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Italian Pages 70 Year 2015
�odlibet Giorgio Agamben Gusto
Un luogo comune vuole che il gusto sia l'organo con cui conosciamo la bellezza e godiamo delle cose belle. Die tro questa pacifica facciata, il saggio di Agamben mette invece a nudo la dimensione tutt'altro che rassicurante di una frattura che divide immedicabilmente il soggetto. All'incrocio di verità e bellezza, di conoscenza e piacere, il gusto appare come il sapere che non si sa e il piacere che non si gode. E, in questa nuova prospettiva, estetica ed economia, homo cestheticus e homo ceconomicus, rive lano una segreta e inquietante complicità.
l S BN 978-88-7 462-722-6
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Giorgio Agamben
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Quodlibet
Questo studio è stato originariamente pubblicato in Enciclopedia Einaudi, vol. 6, Einaudi, Torino 1979· © 2015 Quodlibet srl Macerata, via Santa Maria della Porta, 4 3 www.quodlibet.it
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1. Scienza e piacere In opposizione allo statuto privilegiato as segnato alla vista e all'udito, nella tradizione della cultura occidentale il gusto è classificato come il senso più basso, i cui piaceri l'uomo condivide con gli altri animali (Aristotele, Eti ca Nicomachea, 1118a) e alle cui impressioni non si mescola «nulla di morale» (Rousseau, 1781, p. 303). Ancora nelle Lezioni sull'este tica di Hegel (1817-1829), il gusto è opposto ai due sensi «teoretici», vista e udito, perché «non si può degustare un'opera d'arte come tale, perché il gusto non lascia l'oggetto libe ro per sé, ma ha a che fare con esso in modo realmente pratico, lo dissolve e lo consuma» (Hegel, 1817-1829, p. 696). D'altra parte, in greco, in latino e nelle lingue moderne che da esso derivano, è un vocabolo etimologi camente e semanticamente connesso con la
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sfera del gusto che designa l'atto della cono scenza: «Il sapiente è così chiamato da sapo re (Sapiens dictus a sapore) poiché, come il gusto è atto alla distinzione del sapore dei cibi, così il sapiente ha la capacità di cono scere le cose e le loro cause, in quanto, tutto ciò ch'egli conosce, lo distingue secondo un criterio di verità» suona ancora nel secolo XII un'etimologia (libro x, 240) di Isidoro di Siviglia; e, nelle lezioni del 1872 sui filosofi preplatonici, il giovane filologo Nietzsche nota a proposito della parola greca soph6s, «saggio»: «Etimologicamente essa appartiene alla famiglia di sapio, gustare, sapiens il gustan te, saphés percepibile al gusto. Noi parliamo di gusto nell'arte: per i Greci, l'immagine del gu sto è ancora più estesa. Una forma raddoppiata Sisyphos, di forte gusto (attivo); anche sucus ap partiene a questa famiglia» (Nietzsche, 1872187J, pp. 25 3-25 4). Quando, nel corso dei secoli XVII e xvm, si comincia a distinguere una facoltà specifi ca cui sono affidati il giudizio e il godimento della bellezza, è proprio il termine «gusto», opposto metaforicamente come un sovrasen so all'accezione propria, che si impone nella maggior parte delle lingue europee per indi care quella forma speciale di sapere che gode
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dell'oggetto bello e quella forma speciale di piacere che giudica della bellezza. Con la consueta lucidità, Kant individua infatti fin dalle prime pagine della Critica del giudizio (1790) l'«enigma» del gusto in un'interferen za di sapere e piacere. Egli scrive a proposito dei giudizi di gusto: Sebbene questi giudizi non contribuiscano per nulla alla conoscenza delle cose, essi appartengo no nondimeno unicamente alla facoltà di cono scere e rivelano un'immediata relazione di questa facoltà col sentimento del piacere. . . Questa re lazione è proprio ciò che vi è di enigmatico nella facoltà del giudizio. (Kant, I790, p. 6)
Fin dall'inizio il problema del gusto si presenta così come quello di un «altro sa pere» (un sapere che non può dar ragione nel suo conoscere, ma ne gode; nelle paro le di Montesquieu «l'applicazione pronta e squisita di regole che neppur si conoscono» - Montesquieu, 175 5 , p. 73 5 ) e di un «altro piacere» (un piacere che conosce e giudica, se condo quanto è implicito nella definizione del gusto di Montesquieu come mesure du plai sir): la conoscenza del piacere, appunto, o il piacere della conoscenza, se nelle due espres-
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sioni si dà al genitivo un valore soggettivo e non solo oggettivo. L'estetica moderna, a partire da Baumgarten, si è costruita come un tentativo di indaga re la specialità di questo «altro sapere» e di fondarne l'autonomia accanto alla conoscen za intellettuale (cognitio sensitiva accanto a quella logica, intuizione accanto a concetto). In questo modo, configurandone il rapporto come quello di due forme autonome all'in terno dello stesso processo gnoseologico, essa lasciava però nell'ombra proprio il pro blema fondamentale, che, come tale, avrebbe meritato di essere interrogato: perché la co noscenza è così originalmente divisa e per ché essa intrattiene, altrettanto originalmen te, un rapporto con la dottrina del piacere, cioè con l'etica? Ed è possibile una riconci liazione della frattura che vuole che la scien za conosca la verità, ma non ne goda e che il gusto goda della bellezza, senza paterne dar ragione? Che ne è, cioè, del «piacere della co noscenza»? Come può la conoscenza godere (gustare)? Nel presente studio, mentre si con sidererà l'estetica nel senso tradizionale come un campo storicamente chiuso, si proporrà invece una situazione del gusto come luogo privilegiato in cui emerge alla luce la frattura
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dell'oggetto della conoscenza in verità e bel lezza e del télos etico dell'uomo (che nell'etica aristotelica appare ancora indiviso nell'idea di una theoria che è anche teleia eudaimonia, «perfetta felicità») in conoscenza e piacere, che caratterizza in modo essenziale la meta fisica occidentale. Nella formulazione pla tonica, questa frattura è, anzi, così originale, che si può dire che sia essa stessa a costituire il pensiero occidentale non come sophia, ma come philo-sophia. Solo perché verità e bel lezza sono originalmente scisse, solo perché il pensiero non può possedere integralmente il proprio oggetto, esso deve diventare amore della sapienza, cioè filosofia.
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Verità e bellezza
Lo statuto differenziale della bellezza è fondato da Platone nel Fedro nell'allegazione che, mentre la sapienza non ha una immagine che possa essere percepita dalla vista, alla bel lezza è invece toccato il privilegio di essere ciò che vi è di più visibile: La bellezza, come s 'è detto, splendeva di vera luce lassù fra quelle essenze, e anche dopo la
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nostra discesa quaggiù l'abbiamo afferrata con il più luminoso dei nostri sensi, luminosa e ri splendente. Perché la vista è il più acuto dei sensi permessi al nostro corpo; essa y erò non vede il pensiero (phr6nesis ouch hordtai). Quali stra ordinari amori ci procurerebbe se il pensiero potesse assicurarci una qualche mai chiara im magine (eidolon) di sé da contemplare! Né può vedere le altre essenze che son degne d'amore. Così solo la bellezza sortì questo privilegio di essere la più apparente (ekphanéstaton) e la più amabile (erasmi6taton). (Fedro, 25 od)
Nella mancanza di eidolon della sapienza e nella particolare visibilità della bellezza, ciò che è in gioco è, dunque, il problema metafi sica originale della frattura fra visibile e invi sibile, apparenza ed essere. Il paradosso della definizione platonica della bellezza è la visi bilità dell'invisibile, l'apparizione sensibile dell'idea. Ma in questo paradosso trova il suo fondamento e la sua ragion d'essere la teoria platonica dell'amore, nel cui ambito il Fedro svolge la trattazione del problema del bello. La visibilità dell'idea nella bellezza è, in fatti, l'origine della mania amorosa, che il Fedro descrive costantemente in termini di sguardo, e del processo conoscitivo che essa
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pone in essere, il cui itinerario è fissato da Platone nel Simposio. Nello stesso Simposio lo statuto di Eros nell'ambito della conoscenza è caratterizzato come medio fra sapienza e ignoranza e, in tal senso, paragonato all'opi nione vera, cioè a un sapere che giudica con giustezza e coglie il vero senza paterne, però, dar ragione. Ed è proprio questo suo caratte re mediale che giustifica la sua identificazio ne con la filosofia: «Ma non t'accorgi che c'è qualcosa di medio fra sapienza e ignoranza?» «Che cosa?» «Giudica re con giustezza, anche senza essere in grado di darne ragione (l6gon dounai). Non sai che ciò appunto non è scienza - perché dove non si sa dar ragione come potrebbe esservi scienza? Né ignoranza - giacché ciò che coglie il vero come potrebbe essere ignoranza? Orbene qualcosa di simile è la giusta opinione (orthé d6xa), qualcosa di mezzo fra l'intendere e l'ignoranza (metaxy
phronéseos kaì amathias)». (Simposio, 202a) «Anche fra sapienza e ignoranza [Amore] si tro va a mezza strada, e per questa ragione nessuno degli dèi è filosofo, o desidera diventare sapiente ( ché lo è già), né chi è già sapiente s'applica alla filosofia. D 'altra parte, neppure gli ignoranti si danno a filosofare né aspirano a diventare saggi,
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ché proprio per questo l'ignoranza è terribile, che chi non è né nobile né saggio crede d'aver tutto a sufficienza; e naturalmente chi non av verte d'essere in difetto non aspira a ciò di cui non crede d'aver bisogno>> . «Chi sono allora, o Diotima, replicai, quelli che s'applicano alla fi losofia, se escludi i sapienti e gli ignoranti?>> «Ma lo vedrebbe anche un bambino, rispose, che sono quelli a mezza strada fra i due, e che Amo re è uno di questi. Poiché appunto la sapienza lo è delle cose più belle ed Amore è amore del bello, ne consegue necessariamente che Amore è filosofo, e in quanto tale sta in mezzo fra il sapiente e l'ignorante>>, (lvi, 20 4 a-b)
Sempre nel Simposio, l'itinerario amoroso è descritto come un processo che va dalla vi sione della bellezza corporea alla scienza del bello (tou kalou mathema) e, finalmente, al bello in sé, che non è più né corpo né scienza: Questa bellezza non gli si rivelerà con un volto né con mani, né con altro che appartenga al cor po, e neppure come concetto o scienza, né come risiedente in cosa diversa da lei, per esempio in un vivente, o in terra, o in cielo, o in altro, ma come essa è per sé e con sé, eternamente univoca. (lvi, 21 ra-b)
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Il compito paradossale che Platone assegna alla teoria dell'amore è, dunque, quello di ga rantire il nesso (l'unità e, insieme, la differenza) fra bellezza e verità, fra ciò che vi è di più visi bile e l'invisibile evidenza dell'idea. Appartiene infatti alla più profonda intenzione del pensiero platonico il principio per cui il visibile (e quindi il bello, in quanto «ciò che è più apparente») è escluso dall'ambito della scienza. Nel libro vn della Repubblica, a proposito dell'astronomia, Platone afferma esplicitamente che è impossi bile cogliere la verità restando sul terreno delle apparenze e della bellezza visibile. La bella va rietà delle costellazioni celesti non può essere, come tale, oggetto di scienza: Questi ornamenti disposti nel cielo, poiché stan no trapunti su uno sfondo visibile, bisogna sì giudicarli i più belli e considerarli i più regolari tra simili oggetti, ma molto inferiori ai veri, ri guardo a quei movimenti che la vera velocità e la vera lentezza compiono, secondo il vero numero e in tutte le vere figure, l'una rispetto all'altra. . . Perciò, continuai, gli ornamenti del cielo devono servire da esempi per poter studiare quegli altri oggetti. Un caso simile sarebbe quello di chi tro vasse dei disegni tracciati o elaborati con partico lare maestria da Dedalo o da qualche altro artista o pittore. Vedendoli, un esperto di geometria li
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giudicherebbe bellissimi d'esecuzione, ma stime rebbe ridicolo esaminarli seriamente per cogliervi il vero concetto dell'eguaglianza o del doppio o di qualche altro rapporto.
(Repubblica, 5 29c-e)
Per questo a ragione Simplicio, formulan do così in qualche modo - nel suo commento a Del cielo di Aristotele - il programma delle scienze esatte, poteva configurare l'intenzione più propria dell'epistéme platonica come un tà phain6mena sozein, «salvare le apparenze»: «Ecco quale problema Platone proponeva ai ricercatori in questo campo (l'astronomia): trovare quali movimenti circolari e perfetta mente regolari bisogna supporre per salvare le apparenze presentate dagli astri erranti» (Duhem, 1908, p. 3). Ma solo se si potesse fondare un sapere delle apparenze in quanto tali (cioè, una scienza del bello visibile), sareb be allora possibile affermare di aver veramen te «salvato i fenomeni». Cepistéme, di per sé, non può che «salvare le apparenze» nei rap porti matematici, senza pretendere di esaurire il fenomeno visibile nella sua bellezza. Per questo il nesso verità-bellezza è il centro della teoria platonica delle idee. La bellezza non può essere conosciuta, la veri-
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tà non può essere vista: ma proprio questo intrecciarsi di una duplice impossibilità defi nisce l'idea e l'autentica salvazione delle ap parenze che essa attua nell' «altro sapere» di Eros. Anzi, il significato del termine «idea» (col suo implicito rimando etimologico a una e-videnza, a un idein) è interamente contenu to nel gioco (nell'unità-differenza) fra verità e bellezza. Per questo, ogni volta che, nei dia loghi sull'amore, sembra di poter afferrare la bellezza, questa rimanda all'invisibile, così come, ogni volta che si crede di poter strin gere nell'epistéme la consistenza della verità, questa rimanda al vocabolario della visione, a un vedere e a un apparire. Proprio perché l'atto supremo della conoscenza è scisso in tal modo in verità e bellezza e risulta tutta via concepibile solo in questa scissione («la sapienza è sapienza delle cose più belle», il bello è «ciò che vi è di più apparente», ma la scienza è scienza dell'invisibile), il sapere deve costituirsi come «amore del sapere» o «sapere d'amore» e, al di là tanto della cono scenza sensibile che dell'epistéme, presentar si come filosofia, cioè come medio fra scien za e ignoranza, fra un avere e un non-avere. In questa prospettiva è significativo che, nel Simposio, a Eros sia attribuita la sfera
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della divinazione. Poiché la divinazione era appunto una forma di «mania», cioè un sape re che non poteva, come l'epistéme, rendere ragione di sé e dei fenomeni, ma concerne va ciò che in essi era semplicemente segno e apparenza. La contrapposizione fra l'or thè mania del sapere d'amore e l'epistéme rimanda ancora una volta al tentativo plato nico di istituire un «sapere altro» e una sal vazione dei fenomeni fra l'invisibilità dell'e videnza (la verità) e l'evidenza dell'invisibile (la bellezza). La teoria platonica dell'amore non è, però, soltanto la teoria di un sapere altro, ma, an che e nella stessa misura, la teoria di un «al tro piacere». Se l'amore è, infatti, desiderio di possedere il bello (Simposio, 204d), se pos sedere il bello è essere felici ( eudaimon éstai) e se, d'altra parte, amore è, come si è visto, amore del sapere, il problema del piacere e quello del sapere sono strettamente connessi. Per questo non è certo casuale che, nel File bo, 1' analisi del piacere sia condotta di pari passo a quella della scienza, e che il bene su premo vi sia identificato come una mescolan za (synkrasis) di scienza e di piacere, di verità e di bellezza. Platone distingue qui i piaceri puri (hedonaì kathara{) quelli dei bei co-
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lori, delle figure, d i certi odori e dei suoni che possono essere mischiati con la scienza, dai piaceri impuri, che non tollerano alcun rapporto con la conoscenza. La mistione dei piaceri puri e delle scienze pure è, però, espli citamente caratterizzata come opera della bellezza, in modo che l'oggetto supremo del piacere come della scienza si rifugia ancora una volta nel bello («Così ora la potenza del bene . . . si è rifugiata nella natura del bello» 64e). La frattura della conoscenza che Plato ne lasciava in eredità alla cultura occidentale è, dunque, anche una frattura del piacere: ma entrambe queste fratture - che caratterizzano in modo originale la metafisica occidentale fanno segno verso una dimensione interme dia in cui si tiene la figura demonica di Eros, il quale soltanto sembra poterne assicurare la conciliazione senza abolirne, insieme, la differenza. Solo se la si colloca su questo sfondo, solo se, cioè, ci si rende conto di quale complessa eredità metafisica sia gravida la scienza che, sul finire del secolo xvm, viene ingenua mente a proporsi come «scienza del bello» e «dottrina del gusto», è possibile porre nei suoi giusti termini il problema estetico del gusto, che è, insieme, un problema di cono-
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scenza e di piacere, anzi, nelle parole di Kant, il problema dell' «enigmatica» relazione del conoscere e del piacere.
3· Un sapere che gode e unpiacere che conosce La formulazione del concetto di gusto, a partire dal secolo XVI fino alla sua piena enun ciazione nella copiosa trattatistica settecente sca sul gusto e sul bello, tradisce quest'origine metafisica nella segreta solidarietà di scienza e piacere che essa presuppone. Il gusto ap pare infatti fin dall'inizio come un «sapere che non sa, ma gode» e come un «piacere che conosce». Non è un caso se, come ha mostra to Robert Klein (1970), la prima apparizio ne di questo concetto vada cercata piuttosto nei trattati sull'amore e nella letteratura ma gico-ermetica che nella letteratura artistica propriamente detta. È in un singolare passo del libro xvi della Theologia (1613-1624), di Campanella, a proposito degli influssi degli angeli e dei demoni sull'uomo, che si trova una delle più precoci apparizioni della me tafora gustativa a significare una forma par ticolare di conoscenza immediata:
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Non enim discurrendo cognoscit vir spiritua lis utrum daemon an angelus . . . sibi suadet . . . aliquid; s e d quodam quasi tactu e t gustu e t in tuitiva notitia ... quemadmodum lingua statim discernimus saporem vini et panis. (Non è infatti discorrendo che l'uomo spiritua le si rende conto se un demone o un angelo . . . l o convince . . . d i una cosa; m a con una sorta di tatto e di gusto e di avvertimento intuitivo . . . come con l a lingua subito avvertiamo il sapore del vino e del pane.) (Cit. in Klein, 1 970, p. 377)
Ed è ancora Campanella, nella prefazione alla Metafisica (r638), ad opporre il ragiona mento, «che è quasi una saetta con cui rag giungiamo il bersaglio da lontano e senza gustarlo (absque gustu)», una forma di co noscenza per tactum intrinsecum in magna suavitate. L'idea di una forma di conoscen za altra, che si oppone tanto alla sensazione che alla scienza, ed è insieme piacere e sape re, è il tratto dominante delle prime defini zioni del gusto come giudizio sul bello. Un passo del Discorso delle ragioni del numero del verso italiano di Lodovico Zuccolo ri assume esemplarmente tutti gli elementi del
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problema. A proposito della bellezza del verso egli scrive: La causa poi, perché una proporzione, o conso nanza sia buona, e l'altra cattiva, per vigore di mente humana non può scorgersi. Tocca a darne il giudicio ad una certa porzione dell'intelletto, la quale per conoscere unita co' i sentimenti, suole anca pigliare il nome di senso; onde hab biamo in costume di dire, che l'occhio discerne la bellezza della Pittura, e l'orecchia apprende l'armonia della Musica. Ma veramente né l'oc chio, né l'orecchia sono giudici da sé soli; che così anche i cavalli, e i cani haverebbero quel gu sto della Pittura, e della Musica, che sentiamo noi; ma sibene una certa potenza superiore, uni ta insieme con l'occhio, e con l'orecchia, forma un cotal giudicio: la qual potenza tanto meglio conosce, quanto hà più d'acutezza nativa, o più di perizia nell'arti, senza però valersi di discor so. Bene hà conosciuto la mente humana, che un corpo, per esser bello, richiede più una propor zione, che l'altra: ma, perché poi quella sia buo na, e questa cattiva, ne rimane intiero il giudicio a quella potenza unita co' i sentimenti, la qual discerne senza discorso. Laonde diremo bene, che la bocca per esempio debba havere tanto di ampiezza di giro, di angoli, di apertura, e di grossezza di labra, soavemente esposte in fuo re, per rispondere di misura, e di proporzione
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al naso, alle guance, agli occhi, alla fronte; e che perciò Lucrezia habbia bella bocca, e brutta Ca milla: ma, perché poi fatta più all'un modo, che all'altro, sia di gusto, ne rimane giudice il sen timento, inteso nella maniera dichiarata da noi; e però sarebbe follia il ricercarne altra ragione. (Zuccolo, r623, pp. 8-9)
Questa caratterizzazione per così dire in negativo del gusto come «sapere che non si sa» è perfettamente evidente nella definizio ne leibniziana del gusto («il gusto distinto dall'intelligenza consiste nelle percezioni confuse di cui non si potrebbe a sufficienza rendere ragione. Si tratta di un qualcosa di simile all'istinto») e nella sua osservazione che i pittori e gli artisti, che giudicano assai bene le opere d'arte, non possono però ren der conto dei loro giudizi se non rimandan do a un non so che («Vediamo che i pittori e gli altri artefici - egli scrive nel De cognitio ne, veritate et ideis [1684]- sanno bene che cosa è stato fatto rettamente o malamente, ma spesso non possono rendere ragione del loro giudizio e dicono a chi li interroga che nella cosa che non piace manca un non so che [nescio quid]»).
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È tuttavia proprio questo senso vuoto che, nel corso del secolo XVIII, acquista una posi zione sempre più assiale nel dibattito intellet tuale. Se si sceglie come campione esemplare della vasta trattatistica settecentesca sul gu sto l'articolo incompiuto che Montesquieu aveva scritto per l'Encyclopédie, si vede che Montesquieu coglie qui col consueto acume i due caratteri essenziali di quest'altro sape re: «