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Il libro
Q
uello tra Joseph Ratzinger e Georg Gänswein è stato un lungo e significativo rapporto di profondo rispetto e stima reciproca, sin da quando, nel 2003, il futuro Papa nominò segretario personale il giovane sacerdote tedesco. E
ancor più dopo l’elezione del cardinale Ratzinger come Benedetto XVI, don Georg ha vissuto costantemente al suo fianco quale suo più stretto collaboratore, ma anche confidente e consigliere, accompagnandolo durante il pontificato e nel tempo successivo alla storica rinuncia del 2013. Oggi, dopo la scomparsa del Papa emerito, per l’attuale prefetto della Casa pontificia è giunto il momento di raccontare la propria verità riguardo le bieche calunnie e le oscure manovre che hanno cercato invano di gettare ombre sul magistero e sulle azioni del Pontefice tedesco, e di far conoscere così, finalmente, il vero volto di uno dei più grandi protagonisti degli ultimi decenni, troppo spesso ingiustamente denigrato dai critici come Panzerkardinal o “Rottweiler di Dio”. Un racconto autentico e schietto in cui, coadiuvato dalla esperta penna del vaticanista Saverio Gaeta, monsignor Gänswein propone l’autorevole ricostruzione di un particolarissimo periodo per la Chiesa cattolica, affrontando anche gli interrogativi su enigmatiche vicende, quali i dossier di Vatileaks e i misteri del caso Orlandi, lo scandalo della pedofilia e i rapporti fra il Papa emerito e il successore Francesco. Ne scaturisce l’intensa testimonianza della grandezza di un uomo, cardinale, Papa che ha fatto la storia del nostro tempo e che emerge qui come un faro di competenza teologica, chiarezza dottrinale e saggezza profetica.
L’autore
Georg Gänswein (Germania, 1956), sacerdote dell’arcidiocesi di Friburgo in Brisgovia dal 1984 e dottore in Diritto canonico. Chiamato nel 1995 in Vaticano, dapprima nella Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti e l’anno successivo in quella per la Dottrina della fede, nel 2003 divenne segretario personale dell’allora cardinale Joseph Ratzinger. Dopo l’elezione al pontificato, il 19 aprile 2005, Benedetto XVI lo confermò nell’incarico e nel 2012 lo nominò prefetto della Casa pontificia, consacrandolo arcivescovo, il 6 gennaio 2013, con il titolo di Urbisaglia. Papa Francesco lo ha mantenuto nella responsabilità dell’ufficio, affidandogli però, dal gennaio del 2020, il compito di dedicarsi esclusivamente al Papa emerito. Saverio Gaeta (Italia, 1958), giornalista professionista e laureato in Scienze della comunicazione sociale. È stato redattore dell’Osservatore Romano, caposervizio di Jesus, caporedattore di Famiglia Cristiana e vicedirettore di Credere. Esperto delle tematiche relative al rapporto tra fede e scienza (miracoli, reliquie, manifestazioni soprannaturali), ha collaborato con diverse testate cartacee, radiofoniche e televisive. Autore di numerosi saggi, biografie e libri-intervista, con traduzioni in sedici lingue, negli ultimi anni ha pubblicato il bestseller Il Veggente (Salani 2016), la collana Medjugorje (San Paolo 2020-21) e, con Piemme, La profezia dei due Papi (2018).
Georg Gänswein con Saverio Gaeta
NIENT’ALTRO CHE LA VERITÀ La mia vita al fianco di Benedetto XVI
Prologo
Quando, nel febbraio del 2003, il cardinale Joseph Ratzinger mi chiese di diventare il suo segretario privato, presentando il mio nuovo ruolo nella Congregazione per la Dottrina della fede fece notare che entrambi eravamo solo “provvisori”. Dinanzi allo stupore del personale per questa descrizione alquanto strana, ci spiegò che intendeva rinunciare prima possibile alla responsabilità della Congregazione, dopo aver portato questo pesante fardello per ben due decenni. Questo veniva espresso con la parola “provvisorio”: lui sarebbe stato ancora prefetto per un breve periodo e di conseguenza io, per un medesimo tempo, il suo segretario. In realtà, quell’annunciata provvisorietà divenne una presenza stabile per molti anni, fino alla sua morte. Dal 1° marzo 2003 fui il suo segretario privato per i due anni successivi, mentre era ancora prefetto dell’ex Sant’Uffizio, fino alla morte di Papa Giovanni Paolo II nell’aprile del 2005. E lo sono rimasto poi per tutti i suoi otto anni di pontificato, fino alla rinuncia nel 2013, e anche successivamente, durante i restanti anni della sua vita come “Papa emerito”. Tutte sono state esperienze di grazia che mi hanno permesso di conoscere il vero volto di uno dei più grandi protagonisti della storia del secolo scorso, troppo spesso denigrato dalla narrazione di media e detrattori che lo definirono “Panzerkardinal” o “Rottweiler di Dio” per criticare convinzioni che in realtà non facevano altro che esprimere la sua profonda fedeltà alla tradizione e al Magistero della Chiesa e la difesa della fede cattolica. Questo compito impegnativo, unito a quello di prefetto della Casa pontificia ricoperto durante il pontificato di Papa Francesco, mi ha dato l’opportunità di prendere parte a tutti i più importanti e storici eventi ecclesiali degli ultimi due decenni.
Momenti di gioia e delusione, entusiasmo e fatica si sono alternati. I problemi non sono certo mancati, basti pensare al dramma degli abusi sessuali nel clero o alle difficoltà con le finanze vaticane. Ma ci sono state anche esperienze molto belle e preziose che hanno reso manifesta una fede viva, soprattutto tra molti giovani nel mondo, che dà motivo di legittima speranza per il futuro della Chiesa. Queste pagine contengono una personale testimonianza della grandezza di un uomo mite, di un fine studioso, di un cardinale e di un Papa che ha fatto la storia del nostro tempo e che va ricordato come un faro di competenza teologica, di chiarezza dottrinale e di saggezza profetica. Ma sono anche un racconto di prima mano che cerca di far luce su alcuni aspetti incompresi del suo pontificato e di descrivere dall’interno il vero “mondo vaticano”.
Arcivescovo titolare di Urbisaglia
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Il “predestinato” fuori dagli schemi
Una perenne provvisorietà Tanti anni di frequentazione delle gerarchie vaticane mi hanno fatto maturare un preciso convincimento: ciascun membro del Collegio cardinalizio custodisce – nascosta in un angolino della mente e del cuore – la consapevolezza che un giorno Cristo potrebbe chiedergli di assumere il ruolo di suo Vicario sulla Terra. Ma, nel contempo, mi sono anche reso conto che – a meno di seri problemi psichiatrici – nessuno di loro ha realmente l’ambizione di sedersi sulla Cattedra di Pietro, ben conscio dell’impegno materiale, e soprattutto della responsabilità spirituale, che tale ufficio comporta ed esige. Di conseguenza c’è la rimozione di qualunque pensiero in merito, agendo anzi in modo da allontanare il più possibile da sé tale ipotesi. Come un singolare flash, sono queste le considerazioni che mi tornano alla mente se ripenso a quel 14 febbraio 2003, quando il cardinale Joseph Ratzinger, all’epoca prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, diede un annuncio che mi riguardava personalmente e che di fatto modificò in maniera radicale il corso della mia vita a quel tempo, ma ancor più in seguito. Eravamo nella pausa dei lavori del cosiddetto “congresso particolare”, che si svolgeva ogni venerdì mattina, durante il quale ciascun collaboratore della Dottrina della fede presentava ai superiori della Congregazione un aggiornamento sulle tematiche delle quali si stava occupando. Due giorni prima era stata resa nota la nomina di monsignor Josef Clemens, da una ventina d’anni segretario particolare del cardinale Ratzinger, come sottosegretario della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica (il successivo 25 novembre,
Giovanni Paolo II lo avrebbe designato segretario del Pontificio Consiglio per i Laici, con la contestuale elevazione a vescovo). Mentre stavamo prendendo un caffè e chiacchieravamo in piccoli gruppi, Ratzinger chiese un momento di silenzio, si schiarì la voce e si congratulò a nome dei presenti con monsignor Clemens per la sua promozione, ringraziandolo con calore per tutto il lavoro che aveva svolto per la Congregazione e per lui personalmente. Subito dopo, con un bonario sorriso, mi fece segno di avvicinarmi e proseguì indicandomi: «Voi tutti conoscete don Giorgio (così venivo chiamato in Congregazione): l’ho fatto venire qui al mio fianco perché così potete vedere davanti a voi due provvisori». Si levò un brusio, poiché l’inflessione tedesca del cardinale aveva dato a qualcuno la sensazione che avesse pronunciato la parola “professori”, suscitando l’interrogativo di cosa intendesse dire. Ratzinger si accorse dell’involontario equivoco e subito chiarì: «No, intendevo proprio “provvisori”, perché lui diventa il mio segretario personale, ma ovviamente lo sarà soltanto per poco tempo. Sapete infatti che sono prefetto qui da ormai 21 anni e ho sollecitato già diverse volte Giovanni Paolo II affinché mi lasci andare in pensione, secondo le regole, dato che da mesi ho superato i 75 anni d’età. Devo unicamente attendere la lettera di accettazione della mia richiesta da parte di Papa Wojtyła». Beata ingenuità, fu il bisbiglio che immediatamente serpeggiò. Anche se il cardinale era pienamente convinto di quanto aveva affermato, nessuno nutriva il minimo dubbio riguardo al fatto che quella lettera non sarebbe mai giunta a destinazione, anzi che non sarebbe nemmeno mai stata scritta o inviata. In seguito, quando il cardinale si lasciò andare in privato a un’osservazione sul ritardo della risposta, provai a fare una battuta per sdrammatizzare e gli dissi che avrebbe potuto sollecitarla in uno dei consueti incontri del venerdì pomeriggio con Giovanni Paolo II, magari facendogli spiritosamente notare come il servizio postale dal Palazzo apostolico al Sant’Uffizio non funzionasse a dovere. Ma lui si limitò a farmi uno di quei suoi sorrisi a fior di labbra, per poi tacere. Capii che non desiderava approfondire, e smisi di permettermi simili commenti. Di fatto, si trattava dell’ennesima prova che Ratzinger viveva un po’ “fuori dal mondo (ecclesiastico)”, come scherzosamente dicevamo tra noi, e
che si muoveva su un livello decisamente più etereo rispetto agli altri confratelli porporati, senza apparentemente rendersi conto che da molti di loro veniva considerato il primo dei “papabili”, nella sempre più realistica eventualità di un prossimo Conclave. O forse era soltanto un modo per esorcizzare il timore che si potessero concretizzare davvero quelle velate allusioni che si ascoltavano in Vaticano… Ma era una prospettiva totalmente estranea ai suoi ragionamenti e desideri. In effetti, lui pensava di essere riuscito a sistemare le cose in modo da spalancare al più presto la porta a un successore. Oltre al trasferimento di Clemens e ad alcuni avvicendamenti tra gli officiali della Congregazione (in particolare, con l’arrivo di monsignor Charles Scicluna come promotore di giustizia), il 10 dicembre 2002 era stata resa nota la nomina di monsignor Tarcisio Bertone, dal 1995 segretario della Congregazione e principale collaboratore del prefetto, come nuovo arcivescovo di Genova. L’ingresso ufficiale di Bertone in diocesi avvenne il 2 febbraio 2003, cosicché, il 16 febbraio seguente, il cardinale Ratzinger poté lasciarsi andare a uno schietto commento nella lettera a Esther Betz, con cui era in confidenza sin dai tempi del Concilio, quando la donna era corrispondente da Roma per un giornale tedesco: «Non c’è da stupirsi che le voci si stiano intensificando e che anche il termine del mio incarico sia imminente. Grazie a Dio, abbiamo trovato persone nuove e buone. A ogni modo, sarei felice di sapere che anche per me si stanno preparando tempi più tranquilli». Nelle sue memorie, monsignor Bruno Fink – che gli fu segretario quando era arcivescovo a Monaco e nei primi due anni in Congregazione, fino al Natale del 1983 – ha raccontato che, appena giunti a Roma nel febbraio del 1982, il cardinale Ratzinger gli aveva detto che intendeva restare in carica come prefetto al massimo per due mandati quinquennali, in modo da poter rientrare nella casa che aveva fatto costruire a Pentling, nei pressi di Ratisbona, in tempo per poter realizzare le opere teologiche che aveva in mente. Il 25 novembre 1991, a dieci anni esatti dalla nomina, Ratzinger aveva provato a chiedere a Giovanni Paolo II di sollevarlo dal gravoso incarico, spiegandogli che la morte della sorella Maria, avvenuta il 2 novembre precedente, lo aveva privato della sua preziosa compagnia domestica, mentre l’emorragia cerebrale che aveva subìto in settembre gli aveva causato seri problemi di vista all’occhio sinistro e uno stato di costante
prostrazione fisica. Ma il Pontefice non intese ragioni e lo confermò nell’incarico per altri cinque anni. Così – tra fine 1996, quando scadeva l’ulteriore mandato, e inizio 1997, al compimento dei 70 anni – il cardinale attuò una mossa che, un po’ ingenuamente, confidava più destinata al successo, facendo discretamente arrivare alle orecchie di Papa Wojtyła il suggerimento di nominarlo archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa. In quei mesi era infatti previsto il rinnovo delle cariche riguardanti l’Archivio segreto e la Biblioteca apostolica vaticana, con la sostituzione del cardinale Luigi Poggi, ormai quasi ottantenne. Il salesiano Raffaele Farina, nominato il 25 maggio 1997 prefetto della Biblioteca (e che sarebbe stato elevato alla porpora nel 2007 proprio da Benedetto XVI), dopo qualche settimana ebbe l’occasione di un colloquio con Ratzinger e si sentì appunto chiedere ragguagli su quali fossero i compiti del cardinale bibliotecario: ostentando indifferenza, sembrava quasi pregustare il dolce “pensionamento” in compagnia di libri e documenti carichi di storia. Ma, anche in questo caso, Giovanni Paolo II tagliò corto e non prese in considerazione l’idea. Mostrando quasi un po’ di nostalgia, Benedetto XVI lo disse personalmente, il 25 giugno 2007, al cardinale Jean-Louis Tauran, durante una visita alla Biblioteca: «Confesso che, al compimento del mio settantesimo anno di età, avrei tanto desiderato che l’amato Giovanni Paolo II mi concedesse di potermi dedicare allo studio e alla ricerca di interessanti documenti e reperti da voi custoditi con cura, veri capolavori che ci aiutano a ripercorrere la storia dell’umanità e del cristianesimo. Nei suoi disegni provvidenziali il Signore ha stabilito altri programmi per la mia persona».
Fiducioso nella Provvidenza Giovanni XXIII aveva fatto proprio, sin dagli anni giovanili, il motto di san Francesco di Sales: «Nulla chiedere, nulla rifiutare». Senza difficoltà, tali parole si addicono perfettamente anche al cardinale Ratzinger, corrispondendo sostanzialmente a quanto egli stesso scrisse, il 9 agosto 1997, ancora all’amica Betz: «Non pianifico nulla (non l’ho mai fatto, in realtà), ma mi lascio semplicemente trasportare dalla Provvidenza, che con
me non è stata affatto cattiva, anche se tutto è andato in modo molto diverso da come avevo immaginato». Dai tempi del Concilio Vaticano II, infatti, Paolo VI aveva cominciato a tenerlo d’occhio a sua insaputa, mentre Ratzinger progrediva nella carriera accademica e pubblicava saggi sempre più qualificati, ritenendo che quello sarebbe stato per sempre il proprio impegno. Per mantenerlo in contatto con Roma, il Pontefice nel 1969 lo aveva nominato fra i trenta membri della appena istituita Commissione teologica internazionale, insieme con personalità quali Hans Urs von Balthasar, Carlo Colombo, Yves Congar, Henri de Lubac, Jorge Medina Estevez, Karl Rahner, che un paio di volte l’anno si riunivano in seno alla Congregazione per la Dottrina della fede. Papa Montini non lo riteneva soltanto un autorevole teologo, ma anche un valente pastore, al punto da invitarlo a predicare gli esercizi spirituali in Vaticano nel 1975: «Non mi sentivo sufficientemente sicuro né del mio italiano né del mio francese per preparare e osare una tale avventura, e così avevo detto di no», rivelò in seguito il cardinale. In quell’anno venne così sostituito dal carmelitano Anastasio Ballestrero, allora arcivescovo di Bari e successivamente cardinale a Torino, mentre nel 1976 il predicatore fu il cardinale di Cracovia Karol Wojtyła. Poi verrà recuperato, possiamo dir così, nel 1983, allorché Giovanni Paolo II gli riproporrà l’incarico, questa volta accolto positivamente. Quando, il 24 luglio 1976, il cardinale Julius Döpfner morì improvvisamente d’infarto, Paolo VI non ebbe dubbi nella valutazione della terna di possibili candidati che gli era stata sottoposta e, il 25 marzo 1977, decise personalmente di nominare arcivescovo di Monaco e Frisinga il quarantanovenne Joseph Ratzinger, che non fece quasi a tempo a ricevere la consacrazione episcopale, il 28 maggio seguente, prima di ricevere la notizia che sarebbe stato creato cardinale. La consapevolezza di quale fosse il compito che da quel momento gli veniva chiesto, Ratzinger comunque la esplicitò durante la cerimonia per la propria ordinazione episcopale, il 28 maggio 1977 nel duomo di Monaco: «Il vescovo non agisce in nome proprio, ma è un fiduciario di un altro, di Gesù Cristo e della Chiesa. Non è un manager, un capo per propria grazia, bensì l’incaricato di un altro di cui è garante. Dunque non può nemmeno cambiare opinione a piacimento e difendere ora questa ora quella causa, a seconda di come gli sembri conveniente. Non è qui per diffondere le sue
idee private, ma è un inviato che deve trasmettere un messaggio più grande di lui. Egli verrà misurato su questa fedeltà: essa è il suo incarico». Il Concistoro del 27 giugno 1977 fu poco affollato: di fianco a Joseph Ratzinger, ci furono unicamente il teologo della Casa pontificia Mario Luigi Ciappi, il presidente della Pontificia Commissione “Iustitia et pax” Bernardin Gantin e l’arcivescovo di Firenze Giovanni Benelli, oltre all’amministratore apostolico di Praga František Tomášek, nominato in pectore già l’anno precedente. Per Paolo VI rappresentò un Concistoro atipico, poiché i precedenti avevano oscillato fra un minimo di 21 porporati nel 1976 e un massimo di 34 nel 1969, passando per i 27 del 1965 e del 1967, e i 30 del 1973. Indubbiamente la decisione si dovette alla sua volontà di elevare rapidamente alla porpora l’ex sostituto della Segreteria di Stato Benelli, che appena il 3 giugno precedente era stato nominato a Firenze, probabilmente anche per le pressioni di autorevoli esponenti della Curia romana che non ne apprezzavano il decisionismo, sfruttato invece da Papa Montini per smontare consolidate posizioni di potere. Ratzinger venne inserito – forse proprio per suggerimento di Benelli – anche perché dagli inizi del Novecento la diocesi di Monaco era una sede tradizionalmente cardinalizia, e nell’occasione non si voleva creare cardinali soltanto personalità curiali. Commemorando quella circostanza, Ratzinger ha ricordato il grande affetto di cui si sentì circondato dai propri diocesani: «Alla consegna della berretta, io ho avuto un grande vantaggio rispetto agli altri quattro neocardinali. Nessuno di loro aveva con sé una grande famiglia. Benelli aveva lavorato per lungo tempo in Curia, e a Firenze non era molto conosciuto, quindi non erano tanti i fedeli provenienti dal capoluogo toscano; Tomášek – c’era ancora la cortina di ferro – non poteva avere accompagnatori; Ciappi era un teologo che aveva lavorato sempre nella sua “isola”; Gantin era del Benin e dall’Africa non era agevole venire a Roma. Io invece ho avuto tanta gente: l’aula era quasi piena di persone che venivano da Monaco e dalla Baviera. Gli applausi per me furono maggiori che per gli altri. E il Papa fu visibilmente compiaciuto di vedere in qualche modo confermata la sua scelta». Nel discorso pronunciato per l’occasione, Paolo VI spiegò che la principale dote dei neo-porporati era «l’assoluta fedeltà che da essi è stata vissuta, in questo periodo postconciliare ricco di fermenti sani ma anche di
elementi disgregatori, in una continua disponibilità, in un diuturno servizio, in una totale dedizione a Cristo, alla Chiesa, al Papa, senza flessioni, senza tentennamenti, senza transazioni», specificando per Ratzinger che il suo «alto Magistero teologico in prestigiose cattedre universitarie della Germania e in numerose e valide pubblicazioni ha fatto vedere come la ricerca teologica – nella via maestra della “fides quaerens intellectum” – non possa e non debba andare mai disgiunta dalla profonda, libera, creatrice adesione al Magistero che autenticamente interpreta e proclama la Parola di Dio». Sull’immaginetta-ricordo della prima Messa, ventisei anni prima, Ratzinger aveva fatto stampare il versetto 1,24 della seconda lettera di san Paolo ai Corinzi, presentandosi fra i «collaboratori della vostra gioia» (adiutores gaudii vestri). Quando si trattò di scegliere il motto per lo stemma episcopale, ci fu una significativa evoluzione, con la scelta del versetto 8 della terza lettera di san Giovanni: «Collaboratori della verità» (Cooperatores veritatis). Nell’autobiografia lo ha motivato come il desiderio di «rappresentare la continuità fra il mio compito precedente e il nuovo incarico: pur con tutte le differenze, si trattava e si tratta sempre della stessa cosa, seguire la verità, porsi al suo servizio. E dal momento che nel mondo di oggi l’argomento “verità” è quasi scomparso, perché appare troppo grande per l’uomo, e tuttavia tutto crolla, se non c’è la verità, questo motto episcopale mi è sembrato il più in linea con il nostro tempo, il più moderno, nel senso buono del termine». Nel momento in cui anch’io ho dovuto pensare al motto per il mio stemma, in vista della consacrazione episcopale nel gennaio 2013, non ho dovuto rifletterci a lungo. Avevo già avuto occasione di essere partecipe di qualche confidenza da parte di Benedetto XVI riguardo a quello che aveva significato per lui il tema della verità, con il preciso impegno di portare a compimento ciò che si era ripromesso di fare come «collaboratore della verità». Individuai perciò il versetto 18,37 del Vangelo secondo Giovanni come possibile frase: «Dare testimonianza alla verità» (Testimonium perhibere veritati). E fui ovviamente molto contento nel vedermi sostenuto in tale scelta dal Papa stesso, che esplicitamente espresse il proprio apprezzamento. Nello stemma inserii poi l’immagine del drago sconfitto da san Giorgio, il martire del quarto secolo che, secondo la Legenda aurea, uccise nel nome
di Cristo un terrificante mostro e convertì il popolo che ne era oppresso, cosicché quella lotta è divenuta il simbolo della lotta del Bene contro il Male. E qualche volta mi consentivo perfino di scherzare, dicendogli che lui aveva dovuto accontentarsi dell’orso sottomesso da san Corbiniano, mentre il mio protettore aveva combattuto e vinto un drago! Per lo stemma arcivescovile, il cardinale Ratzinger aveva infatti scelto tre immagini. Due erano il moro incoronato, tradizionalmente associato ai vescovi di Frisinga («Non si sa quale sia il suo significato: per me è l’espressione dell’universalità della Chiesa, che non conosce nessuna distinzione di razza e di classe, poiché noi tutti “siamo uno” in Cristo», fu la sua spiegazione), e una conchiglia («Segno del nostro essere pellegrini e ricordo della leggenda secondo cui Agostino, che si lambiccava il cervello intorno al mistero della Trinità, avrebbe visto sulla spiaggia un bambino che giocava con una conchiglia, con cui attingeva l’acqua del mare e cercava di travasarla in una piccola buca, e si sarebbe sentito dire: “Tanto poco questa buca può contenere l’acqua del mare, quanto poco la tua ragione può afferrare il mistero di Dio”»). La terza faceva riferimento a san Corbiniano, fondatore e patrono della diocesi. Il 9 settembre 2006, durante il viaggio apostolico a Monaco, Benedetto XVI rievocò il motivo di tale scelta: «Della sua leggenda mi ha affascinato fin dalla mia infanzia la storia, secondo la quale un orso avrebbe sbranato l’animale da sella del santo, durante il suo viaggio sulle Alpi. Corbiniano lo rimproverò duramente e, come punizione, gli mise sul dorso tutto il suo bagaglio affinché lo portasse fino a Roma». Nel 1977, rivelò, «mi ricordai dell’interpretazione dei versetti 22-23 del salmo 72 che sant’Agostino, in una situazione molto simile alla mia, nel contesto della sua ordinazione sacerdotale ed episcopale ha sviluppato: vedendo nell’espressione “davanti a te come una bestia” (iumentum in latino) un riferimento all’animale da tiro che allora veniva usato in Nordafrica per lavorare la terra, ha riconosciuto in questo iumentum se stesso come bestia da tiro di Dio, vi si è visto come uno che sta sotto il peso del suo incarico, la sarcina episcopalis. Sullo sfondo di questo pensiero del vescovo di Ippona, l’orso di san Corbiniano mi incoraggia sempre di nuovo a compiere il mio servizio con gioia e fiducia – trent’anni fa come anche adesso nel mio nuovo incarico – dicendo giorno per giorno il mio “sì” a Dio». Con fine ironia, così Papa Ratzinger concluse il discorso: «L’orso di
san Corbiniano, a Roma, fu lasciato libero. Nel mio caso, il “Padrone” ha deciso diversamente».
Il “profeta giusto” Nell’agosto del 1977, Ratzinger trascorse per ferie un paio di settimane nel seminario diocesano di Bressanone. Il cardinale Albino Luciani, patriarca di Venezia, era a quel tempo presidente della Conferenza episcopale del Triveneto (della quale fa parte anche l’Alto Adige). Venne a conoscenza della presenza del giovane confratello cardinale e volle andarlo a trovare, avendone apprezzato gli scritti teologici, e in particolare il commento alla costituzione conciliare Lumen gentium. Conversarono in italiano, che Ratzinger aveva imparato durante il Concilio, anche se in maniera un po’ stentata, utilizzando il metodo didattico dei dischi a 33 giri. Poi lo avrebbe perfezionato dopo l’arrivo a Roma, parlandolo quotidianamente. Quella fu la prima occasione di contatto fra i due, che in un’intervista Ratzinger ricordò come l’opportunità per «ammirare la sua grande semplicità, e anche la sua grande cultura: mi raccontò che conosceva bene quei luoghi, dove da bambino era venuto con la mamma in pellegrinaggio al santuario di Pietralba, un monastero di Serviti di lingua italiana a mille metri di quota, molto visitato dai fedeli del Veneto». Il 16 agosto 1977, nell’omelia di una celebrazione per la festa di san Rocco, il patriarca Luciani riferì pubblicamente dell’incontro: «Pochi giorni fa mi sono congratulato con il cardinale Ratzinger, nuovo arcivescovo di Monaco: in una Germania cattolica, ch’egli stesso deplora come affetta, in parte, di complesso antiromano e antipapale, ha avuto il coraggio di proclamare alto che “il Signore va cercato là dov’è Pietro”. Ratzinger mi è parso in quella occasione un profeta giusto. Non tutti quelli che scrivono e parlano hanno oggi lo stesso coraggio; per voler andare dove vanno gli altri, per paura di non sembrare moderni, alcuni di essi accettano solo con tagli e restrizioni il Credo pronunciato da Paolo VI nel 1968 alla chiusura dell’Anno della fede; criticano i documenti papali; parlano continuamente di comunione ecclesiale, mai però del Papa come punto necessario di riferimento per chi vuole essere nella comunione vera della Chiesa. Altri, più che profeti, sembrano dei contrabbandieri; approfittano del posto che
occupano, per smerciare come dottrina della Chiesa quello che è, invece, loro pura opinione personale o anche dottrina mutuata da ideologie aberranti e disapprovate dal Magistero della Chiesa». Il successivo incontro personale avvenne soltanto durante il Conclave dell’estate 1978, dopo la morte di Papa Montini il 6 agosto. Per quello che ho potuto dedurre, la stima di Ratzinger nei confronti di Luciani lo portò a unirsi a quanti lo ritenevano degno di essere eletto Pontefice, cosa che accadde il 26 agosto, dopo soli quattro scrutini. E nel giorno della celebrazione d’inizio del ministero petrino, il successivo 3 settembre, i due scambiarono alcune parole in relazione all’imminente viaggio del cardinale in Ecuador. Con la lettera del 1° settembre, uno dei primi atti del pontificato, Giovanni Paolo I aveva infatti nominato l’arcivescovo di Monaco e Frisinga come Legato pontificio al Congresso mariano di Guayaquil, poiché da qualche anno la diocesi tedesca e quella ecuadoriana si erano gemellate e l’arcivescovo locale Bernardino Echevarría Ruiz aveva appunto suggerito il nome di Ratzinger come inviato. Con parole che non risultano “di circostanza”, Papa Luciani gli scrisse: «Abbiamo il desiderio di partecipare, in qualche modo, a queste solennità per dar loro più importanza e splendore. Perciò, con questa lettera, ti scegliamo, ti creiamo e ti proclamiamo nostro inviato straordinario, e ti affidiamo la missione di presiedere queste celebrazioni in nostro nome e con la nostra autorità. Ti distingui per la tua grande conoscenza della santa dottrina e, come sappiamo, ardi d’amore per la Madre di Cristo Salvatore e Madre nostra. Indubbiamente, quindi, svolgerai la funzione a te affidata con intelligenza, saggezza e successo». Giovanni Paolo I, per dimostrare ulteriormente il proprio affetto, il 24 settembre inviò un messaggio al Congresso, invitando a fare del motto “L’Ecuador, per Maria a Cristo” «un intero programma di vita e di azione apostolica: Maria, Madre di Cristo, Madre della Chiesa e Madre dolcissima di ciascuno di noi, sia sempre il tuo modello, la tua guida, il tuo cammino verso il Fratello maggiore e Salvatore di tutti, Gesù». Ratzinger lo lesse pubblicamente, ringraziando a nome di tutti i fedeli il Pontefice per la sua premurosa vicinanza. E per questo restò particolarmente colpito alla notizia della sua morte, che lo raggiunse in un modo un po’ strano: «Dormivo nella residenza dell’arcivescovo di Quito. Non avevo chiuso la porta perché nell’episcopio mi sento come nel seno di
Abramo. Era notte fonda quando entrò nella mia stanza un fascio di luce e si affacciò una persona con un abito da carmelitano. Rimasi un po’ sbigottito da questa luce e da questa persona vestita in maniera lugubre che sembrava messaggera di notizie infauste. Non ero sicuro se fosse sogno o realtà. Infine scoprii che era il vescovo ausiliare di Quito, Alberto Luna Tobar, il quale mi comunicò che il Papa era morto». Il 6 ottobre 1978, celebrando a Monaco il pontificale in suffragio di Papa Luciani, espresse quasi il presentimento di quanto poi sarebbe stato confermato da Francesco con la beatificazione del 4 settembre 2022: «L’unica grandezza nella Chiesa è di essere santi. E i suoi santi sono le colonne di luce che ci mostrano la via. D’ora innanzi apparterrà anch’egli a queste luci. E ciò che ci fu concesso solo per trentatré giorni emana una luce che non può più venirci tolta». Nella biografia su Wojtyła, George Weigel scrive che Ratzinger gli confidò: «Eravamo convinti che l’elezione fosse avvenuta in armonia con la volontà divina, non semplicemente con quella umana… E se, un mese dopo essere stato eletto con la volontà divina, egli era morto, Dio intendeva comunicarci qualcosa». Ricordando quei giorni del Conclave, il cardinale Ratzinger confermò in seguito: «L’elezione di Luciani non fu un errore. Quei trentatré giorni di pontificato hanno avuto una funzione nella storia della Chiesa. Quella morte improvvisa aprì anche le porte a una scelta inaspettata. Quella di un Papa non italiano. Nel Conclave precedente si parlò anche di questo. Ma non era un’ipotesi molto reale, anche perché c’era la bella figura di Albino Luciani. Dopo si pensò che c’era bisogno di qualcosa di assolutamente nuovo».
Un binomio vincente Il cardinale Ratzinger partì per l’Ecuador il 19 settembre 1978 e vi restò sino alla fine del mese. Proprio in quei giorni, dalla Polonia una delegazione di vescovi, guidata dal primate Stefan Wyszyński e dal cardinale Karol Wojtyła, giunse in Germania per incontrare i confratelli tedeschi. Era l’esito di un lungo cammino avviato ben tredici anni prima, il 18 novembre 1965, con la lettera firmata dai vescovi polacchi presenti al Vaticano II: «Dai banchi del Concilio che sta per concludersi, vi tendiamo
le nostre mani accordando perdono e chiedendo perdono»; cui, il 5 dicembre successivo, i vescovi tedeschi avevano risposto: «Anche noi vi preghiamo di dimenticare, vi preghiamo di perdonare». Ratzinger e Wojtyła, dunque, non si incontrarono in quella occasione, e anche ai tempi del Concilio, pur avendo collaborato entrambi alla formulazione di alcuni documenti, non si erano mai incrociati di persona. In seguito, il prefetto sottolineerà: «Naturalmente avevo sentito parlare della sua opera di filosofo e di pastore, e da tempo desideravo conoscerlo. Dal canto suo, aveva letto la mia Introduzione al cristianesimo, che aveva anche citato agli esercizi spirituali da lui predicati per Paolo VI e la Curia nella Quaresima del 1976. Perciò è come se interiormente attendessimo entrambi di incontrarci». L’unica opportunità, di sfuggita, fu nell’ottobre del 1977, durante il Sinodo dei vescovi sulla catechesi al quale ambedue presero parte. Secondo le ricostruzioni giornalistiche, nel Conclave che si svolse dal 14 al 16 ottobre 1978 l’arcivescovo di Genova, Giuseppe Siri, e quello di Firenze, Giovanni Benelli, partirono appaiati nelle prime votazioni e di fatto si annullarono a vicenda. All’ottavo scrutinio emerse così il nome dell’arcivescovo di Cracovia, senza sorprendere Ratzinger, come lui stesso ha dichiarato: «Lo sostenevo. Il cardinale König mi aveva parlato. E, per quanto limitata, la conoscenza personale che avevo di Wojtyła mi aveva persuaso che fosse davvero l’uomo giusto». Giovanni Paolo II cominciò subito a guardarsi intorno per costruire la propria squadra nella Curia romana. Certamente voleva che Ratzinger ne fosse al più presto uno dei titolari, al punto da invitarlo, dopo neanche un anno, a diventare prefetto della Congregazione per l’Educazione cattolica, dove stava per andare in pensione il cardinale Gabriel-Marie Garrone. Ma l’arcivescovo di Monaco riuscì a convincerlo che «erano trascorsi appena due anni e ritenevo impossibile lasciare così presto la sede di san Corbiniano. La consacrazione episcopale rappresentava in qualche modo una promessa di fedeltà verso la mia diocesi di appartenenza. Dunque il Papa soprassedette alla nomina e chiamò a quell’incarico il cardinale Baum di Washington, preannunciandomi tuttavia sin da quel momento che in seguito si sarebbe rivolto a me per un altro incarico». Nell’autunno del 1980, ci furono due importanti opportunità per una più profonda conoscenza del cardinale da parte di Giovanni Paolo II: in
Vaticano, dal 26 settembre al 25 ottobre, fu relatore generale della quinta assemblea del Sinodo dei vescovi sul tema “La famiglia cristiana”; in Germania, per il primo viaggio pontificio dal 15 al 19 novembre, preparò per lui diverse bozze di discorsi e omelie. A quei giorni si riferisce l’aneddoto che, una volta, Ratzinger mi raccontò: vedendo il Papa affaticato, gli offrì una stanza in episcopio per una pennichella pomeridiana, ma Wojtyła rispose sorridendo che «ci sarà tanto tempo per riposarsi in Cielo!»; e poi gli lasciò cadere l’idea che l’avrebbe voluto a Roma come nuovo prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede. Il 6 gennaio 1981 il cardinale giunse in Vaticano per la consacrazione episcopale di monsignor Ennio Appignanesi, il parroco di Santa Maria Consolatrice a Casal Bertone della quale Ratzinger era titolare (come tutti i porporati, in questo modo era divenuto idealmente membro del clero romano). Giovanni Paolo II volle incontrarlo privatamente e tornò alla carica, ma l’arcivescovo di Monaco si era preparato una via di fuga e gli rispose che avrebbe accettato la nomina unicamente se avesse potuto continuare a scrivere saggi teologici a propria firma, in aggiunta ai documenti ufficiali del dicastero. Papa Wojtyła chiese ai collaboratori di verificare e venne a sapere che anche il cardinale Garrone, da prefetto dell’Educazione cattolica, aveva pubblicato diversi libri: a quel punto Ratzinger sentì di non avere scampo! In un’occasione, il cardinale mi confidò che già la nomina a Monaco andava oltre ogni sua aspettativa, figurarsi il trasferimento a Roma in una Congregazione… Ma poi si convinse che non poteva fare resistenza dinanzi alla reiterata richiesta di Giovanni Paolo II e comprese che in quel ruolo avrebbe perfino potuto proseguire meglio gli studi personali e il servizio alla Chiesa universale. Quarant’anni fa, porre al Pontefice una simile condizione poteva sembrava un peccato di hybris, di superbia, atteggiamento del tutto contrario allo stile di Ratzinger. In realtà, sin da allora lui vedeva nella propria produzione saggistica una dote da sfruttare per farla divenire uno strumento pastorale. Non c’era in gioco la vanagloria del grande teologo, bensì la consapevolezza del servizio che poteva essere reso alla Chiesa. Avrebbe vissuto il rinunciare a questa possibilità di influire a livello personale nel dibattito teologico come un’amputazione, dannosa per sé, ma pure per gli altri.
Ho avuto occasione di comprenderne ulteriormente le motivazioni ragionando con lui riguardo alle critiche che gli venivano fatte quando pubblicava i volumi su Gesù Cristo: Benedetto XVI è stato risoluto nel contestare chi affermava che il tempo da lui dedicato alla scrittura veniva sottratto al governo della Chiesa, poiché questo avrebbe dovuto essere il suo compito primario. Facendo riferimento a san Bonaventura e al proprio predecessore Benedetto XIV, mi ha sempre sottolineato che pure quella della scrittura è una forma di governo, poiché dà cibo spirituale ai fedeli, in aggiunta agli atti magisteriali. Con un riferimento spero non eccessivamente azzardato, il 7 giugno 2013 ero seduto di fianco a Papa Francesco, durante l’incontro in Vaticano con gli studenti delle scuole gestite dai Gesuiti, e mentre lo ascoltavo rispondere divertito a una ragazzina che la scelta di vivere a Santa Marta era «per motivi psichiatrici, perché è la mia personalità», ho pensato che la stessa osservazione avrebbe potuta farla Ratzinger, sia da cardinale sia da Papa, riguardo la sua scelta di continuare a scrivere. In molteplici occasioni Benedetto XVI mi ha infatti detto con forza: «Per me la scrittura non è un impegno, ma una liberazione che mi fa bene. Non mi toglie forza, ma piuttosto me la genera. Si tratta di due energie diverse, e ambedue devono essere esercitate». In sostanza, direi che, senza lo sfogo della produzione teologica, la “pentola a pressione” del suo intelletto non avrebbe avuto una valvola di sicurezza e sarebbe esplosa.
Cane da guardia o promotore? La nomina a prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede venne ufficializzata il 25 novembre 1981 e l’addio a Monaco si celebrò il 28 febbraio 1982. Con una commossa immagine, Ratzinger un giorno mi ha descritto di aver visto in quei momenti i suoi diocesani «con un occhio ridente per la gioia della promozione del loro arcivescovo e con l’altro piangente per il dispiacere di vederlo andar via». Il primo ministro bavarese Franz Josef Strauss lo disse a chiare lettere: «Preferiremmo non lasciarla andare a Roma». E lui replicò: «Rimarrò sempre bavarese anche quando sarò in Vaticano».
Lavorando in Congregazione, ho potuto ascoltare dalla viva voce dei colleghi più anziani i ricordi relativi ai primi tempi del prefetto, con le speranzose attese da parte di alcuni e le acute apprensioni da parte di altri riguardo a come avrebbe agito. Tutti avevano infatti la curiosità di vedere concretamente i cambiamenti che avrebbe apportato, a quella che da molti era ancora soprannominata “la Suprema”, colui che aveva ispirato il discorso nel quale, l’8 novembre 1963, il cardinale Joseph Frings ne aveva stigmatizzato «i modi di procedere non allineati ai tempi sotto diversi aspetti, risultando dannosi per la Chiesa e scandalosi per molti», parole che avevano suscitato un boato di plauso fra i partecipanti al Vaticano II. Probabilmente Giovanni Paolo II aveva scelto un teologo e un pastore, al contrario della tradizione che aveva privilegiato diplomatici e canonisti, perché, quando il cardinale ne prese la guida, la Congregazione si trovava “a metà del guado”. Il 7 dicembre 1965 Paolo VI ne aveva infatti mutato il nome, da Sacra Congregazione del Sant’Offizio a Sacra Congregazione per la Dottrina della fede, conservando però la presidenza del Sommo Pontefice, mentre la direzione continuava a essere affidata a un cardinale segretario. Sempre Papa Montini, il 15 agosto 1967, aveva riformato la Congregazione, stabilendo che a capo ci fosse un cardinale prefetto e conferendole il compito di «tutelare la dottrina riguardante la fede e i costumi in tutto il mondo cattolico». Le mansioni erano però ancora sbilanciate sul versante negativo: «Essa prende in esame le nuove dottrine e le nuove opinioni, in qualsiasi modo divulgate; promuove studi su questa materia, e favorisce congressi di dotti; condanna quelle dottrine che risultano essere contrarie ai principi della fede, dopo aver tuttavia sentito il parere dei vescovi di quelle regioni, se ne sono interessati. Esamina con diligenza i libri che le vengono segnalati, e, se necessario, li condannerà, dopo aver tuttavia sentito l’autore e avergli data la facoltà di difendersi. A essa spetta pure giudicare circa gli errori riguardanti la fede, secondo le norme del processo ordinario». L’impegno di Ratzinger per l’aggiornamento delle normative, in sintonia con le richieste di Giovanni Paolo II, si concentrò dapprima sul Codice di Diritto canonico, che venne promulgato nel 1983 e dove si può riconoscere un suo influsso in alcuni canoni connessi con l’ecclesiologia, il Magistero, le Conferenze episcopali, le relazioni tra i vescovi e la Curia romana.
Quindi si adoperò per la ridefinizione in positivo del compito della Congregazione, sancito il 28 giugno 1988 all’interno della costituzione apostolica Pastor bonus: «Promuovere e tutelare la dottrina sulla fede e i costumi in tutto l’orbe cattolico». Nell’adempimento di tale indirizzo, veniva precisato, «essa favorisce gli studi volti a far crescere l’intelligenza della fede e perché, ai nuovi problemi scaturiti dal progresso delle scienze o della civiltà, si possa dare risposta alla luce della fede. Essa è di aiuto ai vescovi, sia singoli che riuniti nei loro organismi, nell’esercizio del compito per cui sono costituiti come autentici maestri e dottori della fede e per cui sono tenuti a custodire e a promuovere l’integrità della medesima fede. Al fine di tutelare la verità della fede e l’integrità dei costumi, si impegna fattivamente perché la fede e i costumi non subiscano danno a causa di errori comunque divulgati. Pertanto: ha il dovere di esigere che i libri e altri scritti, pubblicati dai fedeli e riguardanti la fede e i costumi, siano sottoposti al previo esame dell’autorità competente; esamina gli scritti e le opinioni che appaiono contrari alla retta fede e pericolosi, e, qualora risultino opposti alla dottrina della Chiesa, data al loro fautore la possibilità di spiegare compiutamente il suo pensiero, li riprova tempestivamente, dopo aver preavvertito l’ordinario interessato, e usando, se sarà opportuno, i rimedi adeguati; si adopera, infine, affinché non manchi un’adeguata confutazione degli errori e dottrine pericolose, che vengano diffusi nel popolo cristiano». Il 22 aprile 2007, durante la visita pastorale nella diocesi di Pavia (dove sono custodite le ossa di Agostino d’Ippona), Benedetto XVI sembrerà quasi offrire una nota autobiografica descrivendo la vita del santo teologo dopo la consacrazione episcopale e citando un significativo passo dai suoi Sermoni: «Il bel sogno della vita contemplativa era svanito, la vita di Agostino ne risultava fondamentalmente cambiata. Ciò che ora costituiva la sua quotidianità, lo ha descritto così: “Correggere gli indisciplinati, confortare i pusillanimi, sostenere i deboli, confutare gli oppositori… stimolare i negligenti, frenare i litigiosi, aiutare i bisognosi, liberare gli oppressi, mostrare approvazione ai buoni, tollerare i cattivi e amare tutti”». Tali parole descrivono ciò che io stesso ho potuto quotidianamente sperimentare al fianco del prefetto, verificando la totale inconsistenza di quelle descrizioni del “Panzerkardinal” o del “Rottweiler di Dio” spacciate senza pudore da critici del cardinale totalmente estranei a una sua reale
conoscenza. Tutti i collaboratori riscontrarono in lui un nuovo stile, poiché l’applicazione del regolamento di una Congregazione dipende molto da chi la dirige e dal clima che lui riesce a creare. Ratzinger ha sempre avuto la convinzione che, per consolidare la fiducia reciproca, ci si debba conoscere bene. Perciò incentivò molto le personali relazioni umane e gli incontri ad ampio raggio, per esempio con le Commissioni teologiche delle diverse nazioni, con le Conferenze episcopali e con i superiori generali di ordini e istituti religiosi, nell’obiettivo di eliminare alcuni pregiudizi che nel corso del tempo si erano accumulati sulla Congregazione. Il cardinale inaugurò anche il metodo dell’appuntamento del venerdì con tutti i collaboratori della Congregazione, in vista del quale entro ogni giovedì pomeriggio ciascuno di noi doveva preparare un appunto sulle questioni che sarebbero state discusse, cosicché lui potesse studiare quelle note a casa, in modo da discuterne con cognizione di causa al mattino successivo. E c’era la prassi di cominciare il dibattito a partire dal meno alto in grado, così che non ci fosse in nessuno il timore reverenziale di contraddire l’opinione di un officiale superiore. Il prefetto aveva l’ultima parola, però era sempre rispettoso dei diversi pareri, che ascoltava sino in fondo. Se la proposta di soluzione lo convinceva, l’accettava con piacere; in caso contrario, elegantemente ripeteva in sintesi ciò che il collaboratore aveva ipotizzato e concludeva: «Lei ha valutato secondo una prospettiva che di per sé è giusta, ma forse non è completa. C’è quest’altro aspetto che potrebbe portare a una diversa soluzione, in questa maniera…». In tal modo non umiliava mai nessuno e il risultato finale appariva a tutti il migliore. Il lunedì c’era poi la Consulta degli esperti, sotto la guida del segretario, e il mercoledì l’incontro dei membri cardinali e vescovi (la cosiddetta feria quarta), presieduta dal prefetto. L’atmosfera era sempre molto serena e informale, tanto che non di rado ci si lanciava anche una battuta. Una caratteristica importante di Ratzinger, che non molti conoscono, era infatti il fine senso dell’umorismo. Al punto che, il 4 gennaio 1989, ricevette con piacere a Monaco l’onorificenza intitolata al comico Karl Valentin e nel discorso d’accettazione richiamò l’affermazione di san Paolo «Noi stolti a causa di Cristo» (1 Corinzi 4,10) sottolineando che «alle corti degli antichi potentati, il giullare era spesso l’unico a potersi permettere il lusso della
verità. E, siccome per la mia occupazione mi accade di dover dire la verità, sono davvero felice di essere stato or ora accettato nella categoria di coloro i quali godono di quel privilegio. Chi, dicendo la verità, non si sentisse un po’ un clown, di certo diverrebbe troppo facilmente un autocrate». Ricordo in particolare una volta in cui lui e il cardinale Carlo Maria Martini – due pensatori molto diversi, ma accomunati dalla reciproca stima – si punzecchiarono a vicenda. L’arcivescovo milanese sosteneva di non aver mai scritto un libro, mentre il prefetto ribatteva che soltanto tradotti in tedesco ne aveva letti almeno una quindicina con la sua firma. Allora Martini replicò: «Ma io non devo mettermi alla scrivania, come fa lei, e faticare: parlo, mi registrano, qualcuno trascrive e redige il testo, ed è fatta». Con un ammiccamento sornione Ratzinger concluse il simpatico duello facendo capire che la qualità un po’ disomogenea di quelle opere gli aveva permesso di immaginare un tale modus operandi!
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Il filosofo e il teologo
Due anime in sintonia «Rendo grazie a Dio per la presenza e l’aiuto del cardinale Ratzinger, che è un amico fidato»: parole scolpite nella pietra, quelle mediante le quali Giovanni Paolo II, nel libro di memorie Alzatevi, andiamo del 2004, rievocò il suo pluridecennale rapporto con il prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede. Al punto da ispirare a Joaquín Navarro-Valls, lo storico portavoce e confidente di Papa Wojtyła, un emblematico commento: «Non hanno precedenti le parole che il Pontefice scrisse un anno prima di morire, dove per la prima volta menziona con una lode esplicita e molto eloquente un collaboratore vivo, al quale esprime gratitudine per la sincera amicizia. Proprio questo lascia pensare a un rapporto strettissimo». Da parte sua, Benedetto XVI non ha lesinato opportunità per ricambiare. Posso personalmente testimoniare che una delle prime sollecitudini da Papa fu quella di adempiere quanto programmato dal suo predecessore, a cominciare dalla visita pastorale a Bari per la conclusione del Congresso eucaristico nazionale (29 maggio 2005) e dal viaggio apostolico a Colonia in occasione della Giornata mondiale della gioventù (18-21 agosto 2005). Ma anche nell’ambito più privato mi diede disposizione di portare a compimento, per quanto possibile, ciò che era rimasto in sospeso. Mi piace ricordare qui la testimonianza del giornalista Filippo Anastasi, all’epoca coordinatore dell’informazione religiosa nel Giornale radio Rai: «Poco prima che morisse, avevo espresso a Wojtyła il desiderio di fargli conoscere i miei collaboratori. Il Papa ci aveva concesso un’udienza privata, però proprio quel giorno fu ricoverato al Gemelli, e poi sappiamo com’è finita. Un paio di mesi dopo l’elezione di Benedetto XVI, ricevetti una telefonata dal suo segretario: “Benedetto ha piacere e intenzione di mantenere gli
impegni del suo predecessore e quindi vi invita al Palazzo apostolico per un’udienza privata”. E così andammo tutti». In seguito, Papa Ratzinger volle espressamente che il suo primo viaggio all’estero lo conducesse in Polonia, dal 25 al 28 maggio 2006. Nel discorso alla Curia vaticana, il 22 dicembre di quell’anno, il Papa confidò che si era trattato di «un intimo dovere di gratitudine per tutto ciò che Giovanni Paolo II, durante il quarto di secolo del suo servizio, ha donato a me personalmente e soprattutto alla Chiesa e al mondo. Il suo dono più grande per tutti noi è stata la sua fede incrollabile e il radicalismo della sua dedizione». Pochi sanno che, nel museo realizzato nella casa natale di Karol Wojtyła a Wadowice, sono esposti diversi oggetti inviati da Benedetto XVI: tre anelli che Giovanni Paolo II gli aveva regalato quando era prefetto, tre lettere del Pontefice polacco e una fotografia che li ritrae insieme durante la celebrazione per il decimo anniversario del pontificato di Papa Wojtyła il 30 ottobre del 1988. Benedetto visitò personalmente quel luogo il 27 maggio 2006, durante il viaggio in Polonia, e vi lasciò un bassorilievo raffigurante la Madonna e un pensiero nel libro degli autografi. Tra loro c’era una chiara differenza caratteriale e di stile: in quanto a formazione, Karol Wojtyła era un filosofo, mentre Joseph Ratzinger era un teologo (il cardinale una volta mi raccontò che lo stesso Giovanni Paolo II gli aveva confidato di sentirsi più ferrato riguardo alla filosofia, piuttosto che alla teologia). In fondo, si potrebbe dire che Papa Wojtyła era più indirizzato verso l’interrogazione filosofica e la ricerca intellettuale, mentre Ratzinger più alla chiarezza teologica e al rigore interpretativo. Ma a tutti noi appariva con evidenza come questi elementi si fondessero in una complementarità. Un’interessante sintesi è quella del professor Alfred Läpple, suo antico responsabile nel seminario di Frisinga: «La base filosofico-teologica comune a entrambi era il personalismo, che – all’inizio indipendente nei due – in Polonia mosse il pensiero e la speranza in un futuro di libertà come alternativa politico-culturale al dominio statale sovietico-marxista. Il personalismo dialogico costituiva il permanente accordo fondamentale, che si rafforzava reciprocamente, fra il Papa polacco e il prefetto tedesco: l’uomo non è un qualcosa, ma è un io che nel dialogo vive come tu divino la Persona che gli sta di fronte».
In diverse occasioni ho avuto l’opportunità di osservare come, quando non c’era la totale condivisione di una presa di posizione o di una specifica iniziativa, fra i due ci fosse costantemente una fiduciosa apertura di credito, che poi ovviamente portava il cardinale a fare tutto ciò che gli competeva per assecondare la volontà del Pontefice. In qualche modo, per Ratzinger quegli anni rappresentarono anche una sorta di apprendistato: «Senza di lui il mio cammino spirituale e teologico non è neanche immaginabile», dichiarò il 4 luglio 2015, ricevendo a Castel Gandolfo il dottorato honoris causa dalla Pontificia università Giovanni Paolo II e dall’Accademia di musica di Cracovia. A tale consapevolezza attribuisco la volontà di corrispondere alla pressante sollecitazione dell’entourage di Giovanni Paolo II, da cui, sull’onda del «santo subito» acclamato a gran voce durante i funerali di Papa Wojtyła, venne perorata la dispensa dai regolamentari cinque anni di attesa per l’apertura del processo di canonizzazione. Anche Benedetto XVI si sentì stimolato dal grande entusiasmo popolare, cosicché chiese al cardinale José Saraiva Martins, prefetto della Congregazione delle Cause dei santi, di preparare il decreto che venne letto il 13 maggio 2005 nella basilica di San Giovanni in Laterano, al termine dell’incontro con il clero di Roma, e che ha consentito la rapida proclamazione a beato, il 1° maggio 2011, e a santo, il 27 aprile 2014, di Karol Wojtyła. Papa Ratzinger lo ha pubblicamente dichiarato sin dai primi tempi dopo l’elezione: «Che Giovanni Paolo II fosse un santo, negli anni della collaborazione con lui mi è divenuto di volta in volta sempre più chiaro. C’è innanzitutto da tenere presente naturalmente il suo intenso rapporto con Dio, il suo essere immerso nella comunione con il Signore, da cui veniva la sua letizia, in mezzo alle grandi fatiche che doveva sostenere, e il coraggio con il quale assolse il suo compito in un tempo veramente difficile. Giovanni Paolo II non chiedeva applausi, né si è mai guardato intorno preoccupato di come le sue decisioni sarebbero state accolte. Egli ha agito a partire dalla sua fede e dalle sue convinzioni ed era pronto anche a subire dei colpi. Il coraggio della verità è ai miei occhi un criterio di primo ordine della santità. Solo a partire dal suo rapporto con Dio è possibile capire anche il suo indefesso impegno pastorale. Il mio ricordo di Giovanni Paolo II è colmo di gratitudine. Non potevo e non dovevo provare a imitarlo, ma ho cercato di portare avanti la sua eredità e il suo compito meglio che ho
potuto. Perciò sono certo che ancora oggi la sua bontà mi accompagna e la sua benedizione mi protegge». Di commovente intimità risultano tuttora le considerazioni che Ratzinger propose nel testo commemorativo del ventesimo anniversario di pontificato di Papa Wojtyła: «Molto probabilmente si conosce meglio Giovanni Paolo II quando si è concelebrato con lui e ci si è lasciati attirare nell’intenso silenzio della sua preghiera, più che non quando si sono analizzati i suoi libri o i suoi discorsi. Giacché, proprio partecipando alla sua preghiera, si attinge ciò che è proprio della sua natura, al di là di qualsiasi parola. A partire da questo centro ci si spiega perché egli, pur essendo un grande intellettuale, che nel dialogo culturale del mondo contemporaneo possiede una voce sua propria e importante, ha conservato anche quella semplicità che gli permette di comunicare con ogni singola persona».
Un appuntamento settimanale Estremamente importante, per il consolidamento del loro legame, fu la cosiddetta “udienza di tabella”, che alle ore 18 di ogni venerdì li vedeva impegnati a discutere da soli non soltanto i documenti in preparazione, ma anche la situazione più generale della Chiesa e del mondo. Ratzinger mi raccontava poi che in varie occasioni la conversazione si era dilatata pure all’ambito culturale, poiché Papa Wojtyła apprezzava la letteratura tedesca e voleva confrontarsi con lui su opere di autori contemporanei che l’avevano colpito. Oltre a quelle udienze ufficiali, al martedì mattina il cardinale veniva spesso convocato per incontri più informali, dove personalità ecclesiastiche volta a volta diverse ragionavano sulle catechesi del mercoledì, su questioni d’attualità, sulle tematiche proposte dai vescovi di una determinata nazione in visita ad limina (l’incontro quinquennale con il Papa, N.d.A.), su nuove riflessioni che emergevano in ambito teologico… E descriveva quegli appuntamenti, che spesso si dilatavano al pranzo, come momenti anche di buonumore e occasioni di sentirsi in ottima compagnia. Ratzinger avvertiva come problematica una situazione che si era creata con la riforma della Curia romana voluta da Paolo VI. Il sostanziale coordinamento dei dicasteri vaticani da parte della Segreteria di Stato,
guidata da Agostino Casaroli fino al 1991 e successivamente da Angelo Sodano, imponeva talvolta una scelta su cosa privilegiare fra la saldezza della dottrina e la duttilità della diplomazia. Anche se il prefetto cercava di mantenere buoni rapporti con tutti, smussando gli spigoli più acuti, ogni tanto qualche situazione locale si imponeva maggiormente all’attenzione e lui si trovava a dover caldeggiare con Giovanni Paolo II soluzioni divergenti da quelle proposte dal segretario di Stato. Ricordo per esempio, nella seconda metà degli anni Novanta, il fitto scambio di lettere tra la Segreteria di Stato, la nostra Congregazione e la Conferenza episcopale tedesca in relazione ai consultori ecclesiastici che in Germania dovevano decidere se continuare a rilasciare i certificati di colloquio alle donne che intendevano abortire. La natura di questa attestazione risultava ambigua, poiché – anche se in origine era un modo per aprire un dialogo e far riflettere chi voleva abortire (inoltre, grazie ai relativi sussidi statali, permetteva ai consultori ecclesiastici di proseguire l’attività di consulenza in favore della vita) – si era di fatto trasformata in un’autorizzazione all’esecuzione depenalizzata dell’aborto nelle prime dodici settimane di gravidanza. Tra i cardinali Sodano e Ratzinger c’era diversità di vedute su come affrontare la problematica: il primo più attento ai risvolti politici della vicenda e ai buoni rapporti con la presidenza di quella Conferenza episcopale, mentre il secondo aveva innanzitutto a cuore l’intera questione etico-morale e le conseguenze dottrinali e pastorali che ne sarebbero scaturite. Cosicché si andò avanti a lungo nel dibattito “dietro le quinte” e alla fine, l’11 gennaio 1998, Papa Wojtyła inviò ai vescovi tedeschi una lettera nella quale stabilì «che un certificato di tale natura non venga più rilasciato nei consultori ecclesiali o dipendenti dalla Chiesa». Ma nel contempo, e a mia memoria non conosco altri esempi espliciti del genere, faceva capire a chiare lettere quanto fosse stata accesa la diatriba fra i due blocchi di pensiero: «Da persone, che per la Chiesa e nella Chiesa si impegnano, si è messo in guardia con forza da una simile decisione, che lascerebbe le donne in situazioni conflittuali senza l’appoggio della comunità di fede. Altrettanto con forza si è denunciato che il certificato coinvolge la Chiesa nell’uccisione di bambini innocenti e rende meno credibile la sua assoluta contrarietà all’aborto. Ho preso in seria considerazione entrambe le voci e rispetto l’appassionata ricerca da
ambedue le parti della giusta via per la Chiesa in questa questione importante». In precedenza, un momento di dissonanza fra Ratzinger e Giovanni Paolo II era stato l’incontro interreligioso per la pace del 27 ottobre 1986 ad Assisi, al quale il cardinale non ritenne opportuno partecipare. Il rischio da lui intravisto era che si manifestasse confusione tra le diverse espressioni di culto dei 62 capi religiosi convenuti nella cittadina di san Francesco: di conseguenza temeva che la sua semplice presenza potesse venire equivocata come una valutazione favorevole. Effettivamente in alcune chiese si svolsero cerimonie inappropriate, per esempio con l’esposizione della statua di Budda vicino a un tabernacolo, oppure con la preparazione del calumet della pace su un altare; e anche riguardo all’appuntamento pomeridiano nella piazza inferiore della basilica, dove i diversi gruppi si ritrovarono insieme, la sequenza di preghiere, seppur scandite da una pausa fra ciascuna di esse, diede avvio a polemiche su sensazioni di sincretismo o di cedimenti al relativismo. Per quello che ho percepito da qualche sua confidenza in merito, Ratzinger aveva riferito a Papa Wojtyła le proprie perplessità, ma il Pontefice era pienamente convinto dell’opportunità di quell’incontro e gli chiese semplicemente di contribuire alla migliore preparazione fattibile. Il cardinale aveva chiaro il proprio compito di far presenti le possibili derive, ma poi non si tirava indietro quando Giovanni Paolo II gli manifestava una esplicita volontà. Secondo Ratzinger, comunque, il Papa si rese conto, con il senno di poi, che i timori espressi dal cardinale non erano del tutto peregrini, al punto che nella seconda edizione del 24 gennaio 2002 chiese di curare maggiormente i dettagli delle cerimonie, cosicché Ratzinger, che pure fino al giorno precedente non era nella lista dei partecipanti, alla fine ritenne di poter intervenire dopo una personale richiesta del Pontefice. I collaboratori di Papa Wojtyła ripetevano sempre che nessuna decisione significativa era stata presa da Giovanni Paolo II senza la consultazione previa del cardinale, e io stesso ho avuto spesso fra le mani lettere a lui indirizzate che venivano inoltrate in Congregazione con la scritta di suo pugno: «Chiedere al cardinale Ratzinger», «Per favore, inviare al prefetto Ratzinger». In questi casi, noi collaboratori della Congregazione leggevamo con attenzione la lettera per comprendere la fattispecie della richiesta e ipotizzare una proposta da sottoporre al cardinale, in modo da consentirgli
di valutare l’opportunità di illustrarla a propria volta al Pontefice nell’udienza settimanale. Quando sono diventato segretario particolare del prefetto, ricevevo frequentemente telefonate dai segretari monsignor Stanisław Dziwisz (“don Stanislao”) e monsignor Mieczysław Mokrzycki (“don Mietek”), i quali a nome di Papa Wojtyła chiedevano che Ratzinger si recasse nel Palazzo apostolico per una riunione con altri cardinali o da solo con il Santo Padre. Erano invece scarsi gli appuntamenti per pranzi di lavoro, poiché il Papa aveva ormai difficoltà anche nella deglutizione. Però ne venne organizzato uno quando divenni segretario particolare del cardinale, il quale volle presentarmi ufficialmente a Giovanni Paolo II e ai suoi collaboratori dell’Appartamento papale. Io ero abbastanza intimidito dalla circostanza, ma sia il Papa che i segretari furono molto cordiali e dopo un po’ mi sentii completamente a mio agio.
Le sfide del prefetto Poco dopo il suo arrivo in Congregazione, Ratzinger si era trovato dinanzi a una delle tematiche più spinose di quegli anni. Nel Codice di Diritto canonico promulgato da Benedetto XV nel 1917 si stabiliva infatti, al canone 2335, che «chi si ascrive alla massoneria o altra setta che trama contro la Chiesa o il potere civile, incorre la scomunica riservata alla Sede apostolica». Nel nuovo Codice, firmato da Giovanni Paolo II il 25 gennaio 1983, le parole del canone 1374 risultavano decisamente più blande: «Chi dà il nome a una associazione che complotta contro la Chiesa sia punito con una giusta pena; chi poi tale associazione promuove o dirige sia punito con l’interdetto». Questa innovazione aprì una polemica che coinvolse diversi fronti, sia all’interno che all’esterno della Chiesa cattolica. Così il prefetto ritenne opportuna una esplicita dichiarazione, approvata da Papa Wojtyła e pubblicata il 26 novembre 1983 (il giorno precedente l’entrata in vigore del nuovo Codice). Il testo chiariva definitivamente che la non espressa menzione della massoneria «è dovuta a un criterio redazionale seguìto anche per altre associazioni ugualmente non menzionate in quanto comprese in categorie più ampie», restando invece «immutato il giudizio negativo della Chiesa nei
riguardi delle associazioni massoniche, poiché i loro princìpi sono stati sempre considerati inconciliabili con la dottrina della Chiesa e perciò l’iscrizione a esse rimane proibita. I fedeli che appartengono alle associazioni massoniche sono in stato di peccato grave e non possono accedere alla santa comunione». Per di più, essendo state rese note in quel tempo le prese di posizione di alcuni vescovi favorevoli a una revisione del giudizio sulla massoneria, Ratzinger affermava perentoriamente che «non compete alle autorità ecclesiastiche locali di pronunciarsi sulla natura delle associazioni massoniche con un giudizio che implichi deroga a quanto sopra stabilito». L’anno successivo rincarò la dose con una riflessione della Congregazione sulla «inconciliabilità tra fede cristiana e massoneria», nella quale venivano messe in luce le sue «idee filosofiche e concezioni morali opposte alla dottrina cattolica», nonostante «il dialogo intrapreso da parte di personalità cattoliche con rappresentanti di alcune logge che si dichiaravano non ostili o perfino favorevoli alla Chiesa». Dunque con la dichiarazione del 1983, «prescindendo dalla considerazione dell’atteggiamento pratico delle diverse logge, la sacra Congregazione ha inteso collocarsi al livello più profondo e d’altra parte essenziale del problema: sul piano cioè dell’inconciliabilità dei princìpi, il che significa sul piano della fede e delle sue esigenze morali». Quando venne eletto Pontefice, risultò evidente il disappunto (per non dire altro) della massoneria nei confronti di Benedetto XVI. Perciò, leggendo nel 2013 il caloroso saluto di Gustavo Raffi, il gran maestro del Grande Oriente d’Italia – «Forse nella Chiesa nulla sarà più come prima. Il nostro auspicio è che il pontificato di Francesco possa segnare il ritorno della Chiesa-Parola rispetto alla Chiesa-istituzione, [nella speranza che] una Chiesa del popolo ritrovi la capacità di dialogare con tutti gli uomini di buona volontà e con la Massoneria» – fui certo che, più di un “benvenuto” a Papa Bergoglio, che francamente non credo gli fosse particolarmente familiare, si trattasse di un “benservito” a Papa Ratzinger! Un’altra grande sfida per la Congregazione fu la cosiddetta “Teologia della liberazione”, che dagli anni Settanta si stava diffondendo ampiamente in America latina e che in Europa e America del Nord veniva interpretata come una giusta presa di posizione in favore dei poveri. Il problema era la parzialità della prospettiva, come Ratzinger spiegava con chiarezza: «Le
forme di aiuto immediato ai poveri e le riforme che migliorano le condizioni venivano condannate come riformismo che ha l’effetto di consolidare il sistema. Occorreva invece un grande rivolgimento, dal quale doveva scaturire un mondo nuovo. La fede cristiana veniva usata come motore per questo movimento rivoluzionario, trasformandola così in una forza di tipo politico e indebolendo anche il vero amore per i poveri». Il cardinale si confrontò ampiamente con Giovanni Paolo II. Avendo ben chiara l’ideologia marxista su cui si fondava quella prospettiva teologica, il Papa diede indicazioni molto precise, affermando che la Chiesa deve agire per la libertà e la liberazione non in modo politico, ma risvegliando negli uomini, attraverso la fede, le forze dell’autentica liberazione. Ha documentato Ratzinger: «Il Pontefice ci guidò a trattare entrambi gli aspetti: da un lato a smascherare una falsa idea di liberazione, dall’altro esporre l’autentica vocazione della Chiesa alla liberazione dell’uomo». Da qui prese avvio la riflessione che portò alla stesura delle due istruzioni sulla Teologia della liberazione, Libertatis nuntius nel 1984 e Libertatis conscientia nel 1986. Anche quando le critiche della Congregazione motivavano dei provvedimenti nei confronti di qualche teologo, il prefetto cercava sempre di farlo con amore e con giustizia. «I miei collaboratori e io ci sforziamo di non perdere di vista la dignità dell’uomo che stiamo sanzionando e facciamo in modo tale che lui stesso possa riconoscere ciò che ci preme. Non vogliamo semplicemente colpirlo con una scomunica, ma porci al servizio della comunità nel suo insieme e quindi, in ultima analisi, anche al suo servizio. E ci sentiamo innanzitutto in obbligo di difendere la fede dei semplici», ripeteva con convinzione. Io credo che proprio per fare estrema chiarezza Ratzinger si fece promotore nel 1990 dell’istruzione Donum veritatis sulla vocazione ecclesiale del teologo, dove si legge che «l’esigenza critica non va identificata con lo spirito critico, che nasce piuttosto da motivazioni di carattere affettivo o da pregiudizio. Il teologo deve discernere in se stesso l’origine e le motivazioni del suo atteggiamento critico e lasciare che il suo sguardo sia purificato dalla fede. […] Il teologo, non dimenticando mai di essere anch’egli membro del popolo di Dio, deve nutrire rispetto nei suoi confronti e impegnarsi nel dispensargli un insegnamento che non leda in alcun modo la dottrina della fede».
Fra le tante tematiche al centro della riflessione del cardinale Ratzinger, quella della politica e dell’impegno che i cattolici vi devono riversare a partire dalla fede fu sempre presente. Il 26 novembre 1981, proprio il giorno successivo alla formalizzazione della sua nomina in Vaticano, pronunciò un’omelia da arcivescovo di Monaco, durante una celebrazione liturgica per i deputati cattolici nel Parlamento tedesco, che in questi tempi di crisi della diplomazia risulta quanto mai sfidante: «Lo Stato non è la totalità dell’esistenza umana e non abbraccia tutta la speranza umana. L’uomo e la sua speranza vanno oltre la realtà dello Stato e oltre la sfera dell’azione politica. […] Il primo servizio che la fede fa alla politica è dunque la liberazione dell’uomo dall’irrazionalità dei miti politici, che sono il vero rischio del nostro tempo. […] La morale politica consiste precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole con cui ci si fa gioco dell’umanità dell’uomo e delle sue possibilità. Non è morale il moralismo dell’avventura, che intende realizzare da sé le cose di Dio. Lo è invece la lealtà che accetta le misure dell’uomo e compie, entro queste misure, l’opera dell’uomo. Non l’assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica». Tale consapevolezza di fondo lo spinse a firmare il 24 novembre 2002, come prefetto della Congregazione, una nota dottrinale, tuttora di estrema attualità, sull’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, che era stata caldeggiata da Giovanni Paolo II per rispondere alle sollecitazioni di vescovi di varie parti del mondo. Partendo dalla constatazione che «la storia del XX secolo basta a dimostrare che la ragione sta dalla parte di quei cittadini che ritengono del tutto falsa la tesi relativista secondo la quale non esiste una norma morale, radicata nella natura stessa dell’essere umano, al cui giudizio si deve sottoporre ogni concezione dell’uomo, del bene comune e dello Stato», il cardinale precisava che «il cristiano è tenuto ad ammettere la legittima molteplicità e diversità delle opzioni temporali, ma è ugualmente chiamato a dissentire da una concezione del pluralismo in chiave di relativismo morale, nociva per la stessa vita democratica, la quale ha bisogno di fondamenti veri e solidi, vale a dire, di princìpi etici che per la loro natura e per il loro ruolo di fondamento della vita sociale non sono “negoziabili”». A scanso d’equivoci, Ratzinger affermava che «con il suo intervento in questo ambito, il Magistero della Chiesa non vuole esercitare un potere
politico né eliminare la libertà d’opinione dei cattolici su questioni contingenti. Esso intende invece istruire e illuminare la coscienza dei fedeli, soprattutto di quanti si dedicano all’impegno nella vita politica, perché il loro agire sia sempre al servizio della promozione integrale della persona e del bene comune. L’insegnamento sociale della Chiesa non è un’intromissione nel governo dei singoli Paesi [in quanto] gli orientamenti contenuti nella presente nota intendono illuminare uno dei più importanti aspetti dell’unità di vita del cristiano: la coerenza tra fede e vita, tra Vangelo e cultura». Tutto ciò, sempre in linea con il concilio Vaticano II, che aveva esortato i fedeli a «compiere fedelmente i propri doveri terreni, facendosi guidare dallo spirito del Vangelo».
Come un direttore d’orchestra Per il cardinale Ratzinger, le quattordici encicliche firmate da Giovanni Paolo II rappresentavano le molteplici tessere di un mosaico, inscindibili l’una dall’altra all’interno del complessivo Magistero di Papa Wojtyła. In particolare considerava la Redemptor hominis (1979), la prima in ordine cronologico cui non aveva potuto collaborare poiché era ancora a Monaco, il punto di partenza per tutte le altre. In essa vedeva anticipati tutti i temi successivi della verità e del suo legame con la libertà, con una presentazione anche dei tratti principali – il sacrificio, la redenzione e la penitenza – della fondamentale Ecclesia de Eucharistia (2003), insieme con un cenno all’antropologia riguardo ai problemi sociali del nostro tempo, che caratterizza le encicliche sociali Laborem exercens (1981), Sollicitudo rei socialis (1987) e Centesimus annus (1991), dove è centrale la dignità dell’uomo che è sempre un fine e mai un mezzo. Ma le encicliche alle quali Ratzinger collaborò in maniera particolare e che gli stavano più a cuore sono certamente le tre dottrinali: Veritatis splendor (1993), Evangelium vitae (1995) e Fides et ratio (1998). In ogni caso il prefetto era convinto che qualsiasi documento doveva essere contestualizzato nel tempo della sua promulgazione, poiché il primo scopo era quello di rispondere a una problematica di uno specifico momento della Chiesa, per evitare il rischio di ridurlo a un mero esercizio teorico.
L’indicazione di Giovanni Paolo II riguardo alla Veritatis splendor fu di affrontare la crisi interna della teologia morale nella Chiesa, riformulando la sua prospettiva positiva dal centro della fede piuttosto che da un elenco di divieti, ma ampliando la riflessione anche al dibattito etico di dimensioni globali che era già all’epoca una questione di vita o di morte per l’umanità. Il cardinale spiegò dunque che l’imitazione di Cristo e il principio dell’amore erano stati individuati come linee guida per organizzare i vari elementi della dottrina morale, contrastando quella razionalità positivista incapace di riconoscere il bene come tale. L’ardita affermazione di un teologo che «il buono è sempre solo migliore di…» diede lo spunto a Ratzinger per sottolineare che – se il criterio basilare diventa il calcolo delle conseguenze e se la morale viene fondata su ciò che sembra più positivo, tenendo conto delle conseguenze prevedibili – ciò che è morale si dissolve, poiché il bene in quanto tale non esiste, cosicché il cristianesimo inteso come “via” sarebbe un fallimento. In accordo con Papa Wojtyła, come spiegò lo stesso prefetto, a quel punto «si diede con grande decisione legittimità alla prospettiva metafisica, che è solo una conseguenza della fede nel creato. Ancora una volta, partendo dalla fede nella creazione, riesce a collegare e fondere antropocentrismo e teocentrismo: “La ragione trova la sua verità e la sua autorità nella legge eterna, che non è altro che la stessa sapienza divina. […] Infatti, la legge naturale […] non è altro che la luce dell’intelligenza infusa in noi da Dio” (VS 40). […] Una perla dell’enciclica, significativa sia filosoficamente che teologicamente, è il grande brano sul martirio. Se non c’è più nulla per cui valga la pena morire, anche la vita diventa vuota. Solo se c’è il bene assoluto, per il quale vale la pena morire, e il male eterno che non si trasforma mai in bene, l’uomo è confermato nella sua dignità e siamo protetti dalla dittatura delle ideologie». Ratzinger indicava questi aspetti come fondamentali anche nella Evangelium vitae, espressione dell’appassionato impegno di Giovanni Paolo II per il rispetto assoluto della dignità della vita umana. Spiegava il prefetto: «La vita umana, laddove viene trattata come una mera realtà biologica, diventa oggetto del calcolo delle conseguenze. Ma il Papa, con la fede della Chiesa, vede l’immagine di Dio nell’uomo, in ogni uomo, piccolo o grande che sia, debole o forte, utile o apparentemente inutile. Cristo, lo stesso Figlio di Dio fatto uomo, è morto per tutti gli uomini. Ciò
conferisce a ogni uomo un valore infinito, una dignità assolutamente intoccabile». Per il cardinale era anche importante affermare a chiare lettere che «dopo tutte le crudeli esperienze di abuso dell’uomo, anche se le motivazioni possono sembrare moralmente elevate, quelle parole erano e sono necessarie. È evidente che la fede è la difesa dell’umanità. Nella situazione di ignoranza metafisica in cui ci troviamo, e che allo stesso tempo sfocia nell’atrofia morale, la fede si mostra la cosa umana che salva. Il Pontefice, portavoce della fede, difende l’uomo da una morale apparente che minaccia di schiacciarlo». La Fides et ratio rappresentò infine una summa sul tema della verità, che ha contraddistinto il pensiero di Giovanni Paolo II e dello stesso Ratzinger, anche perché quel documento andava al cuore di un serio problema: l’annuncio del messaggio cristiano in quanto verità riconosciuta veniva definito, all’epoca e ancora oggi, come un attacco alla tolleranza e al pluralismo. Proprio qui entra in gioco, sosteneva il cardinale, la dignità umana poiché, «se l’uomo non è capace di arrivare alla verità, allora tutto ciò che pensa e fa è pura convenzione. Se la fede non ha la luce della ragione, si riduce a pura tradizione, e così dichiara la sua profonda arbitrarietà. Ancora una volta si vede che la fede difende l’uomo nella sua realtà di essere umano, e giustamente il Papa ritiene che la fede sia chiamata a incoraggiare la ragione ad avere ancora una volta il coraggio della verità. Senza ragione, la fede viene meno; senza la fede, la ragione rischia di atrofizzarsi». Dietro a ciascuno di questi documenti c’era sempre molto lavoro, che Ratzinger guidava come un vero direttore d’orchestra. Dopo la stesura di un primo schema, si chiedevano commenti e integrazioni a specifici consultori della Congregazione, e spesso anche ad altri teologi particolarmente competenti in una determinata materia. Poi c’era un costante vaglio da parte dei membri cardinali e vescovi, che durante l’incontro della feria quarta offrivano le proprie opinioni. Il prefetto forniva sempre un proprio resoconto per iscritto, in modo che a tutti fosse chiaro il suo giudizio e si ritrovassero nero su bianco anche i costanti avanzamenti della riflessione comune. In Segreteria di Stato, l’allora monsignor Paolo Sardi era incaricato di un controllo stilistico sulla stesura finale, prima che venisse inoltrata a
Giovanni Paolo II. Oltre a formulare delle modifiche di abbellimento, talvolta però interveniva indebitamente sul testo, cosicché fu esplicitamente data indicazione che, quando si trattava di un documento delicato riguardante la dottrina, la Congregazione dovesse venire sempre consultata prima di apportare cambiamenti.
Le certezze della fede Un faro magistrale del binomio Ratzinger-Wojtyła fu certamente la Dichiarazione Dominus Iesus circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, pubblicata nel contesto del grande Giubileo del 2000. All’origine di quel documento c’erano diverse sollecitazioni, da parte di Conferenze episcopali e di singoli vescovi, in favore di un chiarimento dei dubbi, sorti ben prima della celebrazione di quell’Anno santo, riguardo ai rapporti ecumenici e a quelli con le altre religioni. Il testo fu cesellato mediante un accurato studio realizzato da numerosi consultori e la bozza venne ulteriormente migliorata durante gli incontri dei cardinali e vescovi membri della Congregazione, fondando tutto sulla teologia conciliare di Dei Verbum e Lumen gentium. Ratzinger spiegò così il senso e il contenuto di questo documento: «Nel vivace dibattito contemporaneo sul rapporto tra il cristianesimo e le altre religioni, si fa sempre più strada l’idea che tutte le religioni siano per i loro seguaci vie ugualmente valide di salvezza. […] La conseguenza fondamentale di questo modo di pensare e sentire in relazione al centro e al nucleo della fede cristiana è il sostanziale rigetto dell’identificazione della singola figura storica, Gesù di Nazareth, con la realtà stessa di Dio, del Dio vivente. […] Ritenere che vi sia una verità universale, vincolante e valida nella storia stessa, che si compie nella figura di Gesù Cristo ed è trasmessa dalla fede della Chiesa, viene considerato una specie di fondamentalismo che costituirebbe un attentato contro lo spirito moderno e rappresenterebbe una minaccia contro la tolleranza e la libertà». Ribadendo «la stima e il rispetto verso le religioni del mondo, così come per le culture che hanno portato un obiettivo arricchimento alla promozione della dignità dell’uomo e allo sviluppo della civiltà», il cardinale affermò nel contempo con forza che «la convinzione che la pienezza, universalità e
compimento della rivelazione di Dio sono presenti soltanto nella fede cristiana non risiede in una presunta preferenza accordata ai membri della Chiesa, né tanto meno nei risultati storici raggiunti dalla Chiesa nel suo pellegrinaggio terreno, ma nel mistero di Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo, presente nella Chiesa. La pretesa di unicità e universalità salvifica del cristianesimo proviene essenzialmente dal mistero di Gesù Cristo che continua la sua presenza nella Chiesa, suo Corpo e sua Sposa. Perciò la Chiesa si sente impegnata, costitutivamente, nella evangelizzazione dei popoli». Ovviamente le reazioni negative non si fecero attendere. Come sempre più spesso il prefetto ripeteva ironicamente, quasi per “esorcizzare” gli attacchi dai fronti contrapposti, «poiché oggi per i teologi che tengono alla propria fama sembra essere divenuto un dovere dare una valutazione negativa dei documenti della Congregazione per la Dottrina della fede, su questo testo cadde una gragnola di critiche, da cui ben poco riuscì a salvarsi». In quella circostanza, però, ciò che diede più fastidio fu l’accusa al cardinale di aver forzato la mano a Giovanni Paolo II, sostenendo che si era approfittato della stanchezza manifestata dal Pontefice in quei mesi. Fu allora Papa Wojtyła in persona a chiedere – durante un incontro con i cardinali Ratzinger e Re e con l’arcivescovo Bertone – di preparare un sintetico discorso che rendesse esplicita la propria completa approvazione, in modo da poterlo leggere durante l’Angelus domenicale del 1° ottobre 2000. Anche in tale circostanza emerse l’aspetto conciliante e poco polemico del cardinale, che, come rivelò in un’intervista, quando portò il testo al Pontefice, si sentì chiedere se realmente fosse “a tenuta stagna” e non consentisse alcuna interpretazione diversa: «Non intendevo essere troppo brusco, e così cercai di esprimermi con chiarezza ma senza durezza. Dopo averlo letto, il Papa mi chiese ancora una volta: “È veramente chiaro a sufficienza?”. Io risposi di sì. Chi conosce i teologi non si stupirà del fatto che, ciononostante, in seguito ci fu chi sostenne che il Papa aveva prudentemente preso le distanze da quella Dichiarazione!». Fra i compiti più significativi che, su mandato di Giovanni Paolo II, impegnarono a fondo il prefetto c’era già stata la preparazione del Catechismo della Chiesa cattolica, ispirato da una raccomandazione del
Sinodo dei vescovi del 1985 di realizzare una presentazione organica di tutta la dottrina cattolica riguardo sia alla fede che alla morale. Nel luglio del 1986 Papa Wojtyła istituì la commissione di cardinali e vescovi che si sarebbe occupata di realizzare il documento e ne nominò presidente Ratzinger, che per sei anni si immerse in un intenso lavoro, nell’intento di realizzare un testo significativo per la vita corrente dei cristiani. Quando la voluminosa opera fu pubblicata, nell’autunno del 1992, alcune voci critiche lamentarono che la Chiesa aveva voluto dire agli uomini soprattutto cosa non avrebbero dovuto fare, come se fosse unicamente fissata sulla ricerca dei peccati. Il cardinale, pur considerando queste obiezioni del tutto inappropriate e ingenerose, ritenne comunque che in tal modo si stava avviando un interessante dibattito e decise di intervenire personalmente in più occasioni per spiegare innanzitutto che «la questione di cosa, come uomini, dovremmo fare per rendere giusti noi stessi e il mondo è la questione essenziale di ogni tempo; e proprio nel nostro tempo, a fronte di tutte le catastrofi e le minacce e nella ricerca di un’autentica speranza con nuova passione, è vissuta come la questione fondamentale, che riguarda ciascuno di noi». Ratzinger si preoccupava soprattutto di far comprendere che il Catechismo era un testo unitario: «Si leggono in modo sbagliato i passaggi sulla morale se li si stacca dal loro contesto, cioè dalla confessione di fede, dalla dottrina dei sacramenti e della preghiera. L’affermazione fondamentale sull’uomo, infatti, nel Catechismo suona così: l’uomo è creato a immagine di Dio, è a somiglianza di Dio. Tutto ciò che viene detto sulla retta condotta dell’uomo si fonda su questa prospettiva centrale. I dieci comandamenti sono solo un’esposizione delle vie dell’amore e li leggiamo correttamente solo se li sillabiamo insieme con Gesù Cristo». Una decina d’anni più tardi, nel 2002, dal Congresso catechistico internazionale giunse la richiesta di elaborare un compendio del Catechismo, con una formulazione più sintetica dei medesimi contenuti di fede. Ancora una volta, al prefetto venne affidato da Giovanni Paolo II il compito di coordinarne la realizzazione, ma quando, il 20 marzo 2005, Ratzinger firmò l’introduzione al testo, non immaginava che proprio lui, il successivo 28 giugno, lo avrebbe anche ufficialmente presentato da Pontefice.
3
La caduta della scure
La campagna elettorale “a rovescio” Nei primi mesi del 2005, mentre si aggravavano costantemente le condizioni di salute di Giovanni Paolo II, il cardinale Ratzinger si trovò proiettato in primo piano in alcuni eventi pubblici molto significativi. A quel tempo, oltre al ruolo di prefetto della Congregazione più importante nella Curia vaticana, ricopriva anche l’incarico di decano del Collegio cardinalizio: il 30 novembre 2002 era infatti stato eletto dai confratelli al posto del dimissionario cardinale Bernardin Gantin, che al compimento degli ottant’anni aveva deciso di rientrare in Benin. Quando, nella mattinata del 22 febbraio, giunse la notizia della morte di monsignor Luigi Giussani, il cardinale non si aspettava che Giovanni Paolo II gli chiedesse di presiederne i funerali, che si sarebbero svolti dopo due giorni nel Duomo di Milano. Probabilmente all’origine ci fu la consapevolezza del Papa della fraterna amicizia che da decenni legava Ratzinger al fondatore del movimento di Comunione e liberazione. Don Stanislao me lo comunicò telefonicamente e io subito glielo andai a riferire, cosicché il prefetto, quello stesso pomeriggio, lavorò a casa per stendere l’omelia. In realtà, ci fu poi qualche eccesso di protagonismo, poiché il cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo ambrosiano, volle a ogni costo presiedere la celebrazione, mentre l’arcivescovo Stanisław Ryłko, presidente del Pontificio consiglio per i laici, riservò a sé la lettura di una lettera di cordoglio a firma del Pontefice. Ratzinger, con la consueta benevolenza, non si formalizzò, limitandosi a pronunciare la programmata omelia. Di fatto, se si fosse trattato dell’avvio di una campagna elettorale in vista dell’ormai prossimo Conclave, Ratzinger mostrò di volerla svolgere “al contrario”, per convincere gli eventuali supporter ad accantonarlo, piuttosto
che a sostenerlo. Le sue parole, trasmesse in diretta sulla prima rete televisiva della Rai, risultarono una volta ancora l’esplicitazione di un’idea coerente, quasi a dire: «E poi non lamentatevi che non vi avevo chiarito come la penso!». Dopo aver affermato che «il cristianesimo non è un sistema intellettuale, un pacchetto di dogmi, un moralismo, ma un incontro, una storia d’amore, un avvenimento», il cardinale stigmatizzò la tentazione «di trasformare il cristianesimo in un moralismo e il moralismo in una politica, di sostituire il credere con il fare. […] Di questo passo si cade nei particolarismi, si perdono soprattutto i criteri e gli orientamenti, e alla fine non si costruisce, ma si divide». E concluse con una nota di crudo realismo: «Chi crede deve attraversare anche la “valle oscura”, le valli oscure del discernimento, e così anche delle avversità, delle opposizioni, delle contrarietà ideologiche». Appena un mese più tardi, nel Venerdì santo del 25 marzo, i suoi testi vennero letti durante la Via crucis al Colosseo, la tradizionale cerimonia religiosa che quell’anno si svolse tristemente nell’assenza fisica di Giovanni Paolo, che vi assistette tramite la televisione e fu ripreso di spalle mentre abbracciava il crocifisso all’interno della cappella privata nel Palazzo apostolico. Anche in questo caso la decisione era stata presa personalmente dal Papa, e Ratzinger accolse con grande disponibilità il suo desiderio, dedicandosi in maniera intensa alla stesura delle meditazioni e delle preghiere. Non chiese pareri né diede il testo in lettura a qualcuno. Mi ha strappato un sorriso, a tale proposito, l’aneddoto raccontato dal cardinale Angelo Scola nel libro-intervista Ho scommesso sulla libertà: «Ricordo un incontro privato con lui, negli anni Ottanta, durante il quale mi venne spontaneo dargli un suggerimento. Al momento non reagì, ma alla fine della conversazione, prima di congedarmi, mi disse con un tono al tempo stesso bonario e severo: “Caro don Angelo, ricordati che non c’è peggior cosa che dare consigli a chi non te li chiede”». Il triduo pasquale è sempre stato un tempo liturgico percepito e vissuto molto intensamente dal cardinale, che amava ricordare di essere nato proprio in un Sabato santo, il 16 aprile 1927: «Al Venerdì santo, il nostro sguardo rimane sempre puntato sul Crocifisso; il Sabato santo, invece, è il giorno della “morte di Dio”, il giorno che esprime e anticipa l’inaudita esperienza del nostro tempo; la sensazione che Dio è semplicemente
assente, che la tomba lo ricopre, che egli non è più desto, non parla più, sicché non c’è più nemmeno bisogno di contestarne l’esistenza, ma si può tranquillamente farne a meno», scrisse nella sua celebre Introduzione al cristianesimo. E commentando i dipinti di William Congdon, nel volume Il Sabato della storia, narrò di aver compreso sin dalla giovinezza che «il messaggio del giorno in cui venni al mondo aveva un legame particolare con la liturgia della Chiesa; e la mia vita era fin dall’inizio orientata a questo singolare intreccio di oscurità e di luce, di dolore e di speranza, di nascondimento e di presenza di Dio». Le affermazioni di quella Via crucis rappresentano una “fotografia” del pensiero di Ratzinger, anche come risposta alle sfide dell’attualità di quel momento. Ovviamente l’attenzione dei mass media si focalizzò su alcune specifiche tematiche, però ancora oggi l’intero testo merita di essere riletto e approfondito. Era una riflessione estremamente ampia, che certamente non aveva come obiettivo quello di togliersi qualche sassolino dalle scarpe o di tracciare bilanci in chiaroscuro. E nel contempo non si trattava di parole “ecclesiasticamente corrette”, visto il polverone che alzarono dentro e fuori la Chiesa. Di fatto, il maggior scalpore lo suscitò la meditazione della nona stazione, quella sulla terza caduta di Gesù: «Non dobbiamo pensare anche a quanto Cristo debba soffrire nella sua stessa Chiesa? A quante volte si abusa del santo sacramento della sua presenza, in quale vuoto e cattiveria del cuore spesso egli entra! Quante volte celebriamo soltanto noi stessi senza neanche renderci conto di Lui! Quante volte la sua Parola viene distorta e abusata! Quanta poca fede c’è in tante teorie, quante parole vuote! Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Lui!». Fu un’esternazione del cuore, che anticipò con le parole tutte le azioni da lui poi intraprese durante il pontificato. Ma altri brani risultano un preciso giudizio, per stimolare una adeguata risposta da parte della comunità ecclesiale: «Possiamo pensare, nella storia più recente, anche a come la cristianità, stancatasi della fede, abbia abbandonato il Signore: le grandi ideologie, come la banalizzazione dell’uomo che non crede più a nulla e si lascia semplicemente andare, hanno costruito un nuovo paganesimo, un paganesimo peggiore, che volendo accantonare definitivamente Dio, è finito per sbarazzarsi
dell’uomo»; «Sentire Gesù, mentre rimprovera le donne di Gerusalemme che lo seguono e piangono su di lui, ci fa riflettere. Non è forse un rimprovero rivolto a una pietà puramente sentimentale, che non diventa conversione e fede vissuta? Non serve compiangere a parole, e sentimentalmente, le sofferenze di questo mondo, mentre la nostra vita continua come sempre. Per questo il Signore ci avverte del pericolo in cui noi stessi siamo. Ci mostra la serietà del peccato e la serietà del giudizio»; sino all’accorato appello conclusivo: «Signore Gesù Cristo, ti sei fatto inchiodare sulla croce, accettando la terribile crudeltà di questo dolore, la distruzione del tuo corpo e della tua dignità. Ti sei fatto inchiodare, hai sofferto senza fughe e senza compromessi. Aiutaci a non fuggire di fronte a ciò che siamo chiamati ad adempiere. Aiutaci a farci legare strettamente a te. Aiutaci a smascherare quella falsa libertà che ci vuole allontanare da te. Aiutaci ad accettare la tua libertà “legata” e a trovare nello stretto legame con te la vera libertà». Comunque, Ratzinger era da sempre estremamente disincantato riguardo alla prospettiva di un Conclave. Al vaticanista del Tg1 Giuseppe De Carli, che nel 2004 lo stuzzicò dicendogli che aveva già preso parte a due elezioni e forse se ne sarebbe aggiunta una terza, reagì icasticamente: «Se sarò ancora vivo!». Nel 1997, interpellato dalla televisione bavarese sulla responsabilità dello Spirito Santo nell’elezione del Papa, aveva chiarito: «Lo Spirito non prende propriamente controllo della situazione, ma piuttosto, come un buon educatore, ci lascia molto spazio, molta libertà, senza abbandonarci completamente. Pertanto, il ruolo dello Spirito dovrebbe essere inteso in senso molto più elastico, e non come se dettasse il candidato per il quale votare. Probabilmente l’unica sicurezza che offre è che non si possa rovinare tutto. Ci sono troppi esempi di Papi che evidentemente lo Spirito Santo non avrebbe scelto…».
La sfida lanciata a Subiaco Come decano del Collegio cardinalizio, Ratzinger veniva tenuto costantemente al corrente del peggioramento delle condizioni di salute di Giovanni Paolo II. Subito dopo Pasqua la situazione fu sostanzialmente considerata irreversibile, perciò mi chiese di sfoltire l’agenda dagli impegni
che potevano essere cancellati o rimandati. L’unico dubbio riguardò un appuntamento fuori Roma che già da tempo aveva concordato per il 1° aprile a Subiaco, nel monastero di Santa Scolastica, per ricevere il Premio San Benedetto “per la promozione della vita e della famiglia in Europa” e pronunciare una conferenza sul tema “L’Europa nella crisi delle culture”. Ratzinger ne parlò con il cardinale Angelo Sodano, segretario di Stato, il quale gli consigliò di andare, in modo da non suscitare quegli interrogativi che sarebbero immediatamente sorti sulla stampa nel caso di una sua disdetta. Nel contempo concordò che ci sarebbe stato un filo diretto telefonico tra me e monsignor Piero Pioppo, il segretario personale di Sodano, in modo da poter ricevere un aggiornamento se fosse successo qualcosa di importante. Fu una conferenza molto articolata e le parole del cardinale risultarono ancor più significative col senno di poi. In particolare affermò che «ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno in questo momento della storia sono uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile in questo mondo. La testimonianza negativa di cristiani che parlavano di Dio e vivevano contro di Lui, ha oscurato l’immagine di Dio e ha aperto la porta all’incredulità. Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità. Abbiamo bisogno di uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto possa parlare all’intelletto degli altri e il loro cuore possa aprire il cuore degli altri. Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini». In quel tempo Ratzinger rifletteva molto sulla situazione dell’Europa e in particolare lamentava lo sviluppo di «una cultura che, in un modo sconosciuto prima d’ora all’umanità, esclude Dio dalla coscienza pubblica, sia che venga negato del tutto, sia che la sua esistenza venga giudicata non dimostrabile, incerta, e dunque appartenente all’ambito delle scelte soggettive, un qualcosa comunque irrilevante per la vita pubblica». In particolare era rimasto colpito dal dibattito sul preambolo della Costituzione europea, durante il quale si era messa in luce una contrapposizione di giudizi sul riferimento esplicito a Dio e sulla menzione delle radici cristiane del continente: «Le motivazioni per questo duplice “no” sono più profonde di quel che lasciano pensare le motivazioni avanzate. Presuppongono l’idea che soltanto la cultura illuminista radicale,
la quale ha raggiunto il suo pieno sviluppo nel nostro tempo, potrebbe essere costitutiva per l’identità europea», annotò con amarezza. Con la lucidità che sempre lo contraddistinse, esplicitò che «la contrapposizione che caratterizza il mondo di oggi non è quella tra diverse culture religiose, ma quella tra la radicale emancipazione dell’uomo da Dio, dalle radici della vita, da una parte, e le grandi culture religiose dall’altra. Se si arriverà a uno scontro delle culture, non sarà per lo scontro delle grandi religioni – da sempre in lotta le une contro le altre ma che, alla fine, hanno anche sempre saputo vivere le une con le altre –, ma sarà per lo scontro tra questa radicale emancipazione dell’uomo e le grandi culture storiche». Di qui un’intrigante proposta che, come un sasso nello stagno dell’indifferenza che gli sembrava di cogliere, lanciò in particolare ai laici: «Nell’epoca dell’illuminismo si è tentato di intendere e definire le norme morali essenziali dicendo che esse sarebbero valide etsi Deus non daretur, anche nel caso che Dio non esistesse. Il tentativo, portato all’estremo, di plasmare le cose umane facendo completamente a meno di Dio ci conduce sempre di più sull’orlo dell’abisso, verso l’accantonamento totale dell’uomo. Dovremmo, allora, capovolgere l’assioma degli illuministi e dire: anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita veluti si Deus daretur, come se Dio ci fosse». Un messaggio che nel corso del pontificato ha più volte ripreso e approfondito. Durante l’incontro mi ero sistemato in una posizione strategicamente laterale, con il cellulare impostato sulla vibrazione. Ed effettivamente, quando mancava poco alla conclusione del discorso, Pioppo mi informò di un ulteriore aggravamento del Pontefice e suggerì di tornare in serata a Roma, piuttosto che restare anche per la Messa della mattina successiva. In genere, quando rientravamo in auto da un viaggio, con il cardinale commentavamo com’era andato il convegno: quella sera invece lui si chiuse nei suoi pensieri, cosicché l’autista e io restammo in un rispettoso silenzio. Il giorno seguente andai a lavorare come al solito in Congregazione e a metà mattinata mi telefonò don Mietek, chiedendo di passargli il cardinale. Poi l’ho visto andar via di corsa e ho immaginato che si recasse nell’Appartamento papale. Nel pomeriggio di quel sabato 2 aprile non l’ho più visto né sentito. A quel tempo abitavo a Santa Marta e durante la cena,
intorno alle 20.30, ho notato che un monsignore polacco della Segreteria di Stato si stava alzando con aria preoccupata, senza finire di mangiare. In quel momento ho compreso che davvero Giovanni Paolo II era agli sgoccioli. Sono subito andato in piazza San Pietro e lì ho ascoltato l’annuncio della morte del Pontefice. Poi sono rimasto fino a tarda sera a pregare insieme con le decine di migliaia di persone che via via si erano radunate sotto la finestra dalla quale eravamo abituati a vedersi affacciare Papa Wojtyła. Con Ratzinger ci siamo sentiti telefonicamente domenica mattina e mi ha raccontato che il giorno precedente era stato convocato al capezzale di Giovanni Paolo II per riceverne un’ultima benedizione. Durante il periodo della Sede vacante tutti i capi dei dicasteri vaticani cessavano dall’incarico, cosicché mi confermò che non sarebbe più venuto in ufficio e mi chiese di “fargli da postino”, prelevando a casa sua le lettere da spedire e portandogli la corrispondenza in arrivo. Perciò andavo almeno un paio di volte al giorno nell’appartamento al quarto piano di piazza della Città Leonina 1, proprio di fianco al colonnato di destra, dove abitava sin dall’arrivo a Roma. Come decano, il primo suo compito fu quello previsto dalla costituzione apostolica di Giovanni Paolo II Universi Dominici gregis di comunicare ufficialmente la notizia della morte del Papa a tutti i cardinali, convocandoli nel contempo per le Congregazioni del Collegio, al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede e ai capi supremi delle rispettive nazioni, invitandoli ai funerali. Suoi stretti collaboratori erano l’arcivescovo Francesco Monterisi, segretario del Sacro Collegio, e il suo vice, monsignor Michele Castoro. Informalmente, come segretario del cardinale, mi trovai a fare da trait d’union fra loro e Ratzinger. In vista dei funerali, il cardinale si mise subito al lavoro per stendere l’omelia delle esequie. La commozione che aveva pervaso il mondo intero, mostrata plasticamente dall’interminabile fila di persone che erano giunte da ogni angolo del globo per poter rendere omaggio al Pontefice che aveva condotto la Chiesa nel terzo millennio (a un certo punto la lunghezza era di 5 chilometri, con un tempo di attesa di 24 ore per entrare nella Basilica vaticana), lo aveva colpito nell’intimo e l’aveva reso consapevole della necessità di scrivere quel testo con la mente, ma ancor più con il cuore. Dopo qualche giorno mi consegnò alcune pagine, che lui aveva vergato a matita ed erano poi state scritte al computer da suor Birgit Wansing
(familiarmente chiamata anche suor Brigida), spiegandomi che aveva preferito redigere l’omelia in tedesco per poter formulare correttamente i propri pensieri. A tradurla in italiano provvide, come di consueto, monsignor Damiano Marzotto Caotorta, all’epoca capoufficio nella Congregazione per la Dottrina della fede.
Una benedizione dal paradiso In quella mattinata dell’8 aprile confluirono a Roma più di un milione di pellegrini, mentre centinaia di milioni di spettatori di 81 nazioni poterono assistere in diretta alla trasmissione di 137 reti televisive. Ben 169 furono le delegazioni straniere presenti al rito (con, in particolare, 10 sovrani e 59 capi di Stato), mentre a livello religioso c’erano le rappresentanze di 23 Chiese ortodosse, di 8 Comunioni occidentali, di 3 organizzazioni cristiane internazionali, di 17 religioni non cristiane, insieme con vari esponenti dell’ebraismo. Mentre i cardinali raggiungevano in processione l’altare, le raffiche di vento toccarono eccezionalmente i 78 chilometri orari, una velocità mai più superata in quell’intero anno a Roma, e furono capaci di sollevare in un turbinio i paramenti dei concelebranti e di scompigliare le pagine dell’evangeliario poggiato sulla bara di Giovanni Paolo II. Un vero e proprio “soffio dello Spirito”, fu la definizione di molti. Il cardinale Ratzinger cesellò l’omelia tracciando un rapido ritratto biografico di Karol Wojtyła sulla filigrana dell’invito “Seguimi!”, fatto da Gesù a Pietro: «Questa parola lapidaria di Cristo può essere considerata la chiave per comprendere il messaggio che viene dalla vita del nostro compianto e amato Papa Giovanni Paolo II, le cui spoglie deponiamo oggi nella terra come seme di immortalità, con il cuore pieno di tristezza, ma anche di gioiosa speranza e di profonda gratitudine. […] Nel primo periodo del suo pontificato il Santo Padre, ancora giovane e pieno di forze, sotto la guida di Cristo andava fino ai confini del mondo. Ma poi sempre più è entrato nella comunione delle sofferenze di Cristo, sempre più ha compreso la verità delle parole: “Un altro ti cingerà…”. E proprio in questa comunione col Signore sofferente ha instancabilmente e con rinnovata intensità annunciato il Vangelo, il mistero dell’amore che va fino alla fine».
Poi concluse con un afflato lirico, inusuale per il suo stile, ma in quel momento vissuto intensamente, che stimolò le più profonde corde della commozione in tutti i presenti: «Rimane indimenticabile come in questa ultima domenica di Pasqua della sua vita, il Santo Padre, segnato dalla sofferenza, si è affacciato ancora una volta alla finestra del Palazzo apostolico e un’ultima volta ha dato la benedizione “Urbi et Orbi”. Possiamo essere sicuri che il nostro amato Papa sta adesso alla finestra della casa del Padre, ci vede e ci benedice. Sì, ci benedica, Santo Padre. Noi affidiamo la tua cara anima alla Madre di Dio, tua Madre, che ti ha guidato ogni giorno e ti guiderà adesso alla gloria eterna del Suo Figlio, Gesù Cristo nostro Signore». Il 14 aprile, secondo quanto prescritto dalla normativa sul Conclave, il cappuccino Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa pontificia, propose la prima delle due meditazioni «circa i problemi della Chiesa e la scelta illuminata del nuovo Pontefice». A questo appuntamento nell’aula nuova del Sinodo poterono assistere tutti i componenti del Collegio cardinalizio, compresi gli ultraottantenni, mentre al secondo, il 18 aprile nella Cappella Sistina con il cardinale Tomáš Špidlík, furono presenti unicamente i conclavisti votanti. Ampi stralci della riflessione di padre Cantalamessa vennero riportati sulla stampa dell’epoca e, alla luce della successiva elezione di Ratzinger, mi sembrarono molto interessanti, poiché mettevano in luce aspetti strettamente legati alle idee e al Magistero del cardinale. Addirittura qualche commentatore lo definì il “lodo Cantalamessa”, caricandolo quasi della responsabilità di aver descritto un identikit del nuovo Papa. Resta il fatto, evidente per chi avesse all’epoca buona conoscenza del pensiero del prefetto della Dottrina della fede, che a diversi punti sottolineati da Cantalamessa poteva essere agganciata una precisa riflessione del teologo Ratzinger, come in estrema sintesi provo a proporre di seguito offrendo in uno sguardo sinottico cinque esempi, con le affermazioni del cappuccino affiancate da testi dell’allora cardinale: «La Chiesa deve concentrare sempre più gli sforzi per creare un’alternativa reale al mondo con una comunità, magari minoritaria, ma che ha scoperto “la legge dello Spirito che dà la vita in Cristo”.»
«Ci sono oggi dei cristiani “tagliati fuori”, che si pongono fuori da questo strano consenso dell’esistenza moderna, che tentano nuove forme di vita; essi, indubbiamente, non richiamano particolare attenzione a livello dell’opinione pubblica, ma fanno qualcosa che davvero indica il futuro.» (Il sale della terra, 1997) «Ogni iniziativa pastorale, ogni missione, ogni impresa religiosa, anche il Conclave può essere Babele o Pentecoste. È Babele se uno vi cerca la propria affermazione, di farsi un nome; è Pentecoste se cerca la gloria di Dio e l’avvento del Suo Regno.» Già quando, dopo la morte dell’arcivescovo di Monaco nel 1976, si diffusero voci che lui ne sarebbe stato il successore, la sua posizione fu che «non potevo prenderle molto sul serio, dato che i limiti della mia salute erano altrettanto noti come la mia estraneità a compiti di governo e di amministrazione: mi sentivo chiamato a una vita di studioso e non avevo mai avuto in mente niente di diverso.» (La mia vita, 1997) «La Lumen gentium ha riportato i carismi nel cuore della Chiesa. Il Signore sembra aver voluto confermare questa decisione del Concilio perché dopo di esso abbiamo assistito a un vasto risveglio di carismi nella Chiesa.» «Ecco, all’improvviso, qualcosa che nessuno aveva progettato. Ecco che lo Spirito Santo aveva chiesto di nuovo la parola. E in giovani uomini e donne risbocciava la fede, senza “se” né “ma”, senza sotterfugi né scappatoie, vissuta nella sua integralità come dono, come un regalo prezioso che fa vivere.» (I movimenti ecclesiali e la loro collocazione teologica, 1998) «Alcuni credono che sia possibile, anzi necessario, rinunciare oggi alla tesi dell’unicità di Cristo per favorire il dialogo tra le varie religioni. Ora, proclamare Gesù Signore significa proprio proclamare la sua unicità. La grande sfida che deve affrontare il cristianesimo oggi, e in primo luogo il Papa, è di coniugare la più leale e convinta partecipazione al dialogo
interreligioso con una fede indiscussa sul significato salvifico universale di Gesù Cristo.» «Ritenere che vi sia una verità universale, vincolante e valida nella storia stessa, che si compie nella figura di Gesù Cristo ed è trasmessa dalla fede della Chiesa, viene considerato una specie di fondamentalismo che costituirebbe un attentato contro lo spirito moderno e rappresenterebbe una minaccia contro la tolleranza e la libertà. […] La stima e il rispetto verso le religioni del mondo, così come per le culture che hanno portato un obiettivo arricchimento alla promozione della dignità dell’uomo e allo sviluppo della civiltà, non diminuisce l’originalità e l’unicità della rivelazione di Gesù Cristo e non limita in alcun modo il compito missionario della Chiesa.» (Presentazione della dichiarazione “Dominus Iesus”, 2000) «La formula canonica attuale del rapporto fra il Papa e i vescovi è cum Petro et sub Petro. Finora è stato accentuato soprattutto il sub Petro. I tempi sono forse maturi per ridare tutto il suo significato al cum Petro. Si tratta di creare organismi opportuni per attuare questo, che non potranno ispirarsi più rigidamente a vecchie ripartizioni dell’orbe cattolico. Non possiamo più ragionare in termini di antichi patriarcati.» «Il primato del vescovo di Roma, nel suo senso originario, non si oppone alla Costituzione collegiale della Chiesa, ma si tratta di un primato di comunione che si colloca all’interno di una Chiesa che vive e si comprende come comunità comunionale. Questa istanza autorevole della collegialità dei vescovi non esiste per una mera utilità umana (anche se questa la richiede), ma perché il Signore stesso, accanto e con il ministero dei Dodici, ha istituito il ministero speciale dell’ufficio petrino. […] Sono sempre più in dubbio che questa (dei patriarcati, N.d.A.) possa essere la forma organizzativa adeguata a raggruppare grosse unità continentali.» (Il nuovo popolo di Dio, 1971 - Dio e il mondo, 2001)
Gli effimeri pronostici
Sarà che “nemo propheta in patria”, sarà che ci ha fatto velo la certezza della volontà di Ratzinger di tornare alla tranquillità dei suoi amati studi teologici, ma devo confessare che in Congregazione non gli accreditavamo grandi possibilità nella successione a Giovanni Paolo II. Indubbiamente lo consideravamo un candidato autorevole per le prime votazioni, al quale certamente avrebbero guardato diversi cardinali che ne avevano ben conosciuto le doti. Non pensavamo però che il suo nome avrebbe retto a lungo nel susseguirsi degli scrutini, a causa dell’ostilità che immaginavamo da parte di quanti non ne avevano mai apprezzato la coerenza del pensiero e la fermezza delle posizioni teologiche. Ancor più eravamo certi che non si sarebbe nemmeno curato di ritagliarsi il ruolo del “popemaker”, che nel secondo Conclave del 1978 aveva caratterizzato l’austriaco Franz König, l’ispiratore dell’elezione di Karol Wojtyła. Non era mai stato negli interessi di Ratzinger partecipare a cordate curiali, poiché riteneva che in questo modo avrebbe perso la propria libertà; ancor meno capeggiarne una, come pure talvolta qualche confratello gli aveva, più o meno allusivamente, sollecitato. E pure quando si era spinto a caldeggiare qualche nomina, lo aveva fatto con discrezione e senza sforzarsi nel creare consenso attorno alla propria proposta, limitandosi a segnalare la figura che riteneva più adatta a uno specifico compito. Che anche lui fosse del tutto inconsapevole di ciò che si stava preparando, lo documentarono diversi episodi di quei giorni. Per esempio, ricordo bene quando monsignor Bruno Forte, il vescovo di Chieti-Vasto, venne a portargli il libro sul Volto santo di Manoppello appena pubblicato da «Famiglia Cristiana» e lo invitò a visitare il santuario: Ratzinger gli assicurò che lo avrebbe fatto subito dopo il Conclave, mentre poi, per mantenere la promessa, dovette attendere il 1° settembre 2006. E ancora il 16 aprile 2005, nel giorno del suo 78° compleanno, ribadì ai collaboratori della Congregazione che stava ormai pregustando il tanto a lungo atteso giorno del pensionamento. A mia discolpa, potrei comunque dire di essere stato in buona compagnia, visto che anche i diplomatici statunitensi dell’ambasciata romana di via Veneto, secondo uno dei cablogrammi resi pubblici nel database di Wikileaks, affermavano che il prefetto della Dottrina della fede «non ha il supporto per ottenere i due terzi dei voti necessari, data la forte
opposizione delle fazioni che lo considerano troppo rigido e geloso delle prerogative di Roma»! Ripensando ai giorni del pre-Conclave, ho ancora negli occhi una rubrica del «Corriere della Sera» intitolata Il borsino dei vaticanisti. Sono andato in archivio per rinfrescarmi la memoria e sono rimasto colpito, a distanza di quasi vent’anni, nel rendermi nuovamente conto di quanto effettivamente anche la valutazione dei giornalisti fosse incerta riguardo al nome su cui puntare. Lunedì 4 aprile, subito dopo la morte di Giovanni Paolo II, il titolo era: «Occhi puntati su Tettamanzi, l’italiano, e Arinze, l’outsider nero»; il giorno successivo: «Arinze in testa, sale la stella di Maradiaga»; il 6 aprile compare per la prima volta il prefetto: «Salgono Ratzinger e le quotazioni dei sudamericani». Poi svanisce per una settimana, fin quando il 13 e il 14 viene citato come “il decano” («Occhi puntati sul decano. Cresce Sodano» e «Una corsa a due tra il decano e un progressista»), salvo cambiare radicalmente idea il giorno seguente: «Un patto italiano (senza Ruini) contro Ratzinger», per poi rispuntare soltanto il giorno dell’ingresso nella Sistina: «Il decano favorito. E spunta Sodano come terzo polo». Rievocammo quel concitato periodo con l’attuale direttore del «Corriere» Luciano Fontana (all’epoca era vicedirettore di Paolo Mieli) e con l’editorialista Massimo Franco quando vennero, il 27 febbraio 2021, a trovare il Papa emerito nel monastero “Mater Ecclesiae” con il dono di due caricature del disegnatore Emilio Giannelli: nella prima, abbraccia simbolicamente una piazza San Pietro gremita di fedeli; nell’altra, consegna a Francesco le chiavi della Chiesa dicendogli: «Mi raccomando…». Durante la cena di quella sera, commentando l’incontro, Benedetto XVI ripensò divertito alla vignetta che Giannelli aveva pubblicato sulla prima pagina del quotidiano milanese il 20 aprile 2005, dove il neoeletto Pontefice si rivolgeva alla folla in piazza San Pietro e scandiva, con l’indice della mano destra alzato a mo’ di ammonimento: «E se sbaglio, guai se mi correggerete!». E la sua ilarità contagiò immediatamente me e le Memores… Successivamente ebbe la responsabilità di presiedere, fra il 4 e il 16 aprile, i dodici incontri delle Congregazioni generali dei cardinali e di convocare tutti gli elettori, i cardinali di età inferiore agli ottant’anni, al Conclave per l’elezione del nuovo Pontefice, che si sarebbe aperto il 18
aprile. Nell’ufficio alla Dottrina della fede mi veniva recapitata dalla Segreteria di Stato tutta la corrispondenza da inoltrare al cardinale per la firma, una mole di lettere impressionante. Lui lavorava a casa, leggeva, studiava. L’arcivescovo Angelo Amato, il segretario della Congregazione, provvedeva invece all’ordinaria amministrazione, decidendo che cosa inoltrargli e di cosa occuparsi invece direttamente lui. Avevamo preso l’abitudine che ogni mattina andavo ad attenderlo in auto sotto casa, per accompagnarlo poi all’aula del Sinodo ed evitare così la ressa dei giornalisti che cercavano di strappargli qualche dichiarazione. Lui in quei giorni si sottrasse a ogni contatto non necessario. Non so con certezza se abbia ricevuto visite, mi sembrava indelicato chiederglielo, ma l’idea che mi sono fatta è che non incontrò privatamente confratelli cardinali né partecipò a momenti conviviali di consultazione. Anzi annullò ogni appuntamento che aveva in calendario, indicandomi di cancellarli anche dalla mia agenda-specchio. Qualche giorno prima dell’inizio del Conclave, il cardinale mi disse che desiderava lo accompagnassi come assistente, secondo quanto previsto dalla n. 46 della Universi Dominici gregis: «Per venire incontro alle necessità personali e d’ufficio connesse con lo svolgimento dell’elezione, dovranno essere disponibili e quindi convenientemente alloggiati in locali adatti […] un ecclesiastico scelto dal cardinale decano, perché lo assista nel proprio ufficio». Nel pomeriggio di domenica 17 aprile sono andato perciò a prenderlo sotto casa con la mia Golf e l’ho accompagnato a Santa Marta, dove avrebbero alloggiato i cardinali partecipanti al Conclave, poi ho parcheggiato l’auto in garage e quindi sono rientrato in una stanza diversa da quella che occupavo normalmente, che si trovava al quarto piano, mentre adesso ero al quinto. Non avrei avuto un compito preciso: perciò mi limitai a dirgli che avrei badato a non intromettermi di mia iniziativa, e che quindi mi chiamasse lui ogni qualvolta potesse avere bisogno. Nella sala per i pasti c’erano diversi tavoli da otto posti, dove i cardinali potevano sedersi casualmente, intrecciando le conversazioni come meglio desideravano. Noi collaboratori – i cerimonieri, i confessori, il personale sanitario – eravamo sistemati invece in un tavolo lungo, di lato. Potevamo osservare cosa accadeva, ma era difficile udire qualcosa, poiché il brusio di 130 persone in diverse lingue risultava davvero “una Babele”…
Se ci fosse stato il minimo dubbio sulla volontà di Ratzinger di tirarsi fuori dalla “corsa al pontificato”, l’omelia che pronunciò durante la Messa “pro eligendo Romano Pontifice”, nella mattinata del 18 aprile, tranciò radicalmente qualsiasi idea. La fermezza delle convinzioni espresse e la forte riproposizione dei propri “cavalli di battaglia” lo avevano reso sicuro che un significativo numero di confratelli si sarebbe adoperato per evitare la sua elezione. Bastavano infatti 39 voti in quel Conclave, dei 115 totali nella circostanza, per organizzare un “blocco” che avrebbe impedito il raggiungimento dei due terzi dei voti necessari per la maggioranza richiesta. In particolare, un paragrafo del testo fu quello sul quale tutti i mass media si fiondarono per commentare «il manifesto di Joseph», come lo definì Aldo Cazzullo sulla prima pagina del «Corriere della Sera» del mattino seguente. Scandì Ratzinger, nel suo ultimo discorso da cardinale: «Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie. Noi, invece, abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. È lui la misura del vero umanesimo. “Adulta” non è una fede che segue le onde della moda e l’ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo».
Quel maglione nero Durante le due prime tornate del Conclave, nel pomeriggio del 18 e nella mattinata del 19, non ebbi compiti particolari da svolgere. Mi tenevo a distanza di sguardo dal cardinale, che però non ebbe mai bisogno di me. Il tempo lo trascorrevo pregando, leggendo e scambiando qualche parola con il medico papale, Renato Buzzonetti, e con qualche cerimoniere pontificio. Nella cena del 18 notai una certa agitazione tra i cardinali: probabilmente il primo scrutinio aveva suscitato la consapevolezza dell’importante compito cui erano chiamati. Nel pranzo del 19 mi sembrò invece che il clima generale fosse divenuto più rilassato. Però
inaspettatamente, mentre si avviava all’ascensore per rientrare in stanza, Ratzinger mi chiese la disponibilità ad accompagnarlo a piedi verso la Cappella Sistina (in precedenza aveva sempre utilizzato il minibus), e ovviamente io risposi di sì. La prima votazione pomeridiana era fissata per le ore 16, così mi diede appuntamento nell’atrio d’ingresso di Santa Marta alle 15.30. Il tempo era incerto, e quando ci avviammo lungo via delle Fondamenta, che costeggia il lato posteriore della basilica di San Pietro ed è un punto sempre un po’ ventoso, ricordo di essere rabbrividito per l’aria fresca. Il cardinale mi aveva detto di aver avuto freddo al mattino nella Sistina, per cui si era messo un maglione sotto la talare porpora e la cotta bianca previste dal cerimoniale. Era molto pensieroso e mostrava chiaramente di non aver voglia di parlare, così io mi limitai a camminare al suo fianco, osservandolo di sottecchi e pregando per lui. A livello psicologico, è stata la passeggiata più lunga e faticosa della mia vita. Intuivo di stare vivendo un momento storico e quasi drammatico, con Ratzinger che mi dava l’impressione di camminare verso un burrone. Nei dintorni non c’era praticamente nessuno, tranne le guardie svizzere e i gendarmi che controllavano i varchi d’accesso sigillati per il Conclave. Abbiamo attraversato i cortili che conducono all’ascensore di San Damaso, siamo saliti alla Prima loggia e l’ho accompagnato fino all’aula delle Benedizioni, dove i cardinali dovevano radunarsi prima di avviarsi verso la Sistina. Poi ho raggiunto il dottor Buzzonetti e con lui ho trascorso un po’ di tempo, spostandoci lentamente attraverso la sala Ducale, la sala Regia e l’aula delle Benedizioni, dove sostavano alcuni cerimonieri, confessori e infermieri. Per far passare quegli interminabili minuti mi ero portato qualche libro e alcuni fogli d’appunti, e mi venne naturale rileggere le parole che il cardinale aveva pronunciato nel 2003, presentando il Trittico romano di Giovanni Paolo II: «La contemplazione del Giudizio universale, nell’epilogo della seconda tavola, è forse la parte che commuove di più il lettore. Dagli occhi interiori del Papa emerge nuovamente il ricordo dei Conclavi dell’agosto e dell’ottobre 1978. Poiché anch’io ero presente, so bene come eravamo esposti a quelle immagini nelle ore della grande decisione, come esse ci interpellavano; come insinuavano nella nostra
anima la grandezza della responsabilità. Il Papa parla ai cardinali del futuro Conclave “dopo la mia morte” e dice che a loro parli la visione di Michelangelo. La parola Conclave gli impone il pensiero delle chiavi, dell’eredità delle chiavi lasciate a Pietro. Porre queste chiavi nelle mani giuste: è questa l’immensa responsabilità in quei giorni». Pensai che in quel momento tutto ciò stava accadendo in tempo reale, a pochi metri da me… D’improvviso, intorno alle 17.15, nel silenzio ovattato di quelle ampie sale, abbiamo udito un leggero applauso, che non è durato a lungo. Ci siamo guardati l’un l’altro e tutti abbiamo compreso che il Papa doveva essere stato eletto. L’attesa però è durata ancora poiché, ho rapidamente focalizzato, quel primo battimani era risuonato al raggiungimento dei 77 voti necessari per l’elezione, ma poi lo spoglio delle schede era andato avanti, con i successivi adempimenti delle verifiche procedurali e dell’accettazione da parte dell’eletto. Una ventina di minuti più tardi, quando nella Cappella Sistina risuonò un secondo applauso, fummo finalmente certi che tutto si era concluso. Difatti, dopo un po’, udimmo il rumore del chiavistello e vedemmo spuntare Attilio Nicora (era l’ultimo in ordine di precedenza tra i cardinali diaconi e dunque gli spettava il compito di aprire e chiudere le porte della Sistina), che ci lasciò ancora con il fiato sospeso poiché si limitò a confermare l’elezione del Papa, senza però rivelarne il nome. Come in un flash, in quell’attimo mi venne in mente l’immagine del maglione nero che Ratzinger aveva indossato sotto la talare. Raggiunsi subito monsignor Francesco Camaldo, che era il decano dei cerimonieri e anche il suo personale, e gli dissi: «Se il nuovo Papa è Ratzinger, per favore assicurati che il maestro delle Celebrazioni liturgiche pontificie (l’arcivescovo Piero Marini, n.d.A.) gli faccia togliere il maglione o almeno gli rimbocchi le maniche». Lui mi assicurò che avrebbe provveduto, ma purtroppo, nella concitazione dei successivi momenti, se ne dimenticò. E così, più tardi, durante la benedizione dalla Loggia del novello Pontefice, sotto i suoi paramenti apparvero quelle maniche nere che, in diretta televisiva, fecero il giro del mondo. La fibrillazione salì alle stelle. Sotto il Giudizio universale si scorgeva una figura bianca seduta su un tronetto, ma il compatto blocco dei cardinali che sfilavano per fare l’atto di obbedienza al Santo Padre impediva di vedere bene chi fosse. Pian piano ha cominciato a diffondersi il bisbiglio
«Ratzinger, Ratzinger, Ratzinger… Benedetto, Benedetto, Benedetto…» e tutto mi si è improvvisamente come appannato davanti agli occhi per un misto di commozione e di apprensione. Quando percepii il nome Benedetto, per me fu immediato il riferimento al santo di Norcia, ben più di quello al Pontefice suo predecessore di inizio Novecento. Proprio pochi giorni prima a Subiaco, Ratzinger aveva affermato: «Abbiamo bisogno di uomini come Benedetto da Norcia il quale, in un tempo di dissipazione e di decadenza, si sprofondò nella solitudine più estrema, riuscendo, dopo tutte le purificazioni che dovette subire, a risalire alla luce, a ritornare e a fondare a Montecassino, la città sul monte che, con tante rovine, mise insieme le forze dalle quali si formò un mondo nuovo». Lui stesso, nella prima Udienza generale del 27 aprile, dettaglierà quella scelta fondendo le due figure: «Ho voluto chiamarmi Benedetto XVI per riallacciarmi idealmente al venerato Pontefice Benedetto XV, che ha guidato la Chiesa in un periodo travagliato a causa del primo conflitto mondiale. Sulle sue orme desidero porre il mio ministero a servizio della riconciliazione e dell’armonia tra gli uomini e i popoli, profondamente convinto che il grande bene della pace è innanzitutto dono di Dio, dono purtroppo fragile e prezioso da invocare, tutelare e costruire giorno dopo giorno con l’apporto di tutti. Il nome Benedetto evoca, inoltre, la straordinaria figura del grande “patriarca del monachesimo occidentale”, san Benedetto da Norcia, compatrono d’Europa [che] costituisce un fondamentale punto di riferimento per l’unità dell’Europa e un forte richiamo alle irrinunciabili radici cristiane della sua cultura e della sua civiltà». Nel frattempo erano giunti dalla Segreteria di Stato il sostituto Leonardo Sandri e il segretario Giovanni Lajolo, insieme con il prefetto della Casa pontificia James Michael Harvey, che si aggiunsero alla fila; subito dopo, abbiamo potuto accodarci il dottor Buzzonetti e io. Quando finalmente sono giunto al cospetto del Papa ho visto quanto fosse provato dalla tensione dell’evento, per cui gli ho soltanto detto in tedesco: «Santo Padre, tanti auguri per l’elezione come successore di Pietro. Le offro tutta la mia disponibilità. Può contare su di me in vita et in morte». Non si è trattato di un discorso particolarmente elaborato, ma lui ha compreso la mia emozione e ha semplicemente risposto: «Grazie, grazie».
Nella vigna del Signore Da piazza San Pietro era intanto salito il boato della folla che, dopo aver visto alle 17.50 la fumata bianca dal camino della Sistina, alle 18.43 aveva ascoltato dalla voce del cardinale protodiacono Jorge Arturo Medina Estévez la comunicazione ufficiale riguardo all’identità e al nome scelto dal neoeletto Pontefice. Con il passare dei minuti, mentre si formava la processione per accompagnarlo alla Loggia esterna della Benedizione della Basilica vaticana, vedevo Benedetto XVI che acquistava colore in viso e distendeva i lineamenti. Evidentemente la tensione si stava sciogliendo, come poco dopo dimostrò la serenità con cui alle 18.48 pronunciò un breve saluto, prima della benedizione apostolica: «Cari fratelli e sorelle, dopo il grande Papa Giovanni Paolo II, i signori cardinali hanno eletto me, un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore. Mi consola il fatto che il Signore sa lavorare e agire anche con strumenti insufficienti e soprattutto mi affido alle vostre preghiere. Nella gioia del Signore risorto, fiduciosi nel suo aiuto permanente, andiamo avanti. Il Signore ci aiuterà e Maria sua santissima Madre starà dalla nostra parte. Grazie». Recentemente, sistemando alcune carte dell’archivio personale di Benedetto XVI, mi sono reso conto che la sua espressione, quasi a livello di ricordo subliminale, richiamava di fatto le parole vergate da Paolo VI nella bolla con la quale nel 1977 aveva nominato Ratzinger arcivescovo di Monaco e Frisinga: «Nello Spirito guardiamo a te, diletto figlio. Tu sei fornito di straordinari doni dello Spirito e sei un maestro della teologia. […] Ora ti chiediamo: lavora nella vigna del Signore». Dopo un ultimo saluto alla folla, con il gesto per lui inusuale delle braccia agitate in alto, il Papa si avviò con il cardinale Angelo Sodano, nel suo ruolo di vicedecano del Collegio cardinalizio, verso l’ascensore e scese nel cortile di San Damaso, dove ad attenderlo c’era l’automobile tradizionalmente targata SCV 1, guidata da Pietro Cicchetti, che per tanti anni sarà poi il suo fedele autista. Benedetto XVI seguì l’indicazione di accomodarsi sul lato destro del sedile posteriore, quindi mi cercò con lo sguardo e mi fece cenno di raggiungerlo dall’altro lato. Quando il Papa entrò nel refettorio, i cardinali in coro intonarono Tu es Petrus e Oremus pro Pontifice, guidati dalla possente voce dell’arcivescovo
palermitano Salvatore De Giorgi. Vicino al neoeletto, nel tavolo principale, oltre a Sodano e a Medina Estévez, sedeva il camerlengo Eduardo Martínez Somalo. Ma i festeggiamenti si limitarono a un brindisi, poiché Benedetto si ritirò subito nella sua stanza per mettere a punto l’omelia che avrebbe pronunciato in latino la mattina seguente, nella concelebrazione eucaristica nella Cappella Sistina. Una bozza ovviamente era stata preparata in anticipo dal competente ufficio della Segreteria di Stato, e rimaneggiata in quel tardo pomeriggio tenendo conto della sensibilità del nuovo Pontefice. Ma Papa Ratzinger non si sottrasse al desiderio di arricchirla con i sentimenti di quelle intense ore, affermando innanzitutto che convivevano nel proprio animo due sentimenti contrastanti: «Da una parte, un senso di inadeguatezza e di umano turbamento per la responsabilità che ieri mi è stata affidata, quale successore dell’apostolo Pietro in questa sede di Roma, nei confronti della Chiesa universale. Dall’altra parte, sento viva in me una profonda gratitudine a Dio, che non abbandona il suo gregge, ma lo conduce attraverso i tempi, sotto la guida di coloro che Egli stesso ha eletto vicari del suo Figlio e ha costituito pastori». Nella commossa memoria del predecessore Giovanni Paolo II affermò «di sentire la sua mano forte che stringe la mia; mi sembra di vedere i suoi occhi sorridenti e di ascoltare le sue parole, rivolte in questo momento particolarmente a me: “Non avere paura!”» e chiese al Signore «di supplire alla povertà delle mie forze, perché sia coraggioso e fedele pastore del suo gregge, sempre docile alle ispirazioni del suo Spirito. Mi accingo a intraprendere questo peculiare ministero, il ministero petrino al servizio della Chiesa universale, con umile abbandono nelle mani della Provvidenza di Dio». Espresse poi la consapevolezza che «la Chiesa di oggi deve ravvivare in se stessa la consapevolezza del compito di riproporre al mondo la voce di Colui che ha detto: “Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Giovanni 8,12). Nell’intraprendere il suo ministero il nuovo Papa sa che suo compito è di far risplendere davanti agli uomini e alle donne di oggi la luce di Cristo: non la propria luce, ma quella di Cristo» e che al Papa «è stato affidato il compito di confermare i fratelli (cfr. Luca 22,32)».
Ancor più significative furono le parole pronunciate durante la Messa per l’inizio del ministero petrino, il 24 aprile. Benedetto si mise a nudo dinanzi all’intera umanità, non per un gesto di falsa modestia o di finta umiltà, ma per indicare realmente quale fosse l’orizzonte nel quale sentiva di doversi immettere: «In questo momento, io debole servitore di Dio devo assumere questo compito inaudito, che realmente supera ogni capacità umana. Come posso fare questo? Come sarò in grado di farlo? Voi tutti, cari amici, avete appena invocato l’intera schiera dei santi, rappresentata da alcuni dei grandi nomi della storia di Dio con gli uomini. In tal modo, anche in me si ravviva questa consapevolezza: non sono solo. […] Il mio vero programma di governo è quello di non fare la mia volontà, di non perseguire mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da Lui, cosicché sia Egli stesso a guidare la Chiesa in questa ora della nostra storia». Cuore dell’omelia fu la spiegazione dei due segni con cui viene rappresentata liturgicamente l’assunzione del ministero petrino. Il pallio, il paramento liturgico a forma circolare e con due lembi pendenti davanti e dietro, è «un’immagine del giogo di Cristo, che il vescovo di questa città, il servo dei servi di Dio, prende sulle sue spalle. La lana d’agnello intende rappresentare la pecorella perduta o anche quella malata e quella debole, che il pastore mette sulle sue spalle e conduce alle acque della vita». L’anello d’oro, detto “del pescatore”, perché «la chiamata di Pietro a essere pastore fa seguito alla narrazione di una pesca abbondante: dopo una notte, nella quale avevano gettato le reti senza successo, i discepoli vedono sulla riva il Signore Risorto. Anche oggi viene detto alla Chiesa e ai successori degli apostoli di prendere il largo nel mare della storia e di gettare le reti, per conquistare gli uomini al Vangelo, a Dio, a Cristo, alla vera vita». L’incisione raffigurava appunto san Pietro mentre getta le reti. Anche in quel caso, però, la frase che venne ripresa dai mass media fu una sola: «Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi». Certamente erano parole inquietanti, ma posso affermare con tranquillità che in quel momento non si riferivano a specifici timori relativi al futuro del suo pontificato, oppure a difficili problematiche di cui ovviamente aveva consapevolezza, come gli abusi sessuali dei chierici o le difficoltà nelle finanze vaticane. Era piuttosto la risonanza di un’immagine forte e quasi paradossale del suo amato san Giovanni Crisostomo, il dottore della Chiesa
del IV secolo che nelle sue omelie si scagliò contro i vizi e il malaffare del suo tempo. Nell’udienza generale del 26 ottobre 2011, citerà il suo commento al brano evangelico in cui Gesù inviò i discepoli «come agnelli in mezzo ai lupi» (Luca 10,3): «Finché saremo agnelli, vinceremo e, anche se saremo circondati da numerosi lupi, riusciremo a superarli. Ma se diventeremo lupi, saremo sconfitti, perché saremo privi dell’aiuto del pastore».
La lettera di Schönborn Ovviamente, come in tutti i più recenti Conclavi, le illazioni e le ipotesi sull’andamento delle votazioni e sul risultato finale sono state numerose e anche contraddittorie. Ciò che è indubitabile è la rapidità dell’elezione: per Benedetto XVI sono stati necessari soltanto quattro scrutini (come per Giovanni Paolo I nel 1978), un primato superato nell’ultimo secolo unicamente da Pio XII (cui nel 1939 ne bastarono tre), mentre per gli altri si va dai cinque di Paolo VI nel 1963 e di Francesco nel 2013 fino ai sette di Pio X nel 1903, agli otto di Giovanni Paolo II nel 1978, ai dieci di Benedetto XV nel 1914, agli undici di Giovanni XXIII nel 1958 e ai quattordici di Pio XI nel 1922. Sul fatto che il nome di Ratzinger fosse emerso sin dall’inizio come il più votato, concordarono da subito tutte le indiscrezioni. Il cardinale Julián Herranz, nel libro di memorie Nei dintorni di Gerico, ha dettagliato: «Perché confluirono così rapidamente sul nome di Ratzinger più di due terzi dei voti necessari? Si è parlato e scritto giustamente di una quadruplice legittimità: il prestigio intellettuale del grande teologo; la legittimità istituzionale del prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede e decano del Sacro Collegio; la legittimità romana in quanto membro della Curia da tanti anni; e la legittimità wojtyliana dell’uomo di fiducia di Giovanni Paolo II. Oserei aggiungere un’ulteriore ragione: la legittimità spirituale di un sacerdote di profonda vita interiore (è un contemplativo) e, nel contempo, di vibrante spirito apostolico, il quale, come Giovanni Paolo II, è sempre disposto a portare la dottrina e l’amore di Cristo a tutti gli areopaghi del mondo».
Parlando con il biografo Peter Seewald, Benedetto precisò di essere rimasto colpito, durante il pre-Conclave, dal fatto che «molti cardinali abbiano, per così dire, implorato colui che stava per essere eletto di prendere su di sé la croce anche se non se ne sentiva all’altezza, di piegarsi al voto della maggioranza di due terzi e di vedere in ciò un segno. Era un dovere interiore, dicevano. Hanno posto il tema con tanta serietà da convincermi che se davvero la maggioranza dei cardinali avesse espresso questo voto la scelta sarebbe stata del Signore e io avevo il dovere di accettare». In particolare, nell’udienza del 25 aprile con i pellegrini tedeschi, Papa Ratzinger confidò: «Quando, lentamente, l’andamento delle votazioni mi ha fatto capire che, per così dire, la scure sarebbe caduta su di me, la mia testa ha incominciato a girare. Ero convinto di aver svolto l’opera di tutta una vita e di poter sperare di finire i miei giorni in tranquillità. Con profonda convinzione ho detto al Signore: non farmi questo! Disponi di persone più giovani e migliori, che possono affrontare questo grande compito con tutt’altro slancio e tutt’altra forza. Allora sono rimasto molto toccato da una breve lettera scrittami da un confratello del Collegio cardinalizio. Mi ha ricordato che in occasione della Messa per Giovanni Paolo II avevo incentrato l’omelia sulla parola che il Signore disse a Pietro presso il lago di Genesaret: “Seguimi!”. Il confratello mi ha scritto: “Se il Signore ora dovesse dire a te ‘seguimi’, allora ricorda ciò che hai predicato. Non rifiutarti! Sii obbediente come hai descritto il grande Papa, tornato alla casa del Padre”. Questo mi ha colpito nel profondo. Le vie del Signore non sono comode, ma noi non siamo creati per la comodità, bensì per le cose grandi, per il bene. Così alla fine non ho potuto fare altro che dire sì». A scrivere quelle parole era stato il cardinale Christoph Schönborn, che conosceva Ratzinger sin dal 1972, quando, da giovane domenicano, era andato a seguirne i corsi a Ratisbona, restando poi nella cerchia ristretta dei suoi ex allievi. Di fatto, tolti gli amici di gioventù, è stato una delle poche persone che si scambiavano il “tu” con Ratzinger: fra loro, i cardinali Cordes, Kasper, Meisner e Müller. Ma, per esempio, restò sempre il “lei” con Amato, Bertone, Comastri, Ruini, Scola, Sodano e Vallini, che pure furono tra i suoi principali riferimenti sia da cardinale sia da Papa. Su quali parole abbia esattamente pronunciato per rispondere alla domanda, proposta dal vicedecano Sodano, riguardo all’accettazione, sono
girate diverse varianti, tutte fantasiose, anche perché completamente estranee alla sua sensibilità. Da quella attribuita al cardinale Michele Giordano («Propter voluntatem Dei accepto»), alla più complessa formulazione riferita dal cardinale Cormac Murphy-O’Connor («No, non posso. Accetto come volontà di Dio»). Su questo posso permettermi di essere preciso, avendolo esplicitamente chiesto al diretto interessato, l’unico a disporre della facoltà di violare il vincolo del segreto. La sua risposta fu semplicemente: «Accepto» (accetto, in latino); e anche relativamente al nome si limitò a dire: «Benedictus». In quel momento si annullava un plurisecolare pregiudizio: era infatti esattamente da quattro secoli che non veniva eletto Papa il responsabile del Sant’Uffizio. L’ultimo era stato Camillo Borghese (1552-1621), eletto il 16 maggio 1605 con il nome di Paolo V, quando da due anni era al vertice dell’Inquisizione romana. Ed è singolare che anche l’ultimo decano del Collegio cardinalizio eletto Papa prima di Ratzinger era stato responsabile della medesima Congregazione: Gian Pietro Carafa (1476-1559), divenuto Paolo IV il 23 maggio 1555 all’età di 79 anni. Una curiosità di molti riguardò quale potesse essere stato il nome votato da Ratzinger. Personalmente, alla fine mi sono convinto della verosimiglianza di un aneddoto relativo al fatto che il cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo di Bologna dal 1985 al 2003, avrebbe ricevuto un voto sin dal primo scrutinio. A pranzo, dopo la terza votazione, Biffi si sarebbe sfogato con l’arcivescovo partenopeo Giordano (secondo una testimonianza del vaticanista Francesco Grana): «Se scopro chi è che si ostina a votarmi lo prendo a schiaffi»; ricevendone come replica: «Siamo vicini all’elezione del nuovo Papa ed è abbastanza evidente che sia lui a darle sempre il voto. Vuole allora prendere a schiaffi il Papa?». In effetti, Ratzinger aveva conosciuto molto bene il cardinale di Bologna, che partecipava assiduamente agli incontri in Congregazione, della quale era membro. Ne aveva letto e apprezzato numerosi libri e riteneva molto qualificati i suoi interventi nei dibattiti della feria quarta. Per mostrargli esplicitamente la propria stima, nel 2007 lo invitò a predicare gli esercizi spirituali alla Curia romana: Biffi è stato così l’unico cardinale ad averne guidati due, dopo quello del 1989 per Giovanni Paolo II. E a un anno dalla morte, per il volume commemorativo del 2016 Ubi fides ibi libertas, Benedetto XVI inviò un commosso messaggio: «Nella mia
memoria il cardinal Biffi è un pastore esemplare della Chiesa di Dio in tempi tempestosi. Biffi era una personalità tutta d’un pezzo, uomo di un coraggio straordinario, senza paura di popolarità o impopolarità, orientato solo dalla luce della verità, che in Gesù Cristo ci appare in persona. La sua intelligenza straordinaria e la sua formazione culturale e teologica, collegata con una buona dose di umorismo, erano convincenti, perché era totalmente al servizio della verità, al servizio del Signore, e così degli uomini del nostro tempo. Mi auguro che persone di questa grandezza umana non manchino mai nella Chiesa di Dio».
Il diario e altre polemiche Nei giorni successivi all’elezione, un amico commentò con una battuta forse un po’ rude, ma probabilmente espressiva di alcune sensibilità in Conclave, che i cardinali avevano preferito “l’usato sicuro”, piuttosto che “il nuovo che avanza”. In questo senso, a me è sembrato che non pochi ritenessero così denso il Magistero proposto in ventisette anni da Giovanni Paolo II da rendere necessario un tempo di assimilazione, affidando perciò al successore il compito di favorirne la piena comprensione e di portarlo a compimento: e chi, più che il suo strettissimo collaboratore dal punto di vista teologico, ne avrebbe potuto essere il protagonista? Nell’arco di qualche mese vennero poi alla luce diverse ricostruzioni sugli scrutini, ma ciò che fece più clamore fu il diario di un misterioso cardinale, pubblicato dal vaticanista Lucio Brunelli, che attribuiva a Ratzinger il risultato finale di 84 suffragi su 115 votanti. Personalmente ritengo tuttora che fosse una cifra sottostimata, a giudicare dalla gioia che avevo visto sui volti di quasi tutti i conclavisti e da qualche frase detta a mezza voce da molti di loro quando avevamo avuto occasione di salutarci nei giorni successivi, come anche da altre loro dichiarazioni pubbliche e private di cui sono venuto a conoscenza in seguito. Secondo le mie sensazioni, fra i più attivi a muoversi nel promuoverne la candidatura erano stati il colombiano Alfonso López Trujillo, il cileno Jorge Medina Estévez, gli spagnoli Julián Herranz e Antonio María Rouco Varela, il tedesco Joachim Meisner, l’austriaco Christoph Schönborn, il nigeriano Francis
Arinze e l’indiano Ivan Dias. Ma poi numerosi altri si erano convintamente aggiunti. Le ipotesi circolate fra i giornalisti riguardo all’autore di quel diario coinvolsero i nomi del brasiliano Cláudio Hummes (l’obiettivo sarebbe stato quello di rendere noto, a futura memoria, l’ottimo risultato di Bergoglio e un ulteriore indizio poteva essere l’assenza del proprio risultato nella prima votazione, dove avrebbe ottenuto cinque voti); dell’italiano Mario Francesco Pompedda (il vaticanista Sandro Magister scrisse che «voci non controllate individuano in lui il suggeritore del diario», anche se risulta difficile che potesse compiere l’errore di attribuire al cardinale Camillo Ruini il ruolo di “vicario apostolico” anziché di “vicario generale” per la diocesi di Roma); del portoghese José Saraiva Martins (si sarebbe tradito per eccesso di protagonismo quando il diario lo cita come uno dei «possibili candidati del giorno dopo», accostati dal cardinale Martini per un sondaggio informale); del belga Godfried Danneels (che orgogliosamente svelò di aver partecipato dal 1999 al “gruppo di San Gallo”, per discutere su possibili riforme progressiste nella Chiesa, con cardinali come Martini, Silvestrini, Kasper, Lehmann e Murphy-O’Connor). Ma, ovviamente, gli indizi sparsi nel testo potevano anche essere una “polpetta avvelenata”, come la definiscono i cronisti più navigati, messi apposta per indirizzare i sospetti in una direzione e distoglierli da un’altra. Devo confessare che, nella serenità del Monastero, qualche volta ho provato a stuzzicare Papa Benedetto riguardo a quel diario, ma lui si è sempre limitato a stigmatizzare l’iniziativa dell’eventuale cardinale, dicendo che – nel caso fosse stato vero – ne avrebbe dovuto rispondere alla propria coscienza. E non si lasciò scappare alcunché riguardo a quel testo, nemmeno per confermare o smentire le mie azzardate affermazioni: «Però qualcuno deve pur aver parlato…», sperando almeno in un suo «Eh, sì», che non venne mai! Comunque, anche in seguito, mistificazioni, disinformazioni e vicende equivoche attorno al tempo del Conclave ce ne sono state molteplici. Nel tempo libero ho letto tanti libri, usciti successivamente all’elezione di Benedetto XVI, che promettevano rivelazioni o fornivano valutazioni discutibili. Io, piuttosto, ne ho tratto la consapevolezza che gli autori avevano una pregiudiziale visione da affermare a ogni costo, anche in barba
all’evidenza. Per evitare di risultare pedante, mi limito a proporre tre esempi di diversa natura. Il primo è una vera e propria assurdità. L’ex frate domenicano Matthew Fox, nel libro La guerra del Papa, denuncia che «la “smania di potere” sia un problema che riguarda Ratzinger in modo particolare, come si può dedurre dalla storia – vera – che segue. Pochi anni fa stavo parlando con un teologo americano che aveva studiato sotto Ratzinger per ottenere il dottorato in teologia in una università tedesca. Lui lo conosceva bene, ed era così preoccupato per quel che questi stava facendo come capo inquisitore – metteva a tacere ed espelleva teologi a destra e a manca – che si recò a Roma apposta per affrontarlo. Lo incontrò ed ebbero una seria conversazione in tedesco. Uscendo dal Vaticano, questo ex studente di Ratzinger scosse la testa e disse, disgustato: “Il suo unico scopo è la porpora”». Ora, considerando che il prefetto giunse a Roma nel 1981, e dunque aveva già la porpora da almeno quattro anni quando questo fantomatico ex studente lo avrebbe incontrato, si tratta di un presunto desiderio carrieristico che lascia evidentemente il tempo che trova… Il vaticanista Marco Politi, nel saggio Crisi di un papato, lancia una precisa accusa: «I fautori della Chiesa in trincea non vogliono nemmeno una pubblica discussione sul futuro Papa. Danneels fa appena in tempo a incontrare i giornalisti in un istituto religioso non lontano dalla via Aurelia che sugli incontri pubblici cade la mannaia. Probabilmente il cardinale belga ha dei presentimenti, perché chiude la conferenza stampa scherzando: “La libertà di parola è un diritto dell’uomo”. Alla riunione plenaria dei cardinali, il giorno dopo i funerali di Papa Wojtyła, passa invece la linea auspicata da Ratzinger che vincola i porporati al silenzio stampa». Il 7 aprile fu effettivamente annunciato che nella Congregazione generale i cardinali avevano deciso un silenzio stampa dal giorno del funerale di Giovanni Paolo II, l’8 aprile, fino a che non si fossero riuniti in Conclave, il 18 aprile. Peccato però che, come testimoniato dal vaticanista John Allen nel libro The Rise of Benedict XVI, lo stesso cardinale belga Godfried Danneels gli precisò che «Ratzinger aveva detto nelle riunioni della Congregazione generale che era un “diritto umano” dei cardinali parlare con chiunque volessero. Altri cardinali hanno confermato questo racconto. Invece di un esplicito divieto, dunque, i cardinali fecero tra loro una sorta di “accordo fra gentiluomini” in favore della discrezione».
Lo scrittore francese Olivier Le Gendre, nel libro-intervista Confession d’un cardinal scritto con un anonimo dai tratti riconducibili in apparenza ad Achille Silvestrini (seppur con numerosi cenni biografici incoerenti), cita un commento del porporato riguardo ai 35-40 voti dati dai conclavisti al cardinale Jorge Mario Bergoglio: «È un dato da tenere in considerazione per il futuro, nel caso in cui il pontificato di Benedetto XVI non durasse a lungo». Ma, nella biografia di Papa Francesco Tempo di misericordia, il saggista Austen Ivereigh dettaglia autorevolmente che all’epoca Bergoglio «era molto irritato per il fatto di essere stato ritratto come uno che doveva fermare Ratzinger o fungere da candidato civetta contro di lui. Era così seccato che confessò ai giornalisti di essere “confuso e un poco risentito per quelle indiscrezioni”, che, disse, avevano fornito un falso quadro della situazione».
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La famiglia (pontificia e non)
Le radici nella Baviera C’è una risposta di Benedetto XVI, nel libro-intervista Luce del mondo, che mi sembra estremamente significativa per descrivere come l’uomo e il Papa Joseph Ratzinger abbia costantemente percepito i rapporti umani più stretti, che con il trascorrere degli anni si erano naturalmente evoluti dal vincolo affettivo con i famigliari d’origine al legame del cuore con quanti collaboravano da vicino al suo ministero: «Mi è molto cara la famiglia pontificia. E ci sono le visite di amici dei vecchi tempi. In generale, dunque, posso affermare di non vivere in un mondo artificiale circondato da cortigiani, bensì – attraverso numerosi incontri – di vivere il mondo normale direttamente e in prima persona, di sperimentare la quotidianità di questo nostro tempo». Il fortissimo sentimento presente all’interno del nucleo famigliare di Ratzinger affondava le radici nella storia iniziale del ventesimo secolo, con le vicende belliche che avevano consentito soltanto un matrimonio in età avanzata, il 9 novembre 1920, al quarantatreenne gendarme Joseph e alla trentaseienne casalinga Maria Paintner. La prima figlia, Maria, venne alla luce il 7 dicembre 1921 e il secondogenito, Georg, il 15 gennaio 1924. Il futuro Pontefice, Joseph (così annotato sul registro battesimale, com’è usanza in Baviera al posto del più tradizionale Josef), nacque il 16 aprile 1927. Dopo che entrambi i maschi avevano percepito la vocazione al sacerdozio, l’ingresso in seminario rappresentò un sacrificio economico di non poco conto, poiché l’esigua pensione del padre non era sufficiente a saldare le due rette, nonostante le agevolazioni concesse dalla diocesi. Perciò, sia la mamma sia la sorella cominciarono a lavorare per contribuire
al pagamento: la prima come cuoca in un albergo di Reit im Winkl, la seconda in un ufficio di Traunstein. Anche per questo motivo Joseph, come pure il fratello Georg (i due condivisero la cerimonia dell’ordinazione sacerdotale, il 29 giugno 1951), fu sempre molto grato ai genitori (papà Joseph morirà nel 1959 e mamma Maria nel 1963) e alla sorella Maria. Nell’autobiografia La mia vita, il cardinale confidò che «la luce della bontà della mamma è rimasta e per me è divenuta sempre più una concreta dimostrazione della fede da cui lei si è lasciata plasmare. Non saprei indicare una prova della verità della fede più convincente della sincera e schietta umanità che la fede ha fatto maturare nei miei genitori». Mentre riguardo alla sorella scrisse che «con la sua presenza, il suo modo di vivere la fede, la sua umiltà ha preservato il clima della fede comune, quella in cui siamo cresciuti, che è maturata con noi e si è imposta col tempo». Maria non si sposò mai e, dopo aver aderito a vent’anni alle terziarie francescane con il nome di Chiara, lo accompagnerà costantemente, curando la vita domestica nelle varie residenze in cui via via si sposterà, sino a Roma. Sull’immaginetta-ricordo per la sua morte, avvenuta il 2 novembre 1991 dopo un ictus sopraggiunto mentre stava recandosi a Ziegetsdorf, nel cui cimitero c’è la tomba dei genitori, si legge: «Per 34 anni ha servito il fratello Joseph in tutte le tappe del suo percorso, con instancabile dedizione, bontà e umiltà». Il cardinale Schönborn ha raccontato un toccante aneddoto relativo a quel tempo: «Ratzinger aveva avuto un ictus nel settembre del 1991. Andò in ospedale, non era grave e recuperò rapidamente. Poco più di un mese dopo, la sua cara sorella Maria ebbe un ictus terribile e morì lo stesso giorno. Eravamo molto commossi perché non sapevamo come Ratzinger avrebbe reagito alla morte della sorella. Il giorno dopo il Conclave, quando il nostro caro professore e amico è entrato nella sala per la colazione di Santa Marta vestito di bianco, ci ha salutati e gli ho detto: “Santo Padre, ieri durante la sua elezione ho molto pensato a sua sorella Maria e mi sono chiesto se sua sorella avesse chiesto al Signore di prendere la sua vita e di lasciare quella di suo fratello”. Lui mi rispose: “Penso di sì”. Questo fu il momento più commovente di tutti i nostri incontri». Io non ho conosciuto personalmente Maria, che morì ben prima del mio arrivo a Roma. Però in diverse occasioni, da cardinale e da Papa, Ratzinger
me ne ha rievocato la figura con profondo affetto e ho compreso quanto fosse intenso il legame affettivo con lei, al punto che restò molto turbato per il fatto di non aver potuto raggiungere il suo capezzale per un ultimo saluto. Questo episodio si è di fatto collegato a uno dei momenti più intensamente emotivi degli ultimi anni della sua vita, quando volle a ogni costo recarsi dal fratello, ormai in fin di vita a Ratisbona. Monsignor Georg doveva venire in Vaticano a marzo del 2020, ma a causa del Covid non fu possibile. Poi si ammalò e cominciò a peggiorare, e a un certo punto Benedetto si rese conto che la situazione era divenuta critica. Però intanto il Pontefice emerito aveva fastidi agli occhi e alle orecchie, e l’otorino si accorse che si trattava di una forma acuta di herpes zoster (il cosiddetto “fuoco di sant’Antonio”), che gli aveva sfigurato il viso e successivamente gli provocò intensi dolori al trigemino (secondo il medico era segno di forte stress). A questo si aggiungevano i problemi di deambulazione, che lo costringevano sulla sedia a rotelle. Perciò il dottor Patrizio Polisca, suo medico personale dal 15 giugno 2009, e gli altri specialisti interpellati non erano favorevoli al viaggio. Ma lui fu irremovibile, cosicché, dopo aver informato Papa Francesco (che si mise a disposizione per qualsiasi cosa potesse essere d’aiuto), quel viaggio si fece tra il 18 e il 22 giugno 2020 – grazie alla collaborazione dell’Aeronautica militare italiana per i voli e del Governo bavarese per gli spostamenti in Germania – appena pochi giorni prima della morte di monsignor Georg, il 1° luglio. Quando, il 21 agosto 2008, era stata conferita a Georg Ratzinger la cittadinanza onoraria di Castel Gandolfo, Benedetto XVI aveva pronunciato parole di estrema tenerezza: «Dall’inizio della mia vita mio fratello è stato sempre per me non solo compagno, ma anche guida affidabile. È stato per me un punto di orientamento e di riferimento con la chiarezza, la determinazione delle sue decisioni. Mi ha mostrato sempre la strada da prendere, anche in situazioni difficili. Mio fratello ha accennato al fatto che nel frattempo siamo arrivati all’ultima tappa della nostra vita, alla vecchiaia. I giorni da vivere si riducono progressivamente. Ma anche in questa tappa mio fratello mi aiuta ad accettare con serenità, con umiltà e con coraggio il peso di ogni giorno». Per Benedetto, quella perdita fu umanamente pesante, ma nel contempo mi disse più volte di aver anche provato la consolazione del Signore, nella certezza che Georg viveva nel Suo abbraccio. E il Papa emerito continuò a
concretizzarne la presenza anche attraverso il frequente ascolto delle registrazioni di concerti del coro dei Regensburger Domspatzen, a lungo diretto dal fratello.
Con l’Introduzione sotto il braccio Come è accaduto a innumerevoli altre persone, anch’io ebbi il primo “incontro” con Ratzinger attraverso il suo libro Introduzione al cristianesimo. L’aveva scritto nel 1968, ma io ne venni a conoscenza soltanto nel 1974, quando stavo per compiere 18 anni. Fu il mio parroco a suggerirmi di leggerlo per fare più chiarezza in me stesso, in un tempo nel quale cominciavo a prendere in considerazione l’idea di entrare in seminario, ma nel contempo ero ancora immerso nella mia tranquilla vita a Riedern am Wald, un piccolo paese con poche centinaia di abitanti nel sudovest della Germania. Papà Albert era fabbro e mamma Gertrud casalinga, mentre io ero il primogenito di cinque figli (con due fratelli e due sorelle). Non conoscevo molto del mondo e da adolescente mi piaceva fare un po’ il trasgressivo, con lunghi capelli riccioluti e l’aria da anticonformista. Ascoltavo il rock, dai Beatles ai Pink Floyd a Cat Stevens, ma anche la musica popolare, tant’è che suonavo il clarinetto nella banda del paese. Con Ratzinger talvolta ne abbiamo parlato e io, sentendolo al pianoforte, gli confermai che aveva fatto bene a non smettere mai di esercitarsi: a me, dopo aver abbandonato lo strumento all’ingresso in seminario, era risultato impossibile riprenderlo in seguito, sia perché ormai mi ero “arrugginito”, sia in quanto il clarinetto ha bisogno almeno di un piccolo gruppo con cui suonare. Fra i miei sogni giovanili, c’era quello di diventare un agente di Borsa e guadagnare tanti soldi. Nel frattempo frequentavo il liceo, racimolavo qualche spicciolo consegnando la posta con la bicicletta e facevo molto sport: sci, calcio e in seguito anche tennis. Per non deludere il parroco, cominciai a leggere il libro di Ratzinger e l’entusiasmante sfida che l’allora quarantunenne professore universitario a Tubinga lanciava nella prefazione, spiegando l’intento di quel testo, mi appassionò: «Comprendere in maniera nuova la fede, quale possibilità di umanità autentica nel nostro mondo odierno, interpretandola, senza
degradarne il valore a chiacchiera che solo con fatica maschera un totale vuoto spirituale». La lettura di quelle pagine non mi risultò facile, ma comunque mi resi conto che affrontavano questioni importanti e delicate, a partire dalla situazione dell’uomo di fronte al problema di Dio. Però alcuni apologhi che Ratzinger aveva inserito qua e là – come lo stolto Hans che scambiava le sue proprietà sempre peggiorando le perdite oppure il clown che tentava invano di lanciare l’allarme per un incendio – mi fecero comprendere che l’autore di quel volume era una persona di spirito, capace anche di sdrammatizzare la riflessione su fondamentali tematiche di fede. Dopo aver superato l’esame di maturità, mi interrogai sulla strada da intraprendere all’università e pensai di studiare teologia e filosofia a Friburgo in Brisgovia. Contemporaneamente, decisi di entrare nel seminario diocesano e mi ritrovai l’Introduzione come testo d’obbligo: ogni settimana veniva assegnato un numero di pagine da leggere e poi si dialogava insieme fra docenti e studenti. Questa volta la comprensione di quei ricchi contenuti fu molto migliore e da allora la prospettiva presentata da Ratzinger divenne per me una bussola dottrinale. Una terza volta l’ho letto poco prima dell’ordinazione sacerdotale, quando collaboravo in una parrocchia e con i fedeli abbiamo approfondito le affermazioni del Credo, utilizzando proprio lo schema dell’Introduzione. Una ulteriore lettura è avvenuta nel 1999, durante una settimana di esercizi spirituali, e in quella occasione mi risuonava in mente la voce del cardinale, come se stesse pronunciando lui quelle parole, dato che ormai lavoravo da qualche anno in Congregazione e lo frequentavo quotidianamente. Rispetto a tutte le circostanze precedenti, il diverso contesto e la mia maggiore maturità hanno fatto sì che quelle riflessioni mi parlassero in modo diretto e personale, con un vigore più nutriente per la mia vita spirituale. In sostanza, ogni tappa è corrisposta alla sempre più precisa contestualizzazione del fondamentale interrogativo proposto da Ratzinger: «Quale significato e quale portata ha la professione di fede cristiana “io credo” oggi, nelle condizioni in cui versa la nostra esistenza attuale e nella posizione da noi assunta al presente nei confronti del reale in genere?». Mi ha costantemente sollecitato la sua certezza che «ogni essere umano deve in qualche maniera prendere posizione rispetto all’ambito delle decisioni fondamentali, e nessuno è in grado di farlo se non nella forma di una fede».
E mi ha rassicurato e incoraggiato la sua spiegazione che «credere cristianamente significa abbandonarsi con fiducia al senso che sostiene me e il mondo; significa accoglierlo come il solido fondamento su cui io posso stare senza timore. La fede cristiana è l’incontro con l’uomo-Gesù, e in tale incontro percepisce il senso del mondo come persona». Il 31 maggio 1984, solennità dell’Ascensione del Signore, venni ordinato sacerdote dall’arcivescovo Oskar Saier, della mia diocesi di Friburgo in Brisgovia, e pochi mesi più tardi lessi la traduzione tedesca del dialogo fra Ratzinger e lo scrittore Vittorio Messori, pubblicato in italiano con il titolo Rapporto sulla fede. Mi colpì la libertà con cui il prefetto parlava di tante problematiche sia interne che esterne alla Chiesa e addirittura giungeva a criticare talune derive successive al Concilio Vaticano II, particolarmente negli ambiti della liturgia e della pastorale. Ricordo che, quando comprai il libro, lo portai con me nell’escursione che facevo nella Foresta Nera ogni martedì, il giorno in cui non avevo impegni di insegnamento a scuola e il parroco mi esentava dal servizio in parrocchia. Portavo con me un panino con qualcosa da bere e mi sistemavo in un bel posto nel bosco: quella volta tornai tardissimo in canonica perché ero rimasto assorto nella lettura fino a quando non aveva cominciato a fare buio, tanto mi avevano appassionato quelle pagine. Dopo due anni da viceparroco, venni inviato a Monaco di Baviera per studiare Diritto canonico nell’università Ludwig Maximilian. Agli inizi questa materia non era per nulla la mia passione, ma pian piano ne ho compreso meglio il senso e lo scopo, cosicché, dopo aver conseguito la licenza e il dottorato, nel 1993 rientrai in diocesi per volontà di monsignor Saier, come suo collaboratore personale e con l’incarico di vicario nella cattedrale. Nell’autunno del 1994 venni informato che il nunzio in Germania aveva chiesto al mio arcivescovo di inviarmi a Roma per collaborare con la Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti, dato che serviva proprio un esperto in Diritto canonico. Monsignor Saier non era per nulla contento di lasciarmi andare e cercò di resistere. Ma l’insistenza vaticana fu motivata con due precisi ragionamenti: innanzitutto si sottolineò che l’arcidiocesi di Friburgo, la più grande della Germania come numero di battezzati dopo Colonia, non aveva mai fornito un sacerdote per gli uffici della Santa Sede; quindi, rivolgendosi più personalmente a monsignor Saier
(che aveva espresso qualche riserva riguardo alla Curia vaticana), venne osservato che non si può criticare il centralismo romano se poi non si è disposti a offrire persone adatte per migliorarne la qualità. Di fatto, era una valutazione diffusa nel mio Paese, visto che lo stesso cardinale Ratzinger, nel libro-intervista con Vittorio Messori, aveva affermato senza reticenza: «Dalla mia Germania, guardavo spesso con scetticismo, magari con diffidenza e impazienza, all’apparato romano. Arrivato qui mi sono accorto che questa Curia è ben superiore alla sua fama. In grande maggioranza è composta da persone che vi lavorano per autentico spirito di servizio. Non può essere altrimenti, vista la modestia di stipendi che da noi sarebbero considerati alla soglia della povertà. E visto anche il fatto che il lavoro dei più è ben poco gratificante, svolgendosi dietro le quinte, in modo anonimo, a preparare documenti o interventi che saranno attribuiti ad altri, ai vertici della struttura». Il 7 gennaio 1995 mi presentai dunque al cardinale prefetto Antonio María Javierre Ortas, il quale mi destinò alla sezione disciplinare, che all’epoca si occupava fra l’altro della laicizzazione dei sacerdoti che avevano chiesto la dispensa dal celibato e dei casi dei matrimoni rati e non consumati. Per me non era un impegno particolarmente entusiasmante, poiché in sostanza avevo quotidianamente a che fare con la documentazione sulle vicende di persone la cui esistenza affrontava un momento molto delicato, che erano deluse riguardo alla propria vocazione e incerte sul futuro. Mi tranquillizzava però sapere che l’impegno era circoscritto a un triennio, il limite temporale che Saier era stato disposto a concedere prima del rientro in diocesi.
Una proroga illimitata A quel tempo alloggiavo in Vaticano, nel Collegio teutonico situato fra l’aula Paolo VI e il lato sinistro della Basilica vaticana. La Messa quotidiana nella attigua chiesa dell’arciconfraternita di Nostra Signora era alle 7 e ogni giovedì mattina veniva a celebrarla il cardinale Ratzinger, che poi si fermava a colazione. Quando gli fui presentato, ebbi occasione di raccontargli che avevo studiato a Monaco ed ero stato anche collaboratore pastorale nella parrocchia di San Pietro, la più antica della città, che lui
ovviamente conosceva bene. Col passare delle settimane, le chiacchierate si fecero più specifiche: si informava del mio lavoro al Culto divino e mi chiedeva notizie più precise sugli studi che avevo compiuto. Intorno a metà settembre 1995, salutandomi alla fine di quella celebrazione, Ratzinger mi disse di andarlo a trovare in Congregazione, perché voleva parlarmi. Non sapevo cosa pensare, così chiamai il suo segretario, monsignor Josef Clemens, per fissare un appuntamento e – dato che c’eravamo già conosciuti – gli chiesi amichevolmente se conoscesse il motivo della convocazione, ma lui non ne aveva idea. Quando entrai nello studio del prefetto ero un po’ nervoso, poiché temevo di aver combinato qualcosa: lui invece mi accolse con molta cordialità e mi spiegò che a breve un collaboratore di lingua tedesca sarebbe rientrato in diocesi, per cui gli serviva un sostituto. Il mio curriculum era adatto e dunque mi chiese la disponibilità a trasferirmi. Ovviamente io espressi il mio entusiasmo, ma chiarii anche la necessità che tutto venisse concordato sia con il prefetto del Culto divino, sia con il mio arcivescovo. Ratzinger parlò personalmente con Javierre Ortas, mentre io scrissi a Saier, il quale mi rispose che non avrebbe potuto opporsi a una richiesta del prefetto della Dottrina della fede, confermando però la durata triennale. Così, a marzo del 1996, mi trasferii presso l’ex Sant’Uffizio e venni assegnato alla sezione dottrinale, quella che si occupa delle materie che hanno attinenza con la promozione e la tutela della dottrina della fede e della morale. Mi trovai subito a mio agio, dato che erano ottimi sia la collaborazione tra i vari colleghi, sia il rapporto con i superiori. Il mio compito specifico era quello di aiutare nella preparazione delle bozze sia delle numerose lettere che partivano dalla Congregazione come sollecitazioni di chiarimenti o come risposte a richieste da ogni parte del mondo, sia dei documenti nei quali la Dottrina della fede veniva coinvolta da altri organismi vaticani. Nel 1997 mi giunse un’altra inattesa proposta, che mi riempì di gioia. Monsignor Juan Ignacio Arrieta, l’allora decano della facoltà di Diritto canonico della Pontificia università della Santa Croce, mi offrì un incarico da docente. La nostra conoscenza era maturata proprio nel lavoro della Congregazione, poiché lui veniva spesso coinvolto da una richiesta di parere su qualcuna delle problematiche giuridiche di cui ci occupavamo. Cosicché mi risultò ovvio rivolgermi immediatamente al cardinale
Ratzinger per averne il consenso: lui mi domandò soltanto se mi sentissi in grado di svolgere adeguatamente quel compito, senza sottrarre tempo alla Dottrina della fede, e alla mia risposta affermativa replicò semplicemente con un «allora, va bene». Dopo il preventivato triennio, il mio arcivescovo si sentì un po’ in soggezione nei riguardi di Ratzinger e mi comunicò che, se lui avesse chiesto il prolungamento fino al consueto quinquennio, il permesso sarebbe stato accordato. Alla scadenza del marzo 2001, il prefetto espresse con una lettera ufficiale il ringraziamento per la disponibilità accordata in precedenza e sollecitò a Saier un ulteriore rinnovo di cinque anni, ottenendolo. Così, nel 2003, potei subentrare a monsignor Clemens nel ruolo di segretario particolare del prefetto. Quindi, prima che quella proroga giungesse a conclusione nel marzo del 2006, il cardinale divenne Pontefice e per l’arcivescovo non fu più il caso di sollevare problemi… Da segretario di Ratzinger smisi di occuparmi del precedente lavoro d’ufficio, poiché era molto impegnativo seguire la fitta corrispondenza e gli appuntamenti del prefetto. Sin dagli inizi mi diede totale fiducia nell’apertura della posta e nella gestione della sua agenda, di cui io avevo un duplicato-specchio, che costantemente verificavamo per organizzare le giornate successive. Quando non si trattava di lettere delicate, che inoltravo direttamente a lui, provavo a imbastire una risposta o affidavo la tematica a un collaboratore più specializzato, in modo da potergli sottoporre una bozza sulla quale intervenire. Per ogni richiesta di colloquio preparavo invece un memo per riferirgli di quale argomento si trattasse e se fosse una questione istituzionale o personale. In quel tempo abitavo a Santa Marta e talvolta il cardinale veniva a pranzo con me nel refettorio. La nostra frequentazione, oltre che alla Dottrina della fede, si dilatava nel tempo dei viaggi per manifestazioni ufficiali, conferenze e celebrazioni liturgiche, nelle quali fui anche il suo cerimoniere. Il rapporto di cordialità è gradualmente cresciuto e per lui sono stato sino alla fine “don Giorgio” (anzi “don Ciorcio”, con la sua tipica inflessione tedesca), anche se non ha mai voluto rivolgersi a me con il “tu”: pure durante il tempo da Papa emerito ha continuato a dare del “lei” sia a me, sia alle Memores, per una forma di rispetto che lo ha sempre caratterizzato.
Devo confessare di aver provato una forte emozione quando recuperò e mi fece leggere il testo dell’omelia che aveva pronunciato da diacono domenica 23 aprile 1950 nella Messa dei bambini a Frisinga, incentrata proprio sul santo del quale festeggio l’onomastico (un nome che mi ha accomunato al fratello maggiore di Benedetto XVI): «Il drago è il terribile incubo dell’intera umanità, è il mostro davanti al quale tremiamo, è la forza tremenda del male che chiamiamo demonio. Chi possiede la corazza e la spada non deve temere, perché le armi di Dio sono più forti del drago. San Giorgio non è lì affinché noi possiamo ammirarlo, ma per farci capire che cosa dobbiamo fare. Ci dice che c’è un drago e ci dice che siamo tutti chiamati a diventare coloro che uccidono il drago». In generale, Ratzinger entrava in Congregazione puntuale alle 9, dopo aver celebrato la Messa a casa e recitato il breviario, con una precisa idea delle questioni da affrontare in quella giornata, avendo studiato nel pomeriggio precedente la documentazione che avevo provveduto a fornirgli. Quando arrivava, avevamo l’abitudine di scherzare su come si sentisse, con un “punteggio” che parafrasava cinque voti accademici: summa cum laude, magna cum laude, cum laude, sufficit, per arrivare a non sufficit, quando proprio tutto andava male… L’ultimo caso era abbastanza raro, ma già il sufficit esprimeva l’implicita richiesta che non gli sottoponessi problematiche impegnative e sostanzialmente sgradevoli. Il voto aveva anche a che fare con la qualità del sonno nella nottata precedente, poiché lui ebbe sempre un riposo molto precario. Una volta Papa Francesco gli disse che dormiva soltanto sei ore, come un sasso. E Benedetto rispose con un mesto sorriso: «Questo è un dono che il suo predecessore purtroppo non ha avuto!».
La quotidianità del servizio Nella serata in cui il cardinale Ratzinger venne eletto e io mi trovai automaticamente coinvolto al suo fianco, mi resi conto di colpo che nessuno ti insegna a fare il segretario del Papa: non c’è un manuale di comportamento, né un tirocinio da frequentare, perché da un attimo all’altro vieni catapultato dalla retroguardia alla prima linea. Intimamente provavo la medesima sensazione che mi avevano descritto i miei fratelli e amici
quando si erano trovati per la prima volta un neonato in braccio e non sapevano bene come comportarsi, temendo piuttosto di fare danni… Agli inizi il principale aiuto me lo diede don Mietek, che come secondo segretario mi affiancò per un paio d’anni: l’ottimo suggerimento di sceglierlo era giunto a Benedetto dal cardinale Marian Franciszek Jaworski, che dal 16 luglio 2007 lo accolse a Leopoli come arcivescovo coadiutore e poi suo successore. Io dovetti imparare rapidamente tantissime cose, dalla gestione dei rapporti con la Segreteria di Stato al coordinamento dell’agenda del Papa in sintonia con il prefetto della Casa pontificia e il maestro delle Celebrazioni liturgiche pontificie. C’erano poi anche questioni minute, ma ugualmente importanti, come la logistica dell’Appartamento e il disbrigo delle faccende più pratiche, compreso il controllo finale che tutto funzionasse nello studio papale per l’Angelus della domenica! La giornata era davvero senza fine, cominciando con la sveglia intorno alle 6, lo stesso orario del Papa, e poi la Messa, la meditazione e il breviario. Dopo colazione, affrontavo la corrispondenza interna, che giungeva in grandi borse di pelle nera, ormai sformate dal peso, mentre Benedetto XVI andava nello studio per leggere la documentazione riguardante le questioni più attuali e la rassegna stampa internazionale. Per una mezz’ora lo raggiungevo, così da aggiornarlo su tutto ciò che era importante e per dargli informazioni sugli appuntamenti che lo attendevano. Quindi lo accompagnavo alla Seconda loggia per le udienze private, oppure nei luoghi degli incontri con gruppi più ampi, e nel resto della mattinata ricevevo persone e rispondevo a telefonate e mail. Dopo il pranzo alle 13.30, una camminata di una decina di minuti sul terrazzo, protetti da sguardi indiscreti da archi con l’edera (perché si potrebbe essere visti dalla cupola panoramica di San Pietro), e una breve pausa di riposo, per riprendere nuovamente con le ulteriori borse di posta che intanto erano state depositate nel mio studio, in modo da sottoporre al Papa i documenti che doveva personalmente leggere e firmare. Prima delle cosiddette “udienze di tabella” con i principali responsabili vaticani, che si svolgevano ogni giorno alle 18, lo informavo delle cose più rilevanti che erano sopraggiunte e prendevo nota di ciò che mi chiedeva di fare al riguardo. Per le 18.45 ci avviavamo in auto, se le condizioni atmosferiche lo consentivano, verso la grotta di Lourdes nei Giardini vaticani, dove
facevamo una passeggiata recitando il Rosario. Con il tempo brutto, ci recavamo nel giardino pensile all’ultimo piano, dove c’è una zona dalla quale si domina tutta Roma. Era questo il momento nel quale scambiavamo qualche parola in libertà e gli raccontavo, per esempio, le domande che inviavano i bambini nelle letterine adornate dai loro ingenui disegni: «Quando il Papa sta da solo a casa, si toglie la veste bianca e rimane in tuta o in vestaglia? Ho letto che gli piacciono i film di don Camillo e Peppone, è vero? Ma davvero le scarpe rosse che indossa sono di Prada?». Ora, posso perfino consentirmi di rispondere: no, Benedetto indossava sempre la talare bianca, perché don Mietek aveva precisato che così faceva già Giovanni Paolo II, e lui aveva deciso di adeguarsi; sì, tant’è nel gennaio 2011 parteciparono all’udienza generale in Vaticano il parroco e il sindaco di Brescello, gli “eredi” dei protagonisti di Guareschi, portando in dono il cofanetto con i cinque dvd della saga cinematografica; no, l’associazione di idee si doveva probabilmente al colore rosso, caratteristico di una linea della casa di moda Prada, che aveva erroneamente spinto la rivista «Esquire» a premiare quelle scarpe come “accessorio elegante” nel 2007. Intorno alle 19.30 c’era la cena e dopo in genere guardavamo il telegiornale. Infine Benedetto si ritirava in privato per qualche lettura e le ultime preghiere, mentre io rientravo in segreteria o nella mia stanza nel mezzanino superiore per portare a termine le ultime incombenze. Di domenica, talvolta vedevamo un film d’epoca (ma gli piacevano anche gli episodi di don Matteo), oppure ascoltavamo musica classica (in particolare Mozart, Bach e Beethoven), e qualche volta era egli stesso a suonare il pianoforte (Schubert e Mozart erano tra gli spartiti più utilizzati). Mi sono presto reso conto che il ritmo che mi ero imposto era troppo elevato: partire in pole position a pieno gas è una cosa, compiere tutti i giri e arrivare al traguardo è ben altro. Ho dovuto faticare un po’ per riuscire a trovare la giusta cadenza nella miriade di impegni quotidiani. In particolare, nei primi mesi mi dava problemi la gestione delle innumerevoli richieste di udienza privata e di altri incontri, tutti accompagnati da motivazioni onorevoli: «Soltanto un’eccezione… Il Papa mi conosce da tanto tempo… Sarà sicuramente contento di una rimpatriata…». So di aver scontentato numerose persone, certamente degne di ogni riguardo, ma il mio compito
era quello di fare lo “spazzaneve del Papa”, per tutelarlo da una valanga di carte e di pressioni. Ho riscoperto in una vecchia agenda gli appunti che avevo scritto per una breve testimonianza diversi anni fa e mi sono ritrovato in quelle parole: «Più pulito è un vetro, più raggiunge il suo scopo. Se un vetro comincia a sporcarsi o a rompersi, rimane sempre un vetro, ma non funziona come dovrebbe. E io confesso francamente che ho visto, vedo e vedrò sempre il mio ruolo, il mio servizio, come un vetro: devo lasciar entrare il sole, ma non apparire, se possibile. Il vetro, infatti, meno appare e meglio è. Questo è, non voglio dire il mio motto, ma la dietrologia della mia comprensione del ruolo del segretario particolare di Sua Santità. E cercherò di mettere in pratica questo concetto, ogni giorno, tutti i giorni, con il cuore, con il cervello, con l’anima, con tutte le forze che ho».
Nell’Appartamento del Papa Nella mattinata del 20 aprile 2005, il giorno successivo all’elezione, un momento molto emozionante fu l’ingresso dalla scala Nobile nell’Appartamento papale alla Terza loggia, dopo che il camerlengo Martínez Somalo aveva rotto i sigilli che lui stesso aveva precedentemente apposto sulla porta d’accesso. Benedetto XVI conosceva bene quelle stanze, dove era entrato tante volte per dialogare con Giovanni Paolo II, e mosse i primi passi quasi timidamente, come se non volesse rompere il delicato equilibrio che in quel luogo si era stabilito nei quasi ventisette anni di Papa Wojtyła. Come mi ha detto in seguito, varcando quella soglia gli erano tornati in mente innumerevoli ricordi che quasi fisicamente gli facevano riapparire nello sguardo della memoria il suo predecessore. Si percepiva un forte sentore di ospedale, anche perché le finestre erano restate chiuse a lungo e la moquette che ricopriva il pavimento si era impregnata degli odori dei medicinali che avevano ristagnato durante la lunga agonia del Pontefice polacco. Ci si rese tutti conto che era impossibile trasferirsi immediatamente lì, soprattutto dopo la spiegazione dei tecnici, che dettagliarono come da decenni non si effettuavano lavori di ristrutturazione, al punto che l’impianto elettrico era ancora suddiviso in due linee di differente voltaggio, mentre sul soffitto era stata realizzata
un’intercapedine con dei contenitori per raccogliere l’acqua proveniente dalle infiltrazioni. Facemmo anche un sopralluogo nella torre di San Giovanni, che già ai tempi di Giovanni XXIII era stata riadattata per poter ospitare personalità illustri in visita alla Santa Sede. Però risultava troppo umida e, per di più, gli spazi circolari si dimostravano decisamente scomodi. Dunque la decisione fu scontata: Benedetto si sarebbe trasferito per il momento nel cosiddetto Appartamento patriarcale di Casa Santa Marta (quello attualmente utilizzato da Francesco, contrassegnato dal numero 201), mentre io mi sarei sistemato nella stanza di fianco. A Santa Marta ci fermammo sino al 30 aprile, lo ricordo bene perché in quella data si celebra la memoria liturgica di san Pio V, il patrono del Sant’Uffizio. In quella decina di giorni venne effettuata una profonda pulizia dell’Appartamento, in modo da poterci restare nel successivo paio di mesi, cominciando pian piano a organizzarci. L’ingegner Paolo Sagretti, responsabile della Floreria (la struttura che si occupa fra l’altro dell’arredamento nei locali vaticani), ci spiegò che Paolo VI aveva voluto una tonalità grigia per la tappezzeria e Giovanni Paolo II non aveva chiesto particolari modifiche. Benedetto chiese di eliminare la moquette e di ripristinare gli splendidi marmi risalenti al XVI secolo, che rendevano il pavimento molto luminoso, dando per il momento soltanto una rinfrescata alle pareti, sulle quali spiccavano alcuni quadri molto belli. Espresse poi il desiderio che nel suo studio venissero sistemate la scrivania, che lo aveva sempre seguìto da quando era professore in Germania, e una parte delle librerie di piazza della Città Leonina, in modo da avere a portata di mano i testi che potevano servirgli (dopo la rinuncia al pontificato, tutto venne trasferito nel monastero “Mater Ecclesiae” in Vaticano, la sua residenza fino alla morte). Benedetto amava dire che si sentiva come circondato da amici, quando osservava i libri sugli scaffali. Però non era gelosamente legato a essi, tant’è che da molto tempo aveva preso la decisione che, se ne entrava uno in casa, un altro doveva uscirne in regalo. Addirittura, in Congregazione c’era un apposito tavolo dove lui poggiava i volumi che potevano liberamente venire prelevati da chiunque lo desiderasse. Dall’11 al 28 luglio ci trasferimmo a Les Combes, in Valle d’Aosta, per una pausa di riposo che, nell’Angelus del 17 luglio, definì schiettamente
«un dono di Dio davvero provvidenziale, dopo i primi mesi dell’esigente servizio pastorale che la Provvidenza divina mi ha affidato». In effetti era stato un periodo decisamente intenso, e anche in quel solo mese non gli mancò l’angoscia a causa di numerosi attentati terroristici in giro per il mondo: il 2, l’ambasciatore egiziano sequestrato e poi ucciso in Iraq; il 7, cinquantadue morti a Londra (e il 21 ulteriori esplosioni senza vittime); il 12, cinque morti a Netanya (Israele); il 14, assassinato il vescovo Luigi Locati in Kenya; il 16, cinque vittime a Kusadasi (Turchia); il 23, ottantotto morti a Sharm el-Sheikh (Egitto); il 27, due diplomatici algerini assassinati in Iraq. Poco dopo, il 16 agosto, ci fu anche l’assassinio del fondatore della Comunità di Taizé, frère Roger Schutz, per mano di una squilibrata, mentre era in corso la recita dei vespri. In quella stessa mattinata, Benedetto aveva ricevuto una sua lettera, nella quale esprimeva il desiderio di venire quanto prima a Roma per incontrarlo e gli assicurava che «la nostra Comunità di Taizé vuole camminare in comunione con il Santo Padre». Il rientro dalla montagna avvenne direttamente al Palazzo apostolico di Castel Gandolfo, dove restammo fino a tutto settembre. Al ritorno in Vaticano trovammo tutti i lavori completati, realmente in tempo record, al punto che Papa Benedetto volle ricevere in udienza particolare tutti quelli che avevano collaborato alla ristrutturazione, per ringraziarli personalmente. E lo fece con parole particolarmente amorevoli: «Sono convinto – perché in Germania ho fatto costruire una piccola casa per me – che altrove questi lavori sarebbero durati almeno un anno o probabilmente di più. Posso soltanto ammirare le cose che avete fatto, come questi bei pavimenti. Poi mi piace, in modo particolare, la mia nuova biblioteca, con quel soffitto antico. È il momento di dire “grazie” per tutto questo, per il vostro lavoro che mi incoraggia – come voi avete dato tutto – a dare da parte mia, in questa ora tarda della mia vita, tutto quanto posso dare». La configurazione dell’Appartamento era funzionale alle attività del Papa e della famiglia pontificia. Dopo l’ingresso dalla scala Nobile, sul cui pianerottolo vigilava sempre una Guardia svizzera, c’era un atrio con l’ascensore. Ogni sera giungeva uno dei massimi responsabili vaticani per l’udienza di tabella nella Biblioteca privata: lunedì il segretario di Stato, martedì il sostituto per gli Affari generali, mercoledì il segretario per i Rapporti con gli Stati, giovedì il prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli, venerdì il prefetto della Congregazione per
la Dottrina della fede, sabato il prefetto della Congregazione per i vescovi. Per rispetto del ruolo, il segretario di Stato lo andavo a rilevare io nel suo appartamento alla Prima loggia e lo accompagnavo con l’ascensore Nobile, mentre gli altri venivano autonomamente davanti all’Appartamento e suonavano alla porta, dove li andavo ad accogliere. Nell’atrio d’ingresso c’era la porta verso la Biblioteca privata; sempre sull’affaccio in piazza San Pietro c’erano uno studiolo, la stanza del segretario particolare (di fronte, verso l’interno, c’era la cappella), lo studio privato del Papa, la camera da letto d’angolo. Sul lato verso via di Porta Angelica si trovavano il bagno, una biblioteca più riservata (dove in precedenza c’era lo studio medico attrezzato per Giovanni Paolo II), un salotto, la sala da pranzo, la cucina e gli alloggi delle Memores. In questa zona a nord-ovest è situato il cosiddetto ascensore di Sisto V, che permette l’accesso diretto all’Appartamento dall’omonimo cortile. Ma l’utilizzo è strettamente riservato ai possessori della chiave elettronica che consente di aprire la portina e di avviare il meccanismo, sotto il costante controllo della Gendarmeria: al tempo di Benedetto, come era consuetudine durante il pontificato di Giovanni Paolo II, l’avevano soltanto i membri della ristretta famiglia pontificia. L’ascensore di Sisto V può fermarsi alla Prima loggia nell’appartamento del segretario di Stato e alla Seconda loggia per consentire al Papa di recarsi nella Biblioteca dove vengono ricevute le personalità. Dopo l’Appartamento alla Terza loggia, prosegue verso il quarto piano, dove c’erano le stanze dei segretari e per eventuali ospiti, e finisce sul terrazzo, fatto realizzare da Paolo VI insieme con una struttura in muratura che noi rinominammo “lo chalet”: c’era ancora il televisore a tubo catodico mediante il quale Papa Montini assistette all’allunaggio della missione Apollo 11, il 20 luglio 1969. Era stata attrezzata con una piccola cucina e un televisore a colori ricevuti in regalo da Benedetto XVI e tradizionalmente, ogni domenica sera, cenavamo tutti lì. C’era anche un locale con una piccola piscina idromassaggio, voluta da Paolo VI, ma non fu mai utilizzata.
Con tre aiutanti di camera
Per la gestione ordinaria dell’Appartamento potei immediatamente contare su Angelo Gugel, che lavorava in Vaticano dal 1955 e nel 1978 era stato personalmente scelto da Giovanni Paolo I come aiutante di camera poiché gli aveva fatto da autista a Roma durante il concilio Vaticano II e diverse volte lo aveva ospitato a cena a casa, dato che si conoscevano a livello familiare sin da quando era vescovo di Vittorio Veneto. Dopo la morte di Papa Luciani, Giovanni Paolo II lo aveva confermato nell’incarico e la sua signorile figura risaltava in innumerevoli fotografie durante tutti gli appuntamenti pubblici del pontificato. Mi raccontava che agli inizi Papa Wojtyła gli leggeva i discorsi in italiano per farsi indicare dove mettere il corretto accento; e poi citava aneddoti divertentissimi, come quando il presidente Sandro Pertini si rifiutò di dire che stavano gustando a tavola gli “strozzapreti”, poiché temeva di offendere il Pontefice che era al suo fianco! Fu lui, conoscendone il meccanismo, ad aiutarmi per aprire la vecchia cassaforte a muro situata nella Biblioteca privata, della quale don Stanislao agli inizi di giugno mi aveva fornito le due chiavi e la combinazione durante un rapido passaggio di consegne (un’altra più piccola era nello studio del Papa, nel caso avesse voluto custodire riservatamente qualcosa, ma Benedetto non l’utilizzò mai). Con l’esperienza dei ventisette anni in Vaticano come segretario di Giovanni Paolo II, don Stanislao fu molto netto nel dirmi: «Posso suggerirti soltanto due cose. La più importante è che dovrai fare da tetto al Santo Padre, dovrai proteggerlo da tutto ciò che può schiacciarlo. Poi devi trovare il giusto ritmo per collaborare con lui, con il cervello, con il cuore e anche con il fiuto per tenere sotto controllo la situazione: tutto il mondo ora è suo amico e molti vorranno da lui qualcosa». All’interno della cassaforte c’era un bel disordine, con tanti oggetti che risalivano anche ai Papi precedenti: anelli episcopali, croci pettorali, medaglie coniate dalla Zecca vaticana per gli ultimi pontificati. È servito un bel po’ di tempo per riuscire a fare un inventario completo, ma alla fine ci siamo riusciti, utilizzando anche le annotazioni che si trovavano insieme a molti degli oggetti, in modo da ricondurli il più possibile all’originario offerente.
Don Stanislao mi consegnò inoltre una busta con le coordinate e la consistenza del conto presso lo IOR intestato alla segreteria particolare di Sua Santità, la cui firma era riservata al Papa, con delega soltanto al segretario. Da questo conto, alimentato da donazioni esplicitamente destinate alla carità del Santo Padre, venivano prelevate le somme per la beneficenza in favore di casi particolarmente significativi, riguardo ai quali Benedetto XVI riteneva opportuno intervenire sollecitamente e di persona. Infine don Stanislao mi accompagnò nella piccola cappella al mezzanino del quarto piano, che era stata allestita da monsignor Pasquale Macchi ai tempi di Paolo VI, dove c’era una quantità enorme di reliquiari, in ordine un po’ sparso, accumulatisi soprattutto a motivo delle moltissime beatificazioni e canonizzazioni durante il pontificato di Giovanni Paolo II. Si trovavano lì anche numerosi calici e paramenti liturgici, che Benedetto stabilì di conferire in gran parte al segretario di Papa Wojtyła, affinché potesse utilizzarli come doni in memoria del santo Pontefice. Proprio nei giorni dell’elezione, Gugel aveva compiuto settant’anni, l’età massima per la pensione in Vaticano, ma lui accettò di restare per qualche altro mese, in modo da consentire una ordinata transizione con il suo successore. Nel frattempo era stato avviato qualche sondaggio per individuare un sostituto, e il più autorevole suggerimento giunse dall’arcivescovo James Michael Harvey, che propose Paolo Gabriele, un dipendente vaticano assunto inizialmente come uomo delle pulizie in Segreteria di Stato. L’uomo aveva talvolta prestato servizio come cameriere nella residenza in Vaticano di Harvey, all’epoca capufficio della sezione anglofona e poi assessore, che ne aveva apprezzato i modi. Così, quando nel 1998 l’arcivescovo fu promosso alla guida della Casa pontificia, chiamò Gabriele come collaboratore, al posto di un dipendente che era andato in pensione. Gugel se lo affiancò per un periodo di prova e, dopo qualche settimana, diede una valutazione non proprio favorevole. Però non c’erano altre persone immediatamente ipotizzabili e forse in quel momento l’errore fu di non aver cercato alternative migliori. In seguito alle vicende del Vatileaks, quando nel 2012 Gabriele fu condannato con le attenuanti generiche a diciotto mesi di reclusione per il furto e la diffusione di documenti riservati della Santa Sede, gli subentrò
Sandro Mariotti (detto “Sandrone” per la sua imponente stazza), che già lo aveva sostituito nell’anticamera pontificia, dopo essere stato a lungo in Floreria. Devo dire che, quando gli proposi l’incarico, lui mi rispose con molta onestà: «Non ho fatto studi particolari, sono un semplice lavoratore. È troppo bello per me, ma non ne sono degno». Gli diedi perciò due settimane per pensarci e per consultarsi riservatamente: alla fine, dopo aver parlato personalmente anche con il Santo Padre, accettò e poi ha proseguito in quel ruolo anche con Papa Francesco. Fu dietro consiglio dell’arcivescovo Harvey pure la scelta di monsignor Alfred Xuereb come secondo segretario al posto di don Mietek. Dal 2003 era impegnato nella Prefettura della Casa pontificia come prelato di anticamera e si occupava di accompagnare nella Biblioteca privata della Seconda loggia le personalità in udienza dal Santo Padre. Perciò Benedetto lo aveva già potuto conoscere, anche perché parlava bene il tedesco, e ne aveva apprezzato i tratti distintivi, la cortesia e la discrezione. Un suo compito specifico fu quello di raccogliere per la preghiera personale del Papa le intenzioni che giungevano da ogni parte del mondo e di porre i foglietti con i nomi delle persone e i motivi della richiesta in una cassetta accanto al suo inginocchiatoio. Mi ha commosso quando, in un’intervista successiva alla rinuncia, ho letto questa sua testimonianza: «Quello che mi colpiva era che il Papa, dopo alcuni giorni, mi chiedeva: “Ha avuto poi notizie di quel signore/signora – e specificava il cognome – di cui mi aveva parlato?”. In alcuni casi ho dovuto rispondere che purtroppo la persona era defunta, e mi colpiva la reazione del Santo Padre, perché di solito, quando sappiamo che qualcuno sta male e arriva il messaggio che è morto, ci fermiamo lì. Ma non il Papa. Recitava subito L’eterno riposo e poi invitava anche me a pregare. Quindi non solo memoria, ma anche presenza. Il Papa, che aveva in mente mille cose e pensieri, considerava la sua preghiera per i malati un ministero pastorale importantissimo».
Gli altri membri della famiglia Nel mezzanino al quarto piano, dove era ospite anche monsignor Georg quando veniva a trovare il fratello, don Mietek continuò ad abitare nella
camera che già aveva in precedenza (e dove successivamente lo sostituì don Alfred), mentre io mi sistemai in quella che utilizzava don Stanislao. Nei primi mesi, aveva occupato una stanza anche la signora Ingrid Stampa, che per una quindicina d’anni aveva fatto da governante al cardinale Ratzinger. Qualche settimana dopo la scomparsa della sorella Maria, nel novembre del 1991, il cardinale si era infatti trovato a parlare con il dottor Renato Buzzonetti, che era anche il suo medico curante (oltre che di Giovanni Paolo II), il quale gli disse che, se ne avesse avuta utilità, avrebbe potuto presentargli la donna, all’epoca quarantunenne, che – dopo essere stata insegnante di viola da gamba in Germania – si era trasferita a Roma e aveva accudito fino alla morte, il precedente 24 agosto, l’arcivescovo Cesare Zacchi, già presidente della Pontificia accademia ecclesiastica. Il cardinale la ritenne una buona soluzione per la gestione del suo appartamento e la risposta fu favorevole. Così la signora Stampa divenne una presenza costante nella sua quotidianità, pur svolgendo nel contempo lavori domestici anche nell’abitazione a Palazzo San Carlo dell’allora monsignore Paolo Sardi (divenuto in seguito arcivescovo e cardinale), che aveva conosciuto partecipando alle sue Messe mattutine in San Pietro. Io non ebbi significative occasioni di frequentazione con lei fino al momento in cui divenni segretario del prefetto, nel 2003. E dovetti con sorpresa rendermi conto che aveva un carattere forte. Il problema era che si sentiva in diritto di far prevalere la propria idea, e il cardinale cercava spesso di essere accomodante pro bono pacis. Il suo più autorevole biografo, Peter Seewald, ha esplicitamente parlato di «una caratteristica che si sarebbe rivelata il suo tallone d’Achille. In generale Ratzinger non concedeva facilmente la sua fiducia, ma è vero anche che non respingeva le persone che la Provvidenza metteva sulla sua strada. Il problema conseguente fu che si trovò quasi indifeso di fronte a quelle persone attorno a lui che avevano la tendenza a prevaricare, a uscire dal loro ambito di competenza, esercitando una sorta di violenza psicologica. Aveva inoltre un forte senso di lealtà, che gli impediva di reagire a tono ai comportamenti inadeguati». Quando, nei primi giorni del pontificato, abbiamo cominciato a studiare con i tecnici i lavori da eseguire nell’Appartamento, lei a un certo punto affermò con piglio decisionista: «Bisogna invertire la camera da letto e lo studio privato, perché Benedetto ha bisogno di più spazio e di più luce per il
suo luogo di lavoro». Monsignor Paolo De Nicolò, reggente della Casa pontificia, e l’ingegner Sagretti incrociarono i loro sguardi stupefatti e le spiegarono che nello studio, posto di fianco alla segreteria in modo da permettere un immediato contatto, c’era la tradizionale finestra dell’Angelus domenicale e che accanto alla camera da letto c’era il bagno. Data l’insistenza della signora, alla fine De Nicolò rispose: «Bene, ci riflettiamo e poi faremo la proposta al Papa», e ovviamente l’irragionevole idea non andò avanti. Il suo spirito di rivalsa nei riguardi dell’entourage papale, che secondo lei stava soppiantandola, fu probabilmente all’origine del legame che via via si intensificò con Josef Clemens, che avrebbe fortemente desiderato venire nuovamente nominato da Benedetto come segretario particolare. Personalmente avevo già percepito una certa gelosia nei miei confronti da parte di Clemens, sin da quando lo avevo sostituito nella segreteria del prefetto. Nonostante la promozione lo avesse condotto in un’altra Congregazione, cercava di mantenere voce in capitolo riguardo agli impegni di Ratzinger e con me era divenuto più brusco, mentre in precedenza eravamo in rapporti amichevoli. La certezza di questo cambiamento di comportamento la ebbi quando fui praticamente l’unico della Dottrina della fede a non ricevere l’invito alla cerimonia della sua consacrazione episcopale! Subito dopo l’elezione di Benedetto mi giunsero notizie di sue sgradevoli valutazioni su di me, ma non vi diedi particolare peso: comunque, cominciai ad aguzzare le orecchie per salvaguardare il Papa da qualsiasi mira di potere, in particolare se si trattava di “fuoco amico” intorno a lui. Posso comunque smentire con forza la voce che qualcuno fece girare su contrasti pubblici fra Clemens e me: addirittura si è parlato di scontri fisici o di un rifiuto di dargli il numero del mio cellulare. Non ne aveva bisogno, poiché il Papa stesso gli aveva dato il numero privato del suo telefono fisso nell’Appartamento, da cui rispondeva personalmente: lui non ha mai avuto un cellulare personale e, in caso di necessità, utilizzava il mio o quello del secondo segretario. Oltre ai massimi vertici vaticani, lo conoscevano soltanto pochi altri amici italiani o tedeschi e il fratello Georg, che il Papa chiamava spesso per dargli almeno un saluto, su una linea esclusiva per loro due.
Durante il pontificato, Benedetto volle benevolmente assecondare gli inviti di Clemens per una cena a casa sua tre o quattro volte l’anno, in circostanze come onomastici e compleanni o particolari festività, come accadeva ai tempi in cui era prefetto. Però Clemens commise il grave errore di vantarsi pubblicamente di quelle cene, alle quali partecipavano spesso la Stampa e Sardi (oltre a qualche altro ospite), aggiungendo addirittura che il Papa apprezzava tali occasioni «perché qui posso aprire il cuore, posso respirare, mentre a casa è tutto un po’ opprimente». Quando Benedetto lo venne a sapere, gli scrisse una lettera, nei suoi modi eleganti ma decisi, invitandolo a evitare qualsiasi pubblicità riguardo al passato e comunicando la decisione di abolire incontri futuri. Nel 2003 Ingrid Stampa dovette assentarsi da Roma per qualche mese a causa della malattia della mamma e a occuparsi della casa del cardinale ci pensò Carmela Galiandro, consacrata tra le Memores Domini di Comunione e liberazione. Ratzinger si era trovato bene, cosicché nei primi giorni del pontificato, tramite il sostituto Sandri, fu chiesto all’allora presidente di CL don Julián Carrón se ci fosse la possibilità di avere quattro Memores per l’Appartamento papale. A Carmela si aggiunsero così Loredana Patrono, Cristina Cernetti e Manuela Camagni, che purtroppo morì il 24 novembre 2010 a causa di un incidente stradale a Roma: si era recata con le amiche a un incontro di Memores in una residenza in via Nomentana e, attraversando la strada, fu investita da un’automobile. Le condizioni apparvero subito gravissime e, nonostante un intervento chirurgico d’urgenza, morì poco dopo: non potei fare altro che andare a benedirla nell’obitorio del Policlinico. Benedetto fu enormemente addolorato da questa disgrazia e il 29 novembre mi inviò a San Piero in Bagno di Romagna per il funerale, durante il quale lessi il suo partecipato messaggio, nel quale fra l’altro confidava: «Ho potuto beneficiare della sua presenza e del suo servizio nell’Appartamento pontificio, negli ultimi cinque anni, in una dimensione familiare. Per questo desidero ringraziare il Signore per il dono della vita di Manuela, per la sua fede, per la sua generosa risposta alla vocazione. Il distacco da lei, così improvviso, e anche il modo in cui ci è stata tolta, ci hanno dato un grande dolore, che solo la fede può consolare».
Il 2 dicembre il Papa volle poi celebrare una Messa di suffragio nella Cappella paolina, ricordando in particolare che nei giorni precedenti Manuela gli aveva detto che il 29 novembre, esattamente il giorno che fu quello delle sue esequie, avrebbe compiuto trent’anni nella comunità delle Memores Domini, «e lo disse con grande gioia, preparandosi a una festa interiore per questo cammino trentennale verso il Signore, nella comunione degli amici del Signore. […] Manuela non era di quelli che avevano dimenticato la memoria: è vissuta proprio nella viva memoria del Creatore, nella gioia della sua creazione, vedendo la trasparenza di Dio in tutto il creato, anche negli avvenimenti quotidiani della nostra vita, e ha saputo che da questa memoria – presente e futuro – viene la gioia». Per sostituirla giunse la lombarda Rossella Teragnoli, che con le altre ha poi mantenuto la preziosa presenza delle Memores anche nel Monastero: lei si occupava delle stanze dei segretari e del loro guardaroba, la marchigiana Cristina di sacrestia e cappella, mentre la pugliese Loredana era più impegnata in cucina e la conterranea Carmela collaborava con lei per la preparazione di dolci e curava il guardaroba del Papa. Durante la giornata veniva inoltre, sia nell’Appartamento che in Monastero, suor Birgit Wansing, del movimento di Schönstatt, sua segretaria dal lontano 1984. Infine, per accudire amorevolmente monsignor Georg Ratzinger nelle sue visite in Vaticano, si univa periodicamente al gruppo suor Christina Felder, della famiglia spirituale L’Opera.
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Le pietre d’inciampo del complesso governo
Decisioni a 360 gradi Sin dai primissimi giorni del pontificato, mi resi conto di quanto sia enorme la responsabilità che grava sul Papa riguardo alle nomine, sulle quali spetta in sostanza a lui la scelta finale: più di tremila circoscrizioni ecclesiastiche in ogni parte del mondo, con quasi duecento rappresentanze diplomatiche, per un totale di circa quattromila vescovi in attività, fra diocesani, ausiliari e nunzi; e poi tutte le cariche nei molteplici organismi della Curia vaticana, che indirizzano le attività della Santa Sede nell’ambito spirituale e pastorale, ma anche in quello amministrativo e caritativo, tenendo conto di un orizzonte complessivo di un miliardo e trecentomila cattolici con tradizioni culturali, situazioni economiche e prospettive sociali del tutto variegate. Le decisioni sottoposte al vaglio del Pontefice erano ad ampio spettro, secondo quanto determinato da Giovanni Paolo II all’articolo 18 della costituzione apostolica sulla Curia romana Pastor bonus del 1988 (sostanzialmente confermate anche nella Praedicate Evangelium del 2022): «Devono essere sottoposte all’approvazione del Sommo Pontefice le decisioni di maggiore importanza. […] I dicasteri non possono emanare leggi o decreti generali aventi forza di legge, né derogare alle prescrizioni del diritto universale vigente, se non in singoli casi e con specifica approvazione del sommo Pontefice. Sia norma inderogabile di non far nulla di importante e straordinario, che non sia stato prima comunicato dai capi dei dicasteri al Sommo Pontefice». Benedetto certamente non affrontò questo compito a cuor leggero, e lo fece seguendo l’insegnamento del suo amato san Bonaventura, per il quale «governare non era semplicemente fare, ma era soprattutto pensare e pregare: tutte le sue decisioni risultano dalla riflessione, dal pensiero
illuminato dalla preghiera». Sapeva bene infatti che, umanamente parlando, è molto difficile giudicare le persone e decidere a loro riguardo, poiché, diceva, «nessuno può leggere nel cuore dell’altro». Mi sembra interessante, a tale proposito, recuperare un brano dell’intervento che il 27 febbraio 2000 l’allora cardinale propose nel convegno internazionale sull’attuazione del Concilio Vaticano II: «Noi ci soffermiamo sul nostro tema preferito, sulla discussione circa i nostri diritti di precedenza. Questo non vuol dire che nella Chiesa non si debba anche discutere sul retto ordinamento e sulla assegnazione delle responsabilità. E certamente vi saranno sempre squilibri, che esigono correzioni. Naturalmente può verificarsi un centralismo romano esorbitante, che come tale deve poi essere evidenziato e purificato. Ma tali questioni non possono distrarre dal vero e proprio compito della Chiesa: la Chiesa non deve parlare primariamente di se stessa, ma di Dio, e solo perché questo avvenga in modo puro, vi sono allora anche rimproveri intraecclesiali, per i quali la correlazione del discorso su Dio e sul servizio comune deve dare la direzione. In conclusione, non a caso ritorna nella tradizione evangelica in diversi contesti la parola di Gesù secondo cui l’ultimo diverrà il primo e il primo l’ultimo, come uno specchio, che riguarda sempre tutti». Anche se è vero che Papa Ratzinger non aveva uno spiccato interesse per le questioni di governo, non si deve comunque dimenticare un fatto importante: il cardinale Ratzinger fu, praticamente sin dall’inizio della sua presenza a Roma, membro della Congregazione per i Vescovi e, quasi ogni giovedì, partecipò alla riunione della feria quinta nella sala Bologna. Ricevette tutti i dossier sui candidati all’episcopato, fu in diverse occasioni anche il “ponente” (cioè il cardinale che illustra le caratteristiche degli ecclesiastici individuati per una specifica diocesi), maturò una ricchezza di esperienze riguardo alle persone nominate, e anche a quelle non nominate. Da Pontefice, prima di incontrare ogni sabato sera il responsabile dei vescovi, si preparava accuratamente leggendo la documentazione, che gli veniva inoltrata con alcuni giorni di anticipo. Ascoltava con attenzione il cardinale prefetto (Giovanni Battista Re fino al 2010 e successivamente Marc Ouellet), che gli sottoponeva le varie proposte e gli comunicava chi aveva fatto la ponenza e quali erano stati i voti finali. Normalmente, Benedetto confermava la designazione scaturita in Congregazione, ma prestava particolare cura quando due candidati erano
stati entrambi considerati “degni”, per individuare chi di loro fosse più idoneo a quel particolare ufficio. Ovviamente, più la diocesi era rilevante, per ampiezza di popolazione o per importanza storica, maggiore era l’approfondimento che veniva svolto. Per i nunzi (i rappresentanti della Santa Sede negli oltre 180 Stati e Organizzazioni con cui esistono relazioni diplomatiche), invece, la presentazione gli veniva fatta dalla Segreteria di Stato. Ovviamente la prima nomina impegnativa riguardò la scelta del successore alla guida della Dottrina della fede, e fin da subito cominciarono a circolare sui giornali le ipotesi più disparate e talvolta fantasiose. In particolare emergevano i nomi dei vescovi italiani considerati in sintonia, sia umana sia teologica, con il cardinale Ratzinger, come per esempio Tarcisio Bertone, Bruno Forte e Angelo Scola. Ma per ciascuno di loro c’era un impedimento: il numero due era già un salesiano, Angelo Amato, per cui non si sarebbe potuto affiancargli il confratello Bertone; Scola era patriarca di Venezia da soli tre anni, mentre Forte era stato nominato arcivescovo di Chieti-Vasto appena dieci mesi prima, e ambedue erano teologi di fama, cosa che si preferiva evitare proprio per non favorire indebiti paragoni con i tempi di Ratzinger. Comunque, essendo italiano il segretario della Congregazione, Benedetto aveva già deciso che come prefetto avrebbe chiamato un extraeuropeo. E il suo sguardo puntò sugli Stati Uniti, per dare un segnale forte e chiaro sulla volontà di procedere speditamente nelle indagini relative alla pedofilia del clero, una questione particolarmente pressante in ambito americano. Così, il 13 maggio 2005, fu resa nota dalla Sala stampa la nomina dell’arcivescovo di San Francisco, William Joseph Levada. Molti furono sorpresi, ma in realtà Ratzinger ne conosceva bene il curriculum: dal 1976 al 1982 aveva lavorato come officiale nella Dottrina della fede, fra il 1986 e il 1993 era stato l’unico vescovo statunitense nel Comitato editoriale del Catechismo della Chiesa cattolica, dal 2000 era divenuto membro della Congregazione e dal 2003 presiedeva la Commissione dottrinale della Conferenza episcopale statunitense.
Rispettoso delle persone
Qualche spostamento, dovuto al desiderio di rimodellare alcuni dicasteri secondo la propria visione teologica e liturgica più che per mettere in atto una vera riforma della Curia (anche perché Benedetto riteneva che il suo pontificato sarebbe stato breve), venne attuato evitando di penalizzare le persone coinvolte. Ovviamente le singole sensibilità possono interpretarla diversamente, ma per il Pontefice non fu affatto una diminutio il passaggio dell’arcivescovo Domenico Sorrentino, segretario della Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti alla guida della prestigiosa diocesi di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino, oppure il subentro del cardinale Crescenzio Sepe alla guida dell’arcidiocesi di Napoli, dopo che alcune problematiche emerse nella Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli, di cui era prefetto, avevano suggerito l’opportunità di un cambiamento al vertice, con l’inserimento del cardinale indiano Ivan Dias. Anche la nomina del presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso Michael Louis Fitzgerald alla strategica carica di nunzio apostolico nella Repubblica Araba d’Egitto e delegato presso l’Organizzazione della lega degli Stati arabi (con l’annesso obiettivo di favorire il dialogo con l’università islamica di Al-Azhar, definita “il Vaticano dell’Islam”) fu sostanzialmente collegata al desiderio del Papa di avviare uno snellimento dei dicasteri curiali, che vide il primo tentativo nel marzo del 2006 con l’accorpamento del Dialogo interreligioso al Pontificio Consiglio della Cultura, al fine, come fu precisato, «di favorire un dialogo più intenso fra gli uomini di cultura e gli esponenti delle varie religioni». Ma gli eventi del settembre successivo a Ratisbona, quando alcune affermazioni di Benedetto vennero equivocate e causarono violente reazioni nel mondo islamico, spinsero a rivedere il progetto, facendo ripristinare nel giugno del 2007 la preesistente situazione. Proseguendo un’usanza degli anni in cui era prefetto alla Dottrina della fede, nella primavera del 2009 Benedetto ebbe un incontro con i cardinali Ruini, Scola, Schönborn e Bagnasco per uno scambio di vedute informale su alcune questioni dell’attualità ecclesiale. Contrariamente alle indiscrezioni emerse sulla stampa, non ci fu alcun cenno riguardo al cardinale Bertone e alla sua permanenza nell’incarico di segretario di Stato: il Papa aveva esplicitamente chiarito che di questa tematica non si sarebbe parlato. Dal dialogo emerse invece la problematica della fede nei Paesi europei, divenuta sempre più flebile. A un certo punto fu Scola a lanciare
l’idea di un dicastero che si affiancasse all’Evangelizzazione dei popoli per prendersi cura di quanti, pur essendo già stati evangelizzati, non praticavano più. Fu così che si avviò l’istituzione del Pontificio Consiglio per la Promozione della nuova evangelizzazione, per la cui guida Benedetto rifletté a lungo, scegliendo alla fine l’arcivescovo Rino Fisichella, che conosceva e stimava a motivo di una lunga collaborazione in Congregazione. Nel 2008 il Papa lo aveva preso in considerazione anche come suo vicario per la diocesi di Roma, dopo il cardinale Camillo Ruini. Bertone aveva però espresso qualche dubbio in relazione alla sua vicinanza alla sensibilità del predecessore. Così si preferì il cardinale Agostino Vallini, che aveva avuto maggiori esperienze pastorali come vescovo. In ogni caso, Benedetto non ebbe mai intenzione di “blindare” le nomine soltanto in favore di personalità ecclesiastiche totalmente in linea con la propria visione teologica. Anzi esplicitò la convinzione che «temperamenti e posizioni diverse dalla mia avrebbero dovuto trovare spazio nel Collegio dei cardinali, nella misura in cui queste posizioni restavano comunque fedeli alla Chiesa cattolica». E di fatto ben 67 dei 115 cardinali elettori presenti nel Conclave 2013 erano stati nominati da lui. D’altra parte, anche molti di quelli che vengono considerati esponenti più “liberali”, per utilizzare un termine di comprensione comune, furono promossi a ruoli importanti proprio durante il suo pontificato. Qualche esempio soltanto: Mario Grech (vescovo di Gozo, 2005), Cláudio Hummes (prefetto della Congregazione per il Clero, 2006), Odilo Pedro Scherer (arcivescovo di San Paolo, 2007), Reinhard Marx (arcivescovo di Monaco e Frisinga, 2007), Joseph William Tobin (segretario della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, 2010), João Braz de Aviz (prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, 2011), Jean-Claude Hollerich (arcivescovo di Lussemburgo, 2011), Luis Antonio Tagle (arcivescovo di Manila, 2011), Matteo Maria Zuppi (vescovo ausiliare di Roma, 2012). Papa Ratzinger si era interrogato, sin dai primi giorni dopo l’elezione, se avrebbe dovuto in qualche modo portare avanti alcune tradizioni ormai consuetudinarie sotto Giovanni Paolo II, come la partecipazione di fedeli alla Messa del mattino nella cappella privata, la presenza di ospiti al tavolo della colazione e degli altri pasti, l’invito a pranzo ai parroci prima delle
visite nelle parrocchie romane, e così via. La sua risposta fu che lui e Wojtyła avevano uno stile e una psicologia, ma anche un’età, diversi: perciò ritenne più opportuno evitare di aprire una porta che poi pian piano avrebbe dovuto gradualmente socchiudere, limitandosi invece a fare soltanto ciò che poteva rimanere stabile. Per Ratzinger i pranzi di lavoro erano una fatica, come si è evidenziato durante il suo pontificato, quando venivano organizzati soltanto in occasioni particolari. Una delle eccezioni a lui gradite era al ritorno da un viaggio apostolico, quando il pranzo rappresentava l’opportunità per ricevere un feedback da alcuni dei principali collaboratori. In genere, oltre a qualche invitato occasionale, c’erano l’assessore per gli Affari generali della Segreteria di Stato, Gabriele Giordano Caccia fino a metà 2009 e poi Peter Bryan Wells; i direttori dell’«Osservatore Romano», Giovanni Maria Vian, e della Sala stampa, padre Federico Lombardi; il responsabile dell’organizzazione Alberto Gasbarri (che Benedetto XVI definiva affettuosamente Reisemarschall, cioè “maresciallo di viaggio”). Li consideravamo gli incontri della “critica di manovra”, poiché ciascuno doveva esprimere una valutazione di ciò che era andato bene o che invece doveva essere migliorato nei successivi viaggi. Io ho imparato molto da questi incontri, perché potevo vedere un significativo confronto di esperienze, da cui alla fine emergeva un qualificato giudizio realmente utile per il futuro. E si finiva sempre per raccontare ciascuno qualche aneddoto o curiosità che consentiva di salutarci con un sorriso.
La scelta del “numero due” Certamente, fra tutte le nomine del pontificato, la più discussa e problematica fu quella del segretario di Stato Tarcisio Bertone, sia per le sue caratteristiche personali ed ecclesiali, sia per il modo concreto con il quale esercitò il suo ministero. Perciò è opportuno approfondire adeguatamente la questione, in modo da rendere chiari la motivazione, il contesto e l’obiettivo di tale scelta. Il dato di fondo da cui occorre partire è a mio parere sintetizzato nella “confessione” che Benedetto fece durante l’incontro con i sacerdoti e i diaconi permanenti della Baviera svolto a Frisinga il 14 settembre 2006,
proprio il giorno precedente l’entrata in carica di Bertone: «Quante cose dovrebbero essere fatte, vedo che non ne sono capace. Ciò vale anche per il Papa: egli dovrebbe fare tante cose! E le mie forze semplicemente non bastano. Così devo imparare a fare ciò che posso e lasciare il resto a Dio e ai miei collaboratori. […] E avere poi la fiducia: Egli mi donerà anche i collaboratori che mi aiuteranno e faranno quello che io non riesco a fare». Perciò, prima di accogliere la rinuncia del cardinale Angelo Sodano per raggiunti limiti di età, rifletté bene e si convinse che il suo successore avrebbe dovuto rispondere a due requisiti: innanzitutto, possedere sia capacità pastorali, sia conoscenze diplomatiche; allo stesso tempo essere dotato di qualità umane che facilitassero una totale sintonia nella condivisione quotidiana del lavoro. Così, dopo più di un anno di pontificato, il 22 giugno 2006 venne resa nota la nomina di Bertone, che, sebbene preceduta da numerose indiscrezioni giornalistiche, suscitò comunque stupore. In realtà, il suo curriculum appariva adeguato alle necessità. Negli anni romani, aveva diretto la facoltà di Diritto canonico della Pontificia università salesiana, insegnando anche Diritto pubblico ecclesiastico e Diritto internazionale, materie molto affini alle questioni della diplomazia vaticana; inoltre era stato docente di Diritto dei minori e di Legislazione e organizzazione catechistica e di pastorale giovanile, tematiche di stretta attualità in quel momento storico della Chiesa. Come segretario alla Dottrina della fede aveva poi tenuto costanti rapporti telefonici ed epistolari con i nunzi, che incontrava regolarmente nei periodici appuntamenti in Congregazione. L’aspetto più personale era invece perfettamente messo a punto grazie all’ultradecennale collaborazione alla Dottrina della fede, dove Bertone, che già dal 1984 era apprezzato consultore della Congregazione (per esempio, nel 1988 aveva fatto parte del gruppo di periti che affiancò Ratzinger nelle trattative per la riconciliazione con monsignor Marcel Lefebvre, il fondatore della Fraternità sacerdotale San Pio X, sospeso da Papa Paolo VI nel 1976 dall’esercizio del ministero sacerdotale per aver disobbedito alla proibizione di ordinare nuovi sacerdoti), era stato nominato arcivescovo segretario il 13 giugno 1995, anche dietro suggerimento del capufficio della sezione disciplinare Gianfranco Girotti.
Quando il cardinale Dionigi Tettamanzi fu trasferito da Giovanni Paolo II a Milano e si rese vacante la diocesi genovese, anche in Congregazione si vociferava, con un modo di dire popolare, che Bertone aveva “aperto la finestra per udire la chiamata”, per significare che si era presentato come candidato idoneo. Lo stesso Ratzinger commentò ironicamente: «Si è liberata una sede cardinalizia. Ci saranno candidati!», facendo capire che nel ristretto elenco era ben presente Bertone, il quale effettivamente il 10 dicembre 2002 venne nominato arcivescovo di Genova e il 21 ottobre 2003 fu creato cardinale. In effetti si trattò di un caso eccezionale, poiché fino a quel momento tutti i superiori della Dottrina della fede divenuti cardinali erano rimasti nell’ambito della Curia romana. Per di più, con un Papa tedesco e numerosi prefetti di Congregazione stranieri, Benedetto riteneva opportuno che il segretario di Stato fosse un italiano (Angelo Scola, che qualcuno aveva suggerito, il Papa lo vedeva piuttosto come possibile presidente della Conferenza episcopale italiana). E Bertone, subito dopo il Conclave, cominciò a frequentare periodicamente l’Appartamento, avvalendosi del preesistente rapporto di confidenza che gli permetteva di salire riservatamente, senza dare nell’occhio, tramite l’ascensore Sisto V, suggerendo al Papa opinioni riguardo ad alcune vicende della Curia e facendogli comprendere che poteva contare su di lui. Ricordo che sin da maggio del 2005 alcune persone autorevoli, per esempio il cardinale Schönborn e il vescovo Boccardo, raccontavano in Vaticano che Bertone andava dicendo in giro con convinzione che sarebbe diventato segretario di Stato. Bisogna comunque precisare che la sua nomina non rappresentò una novità assoluta: anche il cardinale francese Jean-Marie Villot, segretario di Stato dal 1969 al 1979 (con Paolo VI e nel primo anno di pontificato di Giovanni Paolo II), era stato ausiliare a Parigi e arcivescovo di Lione, prima di giungere in Vaticano. Il passaggio di consegne non fu indolore. Sodano non vedeva bene che a sostituirlo fosse un cardinale che non proveniva dalla carriera diplomatica ed espresse i propri dubbi a Benedetto. Quando, poco prima dell’estate, si rese conto che la decisione era ormai definitiva, chiese di poter restare fino al viaggio in Baviera, previsto dal 9 al 14 settembre 2006; nel contempo Bertone confidava che la nomina fosse ufficializzata al più presto. Il Papa cominciò a dormire male per la tensione che avvertiva, cosicché si giunse a un accordo intermedio: l’annuncio sarebbe stato fatto il 22
giugno, con l’entrata effettiva in carica spostata al 15 settembre, in modo da contemperare le rispettive sollecitazioni. E poi ci si dovette adattare a qualche strascico, con la prolungata occupazione dell’appartamento di rappresentanza alla Prima loggia da parte di Sodano, costringendo Bertone ad alloggiare per un po’ nella torre di San Giovanni, e le fastidiose opere di ristrutturazione volute dal nuovo segretario di Stato, che per qualche tempo crearono un rumore di fondo poco gradevole per le udienze nella Seconda loggia.
Fra lo IOR e la sanità cattolica Col senno di poi, un errore di valutazione compiuto da Bertone fu quello di prendere sin dagli inizi troppi impegni esterni, con viaggi che lo distoglievano dal compito essenziale di presiedere il lavoro della Segreteria di Stato, con la cura delle attività riguardanti il servizio quotidiano del Sommo Pontefice e il disbrigo degli affari che devono essere trattati con i Governi nell’azione diplomatica della Santa Sede. A causa di ciò, una lamentela nella sezione italiana della Segreteria di Stato era che lavoravano più per le conferenze del segretario che per i discorsi del Papa. Sodano era un timoniere e lavorava molte ore ogni giorno inchiodato alla scrivania, mentre l’assenza di Bertone comportava l’accumulo delle decisioni da prendere, cosicché la macchina ne fu rallentata. Dopo un po’, anche Benedetto se ne rese conto e gli chiese di diminuire quelle uscite. Ricordo che una volta commentò con un mesto sorriso: «Quando Bertone era arcivescovo a Vercelli e a Genova stava spesso a Roma, da segretario di Stato è spesso fuori sede…». Di fatto, non svelo alcunché di segreto ricordando che fra i più duri documenti resi noti durante il Vatileaks c’erano proprio quelli con le contestazioni a Bertone provenienti dall’interno del mondo ecclesiastico e inviati direttamente a Papa Ratzinger: da Paolo Sardi (il 5 febbraio 2009, comunica che «da un mese il lavoro è fermo. In compenso si muove il cardinale segretario di Stato: a parte gli spostamenti in Italia, giorni fa è andato in Messico, al presente è in Spagna, e già si appresta ad andare in Polonia»), a Dino Boffo (il 6 gennaio 2010, riferendosi alla divulgazione di un falso documento sul proprio conto attribuita al direttore
dell’«Osservatore Romano» Giovanni Maria Vian, scrive che «quest’ultimo forse poteva contare, come già in altri frangenti, di interpretare la mens del suo superiore»); da Dionigi Tettamanzi (il 28 marzo 2011, dopo aver ricevuto da Bertone indicazioni riguardanti l’Università Cattolica attribuite al Papa, esprime «motivi di profonda perplessità rispetto all’ultima missiva e a quanto viene attribuito direttamente alla sua persona»), fino alla lettera anonima dell’estate 2011 (nella quale si lanciano velate minacce contro il porporato, accusandolo di non saper decidere e di scegliere i collaboratori soltanto sulla base delle personali simpatie). Per di più, in quegli anni si andarono accavallando problematiche di diversa natura, e non sempre Benedetto veniva messo nelle condizioni migliori per prendere una decisione oculata. Per esempio, ai tempi di Sodano venivano indicate, su ogni progetto che doveva ricevere una risposta, le opinioni del segretario di Stato e dei suoi due vice, in modo che il Papa potesse avere un quadro completo. Con Bertone questa dettagliata valutazione previa si attenuò, limitandosi a una succinta opinione positiva o negativa, che poi eventualmente veniva approfondita a voce nell’udienza di tabella del lunedì. In particolare, due questioni spinose furono la gestione dell’Istituto per le opere di religione e il progetto di un polo sanitario cattolico, in cui il cardinale Bertone ebbe un ampio coinvolgimento e, soprattutto per quest’ultima iniziativa, probabilmente mostrò un eccesso di ambizione. La condizione degli ospedali in qualche modo collegati alla Santa Sede era troppo precaria per poterci fare carico della ristrutturazione dei bilanci e della riorganizzazione operativa. I tentativi ci furono e le analisi vennero condotte con molta cura, ma alla fine si preferì desistere. Quando nel settembre del 2009 si trattò di sostituire Angelo Caloia, dopo ben vent’anni di presidenza dello IOR , fu proprio Bertone a suggerire il nome di Ettore Gotti Tedeschi, che nei mesi precedenti era stato consulente nella gestione finanziaria del Governatorato della Città del Vaticano e aveva dato un contributo per l’enciclica Caritas in veritate sulla dottrina sociale della Chiesa. Ma con il passar del tempo il rapporto di Gotti Tedeschi con il Consiglio di sovrintendenza si logorò, fino a giungere alla sfiducia, il 24 maggio 2012, con la rimozione dalla carica di presidente «per non avere svolto varie funzioni di primaria importanza per il suo ufficio».
Benedetto non ne venne a conoscenza a cose fatte, come qualche giornalista riferì. Il segretario di Stato gli aveva illustrato l’intera questione durante una udienza di tabella e il Papa aveva esplicitamente approvato. Forse l’equivoco sorse per una errata interpretazione di una frase in una mia intervista al «Messaggero», dove parlavo della sorpresa del Papa per l’atto di sfiducia al professore, ma intendendo che era dovuta alla rapida, e in qualche modo inattesa, evoluzione delle divergenze d’opinione in seno al board dello IOR . Successive dichiarazioni di Gotti Tedeschi, invece che tentare di rasserenare gli animi, contribuirono a intensificare la polemica, cosicché Benedetto preferì evitare ulteriori contatti: perciò non risponde a verità l’indiscrezione che fosse programmato un “gesto di riparazione”, con un incontro negli ultimi tempi del suo pontificato. Con il trascorrere degli anni, un’ulteriore critica fu l’accentramento del potere che si verificò nelle mani di Bertone, il quale riuscì a farsi nominare nel 2007 camerlengo di Santa Romana Chiesa (ruolo importante nel passaggio da un pontificato a un altro) e nel 2008 presidente della Commissione cardinalizia di vigilanza dello IOR (che fra l’altro nomina i vertici dell’Istituto). Nel tentativo di placare le rimostranze che mi giungevano da più parti, ricordo che una volta ne parlai con il cardinale Raffaele Farina, suo amico da una vita soprattutto per i comuni trascorsi alla Pontificia università salesiana, chiedendogli di farsi carico, insieme con i confratelli Angelo Amato ed Enrico dal Covolo, di spiegare al segretario di Stato che doveva comportarsi con più cautela, e lui mi rispose: «Bertone fa ciò che vuole e non riusciamo più nemmeno noi a farci ascoltare perché ha perso le proporzioni». Alla fine, credo che lo stesso cardinale si sia reso conto di tutto, come testimoniato dalle parole che pronunciò a Siracusa il 1° settembre 2013, all’indomani della nomina ufficiale da parte di Papa Francesco del suo successore Pietro Parolin: «Certamente ho avuto i miei difetti, se dovessi ripensare adesso a certi momenti agirei diversamente. Però questo non vuol dire che non si sia cercato di servire la Chiesa».
L’insospettabile tradimento
In quell’orizzonte contrastato del 2011-2012 si inserì la fuga di documenti riservati che rappresentò una delle pagine più nere per la nostra famiglia pontificia. Di fatto, la sensazione che conservo ancora oggi dentro di me è quella di essermi trovato nei panni di un padre che non si accorge che il figlio ruba i gioielli della mamma e che, anche quando il furto viene alla luce, non riesce a nutrire alcun sospetto su di lui… Tuttora, se ripenso ai protagonisti di quella triste vicenda, non riesco a staccare da un angolino del cervello l’idea che si sentissero in buona fede. Ma la quantità di azioni negative che furono messe in atto fu indubbiamente qualcosa che si approssima al diabolico. Agli inizi, dopo che il 25 gennaio 2012 la trasmissione Gli intoccabili su La7 aveva reso note alcune lettere dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò relative al suo trasferimento dal Vaticano alla nunziatura della Santa Sede negli Stati Uniti, era sembrato trattarsi unicamente dello spiacevole esito di screzi connessi a promozioni e rimozioni in alcuni ruoli di vertice della Curia romana. Ma la cosa si complicò quando sul quotidiano «Il Fatto» venne pubblicato un testo che il cardinale colombiano Darío Castrillón Hoyos aveva consegnato, il 30 dicembre 2011, in Segreteria di Stato per informare di presunte indiscrezioni attribuite da imprenditori tedeschi al cardinale Paolo Romeo, arcivescovo di Palermo, durante un viaggio in Cina da lui compiuto nel novembre precedente. Secondo quelle anonime fonti, Romeo aveva fornito ai suoi interlocutori cinesi quattro informazioni: per le questioni più importanti, Benedetto consultava lui e il cardinale Scola; il rapporto del Papa con il segretario di Stato era molto conflittuale e addirittura Benedetto odiava Bertone; in segreto il Santo Padre si stava occupando della sua successione e aveva già scelto il cardinale Scola come idoneo candidato; infine, il preannuncio della morte del Pontefice entro dodici mesi, probabilmente a causa di un attentato. Una rapida consultazione portò alla secca dichiarazione di padre Federico Lombardi: «Una cosa talmente fuori dalla realtà e poco seria che non voglio nemmeno prenderla in considerazione». Su indicazione di Benedetto, incontrai sia Castrillón sia Romeo, e la mia netta impressione fu che il cardinale colombiano avesse ingenuamente dato credito a persone poco autorevoli, motivate da oscuri interessi. Romeo precisò che ovviamente aveva avvertito la Segreteria di Stato del suo viaggio privato: in precedenza era stato nunzio e sapeva bene come
comportarsi. La valutazione conclusiva fu che il cardinale palermitano era stato coinvolto soltanto perché in quel periodo era la più alta personalità ecclesiastica giunta in Cina, e nessuno di noi ebbe il minimo dubbio che le dichiarazioni a lui attribuite fossero una totale fandonia. Il vero “colpo di scena” fu l’intervista del 22 febbraio 2012, sempre su Gli intoccabili, dove il cosiddetto “corvo” spiegava di far parte di un gruppo di dipendenti che volevano far emergere la verità su vicende oscure e scandalose. Ascoltando quella voce modificata elettronicamente, non riconobbi inflessioni a me familiari, per cui pensai che si trattasse di una persona che non conoscevo, se non addirittura di un attore che aveva interpretato una testimonianza verosimile. Ma certamente rappresentava il preannuncio di ulteriori rivelazioni, come veniva chiaramente fatto comprendere nel corso di quella trasmissione. Sin dagli inizi della vicenda, la Gendarmeria pontificia aveva iniziato a indagare: il 3 febbraio il comandante Domenico Giani inviò una informativa al promotore di giustizia Picardi e dopo tre giorni venne formalizzata la prima denuncia contro ignoti. Ma la fuoruscita degli ulteriori documenti spinse Benedetto a costituire, il 24 aprile, una Commissione cardinalizia che, «in forza del mandato pontificio a tutti i livelli» (come fu esplicitamente precisato), potesse interrogare riservatamente chiunque venisse ritenuto in grado di offrire tasselli per il raggiungimento della verità. Era composta da tre autorevoli cardinali, tutti ultraottantenni e dunque in grado di operare senza “conflitti di interessi”: Julián Herranz, esperto di Diritto canonico, Jozef Tomko, ottimo conoscitore della Curia romana, e Salvatore De Giorgi, più esterno all’ambito vaticano. Come segretario fu scelto il francescano Luigi Martignani, della Segreteria di Stato. Bertone aveva provato a suggerire che la Commissione riferisse a lui, ma Benedetto decise invece che il rapporto fosse diretto, sorpassando il segretario di Stato. Fu soltanto la pubblicazione, il 19 maggio seguente, del libro Sua Santità, firmato dal giornalista Gianluigi Nuzzi, a segnare la definitiva svolta. Appena sfogliai quel volume, mi resi conto che alcuni dei documenti citati, e addirittura fotografati, non erano passati per altri uffici vaticani se non il mio. Li avevo mostrati al Papa, che vi aveva apposto la sua sigla e
indicato come procedere, e li avevo conservati sullo scaffale alle spalle del mio tavolo di lavoro. A quel punto feci mente locale su come si svolgesse il nostro lavoro nella stanza della segreteria situata di fianco allo studio del Papa e visualizzai che sostanzialmente, oltre al secondo segretario Xuereb e all’aiutante Gabriele, non vi entrava nessuno. Comunque, per affrontare di petto la situazione, in accordo con Benedetto XVI, convocai per la mattinata del 21 loro due, insieme con le quattro Memores e anche suor Birgit. Chiesi a ciascuno se fosse stato lui a consegnare quei documenti, e tutti negarono con fermezza. A quel punto fui molto duro e, rivolgendomi direttamente a Paolo, lo accusai del furto, approfittando del fatto che nella stanza aveva una scrivania con un computer per lavori di archiviazione. Quando al mattino arrivava la borsa dalla Segreteria di Stato, io smistavo il contenuto e sottoponevo al Papa la documentazione da valutare personalmente; lui leggeva, annotava qualche appunto e talvolta domandava chiarimenti, e alla fine mi restituiva tutto con il suo responso. Documenti e lettere rimanevano in un posto riservato del mio ufficio, nel tempo in cui accompagnavo Benedetto alla Seconda loggia per le udienze, fino a quando, prima di pranzo, un addetto della Segreteria di Stato veniva a riprendere la borsa con il materiale visionato. Paolo veniva con noi, ma poi spesso risaliva per sbrigare i suoi compiti. Avendo la chiave dell’ascensore Sisto V poteva salire e scendere senza dare nell’occhio e, poiché nel frattempo anche Xuereb si muoveva, lui poteva restare spesso solo. Pensandoci in seguito, mi sono reso conto che, dopo il pranzo, costantemente rientrava in ufficio e se ne andava verso le 15 (in genere, arrivava intorno alle 7 per la Messa), dando l’impressione che dovesse recuperare lavoro arretrato, cosicché aveva tempo disponibile per le sue “cose”. Perciò non avevo dubbi nell’incolparlo, contestandogli che almeno due lettere pubblicate nel volume – relative alle donazioni di un giornalista e di un banchiere in favore della carità del Papa – certamente le aveva avute soltanto lui per le mani, in quanto erano arrivate direttamente a me e non erano mai uscite dall’ufficio; per di più, gli avevo chiesto personalmente di fare la fotocopia e di abbozzare una risposta di ringraziamento. Ma lui ebbe la prontezza di negare assolutamente il fatto, addirittura facendo l’offeso e chiedendomi come fossero nati in me tali sospetti.
Dopo il pranzo, entrai in cappella e non mi aspettavo di trovarlo lì. Lo avvicinai e gli chiesi di dirmi la verità su cosa avesse combinato. Fu quello il momento in cui cominciò ad ammettere di aver incontrato Nuzzi e di avergli consegnato qualche documento. Io restai scioccato da questa rivelazione. In seguito ho saputo che subito dopo si recò da monsignor Harvey per raccontargli cosa era accaduto, forse nella folle speranza di ricevere un sostegno, lasciando anche lui senza parole. Quello che ancora oggi mi sconcerta, quando ci ripenso, è l’atteggiamento che Paolo mostrò quando gli comunicai la sospensione cautelare dal lavoro, in attesa che si chiarisse la situazione. Lui sostenne che si stava soltanto individuando un capro espiatorio e, con freddezza, affermò di sentirsi sereno e a posto con la coscienza, avendo avuto un colloquio con il suo padre spirituale, don Giovanni Luzi. Effettivamente, pur permanendo qualche ombra in relazione al segreto confessionale, durante il processo si evidenziò che il sacerdote aveva ricevuto da Gabriele della documentazione, che dichiarò di aver bruciato dopo essersi reso conto della provenienza illegittima e disonesta. Ma soprattutto emerse che il sacerdote gli aveva dato la «censurabile indicazione», come la definirono con un eufemismo i giudici vaticani, di «attendere le circostanze e, salvo che fosse stato il Santo Padre a chiedermelo di persona, di non affermare ancora questa mia responsabilità».
Un insieme di miserie umane Nel frattempo, le indagini della Gendarmeria avevano puntato su Gabriele, anche attivando discretamente una telecamera puntata sull’ingresso della sua abitazione a pochi passi da Porta Sant’Anna, in modo da verificare eventuali tentativi di portar via materiali compromettenti. Il 22 maggio fu una giornata di sospensione, nella quale Giani e i suoi ragionarono su come comportarsi, e alla fine chiesero e ottennero la perquisizione che il 23 venne svolta sia in Vaticano che a Castel Gandolfo, dove venne trovata una vasta documentazione, in originale e in fotocopia, di cui una significativa parte era tratta da internet in relazione a questioni massoniche e di intelligence, con il conseguente arresto di Paolo.
La conferma dei sospetti fu un duro colpo anche per Benedetto, che sotto l’aspetto affettivo lo considerava quasi come un figlio, come per noi membri della famiglia pontificia era praticamente un fratello, oltre che un collega nel lavoro quotidiano. Il Papa volle confidare a cuore aperto i propri sentimenti durante l’udienza generale del 30 maggio: «Gli avvenimenti successi in questi giorni, circa la Curia e i miei collaboratori, hanno recato tristezza nel mio cuore, ma non si è mai offuscata la ferma certezza che, nonostante la debolezza dell’uomo, le difficoltà e le prove, la Chiesa è guidata dallo Spirito Santo e il Signore mai le farà mancare il suo aiuto per sostenerla nel suo cammino. Si sono moltiplicate, tuttavia, illazioni, amplificate da alcuni mezzi di comunicazione, del tutto gratuite e che sono andate ben oltre i fatti, offrendo un’immagine della Santa Sede che non risponde alla realtà. Desidero, per questo, rinnovare la mia fiducia e il mio incoraggiamento ai miei più stretti collaboratori e a tutti coloro che, quotidianamente, con fedeltà, spirito di sacrificio e nel silenzio, mi aiutano nell’adempimento del mio Ministero». Nei giorni precedenti, essendo di fatto il superiore diretto di Gabriele, avevo offerto le mie dimissioni a Benedetto, chiedendogli di assegnarmi un altro incarico esterno alla Casa pontificia, ma lui mi rispose semplicemente che non se ne parlava. E ancor più mi espresse la sua solidarietà agli inizi di giugno, quando il quotidiano «la Repubblica» mostrò due documenti resi illeggibili, ma dove era visibile la mia firma in calce. L’anonimo mittente dichiarava: «Non pubblichiamo in modo integrale per non offendere la persona del Santo Padre, già molto provata dai suoi inetti collaboratori. Per correttezza ci riserviamo di pubblicare i testi integrali nel caso ci si ostini a nascondere la verità dei fatti». Come mostrato dai fatti successivi, questa minaccia non ha mai avuto sviluppi, anche perché l’unico documento che avevo potuto verificare, che portava la data del 19 febbraio 2009, era semplicemente una comunicazione alla Segreteria di Stato relativa a impegni di lavoro. Perciò mi convinsi che quei fogli fossero stati appositamente “sbianchettati” per far pensare a chissà quali segreti, mentre si trattava di banalità. Ma la cosa più assurda, connessa alla richiesta «cacciate dal Vaticano i veri responsabili di questo scandalo: mons. Gänswein e il card. Bertone», era l’accusa che dal mio archivio privato «fuoriescono di continuo innumerevoli documenti riservati a favore del segretario di Stato cardinale
Tarcisio Bertone». Ovviamente, per il suo ruolo di vertice, Bertone non aveva alcun bisogno di me per conoscere il contenuto di documenti che normalmente passavano prima in Segreteria di Stato, o che altrimenti il Papa stesso gli sottoponeva nelle udienze di tabella. Il 26 luglio 2012 si svolse un incontro a Castel Gandolfo, nel quale la Commissione cardinalizia fece a Benedetto un resoconto a voce sui risultati provvisori dell’inchiesta. In sostanza era emerso che c’erano state alcune persone che, per vari interessi particolari, avevano avuto contatti con Paolo e in qualche modo lo avevano sostenuto nella decisione di divulgare documenti, instillandogli quei dubbi che lo condussero a scelte dannose, senza però che ci fosse alle spalle un vero e proprio complotto. In particolare, ci si rese conto di quanto intensi fossero stati i contatti di Paolo con Ingrid Stampa, anche perché abitavano nel medesimo edificio. Forse, non so dire quanto consapevolmente, si influenzò Gabriele approfittando del suo carattere, che lo psichiatra Roberto Tatarelli definì «contraddistinto da marcati elementi di tipo persecutorio», e che «più volte fa riferimento a complotti e macchinazioni a favore e/o danno di personaggi di rilievo sia laici sia, più frequentemente, prelati». Il 6 ottobre 2012 il Tribunale vaticano condannò Paolo Gabriele a tre anni di reclusione, ridotti a uno e mezzo per una serie di attenuanti, «per aver operato, con abuso della fiducia derivante dalle relazioni di ufficio connesse alla sua prestazione d’opera, la sottrazione di cose che in ragione di tali relazioni erano lasciate o esposte alla fede dello stesso». Nonostante per Benedetto fosse stata umanamente una grande delusione, soprattutto perché Paolo aveva avuto costantemente la possibilità di parlargli personalmente e chiarirsi qualsiasi dubbio, la decisione di condonargli la pena venne presa ancor prima che lui chiedesse formalmente la grazia, mediante una lettera a inizio settembre nella quale riconosceva il proprio errore e implorava al Papa perdono per aver tradito la sua fiducia. Benedetto rispose personalmente, inviandogli un libro dei Salmi con la propria benedizione apostolica vergata sul frontespizio del volume. Per rendere pubblicamente nota la concessione della grazia, si ritenne però opportuno attendere un momento spiritualmente significativo e venne scelto il periodo natalizio. Così, il 22 dicembre successivo, accompagnai il Papa nella caserma della Gendarmeria dove era recluso e poi li lasciai soli. Non ho mai saputo cosa si siano detti, ma ho visto Paolo molto provato e ho
avuto la sensazione che si fosse reso conto di quanti danni la sua improvvida iniziativa avesse causato. Ovviamente, non poteva riprendere il precedente lavoro né continuare a risiedere in Vaticano, ma l’abbiamo aiutato trovandogli un impiego nella nuova sede dell’ambulatorio Bambino Gesù di San Paolo. Successivamente andò a lavorare nella segreteria dell’arciprete della basilica di San Paolo fuori le mura, il cardinale Harvey. Per diversi anni non ne ebbi notizie, finché a metà novembre del 2020 mi telefonò la signora Stampa per informarmi che Paolo era gravemente malato e per chiedermi se potessi andare a trovarlo. Per essere certo che fosse opportuno, domandai alla moglie e lei mi confermò questo desiderio. Lo trovai molto dimagrito e affaticato, ma fu molto contento di vedermi. Mi disse che voleva riconciliarsi in pieno con me, parlammo confidenzialmente a quattr’occhi e mi chiese di ricevere il Viatico; poi pregammo insieme con la moglie e i tre figli. Qualche giorno dopo, il 24 novembre 2020, morì e io, Harvey e De Nicolò abbiamo assistito alla Messa funebre presieduta dal cardinale Konrad Krajewski. Successivamente non abbiamo fatto mancare qualche aiuto alla famiglia, con la discrezione del caso. Pochi giorni prima dell’ufficializzazione della grazia, il 17 dicembre, era stata consegnata a Papa Benedetto la relazione della Commissione dei tre cardinali, che alla fine aveva ascoltato una ventina di persone, compresi tutti noi membri della famiglia pontificia. Le conclusioni furono sufficientemente rasserenanti, poiché, alla fin fine, non si confermò alcun sospetto di una strategia di sabotaggio per colpire il Santo Padre, il cardinale Bertone o me. Piuttosto, emerse la miseria personale di alcuni collaboratori vaticani, che avevano sviluppato l’idea di dover combattere qualcosa di non ben precisato, strumentalizzando e restando poi strumentalizzati. Ma in sostanza, come fu detto nel comunicato dopo l’ultimo incontro del 25 febbraio 2013 con Benedetto XVI, la Commissione rilevò «accanto a limiti e imperfezioni propri della componente umana di ogni istituzione, la generosità, rettitudine e dedizione di quanti lavorano nella Santa Sede a servizio della missione affidata da Cristo al Romano Pontefice». Il 23 marzo 2013, durante il primo incontro del Papa emerito con il suo successore, avvenne la consegna di tutta la documentazione, immortalata nella famosa foto con lo scatolone bianco. Per facilitarne la consultazione,
avevo preparato un dettagliato indice, al primo punto del quale c’era una esauriente lettera di Benedetto XVI nella quale offriva la propria valutazione dell’accaduto. C’erano poi il rapporto conclusivo dei tre cardinali, i verbali delle audizioni con le relative cassette registrate, memorie e relazioni presentate da alcune delle persone ascoltate. Nelle sue osservazioni, il Papa emerito non utilizzò mai il termine Vatileaks né avanzò proposte o suggerimenti, lasciando al nuovo Pontefice la totale libertà di azione. Lo confermò Papa Francesco nell’intervista con Gian Marco Chiocci del 30 ottobre 2020: «Nel passare le consegne mi diede una scatola grande: “Qui dentro c’è tutto, ci sono gli atti con le situazioni più difficili, io sono arrivato fino a qua, sono intervenuto in questa situazione, ho allontanato queste persone e adesso… tocca a te”. Ecco, io non ho fatto altro che raccogliere il testimone di Papa Benedetto, ho continuato la sua opera».
Il mistero di Emanuela Ovviamente, nel contesto del Vatileaks, non poteva mancare l’aggancio con la terribile vicenda del sequestro di Emanuela Orlandi, che da decenni riemerge periodicamente sulla stampa, con rivelazioni più o meno attendibili e significative. Il 22 febbraio 2012 fu la volta della divulgazione, nella trasmissione televisiva Chi l’ha visto?, di alcuni stralci di una nota che mi aveva inviato padre Lombardi, al tempo direttore della Sala stampa. Dalla sintesi giornalistica, sembrava come se improvvisamente i vertici della Santa Sede avessero concentrato una particolare attenzione su un evento che risaliva a trent’anni prima, dato che la sparizione era avvenuta il 22 giugno 1983. In realtà, l’antefatto era decisamente più ordinario, poiché si collegava all’incontro che il 9 dicembre 2011 avevo avuto con Pietro Orlandi, che desiderava consegnarmi una copia del suo libro Mia sorella Emanuela e voleva ragguagliarmi su alcuni sviluppi del caso. Mi informò anche che aveva invitato a partecipare all’Angelus del 18 dicembre in piazza San Pietro quanti avevano firmato la sua petizione per sollecitare ulteriori approfondimenti delle indagini e mi chiese di verificare la possibilità che Papa Benedetto rivolgesse loro un saluto.
La mia conoscenza dei fatti era molto limitata, cosicché chiesi a padre Lombardi di fornirmi una valutazione su quanto affermato nel volume, mentre monsignor Giampiero Gloder, della Segreteria di Stato, esaminò i dettagli della questione. La risposta di quest’ultimo, che venne poi fotocopiata da Paolo Gabriele e resa nota nel libro di Nuzzi, fu che non sarebbe stato opportuno un cenno pubblico, con una motivazione che risultò ragionevole: «Il fratello della Orlandi sostiene fortemente che ai vari livelli vaticani ci sia omertà sulla questione e si nasconda qualcosa. Il fatto che il Papa anche solo nomini il caso può dare un appoggio all’ipotesi, quasi mostrando che il Papa “non ci vede chiaro” su come è stata gestita la questione». Nell’appunto di padre Lombardi, da lui redatto tra fine dicembre 2011 e inizio gennaio 2012 (e presumibilmente consegnato a Pietro Orlandi sempre da Gabriele, poiché si conoscevano), era sottolineato con umana partecipazione che «si percepisce che la tragedia della famiglia non è solo quella di una figlia scomparsa, ma anche quella della tortura prolungata di messaggi, rivendicazioni, informazioni contraddittorie, che tengono sempre in dubbio e risvegliano la questione fino ai nostri giorni con presunti nuovi elementi». Venivano quindi esaminati i diversi aspetti del tragico evento e offerte le possibili risposte ad alcuni interrogativi proposti in quel libro. Sviluppando tali considerazioni, il 14 aprile 2012 la Sala stampa vaticana fornì un’ampia nota, dopo che «in alcune iniziative e interventi, che hanno avuto eco sulla stampa, è stato avanzato il dubbio se da parte di istituzioni o personalità vaticane si sia fatto veramente tutto il possibile per contribuire alla ricerca della verità su quanto avvenuto», precisando che era stato possibile «grazie ad alcune testimonianze particolarmente attendibili e a una rilettura della documentazione disponibile, verificare nella sostanza con quali criteri e atteggiamenti i responsabili vaticani procedettero ad affrontare quella situazione». Personalmente avevo espresso la mia massima disponibilità e solidarietà a Pietro Orlandi, come lui stesso attestò alla conduttrice Federica Sciarelli in quella trasmissione della Rai, ma naturalmente le dichiarazioni di padre Lombardi rappresentarono la ricostruzione più autorevole sulla quale basare qualsiasi presa di posizione: «La sostanza della questione è che purtroppo non si ebbe in Vaticano alcun elemento concreto utile per la soluzione del caso da fornire agli inquirenti. A quel tempo le autorità vaticane, in base ai
messaggi ricevuti che facevano riferimento ad Ali Agca – che, come periodo, coincisero praticamente con l’istruttoria sull’attentato al Papa – condivisero l’opinione prevalente che il sequestro fosse utilizzato da una oscura organizzazione criminale per inviare messaggi od operare pressioni in rapporto alla carcerazione e agli interrogatori dell’attentatore del Papa. Non si ebbe alcun motivo per pensare ad altri possibili moventi del sequestro. L’attribuzione di conoscenza di segreti attinenti al sequestro stesso da parte di persone appartenenti alle istituzioni vaticane, senza indicare alcun nominativo, non corrisponde quindi ad alcuna informazione attendibile o fondata; a volte sembra quasi un alibi di fronte allo sconforto e alla frustrazione per il non riuscire a trovare la verità». Mi fu anche garantito che, nel corso degli anni, era stato fatto quanto possibile per aiutare la famiglia Orlandi e di tutte queste informazioni feci la dovuta comunicazione a Papa Benedetto. Pure il comandante Giani consultò la documentazione dell’epoca e concluse che non c’era stata alcuna notizia tenuta nascosta alla magistratura italiana e che nel frattempo non erano maturate ulteriori ipotesi riguardo alle quali poter approfondire le indagini in Vaticano. Le diverse e contrastanti piste – dalla connessione con l’attentato a Giovanni Paolo II al tentativo di avviare uno scambio con Ali Agca, dagli scontri fra servizi segreti dell’Est e dell’Ovest alle vicende criminali della banda della Magliana, dalle questioni connesse allo IOR del tempo di Marcinkus ai presunti finanziamenti al movimento polacco Solidarnosc – hanno avuto ciascuna indizi a favore e contro, senza che fossero mai raggiunte definitive prove. E un dubbio aleggia ancora: se la sollecita e partecipata preoccupazione di Papa Wojtyła, che lanciò un pubblico appello sin dall’Angelus del 3 luglio 1983, abbia avuto come indesiderato corollario gli sporchi maneggi di criminali privi di scrupoli, che si sono insinuati in questa tragedia dove l’innocente vittima è stata una cittadina vaticana di appena 15 anni (senza dimenticare la coetanea Mirella Gregori, anche lei scomparsa nel nulla in quei mesi). Da parte mia posso serenamente affermare che è totalmente inventato quanto venne scritto dal giornalista Pino Nicotri sul sito www.blizquotidiano.it il 13 gennaio 2015: «Qualche mese fa i magistrati sono venuti a sapere in via confidenziale che “durante il processo la
Segreteria di Stato e la Gendarmeria del Vaticano erano semplicemente terrorizzate dall’idea che Paolo Gabriele avesse fotocopiato anche il dossier preparato con estrema cura da Gänswein”. Il dossier comunque non risulta tra le fotocopie consegnate a Nuzzi e neppure tra quelle trovate nell’appartamento in Vaticano dell’ex maggiordomo. Segno che non è stato fotocopiato. Negli ultimi tempi però i magistrati si sono chiesti il perché di tanta paura che ce ne fosse invece in giro una copia. Inevitabile l’ipotesi che il dossier contenesse l’intera verità su cosa è successo e per mano di chi». Molto più semplicemente, io non ho mai compilato alcunché in relazione al caso Orlandi, per cui questo fantomatico dossier non è stato reso noto unicamente perché non esiste. Ugualmente infondata fu la polemica innescata nel dicembre del 2021 dalle dichiarazioni dell’ex magistrato Giancarlo Capaldo su un paio di incontri che aveva avuto a gennaio del 2012, nell’ufficio di piazzale Clodio, con Domenico Giani e il suo vice Costanzo Alessandrini. I vertici della Gendarmeria si erano recati da lui per affrontare la problematica relativa alla tomba di Renatino De Pedis, esponente della banda della Magliana, nella cripta della basilica romana di Sant’Apollinare. Nei mesi precedenti era stato ipotizzato che vi fosse seppellita anche Emanuela Orlandi, cosicché si era voluta manifestare la disponibilità della Santa Sede per l’apertura della bara e la verifica del contenuto, in modo da sgombrare il campo da qualsiasi sospetto. L’offerta di collaborazione, concordata con il cardinale Bertone e della quale anch’io ero stato messo al corrente, venne però evidentemente fraintesa, tant’è che l’ex magistrato ha impropriamente rievocato che «in quella occasione, chiesi la possibilità del rinvenimento del corpo di Emanuela Orlandi o almeno di sapere, di conoscere la sua fine. Si mostrarono disponibili e mi dissero: “Le faremo sapere”». Come ribadito più volte, questa sintetica ricostruzione è fuori dalla realtà, tant’è che in tempi recenti pure l’allora procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone, ha precisato che all’epoca «il dottor Capaldo non ha mai detto nulla, come invece avrebbe dovuto, delle sue asserite interlocuzioni con “emissari” del Vaticano», riferendone invece «solo dopo essere andato in pensione (23 marzo 2017)».
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Un Magistero a tutto tondo
Un pontificato cristocentrico Ovviamente non è possibile sintetizzare in poche pagine un Magistero come quello di Benedetto XVI, così denso dal punto di vista qualitativo, come ampio dal punto di vista quantitativo. Però vorrei almeno sottolineare alcuni punti essenziali del pontificato, che già rappresentano la sua più significativa eredità. E il cuore decisivo, a mio parere, è stata la testimonianza cristocentrica nel suo annuncio e nel suo operare. La Parola di Dio è Cristo stesso, che è e deve essere al centro della Chiesa e della sua vita. Considerato sotto questa luce, è cristiano colui che crede in Gesù Cristo e vive un’amicizia personale con Lui. Anche e proprio per questo motivo, un Papa non può precedere il Signore e voler stabilire egli la via che Gesù stesso ha definito. Come ogni cristiano, anzi più di chiunque altro, il Papa deve seguire Cristo, anteponendolo alla propria persona e ai propri interessi e obiettivi. In questo permanente rimando al Salvatore e all’annuncio cristocentrico, si può individuare il motivo più profondo per cui Benedetto sottrasse al logorante lavoro quotidiano del servizio petrino il tempo e l’energia per scrivere il libro in tre volumi su Gesù di Nazaret. Come Pietro a Cesarea di Filippi, a nome di tutti gli apostoli, testimoniò il Signore «Messia, Figlio del Dio vivo», così anche Benedetto, come successore di Pietro, ha voluto confessare la personale professione di fede in Cristo nell’odierna Cesarea di Filippi, per convincere gli uomini della verità e della bellezza della fede cristiana, per introdurli a un rapporto personale con il Signore. Nella testimonianza del Papa per Gesù Cristo si rendono ancora una volta visibili il significato e la necessità del servizio petrino nella Chiesa, cosicché il ministero papale, illuminato dalla luce della fede, appare come dono dello Spirito Santo alla comunità ecclesiale.
Papa Ratzinger è stato fermamente convinto di dover scrivere la trilogia su Cristo come una sintesi della propria visione teologica incentrata sulla convinzione che il messaggio salvifico di Gesù non è semplicemente una dottrina, bensì il concreto incontro con la sua persona, con il Dio che si è realmente fatto uomo e che continua a essere presente in ogni tempo. E lo ha voluto fare firmando con il proprio nome, poiché metteva in gioco l’autorevolezza della competenza e non l’autorità magisteriale. La cosa per me impressionante era la capacità che manifestava ogni martedì, dopo una settimana di sospensione, quando si sedeva alla scrivania e riprendeva immediatamente a scrivere seguendo il precedente filo del discorso, come se avesse interrotto il lavoro appena un attimo prima. Scherzando, gli dicevo che il suo modo di agire era come quello di una ricamatrice, che poteva fermare in qualsiasi momento la propria opera per poi riprenderla senza difficoltà. Di fatto, il progetto è diventato una trilogia soltanto perché Papa Ratzinger volle spezzettare l’opera in modo da essere certo di portarne a termine almeno una parte, nella preoccupazione che l’età e le forze non gli consentissero il definitivo completamento. Come egli stesso scrisse nella premessa al primo volume, la riflessione sul rapporto tra il Gesù della fede e il Gesù della storia rappresentò per lui «un lungo cammino interiore» nella «ricerca personale del volto del Signore». Ripensandoci, mi tornano alla mente le parole che pronunciò davanti al Volto Santo durante il pellegrinaggio privato del 1° settembre 2006 nel santuario di Manoppello: «Per “vedere Dio” bisogna conoscere Cristo e lasciarsi plasmare dal suo Spirito che guida i credenti “alla verità tutta intera”. Chi incontra Gesù, chi si lascia da Lui attrarre ed è disposto a seguirlo sino al sacrificio della vita, sperimenta personalmente, come Egli ha fatto sulla croce, che solo il “chicco di grano” che cade nella terra e muore porta “molto frutto”. Questa è la via di Cristo, la via dell’amore totale che vince la morte». E anche il 2 maggio 2010, nella meditazione dinanzi alla Sacra Sindone durante la visita pastorale a Torino, sottolineò che «dal buio della morte del Figlio di Dio, è spuntata la luce di una speranza nuova: la luce della risurrezione. Ed ecco, mi sembra che guardando questo sacro Telo con gli occhi della fede si percepisca qualcosa di questa luce. […] Questo è il potere della Sindone: dal volto di questo “Uomo dei dolori” – che porta su di sé la passione dell’uomo di ogni tempo e di ogni luogo, anche le nostre
passioni, le nostre sofferenze, le nostre difficoltà, i nostri peccati – promana una solenne maestà, una signoria paradossale». Nel secondo volume, a calamitare l’attenzione di Benedetto fu il tema della risurrezione del Signore, in quanto punto decisivo del cristianesimo: «Se Gesù sia soltanto esistito nel passato o invece esista anche nel presente, ciò dipende dalla risurrezione. Nel “sì” o “no” a questo interrogativo non ci si pronuncia su di un singolo avvenimento accanto ad altri, ma sulla figura di Gesù come tale. […] La fede cristiana sta o cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti». Per di più, se commentando l’Ultima Cena il Pontefice aveva già affermato che «con l’Eucaristia, la Chiesa stessa è stata istituita», qui andò ancor più a fondo precisando che «il racconto della risurrezione diviene per se stesso ecclesiologia: l’incontro con il Signore risorto è missione e dà alla Chiesa nascente la sua forma». Insieme con la risurrezione, è la nascita verginale di Gesù il tema più scandaloso per lo spirito moderno. Cosicché, nel volume conclusivo della trilogia, quello sull’infanzia di Gesù, Papa Ratzinger volle proporre una convinta dichiarazione: «Naturalmente non si possono attribuire a Dio cose insensate o irragionevoli o in contrasto con la sua creazione. Ma qui non si tratta di qualcosa di irragionevole e di contraddittorio, bensì proprio di qualcosa di positivo: del potere creatore di Dio, che abbraccia tutto l’essere. Perciò questi due punti – il parto verginale e la reale risurrezione dal sepolcro – sono pietre di paragone per la fede. Se Dio non ha anche potere sulla materia, allora Egli non è Dio. Ma Egli possiede questo potere, e con il concepimento e la risurrezione di Gesù Cristo ha inaugurato una nuova creazione. Così, in quanto Creatore, è anche il nostro Redentore. Per questo, il concepimento e la nascita di Gesù dalla Vergine Maria sono un elemento fondamentale della nostra fede e un segnale luminoso di speranza». Di qui anche la sua ammirazione e devozione per la Madonna che, nel momento dell’annuncio dell’Angelo, diviene Madre di Dio e della Chiesa esprimendo il suo “sì” a Dio con «l’obbedienza libera, umile e insieme magnanima, nella quale si realizza la decisione più elevata della libertà umana». Per Papa Ratzinger, nell’Immacolata incontriamo l’essenza della Chiesa in modo non deformato» e da Lei «dobbiamo imparare a diventare noi stessi “anime ecclesiali”, così si esprimevano i Padri, per poter anche
noi, secondo la parola di san Paolo, presentarci “immacolati” al cospetto del Signore, così come Egli ci ha voluto fin dal principio».
L’evangelico servizio petrino Vigorosa e ferma in tutto il pontificato è stata la sollecitazione di Benedetto XVI affinché al centro della vita della Chiesa tornasse a esserci una realtà della quale soltanto la Chiesa conserva l’identità: la Parola di Dio. Essa di certo non risiede semplicemente in un passato lontano, in un mero ricordo storico; piuttosto, la Parola parla “al” e “nel” nostro presente e ci sollecita nel vissuto personale e quotidiano. Papa Ratzinger si dedicò alla Parola di Dio con la coscienza che, come disse nell’omelia della Messa per l’inizio del ministero petrino, egli non si proponeva alcun programma di governo, per lo meno non così come lo si intende comunemente. Piuttosto, vedendo come compito primario del proprio ministero quello di vincolare l’intera Chiesa alla Parola di Dio e di garantirne l’obbedienza a essa, egli era cosciente del fatto che il suo primo dovere consisteva nel vivere lui stesso nell’obbedienza esemplare. Poiché ha amato così tanto la Sacra Scrittura e ha guidato gli uomini, con l’annuncio e la predicazione, alla conoscenza del Vangelo, il suo servizio petrino si è caratterizzato come un pontificato in tutto e per tutto evangelico. Per questo motivo, nell’ultima udienza generale con la quale si congedò come vescovo di Roma, Benedetto poté confessare con franchezza di essere stato accompagnato sempre nel suo ministero di successore di Pietro dalla solida coscienza che «la Parola di verità del Vangelo è la forza della Chiesa, è la sua vita». Egli intese il pontificato secondo il significato che a esso attribuiva sant’Ignazio di Antiochia, il quale, nella sua lettera ai Romani (circa nell’anno 110), indicò e visse la Chiesa di Roma come colei che ha la «presidenza nell’amore», e questo nella convinzione che la presidenza nella fede e nella sua dottrina debba essere anche e soprattutto presidenza nell’amore; perché una fede senza amore non sarebbe fede nel Dio biblico e la dottrina della Chiesa raggiunge i cuori degli uomini soltanto se conduce all’amore.
Risplende qui il motivo più profondo per cui nel Magistero di Benedetto XVI verità e amore non sono termini in contraddizione, piuttosto si esigono e si alimentano vicendevolmente, poiché la verità senza l’amore può diventare brutale e l’amore senza verità può diventare banale. Papa Benedetto ha, per questo, riassunto nella loro unità inscindibile la verità della fede nell’amore di Dio per l’uomo e nell’amore dell’uomo verso Dio e verso i suoi fratelli, ponendo tutto il suo pontificato al servizio dell’annuncio di questa fede. Di fatto, il primo Sinodo dei vescovi da lui personalmente indetto ebbe a tema proprio “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa” (ottobre 2008), con l’esplicito obiettivo di «indicare alcune linee fondamentali per una riscoperta della divina Parola nella vita della Chiesa, sorgente di costante rinnovamento». E nell’esortazione apostolica Verbum Domini, che sintetizzò i frutti di quel dibattito, Benedetto volle una specifica sottolineatura del dovere dei cristiani di annunciare la Parola di Dio nel mondo in cui vivono e operano. Quattro gli aspetti di particolare attenzione. Innanzitutto, la consapevolezza che la missione della Chiesa ha come punti di partenza e di arrivo il mistero di Dio Padre: la sua Parola coinvolge tutti i battezzati non soltanto come destinatari ma anche come suoi annunciatori, e la credibilità dell’annuncio della Buona Notizia dipende dalla testimonianza della vita cristiana. In secondo luogo, l’impegno nel mondo chiede un particolare servizio dei cristiani in favore della riconciliazione, della giustizia e della pace tra i popoli, con una carità operosa e creativa per alleviare le sofferenze, sia materiali sia spirituali, di quanti sono in difficoltà. Importante, quindi, è il ruolo della Parola di Dio nel rapporto con le culture, anche in ambienti secolarizzati e fra i non credenti, poiché la Bibbia è universalmente riconosciuta come un “grande codice” nel quale sono contenuti valori antropologici e filosofici che hanno influito positivamente su tutta l’umanità: di qui l’impegno per l’inculturazione, incrementando anche le traduzioni e la diffusione del testo. Infine, la spinta al dialogo interreligioso, in quanto parte essenziale dell’annuncio della Parola sono l’incontro e la collaborazione con tutti gli uomini di buona volontà, in particolare con le persone appartenenti alle diverse tradizioni religiose dell’umanità, ovviamente evitando forme di sincretismo e di relativismo e
includendo sempre un autentico rispetto per la libertà religiosa di ogni persona. Da quel Sinodo venne un ulteriore impulso: «Il nostro dev’essere sempre più il tempo di un nuovo ascolto della Parola di Dio e di una nuova evangelizzazione. Riscoprire la centralità della divina Parola nella vita cristiana ci fa […] continuare la missio ad gentes e intraprendere con tutte le forze la nuova evangelizzazione». Perciò Benedetto XVI, nel giugno del 2010, istituì un Pontificio Consiglio «con il compito precipuo di promuovere una rinnovata evangelizzazione nei Paesi dove è già risuonato il primo annuncio della fede e sono presenti Chiese di antica fondazione, ma che stanno vivendo una progressiva secolarizzazione della società e una sorta di “eclissi del senso di Dio”, che costituiscono una sfida a trovare mezzi adeguati per riproporre la perenne verità del Vangelo di Cristo». Come il Pontefice affermò nella prima assemblea plenaria del dicastero, «il Vangelo è il sempre nuovo annuncio della salvezza operata da Cristo per rendere l’umanità partecipe del mistero di Dio e della sua vita di amore e aprirla a un futuro di speranza affidabile e forte. Sottolineare che in questo momento della storia la Chiesa è chiamata a compiere una nuova evangelizzazione vuol dire intensificare l’azione missionaria per corrispondere pienamente al mandato del Signore». Però mi sembra ancor più interessante e attuale riprendere quanto Benedetto affermò nell’ottobre del 2012, dando avvio al nuovo appuntamento del Sinodo dei vescovi proprio sul tema “Nuova evangelizzazione e trasmissione della fede cristiana”. Si trattò di una sintetica ma acuta riflessione sul rapporto fra nuova evangelizzazione, evangelizzazione ordinaria e missione ad gentes, «tre aspetti dell’unica realtà di evangelizzazione che si completano e fecondano a vicenda». Però all’origine, chiarì, c’è sempre l’iniziativa dall’Alto: «La Chiesa non comincia con il “fare” nostro, ma con il “fare” e il “parlare” di Dio. Se Dio non agisce, le nostre cose sono solo le nostre e sono insufficienti; solo Dio può testimoniare che è Lui che parla e ha parlato. Pentecoste è la condizione della nascita della Chiesa: solo perché Dio prima ha agito, gli apostoli possono agire con Lui e con la sua presenza e far presente quanto fa Lui. Dio ha parlato e questo “ha parlato” è il perfetto della fede, ma è sempre anche un presente: il perfetto di Dio non è solo un passato, perché è un passato vero che porta sempre in sé il presente e il futuro».
Il ministero dell’annuncio Già da professore e da cardinale prefetto, Ratzinger aveva ben chiaro il compito specifico del suo ministero, sempre al servizio della fede e della verità. Ancor più da Papa maturò questa consapevolezza, come dichiarò esplicitamente a San Giovanni in Laterano il 7 maggio 2005, durante la celebrazione di insediamento sulla Cathedra romana quale Vescovo di Roma: «La Cattedra è il simbolo della potestas docendi, quella potestà di insegnamento che è parte essenziale del mandato di legare e di sciogliere conferito dal Signore a Pietro e, dopo di lui, ai Dodici». Di fatto, come ribadirà nel marzo del 2016 in una lettera al Centro studi di Bydgoszcz, «non ho mai voluto sviluppare una teologia mia propria, ma ho voluto semplicemente servire la fede della Chiesa e la sua comprensione nel nostro tempo». Fu perciò una felice coincidenza che, proprio nel tempo della sua elezione al pontificato, si concludessero i lavori per la stesura del Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica, avviati nel febbraio del 2003 da Giovanni Paolo II, il quale – a dieci anni dalla promulgazione del grande Catechismo – ne aveva voluto anche una autorevole sintesi che contenesse gli elementi essenziali della fede e della morale cattolica, formulati in una maniera semplice e accessibile a tutti. E presentandolo, il 28 giugno 2005, Benedetto XVI lo definì «un rinnovato annuncio del Vangelo oggi», esposto in forma dialogica per «riproporre un dialogo ideale tra il maestro e il discepolo, mediante una sequenza incalzante di interrogativi, che coinvolgono il lettore invitandolo a proseguire nella scoperta dei sempre nuovi aspetti della verità della sua fede». Un’esigenza del cuore di Papa Ratzinger fu la coltivazione del dialogo con l’arte, in quanto mondo della bellezza, ma anche e soprattutto egli si adoperò per portare alla luce la bellezza della fede stessa. Perciò una particolare sottolineatura la diede all’apparato iconografico presentato nel Compendio, da lui espressamente voluto perché «immagine e parola s’illuminano così a vicenda. L’arte “parla” sempre, almeno implicitamente, del divino, della bellezza infinita di Dio, riflessa nell’Icona per eccellenza: Cristo Signore, Immagine del Dio invisibile. Le immagini sacre, con la loro bellezza, sono anch’esse annuncio evangelico ed esprimono lo splendore della verità cattolica, mostrando la suprema armonia tra il buono e il bello,
tra la via veritatis e la via pulchritudinis. Mentre testimoniano la secolare e feconda tradizione dell’arte cristiana, sollecitano tutti, credenti e non, alla scoperta e alla contemplazione del fascino inesauribile del mistero della Redenzione, dando sempre nuovo impulso al vivace processo della sua inculturazione nel tempo». Sempre chiarissima in Benedetto XVI fu la convinzione che la fede cristiana, per poter essere e rimanere una fede umana, deve cercare costantemente il dialogo con la ragione umana. Il Pontefice era profondamente convinto che fede e ragione dipendono l’una dall’altra e soltanto nel dialogo reciproco possono essere superate le patologie della ragione e possono essere evitate le malattie della fede: senza la fede, la ragione minaccia di diventare unilaterale e unidimensionale; senza la ragione, la fede minaccia di nascondere la propria verità e di diventare fondamentalista. Convinto com’era che la domanda su Dio è di vitale significato per tutte le questioni che attengono al futuro dell’umanità, Papa Benedetto contribuì instancabilmente a tenere viva la questione di Dio in ogni ambito della società moderna. Il dialogo tra fede e ragione fu essenziale per lui soprattutto perché Dio stesso è logos e l’intera creazione è testimone di questa ragione. Il logos non è soltanto una ragione matematica, ma ha anche un cuore ed è amore. Da ciò trasse la seguente conclusione: «La verità è bella, verità e bellezza vanno insieme: la bellezza è il sigillo della verità». Nel contempo, nel suo Magistero non perse mai di vista la fede dei semplici. Si potrebbe anzi sostenere che lui era piuttosto convinto che la verità della fede, in ultima analisi, si manifesta meglio ai cuori più umili e può essere colta unicamente con gli occhi della fede, come egli stesso precisò nel messaggio “Urbi et Orbi” del Natale 2010: «Se la verità fosse solo una formula matematica, in un certo senso si imporrebbe da sé. Se invece la Verità è Amore, domanda la fede, il “sì” del nostro cuore». Si può tranquillamente dire che tutto questo spiega il motivo per cui l’ultima grande iniziativa del suo pontificato fu l’indizione dell’Anno della fede, che inaugurò mentre era ancora in carica, l’11 ottobre 2012, nel cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, ma che poi “lasciò in eredità” al suo successore, stabilendo che si sarebbe concluso il 24 novembre 2013, nella solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo.
Nella lettera di indizione Porta fidei confidò di aver ricordato, sin dall’inizio del suo ministero come successore di Pietro, «l’esigenza di riscoprire il cammino della fede per mettere in luce con sempre maggiore evidenza la gioia e il rinnovato entusiasmo dell’incontro con Cristo». Ma riconobbe con grande onestà che «capita ormai non di rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune», mentre «questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato. Mentre nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente accolto nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori da essa ispirati, oggi non sembra più essere così in grandi settori della società, a motivo di una profonda crisi di fede che ha toccato molte persone». Perciò Benedetto espresse la volontà di «delineare un percorso che aiuti a comprendere in modo più profondo non solo i contenuti della fede, ma insieme a questi anche l’atto con cui decidiamo di affidarci totalmente a Dio, in piena libertà. Esiste, infatti, un’unità profonda tra l’atto con cui si crede e i contenuti a cui diamo il nostro assenso. […] La conoscenza dei contenuti di fede è essenziale per dare il proprio assenso, cioè per aderire pienamente con l’intelligenza e la volontà a quanto viene proposto dalla Chiesa. La conoscenza della fede introduce alla totalità del mistero salvifico rivelato da Dio. L’assenso che viene prestato implica quindi che, quando si crede, si accetta liberamente tutto il mistero della fede, perché garante della sua verità è Dio stesso che si rivela e permette di conoscere il suo mistero di amore». Di conseguenza, la fede «proprio perché è atto della libertà, esige anche la responsabilità sociale di ciò che si crede. La Chiesa nel giorno di Pentecoste mostra con tutta evidenza questa dimensione pubblica del credere e dell’annunciare senza timore la propria fede a ogni persona. È il dono dello Spirito Santo che abilita alla missione e fortifica la nostra testimonianza, rendendola franca e coraggiosa. La stessa professione della fede è un atto personale e insieme comunitario. […] Professare con la bocca indica che la fede implica una testimonianza e un impegno pubblici. Il cristiano non può mai pensare che credere sia un fatto privato. La fede è decidere di stare con il Signore per vivere con Lui. E questo “stare con Lui” introduce alla comprensione delle ragioni per cui si crede».
L’amore al primo posto La tradizione cattolica, come richiamato anche dal Catechismo (n. 1813), definisce le virtù teologali – cioè quelle che «fondano, animano e caratterizzano l’agire morale del cristiano» e «sono infuse da Dio nell’anima dei fedeli per renderli capaci di agire quali suoi figli e meritare la vita eterna» – secondo la sequenza: fede, speranza, carità. Quando Benedetto XVI cominciò a riflettere sulla tematica da proporre nell’enciclica di inizio pontificato, il suo pensiero corse però alla prima Lettera di san Paolo ai Corinzi (13,13), dove l’“apostolo delle genti” sottolineava che «ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità», aggiungendo però immediatamente: «Ma la più grande di tutte è la carità!». Perciò decise di partire proprio da quest’ultima virtù, con la Deus caritas est, anche su sollecitazione dell’amico cardinale Paul Josef Cordes, all’epoca presidente del Pontificio Consiglio “Cor unum”, che da tempo aveva preparato una bozza sul tema della carità: fu questa la traccia di lavoro sulla quale venne elaborata la seconda parte dell’enciclica, mentre la prima parte fu sostanzialmente frutto del pensiero di Papa Ratzinger. Comunque, nel suo intento iniziale, non c’era quello di realizzare una trilogia sulle virtù, ma piuttosto di affrontare via via le tematiche più significative per un rinnovato annuncio del Vangelo nel mondo contemporaneo. Datata 25 dicembre 2005, fu resa nota il 25 gennaio 2006 e in quei giorni Benedetto spiegò che «la parola “amore” oggi è così sciupata, così consumata e abusata che quasi si teme di lasciarla affiorare sulle proprie labbra. Eppure è una parola primordiale, espressione della realtà primordiale; noi non possiamo semplicemente abbandonarla, ma dobbiamo riprenderla, purificarla e riportarla al suo splendore originario, perché possa illuminare la nostra vita e portarla sulla retta via. È stata questa consapevolezza che mi ha indotto a scegliere l’amore come tema della mia prima enciclica». Benedetto XVI era consapevole che, a prima vista, il testo poteva apparire un po’ difficile e teorico. Offrì dunque lui stesso una schematica traccia di lettura, in una lettera pubblicata sul settimanale «Famiglia Cristiana»: «Ho voluto rispondere a un paio di domande molto concrete per
la vita cristiana. La prima è: si può davvero amare Dio? E ancora: l’amore può essere imposto? Non è un sentimento che abbiamo o non abbiamo? La risposta alla prima domanda è: sì, possiamo amare Dio, dato che Egli non è rimasto in una distanza irraggiungibile, ma è entrato ed entra nella nostra vita. La seconda domanda è: possiamo davvero amare il “prossimo”, che ci è estraneo o addirittura antipatico? Sì, lo possiamo, se siamo amici di Dio, e in questo modo ci diventa sempre più chiaro che egli ci ha amato e ci ama, benché spesso noi distogliamo da lui il nostro sguardo e viviamo seguendo altri orientamenti. Da ultimo vi è la domanda: con i suoi comandamenti e i suoi divieti la Chiesa non ci rende amara la gioia dell’eros, dell’essere amati, che ci spinge all’altro e vuole diventare unione? Nell’enciclica ho cercato di dimostrare che la promessa più profonda dell’eros può maturare solo quando non cerchiamo di afferrare la felicità repentina. Al contrario troviamo insieme la pazienza di scoprire sempre più l’altro nel profondo, nella totalità di corpo e anima, di modo che da ultimo la felicità dell’altro diventi più importante della mia. Allora non si vuole più solo prendere, ma donare e proprio in questa liberazione dall’io l’uomo trova se stesso e diviene colmo di gioia». Proseguiva il Pontefice: «Nella seconda parte si parla della carità, il servizio d’amore comunitario della Chiesa per tutti coloro che soffrono nel corpo o nell’anima e hanno bisogno del dono dell’amore. Qui si presentano anzitutto due domande: la Chiesa non può lasciare questo servizio alle altre organizzazioni filantropiche che si formano in molti modi? La risposta è: no, la Chiesa non lo può fare. Essa deve praticare l’amore per il prossimo anche come comunità, altrimenti annuncia il Dio dell’amore in modo incompleto e insufficiente. La seconda domanda: non bisognerebbe piuttosto tendere a un ordine della giustizia in cui non vi sono più i bisognosi e per questo la carità diventa superflua? Ecco la risposta: indubbiamente il fine della politica è creare un giusto ordinamento della società, in cui a ciascuno viene riconosciuto il suo e nessuno soffre di miseria. In questo senso, la giustizia è il vero scopo della politica, così come lo è la pace che non può esistere senza giustizia. Di sua natura la Chiesa non fa politica in prima persona, bensì rispetta l’autonomia dello Stato e del suo ordinamento, però partecipa appassionatamente alla battaglia per la giustizia. Questa, però, è solo la prima metà della risposta alla nostra domanda. La seconda metà, che a me sta particolarmente a cuore
nell’enciclica, dice: la giustizia non può mai rendere superfluo l’amore. Il mondo si aspetta la testimonianza dell’amore cristiano che ci viene ispirato dalla fede. Nel nostro mondo, spesso così buio, con questo amore brilla la luce di Dio».
Nel segno della speranza Dopo meno di due anni (in data 30 novembre 2007), anche la seconda enciclica Spe salvi prese spunto da un brano di san Paolo, la Lettera ai Romani (8,24): «Nella speranza infatti siamo stati salvati». Indubbiamente questo testo fu maggiormente collegato all’esperienza teologica più profonda di Ratzinger, che nel 1977 aveva redatto il libro Escatologia. Morte e vita eterna, l’unico manuale che riuscì a completare nella collana “Piccola dogmatica cattolica”, prima della nomina ad arcivescovo di Monaco e Frisinga. Se posso permettermi, a livello personale questa enciclica sarebbe il testo che porterei con me nel caso del famigerato “naufragio sull’isola deserta”, poiché – rileggendola e meditandola – fa scoprire sempre dettagli nuovi e risponde alle domande esistenziali più intense di qualsiasi donna e uomo di ogni tempo. Benedetto XVI chiarì immediatamente il nocciolo della questione, spiegando che con l’opera della redenzione compiuta da Gesù Cristo «ci è stata donata una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto e accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino». Da questo, scaturiva la sua impellente domanda: «Di che genere è mai questa speranza per poter giustificare l’affermazione secondo cui a partire da essa, e semplicemente perché essa c’è, noi siamo redenti? E di quale tipo di certezza si tratta?». Papa Ratzinger andò subito al cuore di un tema che nella società moderna viene ipocritamente accantonato perché c’è la paura di porre la domanda e soprattutto l’incapacità di offrire una risposta: «Il vivere e morire dell’uomo». La sua riflessione prese spunto dal dialogo nel rito del Battesimo fra il sacerdote e i genitori: «Che cosa chiedi alla Chiesa?», «La fede»; «E che cosa ti dona la fede?», «La vita eterna». Con arguzia,
proseguì: «Vogliamo noi davvero questo, vivere eternamente? Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo. Continuare a vivere in eterno – senza fine – appare più una condanna che un dono. La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più possibile. Ma vivere sempre, senza un termine, questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile». Ed è qui che Benedetto pose una domanda fra le più intriganti del suo pontificato, che in un certo senso, a mio modo di vedere, vale un intero Magistero: «Allora, che cosa vogliamo veramente? Questo paradosso del nostro stesso atteggiamento suscita una domanda più profonda: che cosa è, in realtà, la “vita”? E che cosa significa veramente “eternità”?». La risposta risulta una vera “summa” della sua teologia: «La parola “vita eterna” cerca di dare un nome a questa sconosciuta realtà conosciuta. Necessariamente è una parola insufficiente che crea confusione. “Eterno”, infatti, suscita in noi l’idea dell’interminabile, e questo ci fa paura; “vita” ci fa pensare alla vita da noi conosciuta, che amiamo e non vogliamo perdere e che, tuttavia, è spesso allo stesso tempo più fatica che appagamento, cosicché mentre per un verso la desideriamo, per l’altro non la vogliamo. Possiamo soltanto cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità della quale siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l’eternità non sia un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità». Ne consegue la definitiva e confortante conclusione offerta da Benedetto XVI: «Noi abbiamo bisogno delle speranze – più piccole o più grandi – che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa grande speranza può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere. Proprio l’essere gratificato di un dono fa parte della speranza. Dio è il fondamento della speranza – non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l’umanità nel suo insieme». Tenendo ben presenti ambedue le dimensioni umane, quella materiale e quella spirituale, Benedetto XVI volle dedicare la terza enciclica a una tematica che ha acquisito sempre più valore con il passar del tempo: lo
sviluppo umano integrale nella carità e nella verità. La Caritas in veritate era inizialmente rivolta a commemorare nel 2007 il quarantesimo anniversario della Populorum progressio. Ma una serie di problematiche, fra cui i venti di crisi che colpirono l’intero ambito economico-finanziario in quegli anni, fecero slittare i tempi di redazione, cosicché la data formale del documento fu il 29 giugno 2009 e la presentazione avvenne il successivo 7 luglio. Per offrire un’analisi più adeguata, furono consultati diversi economisti: oltre ai professori Stefano Zamagni ed Ettore Gotti Tedeschi, venne coinvolto pure l’allora governatore della Banca d’Italia Mario Draghi. Il collegamento con l’enciclica sociale di Papa Montini risultò comunque ben chiaro, grazie a tre precedenti prospettive ribadite con forza nel nuovo testo. Innanzitutto l’idea che «il mondo soffre per mancanza di pensiero», quindi la consapevolezza che «non vi è umanesimo vero se non aperto verso l’Assoluto», infine il giudizio che «all’origine del sottosviluppo c’è una mancanza di fraternità». L’amore-carità nella verità, spiegò Benedetto, è «il principio intorno a cui ruota la dottrina sociale della Chiesa, un principio che prende forma operativa in criteri orientativi dell’azione morale, fra cui, in particolare, la giustizia e il bene comune» ed è anche «una grande sfida per la Chiesa in un mondo in progressiva e pervasiva globalizzazione: il rischio del nostro tempo è che all’interdipendenza di fatto tra gli uomini e i popoli non corrisponda l’interazione etica delle coscienze e delle intelligenze, dalla quale possa emergere come risultato uno sviluppo veramente umano. Solo con la carità, illuminata dalla luce della ragione e della fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di una valenza più umana e umanizzante». La crisi mondiale, sollecitò Papa Ratzinger, «ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative». Soltanto così «diventa occasione di discernimento e di nuova progettualità: in questa chiave, fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà del momento presente». Ma il suo principale appello fu a sperimentare la stupefacente esperienza del dono: «La gratuità è presente nella sua vita in molteplici forme, spesso non riconosciute a causa di una visione solo produttivistica e utilitaristica
dell’esistenza». E nel contempo, a mostrare «a livello sia di pensiero sia di comportamenti, che non solo i tradizionali principi dell’etica sociale, quali la trasparenza, l’onestà e la responsabilità non possono venire trascurati o attenuati, ma anche che nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica».
Secondo il cuore di Dio L’attenzione nei riguardi delle consacrate e dei consacrati in generale, e in modo specifico verso i sacerdoti, caratterizzò numerose esortazioni e iniziative di Benedetto XVI. In particolare, il segno più evidente del suo desiderio di ricentrare l’identità del presbitero, meditando sul significato della vita ministeriale e della formazione ecclesiastica, fu l’indizione dell’Anno sacerdotale, che volle esplicitamente focalizzato attorno alla figura di Jean-Marie-Baptiste Vianney, più noto come il “santo curato d’Ars”, nella circostanza del 150° anniversario della morte. Per Papa Ratzinger, questo umile sacerdote di un paesino francese con poche centinaia di fedeli – dove trascorse 44 anni di ministero senza risparmiarsi sull’altare e nel confessionale, tanto da essere indicato come modello e patrono dei parroci – rappresentava il modello dell’«innamorato di Cristo» e il suo successo pastorale aveva alle spalle come segreto «l’amore che nutriva per il Mistero eucaristico annunciato, celebrato e vissuto, che è divenuto amore per il gregge di Cristo, i cristiani e per tutte le persone che cercano Dio». Nelle varie riflessioni a lui dedicate, il Pontefice mise specificamente in primo piano una sua citazione: «Un buon pastore, un pastore secondo il cuore di Dio, è il più grande tesoro che il buon Dio possa accordare a una parrocchia e uno dei doni più preziosi della misericordia divina». Perciò stabilì di iniziare l’Anno sacerdotale nella solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, il 19 giugno 2009, in quanto giornata tradizionalmente dedicata alla preghiera per la santificazione del clero, con la conclusione nella medesima solennità del 2010. Come titolo scelse “Fedeltà di Cristo, fedeltà del sacerdote”, per evidenziare che il dono della grazia divina precede qualsiasi risposta umana e realizzazione pastorale, e
così, nella vita del sacerdote, annuncio missionario e culto non sono mai separabili, come non vanno mai separati identità sacramentale e missione evangelizzatrice. Benedetto aveva infatti maturato sempre più la consapevolezza che la visione comune della vita nel mondo moderno comprende con difficoltà il sacro, mentre l’unica decisiva categoria diventa la funzionalità, cosicché «la concezione cattolica del sacerdozio potrebbe rischiare di perdere la sua naturale considerazione, talora anche all’interno della coscienza ecclesiale». Riprendendo un precedente testo sul ministero e la vita del sacerdote, spiegò con determinazione: «Non di rado, sia negli ambienti teologici, come pure nella concreta prassi pastorale e di formazione del clero, si confrontano, e talora si oppongono, due differenti concezioni del sacerdozio. Esistono da una parte una concezione sociale-funzionale che definisce l’essenza del sacerdozio con il concetto di servizio alla comunità, nell’espletamento di una funzione; dall’altra parte, vi è la concezione sacramentale-ontologica, che naturalmente non nega il carattere di servizio del sacerdozio, lo vede però ancorato all’essere del ministro e ritiene che questo essere è determinato da un dono concesso dal Signore attraverso la mediazione della Chiesa, il cui nome è sacramento». Il preciso intento, di conseguenza, fu quello di ribadire che «il sacerdote è servo di Cristo, nel senso che la sua esistenza, configurata a Cristo ontologicamente, assume un carattere essenzialmente relazionale: egli è in Cristo, per Cristo e con Cristo al servizio degli uomini. Proprio perché appartiene a Cristo, il presbitero è radicalmente al servizio degli uomini: è ministro della loro salvezza, della loro felicità, della loro autentica liberazione, maturando, in questa progressiva assunzione della volontà del Cristo, nella preghiera, nello “stare cuore a cuore” con Lui. È questa allora la condizione imprescindibile di ogni annuncio, che comporta la partecipazione all’offerta sacramentale dell’Eucaristia e la docile obbedienza alla Chiesa». La sua puntualizzazione fu estremamente netta: «Il sacerdote non è semplicemente il detentore di un ufficio, come quelli di cui ogni società ha bisogno affinché in essa possano essere adempiute certe funzioni. Egli invece fa qualcosa che nessun essere umano può fare da sé: pronuncia in nome di Cristo la parola dell’assoluzione dai nostri peccati e cambia così, a partire da Dio, la situazione della nostra vita. Pronuncia sulle offerte del
pane e del vino le parole di ringraziamento di Cristo che sono parole di transustanziazione – parole che rendono presente Lui stesso, il Risorto, il suo Corpo e suo Sangue, e trasformano così gli elementi del mondo: parole che spalancano il mondo a Dio e lo congiungono a Lui. Il sacerdozio è quindi non semplicemente “ufficio”, ma sacramento: Dio si serve di un povero uomo al fine di essere, attraverso lui, presente per gli uomini e di agire in loro favore». Anche per questi motivi volle ribadire con forza l’importanza e l’obbligatorietà dell’abito ecclesiastico, sottolineando nella nuova edizione del Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri (n. 61) che «la veste talare – anche nella forma, nel colore e nella dignità – è specialmente opportuna perché distingue chiaramente i sacerdoti dai laici e fa capire meglio il carattere sacro del loro ministero, ricordando allo stesso presbitero che è sempre e in ogni momento sacerdote, ordinato per servire, per insegnare, per guidare e per santificare le anime, principalmente attraverso la celebrazione dei sacramenti e la predicazione della Parola di Dio. Indossare l’abito clericale funge inoltre da salvaguardia della povertà e della castità».
Il sacerdozio non è un “job” Soprattutto nel dialogo con i sacerdoti il 10 giugno 2010 in piazza San Pietro e nell’omelia per la Messa del giorno seguente, Papa Ratzinger non si tirò indietro riguardo alle questioni più urgenti e problematiche, a cominciare dall’importanza della formazione teologica: «Nel nostro tempo dobbiamo conoscere bene la Sacra Scrittura, anche proprio contro gli attacchi delle sette; dobbiamo essere realmente amici della Parola. Dobbiamo conoscere anche le correnti del nostro tempo per poter rispondere ragionevolmente, per poter dare – come dice san Pietro – “ragione della nostra fede”». Con questi obiettivi in mente, decise di promulgare il motu proprio Ministrorum institutio, trasferendo dalla Congregazione per l’Educazione cattolica a quella per il Clero «la promozione e il governo di tutto ciò che riguarda la formazione, la vita e il ministero dei presbiteri e dei diaconi: dalla pastorale vocazionale e la selezione dei candidati ai sacri ordini, inclusa la loro formazione umana,
spirituale, dottrinale e pastorale nei seminari e negli appositi centri per i diaconi permanenti, fino alla loro formazione permanente». Si soffermò poi sul valore del celibato: «Può sorprendere questa critica permanente contro il celibato, in un tempo nel quale diventa sempre più di moda non sposarsi. Ma il non sposarsi è basato sulla volontà di vivere solo per se stessi: è quindi un “no” al vincolo, un “no” alla definitività, un avere la vita solo per se stessi. Mentre il celibato è proprio il contrario: è un “sì” definitivo, è un lasciarsi prendere in mano da Dio, darsi nelle mani del Signore, nel suo “io”, e quindi è un atto di fedeltà e di fiducia». E propose una sfidante riflessione sulla mancanza di vocazioni: «La tentazione è grande: di prendere noi stessi in mano la cosa, di trasformare il sacerdozio in una normale professione, in un “job” che ha le sue ore, e per il resto uno appartiene solo a se stesso; e così rendendolo come una qualunque altra vocazione. Ma è una tentazione che non risolve il problema. Tre punti: ognuno di noi dovrebbe fare il possibile per vivere il proprio sacerdozio in maniera tale da risultare convincente; dobbiamo invitare all’iniziativa della preghiera, ad avere questa umiltà, questa fiducia di parlare con Dio con forza; dobbiamo avere il coraggio di parlare con i giovani se possono pensare che Dio li chiami, perché spesso una parola umana è necessaria per aprire l’ascolto alla vocazione divina». Non si sottrasse nemmeno a un duro giudizio sul dramma della pedofilia nel clero, che in quei mesi esplose in diverse parti del mondo e in seguito innescò ulteriori aspre polemiche: «Era da aspettarsi che al “nemico” questo nuovo brillare del sacerdozio non sarebbe piaciuto; egli avrebbe preferito vederlo scomparire, perché in fin dei conti Dio fosse spinto fuori dal mondo. E così è successo che, proprio in questo anno di gioia per il sacramento del sacerdozio, siano venuti alla luce i peccati di sacerdoti – soprattutto l’abuso nei confronti dei piccoli, nel quale il sacerdozio come compito della premura di Dio a vantaggio dell’uomo viene volto nel suo contrario. Anche noi chiediamo insistentemente perdono a Dio e alle persone coinvolte, mentre intendiamo promettere di voler fare tutto il possibile affinché un tale abuso non possa succedere mai più; promettere che nell’ammissione al ministero sacerdotale e nella formazione durante il cammino di preparazione a esso faremo tutto ciò che possiamo per vagliare l’autenticità della vocazione e che vogliamo ancora di più accompagnare i
sacerdoti nel loro cammino, affinché il Signore li protegga e li custodisca in situazioni penose e nei pericoli della vita». Benedetto individuò e valorizzò, fra gli importanti sostegni che la comunità dei fedeli può offrire ai sacerdoti per il compimento del loro ministero, l’esercizio della maternità spirituale di religiose e laiche, incarnata in preghiere, penitenze, comunioni quotidiane e adorazioni eucaristiche per la santificazione dei presbiteri. E mostrò apprezzamento per quanto affermato dalla Congregazione per il Clero nella Lettera del 2008 in occasione della Giornata mondiale di preghiera per la santificazione sacerdotale: «Si delinea, ultimamente, una ulteriore forma di maternità spirituale, che sempre ha silenziosamente accompagnato, nella storia della Chiesa, l’eletta schiera sacerdotale: si tratta del concreto affidamento del nostro ministero a un volto determinato, a un’anima consacrata, che sia da Cristo chiamata e, quindi, scelga di offrire se stessa, le necessarie sofferenze e le inevitabili fatiche della vita, per intercedere in favore della nostra sacerdotale esistenza, vivendo, in questo modo alla dolce presenza di Cristo. Una tale maternità, nella quale s’incarna il volto amorevole di Maria, va domandata nella preghiera, poiché solo Dio può suscitarla e sostenerla». E nell’udienza generale dedicata alla figura di santa Caterina da Siena, il 24 novembre 2010, egli stesso sottolineò che «anche oggi la Chiesa riceve un grande beneficio dall’esercizio della maternità spirituale di tante donne, consacrate e laiche, che alimentano nelle anime il pensiero per Dio, rafforzano la fede della gente e orientano la vita cristiana verso vette sempre più elevate».
Il dialogo al servizio della pace Con risoluta fedeltà al Concilio Vaticano II, Benedetto XVI pose un particolare accento sui temi correlati al rapporto della Chiesa con il mondo contemporaneo, cioè l’ecumenismo, il dialogo interreligioso e la libertà religiosa. Sebbene dopo tutti questi decenni il movimento ecumenico non sia riuscito a raggiungere l’unità visibile dei cristiani, anzi quell’obiettivo nel frattempo sia piuttosto divenuto sempre meno chiaro e realizzabile, Papa Ratzinger restò saldo sulla necessità di mantenere il dialogo dell’amore. Per questo motivo dedicò molto tempo a incontri con
rappresentanti di altre Chiese e Comunità ecclesiali, appuntamenti che sono stati continuamente ideati, promossi e cercati, realizzando già in questo modo un primato ecumenico. In lui era chiarissima l’idea che «la fraternità tra i cristiani non è semplicemente un vago sentimento e nemmeno nasce da una forma di indifferenza verso la verità. Essa è fondata sulla realtà soprannaturale dell’unico battesimo, che ci inserisce tutti nell’unico Corpo di Cristo. Insieme confessiamo Gesù Cristo come Dio e Signore; insieme lo riconosciamo come unico mediatore tra Dio e gli uomini, sottolineando la nostra comune appartenenza a Lui». E affermò che «grazie a questo ecumenismo spirituale (santità della vita, conversione del cuore, preghiere private e pubbliche), la comune ricerca dell’unità ha registrato in questi decenni un grande sviluppo, che si è diversificato in molteplici iniziative: dalla reciproca conoscenza al contatto fraterno tra membri di diverse Chiese e Comunità ecclesiali, da conversazioni sempre più amichevoli a collaborazioni in vari campi, dal dialogo teologico alla ricerca di concrete forme di comunione e di collaborazione». Papa Ratzinger fu molto attento a promuovere anche il dialogo interreligioso, in quanto «per la Chiesa il dialogo tra i seguaci di diverse religioni costituisce uno strumento importante per collaborare con tutte le comunità religiose al bene comune» ed essa «nulla rigetta di quanto è vero e santo nelle varie religioni». Ovviamente, con la lucidità dell’ex prefetto della Dottrina della fede, fu netto nel chiarire che «quella indicata non è la strada del relativismo, o del sincretismo religioso. La Chiesa, infatti, annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è “via, verità e vita”, in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose»; ma ciò «non esclude il dialogo e la ricerca comune della verità in diversi ambiti vitali, poiché, come recita un’espressione usata spesso da san Tommaso d’Aquino, “ogni verità, da chiunque sia detta, proviene dallo Spirito Santo”». Un particolare riscontro ci fu nell’appuntamento di Assisi dell’ottobre 2011, al quale egli invitò le Chiese cristiane, le altre religioni e anche persone agnostiche, per sensibilizzare tutti all’impegno per l’affermazione sempre nuova della pace nel mondo, dando insieme testimonianza pubblica che la gemella della religione è la pace e mai la violenza. L’occasione fu il 25° anniversario della Giornata mondiale di preghiera per la pace,
convocata nel 1986 da Giovanni Paolo II per testimoniare come la religione sia un fattore di unione e di pace, e non di divisione e di conflitto. L’auspicio di Benedetto fu che il ricordo di quell’esperienza potesse imporsi come «motivo di speranza per un futuro in cui tutti i credenti si sentano e si rendano autenticamente operatori di giustizia e di pace». Gettando uno sguardo retrospettivo, si pone in questo ambito anche il fatto che l’ultimo viaggio apostolico del suo pontificato lo abbia condotto in Libano, dunque in Medio Oriente, dove egli portò speranza a uomini sofferenti a causa del terrore e si adoperò per la pace in quella regione duramente provata. Per il Pontefice, tutto ciò si poneva comunque in correlazione con il dialogo interculturale, che lui poneva persino all’inizio del rapporto fra culture e religioni, come affermò nel dicembre del 2008 in occasione dell’Anno europeo del dialogo interculturale: «Nel contesto odierno, in cui sempre più spesso i nostri contemporanei si pongono le domande essenziali sul senso della vita e sul suo valore, appare più che mai importante riflettere sulle antiche radici dalle quali è fluita linfa abbondante nel corso dei secoli. Il tema del dialogo interculturale e interreligioso, perciò, emerge come una priorità per l’Unione Europea e interessa in modo trasversale i settori della cultura e della comunicazione, dell’educazione e della scienza, delle migrazioni e delle minoranze, fino a raggiungere i settori della gioventù e del lavoro. Una volta accolta la diversità come dato positivo, occorre fare in modo che le persone accettino non soltanto l’esistenza della cultura dell’altro, ma desiderino anche riceverne un arricchimento».
Liberi di vivere la propria fede In riferimento al rispetto della libertà religiosa, Papa Ratzinger, oltre a molteplici iniziative riservate, si spese pubblicamente con dichiarazioni coraggiose e inequivocabili, precisando che essa «non è patrimonio esclusivo dei credenti, ma dell’intera famiglia dei popoli della terra. È elemento imprescindibile di uno Stato di diritto; non la si può negare senza intaccare nel contempo tutti i diritti e le libertà fondamentali, essendone sintesi e vertice». Parallelamente denunciò con forza, come fece per esempio a gennaio del 2011, che «i cristiani sono attualmente il gruppo religioso che soffre il maggior numero di persecuzioni a motivo della
propria fede. Tanti subiscono quotidianamente offese e vivono spesso nella paura a causa della loro ricerca della verità, della loro fede in Gesù Cristo e del loro sincero appello perché sia riconosciuta la libertà religiosa. Tutto ciò non può essere accettato, perché costituisce un’offesa a Dio e alla dignità umana; inoltre, è una minaccia alla sicurezza e alla pace e impedisce la realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale». È poi fondamentale ricordare la poderosa lettera ai cattolici della Repubblica popolare cinese, da lui scritta nel terzo anno di pontificato, con la quale espresse «come mio intimo e irrinunciabile dovere e come espressione del mio amore di padre, l’urgenza di confermare nella fede i cattolici cinesi e di favorire la loro unità con i mezzi che sono propri della Chiesa». Benedetto affermò chiaramente che «la soluzione dei problemi esistenti non può essere perseguita attraverso un permanente conflitto con le legittime autorità civili; nello stesso tempo, però, non è accettabile un’arrendevolezza alle medesime quando esse interferiscano indebitamente in materie che riguardano la fede e la disciplina della Chiesa» e specificamente chiese ai governanti cinesi «di garantire ai cittadini cattolici il pieno esercizio della loro fede, nel rispetto di un’autentica libertà religiosa». Purtroppo all’epoca quel testo non trovò molta risonanza, ma tuttora rappresenta una bella testimonianza della sua preoccupazione di pastore che, pur definendosi volentieri vescovo di Roma, aveva contemporaneamente sempre di fronte agli occhi l’universalità della Chiesa cattolica. Nella complessiva azione della Chiesa in favore della pace, Papa Ratzinger inserì anche l’impegno per la salvaguardia del creato, puntualizzando il vero pensiero cristiano circa il tema ecologico: «Poiché la fede nel Creatore è una parte essenziale del Credo cristiano, la Chiesa non può e non deve limitarsi a trasmettere ai suoi fedeli soltanto il messaggio della salvezza. Essa ha una responsabilità per il creato e deve far valere questa responsabilità anche in pubblico. E facendolo deve difendere non solo la terra, l’acqua e l’aria come doni della creazione appartenenti a tutti. Deve proteggere anche l’uomo contro la distruzione di se stesso. È necessario che ci sia qualcosa come una ecologia dell’uomo, intesa nel senso giusto». Alla base, la consapevolezza che «lo sviluppo umano integrale è strettamente collegato ai doveri derivanti dal rapporto dell’uomo con l’ambiente naturale, considerato come un dono di Dio a tutti, il cui uso
comporta una comune responsabilità verso l’umanità intera, in special modo verso i poveri e le generazioni future». Nessuna ambiguità, però, nella considerazione della gerarchia dei valori: «Una corretta concezione del rapporto dell’uomo con l’ambiente non porta ad assolutizzare la natura né a ritenerla più importante della stessa persona. Se il Magistero della Chiesa esprime perplessità dinanzi a una concezione dell’ambiente ispirata all’ecocentrismo e al biocentrismo, lo fa perché tale concezione elimina la differenza ontologica tra la persona umana e gli altri esseri viventi. In tal modo, si viene di fatto a eliminare l’identità e il ruolo superiore dell’uomo, favorendo una visione egualitaristica della dignità di tutti gli esseri viventi. Si dà adito, così, a un nuovo panteismo con accenti neopagani che fanno derivare dalla sola natura, intesa in senso puramente naturalistico, la salvezza per l’uomo. La Chiesa invita, invece, a impostare la questione in modo equilibrato, nel rispetto della “grammatica” che il Creatore ha inscritto nella sua opera, affidando all’uomo il ruolo di custode e amministratore responsabile del creato, ruolo di cui non deve certo abusare, ma da cui non può nemmeno abdicare».
Tra politica e cultura Lungo il corso del pontificato, Benedetto XVI è stato chiamato a confrontarsi con i leader politici e culturali di numerose nazioni e delle principali istituzioni internazionali. Da tale confronto è scaturito un consistente complesso di riflessioni sull’ordinamento politico e giuridico, che tocca le problematiche fondamentali della società, del rapporto tra fede e ragione, tra legge e diritto, tra giustizia e libertà religiosa. Fra i quattro discorsi che considero più rappresentativi in questo ambito, emblematico fu quello che pronunciò il 18 aprile 2008 dinanzi all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York, nel quale il Pontefice valorizzò il progetto dei diritti umani, sviluppatosi in particolare nel secondo dopoguerra, con l’approvazione della Dichiarazione universale del 1948. Riassumendo i princìpi fondativi dell’Onu – il desiderio della pace, la ricerca della giustizia, il rispetto della dignità della persona, la cooperazione umanitaria e l’assistenza – ribadì che essi «esprimono le giuste aspirazioni dello spirito umano e costituiscono gli ideali che
dovrebbero sottostare alle relazioni internazionali» e sottolineò che il rispetto dei diritti e le garanzie che ne conseguono «servono a valutare il rapporto fra giustizia e ingiustizia, sviluppo e povertà, sicurezza e conflitto: la promozione dei diritti umani rimane la strategia più efficace per eliminare le disuguaglianze fra Paesi e gruppi sociali, come pure per un aumento della sicurezza». Papa Ratzinger si coinvolse in prima persona in tale impegno, confermando che «le Nazioni Unite rimangono un luogo privilegiato nel quale la Chiesa è impegnata a portare la propria esperienza “in umanità”, sviluppata lungo i secoli fra popoli di ogni razza e cultura, e a metterla a disposizione di tutti i membri della comunità internazionale». E precisò che «questa esperienza e attività, dirette a ottenere la libertà per ogni credente, cercano inoltre di aumentare la protezione offerta ai diritti della persona. Tali diritti sono basati e modellati sulla natura trascendente della persona, che permette a uomini e donne di percorrere il loro cammino di fede e la loro ricerca di Dio in questo mondo. Il riconoscimento di questa dimensione va rafforzato se vogliamo sostenere la speranza dell’umanità in un mondo migliore, e se vogliamo creare le condizioni per la pace, lo sviluppo, la cooperazione e la garanzia dei diritti delle generazioni future». Dopo pochi mesi, nel discorso del 12 settembre 2008 al Collège des Bernardins di Parigi, Benedetto si rivolse alle élites culturali di una Francia oggi generalmente secolarista e diffidente verso le religioni, per descrivere il contributo della fede cristiana allo sviluppo della civiltà europea, al risanamento della ragione, alla rinascita di una civiltà, sepolta sotto le rovine della devastazione della barbarie, che aveva fatto crollare vecchi ordini e antiche sicurezze. L’esempio da lui portato fu quello dei monaci benedettini, affascinati e impegnati in una continua ricerca di Dio utilizzando anche le scienze profane: scrittura, studio della grammatica, biblioteca, scuola, sono tutte componenti che fanno parte del monachesimo occidentale. Insieme con la cultura della parola, essi espressero la cultura del lavoro, senza la quale lo sviluppo dell’Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo sono impensabili. Ma il Papa andò più in profondità, spiegando che c’era un preciso obiettivo di questa loro missione: «Quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre,
trovare la Vita stessa. Dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante e affidabile». Di qui la sua sfida: «Cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista, che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarlo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura». Nella Westminster Hall di Londra, il 17 settembre 2010, Benedetto si trovò a parlare nel Parlamento più antico fra quelli delle democrazie occidentali. Risuonano tuttora con limpidezza le parole di vivo apprezzamento per la tradizione democratica liberale da lui pronunciate, senza però sottacere preoccupazioni e premure affinché un’autentica libertà di religione fosse preservata, anche nel futuro, in Occidente, da ogni forma di sottile minaccia: «Il mondo della ragione e il mondo della fede – il mondo della secolarità razionale e il mondo del credo religioso – hanno bisogno l’uno dell’altro e non dovrebbero avere timore di entrare in un profondo e continuo dialogo, per il bene della nostra civiltà. La religione, in altre parole, per i legislatori non è un problema da risolvere, ma un fattore che contribuisce in modo vitale al dibattito pubblico nella nazione». In quella circostanza, Papa Ratzinger sgombrò il campo da un equivoco persistente nella cultura contemporanea, basato sull’idea che il cristianesimo e, in particolare, la Chiesa cattolica, intervenendo nei dibattiti pubblici, si appellino a un “principio di autorità” nella decisione sulle questioni giuridiche e politiche. La visione da lui proposta, invece non permette ai fedeli di esimersi dalle fatiche, né consente loro di privarsi dell’uso della ragione, trincerandosi dietro precetti o comandi religiosi. Per la fiducia nutrita nella possibilità che il divino, come logos, possa essere incontrato nella ricerca razionale della verità, Benedetto XVI non esitò a richiamare il fatto che le fonti ultime del diritto sono da ricercarsi nella ragione e nella natura, non in un comando, di chiunque esso sia. Infine, nel discorso al Reichstag di Berlino del 22 settembre 2011, andò alla radice della questione, toccando il tema del fondamento dell’ordine giuridico e dei limiti del positivismo giuridico, dominante in tutto il
continente europeo lungo il corso del XX secolo. Dettagliando come sia possibile riconoscere ciò che è giusto, spiegò che «nella storia, gli ordinamenti giuridici sono stati quasi sempre motivati in modo religioso: sulla base di un riferimento alla Divinità si decide ciò che tra gli uomini è giusto. Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato o alla società un diritto rivelato, mai un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto, ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio». In questo passaggio si evidenzia l’originalità del cristianesimo, per il quale «la politica deve essere un impegno per la giustizia e creare così le condizioni di fondo per la pace. Naturalmente un politico cercherà il successo senza il quale non potrebbe mai avere la possibilità dell’azione politica effettiva. Ma il successo è subordinato al criterio della giustizia, alla volontà di attuare il diritto e all’intelligenza del diritto. Servire il diritto e combattere il dominio dell’ingiustizia è e rimane il compito fondamentale del politico. In un momento storico in cui l’uomo ha acquistato un potere finora inimmaginabile, questo compito diventa particolarmente urgente».
Le citazioni senza il contesto Nel libro The Vatican Diaries del giornalista statunitense John Thavis c’è una annotazione che mi ha colpito: «Quando Papa Benedetto arrivò alla sua conferenza stampa nel settore economy si levò un brusio frenetico. Ecco il motivo per cui le nostre aziende ci pagavano profumatamente: l’accesso all’uomo in bianco. Ecco come la nostra esperienza di vaticanisti sarebbe tornata davvero utile: pungolare il Pontefice su questioni spinose e interpretare le sue risposte improvvisate. […] Anni prima, fare marcia indietro quando il Papa faceva qualche gaffe era facile, semplicemente perché i reporter non potevano inviare i loro pezzi finché l’aereo non atterrava, diverse ore dopo. Ma il 777 di Alitalia era munito di telefoni, e il genio era già uscito dalla lampada». Di fatto, è la “fotografia” di uno di quei delicati momenti che hanno periodicamente caratterizzato il rapporto dei mass media con il Magistero di
Papa Ratzinger, quando i vaticanisti andavano alla ricerca di una notizia che potesse rappresentare “l’osso per il brodo” dei loro articoli, qualcosa che entrasse nel trending topic di Twitter o che avviasse una polemica capace di polarizzare per giorni l’attenzione dell’opinione pubblica. Spesso l’estrapolazione di un singolo pensiero o citazione del Pontefice, senza contestualizzare la complessità del suo ragionamento, innescò reazioni che tenevano conto unicamente della stringata sintesi delle agenzie di stampa. E l’ovvio risultato era che chiunque si sentiva autorizzato, in buona o cattiva fede che fosse, a esprimere d’istinto la propria vibrante critica, salvo poi doverla ritrattare una volta messo a fuoco l’intero quadro. Un tipico esempio fu ciò che accadde nel viaggio del marzo 2009 in Camerun e Angola, quando, durante il volo fra Roma e Yaoundé, un reporter francese pose la domanda: «Santità, tra i molti mali che travagliano l’Africa, vi è anche e in particolare quello della diffusione dell’aids. La posizione della Chiesa cattolica sul modo di lottare contro di esso viene spesso considerata non realistica e non efficace. Lei affronterà questo tema, durante il viaggio?». Coraggiosamente, Benedetto XVI non si tirò indietro, rivendicando innanzitutto che «la realtà più efficiente, più presente sul fronte della lotta contro l’aids è proprio la Chiesa cattolica»; poi scandì poche, ma precise parole: «Direi: non si può superare questo problema dell’aids solo con soldi. […] Non si può superare con la distribuzione di preservativi: al contrario, aumentano il problema». Come prevedibile, i titoli giornalistici risultarono tutti schierati nella medesima direzione: «Papa in Africa: aids, i preservativi non servono» («Corriere della Sera»), «Contro l’aids no ai preservativi» («la Repubblica»), «Benedetto XVI contesta l’efficacia del preservativo» («Le Monde»), «Il Papa afferma che i preservativi non sono il modo di combattere l’HIV » («New York Times») … Nessuno spazio, invece, per la soluzione da lui indicata, mediante un duplice impegno: «Primo, una umanizzazione della sessualità, cioè un rinnovo spirituale e umano che porti con sé un nuovo modo di comportarsi l’uno con l’altro; secondo, una vera amicizia anche e soprattutto per le persone sofferenti, la disponibilità, anche con sacrifici, con rinunce personali, a essere con i sofferenti». In realtà, il Papa fondava il proprio ragionamento su dati scientifici e sociologici, come per esempio uno studio dell’autorevole rivista britannica «The Lancet», che
nel gennaio del 2000 affermava: «Ci sono tre modi in cui un forte aumento dell’uso del preservativo potrebbe non influenzare la trasmissione della malattia. In primo luogo, la promozione del preservativo si rivolge maggiormente agli individui avversi al rischio, che contribuiscono poco alla trasmissione dell’epidemia. In secondo luogo, l’aumento dell’uso del preservativo aumenterà il numero di trasmissioni risultanti dal fallimento del preservativo. In terzo luogo, esiste un meccanismo di compensazione del rischio: un maggiore uso del preservativo potrebbe riflettere le decisioni degli individui di passare da strategie intrinsecamente più sicure di selezione del partner o meno partner alla strategia più rischiosa di sviluppare o mantenere tassi più elevati di cambio del partner».
Polemiche e incomprensioni Questo modo di agire da parte dei cosiddetti opinion leader è stato costantemente presente in diverse circostanze, con polemiche o incomprensioni che alla prova dei fatti si sono poi rivelate inconsistenti. La prima avvenne il 12 settembre 2006, quando Papa Ratzinger si recò nell’ateneo di Ratisbona, dove aveva insegnato Dogmatica e storia del dogma dal 1969 al 1977, ricoprendo anche l’incarico di vicerettore. Era stata una gioia per lui ricevere l’invito a pronunciare una lectio magistralis sul tema “Fede, ragione e università” e ricordo che si preparò con molta serietà, approntando una vera e propria lezione accademica, da considerare perciò con un filo unitario, nell’intento di far emergere la necessità per l’Europa di riscoprire le proprie radici cristiane. Il dramma fu che una citazione da lui utilizzata – «Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava» – venne estrapolata dal contesto, il dialogo dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo con un sapiente della legge islamica, e rilanciata come un’affermazione personale del Pontefice, diventando così un caso politico. In diversi Paesi islamici ci furono anche gravi tumulti, che causarono persino delle vittime innocenti, e furono necessarie due precisazioni, del direttore della Sala stampa Lombardi e del segretario di Stato Bertone, per tamponare nell’immediato una situazione
che era divenuta incandescente. In ogni caso, nessuno di quanti avevano letto in anticipo il testo aveva manifestato al Papa qualche perplessità in merito, proprio perché era per tutti chiaro l’ambito in cui si sarebbe svolta quella lettura. Sta di fatto che, passata la tempesta e calmate le acque, soprattutto molti studiosi islamici lessero integralmente il discorso e si resero conto della reale consistenza di quelle parole. Ci vollero un po’ di mesi, ma alla fine 138 esponenti musulmani di 43 nazioni inviarono una lettera a Benedetto per ribadire l’importanza di un confronto sincero e reciprocamente rispettoso e, a dimostrazione di una ritrovata serenità, il 6 novembre 2007 giunse per la prima volta in Vaticano il re dell’Arabia Saudita Abdallah bin Abdulaziz Al Saud, titolare anche dell’altissima carica religiosa di custode delle due sacre moschee della Mecca e di Medina. Un altro ambiente universitario, questa volta in Italia, fu al centro dell’assurda contestazione che portò all’annullamento della visita di Benedetto nell’ateneo romano La Sapienza, programmata per il 17 gennaio 2008. La preparazione era partita di lontano, addirittura l’invito ufficiale del rettore Renato Guarini era giunto il Vaticano il 17 marzo 2006, e il saluto alla comunità universitaria si collegava a dei restauri effettuati nella cappella interna all’ateneo. A innescare la polemica fu la comunicazione al Senato accademico, il 23 ottobre 2007, che il Papa avrebbe pronunciato una lectio magistralis. Nonostante il formale chiarimento dato dal rettore il 13 novembre seguente, specificando che si sarebbe trattato unicamente di una allocuzione, mentre la lezione magistrale era stata affidata al professor Mario Caravale sul tema della pena di morte, un gruppo di docenti di fisica chiese che l’evento venisse annullato, adducendo come motivazione che Ratzinger, in un discorso del 15 marzo 1990, aveva ripreso un’affermazione di Feyerabend: «All’epoca di Galileo la Chiesa rimase molto più fedele alla ragione dello stesso Galileo. Il processo contro Galileo fu ragionevole e giusto». Praticamente era il duplicato di quanto avvenuto a Ratisbona, poiché, in quella conferenza sul tema “La Chiesa e la modernità” (come ricostruì il responsabile della cappella universitaria padre Vincenzo D’Addamo), «il relatore non condivideva la posizione del filosofo citato. Il cardinale Ratzinger evidenziava le implicazioni, sulla Chiesa, del cambiamento di paradigma culturale nei vari passaggi storici della modernità e considerava
l’immagine che di Chiesa derivava, sia all’interno sia all’esterno del mondo ecclesiale. In questo contesto si collocava anche il passaggio critico su Feyerabend, e il suo giudizio controverso, di “modernità” e di “ragionevolezza”, del comportamento della Chiesa nei confronti di Galileo». In ogni caso, Benedetto preferì rinunciare alla presenza fisica e inviò il testo scritto, che fu letto in aula magna dal prorettore alle attività sociali Piero Marietti. E posso con serenità rispondere a Carlo Cosmelli, uno dei fisici firmatari della lettera, che chiese provocatoriamente se avrebbe detto le stesse cose durante l’intervento di persona: «Sì, non una virgola venne cambiata!». Ma il Papa serbò comunque il dispiacere – più che per la mancata accoglienza in quel centro culturale cui, non dimentichiamolo, aveva dato vita il suo predecessore Bonifacio VIII, istituendo il 20 aprile 1303 lo “Studium Urbis” – per la chiusura intellettuale di studiosi che di fatto avevano cancellato con un tratto di penna la libertà accademica.
Una clemenza malintesa Su un altro piano di incomprensione si situò invece la polemica relativa alla revoca della scomunica a quattro vescovi consacrati senza mandato pontificio dall’arcivescovo Marcel Lefèbvre: un gesto che il Pontefice adottò per sbloccare lo stallo che da anni perdurava nei rapporti tra la Santa Sede e la Fraternità sacerdotale San Pio X. Da prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, il cardinale Ratzinger aveva a lungo dialogato con monsignor Lefèbvre: il 5 maggio 1988 entrambi avevano addirittura firmato un protocollo d’accordo, ma il giorno successivo il presule francese cambiò idea e il 30 giugno procedette all’ordinazione episcopale di Bernard Fellay, Bernard Tissier de Mallerais, Richard Williamson e Alfonso de Galarreta, ricadendo tutti nella scomunica latae sententiae riservata alla Sede apostolica (è la pena in cui si incorre automaticamente dopo aver trasgredito una legge ecclesiastica, senza necessità che venga pronunciata una esplicita sentenza). In seguito a ulteriori colloqui, monsignor Bernard Fellay, superiore generale della Fraternità, il 15 dicembre 2008 inviò al cardinale Darío Castrillón Hoyos, presidente della Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”,
una lettera nella quale affermava, tra l’altro: «Siamo sempre fermamente determinati nella volontà di rimanere cattolici e di mettere tutte le nostre forze al servizio della Chiesa di Nostro Signore Gesù Cristo, che è la Chiesa cattolica romana. Noi accettiamo i suoi insegnamenti con animo filiale. Noi crediamo fermamente al Primato di Pietro e alle sue prerogative, e per questo ci fa tanto soffrire l’attuale situazione». Di conseguenza, come gesto di benevolenza, Benedetto XVI decise di riconsiderare la situazione canonica dei quattro vescovi scomunicati e dispose la remissione della censura latae sententiae. Per comprendere quanto accadde è però necessario tenere a mente la tempistica, ricostruita dal cardinale Castrillón: «Il 14 gennaio 2009 ho ricevuto il decreto approvato dal Santo Padre e firmato dal cardinale Re. A casa mia, il 17 gennaio l’ho consegnato a monsignor Fellay, pregandolo di informare gli altri tre vescovi della Fraternità. Solo allora essi seppero che a partire dal 21 gennaio sarebbero stati liberi dalla scomunica, e si chiese loro di conservare il segreto fino al giorno 24, quando sarebbe stato pubblicato ufficialmente il decreto». Ma il 20 gennaio il settimanale tedesco «Der Spiegel» rese nota una dichiarazione rilasciata, il 1° novembre 2008, da monsignor Williamson a un giornalista svedese (poi trasmessa dalla rete Sveriges Television proprio nella serata del 21 gennaio), nella quale il vescovo negava che durante l’Olocausto fossero stati uccisi ebrei nelle camere a gas. La polemica immediatamente divampò e oggettivamente si verificarono errori di comunicazione a livello vaticano: ci fu una imprecisa spiegazione del senso di quella remissione dalla scomunica, che aveva un valore unicamente ecclesiale e non coinvolgeva altri aspetti, e soprattutto non si chiarì con forza che quella dichiarazione Benedetto e io non la conoscevamo (e che anzi risultava sospetta un’attesa così prolungata prima della messa in onda, come se si fosse atteso il momento giusto…). In aggiunta, Castrillón aveva comunicato a Benedetto e a Bertone che Williamson era molto ammalato di cancro e in poco tempo sarebbe morto, per cui si accelerò la procedura per consentirgli di avere rapidamente la remissione della scomunica. La notizia risultò falsa e suscitò ulteriore irritazione in Vaticano, ma anche nella Fraternità la presenza del vescovo negazionista non deve essere risultata opportuna, visto che, il 24 ottobre
2012, il vescovo sarà formalmente «dichiarato escluso per decisione del superiore generale e del suo Consiglio». Comunque, alla fine il Pontefice decise di dare un definitivo taglio alla questione e, con la consueta signorilità, prese sulle proprie spalle la colpa. Ci fu un incontro nel quale si discusse a lungo, e diversi di noi ritenevamo che chi non aveva prestato l’opportuna attenzione avrebbe dovuto assumersi la responsabilità dell’accaduto. Ma Benedetto non volle che qualcuno potesse sostenere che si era nascosto dietro ai collaboratori, cosicché si ritirò nello studio e ne uscì con una lettera totalmente scritta da lui, che venne pubblicata il 10 marzo 2009, con la presa d’atto del fatto che «il sommesso gesto di una mano tesa abbia dato origine a un grande chiasso, trasformandosi proprio così nel contrario di una riconciliazione». Nel contempo, Papa Ratzinger volle esternare la propria tristezza perché «anche cattolici, che in fondo avrebbero potuto sapere meglio come stanno le cose, abbiano pensato di dovermi colpire con un’ostilità pronta all’attacco» e, citando la frase di san Paolo «se vi mordete e vi divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!» (Galati 5,15), concluse lucidamente: «Sono stato sempre incline a considerare questa frase come una delle esagerazioni retoriche che a volte si trovano in san Paolo. Sotto certi aspetti può essere anche così. Ma purtroppo questo “mordere e divorare” esiste anche oggi nella Chiesa come espressione di una libertà mal interpretata».
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La storica rinuncia che ha segnato un’epoca
I motivi della decisione Parafrasando il famoso verso di Dante «galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse» (Inferno V,136), si potrebbe dire che «galeotto fu il Mondiale e chi lo indisse». Mi spiego subito: il 30 ottobre 2007 la Fifa aveva assegnato al Brasile l’organizzazione della Coppa del mondo di calcio per il 2014, cosicché, quando il 21 agosto 2011 a Madrid, al termine della 26 a Giornata mondiale della gioventù, Benedetto rese noto che la sede della successiva edizione sarebbe stata Rio de Janeiro, venne precisato anche che era stato ritenuto opportuno anticipare la 27 a GMG al 2013, non rispettando la consueta cadenza triennale, per evitare la coincidenza dei due affollati eventi. Si potrà condividere o meno la convinzione del Papa, ma – e lo dico con estrema chiarezza per sgombrare il campo da qualsiasi equivoco – fu proprio la questione della partecipazione personale a quella GMG a innescare in lui una riflessione, che via via si fece sempre più stringente, riguardo alla prosecuzione o meno del suo pontificato. La gioia che aveva visto negli occhi degli innumerevoli ragazzi e ragazze presenti sulla spianata dell’aeroporto madrileno Cuatro Vientos, per la veglia di preghiera e la santa Messa, avevano infatti indelebilmente consolidato la sua certezza che un incontro dei giovani senza la presenza fisica del Pontefice sarebbe stato monco. Era rimasta scolpita nei suoi occhi e nella sua mente l’immagine di quell’immenso popolo, si calcolarono due milioni di presenze, che cantava e lo incitava sotto una tremenda tempesta. A un certo punto gli era volato via lo zucchetto bianco dalla testa e il nubifragio lo aveva inzuppato al punto che le scarpe rosse gli avevano macchiato perfino la pelle dei piedi. Ma quando, sollecitato da un cardinale, ero andato a proporgli di ritirarsi,
mi aveva risposto con fermezza: «Io rimango!». E a voce alta aveva detto sorridendo ai ragazzi: «Il Signore con la pioggia ci manda tante benedizioni». A Madrid, Papa Ratzinger aveva manifestato esplicitamente il proprio pensiero: nel saluto finale, riferendosi all’appuntamento di Rio, aveva invocato il Signore affinché spianasse «il cammino ai giovani di tutto il mondo perché possano riunirsi nuovamente col Papa in questa bella città brasiliana». Perciò sono tuttora convinto che, se l’appuntamento fosse normalmente stato confermato per il 2014, Benedetto non avrebbe indugiato nel corso del 2012 a ragionare sulla propria stanchezza fisica e mentale, ma sarebbe tranquillamente andato avanti per tutto il 2013. Mi sembra che possano documentarlo proprio alcune sue affermazioni di inizio 2012. Durante il Concistoro del 18 febbraio, Benedetto nell’allocuzione chiese di pregare per lui «affinché possa sempre offrire al popolo di Dio la testimonianza della dottrina sicura e reggere con mite fermezza il timone della santa Chiesa»: parole che non rivestono alcun presagio di rinuncia. Il 16 aprile, giorno dell’85° compleanno, salutò i connazionali bavaresi esprimendo un legittimo dubbio, semplicemente collegato alla sua età avanzata: «Mi trovo di fronte all’ultimo tratto del percorso della mia vita e non so cosa mi aspetta». Dall’incontro del 28 marzo con Fidel Castro, quasi suo coetaneo ma decisamente più malridotto (infatti morì novantenne nel 2016), venne riportata la battuta del Papa: «Sono anziano, ma posso fare ancora il mio dovere». Purtroppo però il viaggio apostolico in Messico e a Cuba, fra il 23 e il 29 marzo 2012, lo rese all’improvviso consapevole di quanto le sue forze stessero costantemente diminuendo, imponendogli una seria valutazione sull’immediato futuro. Di fatto la visita pastorale era andata molto bene, ma rispondere all’entusiasmo della gente nei tanti incontri pubblici (oltre ai diversi appuntamenti privati), considerando la notevole differenza di fuso orario e la tempistica dei trasferimenti in aereo e in automobile, era risultato ovviamente molto faticoso per un uomo di ormai 85 anni. Per di più, in Messico, il Papa inciampò in un tappetino mentre era in bagno per farsi la barba e cadde di spalle, battendo la testa sul rialzo della cabina della doccia. Non ebbe perdita di conoscenza o problemi particolari, ma furono necessari un paio di punti per suturare la ferita. Nonostante la medicazione il sanguinamento proseguì, al punto da costringere monsignor
Guido Marini a non togliergli lo zucchetto, che copriva la garza macchiata, nei momenti in cui la liturgia lo avrebbe richiesto durante la Messa nel Parque del bicentenario di León, tant’è che qualcuno pensò che il maestro delle Celebrazioni si fosse distratto! Al rientro in Vaticano, il dottor Polisca fu netto nello sconsigliare un altro viaggio transatlantico, suggerendogli di limitarsi a percorrenze meno impegnative. Benedetto prese sul serio questa indicazione, ampliando la propria meditazione anche riguardo agli altri aspetti del ministero pontificio, e dialogò più volte con il medico personale, per comprendere bene il possibile evolversi della situazione di salute. Come ho saputo in seguito, già nell’udienza del 30 aprile 2012 accennò al cardinale Bertone l’idea di rinunciare al ministero petrino, ma nell’immediato non ci furono ulteriori sviluppi. In effetti, in quell’occasione il segretario di Stato, uscendo dall’incontro, mi aveva fatto una domanda molto vaga: «Il Papa mi ha detto una cosa strana riguardo alla sua stanchezza e al timore di non farcela ad andare avanti. Ne ha parlato anche con te?». Io risposi che non sapevo nulla e non fui particolarmente colpito da tali parole. Nel frattempo era cominciato il cosiddetto Vatileaks e i nostri pensieri vennero assorbiti dalle preoccupazioni legate a questa vicenda e alle contemporanee questioni relative alle polemiche attorno allo IOR e alle notizie sullo scandalo della pedofilia nel clero. Fra il 30 maggio e il 3 giugno andammo a Milano per il 7° Incontro mondiale delle famiglie e anche in questo caso ci fu un clima molto festoso, che persuase ulteriormente Benedetto riguardo alla necessità della presenza fisica del Papa in mezzo ai fedeli. Devo però smentire una rievocazione del gesuita Silvano Fausti in relazione all’incontro del 2 giugno, nell’arcivescovado di Milano, fra il Papa e il cardinale Carlo Maria Martini, che era gravemente ammalato di Parkinson e morirà il 31 agosto successivo. Secondo padre Fausti, Martini avrebbe fatto riferimento ai problemi della Curia vaticana, suggerendo a Benedetto di dimettersi: «È proprio ora, sai, perché qui non si riesce a fare nulla». Io ricordo bene che il cardinale quel giorno era sulla sedia a rotelle in pessime condizioni, non riusciva praticamente a parlare e dalla gola gli uscivano soltanto suoni indistinguibili. Effettivamente ci fu un incontro di pochi minuti a quattr’occhi con Benedetto, ma non avvenne un vero dialogo, come mi
disse il Papa stesso. Purtroppo non mi è stato possibile un riscontro sulla veridicità della cosa, poiché padre Fausti morì il 24 giugno 2015 e l’intervista con quelle sue dichiarazioni fu resa nota, sul sito www.glistatigenerali.com soltanto il 12 luglio 2015. In quel periodo cominciai a notare in Benedetto una tensione inconsueta. In particolare dopo la celebrazione della Messa in cappella, durante il tempo del ringraziamento, lo vedevo molto concentrato nella preghiera. Sull’inginocchiatoio si prendeva la testa fra le mani e quasi si accasciava su se stesso, un atteggiamento estraneo al suo stile, poiché normalmente aveva una postura più composta e rigida. Attribuii questi segnali di inquietudine alle problematiche del momento e poi, quando dal 3 luglio ci trasferimmo a Castel Gandolfo, pensai anche che si trattasse dello sforzo mentale che stava compiendo per ultimare la terza parte del libro su Gesù, quella sul periodo dell’infanzia. Nella seconda metà di agosto cominciai a vederlo più sereno, ma a fine mese si accese in me un piccolo campanello d’allarme, poiché il cardinale Bertone, al termine di un’udienza, mi accennò nuovamente al fatto che il Papa gli aveva parlato con più concretezza del suo sentirsi affaticato. Il segretario di Stato non precisò oltre, poiché anche lui non sapeva cosa pensare. Nel suo libro autobiografico, così ha descritto quella circostanza: «Feci fatica a credere che avrebbe preso veramente tale decisione e, con rispetto ma con forza, gli presentai una serie di ragionamenti che ritenevo fossero fondati per il bene della Chiesa e per sventare una generale depressione del popolo di Dio, davanti al suo buon Pastore». Per il 1° ottobre era programmato il nostro rientro definitivo in Vaticano e la settimana precedente giunse il momento in cui volle informare anche me. Lo ricordo perfettamente: dopo la colazione del 25 settembre mi disse di andare da lui un poco prima del consueto appuntamento mattutino, quello in cui esaminavamo la posta e controllavamo gli eventuali appuntamenti della giornata, anticipandomi che doveva parlarmi di un argomento importante. Anche altre volte era accaduto qualcosa di simile, per esempio quando c’era una problematica che doveva essere affrontata con specifica attenzione. Perciò nuovamente non restai particolarmente impensierito da tale richiesta. Quando mi sedetti di fronte a lui, vidi che la sua espressione era nel contempo seria e serena. Poi, senza giri di parole, mi disse: «Ho riflettuto,
ho pregato e sono giunto alla conclusione che, a causa del diminuire delle forze, devo rinunciare al ministero petrino». Di getto, reagii con il cuore: «Padre Santo, se le forze non sono più adeguate, si può diminuire il carico di lavoro, si possono ridimensionare gli impegni nell’arco della giornata, delegando e accentrando meno». Con pacatezza, scandì in estrema sintesi le motivazioni della sua decisione, dimostrandomi nei fatti quanto a lungo e con scrupolosità avesse ponderato ogni aspetto. Immediatamente mi resi conto che ogni mio tentativo di convincimento sarebbe stato del tutto vano. Ormai conoscevo Benedetto a fondo, da molti anni, e sapevo bene che quando aveva preso una decisione – particolarmente, come in questo caso, dopo intensa preghiera e riflessione – era determinato nel portarla a compimento. Il primo punto che mi sottopose fu proprio quello relativo alla Giornata mondiale della gioventù, e io provai a dirgli che, con i maxischermi e i collegamenti via internet, sarebbe stata possibile una presenza costante e in tempo reale, calcolando che comunque la quasi totalità dei presenti lo avrebbe guardato tramite un video anche a Rio, a motivo dell’estensione degli spazi e del numero dei partecipanti previsti. Ma non riuscii a far breccia nella sua considerazione che un conto era sapere che il Papa era fisicamente lì tra loro, e un conto che invece si trovava in Vaticano e il suo intervento era soltanto virtuale. Benedetto mi propose poi un confronto con Giovanni Paolo II, morto proprio a quasi 85 anni d’età, e sottolineò: «Io ormai sono Papa da tanti anni quanti sono stati quelli della sua malattia e non vorrei finire come lui. Del resto, quello che potevo fare l’ho fatto e per la Chiesa sarebbe meglio la mia rinuncia, con l’elezione di un nuovo Pontefice più giovane ed energico. È questo il momento giusto in cui, dopo che hanno trovato conclusione le problematiche vicende di questi ultimi mesi, posso passare il timone a un altro senza troppe difficoltà». Di fatto, una sua evidente preoccupazione era di evitare che ci fosse l’acquisizione di spazi di potere da parte di qualsiasi suo collaboratore, ben consapevole com’era che Papa Wojtyła, nel tempo finale del pontificato, non aveva più mantenuto pienamente le redini del governo. Ratzinger all’epoca si era tenuto fuori dai giochi, ma aveva visto come sostanzialmente i principali esponenti vaticani avevano conquistato sempre più influenza, talvolta anche in competizione fra loro: oltre al segretario
particolare don Stanislao e al segretario di Stato Sodano, c’erano il sostituto Leonardo Sandri e il prefetto della Congregazione per i Vescovi Giovanni Battista Re, e poi nell’ambito italiano il presidente della Cei Camillo Ruini. Nel 2012 le chiacchiere sul potere che avremmo esercitato il cardinale Bertone e io già erano cominciate e Benedetto intendeva stroncarle sul nascere!
In segreto a piccoli passi L’idea originaria di Benedetto era di comunicare la rinuncia a conclusione dell’udienza alla Curia romana per gli auguri natalizi, fissata quell’anno per il 21 dicembre, indicando come data conclusiva del pontificato il 25 gennaio 2013, festa della conversione di san Paolo. Quando me lo disse, a metà ottobre, replicai: «Santo Padre, mi permetta di dirlo, se farà così, quest’anno non si festeggerà il Natale, né in Vaticano né altrove. Sarà come un manto di ghiaccio su un giardino in fioritura». Di fatto, l’11 ottobre 2012, nel 50° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, era stato inaugurato l’Anno della fede, che si sarebbe concluso il 24 novembre 2013. Per l’occasione, Papa Ratzinger aveva avviato la stesura di un’enciclica proprio sul tema della fede, e inoltre in quei giorni stava correggendo le bozze del volume sull’infanzia di Gesù, in vista dell’uscita in libreria il 21 novembre. Perciò, ragionando insieme con il cardinale Bertone, ci trovammo d’accordo sul fatto che riguardo alla rinuncia, pur avendo compiuto il possibile, non eravamo più in grado di fargli cambiare opinione, mentre almeno sulla data dell’annuncio fummo concordi nel perorare uno spostamento all’anno seguente. Benedetto comprese le nostre motivazioni e alla fine scelse l’11 febbraio, giorno festivo in Vaticano per l’anniversario dei Patti lateranensi fra l’Italia e la Santa Sede, nel quale era già previsto un Concistoro cosiddetto “bianco”, per l’annuncio di alcune canonizzazioni (mentre il Concistoro “rosso” è quello per la creazione dei nuovi cardinali). Per di più, era anche la memoria della beata Vergine Maria di Lourdes e in quel giorno, nel santuario di Altötting a lui carissimo, si celebrava la Giornata mondiale del malato: spiritualmente, il Papa esprimeva anche così la vicinanza a quanti vivevano «un difficile momento di prova a causa dell’infermità e della
sofferenza», come aveva scritto nel messaggio per l’occasione, associandosi idealmente alla loro fatica. Il tempo liturgico era propizio, poiché dopo due giorni c’era il Mercoledì delle ceneri e in questa ricorrenza poté celebrare l’ultima Messa pubblica, lasciando intendere ancora una volta quale fosse il centro del suo messaggio: ciò che più conta nella vita ecclesiale è la conversione a Gesù Cristo e il volgersi verso la sua Pasqua di risurrezione, senza la quale il cristianesimo non avrebbe alcun senso. Quindi, dal 15 al 23 febbraio, si sarebbero tenuti gli esercizi spirituali di Quaresima per la Curia romana, che consentivano un “cuscinetto”, un “tempo di digestione”, sia all’interno sia all’esterno. Il predicatore sarebbe stato il cardinale Gianfranco Ravasi, cosicché si decise di informare anche lui per tempo, in modo da consentirgli la preparazione di meditazioni adeguate alla circostanza. Nell’ultima settimana prima della rinuncia, Benedetto informò i componenti della Casa pontificia. Il 5 febbraio ricevette il secondo segretario don Xuereb, che in un’intervista ha ricordato così quel momento: «Papa Benedetto mi invita ad accomodarmi nel suo studio e mi annuncia la grande decisione della sua rinuncia. A me, lì per lì, quasi veniva spontaneo di chiedergli: “Ma perché non ci pensa un po’?”. Ma poi mi sono trattenuto poiché ero convinto che aveva pregato a lungo». Nel medesimo giorno, in un momento separato, lo disse anche a suor Birgit, mentre alle Memores parlò il 7 febbraio: per ciascuna fu ovviamente un momento di grande commozione. Fra i pochi altri a essere messi a conoscenza, oltre ovviamente al fratello Georg, ci furono monsignor Guido Marini, maestro delle Celebrazioni liturgiche pontificie, e padre Federico Lombardi, direttore della Sala stampa della Santa Sede. Ambedue ricevettero la notizia dal cardinale Bertone, in modo da essere preparati il primo a guidare la cerimonia del Concistoro e il secondo ad affrontare il prevedibile assalto dei giornalisti. Naturalmente, venne ufficialmente informato il cardinale Angelo Sodano, decano del Collegio cardinalizio: il Pontefice lo incontrò a quattr’occhi l’8 febbraio e gli diede personalmente la notizia. Contrariamente a quello che qualche giornalista ha ipotizzato, il testo che il decano pronunciò nella sala Clementina, come risposta alla dichiarazione della rinuncia, non era stato concordato con Benedetto (né tanto meno scritto direttamente dal Papa): non era abitudine di Sodano far leggere i suoi
discorsi in anticipo, comportamento del resto simile a quello di Ratzinger con Giovanni Paolo II quando era lui il decano. Benedetto aveva cominciato a fine gennaio a stendere la bozza del testo che avrebbe letto in Concistoro. La sua decisione di scrivere in latino fu ovvia, poiché da sempre è questa la lingua dei documenti ufficiali della Chiesa cattolica. La formula della rinuncia venne ultimata dal Papa il 7 febbraio. Portai personalmente il foglio nell’appartamento del cardinale Bertone, dove lo leggemmo insieme con monsignor Giampiero Gloder, coordinatore in Segreteria di Stato della redazione finale dei testi pontifici. Vennero suggerite piccole correzioni ortografiche e qualche precisazione giuridica, cosicché il testo definitivo fu pronto per domenica 10 febbraio, quando si provvide anche alle traduzioni in italiano, francese, inglese, tedesco, spagnolo, portoghese e polacco. L’estrema segretezza con cui fu elaborato il testo comportò il coinvolgimento di pochissime persone. Come è ovvio, la competenza linguistica spesso privilegia la capacità di leggere da una lingua straniera e di comprenderne le sfumature. Non sempre è altrettanto perfetta la scrittura direttamente in quella lingua, particolarmente se non c’è un costante esercizio. Perciò, cercando di dare un andamento armonioso alla costruzione latina, non ci si accorse che una concordanza latina non era corretta: l’accusativo commissum collegato al dativo ministerio, al posto di commisso, nella frase «declaro me ministerio Episcopi Romae, Successoris Sancti Petri, mihi per manus cardinalium die 19 aprilis MMV commissum» («dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei cardinali il 19 aprile 2005»). Per una inappropriata digitazione, la prima versione resa nota dalla Sala stampa recava altri due errori, come il precedente rapidamente sistemati sul sito vaticano nel primo pomeriggio di quell’11 febbraio: un pro Ecclesiae vitae al posto di pro Ecclesiae vita («per la vita della Chiesa»), e un hora 29 invece di hora 20. Ma questi non erano presenti sul foglio che Benedetto tenne fra le mani, poiché, come si rileva dalla videoregistrazione, ambedue furono invece pronunciati correttamente. In realtà, esisteva già una lettera di rinuncia sottoscritta da Benedetto, che l’aveva mutuata da quelle redatte da Paolo VI e da Giovanni Paolo II (è nota una dichiarazione dell’allora cardinale Ratzinger, nell’aprile del 2002, al «Münchner Kirchenzeitung», il settimanale diocesano dell’arcidiocesi di
Monaco e Frisinga: «Se il Papa [Wojtyła] vedesse di non poter assolutamente farcela più, allora sicuramente si dimetterebbe»). Nel 2006, Benedetto firmò una dichiarazione nella quale esprimeva previamente la volontà di rinunciare nel caso in cui non fosse stato più nelle condizioni fisiche o mentali per fare il Papa, consentendo che in quel momento venisse divulgato il testo, in modo da rendere libera la Sede apostolica e avviare la successione pontificia. A evidenziarne l’opportunità era stata la lettera di un vecchio amico medico, che aveva attirato l’attenzione sui suoi problemi di salute e sul rischio che si ripetesse un episodio trombotico, per cui gli aveva suggerito che sarebbe stato un atto di responsabilità fornire qualche esplicita indicazione in merito. Anche in quel caso, Benedetto preparò il testo personalmente, chiedendo al cardinale Julián Herranz – presidente emerito del Pontificio Consiglio per i Testi legislativi – di verificarne il contenuto per aggiustare forma e sostanza giuridica. Una copia la trattenne proprio Herranz, che gliela restituì nel 2013 ed è poi finita nell’archivio della Segreteria di Stato. Una precisa determinazione di Benedetto fu quella di porre un intervallo di separazione fra il giorno dell’annuncio e la data di conclusione del pontificato, poiché reputava essenziale che i cardinali potessero avere un tempo di pausa e di preparazione, corrispondente psicologicamente in qualche modo a ciò che in precedenza era stato il periodo dell’agonia del Papa e dei Novendiali, i nove giorni di lutto successivi alla morte e al funerale, durante il quale sono previste specifiche celebrazioni nella Basilica vaticana. Inoltre doveva esserci la possibilità di rendere noto il motu proprio Normas nonnullas, su alcune modifiche alle regole della costituzione apostolica Universi dominici gregis relative all’elezione del Romano Pontefice, dopo l’opportuna verifica da parte del Pontificio Consiglio per i Testi legislativi e della Segreteria di Stato, una cosa impossibile da fare in precedenza, poiché avrebbe dato troppo nell’occhio.
Il sorprendente annuncio Al risveglio dell’11 febbraio 2013, dopo una notte un po’ agitata per la tensione, mi resi conto che stavo per vivere un evento che sarebbe rimasto
nella storia. Ma sin dal primo incontro con Benedetto XVI, in cappella per la preparazione alla Messa, potei notare che lui era invece estremamente calmo. Certo, sul suo viso ogni tanto si palesava un attimo di sospensione, come un flash per riflettere su ciò che stava per concretizzarsi. Ma lo sapevo bene: una volta che aveva raggiunto una determinazione, tutto il suo essere restava in perfetta pace. La serenità con cui attraversò quella impegnativa giornata, e che posso garantire si è mantenuta intatta sino alla morte, mi consente oggi di esprimere per la prima volta – “sommessamente”, come è d’uso nel linguaggio curiale – la convinzione che Benedetto avesse anche lui dei tratti mistico-ascetici, in continuità spirituale con Giovanni Paolo II, e che tutte le sue decisioni fossero dovute a un rapporto diretto con Dio, da cui realmente si sentiva ispirato e costantemente guidato. Del resto, lui stesso lo ha fatto capire “tra le righe” in molteplici occasioni e forse bastava dare più attenzione e credibilità alle sue parole. Per esempio, in Introduzione al cristianesimo (da teologo professore nel 1968) spiegò che «ciò che non può essere visto, quello che non può assolutamente entrare nel nostro raggio visivo, non è affatto l’irreale, ma è anzi l’autentica realtà: quella che sorregge e rende possibile ogni altra realtà»; in Dio e il mondo (da cardinale prefetto nel 2001), alla sollecitazione di Peter Seewald: «Per lei che parla personalmente con Dio, la comunicazione con lui è diventata così naturale come telefonare?», replicò: «Sotto certi aspetti il paragone può reggere. So che Lui è sempre presente. E Lui sa comunque chi sono e che cosa sono. A maggior ragione avverto l’esigenza di invocarLo, di comunicare con Lui, di parlare con Lui. Con Lui posso misurarmi sulle questioni più semplici e interiori come su quelle più grandi e gravose. Per me è in qualche modo normale avere sempre la possibilità, nel quotidiano, di rivolgermi a Lui»; in Luce del mondo (da Papa nel 2010), rispondendo alla domanda di Seewald: «Esiste ora un suo “rapporto privilegiato” con il Cielo, qualcosa di simile a grazie di diritto legate al suo ministero?», affermò: «Sì, a volte ho questa impressione. Nel senso che penso: “Ecco, ho potuto fare una cosa che non veniva da me. Ora mi affido a Te e mi accorgo che, sì, c’è un aiuto, succede qualcosa che non viene da me”. In questo senso esiste l’esperienza della grazia del ministero».
Anche se non mi parlò mai di esplicite illuminazioni soprannaturali, come visioni o locuzioni interiori (del resto fu sempre molto cauto in materia di rivelazioni private), in questo specifico caso espresse costantemente la certezza morale che – riflettendo, pregando e soffrendo – aveva raggiunto la convinzione di dover rinunciare per mancanza delle forze. Oggi, riflettendoci, provo una sensazione come di un indiretto déjàvu, in relazione all’episodio di maggio del 1945, quando durante la guerra il giovane Joseph decise di tornare a casa rischiando di passare per disertore e di essere fucilato su due piedi: forse, in quella esperienza determinante che gli salvò la vita, c’è la chiave segreta per intendere il passo che compì alla fine del suo pontificato, quando – superando mille ostacoli e molte buone ragioni – una seconda volta, semplicemente e rinchiudendosi nel silenzio, decise di tornare a casa… Quando entrai nella sala del Concistoro, subito dietro Benedetto, vidi in attesa, allineati lungo le pareti, una cinquantina di cardinali e qualche altro vescovo e monsignore. Mi venne spontaneo pensare che mi sarebbe piaciuto congelare in quel momento il tempo, con i volti sorridenti e distesi di quanti consideravano quella riunione una delle tante cerimonie che caratterizzavano da secoli le consuetudini della Santa Sede. Il brusio di sottofondo si tacitò immediatamente e gli sguardi di tutti si fissarono sul Papa, per la naturale curiosità di osservare come camminava e che aspetto aveva. La salute del Pontefice è da sempre uno dei principali argomenti di chiacchiericcio in Vaticano… L’appuntamento era per le 11 e si cominciò in perfetto orario. Il Concistoro era stato convocato, secondo prassi, per il cosiddetto “voto” su alcune cause di canonizzazione. Nella procedura per la proclamazione dei nuovi santi è infatti prevista un’ultima tappa, quando il Pontefice conferma il parere positivo dei cardinali e dei vescovi riguardo alla santità di un beato e annuncia la data in cui presiederà la cerimonia. La circostanza, sebbene relativamente rapida, è comunque un evento solenne, in quanto con il decreto di canonizzazione il Pontefice si esprime ex cathedra, cioè esercita la propria infallibilità, secondo la definizione del Concilio Vaticano I. I protagonisti di quella mattinata erano Antonio Primaldo e circa ottocento compagni testimoni della fede cristiana, martirizzati a Otranto nell’agosto del 1480 durante un’incursione degli Ottomani sulle coste pugliesi, Laura di Santa Caterina da Siena Montoya y Upegui (1874-1949),
fondatrice della Congregazione delle suore missionarie della Beata Vergine Maria Immacolata e di santa Caterina da Siena, e Maria Guadalupe García Zavala (1878-1963), cofondatrice della Congregazione delle Serve di santa Margherita Maria e dei poveri. La data della celebrazione sul sagrato della Basilica vaticana per la loro iscrizione nell’Albo dei santi venne fissata per domenica 12 maggio 2013. Dopo questo annuncio, Benedetto avrebbe dovuto alzarsi, pronunciare la formula della benedizione e andare via. Invece, come avevo riservatamente preannunciato al cerimoniere Guido Marini, porsi al Papa un altro foglio. Era un testo in latino che l’acustica degli ampi spazi rendeva di non facile comprensione, ma, nell’arco di meno di tre minuti, risuonarono alcune parole dal chiarissimo significato, che causarono un sempre più crescente stupore nei presenti: «decisionem magni momenti» («una decisione di grande importanza»), «ingravescente aetate» («per l’età avanzata», rievocando il titolo del motu proprio con cui Paolo VI, nel 1970, aveva emanato alcune norme connesse all’età dei cardinali), «incapacitatem meam ad ministerium mihi commissum» («la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato»), «declaro me renuntiare» («dichiaro di rinunciare»), «Conclave ad eligendum novum Summum Pontificem» («il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice»). Nella traduzione italiana, la dichiarazione integrale recitava così: «Carissimi fratelli, vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre canonizzazioni, ma anche per comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa. Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato. Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28
febbraio 2013, alle ore 20, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice. Carissimi fratelli, vi ringrazio di vero cuore per tutto l’amore e il lavoro con cui avete portato con me il peso del mio ministero, e chiedo perdono per tutti i miei difetti. Ora, affidiamo la santa Chiesa alla cura del suo Sommo Pastore, Nostro Signore Gesù Cristo, e imploriamo la sua Santa Madre Maria, affinché assista con la sua bontà materna i padri cardinali nell’eleggere il nuovo Sommo Pontefice. Per quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio». In questo modo, Benedetto adempì esattamente quanto stabilito dal Codice di Diritto canonico (can. 332 §2): «Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti». Ovviamente, per rispondere a chi tuttora sostiene che non c’è riscontro formale di quell’atto, sul foglio vennero apposte la data e la firma autografe del Papa e la sua dichiarazione fu verbalizzata da un protonotario apostolico, che redasse il rogito del Concistoro, custodito nell’apposito archivio a perpetua memoria. Con voce a tratti rotta per l’emozione, il cardinale Sodano lesse una risposta nella quale si alternarono passaggi nel contempo drammatici e lirici, riuscendo, a mio parere, a trasmettere i sentimenti che aleggiavano nella sala, misti di gratitudine e di preoccupazione, ed esprimendo anche la consapevolezza che non si poteva mettere in discussione una convinta decisione del Papa: «Come un fulmine a ciel sereno, ha risuonato in quest’aula il suo commosso messaggio. L’abbiamo ascoltato con senso di smarrimento, quasi del tutto increduli. […] A nome di questo cenacolo apostolico, il Collegio cardinalizio, a nome di questi suoi cari collaboratori, permetta che le dica che le siamo più che mai vicini, come lo siamo stati in questi luminosi otto anni del suo pontificato. […] Quel giorno ella ha detto il suo “sì” e ha iniziato il suo luminoso pontificato nel solco della continuità coi suoi 265 (sic, in realtà 264, N.d.A.) predecessori sulla Cattedra di Pietro, nel corso di duemila anni di storia, dall’apostolo Pietro, l’umile pescatore di Galilea, fino ai grandi Papi del secolo scorso, da san Pio X al beato Giovanni Paolo II. […] In questo mese ci saranno tante occasioni ancora di sentire la sua voce paterna. La sua missione però continuerà. Ella ha detto
che ci sarà sempre vicino con la sua testimonianza e con la sua preghiera. Certo, le stelle nel cielo continuano sempre a brillare e così brillerà sempre in mezzo a noi la stella del suo pontificato». Pochi minuti più tardi, alle 11.46, Giovanna Chirri, la vaticanista dell’agenzia giornalistica italiana Ansa che aveva assistito in Sala stampa all’evento attraverso il circuito televisivo interno, lanciò per prima la notizia che subito fece il giro del mondo: «+++ FLASH +++ PAPA LASCIA PONTIFICATO DAL 28/2 +++ FLASH +++ ». Da quel momento fui subissato da una quantità incredibile di telefonate, messaggi e mail, cui non ho ovviamente avuto alcuna possibilità di rispondere. Ogni tanto davo uno sguardo a quelli che provenivano da autorevoli personalità, compresi cardinali e vescovi che non erano presenti nella sala del Concistoro, e notavo che molti di loro esprimevano incredulità e chiedevano conferma, come se non riuscissero proprio a ritenere possibile una tale situazione… Comunque, per noi la giornata proseguì in una surreale routine: tutto procedeva secondo consuetudine, ma come se l’atmosfera si fosse improvvisamente rarefatta. Dopo il Concistoro siamo usciti verso la sala dei Sediari e dietro di noi è stata chiusa la porta, poi con l’ascensore Sisto V siamo saliti nell’appartamento pontificio e qui ho aiutato il Papa a togliere la stola, la mozzetta, il rocchetto e la croce pettorale. Quindi sono tornato alla mia scrivania, ma la testa era altrove e neanche con don Alfred ho commentato qualcosa. Subito è arrivata l’ora del pranzo, durante il quale ha regnato il silenzio. Dopo una breve passeggiata sul terrazzo, il riposino pomeridiano e alle 16 il Rosario alla grotta di Lourdes nei Giardini vaticani. Il lavoro per sistemare la corrispondenza mi ha impegnato fino alla cena, mentre il Papa nel suo studio esaminava documenti e rifletteva sui discorsi per gli appuntamenti dei giorni successivi. Dopo cena, il Tg1 ha ovviamente dedicato ampio spazio alla notizia, ma neanche in questo caso Benedetto ha espresso qualche osservazione. L’unico con cui ha parlato quel giorno penso sia stato il fratello, nella consueta telefonata serale, ma per quanto ne so non ha avuto ulteriori contatti, né telefonici né di persona.
Le antiche radici dell’idea
Ancora prima di diventare lui il Papa, anzi perfino quando era arcivescovo in Germania, Ratzinger aveva ben presente quanta fatica richiedesse la guida della Chiesa e implicitamente si mostrava grato a Paolo VI per il motu proprio con cui aveva stabilito che ogni vescovo fosse tenuto a presentare le dimissioni al compimento dei 75 anni d’età e che perfino i cardinali dovessero abbandonare ogni ufficio, compresa la possibilità di entrare in Conclave, superati gli 80 anni. Nell’omelia del 10 agosto 1978, pronunciata nella cattedrale di Monaco di Baviera nella Messa di suffragio per Papa Montini, morto quattro giorni prima a quasi 81 anni e dopo 15 anni di pontificato, commentava: «Paolo VI si è lasciato portare sempre più dove umanamente, da solo, non voleva andare. Sempre più il pontificato ha significato per lui farsi cingere la veste da un altro ed essere inchiodato alla croce. Possiamo immaginare quanto debba essere pesante il pensiero di non poter più appartenere a se stessi. Di non avere più un momento privato. Di essere incatenati fino all’ultimo, con il proprio corpo che cede, a un compito che esige, giorno dopo giorno, il pieno e vivo impiego di tutte le forze di un uomo». Un paio d’anni più tardi, dialogando con il filosofo Ulrich Hommes su come un cristiano debba reagire quando sente di non poter personalmente fare più nulla, chiarì innanzitutto che «questo momento viene per ognuno, non certo nel momento della morte, bensì in molte situazioni nel corso della vita» e quindi affermò che «il senso della vita deve essere più forte di ciò che noi possiamo produrre, deve essere qualcosa che già mi attende. Dobbiamo essere consapevoli che nessun uomo può realizzare tutto; la fede è una rinuncia a qualcosa, ma è proprio questa rinuncia che ci conduce al cambiamento e ci consente di procedere in avanti». Negli anni da prefetto in Vaticano, fra i temi che lo appassionarono ci fu quello del primato petrino e della sua “struttura martiriologica”. Riprendendo quanto aveva scritto il cardinale inglese Reginald Pole a metà Cinquecento, Ratzinger sottolineò che «la sede del Vicario di Cristo è quella su cui si è seduto Pietro a Roma quando vi piantò la croce di Cristo. Da essa egli non è mai disceso durante tutto l’esercizio del suo pontificato, bensì, innalzato con Cristo secondo lo spirito, le sue mani e i suoi piedi erano a tal punto fissati ai chiodi che non volle andare dove lo portava la sua volontà, ma rimanere là dove lo manteneva la volontà di Dio: là stavano inchiodati ormai il suo sentimento e il suo pensiero».
Intervistato da Peter Seewald per il libro Dio e il mondo nel 2001, quando Giovanni Paolo II era ormai già evidentemente malato, il cardinale rifletté: «Possiamo chiederci se il compito non rimanga eccessivamente oneroso. La massa dei contatti impostigli dalle responsabilità nei confronti della Chiesa universale; le decisioni da prendere; la necessità di non trascurare lo stato contemplativo, di radicare la propria missione nella preghiera – tutto questo rimane un grosso dilemma». E il 7 maggio 2005 a San Giovanni in Laterano, nell’omelia di insediamento sulla Cattedra romana come Vescovo di Roma, Benedetto XVI non ebbe timore nel dire che «colui che è il titolare del ministero petrino deve avere la consapevolezza di essere un uomo fragile e debole – come sono fragili e deboli le proprie forze – costantemente bisognoso di purificazione e di conversione. Ma egli può anche avere la consapevolezza che dal Signore gli viene la forza per confermare i suoi fratelli nella fede e tenerli uniti nella confessione del Cristo crocifisso e risorto». Lui è stato sempre molto consapevole che la forza dell’uomo non proviene dalle capacità personali, bensì dalla grazia divina. In tante sue omelie c’è questa affermazione della debolezza umana che viene sostenuta dalla forza del Signore, per cui non mi stupì la risposta che nel luglio del 2010 diede, ancora a Seewald per il libro Luce del mondo, alla domanda se avesse mai pensato di dimettersi: «Quando il pericolo è grande non si può scappare. Ecco perché questo sicuramente non è il momento di dimettersi. È proprio in momenti come questo che bisogna resistere e superare la situazione difficile. Questo è il mio pensiero. Ci si può dimettere in un momento di serenità, o quando semplicemente non ce la si fa più. Ma non si può scappare proprio nel momento del pericolo e dire: “Se ne occupi un altro”. Quando un Papa giunge alla chiara consapevolezza di non essere più in grado fisicamente, psicologicamente e mentalmente di svolgere l’incarico affidatogli, allora ha il diritto e in alcune circostanze anche il dovere di dimettersi». Certamente la sua rinuncia si è posta in un contesto diverso rispetto a quella che il 13 dicembre 1294 fece Celestino V, il Papa eremita da tanti richiamato in questa circostanza. Però è indubbio che Benedetto ha più volte incrociato la propria vita con quel monaco «che fece per viltade il gran rifiuto» (Inferno III,60), come l’avrebbe apostrofato Dante nella Divina commedia, o piuttosto che la Chiesa ha proclamato santo e che il
Martirologio romano ricorda così: «Esercitata la vita eremitica in Abruzzo, rinomato per fama di santità e di miracoli, a 80 anni fu eletto Romano Pontefice e assunse il nome di Celestino V, ma nello stesso anno abdicò dal suo ufficio e preferì ritirarsi in solitudine». Sugli schermi televisivi sono state riproposte più volte le immagini del 28 aprile 2009, quando Papa Ratzinger, durante la visita nelle zone terremotate dell’Abruzzo, si recò nella basilica di Collemaggio a L’Aquila per venerare le spoglie di Papa Celestino. Tutti furono colpiti dal fatto che Benedetto depose sull’urna il suo pallio da Pontefice, ma assolutamente non si trattò di un gesto simbolico che voleva preannunciare l’idea della rinuncia. Piuttosto fu un garbato modo per onorare il suo santo predecessore e riconoscerne la coraggiosa decisione, e nel contempo valorizzare con quella esposizione un paramento che non aveva più in animo di indossare. Infatti quel pallio era stato utilizzato da Benedetto per iniziativa del maestro delle Celebrazioni Piero Marini, che lo aveva fatto realizzare prima della morte di Giovanni Paolo II su un modello risalente ai primi secoli cristiani, in relazione a una propria convinzione teologico-liturgica. Però, incrociato sul lato sinistro con la sua forma allungata e asimmetrica, come il carattere Ч, quel pallio risultava decisamente scomodo, poiché spesso cadeva dalla spalla, mentre la preferenza del Pontefice andava a quello di forma più simmetrica e ovale con il lembo pendente al centro del petto, simile alla lettera . Cosicché, quando l’arcivescovo diocesano Giuseppe Molinari gli propose di fare un atto d’omaggio a Celestino V, Benedetto accettò volentieri e partì da Roma già con la precisa idea di donare quel pallio, che esplicitamente chiese al nuovo maestro Guido Marini di portare con sé, non essendo previste celebrazioni che ne avrebbero richiesto l’utilizzo. E ricordo bene come con monsignor Guido sorridemmo riguardo al modo in cui il Pontefice aveva risolto con finezza una situazione sgradita. Benedetto comunque non commentò in alcun modo l’episodio, poiché era appena rimasto molto scosso dalle immagini dei danni causati dal sisma del 6 aprile e per di più, da tedesco, provava anche costernazione per l’eccidio che era stato compiuto proprio a Onna nel giugno del 1944 dai soldati nazisti. Il 4 luglio 2010, poi, compì una visita pastorale a Sulmona, in occasione degli ottocento anni dalla nascita di Celestino V. A causa del sentiero
disagevole, non poté recarsi all’eremo di Sant’Onofrio al Morrone, dove nel 1294 il monaco Pietro Angelerio venne raggiunto dai cardinali che gli comunicarono l’elezione a Pontefice. Ma accolse l’invito del vescovo diocesano Angelo Spina e andò a omaggiarne le reliquie nella cripta della cattedrale. Anche qui c’era il collegamento a un antico ricordo, poiché il battaglione del fratello Georg, costretto nel 1942 ad arruolarsi nell’esercito tedesco (durante la ritirata venne anche ferito), si era attestato da queste parti, lungo la cosiddetta “linea Gustav”. Nel 2008 monsignor Georg si era recato a rivedere quei luoghi ed era stato accolto dalla comunità locale, potendo così fare in qualche modo anche pace con se stesso e il suo passato. Tornato in Vaticano, Georg raccontò durante il pranzo questa sua esperienza al fratello Joseph, il quale perciò, quando ricevette l’invito dal vescovo Spina, lo accettò subito e volentieri. Infine, è singolare la coincidenza tra gli ultimi giorni di Benedetto da Pontefice e la ricognizione canonica sulle spoglie di Celestino V, prelevate il 21 febbraio 2013 a Collemaggio, in occasione del 700° anniversario della sua canonizzazione. Quando la reliquia è tornata nella basilica, i paramenti settecenteschi che rivestivano il santo sono stati sostituiti con altri, di fattura moderna ma stilisticamente ispirati a quelli dei Pontefici medioevali, per i quali è degno coronamento il pallio lasciato da Benedetto.
Gli incompresi segni premonitori Nei giorni successivi alla rinuncia, i mass media si sbizzarrirono nel cercare riferimenti a quanto era avvenuto, in particolare negli ambiti del cinema e della letteratura. Il più menzionato, ovviamente, fu il film Habemus Papam, realizzato da Nanni Moretti appena due anni prima, con la drammatica affermazione di Michel Piccoli: «Chiedo perdono al Signore per quello che sto per fare… Ho capito di non essere in grado di sostenere il ruolo che mi è stato affidato». In quel caso, però, la situazione era stata immaginata dal regista nell’immediato contesto del Conclave, con una crisi di panico del neoeletto e il ricorso a una rapida e inefficace psicoterapia analitica. In sostanza, si trattava di una manifestazione di debolezza dinanzi a una nomina inattesa.
Al contrario per Benedetto, che comunque non fece mai ricorso a psicoanalisi o a psicofarmaci, fu evidentemente la coraggiosa presa di coscienza della diminuzione di energie fisiche e spirituali dopo otto anni di governo sulla cattedra di Pietro, ormai quasi ottantaseienne. Qualcun altro recuperò un’antologia di racconti fantasy, pubblicata dalla rivista Urania della Mondadori nel marzo del 1978 e intitolata Il dilemma di Benedetto XVI, come l’omonimo racconto di Herbie Brennan. Qui però il ricorso a uno psichiatra per risolvere la questione al centro della vicenda non riguardava la permanenza o meno del Pontefice alla guida della Chiesa, bensì la sua sanità mentale. L’obiettivo era di comprendere se fosse concreta o illusoria la visione mistica che gli aveva imposto di agire militarmente contro il feroce dittatore immaginario Victor Ling, considerandolo un anticristo alla stregua di Nerone e di Hitler. E l’evoluzione della storia seguiva, ovviamente, una strada completamente estranea a quella percorsa da Papa Ratzinger. Analizzando i fatti a posteriori, molti commentatori hanno invece riconosciuto di aver sottovalutato un importante evento vaticano del precedente novembre, quando si era svolto un mini-Concistoro con la creazione di sei nuovi cardinali elettori, dopo che appena a febbraio ne erano stati creati ben diciotto. All’epoca, la spiegazione dei vaticanisti aveva fatto riferimento alla predominanza di europei (tredici, e fra loro addirittura sette italiani) nell’appuntamento di inizio 2012, cui si era voluto rimediare successivamente con l’inserimento di cinque extraeuropei. Non fu però adeguatamente percepita la presenza dell’arcivescovo James Michael Harvey, unico a ricoprire un ruolo curiale fra i nominati. È vero che l’ecclesiastico posto a capo della Casa pontificia – denominato nel corso del tempo maestro di camera della Corte pontificia, maggiordomo dei Sacri Palazzi e prefetto della Casa pontificia – è quasi sempre divenuto membro del Collegio cardinalizio, come documentano ben 92 porporati, su un totale di 97 responsabili che si sono succeduti negli ultimi quattro secoli. Ma questo è accaduto generalmente al termine del loro incarico, non mentre erano ancora in attività. In effetti, questa fu una personale idea di Benedetto XVI, il quale me l’aveva accennata per la prima volta a fine settembre 2012, spiegandomi che riteneva il posto di prefetto della Casa pontificia, che Harvey avrebbe lasciato in seguito alla nomina cardinalizia, come il più adatto per me. La
mia prima sensazione fu che in tal modo riteneva che, dopo la sua rinuncia, avrei potuto ricoprire una funzione di trait d’union con il successore. Quando, qualche settimana più tardi, ritornò sull’argomento, lo ringraziai, ma gli risposi che avrei accettato solo in obbedienza, poiché mi sembrava un incarico certamente di grande prestigio ma troppo formale per le mie caratteristiche. Poi gli ricordai che, al momento dell’elezione, gli avevo promesso fedeltà «in vita et in morte» e che dunque desideravo continuare il mio impegno con lui, cosa che apprezzò molto e accolse volentieri. In realtà, già precedentemente Benedetto mi aveva espresso l’intenzione di nominarmi segretario della Congregazione delle Cause dei santi in sostituzione dell’arcivescovo Michele Di Ruberto (dimissionario per età nell’autunno del 2010), elevandomi di conseguenza all’episcopato. Il Papa ne aveva parlato anche con il cardinale prefetto Angelo Amato, che si era mostrato pienamente d’accordo. Ma, quando lo annunciò a me, io confermai che si sarebbe trattato di un grande onore, ma che sentivo più importante continuare a essere fedele all’impegno preso con lui e restare suo segretario particolare. Cosicché, la seconda volta, Benedetto fu risoluto nel dirmi che me lo chiedeva in obbedienza e io dovetti perciò rispondere positivamente. Di fatto, non era consuetudine in Vaticano che il segretario particolare del Papa diventasse vescovo mentre svolgeva ancora tale servizio, anche se un precedente c’era stato durante il pontificato precedente, con la nomina di don Stanislao, il più stretto collaboratore di Giovanni Paolo II (cui fu attribuito l’inedito ufficio di prefetto aggiunto della Casa pontificia). Ma in quella circostanza Papa Wojtyła gli affiancò nella consacrazione episcopale anche il maestro delle Celebrazioni Piero Marini, cosa che invece Papa Ratzinger non attuò con il nuovo maestro, monsignor Guido Marini (omonimo, ma non parente del predecessore). Confidenzialmente, Benedetto mi fece comprendere che tra le motivazioni, in quel tempo che praticamente coincideva con la grazia concessa a Paolo Gabriele, c’era anche l’intenzione di documentare pubblicamente, ad abundantiam, che lui non condivideva le accuse che da qualche parte mi erano state rivolte per una presunta mancata vigilanza nella vicenda del Vatileaks, riconfermando la sua piena fiducia nei miei confronti.
In ogni caso, non ci fu un “trattamento di favore” nei miei riguardi, poiché la consueta inchiesta si svolse secondo le regole, con l’intervento anche della Segreteria di Stato, e al termine mi venne comunicata la nomina, annunciata il 7 dicembre 2012. Fra le tre diocesi titolari che mi furono proposte, scelsi Urbisaglia, oggi piccolo Comune in provincia di Macerata, ma durante l’Impero romano florido centro posto lungo la via Salaria Gallica: grazie alla vicinanza a Roma ho avuto la possibilità di recarmi in visita e idealmente “prendere possesso” della sede episcopale (mentre le altre due diocesi storiche erano località ormai scomparse nell’Africa del Nord e in Medio Oriente). La mia ordinazione fu presieduta da Benedetto il 6 gennaio 2013 e certamente, a livello personale, ha rappresentato la cerimonia liturgica più solenne cui io abbia mai partecipato, commovente come null’altro, sia precedentemente che in seguito. Nell’omelia, Papa Ratzinger indicò con chiarezza che il vescovo «deve soprattutto essere un uomo il cui interesse è rivolto verso Dio, perché solo allora egli si interessa veramente anche degli uomini» e deve avere «il coraggio di restare fermamente con la verità, inevitabilmente richiesto a coloro che il Signore manda come agnelli in mezzo ai lupi». Quando il Pontefice mi diede la pax, dopo la consacrazione, mi sussurrò una semplice ma significativa esortazione: «Da vescovo rimanga sempre nella fedeltà al Signore». Verso metà ottobre Benedetto mi comunicò di aver riflettuto su dove andare a vivere dopo la rinuncia e di aver avuto l’idea di trasferirsi nel “Mater Ecclesiae”, il monastero di clausura voluto da Giovanni Paolo II. Si era informato e aveva scoperto che le monache Visitandine erano appena andate via, secondo quanto concordato tre anni prima, mentre non era ancora giunta la nuova comunità religiosa che avrebbe dovuto rimpiazzarle. Perciò, durante un’udienza di tabella, il Papa informò il sostituto Angelo Becciu riguardo alla rinuncia, esprimendogli anche il proprio desiderio per l’abitazione. Con l’arcivescovo, quasi da congiurati, una sera di novembre ci recammo senza dare nell’occhio a visitare la struttura e ci rendemmo conto che occorreva realizzare una ristrutturazione degli spazi. Venne incaricato un architetto per la progettazione e poco dopo cominciarono i lavori. L’aspetto divertente fu che man mano la voce si sparse in Vaticano, attribuendo però l’iniziativa al cardinale Bertone, che secondo la vox populi stava preparando la residenza dove ritirarsi in pensione: di comune accordo,
lasciammo correre il pettegolezzo, in modo da depistare ogni possibile sospetto… Meno facile da cogliere tra i “preavvisi non rilevati” ci fu l’inusuale concessione, nell’arco di pochissimi mesi, di diverse onorificenze mediante le quali Benedetto volle mostrare la propria gratitudine ai principali collaboratori laici. Il 29 settembre 2012 concesse la Commenda con placca dell’Ordine di san Gregorio Magno al comandante Domenico Giani e lo stesso fece il 27 novembre con Giuseppe Bellapadrona, responsabile della fattoria pontificia di Castel Gandolfo, e il 18 gennaio 2013 con il medico personale Patrizio Polisca; mentre il Cavalierato dell’Ordine di San Gregorio Magno fu concesso il 15 novembre 2012 a Francesco Cavaliere e a Sandro Mariotti, dell’Anticamera pontificia, e il 18 gennaio 2013 al fotografo dell’Osservatore Romano Francesco Sforza. Ma erano provvedimenti che non venivano particolarmente pubblicizzati, cosicché non suscitarono particolari interrogativi, né posero qualcuno in stato d’allerta. Infine, rappresentò quasi un presagio il concerto dell’orchestra del Maggio musicale fiorentino diretta dal maestro Zubin Mehta, che si svolse il 4 febbraio nell’aula Paolo VI, promosso dall’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede in onore di Benedetto XVI e del presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano in occasione dell’84° anniversario dei Patti lateranensi. In programma c’erano infatti due titoli che potevano essere interpretati alla luce di quanto stava per accadere: la sinfonia da La forza del destino di Giuseppe Verdi e la sinfonia n. 3 Eroica di Ludwig van Beethoven!
Il congedo dal Palazzo Non credo che Benedetto si attendesse qualche gesto da parte dei cardinali per convincerlo a cambiare idea, ma sono certo che non sarebbe comunque tornato indietro. Quindi, anche se qualcuno avesse provato a sondarlo, si sarebbe reso conto dell’inutilità di un appello pubblico o qualcosa del genere, poiché avrebbe inutilmente creato tensioni. Perciò, in quei pochi giorni fino all’inizio degli esercizi spirituali della Curia romana, si svolsero unicamente gli incontri già previsti in agenda.
Dopo la consueta pausa del martedì, il 13 febbraio era l’inizio del tempo quaresimale e Papa Ratzinger utilizzò la catechesi dell’Udienza generale e l’omelia della Messa per il Mercoledì delle ceneri per proporre alcune riflessioni dal sapore autobiografico, incentrate sulla liturgia del giorno. Al mattino, ai numerosi fedeli raccolti nell’aula Paolo VI, parlò del deserto dove Gesù si ritira e viene sottoposto alle tentazioni del diavolo: «È il luogo del silenzio, della povertà, dove l’uomo è privato degli appoggi materiali e si trova di fronte alle domande fondamentali dell’esistenza, è spinto ad andare all’essenziale e proprio per questo gli è più facile incontrare Dio. […] Riflettere sulle tentazioni a cui è sottoposto Gesù nel deserto è un invito per ciascuno di noi a rispondere ad una domanda fondamentale: che cosa conta davvero nella mia vita? […] Il nocciolo delle tre tentazioni che subisce Gesù è la proposta di strumentalizzare Dio, di usarlo per i propri interessi, per la propria gloria e per il proprio successo. E dunque, in sostanza, di mettere se stessi al posto di Dio, rimuovendolo dalla propria esistenza e facendolo sembrare superfluo. Ognuno dovrebbe chiedersi allora: che posto ha Dio nella mia vita? È Lui il Signore o sono io?». Al pomeriggio poi, nella Basilica vaticana, la sua voce risuonò ferma: «Il “ritornare a Dio con tutto il cuore” nel nostro cammino quaresimale passa attraverso la croce, il seguire Cristo sulla strada che conduce al Calvario, al dono totale di sé. È un cammino in cui imparare ogni giorno ad uscire sempre più dal nostro egoismo e dalle nostre chiusure, per fare spazio a Dio che apre e trasforma il cuore. […] Gesù sottolinea come sia la qualità e la verità del rapporto con Dio ciò che qualifica l’autenticità di ogni gesto religioso. Per questo Egli denuncia l’ipocrisia religiosa, il comportamento che vuole apparire, gli atteggiamenti che cercano l’applauso e l’approvazione. Il vero discepolo non serve se stesso o il “pubblico”, ma il suo Signore, nella semplicità e nella generosità. La nostra testimonianza allora sarà sempre più incisiva quanto meno cercheremo la nostra gloria e saremo consapevoli che la ricompensa del giusto è Dio stesso, l’essere uniti a Lui, quaggiù, nel cammino della fede, e, al termine della vita, nella pace e nella luce dell’incontro faccia a faccia con Lui per sempre». Secondo consuetudine, il giorno successivo al Mercoledì delle ceneri fu dedicato all’incontro con i sacerdoti della diocesi di Roma, un appuntamento fissato già da diversi mesi per una riflessione intitolata “Riviviamo il Concilio Vaticano II - Ricordi e speranze di un testimone”. La
tematica era stata scelta dai parroci romani, che desideravano ascoltare la rievocazione di quell’evento dalla viva voce dell’ultimo protagonista ancora in attività. Benedetto si era preparato molto bene, aveva scritto di suo pugno l’intero discorso e aveva fissato nella mente la sequenza di punti che desiderava affrontare. Molti rimasero stupiti dalla lucidità con cui andò avanti a parlare per circa un’ora senza tenere neanche un foglietto d’appunti fra le mani. Ma la sua prodigiosa memoria e la competenza sull’argomento gli consentirono di analizzare compiutamente ciò che accadde durante e dopo il Concilio, esprimendo anche le proprie convinzioni riguardo all’ermeneutica dei testi conciliari. «Siamo andati al Concilio non solo con gioia, ma con entusiasmo. C’era un’aspettativa incredibile. Speravamo che tutto si rinnovasse, che venisse veramente una nuova Pentecoste. Si pensava di trovare di nuovo l’unione tra la Chiesa e le forze migliori del mondo, per aprire il futuro dell’umanità, per aprire il vero progresso», furono le parole con cui diede avvio a un’ampia disamina delle intenzioni dei padri conciliari: «La prima, apparentemente semplice, era la riforma della liturgia; la seconda, l’ecclesiologia; la terza, la Parola di Dio, la Rivelazione; infine, anche l’ecumenismo». Le idee essenziali, spiegò, erano diverse: «Soprattutto il Mistero pasquale come centro dell’essere cristiano, e quindi della vita cristiana, dell’anno, del tempo cristiano, espresso nel tempo pasquale e nella domenica che è sempre il giorno della risurrezione». Poi c’erano dei princìpi: «L’intelligibilità e la partecipazione attiva. Purtroppo, questi princìpi sono stati anche male intesi». Qui esplicitò una serrata critica che già altre volte aveva manifestato e che, come prevedibile, fu l’unico brano che fece notizia sulla stampa: «C’era il Concilio dei Padri, il vero Concilio, ma c’era anche il Concilio dei media. Era quasi un Concilio a sé, e il mondo ha percepito il Concilio tramite questi, tramite i media. E mentre il Concilio dei Padri si realizzava all’interno della fede, era un Concilio della fede che cerca l’intellectus, che cerca di comprendersi e cerca di comprendere i segni di Dio in quel momento, che cerca di rispondere alla sfida di Dio in quel momento e di trovare nella Parola di Dio la parola per oggi e domani, il Concilio dei giornalisti non si è realizzato, naturalmente, all’interno della fede, ma all’interno delle categorie dei media di oggi, cioè fuori dalla fede, con
un’ermeneutica diversa: per i media, il Concilio era una lotta politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa. Era ovvio che i media prendessero posizione per quella parte che a loro appariva quella più confacente con il loro mondo». Ma la sua conclusione fu venata comunque di ottimismo: «Il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale. Ma la forza reale del Concilio era presente e, man mano, si realizza sempre più e diventa la vera forza che poi è anche vera riforma, vero rinnovamento della Chiesa». Gli esercizi spirituali per la Curia romana si tennero, fra il 17 e il 23 febbraio, nella cappella “Redemptoris Mater”. Il Papa, don Alfred e io assistemmo dalla cappella di San Lorenzo, posta sul lato destro, dove c’era un grande inginocchiatoio per il Papa e due piccoli per noi segretari, con le sedie, ma senza tavolini. Il Papa non prendeva appunti, però ascoltava con grande interesse e concentrazione le meditazioni proposte dal cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura. Durante quella settimana, in tutti i pasti non parlammo mai e, per mantenere un’atmosfera di raccoglimento, ascoltavamo musica classica. Nella sala da pranzo c’era un impianto stereo e Benedetto dava ogni giorno precise disposizioni su quali cd mettere: in particolare mottetti di Bach e concerti di Mozart e Beethoven, ma non Passioni o Messe, che preferiva riservare ad altri momenti. In quel periodo anche la corrispondenza era filtrata e gli sottoponevo soltanto le lettere più importanti e i documenti che richiedevano la sua firma. Ravasi riuscì effettivamente a dare respiro, offrendo icone bibliche dal grande valore spirituale, ma anche ben sintonizzate sul momento che stavamo vivendo. Mi è rimasta particolarmente impressa la sua introduzione, con il brano dell’Esodo dove Mosè prega sulla vetta di un colle, mentre nella valle sottostante il popolo d’Israele combatte contro Amalek. Rivolgendosi direttamente a Benedetto, sottolineò: «Questa immagine rappresenta la sua funzione principale per la Chiesa, cioè l’intercessione. Noi rimarremo nella “valle”, quella valle dove c’è la polvere, dove ci sono le paure, i terrori anche, gli incubi, ma anche le speranze, dove lei è rimasto in questi otto anni con noi. D’ora in avanti, però, noi sapremo che, sul monte, c’è la sua intercessione per noi». E concluse formulando un auspicio a nome di tutti: «Mosè aveva 120 anni
quando morì. I suoi occhi però non gli si erano mai appannati e il vigore della sua mente non era mai venuto meno. Questo è certamente un grande augurio che vogliamo rivolgerle. Anche perché la tradizione ebraica, attorno a questo momento, ha intessuto dei racconti deliziosi, molto teneri nei confronti di Mosè e di questo suo attendere tutto il percorso della sua esistenza». Memore di quelle parole, nell’Angelus di domenica 24 Papa Ratzinger pronunciò un pensiero profondamente scolpito nel suo cuore e che diede il “la” a una serie di osservazioni polemiche che non si spensero praticamente fino al termine della sua vita: «Il Signore mi chiama a “salire sul monte”, a dedicarmi ancora di più alla preghiera e alla meditazione. Ma questo non significa abbandonare la Chiesa, anzi, se Dio mi chiede questo è proprio perché io possa continuare a servirla con la stessa dedizione e lo stesso amore con cui ho cercato di farlo fino ad ora, ma in un modo più adatto alla mia età e alle mie forze». Nella medesima linea ideale, all’Udienza generale di mercoledì 27 in piazza San Pietro, descrisse il percorso dei suoi otto anni di pontificato: «Un tratto di cammino della Chiesa che ha avuto momenti di gioia e di luce, ma anche momenti non facili; mi sono sentito come san Pietro con gli apostoli nella barca sul lago di Galilea: il Signore ci ha donato tanti giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui la pesca è stata abbondante; vi sono stati anche momenti in cui le acque erano agitate ed il vento contrario, come in tutta la storia della Chiesa, e il Signore sembrava dormire. Ma ho sempre saputo che in quella barca c’è il Signore e ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua. E il Signore non la lascia affondare; è Lui che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini che ha scelto, perché così ha voluto. Questa è stata ed è una certezza, che nulla può offuscare». Poi, tornando ancora una volta col pensiero al 19 aprile 2005, la data dell’elezione, fece altre affermazioni sulle quali sono state versate tonnellate d’inchiostro: «La gravità della decisione è stata proprio anche nel fatto che da quel momento in poi ero impegnato sempre e per sempre dal Signore. Sempre – chi assume il ministero petrino non ha più alcuna privacy. Appartiene sempre e totalmente a tutti, a tutta la Chiesa. Alla sua vita viene, per così dire, totalmente tolta la dimensione privata. […] Il “sempre” è anche un “per sempre” – non c’è più un ritornare nel privato. La
mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero non revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze, eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso». In sostanza era una “licenza poetica”, che Benedetto utilizzò poiché rispecchiava il suo stato d’animo di quel momento. Ma evidentemente, col senno di poi, dopo un po’ di anni il “sempre e per sempre” acquisì una non voluta ambiguità. Presentando un libro, provai a rendere più sfumata quell’espressione, parlando di “pontificato allargato” e devo riconoscere che la toppa fu peggiore del buco, come recita un simpatico proverbio. Comunque, il significato originario era semplicemente che lui non avrebbe più fatto il teologo o il professore, non sarebbe più tornato a quello che gli piaceva veramente. Per evitare ulteriori equivoci, mi limito a riportare le sagge parole di Joaquín Navarro-Valls, lo storico portavoce di Giovanni Paolo II e anche del primo periodo di Benedetto, nell’autobiografia A passo d’uomo: «Il Papa in quanto tale non va mai del tutto in vacanza. Perché l’istituzione che egli porta con sé non lo abbandona mai, essendo impressa per sempre dentro di lui e permanendo scolpita nel suo interno dall’inizio del mandato sino alla fine della sua vita. Essere Papa è come avere un tatuaggio impresso definitivamente e indelebilmente nell’anima».
L’uscita di scena L’ultimo giorno del pontificato l’ho vissuto quasi in apnea. Al mattino, nella sala Clementina, ci fu l’incontro di Benedetto con i cardinali presenti a Roma. Era stato un suo vivo desiderio poter dare loro un saluto di congedo collettivo e la scelta di prorogare al 28 febbraio la permanenza sulla Cattedra di Pietro aveva tenuto conto anche della necessità di consentire ai più lontani il tempo per sistemare le cose in diocesi prima di raggiungere Roma. Dei 207 membri del Collegio cardinalizio, di cui 90 creati da lui nei suoi cinque Concistori, erano presenti 144 porporati, fra i quali 103 di età inferiore agli ottant’anni e che dunque sarebbero entrati in Conclave (insieme agli altri che giunsero successivamente alla spicciolata).
«Per me è stata una gioia camminare con voi in questi anni, nella luce della presenza del Signore risorto. La vostra vicinanza e il vostro consiglio mi sono stati di grande aiuto nel mio ministero», furono le grate parole pronunciate da Papa Ratzinger. E, rifacendosi al teologo Romano Guardini, propose un pensiero che gli stava molto a cuore: «La Chiesa è un corpo vivo, animato dallo Spirito Santo e vive realmente dalla forza di Dio. Essa è nel mondo, ma non è del mondo: è di Dio, di Cristo, dello Spirito. La Chiesa vive, cresce e si risveglia nelle anime, che – come la Vergine Maria – accolgono la Parola di Dio e la concepiscono per opera dello Spirito Santo; offrono a Dio la propria carne e, proprio nella loro povertà e umiltà, diventano capaci di generare Cristo oggi nel mondo. Attraverso la Chiesa, il Mistero dell’Incarnazione rimane presente per sempre. Cristo continua a camminare attraverso i tempi e tutti i luoghi. Rimaniamo uniti, cari fratelli, in questo Mistero: nella preghiera, specialmente nell’Eucaristia quotidiana, e così serviamo la Chiesa e l’intera umanità. Questa è la nostra gioia, che nessuno ci può togliere». A nome del Collegio, il decano Angelo Sodano propose un indirizzo di omaggio pervaso anche di emozioni personali: «Padre Santo, con profondo amore noi abbiamo cercato di accompagnarla nel suo cammino, rivivendo l’esperienza dei discepoli di Emmaus, i quali, dopo aver camminato con Gesù per un buon tratto di strada, si dissero l’un l’altro: “Non era forse ardente il nostro cuore, quando ci parlava lungo il cammino?” (Luca 24,32). Sì, Padre Santo, sappia che ardeva anche il nostro cuore quando camminavamo con lei in questi ultimi otto anni. Oggi vogliamo ancora una volta esprimerle tutta la nostra gratitudine». Secondo me riuscì a esprimere la sensibilità della stragrande maggioranza dei cardinali, rappresentandone le emozioni che anch’io avevo percepito in seguito ad alcuni colloqui e alle lettere giunte da numerosi di loro. Si percepiva in quell’incontro una sincerità nel dolore, nell’incomprensione, anche nell’imbarazzo, forse risolti poi con il trascorrere del tempo. Devo dire però che qualche giorno più tardi, nell’omelia della Messa “pro eligendo Romano Pontifice”, risuonarono alcune espressioni che a molti parvero un contraltare ai buoni sentimenti precedenti. Soffermandosi sul significato della missione del Papa, il cardinale Sodano affermò: «L’atteggiamento fondamentale di ogni buon Pastore è dunque dare la vita per le sue pecore. Questo vale soprattutto per il Successore di Pietro,
Pastore della Chiesa universale. Perché quanto più alto e più universale è l’ufficio pastorale, tanto più grande deve essere la carità del Pastore». Io ero presente a quella celebrazione e mi resi conto, per gli sguardi lanciatimi da altri confratelli, di quanto queste parole venissero percepite anche da loro come una non troppo velata critica. Benedetto comunque non vide la cerimonia in televisione, né gliene accennai, poiché compresi che non desiderava essere messo al corrente di quanto stava accadendo in vista del Conclave. Nel pomeriggio, mentre le Memores si erano già recate a Castel Gandolfo, con don Alfred controllammo che nell’Appartamento pontificio fosse tutto in ordine. Poco prima delle 17, demmo con Benedetto un ultimo sguardo a quelle stanze e quindi scendemmo con l’ascensore Nobile. Fu un addio, devo riconoscerlo, che mi fece soffrire e mi colpì nell’intimo, al punto che non potei far altro che lasciar libero corso alle lacrime. Al piano terra c’erano i due cardinali vicari per la diocesi di Roma e per la Città del Vaticano, Agostino Vallini, che si accorse del mio turbamento e cercò di confortarmi, e Angelo Comastri, che disse a Benedetto di aver pianto, ricevendo come risposta un tranquillizzante: «Un Papa va e un Papa viene, l’importante è che Cristo c’è». In attesa per un saluto, nel cortile di San Damaso, c’erano i responsabili della Segreteria di Stato e altri fra i principali collaboratori del Pontefice, mentre la Guardia svizzera era schierata con il picchetto d’onore. Ma tutt’intorno si erano radunati moltissimi dipendenti vaticani, che con un intenso applauso espressero il loro affetto. Poi tutto si svolse molto rapidamente, mentre sull’account @Pontifex di Twitter, inaugurato nel dicembre del 2012, compariva il suo ultimo messaggio: «Grazie per il vostro amore e il vostro sostegno. Possiate sperimentare sempre la gioia di mettere Cristo al centro della vostra vita». Salimmo in automobile verso l’eliporto e decollammo, mentre le campane della Basilica vaticana e delle altre chiese romane suonavano a distesa. In elicottero, silenzio assoluto: guardavamo quello che ci scorreva sotto gli occhi, anche perché era la prima volta che passavamo sul centro storico di Roma, dato che in occasioni precedenti, giungendo da Ciampino o da Castel Gandolfo, il pilota aveva percorso una rotta più limitrofa alla città. Soltanto mesi dopo abbiamo visto con Benedetto le immagini che erano state trasmesse in mondovisione da un secondo elicottero che ci seguì per
tutto il viaggio, in un documentario curato dal Centro televisivo vaticano. Per me fu molto emozionante rievocare quel giro attorno alla cupola di San Pietro che il pilota fece senza averci preavvisati, ma il Papa emerito mantenne il suo atteggiamento impassibile e non commentò affatto. Giunti nella residenza di Castel Gandolfo, poco dopo le 17.30, Benedetto si affacciò dal balcone esterno per salutare i fedeli e pronunciò le sue ultime parole da Papa regnante: «Cari amici, sono felice di essere con voi, circondato dalla bellezza del creato e dalla vostra simpatia che mi fa molto bene. Grazie per la vostra amicizia, il vostro affetto. Voi sapete che questo mio giorno è diverso da quelli precedenti; non sono più Sommo Pontefice della Chiesa cattolica: fino alle otto di sera lo sarò ancora, poi non più. Sono semplicemente un pellegrino che inizia l’ultima tappa del suo pellegrinaggio in questa terra. Ma vorrei ancora, con il mio cuore, con il mio amore, con la mia preghiera, con la mia riflessione, con tutte le mie forze interiori, lavorare per il bene comune e il bene della Chiesa e dell’umanità. E mi sento molto appoggiato dalla vostra simpatia. Andiamo avanti insieme con il Signore per il bene della Chiesa e del mondo». Erano momenti di tensione estrema, che anche Benedetto XVI viveva con emozione. Parlando a braccio in italiano, fece perciò alcuni errori, poi corretti come d’abitudine nel bollettino ufficiale della Sala stampa. Ma su uno di questi – l’inversione tra “Sommo Pontefice” e “Pontefice Sommo” – sarebbe poi stata ricamata un’assurda elucubrazione, affermando che, come i già discussi errori in latino nella lettera di rinuncia, fosse in realtà un modo per inviare un messaggio subliminale relativo all’autenticità e alla validità della rinuncia al proprio ufficio petrino. In realtà, è sufficiente ascoltare integralmente quel discorso per rendersi conto che, subito prima, aveva invertito anche le parole “mio giorno” con “giorno mio”, mentre alla fine, impartendo la benedizione, era partito con il lapsus “Sia benedetto Dio onnipote…” al posto di “Ci benedica Dio onnipotente”. Rientrato in casa, si ritirò in camera da letto per sistemare le cose personali e per pregare da solo i vespri. Alle 19.30 ci fu la consueta cena e alle 20 sentimmo il rumore della chiusura del portone. Subito dopo ci recammo davanti al televisore per il Tg1, con i vari servizi dedicati alla giornata. Durante il telegiornale non c’erano mai commenti, al massimo capitava di scambiare qualche opinione durante la successiva passeggiata. E quella sera il silenzio regnò ancor più sovrano. D’altra parte, cosa si sarebbe
potuto dire in quei frangenti? Al termine, facemmo una passeggiata attraverso diverse stanze del primo piano: la biblioteca privata, la sala del Concistoro, la galleria e altre sale fino alla sala degli Svizzeri, dove c’è un bel terrazzino affacciato verso il lago Albano. Infine, recitata la compieta in cappella, Benedetto rientrò nella sua stanza. Dopo 2.873 giorni, si concludeva così il pontificato del 264° successore di san Pietro.
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Il rapporto fra i due Papi
Una laboriosa telefonata Al mattino del 1° marzo 2013, Benedetto XVI diede visibilmente inizio al suo nuovo status, indossando unicamente la talare e lo zucchetto bianchi, ma tralasciando – oltre ovviamente le scarpe rosse – la mantelletta “pellegrina” e la fascia con lo stemma: di fatto, pur non essendoci alcuna norma scritta al riguardo, informalmente questi due ornamenti vengono rispettivamente considerati simboli dell’annuncio evangelico e del governo pontificio. Si era anche tolto dall’anulare destro l’anello “del pescatore”, che mi affidò affinché lo portassi al cardinale Bertone, il quale, nella sua funzione di camerlengo, il 6 marzo lo annullò mediante biffatura. A monsignor Marini consegnai invece la stola “degli apostoli”, quella di colore rosso che il Papa indossa in specifiche cerimonie. Successivamente diedi a don Alfred, quando andò a collaborare con Papa Francesco, l’antico strumento con il timbro a secco «Segreteria particolare di Sua Santità», utilizzato specialmente per le pergamene con la benedizione apostolica firmata dal Pontefice. Da quel momento, il Papa emerito generalmente utilizzò l’anello che gli era stato regalato dai canonici della cattedrale di Monaco quando divenne arcivescovo diocesano, con sopra inciso un gregge. Lo scelse fra alcuni che gli avevo sottoposto a Castel Gandolfo, preferendolo a quello datogli da Paolo VI al momento della creazione cardinalizia, che indossò raramente. Da cardinale aveva infatti continuato a portare l’anello regalatogli dalla sorella e dal fratello per la consacrazione a vescovo, che però nel settembre del 2006, quando si recò in pellegrinaggio nel famoso santuario bavarese, volle offrire alla Madonna di Altötting, tuttora visibile all’anulare destro della statua mariana. Negli ultimi anni utilizzò anche il dono del vescovo
emerito Gino Reali, nato nella diocesi di Norcia, il cui anello episcopale d’argento recava simboli benedettini: «Desidero regalarglielo perché ci unisce», gli scrisse, e Benedetto lo accettò volentieri. Durante il tempo di avvicinamento al Conclave, non si mostrò particolarmente interessato a quanto stava accadendo. In generale, continuava a informarsi assistendo al Tg1 o al Tg2, a seconda dell’orario in cui finiva di cenare, e io gli segnalavo nella rassegna stampa qualche articolo particolarmente significativo. Ma era determinato a non influire in alcun modo sull’elezione del nuovo Pontefice, per cui evitò qualsiasi contatto con l’esterno, sia telefonico sia personale. Per lui era stato sufficiente chiarire che, pur nell’originalità della situazione del momento, il prescelto dai cardinali sarebbe stato senza dubbio alcuno il 266° Pontefice. Lo fece in anticipo, in diverse occasioni: «Continuate a pregare per me, per la Chiesa, per il futuro Papa» (Udienza generale, 13 febbraio 2013); «Vi chiedo di ricordarmi davanti a Dio, e soprattutto di pregare per i cardinali, chiamati ad un compito così rilevante, e per il nuovo successore dell’apostolo Pietro: il Signore lo accompagni con la luce e la forza del suo Spirito» (Udienza generale, 27 febbraio); «Continuerò a esservi vicino con la preghiera, specialmente nei prossimi giorni, affinché siate pienamente docili all’azione dello Spirito Santo nell’elezione del nuovo Papa. Che il Signore vi mostri quello che è voluto da Lui. E tra voi, tra il Collegio cardinalizio, c’è anche il futuro Papa» (Incontro con i cardinali, 28 febbraio). Ad abundantiam, in quest’ultima circostanza pronunciò una significativa aggiunta a braccio, che non era presente nel testo scritto: «al quale già oggi prometto la mia incondizionata reverenza e obbedienza». Lo ribadì successivamente, rivolgendosi a Francesco – negli incontri o per lettera – con l’espressione “Santo Padre”. E poi ha sempre celebrato la santa Messa, durante la settimana in italiano e la domenica in latino, utilizzando il Messale romano di Paolo VI e pronunciando ovviamente la preghiera eucaristica con l’esplicita menzione della comunione con il Papa regnante, Francesco, come possono testimoniare tutti quelli che hanno concelebrato con lui. In quel periodo mi recavo ogni mattina in Prefettura e rientravo a Castel Gandolfo nel primo pomeriggio. Ma il 13 marzo decisi di fermarmi sino alla fumata serale, cosicché, non appena il colore bianco rese evidente che il
nuovo Papa era stato eletto, mi recai in sala Regia e quindi mi misi in fila nella Cappella Sistina per esprimergli l’atto di obbedienza. Francesco, quando giunsi a salutarlo, non mi lasciò nemmeno aprire la bocca per fargli gli auguri, anticipandomi con la richiesta: «Vorrei parlare con Benedetto. Lei può aiutarmi?». Lì dentro i cellulari non funzionavano, cosicché mi affrettai in una stanza limitrofa, dove era stato predisposto un telefono dei servizi tecnici. Mentre il Pontefice proseguiva nei saluti, ho digitato il numero fisso della residenza a Castel Gandolfo, quindi il cellulare di don Alfred, ma nessuno rispondeva perché, come poi ho saputo, erano tutti davanti al televisore e avevano silenziato gli apparecchi telefonici. Nessuno di loro immaginava che potesse giungere subito una tale chiamata… A quel punto ho avvertito Papa Francesco e lui mi ha detto di continuare a provare, in modo da potersi mettere in collegamento più tardi, dopo essersi presentato ai fedeli. Alla fine ho contattato il posto di guardia della Gendarmeria pontificia e mi ha risposto il vicecommissario Mauro De Horatis, che si è recato fisicamente nell’Appartamento e ha avvisato della telefonata che sarebbe arrivata appena possibile. Al rientro dalla Loggia delle benedizioni, Papa Francesco mi ha raggiunto vicino al telefono, io ho fatto di nuovo il numero del fisso e, dopo la risposta di don Alfred, gli ho passato la cornetta, mentre dall’altra parte Benedetto prendeva il cordless. Ovviamente mi sono allontanato e non ho ascoltato quanto Papa Bergoglio diceva, mentre don Alfred sentì la risposta di Benedetto: «La ringrazio, Santo Padre, perché ha pensato a me. Io le prometto fin da subito la mia obbedienza. Io prometto la mia preghiera per lei!». Dagli scarni commenti che il Papa emerito si lasciò sfuggire nei giorni immediatamente successivi, potei comprendere che il nome di Jorge Mario Bergoglio gli giunse inatteso. Ho pensato, ricordandomi che voci attribuite a cardinali presenti nel Conclave del 2005 avevano citato l’arcivescovo di Buenos Aires come un protagonista di quel momento, che forse Benedetto si era fatto il conto che gli anni erano trascorsi anche per il confratello argentino. Piuttosto, mi è sembrato che i suoi pronostici guardassero verso tre figure (ben presenti, del resto, anche nei “tabellini” dei vaticanisti): il settantunenne italiano Angelo Scola, arcivescovo di Milano, il sessantottenne canadese Marc Ouellet, prefetto della Congregazione per i
Vescovi, e il sessantatreenne brasiliano Odilo Pedro Scherer, arcivescovo di San Paolo. Comunque Benedetto conosceva sufficientemente bene l’arcivescovo di Buenos Aires, che curiosamente era stato protagonista di una delle sue ultime nomine dopo la rinuncia: appena venti giorni prima, il 23 febbraio, lo aveva infatti inserito fra i membri della Pontificia Commissione per l’America latina, dove sarebbe dovuto rimanere fino al compimento degli ottant’anni. Nel dicembre del 2011, quando Bergoglio compì 75 anni e presentò la consueta lettera di dimissioni, Papa Ratzinger aveva concesso la proroga di un biennio, usuale per i cardinali. Ma le occasioni di incontro non erano state molte, poiché l’arcivescovo argentino non amava venire in Vaticano. Un significativo, anche se indiretto, rapporto fra loro si era avuto nel 2007, quando il preposito generale dei Gesuiti, padre Peter Hans Kolvenbach – che aveva comunicato a Benedetto la volontà di dimettersi al compimento degli ottant’anni, nel 2008, conservando il titolo di preposito emerito – avviò la preparazione della Congregazione che avrebbe eletto il suo successore. Papa Ratzinger espresse, tramite una lettera inviata dal cardinale Bertone, alcune sollecitazioni, in particolare riguardo alla preparazione spirituale ed ecclesiale dei giovani gesuiti, nonché sul valore e sull’osservanza del quarto voto, quello della “speciale obbedienza al Pontefice”. La Segreteria di Stato suggerì allora a padre Kolvenbach di coinvolgere nei lavori preparatori il cardinale gesuita Bergoglio, chiedendogli un parere sullo stato della Compagnia di Gesù e sull’ipotesi di un commissariamento, che ogni tanto tornava ad affacciarsi. Il successore di Kolvenbach, padre Adolfo Nicolás, racconterà che il 17 marzo 2013, nel primo incontro con Papa Francesco, aveva ascoltato dalla sua viva voce la confidenza che si era tenacemente opposto a questa idea, coinvolgendo lo stesso Kolvenbach e chiedendogli di riferire a Benedetto XVI, anche a proprio nome, l’inopportunità di procedere in questa problematica direzione, ottenendone la promessa che ciò non sarebbe avvenuto. Devo dire che personalmente rimasi colpito dalle parole che Papa Francesco pronunciò il 15 marzo 2013 dinanzi ai cardinali, che non furono “di circostanza”, ma sgorgarono realmente dal profondo del suo cuore, come mi ripeté più volte in quei primi giorni quando gli fui spesso al fianco, nel mio ruolo di prefetto della Casa pontificia: «Un pensiero colmo di
grande affetto e di profonda gratitudine rivolgo al mio venerato predecessore Benedetto XVI, che in questi anni di pontificato ha arricchito e rinvigorito la Chiesa con il suo Magistero, la sua bontà, la sua guida, la sua fede, la sua umiltà e la sua mitezza. Rimarranno un patrimonio spirituale per tutti! Il ministero petrino, vissuto con totale dedizione, ha avuto in lui un interprete sapiente e umile, con lo sguardo sempre fisso a Cristo, Cristo risorto, presente e vivo nell’Eucaristia. Lo accompagneranno sempre la nostra fervida preghiera, il nostro incessante ricordo, la nostra imperitura e affettuosa riconoscenza. Sentiamo che Benedetto XVI ha acceso nel profondo dei nostri cuori una fiamma: essa continuerà ad ardere perché sarà alimentata dalla sua preghiera, che sosterrà ancora la Chiesa nel suo cammino spirituale e missionario».
Dall’Appartamento a Santa Marta Per i primissimi tempi dopo l’elezione, Papa Francesco non ebbe un segretario particolare, anche perché a Buenos Aires era abituato a gestire direttamente lui gli appuntamenti, le telefonate e la posta. Perciò, su sua richiesta, gli consegnai direttamente la documentazione del conto riservato della Segreteria particolare di Sua Santità e le chiavi delle due casseforti nell’Appartamento papale. Soltanto dopo qualche giorno venne chiamato come segretario don Alfred, in favore del quale anche Benedetto aveva scritto una lettera personale a Papa Francesco, e così feci con lui un semplicissimo passaggio di consegne. Al mattino del 15 marzo lo accompagnai anch’io nel Palazzo apostolico per la sua presa di possesso dell’Appartamento alla Terza loggia, dopo la rottura dei sigilli da parte del cardinale camerlengo Bertone, e gli feci vedere come erano disposte le stanze. Gli dissi pure che non ci sarebbero stati problemi per il trasloco da Casa Santa Marta, poiché era tutto a posto e bastava una normale ripulitura dei locali. Sul momento non mi diede alcuna risposta, facendomi capire che ci avrebbe pensato. Ho letto che il preposito generale dei Gesuiti, padre Adolfo Nicolás, ricevette un invito da Papa Bergoglio per il pomeriggio di domenica 17: «Vieni a Santa Marta, perché domani devo trasferirmi al Palazzo apostolico e qui ho più libertà». Da
queste parole sembrerebbe di capire che avesse concluso in questa direzione, però a me questa idea relativa al 18 marzo non fu mai esplicitata. Dopo un paio di settimane gli riproposi l’interrogativo e il Papa mi disse queste testuali parole: «Normalmente io dormo come un sasso, ma la notte dopo aver visto l’Appartamento ho dormito malissimo. Rimuginavo dentro di me che non sono abituato a vivere in spazi così ampi. Potreste trovare una sistemazione più piccola in Vaticano?». Mi consultai con il sostituto Becciu e concordammo sul fatto che qualsiasi soluzione – c’erano per esempio disponibilità nel palazzo dell’Arciprete, in quello del Sant’Uffizio o nella vecchia Santa Marta – sarebbe risultata poco funzionale e avrebbe comunque creato problemi gestionali e di sicurezza. Provai anche a sottoporgli la questione dal punto di vista emotivo, dicendogli che per tutti quelli che passavano di sera davanti alla Basilica vaticana era un punto di riferimento la luce accesa nell’Appartamento pontificio e che ci sarebbe sicuramente stata nostalgia, se si fosse modificata la residenza: però ebbi l’impressione che le migliaia di chilometri di distanza da Roma non lo avevano reso partecipe di tale sensibilità. Anche Benedetto ne fu sorpreso, ma la sua saggia conclusione fu che, se non voleva, non lo si poteva certo obbligare! Alla fine, la decisione fu presa direttamente da lui, con la conferma della permanenza nell’Appartamento patriarcale di Santa Marta. Il motivo lo spiegò il 7 giugno 2013, durante l’incontro con gli studenti delle scuole gestite dai Gesuiti in Italia e Albania: «Per me è un problema di personalità: è questo. Io ho necessità di vivere fra la gente, e se io vivessi solo, forse un po’ isolato, non mi farebbe bene. Questa domanda me l’ha fatta un professore: “Ma perché lei non va ad abitare là? (nell’Appartamento pontificio, N.d.A.)”. Io ho risposto: “Ma, mi senta, professore: per motivi psichiatrici”». Non tenendo conto di questo chiarimento, soprattutto nei primi tempi ci fu chi volle contrapporre Francesco e Benedetto anche sotto l’aspetto della residenza, affermando che il nuovo Pontefice non voleva il fasto del Palazzo apostolico, ma si accontentava di una stanza in albergo. Senza alcuna polemica, devo però contestare questa interpretazione, poiché gli spazi personali degli ultimi Pontefici – studio, salotto, stanza da letto e bagno – sono stati equivalenti a quelli di Francesco nell’Appartamento di Santa Marta; mentre tutti gli altri ambienti – dalla cucina alla sala da
pranzo, dalla cappella ai locali per la Segreteria particolare e gli altri collaboratori – a Santa Marta sono ugualmente disponibili, anche se come parte del complesso alberghiero. Di fatto, posso testimoniare che, per come trovammo l’Appartamento pontificio nel 2005, Giovanni Paolo II non aveva certamente vissuto in agi principeschi. E pure i miglioramenti successivi furono poco onerosi per la Santa Sede poiché, grazie a Dio, verso il Papa c’è molta benevolenza e generosità anche da parte di non cattolici, cosicché diverse attrezzature di servizio per la sua residenza vengono donate da ditte o da privati che quasi sempre chiedono addirittura di restare anonimi. Proprio per evitare il deterioramento delle stanze e delle suppellettili, l’Appartamento deve comunque venire tuttora curato, dunque in gioco non c’è per nulla la questione del risparmio economico, quanto appunto quella della psicologia personale. Questo aspetto della contrapposizione fra il regnante Francesco e l’emerito Benedetto, che da opposte sponde è stato costantemente sostenuto, ha sempre rattristato Ratzinger, soprattutto quando l’osservazione proveniva dall’interno del Vaticano. Parafrasando il noto modo di dire, tanti hanno provato a tirare Benedetto XVI “per la talare” (non potendolo fare “per la giacchetta”). E non sempre era facile comprendere chi agiva in buona fede, animato da intenzioni almeno in origine positive, e chi invece cercava piuttosto di fomentare confusione e ribellione, per salvaguardare consolidate posizioni di potere o per conquistarne di migliori. Tra le migliaia di persone che spendono la vita per la Santa Sede la quasi totalità è devota al Papa e alla Chiesa. Ma, come in tutte le grandi strutture, sono proprio quelle poche “pecore nere” le più pericolose, capaci spesso di mascherarsi come “angeli di luce”. Anche a Francesco venne posta direttamente una domanda riguardo alla questione dei “due Papi”, nella conferenza stampa del 26 giugno 2016 sul volo di ritorno dall’Armenia, e lui efficacemente rispose: «Ho sentito – ma non so se è vero questo – sottolineo: ho sentito, forse saranno dicerie, ma concordano con il suo carattere, che alcuni sono andati lì a lamentarsi perché “questo nuovo Papa…”, e lui li ha cacciati via! Con il migliore stile bavarese: educato, ma li ha cacciati via. E se non è vero, è ben trovato, perché quest’uomo è così: è un uomo di parola, un uomo retto, retto, retto!». Posso personalmente confermare che è stato così.
Tranne rari casi dei pochissimi amici di vecchia data, invitati singolarmente, tutte le altre visite che Benedetto ha ricevuto da Papa emerito sono state preventivamente richieste: lui in persona decideva se accoglierle o meno, e in diverse occasioni ha rifiutato di incontrare anche cardinali, vescovi e politici, se lo riteneva inopportuno in questa sua nuova situazione. Soltanto qualche volta è capitato che sia giunta una lettera da qualche autorevole personalità ecclesiastica e Benedetto abbia preferito un incontro, piuttosto che una semplice risposta per iscritto. Comunque, è sempre stato chiaro a tutti, senza neanche bisogno di precisarlo, che al Monastero non si veniva a chiedere pareri sull’operato di Papa Francesco, né tantomeno a lamentarsi di qualcosa. Per fare un solo esempio, devo dire di aver letto con estremo stupore la risposta che lo scrittore Vittorio Messori diede, sul «Corriere della Sera» del 2 marzo 2021, a Stefano Lorenzetto che gli chiedeva se incontrasse ancora il Papa emerito: «Non oserei mai disturbarlo. Un giorno mi telefonò il suo segretario Georg Gänswein: “Sua Santità la rivedrebbe volentieri, ma lei dovrà dimenticarsi di essere un giornalista”. Peccato, perché fece commenti sulla situazione della Chiesa che erano da prima pagina». Più recentemente, è stata resa nota la trascrizione di alcune affermazioni che lo scrittore aveva fatto il 23 maggio 2016, in un incontro pubblico nel Centro francescano Rosetum a Milano, raccontando del suo incontro avvenuto alle 12.30 del 9 settembre 2015: «Il suo segretario mi ha telefonato dicendo: “Sua Santità sarebbe lieto di rivederla in nome dei vecchi trascorsi, venga a trovarlo nel suo ritiro, però resta inteso che Sua Santità la aspetta come amico e non come giornalista. Il vostro sarà un incontro privato e quindi non ci saranno cose pubbliche da propalare”. […] Quando Ratzinger mi ha chiesto il mio parere sulla situazione attuale della Chiesa, io gli ho espresso, con sincerità, questo clima di perplessità (per usare un eufemismo), di inquieta curiosità su come andrà a finire, di fronte a certi esperimenti. Comunque, gli ho detto come la pensavo ed è abbastanza significativo come, dopo avermi ascoltato, lui abbia aperto le mani, alzato gli occhi al cielo e abbia detto: “Io posso solo pregare”». Ora, comprendo che suona bene poter dire di essere stato cercato dal Papa emerito, ma in realtà Benedetto semplicemente accolse con benevolenza il desiderio di un incontro, espresso per iscritto da Messori. E certamente le parole a me attribuite non corrispondono a quelle realmente
da me pronunciate, poiché né in questa né in qualsiasi altra occasione mi sono mai permesso di imporre qualcosa riguardo alla riservatezza dell’incontro e delle tematiche trattate. Benedetto ha avuto stima di Messori, con il quale realizzò il noto libro-intervista del 1984 Rapporto sulla fede. Ma, almeno da quando sono stato suo segretario particolare, i loro rapporti furono sporadici, per cui sarebbe stato decisamente improprio da parte mia riferire la parola “amico”, una definizione che il Papa emerito riservava a pochissime persone. E la drammatica gestualità attribuita a Benedetto mi risulta del tutto forzata, soprattutto se caricata del relativo giudizio di critica che viene spontaneo trarne. Ovviamente sono state a tutti evidenti le diversità nelle modalità di comportamento e nelle sfumature di giudizio teologico con cui entrambi i Papi hanno rispettivamente affrontato le problematiche emerse durante i loro pontificati. Ma Benedetto, anche se qualcuno ha provato a stuzzicarlo, non ha mai ipotizzato spiegazioni per la strategia di Francesco. In effetti, mi sembra che l’analisi più corretta possa individuare come problema non tanto quello della coesistenza di due Papi, uno regnante e uno emerito, quanto la nascita e lo sviluppo di due tifoserie, poiché con il passar del tempo ci si rese conto sempre di più che effettivamente c’erano due visioni della Chiesa. E queste due tifoserie – ciascuna fondandosi su affermazioni, gesti, o anche soltanto impressioni riguardo ad atteggiamenti di Francesco e di Benedetto (per di più, talvolta con invenzioni del tutto gratuite) – hanno creato quella tensione che si è poi riverberata anche su quanti non erano sufficientemente consapevoli delle dinamiche ecclesiastiche. Il primo incontro a quattr’occhi fra loro due avvenne il 23 marzo 2013 nella biblioteca-studio di Castel Gandolfo, per la consegna della documentazione dell’inchiesta svolta dalla Commissione cardinalizia. Presentandogli le considerazioni che aveva espresso per iscritto, Benedetto diede a voce qualche ulteriore dettaglio a Papa Francesco, rispondendo alle sue richieste di chiarimento. Durante il pranzo, cui partecipammo anche don Alfred e io, si affrontarono argomenti più generici e non particolarmente impegnativi, come in una normale conversazione tra commensali, in un clima di grande affabilità. E ambedue, mi venne detto personalmente in seguito, ne rimasero molto contenti. Qualche settimana dopo, il Papa emerito fu colpito dalla sorpresa che ebbe al rientro in Vaticano con l’elicottero da Castel Gandolfo, il 2 maggio.
A nostra insaputa, davanti alla porta d’ingresso del Monastero c’era Papa Francesco in attesa. Quella improvvisata gli spalancò il cuore dalla gioia, poiché si sentì pienamente accolto «nel recinto di Pietro», in quella sua inedita situazione. Lo sottolineò lui stesso il 28 giugno 2016, nel discorso durante la commemorazione del 65° anniversario dell’ordinazione sacerdotale, con parole profondamente impregnate di calore e di stima: «Grazie soprattutto a lei, Santo Padre! La sua bontà, dal primo momento dell’elezione, in ogni momento della mia vita qui, mi colpisce, mi porta realmente, interiormente. Più che nei Giardini vaticani, con la loro bellezza, la sua bontà è il luogo dove abito: mi sento protetto». Francesco è venuto in visita diverse altre volte in Monastero, soprattutto nei momenti di festa: onomastico e compleanno del Papa emerito, Pasqua e Natale; nei primi tempi arrivava per un saluto anche prima di partire per un viaggio apostolico. Lo ha sempre invitato ai Concistori per i nuovi cardinali e, quando Benedetto non è più potuto andare per i suoi problemi alle gambe, Francesco decise che sarebbero venuti loro. Due volte lo avemmo ospite al “Mater Ecclesiae” a pranzo e una volta Benedetto e io andammo a Santa Marta. Papa Bergoglio portava generalmente in dono del vino e un barattolo di dulce de leche, la gustosa crema a base di latte originaria dell’Argentina. Probabilmente l’idea derivò da una volta in cui mi aveva chiesto che cosa Benedetto mangiasse volentieri, e io avevo risposto: «I dolci», cosicché lui deve aver mentalmente fatto riferimento a quella omonimia. Benedetto ricambiava con il limoncello fatto dalle Memores con i limoni del nostro giardino e con i dolci tipici della Baviera, per esempio nel tempo natalizio i biscotti Lebkuchen.
L’enciclica e l’intervista Il 17 ottobre 2011, con la lettera apostolica Porta fidei (datata all’11 ottobre, per ricordare l’anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II), Benedetto aveva reso nota la volontà di programmare un Anno della fede dall’11 ottobre 2012 al 24 novembre 2013. Nel momento di quella decisione non c’era ancora all’orizzonte l’idea della conclusione anticipata del pontificato, cosicché Papa Ratzinger aveva stabilito di accompagnare
quel cammino con una enciclica sulla tematica della fede, che idealmente avrebbe completato la trilogia delle virtù teologali. La fatica dei mesi successivi gli impedì però di dedicarsi alla stesura come avrebbe voluto, cosicché, approssimandosi la data prevista per la rinuncia, si rese conto che il testo non era per nulla maturo e preferì lasciarlo in eredità al suo successore. Il testo definitivo, sul quale avevano intanto continuato a lavorare gli organismi competenti, venne firmato da Papa Francesco il 29 giugno 2013 e fu pubblicato il 5 luglio seguente. Rispetto all’ultima bozza vista da Benedetto prima della rinuncia c’erano state alcune modifiche, in particolare inserendo nell’ultima parte tematiche più consone al nuovo Pontefice, ma la sostanza restò la medesima. Lo affermò pubblicamente anche Papa Bergoglio, nell’Angelus del 7 luglio: «Per l’Anno della fede, il Papa Benedetto XVI aveva iniziato questa enciclica, che fa seguito a quelle sulla carità e sulla speranza. Io ho raccolto questo bel lavoro e l’ho portato a termine. Lo offro con gioia a tutto il popolo di Dio: tutti infatti, specialmente oggi, abbiamo bisogno di andare all’essenziale della fede cristiana, di approfondirla e di confrontarla con le problematiche attuali. Ma penso che questa enciclica, almeno in alcune parti, può essere utile anche a chi è alla ricerca di Dio e del senso della vita. La metto nelle mani di Maria, icona perfetta della fede, perché possa portare quei frutti che il Signore vuole». Sei mesi dopo l’elezione, fece notizia l’ampia intervista concessa da Papa Francesco al direttore de «La Civiltà Cattolica» padre Antonio Spadaro. Contrariamente a quanto fatto trapelare all’epoca, e divenuto ormai una certezza consolidata («Arrivarono al Monastero le bozze di un’intervista. […] Il testo si concludeva con due pagine bianche e un appunto scritto di suo pugno da Jorge Mario Bergoglio. […] Era una richiesta a Benedetto di inserire eventuali osservazioni critiche», ha affermato in un recente libro anche il pur informato Massimo Franco), il Pontefice mi consegnò la busta con una copia del quindicinale dei Gesuiti soltanto dopo la pubblicazione, il 19 settembre 2013, chiedendomi di riferire a Benedetto il suo desiderio che ci desse uno sguardo ed eventualmente proponesse anche qualche commento. Il Papa emerito prese molto sul serio la richiesta, lesse attentamente quella trentina di pagine e appuntò le proprie riflessioni. Quindi preparò una lettera, la cui stesura definitiva portò la data del successivo 27 settembre,
quando la diedi personalmente a Papa Francesco. Nelle prime righe Benedetto spiegava subito la specificità delle proprie sottolineature: «Santo Padre, vorrei dirle grazie di cuore per la trasmissione della sua lunga intervista pubblicata su “La Civiltà Cattolica”. Ho letto il testo con gioia e con vero guadagno spirituale e con un consenso completo. Lei mi ha invitato anche a eventuali osservazioni critiche. In realtà sono d’accordo con tutto quanto lei ha detto, ma in due punti vorrei aggiungere un aspetto complementare. Il primo punto concerne i problemi legati all’aborto e all’uso dei metodi contraccettivi. Il secondo punto concerne il problema dell’omosessualità». Sul primo, Benedetto precisava: «Circa i tre problemi che lei dice a pagina 463 e seguenti, che lei non ha “parlato molto di queste cose”, che “bisogna parlarne in un contesto” e che “una pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine… dobbiamo trovare un nuovo equilibrio…”, sono assolutamente d’accordo con questo e io stesso ho detto queste cose molte volte con parole simili. Anch’io, perciò, non ho parlato molto di questi temi nel mio pontificato. Tuttavia vorrei aggiungere un aspetto complementare. Avendo vissuto 23 anni accanto al beato Giovanni Paolo II, sono stato testimone del modo appassionato con il quale ha realizzato la lotta per la vita. Ho capito che il Papa beato ha visto nella lotta pro vita, insieme con la lotta per i diritti umani, un nucleo essenziale della sua missione. E ho anche capito che per Giovanni Paolo II questo non era un moralismo, ma era la lotta per la presenza di Dio nella vita umana. Giovanni Paolo II, così ho imparato, aveva compreso che l’aborto e le forme di procreazione artificiale, di manipolazione e di distruzione di vite umane, erano sostanzialmente un “no” al Creatore. L’uomo da solo si crea e si distrugge. In questo senso la grande lotta pro vita era la lotta per il Creatore. È vero che in diversi rami dei movimenti pro vita questa grande prospettiva non era sufficientemente presente e non mancavano unilateralità. Un riequilibrio è quindi necessario, Ma la lotta pubblica contro questa negazione concreta e pratica del Dio vivente rimane certamente una necessità». Riguardo invece al secondo punto, sottolineava: «Alla pagina 463 lei parla del problema difficile della pastorale per gli omosessuali. Anche qui sono totalmente d’accordo con quanto lei dice. Già nel Catechismo della Chiesa cattolica avevamo cercato di trovare, dopo lunghi dibattiti con
correnti diverse, l’equilibrio tra il rispetto della persona, l’amore pastorale e la dottrina della fede. Ritrovo questo equilibrio nelle sue parole, ma anche qui vorrei aggiungere un aspetto che risulta dai problemi della propaganda pubblica su questo punto. La filosofia del gender che qui è in gioco ci insegna che è la singola persona stessa che si fa uomo o donna. L’essere uomo o donna non è più una realtà della natura che ci precede. L’uomo è un prodotto di se stesso. La filosofia di Sartre viene concretizzata in un modo in quel momento ancora non prevedibile. Si tratta di una radicale negazione del Creatore e di una manipolazione dell’essere nella quale solo l’uomo è padrone di se stesso. In questa propaganda non ci si interessa per niente del bene delle persone omosessuali, ma di una voluta manipolazione dell’essere e una radicale negazione del Creatore. Io so che molte persone omosessuali con queste manipolazioni non sono d’accordo e sentono che il problema della loro vita diventa un pretesto per una guerra ideologica. Perciò, la resistenza forte e pubblica contro questa pressione è necessaria. Dobbiamo realizzare questa resistenza senza perdere nella vita pastorale l’equilibrio tra amore del pastore e verità della fede». Prima di concludere con i saluti, il Papa emerito propose due ulteriori precisazioni: «Santità, mi permetta ancora una breve annotazione. A pagina 464 lei dice che le questioni di mancanza di ortodossia “si trattano meglio sul posto”. Quanto ho desiderato questo negli anni nei quali sono stato prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede. Purtroppo, la mia esperienza di 23 anni dice che normalmente i vescovi o anche le Conferenze episcopali hanno poca voglia di prendere seriamente in mano questi problemi e preferiscono lasciare la “patata bollente” nelle mani della Congregazione. Infine, vorrei dire con gioia e gratitudine come sono d’accordo con la sua distinzione tra “ottimismo” e “speranza” a pagina 470. Ripetutamente ho detto lo stesso e sono molto felice di sentire questa distinzione dalla bocca di Vostra Santità». Papa Francesco mi incaricò di portare i suoi ringraziamenti a Benedetto, ma ignoro se e come abbia fatto proprie tali considerazioni. Il 25 novembre giunse a Benedetto una copia, rilegata in pelle bianca, del documento che, come di consueto, era stato redatto dal Pontefice dopo il Sinodo dei vescovi dell’ottobre 2012 su “La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana”. La dedica autografa recitava: «Adesso sono lieto di far avere a Sua Santità copia dell’esortazione apostolica
Evangelii gaudium. Per favore, non si dimentichi di pregare per me. Che il Signore la benedica e la Madonna la custodisca. Fraternamente… e anche filialmente, Francesco». Anche in seguito Papa Francesco ha inviato a Benedetto tutte le sue encicliche ed esortazioni apostoliche, accompagnandole sempre con un bigliettino di saluti e la dicitura «filialmente e fraternamente», cui il Papa emerito ha sempre risposto ricambiando ogni augurio. Tuttavia, richieste specifiche di osservazioni in merito a questi testi non sono più giunte. Alla sensibilità teologica di Benedetto, alcune affermazioni di Francesco nella Evangelii gaudium suonarono estranee. In particolare il sogno di «una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione» (n. 27), «Le diverse linee di pensiero filosofico, teologico e pastorale, se si lasciano armonizzare dallo Spirito nel rispetto e nell’amore, possono far crescere la Chiesa, in quanto aiutano ad esplicitare meglio il ricchissimo tesoro della Parola. A quanti sognano una dottrina monolitica difesa da tutti senza sfumature, ciò può sembrare un’imperfetta dispersione» (n. 40), «A volte, ascoltando un linguaggio completamente ortodosso, quello che i fedeli ricevono, a causa del linguaggio che essi utilizzano e comprendono, è qualcosa che non corrisponde al vero Vangelo di Gesù Cristo» (n. 41). Ma la sua costante linea di condotta fu quella di dare il “beneficio d’inventario” al primo Pontefice latino-americano nella storia della Chiesa e di non giudicare mai le sue espressioni con lo sguardo “romanocentrico”: «Ciascuno ha la sua natura, il suo carattere, il suo comportamento, e il Signore lavora con qualunque persona. Se pensiamo ai dodici apostoli, c’erano problemi di ogni tipo, ma la Chiesa è ugualmente cresciuta. Anche nella storia dei Papi ce ne sono diversi che non sono stati santi, eppure la Chiesa esiste ancora. Papa Francesco agisce secondo l’indirizzo che lui ritiene sia il migliore per la Chiesa attuale, nella sua responsabilità di successore di Pietro. Si può essere totalmente d’accordo o meno, però questo si deve concedere a tutti i Papi, come è stato concesso a me e ai precedenti». D’altronde basterebbe rileggere i testi del Magistero di Papa Ratzinger per rendersi conto della radicalità del suo pensiero riguardo al ministero
petrino (applicabile di conseguenza come giudizio riguardo ad alcune dibattute prese di posizione del suo successore), come aveva chiarito per esempio il 7 maggio 2005 a San Giovanni in Laterano: «La potestà di insegnare, nella Chiesa, comporta un impegno a servizio dell’obbedienza alla fede. Il Papa non è un sovrano assoluto, il cui pensare e volere sono legge. Al contrario: il ministero del Papa è garanzia dell’obbedienza verso Cristo e verso la Sua Parola. Egli non deve proclamare le proprie idee, bensì vincolare costantemente se stesso e la Chiesa all’obbedienza verso la Parola di Dio, di fronte a tutti i tentativi di adattamento e di annacquamento, come di fronte a ogni opportunismo. […] Il Papa è consapevole di essere, nelle sue grandi decisioni, legato alla grande comunità della fede di tutti i tempi, alle interpretazioni vincolanti cresciute lungo il cammino pellegrinante della Chiesa. Così, il suo potere non sta al di sopra, ma è al servizio della Parola di Dio, e su di lui incombe la responsabilità di far sì che questa Parola continui a rimanere presente nella sua grandezza e a risuonare nella sua purezza, così che non venga fatta a pezzi dai continui cambiamenti delle mode».
Il “pasticciaccio” di Sarah La bomba mediatica esplose d’improvviso, il 12 gennaio 2020, con un’intervista apparsa sul quotidiano francese «Le Figaro», nella quale il cardinale Robert Sarah, all’epoca prefetto della Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti, annunciava al vaticanista Jean Marie Guénois che, tre giorni dopo, avrebbe pubblicato con Benedetto XVI «un libro a quattro mani dove i due prelati esprimono una medesima visione della Chiesa e un’identica avversione per la polemica». Sin dalla prima domanda risultavano chiari la tematica del volume, il suo scopo e anche un giudizio di fondo: «Come si spiega il fatto che il Papa emerito Benedetto XVI abbia pubblicato assieme a lei un’opera in difesa del celibato sacerdotale, supplicando Papa Francesco di non modificare questa regola nella Chiesa? Questo libro è un grido, un grido di amore per la Chiesa, il Papa, i preti e tutti i cristiani. Noi vogliamo che questo libro sia letto da più gente possibile. La crisi che attraversa la Chiesa è sorprendente».
Sottolineando la co-autorialità del testo, il cardinale subito dopo rispondeva a un delicatissimo quesito, che sostanzialmente diede il via a immediate reazioni, ovviamente di tono positivo o negativo a seconda della posizione di chi interveniva (e del suo relativo giudizio sull’operato di Papa Francesco): «Il Papa si era votato al silenzio, perché esce dal suo riserbo? Con questo libro, il Papa emerito Benedetto XVI non rompe il silenzio. Ci offre il suo frutto. Quel che ha scritto in questo libro non è una teologia loquace, una teologia che vuole incantare i media, ma una lettura contemplativa delle Scritture. Non creda che agisca in polemica, né che questa sia una disputa accademica lontana dalla realtà. Credo che, nella preghiera, il suo cuore di padre abbia provato grande compassione per i sacerdoti di tutto il mondo che si sono sentiti disprezzati, sconvolti e abbandonati. Ha anche voluto rassicurare le decine di milioni di fedeli cristiani che si sentono disorientati e perduti». La correlazione immaginata da tutti i commentatori fu con il Sinodo dei vescovi sull’Amazzonia, nel quale si era anche discussa la possibilità del sacerdozio per uomini sposati. Sebbene fosse stata la proposizione più contestata dai padri sinodali, con ben 41 contrari su 169 votanti, al n. 111 del documento finale, consegnato a Papa Francesco il 26 ottobre 2019, fu comunque inserito il suggerimento di ordinare sacerdoti «uomini della comunità idonei e riconosciuti, che abbiano un diaconato permanente fruttuoso e ricevano un’adeguata formazione al sacerdozio, potendo avere una famiglia legittimamente costituita e stabile». Il timore dei critici era che potesse verificarsi una strumentalizzazione della situazione nella regione amazzonica, dove venivano rilevate difficoltà ad avere sacerdoti sufficienti per il servizio alle comunità disperse su un vastissimo territorio. Il titolo del testo conclusivo parlava di «Nuovi cammini per la Chiesa»: perciò qualsiasi apertura rispetto alla tradizionale legge del celibato sacerdotale – ribadita anche recentemente dai santi Papi Paolo VI e Giovanni Paolo II – fu considerata una possibile breccia che, come tante altre innovazioni nella disciplina ecclesiastica, in breve tempo da eccezione si sarebbe trasformata in regola. Di fatto, già nei primi tempi del pontificato di Benedetto la problematica era balzata all’attenzione mondiale, quando a fine 2006 il cardinale Cláudio Hummes – appena nominato prefetto della Congregazione per il Clero – ipotizzò con il quotidiano «O Estado de São Paulo» che «la mancanza di
vocazioni sacerdotali possa portare il Vaticano a discutere dell’ordinazione degli uomini sposati». Hummes, all’epoca arcivescovo di San Paolo in Brasile, venne chiamato in Vaticano perché era desiderio di Papa Ratzinger ampliare le voci autorevoli da varie parti del mondo. Per chiarire la situazione, il 4 dicembre dovette essere pubblicata dalla Sala stampa una dichiarazione, concordata con il segretario di Stato Bertone, nella quale il cardinale Hummes precisava che «la norma del celibato per i sacerdoti nella Chiesa latina è molto antica e poggia su una tradizione consolidata e su forti motivazioni, di carattere sia teologicospirituale sia pratico-pastorale, ribadite anche dai Papi. […] Tale questione non è quindi attualmente all’ordine del giorno delle autorità ecclesiastiche, come recentemente ribadito dopo l’ultima riunione dei capidicastero con il Santo Padre». Ma evidentemente la questione non era stata accantonata dal porporato brasiliano, nominato da Francesco nel 2018 membro del Consiglio presinodale che preparò quell’assemblea sull’Amazzonia: in tale veste poté avere un significativo ruolo nel processo di elaborazione dell’esortazione apostolica post-sinodale Querida Amazonia. La pubblicazione del documento era stabilita per la fine del 2019, ma l’approvazione definitiva di Papa Bergoglio – come dettagliò il cardinale Michael Czerny in un’intervista a Vatican News – si ebbe soltanto il 27 dicembre, cosicché la pubblicazione avvenne il 12 febbraio 2020 (sebbene con la data ufficiale del 2 febbraio). Questo ritardo, in apparenza irrilevante, ebbe invece non poca importanza nella sfortunata vicenda del libro di Sarah e delle relative polemiche, poiché già dall’autunno era stato preventivato che questo volume sarebbe stato inviato in libreria dalla casa editrice Fayard dopo l’Epifania del 2020 (la data esatta fu il 15 gennaio). Nel pomeriggio del 12 gennaio giunse in Monastero una copia-staffetta e, non appena aprii la busta, mi si gelò il sangue: in copertina il nome Benoît XVI spiccava in alto, con la stessa grandezza di quello del cardinale Sarah, e le immagini erano due loro fotografie affiancate (addirittura quella di Benedetto era ancora del tempo da Pontefice, con la mantellina ben visibile). Portai immediatamente il volume al Papa emerito e anche lui rimase stupefatto, comprendendo immediatamente quali polemiche ne sarebbero scaturite. Sfogliando le pagine, non risultava infatti con chiarezza la descrizione della diversità di intervento e, per giustificare la doppia
firma, ci si limitava alla enigmatica precisazione: «Testo scritto dal cardinale Robert Sarah, letto e approvato da Benedetto XVI» (e anche la Conclusione segnalava questa doppia attribuzione). Effettivamente la prevista tempesta mediatica tuonò con tutto il vigore possibile, sulla base dell’idea che, non essendo ancora uscita l’esortazione post-sinodale, i due volessero fare pressione su Francesco riguardo ai temi del celibato ecclesiastico e dell’ordinazione di uomini sposati. Benedetto ritenne perciò necessario un chiarimento pubblico, che riassunsi nel comunicato diffuso dalle agenzie giornalistiche il 14 gennaio: «Posso confermare che questa mattina, su indicazione del Papa emerito, ho chiesto al cardinale Sarah di contattare gli editori del libro pregandoli di togliere il nome di Benedetto XVI come coautore del libro stesso e di togliere la sua firma anche dall’Introduzione e dalla Conclusione. Il Papa emerito, infatti, sapeva che il cardinale stava preparando un libro e aveva inviato il suo breve testo sul sacerdozio autorizzandolo a farne l’uso che voleva. Ma non aveva approvato alcun progetto per un libro a doppia firma, né aveva visto e autorizzato la copertina. Si tratta di un malinteso, senza mettere in dubbio la buona fede del cardinale Sarah». Le parole erano state attentamente studiate per consentire un’onorevole via d’uscita al cardinale, sia per l’amicizia personale con Benedetto, sia perché all’epoca ricopriva ancora l’incarico di prefetto della Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti e non si voleva metterlo in difficoltà in un momento in cui la sua posizione in Vaticano era delicata. In risposta, il cardinale emanò un suo comunicato, nel quale affermava: «A seguito di vari scambi in vista della preparazione del libro, il 19 novembre ho finalmente inviato al Papa emerito un manoscritto completo comprendente, come avevamo deciso di comune accordo, la copertina, un’Introduzione e una Conclusione comune, il testo di Benedetto XVI e il mio testo». Ho controllato e posso ribadire che, in quell’incartamento, della copertina non v’è traccia. Il cardinale dichiarava poi che «la polemica che mira a sporcarmi insinuando che Benedetto XVI non era informato della pubblicazione del libro Des profondeurs des nos coeurs è profondamente abietta»: un patetico tentativo di spostare il tiro, poiché in questione non c’era la conoscenza, bensì la modalità, della pubblicazione. Comunque, nella telefonata Sarah mi aveva promesso che avrebbe agito secondo la richiesta del Papa emerito e chiese di poterlo incontrare di
persona. L’appuntamento fu fissato in Monastero per le 17.15 del 17 gennaio e Benedetto volle che fossi presente anch’io. Il cardinale si lamentò per l’accaduto, giunse quasi alle lacrime e poi tirò fuori dalla borsa un foglio con la bozza di un comunicato che voleva far rilasciare con la firma di Benedetto: «“Il sacerdozio cattolico” è probabilmente l’ultimo testo che ho scritto prima di andare a incontrare il Signore. Approvo e accetto tutto ciò che è contenuto in questo libro intitolato Dal profondo del nostro cuore e ringrazio il cardinale Sarah per averlo pubblicato così come lo ha fatto, compresa la copertina. Prego tutti di smetterla con questa assurda polemica e calunnia che macchia questo uomo di Dio e divide la Chiesa su una questione così essenziale. Incoraggio i sacerdoti e tutti a leggere questo libro». Io subito sono sbottato, sottolineando che non era mai stato emesso un comunicato stampa del Papa emerito e attirando l’attenzione sul fatto che qualsiasi sua presa di posizione pubblica avrebbe aggiunto benzina sul fuoco. Per cercare una soluzione, Benedetto disse al cardinale che voleva riflettere ed eventualmente riformulare il testo, chiedendogli di tornare un’ora dopo, intorno alle ore 19. Al rientro di Sarah, il Papa emerito gli spiegò che aveva fatto alcuni aggiustamenti sostanziali, in particolare eliminando il riferimento alla copertina, ma chiarì che il suo status di Papa emerito non gli consentiva la pubblicazione del testo senza prendere contatti con la Segreteria di Stato e con Papa Francesco. Il cardinale mostrò la propria delusione, ma dovette forzosamente accettare questa decisione. Quando l’accompagnai all’uscita dal Monastero, giunse al punto di dirmi: «Per cortesia, non lasci cadere nel cestino questo comunicato». E io reagii con decisione: «Eminenza, lei pensa che, se Benedetto mi affida un incarico, io potrei ingannarlo?». La sera stessa, seguendo l’indicazione del Papa emerito, telefonai al sostituto della Segreteria di Stato, l’arcivescovo Edgar Peña Parra, il quale mi disse di raggiungerlo di buon’ora il mattino successivo nel suo ufficio alla Seconda loggia, per ragguagliarlo su quanto era accaduto, poiché alle 9.15 aveva appuntamento con il Santo Padre e gliene avrebbe parlato. Lo attesi all’uscita dall’udienza e mi comunicò: «Papa Francesco ha deciso che il comunicato non viene pubblicato. Lei deve riferire questo a Sarah e dirgli che per ora non si fa nulla».
Io provvidi subito a informare il cardinale e soltanto al rientro in Monastero venni informato che nella serata precedente, subito dopo l’incontro, Sarah aveva pubblicato in sequenza due post su Twitter: «A motivo delle incessanti, nauseabonde e false polemiche, che non si sono mai arrestate dall’inizio della settimana, riguardanti il libro Dal profondo dei nostri cuori, questa sera ho incontrato il Papa emerito Benedetto XVI» e «Con il Papa emerito Benedetto XVI abbiamo potuto constatare come non ci sia alcun malinteso fra noi. Sono uscito da questo bell’incontro molto felice, pieno di pace e di coraggio». Ovviamente la ritenni un’azione del tutto inopportuna, come lo era stata il 14 gennaio la diffusione non autorizzata delle lettere personali che gli aveva inviato il Papa emerito, e il mio sconcerto crebbe qualche ora più tardi, quando il giornalista Guénois mi contattò per verificare se era vero che Benedetto aveva letto e addirittura modificato e integrato l’intervista che gli aveva concesso Sarah. Gli spiegai che il Papa emerito aveva visto quel testo soltanto dopo la pubblicazione e lui mi informò che la menzognera affermazione gliel’aveva fatta Diat, il collaboratore del cardinale che era dietro a questo libro («Opera pubblicata sotto la direzione di Nicolas Diat», si legge nel retrofrontespizio). Anche Davide Cantagalli, responsabile della casa editrice che aveva acquisito i diritti di pubblicazione per l’Italia, mi raccontò di aver contattato Fayard e di aver ricevuto l’indicazione che copertina e testo dovevano restare come nell’edizione originaria. Gli spiegai quanto era stato concordato con Sarah e lui chiamò nuovamente l’editore francese, ricevendo come replica: «Il collegamento fra noi e il cardinale è Nicolas Diat, che ha ribadito di lasciare tutto inalterato». Alla fine, il 22 gennaio venne emesso un comunicato distensivo, sottolineando che «l’Introduzione e la Conclusione sono state scritte dal cardinale Robert Sarah e sono state lette e condivise dal Papa emerito», a significare che Benedetto XVI non aveva espresso obiezioni al testo di Sarah, anche perché il contenuto non era particolarmente originale e innovativo.
Le spiegazioni di Benedetto
Il 12 febbraio 2020 Benedetto ricevette da Papa Francesco una copia dell’esortazione apostolica Querida Amazonia e il giorno seguente gli rispose con una lettera di ringraziamento. Il Papa emerito era consapevole che quel testo era rimasto immutato dopo l’approvazione data dal Pontefice il 27 dicembre: dunque, il volume del cardinale Sarah non aveva avuto alcun influsso, diretto o indiretto, sull’assenza nel documento di riferimenti all’ordinazione di uomini sposati. Sentiva comunque la necessità di chiarire definitivamente la questione, cosicché gli assicurò: «Per lei, Santo Padre, elaborerò una breve storia e mi permetterò di trasmetterla quanto prima». Dopo soli quattro giorni, il 17 febbraio, la ricostruzione fu pronta e Benedetto poté inviarla a Papa Francesco: «Caro Santo Padre, come avevo promesso nella mia lettera del 13 febbraio scorso, le comunico oggi la storia del mio testo sul sacerdozio cattolico pubblicato nel libro del cardinale Sarah. Intorno al 20 luglio 2019 avevo cominciato a elaborare un testo sul sacerdozio cattolico, senza intenzione di pubblicarlo, ma soltanto per mio interesse personale. Il motivo fu che il Concilio Vaticano II, nel suo ottimo decreto sul sacerdozio cattolico, non aveva toccato il punto centrale della controversia con Lutero, cioè il fatto che la Chiesa cattolica, nel tardo secondo secolo o all’inizio del terzo, aveva cominciato a considerare il ministero dei presbiteri e dei vescovi anche come sacerdozio e non soltanto come ministero pastorale, in conseguenza del fatto che la santa Eucaristia non era soltanto considerata come cena, ma come presenza e partecipazione al sacrificio della croce. Questo sviluppo della dottrina cattolica è stato condannato da Lutero come ricaduta nella Legge, come errore gravissimo incompatibile con la fine della Legge. Su questo punto centrale della controversia tra Riforma e Chiesa cattolica, il Vaticano II non parla. Pochi ecumenisti hanno affermato che la riforma liturgica del Vaticano II avrebbe ritirato la dottrina sulla Messa come sacrificio e restituito l’interpretazione della Messa come cena senza carattere sacrificale. Di conseguenza anche i ministeri della Chiesa non sarebbero più da considerare come sacerdozio, ma solo come servizio pastorale. Anche se questa posizione fra i teologi cattolici è rimasta marginale, la questione non è comunque definita con sufficiente chiarezza. Questo problema mi occupa da tanto tempo. Non avevo intenzione di preparare un testo da pubblicare, volevo soltanto darmi personalmente una chiarezza storico-teologica».
Definita questa premessa, Benedetto entrò nel dettaglio: «Mentre stavo ancora lavorando su questo punto, il 5 settembre 2019 mi è arrivata una lettera del cardinale Sarah, nella quale mi chiedeva una mia riflessione sul sacerdozio, con particolare attenzione al celibato, all’obbedienza e alla povertà. Sorpreso da questa richiesta, ho risposto il successivo 20 settembre che già prima della sua lettera avevo cominciato a scrivere qualche riflessione sul sacerdozio, ma scrivendo ho sentito sempre più che le mie forze non mi permettono più la redazione di un testo teologico. Ho ripreso il mio lavoro e l’ho trasmesso al cardinale, dicendo: “Lascio a lei se queste note, la cui insufficienza sento fortemente, possono avere qualche utilità”». In effetti, dopo una rapida revisione, il 12 ottobre Benedetto inviò a Sarah il proprio testo, cui il cardinale diede riscontro il 31 ottobre: «Porgo di tutto cuore il mio vivo ringraziamento per l’invio delle sue stupende e preziose riflessioni sul sacerdozio. Sono certo che potranno essere per tutta la Chiesa un contributo assai prezioso e soprattutto un sostegno paterno per tutti i sacerdoti del mondo. Sono davvero grato per la sua premurosa e paterna attenzione che sempre mi riserva e che mi commuove grandemente. Sto studiando e lavorando per esaminare il modo migliore di presentarlo e farlo conoscere ai sacerdoti e a tutta la Chiesa. Appena finito il progetto, sottometterò la bozza a Vostra Santità per giudicarla e approvarla». Proseguiva Benedetto nella spiegazione a Papa Francesco: «Sarah, grato per il testo, mi ha trasmesso poi alcune righe nelle quali interpretava l’intenzione particolare del mio testo per offrire così un aiuto ai lettori per capire l’intenzione e i limiti del mio scritto. Quando il cardinale ha saputo che in modo strettamente privato avevo scritto sette pagine come chiave di interpretazione del mio testo, ha chiesto questo scritto. Io ho risposto che la sua chiara interpretazione di una mezza pagina serviva meglio del mio lungo documento di sette pagine, e che soltanto queste sue parole sono da considerare come scritte da me (intendendo sottolineare che, oltre a quella “mezza pagina”, nessun altro testo doveva essere attribuito a lui, N.d.A.). Nella sua lettera del 20 novembre, il cardinale Sarah aggiungeva ancora alcune piccole precisazioni. Alle mie riflessioni sul sacerdozio avevo aggiunto tre interpretazioni di testi fondamentali come espressioni della mia esperienza personale. Così pensavo di toccare anche il problema del celibato, senza entrare nelle dispute attuali».
La lettera di Sarah del 20 novembre, cui Benedetto faceva riferimento, permette di comprendere bene a chi siano da attribuire i singoli testi: «Il mio desiderio è di poter far uscire la pubblicazione per il prossimo 6 gennaio, solennità dell’Epifania, sempre se Vostra Santità sia d’accordo (dunque è chiaramente indicata la volontà di uscire dopo la prevista pubblicazione dell’esortazione di Papa Francesco, N.d.A.). Come può notare, il testo completo è formato da quattro parti: una introduzione, la sua riflessione, il mio testo e una conclusione (qui si evince senza ombra di dubbio che l’unico testo di Benedetto è “la sua riflessione”, N.d.A.). Nel suo testo ho ardito fare alcune aggiunte che troverà in rosso. Innanzitutto ho aggiunto un paragrafo introduttivo con l’intenzione di meglio aiutare a entrare nella riflessione proposta. Inoltre, alla pagina 5 ho inserito una citazione di san Clemente da Roma per sottolineare la continuità storica. Infine, alle pagine 9 e 10 ho aggiunto una sua citazione per meglio sottolineare la riflessione sul celibato. Come le ho già detto, la mia è soltanto una proposta e Vostra Santità può apportare qualsiasi modifica». Il 25 novembre il Papa emerito rispose: «Cara eminenza, di tutto cuore vorrei dire grazie per il suo testo aggiunto al mio contributo e per tutta l’elaborazione che lei ha fatto. Mi ha toccato profondamente come lei ha capito le mie ultime intenzioni. Avevo scritto sette pagine di chiarimento metodologico del mio testo e sono realmente felice di dire che lei ha saputo dire l’essenziale in una mezza pagina. non vedo quindi una necessità di trasmettere le sette pagine dato che lei ha espresso nella mezza pagina l’essenziale. Da parte mia il testo può essere pubblicato nella forma da lei prevista (il chiaro riferimento è sempre, e unicamente, al proprio testo iniziale con l’aggiunta della mezza pagina esplicativa di Sarah, N.d.A.)». La conclusione di quella lettera del 17 febbraio a Papa Francesco metteva in luce tutta l’amarezza di Benedetto per l’accaduto e poneva una definitiva pietra: «Ho già deciso di non pubblicare più niente durante la mia vita in questa terra. Santo Padre, spero di aver chiarito la storia del mio testo per il libro del cardinale Sarah e posso soltanto esprimere la mia tristezza sull’abuso del mio articolo nella discussione pubblica». Non c’era necessità di una specifica risposta, cosicché da parte di Papa Francesco ci fu unicamente il riscontro della ricezione. Ma, per quanto ne so, comprese la totale buona fede del suo predecessore e ne apprezzò la trasparenza nel comportamento.
Comunque, la certezza che le cose fossero andate nel modo qui documentato è attestata ad abundantiam da un elemento essenziale: sin dal 31 maggio 2005, Benedetto XVI-Joseph Ratzinger aveva affidato alla Libreria editrice vaticana la gestione dei diritti d’autore e, riguardo a questo libro, non fu mai approntato un contratto né ci furono contatti con la LEV , a testimonianza che si trattava unicamente di una libera espressione del pensiero del Papa emerito, limitata alle pagine del suo contributo. Intanto, il 12 febbraio, il vaticanista Sandro Magister aveva pubblicato sul suo blog un articolo molto dettagliato, dal titolo “Il silenzio di Francesco, le lacrime di Ratzinger e quella sua dichiarazione mai pubblicata”. Commentando Querida Amazonia, pubblicata quel giorno, sottolineava l’assenza nel testo di qualsiasi riferimento al celibato ecclesiastico e all’ordinazione di uomini sposati, proponendo un indebito e scorretto collegamento: «La curiosità che sorge immediata è dunque di capire in quale misura il libro bomba scritto dal Papa emerito Benedetto XVI e dal cardinale Robert Sarah in difesa del celibato del clero, pubblicato a metà gennaio, abbia influito sull’esortazione». Per di più, veniva presentata una drammatica ricostruzione dello scambio telefonico avvenuto tra Benedetto e Sarah nella mattinata del 15 gennaio: «Mentre Papa Francesco stava tenendo la sua udienza generale settimanale e Gänswein sedeva come di regola al suo fianco nell’aula Paolo VI, lontano quindi dal monastero “Mater Ecclesiae” che è la residenza del Papa emerito di cui egli è segretario, Benedetto XVI alzò di persona il telefono e chiamò Sarah prima a casa, dove non lo trovò, e poi in ufficio, dove il cardinale rispose. Benedetto XVI espresse, accorato, a Sarah la sua solidarietà. Gli confidò di non riuscire a comprendere le ragioni di un’aggressione così violenta e ingiusta. E pianse. Anche Sarah pianse. La telefonata si chiuse con entrambi in lacrime». Appena lessi queste parole, andai ovviamente a chiedere a Benedetto cosa fosse accaduto e lui mi informò che aveva semplicemente voluto rincuorare Sarah a livello personale dicendogli che non comprendeva l’accanimento contro il contenuto del libro, ma una scena così patetica non si era assolutamente verificata. Per dare un taglio alla vicenda, il 27 febbraio ebbi un incontro nell’appartamento del cardinale Sarah in piazza della Città leonina, alla presenza come testimone di un sacerdote da ambedue conosciuto e stimato.
Di fatto, alle mie contestazioni riguardo al mancato adempimento della promessa di modificare copertina e attribuzioni dei testi e alla divulgazione dei contatti fra lui e il Papa emerito, il cardinale replicò di aver riferito tutto a Nicolas Diat e che la responsabilità era di quest’ultimo. E quando gli espressi tutta la mia delusione per il suo comportamento, che aveva fortemente danneggiato sia Benedetto che me, lui balbettò che poteva soltanto chiedere scusa per ciò che non era assolutamente nelle sue intenzioni.
Il prefetto dimezzato Nel mio duplice ufficio di segretario particolare del Papa emerito e di prefetto della Casa pontificia per Papa Francesco, mi sono trovato a ricoprire un ruolo che mi ha fatto sentire – per elevare il tono della riflessione con un riferimento alla letteratura colta – talvolta nei panni del goldoniano “servitore di due padroni” e talaltra come il manzoniano “vaso di terracotta tra i vasi di ferro”. La speranza di Benedetto che io sarei stato l’anello di collegamento fra lui e il successore fu un po’ troppo ingenua, poiché, già dopo qualche mese, ho avuto l’impressione che tra me e il nuovo Pontefice non si riuscisse a creare l’opportuno clima di affidamento, necessario per poter portare avanti in modo adeguato un tale impegno. Probabilmente, quando ebbi la conferma quinquennale a fine 2017, volle mantenermi nell’incarico essenzialmente per rispetto alla nomina fatta da Benedetto, anche se fin dall’inizio era accaduto sempre più spesso che venissi scavalcato nelle mie responsabilità, poiché Papa Francesco preferiva piuttosto prendere accordi direttamente con il mio vice, il reggente padre Leonardo Sapienza. Ricordo, per esempio, la visita del 15 giugno 2014 alla Comunità di Sant’Egidio a Trastevere: il giorno precedente, quando ci salutammo a Santa Marta dopo le udienze, il Pontefice mi disse, alla presenza dei comandanti della Gendarmeria e della Guardia svizzera, oltre che degli autisti, che non era necessaria la mia presenza e che avrei potuto prendermi un giorno libero, ribadendolo con decisione dinanzi alle mie osservazioni stupite. Il giorno seguente ovviamente mi telefonò il fondatore Andrea
Riccardi per chiedermi se io o Benedetto avessimo qualche problema con Sant’Egidio, poiché questa era la voce sparsa dopo che era stata notata la mia assenza all’evento, senza che fossero state date motivazioni da qualcuno. Appena mi fu possibile, riferii a Papa Francesco il contenuto di questa telefonata e gli spiegai che tutto ciò rendeva problematica la gestione dell’ufficio e sminuiva la mia autorità, e che per di più a livello personale mi ero sentito umiliato sia perché non mi aveva chiarito il motivo della sua decisione, sia perché aveva parlato alla presenza di altre persone, cosicché il pettegolezzo si era immediatamente diffuso in Vaticano, con interpretazioni di vario tipo. Lui mi rispose che avevo ragione e che non si era reso conto della questione, si scusò, ma poi aggiunse che le umiliazioni fanno molto bene… E purtroppo una simile situazione si ripeté altre volte, in particolare per le visite nelle parrocchie romane. Che Francesco non considerasse strategica la Prefettura della Casa pontificia lo avevo comunque compreso anche da altri segnali, in apparenza piccoli, ma significativi invece nella dinamica curiale. Un esempio evidente riguardò l’appartamento che tradizionalmente spetta al prefetto, situato nella vecchia ala del Palazzo apostolico, risalente ai tempi di Papa Giulio II e di cui la Cappella Nicolina, che talvolta viene mostrata in visite riservate nei Musei vaticani, sarebbe la cappella privata. Quando il mio predecessore, monsignor Harvey, divenne cardinale arciprete di San Paolo fuori le mura, decise di andare ad abitare nel complesso della basilica, ma era necessario ristrutturare i locali della residenza. Perciò mi chiese di poter restare per qualche altro mese nell’appartamento del prefetto e io ovviamente non ebbi difficoltà. I lavori però durarono più del previsto e soltanto tre anni più tardi restituì le chiavi al Governatorato. Dopo qualche piccola opera di rifinitura, a metà 2016 l’allora segretario generale Fernando Vérgez Alzaga mi disse che potevo prenderne possesso, cosicché cominciai a organizzare il trasloco delle mie cose, che fino a quel momento avevo lasciato nell’ufficio del prefetto a Castel Gandolfo, al piano terra di Villa Barberini. Al mattino del 22 luglio 2016 attendevo come di consueto Papa Francesco a San Damaso, dove si prende l’ascensore Nobile. Lui scese dall’automobile e subito mi disse: «Ho sentito che lei ha l’appartamento nel Palazzo apostolico». Io precisai che si trattava dell’appartamento del
prefetto della Casa pontificia, assegnato temporaneamente a me per ragioni d’ufficio. «Per favore, non ne prenda possesso ora», aggiunse. Quando lo informai che era normale che il prefetto risiedesse lì, per poter svolgere bene il suo compito – poiché, anche se al momento vivevo nel Monastero con il Papa emerito, questa era comunque una residenza provvisoria –, lui replicò: «Attenda, prima devo parlare con i miei stretti collaboratori; non faccia nulla finché non riceverà da me una risposta». La cosa mi dispiacque perché intuii che dietro c’era qualcuno che stava manovrando per appropriarsi di quell’appartamento. Il 2 settembre successivo, nella medesima circostanza, il Pontefice mi disse: «Lei attendeva da me una risposta e ora le dico di lasciar stare. Quando avrà bisogno di un appartamento ci penserò io». Alla mia espressione di grande meraviglia, mi spiegò che gli era stato fatto notare che nel Palazzo apostolico abitavano il segretario di Stato (il cardinale Pietro Parolin) e il sostituto della prima Sezione per gli Affari generali (all’epoca l’arcivescovo Giovanni Angelo Becciu), ma non il segretario della seconda Sezione per i rapporti con gli Stati. Concluse con fermezza: «Ho deciso»; e infatti, qualche tempo dopo, vidi che in quell’appartamento era appunto andato ad abitare l’arcivescovo Paul Richard Gallagher. Nel 2018 però ritenni opportuno ricordare a Papa Francesco la sua promessa, cosicché lui diede disposizioni a monsignor Vérgez e alla fine mi venne assegnato un appartamento nella vecchia Santa Marta, al confine con l’aula Paolo VI. L’allontanamento fisico dal Palazzo apostolico rappresentò comunque il preannuncio degli sviluppi successivi. A fine gennaio 2020, sempre per restare nel paragone letterario, mi ritrovai infatti a essere un “prefetto dimezzato”, parafrasando il titolo della famosa opera di Italo Calvino Il visconte dimezzato. Dopo quei torridi giorni di polemiche attorno al libro del cardinale Sarah, lunedì 20 chiesi a Papa Francesco di potergli parlare e lui mi diede appuntamento per fine mattinata, al termine delle udienze. Gli fornii nel dettaglio i particolari su quanto era accaduto e gli chiesi consiglio su come agire in futuro, poiché non sempre mi era facile riuscire a prevenire problemi come quello che si era appena verificato. Lui mi guardò con espressione seria e disse a sorpresa: «D’ora in poi rimanga a casa. Accompagni Benedetto, che ha bisogno di lei, e faccia scudo».
Restai scioccato e senza parole. Quando provai a replicare, dicendogli che lo facevo ormai da sette anni, per cui potevo continuare ugualmente anche per il futuro, chiuse seccamente il discorso: «Lei rimane prefetto, ma da domani non torni al lavoro». In modo dimesso replicai: «Non riesco a capirlo, non lo accetto umanamente, ma mi adeguo soltanto in obbedienza». E lui di rimando: «Questa è una bella parola. Io lo so perché la mia esperienza personale è che “accettare in obbedienza” è una cosa buona». La mia preoccupazione fu riguardo al modo in cui si sarebbe comunicata la notizia all’esterno, poiché sarebbero certamente stati sollevati interrogativi sulla mia assenza, ma il Pontefice affermò che non era necessario fare nulla e andò via. Tornai al Monastero e durante il pranzo lo raccontai alle Memores e a Benedetto, il quale commentò, tra il serio e il faceto, in modo ironico: «Sembra che Papa Francesco non si fidi più di me e desideri che lei mi faccia da custode!». Gli ho risposto, sorridendo anch’io: «Proprio così…, ma dovrei fare il custode o il carceriere?». Poi ho aggiunto che presumibilmente era un pretesto in correlazione con la spinosa vicenda Sarah, poiché non era cambiato nulla da un giorno all’altro. Come avevo preventivato, dopo alcuni giorni di assenza pubblica cominciai a ricevere mail e messaggi nei quali mi veniva domandato che fine avessi fatto, e ovviamente non risposi a nessuno. Sabato 25 gennaio scrissi un biglietto di poche righe a Papa Francesco, comunicandogli che stavo ricevendo queste richieste di informazione e suggerendo che ormai erano passati diversi giorni di sospensione, dunque potevo eventualmente riprendere il lavoro. Il 1° febbraio mi rispose per iscritto: «Caro fratello, grazie tante per la sua lettera. Per il momento credo che è meglio mantenere lo status quo. La ringrazio per tutto quello che fa per Papa Benedetto: che non gli manchi nulla. Prego per lei, per favore lo faccia per me. Che il Signore la benedica e la Madonna la custodisca. Fraternamente, Francesco». Il 5 febbraio l’effimera cappa di silenzio venne infranta da un articolo del vaticanista Guido Horst sul «Tagespost», che rappresentò l’innesco dell’incendio, con una quantità incredibile di post, commenti e variegate opinioni su cosa fosse accaduto nei rapporti fra il Papa, me ed eventualmente Benedetto. Mi contattò Matteo Bruni, il direttore della Sala stampa vaticana, per informarmi che i giornalisti sollecitavano un
chiarimento e che i superiori stavano concordando una risposta. In effetti, nel pomeriggio del 6 febbraio, i giornalisti ricevettero un comunicato stampa, che io vidi soltanto quando fu reso noto, nel quale si diceva che «l’assenza di monsignor Gänswein, durante determinate udienze nelle ultime settimane, è dovuta a una ordinaria ridistribuzione dei vari impegni e funzioni del prefetto della Casa Pontificia, che ricopre anche il ruolo di segretario particolare del Papa emerito». Benedetto restò dispiaciuto per questa evoluzione della vicenda e, nella citata lettera del 13 febbraio a Papa Francesco, aggiunse un paragrafo finale che mi riguardava: «Mi permetto ora di esprimere anche una domanda. Monsignor Gänswein soffre profondamente e in modo crescente sotto il peso del suo stato fuori senza prospettive di soluzione. Oso perciò pregare Vostra Santità di chiarire la situazione con un colloquio paterno. Da parte mia posso soltanto dire che monsignor Gänswein non ha avuto alcuna parte nell’elaborazione del mio contributo al libro del cardinale Sarah. Avendo visto il progetto del cardinale che sembrava fare di me un coautore del libro, e questo in una prospettiva che poteva insinuare un’eventuale contrarietà fra me e il suo insegnamento pontificio, Gänswein ha subito compreso la gravità di questa ipotesi e ha chiarito con una forte insistenza l’inaccettabilità di questa presentazione. Adesso si sente attaccato da tutte le parti e ha bisogno di una parola paterna». Un paio di giorni più tardi, il Pontefice mi fissò un incontro a Santa Marta, nel quale mi confermò che non sarebbe cambiato nulla. Nessuna ulteriore risposta ebbe invece il rinnovato appello del Papa emerito a conclusione della lettera del 17 febbraio: «Chiedo ancora umilmente una parola sua per monsignor Gänswein». All’inizio di settembre del 2020 fui ricoverato nel Campus biomedico e mi venne diagnosticata una sindrome renale, che il primario di Medicina interna associò anche a un disturbo psicosomatico. Al rientro in Monastero dopo due settimane, Papa Francesco mi telefonò per informarsi della mia salute e ne approfittai per chiedergli un appuntamento, che mi fissò per il 23 settembre alle ore 16. Gli dissi che avevo inteso la mia sospensione come una punizione, ma lui mi rispose che non era così. Ribattei che tutti la interpretavano in questo modo, a cominciare dai giornalisti, e la sua replica fu che non dovevo preoccuparmene, poiché, mi disse testualmente, «ci sono
tanti che scrivono contro di lei e contro di me, ma non meritano considerazione». Tuttavia, quando provai a ipotizzare il mio rientro, se era vero che quella non era una punizione, reagì invitandomi a non fare progetti per il futuro e suggerendomi addirittura di dedicarmi a qualche attività pastorale, cosa che ovviamente si scontrava con la logica che mi era stata descritta, quella di dover restare nel Monastero al fianco di Benedetto XVI. Poi, una volta ancora, Papa Francesco mi raccontò alcune sue faticose esperienze in Argentina, dicendo che le volte in cui lo avevano stoppato gli erano servite per maturare. Alla fine, abbiamo anche ragionato sull’opportunità di nominare un proprefetto, per rispondere alle necessità formali dei rapporti con le autorità ricevute dal Santo Padre. Ma lui concluse che si poteva tranquillamente andare avanti come stabilito in precedenza. Soltanto con la pubblicazione nel 2022 della costituzione apostolica Praedicate Evangelium sulla Curia romana ne compresi il motivo, poiché il ruolo del Prefetto della Casa pontificia risultava nettamente ridimensionato: nell’omologo documento Pastor bonus del 1988 si precisava che «assiste il Sommo Pontefice sia nel Palazzo apostolico sia quando viaggia in Roma o in Italia»; ora invece «lo assiste solo in occasione di incontri e visite nel territorio vaticano». Riguardo al mio futuro, comunque, quel che penso l’ho già affermato in tempi decisamente non sospetti, addirittura nel 2016, per cui mi limito a riproporlo: «Come pluriennale collaboratore della Congregazione per la Dottrina della fede, segretario del cardinale Ratzinger e di Papa Benedetto, evidentemente mi porto addosso un “marchio di Caino”. Verso l’esterno sono perfettamente “identificabile”. Effettivamente è così: non ho mai nascosto le mie convinzioni. In qualche modo si è riusciti a marchiarmi pubblicamente come quello molto a destra o “falco”, senza mai citare esempi concreti al riguardo. Lo confermo. Oggi e anche in futuro. Non ho fatto e non faccio piani di carriera».
9
Nel Monastero il silenzio operoso
Il ritmo della preghiera Inutile girarci attorno: anche se risulta brutale e inelegante detta così, è la pura verità. Quando, il 28 febbraio 2013, ci trasferimmo a Castel Gandolfo, Benedetto era intimamente convinto che la sua esistenza non sarebbe durata a lungo. E così la pensavamo il dottor Polisca e io, che ne avevamo percepito il progressivo deperimento, mentre pure il fratello Georg sosteneva che Joseph sarebbe certamente morto prima di lui. In quel periodo, l’unica circostanza nella quale facemmo riferimento alla rinuncia fu quando agli inizi di marzo gli mostrai la famosa fotografia del fulmine che aveva colpito la cupola di San Pietro nella serata dell’11 febbraio, scattata dal reporter Alessandro Di Meo dell’agenzia Ansa. Ovviamente nel Palazzo apostolico avevamo udito l’imperversare del violento temporale, ma non avevamo visto quel lampo. Restò colpito e mi chiese se si trattasse di un fotomontaggio. Gli risposi di no e provai a pungolarlo dicendogli: «Sembra che la natura abbia voluto dire qualcosa!». Lui però non replicò alcunché. Nelle prime settimane dopo la rinuncia, il Papa emerito era totalmente esausto, camminava curvo, parlava pochissimo. Il medico non diagnosticò problematiche di depressione psicologica, quanto un sovraffaticamento fisico e mentale che doveva venire gradualmente smaltito. La tranquillità di quell’ambiente lo aiutò molto, gli permise di leggere senza vincoli di tempo (Gregorio Magno, Agostino, ma anche autori più recenti, come Romano Guardini ed Eric Peterson) e di ascoltare musica sacra e sinfonica con un lettore cd che aveva nella camera da letto (Bach, Mozart, Beethoven, Liszt, Bruckner, Schubert, Brahms…). E in seguito ha ripreso anche a suonare il pianoforte.
Di fatto, Ratzinger aveva avuto nel corso degli anni alcuni problemi di salute, in particolare con l’ictus del 1991 che gli aveva causato una riduzione del campo visivo nell’occhio sinistro. Qualche caduta aveva richiesto dei punti di sutura alla testa, nel 1992 e nel 2012, e un intervento chirurgico per ridurre una frattura al polso destro, nel 2009. Per la stabilizzazione del ritmo cardiaco gli venne impiantato nel 2003 un pacemaker, sostituito nell’autunno del 2012 e del 2022. Però malattie degenerative non l’hanno mai colpito e il lento spegnimento che lo ha condotto alla morte è stato il normale decorso dell’invecchiamento naturale. Addirittura, da lungo tempo era iscritto nel registro per la donazione di organi, e soltanto dopo l’elezione al pontificato quell’autorizzazione all’espianto venne ovviamente annullata, a motivo del nuovo status. La maggiore difficoltà negli ultimi tempi di vita riguardò la capacità dell’eloquio, dovuta all’affaticamento polmonare. Ma lui reagì con il consueto humor, dicendo in più occasioni: «Dio mi ha tolto la parola per farmi apprezzare sempre più il silenzio». La vita nel Monastero è in effetti stata scandita dalla preghiera, secondo quanto aveva stabilito con una frase che esprimeva il suo programma di massima: «Ogni giorno inizio dal Signore e finisco con il Signore, e vedremo quanto dura». Un’affermazione in linea con quanto già nel 1996 aveva dichiarato a Peter Seewald nel libro-intervista Il sale della terra: «Quanto più si diventa vecchi, tanto più ci si accorge che le forze non bastano più a fare quello che si dovrebbe fare, che si è troppo deboli, troppo incapaci, o anche non all’altezza delle situazioni. E allora ci si rivolge a Dio, dicendo: “Adesso devi aiutarmi Tu, ora non ce la faccio più”». A me piace sempre sottolineare che il “Mater Ecclesiae” non è stata una casa “di riposo”, bensì “di lavoro” soprattutto spirituale. È unicamente questo il senso di una mia osservazione poco compresa, quando parlai di «un ministero papale allargato, con un membro attivo e un membro contemplativo». La scelta di Benedetto si orientò in direzione del Colle vaticano proprio perché lui aveva chiara la sua missione futura. Io infatti gli avevo proposto qualche alternativa, come un edificio nel complesso di Castel Gandolfo che era possibile rendere autonomo: gliene parlai un pomeriggio durante la consueta passeggiata, ma lui aveva già deciso e non ha mai avuto il minimo dubbio.
Qualche volta, da cardinale e anche durante il pontificato, il Papa emerito si era recato nella cappella del Monastero per celebrare la Messa e, nel tempo della riflessione sulla rinuncia, si era reso conto che quel luogo avrebbe corrisposto perfettamente alla sua indole e al desiderio di vita sobria che più volte aveva fatto presagire. Per esempio nell’ottobre del 2011, nel discorso ai certosini di Serra San Bruno, aveva sottolineato che «ogni monastero è un’oasi in cui, con la preghiera e la meditazione, si scava incessantemente il pozzo profondo dal quale attingere l’“acqua viva” per la nostra sete più profonda». E nel marzo del 2012, ai benedettini camaldolesi sul Celio, confidò, secondo la testimonianza del priore Enzo Gargano: «Mi sento monaco come voi. Fra i monaci mi sento a casa». Quando si trattò di definire esattamente il progetto di ristrutturazione del Monastero, Benedetto mi disse che era indeciso se restare con tutte le quattro Memores, poiché temeva di “approfittare” della loro benevolenza. Anche dietro le mie insistenze e dopo averle consultate personalmente, concordò che si era creata una vera e propria famiglia e che era dunque opportuno mantenerla sino alla sua morte. Perciò il secondo piano venne destinato alla loro vita comunitaria, con quattro stanze e il salone comune. Al primo piano c’erano invece la camera da letto, la sala e la biblioteca utilizzate dal Papa emerito; la mia stanza e uno studio per suor Birgit. Al piano terra, da un lato la cappella e l’appartamento che periodicamente ospitò monsignor Georg Ratzinger; dall’altro lato la cucina, la sala da pranzo e il salottino di ricevimento. Scherzando, durante il periodo di lockdown per la pandemia del Covid, ci dicevamo che noi avevamo precorso i tempi, memori del celebre aforisma di Cicerone all’amico Varrone: «Se accanto alla biblioteca avrai un orto, non ti mancherà nulla». Ma in realtà, anche per Benedetto, non si è mai trattato di una completa clausura, poiché Francesco sin dagli inizi rivelò di aver parlato personalmente con il Papa emerito e di aver «deciso insieme che sarebbe stato meglio che vedesse gente, uscisse e partecipasse alla vita della Chiesa». Anzi, sorridemmo per il saluto che Papa Bergoglio gli rivolse pubblicamente il 28 settembre 2014 dal sagrato di San Pietro nella Giornata per la terza età: «Io ho detto tante volte che mi piaceva tanto che lui abitasse qui in Vaticano, perché era come avere il nonno saggio a casa!», dato che Benedetto commentò simpaticamente: «Mah, in fondo
abbiamo soltanto nove anni di differenza. Forse era più corretto definirmi “fratello maggiore”…». Comunque, in tutti questi anni il Papa emerito è restato in costante contatto con le vicende del mondo, contrariamente a quanto affermato da alcuni, e purtroppo anche da Vittorio Messori nel già citato intervento del 2016 al Rosetum di Milano, quando disse che «a lui le notizie non arrivano. Lui non vede la tv, non ascolta la radio, gli arriva solo il “Corriere della Sera”». Ora, a parte che il quotidiano milanese è oggettivamente il più diffuso in Italia, Benedetto ha sempre visto il telegiornale e ha potuto consultare l’ampia rassegna stampa della Segreteria di Stato, oltre a ricevere anche il quotidiano vaticano «L’Osservatore Romano» e quello tedesco «Frankfurter Allgemeine Zeitung» e il settimanale cattolico «Die Tagespost». Inoltre lo abbiamo sempre aggiornato su ciò che poteva essere di suo interesse o che in qualche modo lo coinvolgeva. Per esempio, io l’ho informato sia delle serie televisive The Young Pope e The New Pope, sia del film I due Papi, seppur senza riscontrare in lui particolare attenzione. Quando girarono il film a Roma, l’attore Anthony Hopkins, che interpretava la figura ispirata a Benedetto, desiderava incontrarlo, ma la cosa non fu ritenuta opportuna poiché certamente quell’appuntamento sarebbe stato reso noto, magari citandolo come un’approvazione implicita della sceneggiatura, che invece propone come vere vicende mai avvenute. E anche nel libro da cui era tratto, L’anno dei due Papi di Anthony McCarten, si leggono affermazioni del tutto prive di fondamento, e persino squallide, come quella che Papa Ratzinger «aveva commissionato a un profumiere la creazione di una fragranza esclusiva, che non mancava di usare».
Una sequenza di indizi infondati Benedetto per primo, e io in subordine, non avremmo mai pensato che i suoi gesti e parole sarebbero stati dissezionati in maniera abnorme nell’illusorio tentativo di avvalorare elucubrazioni personali instradate più sulla scia del Codice da Vinci di Dan Brown che su binari logici e ragionevoli. Talvolta mi sono addirittura trovato a pensare alla famosa frase
dei poliziotti americani: «Tutto quello che dici potrà essere utilizzato contro di te». La prima contestazione, cavallo di battaglia specialmente del giornalista Andrea Cionci, ha riguardato l’utilizzo contemporaneo, nella Dichiarazione della rinuncia, dei vocaboli latini munus e ministerium, poi entrambi tradotti nelle lingue comuni con la parola “ministero”. Si è perfino sostenuto che, in accordo fra Giovanni Paolo II e il prefetto Joseph Ratzinger, sin dal 1983, con il nuovo Codice di Diritto canonico, l’incarico papale fosse stato giuridicamente scomposto, attribuendo al primo termine il titolo petrino e al secondo l’esercizio pratico del relativo potere (una distinzione assolutamente inesistente in quel testo). Decisamente un’assurda idea, fondata sull’avveniristica certezza di una triplice sequenza di fatti. Innanzitutto l’elezione del cardinale Ratzinger al pontificato (nel 1983 lui aveva appena 56 anni e Papa Wojtyła soltanto 63, dunque le prospettive erano tutt’altro che in questa direzione); quindi uno sviluppo delle vicende personali ed ecclesiali che lo avrebbe successivamente spinto all’atto della rinuncia; infine una futura situazione eccezionale, addirittura identificata da Cionci nella “sede impedita”, che il Codice di Diritto canonico, al n. 412, definisce: «Se il vescovo diocesano è totalmente impedito di esercitare l’ufficio pastorale (munere pastorali) nella diocesi a motivo di prigionia, confino, esilio o inabilità, non essendo in grado di comunicare nemmeno per lettera con i suoi diocesani». Manco a dirlo, quanto di più lontano dalla evidente modalità con cui ha vissuto Benedetto XVI nel Monastero, dove ha incontrato a quattr’occhi chi ha voluto, ha scritto a chiunque desiderasse e ha pubblicato tutto ciò che ha ritenuto opportuno. In realtà, Benedetto volle semplicemente comunicare in uno stile elegante la rinuncia a ciò che gli era stato conferito tramite l’elezione e la sua accettazione, utilizzando due sinonimi. Forse un Papa canonista avrebbe utilizzato unicamente munus. Ma Benedetto, essendo di formazione un teologo, mise anche in questo caso in campo la propria competenza: per lui, la parola munus era stata un’applicazione del Concilio Vaticano II con l’obiettivo di spiegare più precisamente il concetto dei tria munera, cioè la partecipazione di tutti i fedeli alla triplice funzione di Cristo, sacerdotale, profetica e regale.
Però il teologo Ratzinger non concordava con la tesi che rinveniva nei padri della Chiesa e anche nel Catechismo del Concilio di Trento i fondamenti della dottrina dei tria munera. Lui riteneva invece che la teologia classica fosse estranea a questa teoria, fatta sostanzialmente propria per la prima volta dal Magistero conciliare. Perciò ha privilegiato il concetto di ministerium, che invece era secondo lui la parola giusta e più forte nella tradizione teologica. Traducendo dal latino la Dichiarazione, qualcuno ha forzato interpretazioni diverse. Ma nessuno di noi, neanche il canonista Bertone, ritenne possibili equivoci reali. In ogni caso, percependo qualche segnale di osservazioni in tal senso, nell’udienza generale del 27 febbraio Benedetto XVI chiarì ad abundantiam, utilizzando appositamente la parola “officio” con cui il Codice di Diritto canonico traduce in italiano il termine “munus”: «Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro». Ugualmente per quanto concerne un’altra terminologia in latino occorre ribadire l’intenzione di Benedetto: mi riferisco a quando puntualizzò la convocazione del Conclave «da coloro a cui compete». È la precisa traduzione proposta in tutte le lingue comuni e corrisponde a quanto sancito nell’articolo 18 della costituzione apostolica Universi Dominici gregis: la convocazione dei cardinali elettori fatta «dal Decano, o da altro cardinale a suo nome», che sono appunto «coloro a cui compete». L’espressione venne scelta come sinonimo della parola “cardinali”, più volte ripetuta: se si vuole, si potrà criticare lo stile, ma non la proprietà del linguaggio. Pure riguardo allo stemma e all’abito bianco conservati dopo la rinuncia sono state fatte delle sottolineature ineleganti, per utilizzare un eufemismo. Ribadisco che il Papa emerito non pensava che sarebbe vissuto così a lungo, per cui, anche se ovviamente non poteva esplicitarlo ad alta voce, riteneva inutile mettersi a modificare simboli che sarebbero “scomparsi” rapidamente insieme con lui. Ovviamente, destò curiosità la risposta che diede il 18 febbraio 2014 al vaticanista Andrea Tornielli: «Il mantenimento dell’abito bianco e del nome Benedetto è una cosa semplicemente pratica. Nel momento della rinuncia non c’erano a disposizione altri vestiti». Voleva essere una battuta nel suo sottile stile umoristico, poiché lui era consapevole di indossare la talare bianca in modo chiaramente distinto da quello del Papa regnante: se col
senno di poi risultò un’espressione infelice, devo però sottolineare che – una volta che l’aveva scritta – io non potevo certamente permettermi di suggerirgli un cambiamento. Il vero problema fu puntualizzato da Benedetto negli scambi con il cardinale Walter Brandmüller, che gli aveva manifestato alcune perplessità riguardo sia alla rinuncia, sia alla scelta del titolo di “Papa emerito” (e che incarnò la figura del “fuoco amico”, facendo vedere “per caso” la corrispondenza con il Papa emerito a un giornalista che poi la divulgò): «Se lei conosce un modo migliore, e quindi ritiene di poter censurare quello che ho scelto, la prego di parlarmene». L’inedita situazione, in sostanza, aveva reso necessario prendere alcune decisioni sapendo bene che non erano perfette. Ma qualunque scelta, ne eravamo certi, alla fine sarebbe stata contestata da qualcuno. Purtroppo, anch’io sono stato tirato a forza dentro queste polemiche. Di fatto, talvolta in buona fede ma in molti altri casi no, alcune mie dichiarazioni un po’ enfatiche sono state utilizzate come supporto per fantasticherie prive di sostanza. In particolare, ciò accadde quando nel 2016 presentai il saggio di don Roberto Regoli Oltre la crisi della Chiesa, sul pontificato di Benedetto XVI. Avevo messo in conto la possibilità di qualche incomprensione, ma l’espressione del «ministero petrino allargato», seppure un po’ azzardata, non mi sembrava così fuori luogo al punto da consentire il capovolgimento del mio pensiero. La ritenevo un’immagine utile per descrivere l’attualità che stavamo vivendo in ambito ecclesiale, e devo dire che nel momento della conferenza non notai specifiche reazioni, che si sono sviluppate soltanto a distanza di tempo. Comunque, posso qui rivelare che al Papa emerito ho sempre dato i testi delle mie conferenze soltanto dopo averli pronunciati, per non farlo sentire obbligato a mettervi mano come professore e per poter affermare senza problemi che stavo esprimendo il mio pensiero e non facevo da suo portavoce, come molti hanno ipotizzato, più o meno velatamente. In seguito è però stato raggiunto il ridicolo, quando ci si è chiesti perché sulla mia carta da lettere ci fosse ancora il vecchio stemma episcopale, inquartato con quello di Benedetto, affermando che nel 2017 lo avevo sostituito inquartando quello di Francesco. La spiegazione è semplicissima, anche perché il mio stemma l’avevo modificato subito dopo l’elezione di Papa Bergoglio, sostituendo la metà su cui precedentemente c’era lo
stemma di Benedetto. Ma poche settimane prima mi erano stati consegnati dalla Tipografia vaticana i fogli da lettera e i cartoncini con il vecchio stemma (ovviamente non avrei potuto dare l’indicazione di non realizzarli, in vista dell’imminente rinuncia di Benedetto, senza suscitare inopportuni interrogativi…). Perciò ho continuato a utilizzarli per la corrispondenza da segretario particolare del Papa emerito, mentre per quella da Prefetto della Casa pontificia mi sono servito dei nuovi fogli con lo stemma cambiato. Consideravo infatti uno spreco buttare tutto al macero, e mai avrei pensato che questo ingenuo gesto avrebbe potuto innescare un’insensata speculazione.
La famiglia al centro dello scontro Nei primi tempi del pontificato di Francesco, Benedetto XVI leggeva con attenta curiosità sull’«Osservatore Romano» tutto ciò che il successore faceva e diceva. Ricordo che restò subito colpito dalle parole del suo primo Angelus, il 17 marzo 2013, quando Papa Bergoglio citò un libro sulla misericordia scritto dal cardinale Walter Kasper, anche perché lui stesso, per esempio nel Regina Caeli del 30 marzo 2008, aveva affermato con determinazione che «la misericordia è il nucleo centrale del messaggio evangelico, è il nome stesso di Dio» (come ricorderà anche Francesco, riconoscendo a Benedetto l’ispirazione del titolo per il suo libro-intervista con Andrea Tornielli Il nome di Dio è misericordia). Fra il 2014 e il 2015, il Papa emerito seguì con interesse le due fasi del Sinodo sulla famiglia e, con una certa preveggenza, si rese conto – ben prima dell’apertura dell’Assemblea sul tema “Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione” (5-19 ottobre 2014), cui fece seguito il Sinodo ordinario su “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa nel mondo contemporaneo” (4-25 ottobre 2015) – che le linee teologico-pastorali erano già state ampiamente indicate nella relazione presentata nel febbraio del 2014 dal cardinale Walter Kasper al Concistoro straordinario dei cardinali. Benedetto conosceva da decenni il porporato tedesco e qualche volta aveva avuto anche delle dispute teologiche con lui, cosicché valutò con qualche preoccupazione ciò che Kasper aveva detto. Di fatto, quel testo si
presentava come un faro per il successivo dibattito assembleare e lo stupore di Benedetto fu dovuto alla scelta di Papa Francesco di far pronunciare una simile relazione, che ovviamente avrebbe in qualche modo condizionato i padri sinodali, dando nel contempo l’indicazione di «approfondire la teologia della famiglia e la pastorale che dobbiamo attuare nelle condizioni attuali. Facciamolo con profondità e senza cadere nella “casistica”, perché farebbe inevitabilmente abbassare il livello del nostro lavoro». L’attenzione del Papa emerito era dovuta anche al fatto che il cardinale Kasper lo aveva direttamente chiamato in causa, sia come prefetto sia come Pontefice, con un preciso riferimento: «Un avvertimento ci ha dato la Congregazione per la Dottrina della Fede già nel 1994 quando ha stabilito – e Papa Benedetto XVI lo ha ribadito durante l’incontro internazionale delle famiglie a Milano nel 2012 – che i divorziati risposati non possono ricevere la comunione sacramentale, ma possono ricevere quella spirituale. Certo, questo non vale per tutti i divorziati, ma per coloro che sono spiritualmente bene disposti. Nondimeno molti saranno grati per questa risposta, che è una vera apertura. Essa solleva però diverse domande. Infatti, chi riceve la comunione spirituale è una cosa sola con Gesù Cristo; come può quindi essere in contraddizione con il comandamento di Cristo? Perché, quindi, non può ricevere anche la comunione sacramentale?». Indubbiamente l’intera questione è seria e delicata, ma Ratzinger non si tirò mai indietro di fronte a tali interrogativi e mantenne sempre fermo, anche da Papa, il commento sintetico da lui proposto in relazione alla citata lettera della Congregazione del 1994: «Una serie di obiezioni critiche contro la dottrina e la prassi della Chiesa concerne problemi di carattere pastorale. Si dice ad esempio che il linguaggio dei documenti ecclesiali sarebbe troppo legalistico, che la durezza della legge prevarrebbe sulla comprensione per situazioni umane drammatiche. L’uomo di oggi non potrebbe più comprendere tale linguaggio. Gesù avrebbe avuto un orecchio disponibile per le necessità di tutti gli uomini, soprattutto per quelli al margine della società. La Chiesa al contrario si mostrerebbe piuttosto come un giudice, che esclude dai sacramenti e da certi incarichi pubblici persone ferite. Si può senz’altro ammettere che le forme espressive del Magistero ecclesiale talvolta non appaiano proprio come facilmente comprensibili. Queste devono essere tradotte dai predicatori e dai catechisti in un linguaggio, che corrisponda alle diverse persone e al loro rispettivo
ambiente culturale. Il contenuto essenziale del Magistero ecclesiale in proposito deve però essere mantenuto. Non può essere annacquato per supposti motivi pastorali, perché esso trasmette la verità rivelata. Certamente è difficile rendere comprensibili all’uomo secolarizzato le esigenze del Vangelo. Ma questa difficoltà pastorale non può condurre a compromessi con la verità». In riferimento a ciò, dopo la pubblicazione nel marzo del 2016 dell’esortazione apostolica postsinodale Amoris laetitia, maturò in lui qualche perplessità leggendo il testo poiché, pur apprezzandone molti passaggi, si interrogò sul senso di alcune note, che in genere segnalano la citazione di una fonte, mentre in questo caso esprimevano contenuti significativi. Seguendo il dibattito che si sviluppò nei mesi successivi, continuava a non comprendere il motivo per cui si era lasciata aleggiare in quel documento una certa ambiguità, consentendo interpretazioni non univoche. Certamente Benedetto non scrisse mai nulla a tale riguardo, né rispose agli interrogativi che pur gli erano giunti, poiché sarebbe stata una illecita intromissione. Però, tenendo conto di qualche fugace osservazione, comprendevo che la sua sensibilità non condivideva la strategia di lasciar correre varie interpretazioni per poi favorirne una, come si evidenziò con la pubblicazione sugli Acta Apostolicae Sedis, l’organo ufficiale della Santa Sede, della lettera inviata da Papa Bergoglio ai vescovi argentini, nella quale si affermava che il loro commento all’esortazione «è molto buono e spiega in modo esauriente l’VIII capitolo dell’Amoris laetitia. Non sono possibili altre interpretazioni». Il suo silenzio riguardo a questa vicenda divenne rigoroso quando fu resa pubblica la lettera dei Dubia, che i quattro cardinali Walter Brandmüller, Raymond L. Burke, Carlo Caffarra e Joachim Meisner avevano inviato a Papa Francesco nel settembre del 2016, diffondendola dopo che per un paio di mesi non avevano ricevuto alcuna risposta. Nessuno di loro ebbe mai occasione di parlarne al Papa emerito, né in quel periodo e nemmeno in seguito, quando nella primavera del 2017 i porporati tornarono alla carica chiedendo a Papa Francesco un’udienza di chiarificazione. Benedetto restò soltanto umanamente sorpreso per l’assenza di qualsiasi cenno di replica da parte del Pontefice, nonostante Francesco normalmente si mostrasse disponibile a incontrare e a parlare con chiunque.
Non è comunque in riferimento a ciò, che il Papa emerito volle inviare un messaggio di cordoglio per la scomparsa del cardinale Joachim Meisner, nel luglio del 2017. Fu il cardinale Rainer Maria Woelki, arcivescovo di Colonia, a proporglielo, e Benedetto lo fece volentieri, per l’antica amicizia che lo legava a Meisner al punto che, appena qualche giorno precedente la morte, si erano sentiti telefonicamente. Proprio ricordando questo colloquio, scrisse: «Quello che mi ha impressionato di più in queste ultime conversazioni con il defunto cardinale era la sua rilassata serenità, la sua gioia interiore e la fiducia che aveva trovato. Sappiamo che per lui, pastore appassionato e padre spirituale, fu difficile lasciare l’ufficio e questo proprio in un momento in cui la Chiesa ha bisogno di pastori convincenti e che sappiano resistere alla dittatura dello spirito del tempo e sappiano vivere decisamente con fede e ragione». E fu in qualche modo anche un invito che Benedetto intese rivolgere a se stesso la considerazione finale (che pure suscitò alcune critiche): «Ma anche questo mi commuove, l’aver imparato a lasciarsi andare nell’ultimo periodo della sua vita, e aver saputo viverla con la certezza profonda che il Signore non abbandona la sua Chiesa, anche se a volte la barca sta per capovolgersi». Citando la “barca”, il Papa emerito si riferiva alla realtà ecclesiale tedesca, dove il cardinale Meisner aveva dovuto affrontare situazioni difficili. D’altronde lui sapeva bene che anche Francesco aveva stima dell’arcivescovo emerito di Colonia perché, come Papa Bergoglio mi disse personalmente, «è sincero, chiaro, cattolico».
La lettera “sbianchettata” Sul finire del 2017, monsignor Dario Edoardo Viganò, all’epoca prefetto della Segreteria per la comunicazione della Santa Sede, mi informò che la Libreria Editrice Vaticana stava per pubblicare alcuni volumi, scritti da diversi teologi, sul Magistero di Papa Francesco e mi chiese se sarebbe stato possibile avere da Benedetto XVI una presentazione. Gli suggerii di inviarmi i testi e una richiesta scritta, specificando cosa desiderasse, e il 12 gennaio 2018 mi giunse il plico che consegnai al Papa emerito. Dopo alcuni giorni, Benedetto mi disse che aveva dato uno sguardo a quel materiale ed era rimasto stupito per la presenza fra gli autori di Peter
Hünermann, che durante il suo pontificato, ma anche prima, era stato un acceso avversario (proprio lui, dopo che nel 1979 ad Hans Küng era stata revocata la facoltà di insegnare come teologo cattolico, ne aveva preso il posto sulla cattedra dell’università di Tubinga). «Per amore di Papa Francesco, vorrei venire incontro alla richiesta di monsignor Viganò, ma non sono in grado di leggere adeguatamente i libretti, poiché sono troppi. E poi non potrei tacere riguardo a Hünermann», mi precisò. Poiché il prefetto Viganò aveva fatto la richiesta direttamente a me, a quel punto dissi al Papa emerito che avrei potuto rispondere io, confrontando ovviamente con lui la bozza. Ma Benedetto replicò che ci avrebbe pensato lui e si mise al lavoro per stendere la lettera che fu inviata il 7 febbraio con la dicitura sulla busta “personale-riservata”, poiché Benedetto era consapevole di quanto la questione fosse delicata e richiedesse accortezza. Viganò mi telefonò per domandare la possibilità di citare pubblicamente la lettera e Benedetto diede l’autorizzazione. Il 12 marzo si svolse la presentazione della collana e la sera, nel servizio del Tg1, vedemmo la lettera poggiata sul tavolo, parzialmente nascosta sotto la pila degli undici libretti. Ma l’attenzione era stata riservata unicamente a due capoversi del testo: «Plaudo a questa iniziativa che vuole opporsi e reagire allo stolto pregiudizio per cui Papa Francesco sarebbe solo un uomo pratico privo di particolare formazione teologica o filosofica, mentre io sarei stato unicamente un teorico della teologia che poco avrebbe capito della vita concreta di un cristiano oggi. I piccoli volumi mostrano a ragione che Papa Francesco è un uomo di profonda formazione filosofica e teologica e aiutano perciò a vedere la continuità interiore tra i due pontificati, pur con tutte le differenze di stile e di temperamento». Il giorno seguente, il vaticanista Sandro Magister mise in risalto anche un altro brano, decisamente meno compiacente: «Tuttavia non mi sento di scrivere su di essi “una breve e densa pagina teologica”. In tutta la mia vita è sempre stato chiaro che avrei scritto e mi sarei espresso soltanto su libri che avevo anche veramente letto. Purtroppo anche solo per ragioni fisiche non sono in grado di leggere gli undici volumetti nel prossimo futuro, tanto più che mi attendono altri impegni che ho già assunti». Fu sufficiente qualche altro giorno perché venisse alla luce l’intero documento, il cui paragrafo finale diceva: «Solo a margine vorrei annotare la mia sorpresa per il fatto che tra gli autori figuri anche il professor
Hünermann, che durante il mio pontificato si è messo in luce per avere capeggiato iniziative antipapali. Egli partecipò in misura rilevante al rilascio della “Kölner Erklärung” (la “Dichiarazione di Colonia”, N.d.A.), che, in relazione all’enciclica Veritatis splendor, attaccò in modo virulento l’autorità magisteriale del Papa specialmente su questioni di teologia morale. Anche la “Europäische Theologengesellschaft”, che egli fondò, inizialmente da lui fu pensata come un’organizzazione in opposizione al Magistero papale. In seguito, il sentire ecclesiale di molti teologi ha impedito quest’orientamento, rendendo quell’organizzazione un normale strumento d’incontro fra teologi». Non ho idea di come Magister venne a conoscenza del testo originario e non varrebbe nemmeno la pena di smentire, ma purtroppo è necessario, che fossi stato io a divulgarla: una bugia diffamatoria nei miei confronti, che fu propalata pure da un responsabile di lingua tedesca della Radio Vaticana. Questa narrazione giunse anche a Santa Marta, sostenendo che io l’avrei fatto non soltanto per danneggiare Viganò, ma anche per attaccare l’opera di riforma della Curia avviata da Papa Francesco, della quale la ristrutturazione della comunicazione vaticana era ampia parte. Cosicché da quel momento si cercò l’opportunità più adatta per una rivalsa nei miei confronti. Ma chi conosceva Benedetto non poteva avere la minima speranza che facesse qualcosa ad usum delphini, tacendo la propria opinione per compiacere il successore o qualche suo collaboratore. A prescindere dalla qualità dei rapporti personali, il teologo Ratzinger non guardò mai in faccia a nessuno e, nelle sue recensioni, proponeva senza scrupoli ogni osservazione critica ritenesse opportuna, in relazione ai testi che valutava, sempre motivando le proprie argomentazioni. Comunque, Benedetto prese atto di questa polemica, ma senza particolare interesse, pur manifestando dispiacere e incomprensione per l’inganno che era stato perpetrato con l’esibizione parziale della sua lettera. Ricordo che monsignor Viganò mi telefonò sul cellulare durante la visita di Papa Francesco a San Giovanni Rotondo, il 17 marzo 2018, e ci demmo appuntamento dopo il rientro a Roma, quando mi chiese cosa fare. Cercò di giustificare l’accaduto con l’autorizzazione che gli avevamo dato, ma ovviamente reagii controbattendo che era stata improvvidamente creata una fake news, e da quel momento non ci siamo più sentiti. Francesco non mi
accennò mai nulla sulla questione, però ho sentito da diverse fonti, e anch’io personalmente ho percepito, che gli era costato dover affrontare le dimissioni che il 19 marzo il prefetto gli presentò, poi accolte il 21 marzo con la creazione per lui del nuovo ruolo di assessore nella medesima Segreteria.
La pacificazione interrotta Il 16 luglio 2021 Benedetto XVI scoprì, sfogliando «L’Osservatore Romano» di quel pomeriggio, che Papa Francesco aveva reso noto il motu proprio Traditionis custodes sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970. La tematica era identica a quella del motu proprio Summorum Pontificum, che lui aveva promulgato il 7 luglio 2007, e anche la modalità di comunicazione fu la medesima, mediante l’accompagnamento di una lettera per illustrare i contenuti del nuovo testo. Perciò il Papa emerito lesse con attenzione il documento, per comprenderne la motivazione e i dettagli dei cambiamenti. Quando gli chiesi un parere, mi ribadì che il Pontefice regnante ha la responsabilità di decisioni come questa e deve agire secondo ciò che ritiene come il bene della Chiesa. Ma, a livello personale, riscontrò un deciso cambio di rotta e lo ritenne un errore, poiché metteva a rischio il tentativo di pacificazione che era stato compiuto quattordici anni prima. Benedetto in particolare ritenne sbagliato proibire la celebrazione della Messa in rito antico nelle chiese parrocchiali, in quanto è sempre pericoloso mettere un gruppo di fedeli in un angolo, così da farli sentire perseguitati e da ispirare in loro la sensazione di dover salvaguardare a ogni costo la propria identità di fronte al “nemico”. Dopo un paio di mesi, leggendo quanto Papa Francesco aveva detto il 12 settembre 2021 durante la conversazione con i gesuiti slovacchi a Bratislava, il Papa emerito corrugò la fronte dinanzi a una sua affermazione: «Adesso spero che con la decisione di fermare l’automatismo del rito antico si possa tornare alle vere intenzioni di Benedetto XVI e di Giovanni Paolo II. La mia decisione è il frutto di una consultazione con tutti i vescovi del mondo fatta l’anno scorso».
E ancor minore apprezzamento riscosse in lui l’aneddoto raccontato subito dopo dal Pontefice: «Un cardinale mi ha detto che sono andati da lui due preti appena ordinati chiedendo di studiare il latino per celebrare bene. Lui, che ha senso dello humor, ha risposto: “Ma in diocesi ci sono tanti ispanici! Studiate lo spagnolo per poter predicare. Poi, quando avete studiato lo spagnolo, tornate da me e vi dirò quanti vietnamiti ci sono in diocesi, e vi chiederò di studiare il vietnamita. Poi, quando avrete imparato il vietnamita, vi darò il permesso di studiare anche il latino”. Così li ha fatti “atterrare”, li ha fatti tornare sulla terra». Da perito del Vaticano II, Benedetto ricordava bene come il Concilio avesse invece insistito sull’opportunità che «l’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini» (Sacrosanctum Concilium 36) e che tutti i seminaristi acquisissero «quella conoscenza della lingua latina che è necessaria per comprendere e utilizzare le fonti di tante scienze e i documenti della Chiesa» (Optatam totius 13). Non per nulla, aveva annotato nel motu proprio Latina lingua, «in tale lingua sono redatti nella loro forma tipica, proprio per evidenziare l’indole universale della Chiesa, i libri liturgici del rito romano, i più importanti documenti del Magistero pontificio e gli atti ufficiali più solenni dei Romani Pontefici». Come è evidente nei suoi scritti, in particolare La festa della fede (1984) e Introduzione allo spirito della liturgia (2000), il teologo Ratzinger agli inizi era favorevole riguardo alla riforma liturgica: questo tema fu sempre tra i suoi prediletti, poiché lo riteneva fondamentale per la fede cattolica, e non per caso volle che la prima pubblicazione della sua Opera omnia fosse quella dedicata alla liturgia, anche se nel piano progettuale era l’undicesimo volume. Però, vedendo i successivi sviluppi di quella riforma, si rese conto delle diversità fra ciò che il Vaticano II voleva e quanto invece fu fatto dalla Commissione per la realizzazione della Sacrosanctum Concilium, con la liturgia che è diventata un campo di battaglia per opposti schieramenti, in particolare rendendo la celebrazione in latino il baluardo da difendere o il bastione da abbattere. Benedetto si è impegnato soprattutto affinché la liturgia fosse celebrata nella sua bellezza, poiché essa è la celebrazione della presenza e dell’opera del Dio vivente, vedendo nell’Eucaristia il gesto di adorazione più elementare e grande della Chiesa. Ai suoi occhi, ogni riforma della Chiesa doveva derivare dalla liturgia, in quanto essa soltanto può incarnare un
rinnovamento della fede che parte dal centro. E da teologo affermava: «Come ho imparato a intendere il Nuovo Testamento come l’anima della teologia, così ho colto la liturgia come il suo motivo di vita, senza la quale quella inaridisce». Fondandosi su tale consapevolezza, con il Summorum Pontificum volle rendere più agevole la possibilità per un sacerdote di celebrare con il rito antico, superando la necessità del riferimento al vescovo diocesano e accordando la competenza alla Commissione “Ecclesia Dei”. Restò comunque sempre chiaro per lui che esisteva un unico rito, seppure con la compresenza di quello ordinario e di quello straordinario. La sua unica motivazione era il desiderio di riparare la grande ferita che via via si era creata, volontariamente o involontariamente che fosse. Non fu un’operazione svolta clandestinamente, come pur qualcuno in cattiva fede ha sostenuto. A occuparsi del testo del motu proprio fu infatti la Congregazione per la Dottrina della fede, con il coinvolgimento dei membri della feria quarta e della plenaria. Benedetto seguiva costantemente i progressi del testo attraverso gli aggiornamenti che gli faceva il cardinale prefetto Levada nelle udienze di tabella e, dopo la pubblicazione, chiese regolarmente ai vescovi, in occasione delle visite ad limina, come procedesse l’applicazione di quella normativa nella loro diocesi, ricavandone sempre una sensazione positiva. Per questo motivo a Papa Ratzinger apparve incongruo quel riferimento alle sue «vere intenzioni», poiché, come si legge in Luce del mondo, egli aveva voluto «rendere più facilmente accessibile la forma antica soprattutto per preservare il profondo e ininterrotto legame che sussiste nella storia della Chiesa. Non possiamo dire: prima era tutto sbagliato, ora invece è tutto giusto. In una comunità, infatti, nella quale la preghiera e l’Eucaristia sono le cose più importanti, non può considerarsi del tutto errata quella che prima era ritenuta la cosa più sacra. Si è trattato della riconciliazione con il proprio passato, della continuità interna della fede e della preghiera nella Chiesa». Restò misterioso anche per Benedetto il motivo per cui non vennero divulgati i risultati della consultazione dei vescovi fatta dalla Congregazione per la Dottrina della fede, che avrebbero consentito di comprendere più precisamente ogni risvolto della decisione di Papa Francesco. Allo stesso modo si rivelò sorprendente, per tutto il lavoro di
analisi e di approfondimento fatto in precedenza, il trasferimento e lo spezzettamento della competenza sulla questione dalla Dottrina della fede al Dicastero per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti e a quello per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica.
Da sempre contro ogni abuso L’orribile questione degli abusi sessuali compiuti da ecclesiastici ha attraversato in filigrana gli anni vaticani di Ratzinger, che combatté energicamente questo crimine sia da cardinale sia da Papa. In particolare, come prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede (e ancor prima da arcivescovo di Monaco), contribuì alla elaborazione del Codice di Diritto canonico promulgato nel 1983, dove il canone 1395 afferma perentoriamente: «Il chierico che abbia commesso altri delitti contro il sesto precetto del Decalogo […] con un minore al di sotto dei 16 anni, sia punito con giuste pene, non esclusa la dimissione dallo stato clericale, se il caso lo comporti». Sin da allora gli era chiara la diagnosi, che sintetizzò a Peter Seewald in Luce del mondo: «A partire dalla metà degli anni Sessanta [il Diritto penale canonico] semplicemente non è stato più applicato. Dominava la convinzione che la Chiesa non dovesse essere una Chiesa del diritto, ma una Chiesa dell’amore; che non dovesse punire. Si spense in tal modo la consapevolezza che la punizione può essere un atto d’amore». Contemporaneamente vedeva che nel contesto sociale dell’epoca i criteri validi sino a quel momento in tema di sessualità erano totalmente venuti meno, causando conseguenze anche nella formazione e nella vita dei sacerdoti. Quel giudizio venne poi esplicitato nei famosi “Appunti”, inizialmente scritti dal Papa emerito come riflessione personale, che scaturirono da una sua preoccupazione pastorale costante, emersa con forza durante tutto il pontificato, cioè la preoccupazione per la vita e il ministero dei presbiteri. Il dramma degli abusi, infatti, rappresenta una crisi della credibilità sacerdotale dinanzi al mondo, così come dell’identità degli stessi sacerdoti riguardo alla loro missione e alla loro capacità di annunciare il Vangelo.
Quando ebbe notizia che, dal 21 al 24 febbraio 2019, si sarebbe svolta in Vaticano una riunione dei presidenti di tutte le Conferenze episcopali per riflettere sulla crisi della fede e della Chiesa avvertita in tutto il mondo a seguito dello scandalo degli abusi, Benedetto inviò il testo a Papa Francesco, tramite il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, chiedendogli l’assenso a renderlo noto. Dopo alcuni giorni, il cardinale Parolin mi telefonò a nome del Pontefice, chiedendomi di comunicare al Papa emerito che Francesco concordava sull’idea che venisse pubblicato. Nella sua dettagliata ricostruzione, Benedetto non si sottrasse alla dura denuncia di quanto era stato originato dalla cosiddetta “rivoluzione del ’68”, che «voleva conquistare anche la completa libertà sessuale» e della cui fisionomia «faceva parte il fatto che la pedofilia fosse stata diagnosticata come permessa e conveniente» (restano ancora nella memoria e negli archivi i “manifesti” di quel tempo firmati da noti esponenti dell’élite culturale), mentre «nello stesso periodo si è verificato un collasso della teologia morale cattolica che ha reso inerme la Chiesa di fronte a quei processi nella società», con l’affermazione della tesi «per cui la morale dovesse essere definita solo in base agli scopi dell’agire umano: non c’era più il bene, ma solo ciò che sul momento e a seconda delle circostanze è relativamente meglio». Successivamente, a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta, «la crisi dei fondamenti e della presentazione della morale cattolica raggiunse forme drammatiche. Il 5 gennaio 1989 fu pubblicata la “Dichiarazione di Colonia” firmata da 15 professori di teologia cattolici che si concentrava su diversi punti critici del rapporto fra Magistero episcopale e compito della teologia. Giovanni Paolo II, che conosceva molto bene la situazione della teologia morale e la seguiva con attenzione, dispose che s’iniziasse a lavorare a un’enciclica che potesse rimettere a posto queste cose. Fu pubblicata con il titolo Veritatis splendor il 6 agosto 1993 e in effetti conteneva l’affermazione che ci sono azioni che non possono mai diventare buone, […] ci sono valori che non è mai lecito sacrificare in nome di un valore ancora più alto e che stanno al di sopra anche della conservazione della vita fisica». Facendo un salto temporale in relazione a ciò, il 5 marzo 2014 Benedetto lesse sul «Corriere della Sera» l’intervista di Ferruccio De Bortoli a Papa Francesco e si chiese cosa il Pontefice non avesse compreso quando,
rispondendo alla domanda sui «valori non negoziabili soprattutto in bioetica e nella morale sessuale», aveva dichiarato: «I valori sono valori e basta, non posso dire che tra le dita di una mano ve ne sia una meno utile di un’altra. Per cui non capisco in che senso vi possano esser valori negoziabili». Senza permettersi di esprimere un giudizio, a livello personale il Papa emerito intese però quell’affermazione come un cambiamento di rotta e una velata critica nei riguardi del precedente comportamento di Giovanni Paolo II e suo, come se volesse dire che si può negoziare su tutto. A livello pratico, sul finire degli anni Ottanta il cardinale Ratzinger cominciò a ricevere appelli da vescovi di varie parti del mondo (in particolare dagli Stati Uniti), con la richiesta di aiuto nell’affronto della problematica, in quanto il Diritto canonico non appariva comunque sufficiente per adottare le misure necessarie, garantendo ugualmente la protezione giuridica dell’accusato, della vittima e del bene in gioco. Spiegò Benedetto in quegli “Appunti”: «In sé, per i delitti commessi dai sacerdoti è responsabile la Congregazione per il Clero. Poiché tuttavia in essa il garantismo allora dominava ampiamente la situazione, concordammo con Papa Giovanni Paolo II sull’opportunità di attribuire la competenza su questi delitti alla Congregazione per la Dottrina della fede, con la titolatura “Delicta maiora contra fidem”. Con questa attribuzione diveniva possibile anche la pena massima, vale a dire la riduzione allo stato laicale, che invece non sarebbe stata comminabile con altre titolature giuridiche. Tuttavia, in questo modo si chiedeva troppo sia alle diocesi che alla Santa Sede. E così stabilimmo una forma minima di processo penale e lasciammo aperta la possibilità che la stessa Santa Sede avocasse a sé il processo nel caso che la diocesi o la metropolia non fossero in grado di svolgerlo». Lo confermano le lettere, pubblicate nel dicembre del 2010 sull’«Osservatore Romano», inviate decenni prima dal cardinale Ratzinger al confratello José Rosalío Castillo Lara, presidente della Pontificia Commissione per l’interpretazione autentica del Codice di Diritto canonico. In particolare, in quella del 19 febbraio 1988 lamentava che, giudicando petizioni di dispensa dagli oneri sacerdotali da parte di ecclesiastici che si erano resi colpevoli di comportamenti scandalosi, la riduzione allo stato laicale veniva di fatto considerata una “grazia” e non una “punizione”, compromettendo così il bene dei fedeli in presenza di eventi delittuosi gravi.
Una forzatura del Codice non era però lecita, dunque Ratzinger provò a mettere in campo l’articolo 52 della Pastor bonus, che attribuiva alla sua Congregazione il giudizio sui «delitti più gravi commessi sia contro la morale sia nella celebrazione dei sacramenti». Ma l’assenza di precisazione di quali fossero questi delitti “più gravi” impediva una precisa applicazione della norma. Dietro sua sollecitazione, il vuoto di formulazione venne finalmente riempito ad aprile del 2001 con il motu proprio di Giovanni Paolo II Sacramentorum sanctitatis tutela, cui in maggio fece seguito la lettera De delictis gravioribus per dare esecuzione pratica alle nuove procedure nei casi di pedofilia del clero. Quindi, nel 2003, la Congregazione adottò linee guida interne per il trattamento dei casi di abuso sessuale nei confronti di minori da parte di chierici, rese pubblicamente note nel 2010 con un aggiornamento che estendeva la prescrizione da 10 a 20 anni (tra le più lunghe al mondo e per di più, nel caso di minorenni, con decorrenza dal momento del raggiungimento della maggiore età), definendo come delitto canonico anche il possesso di materiale pedopornografico. L’emblematica dimostrazione del fatto che intendeva smascherare le malefatte anche di chi in precedenza aveva goduto di protezioni ad alto livello fu lo sviluppo dell’inchiesta su padre Marcial Maciel, il fondatore dei Legionari di Cristo, cui fu risparmiato un processo canonico unicamente per l’età avanzata e la salute cagionevole. Ma la documentazione raccolta ne aveva chiaramente evidenziato la colpevolezza, cosicché a maggio del 2006 gli venne imposta una vita riservata di preghiera e di penitenza, rinunciando a ogni ministero pubblico, fino alla morte (avvenuta il 30 gennaio 2008). Del resto, Ratzinger aveva già documentato in precedenza come la pensasse, evitando di partecipare ai festeggiamenti che si svolsero a Roma nell’autunno del 2004 per il sessantesimo anniversario di ordinazione sacerdotale del sacerdote messicano, omaggiato invece dagli altri più importanti porporati della Curia romana. Anche Papa Francesco gliene diede una pubblica attestazione il 18 febbraio 2016, rientrando dal viaggio apostolico in Messico, in risposta alla domanda di un giornalista sul “caso Maciel”: «Mi permetto di rendere un omaggio all’uomo che ha lottato in un momento in cui non aveva forza per imporsi, finché è riuscito ad imporsi. Il cardinale Ratzinger – un applauso per lui! – è un uomo che ha avuto tutta la documentazione. Quando era prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede ha avuto tutto nelle
sue mani, ha fatto le indagini ed è andato avanti, avanti, avanti… ma non è potuto andare più in là nell’esecuzione. […] È stato l’uomo coraggioso che ha aiutato tanti ad aprire questa porta. Così che voglio ricordarvelo, perché a volte ci dimentichiamo di questi lavori nascosti che sono stati quelli che hanno preparato le basi per scoperchiare la pentola». Durante il pontificato, Papa Benedetto agì drasticamente per la riduzione allo stato laicale dei sacerdoti riconosciuti colpevoli di abusi sui minori: nei cinque anni fra il 2008 e il 2012 furono oltre 550, e tra loro figurarono anche diversi vescovi (mentre altri vennero fatti dimettere anticipatamente per aver coperto le responsabilità di preti della loro diocesi). Senza dimenticare che Benedetto è stato il primo Papa a incontrare vittime di abuso da parte di sacerdoti durante i suoi viaggi apostolici. Lo fece ben cinque volte: negli Stati Uniti (aprile 2008), in Australia (luglio 2008), a Malta (aprile 2010), nel Regno Unito (settembre 2010) e in Germania (settembre 2011). E sempre lontano dai riflettori, nello stile di riservatezza da lui voluto in quelle circostanze.
Accuse infondate da Monaco Considerato tutto ciò, è comprensibile che Benedetto XVI sia rimasto fortemente addolorato dalle accuse che nel 2010 vennero rivolte a suo fratello Georg, relative al periodo in cui era stato direttore del coro di Ratisbona. Le indagini appurarono che gli abusi erano avvenuti nella scuola frequentata dai giovani cantori e che monsignor Georg era estraneo a tali eventi. Ma ovviamente il suo nome fu l’unico pubblicizzato dalla stampa descrivendo quella vicenda. E decisamente restò ancor più scioccato nel gennaio del 2022, quando gli addebiti lo coinvolsero in prima persona, relativamente ai cinque anni in cui era stato arcivescovo di Monaco di Baviera fra il 1977 e il 1982, in seguito alla presentazione del dossier di 1.893 pagine, commissionato dalla stessa diocesi per far luce sul periodo dal 1945 al 2019: 74 anni nei quali erano stati rilevati 497 abusi commessi da 235 persone (173 sacerdoti, 9 diaconi, 48 dipendenti scolastici e 5 referenti pastorali). I casi nei quali a Ratzinger veniva attribuita negligenza erano unicamente quattro, ma, quando si svolse la conferenza, su questi si
appuntò immediatamente l’attenzione delle agenzie giornalistiche e divenne impossibile, nell’arco di poche ore, reagire al fuoco di fila di notizie che continuavano ad andare in rete. In realtà, Benedetto aveva già in precedenza risposto a una ventina di pagine di domande che gli erano state inviate dagli avvocati che avevano redatto il dossier, inviando 82 pagine di risposta il 15 dicembre 2021. Ad aiutarlo dal punto di vista giuridico furono alcuni esperti, uno dei quali commise un errore di datazione, scrivendo che nella riunione del Consiglio dell’ordinariato del 15 gennaio 1980, nella quale uno di quei casi era all’ordine del giorno, il cardinale era assente. Uno sbaglio banale, del quale il Papa emerito si scusò appena ne venimmo a conoscenza, ma che non voleva assolutamente essere un mascheramento dei fatti. Lo certifica il verbale d’archivio di quell’incontro, nel quale la sua presenza era segnalata nero su bianco, e ancor più lo documenta la biografia pubblicata nel 2020 da Peter Seewald, nella quale si legge a chiare lettere: «In veste di vescovo, durante una riunione del Consiglio dell’ordinariato nel 1980 aveva soltanto acconsentito ad accogliere il sacerdote in questione a Monaco affinché potesse sottoporsi a sedute di psicoterapia» (Benedikt XVI. Ein Leben, Droemer Verlag, p. 938 dell’edizione originale tedesca; p. 1051 dell’edizione italiana Benedetto XVI. Una vita per Garzanti). Eppure fu sufficiente per accusarlo di menzogna, al punto che lui stesso volle confidare, nella lettera datata 6 febbraio 2022: «Mi ha profondamente colpito che la svista sia stata utilizzata per dubitare della mia veridicità, e addirittura per presentarmi come bugiardo». Con accorate parole, Benedetto mise a nudo i propri sentimenti: «In tutti i miei incontri, soprattutto durante i tanti viaggi apostolici, con le vittime di abusi sessuali da parte di sacerdoti, ho guardato negli occhi le conseguenze di una grandissima colpa e ho imparato a capire che noi stessi veniamo trascinati in questa grandissima colpa quando la trascuriamo o quando non l’affrontiamo con la necessaria decisione e responsabilità, come troppo spesso è accaduto e accade. Come in quegli incontri, ancora una volta posso solo esprimere nei confronti di tutte le vittime di abusi sessuali la mia profonda vergogna, il mio grande dolore e la mia sincera domanda di perdono. Ho avuto grandi responsabilità nella Chiesa cattolica. Tanto più grande è il mio dolore per gli abusi e gli errori che si sono verificati durante il tempo del mio mandato nei rispettivi luoghi. Ogni singolo caso di abuso
sessuale è terribile e irreparabile. Alle vittime degli abusi sessuali va la mia profonda compassione e mi rammarico per ogni singolo caso». Ovviamente Benedetto, il 3 febbraio, aveva trasmesso per conoscenza la lettera a Papa Francesco. Due giorni dopo il Pontefice – che già il 26 gennaio precedente aveva comunicato telefonicamente vicinanza personale, appoggio totale e sostegno nella preghiera – espresse il suo ringraziamento riguardo a quel testo e confermò il sostegno umano e spirituale, dichiarandosi anche addolorato per certi commenti di alcuni vescovi e sacerdoti. Il caso più citato dalla stampa fu quello riguardante un sacerdote della diocesi di Essen che, nel 1980, doveva essere inviato a Monaco per venire sottoposto a una terapia medica. Il suo vescovo, senza precisare la motivazione delle cure, auspicò che gli fosse data ospitalità in una canonica della diocesi, all’epoca guidata da Ratzinger, e nella citata riunione del 15 gennaio di quell’anno tale richiesta venne accolta. Dal verbale di quel giorno emerge però con chiarezza che non si parlò di un impiego del sacerdote in attività pastorali, né venne menzionata alcuna imputazione a suo carico riguardo ad abusi sessuali su bambini. Anche nei rimanenti tre casi non si trattò di accuse riguardanti sacerdoti direttamente coinvolti in abusi sessuali durante il periodo di episcopato di Ratzinger a Monaco. Uno si riferiva all’autorizzazione a tornare da pensionato in diocesi concessa dal vicario generale a un anziano sacerdote, che aveva concluso un periodo di detenzione per cattiva condotta sessuale, come atto di grazia per consentirgli di morire nel suo paese natale. Un altro riguardò un sacerdote che aveva fotografato alcune bambine mentre si spogliavano per indossare i costumi di una rappresentazione teatrale e che fu immediatamente spostato dal cardinale Ratzinger in una casa per anziani, con la proibizione di avere ulteriori contatti con minori. L’ultimo ebbe come protagonista un giovane prete, nipote di un vescovo, che desiderava proseguire gli studi nell’università di Monaco: essendo stato visto nuotare nudo nel locale fiume Isar, venne rispedito a casa. Relativamente a questo caso, nel dossier si sostenne che Benedetto XVI, nella sua memoria difensiva, avrebbe minimizzato gli eventi, poiché nel testo si diceva che il sacerdote «è stato notato come esibizionista, ma non come abusatore in senso proprio». In realtà si trattava di una frase avulsa dall’intero contesto, dove il Papa emerito definiva invece con la massima
chiarezza gli abusi, esibizionismo incluso, come «terribili», «peccaminosi», «moralmente riprovevoli» e «irreparabili». Semplicemente, gli esperti che avevano collaborato alla stesura intendevano soltanto offrire una precisazione storica, ricordando che per il Diritto canonico allora vigente l’esibizionismo non era un delitto in senso stretto, poiché la relativa norma penale non comprendeva tra le fattispecie comportamenti di quel tipo. Per rispetto della verità storica, è comunque opportuno specificare che l’affermazione presente nel dossier riguardo alla conoscenza di quei casi da parte dell’arcivescovo non era supportata da alcuna prova. Anzi, quando – durante la conferenza stampa successiva alla presentazione del dossier – una giornalista chiese se lo studio legale potesse dimostrare che il cardinale Ratzinger era allora a conoscenza del fatto che il sacerdote fosse un abusatore e che cosa significasse in quel contesto l’annotazione «maggiormente probabile», un perito rispose candidamente: «Maggiormente probabile significa che lo presumiamo con una maggiore probabilità»!
“Profezie” per i nostri tempi Nel novembre del 2004, pochi mesi prima di essere eletto al pontificato, Joseph Ratzinger rispose con determinazione al vaticanista Marco Politi, che lo interrogava sul suo atteggiamento dinanzi al futuro, che «ottimismo e pessimismo sono categorie emozionali: io penso di essere realista». È stata proprio questa la cifra che lo ha sempre guidato, sia da teologo e da professore, come da cardinale e da Pontefice, nell’elaborazione di giudizi qualificati e nell’esposizione di ragionevoli posizioni. In quegli stessi giorni, usciva in libreria Senza radici, uno scambio di idee con l’allora presidente del Senato Marcello Pera, nel quale Ratzinger propose una perspicace analisi sugli attuali tempi, con folgoranti parole che “fotografavano” le cause per cui la fede cristiana oggi stenta a raggiungere, con il suo grande messaggio, gli uomini in Europa. A suo parere, la prima motivazione era che il cristianesimo risulta un modello di vita non convincente, poiché «sembra che limiti l’uomo in tutto, che guasti la sua gioia di vivere, che limiti la sua libertà così preziosa e lo conduca non al largo – come dicono i Salmi – ma nell’angustia, nello
stretto». Come risposta, indicò l’urgenza di «mostrare un modello cristiano di vita che offra un’alternativa vivibile ai divertimenti sempre più vuoti della società del tempo libero, che deve fare sempre più ricorso alla droga perché è sazia dei miseri piaceri abituali. Il modello cristiano di vita deve manifestarsi come una vita in tutta la sua ampiezza e libertà, che non sperimenta il vincolo dell’amore come dipendenza e limitazione, ma come apertura alla grandezza della vita». La seconda ragione era che il cristianesimo sembra ormai superato dalla scienza e disarmonico rispetto alla razionalità dell’età moderna, anche per colpa di correnti teologiche che «hanno sprecato troppo tempo in piccole schermaglie di retroguardia, dibattendo su dettagli, e non si sono abbastanza impegnate nel porre le domande di fondo: Che cos’è la Rivelazione? In che modo combaciano la Rivelazione che parte da Dio e l’elaborazione della storia umana? Come si manifesta nella lunga via della storia, con tutti i suoi travagli, la guida di un Altro, che agisce in questa storia e crea qualcosa di nuovo che non può scaturire dall’agire dell’uomo stesso nella storia?». Dunque, fu il suo auspicio, «nel confronto con la scienza e nel dialogo con i filosofi dell’età moderna deve riaffacciarsi la questione di fondo su che cos’è che tiene insieme il mondo. Una valida religione civile comporterà anche il non concepire Dio come un’entità mitica, ma come la Ragione stessa che precede e che rende possibile che la nostra ragione cerchi di riconoscerla». In qualche conversazione, durante i pasti o le passeggiate nei Giardini vaticani, mi sono ritrovato ad ascoltare le sue considerazioni relative agli incontri che aveva con i vescovi giunti da tutto il mondo in Vaticano per le periodiche visite ad limina, dai quali era scaturita in lui la consapevolezza di quanto fosse grande la sfida pastorale relativa a sacramenti divenuti ormai consuetudinari: il battesimo di neonati i cui genitori non hanno rapporti con la fede e con la comunità ecclesiale, la prima comunione di bambini che non sanno Chi ricevono in quell’ostia consacrata, la cresima di adolescenti per i quali questo sacramento non rappresenta la piena adesione alla Chiesa cattolica quanto il loro congedo da essa, il matrimonio che serve a solennizzare una festa familiare. La sua conclusione era che occorreva rispondere alla manifesta crisi di fede ponendo nuovamente la questione di Dio al centro della vita ecclesiale e dell’annuncio, piuttosto che provando a mettere in campo riforme delle
strutture organizzative che comunque restano freddi organismi, sempre a rischio di conformarsi al mainstream del mondo e del tempo. Questo “distacco dal mondo”, però, non significa un “ritiro dal mondo”: al contrario, è la prerogativa affinché la testimonianza missionaria della Chiesa, anche rivedendo eventuali privilegi ottenuti nel corso del tempo, non soltanto si manifesti più chiaramente, bensì risulti più credibile. Ma le diagnosi risalivano a un ben lontano passato, documentando uno sguardo incredibilmente lungimirante. Già nel 1958, in un ampio articolo intitolato I nuovi pagani e la Chiesa, Ratzinger esprimeva la convinzione che «con o senza il volere della Chiesa, dopo una trasformazione strutturale interiore, presto o tardi si realizzerà pure una trasformazione esteriore verso il “piccolo gregge”» e che alla lunga la Chiesa «non potrà evitare di dover smantellare pezzo dopo pezzo la congruenza con il mondo per tornare a essere ciò che è: una comunità di credenti. In effetti la sua forza missionaria non potrà che crescere attraverso tali perdite esteriori. Solamente quando smetterà di essere un’ovvietà a buon mercato, soltanto quando comincerà a presentarsi di nuovo quale essa realmente è, sarà ancora in grado di raggiungere con il suo messaggio le orecchie dei nuovi pagani, che fin qui hanno potuto compiacersi nell’illusione di non essere per nulla pagani». Nel 1969, poi, offrì in alcune conferenze radiofoniche su un’emittente tedesca un’analisi nella quale sosteneva che «il futuro della Chiesa verrà fuori dai nuovi santi. E dunque da uomini la cui capacità di percezione va al di là delle frasi e proprio per questo sono moderni. Da uomini che sanno vedere più lontano degli altri, perché la loro vita abbraccia spazi più ampi». Come risultato, secondo la visione di Ratzinger, «uscirà, da una Chiesa interiorizzata e semplificata, una grande forza. Gli uomini infatti saranno indicibilmente solitari in un mondo totalmente pianificato. Essi sperimenteranno, quando Dio sarà per loro interamente sparito, la loro totale e paurosa povertà. Ed essi scopriranno allora la piccola comunità dei credenti come qualcosa di totalmente nuovo. Come una speranza che li riguarda, come una risposta a domande che essi da sempre di nascosto si sono poste. A me sembra certo che si stanno preparando per la Chiesa tempi molto difficili. La sua vera crisi è appena incominciata. Si deve fare i conti con grandi sommovimenti. Ma io sono anche certissimo di ciò che rimarrà alla fine: non la Chiesa del culto politico, ma la Chiesa della fede. Certo essa non sarà mai più la forza dominante della società, nella misura in cui lo
era fino a poco tempo fa. Ma la Chiesa conoscerà una nuova fioritura e apparirà agli uomini come la patria che a essi dà vita e speranza oltre la morte». La sua lucidità di osservazione gli permise di anticipare diverse questioni che agitano i nostri giorni anche in ambito ecclesiale, come testimoniano alcuni suoi giudizi espressi nel libro-intervista del 1996 Il sale della terra, per esempio sul gender: «La pretesa rivoluzione contro le forme storiche della sessualità culmina in una rivoluzione contro i presupposti biologici: non si ammette più che la “natura” abbia qualcosa da dire; la persona umana dovrebbe modellare se stessa a proprio piacimento; l’uomo dovrebbe essere libero da tutti i presupposti del suo essere: egli fa di se stesso ciò che vuole»; oppure sull’ambientalismo: «Si può fare ecologia in modo cristiano, a partire dalla fede nella creazione, che pone dei limiti all’arbitrio dell’uomo, che dà dei criteri alla libertà; la si può fare in modo anticristiano, sul modello del New Age, a partire dalla divinizzazione del cosmo»; o ancora sul culto di Gaia e della Pachamama: «L’idea di “inculturazione”, in particolare in America latina, vuole ridestare la cultura e la religione precolombiana, liberandosi, in qualche modo, dalla penetrazione eccessiva di elementi europei, imposta dall’esterno. In rilievo vengono messi il culto della Madre Terra e, in generale, quello del femminile in Dio. L’elemento cosmico di questo rinnovamento dell’antica religione si incontra poi con le tendenze del New Age, che mira a una fusione di tutte le religioni e a una nuova unità di uomo e cosmo». Questi sguardi sul futuro lo portarono gradualmente a prestare maggiore attenzione all’ambito delle profezie mariane, che in realtà non lo avevano mai intrigato particolarmente in gioventù. Anzi, su tutto ciò che riguardava le rivelazioni private, il cardinale Ratzinger si mostrava cauto. Se gli eventi andavano avanti, in Congregazione ci si occupava di raccogliere e di esaminare accuratamente la documentazione, giungendo infine a informare degli sviluppi anche il Santo Padre. Pure riguardo alle vicende delle presunte apparizioni a Medjugorje, per indagare sulle quali volle comunque costituire una Commissione internazionale di esperti (che hanno successivamente relazionato a Papa Francesco), e delle lacrimazioni della Madonnina a Civitavecchia affidò a qualificati teologi e canonisti il compito di analizzare e di valutare, senza però assumere decisioni perentorie in merito.
Più articolato fu il suo coinvolgimento riguardo alle apparizioni di Fatima, di cui si occupò in maniera approfondita per incarico di Giovanni Paolo II, che gli chiese personalmente di spiegare il testo della terza parte del Segreto nella conferenza stampa del 26 giugno 2000 durante la quale venne reso noto il documento vergato da suor Lucia il 3 gennaio 1944 (dove riportava le parole che aveva udito dalla Vergine il 13 luglio 1917). Sia all’epoca, come prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, sia in seguito da Pontefice, non dettagliò mai alcun ragionamento sull’enigmatica descrizione: «E vedemmo in una luce immensa che è Dio: “qualcosa di simile a come si vedono le persone in uno specchio quando vi passano davanti” un vescovo vestito di bianco “abbiamo avuto il presentimento che fosse il Santo Padre”». Un’immagine che, dopo la sua rinuncia e l’elezione di Francesco, è stata interpretata da alcuni commentatori come il presagio della coesistenza di due Pontefici, in particolare riferendosi alle affermazioni che Papa Bergoglio ha sempre proposto sul suo sentirsi innanzitutto Vescovo di Roma («Voi sapete che il dovere del Conclave era di dare un Vescovo a Roma», disse già nel suo primo saluto dopo l’elezione). Piuttosto, con l’andar del tempo Benedetto maturò la consapevolezza che i preannunci della Madonna devono venire considerati con diligenza, prestando attenzione alle sue precise parole. Per esempio, in questa parte finale del Segreto si parla di una persecuzione della Chiesa che culmina nel martirio di molte persone, compreso il Papa che «attraversò una grande città mezza in rovina e mezzo tremulo con passo vacillante, afflitto di dolore e di pena, pregava per le anime dei cadaveri che incontrava nel suo cammino; giunto alla cima del monte, prostrato in ginocchio ai piedi della grande croce venne ucciso da un gruppo di soldati che gli spararono vari colpi di arma da fuoco e frecce». Pur se Giovanni Paolo II aveva in qualche modo associato quelle parole all’attentato da lui subìto il 13 maggio 1981, al punto da donare al santuario di Fatima la pallottola che lo aveva colpito in piazza San Pietro per mano di Ali Agca, è vero però che il Pontefice non era stato ucciso (un riferimento a questo evento è piuttosto la profezia data dalla Vergine il 19 settembre 1846 a Mélanie Calvat e Maximin Giraud, i veggenti di La Salette in Francia: «Il Papa sarà perseguitato da ogni parte: gli si sparerà addosso, si vorrà metterlo a morte, ma non gli si potrà far nulla»).
Fu all’interno di tale considerazione, fondata sull’ipotesi di una profezia non ancora realizzata e quindi spalancata su un futuro più o meno prossimo, che il 13 maggio 2010, nell’omelia della Messa a Fatima, pronunciò parole che ebbero risonanza: «Si illuderebbe chi pensasse che la missione profetica di Fatima sia conclusa». A scanso di equivoci, posso comunque aggiungere con certezza che Joseph Ratzinger non ebbe mai illuminazioni soprannaturali riguardo a simili vicende.
La catechesi in famiglia Il ritmo cadenzato della vita nel Monastero consentì a Benedetto la tranquillità per una costante meditazione anzitutto della liturgia quotidiana e, più in particolare, per la preparazione di significative omelie sulle Letture domenicali, che le Memores hanno amorevolmente registrato e trascritto. È stato un percorso rivolto essenzialmente alla nostra piccola famiglia (in alcuni periodi era presente anche il fratello Georg e, molto più raramente, qualche ospite), come il Papa emerito volle rimarcare introducendo sempre le sue parole con un affettuoso «cari amici». Si potrebbe persino dire che, in qualche modo, era la dilatazione dei colloqui spirituali che avvenivano anche nella normalità della giornata domestica, a tavola o durante le passeggiate. Sin dal lunedì precedente si accingeva alla riflessione, utilizzando il testo di base in greco: per l’Antico Testamento la Septuaginta e per il Nuovo Testamento la versione curata da Erwin Nestle e Kurt Aland. Ovviamente aveva a disposizione anche traduzioni in lingue correnti, come la Bibbia di Gerusalemme in tedesco e il Messale in italiano realizzato nel 2008 dalla Cei. Nei giorni successivi continuava a meditare quelle letture e il sabato mattina, infine, dedicava un paio d’ore a scrivere su un apposito quaderno la traccia dell’omelia, che però poi pronunciava a braccio senza avere davanti agli occhi appunti scritti. Talvolta, nei giorni di festa in cui nella liturgia si faceva memoria di santi significativi, all’inizio della Messa proponeva anche un breve richiamo alle loro figure, poiché, diceva, «i migliori interpreti del Vangelo non sono gli esegeti con i loro studi critici, ma quelli che sono diventati santi, con la testimonianza della loro vita».
Le prime omelie “private” da emerito le pronunciò nella cappella del Palazzo apostolico di Castel Gandolfo, in quel periodo subito dopo la rinuncia. Furono generalmente di breve durata e Benedetto volle centrare l’attenzione, con parole molto sentite, sugli aspetti più essenziali della fede: «Imparate una fede gioiosa, imparate che realmente vivere con il Padre, vivere secondo la parola di Dio, è la vera felicità e l’abbondanza della vita» (10 marzo 2013); «Conversione non è semplicemente un atto autonomo del soggetto, ma è il frutto di un incontro e in questo senso è un dono, che poi implica naturalmente la mia attività: sono conquistato per conquistare» (17 marzo 2013); «Dio trova gli uomini in tutte le parti del mondo e della storia. E così traspare la realtà della Chiesa: sul globo appare sempre povera e semplice, ma, se vediamo il mondo nella sua totalità, vediamo una famiglia che supera tutte le frontiere» (21 aprile 2013); «L’orazione implica due doni: il Salvatore e lo Spirito Santo. Ma dobbiamo aggiungere che questi due doni principali sono preceduti da un dono fondamentale: la creazione. Il primo dono di Dio è la vita, e dobbiamo prendere atto di questa realtà» (28 aprile 2013). Rientrati in Vaticano, la cappella del “Mater Ecclesiae” divenne il luogo definitivo per lo sviluppo di queste riflessioni, che si dilatarono dall’ambito catechetico alla più ampia dimensione dell’attualità, offrendo anche giudizi precisi sulle vicende del nostro presente. Per esempio, la prima omelia in Monastero vide il Papa emerito denunciare «la persecuzione più sottile del cristianesimo, cioè la sua emarginazione intellettuale, con la creazione di una cultura anticristiana» (12 maggio 2013), con una successiva esplicitazione di «due minacce contro la Chiesa: i venti delle ideologie, che vogliono distruggere il nostro cosmo, e le onde dei poteri politici e militari, che sono persecuzioni e distruzione della fede» (10 agosto 2014). A chiare lettere, stigmatizzò le leggi su aborto, suicidio assistito e matrimonio omosessuale: «Dicono tutte e tre che io prendo per me la vita, posso distruggerla, è mia proprietà, sovranità, autonomia. Ma, se guardiamo più in profondità, dobbiamo dire che questa triade implica anche un no al futuro: aborto, non vogliamo avere figli; suicidio; matrimonio omosessuale, necessariamente senza figli» (22 settembre 2013). Dinanzi a questa complessa situazione, siamo aiutati dalla parola del Vangelo: «Gesù non chiede se abbiamo sale in noi, ma afferma con decisione: “Voi siete il sale della terra” (Matteo 5,13). In sostanza, noi
cristiani dobbiamo essere sale per questa storia, dobbiamo mostrare in noi la forza della croce di Cristo, a difesa della vita contro le forze della distruzione. Altrimenti, sottolinea il Signore, il nostro cristianesimo sarà un conformarsi al mondo, senza più il coraggio della passione per la verità. Un cristianesimo che sembra moderno, all’altezza dei tempi, ma in realtà è senza sapore e privo di ogni forza di novità» (9 febbraio 2014). Interrogandosi sui motivi che spiegano la vittoria sorprendente del cristianesimo, nel grande confronto tra le religioni dell’antichità, precisò che il più importante è «la testimonianza della vita. In un mondo dove erano normali la corruzione, la violenza, l’immoralità, la mancanza di un comune impegno per il bene, i cristiani hanno vissuto con rettitudine, con integrità, con bontà, soffrendo ma senza fare il male. Una tale vita era un segno così radicale ed evidente che ha convinto, poiché un vivere così non si spiega con le pure forze umane, ma dimostra realmente che è Dio a donare questa vita. Così la testimonianza della vita cristiana è decisiva per la vittoria del cristianesimo anche in futuro» (25 maggio 2014). A tale proposito, fu netto nel ribadire che «la fede non è una invenzione nostra, ma un dono di Dio da custodire e da vivere, perciò non è a disposizione nostra, non possiamo cambiarla come vogliamo, è un dono di Dio e così cresce nella sua profondità. Anche il Papa non è un monarca assoluto, che potrebbe fare quanto vuole, ma è il garante dell’obbedienza al dono di Dio, che è il vero tesoro del mondo» (29 giugno 2014). Un’articolata disamina Benedetto la dedicò proprio all’immagine evangelica del pastore che guida le pecore e alla contestazione nei tempi moderni da parte di chi afferma che non si può mettere l’autonomia dell’uomo sotto questo giogo: «Sì, è vero che siamo persone libere con ragione, volontà e amore, ma è anche vero che questa nostra libertà ha bisogno di illuminazione, poiché non conosciamo la strada e ci occorre una bussola per trovarla. Nella sua parabola il Signore parla anche di mercenari e di lupi, e nel nostro tempo abbiamo visto questi lupi. Pensiamo ai grandi dittatori – Hitler, Stalin, Pol Pot, Mao Tze Tung – che dicevano: noi portiamo l’umanità alla sua vera felicità. Erano lupi, che hanno distrutto il mondo in modo incredibile, e dietro di loro i filosofi che hanno creato queste idealità erronee: pensiamo a Nietzsche, che ha beffeggiato i cristiani come deboli, contrapponendo l’uomo forte che distrugge; a Marx, con la sua promessa del paradiso senza Dio, che è divenuto un grande campo di
concentramento; a Freud, che ha messo in campo la distruzione dell’anima. Il mondo va sempre a cadere nelle mani dei lupi e in questo momento possiamo soltanto gridare al Signore: non lasciare la tua creatura ai lupi, non lasciare che distruggano con le loro menzogne la verità, con il loro odio l’amore, con la loro dispersione l’unità» (26 aprile 2015). Di fatto, il rapporto tra libertà e sequela fu sempre uno dei suoi temi di riflessione: «Sono due idee apparentemente contrastanti. Seguire Cristo vuol dire camminare dietro di Lui, prendere la Sua strada, lasciare la propria volontà e conformarsi alla Sua volontà; mentre libertà vuol dire seguire soltanto la propria volontà, mirando a realizzare il proprio progetto di vita. In realtà, seguire Cristo è entrare nel fuoco dell’amore e così entrare nella libertà che ci libera da tutti i pretesti esteriori. Sant’Agostino ha utilizzato una espressione realmente audace, ma vera: “Ama e fa’ ciò che vuoi”. Se abbiamo il vero amore di Cristo crocifisso, facendo quanto ci dice questo amore saremo sempre sulla retta strada, in comunione con Colui che è l’Amore. E così comprendiamo che seguire Cristo è realizzare noi stessi, poiché in tal modo diventiamo immagine di Dio e realizziamo pienamente la nostra vocazione personale» (30 giugno 2013). Fra i richiami al passato, fu particolare quello relativo a una delle frasi che più avevano colpito negli ultimi discorsi di Benedetto da Pontefice: la “salita sul monte”. Chiarì il Papa emerito: «Credere è uscire dalla pianura di ogni giorno, da tutte queste cose che ci preoccupano e che oscurano il nostro cuore, salire sul monte come Cristo è salito sul monte per pregare, per essere col Padre, lasciando cadere tutti questi pensieri che distruggono la nostra anima» (6 ottobre 2013). E in seguito esplicitò ugualmente il senso del cammino a ritroso: «Anche scendere fa parte della vocazione cristiana. Dobbiamo salire, ma dobbiamo anche sempre di nuovo avere l’umiltà, la disponibilità a scendere nella valle della quotidianità, delle nostre occupazioni di ogni giorno. Proprio in questa discesa siamo sulla strada di Cristo, il quale, prima di aprire la strada in alto, è sceso dalla gloria di Dio, è sceso fino alla croce» (16 marzo 2014). Fra le riflessioni più articolate ci fu quella del 17 novembre 2013, partendo dal “discorso escatologico” del brano evangelico di Luca 21, dove Gesù «non ci offre un ritratto dell’ultimo periodo della storia, ma ci indica alcuni elementi di questa ultima fase della storia del mondo. Se consideriamo con un po’ di curiosità che cosa ci dice, c’è una sorpresa,
poiché non appare l’elemento fondamentale della moderna filosofia della storia, che ha come concetto fondamentale il “progresso”. Secondo questa visione, la storia è ascendente: ci sono aberrazioni, piccole ricadute, ma tutto sommato alla fine si arriva alla società fraterna e giusta, a un mondo migliore, a una specie di paradiso terrestre. Gesù invece parla di catastrofi naturali, di violenza crescente, di guerre e anarchia, di persecuzioni e di un raffreddarsi della fede, indicandoci sostanzialmente che la storia dell’uomo rimane identica sino alla fine. Perciò è importante prendere sul serio quanto Lui ci dice su come dobbiamo rispondere». Tre gli elementi fondamentali indicati dal Papa emerito: «Innanzitutto la sobrietà: non credere a fantasticherie, a messianismi sbagliati, ma lavorare con pazienza e umiltà. Il lavoro è il compito dell’uomo, e non soltanto dopo il peccato, come pensano alcuni, poiché sin da prima del peccato il Signore incaricò l’uomo di dominare la terra, non nel senso di un abuso della creazione, ma per dare alla creazione la perfezione voluta dal Creatore. Lavoro implica quindi fede nella volontà di Dio e fiducia nella nostra capacità di trasformare in positivo la terra. In secondo luogo il coraggio: dinanzi all’odio contro la fede, la luce di Dio è più forte delle oscurità umane. Il Dio Creatore è anche il Salvatore e non si lascia sfuggire la storia dalle mani, poiché, anche se il potere è nelle mani della menzogna, il potere di Dio è più forte. Infine la perseveranza: anche dopo la conversione, resta la fatica del cammino, che occorre superare continuando a procedere sulla strada buona». E forse non per caso, l’ultima omelia che propose il 2 aprile 2017, quando già ormai aveva difficoltà a parlare ad alta voce, si incentrò sul tema della vita eterna: «L’uomo sembra fatto per vivere sempre, vuole vivere sempre, nello stesso tempo vive in una struttura del mondo dove morire è essenziale. Cosa dire? Il Signore, nel dialogo con Marta (Giovanni 11,2127), risponde a queste cose facendo un nuovo passo nella realtà umana, e soltanto così si può superare la contraddizione. Gesù dice a Marta: “Tuo fratello risorgerà”; e lei risponde: “So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno”. Ma il Signore replica: “Io sono la risurrezione e la vita; e chi crede in me, anche se muore, vivrà”. Lui ci dice, cioè, che non si tratta di una vita che ricomincerà in un futuro indefinito, poiché non sappiamo quando giungerà questo “ultimo giorno”. No, è una vita che comincia sin da
ora ed è indistruttibile, poiché siamo tenuti in mano da Lui e perciò non possiamo cadere nella morte».
Un fiducioso “a Dio” In tutti questi anni, le giornate sono sostanzialmente trascorse secondo una scansione stabilizzata dalla consuetudine, cominciando verso le 6.30, quando Benedetto si alzava. Negli ultimi tempi, a motivo della sua difficoltà nei movimenti, veniva aiutato a lavarsi e a vestirsi da un religioso della comunità dei Fatebenefratelli in attività presso la Farmacia vaticana, e ugualmente alla sera un altro confratello lo assisteva nella preparazione per dormire. Alle 7.30 celebrava la santa Messa (negli anni recenti l’ho presieduta io e lui concelebrava da seduto), seguita dalla recita delle Lodi e dalla prima colazione. Durante la mattinata, il Papa emerito leggeva, curava la corrispondenza e scriveva o dettava appunti, con la collaborazione di suor Birgit. Intorno alle 12.45, recitavamo insieme l’Ufficio delle letture e l’Ora media. Dopo il pranzo alle 13.15, un breve giro sul terrazzo e la siesta. Nel pomeriggio, c’era la passeggiata nei Giardini vaticani con la recita del Rosario nei pressi della Grotta di Lourdes (con orario variabile in relazione alle stagioni), aggiungendo, in alcuni venerdì, il rito della Via Crucis dinanzi alle belle raffigurazioni in cappella. Quando non è più riuscito a camminare bene, le passeggiate le ha fatte in sedia a rotelle, e negli ultimi anni ha utilizzato quella elettrica che a suo tempo aveva donato al fratello Georg. Al rientro in Monastero, la recita dei Vespri e qualche ulteriore opportunità di lettura, di scrittura o di incontro con ospiti. Più recentemente, preferiva che gli venissero letti ad alta voce articoli di giornale o libri: di solito alternava una narrazione biografica e un saggio teologico (fra i testi che Benedetto apprezzò tanto ci furono le memorie del cardinale George Pell sul processo e la carcerazione in Australia). Una volta la settimana gli veniva praticato un massaggio posturale e due volte la settimana svolgeva gli esercizi di ginnastica respiratoria, mentre negli altri giorni utilizzava una macchinetta che lo aiutava a eliminare il muco bronchiale. La situazione di salute è stata tenuta costantemente sotto
controllo grazie all’assidua presenza del dottor Patrizio Polisca, il medico personale che nel corso degli anni è divenuto un amico di fiducia, coadiuvato da altri competenti specialisti e da alcuni fidati infermieri. La cena era fissata per le 19.30, seguita dalla visione del telegiornale. Quindi c’era la recita della Compieta, anche con il memento dei sacerdoti dell’arcidiocesi di Monaco di Baviera defunti negli ultimi cinquant’anni (ricordava tanti di loro e me li descriveva con una lucidità mentale rimasta intatta praticamente sino alla morte), e infine il riposo notturno dalle 21 in poi. Di domenica e nelle festività liturgiche c’era un programma un po’ diversificato, con la Messa alle 8.30 e la recita dell’Angelus alle 12, seguendo in televisione Papa Francesco. Il pomeriggio era dedicato all’attività culturale: nei primi tempi ascoltavamo opere liriche e concerti in cd, mentre negli ultimi anni li abbiamo visti in dvd. Al termine, una delle Memores leggeva ad alta voce un libro, e una delle scelte predilette da Benedetto era la serie di racconti di Giovannino Guareschi su don Camillo e Peppone. Durante la settimana la dieta era la classica mediterranea: prima colazione con un thè al limone, accompagnato da pane con marmellata e uno yogurt; pranzo e cena con alternanza di primi di pasta o di riso, secondi di pesce o carne bianca (più raramente un filetto), un contorno di verdure o patate cucinate in vario modo, frutta e qualche volta un dolce. Soltanto la cena della domenica era in stile bavarese, un po’ più rustica, con pane nero, salsicce e salumi, talvolta il polpettone leberkäse e, ovviamente, la birra (ma lui continuava a bere la sua consueta limonata, “macchiata” con uno schizzo di birra). E devo dire che non ha mai avuto problemi di digestione! La sua preparazione alla morte era cominciata da tempo, con serietà, come confidò nel 2016 nelle ultime conversazioni con Peter Seewald: «Pur con tutta la fiducia che ho nel fatto che il buon Dio non può abbandonarmi, più si avvicina il momento di vedere il suo volto, tanto più forte è la percezione di quante cose sbagliate si sono compiute. Perciò uno si sente oppresso dal peso della colpa, sebbene naturalmente la fiducia di fondo non venga mai meno». Più di recente, nel 2022, affermò pubblicamente: «Ben presto mi troverò di fronte al giudice ultimo della mia vita. Anche se nel guardare indietro alla mia lunga vita posso avere tanto motivo di spavento e paura, sono
comunque con l’animo lieto perché confido fermamente che il Signore non è solo il giudice giusto, ma al contempo l’amico e il fratello che ha già patito egli stesso le mie insufficienze e perciò, in quanto giudice, è al contempo mio avvocato. In vista dell’ora del giudizio mi diviene così chiara la grazia dell’essere cristiano. L’essere cristiano mi dona la conoscenza, di più, l’amicizia con il giudice della mia vita e mi consente di attraversare con fiducia la porta oscura della morte». Certamente non era angosciato dalla questione, anzi viveva questa attesa dell’ultimo momento pregustando in qualche modo quanto la fede consente di sperare, come scrisse in alcune lettere a vecchi amici: «La prossima volta ci incontreremo dove potremo dirci tutto ciò che a causa dell’età oggi non possiamo dirci di persona». Il 24 dicembre 2022, nella cappella del “Mater Ecclesiae”, ho presieduto la consueta Messa del mattino e il Papa emerito ha concelebrato all’altare, seduto sulla sedia a rotelle. Alle 18.30 della sera e alle 9 di domenica 25 dicembre abbiamo celebrato nel medesimo modo le Messe di Natale, sempre alla presenza anche delle quattro Memores e di suor Birgit. Quindi abbiamo assistito alla benedizione “Urbi et Orbi” di Papa Francesco in televisione e abbiamo sobriamente festeggiato la ricorrenza a pranzo. In quelle ore, la salute del Papa emerito era sufficientemente buona, cosicché confermai il viaggio di qualche giorno per andare a salutare i miei familiari in Germania. Sono partito in aereo nel pomeriggio di martedì 27, ma all’alba successiva sono stato raggiunto da una telefonata che dal Monastero mi avvertiva dell’improvviso aggravamento delle sue condizioni, dovuto a una crisi respiratoria. Ho subito parlato con il dottor Polisca, che intanto era intervenuto con altri sanitari stabilizzando la situazione, e quindi sono rientrato a Roma nella medesima mattinata. Nel frattempo era stato avvertito Papa Francesco, il quale, al termine dell’Udienza generale di quel mercoledì, chiese «una preghiera speciale per il Papa emerito Benedetto, che nel silenzio sta sostenendo la Chiesa. Ricordarlo – è molto ammalato – chiedendo al Signore che lo consoli, e lo sostenga in questa testimonianza di amore alla Chiesa, sino alla fine». Subito dopo il Pontefice si recò al capezzale di Benedetto, pregò e gli diede la sua benedizione. Intanto la notizia aveva cominciato a diffondersi a macchia d’olio in tutto il mondo.
Nel pomeriggio il Papa emerito aveva un grande affanno, ma era lucidissimo. Gli proposi di amministrargli l’unzione degli infermi, e lui accettò immediatamente. L’ultimo incontro con il suo confessore, un penitenziere di San Pietro, era stato appena qualche giorno prima. Da quel momento noi membri della famiglia pontificia cominciammo ad alternarci costantemente nella sua camera da letto, al primo piano del Monastero, insieme con gli infermieri e i medici che, fra giovedì 29 e venerdì 30, constatarono un leggero miglioramento, anche se l’età avanzata faceva prevedere il lento spegnimento delle sue condizioni vitali. Non è mai stato ipotizzato un ricovero in ospedale, poiché tutto ciò che era necessario l’avevamo già disponibile in Monastero: un medico rianimatore, le attrezzature per la fleboclisi, il respiratore con l’ossigeno, l’assistenza sanitaria costante. Né, sono convinto, Benedetto lo avrebbe voluto, senza nemmeno la necessità di chiederglielo. Intorno alle 3 del mattino di sabato 31 dicembre, memoria liturgica di Papa san Silvestro, l’infermiere che vigilava vide Benedetto XVI rivolgere lo sguardo al Crocifisso posto sulla parete di fronte al suo letto e lo udì pronunciare in italiano, con un filo di voce, ma in modo ben distinguibile: «Signore, ti amo!». Sono state le sue ultime parole comprensibili, perché poi non è stato più in grado di esprimersi. Quando provavo a fargli qualche domanda, la comprendeva e cercava di rispondere a cenni. Ho pregato ad alta voce le Lodi vicino a lui, finché, intorno alle 9, è entrato in agonia. Abbiamo cominciato a recitare le litanie e le preghiere di accompagnamento di un morente, e gli ho impartito l’indulgenza plenaria in punto di morte. Il suo cuore si è fermato alle 9.34. In quel momento eravamo presenti tutti noi membri della famiglia pontificia, insieme con il dottor Polisca e gli altri sanitari. Dopo l’ultimo respiro la preghiera finale l’ho pronunciata in tedesco e gli ho dato la benedizione. Immediatamente ho telefonato al cellulare a Papa Francesco, che nell’arco di una decina di minuti è giunto in Monastero, si è seduto accanto alla salma, ha fatto un segno di benedizione e si è soffermato in preghiera. Con lui abbiamo concordato come dare la notizia attraverso la Sala stampa vaticana e le procedure per l’esposizione in San Pietro, i funerali e la sepoltura. La sera stessa, nella celebrazione del “Te Deum”, ha proposto una sentita testimonianza: «Con commozione ricordiamo la sua persona così nobile,
così gentile. E sentiamo nel cuore tanta gratitudine: gratitudine a Dio per averlo donato alla Chiesa e al mondo; gratitudine a lui, per tutto il bene che ha compiuto, e soprattutto per la sua testimonianza di fede e di preghiera, specialmente in questi ultimi anni di vita ritirata. Solo Dio conosce il valore e la forza della sua intercessione, dei suoi sacrifici offerti per il bene della Chiesa». Nella cappella del “Mater Ecclesiae” abbiamo allestito la camera ardente e alle ore 20 del 31 dicembre ho celebrato la Messa di suffragio. Per tutta la notte ci siamo poi alternati nella preghiera, in modo che fosse presente sempre qualcuno di noi della famiglia pontificia. La mattina del 1° gennaio 2023 ho celebrato una nuova Messa e al termine hanno cominciato a giungere per un ultimo saluto le personalità vaticane e altre persone. All’alba del 2 gennaio ho celebrato la Messa e poi il mesto corteo della ristretta famiglia pontificia ha accompagnato a piedi il furgone con il feretro verso la basilica di San Pietro, all’interno della quale il corpo è stato esposto alla devozione dei fedeli fino al 4. Nel nostro cuore e negli occhi, tanta tristezza; ma nella mente e nel ricordo la gratitudine per il suo esempio di grande fede e il suo insegnamento e la gioia per aver potuto vivere accanto a lui per così tanti anni. Giovedì 5 gennaio, Papa Francesco ha presieduto la solenne Messa esequiale al cui termine il Papa emerito è stato seppellito all’interno delle Grotte vaticane, nel luogo dove in precedenza erano stati collocati Giovanni XXIII (dal 1963 al 2000) e Giovanni Paolo II (dal 2005 al 2011), prima di essere traslati nella Basilica vaticana. All’interno della cassa, Benedetto è stato seppellito con i suoi paramenti rossi che aveva indossato durante la Giornata mondiale della gioventù nel 2008 in Australia e nella Domenica delle palme del 2009, con la croce episcopale utilizzata nel tempo da Papa emerito, l’anello raffigurante simboli benedettini, il suo rosario e un crocifisso che è stato il mio dono per la sepoltura. Qualcuno mi ha chiesto che cosa ne avrei fatto, dopo la morte di Benedetto XVI, delle sue carte. In realtà, questo per me non rappresenta un problema, poiché ho ricevuto da lui precise istruzioni, con indicazioni di consegna che mi sento in coscienza obbligato a rispettare, relative alla sua biblioteca, ai manoscritti dei suoi libri, alla documentazione relativa al Concilio e alla corrispondenza. Per quanto riguarda poi gli altri scritti, la loro sorte è segnata: «I fogli privati di ogni tipo devono essere distrutti.
Questo vale senza eccezioni e senza scappatoie», ha esplicitato nero su bianco. Sono stato anche interpellato su quale sia il mio pensiero riguardo a una eventuale causa di beatificazione e canonizzazione. Personalmente non ho dubbi sulla sua santità, però, ben conoscendo anche la sensibilità espressami privatamente da Benedetto XVI, non mi permetterò di fare alcun passo per accelerare un processo canonico. Il mio suggerimento sarà piuttosto di lasciar sedimentare tutte le questioni sorte in tanti anni di vita, e particolarmente nel periodo di pontificato e di emeritato, in modo che il giudizio sulle virtù eroiche di Joseph Ratzinger – che io reputo indiscutibili – possa essere totalmente cristallino e ampiamente dimostrato e condiviso. Le sue ultime volontà le racchiuse in due scritti, custoditi in una busta che tenne sempre in un cassetto della scrivania. Le annotazioni relative ad alcuni lasciti e doni personali, per il cui adempimento ho il compito di esecutore testamentario, sono state via via aggiornate nel corso degli anni, fino alla più recente aggiunta del 2021. Il sobrio Testamento spirituale, invece, lo cesellò nella madrelingua tedesca durante i primi mesi di pontificato, fino alla stesura definitiva manoscritta e firmata il 29 agosto 2006 nel Palazzo apostolico di Castel Gandolfo, senza più modifiche in seguito. Questo è il testo integrale, nella traduzione italiana: «Se in quest’ora tarda della mia vita guardo indietro ai decenni che ho percorso, per prima cosa vedo quante ragioni abbia per ringraziare. Ringrazio prima di ogni altro Dio stesso, il dispensatore di ogni buon dono, che mi ha donato la vita e mi ha guidato attraverso vari momenti di confusione, rialzandomi sempre ogni volta che incominciavo a scivolare e donandomi sempre di nuovo la luce del suo volto. Retrospettivamente vedo e capisco che anche i tratti bui e faticosi di questo cammino sono stati per la mia salvezza e che proprio in essi Egli mi ha guidato bene. Ringrazio i miei genitori, che mi hanno donato la vita in un tempo difficile e che, a costo di grandi sacrifici, con il loro amore mi hanno preparato una magnifica dimora che, come chiara luce, illumina tutti i miei giorni fino a oggi. La lucida fede di mio padre ha insegnato a noi figli a credere, e come segnavia è stata sempre salda in mezzo a tutte le mie acquisizioni scientifiche; la profonda devozione e la grande bontà di mia
madre rappresentano un’eredità per la quale non potrò mai ringraziare abbastanza. Mia sorella mi ha assistito per decenni disinteressatamente e con affettuosa premura; mio fratello, con la lucidità dei suoi giudizi, la sua vigorosa risolutezza e la serenità del cuore, mi ha sempre spianato il cammino: senza questo suo continuo precedermi e accompagnarmi non avrei potuto trovare la via giusta. Di cuore ringrazio Dio per i tanti amici, uomini e donne, che Egli mi ha sempre posto a fianco; per i collaboratori in tutte le tappe del mio cammino; per i maestri e gli allievi che Egli mi ha dato. Tutti li affido grato alla Sua bontà. E voglio ringraziare il Signore per la mia bella patria nelle Prealpi bavaresi, nella quale sempre ho visto trasparire lo splendore del Creatore stesso. Ringrazio la gente della mia patria perché in loro ho potuto sempre di nuovo sperimentare la bellezza della fede. Prego affinché la nostra terra resti una terra di fede e vi prego, cari compatrioti: non lasciatevi distogliere dalla fede. E finalmente ringrazio Dio per tutto il bello che ho potuto sperimentare in tutte le tappe del mio cammino, specialmente però a Roma e in Italia che è diventata la mia seconda patria. A tutti quelli a cui abbia in qualche modo fatto torto, chiedo di cuore perdono. Quello che prima ho detto ai miei compatrioti, lo dico ora a tutti quelli che nella Chiesa sono stati affidati al mio servizio: rimanete saldi nella fede! Non lasciatevi confondere! Spesso sembra che la scienza – le scienze naturali da un lato e la ricerca storica (in particolare l’esegesi della Sacra Scrittura) dall’altro – sia in grado di offrire risultati inconfutabili in contrasto con la fede cattolica. Ho vissuto le trasformazioni delle scienze naturali sin da tempi lontani e ho potuto constatare come, al contrario, siano svanite apparenti certezze contro la fede, dimostrandosi essere non scienza, ma interpretazioni filosofiche solo apparentemente spettanti alla scienza; così come, d’altronde, è nel dialogo con le scienze naturali che anche la fede ha imparato a comprendere meglio il limite della portata delle sue affermazioni, e dunque la sua specificità. Sono ormai sessant’anni che accompagno il cammino della Teologia, in particolare delle Scienze bibliche, e con il susseguirsi delle diverse generazioni ho visto crollare tesi che sembravano incrollabili, dimostrandosi essere semplici ipotesi: la generazione liberale (Harnack, Jülicher ecc.), la generazione esistenzialista (Bultmann ecc.), la generazione marxista. Ho visto e vedo come dal
groviglio delle ipotesi sia emersa ed emerga nuovamente la ragionevolezza della fede. Gesù Cristo è veramente la via, la verità e la vita – e la Chiesa, con tutte le sue insufficienze, è veramente il Suo corpo. Infine, chiedo umilmente: pregate per me, così che il Signore, nonostante tutti i miei peccati e insufficienze, mi accolga nelle dimore eterne. A tutti quelli che mi sono affidati, giorno per giorno va di cuore la mia preghiera».
Postfazione
Nessuno più del suo fedele segretario particolare, l’arcivescovo Georg Gänswein, ha conosciuto e sostenuto Benedetto XVI durante tutto il pontificato e il tempo dell’emeritato. L’ininterrotta condivisione della vita in Vaticano, dapprima nel Palazzo apostolico e successivamente nel monastero “Mater Ecclesiae”, gli ha consentito di entrare in piena sintonia con il pensiero e con l’azione di uno dei più colti e teologicamente preparati Pontefici nella storia della Chiesa. Joseph Ratzinger è stato un uomo e un Papa non pienamente compreso anche per queste sue peculiari doti intellettuali e spirituali. Qualità che disturbano l’instabile equilibrio di una società troppo sbilanciata sull’edonismo e sull’effimero, speranzosa soltanto di «trovare un senso a questa storia, anche se questa storia un senso non ce l’ha» (con la felice espressione del cantautore Vasco Rossi), o compiaciuta di essere postmoderna e liquida, dove cioè «il cambiamento è l’unica cosa permanente e l’incertezza è l’unica certezza» (come recita l’aforisma che sintetizza la prospettiva del sociologo Zygmunt Bauman). Quotidianamente a contatto, nei miei lunghi anni da vaticanista, con il Magistero pontificio dapprima da lui ispirato, sotto san Giovanni Paolo II, e successivamente direttamente enunciato come Benedetto XVI, ho potuto rendermi personalmente conto di quanto l’intera esistenza di Ratzinger sia stata connotata da una coerenza estrema. Di fatto, l’unica sua preoccupazione è stata quella di incarnare in ogni tappa del ministero la piena testimonianza della Verità. E proprio questo ha stabilito il denominatore comune fra lui e monsignor Gänswein, come evidenziato anche dalla concordanza nei loro motti episcopali: rispettivamente, «Cooperatores veritatis» («Collaboratori della verità») e «Testimonium perhibere veritati» («Dare testimonianza alla verità»).
Verità con la maiuscola, poiché Ratzinger-Benedetto XVI ha inteso proporre e riattualizzare la fede di sempre; ma anche con la minuscola, in quanto da queste pagine scaturisce tutta la freschezza della quotidianità di un personaggio del quale si sono spesso offerte narrazioni inappropriate, forse perché dotato di così tante sfaccettature da non poter essere racchiuso in una sola definizione. Il saggista Roberto Rusconi ha suggerito che Ratzinger abbia come vissuto diverse vite: «La prima, in cui è divenuto un teologo accademico; la seconda, in cui si è dimostrato l’inflessibile cardinale prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede; la terza, durante la quale è asceso al vertice della Chiesa universale, per essere stato eletto Papa assumendo il nome di Benedetto XVI. Peraltro, avendo egli accettato di essere assurto anche a “Papa emerito” dopo la rinuncia al pontificato, continuando a indossare la veste talare bianca, a lui si è aperto una sorta di quarto tempo». L’arcivescovo Gänswein evidenzia invece qui che non si tratta di tante vite, ma piuttosto di diverse fasi di un’unica esistenza, anche se il periodo su cui questo libro si incentra è quello che lui ha potuto conoscere in prima persona, a partire cioè dalla presenza in Vaticano. Fondandomi sulla squisita disponibilità e sulla totale fiducia di don Georg, una sola garanzia gli ho chiesto nel corso di questo lavoro: di essere totalmente sincero; di non “indorare la pillola”, per dirla con parole più sbrigative. Il rischio che ho più volte riscontrato in simili testi, a cavallo tra la biografia e l’autobiografia, è infatti che l’affetto del cuore annebbi il rigore della memoria, rendendo un pessimo servizio sia al protagonista sia all’autore. L’indimenticabile prefetto della Dottrina della fede, il Pontefice che ha indelebilmente legato il proprio nome con la spontanea rinuncia al ministero petrino non ha bisogno di ciò. È una narrazione in prima persona, non un libro-intervista, per una precisa scelta. Avendone realizzato diversi, so bene che in quest’ultimo caso il giornalista conduce – e qualche volta addirittura forza in maniera determinante – il tono e il contenuto del dialogo. Nel primo caso, invece, si assume unicamente il compito di accompagnare l’autore nell’andare più a fondo in ciò che già desidera comunicare, riportando alla luce quelle considerazioni che nel corso di decine di anni si sono via via cristallizzate nella sua mente e che hanno reso di fatto monsignor Gänswein il più autorevole testimone ed esegeta di un uomo di fede, di un sacerdote
secondo il cuore di Dio, di un protagonista della storia dei nostri difficili ed entusiasmanti tempi. Ed è questa l’essenza delle pagine di questo libro, sul cui risultato l’unico giudice sarà ciascun lettore. Un’ultima annotazione. Quando scrissi nel 2010, con il postulatore monsignor Sławomir Oder, la biografia di Giovanni Paolo II Perché è santo, ebbi l’opportunità di consultare le testimonianze riservate offerte da autorevoli personalità ecclesiastiche nel suo processo di canonizzazione. Uno dei più amati figli spirituali di padre Pio da Pietrelcina raccontò una profezia che, negli anni Sessanta, aveva ascoltato da lui riguardo al futuro della Chiesa. Rievocando indirettamente l’incontro che qualche anno prima aveva avuto a San Giovanni Rotondo con Karol Wojtyła, il frate stimmatizzato gli descrisse un Papa polacco che sarebbe stato «un grande pescatore di uomini», seguìto da un Pontefice «che avrebbe ampiamente confermato i fratelli nella fede». E poi in un sussurro soggiunse che ambedue un giorno sarebbero stati proclamati santi. Saverio Gaeta
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Indice
Copertina L’immagine Il libro L’autore Frontespizio Prologo 1. Il “predestinato” fuori dagli schemi Una perenne provvisorietà Fiducioso nella Provvidenza Il “profeta giusto” Un binomio vincente Cane da guardia o promotore? 2. Il filosofo e il teologo Due anime in sintonia Un appuntamento settimanale Le sfide del prefetto Come un direttore d’orchestra Le certezze della fede 3. La caduta della scure La campagna elettorale “a rovescio” La sfida lanciata a Subiaco Una benedizione dal paradiso Gli effimeri pronostici Quel maglione nero Nella vigna del Signore La lettera di Schönborn Il diario e altre polemiche 4. La famiglia (pontificia e non) Le radici nella Baviera Con l’Introduzione sotto il braccio Una proroga illimitata La quotidianità del servizio Nell’Appartamento del Papa Con tre aiutanti di camera Gli altri membri della famiglia 5. Le pietre d’inciampo del complesso governo Decisioni a 360 gradi
Rispettoso delle persone La scelta del “numero due” Fra lo ior e la sanità cattolica L’insospettabile tradimento Un insieme di miserie umane Il mistero di Emanuela 6. Un Magistero a tutto tondo Un pontificato cristocentrico L’evangelico servizio petrino Il ministero dell’annuncio L’amore al primo posto Nel segno della speranza Secondo il cuore di Dio Il sacerdozio non è un “job” Il dialogo al servizio della pace Liberi di vivere la propria fede Tra politica e cultura Le citazioni senza il contesto Polemiche e incomprensioni Una clemenza malintesa 7. La storica rinuncia che ha segnato un’epoca I motivi della decisione In segreto a piccoli passi Il sorprendente annuncio Le antiche radici dell’idea Gli incompresi segni premonitori Il congedo dal Palazzo L’uscita di scena 8. Il rapporto fra i due Papi Una laboriosa telefonata Dall’Appartamento a Santa Marta L’enciclica e l’intervista Il “pasticciaccio” di Sarah Le spiegazioni di Benedetto Il prefetto dimezzato 9. Nel Monastero il silenzio operoso Il ritmo della preghiera Una sequenza di indizi infondati La famiglia al centro dello scontro La lettera “sbianchettata” La pacificazione interrotta Da sempre contro ogni abuso Accuse infondate da Monaco “Profezie” per i nostri tempi La catechesi in famiglia Un fiducioso “a Dio” Postfazione Copyright