Gli antichi greci
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Zitiervorschau

Moses I. Finley

Gli a n tic h i G reci

Piccola B iblioteca Einaudi

Piccola Biblioteca Einaudi Storia

Q uesto volum e offre un’agile ed esauriente analisi della civiltà greca antica. L’autore, che ha dedicato all’antichità classica varie opere, ne segu e in qu e­ sto libro lo sviluppo dall’età eroica fino ad A lessandro il Grande e al periodo ellenistico, accen tuan do in particolare gli aspetti sociali e culturali alla luce delle più recenti ricerche. Al centro dell’interesse è la storia delle form e pra­ tiche di vita dei Greci. Sofferm andosi su alcuni problem i chiave ch e per­ m ettono di illustrare m om enti tipici della storia greca (la partecipazione del­ l'uom o com une alla vita politica, le dim ensioni reali della polis e la su a strut­ tura d em ografica, l’intrico di tensioni ch e proprio ad A tene portarono al processo di Socrate), Finley non trascura la letteratura, le scienze e le arti. Som m ario: Prefazione. - i. Chi erano i Greci? n. lieta oscura e i poemi omerici, ni. La Grecia arcaica, iv. La città-stato classica, v. Letteratura, vi. Scienza, filo­ sofia e morale popolare, . Le arti figurative, vili. Letà ellenistica. - Tavo­ la cronologica. - Note alle illustrazioni. - Bibliografia. - Indice dei nomi, luo­ ghi, divinità. v ii

Di M oses I. Finley (1 9 1 2 -8 8 ), Einaudi ha pubblicato: Uso e abuso della sto­ ria. Il significato, lo studio e la comprensione del passato (1 9 8 1 ).

IS B N 9 7 8 - 8 8 - 0 6 - 1 5 4 9 9 - 8



17,00

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154998

P ic c o la B ib lio te c a E in a u d i Nuova serie

S to ria e g e o g r a f ia

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Titolo originale The Ancient Greeks Chatto & Windus, London © 1963 Moses I. Finley © 1 9 6 5 ,1 9 6 8 e 2 0 0 2 Giulio Einaudi editore s.p .a., Torino Traduzione di Fausto Codino www.einaudi.it ISSN

978-88-06-15499-8

M o s e s I. Finley Gli a n tic h i Greci

P ic c o la B ib lio te c a E in au d i S to ria e g e o g r a f ia

Indice

P- 7 il

15 24 25

3i 35 4i

Prefazione I. Chi erano i Greci? II. L ’età oscura e i poemi omerici Periodi della storia greca III. La Grecia arcaica Colonizzazione Tiranni e legislatori Comunità, religione e panellenismo

48

IV. La città-stato classica

54

Guerra e impero Atene Sparta Il declino della polis

64 76 81 87

V. Letteratura

89 92

Poesia Tragedia Commedia Prosa

99 103 109 112 120 127

VI. Scienza, filosofia e morale popolare Scienza Filosofia e politica Atteggiamenti ed etica popolari

6

INDICE p. 142 147 151 156

v ii.

Le arti figurative Architettura 'e urbanistica Scultura Pittura

160 vili. L ’età ellenistica 162 168

Città greche e monarchi assoluti Greci e Romani

171 177 185 191

Tavola cronologica Note alle illustrazioni Bibliografia Indice dei nomi, luoghi, divinità

Nel presentare un libro come questo bisogna dire pri­ ma di tutto quel che esso non è. Non ho scritto un roman­ zo né un’opera di consultazione. Ho cercato invece di di­ scutere e, quando sembrava possibile, di spiegare come la civiltà greca si sia sviluppata nei suoi vari aspetti, mate­ riali, sociali, politici e culturali, con le sue forze e le sue debolezze. Le accentuazioni, e anche le omissioni, riflet­ tono la mia opinione personale su ciò che nella storia greca è più interessante e importante, con una sola eccezione che deve essere indicata. In uno spazio cosi ristretto non ho cercato di affrontare argomenti tecnici, sia nel campo del­ la poesia, che dell’arte, della filosofia e della scienza. Que­ sta è un’analisi personale, non un sommario o una ridu­ zione al minimo comun denominatore delle opinioni so­ stenute da altri storici. Spero di essere riuscito a distin­ guere fra un fatto generalmente accettato e una congettu­ ra, una conclusione, un’interpretazione appartenenti a me solo; ho cercato di far capire in linea generale la natura delle testimonianze; e ho aggiunto una bibliografia abba­ stanza ampia per offrire a chi ne abbia desiderio opere in cui si possono trovare o interpretazioni diverse o studi particolareggiati su temi o periodi speciali. Devo dire an­ che d ’aver trattato la civiltà greca dopo Alessandro Magno (la cosiddetta età ellenistica) quasi a guisa di epilogo, tra­ scurando quasi del tutto la Grecia sotto la dominazione romana. Pertanto era inutile scrivere « a. C. » dopo le da­ te, tranne i pochi casi in cui potevano sorgere dubbi. Sono molto grato a G. S. Kirk e al professor A. Andrewes, che hanno letto il manoscritto e hanno discusso

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PREFAZIONE

con me molti punti; al professor R. M. Cook, che mi ha particolarmente aiutato nel capitolo V II; a Michael Ayr­ ton, a William Hutcheon, al professor A. H. M. Jones, al dottor W. H. Plommer, a J. G. Pollard e al professor Martin Robertson per i loro suggerimenti e le loro criti­ che; a Roger Toulmin, che ha diretto per il terzo pro­ gramma della BBC, agli inizi del 1961, la serie di trasmis­ sioni per la quale ho scritto il libretto da cui è nato que­ sto volume; e a mia moglie, che non solo ha letto il ma­ noscritto nella stesura definitiva, ma ne ha vissuto le fasi preparatorie. Le fonti iconografiche sono indicate alla fine del volu­ me, nelle ampie note relative alle illustrazioni. M . 1. F.

27 m aggio 1962.

G LI ANTICHI GRECI

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Trebisonda \ C orcii ' Crotone

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Seleucia Babilonia

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Il mondo greco.

\

Capitolo primo Chi erano i Greci?

Popolazioni di lingua greca provenienti dal nord immi­ grarono per la prima volta nella penisola greca all’inizio del li millennio a. C., quasi certamente prima del 1900 Qualunque fosse in quel momento il livello della loro cultura, esse contribuirono in ultimo a creare quella ci­ viltà del bronzo del periodo 1400-1200, tecnicamente evo­ luta, che noi chiamiamo micenea e che aveva i suoi cen­ tri principali nel Peloponneso (la parte meridionale della Grecia continentale) in luoghi come Micene, Argo e Pilo. La recente decifrazione della loro scrittura sillabica - la cosiddetta Lineare B (figura 1) - ha dimostrato che, al­ meno nei palazzi, la lingua era una forma primitiva di greco. È stata una scoperta sorprendente, di cui tuttavia è facile esagerare le implicazioni. Nell’età della pietra e del bronzo, prima che entrassero in scena i Greci, i Balcani meridionali avevano avuto una lunga storia. Nulla è noto di ciò che accadde all’ariivo dei nuovi venuti, a parte le testimonianze dei resti materiali, che non rivelano alcuna fioritura d ’innovazioni attribuibili agli immigrati. Al con­ trario, dovevano passare parecchi secoli ancora prima che si delineasse il brillante periodo miceneo, ed è impossi­ bile distinguere nella sua genesi il contributo « greco » da quello «pregreco», proprio come è inutile cercare di discernere gli elementi etnici nella stirpe biologicamente mista che formava ora la popolazione. Non c’era correla­ zione diretta fra razza, lingua e cultura, cosi come non c’è stata in altre epoche o in altre sedi storiche. 1 Tutte le date sono avanti Cristo, salvo indicazione diversa.

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GLI ANTICHI GRECI

La civiltà micenea ebbe una fine piuttosto repentina verso il 1200, fine che secondo la maggioranza degli sto­ rici fu dovuta a una nuova immigrazione greca, quella dei Dori. I quattrocento anni che seguirono furono un’« età oscura»: oscura per noi, che ne sappiamo (e possiamo saperne) pochissimo. Viene fatto quindi di considerarla « oscura » allo stesso modo che è invalso l’uso di definire oscuri i secoli del medioevo: l’arte della scrittura scom­ parve, i centri di potenza perirono, si combatterono mol­ te piccole guerre, tribù e gruppi minori si spostarono al­ l’interno della Grecia o emigrarono oltre il mare Egeo in Asia Minore: nel complesso le condizioni materiali e cul­ turali decaddero notevolmente in confronto a quelle della civiltà micenea. Eppure, nonostante tutto ciò, non si può parlare solo di decadenza e di declino, perché proprio in questa età oscura, attraverso un processo che possiamo solo intravvedere vagamente nei ritrovamenti archeolo­ gici e nei miti narrati dai Greci più tardi, avvenne una grande rivoluzione tecnologica - l’avvento del ferro e nacque la società greca. Il vecchio mondo miceneo, no­ nostante la lingua greca dei palazzi, era strettamente af­ fine ai contemporanei stati orientali della Siria settentrio­ nale e della Mesopotamia, fortemente centralizzati e bu­ rocratici. Il nuovo mondo, il mondo greco storico, era (e rimase) affatto diverso dal punto di vista economico, po­ litico e culturale. C ’erano elementi di continuità, s’inten­ de, ma essi erano frammenti inseriti in un contesto nuo­ vo e irriconoscibile. Furono conservate le pratiche e le conoscenze tecniche fondamentali dell’agricoltura, della ceramica e della metallurgia, e la lingua greca sopravvisse a questa trasformazione sociale, cosi come è sopravvis­ suta fino ad oggi a tutti i mutamenti successivi. Nella loro lingua i Greci non chiamarono mai se stessi « Greci » (la parola deriva dal nome, Graeci, che davano loro i Romani). In età micenea, a quanto sembra, erano conosciuti come Achei (come risulta da documenti ittiti contemporanei), uno dei vari nomi che essi portano an­ cora nei poemi omerici, le più antiche opere letterarie greche sopravvissute. Nel corso dell’età oscura, o forse proprio alla fine di essa, il termine « Elleni » sostituì de-

CHI ERANO I GRECI?

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fìnitivamente tutti gli altri, e « Eliade » (Hellas) diventò il nome collettivo per i Greci nel loro insieme. Oggi Hel­ las è il nome di uno stato, come Francia o Italia; ma nel­ l’antichità non c’era niente di simile, niente che gli Elleni potessero designare come « il nostro paese ». Per loro l’Ellade era essenzialmente un’astrazione, come la «c ri­ stianità » nel medioevo o « il mondo arabo » ai giorni no­ stri, perché gli antichi Greci non ebbero mai unità poli­ tica o territoriale. Alla fine l’Ellade si estese su un’area enorme, compren­ dente il litorale del mar Nero ad est, le zone costiere del­ l’Asia Minore, le isole dell’Egeo, la Grecia propria, l’Ita­ lia meridionale e la maggior parte della Sicilia, e conti­ nuando ad ovest su entrambe le sponde del Mediterraneo fino a Cirene in Libia e fino a Marsiglia e ad alcune loca­ lità costiere della Spagna. L ’area può essere immaginata, all’incirca, come una grande ellisse di cui il Mediterraneo (con la continuazione del mar Nero) costituiva l’asse mag­ giore; un’ellisse molto schiacciata, perché la civiltà greca crebbe e fiori sul bordo del mare, non nell’entroterra. Si può indicare la posizione dei grandi centri, uno per uno, senza allontanarsi più di venti o venticinque miglia dalla costa. Tutto ciò che si trovava oltre questa fascia sottile era periferico, era terra da cui ricavare cibo, metalli e schiavi, destinata ad essere saccheggiata, a ricevere manu­ fatti greci, ma non ad essere abitata da Greci se era pos­ sibile evitarlo. Tutti questi Greci sparsi a grandi distanze erano co­ scienti di appartenere a una sola cultura: « la nostra comu­ nanza di stirpe e di lingua, i nostri comuni templi degli dèi e i nostri riti, i nostri costumi affini », come scriveva Ero­ doto (V ili, 144). In realtà nella penisola greca e nelle isole dell’Egeo il mondo che essi abitavano era diventato interamente greco, fatta eccezione per gli schiavi stranie­ ri, i forestieri di passaggio e qualche occasionale curiosità etnica come gli aborigeni dell’isola di Samotracia. Altrove le comunità greche coesistevano con altri popoli e ne era­ no circondate. Dove gli aborigeni erano piu primitivi — come gli Sciti nella Russia meridionale o i Traci nell’Egeo settentrionale o i Siculi e Sicani in Sicilia - i Greci ten-

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GLI ANTICHI GRECI

devano a imporre loro una dominazione economica e cul­ turale e spesso anche politica. Quando invece si stabili­ vano nel territorio di un popolo progredito e ben orga­ nizzato, specialmente nell’impero persiano, essi dovevano accettarne la sovranità. Ma anche allora riuscivano a con­ servare una notevole autonomia, conducendo un modo di vita completamente greco e conservando la loro autoco­ scienza ellenica. Civiltà comune non significò mai, naturalmente, iden­ tità assoluta. C’erano differenze nel dialetto, nell’orga­ nizzazione politica, nelle pratiche del culto, spesso nelle idee e nei valori morali, differenze che erano piu forti nelle aree periferiche ma non mancavano affatto neppure al centro. Tuttavia le differenze apparivano irrilevanti ai loro stessi occhi, se commisurate agli elementi comuni di cui essi erano ben coscienti. La lingua, per esempio, poteva avere differenze dialettali, ma un greco di qualunque luo­ go si faceva capire dovunque anche meglio d ’un napole­ tano o siciliano incolto di oggi che si trovi a Venezia. Essi usavano tutti lo stesso alfabeto, adattato verso l’8oo da una precedente invenzione fenicia, un sistema in cui i se­ gni non rappresentavano le sillabe ma i suoni semplici del­ la lingua, una scrittura completamente diversa dalla Li­ neare B e uno strumento di scrittura molto superiore (fi­ gura i). E definivano chiunque altro, chiunque non par­ lasse il greco come lingua materna, con l’unico termine di « barbaro »: un uomo dal linguaggio incomprensibile, chi sonava come un « bar-bar-bar ». I barbari non erano sol­ tanto incomprensibili; molti Greci arrivarono a pensare che fossero inferiori per natura: tanto i civilissimi Egi­ ziani e Persiani quanto gli Sciti e i Traci.

Capitolo secondo L ’età oscura e i poemi omerici

L ’età oscura potè essere affatto illetterata e arretrata sotto altri aspetti, ma non mancava di una vita culturale. Un esempio è offerto dalla bella ceramica con disegni geo­ metrici (figura 34), un altro dai poemi omerici. Essi lascia­ no lo storico deluso, quando cerca di ricostruire circa quattrocento anni di storia, i secoli di formazione della civiltà greca storica, sulla base dei resti materiali, di due lunghi poemi, delle posteriori e inattendibili tradizioni e miti dei Greci. I Greci ritenevano, con poche eccezioni, che l’Iliade e l’Odissea fossero opera di un solo poeta, Omero. Nessuno sapeva dire con certezza quando egli fosse vissuto, e dove (ma l’isola di Chio sembrava avere migliori titoli nel ri­ vendicarlo come suo cittadino). Gli studiosi moderni sono discordi sulla questione se entrambi i poemi siano stati composti o no da un solo poeta e sulla loro data. Si con­ viene però generalmente che non è possibile assimilare l’autore o gli autori a poeti epici piu tardi, come Virgilio, Dante o Milton. Dietro l’Iliade e l’Odissea stanno secoli di poesia orale, composta, recitata e trasmessa da bardi di professione, gli aedi, senza l’aiuto della scrittura. Mentre Virgilio poteva decidere, con un atto di scelta, di prendere la storia di Enea per soggetto di una lunga composizione epica e raffinarla a suo piacimento, renderla dotta e com­ plicata nel linguaggio, nella struttura e nelle idee, l’aedo non aveva una simile libertà. In parte questo era un fatto meramente tecnico, dovuto ai limiti severi imposti dalla composizione orale; d’altro canto era una questione di

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GLI ANTICHI GRECI

convezioni sociali. Tanto il soggetto che il modo della composizione erano fissi. Il linguaggio era ricco, stilizzato e artificiale, mirabilmente appropriato alle esigenze del­ la composizione orale. I temi erano quelli di un passato « eroico » che gli aedi e i loro ascoltatori consideravano un passato reale, non inventato o creato, ma narrato dal poeta. « Perché tu canti davvero con fedeltà il destino de­ gli Achei... », dice Odisseo all’aedo Demodoco nelPOdwsea (V ili, 489-91). «come se tu stesso fossi stato pre­ sente o ne avessi sentito parlare da un altro ». Poi il ritorno della scrittura in Grecia, nella forma me­ ravigliosamente flessibile dell’alfabeto fonetico, mutò ra­ dicalmente il quadro. Diventò possibile fissare in una for­ ma permanente e su una vasta trama la poesia che si era sviluppata durante i secoli illetterati. Non può sorpren­ dere che il tentativo fosse compiuto da pochi poeti. No­ tevole è il fatto che tra essi ci fosse l’autore (o gli autori) cui si devono due dei più grandi poemi della letteratura mondiale. Noi non possiamo confrontare l’Iliade e l’Odis­ sea con l’altra poesia eroica scritta alla fine dell’età oscu­ ra, perché il resto è scomparso insieme con la gran massa della letteratura greca in generale. Il giudizio degli anti­ chi, tuttavia, era praticamente unanime nell’affermare che le opere ora perdute erano molto inferiori ai due poemi superstiti. La Grecia dell’età oscura conosceva un gran numero di temi eroici, ma il più grande fra essi era l’invasione in massa di Troia, la sua distruzione ad opera di una coali­ zione proveniente dalla Grecia continentale e il ritorno degli eroi in patria; il tutto era decorato da molti racconti minori sulle vite degli stessi eroi e su fatti degli dèi olim­ pici connessi con quelle vicende. Finita l’età oscura, la massa degli episodi accumulati diventò vastissima, e si può dire che il poeta aveva libertà di scelta nel modo di sceglierli e di combinarli. Cosi, per quanto l’Iliade e l’Odissea siano lunghe (circa 17000 e 13000 versi, ri­ spettivamente), esse abbracciano soltanto una sezione del­ l’intero ciclo: la prima è concentrata su alcuni giorni del­ l’assedio decennale di Troia e si chiude con la morte di Ettore (ma non arriva alla conquista della città), la secon-

L ’ETÀ OSCURA e I POEMI OMERICI

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da sui dieci anni delle peregrinazioni di un solo eroe, Odisseo, che da Troia torna alla sua patria di Itaca. Gli archeologi hanno mostrato che Troia fu realmente distrutta alla metà del x m secolo, come avevano conget­ turato alcuni storici greci, e che molti dei luoghi associati agli eroi omerici erano realmente stati importanti centri micenei. Dunque nei poemi resta qualche cosa di un nu­ cleo miceneo genuino, storico, cosi come frammenti del passato sopravvivono in altri esempi di poesia eroica, qua­ li la Chanson de Roland francese medievale o i brevi canti russi sul principe Vladimir di Kie*/. Ma è poco, e anche quel poco di solito è deformato. Impercettibilmente, e in maniera soltanto semicosciente, nel migliore dei casi, i racconti erano trasformati mentre passavano da un aedo all’altro e mentre il periodo, i fatti e la società che essi « narravano » si allontanavano nel tempo e diventavano sempre piu incomprensibili per loro. In un certo senso i poeti cercavano di fare insieme due cose contraddittorie: da un lato tentavano di conservare un’immagine di un passato scomparso, dall’altro desideravano essere capiti e creduti. Cosi, per esempio, descrivevano palazzi magnifici che non avevano mai visto e che finivano col somigliare sempre meno ai palazzi micenei (o a qualsiasi altro tipo di palazzi, perché il mondo contemporaneo non ne ave­ va); oppure cercavano di descrivere l’uso dei carri da guerra, una pratica scomparsa di cui essi non sapevano bene che farsi; o descrivevano le armi di bronzo dei mi­ cenei ma senza poter impedire che il ferro spuntasse qua e là nei poemi, perché ora le armi erano fatte di ferro e non di bronzo. Questi anacronismi turbano gli storici, ma né gli aedi né i loro ascoltatori erano storici. Per trovare casi analo­ ghi si può pensare ai drammi storici di Shakespeare, o ai dipinti del Rinascimento con scene della storia e della mitologia greca, o alle illustrazioni della Bibbia di qual­ siasi epoca. Essi brulicano d ’infedeltà, ma nessuno le at­ tribuisce a un’intenzione deliberata. L ’unica cosa che non si sarebbe tollerata nella poesia eroica greca sarebbe stata l’intrusione nel racconto di fatti notoriamente accaduti dopo l’età « eroica »: per esempio la venuta dei Dori. La

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GLI ANTICHI GRECI

loro assenza dai poemi era la prova, per cosi dire, che i poeti ripetevano correttamente le antiche storie. Per il resto - istituzioni sociali, atteggiamenti e idee, codice di condotta - non si potevano controllare ,gli errori per la semplice ragione che non esistevano documenti scritti. Non si può sottolineare abbastanza questo punto. Passato un secolo, sarebbe stato letteralmente impossibile con­ trollare qualsiasi asserzione concernente i poteri di Aga­ mennone, le dimensioni del suo esercito o i particolari delle battaglie. I poemi, come venivano recitati, erano insieme la verità stessa e la prova della propria verità. La società che si mostra nell ’Iliade e nell’Odissea è fat­ ta di re e di nobili che possedevano molta terra e molto bestiame e vivevano una vita di splendore e di lotte. La casa aristocratica era il centro dell’attività e del potere. Il re era giudice, legislatore e comandante. Non era sog­ getto a controlli formali, dipendendo dalla sanzione del suo valore, della sua ricchezza e delle sue relazioni. Un re debole non avrebbe resistito a lungo alla sfida di rivali potenti o di nemici esterni. Egli non aveva né uno « stato » né una « comunità » che potessero effettivamente appog­ giarlo offrendo leggi e tradizioni in suo sostegno. Non che fosse il regno della giungla: c’erano cerimonie, riti e convenzioni secondo i quali si viveva; quel che mancava era una sanzione abbastanza forte per bloccare o sopraf­ fare la sanzione massima, quella del potere effettivo. In assenza di Odisseo i nobili di Itaca si comportavano scan­ dalosamente verso la sua famiglia e i suoi possessi, in­ tanto che manovravano tra loro per impadronirsi del suo potere. Alcuni, come il vecchio Mentore, protestavano, ma le loro parole non avevano peso, e il poeta sembra dire: come potevano averne? Il popolo di Itaca restava in silenzio. In effetto, al di fuori degli eroi aristocratici, in entrambi i poemi la po­ polazione forma una vaga massa il cui stato è affatto im­ precisato. Alcuni, specialmente donne prigioniere, sono chiamati schiavi ma non sembra che se la passino peggio degli altri. Alcuni artigiani - i fabbri, i falegnami, gli in­ dovini e i medici — sembrano godere di una condizione piu elevata. Quanto agli altri, essi lavorano nei campi e

L ’ETÀ OSCURA e I POEMI OMERICI

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nei palazzi (ma non commerciano, perché il commercio è lasciato a stranieri, Fenici in particolare, o agli stessi capi militari), partecipano ad imprese di guerra e anche alla grande spedizione contro Troia, ma non pare che in­ tervengano nelle Battaglie vere e proprie, che si limitano al combattimento individuale fra i nobili delle due parti, dotati di armatura pesante. All’occasione essi si raduna­ no anche in assemblea, ma non sembrano avere diritto alla parola o al voto quando si arriva veramente a una decisione. Solo una volta uno del popolo pretende di en­ trare nella discussione, neLfamoso passo dell’Iliade in cui Tersite propone che si abbandoni l’assedio dì Troia; e prontamente Odisseo lo bastona sulla schiena e sulle spalle con uno scettro, mettendo subito fine a quella vio­ lazione isolata del comportamento corretto. Se confrontata al mondo reale del x m secolo, al mondo miceneo, tutta questa attività ha proporzioni troppo ri­ strette ed è male intesa nella sostanza. Ciò è stato dimo­ strato dall’archeologia moderna e dalla decifrazione delle tavolette in Lineare B. I Greci, per loro conto, non ave­ vano notizia dell’esistenza di una scrittura Lineare B, sapevano ben poco di archeologia e fraintendevano rego­ larmente le rovine - come quelle della stessa Micene che non potevano fare a meno di vedere. Quelli che vis­ sero dopo l’età oscura, per lo meno, erano evidentemen­ te inconsapevoli che per esempio c’era stata un’età del bronzo in cui il ferro era sconosciuto (Erodoto credeva che anche le piramidi fossero state costruite con arnesi di ferro); oppure, per scendere molto in basso nell’età oscu­ ra, che il vasellame geometrico era la tipica ceramica gre­ ca decorata e non produzione di barbari. In breve, i Greci posteriori non avevano alcun ricordo di una civiltà mi­ cenea qualitativamente diversa dalla loro e separata da quest’ultima dall’interruzione dell’età oscura. Essi con­ sideravano i signori di Micene e di Pilo come i propri an­ tenati e precursori immediati, in senso sociale e spirituale, se non nel senso biologico, e avevano torto. Per secoli i Greci ebbero un interesse puramente mito­ logico per il loro passato. Cioè, li interessavano larga­ mente i fatti individuali, isolati del passato (comportanti

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GLI ANTICHI GRECI

di solito la partecipazione diretta di esseri soprannatu­ rali), ciascuno dei quali « spiegava » una pratica corrente nei culti e nei riti o nelle istituzioni secolari; ma non pen­ savano a un resoconto ordinato del passato, articolato si­ stematicamente nel tempo e nello spazio. Alla fine alcuni Greci svilupparono un senso genuino della storia (non pri­ ma del v secolo), ma allora era troppo tardi. Il passato piti remoto era scomparso: non c’erano documenti, salvo i pochi poemi che infine erano stati messi per iscritto e la enorme massa inestricabile dei miti trasmessi oralmente. Per conseguenza i tentativi di ricostruire la loro antica storia postmicenea produssero un quadro troppo sempli­ ficato, a parte le inesattezze specifiche, nel quale non ap­ parivano gli alti e bassi, le forti differenze nel tempo e nello spazio, la qualità rilevante dei mutamenti che carat­ terizzavano i secoli dell’età oscura. Noi abbiamo a nostro vantaggio l’archeologia moderna e la riscoperta dei mon­ di perduti degli Ittiti, degli Assiri e di altri popoli anti­ chi dell’Asia occidentale. Sappiamo quanto fu completa la disgregazione della società micenea (almeno al vertice); come Atene avesse una posizione centrale nella conserva­ zione e nella diffusione delle tecniche della ceramica; sap­ piamo che verso l’anno 1000 piccoli gruppi cominciarono ad emigrare a oriente, oltre l’Egeo, per trovare punti d’ap­ poggio sulla costa dell’Asia Minore, piccoli insediamenti agricoli instabili che col passare del tempo diventarono i centri di quello che qualche volta è stato definito il Rina­ scimento ionico. Noi sappiamo tutte queste cose e altre ancora di cui poco sapevano i Greci stessi dopo la fine dell’età oscura. Eppure sarebbe assurdo credere che noi possiamo, o che potremo un giorno scrivere una storia dell’età oscura. L ’archeologia, la linguistica comparata e la mitologia com­ parata, le testimonianze dei documenti contemporanei in Siria o in Egitto, nonostante tutto il loro valore gettano una luce che tocca ben presto i suoi limiti assoluti. Nulla può supplire all’inesistenza di scritti greci contempora­ nei, letterari o religiosi o amministrativi. E quindi dob­ biamo tornare ad affidarci, come i Greci, all’Iliade e alYOdissea. Anche qui, per quanto possa sembrare sor-

l ’e t à

OSCURA e I POEMI OMERICI

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prendente, ne sappiamo molto più dei Greci perché non soltanto abbiamo i contributi della filologia moderna, ma nel secolo scorso e in questo secolo è stato anche possi­ bile studiare sul vivo la tecnica della creazione poetica eroica, orale, in particolare presso gli Slavi meridionali. Ne è derivata la conclusione ragionevolmente sicura che, sebbene i poemi non siano storia né micenea né greca, contrariamente alla ferma convinzione dei Greci - in so­ stanza neppure i più scettici tra loro ne dubitarono mai, anche se alcuni si ribellavano contro l’immagine omerica degli dèi e altri simili aspetti dei poemi - né Ylliade né l’Odissea sono invenzioni meramente poetiche. La socie­ tà rappresentata e le idee sono storiche, e ciò aggiunge una dimensione importante ai muti avanzi materiali. Storiche in che senso? Di quando? Questo è un proble­ ma molto spinoso. L ’opinione moderna sulla data della composizione finale dei poemi (prescindendo dalle inter­ polazioni ancora posteriori e dalle revisioni che indub­ biamente furono fatte) oscilla fra la fine del ix secolo e l’inizio del v i i . Anche se si accetta una data alta, è subito evidente che il mondo dei poemi non è quello in cui Ome­ ro viveva. Intanto c’è troppa uniformità: gli Achei di Omero non si distinguono l’uno dall’altro e nemmeno dai Troiani. Ma la Tessaglia (la patria di Achille) del ix secolo, la Creta del ix secolo e l’Atene del ix secolo non erano affatto identiche. I dialetti erano diversi, l’evo­ luzione sociale procedeva con ritmi diversi, come pure le istituzioni politiche. Inoltre, e questa è una difficoltà an­ che più seria, c’è un divario troppo forte fra le comunità non sviluppate dei poemi e le comunità che erano suffi­ cientemente organizzate, sovraffollate e tecnicamente evo­ lute da iniziare la grande emigrazione e diaspora greca che cominciò alla metà deU’viu secolo. C ’è una distanza ugual­ mente eccessiva fra i giochi organizzati da Achille per i funerali di Patroclo, che occupano il libro XXIII dell’Ilia­ de, e i Giochi olimpici. (S’intende che quanto più è tarda la data accettata per i poemi, tanto più gravi diventano queste difficoltà). Sembra dunque che il deliberato arcai­ smo degli aedi avesse un parziale successo: per quanto avessero perduto praticamente qualsiasi ricordo della so-

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cietà micenea, essi risalivano abbastanza indietro nel tem­ po da poter rappresentare con una certa esattezza piutto­ sto gli inizi che la fine dell’età oscura, sia pure ammetten­ do tratti anacronistici: da un lato sopravvivenze micenee, dall’altro note contemporanee. Come sa qualsiasi scrittore di romanzi storici (o qual­ siasi storico), è piu facile descrivere gli aspetti esteriori di un’età passata che penetrare negli uomini stessi, nei lo­ ro pensieri e sentimenti. Da questo punto di vista gli aedi avevano il vantaggio di possedere l’ampio repertorio delle «form ule» tradizionali — frasi e versi standard - che erano i loro strumenti professionali. Tuttavia essi non po­ tevano realmente pensare nel passato. Platone lamenta nella Repubblica (606 e ) che ci fossero Greci secondo i quali Omero «h a educato PEllade e... una persona do­ vrebbe regolare tutta la sua vita seguendo questo poeta ». Poche opere - e probabilmente nessuna fra quelle che non hanno carattere dogmatico-religioso - ha mai eserci­ tato tanta efficacia su una nazione per tanti secoli. Il genio poetico da solo non può spiegare il fenomeno, né si può certo addurre la semplice curiosità per una lontana età dell’oro. La spiegazione sta altrove. Fu Omero (insieme con un poeta di un genere molto diverso, Esiodo) che se­ condo Erodoto (II, 53) «fissò primamente per i Greci la genealogia degli dèi, dette agli dèi i loro titoli, divise tra essi i loro onori e le loro funzioni e definì le loro imma­ gini ». A prima vista questa sembra un’osservazione scioc­ ca: Zeus sarebbe stato signore dell’Olimpo anche se Ome­ ro non fosse mai vissuto; ma, come accade spesso in Ero­ doto, l’acutezza e la profondità stanno al disotto della superficie. Si è detto talvolta che l’antropomorfismo dei poemi omerici è il più completo, il più estremo che ci sia noto; che né prima né in seguito gli dèi sono stati così simili agli uomini (a parte, s’intende, la loro incapacità di perire); che questa è ima concezione terribilmente ingenua della divinità. Senza dubbio è così, ma in essa c’è anche altro, qualche cosa che forse è molto più interessante e signifi­ cativo. Fu un passo audacissimo, dopo tutto, l’innalzare l’uomo al punto che potesse diventare l’immagine degli

l ’e t à

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dèi. E chi dette a Omero (e a Esiodo dopo di lui) l’auto­ rità d’intervenire in questa materia? Ciò che essi fecero, l’atto stesso e la sua sostanza, implica un’autocoscienza umana e una fiducia in se stessi inaudite e piene di possi­ bilità illimitate. Naturalmente non fu una sola persona, Omero, che compì una simile rivoluzione intellettuale, e non c’è al­ cuna testimonianza, né in un senso né nell’altro, che per­ metta di decidere se gli aedi avessero coscienza di parte­ cipare ad èssa. La rivoluzione non fu nemmeno completa. I poemi omerici mostrano un’innegabile avversione per gli dèi-serpenti, per i riti della fecondità, per le cerimo­ nie orgiastiche, per il lato frenetico della religione, dioni­ siaco o bacchico, che era antichissimo e tenacissimo. Cose siffatte compaiono appena nei poemi, eppure restarono profondamente radicate e largamente praticate fino alla fine della civiltà greca. Già nell’età oscura, tuttavia, al­ cuni si ribellavano contro di esse, urtati non tanto dalla rozzezza e dalla brutalità (la brutalità non manca nell'Iliade e nell ’Odissea) quanto dall’inadeguatezza intel­ lettuale, dalla debolezza e dall’inferiorità umane. Poi ven­ ne un’altra «rivoluzione», il ritorno in Grecia dell’arte della scrittura. Solo una società che sa scrivere, che sa scegliere, conservare e trasmettere le sue conoscenze sul­ la carta, è capace di condurre un’indagine sistematica sul­ le sue credenze religio s c io in qualsiasi altro campo). Il primo passo fu una teogonia. Qui Erodoto può indurre in errore, in qualche modo: Omero mostra solo gli inizi, menfre la prima teogonia vera e propria deve essere attri­ buita a Esiodo, il quale appartiene al mondo pienamente storico dei Greci, mentre Omero restava sulla soglia. In conclusione l’Iliade e VOdissea presentano nume­ rosi paradossi notevoli. Probabilmente nessun’altra let­ teratura è passata alla fase scritta cominciando con due poemi così geniali; i quali non ebbero degni successori, in quanto le creazioni poetiche scritte si rivolsero subito a nuove forme e a nuovi temi. Per molti aspetti rilevanti i due poemi guardano indietro, e anche con insistenza; tuttavia èssi sono rivolti in avanti ogni volta che toccano il cuore dell’umanità dell’uomo. In questo senso il ter-

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mine « età oscura » può essere improprio (tranne che per sottolineare la nostra ignoranza sulla sua storia). Quando alcuni Greci cominciarono a pensare in questo modo, e in particolare quando poterono mettere per iscritto il loro pensiero, la preistoria greca era finita. Periodi della storia greca. Oggi è convenzione accettata il dividere il seguito della storia greca antica in diversi periodi, i cui nomi sono sem­ plici formule sintetiche che non devono essere prese alla lettera e neppure essere considerate particolarmente si­ gnificative: 1. Arcaico: dall’8oo o dal 750 al 500, in cifre ton­ de, ossia dal tempo in cui la geografia politica della peni­ sola greca e della zona costiera greca dell’Asia Minore diventò sufficientemente stabile fino all’epoca iniziata dal­ le guerre persiane. 2. Classico: il v e IV secolo, il periodo delle cittàstato indipendenti e, nel complesso, delle piu grandi crea­ zioni culturali di tutta la storia greca. 3. Ellenistico: dal tempo di Alessandro Magno alla conquista romana del Mediterraneo orientale, secoli in cui la civiltà greca si diffuse ad est comprendendo cen­ tri come Alessandria e Antiochia, donde un’aristocra­ zia greco-macedone governava vasti territori del Vicino Oriente (come la Siria e l’Egitto) sotto monarchie asso­ lute. 4. Romano: datato convenzionalmente dalla scon­ fitta delle forze di Antonio e Cleopatra ad opera di Au­ gusto, nella battaglia di Azio del 31 a. C., benché molte comunità greche fossero cadute successivamente sotto il potere romano dal ih secolo a. C. in poi, e benché la ci­ viltà dell’impero romano d ’oriente rimanesse essenzial­ mente ellenistica fino alla fine.

Capitolo terzo La Grecia arcaica

Fino quasi alla fine del periodo arcaico la poesia resta l’unica fonte scritta d’informazioni. Ma ora i temi della poesia erano essenzialmente contemporanei e personali, se si eccettuano alcune opere nel vecchio stile eroico che narrano i racconti tradizionali intessendovi le storie fa­ miliari sui fatti degli dèi. La poesia che era fresca e vivace si allontanava rapidamente e risolutamente dalla tradi­ zione. Anche quando i suoi temi erano mitologici, essa tendeva infine ad esaminare il presente: cosi la Teogonia di Esiodo e anche i cosiddetti (a torto) «inni omerici» cercavano d ’introdurre un certo ordine nella massa cao­ tica dei miti - era un genere di attività singolarmente nuo­ vo, indizio di una concezione nuova - e ciò facendo asso­ ciavano direttamente e sistematicamente i miti ai riti e alle cerimonie che regolavano la vita contemporanea. Non era ancora né filosofia né teologia, ma qualche cosa che si avvicinava ad entrambe più del modo di pensare saltua­ rio, molto più grezzo, che si rispecchiava ancora néU’Iliade e nell ’Odissea. Esiodo ha un punto in comune con Omero: anche lui è identificato come l’autore di due lunghi poemi in for­ ma e metro epico (e di numerosi altri, ora noti soltanto attraverso i frammenti residui), e non è affatto certo che l’attribuzione a un solo poeta sia giusta. Ma a questo pun­ to, se si prescinde da una certa somiglianza di linguaggio, il parallelo cessa completamente. L ’Esiodo che scrisse Le opere e ì giorni (e anche la Teogonia, secondo l’opinione dei più) è uno che noi conosciamo intimamente come per­ sona, perché ci dice tutto sul proprio conto. Suo padre era

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venuto esule dall’Asia Minore in Beozia; qui fece il con­ tadino, e alla sua morte il suo terreno diventò oggetto di un’aspra lite fra i suoi due figli. Esiodo era aedo e conta­ dino, e il tema principale delle Opere e i giorni, che a quanto sembra egli scrisse alla fine deU’vin o all’inizio del vii secolo, è la vita del contadino, la sua fatica e i suoi lavori quotidiani, i suoi schiavi, i salariati e i buoi, la sua antipatia per i nobili e per la loro ingiustizia da una parte, per il mare e i suoi piccoli commercianti dall’altra, la sua minuta conoscenza tecnica dell’agricoltura e dei molti atti rituali e tabu legati ad essa, la sua paura perpetua dei di­ sastri e della miseria. Nulla poteva essere piu diverso dai poemi omerici, per argomento e modo di vedere. Lo stesso si può dire per la poesia lirica —un tipo di letteratura radicalmente nuovo - a cominciare da Archiloco, un corsaro e mercenario di Paro che si può assegnare alla metà del vii secolo. Egli scriveva su se stesso, sui suoi amici e nemici, in un modo che non era soltanto personale, ma affatto antieroico. Non mi piace un capitano alto sulle gambe larghe orgoglioso del suo ciuffo e della buona rasatura; preferisco un piccoletto con le gambe torte in dentro, ben piantato sulla terra, e col cuore coraggioso. Non si guardava piu indietro, a un passato grande e con­ fuso, ma l’interesse era intensamente rivolto al presente. I tre secoli che costituiscono il periodo arcaico furono contrassegnati da uno sviluppo e da differenziazioni mol­ to considerevoli, e nel generalizzare bisogna essere cauti e porre molte restrizioni. Ciò è subito chiaro se, per esem­ pio, si confrontano le poesie di Archiloco con quelle di Alceo, posteriori di mezzo secolo, o questi due poeti con Saffo e Solone, contemporanei di Alceo. Le differenze non sono soltanto di temperamento e d’interessi personali, ma risalgono anche a peculiarità politiche e sociali, distinte nel tempo e nello spaziò. Nonostante tutti gli elementi comuni, d ’ora innanzi lo storico dei Greci deve tener conto di un’evoluzione molto diseguale. Nelle aree piu avanzate della penisola greca, dell’Asia Minore e delle isole dell’Egeo c’erano ora numerose co-

munita stabili nel senso proprio della parola: formazioni che da una parte non esistevano nel mondo dei poemi omerici, ma che appaiono ancora rudimentali e incom­ plete se confrontate con la futura città-stato pienamente sviluppata. Un fatto simbolico è che, quando ricomparve l’edificio di grandi proporzioni, non prevalse il palazzo ma il tempio, e poi la cinta delle mura cittadine. Queste comunità arcaiche erano invariabilmente piccole, il nu­ mero dei loro abitanti si contava sulle migliaia, ed erano indipendenti (a meno che non fossero soggiogate da un conquistatore). La geografia spiega in parte questo fra-

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zionamento. Gran parte del territorio è una scacchiera di montagne e piccole pianure o valli, che tendevano ad iso­ lare ogni sacca abitata dall’altra. Di rado le comunicazio­ ni terrestri da una sacca a un’altra erano facili, e spesso erano quasi impossibili, specialmente di fronte a una re­ sistenza. È quindi comprensibile che nel periodo succes­ sivo al crollo miceneo, con i suoi grandi movimenti di invasori e profughi, il piccolo insediamento isolato di­ ventasse la regola. Ma la geografia non può spiegare la storia posteriore: come mai Atene, per esempio, riuscis­ se a superare questa tendenza nel distretto relativamente esteso dell’Attica e unificasse tutto il territorio in una sola città-stato, mentre Tebe falli nei numerosi tentativi di ottenere lo stesso risultato nel distretto vicino, e non molto più grande, della Beozia, dove sopravvissero dodi­ ci città-stato separate; come mai un’isola piccola come Amorgo conservasse tre distinte città-stato per tutta l’età classica; e come mai, soprattutto, i Greci trasferissero la loro comunità ristretta a regioni come la Sicilia e l’Italia meridionale, dove tanto le condizioni geografiche quanto ragioni di sicurezza avrebbero consigliato una piu larga unità politica. La tenacia della piccola comunità indipen­ dente può essere spiegata solo come un’attitudine che si ri­ solveva in una convinzione profonda e insopprimibile sul modo in cui la convivenza doveva essere organizzata. Quando la dispersione dei Greci a oriente e ad occidente fu completa, il totale di queste comunità più o meno in­ dipendenti era forse di millecinquecento. L ’ineguaglianza dello sviluppo era soprattutto accen­ tuata nel campo dell’urbanizzazione. Da un punto di vi­ sta puramente residenziale, il tipo d’insediamento mediterraneo sembra aver sempre preferito alle aziende agri­ cole sparse l’agglomeramento in villaggi o intorno a cit­ tadelle o ai palazzi con i loro annessi. Dal punto di vista della comunità ci doveva essere un solo centro, dove po­ tevano essere concentrati i principali edifici civili e reli­ giosi e dove poteva riunirsi l’assemblea dei cittadini quando era necessario (l’agorà nel senso originario, mol­ to prima che la parola assumesse anche il significato di « piazza del mercato »). Di solito c’era anche un’acropoli,

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un punto elevato che serviva da cittadella per la difesa. E qui cominciano le differenze. Nella Vecchia Smirne, per esempio, uno dei primi insediamenti in Asia Minore, tutti vivevano ammassati dietro le mura cittadine: ne­ cessità ovvia per un gruppo piccolo e debole che aveva traversato l’Egeo intorno all’anno 1000 per fondare una nuova vita in un mondo estraneo e certamente ostile. Ma gli Spartani abitarono sempre in villaggi (o caserme, la questione è irrilevante per il nostro argomento), e c’era un terzo « tipo » in cui la popolazione era divisa fra un settore urbano e il contado. Queste differenze non sorge­ vano per puro caso, s’intende, ma rispondevano a di­ verse situazioni interne ed esterne, di ricchezza, di forza e di sviluppo economico. Le piu forti erano le differen­ ze economiche, per esempio fra Corinto e Mileto da una parte e Sparta e le comunità dell’Elide o dell’Arcadia dall’altra. Queste ultime possono essere chiamate centri urbani solo a titolo di cortesia, perché l’intera popolazio­ ne viveva di agricoltura e di tributi (derivanti da azioni militari o dalle entrate di un tempio), non d ’altro, men­ tre le città come le prime che abbiamo nominato com­ prendevano persone che vivevano del commercio e della manifattura ed erano quindi economicamente separate dalla campagna. Esse costituivano una piccola frazione della popolazione, ma la loro stessa esistenza introduce­ va una nuova dimensione nella qualità della comunità e nella sua struttura. Quale che fosse il tipo cui apparteneva questa o quella comunità, resta vero in ogni caso che città e campagna erano concepite come una sola unità e non come due par­ ti antagonistiche, come accadeva di solito nelle città me­ dievali. Il tutto era tenuto insieme non solo dall’econo­ mia o dalla forza, ma anche, psicologicamente, dal sen­ timento, proprio di tutti gli abitanti, di un’unità alimen­ tata dal culto e dalla tradizione comuni (sia nel mito che nella storia). Così un Greco antico poteva esprimere l’idea di Atene come unità politica solo dicendo «g li Ateniesi»; la parola «A ten e» non designò mai piu che una macchia sulla carta geografica, una nozione puramen­ te e strettamente geografica. Si andava ad Atene, ma si

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faceva la guerra contro gli Ateniesi. I Greci, insomma, consideravano se stessi non solo Greci (Elleni), in con­ trapposizione ai barbari, ma anche e piu immediatamente membri di gruppi e sottogruppi in seno all’Ellade. Un cittadino di Tebe era un Tebano e un Beota oltre che un Greco, e ogni termine aveva il proprio significato affet­ tivo, sorretto da miti speciali. E c’erano anche altri rag­ gruppamenti, come le « tribù » all’interno della comunità 0 astrazioni più ampie al difuori di essa (Dori o Ioni, per esempio), che contribuivano a creare un sistema com­ plicato e talvolta contraddittorio di rapporti di apparte­ nenza e di fedeltà. — Nel campo politico, tuttavia, solo la comunità indivi­ duale aveva un’esistenza chiara e inequivocabile. I re e 1 capi militari erano scomparsi dalla fine dell’età oscura: in maniera così silenziosa da non lasciare alcun ricordo, alcuna tradizione sulla loro sconfitta (diversamente da quelli romani della fase corrispondente). Anche gli occa­ sionali sopravvissuti, come i due re di Sparta, erano ge­ nerali e sacerdoti ereditari, non governanti. Il potere era passato a piccoli gruppi di famiglie aristocratiche che avevano monopolizzato in gran parte la terra, se non del tutto, e che governavano in parte attraverso istituzioni formali, consigli e magistrature, in parte come casta do­ minante attraverso relazioni familiari e gentilizie, in par­ te grazie all’autorità inviolabile derivante dalla loro ascen­ denza, perché essi potevano far mostra di genealogie che risalivano a « e ro i» famosi (e spesso, attraverso questi, a uno degli dèi). Fra la nobiltà e il resto della popolazione c’erano ten­ sioni e, sempre più spesso, guerra aperta, cui contribui­ vano numerosi processi di sviluppo. Uno era l’aumento della popolazione. Non si dispone di cifre (e nemmeno di buone congetture), ma su questo punto le testimo­ nianze archeologiche sono chiare. Né la Grecia continen­ tale né le isole dell’Egeo potevano sostentare una consi­ derevole popolazione agricola, e il di più non poteva es­ sere assorbito in altre occupazioni. Inoltre il sistema di proprietà e le leggi sui debiti erano tali che non solo l’a­ ristocrazia possedeva la maggior parte della terra, e la

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migliore, ma molti « liberi » erano costretti a servire co­ me forza lavorativa necessaria (ma involontaria) per i grandi proprietari. Come scriveva Aristotele nella sua Costituzione di Atene (II), « per lungo tempo ci fu lotta civile fra i nobili e il popolo » perché « i poveri, con le loro mogli e i loro figli, erano asserviti ai ricchi » e « non avevano diritti politici ». Un altro fattore era di natura militare. Attraverso un processo che non possiamo seguire ma che è attestato nella pittura vascolare subito dopo il 700, il guerriero omerico fu sostituito dall’oplite, il fante con armatura pesante che combatteva in formazione compatta. Gli opli­ ti erano uomini dotati di mezzi, poiché dovevano prov­ vedere in proprio alla loro armatura e all’equipaggia­ mento, ma molti venivano dagli strati intermedi che re­ stavano fuori dall’aristocrazia chiusa e che costituivano quindi un potenziale contrappeso nelle lotte politiche. Colonizzazione. Per un periodo considerevole una valvola di sicurezza fu offerta dal movimento chiamato a torto della « colo­ nizzazione», che trasferì in nuove regioni settori ecce­ denti (e malcontenti) della popolazione. I resoconti anti­ chi su questo movimento sono singolarmente inservibili, con i loro elementi mitologici e il loro soffermarsi su al­ cune figure individuali e sulle loro contese anziché sui piti ampi aspetti sociali. Un esempio passabilmente sen­ sato, la storia della fondazione di Siracusa conservata dal geografo Strabone, che visse 700 anni dopo il fatto, suo­ na come segue (VI, 2, 4): «Archia, navigando da Corinto, fondò Siracusa circa nello stesso periodo in cui furono stabilite Nasso e Megara [pure in Sicilia]. Si dice che quando Miscello e Ar­ chia andarono a Delfi per consultare l’oracolo, il dio chie­ se se preferissero la ricchezza o la salute. Archia scelse la ricchezza e Miscello la salute, e allora l’oracolo asse­ gnò al primo la fondazione di Siracusa, al secondo quella di Crotone... Durante il percorso verso la Sicilia, Archia

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lasciò una parte della spedizione... a colonizzare l’isola ora chiamata Corcira [la moderna Corfii]... Quello cac­ ciò i Liburni che l’occupavano e stabili una colonia. Archia, continuando nel suo viaggio, incontrò alcuni Dori... che si erano separati dai coloni di Megara; li prese con sé e fondarono insieme Siracusa». Tutto ciò ci dice ben poco. È vero che le spedizioni dei coloni erano guidate da «fon datori», che spesso si consultava l’oracolo di Delfi, che gli emigranti erano pre­ parati a combattere, a soggiogare o a espellere gli abori­ geni, che spesso gruppi di coloni provenienti da due o piu città univano i loro sforzi. Ma, sebbene la corrente che nell’età oscura si era diretta verso l’Asia Minore fos­ se stata un movimento fortunoso e arrischiato, piuttosto una fuga che un’emigrazione ordinata, tale non fu certo la nuova ondata. La spedizione di Archia a Siracusa non sarebbe stata possibile se Corinto non avesse raggiunto una grandezza, una ricchezza e un’organizzazione politica tali da poterla organizzare - provvedere le navi, le armi e l’equipaggiamento, i capi, agrimensori e altri esperti che sarebbero stati necessari all’arrivo - e se Corinto non fosse stata anche spinta a farlo. Il fattore della costri­ zione è essenziale: nessun altro motivo avrebbe generato un movimento cosi continuo e su una scala cosi vasta, relativamente parlando, per un periodo cosi lungo; nes­ sun altro motivo avrebbe fatto muovere gli emigranti o costretto le comunità a lasciarli andare e, se necessario, spingerli ad andare. In termini generali si può parlare di due Ondate di colonizzazione. La prima, cominciata verso il 750, era di­ retta verso occidente: verso le isole e le coste del mare Ionio, la Sicilia e l’Italia meridionale e infine (negli ulti­ mi anni del vii secolo) verso la Libia e la Francia meri­ dionale. La seconda, dopo un movimento preliminare ver­ so la costa tracia e il mar di Marmara, entrò nel mar Ne­ ro, subito dopo il 650, e alla fine stabili attorno ad esso un cerchio quasi completo di comunità greche. La secon­ da ondata era dominata da due città, Megara nella Gre­ cia propria e Mileto in Asia Minore, mentre la parte­ cipazione alla colonizzazione occidentale fu più larga.

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Corinto e le due città di Calcide ed Eretria, dell’isola d ’Eubea, avviarono il processo; poi si aggiunsero Megara, Trezene, i distretti dell’Acaia e della Locride, Focea in Asia Minore, Rodi, alcune città di Creta, alcune delle colonie stesse come Gela, e persino Sparta (stando a una tradizione malamente confusa sulla fondazione di Taran­ to) e l ’isoletta di Tera (la moderna Santorino). L ’elenco è incompleto ma sufficiente per mostrare che non c’era molta correlazione fra il tipo di comunità e l’attività co­ loniale e che l’unica cosa comune a queste varie « cittàmadri » era una condizione di crisi. La parola greca da noi convenzionalmente tradotta « colonia » è apoikia, che significa « emigrazione ». Il pun­ to da mettere bene in chiaro è che, fin dall’inizio e deli­ beratamente, ciascuna di esse era una comunità greca indipendente, non una colonia nel senso tradizionalmen­ te attribuito alla parola. E siccome il movimento era una risposta a difficoltà demografiche e agricole, le nuove co­ munità stesse erano insediamenti agricoli, non centri com­ merciali (a differenza delle colonie fenice dell’occidente). Cosicché, per quanto numerose fossero le « colonie » del­ l’Italia meridionale, nessuna occupava il miglior porto della costa orientale, il luogo della romana Brindisi (Brundisium). E per la stessa ragione gli aristocratici del­ la maggiore fra le nuove comunità, Siracusa, erano chia­ mati Gamoroi, « coloro che si spartiscono la terra, i pro­ prietari fondiari ». Va detto che c’erano anche alcuni autentici centri com­ merciali, come quello recentemente scoperto a Al Mina sulla foce dell’Oronte nella Siria settentrionale, stabilito all’inizio dell’v in secolo, forse anche prima delle prime « colonie »; o i più tardi stabilimenti chiamati Emporium (che più o meno ha lo stesso significato della moderna parola emporio) in Spagna e alla foce del Don sul mar Nero. Il loro numero era però molto scarso, e di regola essi non si svilupparono mai fino a diventare autentiche comunità. Questo quadro delle « colonie » serve a met­ tere nelle sue giuste proporzioni lo sviluppo commercia­ le della Grecia arcaica. « Se ti prende il desiderio della navigazione perigliosa », cosi Esiodo ammoniva il fratei-

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Papiro d’argomento letterario.

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