDERE e non solo a guardare. L’attenzione necessaria a vedere esige una qualità di presenza che, mantenuta in continuità, le conferisce un acume diverso, e nello stesso tempo conferisce all’impressione ricevuta un potere di penetrazione

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maggiore. Vedere significa rendere omaggio alla luce. Senza luce Porgano visivo non è in grado di percepire nulla. Ma nello stesso tempo è impossibile non accorgersi che il fatto di « vedere » sviluppa continuamente il potere d’identificazione. Lo sforzo per VEDERE provoca - come ogni sforzo - una crescita della qualità d’essere. In tal caso ciò che si vede rivela un’infinità di sorgenti dalle quali scaturiscono impressioni mai viste né immaginate, VEDERE è una delle componenti essenziali del Presente, che ne risulta contemporaneamente dilatato in altre dimensioni. Sorpresa! Quando tutto s’illumina cacciando le tenebre del pensiero ordinario, io VEDO in questo mondo solo cose morte, VEDERE, VEDERE le sfumature di bianco della neve che ricopre il villaggio, ciascuna foriera di gioia; vedere il giorno che si estende in un’orgia di fulgide ocre, VEDERE, VEDERE, è così bello vedere! Chi dice io? È importante distinguere l’io della condizione identificata dall’io che sorge al momento del Ricordo di sé. io non è soltanto corpo e intelletto, io è anche attenzione, è la coscienza che ho di essere. Da dove viene questa attenzione, questa coscienza capace di conoscere se stessa? Dov’è la sorgente? E il vero io può fermare e usare ciò che esce dalla sorgente? Tutte domande ancora senza risposta. Chi dimentica sempre che io SONO e si tuffa nuovamente nell’identificazione in cui non mi resta nemmeno il ricordo di essere stato? Finalmente potrò sentirmi risvegliato a quello stato d’essere in cui il principio io SONO suscita esclusivamente la propria sensazione di essere. « Io sono » non è né questo né quello, ma soltanto ME, ME STESSO, l’io Tutto, l’Assoluto. Rifiutare di sentirmi essere, ossia scartare ciò che in me si percepisce, e al contempo collegarmi col principio della mia realtà, assistere alla mia esistenza. Scoprire che la coscienza non è generalmente legata al corpo, che ne è distinta e che ogni impressione costituisce per lei un alimento, io SONO è il luogo in cui dentro di me la coscienza si nutre. E dunque il corpo è solo un organismo che serve a alimentare la coscienza, mentre la coscienza è l’intermediaria tra il piano materiale - la terra - e i piani superiori - divini.

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È strano constatare che la sensazione d’essere, nata dentro di noi, sorge, si manifesta e scompare dissolvendosi nella propria origine, mentre nello stato di sonno abituale provo talora una sensazione particolare che mi dà l’impressione di riuscire a distinguere la natura della mia identificazione a tutto ciò che si manifesta. In tal caso basta che m’interroghi profondamente per rendermi conto d’ignorare tutto dell’io che appare in me. E forse l’io abituato a fare tutto automaticamente, è l’io dell’io SONO della coscienza, è l’io dell’essere fisico destinato a sparire? Come diventare cosciente di tutto ciò che esiste: dell’aria, dello spazio, della terra, della luce e di tutto ciò che unisce i mondi visibili e invisibili? Come spegnere il desiderio di prolungare al massimo il privilegio d’esistere e, dopo averne eliminato il potere, non aver più paura della morte? Affinché la sensazione di esistere - e anche di essere - diventi la regola d’oro, dovrò dimenticare le idee e i concetti per stabilirmi definitivamente nell’essere. Si, dovrò dimenticare il corpo e lasciare che le forze sottili, di cui il corpo è il supporto e si nutre, scelgano la loro strada. Il chicco è stato seminato, chissà se germoglierà. Ma qualsiasi sia la sorte riservata al contenuto di questo corpo che porta il mio nome, il germe d’essere che io contengo non può tradire la sua promessa. L’istante non può essere eterno, ma ogni istante contiene una frazione d’eternità. Con ciò voglio dire che in ogni istante la coscienza risvegliata dovrebbe poter percepire un certo gusto d’eternità. Oppure gli istanti che vivo - effimeri - devono comparire uno dopo l’altro davanti alla coscienza - eterna - per acquisire un certo gusto d’eternità? L’istante cosciente è quello in cui tutto viene messo da parte: la persona - l’ego -, le manifestazioni mentali, i moti del sentimento. Allora regna la nuova coscienza. Quando potrò smettere finalmente d’alimentare l’ego insaziabile, ossia smettere di ricadere nel mondo degli automatismi che lo nutre e che ne è la dimora? Per questo devono dissolversi nel nulla - o nell’Assoluto - le idee, i concetti, tutte le cose imposte dall’educazione, dai parenti e dalle impressioni ricevute meccanicamente, e devo diventare conscio del fatto che,

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attraverso la vita ordinaria, continuo ad alimentare il movente dell’identificazione. Il ricordo di sé e il sonno profondo sono i due stati mediante i quali sarà possibile provocare il risveglio e vivere collegato alla coscienza. Tramite un sentiero che ignoro devo ancora riuscire a penetrare nel sonno profondo. Il Risveglio... Cos’è dunque il Risveglio? Dato che in noi tutto è già pienamente sviluppato - come ha detto Gurdjieff prima e dopo molti altri – l’uomo non ha niente da FARE se non aprire e mantenere aperta la via in cui passano le energie che, unite a quelle contenute nell’uomo, andranno a nutrire i livelli superiori in cui si manifesta la vita del suo Essere. Questo è un vero LAVORO su di sé. Quindi per l’Uomo il solo atto possibile è quello di contribuire a ritrovare il legame che lo unisce a se stesso, a ciò ch’egli è veramente. Perché questo legame s’è rotto? E qual era il contenuto dell’Uomo prima della rottura? Domande che, per la stragrande maggioranza degli uomini, restano senza risposta. Ma sono anche le domande essenziali che molti si pongono. E come non porsele! Cerco l’origine della vita dentro di me. Alla nascita « qualcosa » era già legato all’io SONO. Oggi che sono quasi arrivato al termine della vita terrestre, riuscirò a sentire ciò che ha provocato e accompagnato la mia crescita? Come mai sono passato dall’infanzia all’età adulta senza pormi seriamente questa domanda? Questa origine molti la chiamano AMORE. E l’amore che in me collega le forze vitali da cui sono animato. Sì, è certamente l’amore a sgorgare da quella fonte che io chiamo VITA. Come essere UNO con lei senza identificarmi al suo contenuto? E possibile sostituire l’attrazione psicosomatica che ho provato tante volte per una donna - e che tutti chiamano Amore - con il legame che M. e io abbiamo in comune e che ci guida verso la stessa ricerca della vita? Avrei dovuto respingere ogni tentazione del corpo prima che se ne incaricasse l’età? Era questo il prezzo da pagare per accedere a un livello in cui Tessere potesse sbarazzarsi definitivamente dell’identificazione? Probabilmente sì. Oggi, aperto agli istanti di luce che mi sono concessi, devo

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lasciar cadere l’attaccamento alle cose, appannaggio dell’uomo identificato che ancora sono troppo spesso, amare soltanto ciò che viene dalla coscienza e, respingendo l’ignoranza, ultimo ostacolo all’unione dell’uomo col Tutto, sforzarmi di emergere dall’essere al non-essere. Convincermi che la coscienza non mi sarà accessibile e non potrà essere mantenuta per un tempo sostanziale se non nella misura in cui saprò riconoscere il suo legame con le forze vitali del corpo, di cui la coscienza è strettamente tributaria. E ricordarmi che io SONO.

L’essenziale non è conoscere, ma essere. Allora perché fare un lavoro che si limita a sviluppare la conoscenza? Lo sforzo per essere è una penetrazione costante nell’io SONO. Non fare - nel senso ordinario della parola -, sentirsi essere e affermare il proprio ESSERE: ecco Tunica Via che conduce alla Meta.

Sono distinto da ciò che osservo: ad esempio, ogni volta che mi sento respirare sono distinto dalla respirazione, ma posso contemporaneamente avvertirne la forza vitale. Praticare questa sensazione richiamandola continuamente sviluppa la forza vitale, di cui la coscienza libera il combustibile rendendolo utilizzabile. L’attenzione liberata da questa dissociazione contribuisce a mantenere attivi gli strumenti psichici utilizzati dal Lavoro, e questa attività genera forze che presto diventano trasformatrici, capaci di riportare alla coscienza l’insieme dei livelli che per il momento mi costituiscono.

Talvolta ho l’impressione di aver ricevuto alcune chiavi, ma non so quali porte aprano. Inoltre mi chiedo: da quale mondo sono venuto? Chi sono? La ricerca perde ogni senso se continuo a ignorarne questi due poli essenziali. Eppure non posso dimenticare che non mi conosco, che esisto senza ricordare che « io sono ». E mai possibile tollerare una situazione del genere? Per uscirne ho bisogno di sviluppare contemporaneamente il

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sapere e l’essere, onde raggiungere la comprensione che è il vero sapere dell'essere. La ricerca è dunque in definitiva una scienza dell'essere che tenderebbe a considerarmi - nel mio piccolo - quale

fonte di conoscenza e arbitro dei valori che mi vengono proposti. Questo vuol forse dire che nelle circostanze ordinarie la finestra si aprirà solo sull’altro, mentre il mio proposito era quello di vederla aperta su me stesso? Gli occhi aperti contemplano gli occhi chiusi dell’assenza. E il verbo illumina un viso in fiamme.

Essere il momento di una menzogna smascherata da un’evidenza schiacciante; il pensiero fustiga il caos in cui imputridisco, un caos che ha il gusto del sapere dimenticato... Tuttavia il giardino della vita, spazzato dal vento, mi offre riparo: veleno assopito emerso da vecchie messi perdute, come vincere l’aroma venuto su dalle notti in cui la rosa è sovrana? Inchiodato alle chimere io cerco. Ma cosa cerco? Perduto nelle mie incertezze, so esclusivamente che non so cosa cerco. Eppure ogni giorno io trovo, perché ogni giorno sono mantenuto in una certa continuità delle funzioni ordinarie o superiori. E allora come uscirne? Il labirinto è murato!

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III Conservare il ricordo

Sembra delinearsi un progresso nella linea di lavoro che tento di elaborare a beneficio dei Gruppi di cui ho la responsabilità. Per i partecipanti che hanno più anzianità il tempo dell’osservazione passiva è finito, com’è finita l’attesa di risultati costruiti sull’associativo o sull’immaginazione. I più vecchi adesso sperano altro. In questi ultimi tre anni, dopo la morte di A., mi sono sforzato d’infondere coraggio e ho abbozzato un quadro esauriente del Lavoro per stimolare la nostra parte che cerca e che ha fame. Talvolta ho l’impressione d’esserci riuscito fin troppo: nei migliori l’attesa è diventata impaziente mentre altri, in compenso, abbandonano. Eccomi dunque con le spalle al muro, costretto a cavare dal mio sforzo di che nutrire i più affamati. E il progresso che si delinea va nella direzione di un impegno più preciso verso un lavoro interiore pratico, concreto, meno dipendente dagli strumenti psichici più sviluppati. Ciò suppone un ricorso costante al contenuto interiore del materiale fornito da G., spesso non colto o ancora inaccessibile. E proprio questo il passo avanti che dobbiamo compiere insieme: vincere la paura che ci coglie davanti al mondo di forze inutilizzate apparso di colpo, superare la nostra indegnità davanti alla sua grandezza e accettare la sfida lanciata dal nuovo mondo senza commettere il peccato d’orgoglio che rischia di risultarne. Un passo già carico di conseguenze. Quanti giorni sopravvivrà ancora la nostra fedele compagna di Lavoro che, paralizzata e immersa in un coma profondo da più di dieci settimane senz’alcuna speranza di riprendere coscienza, è mantenuta « in vita » da mezzi artificiali? In quale dilemma si è cacciata la scienza medica, lacerata tra

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una logica elementare che esige il rispetto di certe evidenze e un’etica cui si sente inesorabilmente legata! Ho la profonda certezza che in questo modo Tessere umano venga messo in una situazione intollerabile, diviso fra due mondi e costretto a restare in un universo di sofferenze ormai inabitabile, senza avere la possibilità di approdare sull’altra riva dove forse qualcosa di lui è chiamato a sopravvivere. Se quest’ipotesi venisse presa in considerazione, in virtù della medesima etica sarebbe inammissibile favorire una situazione del genere. Ma ovviamente la scienza medica non può accontentarsi di un’ipotesi che ai propri occhi è comunque inverificabile. Perciò il dilemma rimane. Detto questo, autorizzo solennemente i depositari della scienza medica che si trovassero un giorno a dover decidere la stessa cosa nei miei confronti a staccare le « macchine per sopravvivere » dopo essersi naturalmente assicurati che nessun ritorno è possibile - e a lasciarmi proseguire liberamente per la mia strada. Se questo dovesse avvenire, dispenso da qualunque rimorso coloro che, familiari o amici, dovessero sentirne anche solo il più pallido indizio. Cercatori di verità! Quante alleanze abbiamo tentato, quante domande abbiamo fatto, per quanti anni siamo andati soltanto alla ricerca dei nostri sogni? I materiali del nostro lavoro erano simili a offerte di cibo deposte nelle camere funerarie... cerimonie gratuite allietate da sacrifici umani, sforzi infestati di ciarpame mentale, errori grossolani e semi di una crescita morta sul nascere... Ma vengono improvvisamente alla luce le forze del Gran Tempio e noi sentiamo nascere l’autorità conferitaci dal privilegio d’essere nati. Chi eravamo, chi non eravamo? Di colpo la spessa polvere del sapere viene spazzata via e un’energia nuda penetra nell’intimità dell’essere cancellando le menzogne, i dubbi e l’impazienza. Allora ci raddrizziamo. D’improvviso tutto viene dall’alto e i valori, invertendosi, investono i nostri desideri e le nostre intelligenze. Un altro mondo si presenta... Pasceremo finalmente il fumo per l’arrosto? La prova che il miele è dolce sta nella bocca e non nel miele!

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I viali del giardino conservano il ricordo dell’estate. La mia ricerca di cieli tersi e di mari limpidi non si è interrotta. Mediterraneo, che tante volte ho sorvolato in questi ultimi dodici mesi senz’averne mai sentito la carezza nemmeno una volta! Gusto di mare, gusto di carne, stagione di vendemmia, sapore di vino nuovo su labbra amate, dolcezza di fine settembre dai sentori di frutti maturi, calore della sabbia, ricordi del deserto ocra di Giseh: non ho ancora lasciato l’ardente stagione cominciata alle soglie dell’Amazzonia più di otto mesi fa. La stretta dell’estate minaccia il Dio Forte della mia preghiera. Dio Santo, Dio Immortale, sarete presenti sulle rive dell’autunno, benché per ora siate tenuti lontani dalla stagione-regina che si attarda? Poca gente conduce una vera ricerca; molti di coloro che sembrano farla chiamano così un’acuta curiosità verso le innumerevoli domande senza risposta che ci pone la vita. A lungo andare la curiosità non può sostituire l’impulso. Per mantenere lo sforzo del lavoro su di sé a un giusto livello occorre una determinazione ben altrimenti attiva. E approdare un giorno al di là di se stessi, là dove termina la coltre di tenebre che ce ne separa, dove agiscono le forze al lavoro promesse da sempre, là dove c’è la nostra dimora, luogo di vette frementi sinora sfiorate soltanto dai nostri sogni. Alba, quest’oggi, di una ricerca maturata da tanti autunni fecondi... Di una ricerca che non vuol più mentire! Finalmente libera, Catherine è partita l’ultima sera di settembre. L’ingiusta catena che la legava al nostro mondo s’è rotta. Niente la trattiene più sulla nuova strada che la morte le ha aperto. In noi, immobili per un’ora al suo capezzale, ciò che per qualche tempo resta ancora di lei paralizza le stesse forze di cui si nutriva la sua vita terrestre, e libera per un momento quelle di cui, forse altrove, lei ora vive. Io le percepisco, distinte da quelle che mi animano negli sforzi migliori, come il messaggio venuto dal mondo verso cui Catherine si dirige, un mondo che soltanto le incandescenze, accese per un brevissimo istante nella mia vita interiore sconvolta, possono captare.

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Ma su questo, per chiunque altro ad eccezione di me, le mie labbra di essere vivente resteranno ben sigillate. Ascolto alcune forze, risvegliate dallo sforzo, vivere nel silenzio, e cerco di seguire il sottile tracciato di un pensiero diverso: segni d’un sonno momentaneamente sospeso. Vibrante come carne sfiorata dalla carezza di un bacio, un punto nasce alla base della fronte tra gli occhi e s’accende: trasparenza dell’argilla umana, arcobaleno fra due mondi, luogo d’asilo e dolcezza. Piovono musiche venute da fonti celesti, aleggia un sospiro che scende dal punto della fronte al cavo vivente del ventre. E giunta l’ora di sfuggire per sempre ai grandi movimenti dell’essere verso l’azione che ne consacra l’indegno connubio. La « presenza » è tornata allo spirar della sera, quando ho smesso di sognare spazi dai colori del cielo. E sono entrato dalla frontiera aperta, libero dalle mie solite servitù. Con lunghi spasimi, respingendo la schiuma dei pensieri meccanici, l’essere si è pian piano levato popolando la presenza del suo alfabeto di conoscenze. Certi riti ben noti, unendo alle dolcezze del crepuscolo dai riflessi ramati il profumo dolciastro degli oboli quotidianamente richiesti dal mondo abituale, hanno cercato invano di riprendere potere. Ma ben presto li ho visti rimpicciolire e sparire all’orizzonte. E senz’altri indugi è cominciata l’Opera. Spiare nel futuro ciò di cui sarà fatto il presente. E agire di conseguenza. La morte di Catherine mi ha risvegliato le impressioni dolorose che ho vissuto insieme a lei quando A. ci ha lasciati. Com’era vicina Catherine a ciò che A. stava attraversando! Si sentiva già sulla stessa strada? Presentiva che un tratto relativamente breve le separava? Oggi avverto il fremito che ci abitava entrambi quando, coi nostri compagni più stretti, cercavamo di afferrare un presente

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che aveva i colori del crepuscolo. I nostri cuori erano presi dalla stessa angoscia e noi percepivamo insieme, senza parlare, i passi sovrani della morte che si avvicinava pian piano. Ci bastava uno sguardo per comunicarci le paure del domani e per sapere che la stessa determinazione ci avrebbe permesso di superarle. Poi, quando tutto è finito, quando ci è toccato radunare le briciole di conoscenza che avevamo ricevuto e raccogliere la fiaccola per riprendere la marcia, Catherine è stata la prima e la più decisa in quest’opera indispensabile. Fino al suo ultimo giorno di lucidità. D’ora in poi Catherine, entrata nell’al di là attraverso una nascita nuova, non sarà per me che silenzio. E assenza dolorosa, infinitamente. La sua affettuosa presenza al mio fianco non è mai venuta meno... Quante volte il richiamo spietato di ciò che lei s’attendeva da me - e che grazie a lei ho compiuto - mi ha scosso e rimesso in carreggiata! Che il suo regno splenda in una grande apoteosi di luce! La sua tomba non occulterà il riflesso luminoso che già il suo volto emanava sul letto di morte. Come una presenza immutabile presso il freddo marmo tombale. « A ben pochi uomini è dato... d’invecchiare senza diventare mai vecchi... » « Essere presenti nel cuore di una generazione da cui più di mezzo secolo ci separa: chi non sogna una grazia del genere? » Come vorrei che queste poche righe, scritte da un grande giornalista per la morte di Raymond Aron, valessero anche per me! Fatte le debite proporzioni, ovviamente. Esplorare la notte. La notte in cui brillano forze che mi superano. In che lingua raccontarne l’essenza? Una lingua che talvolta m’è dato di usare, ma espressa ancor meglio dal mutismo in cui sprofondo al momento di utilizzarla. Migliore dell’alito profumato della menzogna che si respira nelle strade in cui s’affrettano gli uomini... In me anche la presenza respira, s’eleva, s’abbassa, lenta origine da cui traggo la forza d’essere, ingigantita dall’estate straordinaria che ho vissuto quest’anno. Ma già l’autunno, stagione triste, comincia a prodigare albe più dolci, come dalle labbra socchiuse esce più

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dolce il respiro nelle pigre ore della sera. L'autunno è solitudine, ed è anche dolcezza nel tiepido letto delle mattine oziose, quando le nostre fronti s'animano in mezzo agli occhi e si riempiono d'amore! L'amore, fiume dalla scia luminosa sul quale gli Dèi, invocati nel momento della felicità, naufragano ormai più rapidamente... Autunno senza fretta da cui attingere il tempo di vincere le potenze del sonno: sorgono due forze che bisogna condurre al più presto alle nozze dell'istante! Perduto ogni ricordo e rinnegato ogni attaccamento, attraversare le stagioni morte, marciare fra gli ostacoli verso la pienezza delle forze, assaporare la primizia del loro dilagare improvviso... Il presente germoglia come un increato apparso di colpo e, splendendo sulla notte delle parole, conduce alla scintilla in cui, a ogni pulsazione cardiaca, l'istante muore. Allora mi viene un grande coraggio. La via conduce all’assoluto senza prove, là dove si prepara una vittoria giammai contestata. Divenire, divenire! Sotto l’oscura nube del tempo quotidiano spio i fertili domani nei quali il diamante della vita farà scintillare altre facce. Ascoltare il grido delle forze che invadono il sangue, ignorare il diluvio di pensieri pellegrini che mi si riversano addosso, la scala infinita del sogno, il desiderio di desideri più fermi... Oggi ho stretto alleanza con l'insperato aprendomi con mano nuova la strada... Benché il mio essere sia più vasto di tutta la terra, io ne occupo solo un’infima parte. Risalire alle fonti da cui sgorgano i caldi flutti della vita... Procedere lungo la stretta riva che mi porta alle altezze del Sacro. Spiare, camminare a piedi nudi sul sentiero, non conoscere riposo senza avere ottenuto risposta... O dolore della spiga, martirio del grano, sofferenza del pane che subisce l'ardore delle pietre sbiancate... Sarò sulla soglia del regno - grande più della terra - cui mi conducono le molteplici strade che sboccano sulla Via?

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La mia vita è un frutto Cresciuto su un albero, posto sull'orlo di un abisso, Che ha già fatto il suo tempo. I pensieri ne sono la polpa, nutrita dalla pioggia delle parole, E l’attenzione il sapore quando, nelle ore dello sforzo più [duro, si desta l'istante. Frutto marchiato dal sigillo regale, dove ogni giorno s'affila [lo scettro del mio potere. Nell'orto che sta accanto al Tempio il tronco mi tende i suoi [rami... E il frutto, pian piano, matura. A ponente i rossi e i violetti del cielo si espandono nello spazio crepuscolare infuocato. Sarà così l'ultima sera della morte? Prima che l’ombra inghiotta l'uomo di carne la coscienza diverrà incandescente? Splenderanno i colori dell’ocra, i verdi, i riflessi di smeraldo e ossidiana, prima che, curvo sotto il peso delle mie colpe, ciò che resta dell'uomo che sono discenda gli ultimi gradini mortali? Quante albe mi hanno donato solamente oscurità!... Quanto miele sprecato a sognare in questa dimora senza nome che dovrò presto lasciare! Scende la notte, e non sa nulla della morte che io già non sappia. Avrò allargato abbastanza il campo della mia vita? Avrò tenuto fermo il dialogo con Dio? Nelle lodi altisonanti che innalzo alla vita s’insinua invariabilmente l'amore. Ne sarò perdonato? È senz’altro venuto il momento di precisare i miei atti. A ponente si spengono i rossi e i violetti, s'estinguono l’ocra e l'opale. L'ombra avanza, ma nei luoghi che presto sarò costretto a lasciare devo ancora aprirmi la strada. E marciarvi con passo sovrano. Dove trovare il segreto delle origini? Esiste da qualche parte una fonte inesauribile d’energia in grado di farsi materia? E, per comodità, se ne sono riassunte le diverse implicazioni in una parola - DIO - che dice tutto e non dice niente? Sarò l’albero che produrrà nuovi frutti? Nasce un mondo sotto i miei passi, un mondo nel quale s'iscrivono atti mai compiuti finora.

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L’acqua del cielo si unisce al mio pane, e ne traggo la forza di spingere sulla via la mia bestia tremante. La maturazione ricomincia di nuovo, ricca di ombre e silenzi; sento crescere le forze di una nuova età del mio essere. Erigere contro il tempo il bastione della mia pigrizia incoercibile!... Ma troppe insidie si levano ancora, e si perdono nelle frange del desiderio o scoppiano in brandelli di parole. Poi di colpo ogni cosa mi è nuova... E domani, ancora una volta, mi toccherà effettuare questo infame passaggio di sonno, lasciare le terre di quaggiù per quel deserto dell’anima, quel sentiero improvvisamente interrotto che si sa d’aver perso solo quando lo si è ritrovato. Abisso dilatato di quella cosa che in me non ha nome, iato peggiore dell’assenza: una morte che non è una morte, una vita orbata della sua fine. Iato imposto al corso degli eventi, spazio abolito tra me e il nulla; in confronto morire non è ancora « es- sere »? Domani, per un istante, dovrò abbandonare il tripudio di vivere, e nemmeno la dolcezza del sonno mi verrà forse concessa. Costretto all’offerta di un po’ del mio tempo - un tempo che non sarà vissuto né occupato dai sogni - e fino alla morte, mi troverò all’opposto del mondo, schiacciato sotto il peso del nulla, incosciente dell’ora nuova portatrice di attese... Ma in seguito, forse, non avrò mai più l’oscuro tormento di vivere... L’apprensione che mi portavo dentro, suscitata da un’anestesia molto sofferta di tanti anni fa, era ingiustificata. Stavolta è stata solo una parentesi nel flusso del tempo, come un sogno notturno in cui il corpo riposa... Una parentesi chiusa su un’ombra chiara che lentamente mi ha invaso. Poi, d’improvviso, la speranza è tornata. Come trovo pesante e insopportabile l’atteggiamento del personale sanitario - e dei medici in primo luogo - che consiste nello svolgere la propria mansione ipercoscienziosamente, senza mai prestare al malato una briciola di vera attenzione! Nessuno si prende la briga di considerare il paziente un essere umano e

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di ascoltarlo! Eppure di questo il paziente ha bisogno, forse non meno delle cure che gli vengono generalmente prodigate con abnegazione. Tutto viene fatto soltanto per la malattia e per la terapia di cui Tessere umano è considerato - inconsciamente nient’altro che il supporto. E con ciò ogni dovere è assolto. Senz’altro anche i medici e i paramedici rinnegheranno questo atteggiamento, ma ben pochi sanno esserne immuni, tanto esso è radicato nel personaggio del medico che si è formato nel corso d’innumerevoli generazioni e che l’attuale scienza « evoluta » non manca di rafforzare ancor più. In questo secolo tumultuoso tutti pensano solo a parlare e nessuno più vuole ascoltare... Se ne sarà accorta la gente? E il caso di ridare un posto d’onore al sacramento della confessione: infatti il confessionale è uno degli ultimi posti dove sanno ascoltare! Talvolta ascoltare diventa vita e sostanza se risponde all’esigenza di chi ha bisogno. Terra d’Italia sorvolata in angoscia sul versante dell’anno che muore, per me terra dolce da coltivare! Ogni aurora s’arricchisce delle opere proposte quando, per qualche momento, si fanno da parte le follie quotidiane cui ciascuno che mi ascolta è assuefatto. Sussulta il sapere che soffoca l’intelligenza : ancora una volta ho visto il sonno sparire dagli occhi e aprirsi la fonte che mi elargisce la grazia di una domanda. E, ritto sull’uscio, ho cercato di aprire la porta dalla quale i miei ascoltatori desideravano entrare. Ma non ho potuto evitare il turbine delle migrazioni, il cui segno invincibile è la millesima che sta per venire. E ho pagato! Ho pagato per tutto il bene che ho ricevuto, ho pagato per tutti i doni, ancora più cari perché donati e perché fatti con amore... Ho pagato... Nessuno saprà mai quanto ho pagato! Il mondo moderno sta diventando un incubo ogni giorno di più, e viene davvero da chiedersi come e quando sarà possibile uscirne. Un incubo, ahimè, subito anche dagli uomini rari che, per qualche momento, si sono parzialmente svegliati.

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Nell’ora strana che segue il tramonto il cielo si apre e si abbassa. L’impressione della notte che sta per venire proietta le sue quattro dimensioni sulla tavola piatta di ciò che in me la riceve e ne trae nutrimento unendola alla mia verticalità improvvisa. Silenzio nello spazio infinito dove l’essere diventa più grande. Punto fisso nell’eternità... La linfa primordiale concentra le proprie sostanze e continua lentamente a maturare. L’ombra della gravitazione s’attenua. Da una riva all’altra del cielo la notte vestita di scuro conserva la sua chiarezza, in realtà mai estinta. La mia « presenza » è come uno specchio la cui chiarezza, in realtà mai estinta anche nel sonno più nero, ne moltiplica l’estensione! Essere amato d’un amore di donna... Uno vero (ché molti son «cerebrali»). Prodigio di bocca avida portatrice di gioia in azione. E le mani vibranti, e i gesti che sono come offerte, e altri gesti in risposta dal tocco di seta!... Amore di donna, più lieve che bruma d’autunno, più dolce del seme gettato al gran vento dell’equinozio, latte di tenerezza profuso da seni sfiorati da tenui carezze. Le tue mani nelle mie ricevono il presagio... Al riparo del nostro comune silenzio, vieni a dormire il mio sonno, dammi il tuo sapore di donna. Le tue palpebre, sgualcite dal tocco di umide labbra ostinate, nascondono occhi felici; e fiato a fiato vivremo, ascoltando l’istante che nasce profumato dall’effluvio infuocato d’amore che il tuo alito accende... Solo l’attimo di Presenza può, in eguale misura, riempirmi la vita. Neve, dopo Natale; la mia mente l’attraversa e fugge alle rive mediterranee da cui, poco fa, sono tornato. Nevica sulle alture boscose, sulle cime lontane; e nevica anche sulla mia presenza, e la soffoca... E nevichi allora su tutta la terra, affinché le infinite catene di cui gli uomini portano il peso vengano usate per le ruote delle loro irrinunciabili auto! Uomini senza catene su una terra senz’odio? Ahimè, è un sogno su cui pure cade la neve, e l’inghiotte.

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La Presenza viene al potere come acqua di fonte che sgorga sul fianco della montagna, unendo le forze dell’altra sponda a quelle di questa sponda impietosa. Ieri, le feste intristite da ripetute orazioni, le mille luci improvvisamente accese delle città, domani V odore forte e dolciastro del futuro... Tetro corteo di sogni incompiuti, i Magi sono ripartiti verso la Mesopotamia. Si spegne l’incenso, l’oro sale nel corso dei cambi tenuti nei suoi templi chiassosi, la mirra è sempre più rara nei paesi dell’abbondanza: tutte cose che un tempo regnavano sopra l’assenza. Incandescenza dell’idea, sentinella del Presente che mai non diserta l’oriente del risveglio, là dove a ogni ora mi trovo per chiudere una parentesi sul mondo delle spiegazioni. Là dove germina il seme delle parole. E scopro un piacere improvviso/nel colore del tempo nuovo. « Per quanto lontano portiate un asino, foss’anche alla Mecca, al ritorno sarà sempre un asino. » Proverbio turco

Un proverbio che il mio impegno mi costringe a non dimenticare. Passato il Natale, bisognerà presto rivolgere lo sguardo alla strada che da poco la morte ha percorso: un sentiero sul quale, con la bocca che forse ancora ricorda gli antichi sapori e con gli occhi chiusi su antiche lodi, camminano A. e, poco più indietro, Catherine, pronte per nascite nuove. Noi che ancora vaghiamo sulla soglia della morte mentre sono appena svanite le leggende che ci hanno cullato l’infanzia, noi non possiamo pensare che ciò che amavamo - e che forse ben presto saremo - si riduca a quel pugno di cenere che giace in fondo alla tomba. Dove sono passate le vostre ombre? A che punto della transumanza divina siete arrivate? Avete raggiunto l’estuario dove tutte le cose si fondono, il paese in cui le sacre funzioni sono tutte ormai celebrate e che sta lì ad aspettarci, ad aspettare noi che abbiamo pazienza, e fiducia, e perseveranza?... Ma, passato il Natale, rientrano i nostri ricordi, e presto saremo di nuovo costretti a scordarvi ogni tanto, e a pagare per i nostri

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atti, per i frutti che abbiamo ricevuto e per tutti i sentieri battuti dai nostri passi. Bisognerà riscoprire le forze che fanno maturare, riconoscere il gusto che A. vi ha lasciato, deporre le maschere e preparare opere d’uomo, se ancora ne è il tempo. Le mie idee vorticano come il fuso delle nebulose. Fatte di tempo, di materia e di forze, aizzate dagli ammassi di eventi ancora celati negli insondabili archivi del futuro, esse scorrono una dopo l’altra con la dolcezza d’un frutto maturo. E le contiene la mente, come l’acqua le sponde di un fiume. Ma in me ogni cosa che ha senso urta subito l’irrazionale stringendo alleanza. Talvolta ne sgorga un purissimo canto che ascolto rapito: ma non sempre ne rivelo la sostanza ad alta voce. E in esso mi riconosco, mi fondo in un solo respiro. Allora il pensiero accresce la sua densità. E io mi preparo all’impresa di essere. Finalmente silenzio sulle mie labbra di uomo vivente. La folgore del ricordo di sé mi riporta sulla via delle forze più vere. Sento lievitare le sostanze da cui nascono gli istanti di presenza più puri. Affiorano i fondali della coscienza ricacciando all’indietro i rossori maliziosi dei pensieri associativi... E sugli ultimi brontolii di tuono dell’automatismo Si chiude lo spazio che separa due mondi. Quali attimi puri mi vengono in mente nella sera di un anno che sta per finire: la nascita di un potere, la prerogativa dell’atto volontario sul diritto d’anzianità del voler-fare, la grandezza dell’impegno, talvolta solo apparente?... Segni pervenuti dagli abissi dell’Eternità a chi porta un’infima parte del fardello dell’Umanità! Dimmi, o mio Io improvvisamente destato, perché la sorgente è in grado di aprirsi così agevolmente la strada in mezzo alle torme dei pensieri? Dimmi, come posso seguirla alle soglie dell’ellisse arrogante che si genera dalla Coscienza e su cui errano i sogni e le brame? Dimmelo, per poter essere Io la Sorgente, Io l’ellisse e Io la Coscienza.

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Scoprendo Tessere nella sua essenza, ma privo di volto, il seme è gravido di nuovi momenti. Umile, oscuro, mi presento alle porte socchiuse della presenza umana, là dove nessuna frontiera può fermare l’uomo deciso e armato del ricordo di ciò che ha amato. Le nevi sono finite, un grigio chiarore mi riposa lo sguardo, sulla terra le cose ordinarie sono prive di senso. Smetterò finalmente di recitare le mie parti sulla soglia dei santuari? Deporrò le maschere e i drappi di cui nobilmente mi sono ammantato, ancora macchiati dal sangue degli altri?... La presenza si attarda, vecchi sogni si sbrecciano al colmo di muraglie crollanti, le opere sussultano all’orlo di un mondo che nasce - e rinasce incessante. Poco fa ho incontrato la fine del mondo. Cronaca delle mie nostalgie... di quelle più inafferrabili e continuamente elusive: non trovo parole per descriverle! Ma, dopotutto, che importa se non riesco a rendere esattamente l’idea di ciò che popola il mio universo quotidiano! Per liberarsi di una civiltà industriale di cui non ha saputo guidare l’evoluzione, l’uomo occidentale dovrà ritrovare il contatto con la terra e camminarci su a piedi nudi così da subirne il magnetismo intatto? Dovrà cambiare strada e, in risposta alle antiche migrazioni dei pellegrini asiatici, riscoprire, camminando su vari strati di ruderi, i presagi delle terre d’Oriente? Il fallimento dei pragmatismi, degli intellettualismi e dei materialismi distruttori l’obbligherà a ritrovare in se stesso l’altra parte del destino, finora ignorato, dell’uomo? Meditare sull’uomo atemporale non esclude l’azione da cui forse dipendono le sorti dell’umanità. Ma oggi esistono uomini capaci di mantenere l’umanità aderente alla storia e di salvaguardare al contempo la grandezza dell’uomo? Risveglio. Ho visto le mie labbra sorridere nello specchio festoso del

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primo mattino che in sé porta il seme del giorno nascente. Si delinea la curva dell’ora, tesa verso l’azzurro del mezzogiorno che regna sulle paludi. Di quali messi sarà cosparso il mio suolo stasera? I miei passi risalgono all’infanzia mentre scendono verso la dispersione le promesse ripetute fino alla noia. E intanto stridono le catene del sapere. Poi il nuovo germe inizia la crescita e io vedo aprirsi la notte. Cercatore di sentieri, salgo fin dove riesco a salire. L’ombra di atti nuovi si profila davanti al futuro. Ma anche la carne si sgretola sulle asperità del tempo; questa massa sospetta di ossa e di sangue in cui riposa la mia speranza lascia trasparire la stanchezza; la vita è ormai giunta alla fine? Ogni singola chiarezza è tradita dalla propria ombra. E questo sapore terroso d’orgoglio che d’un tratto m’assale la lingua! Di cosa è fatto lo spazio che sta tra due sponde, spazio nel quale credevo di avere le mie ricchezze e dove, dopo l’infanzia, si concentra l’alcool dei desideri? Sbriciolate in frammenti di sillabe, le parole della preghiera passano al largo d’entrambe le rive. Il mio volto s’accende, i pensieri migranti sono svaniti laggiù all’orizzonte, si presenta una soglia, il mondo si chiude sulle opere dell’inverno trascorso. Posso cantare gli inni delle nozze con l’istante! Silenzio. Ma nessuno decifra la scritta che risalta sulla mia presenza spalancata di colpo. Presenza, solo in te la vita è reale. Quante volte, parlando in tutta serietà, ho raccontato sciocchezze sostituendo il fumo delle parole alla fiamma di una vera presenza! E quante volte la mia bocca, pronunziando frasi intelligibili, ha stentato a tirarmi fuori dal chiasso, ogni giorno più assordante, dell’umano trambusto! Grazie a Dio le parole e gli atti di un tempo non sono rimasti indelebili. Ricordi ripudiati, nati da incerti contatti: oggi ne distruggo il fermento e lascio che s’instaurino le premesse di un nuovo linguaggio. Nei giorni della vecchiaia secondo l’anagrafe, eccomi qua più giovane che mai, ubriaco di essere, sicuro della mia presenza al passar delle ore, delle settimane, dei mesi e di gran parte del secolo.

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Restituito alla terra natale e colmo di gioie infantili, sono tornato indietro tanto quanto mi sono inoltrato in luoghi forti e sani, molto addentro nella mia vita. Lontano. Fino a veder comparire il versante dell’ultima aurora, i prossimi sentieri della morte che l’alba silente rischiara davanti alla mia cecità. Il mare di pianto trattenuto in gola esprime il ripudio della tristezza, mentre dentro di me si leva, possente, il gusto di vivere. E già s’indovina l’evento che mi farà sorgere ancora, alla luce della morte, quando ormai avrò vissuto l’ultimo domani e avrò fatto sul sentiero gli ultimi passi lasciando in terra il mio segno in un paese senz’odio, con quell’eterna giovinezza che col cuore e le labbra ho seminato instancabilmente!... Ho dentro il sapore di quando, subentrato al migrare dei Magi metafora dei pensieri vaganti - depongo l’oro della presenza ai piedi del trono su cui veglia l’attenzione. Al colmo dello stupore. La nascita è istantanea, terra nuziale di gestazione immediata dove, di colpo, io SONO. Nel tempio si celebra la funzione: odore d’incenso e gusto di carne vivente, la presenza compare e scompare secondo il flusso d’attenzione che la genera. Silenzio colmo di gemme che sbocciano. Un batter d’occhio è già sufficiente per sollevare la pietra che separa me da me stesso: e subito erompe in mille zampilli la presenza fremente di cui sono pervaso. Allora si levano le lodi a Chi, con passo da gigante, è passato tempo fa sulla Terra! « Oggi il mondo è governato da finzioni, da false dottrine sociali e da false promesse scientifiche che sono fondate su dotte argomentazioni di cui non si riesce nemmeno più a cogliere il circolo vizioso, e cioè che l’ordine sociale deve piegarsi alle tecniche prodotte dalla scienza mentre la scienza, a sua volta, deve continuamente adattarsi all’ordine sociale destabilizzato dall’indole passionale e caotica dell’essere umano. » SCHWALLER DE LUBICZ

(Il re della teocrazia faraonica, Flammarion, p. 10)

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Rimpiangendo l’Unità finalmente demistificata, il mio io di tutti i giorni continua talvolta a ritirarsi nel sogno da cui, dopo un po’, ricade come un frutto maturo. Allora cominciano i gesti invisibili. Ogni tanto colgo lo sguardo della presenza precedere il mio sguardo e scivolare sulle cose prima che la mente, ingannata dal chiaroscuro dell’assenza, possa impadronirsene. Pian piano svanisce l’insolenza di vivere e più nulla risolve l’equazione esistenziale fra il divino e l’umano; l’ebbrezza di essere, luminosa, accresce la mia sete di conoscenza e la giustifica appieno. E scopro di essere i frammenti del Tutto che mi costituisce, ciascuno col suo sapore e col mistero della sua incarnazione; frammenti che, volta a volta, prendono vita e s’integrano al destino dell’UNO che sono; frammenti nei quali si capta l’essenza dell’essere, terra su cui progredire nella conoscenza di sé scoprendone l’insularità sorprendente. Eccoci adesso in tanti nell’avita dimora. Tanti, ma collegati: arcipelago fitto che popola l’estuario in cui finirà la mia vita. E le acque del largo, forse, laveranno le mie ultime colpe. La muraglia mentale, più opaca di quella che si erge tra Pieri e il domani, acuisce l’impazienza e protegge il mio sonno. Ritmo lento - ma quanto! - dello sbriciolarsi continuo d’idee che ne sgorga, da cui cade l’impalpabile polvere del vuoto sapere. Cosa mi resta oggi dei libri letti e dimenticati, provenienti dai quattro punti cardinali della ricerca? Ancora sensibile alle fiamme del piacere, mi tocca aspettare col fiato mozzo che si calmino le tentazioni, attento al solco tracciato da tempo che serve ad aggirare la muraglia e a condurmi alle terre di un nuovo risveglio. Senza segni e ornamenti. La presenza infine scavalca il bastione, s’espande e irrompe nello spazio ancora misterioso in cui si risveglieranno i miei atti. È in arrivo un Tempo nuovo, quello dell’Acquario. Noi che viviamo la fine di un Tempo, dobbiamo stupirci dei tormenti che agitano la coscienza degli uomini d’oggi? Vuol dire che dovranno essere vissuti - o rivissuti - tutti gli inizi? Ogni epoca, senza dubbio, è soggetta alle proprie influenze,

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e nulla potrà mai esattamente ripetersi. Tuttavia esistono Leggi che appartengono a tutti i tempi e che, a dispetto delle tecnocrazie al potere, seguono percorsi immutabili, diretti là dove l’Essere è comunione di Uomo e Coscienza. Percorsi impraticabili dall’esemplare più tipico d’Homo Sapiens odierno, immagine di una fiamma accesa che divora la sua stessa face. Quel grido dentro di me all’alba, quando il treno mi stava portando verso l’impegno consueto... Cos’era? Di quale disperazione esprimeva l’angoscia? Mentre, con l’occhio sperso nelle frange del giorno, interrogavo il silenzio che ne era seguito, c’è stata un’espansione: d’un tratto la notte ha iniziato lentamente a svanire mentre un sole di porpora, scalfendo l’orizzonte e virando al colore dell’oro, si lanciava ardito sulle vie siderali inaugurando l’ora propizia ad atti diversi. Da quanto tempo dormiva dentro di me quel grido pregno di antiche speranze? E perché all’alba è scoppiato senza ritegno sui sentieri del giorno? Perché, quando l’ora frizzante ha risvegliato la mia impazienza, quel grido si è fatto respiro, freschezza di fiato, gusto di vivere adesso squarciando le barriere del sonno? Ben presto ho dovuto smettere di spiare le meraviglie intatte emerse dallo splendore dei sogni: sillabe scaturite dalla terra di frasi pronunciate nell’assenza totale, ricordi ricacciati all’istante da un fruscio di pensieri, e persino i nomi degli dèi sepolti nel cuore delle leggende... Ora il treno, lanciato verso altre soglie, riga in silenzio il tappeto di neve srotolato sugli eventi futuri e sulle nuove risposte. Non si può perdere la speranza! Raccogliere le energie divergenti, le cose disperse ai quattro angoli dello spirito... Tutte opere legittime! Sento ancora echeggiare il mio grido nell’alba svanita. Aprirmi la strada negli incolti dell’automatismo, ascoltare la voce delle sorgenti respingere le parti monche e disonorate di me conservando i desideri e l’amore di essere. Combattente atterrato, eppure mai vinto, cercatore instancabile d’energie armonizzate, troppo spesso condotto al

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pozzo secco della mia fedeltà, sto aspettando l’acqua sacrale. Dove dirigerò il mio destino? Qualche volta tocco il fondo dell’abiezione. Lo sciame dei pensieri e della fame ronza incessante scandendo le mie impazienze. Ansioso di un nuovo domani, invischiato in oscuri spessori, spio ciò che sta per sbocciare, la parola avventurata nel groviglio delle contraddizioni che farà cessare il mio sonno come tempo scaduto. Sto prendendo lo slancio per oltrepassare la notte che mi auguro corta. Per fare di nuovo amicizia con la presenza. E infine per essere in piedi, ripulito da ciò che mi tiene prigioniero. Un canto sgorga dalle mie labbra, paziente, venuto da misteriosi recessi per sentieri imprevisti sulle tracce delle docili ellissi di un voler-essere inosservato per lungo tempo. Giunto da grandi spazi compassionevoli a soddisfarmi la sete e a stimolarla a sua volta. Vivere allora mi piace. Sono tanti quelli che nello sforzo quotidiano posano sempre la prima pietra del loro edificio interiore. Costoro non avranno mai quattro mura. Sono tanti coloro che hanno il desiderio ma non il bisogno. A un certo momento mi sono trovato sulla soglia della notte introvabile, ma fuori dal buio delle parole. Sotto i miei piedi trionfanti ha tremato la terra, scacciando una folla d’idee respinta nello spazio assoluto dove poi è svanita. Restando estraneo al crepuscolo col pensiero a riposo come una spada nel fodero, camminavo a labbra socchiuse nell’ultimo azzurro del cielo. E mi è sorta dentro una tenerezza ineffabile, sorella minore della felicità. Attento alle inevitabili metamorfosi, il mio sentimento d’un tratto è stato invaso dal sole. Poi la scorza è caduta del tutto, i ciuffi di felci sono diventati verdissimi e i diamanti, emersi dai flutti, si sono messi a brillare in mezzo al torrente. Io sentivo, meravigliato, la fertilità dei poteri della coscienza; la fecondità dei suoi giochi fugaci mi ha sfiorato improvvisamente l’olfatto come il profumo che preannuncia il fiore. Allora ho toccato le rive future dove l’essenziale non era ancora

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sbarcato con me, terra del mio cimitero che ho percorso anzitempo esplorando me stesso. Liberato dalle abitudini, ho accettato d’impegnare laggiù tutto il mio bene, particella dell’Uomo vivente. E ho visto salire, sullo sfondo del cielo, la presenza protesa verso insolite altezze. Perché la mia persona ha così pochi riguardi per la coscienza? Essere qui immobile, presente; il semplice fatto di esserci, mentre il tempo trascorre, è già esultanza dell’essere in risveglio. Molto in alto mi sono levato per conoscere l’umano penare! L’angoscia amara che me n’è venuta sta passando, travolta da parole ricolme d’errori. Quali fantasmi abitavano le mie dimore, quali fermenti hanno dovuto librarsi ai confini del cuore per cancellare l’arruffio dei pensieri e l’irto linguaggio... E preparare la successione clemente dei secoli a venire! Presso il lenzuolo del mio silenzio, in quella parte del mondo in cui, per qualche tempo, cadono tutti i clamori, smetterò di vagare, e con l’anima piena di desiderio chiederò alla vita di assolvermi e di cantare per me l’altrove! Tutti questi « io » agitati che tremano per la loro vita! I pensieri, collezionisti di fallimenti, ne rabbrividiscono e passano con la furia di una tempesta dalle stelle al sentiero fangoso, continuamente in azione, vogliosi di svariate prede... Camminare malgrado la fiacca, infiammare ogni istante, costruirsi alle spalle un muro invalicabile che ci separi per sempre dalla morte del tempo... Trovare parole che ridestino la sete. Diventare padrone dell’essenza delle cose, scoprire lo spazio futuro nel quale opererà il Mago e restare in ascolto di ciò ch’egli dirà a bassa voce. Incamminarsi con lui verso plaghe più interiori che mai... Raggiungere insieme, coi nostri vestiti da festa, il limbo del sapere. Signore, fa’ che io viva la morte affinché la mia morte sia pienamente vissuta!

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Potere dell’Ieri da cui proviene il tracciato degli atti - di quelli che sto per attuare. Vivere le forme di vita che l’essenza autorizza, contemplare in pace gli ostacoli... Per un attimo sono colui che tiene insieme le promesse passate e gli atti presenti, colui che, nell’alba di questo giorno, saluta il primogenito della coscienza. Le mie forze si spingono fino al remoto cuore dell’essere. Liberato da impulsi improvvisi, il mio sguardo interiore pugnala le ombre residue finché arrivo in luoghi purificati dalle mie libagioni. E i miei servitori-padroni, che di solito mi precedono, marciano finalmente dietro di me. Gran vento distruttore. E anche purificatore: un gran vento venuto senz’odio a soffiarmi addosso i personaggi che io sono e dei quali avrei dovuto liberarmi pian piano e senza violenza, come cadono i frutti maturi dal ramo. Vento dalle zaffate di resina che si spandono all’infinito gonfiando i miei desideri, vento più forte del vomere che ara le mie domande impazienti. Vento che passa e si placa soffiando sulla stagione morta, sugli alberi nudi, irritando i miei ozi tenaci e ghermendo i miei sogni insignificanti lanciati al galoppo. Tuttavia insieme a me questo vento corre anche con molta dolcezza e in completo abbandono, incontrando senza tristezza la morte. Il suo impeto abbraccia l’angolo in cui si dispiega lo spazio che mi è riservato. A quel soffio il rumore del mondo viene esaltato, attirando continui pensieri. Tumulto dei desideri che rompono il silenzio agli albori di un giorno che pure mi aveva mostrato la tavola delle Leggi inondata di luce. La speranza ha la febbre a quaranta nell’ultima ora della notte che muore. L’avvenire è già nell’aurora. E nel vento che passa... Il chicco potrà quindi marcire, il seme germinare, e ciò che il pensiero disprezza potrà finalmente sbocciare. E un giorno la messe del grano avverrà nelle mie mani - l’ho appena saputo dai pensieri di un altro universo. Provenza, giardino che finalmente ritrovo, cullato dalla carezza di un leggero mistral foriero del dolce settembre... Il sole arde, c’è ancora l’estate. Malizia acuita dalla mia passività naturale: i dati

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della lotta cambiano impercettibilmente. Ardua ricerca interiore degli anfratti in cui lo sforzo è possibile. Ma quale piacere posare di nuovo lo sguardo su questo giardino! Io, mio unico bagaglio. Già sento che presto potrò misurare l’empito della primavera. Ascolto parlare le labbra di oggi e scopro idee nuove in pieno rigoglio, pronte a lanciarsi all’esterno. Ancora indistinte, volteggiano dietro la fronte come un volo di civette nel sogno... Ma che succede? Gigante monco, mi sento improvvisamente vuoto come se non avessi un passato: il mio desiderio, accerchiato da tutte le parti, resta inerte. Fermato da un muro d’ignoranza su una terra usurpata, mi trovo solo davanti al Tempo! Ma il cielo infine si apre, gli alberi emanano sentori di resina e io indovino la carena del tuo corpo, fatta di curve armoniose, da cui salgono, offerte, le onde del tuo desiderio; cade la maschera che avevo sul viso e che m’impediva di vivere mentre la bocca, levato il duro bavaglio, torna a ospitare le parole di verità in esilio. E mi ritrovo sulla strada maestra lastricata di pensieri fecondi... Esserci, esser pronto per l’attimo della scintilla, quando s’irritano le forze del rifiuto e il santuario della coscienza, meravigliato, si apre al puro dedalo del sentiero... Ma quando sarò uomo? Morire: vivere altrove. Cercare un movente ancora ignorato, contemplare le acque gorgoglianti delle fontane, all’ombra del tempo... Al serico effondersi di nuove emozioni succede istantaneamente il piacere di scrivere. E mi ci abbandono, sperando in frasi non ancora consunte, rilievo d’immagini promesse da tempo.

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Senza far caso al tumulto del sangue mi preparo alle offerte generate dal moto perpetuo di tutte le cose, qual è quello che ha luogo alle soglie della Conoscenza, là dove si mostra il volto incompiuto del vero. Improvviso timore che tutto si limiti a essere bello, che i trofei ricevuti non siano altro che fiabe infantili. E che resti bianca la gran pagina pronta a esser riempita dal racconto che ogni giorno la coscienza mi offre. Che importa: nulla mi vieta di amare. I tesori della mente sprofondano, inghiottiti dai sudori dovuti allo sforzo. Uccisore di sogni e assassino di chimere io, più accanito che mai, mi oppongo all’alfiere dell’inconcludenza! Ah, potermi finalmente sgravare del carico di tirannia che m’ingombra la scatola cranica! Liberato di questa zavorra e della sonnolenza provocata finora dall’immaginazione attiva del mio monocorde cervello, forse riuscirò finalmente a trasformare la disfatta in vittoria. Mettere insomma a tacere le voci ipnotiche e i pensieri lapidari! Affinché non trovino più in me uno specchio che possa rifletterli! Stasera il fragile flusso del mio desiderio di essere - che io solo posso vedere - mi trascina verso un Presente ormai sgombro di tenebre che si staglia lontano contro il sipario infuocato del cielo. Il Ricordo di sé rapina tutte le cose conosciute all’istante: sottrae alle tre dimensioni frammenti di spazio e d’energia, li introduce in dimensioni più alte e li insedia in un volume interiore. Punto fisso di un perpetuo movimento centrifugo, esso domina il punto d’incontro fra il monte e la valle - ratto della sposa nella sera in cui si celebrano le nozze dell’istante... Programma: Costruire partendo dall’argilla umana. Con modestia, dignità, vigilanza, aiutandoci con le effusioni accessorie dell’intelligenza.

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Rompere in un primo momento 1’ equilibrio disinvolto degli automatismi compiacenti, che appartengono alla persona, per sorprendere le forze interiori in via di trasformazione, e poi liquidarli del tutto; rendersi conto della precarietà dei contenuti ordinari e del ridicolo aiuto prestato loro dai processi funzionali ordinari. Mostrarsi tali fra gli uomini di altre razze - quelle dai sonni incoercibili e dalle persistenti illusioni -, e come tali non rifiutare nulla dell’umana esperienza, cui la nostra debolezza conferisce una sofferenza indicibile. Mostrare agli altri la pazienza, l’attenzione e la serietà di un viso animato dalla massima franchezza. Posare su chiunque uno sguardo che tragga dalle rive serene della presenza la forza preziosa generata dalle frange estreme della coscienza. Evitare qualsiasi spiegazione. Sì, levarmi semplicemente vivo, al di sopra di ogni conflitto, in piedi nella tempesta che oscura l’umanità, riparato esclusivamente dal mio nome d’uomo. Perché all’improvviso mi sono venute in mente le « marmellate gratuite » cui Gurdjieff paragonava le « scoperte » che noi facciamo nei primi tempi della ricerca? Le marmellate di oggi sono forse meno zuccherose o più rimunerative? Negli oscuri meandri dei nostri sentieri prestiamo sufficiente ascolto al rumore dei nostri passi che oltrepassano le povere mete raggiunte? Teniamo abbastanza stretta la mano di chi ci precede, ci procuriamo l’indispensabile flusso di attenzione in quantità sufficienti? Stiamo preparando una buona semina, luoghi di riposo per gli affaticati e altri spazi per i forti nei paraggi dei templi? Stranieri sulle nostre terre, lasceremo un giorno il cilicio delle menzogne cui siamo così affezionati? Sapremo riconoscere la grandezza delle promesse, desiderare con forza il nome che abbiamo? E, sul versante dell’aurora che ormai abbiamo imboccato, diventeremo finalmente ebbri di coscienza? Ho riletto alcuni appunti di A., incredibilmente attuali anche dieci anni dopo! Sembra di sentire la sua viva voce. Circa quattro

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anni ci separano dalla sua dipartita: come li abbiamo impiegati? Alcuni si sono innalzati a livelli allora imprevisti, altri si sono ingrigiti nel tran tran quotidiano, altri ancora né questo né quello. D’altra parte oggi bisogna affrontare tutto, dai ritmi dell’orgoglio alle angosce che gonfiano le nostre incertezze. Davanti a noi s’apre la fredda via del futuro... la vergogna, talvolta, delle cose dette, e di quelle taciute ch’era il caso di dire!... E lo sconforto di trovarci soltanto all’infanzia della nostra ricerca, malgrado la gioia e i grandi voli di silenzio che l’accompagnano. La coscienza però ci diventa più familiare e vince gli aspri rifiuti. Talvolta dall’oziosa memoria riaffiora l’origine del nostro male cui, senza fallo, A. sapeva condurci. Adesso dobbiamo imparare a fermarci sempre più a lungo all’ombra dell’edificio che lei ha costruito per noi, in attesa di deciderci un giorno a varcarne la soglia senza paura. Bere direttamente al ciclone che passa nell’attimo del Ricordo di sé, cercare l’assenso delle forme inusuali che ne scaturiscono, percepire il tenue sapore del divino disciolto nel sangue dilatato che mi scorre nelle vene! Un dardo trafigge la carne divisa. Se i desideri si degnassero di non regnare più sugli idoli falsi e bugiardi... O mio pensiero operoso, non hai proprio alcun altra passione? Che cosa dunque si compie? In parole, in presenza: non è forse così che d’ora in poi dovrò pagare il prezzo di mezzo secolo di vita più responsabile? Ma per riuscirci devo allungare il passo verso il culmine infuocato dello spirito finalmente ridesto. E pronunziare una lunga sequenza di lodi per tutti i doni sin qui ricevuti. Cercare di trasformarmi in pastore delle greggi del futuro che pascolano nei luoghi della Conoscenza: anche questo è pagare? Le opere che vivono in me nel mattino dei giorni migliori mi conducono al vivo dell’essere; io nasco, e poi di nuovo rinasco a questa presenza legata al sangue più rosso, specchio arrogante del sole, brace ardente di febbri lungamente bramate. Poi mezzogiorno accorcia le ombre, alba di quotidiani tramonti. Portato verso una vaga fusione al calar della notte, legato agli impulsi stagionali di desideri mai soddisfatti, medito la

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via aperta verso la Meta. Ma chi mai d’improvviso in me ricerca l’assenza e l’insedia, conquistando i territori illuminati dalla Coscienza e turbando la parte migliore, ormai in pericolo, di ciò che è appena avvenuto? Gli idoli vacillanti ritrovano il loro equilibrio e io, sotto false apparenze, ridiscendo i sentieri di rovi diretti alla fetida piana dove le scorie dello spirito sono in perpetuo ristagno. Ancora una volta dovrò riallacciare i fili. Domani indosserò il vestito da festa e, con gli occhi arrossati dal sonno, mi chinerò nuovamente sul gran libro di carne che sono. Instancabilmente. Un suono di flauto per asciugare le lacrime che mi opprimono il cuore... A lungo, cercando l’orma di un tempo, non ho saputo far altro che assistere a spartizioni di ceneri. Ma un giorno, in terra d’infanzia, un uomo s’è levato venendomi incontro. E io ho colto il frutto della sua saggezza. Così ho imparato a vegliare interrogando i pensieri, prestando attenzione al respiro e cercando il mio nome. E talvolta, puro come alla nascita, ho incontrato l’argilla che poi s’è popolata di semi. Infine è venuto il tempo in cui fiori e frutti sono convissuti, il tempo degli incontri sempre più gravosi che mi hanno spinto nel futuro di cui oggi assaporo, secondo per secondo, la sostanza inebriante. La mia vita interiore traccia una linea punteggiata sul percorso della quotidianità. Inchiodato alla terra dalla mia condizione di uomo, il futuro mi entra negli occhi come polvere sollevata dai sismi costanti dell’umana avventura. Lo sforzo estende lo spazio cancellando i confini che mi bloccano lo slancio. Collegare le sponde opposte del moto di andata e ritorno, là dove il desiderio, riallacciato al pensiero, frusta l’intelligenza e spazza la schiuma leggera del tempo. Essere solo un ricordo! Smetta l’immaginazione di imbellettare l’effimero, si plachi ogni violenza. Dimentico degli istanti sottratti alla presenza e delle inevitabili svolte del sentiero, e confidando sul gusto durevole della Verità che mi riempie, potrò finalmente celebrare senza posa la festa eccelsa della Coscienza attiva? Cos’è questo gusto improvviso sul labbro? Un messaggio di pazienza. E di speranza. L’Uomo che è in me sta forse per

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cominciare la Grande Transumanza, per gettare nell’oblio la lunga lista di ciò che ha rinnegato, per strappare la pagina dove assurdi sofismi acuiscono i loro effetti malefici e rischiarare la notte che incombe impietosa sul cammino dei vivi? Sarà il segno dell’ingresso nell’era grandiosa in cui, finalmente, sorgeranno i miei atti?

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Parte seconda Parole d’alba

I Erranza

Un altro dei migliori tra noi se n’è andato, uno degli « allievi di spicco » - come li chiamava Gurdjieff - e uno dei nostri « Maestri ». Le file di coloro che hanno ricevuto direttamente il messaggio s’assottigliano. Quasi contemporaneamente, su entrambe le sponde dell’Atlantico sono spariti alcuni autentici portaparola. Il nostro silenzio risponda al silenzio delle voci ormai spente per ascoltare meglio le nuove parole da cui, sin dall’origine, il sonno ci aveva disgiunti...

Che importa dove va il vento! Se passa fra le tue labbra, colora di piacere le parole venute alla luce e bagna d’un tenue vapore la tenerezza di cui mi fai dono. Se si perde sulla terra, s’inuma inesorabilmente nei punti cardinali dello spazio, arricchito al passaggio d’un greve bottino di profumi donati. Se conquista il mio sangue, ravviva la fiamma accesa verso l’al di là della sensazione, e sfondando l’intasamento di umori che pretendevano di iniziarmi, rischiara l’angosciante enigma del labirinto che sono... O vento, che allora hai il mio respiro per miele!

Ecco, la primavera è arrivata. Uscire dall’ombra, andare verso l’estate nel solco di una nuova attenzione voltando le spalle agli splendori delle dimore carcerarie in cui gioiscono ancora i ricordi di un tempo sprecato. Distogliere lo sguardo dalle umide penombre dell’inverno, chinarmi sul rozzo cannello delle

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fontane, cambiare... Esaurisco la strada proprio quando la natura affretta la corsa al rinnovamento. Risvegliarmi, ascoltare i brontolii di tuono che mi riempiono il sangue. Promuovere i momenti di gloria in cui dispiego spessi strati di luce sepolti dietro la maschera oscura dell’esistenza. Momenti in cui diserto i facili sentieri della gioia, in cui accolgo la preziosa sostanza della Presenza, in cui dentro di me tutto diventa febbricitante e in cui sprofondano le parole del linguaggio triviale. Momenti carichi di risposte ipotetiche, troppo spesso rimaste silenti. Nelle prossime albe dell’anno, ricordare i momenti vissuti nel limbo della coscienza e non distoglierne minimamente lo sguardo quando suoneranno i torridi mezzogiorni d’estate. ...non perdermi nei meandri della lotta. All’angolo del cimitero, un fazzoletto di terra libero da ipocriti marmi, un fazzoletto di terra che reclama il vento e attende il fiore piantato, un fazzoletto di terra nutrito, a distanza regolare, dalla polvere che un tempo era viva. Terra coperta ogni domenica dalla coltre della nostra riconoscenza vibrante e delle cose dette nel silenzio del cuore, terra che ci parla d’altre terre anticamente popolate di messaggi ricevuti. Terra, terra pregna di semi, aiutaci a ricordare il crocevia che ci ha costretti alla scelta e colei che, oggi scomparsa in quell’altra parte della terra davanti a cui stiamo in piedi a capo scoperto, ci ha aiutati a farla! In questo giardino veglia un ginepro, devotamente piantato da mani pie, che, segno verticale portatore di spazio e pazienza, s’inclina lentamente alla dolce carezza del vento, immagine del nostro omaggio fremente a Colei che dorme in quest’angolo. E che vive così intensamente nella nostra Presenza. Terra parata d’erba verde in cui si ritrova la nostra freschezza, in cui si concentra la nostra purezza, aperta alla speranza, ancora animata dal movimento che ci porta verso A., terra di cimitero che ci racconta la vita, dimora segreta di cui bisogna trovare la chiave nascosta sotto la morte! Tutto questo rumore che fa la notte. E questo male!

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L’alba nera nel cuore della tristezza... Eppure cantano gli uccellini. Ma l’alba è nera, sì, ed è triste il futuro che si presenta. D’un tratto mi perseguita l’ansito degli abissi, la morte segue i miei passi; curvo sotto il peso di un lungo passato, ascolto il fruscio di mille clessidre in azione. E il canto d’antiche liturgie celebrate sotto gli archi delle chiese. E il cuore che partecipa alla desolazione. E la vita che mi sta lasciando? O mi squassano brutalmente i segni dell’impostura? O la maschera vietata a chi entra nel santuario vuol prendermi e darmi finalmente la grandezza? La vita fa maturare dentro di me le sue promesse contrarie. Ora devo compierne i riti, essenziali a tutti gli echi già pronunciati.

Averliaz. S’è sciolta la neve sulle terre neglette. Appena giunto, la vita m’interroga. Gettare i ciocchi degli impegni invernali nelle fiamme ancora ghiacciate della primavera, stabilirmi nel verbo, dare nomi nuovi a ogni cosa, e che a ogni cosa il verbo aggiunga ciò che la rende immortale. Parole d’alba, tutto diventa luce: si scoprono le costanti menzogne delle illusioni, i calici si riempiono di fiori e s’addensa la nebulosa dei fiacchi pensieri d’inverno. Le ciance si purificano al vento delle parole dette: nominare le cose che l’estate scorsa sono state di brace, affinché i miei passi sereni vadano incontro ai giorni sulla via della primavera. Giorni ancor più lontani di quelli della mia nascita. Avverto già la prima estasi estiva: una carezza di seta e una brezza leggera che mi fanno sentire in festa. Tuttavia i rovi che mi feriranno le mani e il cuore non sono ancora fioriti; lingua senza parole, prigioniera della spina, bisognerà lottare ancora. E vincere. Presto si leveranno le tiepide brezze estive e avrò nuovamente così poco tempo! E così poco ardimento! Tuttavia dovrò preparare le magie d’un verbo rinnovato: sussurri di cieco avventuratosi agli avamposti di un sapere pagato assai caro. E mostrare il segno che mi hanno lasciato le ustioni. E le tracce di più grossi disordini. Uomo di parole, solo con la mia notte, dovrò parlare, parlare ancora e assumermi davanti a tutti il peso degli atti futuri.

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La mente oziosa scivola a monte del tempo senza chiedersi come tutto ciò che è sia potuto succedere. Quanto tempo alle spalle... E domani sarà presto il passato! Il poema si trova sull’orlo del baratro proprio come l’assoluto matematico o fisico. Bisogna dunque utilizzarli entrambi, il poema e la logica, con gli stessi strumenti? Benché non si accontenti del puro e semplice estetismo, il poema, nato dall’intuizione e diretto al fine - spesso inconfessato di penetrare il mistero dell’Uomo, non può trascurare la bellezza. Unendo incessantemente i propri fini all’arte di vivere, il poema è azione e potere al contempo, e abbraccia nel presente il passato e il futuro, l’umano e il non umano. Pur esplorando la notte, il poeta si rifiuta di osservarla perché è incondizionatamente legato all’uomo cui per un istante è caduta la maschera di sonno o di violenza. Dal fondo dell’antro poetico in cui dimora, il poeta ascolta la voce che si eleva e proclama la grazia del linguaggio creatore. La ricerca degli uomini s’indirizza innanzitutto all’immaginazione poetica. Lingua di poeta: punto di rottura tra la beatitudine che apporta e il baratro che costeggia, per il poeta non c’è luce che non diventi fiamma dispiegando lo spazio amplificato dei vivi. ...Poeta, non dimenticare le esigenze del poema, la grandezza che gli è indispensabile per attestare l’eternità del verbo lungo la via dell’alleanza su cui marciano senza tregua i cercatori dell’innominabile. Il passato mi agita la memoria. Rivivere le scappatelle di un tempo, a che pro? Tutto è fissato per sempre in ciò che è avvenuto, il tempo mette fine al pensiero. Riconoscere soltanto la felice distanza che mi unisce agli istanti infiammati dalla presenza. Fonte da cui sgorgherà nuovamente ciò che attendo, chiuso ancora nelle crisalidi dell’intelletto. Acclimatare l’invisibile sorto nello spiraglio dello sforzo. Sedimento secolare di cui sono fatti i territori commossi del sentimento, l’invisibile va e viene sulla chiara spiaggia della coscienza come un raggio di luna che ammicca tra le nuove fronde d’aprile. E io oggi l’accolgo con l’acquolina in bocca.

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Tirarmi fuori dallo spessore dell’assenza che talora è melma putrida, talora fango secco, residuo dei giorni passati in cui mi trattiene l’anima divenuta di sasso. La mente prigioniera vi pianta la tenda mentre l’immaginazione se ne allontana, senza peraltro uscirne, e va nelle nuvole, pazzerella, a disegnare il proprio futuro. Le clessidre dell’assenza insabbiano l’avvenire. Quale vomere misterioso mi ara e scava dentro di me il solco in cui germineranno le nuove sementi? Nomade infaticabile, il sentiero su cui marcio s’accresce sotto i miei passi, insensibile al tumulto dell’intelletto, eco perpetua del mormorio sollevato dalle folle rivierasche. Riposare ogni tanto all’ombra del Presente, contemplare la linea profetica del solco, legame stabile col moto che mi porta in avanti, di volta in volta uomo di silenzio, uomo di fatica, uomo di dialogo, attivo nel quotidiano. Mantenere le radici nella terra ancestrale e, contemporaneamente, denunciare l’urgenza delle opere vive prodotte dagli spasimi dello spirito. Che tutto, infine, vada al di là dello scritto, più in là dell’effusione quotidiana colta dalla penna stanca - e anche compiacente. S’alleggerisca il pesante fardello sotto cui, squilibrato, vacillo. Guariscano le ferite che mi sono fatto da solo e anche quelle di cui porto il marchio. E finisca con me, senza rimpianto, tutta un’epoca di sforzi, di pazienza, d’attenzione, semi sepolti nel cuore del solco, semi dei quali un giorno raccoglieranno il frutto alcuni uomini del popolo d’Italia, popolo fiero ancora malato della sua storia, ma consapevole di essere figlio di una terra di offerte, di una terra aperta ai poemi e alle scienze dell’essere. Un giorno rilasceranno anche a te un passaporto per la Sofferenza. Valido per un millennio. La sofferenza riempirà tutto il tuo spazio, occuperà l’intero silenzio. E le sue grida nel cielo saranno le tue stelle. Ma un bel mattino tu, uomo nuovo, cambierai rotta e ti troverai d’improvviso da quell’altra parte del giorno in cui cessa il dolore d’essere nato. Giunto alla soglia di un’altra immensità,

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perderai il gusto d’argilla che da troppo tempo t’impregna le labbra. E davanti all’invitto mistero della Vita riprenderai instancabile il tuo turno di guardia. Tracciare sentieri su cui altri ricalcheranno le mie orme è le cancelleranno! Mantenendone però la direzione e vegliando al passare delle stagioni. E pagando il tributo agli istanti di presenza. Arrivati ai confini dello spazio, là dove finisce il pensiero ingabbiato, essi risaliranno ai ricordi dell’infanzia e, dimorando soltanto in se stessi, sapranno zittire l’invettiva sorta come un crepuscolo sulle labbra serrate. Chi si è commosso nei giorni dell’adolescenza avrà, alla fine dei suoi anni, il fremito di una corda tesa; un profumo di pensiero nascerà sulla fronte di coloro che arriveranno alle porte delle chiese e, risvegliandosi, le varcheranno in piedi lasciando l’avido e l’impaziente, aperti ai riflussi delle loro emozioni infantili. Tuttavia dietro l’angolo sta in agguato la morte, profumata dall’ombra che ben presto dispenserà. Ma il nostro sentiero va oltre... Che sensazione surreale provo talvolta dopo lo sforzo interiore! Nata dalla scintilla di una contraddizione, la potenza d’una tal sensazione mi conduce a un passo dal mistero dell’Essere. Quando si disfa il nodo degli opposti e s’instaura il ritmo che scandisce lo spazio interiore, incomincia la strana avventura di essere. A metà di questo perpetuo va e vieni tra il passato e il futuro, eccomi al punto d’incontro delle mie discordanze tenaci. Trasgredire il reale - o sedicente tale - voltare la schiena alle quotidiane avventure meccaniche, scordare le forme dilatate dell’orgoglio per non essere più distolto dall’atto volontario da compiere che si rivelerebbe interamente nuovo, sforzo straordinario cui oggi bisogna piegarsi. Curvo sotto il peso d’un fardello d’umanità che mi è imposto, possa l’azione diventarmi passione e, mantenendo il senso della misura, possa io finalmente, inserito nel ritmo stagionale dei declini e dei rinnovamenti, innamorarmi del Presente!

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Che resta della Presenza soppressa? Chi l’ha conquistata con una lotta cosciente ne conserva la traccia significante che sopravvive alla schiuma dei pensieri. Cosa chiede la domanda? Il polline del sentimento fa venire alla luce i frutti maturi delle risposte. Ma bisogna che il fiore gli apra al massimo i petali dell’intelligenza. Le parole sono ciò che mi sento essere in loro? Le parole! Carcerieri che fanno la guardia a un mondo interiore troppo spesso distrutto. Vorace lo sono, certamente; avido di tutto ciò che è buono, di tutto ciò che è forte, dei sospiri, delle grida, del mondo accompagnato da tutti i suoi stridori. Tanto della paglia quanto del chicco. « Che penserebbe A. di ciò che noi oggi siamo e facciamo? » Domanda ansiosa di M. cui rispondere è molto difficile. Eppure... Nel gran cerchio d’imperfezione in cui ci muoviamo, il relativo resta e nessuno pretende di esprimere verità prossime all’assoluto. Esattamente come faceva A. - fatte le debite proporzioni, ovviamente. Cosa c’è di più naturale del fatto che ciascuno s’affligga delle proprie mancanze e che il migliore ne soffra di più? Ma non è forse giusto che la soluzione dei problemi incontrati venga inizialmente cercata attraverso ciò che siamo, ovvero che il lavoro interiore pervenga in definitiva a interrogare impietosamente noi stessi? La risposta a tutto passa attraverso la domanda « Chi sono? » Il resto è fatto solo di concetti compartimentati in cui vagano la molteplicità, l’immaginario e la filosofia. La vita, guardiana d’assoluto, è sovrana, e da lei sorge l’Insegnamento che noi sollecitiamo. Non bisogna dimenticarlo. Essa conferisce il moto a ciò che è fisso. La vita quaggiù è la nostra maestra, colei che ci insegna a provare e ad agire più ancora che a pensare. Non è forse questo il messaggio supremo di colei che è stata la nostra guida? Quando il bagliore di A. ha smesso di illuminarci lasciandoci

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in un crepuscolo incerto, dovevamo lasciarci avvolgere dalle tenebre della notte, o dovevamo decidere di marciare insieme, collegati alle luci che l’hanno sostituita, verso l’alba seguente che non poteva esimersi dall’offrirci la sua incomparabile trasparenza? Un’alba a nostra misura, fatta dei nostri meriti e in cui forse, tra l’altro, ci è dato di canticchiare qualche verità... Bloccando quella che avrebbe potuto essere un’apocalisse tremenda. Avremo il coraggio di tenere aperta dentro di noi questa indispensabile domanda inquietante? L’acqua del mio pensiero scorrerebbe più in fretta se la pendenza fosse maggiore. Dovrei quindi elevarmi di più. Ma quanto è più riposante restare orizzontale... Stagnante come tutto ciò che dorme, stagnante come la morte. Ritrovare il fascino dei vecchi tempi, dei luoghi emozionanti situati nei territori dell’anima in cui anticamente ho vissuto, dei profumi evaporati all’istante... tutte cose divorate in seguito dal fuoco della spiegazione. Mentre s ’ intravvedono di nuovo le occasioni di un tempo e mentre scorre dentro di me la dolcezza delle promesse fatte, e in seguito mantenute, le immagini cambiano. E si presentano altre rive che circondano altri laghi, dove s’anima in modo diverso ciò che costituiva i miei interessi infantili. E tra questi due punti di riferimento prende forma tutto il tempo trascorso! Agire, parola maestra della vita attiva, essere, verbo universale che ne testimonia l’incarnazione: due termini, diventati le mie armi principali, che consacrano la rottura del percorso lineare seguito dal pensiero invaso dalle immagini convulse d’ogni giorno. I sapori di oggi ritrovano l’infanzia tanto agognata: un tempo di sogno che non posso più sognare. Dovrò vivere una nuova avventura? Finirà presto la vertigine del mio centro di gravità, che ormai include sia l’aspetto sensuale che quello cerebrale? Oserò finalmente soffrire davanti agli occhi di tutti? Quando si aspettano le forze lievitanti, turbinano troppe parole che testimoniano l’affanno del pensiero. Ma io ho ben di meglio da fare! Essere padrone del verbo: scegliere parole che, pur mantenendo il senso della misura, entrino in contatto con le sensazioni evocate e, rompendo l’inerzia del pensiero, respirino, si

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riempiano e si svuotino al volere degli istanti che popolano lo spazio in cui mi muovo... Parole che favoriscano l’identificazione più stretta possibile tra l’idea e il supporto umano senza , il quale l’idea non esisterebbe, parole alternate ogni tanto ad acuti silenzi... Adesso bisogna ascoltare le parole venute d’altrove e respingere quelle vuote, sentire il peso della maschera per contribuire a farla cadere, mettere la voracità al servizio del ratto permanente della coscienza, suscitare istanti preziosi durante i quali, liberandomi dall’assurdo, possa acquisire il privilegio di misurarmi con me stesso. Come affermare oggi le mie certezze, attizzare le brame che mi portano a desiderare la Presenza e, dopo averla ottenuta, a viverla anziché a viverne? Errando fra le profezie mentre « divento », alcuni pensieri schiudono la corolla e, fiori vaganti che adornano la mia dimora, la coprono come un inesauribile cielo di stelle. Quel luogo dentro di me in cui non si sa più nulla! Basilica della Coscienza disseminata dalle briciole del sapere, sotto luci più pallide del chiaro di luna, aperta sulla notte... Ma subito i segni del presente raggiungono le altezze di cui conservo il ricordo, la carne si sveglia, rinnovata e lacerata dallo stesso grido che un movimento irresistibile fa sorgere dall’inudibile. E in me l’Uomo si leva, ritto all’incrocio delle vie su cui marciano gli uomini, innalzato da un prodigio al culmine dell’istante. A ogni passo il rumore s’attenua fino al greve silenzio delle cime, sotto un cielo pieno d’albe a venire... Il brusio delle parole passa al largo e tende ad ammaliarmi. Nell’infrangersi del desiderio in cui s’ingolfano i pensieri, comincio a detestare il mondo murato in cui di solito, freddoloso, sparisco pian piano. E sogno migrazioni di stelle su ignoti sentieri del cielo. Il tempo regna sovrano, poi rallenta il passo, oblia se stesso e diviene semplice attesa. Cos’è successo? Il canto mi è morto in gola? Mi sono assopito di nuovo? Ho rinnegato tutto e sono tornato a essere solamente una larva sprofondata nello spesso strato di scorie accumulate, scambiate per luminose particelle di conoscenza?

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Oh, lo scoramento sotto la maschera! Il mio sogno lo contende ai movimenti dell’essere. Flusso e riflusso dei bagliori della Coscienza, come l'alba e la notte. Istanti funesti in cui il presente non è più che un gioco... Poi, risvegliato ai rintocchi di brevi liturgie, risorgo rinnovato dal limbo fumoso in cui m’ero perduto. E scuotendomi di dosso le ceneri morte che mi coprivano, nell’istante improvvisamente addensato io SONO. Vorrei aver piantato una foresta centenaria. Piena di canti d’uccelli... Tenderei l’orecchio per ascoltare l’assolo dell’usignolo al violino e assisterei, presente, alla festa della coscienza. Ma io mantengo il contatto con un’infanzia non ancora finita: la vita s’inventa a ogni nota e io ne accetto la promessa ineffabile affinché la morte mi scordi ancora per qualche tempo. M’incalzano le pulsazioni del cuore, frutti del serio artigiano incaricato di travestire gli ardori della vita in sostanze organiche. Ogni istante è come il canto di un uccello che prende il volo; il futuro mi fugge, mentre una volta si compiaceva di confortare la speranza dei miei giovani anni. Tuttavia ho intenzione di vivere, il sale dell’essere è sapido sulle mie labbra e io, desiderando la sete, mi abbevero all’esiguo ruscello della foresta che avrei potuto piantare. Incatenato al movimento delle cose, compio atti che diventano conoscenza e gesti che s’iscrivono armoniosi nelle righe rettilinee del pentagramma in cui è scritta la mia vita. Alcuni canti ne punteggiano le battute, lo spazio si popola di silenzi; allora l’avventura di vivere diventa mia e all’inizio del tramonto appare l’obiettivo: arrivare al punto fisso del tempo. Dopo aver lasciato la morte alle spalle quando scoccherà l’ora. Stagione di linfe e sementi, la primavera lenisce la nuova sete che mi riempie. Andare nell’erba e, negli interstizi delle foglie dischiuse, scoprire l’immenso giacimento di luce che copre la terra. Una luce come non s’era mai vista finora! Che chiude gli occhi e le labbra e spande un profumo d’aurora. Luce venuta da altre contrade, peraltro vicine, sfuggendo all’ombra che traina il mio passo da sonnambulo... Piegato dal peso della nascita, inchiodato ai tormenti dell’assenza, io mi apro un sentiero. Perduto nel rigoglio dei pensieri meccanici, vedrò la primavera dischiudermi il passaggio

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per la prima volta? Perderò finalmente la maschera da straniero? Oh, quanto mi lava quest'anno l’abluzione della primavera! E come d’un tratto sono vicino a me stesso, nel più profondo dell’essere! Sotto la falce dei passi volano le pietre del sentiero! L’orizzonte è in marcia, diretto là dove brillano le luci che mi abitano. Possa la mia parola diventare sostanza e possa io finalmente fare il pane con le sue messi! Nella frescura feconda del mattino tutto comincia con un crepuscolo; avido di pensieri introvabili, indugio ai riflessi dei ricordi. D’un tratto l’ignoranza sparisce, ed eccomi agli estremi confini dell’età, venuto da tempi profondi. Cosa mi pervade improvvisamente la vita? Quasi un gioioso seme di essere. Un seme che conosce luoghi nei quali non andrò mai, ma in cui esisterò, un seme che sa chi incontrerò e non conoscerò mai. Fertile seme proiettato nel futuro dell’essere, là dove c’è la speranza, ma dove s’insinua pure la sofferenza, insistente, fino all’ultimo respiro che mi verrà concesso. Un seme che mi ha trovato cieco, immobile, rassegnato, ancorato ai miei limiti, impegnato a invertire la curva del Tempo... vinto! Ma poi il seme, crescendo, s’è messo tra quell’altro che ero e ME. E ha riempito immediatamente lo spazio del mio risveglio. La presenza è vita, ma non soltanto vita da vivere: la presenza è

vita cantata. In tutti i toni.

Ah, vivere un giorno tutti gli istanti di presenza, senza intervalli: ricompensa! Visione improvvisa degli io vuoti, relitti trascinati dal fiume impietoso del Tempo! Esserne l’ospite fisso, solcarne le acque sopra una barca inaffondabile, andare al festino mostrando le mie piaghe guaribili... fino a qual porto, verso quale naufragio? Le luci verso cui credevo di navigare svaniscono. Scacco dell’avvenire immaginato. Dove portano dunque le strade promesse? Erano aperte soltanto per la mia crisalide! E il momento del suo risveglio? Già perduto nell’eternità, fra poco potrò gettare sul mondo soltanto uno sguardo d’addio?

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Giugno, porta dell’estate. Lassù sotto gli alberi stanno per cantare le fonti e presto l’aria s’inciprierà di sole. In questo momento si compie ciò che prepara la mia gioia futura. Rugiade d’amore che dovrò fortunatamente prosciugare... E immergermi nell’azzurro del cielo nei giorni di tempo leggero. Placido, contemplare la chiglia della presenza all’opera che fende il futuro fino al grande silenzio della morte. Rallentare la traversata della bella stagione... Vincitore dell’irrealizzabile, uscire dall’estate a ritroso, tirato verso l’inverno laborioso sul quale il mio sguardo evita ancora di alzarsi. La paura è lontana. Da oggi, far tacere l’angoscia verso cui mi trascinano le parole. Un giardino. Un’aiuola di pensieri, di sentimenti piantati in piena terra, agitati dal vento di un desiderio che non vuole darsi per vinto. Un giardino pieno di bruma in cui s’annuncia, tardivo, il raccolto; i rami non sanno più come carezzare le stelle, l’avvenire si copre di una grande cappa d’ignoranza. Come ghermire la presenza che, nello sforzo, calamita il futuro? Mondo interiore devastato!... Io, reggendo la volta dello spazio i riempito dal respiro, innesco il conflitto; s’espande una spirale di sofferenza determinata a imporre la sua credenza. Dallo spavento sorge improvvisa la felicità: è di vivere come vivo che muoio! Fondare l’opera di vita su terre commosse attraversate da nuovi sentieri, bordate da pietre miliari segnate dai solstizi... Di colpo si ravvivano i riflessi della presenza. Non più estraneo all’aurora, il peso della notte s’alleggerisce attraverso il mio sguardo; nel giardino s’annuncia la nuova stagione, si scatenano i temporali facendo montare la linfa che prima, ignorata, irrigava soltanto la coscienza. L’aria, improvvisamente pacificata, depone dentro di me le sue turbolenze e mi nutre. L’oblio, quest’indiscreto, oserà ancora attraversarmi la strada?

L’attenzione convogliata crea lo spazio necessario alla propria esistenza. Uno spazio variegato in cui s’alternano macchie d’ombra e di luce. Ogni impulso di attenzione è una fonte viva che sfiora l’istante offerto al momento e anima l’indispensabile

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paesaggio. E che finalmente s’insinua per intero nell’istante rallentato fissandolo per sempre. Allora nasce il « presente ». E nel « presente » io SONO. Mi trovo di fronte all’ostilità del Tempo e in balia dell’impazienza. Strano che in questo momento il possibile sia impossibile... Il reale è una favola. Le immagini e ME si riconcilieranno? Piove anche sulla coscienza. La « presenza » non è più di questo mondo. Che nome dare alla vita? Mi abita l’innominabile. Da che parte prendermi: dal basso, dall’alto? Intravvedo un tratto silenzioso, subito coperto dai rovi che definivo « il sentiero ». Finirà qui il pellegrinaggio verso la fonte? Quale vento misterioso mi ha dunque piegato? Poi un giorno è avvenuto quell’incontro... Era il 1947... E ben presto sono arrivati i primi doni della Presenza, intessuti di sogni e di realtà mescolati insieme. Come un tocco leggero, un fruscio di coscienza appena colto all’inizio di un’ora pacificata. Ci sono state anche molte feste sotto la maschera della sofferenza, maschera finalmente sollevata che solo la nuova lingua materna, insegnatami allora, riusciva a esprimere senza parole. Poi sulla gioia s’è estesa una bruma rinnovata ogni giorno, fonte di acquazzoni sotto cui rischiavo spesso di soccombere, stanco, perdendo il sentiero. Sono avvenute tante cose... molti pianti e molti canti, deserti, terre sovraccariche di frutti, sentieri sul ciglio del baratro, grandi spazi per l’attesa, istanti lunghi un secolo, ore smisurate... Tante cose, tante cose!... Ancora però manca il Segno. Quello dell’ultimo appuntamento, fissato solo per me. L’acerbo fogliame della primavera s’espande. Ormai l’acqua, come la prima brina invernale, si scalda, dolce come le cose dette nel momento del Ricordo di sé. L’estate propizia esce lentamente dalle radici offrendo in potenza tutti i suoi frutti.

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Già sento parlare le voci ammutolite da due stagioni: e dicono il mio nome, quello che conosco io solo, maturato come un frutto precoce nelle tiepide sere d’aprile. Sulla via silenziosa dell’estate avviene un movimento, il crepuscolo vibra di ali che cercano asilo. Finalmente padrone dei pensieri brulicanti come insetti, ascolto il presagio: s’indovinano i sentori dell’estate e il tempo, che corre incontro alla sua inconcepibile fine, mi trascina con sé distruggendo ogni sorta di vani ricordi. Pellegrino d’un secolo già vissuto a tre quarti, cammino verso i miei stessi semi e verso la prima innocenza, riconciliato per un attimo con l’Unità. Oggi, aprendomi la strada attraverso i solstizi, sfioro ancora una volta le frange dell’estate, e dal fremito dell’alba fino all’equatore della gioia sono pronto a nascere ogni giorno.

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VI Strada facendo

Devo interrogarmi di nuovo sul linguaggio che sto utilizzando? Il ritmo e la metrica istintiva cui mi sottometto, l'impatto sonoro della materia verbale, cui do molta importanza, sono compatibili con ciò che ho da dire? La forma è adeguata al contenuto? In altre parole, tendo a dare troppa importanza agli strumenti e a trascurare la musica? Il mio proposito è quello di cercare l'unità tra il vissuto e ciò che può esprimerlo meglio. Naturalmente il risultato è sempre un’approssimazione, un approccio sempre più stretto e mai totale, ma neppure soltanto accettabile o tollerabile. Per di più non c’è il rischio di vedere le immagini sbiadire col tempo? Mi sembra di percepire qualcosa del genere dopo la quinta o la decima lettura... Il rischio è grande e le trappole sono tante, anche se pericolose in diversa misura. Evitare di essere gratuitamente « lirico », non attaccarmi a una sola nota, per quanto foneticamente azzeccata, accettare invece ogni incidenza che tenda a inflettere la linea melodica della frase provocando sorpresa e contrasto, a condizione che la « sostanza interiore » resti leggibile e purché risulti lampante che il messaggio proviene dai paraggi più prossimi alla coscienza. Per il resto, lasciar fluire, lasciar venire, lasciar « cantare ». Il domani sa quali saranno i miei atti. Dall’alto della solitudine, dall’aereo promontorio del Passato, io avanzo ed entro di slancio nell’istante per andare all’unico appuntamento con l’inspirazione del futuro. Incontro dell’irreversibile. Scontro! (Così, se le Leggi sono uguali dovunque, si formano le nove nel cuore delle galassie!) Eterna aratura del Presente che scava il solco rettilineo tra i

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due mondi e vi semina il suo lievito. Terre fecondate dal fermento dell’attenzione più attiva: ne nasceranno opere vive; terre aperte all’azione, cariche di semi e di frutti, terre in festa per la mia nascita senza fine, ...ora in cui comincia il tormento. La vita sale fino al ramo più alto, la vita sale fino al cuore, ma la testa stenta a percepire il vuoto scavato dallo sforzo. Ascolto il termine proferito nel vento della parola. E il mio grido d’uomo, scoppiato improvvisamente al momento del risveglio. Dove sono? Alcune idee periferiche vanno a zonzo in cerca di chi, opponendosi al potere centrifugo del pensiero ordinario, le riporterebbe al Centro. Poi d’un tratto s’apre l’ignoto paese di cui m’è rimasto il ricordo. Partito dal basso, da terre lontane segnate dalle ustioni subite, eccomi arrivato alla soglia di un futuro indicibile... Saprò mantenere l’andatura e compiere, imparziale, altri passi sulla strada dei prossimi secoli? Oggi il ventre fecondo della terra genera l’estate, giunta come un dono generoso nel deserto della mia solitudine. Nuovi passi calpestano il tiepido suolo mentre il grigio del cielo ricorda ancora l’acquazzone estivo appena passato. Alcune sensazioni si risvegliano e cambiano posto dentro di me, creando col loro movimento i ritmi d’un altro poema. Il cielo è come un festino preparato solo per me; una messe di fiori discreti ne orna la volta. Cacciando per lunghi momenti il luccichio dei piaceri ordinari, contemplo in silenzio la grande ombra notturna che mi riempie, simile a un altro cielo. Non sognare più gli appetiti, scordare le impazienze... Lasciando cadere le immagini, costeggiare le forze esiliate da cui, perpetuamente ignorata, emerge la mia sete d’essere già sofferta migliaia di volte! Raggiungere il luogo d’asilo! Cacciato da me stesso fino alle frontiere del sonno, dove m’inebrio di accidia tenendo la coscienza in ostaggio senza riuscire a varcare la stretta soglia della presenza, io vivo i miei alti e bassi... Odore di fieno tagliato

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frammisto ai profumi del giardino: breve lasso caduto in fondo alla memoria - cose ancora irreali. Leggero solletichio d’un pensiero futile subito inghiottito dalle fauci dell’ignoto. A chi dare la mia parte di tenebre per potermene liberare in eterno? Sapendo più di ciò che mi hanno insegnato, starò finalmente per imporre intorno a me il potere d’essere, di cui vengo spogliato in continuazione? E per imporre che abbia valore la spartizione tra noi? Portando l’ineffabile più lontano, potrò un giorno passare, libero, esibendo i miei atti come promesse mantenute, e indicare il cammino? Il puro frammento di coscienza diventato territorio abbordabile riesce a durare, improvvisamente ribelle ai riti abituali che lo fanno sparire. Vivere ormai è una cosa naturale e lascia spazio alla gioia... Finalmente ho trovato l’asilo che cercavo! Il tempo è sereno e tiepido, e in giardino i miei passi aprono un nuovo sentiero nella carne dell’estate. Strano suono di cose dette alla comparsa di un pensiero, corolla subito fecondata dallo spirito... Il ritmo si commuove nel petto, accelera e rallenta: io m’interrogo, scuoto la catena dei pensieri, le parole calano in picchiata come un volo di stornelli lasciando un segno sulla pagina bianca... Bisogna scegliere? No, basta voltare pagina, passare dall’altra parte, andare verso l’altrove, oltre le forme in cui ristagnano la gioia, la tristezza e la speranza, ritrovarmi solo, libero nell’odore dell’estate, di fronte all’innominabile, e misurarmi con lui. Mattino. Dopo che ho preso in mano le mie solite armi, la coscienza esce lentamente dal suo riparo. Chino sulla notte, ascolto i pensieri scrosciare come un acquazzone. Il riscatto non è ancora interamente pagato, devo ancora soffrire. E scegliere. E divorare senza tregua ciò che mi divora incessantemente. Entrare in me seguendo il filo della spada e sostare nel silenzio, lontano dai centri di gravità provvisori caduti uno dopo l’altro nel pantano dell’oblio. Rannicchiarmi nell’ombra ardente e gonfia di segreti del futuro, ombra presente anche quando io sono assente, recipiente magico di tutto ciò che sognavo da bimbo. Quale freschezza improvvisa mi spinge alla fame insaziata di essere, quali

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palpitazioni animano l’emozione cui accedo di colpo?... Pensare dire - essere - percepire: sintesi di tutte le brame depistante. Ma, ahimè, l’impazienza ancora mi stringe, e innalza come un trofeo il suo nome di cortigiana. Sostare un momento. Guardare la bruma che mi circonda, impenetrabile anche a uno sguardo attento: nasconderà l’ultima pagina di una storia che sta per finire, oppure Falba di una nuova èra, i primi movimenti di un’impresa che riempirà l’ultima parte della mia vita, opera di crociato infaustamente smarrito nell’èra contemporanea? Costretto a partecipare alla crociata del nostro tempo, avrò diritto di lodare umilmente la mia opera di artigiano, di proclamare la mia gratitudine verso chi mi ha trasmesso il gran moto all’azione cui sono definitivamente legato? Immerso a lungo nel sonno dei vivi, sento crescere pensieri che si sostituiscono lentamente ai sogni ormai liquidati. Nella moneta d’oro del sentimento, di cui troppo spesso finora si vedeva una faccia soltanto, il dritto s’impone al rovescio. Stroncando l’insolenza degli attaccamenti abituali, ho ricevuto alcune perle di cui oggi devo ricusare l’apparenza ma esaltare l’oriente. (Istanza recente apparsa da poco.) Da questa parte del mondo in cui ancora mi trovo a spiare i segni sulle rive del futuro, cerco il significato e la misura che ho. E talvolta li trovo sui sentieri tortuosi disseminati d’insuccessi e discordie. Che cosa dunque ci attende dietro le stelle? Come interrompere il silenzio della divinità? Talvolta mi sembra di percepire una folgorazione, una corrente carica di una sostanza che mi penetra. Di questa corrente intraducibile, che si potrebbe esprimere solo con Fuso di allegorie, si nutre la parte migliore di me. Nell’alleanza di questa corrente con ciò che io mi sento essere c’è tutto ciò che l’uomo può attendersi: sia ciò che l’uomo è virtualmente, sia le forze latenti incluse nella sfera che contiene la sorgente e l’estuario in cui la Creazione trova il suo fine e la sua ragion d’essere. Vittima della mia stessa storia - poiché sono attaccato all’andamento passionale della mia vita - ormai devo respingere il

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potere delle parole e delle sensazioni fissate nella loro accezione ‘ abituale, e volgermi verso quell’alleanza che, manifestandosi, consacra immediatamente ciascuno degli elementi che mi compongono. Allora ciò che ho scatenato mi supera e io, subendo la presa del « vero conscio », divento improvvisamente capace di cogliere i multipli aspetti del mondo e di acquisire nuove conoscenze e la visione autentica delle cose... Temporaneamente incarnato in questa santa alleanza, sarò giunto nel luogo di me in cui la liturgia praticata genera un nuovo approccio all’accessibile... e anche una parte di ciò ch’essa ha per scopo di magnificare? Vivere un istante che squassi il Tempo. Rendere udibile tutto intorno il silenzio mortale del sonno ed entrare nel Presente di straforo. Onore a chi sta per venire! Scegliere atti e parole tra i frutti ch’egli propone, ormeggiarne i migliori alla coscienza affinché si riposino prima di partecipare alla mia vita, poi lasciare che si allontanino lentamente per guadagnare i territori di libertà in cui agire non è « fare », non è ripetere atti pur nuovi, e in cui le parole, anche se dette e ridette, andranno a onorare altri spessori! E vivere come fosse la cosa più naturale del mondo. Ogni mattino si presentano le seriche ore estive: intervallo piacevole fra le stagioni dello sforzo. Da quanto tempo ormai è finito il roco ansimare del respiro stanco, affaticato dalla mia grande opera di trascinatore! E da quanto tempo è sceso il silenzio sulla terra che mi ospita, un fresco silenzio che regna a turno su tutte le cose. Promessa del futuro riposo. Laggiù nel villaggio i rumori della vita non pesano più della piuma d’uccello trovata in un nido. Freschi odori di muffa assillano il vento, promesse d’estate. In quest’oasi di desideri soddisfatti, quali forze nuove, capaci d’affrontare il dubbio e l’impazienza o d’appianare ogni lite, dovrò forgiare per domani, quando alle mie spalle sarà finita la stagione morta?... E quante volte dovrò ancora accogliere e disfare tutte le cose avvizzite nel cuore degli uomini, spazzare le montagne di ciarpame prodotte dalla loro intelligenza... e braccare l’apolide Conoscenza?

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Perché mai all’orizzonte si staglia già il triste profilo di settembre che preannuncia le nevi invernali? Oh, l’agra gioia di curvarsi su di sé prima di mezzogiorno, quando l’attenzione scende a livello dello sforzo e i pensieri morti fuggono come un banco di pesci impauriti! La fonte sgorga dentro di me, nel profondo, e talvolta emana riflessi d’oro. Allora il cuore e la mente assumono una impareggiabile trasparenza... Il Presente: grano seminato sul rovescio delle colline che sbarrano la strada; è il mio specchio, il mio fiore - o è il frutto maturo dello spirito, promesso a ogni alba della coscienza? Accedo alla novità. Il deserto popolato dalle ombre di mille sogni ricorrenti si chiude. Più prezioso perché raro, il bisogno della presenza cresce mentre svaniscono per sempre le conseguenze degli atti morti e si animano potenze che a lungo sono state follia. Ecco, si spalancano le stanze proibite in cui si poteva entrare solo con la spina nel fianco, si apre la via delle fontane e si presentano le pietre su cui appoggiare la testa. Mi verranno perdonati gli atti eccessivi, i tradimenti periodici, le parole cariche di sogni scambiate per verità? Certamente sì, sempre che io sappia tener viva la fiamma nel focolare dell’istante e scaldarmi alle sue braci - purché, diffidente, mi guardi dalle sue ceneri. Avere a che fare con me stesso: piaghe aperte, rese insopportabilmente dolorose dal fuoco dello sforzo. Paradosso! Piaghe nate dall’effluvio del sogno, dalla tirannia dell’uomo immaginario che porta il mio nome, e cioè da cose irreali che non sarebbero in grado di ferire. Da quando l’uomo immaginario ha fatto naufragio e s’è imposta la necessità di ricostruirlo a partire dal relitto, s’ode lo stesso lamento elevato al culmine dell’istante vissuto. Libero di parlare com’ero prima dell’adolescenza - potrò presto rovesciare senza violenza le panoplie, fermare il viavai delle cose sognate, unire il respiro a quello delle notti e dei giorni, rifiutare i dissidi più costanti con atti da uomo? E veder finalmente guarire le piaghe più lancinanti?...

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Allora cominceranno le opere di ragione della Coscienza. Dapprima come un lieve tocco, un movimento leggero dello spirito, un canto puro dell’essenza sussurrato soltanto per me... Poi verranno i grandi rumori, i traumi profetici simili al lampo di una cripta illuminata di colpo, e le vertigini davanti agli antichi abissi in cui sprofonda la verità. Tagliati tutti i ponti alle spalle, con passo da uomo libero andrò verso il futuro scrivendo in mia memoria le prime pagine della storia del mio destino. Solo il desiderio di essere può liberarmi dal torpore ancestrale in cui mi crogiolo, dall’errore in cui vivo ogni giorno e dal flusso che trascina tutti i miei fremiti psichici. Perché quest’amnesia perpetua della Coscienza? Eppure basta un nonnulla per ritrovare la sovranità: un albero illuminato, un bambino che gioca, un fiore inaspettatamente aperto di notte, un profumo inopinatamente risuscitato nelle pliche del cervelletto... Ma che traccia lascerà tutto questo? Il mio ardore brucerà ogni cosa? No, resterà la forza d’amare. E il suo irreversibile movimento. Finalmente l’ora dei lunghi silenzi dopo lo sforzo è arrivata! Gli ospiti hanno pesato molto quest’anno sul bronzo effimero al quale m’appoggio; talvolta le parole hanno indugiato nella mia bocca, semi raccolti che loro, tornati a casa, dimenticheranno persino d’aver ricevuto! « Loro », « loro » chi? I miei visitatori d’estate, i cercatori di santuari da costruire in se stessi, coloro che bisogna ridestare dal sonno... Sguardi ciechi nella notte, tracce d’impronte cancellate ogni giorno... E l’onda incessante dei pensieri ingabbiati. Ciascuno mi racconta il suo male: e io devo essere nuovo, far sì che nelle parole aleggi il profumo di qualcosa che sboccia. Affinché restino sorpresi, risuoni l’ordine di cambiare, inizi il movimento stentato che consente di elevarsi e poi di parlare; e di uscire dal grande anonimato dell’assenza in cui imputridiscono. Affinché un giorno arrivino a sentirsi « uomini », a liberarsi dalla scorta di nubi, dai cortei d’arcobaleni, dalle fantasticherie che popolano i loro orizzonti, a percepire la breccia aperta nel muro di tenebre dietro cui credono di transumare!

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Basta con questi pensieri! Il calice è vuoto... Avido delle ore passate alle porte del tempio, ascolto le cose parlare e respingo i mormorii del sogno abituale. Presenza, non ho luogo che in te. Nell’istante in cui l’avvenire cede di fronte al presente che rinveste, lo spazio si dilata e inghiotte il Tempo. I lumi mentali non rischiarano. A quei tempi avevo così poco da pensare che compravo libri. Non vedevo il pericolo: ho rischiato d’essere ucciso dai proiettili delle parole. Quando si spegnerà la mia lampada, quando s’abbasserà la verticale delle impazienze e la morte rivendicherà i suoi diritti, allora, forse, fiorirà l’arbusto vivace che ho piantato nel Tempo. La Coscienza s’offre all’istante come l’essere femminile in cui l’uomo si radica. Filtro guerriero trapassato dal dardo, essa contiene una scienza perfetta che cela il segreto in eterno. Ma quello che dice è ciò di cui è fatto quel che nasconde. Basta imparare a ascoltarla. La vita è come un lungo corridoio soleggiato qua e là che passa fra sofferenze contrarie, un corridoio ornato di sogni e disseminato di luoghi deserti. Vi si percepiscono canti e singhiozzi. Io ci ho riso e ci ho pianto sovente, ci ho amato e ci ho camminato, spinto di volta in volta dalla calma e dall’angoscia, dal ricorrente ritorno dei sogni tirreni... I muri conservano l’eco delle mie grida erose dal vento dell’oblio; un pezzetto di cielo azzurro, minacciato dalla notte, mi fa da soffitto.

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Marciare ancora qualche anno e poi, alla fine del corridoio, contemplare l’infinito?... La coscienza è situata nello spazio in cui, nonostante il diuturno vagare, non ci si avvicina mai alle stelle. Uno spazio che ignora la distanza. La coscienza rivela un luogo unico, proprio a lei stessa. La silenziosa veglia dei secoli piantati lungo le strade percorse dagli uomini! Quasi tutti passano di corsa senza vedere nulla, come fuggiaschi, senza notare nemmeno il confine del mondo. La mia vita, che sta mettendo le spighe nutrita dall’humus radioso della terra, è allo zenit? Gioia o dolore, nettare o veleno, amarezza o amore, oggi ella s’offre alla prossima messe, allo spargimento di un atteso raccolto... Ho appuntamento con lei! Promessa di nuove sementi per le terre dell’al di là, raggiunte, Dio solo sa come, attraverso strade misconosciute che passano per luoghi deserti, mi passerà finalmente l’oscuro tormento di vivere? Vita, terra di pazienza, le tue forze s’irritano davanti al freno delle potenze del sapere, davanti ai sogni sconclusionati dell’immaginazione in cui mi crogiolo. Oggi la mia ricerca è diversa: lo sforzo fecondo sta nelle mie mani, il vero è animato dalle ardenti memorie di esperienze passate, si vedono chiaramente gli assurdi sviamenti... La mia vita improvvisamente si libera dalle ombre e la bocca si libera dal linguaggio; iniziano migrazioni che aprono la strada ad altri cicli di pensieri. E là dove poco fa fumigavano le braci mai spente del nulla, ora si leva una bella frescura. L’arte di « vivere » - aspetto essenziale della nostra meta - può nascere solo da un preesistente bisogno reale. L’esempio non basta. Cos’è che cancella senza tregua il presente?

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Viandante seduto per un momento - il tempo della vita davanti alla sorgente spesso esaurita in cui s’indovina, semicoperta dal muschio, una pietra che porta incisa la parola « AMORE », saprò saziarmi della mia sete? Il futuro è un diluvio di cui la Presenza è l’Arca. Riuscirà Noè a salvare definitivamente la Creazione? Quali parole possono esprimere l’anima di questo paese? Ogni parola che vorrei utilizzare è già pregna di qualcosa, e ogni volta sono sorpreso di scoprirne il contenuto: immagine esatta di ciò che sto sentendo nei confronti delle parole e che finora non avevo percepito. Talvolta vi si mescolano alcune sillabe riluttanti, proprio come la suola posata su un sasso appuntito prende parte alle peripezie del cammino. Sul pentagramma le parole s’insediano e danzano, i suoni s’allungano in lunghi stridori come un canto di cavallette. Raccontare la Terra, il prato e la montagna, paese d’ombra e di freschezza, affinché riviva il gusto dei tempi anteriori, l’odore di humus che sotto il fogliame aleggia come un profumo di carne emanato da inediti sillabari. Il testo si tesse a partire dalla segale e dal frumento, dall’avena leggera e dall’erba medica, dai fiori schiusi alla sommità di lunghi steli flessibili, dal peso dell’aria sulle curve delle colline, creando parole di ferro, parole di bronzo, parole tenere e dolci posate sull’area soleggiata della pagina bianca, e si forma anche a partire dalla linea delle alte pietre verticali, tempio del silenzio più puro che resiste al vagare impaziente delle nuvole, a partire dal mezzogiorno splendente, dalle ore serali già piene di ombra... e da tutto ciò che colma lo spazio fra due mondi. Avendo compreso il testo, l’anima del paese esala nella nuova scrittura innestata per sempre sulla realtà. Scopro sorpreso che in questo momento la parola per me più preziosa e più importante sotto tutti gli aspetti non è « AMORE » ma « SILENZIO ».

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L’uomo di paglia e l’uomo di grano! Senza il primo il secondo non ha certamente alcuna possibilità d’esistere. Ma saprò mantenere l’ordine di successione? Paglia di erbe e di piante amare, l’uomo degli istanti sordi e ciechi, l’uomo cacciato via da se stesso obnubila il raccolto e compromette il torrente dei chicchi. Paglia degli automatismi indispensabili ornati dal corteo dei sentimenti domestici, paglia immensa delle abitudini..., paglia secca delle parole, paglia umida delle cose descritte dalle parole, di tutti i bisogni, di tutte le immagini riverite sin dall’infanzia, di tutti gli appetiti di gioia, di tutte le credenze denunciate mille volte, paglia dei sogni notturni e dei sogni da sveglio, degli amori dimenticati, dei nirvana immaginari e degli abissi sfiorati, paglia smisurata di tutta una vita irresponsabile... Quando s’innalzerà l’alta fiamma che la divorerà? E perché esito tanto a sfregare il fiammifero? La presenza è fuori dal tempo attuale. La presenza non è di questo mondo. Però « è », senza ombra di dubbio. Spesso, quando mi viene il bisogno di scrivere, non so come si esprimeranno le impressioni da me ricevute né con quali parole o immagini le descriverò, ma so perfettamente, in compenso, come non devo parlarne. Queste brevi note, scritte di getto, vorrebbero esprimere ciò che non si può comunicare con la solita costruzione verbale, capace solo di comunicare il dicibile. Infatti vorrebbero esprimere qualcos’altro che dovrebbe venir fuori dal modo in cui le cose sono dette. Come succede nell’arte, che non è il linguaggio di ciò che si dice, si vede o si ode abitualmente, ma l’espressione di qualcosa che si può percepire solo per tramite suo. Non pretendo di riuscirci egregiamente, tuttavia non desisto da questi esercizi di ventriloquio!... Ascolto attento i minuti rumori di cui è fatto il silenzio: appena

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una schiuma leggera sulle onde del tempo... Attento anche al silenzio perfetto: scorrimento impalpabile delle linfe vegetali in vasi invisibili, moto impercettibile della vita nel cuore del seme, presenza sorta al centro dell’essere. Tutte cose che crescono instancabili in uno strano tumulto silente nel quale si colmano i vuoti dell’angoscia saliti dallo scorcio del mondo, nel quale si aprono le brecce che danno accesso all’io presente e spariscono per qualche tempo i territori della molteplicità... Avrò accesso al luogo d’asilo stabile e immutabile, alla terra di maturità dalla voce di bronzo e dalle parole di pietra, luogo di promesse e di silenzio in cui si raccolgono le particelle verso le quali la morte è impotente? L’intelletto e il sentimento non abitano gli stessi paesi, non sono bagnati dallo stesso fiume e non producono le stesse ceneri. E ne soffrono... I continenti dei sofismi e le terre ardenti del poema che si è fatto vita restano troppo spesso disgiunti. Con la bocca riarsa, non smetto mai di attraversare il deserto che li divide, cercando, nei momenti di debolezza e di gioia, le possibili confluenze. Legato più spesso - e contro la mia natura - alle lucide terre della ragione, ho vissuto a lungo una vita da schiavo. Poi, improvvisamente, ho scoperto che, avendo recitato continuamente una parte, sono diventato il dramma. Dimenticare i territori in cui nascono insieme l’infelicità e l’amore: è ai confini del deserto infatti che sbocciano i fiori più belli e più profumati, là dove finisce la strada che viene dall’altro continente. Ed è là che devo deporre i miei costumi di scena e ritrovare la purezza del tempo che fu. Intelletto smisurato, tu che pecchi instancabilmente contro il silenzio e che versi sul mondo l’inestinguibile luccichio del linguaggio, saprai finalmente lasciare il posto a chi regna sull’altra terra, e anche a ciò che sfugge alla durata e non è affatto limitato dall’estensione?... E tu, sentimento caloroso, tu che nella solitudine ti dedicavi a nutrirmi di sogni, al ricordo delle porte che si sono aperte al momento dell’adolescenza saprai accogliere di nuovo la preghiera, rinnegare l’assenza e riunirti all’intelligenza affinché rifiorisca l’immensa distesa del deserto?...

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III Alti e bassi

La lama è entrata profondamente e m’ha fatto assai male... Perché c’era proprio bisogno che il colpo venisse dal più amato? Che sorpresa, che colpo inatteso! Ma non è nell’ordine delle cose che chi ha dato di più riprenda di più? Ora mi tocca partire alla ricerca dell’errore commesso, ascoltarmi, comprendere, riprendermi, annodare altri legami e verificare che il grande affetto cresciuto pian piano rimanga. Ma stento a convincermi che l’accaduto sia giusto e che tutto possa restare come prima. In compenso ho la certezza che non c’è alcuna colpa da perdonare. Cercare di nuovo l’equilibrio, ritrovarmi quale sono e riuscire a presentarmi ancora, semplicemente, davanti agli altri soltanto col mio nome d’uomo... Oggi è una bella scommessa. Ah, come indugia in me la tristezza! A causa di tutte le cose cui ho fatto torto. E di quelle più pure, cui una cecità incoercibile e dolorosa m’impedisce l’accesso, alle quali non ho fatto giustizia. Tutte cose frementi, sepolte in fondo al cuore degli uomini. Amarezza davanti all’enigma. Dov’è cominciato l’errore? Forse ho elogiato eccessivamente i doni ricevuti. E ho mescolato al sentimento un incorreggibile lirismo: una sorta di belato degradante. Con F., è vero, non bisogna cominciare dalle parole. Le parole contengono qualcosa che non si trasmette, le parole non possono unirsi totalmente al cuore.

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Tuttavia, se sapesse quante volte ho parlato solo per lui! E quante volte ho detto tante parole perché in lui prima della morte sboccino i fiori di stagione, quante volte ho spiato sulle sue labbra il segreto ch’egli palesemente contiene. E spesso ho gioito d’averne riconosciuto la promessa... Se sapesse in quale punto della mia coscienza nascente vibrano le armonie con le quali lui sa rivestire i poemi, e come talvolta io sia rimasto ad ascoltarne il silenzio più che la musica! Come mai un giorno ho smesso di rispondere alle sue aspettative? Cosa non ho fatto che avrei dovuto fare, cosa non ho detto che avrei dovuto dire, cosa non sono stato che avrei dovuto essere? O ancora, cosa ho detto che avrei dovuto tacere? Sul mio corpo invecchiato, settantatré anni pesano meno dell’interrogativo che mi rode e della scoperta che oggi forse ci separa un’oscura distanza... L’intero edificio ha subito una scossa, l’uomo e la bestia hanno entrambi tremato. Ma bisogna che la ferita sia fertile: già è riuscita a far sì che una parte del mio spazio interiore, finora indifferente, abbia smesso di esserlo. L’uomo è triste, ma il seme ch’egli contiene - e che sta per marcire - è felice, qualunque cosa succeda. Allora, forse, un giorno il canto riprenderà. Kyrie eleison! In noi da qualche parte c’è sempre una luce che non vediamo. Si trova spesso nella parte non illuminata e nutre l’ombra che a poco a poco c’invade. Fino alla morte. Quest’ombra pericolosa è aumentata. Per dissiparla cerco di scrollare il futuro ma, ferito nel vivo, mi sento debole e - stupore! - non credo più nel domani. Quando riprenderò a spigolare speranza? Cacciato dal riparo dell’estate, mi tocca entrare pian piano nell’anima dell’autunno. Le foglie tremano, impaurite: presagiscono già la fine? Il pipistrello ha smesso d’intrecciare merletti nelle tiepide sere d’estate. Oggi la dura stretta del vento si unisce allo spirito, mio convivente, che sale dentro di me controcorrente come una linfa. Autunno! Riprendere tranquillamente la lettura della mia vita, rimetterne insieme i frammenti dispersi nello spazio, ricostruire l’uomo

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spodestato per un momento. Sentire la domanda esprimere ciò che è, poi sentirla diventare ciò che sono. Rifare l’inventario temporaneamente svanito dalla memoria imbevuta di sofferenza. Una sofferenza che, come Toccano, si ritira lentamente due volte ogni ventiquattr’ore. Di nuovo si deposita in me il sapore della vita. Come il tenero sguardo di una civetta emersa dal cuore della notte. Sapore che sale pian piano riprendendo posto nell’amicizia delle cose che mi circondano. Per qualche attimo posso di nuovo indossare gli attributi recentemente acquisiti. E ritrovare la vocazione pressante per le forze che riempiono il mondo. Allora cos’è che per qualche tempo mi è stato infedele?

È più giusto sciamare che accumulare miele.

Il corpo, impareggiabile vaso in cui si consumano energie ignorate e si mescolano flussi di correnti diverse - sangue, aria, spirito -, luogo di passaggio tra Dio e il nulla, intersezione di due mondi, seme e frutto! Uomo, tu che, invaghito del corpo, il cielo rimiri, ti resta poco tempo per nascere... Ascolta l’opera che si fa in te e cerca la nuova carne in cui passerà la traiettoria del tuo futuro. Uomo invaghito del corpo, rammenta che il corpo non guarirà mai dal male della mortalità, che non lascerà la riva situata ai confini della terra, e ricorda che ti sei dato l’obiettivo di estrarne l’Ospite divino... L’Ospite esiliato nel corpo. Ricordalo, tu che il cielo rimiri. Questi movimenti leggeri dentro di me che il Tempo trascura, mentre la Morte in abito nero mi attende alla soglia dell’occidente! Visitatore periodico, il narratore si leva: Pio si fa sentire, trovando parole per le cose che si muovono nell’intimo di me stesso... Salgono alle labbra lodi e preghiere. E istanti mai vissuti in cui la gioia s’accresce.

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Risveglio!... È contro la Morte che l’Essere prende provvedimenti. Esso cerca la strada nel santuario del corpo e apre vie che portano lontano le promesse del mio destino. Ma cosa sono queste urla che m’aggrediscono? Quali fermenti sono emersi d’un tratto dal silenzio? Le fiamme dell’azione mi ripiombano nell’abisso. La pigrizia cerca la propria ombra, l’istante, attraversato da brandelli di antichi sogni, si vela, e scorrono pensieri che riempiono l’effimero e popolano lo spazio circolare che mi trascina nella sua rotazione. Abbandonato agli usurai del sogno, sento appena battere il cuore. So ancora di essere un uomo? Cercatore dalle fragili mani, come farmi scaldare dalla febbre, come ottenere che un futuro già deciso s’avveri e mi ricompensi di un’assidua temerarietà? Oserò ancora vivere e andare fra le contraddizioni respirando l’oscuro profumo dei prossimi disvelamenti? S’irritano alcune forze davanti allo sforzo e lo rifiutano. Sono pronto all’impresa? Saprò riconoscere i territori del prodigio alla svolta del sentiero, vedrò scaturire la buona novella, saprò trovarmi di colpo al di là dell’umano? Saprò espormi di nuovo allo sguardo della Terra per usufruire del suo irradiamento, saprò celebrare la festa ardente dell’amore, inventare una presenza estratta dal nero sonno in cui palpitano i sogni, abitare la scintilla? Imparerò ad ascoltare dal mattino alla sera il clamore che si leva nello spazio, a rispettare il rituale troppo spesso negletto dell’essere in divenire? La verità ancora mi attende. Perché talvolta mi sono svegliato di notte scoprendomi viaggiatore dal crepuscolo all’aurora e ritrovando di colpo il flusso delle antiche perfezioni? (Sto parlando della notte che è in me, di quella che sa cancellare la gioia, l’ira e le sofferenze ordinarie, e che cancella anche la luce e la coscienza presente per un istante.) Devo risvegliarmi, affinché la morte smetta di usare la mia vita in tutti gli istanti di sonno che io chiamo « esistere ». E l’ora di non rotolarmi più nella cenere dell’esistenza e di portare con più costanza dentro di me l’essenziale della vita.

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Come posso accettare con tanta facilità di perdere, anche solo per un momento, l’opera che mi è costata tanti sforzi, veglie, sacrifici, parole, e tutte le cose già utilizzate che vegliano in potenza nell’immensità del potere di essere? Per questo occorre una base, e la base è il corpo. Il corpo mortale onorato finora solo per se stesso, il corpo che è interessato solo a ciò che lo sazia, come le pietre di un Tempio erroneamente onorate e servite dal Tempio stesso! Eppure il corpo quaggiù traccia il segno delle cose: pur guastandosi per usura, il corpo non è solo una fragile massa di ossa, di sangue e di carne palpitante... Moneta di scambio indispensabile al momento dell’agonia, anche il corpo appartiene all’eterno. Nel tempo che mi resta riuscirò ad abbellire la mia dimora, pur sapendo che non è l’essenziale - benché l’essenziale vi sia contenuto - e saprò coglierne il significato in maniera diversa ristabilendo la giusta gerarchia delle cose? Può darsi. Lentamente mi sento essere colui che mi realizza... « Essere »... Succederà il giorno in cui avrò finito di « divenire ». Ma per arrivarci devo fare buon uso del domani. Oh, le vane parole che talvolta mi escono di bocca! Venute da questa parte del mondo. - Ero ancora perduto dietro le brame del sapere -. Pensieri che s’affollano riversando parole opposte che vibrano come sottili foglie metalliche nella bufera. O malattia del discorso! Ritrovare innanzitutto l’origine del silenzio. Spiare l’istante in cui si manifesta l’essenziale. Saperlo riconoscere: il difficile non sta forse qui? Capita spesso di prendere per luce d’amore ciò che è soltanto uno sterile incendio, di vedere la trasparenza là dove un triplo bastione ci separa dalla realtà e di gioire davanti a riflessi sporadici come davanti a un poema inesauribile. L’essenziale è di bronzo; nella vita quotidiana amo solo ciò che lo fugge. Mai nominato e compagno dei più lunghi silenzi, basta onorare l’istante per sentirne la potenza. In tal caso mi alzo, mosso da un fremito nato alle frontiere della

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presenza, ronzio d’api avvolto nelle brume del tempo, nembi odorosi venuti da un remoto e infaticabile portatore di saggezza... E la presenza s’accresce di ciò che vince, della massa che le resiste, dell’inconfessabile amore che porto ai miei nemici... La Verità, che cresce lenta come un albero, sorge dall’essenziale, parte legittima dell’eredità che si esprime fuori dal tempo perduto. Signore, ricordati che abbiamo bisogno di un al di là che ci accolga... L’autunno si sfoglia pian piano del suo mantello di porpora e d’oro. Nello scarico delle fontane alcuni rivoletti d’acqua meditano sulla via da seguire. Migrazione d’uccelli che raggiungono altrove i confini dell’estate. Autunno, stagione della morte! E il momento propizio per esplorare le stanze proibite. L’impazienza brucia davanti alla promessa delle caduche stagioni ammucchiate nel futuro. Domani unirò la mia gioia ai tepori delle primavere a venire? O, al termine di una primavera, morirò anch’io? Che importa... Le parole dette al calar della sera suonano diversamente, come fossero già toccate dall’ombra. Non è così che saranno dette negli ultimi giorni, quando cesseranno le sofferenze e le divisioni? Vado in giro nei campi a seminare sotto le stelle... Perché dovrei stupirmi del fatto che molti semi si perdono nelle ripide scarpate delle coscienze sepolte sotto la cenere? Considerare soltanto le parole che trasformano la trivialità in luce e il seme in un albero che sfida il vento. Indicare la giustizia e non le conseguenze delle giuste parole dette. Condurre alla libertà e non attenderne il beneficio. Essere la chiave e non colui che apre - né colui che entra in se stesso scassinando la porta. Oggi non cerco più oro né onori. Cerco il nocciolo, cerco la scintilla. Nel letto dei fiumi che mi attraversano, cerco il fermento fecondo che faccia salire la febbre d’essere. Giacimento di opere nuove sepolto nell’intimità più profonda dell’uomo, è

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là che si dirigono i miei passi, verso i paesi d’altrove nei quali anch’io ho ricompense e onori. La sofferenza mi radica. Solo quando mi strappo alla felicità ordinaria divengo. Sono ormai più di quattro anni che A. è dipartita, ma i frutti fecondati da lei continuano a maturare perché non sono solo frutti della mente, bensì frutti che hanno ricevuto una carica destinata a sbocciare in futuro, perché sono capaci di nutrire numerose generazioni successive. La sua voce maschile, leggermente colorita dalle sonorità della sua terra bearnese, mi risuona vicina, e spesso l’interrogo ancora! Ogni volta la risposta è come un’insurrezione in me stesso, e ogni volta al contempo fa maturare il mio grano. A lungo ho fatto domande solo per sentire il rumore delle parole, ma oggi sono pronto a dire parole il cui senso ha un’altra natura. A. mi ha fatto ciò che sono, al di là di ciò che ero allora: uomo in divenire al di là del discepolo... Per riconoscenza, un giorno mi toccherà essere divenuto. Soffrire d’amore è pur sempre amare. Quando svanisce, la coscienza si rivela anche mediante l’assenza. Ciò che discende dalla coscienza reclama la coscienza. L’uomo che ha coscienza è più della coscienza perché la irraggia. Le esperienze vissute diventano più importanti proprio come i ricordi, con la notte dei tempi, diventano più belli.

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Chiuso nella prigione dell’esilio, potrò cominciare a celebrare l’ascensione verso la coscienza? I miei passi lenti rompono l’attesa della crisalide, la presenza si leva e viene a incantare la notte. Ma perché ho ricevuto questo travestimento da uomo? E una ricompensa? Una penitenza? Una missione? Dovrò divorare me stesso quando, trovata finalmente la chiave, lotterò per Dio? Sì, nei tormenti della digestione, la Persona subirà la muta da cui nascerà l’Uomo che è in me. E la sete verrà dimenticata, ogni sorta di sete, ogni sforzo, ogni sterile sfinimento... E io griderò la mia riconoscenza! Questa notte ho sognato un uomo immobile sul sentiero - sul mio sentiero. Dopo aver cominciato a scavare, l’uomo s’è fermato restando pensieroso davanti al lavoro interrotto lasciando l’attrezzo posato al suo fianco. Temendo di non poter proseguire la strada, gli ho chiesto i motivi di quel comportamento... - Cosa cerchi nelle viscere della terra e perché a un certo punto ti sei fermato? - Ho scoperto, - mi ha risposto, - che le domande degli uomini non hanno senso, che la loro saggezza, anche la più elevata, è solo una tappa e che tutti devono scavare in profondità per trovare ciò che anch’io sto cercando: la coscienza. Dopo non c’è più bisogno di fare domande. A quel punto ho visto che l’uomo immobile del sogno aveva il mio corpo e il mio viso. (Questo è proprio il sogno di ieri notte: qui mi limito a riportarne il ricordo e la traccia durevole che mi ha lasciato.) Dal silenzio della Coscienza al continuo alterco con la realtà: questo il percorso che oggi devo proporre. Sottrarre continuamente il mondo del sogno alla sostanza che il sogno usa per regnare, alternare le soste feconde in cui di volta in volta il sentimento risplende o il flusso della respirazione dirige verso la coscienza le impressioni del mondo vivente, ascoltare a lungo il rumore del sangue, occupare lo spazio preparato per ricevere il messaggio: questo il programma della via da percorrere. Presenza, che tardi a venire tra le due porte dello sforzo - in

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fatti può comparire solo nell’intervallo tra l’inizio e la fine dello sforzo... Presenza, linfa dell’Uomo sbocciato alle frontiere del desiderio, freschezza e conoscenza dell’istante che lascia in me l’impronta e il gusto dell’uomo interiore che solo allora io sono... Il sudario diventa una mascherina leggera. Una maschera che ancora mi nasconde la faccia. Ma è ora di scoprire il volto dopo averne tanto parlato. È strano che negli ultimi anni la parola « giardino » - e tutto ciò che contiene - abbia assunto tanta importanza per me! Ordine, misura, armonia dei colori e dei limiti, sito immemorabile di una presenza calma, il giardino emana freschezza a uguale distanza dal sole di mezzogiorno e dall’ombra propizia della sera. Giardino... una parola oggi più lunga che leggo con occhio nuovo. L’avvenire si dissolve nel giardino delle mie soste, ascolto la parola dire ciò che è - e ciò che dice è come se la morte mi avesse concesso un rinvio! Una linfa bagna i sentieri che ci attraversano insieme. Corrente ritmata dalle stagioni, il mio respiro è legato al gesto che sottende. E ora so nutrirmi col polline dei fiori. Il futuro è il materiale di cui un giorno si servirà il Presente, che in una certa misura potrà costruire ciò che gli pare. Tutto dipenderà da chi regna quando arriva il futuro. Il conosciuto è forma, la conoscenza parola, colui che conosce regna su un certo livello di essere. La realtà è al di là. Le parole non creano l’evento: lo descrivono o lo tradiscono, ma l’evento non è mai mentale. Intaccare la notte... Ci riesco abbastanza? Il lavoro su me stesso è terminato? Ogni tanto me lo chiedo.

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Sono ancora capace di guidare il flusso dei pensieri restii, di padroneggiare le espansioni emotive che mi faranno rifiutare la prova del domani? Non mentire più alla vita che mi viene offerta. Riconoscere chi nasce e chi muore, resistere alla fatica del Tempo esorbitante, sfuggire alla magia delle forme rotte dal sogno, assumermi la mia parte d’esilio... Spiare il Tempo, poter essere la risposta quando il Tempo crede di essere l’ultima parola. Vincere l’inerzia della persona; discernere il fango e la luce per separarli... Oh, farla finita con lo sguardo pesante e col dolore turbolento che torna, mentre avevo già conquistato la pace all’inizio dello sforzo! Tuttavia lo specchio mi rimanda all’istante l’immagine di un viso vivente. Convincermi definitivamente che la Meta si confonde con la Via seguita e che, fino all’ultimo giorno, sarò in marcia. Non per raggiungere la Meta, ma per gioire della sua magnificenza. Affinché si dissipino le nubi estese che ricoprono la mia vita. Cessando d’essere sia ciò che non sono, sia un fardello per me stesso, la vita sarà semplice, naturale, fine a se stessa. E già così? Sono finiti da tempo i preparativi della traversata... Ho costeggiato tanti abissi, ho incontrato un tal numero d’implacabili ostilità che spesso ho dovuto imporre col pugno e col dolore il filo sul quale iscrivere le mie parole. Ubriaco d’impazienza, oggi cammino verso la frontiera al passo delle mie certezze definitive; piegato dalla pressione delle prove, subisco la spietata alchimia che ho insediato negli spazi indelebili del mio essere. E resto impavido davanti all’inflessibilità delle sue leggi. L’aria penetra in me come acqua feconda che s’aggiunge al silenzio. Unita alla mia volontà diventa lavoro di semina. L’aria penetra nei multipli frutti ch’essa produce: dall’opera delle mie mani fino al suono chiaro della risata - senza omettere i gloriosi cantici del pensiero... Così, ricco di alcuni semi dischiusi, incedo con passo lento insegnando la spiga per messi future. Messi che non vedrò perché matureranno dopo il crepuscolo. Ma fino a quel momento io,

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chiuso nei rari domani che mi restano, ma libero dalle mie gabbie, proseguirò il cammino tra fiori olezzanti, scortato da farfalle che danzano in volo... L’aria penetra in me lasciandomi il suo profumo. Il Lavoro mi ha bevuto, assorbito come la carta assorbente prosciuga l’inchiostro. Su di me ne resta la traccia, come una scrittura che mi dà significato. Tuttavia l’inchiostro è indispensabile anche se, come il corpo e l’essere psichico, è destinato comunque a sparire. Parlare dell’Insegnamento significa suscitare la sete. Infatti non sono le parole che insegnano, ma gli atti. L’uomo non si disseta vedendo la vigna. Se parlo d’acqua chiara, la sete diventa arsura; se parlo di alcool, sorge un mondo a partire dal fuoco dell’alcool. Ma l’Insegnamento si trova nella sete stessa. Se parlo dell’Insegnamento in un certo modo, do a chi lo riceve sia la sete che il dissetante. E lo faccio dissetare con ciò che gli crea la sete. Uno sforzo ogni giorno per estinguere i sogni di cui mi compiaccio e per tirar fuori dalle paludi gli atti che mi costruiscono! Lo sforzo vale ciò che costa per farlo. Il suo valore ripaga non solo l’abolizione dei sogni e la realizzazione degli atti, ma pure il fatto che m’aiuta a diventare me stesso. Lo sforzo scava un passaggio dentro di me fino al punto in cui si raccolgono le energie vagabonde. Sul bordo così scavato da cui esse entrano, scorre la mia volontà nuova che le controbilancia. Io cosa sono prima dello sforzo? L’immaginario è la realtà del momento, poco dopo smentita dall’evidenza del risultato. E svanirà lentamente la carezza dei ricordi... Lo sforzo libera l’ignoto che è in me. Scatena l’allerta e si rende subito conto dell’interiore. Immediatamente cala una rugiada sulle successive pianure che lo sforzo scopre e feconda. E si disperdono armonicamente i territori che un caos manteneva in frammenti separati. E a questo punto che comincio a guarire dalle piaghe del Tempo: le parole s’allontanano, sfumano all’orizzonte, e io mi

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ritrovo sul fertile e caloroso tragitto della mia vita. E dimentico il riscatto da pagare. Cosa occorre aggiungere all’atto di mangiare per conoscere il gusto del pane... e allo sforzo - che è solo fatica - perché sia qualcosa di più dell’abbozzo iniziale di ciò che mi fa crescere? C’è un tempo per il silenzio, e c’è anche un tempo per la genesi... Impastare la materia affinché abbia un senso, nutrirla di pensieri e della mia carne malgrado la minaccia delle immagini caparbiamente ossessive. Cessi il tempo in cui la vita era solo una parvenza di realtà, l’ombra dei germogli che un seme ha cominciato a produrre dentro di me, il tempo senza peso ancora vuoto del senso delle cose. Finisca questo tempo, e tutto diventi subito opera. Integrarmi al creatore oppresso dall’immaginario, guarire dalle inutili trapanazioni che il mio cervello subisce in perpetuo, chiudere le camere che rimandano l’eco, ritrovare i giorni risparmiati della preadolescenza e ricevere finalmente la chiave del labirinto. Forgiare con le mie mani contraddittorie la nuova sostanza a partire dai materiali vacillanti del Pensiero, impregnati d’un tratto dall’alcool del sentimento... Allora la vita diventa un piacere da amanti. La successione d’istanti fugaci crea l’illusione del Tempo. Dov’è quindi la realtà, « l’immutabile » - ossia ciò che non si muove -, colui senza il quale non si potrebbe percepire la successione d’istanti? Lo si può percepire solo nell’interrogativo che mi pongo riguardo al « presente »: un istante che passa in un lampo e che, quando cerco di vedere da dove viene o dove va e non trovo inizio né fine, mi dà la sensazione di una realtà atemporale che esiste necessariamente in quanto senza di essa non potrebbe esistere il « presente ». Ma perché attardarmi in questi luoghi elucubratoti in cui penso esclusivamente a catturare un’avventura che mira a strappare l’opaco velo della Realtà?

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Resistere alle ondate del futuro che s’infrangono a ogni istante. Camminare. Entrare nell’età della luce con passo da adulto. L’alba immensa delle mattine mi riceve nel suo spazio, contiguo alle ricche ore in cui, dopo essermi a lungo cercato, finalmente mi trovo e ne sono ricompensato. Il giorno mi apre le pupille, e io mi abbandono alla complicità della « presenza » riaffermata dentro di me. Poco dopo aumenta l’impazienza. Eccomi pronto a una lunga giornata d’assenza sulla sterile riva dei pensieri ossessivi, litorale indifeso che percorro a piedi nudi, avido della freschezza ormai perduta dell’aurora... In seguito salgono le ombre. E talvolta la luna risveglia dentro di me ciò che ancora è assopito... Prendendo la coscienza a due mani sento l’infanzia salirmi alla gola. Ed ecco che, alle soglie della notte, l’alba riluce di nuovo.

Tutti gli uomini, anche quando ne sembrano ben lontani, combattono e muoiono per ciò che amano. L’amore non ha limiti. Il calendario: cloaca in cui palpita il futuro, pronto a saltarci agli occhi in trecentosessantacinque balzi diversi. Per ora, rintanato all’orizzonte a custodire il suo segreto celandosi alla vista, esso è, nel cuore della notte, come un passato che non è mai avvenuto. Cosa andate cercando nel rivolgervi a quelli cui pretendete d’insegnare? Non vi capita per caso di domandare che vi facciano credere d’aver ricevuto qualcosa da voi? È un libro d’immagini quello che prende forma man mano sotto la mia penna. Un libro d’immagini ad uso di alcuni tipi d’uomini, rari, non sempre sensibili alle raffinatezze che talvolta sorgono dalla corrente, e anche limitati a certi interessi. Ma non sempre coloro che s’interessano alle cose di cui parlo apprezzano il linguaggio allusivo e la metafora: quindi saranno assai pochi i miei eventuali lettori. Cionondimeno... Quella specie di lampo che proietto sul

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mondo percepito s’avvicina più al cinema che alla prosa poetica, e forse al lettore basterebbe una certa disposizione interiore, simile a quella indotta dallo spettacolo, per gustarne contemporaneamente la sostanza e la forma, le parole e la musica. Ma in definitiva tutto ciò non è forse più vicino al lavoro del regista che a quello dello sceneggiatore? Un regista la cui opera non è ancora realizzata... Ecco l’accusa che certamente mi verrà mossa, sempre che qualcuno s’azzardi a prendere conoscenza di questo brogliaccio. Sotto quali nuove spoglie appariranno i germogli finora di marmo? Oh, lo sgretolamento delle opere morte, perdute all’incrocio del Tempo! Oh, lo stiracchiamento dei nuovi pensieri istigatori d’altri costumi! L’attesa si stupisce spogliando il presente dalle conoscenze velenose. Sposare finalmente le dispute, salire alle creste del passato raccogliendo semi perduti e sogni finora immobili. Di colpo la parola è nuova, e nel gran levarsi del secolo che mi viene incontro io trovo salvezza in ciò che sento dire da essa. S’alza improvvisa davanti a me la viva immagine della mia forza... Fonte di ogni crescita emersa dal cuore delle stagioni morte, in preda alle sofferenze della creazione risalgo la corrente di un cielo in fuga e i miei passi s’allontanano dall’abisso. Venuta la freschezza sul versante interiore dell’essere, con la trachea aperta e i polmoni brinati dai primi geli invernali sento dirsi brandelli di parole vere, ma piene d’ombra; e cercando la strada nell’oscurità, cammino verso il bel paese dell’infanzia, paese da riconquistare. Inverno, più svelto della gioia, tu che vieni dalle porte aperte del Tempo a prodigarmi il tuo astio periodico; io, freddoloso e sottomesso alla tua costante gravitazione, dovrò subirti ancora! Piangendo i rituali estivi ormai inaccessibili e le immagini piacevoli della memoria, che ne sarà di me nei tristi giorni dell’imminente stagione? Fuggendo la scintillante bigiotteria dei ghiacci e delle brine gelate, e la magia delle nevi ancora increate ma già presenti nei sogni di Natale, dovrò significare di più. Ostaggio del freddo,

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dovrò mantenere lo sguardo sulla distesa delle nevi scese dalle cime più alte, ma dovrò anche dividerlo affinché un’altra parte dell’universo, quella interiore, ne sia illuminata. E con animo equanime avanzerò... chissà, forse fino alla prima mia primavera. Dismettere infine i costumi di scena della Persona, usati, stracciati e miserabili, a costo di restare nudo. Levare le maschere, deporre gli scudi pomposi e i cuscinetti protettivi intrisi dal sudore di agonie provvisorie. E le medaglie, e i trofei, e i doni adatti allo scambio di sontuose inutilità. Confermare la promessa di rendere tutto, anche le cose usurpate più segreta- mente... Varcare infine la soglia della mia dimora: ESSENZA - presente ai confini dell’oblio; ESSERE - in preda ai travagli del parto benché concepito dall’eternità. Subito ebbri della loro legittimità ancestrale. Immobile e silenzioso nel cuore della mia metamorfosi, regno su un frammento di spazio ai limiti della realtà. Mistero dell’evidenza. Nudità dell’Essere. Relatività del Tempo. La linfa dei pensieri fa maturare le parole, v’incarna l’idea. Animato da un ritmo universale, il corpo si libera per un attimo dalla solita schiavitù; allora in me il poema diventa fertile e ciò che l’Uomo dice diventa Parola. Ci vorrà una notte d’inverno, con tutta la sua tristezza, per risuscitare l’interminabile battaglia cui sono condannato? Cercando di intravvedere un segno d’intelligenza, non smetto di braccare la vita - la mia vita -, ma nello specchio vedo soltanto la derisione del mio sorriso invecchiato... Non osando più correre il rischio di entrare nell’ombra e cercando il passaggio segreto verso l’io introvabile, tanto a lungo sognato, m’imbatto nelle porte sprangate del desiderio. I pensieri fremono sull’orlo del baratro e fluiscono uno dopo l’altro, incapaci d’assorbire la sofferenza... Io ci soffio sopra, ma loro s’involano come i soffioni del tarassaco, e si perdono nelle ombre di un cielo imprigionato.

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Poi, al termine di un lungo cammino, si popolano i grandi spazi interiori e, nella gloria dell’istante d’un tratto più denso, il relitto della sofferenza sprofonda nelle acque del porto. Suona l’ora del battesimo per un’altra speranza... L’imponderabile sostanza mi penetra e diventa corporea unendosi al complesso sistema che, temporaneamente, porta il mio nome. E strano come il supporto della mia materialità le vada incontro. Pian piano ne ho la visione e la sensazione, senza peraltro servirmi di ciò che di solito mi fa vedere e sentire. Quali forze, attraversando gli spessi strati dell’etere, mi hanno fatto l’insostituibile regalo della vita? Ma chi ha controllato - o mescolato - le referenze durante il cataclisma della mia concezione? E chi ha disegnato in chiaroscuro le filigrane della mia carne divenuta pensante, dove ben presto si sono armonizzati nuovi rapporti? Oggi, trovandomi solo davanti al totale naufragio delle illusioni, comincio a sentire l’acuto profumo della Conoscenza. Trascinandomi dietro i relitti dei desideri più ricorrenti, insediato in una sfera di silenzio, guarito infine dall’ingratitudine, mentre la carne canticchia nuove canzoni io avanzo determinato obliquamente alla mia ombra, e forse sono li lì per trovare l’introvabile. Ma perché ho passato tanto tempo senza mai essere in grado di abbandonare il prurito delle abitudini e le certezze che persistono a ingannare se stesse? Bisognerebbe ricominciare da capo. Per quante settimane, mesi o anni continuerò ad avvicinarmi con passo asmatico a quel punto centrale di me in cui non ci sono muraglie, immerso nella luminosa ignoranza che il tempo talvolta conferisce all’essere? Infatti perché voler sempre conoscere? E inutile sapere tutto, basta sapere ciò che mi riguarda; il resto - tutto il resto - può benissimo continuare senza di me. Ma io sono soprattutto impazienza e desiderio. Desiderio inguainato di carne che possiede al proprio servizio un pensiero cancerogeno in costante evoluzione, come la terra che produce tartufi, e uno spirito balbuziente che farfuglia

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parole restie a uscire di bocca mentre il tempo, credendosi sempre in festa, esulta, e mentre nelle sere d’inverno risplendono le aurore boreali dell’associativo!... Ma un sisma scoppia improvviso nel cavo del plesso e fa ribollire l’argento degli specchi... In tutta evidenza, l’eternità è un calcolo errato della metafisica... E tempo di far mentire i profeti. Cammino su una strada ombreggiata di sonno, ubriaco fradicio di pensieri associativi, satollo d’impressioni a uso esterno che ingurgito come panacee universali mentre in me si riflettono tutti i miraggi del mondo! Donde verranno le forze fotogene che mi daranno la linfa nutrice riparando l’intelligenza consunta, devastando le cittadelle del desiderio e liberandomi al contempo dalle reti delle tensioni ribelli? Forze che mi faranno dire i poemi che sogno, scintille cadute da stelle remote nel giardino autunnale in cui domani sarà bello morire. Ogni mattino m’assale l’immagine delle antiche « presenze » ridotta a brandelli, immagine viva infine ritrovata e sottratta alle vertigini del tempo. Solitaria e muta sul suo sentiero, essa raggiunge subito l’austero gesto di oggi, libero dalle magie del passato... Ed eccomi a marciare verso l’evidenza, sempre più UNO con l’esistenza, e a procedere da solo verso la zona di silenzio in cui si confondono le antiche « presenze » e la vita portata dall’istante. La vita che esulta in un muto clamore di cui ogni aurora adesso mi è prodiga. PASSEGGIATA

Un lembo di cielo riluce, indugiando nel giorno che muore. Presto la luna seminerà perle sugli alberi. La prima stella sembra uno sguardo. Il tempo rallenta. I pensieri contorti dei giorni privi di luce m’invadono mentre, come da un rubinetto mal chiuso, colano i miasmi di un’ebbrezza emotiva tenace. Le tiepide onde

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del desiderio sfogliano lentamente il libro della mia vita. D’un tratto la speranza s’affloscia al ricordo degli anni trascorsi e scoppia come una bolla. Una marea monta, mi riempie la scatola cranica e tesse brusii senza fine. Adesso i desideri sono saliti nei fiori e bisbigliano nelle svolte del sentiero, dove il vento soffia con indifferenza. Il silenzio m’assedia. Oltre le porte chiuse della notte incombente si forgia la storia dell’essere. Che attingerò dunque nella cieca vasca del tempo? Un passo conosciuto - il mio risveglia l’eco di cose lontane e la dolcezza d’antichi amori a lungo scordati. Ammiccamento dei ricordi, dei gesti compiuti nell’ombra, di tutto ciò che un bel giorno è svanito. Improvvisamente gli ultimi raggi di luce decidono di rischiarare il cielo come un corteo di fiori deposti all’orizzonte, fiori che galleggiano ancora un poco prima del grande naufragio notturno. Saprò meritare il piacere che ne ricavo? Sono pronto a sacrificare i miei sogni? Non c’è alcuno specchio in cui cercare il mio sguardo e il viso inesplicabile che ho. L’aria s’addensa, i rumori rinfrescano, la natura entra in veglia. Tutto dormirà nell’immenso cantiere della notte. Fino alla prossima aurora sarò libero dall’ossessione del « domani »? Potrò ascoltare il silenzio che scende, la voce impercettibile e tonante dell’« io SONO »? E obliare per sempre il passato sepolto sotto la cenere? La tenebra fa pensare... I viali del giardino s’impolverano di brina sotto la luna. Passano alcune nubi leggere sopra i fiori estinti. - Non aggrapparmi più alle illusioni svanite -. Ora l’intero cielo vibra sotto una polvere di stelle... Fuggire!... Non per scappare, no. Ma per incontrare l’immenso. L’immenso che s’innalza all’infinito verso l’alto e s’abbassa all’infinito verso la profondità. E, così facendo, seguire le mia traiettoria. Seme unito alla gravitazione da un legame implacabile, mi tocca vincere la gravità a ogni istante, pronto però a sopportare la parte di tempo che mi è destinata. Con tutte le sue glorie e con tutte le sue tenerezze. A mia volta io semino. Semi di pensieri, semi di parole, semi d’atti meno incoscienti di cui ogni parola di queste pagine è un

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chicco. Forse un giorno l’embrione verrà fecondato dall'attenzione che l'avrà incontrato al di sopra di me. E forse altri uomini ne mieteranno le verità, legate in fasci invisibili ch’essi cercheranno d’ammassare nell'Assoluto! Gonfio d'un canto... La gioia m'invade senza ragione. Pensieri contrari si disputano il possesso del mio strumento pensante. (Punto, a capo!...) L’ombra del passato si fa più trasparente. Dimenticare i Natali di un tempo, il loro presente oggi irrisorio, i cantucci della mia casa natale in cui ho tanto sofferto - e sperato, e immaginato -, la via del villaggio in cui la morte è passata spesso, le facce conosciute, le grandi risa estinte di coloro che mi amavano... Ritornano in massa i ricordi negletti... Ma che ci stanno a fare nel paesaggio interiore che ogni giorno mi viene incontro? Il fiume delle cose scordate, illuminato dal mio sguardo, accelera l'andatura e ben presto sparisce, cacciato dal respiro cui l'attenzione si lega. Ascolto. E sento la felicità del Natale che freme dovunque. Per quanti, fra tutti gli sguardi che fissano il mio, questo Natale sarà l'ultimo? O forse al prossimo Natale sarà il mio sguardo a essere estinto? Che importa, la gioia disarma i pensieri. Natale fugge dalla parte dell'ombra. E io non so più come piangere... Sognatore, io resto nella mia luce. Talvolta l’anima è simile a un'acqua scura, immobile e piena di mistero in mezzo a un giardino. Lo sforzo ne turba il fremito lieve mentre la luce portata dalla respirazione s'ammucchia tra i muri ben intonacati di un mondo interiore in piena edificazione. Comincerò a sentir raccontare la storia dell'anima mia? Il mondo interiore dell'uomo si costruisce col gusto che le cose hanno l'una per l’altra. Il legame che le unisce ne costituisce la materia essenziale.

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« Ei fu ». Meriterò questo epitaffio? Solo, nell’intimità di una stanza poco illuminata. Di sera. Ora delle confidenze. Cosa posso rivelare a me stesso? Come riempire questo intervallo? In questo momento sarò soltanto l’ombra d’un passato scomparso, vale a dire l’ombra di un morto? Per quale motivo devo passare così dall’essere al nulla, dall’essere « relativo » al nulla « relativo »? Perché sono ancora tanto spesso il « niente relativo » che si trova in me e che s’esprime con i desideri e la gioia della carne, con queste ossa rigide che gli sopravvivranno un pochino, con un pensiero flaccido che si limita a riflettere le immagini tristi che aleggiano tra gli uomini? Però fuori canta una fontana e il lamento diventa speranza. La speranza rimpiazza i morti brusii del silenzio in cui ero chiuso. L’ombra non teme più il giorno che domani verrà. L’essere non è più un insetto prigioniero che si dibatte... Ahimè, dall’essere al nulla la strada è aperta... i fiori muoiono senza soffrire. Stancare il rifiuto. Essere svegliato dalla forza del sonno. Sostituire questo discreto viavai con le solide fondamenta di una « presenza » finalmente acquisita. Talvolta ciò che provo è troppo pesante da dire: le parole non riuscirebbero a sopportarlo. Quando riuscirò a essere indifferente nel dirlo? Lo spazio è un giardino di cui la coscienza umana si sforza di essere il segno. Se io è l’ombra della coscienza, c’è un sole da qualche parte che proietta l’ombra.

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Mantenere la verticalità dell’uomo fino al giorno delle ultime solitudini. Spiare l’atteso attimo di coscienza... Il futuro essuda gli istanti con l’insolenza di un oracolo sorpreso. Non c’è alcuna fretta. I millenni aspettano senza impazienza. Improvvisamente tutto è chiaro perché sin dalla bella stagione m’ha seguito un fiore, colto nel giardino dell’eccelsa presenza... Sempre questi echi del passato che risuonano... Come scorie di un tempo trascorso, essi investono il sentimento sviluppandovi l’uso delle cose, la loro utilità; hanno scordato che l’essenziale è l’amore, l’amore per le cose stesse e non per ciò di cui sono fatte. E questi pensieri che mi girano dentro come un insetto rabbioso... insetto che non viene a bruciarsi le ali al fuoco della presenza sparendo per sempre! Ahimè, non è soltanto un insetto, ma un intero sciame ronzante, attraversato ogni tanto dal l’austerità di un raggio di luce, di quella luce che m’illumina in permanenza. E poi c’è questo corpo che si trascina dal ventinove dicembre millenovecentodieci a chissà quale prossimo giorno del calendario! E che, delle aiuole che ornano questo pianeta sul quale ho avuto l’onore d’essere accolto, ne ha visitate ben poche. Ma ogni volta ha sopportato il viaggio onorevolmente. Gli è successo perfino di credersi un eroe - pur non avendo avuto alcuna occasione per diventarlo. Da molto tempo pensa esclusivamente a dilatarsi - per contenermi meglio, senz’altro. Le sue funzioni funzionano ancora, e lui stesso mi serve. Apparentemente non sono da commiserare. L’immagine delle cose - e delle parole - non è innanzitutto un esilio in un mondo immaginario creduto reale? Verso quale nuovo deserto la solitudine mi sta conducendo? Approdo a rive in cui l’immagine delle cose perde peso e fattezze. Eppure ciò che vive in me è ancora troppo spesso legato a ciò che costituisce l’essenziale della tentazione, cioè a qualcosa che non potrebbe coincidere con l’essenza stessa della speranza.

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Tuttavia il mio approccio è attivo e io mi sento sul punto di arrivare dove inizia la vita. Ma non è forse, giustamente, dalla forza dei contrari, da quell’antagonismo impossibile fra la fuga perpetua davanti al giusto sforzo e il persistere della speranza irriducibile, che nascerà e potrà essere vissuto ciò che al contempo è anteriore e futuro, ossia ciò che è PRESENTE? E piacevole essere quello in cui, per un momento, la presenza prolunga la coscienza. Io sono l’uomo, il senso dell’uomo, il centro, la verità dell’uomo. Devo solo realizzarlo. Bisogna che il mio desiderio diventi atto. A tal fino dispongo soltanto del tempo che mi separa dalla morte. Chi mi suggerisce le parole di luce che ogni tanto mi capita di pronunciare? Queste parole, che sono spesso il risultato di una veglia molto anteriore al momento in cui vengono dette, piombano giù come un vento caduto dalle stelle. Piene d’improvvisa armonia, esse evocano una strana trasparenza che dà a ogni cosa tanto una certa forza quanto un certo languore. E che tocca profondamente. Frutti della presenza in fermento, nel levarsi improvvise davanti al cielo d’una sera attraversando lo sguardo in cui brilla l’anima delle cose, esse SONO. Tuttavia ho l’impressione di non aver ancora detto nulla. Bada che il tuo sforzo di lavoro non diventi orgoglio di chi lavora. Un tempo le sentinelle addormentate venivano messe a morte. Spero che questa legge non valga per me, poiché per debolezza io lascio dormire la sentinella anni interi. Le generazioni passano e la morte viene a prenderci uno via

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l’altro. Chi saranno gli uomini che dopo di noi vedranno ancora splendere il sole? Cosa faranno dei vari beni che avranno ricevuto in eredità da noi? E dove saremo noi, noi che ci siamo conosciuti e amati? Resteremo uniti da qualche soffio di vento alle cose che oggi son nostre? Sapremo ritrovare il linguaggio comune che ci veniva alle labbra? E voi che siete partiti un po’ prima, vi volterete sul sentiero lasciandoci venire incontro lo sguardo? Rallenterete il passo per aspettarci e convincerci che bisogna consentire alla morte? Dovremo apprendere il linguaggio delle ombre? E lasciare le parole ormai familiari del poema e il canto del tempo che fu? Quando arriveremo all’incrocio dove un altro sole cancellerà le nostre ombre sarà troppo tardi per scegliere la strada. Nel paese del tempo immobile, i piaceri saranno vani, tutte le preghiere saranno già dette e gli atti non potranno fiorire mai più. Sola, sopra l’ossario di tutti i beni, di tutti i pensieri e di tutti i desideri, per sempre regnerà la COSCIENZA.

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Parte terza La presenza sovrana

I L’Innominabile

L’Innominabile si sviluppa in spazi immaginari di cui lo spazio euclideo è solo la proiezione o la rappresentazione arbitraria risultante dal mediocre funzionamento dei rudimentali strumenti di percezione di cui siamo dotati. Il solo fatto che non possa essere « nominato » - poiché non gli si può applicare nessun sostantivo, verbo o aggettivo - dimostra ch’esso sfugge al mondo del quale i due stati distinti - quello fisico e quello psichico - bastano apparentemente a illustrare tutti gli aspetti. « L’Innominabile » non può manifestarsi nell’uno o nell’altro di questi due mondi che per preterizione. Nessun concetto che il pensiero, il desiderio o la sensazione potrebbero formulare o percepire in proposito riuscirebbe a indicarne validamente la vera natura. Al suo riguardo non esiste « pensiero » né comprensione possibile. Qualunque movimento emotivo o qualunque sensazione fisica che potrebbero aiutarci ad avvicinarlo sarebbero soltanto il risultato del funzionamento più o meno sottile delle nostre parti che hanno il potere di suscitare emozioni o sensazioni, e non la manifestazione diretta dell’Innominabile, di cui questi strumenti sono gli interpreti. Data l’assurdità di chiedere cos’è l’Innominabile e di sperare che un giorno ci arrivi la risposta, dobbiamo cercare piuttosto ciò che, nel nostro mondo, è in rapporto con l’elemento intermedio attraverso il quale « qualcosa » esercita un potere, talora avvertito senza ombra di dubbio, sul nostro destino e sulla nostra vita. Così potremmo risalire all’Innominabile. Ecco il tentativo presuntuoso cui è dedicato ogni passo di queste pagine. L’Innominabile... un termine che non appartiene all’Insegnamento di cui qui tento, molto indirettamente, di precisare il percorso.

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Un termine che vorrebbe riassumere l’insieme delle forze d’ogni livello suscitate dalla disciplina seguita, tutte le cose intuite oltre i limiti del mondo concepibile, tanto materiale quanto spirituale, che le varie tradizioni e religioni rivestono di idee e di linguaggi diversi. L’Innominabile sarebbe lo stato potenziale inaccessibile alla condizione umana, un mondo comprensivo di quelle che talvolta vengono chiamate « le forze superiori » e delle molteplici conseguenze dell’azione delle leggi cosmiche, in gran parte inconoscibili all’uomo. Aprirmi alla sua potenza trasformatrice, lasciarmi attraversare dalla sua influenza finché gli effetti, pur attenuati, del suo potere vengano a illuminare queste pagine... Ma esiste un linguaggio capace di esprimerne minimamente la realtà? Ci vorrebbe un linguaggio poetico in cui l’armonia del verbo avesse innanzitutto l’obiettivo di tralasciare gli « effetti artistici », di rifiutare i « canoni del bello » e d’introdurre ogni tanto nell’espressione alcune immagini e alcune metafore capaci di far percepire gli effluvi d’un altro mondo. Chimere? E dalla prima pagina che ci provo, e intendo perseverare. Un dialogo con la mia ombra. Viso triste su cui si riflette il grigiore delle abitudini. Il mio sguardo si gira verso l’obliqua luce che indugia su un passante. Ah, la felicità perduta, sacrificata all’impazienza! L’istante in cui vivevo con me stesso è svanito. Lontano. La via per tornarci è esaurita. Qualcuno dentro di me dice: - Lascia perdere... - poi tace. L’ora ripete la vecchia solfa. Canzone triste di un angoscia tosto riapparsa. Alcuni pensieri si nascondono rifiutando la confessione. Il cielo si apre, chiaro, sopra gli arbusti del giardino; dove sono gli ori del tramonto? Ma improvvisamente gli ori tornano in me assieme all’attenzione ritrovata. Da un istante la mia ombra è sparita. Il momento di troppo in cui tutto precipita nell’immaginario: lì comincia il dominio dei vapori venuti dalle viscere dei crateri in cui ribollono le idee e la speranza. Ben protetto dal riparo della memoria, perché non credere alla nobiltà delle parole del poema e accettare che i passi mi

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conducano a un mondo molteplice in cui tuttavia il terrore non sia più sovrano? Sarebbe come fissare un limite all’infinito o arrivare alla soglia del mondo. Il sogno è profumato, ma io sono stanco di sognare. Prendere al volo le forze che passano senza tregua in un mondo che non è il nostro. Abito spazi ristretti, e tuttavia sbaglio strada. Il ricordo dei tempi venturi prepara la coppa, impaziente di ghermire la preda, e talvolta coglie al volo il lampo inatteso dell’Innominabile. Particelle luminose abbagliano parti di me in procinto di perdere le loro certezze. Venuto da un paese privo di beni e da emozioni prive di realtà, indovino il legame inconcepibile che mi dà la possibilità e il gusto di essere. Lassù, nel cielo gemello abitato dai pensieri meccanici, sognano le stelle. Intanto un altrove in boccio arriva a portata di mano. L’aurora, sulle labbra dell’orizzonte: promessa mantenuta di confidenze mattiniere. La mia debolezza s’irrita di non sapere su quali rive attendere conoscenze più alte. Che rimorsi per gli sguardi che non ho osato gettare! Conoscere il funzionamento della macchina umana fin nei minimi particolari è compito delle scienze e della psicologia. Conoscere la via è prerogativa dell’Innominabile. Talvolta capita che quest’ultimo si chini sulla mia spalla e immerga dentro di me un mondo inesplorato. Allora il cervello, le mani, l’intelligenza, i punti impercettibili da cui sorgono mille aspetti diversi della sensibilità ne sono impregnati. Ma gran parte dei segni che lascia svaniscono subito. Ne restano tracce leggere ma strane, più elevate delle massime rivelazioni del pensiero e dei più ardenti moti del sentimento, tracce che generano gli istanti più generosi e che aprono nuovi sentieri. Ahimè, è l’Innominabile che ha depositato la foglia d’argento sugli specchi, annullando la

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trasparenza affinché la nostra immagine al suo cospetto venga continuamente riflessa! L’Innominabile muto ci parla di un altro Mondo mediante i sistri e i violini di un’immaginazione estasiata. Forse, ascoltandoli, percepiremo il segreto che ci farà doppiare il capo in un soffio...

Ombra, giardino, silenzio... Tre parole che fioriscono in abbondanza tra le erbe selvatiche raccolte in queste pagine! Nulla sembra in grado d’esaurire il significato che ciascuna di esse può contenere. Parole mascherate finché non le utilizzo - e finché non le inserisco in un certo contesto - esse hanno sempre un bel posto, spesso il primo, nella frase in cui compaiono, e assumono da sole di slancio quel ruolo trainante cui consento senza esitare. Meglio di molte altre sanno contenere il mistero, racchiudere il significato recondito delle cose e dimostrare, con la loro perennità, il potere di suscitare l’incanto. Per me incarnano assai da vicino gli aspetti essenziali dell’inconoscibile ch’esse hanno la missione di esprimere con la massima approssimazione possibile. Fanno parte di quelle parole cui si perdona d’essere anche parole.

Io vivo nella scorza, l’alburno appartiene all’Innominabile; tuttavia la crescita dipende necessariamente da entrambi. Quando l’albero viene abbattuto, ogni parte segue il proprio destino. Ma chi ha scelto l’albero promesso all’ebanista?

C’è un momento preciso della stagione in cui, scuotendo l’albero con vigore, i frutti guasti cadono a terra. In seguito i frutti maturi cadono da soli, quando è l’ora. Se ne ricordino quelli di noi che si lamentano d’essere scossi con troppa violenza! Ma sono in grado di stabilire con esattezza quand’è il momento di scuotere l’albero?

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Io, al colmo del silenzio, sento che la forza migratoria in azione, pronta per le cose in procinto di nascere, produce un rumore d’altro mondo... Tutti i sogni d’una sera svaniscono, le forme spariscono e mi è restituito il presente senza immagini. D’un tratto lo spazio è svuotato, e in quel vuoto improvviso spunta e cresce l’ombra di una futura nascita. Tacere, respingere tutti i mormorii insidiosi della persona, restare sordo alle istanze pressanti dell’immaginazione, continuare a ESSERE. Oh, che desiderio di vivere sempre così! Dando un nome a ogni evento passato e a ogni oggetto manifestato, l’uomo ha loro aggiunto qualcosa. La relazione, in gran parte ignota, dell’uomo con un mondo più alto di quello in cui esiste, e il suo bisogno di conoscere, sono forse il « qualcosa » che gli è stato aggiunto al momento di ricevere un « nome ». Ma qual è mai questo nome? Col respiro attivo e le labbra mute riesco a seguire dentro di me il sentiero che conduce alla Presenza. L’attenzione diventa un principio grazie al quale qualcosa di più interiore si lega a ciò che l’aria contiene. Allora cedono tutte le brame e le preoccupazioni del sangue e della carne. Promessa mantenuta, maturazione improvvisa dei semi d’un altro mondo... Ahimè, sovente si tratta di una promessa che precede la caduta e la marcia oscura nell’umano, il ritorno alla trivialità quotidiana fino all’effervescenza inevitabile delle immagini... Come una respirazione della Coscienza. La carne possente risveglia il dormiente. Crisalide portatrice della fede nel piacere, essa fra poco si libererà e brillerà su tutto ciò che nel dormiente è oscurato. Il cielo carnale della prima adolescenza rischiara come un’alba la figura incerta dell’uomo che sta arrivando al termine della vita... Il crudele carceriere del sangue accetta di prolungare le forze dimenticate... La mano ritrova nel palmo il ricordo di antiche carezze. L’amore estenuato riversa di nuovo i più bei sortilegi. Come un tempo. Ma l’angoscia è vicina. Quest’uomo, dubbioso sulla virtù del

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sangue e vittima della memoria, resterà in ostaggio all’età? Egli a lungo resta incerto e tremante. Poi la tenerezza gli entra, leggera, nella carne illuminata. Possa la mia ricerca, alla fine, aprire la porta della tomba! E possa deporvi, accanto alle ossa, ciò che da sempre ha nutrito la falsa certezza che la morte è il contrario della vita. Presenza. Il silenzio si popola di trasalimenti del sangue, del respiro, del corpo in travaglio. Io, più vicino al cuore delle cose, ascolto: anche il loro silenzio si muove. Ma la traiettoria dei loro movimenti sfugge al tempo: per questo sembrano immobili. Poi di nuovo i miei sogni ci girano attorno. I giorni in cui gli incubi vagano sullo sfondo dell’Essere... Incubi dalle vertebre irrigidite. E che sembrano insediarsi al centro del futuro per sempre. Ostacolando il movimento che suscita in me una gravitazione più alta, gli incubi salgono e m’invadono. Non so più se sono atti d’amore, spasmi d’agonia o preludi al massacro dei valori autentici momentaneamente sfiorati. Sterile voluttà dei sogni... Vane figure disegnate sullo scenario che circonda il sentiero, ombre danzanti foriere di una gioia fittizia: da tutto questo non può nascere la vita! Sottrarmi all’opaco vapore delle parole e delle immagini affinché la Presenza si orni e si vesta di nuovo della mia carne, affinché la vita ridiventi un seguito ininterrotto di istanti unici e irripetibili. Allora non c’è crepuscolo che non risplenda di luci dell’alba. La coscienza: acqua pura in pieno sole. Non si può comprimere l’acqua, la si può soltanto contenere; non si può uccidere la luce, se ne possono solo schermare i raggi. La coscienza è sovrana! Partire verso le alture delle sorgenti, verso le terre in cui dormono i semi del mio divenire! Terre segnate dalle mie orme, terre serene nel loro esilio, ma anche pregne dell’argilla tombale. Assassino e salvatore di ciò che c’è in me di più alto, io spio

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instancabile il fremito della Coscienza, sorta come un’isola nuova nell’oceano dell’oblio quotidiano. Un luogo in cui tutto si unisce. Alcuni lo costruiscono entro le mura di un monastero... Io ho bisogno di un posto in cui si percepiscano ancora le musiche della terra, in cui possa giungere ancora il combustibile necessario all’incandescente vita interiore. Nel mio corpo invecchiato la vita brucia come una volta, con una fiamma più alta che mai, illuminando e scaldando persino gli oscuri recessi in cui l’aria rimane viziata. Le fiamme di un tempo entrano nel presente e danno vita di colpo a un gesto dimenticato, al profumo di un ricordo lungamente amato, mescolandosi ai frammenti decomposti della memoria. Forse queste fiamme non sono esistite che in me e vengono adesso a ravvivare il passato solo per prepararmi alla separazione finale? No, « sono state » e « sono » tuttora, e io posso estrarle dai sogni consunti e individuarle con un pensiero attento. Poi, un giorno non molto lontano, le fiamme s’estingueranno. Sarò vissuto solo per morire o la morte sarà un’altra nascita? Non è possibile gettare uno sguardo oltre l’alto bastione lambito dalle fiamme della vita. Non vedete che ciò che chiamate io è quasi sempre una maschera luccicante appiccicata sulle tenebre della vostra sedicente vita interiore? Non bisogna confondere il dolore con la sofferenza. La sera, quando cessa lo sforzo quotidiano, spunta in me, viva come un tempo, la Presenza che A. non s’è portata via interamente. E così che sono legato a ciò ch’ella è stata - stavo per scrivere « a ciò ch’ella è ». Dall’altra parte dello specchio della morte, privo della foglia d’argento, A. resta inaccessibile anche al pensiero; il vapore del mio respiro confonde le immagini, e percepisco un’oscurità che però non è notte.

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L’enigma resta, totale, ma sulla parete traslucida che ci separa c’è come un riflesso di Conoscenza intraducibile di cui la Presenza si nutre. Piegare il ginocchio davanti alla sostanza, ancora presente tra noi, che A. ha lasciato in coscienza, chinare il capo sotto il peso delle conoscenze che si levano ai nostri passi, seminate instancabilmente dalla sua vigilanza costante, ritrovare tutto ciò che ci ha dato significa ritrovare noi stessi come lei ci voleva. Comincio a sentirmi invadere dalla sostanza che fa nascere i frutti. Cammino tra due abissi: da una parte il mistero di essere un uomo, dall’altra l’enigma della morte. Avvicinamento all’oscuro emisfero in cui regno con potere assoluto: relitti di realtà galleggiano sulla distesa dei ricordi, ma non sempre riesco ad abbordarli. Come estirpare alla base l’inferno di sonno che mi porto dentro, sì da farmelo diventare estraneo per sempre? Quali peccati ho commesso perché l’inferno sia così radicato dentro di me? Eppure tutti i miei peccati - parlo di quelli che mi hanno causato l’inferno - erano innocenza in quanto commessi dalla maschera dietro la quale un’insormontabile fatalità mi ha costretto a esistere. Là dove l’odio s’esprime con altrettanta forza e felicità dell’amore, là dove il timore fa diventare penosa l’evidente necessità della morte, là dove lo sguardo non può restare sereno davanti all’illusione, talvolta svelata, di essere... Ma la mia immagine sarà prigioniera per sempre dello specchio di quella Vita che troppo a lungo è stata la mia? L’ora del cielo rosato passa lentamente. Il giardino orienta i propri colori. I pini hanno dimenticato la violenza del vento e restano muti. Però la vita è in tutte le cose, anche se ciascuna, per il momento, conserva la propria forma. Ma quando l’Innominabile si sarà ripreso questa vita, ogni cosa si dissolverà. Come si dissolveranno i ricordi immagazzinati, dai più brillanti e dai più semplici fino alle impressioni insignificanti: ad esempio fare quattro passi sull’erba del prato in piena estate o masticare un filo

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d’erba. E dovrò dissolvermi anch’io... Ma chi è io? Una particella di vita venuta da chissà dove, passata attraverso un numero incalcolabile d’esseri umani, miei genitori e antenati, una parte della quale continuerà il suo percorso attraverso i miei figli, i miei nipoti - e i loro -, mentre un’altra, certamente comune alle piante e agli animali del giardino, se ne andrà, aspirata dall’Innominabile... E ogni cosa che l’accoglieva ne dimenticherà il nome! Tutte particelle oggi unite dallo stesso fervore di essere, ma destinate un giorno a estinguersi come fiamme schiacciate dal crollo della dimora che ciascuna particella aveva il compito d’illuminare. Immerso nell’aria colorata della sera e nel brusio silenzioso della vita celata nel cuore delle piante e degli animali, l’Innominabile è come un uccello che si posa un istante su tutte le cose. E che s’invola al mio sopraggiungere. Morire!... Sarà più facile che comprendere.

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II La condizione di Uomo operaio

Creare nuovi rapporti, moltiplicare i legami, voler giungere all’Unità equivale a compiere un passo nel migliore dei mondi... Gioire della Presenza che invade la persona: subito le parole diventano improprie. E si presenta la necessità dell’Uomo operaio, quello che poco a poco soppianterà il « pensatore », l’uomo di parole. L’Uomo operaio: colui che è capace di esprimere la propria realtà conferendo alle parole la terza dimensione di cui sono prive. Infatti l’Uomo operaio può parlare soltanto dell’oggetto - o di se stesso - e non del segno che la parola rappresenta per l’oggetto; può parlare della forza che usa e non del voler-dire con cui l’« uomo pensatore » cerca di indicare se stesso o l’oggetto. Poiché « fa », l’Uomo operaio acquisisce la capacità di rappresentare certi valori, di rendere sensibili certe proprietà della condizione umana albergate dalla Coscienza. E queste sono cose essenziali. Andare a mani aperte verso l’Uomo operaio che per tanto tempo mi sono rifiutato di essere! Mentre s’estinguono i riflessi dei fantasmi che me l’hanno fatto rifiutare, mentre mi fa groppo in gola lo scoramento per le pigrizie tenaci, mentre s’annunciano le premesse di un’opera più autentica, oggi devo portare in alto i frutti maturati al pieno sole dello sforzo. Cercatore di nuovi sentieri, l’uomo a questo livello si avvicina al focolare da cui sgorgano energie ancora ignote e scopre sostanze prive di nome; il metallo e lo spirito non sono più materiali di lavoro: in silenzio l’Uomo operaio forgia leghe tra i cui componenti non c’è più lo sforzo di un tempo. L’antico sforzo sembra un grosso divertimento. E l’opera nuova è come un’alba che sorge nel cuore della mia notte. 130

Là dove non s’usano più né tempo né luogo, là dove qualcosa d’indefinibile mi costringe a perpetuare l’istante - qualcosa che vive in me e tiene desto il mio cuore - si rivela l’inganno della vita passata nel sonno. E si compie lo spasmo del presente: in tutta chiarezza, anche se impregnato dalla notte delle parole. La forza mi viene dal fatto che, nell’istante medesimo, il Presente è, e non perché la sua venuta mi conferisca di colpo la capacità d'essere. « Essendo » a causa sua e tramite suo, io divengo. E divenendo, io SONO. La luce non viene più dalle cose sognate; alcune particelle di verità, frammenti sparsi dell’Unità ancora impregnati dal profumo dell’origine, si riuniscono e ritrovano il percorso lineare delle realizzazioni indispensabili. Allora devo captare nella loro scia la vocazione di essere. Quella che sale dentro di me irreprimibile quando smetto di « pensarla ». Può darsi che, nel migliore dei casi, la vita sia solo una preparazione. Il mio corpo, tempio di vita e detentore dei segreti del mondo, cammina verso la morte ancora acquattata nella sua tana... Occhi popolati di sogni, aperti alla carezza del vento, la loro dolcezza è esaudita quando gli ultimi fuochi del crepuscolo, placati, palpitano nella scia invisibile del passato. Sogni erranti lungo fiumi deserti, ornati dall’oro dei ricordi, sarete ancora presenti nelle mie notti feconde? La stretta del desiderio li attraversa, aprendo temporaneamente le porte del piacere. Sfrondare... Contenere soltanto le semplici cose umane di cui dovrebbe essere fatta la vita d’ogni giorno. Disfarmi di ceneri e braci, diventare insonne e al contempo sensibile alla voluttà dolorosa dell’atto volontario. Nel guazzabuglio delle parole, scegliere la più gloriosa per metterla subito in discussione. Allora si apre uno spazio in cui, caduta ogni maschera, avanzo a mani nude, trovando il riposo portato immancabilmente dal respiro più rapido e dal rossore della fronte. Il tempo e lo spazio si allargano. 131

E di fronte a loro posso finalmente prendere le distanze e scoprire dove iniziano le frontiere del « me stesso interiore ». Al loro interno potrò finalmente cessare di vivere a sprazzi e innescare una catena di atti che siano cristallizzazione e movimento al contempo? E la cui densità li protegga da qualsiasi magniloquenza. Includere poco a poco l’ordine temporale nell’« esoterismo » della vita, e non fare l’inverso, chiarire il loro comportamento in opposizione cercando le analogie segrete nascoste in entrambi. Non essere più il mimo, diventare Fattore e anche - perché no - il celebrante! Essere presente potrebbe consistere nel recitare coscientemente la parte di tutti i personaggi che vivono e si manifestano in me. Ma il prodotto della loro manifestazione non è già una parte recitata da Chi abita l’essere vivente che sono? Certo, ma il fatto di recitare coscientemente la parte dei primi fa sì che io non sia più abbindolato dal secondo. Questo cambia tutto. L’atto recitato in questa parte della mia vita ne porta la traiettoria al colmo dell’esaltazione. L’« uomo pensatore » pensa e manifesta. Tutto passa attraverso di lui, ma non è lui a essere manifestato. L’Uomo operaio « medita » e « fa ». S’incontra con se stesso e, da questo incontro, nasce un autentico « fare ». Quando smetterò d’essere l’uomo vestito di sentenze che sono troppo sovente? Oggi, passato dall’altra parte del mondo, fissato al centro dell’Uomo operaio, giunto là dove sto bene, nei vasti luoghi in cui sparisce l’ombra che mi abita, non m’aspetto nient’altro. Si rischiarano grandi lembi di cielo in cui viaggiano nuovi pensieri... Appaiono alcune crepe in ciò che regna sull’assenza, il lettore di parole deve fare silenzio, s’irrita il mio benessere, presagio dell’esilio auspicato, e io non abito più i luoghi piacevoli in cui faccio ordinariamente commercio... 132

Il mondo ottenebrato del vagare quotidiano si popola di specchi in cui finalmente mi riconosco! Per un giorno viaggiatore arrivato. Quegli istanti che sono una grazia, che danno al tempo vissuto il vero sapore di ciò che c’è di meglio da vivere... Istanti che vengono ogni tanto a riempire gli spazi lasciati liberi dalle perniciose manifestazioni della ménte. Questi istanti, che punteggiano più di tre decadi e mezzo di ricerca fervente, di pazienza consumata sulla cenere delle illusioni postadolescenziali, segnano la devoluzione della mia parte di beni promessi. Seguire la scia delle folgorazioni di coscienza che scoppiano inaspettate nell’incoscienza quotidiana, e riconoscere così le confluenze di nuove correnti d’energia. Stilla un sangue libero che lava le discordanze e porta al sapiente risveglio dell’uomo smarrito... Allora in me sale come un male necessario la febbre di essere. Fino all’incandescenza. E io mi levo, subito arricchito dalle opere dell’istante! Ho raggiunto di nuovo gli antri e i luoghi oscuri nei quali abitano le solite gioie in cui svanisce qualunque intenzione. Dove saranno sparite le tracce fresche degli ultimi giorni, perché quest’improvvisa opacità? Ritrovare la luce. Dovrò aspettare la primavera e le prime foglie novelle? No, già vengono i segni e i presagi, s’apre la porta del giardino e monta la marea delle forze ospiti della Coscienza. E risalgo verso la fonte... Presto, senza tregua o misura, intonerò il canto di grazia! « Ascoltate il silenzio... » La sua forza improvvisa sorprende, cancella il nome delle cose. Necessità di trovare nomi nuovi, più veri, strappati all’Innominato, nomi che blocchino per un certo tempo il pensiero itinerante. Come scegliere un sito più elevato di sé in cui l’ascolto diventi più fiero? La presenza, refrattaria a qualunque nome, diviene improvvisamente durata. E diviene l’attenta risposta, d’un tratto fremente, che scende per gradi gli strati successivi dello spazio. Fino al liscio piancito del silenzio... 133

Seminare un’area sempre maggiore... È possibile perché il gesto del seminatore s’è fatto più ampio. E perché s’è allargato il campo dell’inedito. Il potere creatore del chicco viene quasi a contatto con l’ospite cosciente che vive in me. Allora si confondono l’essere e il dire. E, uscito dall’invisibile, si rivela improvvisamente all’opera il principio di vita. Origine anteriore di tutto, il potere d’effrazione s’esercita sull’embrione fino a farlo sbocciare nello spazio di vita in cui l’incanto della coscienza ha preparato l’aratura. E l’alba di nuove semine? Al margine della strada. Un pensiero che mi riguarda: immenso, capace di riempire il mondo - che pesa su di me che sono già così stanco! Mentre persino i ricordi mi pesano sulle spalle, risalgo penosamente il passato col greve passo dei sogni fino agli antichi territori del male... Cerco l’impercettibile crepa da cui entrerà un’eco di luce, l’ombra di un viso o l’assenso di uno sguardo... Poi, dall’orizzonte furtivo, sorge improvvisa l’immagine di un vincitore. Io la guardo con attenzione più volte, come bevessi a lunghi sorsi da una sorgente. Quell’immagine sono io. Il mio fine è « il mio maestro ». Io, il mio fine e ciò che li unisce costituiscono « il mio maestro ». Dato che l’attaccamento al fine è il mezzo migliore per raggiungerlo, « il mio maestro » non può essere che il risultato degli sforzi fatti in tal senso. Lo stato di Uomo operaio è una forma concreta di ciò che è « il mio maestro ». Come avvicinarmi a ciò ch’egli manifesta, come toccare e far mia l’espressione più armoniosa della materia di cui è fatto? Oggi devo essere l’artigiano dell’opera creatrice ch’egli porta in sé. Essere padrone di me, di uno sguardo improvviso gettato sul destino delle cose, di un gesto dell’Uomo operaio che altri gesti hanno preparato da tempo, del potere carnale degli atti compiuti dalla mano di un uomo: tutto questo significa essere « Maestro di ME ». Ma il bisogno che mi attende prepara la fuga... Stanco di riflettere sui fini talora intravisti anche nei giorni migliori, mi vedo costretto a seguire il volo dei desideri e ad ascoltare il lamento infinito che mi 134

abita. Oggi devo andare dall’altra parte delle cose. Ma non ho il coraggio di soffrire abbastanza! La mia terra è un’isola, ma io mal mi adatto all’insularità. Pur costruendo fuori del tempo e dello spazio, nell’irrazionale dove la ricerca mi porta, io mi appoggio comunque al vissuto di ogni istante di presenza donato, anche se talvolta vi si mescola un po’ di tristezza, molta nostalgia e il calo dovuto allo slittamento dell’apparecchio psichico verso chissà quale impossibile limitazione... E impossibile eludere l’Assoluto! Vi sono giorni senz’alba in cui ogni sforzo finisce come una lacrima che cade dalle ciglia e si spiaccica a terra. Sulla strada inaridita restano solo più le mie orme. Quando avrò assunto un volto straniero e il calore della presenza umana mi avrà lasciato gli occhi per sempre, quando nessuna parola potrà più nascere dalla mia bocca diventata di marmo, voi penserete ancora per qualche tempo a colui che vi è stato di fronte per tanti anni e che vi ha amati. Poi dopo, ma molto tempo dopo, tutto farà silenzio. Il mio sguardo azzurro lava la superficie del mondo su cui slittano i miei ultimi anni. E vi scopre la traccia degli antichi sogni e delle gioie che ho ricevuto, il contenuto di tutti i domani svaniti, il tempo in cui l’amore si dispiegava tra passato e futuro sporgendo leggermente su entrambi. Toccato nel vivo, il mio futuro è ormai nei tuoi occhi. Solo chi dorme sogna. Talvolta il poema dura solo un certo tempo. Dopo non restano che le parole. 135

Vi sono parti di me che diventano più belle... Parti interiori, beninteso, desiderate da sempre, che in silenzio confermano la loro fama. Respirate da forze in sviluppo, esse concludono i momenti preziosi, suscitati dal pensiero, in cui fioriscono le mie differenze. Ma siccome bisogna, come diventare più di ciò che mi sento essere e mi dico di essere giù nel profondo? L’arco del cielo si restringe per rientrare interamente nel mio sguardo, e io non lo sento pesare. La mia voce si alza: io SONO! Ma ne capto soltanto l’eco rimandata dai confini della presenza. Chi mai custodisce in profondità il mio nome di essere vivente? Vestigio di stagioni passate, un fiore secco e diafano sfugge alla duplicazione dell’ombra. Mentre dentro di me l’enunciato del destino chiede una risposta, i territori della Coscienza brillano come faci portate di vetta in vetta. Fino a quel luogo d’asilo dove un giorno, forse, verrò ben accolto. Che mai dunque m’assale ai confini dell’invisibile, quando le parti risvegliate della coscienza sfiorano un mondo ignoto che freme alla loro pressione? Nel luogo di passeggera concordia in cui vengo accolto mi lascio prendere dall’orgia di essere che vi regna. Là dove il silenzio ha la parte migliore. E come un accordo succede a un altro nella grande sinfonia della vita, così a ogni istante successivo compare una sensazione nuova... Poi viene un istante particolare in cui percepisco ciò che in me s’attacca alla realtà, l’ormeggio grazie al quale sono ancorato alla vita. Però non mi è dato di saggiarne la forza né di dedurre l’epoca in cui probabilmente si romperà... Ma io patisco la separazione forzata da ogni istante particolare la cui sequenza costituisce un sentiero dai sette colori! Sono costretto a deviare, a ritrovare le paludi... E la massa degli io si dispiega e si sparge come uno sciame d’api sui fiori. Chi mi costringe a pagare un tale prezzo?

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Rinsaldarmi nella sensazione per poter valutare finalmente me stesso. Chi mi sta attorno e mi giudica è in grado di farlo meglio di me? Chi può imparzialmente alzare lo sguardo dal suo mondo interiore al mio e trarne indubbie certezze? Mentre brilla l’istanza più alta e si manifesta al centro di me la forza occulta della Coscienza, è Torà di conoscere finalmente la mia consistenza. A tal fine devo guardare la filigrana in trasparenza. Quanti passi mi resteranno da fare sulla terra? Talora ho l’impressione di farne un gran numero insieme sull’erba verde della speranza, là dove il gran vento della presenza piega la mia vanità, dove cammino con la bocca ancora piena di nutrimenti della terra e col cuore gonfio di sogni. In realtà cammino davanti allo specchio del Tempo su cui si riflettono immagini note, rifacendo gli stessi sogni che un giorno finalmente trasformerò in atti. Sì, sotto i miei passi devono ancora nascere interi mondi. Mentre rimane la traccia di quelli compiuti, le nascite prodotte dai passi odierni respingono il frutto delle mie azioni verso l’ultimo scalo... Troppo a lungo ho marciato su strade straniere, troppo a lungo ho bussato invano perché si aprano le porte dell’esilio. E tempo che ritrovi il mio passo. Inesorabile, lo specchio riflette soltanto me stesso. Affacciato alla finestra dell’istante guardo a monte e a valle abbracciando l’insieme della mia vita dalla culla alla tomba: poco prima della tomba resta ancora una piccola zona d’ombra... Tra ciò che deve divenire e ciò che è stato io tendo le mani aperte. Strattonato tra il nulla anteriore e la morte vicina, perseguitato dai ricordi, dove troverò appoggio? Il corpo è come un frutto maturo, la memoria un cimitero abbandonato, il Tempo ha fatto su di me una tacca che indica al boscaiolo l’albero da tagliare. Tuttavia la vita afferma la sua costante ribellione. Lentamente mi metto composto.

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Seminatore d’ineffabile, dispensatore di prodigi, così si riconosce l’istante che l’Uomo operaio riempie della sua presenza. Io invece resto l’incerto, come aprile per gli alberi da frutta. La morte abbrevia sia la strada larga e luminosa, sia il sentiero che termina in una sterpaglia inestricabile... In ogni caso elimina il pane. Ma si dice che ogni tanto ci lasci il grano. L’aurora talvolta s’annuncia con fiamme boreali che sorgono dalla mia notte... Chiara come un sogno di ripetute promesse, mi consente d’entrare in altri luoghi di presenza. Allora dentro di me cadono gli stracci invernali, e io mi trovo in preda alle fresche ustioni della Coscienza. E mi vengono fatte strane confidenze, cose proferite ad alta voce! Nuove albe s’oppongono al salire delle ombre, il respiro s’affretta, avido dello spirito che gliene viene e lo riempie. Subito tutto s’accresce in questo mondo chiuso e così spesso dimenticato, e le azioni della Presenza per me sono nuove. Molto a lungo. Forse più tardi potrò ascoltare il silenzio nel crepuscolo insanguinato delle sere... Ciò che m’infesta la memoria è un corteo di cose morte che, trascinate dallo scorrere ininterrotto del Tempo come zingare infaticabili, chiuse nel sacco di pelle in cui sono provvisoriamente accampato, pullulano in un groviglio ronzante difficile da fissare. Vuotare il carico d’inutili ricordi che mi girano in testa, buttare alle ortiche gli odori, il suono delle voci e dei passanti incontrati, un vecchio amore sorto dall’ombra... Arrivi, passaggi, soste, sguardi scomparsi catturati per un attimo, case abitate o sognate, melodie mai notate, campagne desiderate e subito abbandonate, giardini immersi nel sonno e poi il mare... Ah, il mare! Mare che rimbomba del suo rombo pesante, mare verso il quale ruscellano eternamente i miei desideri, mare di seta che tesse infaticabilmente un arazzo di schiuma sulle spiagge, via solcata da navi e immagini, mare che fa ribollire le rocce costiere e il mio cuore!... Finestre dormienti piene di ricordi che mai più si apriranno

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alle grandi speranze... Le mie cose di un tempo, derrate ormai guaste, assillano ancora la verità che mi abita... Ahimè! Ritrovare al più presto ciò che nutre le fonti permettendo che, davanti alla ribellione del mondo associativo, la specie umana, ancora intatta, si perpetri incessantemente.

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III La grazia dei limiti

Agli incroci che mi chiudono fuori dal mondo in cui vorrei cercarmi pendono alcune ombre. Brandelli di frasi svolazzano ai confini dei mari senza rive: pensieri oziosi, forme sepolte che si aprono un varco tra la materia e la luce, fra lo spirito e la solidità. L’obsolescenza dei mezzi diventa lampante, i templi sono ancora lontani, i luoghi nei quali un tempo amavo rinchiudere l’universo hanno svenduto i loro arcani e offrono al mio sguardo disincantato un rovescio famelico... Vagolo senza progetti con la testa ingombra di tracce ancora fresche di cose che, seppur impazienti di essere proclamate, dimenticano se stesse. Sommerso dal fiorire di pensieri indifferenti, legato al rigoglio delle immagini, attento mio malgrado al brusio del discorso interiore, agisco solo in ricordo dei nulla che un tempo mi sono stati essenziali. In questo giorno d’assenza mi piace portare il lutto: quello per l’adolescente perduto sin dall’inizio. Il dolore di partorire la Presenza a partire dal corpo, dalla sua densità pietrosa... Come prendono vita e verità la carne, lo spirito e l’essere? Quando in me una certa qualità d’essere comincia a fagocitare le immagini e i concetti, allora l’essenza stessa delle cose, colta improvvisamente, significa, agisce, è. A questo punto come lasciarmi interrogare dalle parole nuove - anche se ripetute - fatte a uso dell’Essere? E concedermi il lusso di trarre dalle fonti dell’infanzia la frescura e la forza che sovente sono state soltanto una vana promessa... E così che, per un momento, mi trovo dall’altra parte. 140

Essere: piacere plenario, poesia senza parole. Oh, la grazia dei limiti che permette di superarli! Quando si colma la distanza, lo spazio vuoto in cui si mescolano i miti, i simboli e F afflusso protagonista di ciò che in me li varca: spazio fino a quel momento mimato e poi, per un istante, vissuto... Smettere infine di vivere nell’al di qua... Trovare nel corrispondente al di là le nubi che ne mascheravano i limiti, la risoluzione della molteplicità. E indietreggi la presenza di tutte le cose con le quali di solito sono confuso. Là dove il balbettio delle tenebre non è più percettibile. Stupore per l’improvvisa gratuità di poter accedere oltre i limiti, là dove si consuma l’ombra... Apoteosi!... Momenti in cui svanisce l’insolito - quando l’ignoto diventa noto, quando è possibile esumare antiche intuizioni non ancora confermate da nulla. Istanti in cui l’abbandono degli antichi sogni mi libera dai fantasmi insistenti e chiude un tempo ora defunto, nel punto esatto in cui il mio bisogno si è biforcato... Sono stupito dalla mia improvvisa capacità di riconoscere la strada giusta. Servitore - talvolta disoccupato - della coscienza io, scalpitante ma incapace di fuggire davanti alla porta chiusa, incapace di riconoscere la fiamma che continuamente rinasce e riluce tra la schiuma e la polvere, resto Ferrante. Sentiero talora aperto e talora chiuso perché partecipe della respirazione del mondo, io percepisco il tocco leggero della mia dualità. Strisciando nello stretto corridoio in cui il tempo accumula ciò di cui si pasce, a ogni incrocio io, ghiacciato e immobilizzato in un’eternità insormontabile, m’imbatto nello specchio segreto degli orologi. Ma a ogni secondo il bilanciere espira al termine del suo movimento, e così io cammino nella notte divisa ascoltando il silenzio, rotto esclusivamente dal cuore che batte. Nell’attesa sicura del silenzio totale ed eterno.

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Fogli sparsi del Segno e del Verbo! Così un giorno ho definito queste mie brevi note. Fogli sparsi impregnati di vita sui quali s’iscrivono parole che significano, parole da cui restano il più possibile esclusi il valore geroglifico della scrittura e la musica mentale del linguaggio. Fogli sparsi nati da un istante di presenza: rileggendoli constato di nuovo la difficoltà di trasporre la sensazione vibratoria vissuta nell’istante dello sforzo in un ammasso di vocaboli che dovrebbero esprimerla al meglio. E, accettando ogni volta di provarci, finisco solitamente per ottenere la scomparsa quasi totale della sensazione da comunicare. Il verbo è interprete del segno che a sua volta è interprete dell’esperienza vissuta: due intermediari successivi, vale a dire due occasioni di tradire il principio originario che intendo servire. In questi fogli sparsi traspare abbastanza l’inquietudine che nutro in proposito? Il giardino s’annoia sotto il cielo grigiastro. Ritti nell’inquieto silenzio domenicale, i pini si piegano sotto il tiepido vento agitando i rami più alti come una chioma disciolta. Nostalgia di volti rischiarati dalla sanguinante nudità di un sorriso, nostalgia di carni generose, del lieve gusto di sale che hanno il sesso e le lacrime... Perché d’un tratto si fanno più aspre sotto i miei passi le irregolarità del terreno, perché in me ogni velleità poetica tace, lasciando posto soltanto ai riflessi passeggeri di parole errabonde? Dopo essermi avvicinato ai limiti del silenzio più ardente, eccomi rigettato di colpo ai tropici del verbo, come se l’essenziale, comunque, si dovesse proferire sul campo! Irrigidito in un trepidante faccia a faccia con le parole, le delizie sono fuggite improvvise, le chimere propongono estasi sublimi, il linguaggio è momentaneamente tornato nella tomba del dizionario... Il cristallo della mia penna diventa opaco. Tarda il futuro, ...il giardino s’annoia sotto il cielo grigiastro. Quanto ho da dire non può esprimersi che al limite del silenzio. Luogo che va cercato nello spazio in cui galleggiano le parole e che si trova soltanto sulla traiettoria che unisce i volumi disponibili all’attenzione. 142

Questo spazio a metà strada fra mito e testimonianza, indissociabile dall’uno e dall’altra e in armonia col ritmo del mondo, va avvicinato con rispetto, ma anche con timore. Dato che scaturisce direttamente dallo strumento umano, dare un nome a ciò che l’essenza stessa della vita produce equivale a sottrargli gran parte della sua realtà. Più nuda d’una spada sguainata, l’attenzione arde in direzione del vuoto mettendo all’asta le mie brame più forti. SULLA TOMBA DI A.

Il funereo silenzio dei cimiteri favorisce il raccoglimento. Ogni filo d’erba è come un sospiro esalato che mi giunge all’orecchio, aprendo la strada a una fame che nulla riesce a calmare. L’azzurro drappo del cielo copre il solitario sepolcro appena rivelato da una semplice pietra. L’inevitabile dolore di essere accompagna la lunga agonia che abbiamo sofferto con lei. Fra poco sarà passato un decennio dal giorno in cui la fonte s’è prosciugata. La fonte dalla quale veniva l’acqua che estingueva ogni sete... E il balsamo del tempo non ha ancora guarito ciò che l’assenza cancella. Sciami di stelle passano sulla tomba da un bordo all’altro del cielo, deponendo sui fiori un avaro chiarore. Chi siete, esseri dell’altra riva che talvolta ci regalate l’odore dolciastro della morte? Sapreste raccontare a noi, sordi e ciechi, ciò che promette la morte? E noi, vivi rosi dall’impazienza, impareremo finalmente a nascere con l’anima presente alla messe del grano? Al fendente dell’attenzione lo sforzo talora diventa provocazione quando, sulla barriera dei limiti, mi arrischio a dire ciò che sento essere giusto e forte. Allora tutto ciò che la parola solleva si trasforma nell’alba di ciò che ieri era il crepuscolo; persino l’inevitabile fardello che ne discende s’alleggerisce e inizia subito a servire la vita... dall’orizzonte avanza il futuro, an- ch’esso alleggerito e disposto allo stesso servizio. Eppure tra me e la morte la distanza è sempre minore.

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L’aspra felicità di un gesto volontario compiuto nelle sere in cui il silenzio moltiplica le stelle, dopo una giornata d’oblio. Una brezza leggera trasporta il polline dell’attenzione verso incessanti fecondazioni. E freme già l’embrione, obbedendo all’oscuro disegno della Creazione. Fecondando il pensiero e unendosi all’incandescenza del sentimento, il fiore raro della Presenza spande profumo. Come la linfa salita dalle radici più profonde va a morire all’orlo delle corolle appena sbocciate, così trema un singhiozzo sulle mie labbra... La Presenza si fa e si disfa seguendo le tensioni e i rilassamenti. Piegata sotto il mio carico di sonno, la sua potenza mi drizza, e la Presenza mi depone sulla fronte il suo colore di rosa, preludio a felici successi. Come abbracci d’amanti! Nelle feste dell’ombra serale l’uomo dentro di me comincia a essere. Era ora. Ricorderò sempre abbastanza i solchi profondi che lasciava su di noi il possente aratro del Maestro nelle memorabili sere del 1947/48/49? Nessun letargo avrebbe potuto resistere alle sonore promesse di una parola tanto incisiva! Egli disfaceva all’istante i nostri sogni assurdi che ne debordavano. La nostra infanzia se ne andava a piccoli passi, eravamo nudi. E marciavamo verso l’altro versante del cielo, ancora ignari del fatto che avevamo lasciato per sempre il paese del sonno perpetuo. Tutti noi, idioti ignoranti ma presenti, portavamo l’impronta del suo sguardo. Ogni tanto lo vedevamo immobile, intento a interrogare la sua saggezza, attento al respiro e a vegliare su tutti, ogni tanto fiorente di compassione, capace di ridere e di elargirci la sua toccante bonarietà... Ricorderò a sufficienza il continuo crepitare di idee e di conoscenze inedite che avveniva dentro di me? Dall’uscita del deserto interiore in cui vagavamo mi arrivava un’insospettata influenza nuova ed eloquente. Strane forze in movimento, capaci di fagocitare le tenebre e di vincere antiche foschie, mi restituivano alle terre di un tempo. Insolitamente, la vita mi veniva ridata. Un’altra volta. Lo ricorderò a sufficienza? 144

Attorno alla Coscienza si costituisce lentamente una zona di conoscenza che ravvolge: un’atmosfera piena di vie silenziose, luogo d’incontri, di legami e di scambi. Anche zona di sofferenza, trappola dell’oblio che rinasce continuamente; fonte di perpetui tormenti, vi nascono allo stesso tempo il lampo del simbolo e la menzogna dell’ego, l’astratto e il concreto, la materia di cui è fatta la Presenza e gli strettissimi nodi fatti dai sistemi contraddittori. La sarabanda dei pensieri associativi vi dispiega i suoi fasti mentre forze ancora ignote, sepolte nell’innominato fin dall’inizio del mondo, si levano risvegliando chissà quale nostalgia inaspettata. Zona di conoscenza dove il passato ha lasciato solo tracce leggere, in cui i luoghi e le epoche si confondono; presterò sufficiente attenzione alla comparsa dei Segni, comparsa che avviene laggiù, nella sua infinita diversità? E saprò rispondere per le rime all’invettiva dell’istante che tende ad allontanarmene? Estasi alla mia misura: così sono i punti forti della linea melodica che oggi lo sforzo suscita in me. Per la grazia dei limiti oltre i quali mi sono appena elevato, entrando con scasso là dove s’esercita il potere della Coscienza, ho inalato frammenti del Tutto che talvolta parzialmente intuisco. Febbre d’un momento vissuto improvvisamente in maniera diversa. Là dove s’affila l’atto volontario, dove splende la luce discesa dalle glorie boreali; ma subito ne perdo il ricordo e tutto s’estingue. Ho già disertato. È una bella scommessa voler designare - ovvero esprimere a parole - ciò che costituisce la vera sostanza della ricerca. Allo sforzo del pensiero questa sostanza presenta il carattere folgorante dell’astratto. E quindi la sua espressione non può che dipendere strettamente da un vocabolario più o meno ampio. Una dipendenza che non è assolutamente possibile limitare a un’impresa intellettuale.

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Ed è proprio così che bisogna immergersi nelle sue profondità. Pena l’insabbiamento definitivo. Non sto forse scoprendo che basta fare alcuni gesti, dire alcune parole, provare alcuni sentimenti ed espellere alcuni falsi valori perché tutto sia diverso? E per sempre! Approdare a un presente senza rughe che il mio sguardo feconda; con le mani piene d’offerte, accompagnare il volo ostinato del tempo, contenere la piena dei pensieri nell’argine delle notti d’estate, marciare a passi contati verso il termine, ritualizzando gli istanti successivi della vita... Creare uno spazio in cui espandermi imparando parole-scintille, parole rare e infiammabili, capaci di consumarsi appena enunciate! Aumentare lo slancio, entrare in forme riconciliate tra l’Evento e la gloria del Presente, a uguale distanza da entrambi, annientare i conflitti « desiderio/pensiero » e far sì ch’entrambi si uniscano come lo sguardo e la stella proclamando ciascuno i propri limiti... Giunto così alle rive del risveglio dopo aver lasciato ciò che, a causa della mia cecità permanente, non è mai avvenuto, sono riuscito a seminare la terra, a lanciare alcuni chicchi venuti dal profondo. Oggi aspetto paziente che nel cielo d’autunno si levino finalmente nuove costellazioni. L’impronta dell’infanzia segna i ricordi e rende tangibile il messaggio di allora. La verità sta nell’impronta e non nel ricordo: alba tinta di crepuscolo, numero d’Oro della Conoscenza già in marcia... Ma perché la Verità si è rivestita di una maschera dipinta coi colori umani, perché ha permesso la trasgressione della legge che coronava l’uomo, perché il desiderio s’imbatte così spesso in porte chiuse? L’orecchio non è libero e l’occhio si chiude; il pensiero incerto s’attacca alle sequenze dei ricordi; attento ai segni iscritti sulla sabbia del sapere, io m’infogno negli equivoci. Mi trovo ancora nelle stagioni dolciastre del dubbio, ma coni’è forte il gusto di vivere che sento!

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Entrare a occhi aperti nel vasto miracolo di vivere... Devo lasciare i luoghi in cui sono, partire, scavalcare lo steccato del futuro da cui sono punteggiato a ogni istante, farmi carico di ciò che trovo dall'altra parte... A tal fine devo sbarazzarmi delle abitudini, cacciarle a calci fuori dal mondo, resistere alla pressione del Tempo chiamata impazienza, arrancare sul sentiero fino al cuore di me stesso, fonte e tomba da cui provengo e verso cui vado, duplice nube d'ignoto... Non ero « io », ancora. L'oblio di me: un'intemperie che attraversa lo spazio di un pensiero. Da dove trarrò i miei piaceri se scarto dal sentiero le leggende colorate d’aurora che mi faccio raccontare dalla testa ciarlona? E le favole che si svolgono nella cavità parietale? I miei atti s’affannano per sfuggire all'angoscia da oscurità suscitata dalla coscienza, ma, respinti dalla Presenza, svaniscono pian piano perdendosi nel caos dei ricordi. Allora mi levo, io mi levo, emergendo dal nulla, improvvisamente lecito, complice della più alta speranza e radioso come un sole nuovo. Padre, figlio e spirito, egli E. Segno proclamato sopra l'incendio dei sentieri contorti, io va più lontano, trionfando su strade remote e disarmando il cipiglio del peccatore smascherato. E tempo di vivere, di rinunciare ai sogni d'ordine, agli stucchi scrostati del barocco in cui a lungo ho vissuto. Scende la sera sul mio percorso terrestre, ma nuove fronde perforano i giorni; io emerge lentamente dall'immensa fioritura di desideri, di pensieri e di sensazioni che mi viene continuamente elargita. La gioia mi riempie, mentre la morte fa capolino dal lucernario, inoffensiva... Fino a quando? Finché non inaridiscono le fontane, finché non cessa per sempre la valanga di lodi gratuite di cui troppo a lungo mi sono dissetato, finché non cessano i sogni notturni che fanno seccare le rose fiorite sulle rovine, finché non svanisce il paese natale che dovrò lasciare e finché non si leva nella sua giovane gloria l'anima sovrana, fiera dei suoi primi passi. Oh, il canto dell'attenzione all'opera nel mio risveglio! Padroneggiare finalmente la luce -come il sole padroneggia la sua-

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in modo che cominci a brillare sulla tomba in cui giace l’Uomo, in piedi, frutto che persiste a essere, nato dai rami della Creazione nel vivo dell’eterno... Separate dal Tempo, alcune particelle distinte da ciò che mi sento essere s’inclinano talora davanti alla vita iniziale che sorge e s’espande. Dal centro del corpo, base inespugnabile dell’esistenza, sale, vita contro vita, un raggio che mi tocca la fronte in quel punto privilegiato che si trova a uguale distanza dai due fuochi dello sguardo... Lontano dalle terre ombrose del quotidiano e dai tiepidi sudori dello sforzo, il « prima » è svanito. Che cosa dentro di me nutre d’un tratto la luce? Tutto diventa immenso, persino la gioia. Soprattutto la gioia! Un percorso a zig zag che, una volta finito, sembra rettilineo: ecco la mia vita. Che cosa dunque si perde, lasciando soltanto l’essenziale? Scorie di ricordi e d’impressioni a buon mercato, scomparse nell’eternità... Ciò che resta nobilita il passato, e tuttavia non è più affatto il passato: talvolta vi trova posto il presente, mentre il futuro vi spia il divenire. Così la vita diventa qualcosa che si sbarazza del tempo. L’istante in cui l’ornamento diventa la cosa che ornava. Talvolta persino le parole accettano la metamorfosi, e s’infrangono come spinte dal vento diventando presenza alla soglia di un altro mondo: sono il segno, sono il verbo che nutre i miei ricorrenti bisogni; raccoglitrici d’idee temporaneamente naufragate, le parole acquistano fulgore; portatrici di valori sviati, ritrovano peso fuori dalle leggende trite e ritrite. E riprendono a significare. L’opera sussulta al primo passo tentato, lo sguardo si alza verso i limiti, la lunga fila di sogni smette di errare, e io sono pronto per l’irruzione di ciò che supera le forze cieche delle mie antiche ricchezze ormai svalutate. Cessa l’equivoco, s’interrompe la piena degli automatismi invadenti; ai confini visibili della realtà io vado a testa alta a destare il dormiente ribelle, perduto su sentieri insensati...

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Perché avvenga la muta delle vanità che mi riempiono: ai limiti del mondo d’esilio talvolta raggiunto dai miei desideri, ritrovare il punto in cui è cominciato il declino dei tempi giusti... Chi mai, alla deriva del secolo, mi ha trascinato lontano dalle rive natali, all’opposto del luogo in cui risiedeva il mio bene? Il dono d’intere panoplie destinate soltanto a nutrire i sogni, le opacità cadute come un velo sulla mente attiva, le croci bianche fatte nelle sere festose (nient’altro che segni delebili), gli istanti senza memoria e l’oblio delle opere manuali, il riposo sui morbidi letti, i falsi riflessi di ciò che ho percepito all’alba dell’età adulta, è tutto questo, senz’altro, che bisogna gettare nell’ombra perché avvenga la muta. E perché, attraverso la grazia infinita delle forze sfiorate, io abbia finalmente accesso alle glorie umane promesse da sempre!

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IV Ricongiungimento

Riallacciare i fili spezzati in tempo d’infanzia. A tal fine partire dalla carne - come un fiume che scorra dal mare alla sorgente - e raggiungere il bersaglio della coscienza (comunque lo si voglia chiamare), navigando sul sangue con le vele al vento dell’attenzione... Notare di sfuggita ciò che l’istante consuma e ciò che resta quando si prosegue il cammino, specie di relitti che sfuggono al perpetuo naufragio del Tempo. E i fili ricongiunti li legano, li salvano dal diluvio in cui vengono trascinati dai pensieri associativi. E diventano fasci di luce tosto lapidati, ahimè, e in gran parte colati a picco... Ripetutamente e instancabilmente bisogna ricongiungere i fili. Sarò il traghettatore di tutto ciò che insorge dentro di me? E che, senza il mio aiuto, resterebbe ancorato nel porto dei ricordi? Mentre cammino verso il paese senza nome cui devo approdare, smetterò di svendere l’asina della mia condizione d’uomo per un paniere di sogni? Lottando contro il desiderio dello spirito e scoprendo i più antichi soprusi, lascerò finalmente la notte e riuscirò a contemplare il mio volto paziente? Riparato dal belletto che tanto a lungo mi ha orientato il profilo, approderò al molo che mi attende? Potrò finalmente gettare la primavera sulle mie piaghe, alleggerire il peso del fango e prendere lo slancio verso un abbraccio definitivo con la Coscienza? Complice del mio carceriere, mi verrà concesso di arrivare all’incorruttibile, offerto da sempre insieme a ogni istante evaporato di vita? Va e vieni tra il possibile e il probabile... La risposta non è ancora data.

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Siccome alcune proprietà sono caratteristiche della materia erbale, la scrittura non può esprimerle. Perciò talvolta le parole udite hanno più forza di quelle lette su un pezzo di carta. La frase scritta nuota nell’acqua trasparente prima di scornarne come un segnale spento; la parola è un’arma carica in gra- o di sparare il segreto che contiene prima d’essere detta. Alcuni pensieri tremano sulle labbra delle parole emesse, la voce risuona e s’accorda ai rumori abituali, ma è a mezza voce che si dicono le parole del ricongiungimento, quelle che hanno il potere di smascherare l’indicibile verso cui l’uomo deve salire grazie alla scala d’oro del silenzio... Parole animate da una fiamma vacante come un battito cardiaco sul punto di estinguersi. Parola, canale indispensabile per ritrovare la fonte delle forze creative, ma incapace di rivelarne la vera natura. Parole che all’ascolto costringono a piangere... inebriate dai tesori dell’indici- ile, capaci di squarciare le tenebre... Invece lo scritto può solo raccontarne la storia. Insoddisfazione perpetua. Inciampiamo sulla materia, ci areniamo sulla mancanza d’energia. Drogati dalla persona, malati di abitudini e di ripetizioni, ubriachi di sogni, come agire perché lo spirito precipiti nel crogiolo dell’anima e acceda ad altre dimensioni? Rosi dal pensiero, decomposti da emozioni incontrollate, rinsecchiti dall’indifferenza, saremo un giorno capaci di affrontare la morte a occhi aperti? Siamo soltanto in vista del problema? Eppure... Quanti segreti ci vengono incontro ogni giorno. a ci preoccupiamo di sollevare il coperchio per farli entrare, sappiamo stancare il rifiuto? La sirena del sangue mi risuona nelle orecchie. Una luce piccola - s’accende e, lentamente, sale l’aroma della Presenza. Tutto è cambiato. Uomo per uomo, dono per dono. Lo shock del Ricordo di sé copre di stelle lo specchio liscio ella mia vita di sonno... Entro in un cerchio di silenzio che amo per la

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sua purezza. L’attenzione alza le antenne verso la chiarezza lasciata dai miraggi della durata. S’indeboliscono alcuni valori caduti dalle prigioni senza sbarre in cui li tenevo. Scavalcando secoli sepolti fuori dal mio spazio abituale, sento il vomere rivoltare gli automatismi dentro di me. Colpite da vibrazioni incrociate, le vecchie parole del linguaggio faticano a ritrovare l’Idea, e il cielo aperto della Presenza lascia entrare una sostanza che si deposita al fondo di me. Forse un giorno bisognerà scendere a prenderla o, viceversa, bisognerà esserne presi. E non mostrare alcuna ingratitudine, lasciar svanire la schiuma delle cose, aggrapparsi alla roccia che un tempo mi faceva colare a picco, là dove mi attardavo nelle ombre passeggere e sentivo profumi: scorie odorose di forze esaurite... Avanzare senza paura, adesso. E come un fuoco che s’accende e divampa! Scrivere una musica di parole... avvicinarle pian piano, prenderle - o sorprenderle! Un istante le fa evaporare mentre quello successivo le riannoda e traspone, cancellando talvolta un pensiero troppo diretto, indebitamente racchiuso al loro interno, che ne avrebbe offuscato la musica... Musica della Coscienza perennemente in fuga nel futuro dove occorre inseguirla. Le parole casuali vestite di sole apparenze non bastano, ahimè, a ricrearla. La Coscienza? Un limite. All’infinito. Mattine difficili in cui la ricerca si contorce come un verme... Io la sento respirare vicinissima col mio stesso fiato, ma non riesco a raggiungerla. Pensieri che volteggiano lassù in un mulinello. Ogni tanto il sorriso finisce in singhiozzi. Ah! Arrendermi completamente ed essere condotto per mano là dove il cervello dà le dimissioni, dove l’oracolo sbalordito dà il suo responso, fonte di risposte appena abbozzate. Metastasi di bruscoli di coscienza oggi infermi, pruriti ancora sensibili a fior di pelle, attrazione dell’inerzia. Alla fine mi tocca indossare il sapere. Allora ricominciano le tempeste emorragiche, grande frastuono di cateratte aperte nella caverna parietale, cadono idee come proiettili, palpitazioni cardiache accelerate; poi d’un tratto « qualcosa » prolunga l’intelligenza: un movimento

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particolare comune a tutto l’universo, superstite del cataclisma quotidiano. Ecco l’uomo! Saper dire. Dire giusto. E camminare. Andare di miraggio in miraggio fino alla meta: la Coscienza. Oggi che si placano i rumori del mondo intorno a tutto ciò che so e a ciò che sono, in questo periodo inesorabile di riflusso della mia vita, sul gradino della porta che si apre sulla Coscienza sento dirsi le parole ardenti di cui la mia storia è intessuta... I miei atti si allontanano come l’albero che si fonde con la foresta cui appartiene. Le albe sono mute e spesso senza speranza, mentre mi parlano i crepuscoli venuti da opposti versanti, dove nascono aurore fin qui mai concepite. Ogni mattino nasco carico di notte, ma provvisto della chiarezza portata dal rimedio che dovrò conquistare tutto il giorno... Affinché le opere entrino in me e s’affermi il potere di essere: parte divina a lungo smarrita nell’uomo nascosto sotto mentite spoglie. Finché si operi il ricongiungimento e si affermi ben chiaro che sono un uomo. Ah! Raccogliere i frutti estremi dei desideri, deporli dove siano marcati da segni capaci di liberarli da decadenze antichissime! Con gli occhi ancora pieni di tenebre notturne e disposto ad ascoltare il passo delle ore fuggenti, vedo cadere i miei atti tra le cose erranti del mondo. Poi mi raddrizzo, tendendo l’orecchio verso gli incitamenti del Presente, e depongo ogni ricordo cercando chi mi garantisca cosa ho detto prima... Carico di scritti che descrivono le rovine dei templi e i clamori o le grida che rivelano un crudele tormento, cammino sull’erba per liberarmi dalle sozzure, per disperdere il loro profumo nella tiepida brezza serale... e per smettere di sognare un sogno troppo grande per lo spazio dell’osso parietale! Arrivano finalmente i docili frutti della ricerca quotidiana,

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flusso improvviso come quello del sangue tumultuoso nelle sere d’amore. E s’apre la Coscienza al mattino di un’età che non conosce declino. Tutta intorno a me sulla terra s’estende l’ombra della tristezza. Sono chiuse le porte delle stanze ancora proibite. Lunghi fili di pensieri allacciati alla memoria pendono inutili, e io avanzo a caso nella loro scia fuggitiva in cerca d’altri luoghi. Più prezioso perché in pericolo sulla stretta riva lungo la quale cammino, lo sforzo messo a nudo disperde le forze che tornano sempre alla carica. Come una vedetta appostata in cima ai bastioni a spiare il volo dell’attenzione, che di colpo si posa sulla piega della fronte tra gli occhi, lo sforzo s’insedia nella novità del giorno, pronto forse a durare così fino al sorgere della prima stella che si presenti alle soglie dell’occidente. Una grande impresa mi attende: partire alla ricerca dei mondi immersi dentro di me, mondi un tempo viventi che emergono come terre inondate quando finisce la piena. Sciogliendo la stretta delle tensioni quotidiane per sentir colare la linfa del sangue, io vado libero a onorare altri luoghi perché improvvisamente posso accedere ai riti dell’Uomo, ritto in piedi su soglie invisibili... Pura semina di chicchi prodotti dalla tristezza, già s’annuncia la messe. Il mondo interiore: come l’immagine di un Tempio, inutile perché troppo guardata... Per descriverla ciascuno usa il proprio dialetto. Ci vorrebbe un poema per raccontare le magie che l’infanzia vi ha immagazzinato e le chiare premesse che la morte vi mescola... un poema che racconti l’immensa fatica che scoppia in un profluvio di chicchi, che parli di lievito, di fermento, di grandi feste domenicali... Il mio mondo interiore: dissetare al divino le labbra impazienti, tendere all’altare le mani d’argilla, deporre le catene; linguaggio nuovo, ritorno alla fonte, giorno eterno della mia nascita da cui salgono le ombre crescenti che mi avvolgeranno al momento della morte. Mondo interiore, rifugio più nuovo della sete, ossario dei sogni, chi sei?

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Una lunga confidenza, un giorno intelligibile. Spompato! Persino passare da un pensiero all’altro mi stanca. Le parole non hanno più gusto e sostanza. Gli occhi sono oblò mal richiusi in cui fermentano lacrime di Maddalena. Lo sguardo è una corrente furtiva in cui si riflette un’attenzione da paccottiglia. E al di sopra di tutto la vertigine: atomi di sensazione che aumentano, danzano e cadono. Nella testa, bussola scombussolata, le idee cadono come pacchetti cui si rompa lo spago. Il corpo, farcito da instabili centri di gravità, s’aggrappa come può alle stelle filanti dell’abitudine... L’emozione attizza il fuoco nel cielo piatto, arrossando angoli d’ombra che ammiccano come palpebre... La mia vita è l’antro del nulla. Tutto ciò fa venire la sera, fa avvicinare la morte. La morte: un naufragio lontano visto dalla riva sulla quale ancora mi trovo! Dopo l’intervallo, ricongiungersi al presente e ripopolare gli echi. Restando attento, ho appena sentito la risposta dell’Essere al quotidiano « chi sono? »: un amalgama di creato e divino imbarcato sul vascello del Tempo... Ma anche un fragile masso erratico, smarrito sulle diagonali dello Spazio con frasi incompiute sulle labbra. Ma forse nella mia bocca non tarderanno le parole del messaggio e si leverà un grande respiro che segnalerà la grandezza crescente dell’Uomo in via di sviluppo. S’avanza la coppa sfiorata dalle labbra del divino. Scopritori d’enigmi, rivelatori di Segni, maestri del Simbolo, ecco quelli che forse un giorno saranno i detentori dell’Azione... E che resteranno in piedi al mio fianco, vincitori, mentre prima l’accesso al loro Tempio m’era vietato. E l’ora? Sta per nascere l’Uomo? Ahimè, la ricerca e l’avvenire sboccano ancora sulla granitica muraglia del futuro. La natura ha messo in fondo a qualcuno di noi un richiamo incessante che a lungo facciamo finta di non sentire.

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Su quali morti vegliano i fiori dei campi? Falciati insieme al grano e strappati dalla terra su cui la natura li ha incastonati per una breve stagione, i fiori perdono contemporaneamente la verticalità e l’anima. Fiori per festeggiare la nascita, fiori per onorare la morte! Il loro profumo non è forse fatto solo di risposte mai date? Tuttavia l’ape e la farfalla domandano, e ne ricevono una messe di gioia spensierata e di miele... Ma i colori esuberanti, e i semi, e i frutti che nascono con l’aiuto del vento?... Allora riprendono a parlare le voci prese in prestito dalle risposte. ...« nell’ora della nostra morte... » Dall’origine al sepolcro la campana del risveglio rintocca talora con un suono gioioso nel quale ho creduto a lungo di riconoscermi. Poi, da quando ho imparato a vivere, la campana è diventata materna. Temporaneamente. Oggi il suo rintocco lontano è un inutile - benché indispensabile - suonare a morto che cresce ogni giorno di più. Perché preoccuparmene? Per l’Universo ciò che è prossimo a morire ha ben poca importanza. Andare verso se stessi con P aiuto degli echi, di parola in parola, di sensazione in sensazione, scoprire il sentiero di un continente ignoto, irto d’immagini e di emozioni. Puntare sul mondo uno sguardo ricettivo che accolga nel suo raggio impressioni da lungo tempo inaccessibili affinché l’anima, ancora priva di focolare, raggiunga l’assente. Cogliere i frutti della pazienza quando persino le parole indietreggiano. Meritare i riti, abbordare il sacro, sentirmi vibrare alle porte della gioia... Tutto questo, tutto questo, tutto questo insieme! Possa nascerne l’opera, un’opera di pietra fra due momenti. Sovrastata dai fulmini di uno sguardo contrario. Da una frase trovata in un volume della mia « Plèiade » ho saputo che esiste una pianta chiamata « Ricongiunta ». Il fatto che questo capitolo - espressione dei più stretti ricongiungimenti fra l’apparenza e la realtà avvenuti in me negli ultimi tempi - sia posto

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sotto l’egida di una pianta comune mi sembra un felice presagio. Nell’istante di calma posso lasciar spaziare lo sguardo su ciò che nell’adolescenza mi è stato sottratto, posso scavalcare il periodo in cui le parole cariche di significato non hanno più avuto presa e in cui i fiori non hanno avuto profumo, affinché un giorno il fiore della « ricongiunta » partecipi col suo profumo ai supremi ricongiungimenti dell’Essere. Desolante povertà di un mondo inattuale in cui ciascuno si crede presente. Un mondo che prende a prestito dal tempo il turpe privilegio di essudare istanti come fossero pus che esce lentamente da un ascesso maturo schiacciato tra due dita... Enigma delle confluenze in cui l’Istantaneo potrebbe fondersi al Presente ed essergli sottomesso. Dire parole in sua gloria, concepire l’Atto ch’egli contiene, e subito le parole significano, l’Atto succede all’intenzione che lo genera. Allora l’uomo si erge. E cominciano tempi in cui il Presente e l’Istantaneo mostrano una strana connivenza. Sintesi provvisoria dei contrari, l’uomo accede all’Ordine, un Ordine in cui propriamente brilla l’identità dei contrari e in cui l’atto e l’intenzione si confondono alla loro stessa sorgente. Una volta fusi insieme, il Presente contiene l’identità e ciò che la contraddice, il Principio e ciò che lo nega. Allora l’uomo in ogni momento può coniugare il verbo ESSERE, sia riguardo al « mondo interiore », sia riguardo a ciò che inconsciamente lo lega al mondo ordinario. Interrogato improvvisamente dal bisogno di essere! Torturato da ciò che entra dalla falla prodotta in me dallo sforzo appena compiuto. E come andare controsenso su una giostra di cavalli che gira! La domanda e ciò che potrebbe rispondervi si tamponano con un grande fracasso d’impressioni. Tutto intorno l’aria si riempie di bolle sottili, penetra nei miei seni nasali melmosi e s’unisce alla domanda insopportabile... Ritrovare l’itinerario grazie al quale pensieri e sentimenti d’un tratto fecondi si ricongiungano con l’istante in un gran movimento unitario. E si levi l’ovazione della Presenza finalmente radiosa.

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Svaniti i presagi, mi è concesso di vivere; mi serva di lezione, e scoppino le risposte gettando alle tenebre i satelliti della ragione. L’uomo, quest’insolente che pretende di penetrare i misteri dell’Universo! Cercando di risolvere l’equazione della vita sul suo tavolo di carne alla luce di astri che irraggiano debolmente pallide incandescenze, credendosi il sosia di Dio, industriandosi in mille maniere - talvolta le peggiori - a manifestare i poteri dell’amore, legato com’è al disco instancabile del « pensiero », come potrebbe anche solo enunciare i dati del problema? Eppure quante volte esulta, sbandierando un sapere basato su coordinate definitive che vanno ricalcolate più volte per secolo... Giocando con le dimensioni e giudicandosi l’Ordine stesso, l’uomo ben presto s’imbatte nell’insolubile malgrado la gloria, l’onore e altre cose consimili. Fino al giorno in cui finalmente un vomere rivolta ciò ch’egli chiama « saggezza ». Allora l’uomo si scopre inestinguibile e nuovo, pieno di altre sonorità che fanno risuonare nuovi echi, e ben presto si rivela necessario un inventario permanente dell’imprevisto. Dalla sua nuova fame nasce « qualcosa » in grado di ricordare e fissare la debolezza della presunta verità di una volta, di arrestare la fuga continua del tempo, di stabilizzare le mille effervescenze dell’emozione. Estraneo all’uomo di prima e armato del nuovo linguaggio da lui inventato, egli si trova aperto a un’altra sensualità, pronto ad accogliere eccitazioni più sottili e improvvisamente affamato di nuovi interrogativi. E anche consapevole, Dio sia lodato, che i prodigi appena scoperti, se abbandonati nelle sue mani, passano, come passano le delizie della carne e dello spirito, ma pure consapevole che, là dove i prodigi finiscono, si leva un purissimo canto fino allora inaudito, proveniente dagli enigmatici territori della Coscienza... La ricerca è un’epopea di cui la Coscienza è innanzitutto l’eroe. Basta la Presenza per spostare dentro di me gli attributi del mondo. Istanti più lunghi mi calmano l’impazienza. Meraviglia di essere. Cosa c’è ora che prima non c’era e di cui mi sono invaghito perdutamente per sempre?

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L’istante in cui, varcata ogni frontiera, la celebrazione del Presente comincia... Come un ritorno alla magica sorgente dell’infanzia, quando tutto era festa - il mattino, il mezzogiorno e la sera, ciascuno con la sua gioia - e quando tutto era vasto: le praterie, i deserti, i suoni, i profumi, ogni minima impressione. Sembrava che tutto dovesse durare per sempre, ogni evento si lasciava dietro non solo un ricordo ma qualcosa di più, la felicità mi risuonava dentro come un cristallo, le mani e gli occhi si richiudevano sempre su qualche meraviglia... Epoca ancora vicina, anzi, appena trascorsa! Oggi la Presenza mi lascia in bocca un gusto di vino nuovo, e regna sovrana dentro di me come un invito supremo a vivere. Luogo di confluenza, punto atemporale in cui convergono tutti i movimenti della vita, sintesi d’influenze vicine e lontane, forza senza violenza, lingua senza parole, materia-spirito più qualcosa, per l’Essere allo zenit la Presenza è puro diletto. Io, privo di senso e giunto da un paese senza nome, lascerò finalmente per sempre l’esilio, approderò alla riva su cui si risolvono i contrari, mi allontanerò dall’uomo parolaio e sognatore per « essere » semplicemente, per essere l’Uomo? Atto e sogno al contempo. Raccogliere le cose sparse e ascoltare il canto del vivente, mentre è ancora tempo... L’Atto nato da un fascio di volontà riunite perfora il tessuto d’ignavia roso dall’ora spietata. Scorre il ruscello, simile ai sogni stiracchiati che mi riempiono al mattino; l’albero senza uccelli orna il cielo all’orizzonte, l’erba abbandonata dall’insetto vibra ancora a lungo, e tutto nutre in me i diversi luoghi che, improvvisamente vasti, si riempiono di uno spazio poco prima gremito. Adesso i giardini e i boschi mi sono abituali; dalle prime luci dell’alba fino ai battiti d’ali del vespro, spio il tuo sorriso lungo il sentiero sul quale mi vieni incontro con un mazzo di fiori in mano. Vacanze...

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Dentro di me un cielo fatto a mia misura; fuggire la caverna senza tetto in cui passo la vita... Tremante e allarmato da tutto ciò che striscia e ribolle dentro di me, ascolto i rimorsi di coscienza parlare a bassa voce. Nel giardino contiguo al recesso della caverna in cui poco fa mi trovavo, la Presenza fiorisce con ombrelle odorose, dominatrice perché ha domato il Tempo: tanto il passato, viaggio compiuto con ciò che non esiste più, quanto il futuro, un silenzio che regna dietro i muri di una vecchia casa sprangata... Talvolta il passato ritorna e m’assilla. Il futuro dorme ancora fra lenzuola piene di fronzoli ed emana un odore fallace, appena avvertibile, che mette in dubbio antiche certezze. Non svegliamolo. Il futuro... un ignoto meraviglioso che si esaurirà sul mio letto di morte... Cosa si muove improvvisamente nella polpa del chicco? Forze ricongiunte: il solco fecondo e il potere del seme ripetono la vita. Specchio per la ricerca. Ascolto le confidenze di un fuoco inventato da un desiderio feroce. La neve si scioglie davanti alla transumanza dell’attenzione abituale. La Presenza scintilla, ultima nata dei supremi ricongiungimenti. Presenza della Festa, Presenza della luce. O silenzio!

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V Il silenzio ascoltato

La saggezza è innanzitutto silenzio, e s’acquisisce solo per filiazione spirituale. Come nei paesi orientali la notte precede il giorno, così la saggezza si raggiunge solo dopo un lungo periplo nelle tenebre. La strada che a essa conduce passa per l’umiltà. Non l’umiltà che sminuisce i veri valori e abbassa l’uomo che li possiede, bensì il corretto apprezzamento di ciò che conduce alla verità senza badare alle conseguenze. Inoltre passa per la spoliazione, che non è affatto l’abbandono o la rinuncia alle cose buone e giuste messe a disposizione dell’uomo, ma l’atto che consiste nel cancellare in se stessi le tracce di tutto ciò che nasce dall’automatismo per offrire alla saggezza un ricettacolo vuoto in cui possa regnare. Il rumore dei pensieri, l’agitazione del sentimento e le impazienze del corpo faranno man mano posto al silenzio. Poi, molto tempo dopo, l’uomo diventerà un santuario. Il santuario resterà, ma l’uomo di carne non prosciugherà mai il Tempo. Il silenzio è l’alveo della saggezza. Talvolta il silenzio è complice della mia profondità tenebrosa. Più vasto dell’oceano, ma immobile, terra da riconquistare continuamente, il silenzio matura e innalza fino al cielo la sua potenzialità inestinguibile. Ascolto il silenzio venuto dai versanti del tramonto aspirarmi i pensieri e deviarmi le parole verso i pozzi senza fondo dell’inespresso, l’ascolto emettere un serico brusio nei teneri muscoli del cuore... Il silenzio, divina parentesi fra l’atto e la morte, vigilia della gioia, popola della sua nostalgia il passato meglio vissuto. Alleato alle palpitazioni degli istanti vissuti nello stato di

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Presenza, complice degli abbandoni più dolci: un giorno ho saputo in confidenza che il silenzio gradisce essere ascoltato. Ma già sento un passo che in me s’allontana, pronto a raggiungere il territorio dei grandi clamori. In vacanza tutto si riduce a cose superficiali, rumori leggeri e brandelli di pensieri. Anche l’attimo più presente si dissolve: il tempo perde tempo. A poco a poco passo dal piacere di « fare » alla gioia di scoprire in me il « potere di fare » che, una volta percepito, dà un piacere ancora più grande se si lascia inutilizzato. Ascoltando il silenzio m’approprio del tempo. Nell’ascolto del silenzio c’è una qualità dell’attesa che rafforza il potere di ascoltare conferendogli un insolito acume. La continuità della possibile sensazione di « ascolto » conferisce al silenzio un potere di conoscere che l’eccitabilità dell’apparato uditivo ordinario normalmente non ci fa percepire. Un’occasione in più per « ricordarmi di me ». Compiere una serie d’atti meccanici rompe ripetutamente l’equilibrio all’interno dello stato in cui mi trovo e di cui posso rendermi conto oppure no. La volontà di riuscire rivela il bisogno istintivo di ritrovare l’equilibrio rotto in tal modo, mentre la realizzazione dell’atto ristabilisce provvisoriamente l’equilibrio. Invece l’atto volontario constata l’eventuale squilibrio e lo corregge volontariamente. Il silenzio favorisce l’assorbimento delle impressioni che di solito, per i nove decimi, passano inosservate, e serve anche a demistificare il senso triviale delle parole, senso che spesso le parole posseggono solo perché, talora un po’ a caso, l’accezione

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comune gliel’ha attribuito. L’attento ascolto consente d’individuarlo e di evitarlo. Poi, come si passa dalla luce all’ombra nelle ore sempre più lunghe della sera, il silenzio riprende il suo volto e si popola di mormorii che rivelano atti in procinto di compiersi. Vivere avendo cura del silenzio, ascoltando soltanto il rumore del sangue nel fianco sinistro del corpo... Avvertire i legami che allora il vuoto autorizza tra le forze venute da Fonti lontane e gli atti volontari richiesti dalla progressione. Gli spasimi dello sforzo ravvivano il piacere. Da errante ai confini del mondo eccomi diventato uomo e restituito alle saggezze sperate! Testimone dell’equinozio, eccomi condividere ugualmente il sogno e l’azione cosciente, indossare a turno l’abito della ragione e quello - più raro - della Conoscenza, sentire che in me si levano i fermenti della Presenza. Silenzio, si apre la porta d’oro dell’avvenire. Il sogno è la spina della Presenza. Talvolta sono trafitto da un intero cespuglio di rovi, talaltra - Grazie a Dio - da una sola spina ben visibile che posso facilmente cavare sopportando il fugace dolore dell’estrazione. Ma i rovi, gettati mille volte nei rifiuti o nel fuoco, rinascono sempre: i racconti e le fiabe, le tiritere della storia, tutto ciò che piace alla gente, ma anche i princìpi della filosofia, le risposte inutili del caso, il gratuito viavai della dialettica, i giochi di parole e d’immagini, il linguaggio oscuro della metafisica, le « forme » capaci d’esprimere ciò che so, eccetera eccetera... Tutte cose adatte a fare un bel fuoco in occasione del prossimo San Giovanni! Curvo sotto il peso del Tempo che pian piano mi appesantisce con sedimenti continui, mi sento morire alle mille cose chiare di cui brillava la mia giovinezza. Ma quanto è lungo - e difficile - « morire a se stessi »! Il pensiero promana da un atto continuo in cui si percepisce

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uno sviluppo dal « prima » al « dopo », mentre l’intelletto trae da altri « continui » gli elementi - le idee - che costituiranno un insieme complesso di atti potenziali. È così che si svolge l'attività della funzione intellettuale. La materia intellettuale - come peraltro quella emotiva e il mondo immenso della sensazione - è un caos in cui la « Presenza a se stessi » crea momentaneamente un certo ORDINE. La sua immanenza provoca uno scompiglio nello svolgimento automatico dell’attività funzionale e apporta un « di più » che cambia totalmente l’eventuale percezione dell’evento considerato. La « Presenza » fa giustizia delle sterili speculazioni intellettuali, dei morsi del piacere e delle rivendicazioni sentimentali. Istigatrice di atti volontari, la Presenza reclama ogni volta il dovuto. Il silenzio - interiore, s’intende - è una delle sue esigenze primarie. I sogni e l’onore di un tempo striano il silenzio come fili di fumo nel crepuscolo che precede l’ombra imminente... Sguardi scomparsi, sorrisi estinti; il passato, cui dava lustro un medesimo sole, germoglia sul fragile confine dei ricordi. ... Mano in mano la domenica mattina andavamo in chiesa, mentre nel pomeriggio, osservati dai vecchi dietro le tende frementi agli incroci, passeggiavamo sulla strada del mulino costellata dagli sguardi cerulei dei non-ti-scordar-di-me... Passa il tempo: quanti mi hanno amato non esistono più... O corpi amati che popolavano le case fiorite della mia infanzia, odori che tornano indiscreti a testimoniare dolci intimità lungamente scordate... Il passato è lì che occupa da solo il deserto della Presenza. Scivolando furtivo tra la folla degli atti lontani, il passato è riuscito a intrufolarsi mandando in esilio le forze vive dell’istante: e insiste, improvvisamente sospeso all’esile canto di Clémentine che sale dall’ombra fuggente della messa mattutina... Risvegliarmi! Sfuggire alle magie di un’epoca estinta in cui sono sprofondati tanti noti paesaggi, in cui tanti gesti si sono disfatti nei luoghi obliati dove dorme il silenzio. Per comparire, il presente subisce le doglie del parto. Eccomi giunto nel paese in cui la felicità ha preso dimora.

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Qui ogni luogo ne contiene un pochino. I sentieri dei boschi respirano la luce del mattino e ci conducono lentamente al riposo serale, il silenzio rintocca tra le nevi delle montagne, i torrenti che non cullano mai il cielo rumoreggiano fieramente e si tuffano a valle. Come un tempo. Tuttavia la felicità si spaventa d’ogni nonnulla: il fruscio del vento ne increspa la superficie e la spazza via a brandelli; stamattina nei prati tu hai raccolto un fiore di raperonzolo che ancora adesso trema nelle tue mani, prima di morire di una lunga agonia nel vaso in cui verrà messo. Ma la felicità - grazie a Dio non smetterà di fremere nelle radici intatte né di risplendere ardente fra noi. La felicità è ancora qui, io non oso soffrire. In me la presenza è come un rumore di passi ben noti proveniente dalla notte dei tempi. Il silenzio più difficile da ottenere è quello dell’intelletto. Soprattutto un silenzio che non sia semplicemente assenza. Mettere armonia nei terreni incolti della coscienza, dove sovente vengo soltanto ammesso, ed esprimerla in parole. Questo mi sforzo di fare - secondariamente. Il silenzio non è soltanto uno stato di « non rumore » che l’orecchio non può conoscere, ma è l’esercizio di una sensibilità attiva attraverso la quale non si percepisce nessuna vibrazione, sonora o non sonora che sia. Ascoltare il silenzio conduce all’incrocio cui convergono i costituenti fondamentali della « Presenza », e dove sono riunite le condizioni più favorevoli alla soluzione dell’enigma posto dalla Presenza stessa. Sangue, saliva, sudore, seme: feste di Vita lanciate nel mondo da un sibilo nato dal respiro... e dal piacere allo zenit. Allora l’attenzione, testimone occasionale dello scorrere incessante dei

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fluidi in cui sono radicate le forze vitali, significa più di quanto l’uomo di memoria sia normalmente capace. Il meglio della mia carne, il meglio di me stesso in pericolo di morte, di colpo a cospetto dell’offerta divina d’immortalità... Abbandonare nella scia dei pensieri sovrani gli antichi sogni di gloria, mantenere la prua puntata verso il cielo, spiando il segno scritto al centro delle due immensità, e vincere! Seme di parole sul percorso incompiuto del tempo. Anche lo spazio è indifferente. Sull’inverso vellutato della presenza l’anima resta un deserto sotto una pioggia di pensieri caparbi. Poi il passato, impietoso, accorre vestito del mio nome straniero, la sabbia diventa più spessa e io non resisto più alla pressione delle parole... Favole! Fino all’alba, fino al prossimo istante in cui, sfiorato dalla luce, mi raddrizzo senza fardello. S’insediano poteri fecondi e alcune forze note entrano nell’humus tiepido della carne, accelerano la trasparenza e mi rimettono sulle fondamenta. L’anatema, perso nelle tenebre dei discorsi inutili, è scongiurato. Apice della sinusoide di gioia... Tutto il « possibile »: è questa l’Unità? Immerso nello spessore dello spazio alla ricerca di nuove intersezioni, esploro il territorio illimitato di questa periferia della coscienza cui talvolta ho accesso: luogo di pace e di pazienza, e anche rifugio della mia pigrizia quando l’intelletto viene a profanarla. Mentre su di me, in controsenso allo sforzo, scende nuovamente l’oscurità foriera d’incancellabili ricordi, la maturità si risveglia. Ma l’Ospite ritorna ben presto varcando la Soglia e l’ombra indietreggia: flusso e riflusso della vita novella nata pian piano nella carne, respirazione serena di forze padroneggiate per un momento, alternanza di preghiere e di tentazioni, terra di speranza ma anche terra di vagabondaggio fino ai limiti dell’inconoscenza, fino a incontrare il legittimo segno della morte alla svolta del sentiero.

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La memoria è simile alla morte nel senso che, se la memoria non esistesse, l’uomo - perso d’un tratto il suo materiale - non sopravvivrebbe all’istantanea assenza di impressioni. Dato che nulla troverebbe in lui qualcosa cui collegarsi, l’uomo si troverebbe completamente isolato dalla corrente vitale senza cui la sua vita non può esistere. « Senza impressioni l’uomo non può vivere un solo istante » (G. Gurdjieff). La memoria fa sembrare che il passato esista adesso, cosa non vera. Il passato non esiste più, proprio come la vita - perlomeno sotto la forma che mi è nota - non esiste più dopo la morte. Io percepisco la vita attraverso la sensazione di ogni istante presente. Però posso percepire il « Presente » solo attraverso strumenti educati da atti trascorsi, ossia grazie alle tracce lasciate in me dalle impressioni ricevute e conservate nella « memoria ». E strano e paradossale questo parallelo fra la memoria e la morte... La vita, la morte, il Presente, la memoria: enigmatiche offerte della Natura! Una delle caratteristiche della memoria è quella di realizzare il ritorno al passato nel presente. Spesso in un falso presente, disertato dalla « Presenza ». Una nube di silenzio mi arriva all’orecchio, lì per lì percepita come una massa d’impressioni ovattate. Però l’orecchio, anche in assenza di suoni, resta presente in attesa del nutrimento abituale. E su questa spiaggia di silenzio nascono impressioni nuove che, per essere tradotte in sensazioni, richiedono un’altissima qualità d’attenzione. Il paesaggio cambia, diventa fluido, mobile, pieno di sfumature, mentre le impressioni in arrivo s’inseriscono in un’altra rappresentazione del mondo. Non so molto di ciò in cui consistono, del posto da cui provengono, di cosa sono l’ombra e di chi la proietta. Dov’è la verità? L’unica certezza è che il silenzio mi avvicina alla verità. Ombra, silenzio: parole magiche in cui freme il mistero che l’orecchio ingolfato di rumori, o sgombro dai rumori ma impaziente di sentirli, non può rivelare.

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La vita è affetta - tra 1’ altro - da possessione progressiva del- T avvenire; ciò che non ha più vita non ha più avvenire. Lo svolgersi del Tempo che chiamiamo « avvenire » è strettamente legato al fenomeno della vita. Il « Presente », nel momento stesso in cui nasce, è P avvenire di tutte le cose vissute, V avvenire di ciò che è stato. Di conseguenza è passato, presente e avvenire contemporaneamente. Ed è proprio Listante così vissuto e sentito che si deve chiamare

Presente.

La « Presenza » è reintegrazione delle ricchezze della Vita nel verbo più raro. In questo risiede la sua unica possibilità di essere comunicata. L’istante vissuto in complicità con forze venute d’altrove mi dà lo slancio per accedere a uno spazio abitato nel quale mi riconosco. Sostanza delle parole, sostanza del movimento, sostanza della vita che si esalta nel movimento della materia, passaggio a uno stato di catene spezzate, di libertà più densa del granito... Carnoso piacere di essere. Ignoti desideri. Il passato si ripiega, il quotidiano s’oblia, il presente si dilata in un’altra dimensione. Mistero: i prodigi sposano il reale. O principio dello Spirito dinamico che di colpo invade lo spazio: i luoghi e il tempo abdicano davanti all’esaltazione dell’eterno vivente! Slancio verso l’atto creatore, solitudine alle grandi altezze, trasfigurazione di colui che porta potenze seppellite da troppo tempo, la morte lascia la presa... Ecco l’Uomo uscito dalla notte, armato per la battaglia. Sotto la cenere dell’età covano la linfa, il desiderio, la vita. Si consuma una grande speranza che rinasce a ogni istante come una strada nuova tracciata instancabilmente dentro di me. Ascolto le antiche promesse di pienezza in continuo sviluppo, le esultanze prodotte dall’evento. E forse il ritmo del mondo che culla i miei desideri davanti allo spettacolo mutevole della Vita? Cosa brilla sul mio sentiero, il bagliore prodotto da un falò di relitti o la scintilla che accenderà la luce della Conoscenza il giorno in cui avrò lasciato tutto e non abiterò più sulla Terra?...

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All’interno improvvisamente tutto s’illumina sotto la scorza. Chi mai ha favorito lo zelo? Quando è avvenuta l’aurora? Mi è dato di gustare il sapore di un silenzio spoglio e puro sul quale non crescono più le erbacce di un tempo, di un silenzio eccelso che credevo inaccessibile. La vita si definisce. Immunizzati contro il sogno dalla luce presente, gli istanti si succedono in me come una fontana maestosa da cui zampillano fiori e frutti in un grande sfolgorio di colori... Per raccontarlo « veridicamente » dovrei elevarmi alle cime più alte del linguaggio! L'istante è un atomo di Tempo, la più piccola particella di Tempo in cui è possibile percepire davvero la sensazione di « presenza ». Il sole illumina le foglie chiare della betulla. Sull’erba impolverata da una brina pollinea passa un brivido, come se uno sciame di stelle ci si fosse posato sopra... Alcune immagini, venute dagli abissi del passato eludendo le tenebre della memoria, bussano alla finestra, sfiorando la noia che però non mi tocca. Alcuni pensieri tremanti cercano di prenderne il posto prima d’essere spazzati via dal passaggio del presente. Ho ritrovato il giardino... Perché talvolta le chiavi mi cadono in mano? Necessarie all’inadempiuto, esse addolciscono l’impazienza e conducono all’oracolo. Essere consapevole che do ascolto al canto delle menzogne, che ripeto sottovoce il nome di cose morte e, se la sfortuna mi conduce davanti allo specchio, scoprire uno sguardo triste come un segnale spento... Esserne consapevole fa cambiare tutto; l’ombra indietreggia, scavalca i pensieri abusivi, si defila e fugge. La luce ritrova la propria corona - quante maschere ho gettato via? - e io sento di nuovo gli aromi perduti, lo spazio mi mette un vuoto a disposizione, e io non sono più cieco dalla nascita.

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La montagna s’innalza e nasconde le insidie dietro fitte foreste. Calma e ammantata d’erbe e d’arbusti di cui non so il nome, la montagna va sorpresa nelle ore solitarie del mattino. Ore in cui la neve spazzata dal vento sfiora le rocce dei picchi, più fresca dell’acqua proveniente dagli altopiani, mondo di fragili movenze e di candore ben presto macchiato - come il linguaggio della coscienza nata dallo sforzo e guastata dall’abitudine. Ma i sentieri battuti spariscono di nuovo sotto la neve, e l’uomo si perde nelle distese immacolate che, riformandosi continuamente, coprono la ricerca come un lenzuolo. Montagna, rifugio supremo del silenzio felicemente sparso sulla mia febbre, immagine altera della coscienza sulla quale volteggia instancabile uno stormo di aquile nere annidate nell’estuario della corrente associativa che albergo dentro di me... Ricalcando le mie orme camminerò fino ai luoghi di silenzio situati nel punto più alto o nel punto più basso di me, luoghi di presenza troppo spesso cancellati dalla neve dell’oblio. Ma presenti sempre, continuamente... O silenzio! Soltanto nel silenzio sento passare in me l’Ospite da lungo tempo assente che mi dice in confidenza parole maturate dalla « Presenza » e capaci di ravvivare per un attimo il mio dolore. Testimone del perenne inganno del discorso, egli rischiara in trasparenza le opere della Coscienza in marcia, spiegando l’oscuro con la chiarezza e modulando lo sguardo sui molteplici aspetti della battaglia. Viaggiatore instancabile, giustiziere della discordia, conciliatore che porta sempre più avanti la mia strada di straniero, l’Ospite appare in tutti gli spazi liberati rivelando il segreto carpito. Prima che scenda la notte devo prendere provvedimenti e adattarmi al suo passo sino alla fine. Prima che l’Eterno Silenzio scenda sulla mia vita, amo cantare l’ora presente sul versante dell’alba - il versante della morte -, davanti ai flutti marini o sui balconi fioriti prospicienti le nevi più inaccessibili. La vita, in festa come nei giorni di presenza più eccelsi, vibra di gioia fugace; pensieri e sentimenti hanno un proposito di risveglio, e il corpo smemorato, in attesa di satollarsi

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di nuovo, contempla la morte lontana senza battere ciglio... Sento anche il gusto di essere: quanto m’aiuta il silenzio! Smettere di parlare dell’opera, restare invece presente al suo regno, ignorare i bugiardi e gli usurpatori, i vanitosi e gli impostori... Davanti a tutti costoro, tenere la bocca chiusa nel grande silenzio postumo in cui sprofonderanno i pensieri, i desideri e le sensazioni presenti al momento dell’ultimo appuntamento...

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VI Presenza del respiro e del sangue

Armi e tesori dell’io presente: spazio dove il gesto si ripete estraneo e familiare al contempo, annullando un altro gesto che, simile eppure diverso, a quel punto non m’importa più niente. Subito preda dell’IO aggredito, il « fare » ordinario sprofonda trascinando con sé tutte le cose « fatte »... Sparito il dritto, io sono il rovescio, e il passaggio dall’uno all’altro genera un tipo d’energia attiva che m’induce a spiare nel rapporto tra io e « me » non quel che c’è, bensì quel che non c’è ma che posso sfiorare pur senza contesto, ossia quel che non c’è ma che ci sarà', risultato inevitabile dell’atto di ricerca esperito. Talvolta ne percepisco la traccia portata dal respiro che io infiammo. Una traccia che pervade il mio corpo fino ai globuli più sperduti del sangue... Di ciò che esprimono parole come « spazio », « tempo », « mondo », « essere », « coscienza », oggi ho una comprensione non più limitata alla sensazione interiore che ne ricevo. In me queste nozioni - e altre dello stesso livello - sono legate a una cosa diversa da ciò che definisco pensiero, sentimento o sensazione. Questo « qualcos’altro » è il risultato d’un insieme di atteggiamenti oggi possibili perché, quale risultato della disciplina connessa all’Insegnamento cui sono legato, è comparso « qualcosa » che non appartiene a nessuna di quelle tre manifestazioni elementari. Non esiste certamente alcun termine che possa esprimerlo in maniera soddisfacente. E strano che certi « filosofi » ignorino - o respingano - questo aspetto fondamentale di una potenzialità umana che essi, quando ne avvertono l’ombra, classificano spesso sotto l’etichetta « metafisica », per giunta negandole ogni significato, pur consentendo talvolta ad attribuirle una funzione.

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Ciò che io percepisco è un altro « mondo », un altro « spazio », un altro « tempo », e le nozioni di « essere » e di « coscienza » risvegliano in me un’altra « realtà ». Ma forse proprio questo senso aggiuntivo dà consistenza - e valore - alla Presenza che pian piano m’impregna il respiro e il sangue! Per me ogni volta è una novità percepire il momento in cui s’estingue il bisogno di cibo che scandisce la vita quotidiana. E sempre di più gusto l’evento nella sua natura intrinseca che è quella di « nutrire ». L’alimento entra esultante nell’argilla del corpo, pronto a future alleanze. Per oltre mezzo secolo l’ho mangiato e bramato al contempo... A lungo è rimasto intimamente unito alle forze oscure che mi rendevano assente. Poi pian piano la vita m’ha tenuto in allerta, l’astrazione di quelle forze si è precisata e ho scoperto in me un uomo nuovo, capace di un’altra respirazione e di espandersi nello spazio interiore, facilmente liberato dai sogni, pronto forse a schierarsi fra gli uomini fino al momento in cui il cibo liberi la sua carica di sole trasmettendo al corpo la forza luminosa cristallizzata dall’animale o dalla pianta nelle oscure profondità del proprio essere affinché l’uomo, coscientemente, ne porti avanti l’evoluzione. Allora, senza nausea, l’appetito scema ponendo fine all’atto di mangiare finalmente riabilitato. Venuto dagli immensi spazi del cielo, nato dagli abissi celesti, ecco il sogno dell’uomo. Nell’emergere dalla notte esso effonde lungo il sentiero esalazioni di saggezza e vaga nei luoghi confusi a lui assegnati finché non riconosce le carni in cui terminerà la sua scia. A un tratto la Presenza sgorga improvvisa come un’oasi di frescura nel deserto del sogno! io si leva vincitore, legato allo sciame dei sogni abituali, io ritto davanti ai miei sogni: atto fondamentale da cui nasce la Presenza minacciata dal sonno. Il mio sguardo diviso li popola entrambi, l’opera sussulta, si presentano nuove forze per un nuovo lavoro. E il vomere solca, solca instancabile la terra bagnata da questo mio sangue.

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Disimparare un sapere che non mi ha fatto conoscere nulla... Talvolta è come strapparmi la carne a brandelli. Gli ultimi bagliori del secolo che è stato il mio s’accendono e passano uno via l’altro, nutriti dall’instancabile sogno dell’uomo. Sento venirmi incontro un mondo ignoto che presto non abiterò più. Come se, di fronte alle nuove scienze, alle nuove usanze e ai nuovi linguaggi, mi trovassi già messo in disparte. Amministratore dei miei stessi giudizi, devo per forza occuparmi dell’incombenza estrema che mi riguarda personalmente. E della sua urgenza. Io procedo, marciatore instancabile, percorrendo lo spazio interiore nel quale i barlumi di coscienza costituiscono il paesaggio in cui si riflette l’empireo, e sottraggo sempre più spazio all’ombra, con gli occhi spalancati sulla Presenza che si accumula dentro di me come la carica d’una tempesta magnetica: eppure cieco ai prodigi delle tecniche nuove. Che importa! L’aria si mescola alla vigilia della mia festa: il respiro, purificato dall’espirazione, s’unisce al pensiero nascente... Fremito improvviso nelle radure del plesso, immediatamente seguito dall’attenzione impegnata nell’impresa del risveglio accolta dal midollo spinale... Come un’occasione in cui, per una lunga serie d’istanti, sia in gioco la possibilità di essere... Adesso mi tocca raggiungere i grandi spazi predestinati e insanguinati dagli eccidi commessi dall’ignoranza. E immergerli nel fluido arricchito dal potente ossigeno della Presenza. Il sangue brucia alle porte del corpo chiuso alle scienze erranti che corrono verso la fine del secolo! Fa uno strano rumore, una specie di quasi-silenzio nel risveglio acquisito. Allora mi ricordo d’essere Uomo e talvolta lo sono. Mille volte al giorno penso alla morte. In tutti i modi possibili e immaginabili. L’alito ardente della vita m’avvolge nella sua permanente ovazione. Come cose dette nelle sere di estremo silenzio. Sono finiti i tempi in cui, tracciando il solco nella carne

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purpurea dell’azione, andavo tra la folla con la bocca affamata di parole e il corpo assetato di gioie, adoprandomi per i frutti sperati. Tutto questo è finito, ma dal fondo della coscienza sento emergere il flusso vivace della Potenza ricevuta in dono perenne al momento della concezione. Ne mantengo l’ardore benefico. E vedo grazie al fuoco delle sue fiaccole accese. Da questa parte della sera in cui vado verso la nascita, quando nella carne sento vibrare la vita sui percorsi del sangue, mi ricordo di « essere » istante per istante. E sento fremere il respiro nelle trachee aperte come permanenti equinozi!... Poi avverto un colpo improvviso. La Presenza apre la strada a una sensazione organica che man mano aumenta: un’onda s’allarga e mi riempie come quella formata da una pietra che rompa uno specchio d’acqua tranquillo... Essere e percepire sotto lo sguardo dell’occhio interiore aperto, sgombro d’un tratto dalla sua notte! Allora mi sale alle labbra, più forte, il solito gusto d’argilla, subito sfiorato da un sentimento richiamato per mia volontà. Già in precedenza quel gusto bussava alla porta mescolato all’aurora del primo istante di veglia... Eccolo incedere nella luce a falcate leggere e inoltrarsi alle cime del vero... Essere e sentire alla fiamma della coscienza man mano avvivata! I brusii del secolo moribondo ritornano a infrangersi sulla mia greve età di cui m’ero scordato, trascinando con sé la mia presenza oscillante mentre s’infiamma di nuovo il desiderio di essere: respiro indelebile, immagine dei ritmi immutabili dell’Universo. Sentieri di brace, sentieri di cenere su cui arranco ricurvo! Spogliandosi d’ogni ricordo alle porte del Tempio che sono, il sangue in movimento s’imbatte nei limiti della carne risvegliando sviluppi interiori... Raccoglimento di forze cardinali d’un sùbito immobili, la durata si dissolve nella Presenza, ben presto la vita risusciterà i ritmi di quelle forze, ritmi distesi che accoglieranno un futuro allungato. Dopo aver percorso così i due versanti del mondo, potrò sconfiggere insieme i due volti della morte? Pagine d’aria s’imprimono in me, ove si leggono i sentieri percorsi dalla mia lunga marcia e s’ammassano a volontà i fiotti

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del sangue. O Presenza, i tuoi atomi di luce, da cui traggono vita e fulgore tutte le luci, diventano promesse d’embrioni, semenza d’esseri... Sono vita e verità per il tempo del risveglio. I tuoi atomi, dopo aver brillato un istante nel cielo della mia vita, a poco a poco s’incarnano in me e irradiano luce, cancellando il richiamo ansioso della mia fragile umanità. La luce della Presenza è come il chiarore dell’alba che attraversa le nuvole spesse addensate tutt’intorno al mio corpo. Improvvisamente legato allo strale che mi porta verso altri lidi, caricandolo delle emanazioni più sottili prodotte dall’immediata concentrazione delle forze che mi abitano, io vado, continuamente accompagnato da tali emanazioni, allacciando alla scia del dardo le forze di cui è carico affinché nulla si perda dei suoi più elevati disegni! La Presenza lascia cadere sulla mia vita una manciata d’istanti privilegiati, come un cielo che d’improvviso spolveri la terra di stelle... E intorno a me lo spazio ne resta a lungo fertilizzato. La dura sostanza della carne offre una forte resistenza alle forze vive prodotte dalle cose sorvolate. Lo spazio si popola di correnti l’una s’innalza, l’altra mi viene dall’Alto: sottile continente in cui, nel silenzio siderale della Presenza, le traiettorie s’incrociano senza incontrarsi. Finché una terza corrente non ne congiunge le rive, intesa novella nata sull’ala d’un respiro, sedimento divino formato da sette strati, sette lieviti e sette fermenti. L’opera prodotta dalle tre correnti freme sotto il mio sguardo teso. Ciò che va alla Sorgente s’unisce a ciò che ne sgorga con un movimento sostenuto da me, me l’Immobile, me il Presente. Il gesto in cui sono impegnato è come un gesto che avrebbe potuto far Dio: una nuova terra ancora inimmaginata spodesta l’irreale che tanto mi ha fatto sognare! Finalmente potrò suggellare l’espansione della coscienza e fare in modo che duri, fissata dal lampo istantaneo all’incrocio delle strade... Momenti simili a tappeti di piante odorose, momenti più vasti del mare, gravidi d’albe lucenti e ricchi di effluvi che sanno d’infinito. Momenti così dovrebbero essere i soli a riempire il tempo che ancora mi resta!

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Noi, uomini d’oggi che abbiamo preso il posto dei morti avvolgendoci nel loro sapere come dentro un sudario, e che a nostra volta siamo diventati guardiani alle porte del nulla e nunzi alle soglie del futuro, sapremo lasciare in dignità il nostro posto tra i vivi quando il sangue non pulserà più? Nei campi d’argilla in cui, tendendo impauriti l’orecchio ai precipiti passi del Tempo e ai clamori delle ostilità, viviamo piegati dalle colpe di un’umanità via via più gravata di debiti, ogni tanto è necessario ritrovare i sentieri della preghiera sui quali assorbire, inspirando, la sostanza - più fresca dell’acqua sorgente - che nasce dall’orazione. Sospinta dal montare dei segni, essa rivela d’un tratto un gusto di sale e di miele che fa restare col fiato sospeso e ci sottrae ai sogni insaziabili... Predatori sulle tracce di quella sostanza, batteremo i sentieri del pellegrinaggio usurpando la grazia dei santuari, cingendo i gioielli esibiti dalla coscienza, adornandoci con le trine dell’anima nascente, fino ai primi fuochi del risveglio, attenti ai sussurri che tardano a uscire dalle labbra dei Signori della preghiera. Il pensiero, lieve fiocco di spirito, scordando il suo peso s’adagia sulle cose al pari d’un soffio e, più svelto della luce, passa folgorante lasciando appena una traccia, linguaggio senza parole, grazia ottenuta... Il suo potere, disertando - ahimè - la dimora dell’Intelletto, trabocca e dilaga come un flusso nauseante, subito soggiogato dalle forze invitte del sogno. Se mai ne conoscessi la fonte, risalirei fino alle remote province dello spirito per cercare il silenzio capace di restituire al pensiero il posto e il potere che ha. E per far si che il suo fiato al mio sia legato per sempre! Eppure gli uomini continuano imperterriti a esaltarne la gloria e la reputazione. Come insegnargli le cause del suo stesso male? Forse, per smorzare le forze accumulate intorno ai processi associativi utilizzati in quasi tutte le circostanze, basterebbe che il pensiero sapesse distinguere i diversi livelli cui gli è dato di manifestarsi. Non dovrebbe essere affatto un’impresa impossibile. Il respiro immerso nella Presenza si sposta verso l’immagine reale di un ME che mi guarda. Lo strumento lettore si mette in

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marcia, alimentato dalla sostanza maschile dell’io presente... Profumo di anima in gestazione attiva. L’orecchio interiore sente la tempesta che si abbatte là dove indugiano gli automatismi. Cose sapute e fatte se la squagliano nell’oscurità, il sangue dell’anima ha cambiato colore: prima ero la Fonte, ora sono anche la fontana. E l’acqua che sgorga. E la sete che suscita. Il mio corpo eretto, che maschera tutto questo, ne riceve riconoscente l’offerta come il latte in tempo d’infanzia. Quale mano m’ha improvvisamente vestito della tunica lieve necessaria a percorrere la via sulla quale io SONO? Il mio sguardo penetra nel vivo dell’essere, e al ritorno si lancia impetuoso verso i cieli della Presenza, dai quali esce vuoto dopo il dono deposto per l’anima... Momento grandioso in cui là, sulla Soglia, ambedue non eravamo che UNO. Nella sera dei grandi tepori si fa più insistente il processo di vita orizzontale, indefinitamente allungato nel senso della durata, che costituisce la mia esistenza. La mia ombra, ingrandita dalle false luci del sapere, m’innalza verso le alture dell’esultanza dove tanto a lungo ho vissuto. La Presenza infine mi apre le sue frontiere: coi primi frutti rallegra le mie zone più esterne e poi cresce a cerchi concentrici, ricalcando le vecchie orme ogni volta impresse più a fondo. Costringo a rapida fuga i gesti automatici ripetuti nel tran tran quotidiano. « Essere », divenuto impazienza, sente profumo di vita. D’ora in poi saprò riconoscere l’inverso dei giorni continuamente sgualciti dall’atto che si ripete, la ricerca diventa più vasta e più lontano si spinge lo sguardo. « Essere », divenuto fiamma per l’ardore del sangue, m’indica la strada. « Essere », divenuto abbraccio per l’amore che il desiderio e la volontà generano dentro di me, regna su un popolo di credenti... Si risvegliano altri livelli, si ricevono risposte strappate all’abisso in cui tardavano a schiudersi... Certo, nel corso degli anni ho forgiato l’oro di cui è fatto l’anello. Ma finora l’anello non era mai brillato così a lungo al mio dito.

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L’età e il tempo non m’interessano più come prima. Il futuro gonfio d’ombra dorme nell’ignoto senza crearmi ansietà. Non invidio i piaceri promessi dal secolo ormai imminente. Buon complice della frode giocata dalla felicità, proverò certamente tristezza all’estinguersi della fiamma che in me nutre l’insistente bisogno d’amare. Oggi offro la veglia all’umile voce dell’Ospite presente che spesso mi anima, alla sensazione sempre più vicina all’oggetto, al vivace potere delle cose che appaiono nella concrezione primaria, e soprattutto all’Amore... All’amore senza armatura carnale, all’amore per l’umanità, scritto fin dal primo giorno nei panegirici del mondo... Abbraccio nato dalla spuma di un piacere dispensato da labbra ricche soltanto di parole appartenenti al Sapere... Il sale di ora e il sangue d’un tempo mescolano il proprio sapore ai fremiti del nuovo abbraccio che mi viene gratificato. Abbraccio che per me è simultaneamente conoscenza e piacere, acconto di gioie promesse da un tempo che sta per finire. A mani giunte e sguardo sereno continuo il mio viaggio senza ritorno. Attento a non dormire, Vedi se ti puoi aprire, Accetta di soffrire, E cerca di ben morire. Trasparenza dell’ora!... Forse presto giungerò al termine di un’avventura vissuta ogni tanto in coscienza, avventura di uomo vivente la cui consistenza è tempo ormai di appurare senza inutili compiacimenti. Il mistero della vita si è mostrato con sufficiente chiarezza in ogni esperienza che ho fatto? Ho avuto sufficiente acutezza d’orecchio - o di spirito - per avvertire puntualmente i due poli intorno ai quali ha ruotato la mia attenzione, ossia la ricerca di una verità interiore celata e la preoccupazione di esprimere la realtà vissuta ogni giorno in uno stato di relativo risveglio? Il mio tentativo costante di esprimere l’inesprimibile ha saputo evitare sufficientemente l’oscurità? Il mio proposito - tutt’al- tro che un passatempo, anzi, sempre inteso a rispecchiare un percorso continuo in una direzione precisa - si è mantenuto nei limiti di un linguaggio comprensibile a chi marcia sullo stesso sentiero?

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Ma se è giusto appurare, tocca a me giudicare? L’aria che respiro mi aspira verso un ME smemorato vagante su piste di tenebra lungo le quali a lungo ho errato tra ogni risma di usurpatori e di mantenuti. Rotto ogni laccio, l’aria materna mi porta all’uscita del labirinto, fuori dal sepolcro che mi sono costruito nascendo. Lì, senza colpo ferire, posso misurare la magra del sangue pulsante contro l’argilla umana che lo contiene. Il respiro vi lancia il suo seme - germe d’anima in pieno sviluppo - che farà indietreggiare la morte. L’aria e il sangue prolungano la mia delizia: e io ricordo... Un deserto gelido s’è acceso di braci: il passaggio di Dio lascerà il segno dentro di me. Uomo reinventato ogni giorno dal sogno, al mattino mi scopro avvolto di ceneri. Troppo spesso la notte trasforma oro in piombo. Mi tocca nuovamente scaldare la materia prima e annunciare un altro tempo, legato stavolta all’istante in marcia verso la Presenza. E ben presto ciò che cede al risveglio matura nella sostanza predetta dalle antiche risposte. E tempo d’ascoltare le acclamazioni di nuovi pensieri, di gustare i sapori occultati dal sonno e di rispondere ai palpiti d’un sentimento proiettato di colpo nella luce. Arrivare all’eccesso di sforzo, glorificando per una volta l’impazienza. L’essere si rivela in tutta la sua intimità, il silenzio rifluisce sulle rive della Presenza disertate dal gusto d’infanzia, io, QUI, ADESSO... Oh, l’ufficio del Vero celebrato sulla mia Soglia! Le cose essenziali sono il desiderio e la volontà che spingono allo sforzo. Poi viene l’atto, e infine la cosa fatta che dunque, agli occhi del desiderio e della volontà, è sempre e soltanto una scoria. E ben strano che noi, nel tran tran della vita ordinaria, a tutte le cose buone e giuste possiamo preferire gli scarti. A poco a poco in questo momento mi s’impone la necessità di confondere intimamente l’azione e il silenzio. Il fatto che la vita

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vissuta ogni giorno e la perennità della coscienza - sentita al contempo nel suo movimento e nella sua immanenza - possano coabitare, mi sembra di estrema importanza. Tra qualche settimana - forse tra qualche giorno - metterò la parola fine al resoconto laborioso della mia lunga marcia, durante la quale, nel tentativo di far posto a un’opera più elevata, di ritrovare i desideri o i bisogni anteriori alle mie sazietà d’uomo adulto e di riallacciarmi, nella solitudine assoluta della Coscienza aperta, alle forze comparse da poco, ho cercato di lasciar cadere per strada le croci, le tiare e gli scettri a lungo ostentati dalla mia persona orgogliosa. Gli anni sono passati. Oggi devo impormi un’ascesi nuova. Ma prima che sprizzino le ultime scintille provocate da una ricerca ostinata, perché non gridare davanti a tutti le mie gioie e le mie sofferenze, compagne infaticabili degli ultimi quarantanni di vita? E prima di smettere una volta per sempre, perché non confessare, spinto dal rimorso, le menzogne a lungo celate nell’ombra delle fiaccole accese e le debolezze volontariamente taciute?... Ma è davvero necessario? A questa svolta della mia vita, alla soglia dell’età pesantissima che già mi grava sul corpo, perché non riguardarmi e risparmiare energie? Che succederà domani, per quanto tempo avrò ancora la forza di spandermi attorno una quantità sufficiente di valori monetizzabili? In realtà tutto ciò m’importa ben poco! Nelle mura della Cittadella che abbiamo assediato insieme si aprono finalmente le brecce agognate. A ciascuno il compito di allargare quella prescelta per tentare il passaggio. Buon lavoro a noi tutti! L’aria m’incide sulla fronte il segno dell’alleanza. Il sangue viene a raccoglierlo e lo sprofonda nello spazio carminio degli antri materni. Al ritmo delle stagioni quel segno germina, fiorisce e fruttifica fino alla vendemmia dell’attenzione: Presenza - fumo dell’alcool che mi fa inebriare; l’albero vertebrale s’illumina ai raggi del plesso, imperituri come l’istante vissuto, e, ignaro della stranezza di vivere, partecipa alle feste della vita ignorando il declino previsto... Sulla mia fronte l’aria è più pura, il suo alito mi sostiene e mi nutre. L’istante coronato di spirito rischiara la zona che porta ai territori della piena Coscienza ancora preclusi, a quella terra della

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misura - e dell’assenza di ogni misura - dove, da qui o dall’al di là, prima o poi dovremo arrivare. Saprò intravvedere me stesso - e riconoscermi senz’alcun dubbio - nelle ombre proiettate dal mio essere sullo schermo del mondo? Alcune forze, nutrite molti anni fa da Esseri dotati di Conoscenza, mi arrivano dall’alto, dal basso, da oriente, da occidente, celesti visitatrici dei momenti di risveglio interiore. Appoggiarsi al ricordo di un volto, seppur scomparso da qualche decennio - o da molti millenni -, a un’icona incrostata d’oro zecchino, aprirmi al loro influsso benefico e portarli più in alto, più in alto... si, Più IN ALTO! Fatica d’uomo, sacra ricompensa della grandezza ch’essi mi danno. Presenza: ne sento il peso nella carne; la sua forza ai limiti dell’umano si collega a una forza capace di vincermi. Ah, che fretta ho di ESSERE, finalmente! Eccomi ormai in arcione, pronto per l’ultima tappa... Il piede è già nella staffa? Nello spazio due forze si amano, ignude. Ce n’è anche una terza, di nome AMORE. Essere l’una, l’altra, la terza e lo spazio! La coscienza, libera dalla morte, è come il perno fisso del Tempo. Intorno a essa gli istanti, più lunghi o più corti secondo la qualità del momento, girano in un carosello incessante. Un ritmo, ostinato come il fiotto impaziente del sangue espulso dal ventricolo, segna le tappe del presente sorto sullo sfondo di uno stato di movenze perpetue. S’avvicina l’istante in cui lascerò la mia epoca; l’ultimo orgasmo della vita - la morte - si prepara all’orizzonte, e tutto ciò che è avvenuto attraverso di me si presenta d’un tratto al mio sguardo tranquillo. Sull’ultimo lembo di spiaggia, brandello superstite di

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ciò che chiamavo « avvenire », si delinea il caos del possibile di cui è fatto il futuro, lasciando intravvedere ogni tanto un frammento del probabile momentaneamente in esilio. Oggi per me sono entrambi un peso accettabile, tanto più che man mano s’abbassano, leggère, le palpebre del desiderio. Ora non mi resta che scendere le ultime rampe del versante rivolto all’aurora, fino al luogo preciso in cui, dietro a me, la porta sarà chiusa per sempre. La mia parte mortale recalcitra, rifiutando le risposte ben note e quelle prive di nome... E dunque vivere co- s’è stato? A lungo ho schernito la morte illudendomi di esaltare la vita. Poi è venuto il tempo dell’offerta che ho ricevuto, e adesso per lunghi momenti tutto tace nella mia carne. Oggi l’alleanza risplende, ma, per quanto io faccia, verrà presto il momento di lasciare le vette del piacere, di spegnere le luci che adornavano gli istanti di presenza sovrani e di abbandonare all’oblio le feste del Sapere!... Le terre sconosciute dove il sangue e il respiro non possono vivere si levano già all’orizzonte, offrendo alla mia solitudine il mistero di un altrove insondabile... E ben presto - destino fatale dovrò attraversare il muro del Tempo, barriera sorniona dietro cui lentamente matura la morte.

Autunno 1985

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Indice

Avvertenza

9 Parte prima Recitativo per la coscienza

I - La soglia II - Fogli sparsi del segno e del III - Conservare il ricordo

verbo

13 32 40

Parte seconda Parole d’alba I - Erranza II - Strada facendo III - Alti e bassi

69 83 95

Parte terza La presenza sovrana I II III IV V VI

- L’Innominabile - La condizione di Uomo operaio - La grazia dei limiti - Ricongiungimento - Il silenzio ascoltato - Presenza del respiro e del sangue

121 130 140 150 161 172

Volumi già pubblicati

1. G.I. GURDJIEFF

Vedute sul mondo reale

2. ISHA SCHWALLER DE LUBICZ

Her-Bak « Cecio »

3. ISHA SCHWALLER DE LUBICZ

Her-Bak Discepolo

4. AMADU HAMPATÉ BÀ

Il saggio di Bandiagara

5. FRITZ PETERS

La rasatura del prato e la costruzione di sé 6. NATSUME SOSEKI

Anima

7. I. HENRI THOMASSON

Prima dell’alba

8. G.I. GURDJIEFF

Racconti di Belzebù al suo piccolo nipote - voi. I

9. LEO ANFOLSI

Bananananda

10. G.I. GURDJIEFF

Racconti di Belzebù al suo piccolo nipote - voi. II

11. HENRI

THOMASSON

Bagliori dell’anima

Finito di stampare nel mese di maggio 1992 dalla S.A.T.E. s.r.l. di Zingonia (Bergamo) Printed in Italy